Medioevo n. 271 Agosto 2019

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MEDIOEVO n. 271 AGOSTO 2019

AB BA L ZI A EC Z IST IO ER CE NS I

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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AGOSTO 1062 LA VITTORIA DELLO «SPIETATO»

MEDIOEVO OGGI LUNGA VITA A RE ARTÚ!

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Mens. Anno 23 numero 271 Agosto 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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BATTAGLIA DEL FIUME NISSAN RE ARTÚ ORIGINI DELLA LIRA ANTICHE CHIESE DEL LAZIO DOSSIER FEDERICO DI MONTEFELTRO

STORIA D’EUROPA QUANDO CARLO MAGNO INVENTÒ LA LIRA

IN EDICOLA IL 2 AGOSTO 2019



SOMMARIO

Agosto 2019 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE L’abito non fa il monaco

Il mugnaio (arguto) che si fece abate

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ARCHEOLOGIA Ai confini del ducato

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APPUNTAMENTI Sul lago dei fuggitivi Dalli alla... saracina Regale gratitudine L’Agenda del Mese

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ITINERARI Nel borgo dei tessitori

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STORIE BATTAGLIE Fiume Nissan Notte di sangue di Federico Canaccini

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58 ICONOGRAFIA Peccatori Quell’avaro con la borsa al collo

di Corrado Occhipinti Confalonieri 64

LUOGHI ARTE DELLE ANTICHE CHIESE/9 Lazio Nel solco di san Bernardo di Furio Cappelli

72

34 STORIE La lira Antica quanto Carlo Magno di Maria Paola Zanoboni

72 58

COSTUME E SOCIETÀ MEDIEVALISMO/6 Il mito di Artú

«Una volta e in eterno» di Davide Iacono

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CALEIDOSCOPIO LIBRI Splendide scarabattole

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MUSICA Un improvvisatore d’eccezione

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Dossier

FEDERICO DI MONTEFELTRO Il migliore di Paolo Grillo

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MEDIOEVO n. 271 AGOSTO 2019

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16/07/19 16:20

MEDIOEVO Anno XXIII, n. 271 - agosto 2019 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato, Davide Tesei

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Grillo è professore associato di storia medievale all’Università degli Studi di Milano. Davide Iacono è storico del Medioevo. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Chiara Parente è giornalista. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Fine Art Images/Heritage Images: copertina (e p. 58) e pp. 46/47, 62/63; The Print Collector/Heritage Images: pp. 48/49; Keystone Pictures USA: p. 57; Electa/Sergio Anelli: p. 64; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 65; AKG Images: pp. 66/67; Album: p. 88 – Shutterstock: pp. 5, 44/45 – Cortesia Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Salerno e Avellino: Antonio Sena: pp. 6-7 – Cortesia Ufficio Stampa: p. 8 – Cortesia Sviluppo Turistico Lerici: Leonardo Lupi: pp. 10 (basso), 11 – Elisabetta Poggi: p. 10 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 14, 16, 69 – Doc. red.: pp. 34-35, 36, 37, 38-41, 49, 50-56, 59, 60 (alto), 66, 68/69, 70-71, 81 (basso), 87, 89, 90104, 108-109 – DeA Picture Library: p. 63; A. Dagli Orti: p. 60 (basso) – da: Il Villani illustrato, Firenze 2005: p. 61 – Cortesia Stefano Suozzo: pp. 72/73, 7679, 80/81, 81 (alto), 82-85 – Giorgio Albertini: disegni alle pp. 74, 105, 106/107 – Rodolphe Marics: pp. 112, 114 – Patrizia Ferrandes: cartine e rialaborazioni grafiche alle pp. 36/37, 75. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Carlo Magno, olio su tela di Jules Lefèbvre. 1897. Parigi, Palazzo di Giustizia, Corte di Cassazione.

Nel prossimo numero storie

L’amore e i suoi enigmi

costume e società

L’eresia medievale

dossier

Matilde di Canossa


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

L’

Il mugnaio (arguto) che si fece abate

espressione «L’abito non fa il monaco» affonda le proprie radici nei secoli dell’età di Mezzo, all’epoca in cui nacquero numerosi Ordini religiosi, con abiti di foggia e colori diversi. In origine, la locuzione era «cucullus non facit monachum», cioè «il cappuccio non fa il monaco», per intendere che non sono sufficienti i segni esteriori a garantire la sostanza interiore. In sostanza, il proverbio invita a diffidare dell’aspetto esteriore, poiché esso può essere fuorviante o illusorio. Il Medioevo è ricco di episodi in tal senso. Nel 1247, per esempio, il genovese Francesco Grimaldi, travestito da monaco, assieme ad altri compagni armati (e anch’essi travestiti), chiese riparo per la notte al castellano della fortezza di Monaco. Nottetempo, Grimaldi riuscí a impossessarsi del castello, ancora oggi in mano alla ben nota famiglia del principato, nel cui stemma il fatto è ricordato da due monaci armati di spada che sorreggono l’emblema monegasco. Franco Sacchetti (1330-1400) narra, invece un episodio divertente in Messer Barnabò e il mugnaio, una delle storie comprese nella raccolta Trecentonovelle. Bernabò Visconti, signore di Milano nella seconda metà del Trecento, avrebbe condannato un abate a pagare una forte ammenda per aver trascurato due suoi grandi cani, animali che iniziano a fare la loro comparsa nelle corti dei signori. Visconti però, avrebbe cancellato il debito se l’abate, di cui conosceva l’ignoranza, avesse saputo di rispondere ad alcune difficili domande. Consapevole dei propri limiti, il religioso fece chiamare un mugnaio noto per la sua arguzia, il quale, indossata la veste monacale, si presentò alla corte di Bernabò. Celando il viso con una mano, e seminascosto dal cappuccio, il mugnaio-abate rispose a tutte e quattro le domande, facendo però insospettire il Visconti, che lo smascherò. Ma a questo punto, anziché punirlo, decise che l’uomo sarebbe stato nominato abate, escla-

mando: «Mo via, poiché egli ti ha fatto Abate, e tu sei da piú di

lui, in fede di Dio, io ti voglio confermare, e voglio che, da qui in avanti, tu sia l’abate ed egli il mulinaro, e che tu abbia la rendita del monastero, ed egli quella del mulino»! Monaco (Principato di Montecarlo). Particolare del monumento eretto in onore di Francesco Grimaldi, ritratto in abiti monacali, a evocare lo stratagemma con il quale il nobile genovese, nel 1297, riuscí a espugnare la locale fortezza.


ANTE PRIMA

Ai confini del ducato ARCHEOLOGIA • Gli scavi condotti sul poggio che domina Rocca San Felice

hanno documentato la storia plurisecolare della poderosa fortezza da cui la cittadina campana ha con ogni probabilità tratto il suo nome

L

a Valle d’Ansanto, in provincia di Avellino, noto luogo di culto dell’antichità per la presenza di un santuario dedicato alla dea Mefite (antica divinità italica venerata in zone vulcaniche e sorgenti sulfuree, n.d.r.) descritto anche da Virgilio nell’Eneide, è stata teatro di rilevanti scoperte di resti di epoca classica, ma conserva anche importanti testimonianze relative al Medioevo nel vicino centro di Rocca San Felice. Qui è stato portato alla luce un vero e proprio insediamento fortificato di età medievale che si sviluppa su un poggio roccioso, in cima al quale, a 750 m di altitudine, svetta uno slanciato torrione cilindrico (donjon), che caratterizza il paesaggio di tutta la valle e che ha dato forse origine allo stesso toponimo del paese. La posizione topografica dell’area, situata in un luogo strategico sulla linea di demarcazione che costituiva il limite orientale del ducato di Benevento, fa sí che

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il fortilizio – le cui segrete, nel gennaio 1236, ospitarono Enrico VII, figlio dell’imperatore Federico II – svolgesse funzioni difensive e di controllo a protezione di un’importante arteria di transito.

Il percorso selciato Lo scavo condotto da Marcello Rotili (direttore del Dipartimento di Lettere e Beni culturali dell’Università degli Studi della Campania), ha

rivelato un percorso selciato che segue in pendio l’orografia del terreno, intervallato da gradini in blocchi lapidei squadrati: realizzato tra il XIV e il XV secolo, collegava il nucleo abitato postmedievale e la fortezza. A ridosso della strada, messa in luce per oltre 20 m, lo scavo ha evidenziato strutture murarie pertinenti a unità abitative che costituivano il primitivo villaggio medievale, sorto in prossimità

agosto

MEDIOEVO


Sulle due pagine, in alto immagini del fortilizio medievale di Rocca San Felice. Le indagini archeologiche condotte nel sito hanno permesso di precisarne le fasi di frequentazione e gli interventi edilizi succedutisi fino all’abbandono del complesso, avvenuto sul finire del Seicento. Nella pagina accanto, in basso l’omonimo paese irpino, dominato dalla rocca, oggi compreso nel territorio della Provincia di Avellino.

del sistema difensivo. Tracce di crolli all’interno degli ambienti provano l’abbandono improvviso dell’insediamento, avvenuto in seguito a un evento sismico o a un saccheggio. All’estremità del selciato corre una «tagliata», un breve tratto di strada ricavato tra due pareti rocciose in epoca normanna, quando il castello era di proprietà di Ruggiero de Castelvetere, indicato dal Catalogo dei Baroni quale signore del luogo fra il 1150 e il 1160. Lungo questo percorso sono state individuate tracce di tre torrette di avvistamento e tratti di cortine murarie: da qui, dopo pochi metri, si incontra l’antico ingresso al complesso difensivo, poi tamponato, seguito dall’attuale porta di accesso. Si giunge cosí a un piccolo pianoro, nel quale si conservano strutture in uso fra l’XI e il XIV secolo a scopo difensivo e per

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agosto

la vita quotidiana. Ai piedi della torre vi sono resti murari di altri vani, in qualche caso pavimentati, utilizzati come deposito di generi alimentari e dimore: sono state individuate una cisterna per la raccolta delle acque piovane, caditoie funzionali alla difesa e un forno alimentare. Dallo scavo provengono numerosi reperti archeologici (ceramica di uso comune e da fuoco, invetriata dipinta, protomaiolica, ma anche proiettili lapidei e utensili in metallo) oggi esposti nel Museo Civico allestito dopo la ristrutturazione di alcune abitazioni dell’antico borgo.

Le fasi di vita della torre La costruzione della grande torre cilindrica, realizzata interamente con murature in pietrame e pareti verticali, risale infine alla dominazione normanno-sveva

e in origine si sviluppava su due livelli: solo successivamente, forse in epoca aragonese, ha subíto la sopraelevazione di altri due piani. Il vano di base, diviso in due settori, funzionava come cisterna e deposito (legna, granaglie), mentre il vano superiore era abitato dal feudatario. Con l’aggiunta dei due livelli superiori, lo stesso fu adibito a cucina e deposito, come si evince dalla presenza di un forno-camino, di un pozzo ricavato in spessore di muratura per l’approvvigionamento idrico dalla cisterna sottostante, di nicchie parietali usate come ripostigli. Da questo livello, per una scala a pioli interna, si poteva raggiungere il terzo piano: vero spazio residenziale del signore, vi si accedeva da un ingresso aperto all’esterno solo con l’impiego di una scala lignea retrattile. Lungo le pareti interne vi si riconoscono un bancone con due sedili, una nicchia e un vano-bagno con condutture di scarico. Una scala in muratura, infine, ricavata nello spessore della parete conduceva al quarto livello della torre, privo di copertura. Danneggiato dal sisma del 1456, il fortilizio recintato, come ricorda un’iscrizione, fu oggetto nel 1603 di ulteriori rimaneggiamenti e restauri promossi dal barone Francesco Reale, ma cadde in disuso già sul finire dello stesso XVII secolo, quando l’intero complesso fortificato fu abbandonato e progressivamente interrato. In una stampa pubblicata nel 1783 dall’abate Giovan Battista Pacichelli si rilevano quasi tutti gli elementi messi in luce durante le indagini archeologiche: i lunghi tratti rettilinei delle cortine murarie che delimitano il pianoro occupato da semplici abitazioni in muratura, il nucleo centrale del forte con i resti di edifici già diruti, l’alta torre cilindrica priva della copertura, con alla sua destra un lungo muro e l’antica via di accesso realizzata con lo spianamento della roccia. Giampiero Galasso

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ANTE PRIMA

L’anima dell’arte APPUNTAMENTI • Firenze ospita la 35a edizione del Congresso Mondiale di

Storia dell’Arte, per riflettere sul ruolo dell’artista e sul valore delle sue opere

D

opo oltre quarant’anni, il Congresso Mondiale di Storia dell’Arte del CIHA (Comité International d’Histoire de l’Art) torna in Italia, a Firenze, dal 1° al 6 settembre. La città toscana ospita la prima parte dell’incontro, «MOTION: Transformation», che per la prima volta si tiene in due paesi diversi a distanza di un anno. La seconda parte, «MOTION: Migrations», avrà luogo infatti a San Paolo del Brasile, nel settembre 2020. «MOTION» intende avviare a uno straordinario dibattito transculturale su uno dei temi da sempre di maggior rilievo nella cultura globale: il Movimento, declinato su due dei suoi aspetti piú importanti, Trasformazione

e Migrazione. In una prospettiva interdisciplinare e innovativa, il congresso fiorentino prende avvio da una riflessione rivolta sia al ruolo dell’artista inteso come «colui che agisce e fa», in quanto dotato della capacità divina di plasmare la materia e di creare forme nuove, sia alla natura dell’oggetto d’arte a sua volta dotato di «anima».

Una figura divina Fra le tematiche che saranno affrontate nelle nove sessioni di studio (L’arte come visione; L’arte e la materia nel corso del tempo; L’arte e la natura; L’arte e le religioni; L’arte fra disegno e scrittura; Iconicità e processo di produzione in architettura; Arte, potere e

La Primavera, tempera grassa su tavola di Sandro Botticelli. 1480 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

pubblico; L’arte, i critici e gli spettatori; Voyage), si parlerà della figura dell’artista come figura divina e misticamente ispirata, ma anche degli effetti del tempo sull’opera d’arte e del rapporto di quest’ultima con l’ambiente, del potere delle immagini in relazione alle religioni, del ruolo esercitato dalle arti nei processi di trasformazione sociale anche in riferimento allo sviluppo tecnologico, fino ad arrivare al «Viaggio» tramite il quale viene favorita la circolazione costante di persone, idee e oggetti. Tra i relatori figurano studiosi provenienti dalle piú importanti università e istituzioni a livello mondiale, tra cui l’École des Hautes Études en Sciences Sociales (Parigi), il Courtauld Institute (Londra), la Humboldt-Universität zu Berlin, la Columbia University (New York), la Jawaharlal Nehru University (New Delhi), l’Universidade Federal de São Paulo, la Scuola Normale Superiore (Pisa), l’University of Hong Kong. Per ulteriori informazioni sul programma delle nove sessioni: http://www.cihaitalia.it/florence2019/2018/04/07/ sessions-papers/ (red.) DOVE E QUANDO

«MOTION: Transformation» 35esimo Congresso Internazionale di Storia dell’Arte Firenze, Firenze Fiera, Villa Vittoria, Palazzo Vecchio, Teatro dell’Opera 1-6 settembre 2019

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ANTE PRIMA

Nel borgo dei tessitori T

ITINERARI • Nel Medioevo, il borgo ligure di

Tellaro prosperò grazie alla tessitura della canapa. Un’attività oggi non piú praticata, ma di cui è rimasta memoria nel nome dell’incantevole abitato

utelato come borgo tra i piú belli d’Italia, Tellaro – buen retiro dello scrittore Mario Soldati – è una solitaria frazione costiera del Comune di Lerici (La Spezia), incorniciata dalle isole del Tino e della Palmaria e circoscritta tra il promontorio di Maralunga e Punta Corvo, ove termina il Golfo dei Poeti e si comincia a parlare toscano. Erede del vicino abitato di Barbazzano, segnalato per la prima volta nel 981 in un diploma dell’imperatore Ottone II e compreso nella diocesi di Luni (vedi box alla pagina seguente), Tellaro, sin dalla formazione, avvenuta tra il 1320 e il 1380, mimetizzò la sua duplice identità. Se la scenografia delle case color pastello riecheggia la secolare architettura dei villaggi marinari liguri, la storia e la denominazione della località rimandano infatti alla tradizionale liaison con la Toscana e, in particolare, con Lucca. Da quest’ultima i Tellaresi, nel Basso Medioevo esperti nella tessitura della canapa,

In alto Tellaro (La Spezia). Formella con scena di navigazione incassata nella muratura di un’abitazione privata. In basso veduta panoramica del borgo di Tellaro.

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acquistavano tele, stoffe e anche filo da tessere in loco; ciò forse spiegherebbe l’origine del nome Tellaro, trascritto negli antichi registri con una sola «l».

Olio bollente contro i nemici Adesso quest’arte si è spenta, ma c’è un’altra categoria di lavoratori che, legata alla cultura del territorio, ha resistito fino all’età contemporanea: quella dei produttori d’olio d’oliva. «Tellaro non voglio, che brucian con l’olio», recita un vecchio proverbio del posto, facendo riferimento all’olio bollente, usato come efficace strumento di difesa contro i nemici. Nell’Alto Medioevo la coltura dell’ulivo rappresentava già l’occupazione principale degli uomini di Barbazzano. I vasti uliveti, piantati nelle fasce collinari, davano origine a una filiera che andava dalla raccolta delle olive, alla frangitura, al commercio e alla fornitura del prodotto finito. L’olio costituiva una florida fonte di guadagno con i Genovesi e i Pisani,

Un po’ muratori, un po’ contadini e un po’ marinai... Dal «Canale del Lino» comincia un viottolo che, tra panorami meravigliosi, conduce al borgo di Barbazzano, abbandonato da cinque secoli. Camminando, lo sguardo si perde sulla vastità del mare aperto, teatro delle battaglie dell’isola del Giglio (1227) e della Meloria (1284). Un tempo questa ricca zona olivicola fu aspramente contesa tra le repubbliche marinare di Genova e Pisa, di cui Barbazzano fu fedele alleata, nonostante l’esigua distanza da Lerici, schieratasi a fianco dei Genovesi. Giunti fin quassú si possono osservare le rovine della cinta muraria, delle umili casupole, della torre quadrata, della chiesetta di S. Giorgio con il portale romanico-gotico e della residenza del vescovo di Luni, che in inverno soggiornava qui, preferendo il clima mite e salubre di Barbazzano, a quello freddo e umido della valle del Magra. Innalzate da mani esperte con sassi ricercati in loco o poco distante, sabbia trasportata dalle spiagge della Vittoria o di Fiascherino e calce cotta in fornaci di cui sopravvivono ancora i ruderi, queste memorie di pietra ricordano l’abilità dei Barbazzanesi, un po’ muratori, un po’ contadini, un po’ marinai. In alto i resti della chiesa di S. Giorgio nella frazione (oggi abbandonata) di Barbazzano. A sinistra ancora una veduta di Tellaro, con la spiaggia di Fiascherino sulla destra.

interessati allo smercio nei Paesi orientali, e un’importante merce di scambio con i Lucchesi, da cui i Barbazzanesi prima e i Tellaresi poi ottenevano in cambio tessuti. Nel 1398 lo storico lucchese Giovanni Sercambi riferisce che

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il luogo scelto per la costruzione di Tellaro, all’epoca dominio di Genova, non poteva essere migliore. Cinto da mura e fossato il borghetto, in splendida posizione panoramica, appariva abbarbicato su una scogliera, bagnato su tre

lati dalle acque, difeso a est e a sud da strapiombi rocciosi e protetto da due fortificazioni, da cui si scorgeva l’infinità dell’orizzonte e si potevano scandagliare le insenature circostanti. Passeggiando nell’intricato labirinto di carruggi s’intravvedono ancora i resti delle mura, inglobati nelle strette e alte casette di marinai e pescatori, e di due torri d’avvistamento. Una è compresa nell’oratorio di Nostra Signora dell’Assunta, l’altra, trasformata nel campanile della chiesa di S. Giorgio, è citata nel racconto di Mario Soldati Il polipo e i pirati. La narrazione si ispira alla leggenda medievale di un polpo, che, in una notte buia, arrampicatosi sul campanile, fece suonare alcuni rintocchi, svegliando l’assonnato guardiano e segnalando alla popolazione il pericolo di un attacco saraceno. Chiara Parente

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ANTE PRIMA

Dalli alla... saracina APPUNTAMENTI • Le contrade di Corridonia, nel

Maceratese, tornano a battersi per la conquista del Palio, rievocando la giostra che aveva in origine un bersaglio decisamente inusuale...

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el XV secolo, l’odierna Corridonia (Macerata) si chiamava Montolmo e ospitava periodicamente una quintana cavalleresca all’anello, detta «della Margutta». Con tale nomignolo si indicava un «saracino» dalle sembianze femminili, che, in occasione di fiere e mercati, veniva issato su un palo girevole in piazza. Contro la Margutta si lanciavano i cavalieri delle diverse contrade, con l’obiettivo di riportare il maggior numero di punti. Oggi la cittadina marchigiana rievoca la giostra nel pomeriggio della prima domenica di settembre, quest’anno il giorno 1. A battersi sono le sei contrade di Porta Molino, Porta Sejano, Portarella, Santa Croce, San Donato e Colbuccaro. L’evento inizia con un fastoso corteo storico in costumi medievali, composto da circa 500

figuranti, con priori, dame, cavalieri, gonfalonieri, armigeri, musici e sbandieratori. Sono presenti anche figure come il barbitonsore – il medico dedito anche alla rasatura e al taglio dei capelli – e le paciere, donne a cui era affidato il controllo della salute pubblica. Altri figuranti vestono invece i panni di membri delle antiche famiglie nobili, come gli Ugolini, i Lepretti, i Pampinoni e i Lauri, nonché di personaggi famosi, come Pandolfo Malatesta, che nel 1412 invase Montolmo.

Atmosfere quattrocentesche Il corteo parte dal centro storico e arriva all’Ippodromo Martini, dove si svolge la Contesa della Margutta per la conquista del Palio, un artistico stendardo dipinto di volta in volta da un noto pittore del territorio. Nella settimana precedente, questo centro In questa pagina immagini del corteo storico che accompagna la Giostra della Margutta di Corridonia (Macerata).

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del Maceratese rivive le atmosfere del XV secolo con l’elezione dei priori, la disputa di giochi e l’apertura di taverne dove degustare piatti e vini locali, fra menestrelli, cantastorie, saltimbanchi e danzatrici che animano le strade del borgo. Corridonia si trova sullo spartiacque tra le valli del Chienti e del Cremone. Il centro storico vanta importanti esempi di architettura sacra. La chiesa di S. Francesco, edificata verso l’anno Mille, conserva resti del periodo romanico-gotico e un campanile quattrocentesco. La chiesa dei Ss. Pietro e Paolo, antecedente al XIII secolo e ricostruita nel Settecento, presenta forma circolare con linee gotiche. La chiesa-convento di S. Agostino, eretta nel 1346, custodisce pregevoli dipinti. Nei pressi dell’abitato sorge l’abbazia di S. Claudio al Chienti, costruita nel VI o VII secolo, restaurata nel Duecento e formata da due chiese sovrapposte. Tiziano Zaccaria agosto

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Regale gratitudine APPUNTAMENTI • Per Costanza

di Chiaromonte le seconde nozze segnarono l’inizio d’una nuova e piú felice esistenza. Anche grazie al soggiorno ad Altavilla Irpina, con la cui comunità la regina volle sdebitarsi decretando la riduzione delle tasse: un gesto oggi rievocato fra... asini e angurie!

I

l 16 dicembre 1395 si celebrarono in pompa magna, nel Duomo di Gaeta, le nozze tra la regina Costanza di Chiaromonte e il conte Andrea De Capua. Proveniente da una ricca e potente famiglia siciliana, Costanza era stata in precedenza sposa di Ladislao Durazzo, re di Napoli. I due si erano uniti in matrimonio nel 1390, ma appena due anni dopo per motivi di convenienza politica Ladislao l’aveva ripudiata per sposare un’altra nobildonna. La regina finí cosí confinata in una residenza isolata, dove visse per tre anni in compagnia d’una vecchia governante e di tre damigelle condotte con sé dalla Sicilia. Finché un giorno re Ladislao le comunicò che aveva deciso di darla in sposa a un suo amico e vassallo, Andrea De Capua conte di Altavilla, garantendo loro tremila ducati di dote. Andrea, un bel giovane amato a corte e stimato soprattutto dal sovrano, condusse Costanza prima a Capua, per presentarla alla famiglia, poi ad Altavilla Irpina, il suo feudo prediletto, dove soggiornarono a lungo. Le passeggiate in quei luoghi incantevoli rinfrancarono lo spirito della regina, restituendole serenità e facendole dimenticare in parte le sue pene. Gli sposi si trasferirono in seguito nella loro residenza

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Altavilla Irpina (Avellino). Il corteo storico che precede la disputa del tradizionale Palio dell’Anguria, quest’anno in programma domenica 18 agosto. definitiva, a Riccia, in Molise, dove vissero fino alla morte. Ma prima di partire, Costanza espresse al consorte la volontà di fare qualcosa per gli Altavillesi, disponendo la riduzione di alcune tasse feudali. Gli abitanti manifestarono la loro gratitudine offrendole un grande banchetto e una festa con giochi e balli.

Arriva la regina L’episodio viene oggi rievocato ad Altavilla Irpina ogni anno, il 18 agosto, con il Palio dell’Anguria. Nell’occasione il lungo e ampio corso del piccolo centro campano viene trasformato in una pista, con migliaia di spettatori assiepati attorno. Un fastoso corteo storico con oltre duecento figuranti in costumi medievali rievoca l’arrivo della regina Costanza, i cui panni vengono ogni anno vestiti da un noto personaggio del mondo

dello spettacolo. Al corteo, aperto dagli sbandieratori e chiuso dai trombonieri, segue una corsa degli asini, alla quale partecipano fantini provenienti da Altavilla e dai paesi del circondario. Dopo le batterie eliminatorie, nella finale i fantini con una mano tengono le briglie dell’asino e con l’altra sostengono un cocomero sotto il braccio. Gli asini percorrono in andata e ritorno, per circa un chilometro, la «rambla» altavillese. Talvolta si fermano e non vogliono piú ripartire; altre volte si liberano del fantino, disarcionandolo. Alla difficile gestione degli asini si aggiunge appunto il precario trasporto dell’anguria, che non di raro finisce a terra, frantumandosi. Vince il primo fantino che la consegna integra ai piedi di Costanza, ricevendo un bacio della regina e un assegno in denaro. T. Z. agosto

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Spadaccini senza frontiere L’

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

idea del «Viaggio nel Medioevo» nasce molto distante da Finalborgo. Come spesso accade, per comprendere meglio ciò che è vicino a noi occorre andare lontano. E cosí nel 2001 inizia la storia… Il gruppo di spadaccini «La Compagnia del Leone» nato da pochi anni, durante il tradizionale Palio delle Compagne si esibiva in spettacolari duelli. All’epoca non erano molti i gruppi di combattimento e gli spadaccini finalesi erano inoltre i primi ad abbinare la scherma storica studiata nel Flos Duellatorum a tecniche piú «teatrali», utilizzando anche nozioni di arti marziali e tecniche di improvvisazione: il tutto creava uno stile

negli spazi a loro dedicati. I combattimenti dei «ragazzi» finalesi destavano sempre notevole interesse e il procuratore romano (da noi ribattezzato «Spartaco») faceva da portabandiera, ma non riusciva a tenere gli occhi aperti durante gli scontri, confessando d’essere terrorizzato dal loro realismo. Scintille dalle spade, calci, cadute, a ogni esibizione aumentavano gli «addetti ai lavori» e le autorità che applaudivano il gruppo, ribattezzato «Italiani mas violentos», reclamando continui combattimenti. Il drappello finalese in questo frangente incontrò Mario Da Costa, direttore artistico della Companhia de Teatro Viv’arte, non solo rievocatori, ma attori. Cosí l’Associazione venne a contatto con un altro modo di fare rievocazione. Non solo ricerca, ma spettacolo: «Storia dal Vivo» è il motto di Viv’arte. A molti chilometri da Finalborgo, i nostri spadaccini, che già avevano realizzato serate a tema in alcuni rioni finalesi, pensavano a come sarebbe stato bello tentare un esperimento simile alla realtà portoghese anche nella nostra Finalborgo. Lavorando con la fantasia guardavamo gli spettacoli nelle piazze portoghesi e immaginavamo nello sfondo la basilica di S. Biagio, il Castel Gavone, lassú in alto, le nostre piazze e le nostre vie… I contatti con Mario continuarono anche dopo la manifestazione e l’anno successivo, il 2002, con enormi sforzi economici, facendo un vero e proprio salto nel buio per una piccola associazione di volontari, Finalborgo fu invasa dagli attori portoghesi. Nasceva il «Viaggio nel Medioevo», quella che voleva essere l’edizione italiana della gemella portoghese e che negli anni ha assunto le peculiarità che l’hanno resa unica. La compagnia Viv’arte si è occupata di ingaggiare artisti stranieri, il Centro Storico del Finale gli italiani; il Mercato Iberico, i banchi, Finalborgo, la festa… il resto è qui davanti a voi…

davvero unico. L’eco dei loro combattimenti, attraverso un gruppo di sbandieratori ospiti al Palio, arrivò fino a Roma, dove un abile procuratore decise di portare gli spadaccini del Centro Storico del Finale a Santa Maria da Feira, in Portogallo per rappresentare i gruppi storici italiani. In genere utilizzava gli sbandieratori, specialità tipica italiana, ma questa volta il destino scelse noi. «Viagem Medieval» era e continua a essere forse una delle piú grandi manifestazioni storiche europee, con un assessorato dedicato, operai, impiegati e una struttura organizzativa addetta all’evento multi-epoca della durata di 15 giorni, in cui artisti di tutto il mondo si esibiscono

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ANTE PRIMA

IN EDICOLA

MEDIOEVO IN NERO

IL LATO OSCURO DELL’ETÀ DI MEZZO

L

a vera natura del Medioevo è stata a lungo travisata, bollando quel lungo interludio fra l’antichità classica e il Rinascimento come una sorta di età della regressione. La storiografia piú recente ha da tempo, e definitivamente, dimostrato l’inconsistenza di simili teorie, ma, pur collocandoli in una prospettiva critica piú accorta, non ha potuto negare alcuni aspetti che furono effettivamente peculiari della cultura medievale. E, fra questi, vi furono, senza dubbio, il tormentato rapporto con il peccato, l’assolutismo dogmatico di molti dei massimi rappresentanti della Chiesa e, su un piano piú prosaico, il tenace perdurare di paure e superstizioni ancestrali.

MEDDoIOssieEr VO

0703 Periodico ROC mento – Aut. n° Spedizione in abbona Italiane S.p.A. – ing S.r.l. – Poste Timeline Publish

IL M LA ED TO IO OS EV C O

GLI ARGOMENTI

• L’OMBRA DEL DIAVOLO • LA FOLLIA DI FAUST • LA DANZA MACABRA • I MORTI VIVENTI • DRACULA, LA VERA STORIA • L’ESERCITO INFERNALE

MEDIOEVO

MEDIOEVO IN NERO

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GIUGNO 2019 IN EDICOLA IL 29

NERO

IN di Mezzo Il lato oscuro dell’etàFOLLIA DI FAUST to 2019 Rivista Bimestrale N°33 Luglio/Agos

ER MEDIOEVO DOSSI

UR O

Fenomeni che oggi possono a volte far sorridere, ma che dobbiamo immaginare calati in una realtà ben diversa da quella contemporanea. Una realtà che il nuovo Dossier di «Medioevo» indaga e descrive attraverso un viaggio affascinante, le cui tappe ci conducono fra monumenti insigni dell’arte e dell’architettura e ci raccontano le vicende di molti personaggi illustri, senza tralasciare l’incontro con le piú celebri creazioni letterarie nate dal desiderio di esplorare la «faccia nascosta» del Medioevo.

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Whitby (North Yorkshire, Inghilterra). I resti dell’abbazia benedettina. Nella Whitby di fine Ottocento lo scrittore irlandese Abraham (Bram) Stoker ha ambientato larga parte del suo romanzo piú celebre, Dracula (1897). L’opera narra degli sforzi dell’omonimo conte, il Vampiro, per seminare la sua messe d’orrori dalla nativa Transilvania all’Inghilterra.


AGENDA DEL MESE

Mostre TREVISO DA VINCI EXPERIENCE Palazzo della Camera di Commercio di Treviso e Belluno fino al 4 agosto

Sfruttando e incrociando le soluzioni offerte dal digitale, Da Vinci Experience condensa nello spazio di 45 minuti il percorso di Leonardo, un uomo capace di essere pittore, architetto, scultore, ingegnere, poeta e musicista. Il progetto espositivo permette di volare con occhi e suoni nella suggestione di un mondo che non c’è, ma anche toccare i progenitori di strumenti di uso comune – dal cric alla bicicletta, dal cambio di velocità al pistone – riprodotti con la massima fedeltà sulla base dei disegni del maestro. info tel. 393 8007367; e-mail: info@davinciexperience.it; www.davinciexperience.it PARMA LA FORTUNA DE «LA SCAPILIATA» DI LEONARDO DA VINCI Complesso Monumentale della Pilotta, Galleria Nazionale fino al 12 agosto

a cura di Stefano Mammini

corona alla affascinante «Scapiliata» leonardesca. Nessuna cuffia, nessuna crocchia o velo intorno al volto, bellissimo e intenso. Ma capelli liberi, lunghi, scarmigliati da un vento che irrompe violento in scena: in questa tavoletta Leonardo dipinge esattamente ciò che lui stesso ha suggerito, a proposito della raffigurazione della chioma della figura femminile, nel Trattato sulla pittura: «Fa tu adunque alle tue teste gli capegli scherzare insieme col finto vento intorno agli giovanili volti, e con diverse revolture graziosamente ornargli». Quattro le sezioni in cui si articola la rassegna. La prima include alcune antichità e i primi passi di una ricerca pittorica rinascimentale che troverà in Leonardo la sua massima espressione. La seconda annovera alcuni dipinti e disegni originali di Leonardo o di ambito fiorentino, precedenti o contemporanei all’artista, in cui viene trattato il tema dei capelli scomposti, come fiamme ondeggianti nell’aria a causa del vento, tra cui la celebre Leda degli Uffizi. Vengono poi riunite derivazioni antiche del tema leonardesco, a testimonianza della precoce fortuna critica di questo soggetto iconografico. info tel. 0521 233309; http://pilotta.beniculturali.it MILANO

Una sequenza di opere di altissimo livello – firmate da artisti del calibro di Gherardo Starnina, Bernardino Luini, Hans Holbein, Tintoretto, Giovanni Lanfranco – fa da

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INTORNO ALLA SALA DELLE ASSE. LEONARDO TRA NATURA, ARTE E SCIENZA Castello Sforzesco, Museo d’Arte Antica, Sala dei Ducali fino al 18 agosto

La mostra fa da corollario alla riapertura della Sala delle Asse, all’interno della

quale Leonardo sviluppò il suo concetto di imitazione della natura tanto da immaginare un sottobosco e, al di là degli alberi, case e colline all’orizzonte: dalla stanza del duca Sforza al territorio da lui governato. La rassegna è concepita attorno a una rigorosa selezione di disegni originali di Leonardo da Vinci e di altri maestri del Rinascimento, che mostrano relazioni iconografiche e stilistiche stringenti con particolari della decorazione naturalistica e paesaggistica della Sala delle Asse, ora resi visibili grazie ai saggi di scopritura effettuati sulle pareti, indizi di straordinaria importanza per poter approfondire la conoscenza del progetto compositivo originario. Il progetto espositivo si deve alla Direzione del Castello Sforzesco, che ha potuto avvalersi della partecipazione di grandi musei internazionali, con prestiti provenienti dalla Her Majesty The Queen from the Royal Collection, dal Museo del Louvre, Parigi, dal Kupferstichkabinett, Berlino e dalle Gallerie degli Uffizi, Firenze. info www.milanocastello.it MATERA RINASCIMENTO VISTO DA SUD: MATERA, L’ITALIA MERIDIONALE

E IL MEDITERRANEO TRA ‘400 E ‘500 Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna della Basilicata Palazzo Lanfranchi fino al 19 agosto

Il progetto espositivo intende ricostruire, attraverso un racconto visivo fatto di opere d’arte ma anche di oggetti e documenti storici, la fioritura artistica e culturale avvenuta nell’Italia meridionale nel secolo a cavallo tra la metà del Quattrocento e la metà del Cinquecento in relazione con il piú ampio contesto del

Mediterraneo. La mostra, che prevede un approfondimento particolare su Matera e la Basilicata, è integrata e arricchita da speciali percorsi di conoscenza e valorizzazione delle opere d’arte tardo-gotiche e rinascimentali disseminate nel territorio regionale, inamovibili per tipologia o per agosto

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dimensioni. In tali percorsi vengono considerati i principali affreschi locali del tempo, per esempio quelli di S. Donato a Ripacandida, quelli della chiesa rupestre di S. Barbara a Matera e quelli della Trinità di Miglionico, ma anche i grandi polittici come quello di Cima da Conegliano sempre a Miglionico, che testimonia, insieme alla straordinaria scultura raffigurante Sant’Eufemia del Duomo di Montepeloso oggi Irsina, l’attenzione locale alla cultura veneta; oppure le opere realizzate nei primi decenni del Cinquecento da Giovanni Luce o Francesco da Tolentino a Pietrapertosa o, infine, i numerosi polittici eseguiti per i paesi lucani (Senise, San Chirico Raparo, Salandra, Stigliano etc), da Simone da Firenze, prolifico pittore-emigrante che nella Basilicata interna trovò una committenza pienamente soddisfatta del suo linguaggio «moderno», che guardava ai maestri toscani della fine del secolo precedente. I percorsi di valorizzazione territoriale coinvolgono anche la vicina Puglia, dove non si possono dimenticare, per esempio, gli affreschi della chiesa di S. Caterina a Galatina o quelli di S. Stefano a Soleto. info tel. 0835 256384; www.materaevents.it PARIGI CINQUE SENSI. UN’ECO ALLA DAMA E L’UNICORNO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 20 agosto

Nel Medioevo, ciascuno dei cinque sensi – dal tatto alla vista – aveva una funzione non soltanto materiale, ma anche spirituale e da questo

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presupposto nasce il percorso ideato dal Museo di Cluny per far scoprire ai visitatori le proprie collezioni in attesa che vengano ultimati i lavori di ristrutturazione dell’edificio. I cinque sensi sono descritti e valutati in numerosi trattati medievali e vengono utilizzati come altrettante chiavi di lettura dell’universo, dalla sfera delle relazioni umane alla

religione. Secondo i dettami dell’amor cortese, traducono il progressivo avvicinamento verso la persona amata, fino a che essa non viene toccata; quanto alla liturgia, dall’uso dell’incenso alla vestizione del sacerdote, il ricorso ai cinque sensi è costante e facilita l’esperienza del divino. A sviluppare e approfondire questo tema affascinante concorrono una cinquantina di tessuti ricamati, miniature, sculture e gioielli, la cui presentazione culmina con il ciclo di arazzi della Dama e l’unicorno, nella cui rappresentazione compare un padiglione sormontato dal motto «Mon seul desir» («Il mio unico desiderio»), che sembra evocare un sesto senso, forse capace – secondo la filosofia medievale – di dare accesso al discernimento. info www.musee-moyenage.fr

TORINO GOCCIA A GOCCIA DAL CIELO CADE LA VITA. ACQUA, ISLAM E ARTE MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre

Ma’, poche lettere in arabo. Comincia tutto da lí. E a partire dalle affermazioni del Corano e della letteratura successiva, l’esposizione illustra lo sviluppo storico dei tanti ruoli e significati ricoperti dall’acqua e l’incarnazione dei suoi significati nell’arte e nei manufatti islamici. Tra l’acqua e il mondo islamico esiste infatti un rapporto antico e intimo. Le ragioni climatiche lo spiegano solo in parte: vi è un’eredità antica di culture e

civiltà precedenti, un senso religioso profondo e tante complesse ragioni sociali e culturali. L’acqua appartiene ai nostri sogni piú profondi: evoca la maternità, la pulizia, la purità, la sensualità, la nascita e la morte. Questo naturalmente vale per ogni civiltà, ma nell’Islam tale serie di idee ha trovato un suo senso piú profondo, facendo dell’acqua uno dei cardini stessi dell’esistenza umana: un cardine tanto spirituale quanto sociale ed estetico. La mostra è una narrazione attraverso immagini, reperti, libri e miniature: tecnologia,

vita quotidiana e arte, che per secoli si sono rispecchiate nelle tante diverse fruizioni dell’acqua. info tel. 011 4436932; e-mail: mao@fondazionetorinomusei.it; www.maotorino.it LEIDA GIARDINI MEDIEVALI. PARADISI TERRENI A ORIENTE E A OCCIDENTE Rijksmuseum van Oudheden fino al 1° settembre

Grazie a una ricca selezione di reperti archeologici e opere d’arte il museo olandese offre un’immagine eloquente della ricchezza, dell’importanza e delle multiformi declinazioni dei giardini nell’Occidente cristiano e nel mondo islamico fra il 1200 e il 1600. Si possono ammirare tappeti, erbari, manoscritti miniati con immagini di giardini ideali e maioliche orientali decorate da motivi floreali. Non mancano poi utensili e attrezzature per l’allestimento degli spazi verdi, semi e piume, cappucci per i falconi utilizzati nella caccia, pedine del gioco degli scacchi, vasi da farmacia e strumenti musicali. Un insieme di materiali che provano quanto i giardini fossero importanti per l’uomo medievale, non solo dal punto di vista pratico – perché in grado di produrre

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AGENDA DEL MESE piante commestibili e medicamentose –, ma anche per il ristoro e lo svago. Ed è significativo ricordare come «paradiso» derivi dall’antico persiano pairidaeza e come sia nel Corano che nella Bibbia il paradiso venga descritto come un giardino nel quale crescono piante sempreverdi, attraversato da placidi corsi d’acqua, e dove uomini e animali vivono in armonia. info www.rmo.nl FERRARA IL RINASCIMENTO PARLA EBRAICO MEIS, Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah fino al 15 settembre

Tema dell’esposizione (si veda

anche, in questo numero, il Dossier alle pp. 85-111) è uno dei periodi cruciali della storia culturale della Penisola, decisivo per la formazione dell’identità italiana, svelandoci un aspetto del tutto originale, quale la presenza degli Ebrei e il fecondo dialogo con la cultura cristiana di maggioranza. Nel Rinascimento gli Ebrei c’erano ed erano in prima fila, attivi e intraprendenti: a Firenze, Ferrara, Mantova, Venezia, Genova, Pisa, Napoli, Palermo e, ovviamente, Roma. A periodi alterni accolti e ben visti, con un ruolo non secondario di prestatori, medici, mercanti, oppure oggetto di pregiudizio.

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Interpreti di una stagione che racchiude in sé esperienze multiple, incontri, scontri, momenti armonici e brusche cesure. Il MEIS racconta per la prima volta questo ricco e complesso confronto. Ricostruire tale intreccio di reciproche sperimentazioni significa riconoscere il debito della cultura italiana verso l’ebraismo ed esplorare i presupposti ebraici della civiltà rinascimentale. E significa ammettere che questa compenetrazione non è sempre stata sinonimo di armonia, né di accettazione priva di traumi, ma ha comportato intolleranza, contraddizioni, esclusione sociale e violenza ai danni del gruppo ebraico, impegnato nella difficile difesa della propria specificità. Della ricca selezione di opere scelte per la mostra fanno parte dipinti come la Sacra famiglia e famiglia del Battista (150406) di Andrea Mantegna, la Nascita della Vergine (150207) di Vittore Carpaccio e la Disputa di Gesú con i dottori del Tempio (1519-25) di Ludovico Mazzolino, Elia e Eliseo del Sassetta, dove spuntano a sorpresa scritte in ebraico. Si possono inoltre ammirare manoscritti miniati ebraici, di foggia e ricchezza rinascimentale, come la Guida dei perplessi di Maimonide (1349), acquistato dallo Stato italiano meno di un anno fa. O l’Arca Santa lignea piú antica d’Italia, mai rientrata prima da Parigi, o il Rotolo della Torah di Biella, un’antica pergamena della Bibbia ebraica, tuttora usata nella liturgia sinagogale. info e prenotazioni call center: tel. 848 082380, da cellulare e dall’estero: tel. +39 06 39967138 (attivi tutti i giorni 9,00-18,00); e-mail: meis@ coopculture.it, prenotazioni@ coopculture.it; www.meisweb.it

FIRENZE LEONARDO E I SUOI LIBRI. LA BIBLIOTECA DEL GENIO UNIVERSALE Museo Galileo fino al 22 settembre

Pur essendosi definito «omo sanza lettere», Leonardo non era un illetterato, ma, anzi, era alla costante ricerca del dialogo con gli autori, antichi e moderni e, nel tempo, era diventato un appassionato lettore e bibliofilo. Da questo assunto nasce la mostra allestita nel Museo Galileo di Firenze che racconta come per lui i libri non fossero soltanto oggetti, bensí affascinanti «macchine» mentali, da costruire e smontare, con i loro ingranaggi (parole, pensieri, immagini). Alla fine della sua vita, arrivò a possedere quasi duecento volumi: un numero straordinario per un ingegnereartista del Quattrocento. Tuttavia, la biblioteca di Leonardo è uno degli aspetti meno conosciuti del suo laboratorio, perché si tratta di una biblioteca «perduta»: un solo libro è stato finora identificato, il trattato di architettura e ingegneria di Francesco di Giorgio Martini conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, con postille autografe dello stesso Leonardo. Per la prima volta, dunque, si è tentata la ricostruzione di questa biblioteca, in un percorso che racconta l’incontro di Leonardo con il mondo dei libri e della parola scritta: i documenti della famiglia Da Vinci, i primi grandi libri del giovane Leonardo (Dante, Ovidio), i grandi maestri

(Alberti, Toscanelli, Pacioli). Per la mostra sono stati riuniti manoscritti e incunaboli identificati con i testi utilizzati da Leonardo, affiancati da applicazioni multimediali che consentono di sfogliarli e confrontarli con i codici autografi. È stato inoltre ricostruito lo studio di Leonardo, con gli strumenti di scrittura e da disegno da lui utilizzati. info tel. 055 265311; e-mail: info@museogalileo.it; https://mostre.museogalileo.it/ bibliotecageniouniversale

FIRENZE OMAGGIO A COSIMO I. CENTO LANZI PER IL PRINCIPE Gallerie degli Uffizi, Sale di Levante fino al 29 settembre

Le Gallerie degli Uffizi celebrano il cinquecentenario della nascita di Cosimo I (1519-1574), primo granduca di Firenze, dedicandogli tre mostre: «Cento lanzi per il Principe», «Una biografia tessuta. Gli arazzi seicenteschi in onore di Cosimo I» (Palazzo Pitti, sala delle Nicchie e sala Bianca) e «La prima statua per Boboli. Il Villano restaurato» agosto

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(Palazzo Pitti, sala delle Nicchie). La prima è dedicata alla Guardia tedesca dei Medici («Guardia de’ lanzi» in vernacolo fiorentino), composta dai caratteristici alabardieri in livrea, e si svolge al primo piano degli Uffizi e non per caso: dalle finestre delle sale si può infatti ammirare la Loggia dell’Orcagna su piazza della Signoria, che per essere stata la facciata del quartier generale della Guardia tedesca negli Uffizi è ancora oggi nota come Loggia dei Lanzi (abbreviazione dal tedesco «Lanzknecht», lanzichenecchi). Per quasi duecento anni, fino al 1738, i Lanzi hanno svolto una funzione cruciale nell’ambito della corte medicea. Compito principale della guardia era difendere la persona del sovrano e i suoi piú stretti congiunti, pertanto nelle raffigurazioni degli eventi legati al sovrano, i suoi soldati appaiono quasi sempre facilmente individuabili grazie ai loro costumi sgargianti e alla loro arma iconica: l’alabarda. La mostra percorre la storia di questa milizia sotto vari aspetti – sociale, culturale, militare: divise in quattro sezioni, oltre 90 opere tra armature, armi, vestiti, incisioni, dipinti, documenti e libri ne raccontano l’istituzione

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e la storia, senza tralasciare l’impatto che essa ebbe sulla vita cittadina. info tel. 055 294883; www.uffizi.it LONDRA BARTOLOMÉ BERMEJO, MAESTRO DEL RINASCIMENTO SPAGNOLO The National Gallery fino al 29 settembre

collezione permanente alcuni importanti lavori conservati in Spagna e che per la prima volta sono stati concessi in prestito e hanno varcato i confini nazionali. info www.nationalgallery.org.uk ROMA ANTICO SIAM. LO SPLENDORE DEI REGNI THAI Museo delle Civiltà, Salone delle Scienze del Museo preistorico etnografico «Luigi Pigorini» fino al 30 settembre

Il 3 ottobre 1868, I regni d’Italia e del Siam firmarono un trattato solenne di amicizia e commercio, il primo mai stabilito tra i due giovani Paesi. Ratificato il 18 febbraio 1869, l’atto aprí la via a una folta

Bartolomé de Cardénas, meglio noto come Bermejo, cioè rossastro – appellativo che probabilmente gli fu dato per via di una qualche particolarità fisica, come i capelli rossi o l’incarnato molto colorito – fu uno dei piú innovativi e affermati pittori spagnoli della seconda metà del Quattrocento. Nativo di Cordova, ebbe come principale committente la corte d’Aragona, e lavorò soprattutto a Tous, Valencia, Daroca, Saragozza e Barcellona. Scarse sono comunque le notizie biografiche sul suo conto, ma è probabile che fosse un converso, ovvero un Ebreo convertito, e il suo continuo girovagare potrebbe forse essere stato dettato dalla necessità di sfuggire alle persecuzioni antiebraiche promosse dall’Inquisizione. Per rendergli omaggio, la National Gallery affianca a opere facenti parte della sua

continuità dei rapporti di amicizia tra le due nazioni, il Museo delle Civiltà e ISMEOAssociazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente, hanno organizzato una mostra sull’archeologia e l’arte del regno di Thailandia, antico Siam, prevalentemente incentrata sulle collezioni di arte thailandese del Museo delle Civiltà, affiancate da opere provenienti da altre collezioni romane di arte thai, o collegate a figure di eminenti italiani che operarono in Thailandia all’epoca del Trattato e nei decenni immediatamente successivi. Le opere illustrano diversi aspetti della creatività e della cultura delle genti che nel corso dei millenni abitarono le regioni della Thailandia, dalla locale età neolitica (2200-1100 a.C. circa) al 1911, anno in cui il Siam fece mostra della sua produzione artistica e industriale all’Esposizione Internazionale di Torino. info tel. 06 549521; www.museocivilta.beniculturali.it TORINO NOTRE-DAME DE PARIS. SCULTURE GOTICHE DALLA GRANDE CATTEDRALE Palazzo Madama, Sala Stemmi fino al 30 settembre

schiera di Italiani chiamati dal giovane sovrano Rama V a concorrere al rinnovamento del Siam (Thailandia dal 1939) nei diversi campi dell’architettura, dell’assetto urbano, dell’arte, del commercio, dell’ingegneria civile e delle comunicazioni, dell’amministrazione dello Stato e dell’esercito. Per festeggiare la ricorrenza dei 150 anni del trattato e la

Frutto di una collaborazione con il Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge di Parigi, l’esposizione dà vita a quattro sculture gotiche provenienti dalla cattedrale di Notre-Dame de Paris. L’evento si configura come una mostra dossier dedicata al tema della scultura gotica francese nella prima metà del 1200 e, in particolare, al cantiere della cattedrale parigina. Dal portale dell’Incoronazione della Vergine sulla facciata occidentale proviene la Testa d’Angelo, mentre dal portale

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AGENDA DEL MESE del braccio settentrionale del transetto provengono la Testa di Re mago, la Testa di uomo barbuto e la Testa di figura femminile, allegoria di una virtú teologale. Queste quattro opere, oltre a essere esempi di altissima qualità della scultura medievale europea, sono testimonianze di quel momento della civiltà gotica indicato dal celebre storico dell’arte Cesare Gnudi come «classicismo gotico» o «naturalismo gotico», che ebbe un forte influsso, alla fine del Duecento, anche sui protagonisti del gotico in Italia: Giotto, Nicola Pisano, Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it

BASSANO DEL GRAPPA ALBRECHT DÜRER. LA COLLEZIONE REMONDINI Palazzo Sturm fino al 30 settembre

Finalmente restaurato in tutte le sue parti, Palazzo Sturm propone per la prima volta e in modo integrale il tesoro

grafico di Albrecht Dürer (1471-1528), patrimonio delle raccolte museali bassanesi. Un corpus di 214 incisioni che, per ampiezza e qualità, è classificato, con quello del Kunsthistorisches Museum di Vienna, come il piú importante e completo al

PADOVA LA MAZZA E LA MEZZALUNA. TURCHI, TARTARI E MORI AL SANTO Musei Antoniani, basilica di S. Antonio fino al 4 ottobre

mondo. Dürer inizia la sua carriera come incisore di legni (xilografie) nel 1496 e, dal 1512 al 1519, lavora per l’imperatore Massimiliano I, per il quale realizza l’Arco di trionfo e la Processione trionfale, quest’ultimo nella collezione di Bassano del Grappa. Molto probabilmente passò per la città sul Brenta. Lo si vede nei paesaggi e nelle vedute di sfondo di opere come la Grande Fortuna. I temi trattati da Dürer sono mitologici, religiosi, popolari, naturalistici, ritratti, paesaggi e nelle collezioni bassanesi sono incluse le serie complete dell’Apocalisse, della Grande Passione, della Piccola Passione e della Vita di Maria. Per Massimiliano realizza anche una delle sue incisioni piú popolari, il Rinoceronte, a ricordo dell’esotico animale che l’imperatore aveva destinato al papa, ma

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che non arrivò mai a Roma, vittima di un naufragio di fronte alle coste liguri. Intorno a quest’opera, Chiara Casarin propone un approfondimento che da un lato rievoca la vicenda e dall’altro percorre la fortuna dell’incisione nei secoli. info www.museibassano.it

L’idea della mostra nasce da una serie di incontri seminariali, organizzati con un gruppo di alunni del Liceo «Romano Bruni» di Ponte di Brenta insieme a Chiara Dal Porto, dell’Archivio della Veneranda Arca di S. Antonio, dedicati a un oggetto molto particolare: la mazza da cerimonia donata alla basilica dal re polacco Giovanni III Sobieski, che la storia ricorda come colui che alle porte di Vienna inflisse all’esercito turco una determinante sconfitta nel 1683. E cosí figure affrescate, missionari e viaggiatori, autori di reportage di viaggio nell’Estremo Oriente, come il beato Odorico da Pordenone (che lo scrisse nel agosto

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1330, proprio nel convento del santo), sono stati individuati e messi in relazione, volta per volta con realtà storiche differenziate, su cui è invece opportuno porre attenzione. Saraceni, Infedeli, Mori, Ebrei, Mongoli, Tartari, Ottomani, Pirati, Turchi: parole diverse che significano periodi ed eventi diversi, ma che hanno in comune il tema dell’incontro: che fu a volte tragico e drammatico, a volte foriero di scambi commerciali e culturali. E se la storia della politica e della diplomazia andarono in un senso, vale ricordare che il grande mare Mediterraneo fu continuamente solcato da uomini, da merci e da idee, sicché anche sulle pareti dell’Urbs Picta antoniana, soprattutto nell’oratorio di S.Giorgio e nella cappella di S. Giacomo Altichiero da Zevio, nell’ultimo terzo del Trecento, mise in scena i Tartari, i Saraceni, i Mori: avendo, come non di rado questa iconografia registra, un tema sacro importante, diffuso e di garbata scenografia. Proprio l’Adorazione dei Magi, con il suo corteo al seguito dei re sapienti giunti da lontano, mostra queste presenze foreste, perché già nel Trecento il gusto per l’esotico stava affascinando l’Occidente. info www.santantonio.org FANO LEONARDO E VITRUVIO: OLTRE IL CERCHIO E IL QUADRATO. ALLA RICERCA DELL’ARMONIA. I LEGGENDARI DISEGNI DEL CODICE ATLANTICO Museo Archeologico e Pinacoteca del Palazzo Malatestiano, Sala Morganti fino al 13 ottobre

Compresa nel ciclo «Mostre per Leonardo e per Raffaello» a Pesaro, Fano e Urbino,

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l’esposizione racconta la battaglia tra un uomo e un libro, tra Leonardo e Vitruvio. Lo fa nella città del grande architetto romano, luogo della leggendaria basilica oggetto di recenti indagini archeologiche e su cui, dal Rinascimento in avanti, si sono misurate intere generazioni di architetti. I visitatori hanno la rara opportunità di un incontro ravvicinato con cinque disegni originali di Leonardo dal leggendario Codice Atlantico conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. La selezione copre l’intero periodo d’attività dell’artista, dagli ultimi decenni del Quattrocento ai primi del Cinquecento, spaziando da progetti per macchine militari (la balestra gigante), per la misurazione del tempo (l’orologio idraulico) e della distanza (l’odometro), fino a fogli di soggetto architettonico (la sezione del tiburio della cattedrale di Milano) e geometrico (le «lunule», gli esercizi per la quadratura del

cerchio). Accanto a questi cinque «protagonisti» verranno affiancate le principali edizioni cinquecentesche del trattato di Vitruvio: i testi che Leonardo potrebbe aver conosciuto e sfogliato. info tel. 392 0972255; www.mostreleonardoraffaello.it; e-mail: fano@sistemamuseo.it

TORINO L’ITALIA DEL RINASCIMENTO. LO SPLENDORE DELLA MAIOLICA Palazzo Madama, Sala Senato fino al 14 ottobre

Allestita nella Sala del Senato di Palazzo Madama, «L’Italia del Rinascimento. Lo splendore della maiolica» presenta un insieme

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AGENDA DEL MESE eccezionale di maioliche rinascimentali prodotte dalle piú prestigiose manifatture italiane, riunendo per la prima volta oltre 200 capolavori provenienti da collezioni private tra le piú importanti al mondo e dalle raccolte dello stesso Palazzo Madama. Il percorso espositivo si apre con una grande vetrina, che evoca il mobile protagonista della sala da pranzo rinascimentale, la credenza, dove le raffinate maioliche erano esposte sia per essere ammirate sia per servire all’apparecchiatura della tavola. Si passa quindi a documentare l’attività dei principali centri produttori in Italia – Deruta, Faenza, Urbino, Gubbio, Venezia, Castelli e

Torino –, per poi illustrare la varietà di temi riprodotti sulla maiolica istoriata. Tra il 1400 e il 1500 si amplia e si differenzia l’uso delle maioliche nella vita sociale: nell’arredamento della casa, in particolare nelle residenze di campagna, le maioliche istoriate venivano esposte sulle credenze ma anche usate sulle tavole e potevano essere offerte come doni in occasioni quali il matrimonio e il battesimo. L’epilogo è affidato a una serie di capolavori: una coppia di albarelli di Domenigo da Venezia, un rinfrescatoio di Urbino e la brocca in porcellana medicea di Palazzo Madama, eccezionale esemplare della prima

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imitazione europea della porcellana cinese, realizzato da maiolicari di Urbino che lavoravano a Firenze alla corte di Francesco I de’ Medici. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it VINCI LEONARDO DA VINCI. ALLE ORIGINI DEL GENIO Museo Leonardiano fino al 15 ottobre

Il Museo Leonardiano di Vinci propone una rassegna incentrata sul legame biografico del maestro con la sua città natale e sulle suggestioni che la terra d’origine offrí al suo percorso di artista, tecnologo e scienziato. Vengono cosí presentati i documenti concessi in prestito dall’Archivio di Stato di Firenze, grazie ai quali è possibile ricostruire le primissime vicende della vita di Leonardo a Vinci, e il primo disegno conosciuto da lui realizzato, Paesaggio (inv. 8P) datato dall’artista 5 agosto 1473, concesso in prestito al Museo Leonardiano per le prime sei settimane dell’esposizione. Attorno a quest’opera giovanile, che costituisce una sorta di

palinsesto di tutta la futura produzione di Leonardo, si dipana l’intero percorso espositivo. info www.museoleonardiano.it FIRENZE TUTTI I COLORI DELL’ITALIA EBRAICA. TESSUTI PREZIOSI DAL TEMPIO DI GERUSALEMME AL PRÊT-À-PORTER Gallerie degli Uffizi, Aula Magliabechiana fino al 27 ottobre

La storia degli Ebrei italiani osservata da una prospettiva inedita e cromaticamente caleidoscopica, quella dell’arte del tessuto: è questa la proposta sviluppata nell’Aula magliabechiana della Galleria degli Uffizi. Circa 140 opere – tra arazzi, stoffe, addobbi, merletti, abiti, dipinti e altri oggetti di uso religioso e quotidiano – presentano per la prima volta le vicende delle comunità ebraiche della Penisola attraverso una delle arti meno conosciute, ossia la tessitura, che nel mondo ebraico ha sempre rivestito un ruolo fondamentale nell’abbellimento di case, palazzi e luoghi di culto. Ne emerge un ebraismo attento alla tradizione, ma anche gioioso, colorato, ricco di simboli. Si riconosce inoltre il carattere interculturale e internazionale di questo popolo, soprattutto grazie all’eccezionale varietà dei motivi sui tessuti, dove il colore spesso predomina in maniera stupefacente. Nel percorso è possibile ammirare pezzi rarissimi, provenienti da musei e collezioni straniere, che conducono idealmente il visitatore attraverso le feste ebraiche: tra questi i frammenti ricamati provenienti dal Museum of Fine Arts di Cleveland, le due tende dal Jewish Museum di New York e

dal Victoria and Albert Museum di Londra che, insieme a quella di Firenze, formano un trittico di arredi (per la prima volta riuniti insieme) simili per tecnica e simbologia. Straordinario e unico è un cofanetto a niello della fine del Quattrocento proveniente dall’Israel Museum di Gerusalemme che, come una sorta di computer ante litteram a uso della padrona di casa, tiene il conto della biancheria via via consumata dai componenti della famiglia. info www.uffizi.it MILANO LEONARDO DA VINCI PARADE Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci fino al 31 ottobre

Per celebrare i cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci, il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia torna alle origini, esponendo le due collezioni con cui ha aperto al pubblico il 15 febbraio 1953. Una parata in cui 52 modelli leonardeschi e 29 affreschi di pittori lombardi del XVI secolo, provenienti dalla Pinacoteca di Brera, tornano a offrirsi all’ammirazione del pubblico. Si tratta di un percorso inedito per rimettere al centro l’unità della cultura con accostamenti insoliti di arte e scienza e che, peraltro, agosto

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permette di continuare a godere della collezione dei modelli storici leonardeschi nel periodo in cui la storica Galleria Leonardo resta chiusa per ristrutturazione. info tel. 02 485551; e-mail: info@museoscienza.it; www.museoscienza.org BARD (AOSTA) L’AQUILA. TESORI D’ARTE TRA XIII E XVI SECOLO Forte di Bard fino al 17 novembre

Gli spazi espositivi ricavati nella poderosa fortezza valdostana accolgono una selezione di opere recuperate e restaurate – 14 tra oreficerie, sculture in terracotta, pietra e legno, dipinti su tavola e tela – provenienti dalle chiese aquilane e dal Munda, Museo nazionale d’Abruzzo. Dalle Madonne con Bambino del Maestro di Sivignano e di Matteo da Campli a quella detta Delle Grazie; dal grande Crocefisso della Cattedrale alla Croce processionale di Giovanni di Bartolomeo Rosecci; dall’elegante e leggero San Michele arcangelo di Silvestro dell’Aquila allo splendido San Sebastiano di Saturnino Gatti; dal Sant’Equizio di Pompeo Cesura fino alle grandi tele di Mijtens, la mostra si propone come una storia di sopravvivenze, un omaggio alla città dell’Aquila nel decennale del sisma e una testimonianza della grande ricchezza della sua arte. Alle opere si affianca l’esposizione fotografica, inedita, La città nascosta di Marco D’Antonio, che presenta 15 grandi fotografie dedicate all’Aquila notturna, ripresa nelle sue aree ancora da ricostruire. info tel. 0125 833811; e-mail: info@fortedibard.it; www.fortedibard.it

MEDIOEVO

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PARIGI CRIMINI E GIUSTIZIA NEL MEDIOEVO Tour Jean sans peur fino al 29 dicembre

Le fonti giudiziarie risalenti alla fine del Medioevo permettono di venire a conoscenza di numerosi casi che ridimensionano

l’immagine di un sistema violento e sbrigativo che troppo spesso viene associato alla giustizia medievale. E, soprattutto, consentono di fissare una gerarchia dei crimini diversa da quella moderna, in seno alla quale la notorietà (la fama) degli individui coinvolti ha un ruolo importante, a prescindere dalla loro estrazione sociale, cosicché l’omicidio per motivi d’onore diviene spesso

tollerabile. Organizzata per celebrare i vent’anni di attività della Tour Jean sans peur come spazio espositivo e a 600 anni dall’assassinio del suo antico proprietario – il duca di Borgogna Giovanni senza Paura –, la mostra offre dunque un quadro per molti aspetti sorprendente della società dell’età di Mezzo, che vede giudici e imputati ricorrere con frequenza al compromesso e la popolazione farsi parte attiva nel decidere la sorte dei condannati. info www.tourjeansanspeur.com VINCI LEONARDO VIVE Museo Ideale Leonardo da Vinci fino al 31 dicembre

Organizzata per tenere a battesimo la riapertura del Museo Ideale Leonardo Da

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AGENDA DEL MESE Vinci e la realizzazione del nuovo Museo Leonardo e il Rinascimento del vino, a Sant’Ippolito in Valle, la mostra esemplifica l’attualità di Leonardo nell’arte e nella cultura contemporanea, e presenta anche i risultati delle ricerche genealogiche attraverso venti generazioni fino al presente e al DNA. Il percorso si articola in cinque sezioni. La prima (Leonardo Heritage) propone documenti d’archivio e reperti frutto di studi genealogici. La seconda riguarda la bottega di Leonardo: la Gioconda nuda, e anche la Santa Caterina nella macchina di tortura di un allievo di Leonardo (Giampietrino), che presenta impronte digitali e palmari. La terza (Leonardo e il Rinascimento del vino) approfondisce i rapporti di Leonardo con il territorio e con l’agricoltura, che ebbe un ruolo importante nella sua biografia e nei suoi molteplici studi. La quarta (Leonardismi attraverso i secoli) procede dalle cartelle dei Nodi vinciani xilografate da Albrecht Dürer

agli inizi del Cinquecento, prosegue tra l’immagine di Leonardo e antiche incisioni d’après, giunge al furto del 1911 e alla Gioconda L.H.O.O.Q. di Duchamp, fino a Dalí, Beuys, Warhol e altri protagonisti delle neoavanguardie internazionali. Per l’Attualità di Leonardo, spicca il Dialogo con il Paesaggio di Leonardo del 1473 del pittore cinese Xu Li giunto da Pechino. info www.museoleonardo.it BOLOGNA LA CASA DELLA VITA. ORI E STORIE INTORNO ALL’ANTICO CIMITERO EBRAICO DI BOLOGNA Museo Ebraico fino al 6 gennaio 2020

Gli straordinari reperti di uno dei piú ampi cimiteri ebraici medievali del mondo, rinvenuto alcuni anni fa a Bologna in via Orfeo, poco lontano dalle mura trecentesche, sono finalmente visibili dopo anni di studi e restauri. Gioielli in oro di eccezionale fattura e bellezza, pietre incise, oggetti in bronzo recuperati in oltre quattrocento sepolture,

attestano la presenza a Bologna di una fiorente comunità, proficuamente inserita nel contesto urbano e sociale fino all’espulsione, avvenuta per volere del papa nel 1569, e offrono lo spunto per ripercorrere, in maniera globale e sistematica, la storia di una minoranza, i suoi usi, la sua cultura e le sue interazioni con la società cristiana del tempo. info www.museoebraicobo.it SANSEPOLCRO LEONARDO DA VINCI: VISIONS Museo Civico di Sansepolcro fino al 24 febbraio 2020

Fulcro della mostra sono alcuni progetti di Leonardo, che ben illustrano la sua attitudine a cimentarsi con

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temi di inaudita complessità. Il volo prende forma nei suoi studi e nelle macchine che ha disegnato. Leonardo si misura anche con l’idea di conferire il movimento a oggetti inanimati: il carro semovente e il leone meccanico testimoniano i risultati raggiunti. Infine, il progetto per la gigantesca statua equestre in bronzo in memoria di Francesco Sforza costituisce un’ulteriore prova dell’eccezionale intelligenza con cui affrontava le sfide piú audaci. Fanno da corredo video di approfondimento e animazioni 3D realizzati dal Museo Galileo di Firenze. info tel 199 15 11 21 oppure 0575 732218; www.museocivicosansepolcro.it agosto

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Appuntamenti SARZANA FESTIVAL DELLA MENTE XVI EDIZIONE dal 30 agosto al 1 settembre

Torna l’appuntamento con il primo festival in Europa dedicato alla creatività, la cui XVI edizione ha come filo conduttore il concetto di futuro, che sarà indagato e approfondito, da diversi punti di vista, attraverso le parole di scienziati, filosofi, letterati, storici, artisti italiani e stranieri. Nei tre giorni della rassegna il pubblico potrà incontrare nomi importanti della scienza e della letteratura, tra cui alcuni ospiti affezionati della manifestazione, come lo storico Alessandro Barbero, lo studioso del mondo classico Matteo Nucci e lo psicanalista Massimo Recalcati, e ascoltare anche voci inedite del panorama culturale italiano e internazionale in una quarantina di incontri. Cosí come non mancherà la sezione per bambini e ragazzi con i suoi numerosi workshop, letture animate e spettacoli. info www.festivaldellamente.it SIENA LA CITTÀ DEL CIELO DAL FACCIATONE DEL DUOMO NUOVO IL PANORAMA DI SIENA NUOVI ORIZZONTI SULLA CITTÀ fino all’8 settembre

Il Complesso Monumentale del Duomo di Siena, dedicato a santa Maria Assunta, invita a

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contemplare nuovi orizzonti con la salita al Facciatone, Panorama sulla Città. Per tutto il giorno, durante la permanenza sulla terrazza panoramica, i visitatori possono contemplare il panorama attraverso un’introduzione alla città effettuata da accompagnatori multilingua. Questo grande e alto muro che, nell’intento dei Senesi, doveva divenire la facciata di un Nuovo Duomo, sogno architettonico, guarda il capoluogo per intero. I visitatori che salgono all’Acropoli e attraversano il Duomo, la cosiddetta Cripta, il Battistero e il Museo dell’Opera si trovano immersi

collaborazione con l’Istituto Nazionale di Studi Etruschi, che, dal 1925, costituisce il massimo ente italiano per la promozione dello studio della civiltà etrusca. Questi i prossimi appuntamenti in programma: 28 agosto: Giuseppe Maria Della Fina, I grandi viaggiatori nelle terre degli Etruschi. Paesaggi, suggestioni e ricerche; 4 settembre: Nico Stringa, Gli Etruschi nell’arte moderna e contemporanea. Arturo Martini e le sue terrecotte; 11 settembre: Petra Amann, Gli Etruschi e l’antropologia. Johann Jacob Bachofen e il matriarcato etrusco; 18 settembre:

in un tripudio di forme e colori che, nell’intenzione dei committenti e degli artisti, segnano l’accesso alla «Gerusalemme celeste». info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com; www.operaduomo.siena.it

Andreas M. Steiner, Gli Etruschi e gli Ebrei nella letteratura del ‘900. Da Bassani a Wiesel; 25 settembre: Giuseppe Pucci, Gli Etruschi nei fumetti. Storie, invenzioni e gioco. info www.uffizi.it

ROMA VIAGGI NELL’ANTICA ROMA Foro di Augusto: via Alessandrina, lato Largo Corrado Ricci Foro di Cesare: Foro Traiano, in prossimità della Colonna Traiana fino al 3 novembre

Torna il progetto Viaggi nell’antica Roma, che, attraverso due spettacoli multimediali, racconta e fa rivivere la storia del Foro di Cesare e del Foro di Augusto. Grazie a sistemi audio con cuffie e accompagnati dalla voce di Piero Angela e da filmati e proiezioni che ricostruiscono i due luoghi cosí come si presentavano nell’antica Roma, gli spettatori possono godere di una rappresentazione emozionante e dal grande rigore storico e scientifico. Le modalità di fruizione dei due spettacoli sono differenti. Per il Foro di Augusto sono previste tre repliche ogni sera (durata 40 minuti), mentre per il Foro di Cesare è possibile accedervi ogni 20 minuti, secondo il calendario pubblicato (percorso itinerante in quattro tappe, per complessivi 50 minuti circa, inclusi i tempi di spostamento). I due spettacoli possono essere ascoltati in 8 lingue (italiano, inglese, francese, russo, spagnolo, tedesco, cinese e giapponese). info tel. 06 06 08 (tutti i giorni, 9,00-19,00); #viaggioneifori; www.viaggioneifori.it; www.turismoroma.it

FIRENZE GLI ETRUSCHI. VICENDE, RELAZIONI, CONFRONTI, INFLUENZE, INCONTRI Gallerie degli Uffizi fino al 25 settembre

Il mistero, i costumi, l’arte e la vita degli Etruschi: la grande civiltà preromana è protagonista di un ciclo estivo di incontri pomeridiani organizzato in stretta

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battaglie fiume nissan 9 AGOSTO 1062

Notte

di sangue di Federico Canaccini

Replica della prua, decorata in stile zoomorfo, della nave vichinga di Oseberg, ritrovata all’inizio del XX sec. in un tumulo nei pressi di Tønsberg, in Norvegia. L’originale, del IX sec., è conservato nel Museo delle Navi Vichinghe di Oslo.

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Poco meno di mille anni fa, le gelide acque alla foce del fiume Nissan, nell’odierna Svezia, si tinsero di rosso, in seguito a uno scontro violentissimo tra i Danesi di Sven Estridson e i Norvegesi capitanati da Aroldo III lo Spietato...

Sulle due pagine la replica di una nave vichinga veleggia nel mare dello Jutland (Danimarca). In basso elemento terminale in legno scolpito della prua di un drakkar raffigurante un animale mostruoso. IX sec. Oslo, Museo delle Navi Vichinghe.

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L

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e migrazioni dei popoli germanici avvenute tra il IV e il VI secolo sono state a lungo definite «invasioni barbariche», con un’etichetta che la storiografia ritiene ormai impropria. L’ultima appendice di quel vasto fenomeno include gli spostamenti dei Vichinghi, una popolazione di origine germanica stanziata in Norvegia, Svezia e Danimarca. Fra l’Alto e il Basso Medioevo, cioè tra il IX e l’XI secolo, questi intraprendenti guerrieri (e mercanti), attaccarono l’intera Europa, spingendo in mare i loro lunghi vascelli. In un susseguirsi ininterrotto di spedizioni, i Vichinghi originari della Norvegia raggiunsero l’Irlanda e l’Inghilterra occidentale, mentre i Danesi si rivolsero contro le regioni orientali dell’isola britannica, sbarcando anche in Frisia e nelle aree del Reno, attaccando anche le regioni dell’impero carolingio, risalendo i fiumi con i loro veloci e agili drakkar, raggiungendo e superando la stessa Parigi. Dalla Svezia, invece, mossero altri gruppi di Vichinghi che presero ben presto il controllo del Mar Baltico, inoltrandosi nei territori slavi dell’Est europeo: solcando i rigidi mari nordici e i fiumi della attuale Russia, giunsero a Novgorod e Kiev, dove fondarono porti di fondamentale importanza strategica per i loro traffici commerciali. Ma non si fermarono a queste aree: navigando verso sud, lungo i corsi del Don e del Dniepr, si spinsero fino al Mar Nero, entrando in contatto, non sempre pacifico, con l’impero bizantino. Infine, e queste sono le spedizioni piú avventurose e quasi epiche, i Vichinghi navigarono a lungo attraverso l’Oceano Atlantico, in cerca di nuove terre, esplorando l’ignoto per giungere alle isole Fær Øer, in Islanda, in Groenlandia e persino nel continente nordamericano, dove impiantarono alcuni

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battaglie fiume nissan

GROENLANDIA

Mappa dell’Europa nella quale sono indicati i territori d’origine delle genti vichinghe, le principali direttrici delle loro spedizioni e le terre conquistate e colonizzate, tra l’VIII e il IX sec. Sono inoltre evidenziati i centri abitati piú importanti, che possono essere considerati come altrettante capitali.

Lofoten

MAR DI NORVEGIA OCEANO ATLANTICO

Thingvellir Reykjavik

Stammlande Territorio d'origine Espansione

Trondheim

Fær Øer Shetland

Uppsala

Bergen Oslo

Haugesund

Incursione Zuge

Helgö

Sigtuna

Birka

Kaupang Fyrkat Roskilde

Ebridi Lindisfarne Isola di Man Dublino

Ribe

York

Dunmore

Haithabu Amburgo

Dorestad

no

Re

Londra Hastings Bayeux

Lund

Hedeby

Senn

a Parigi Loira

Pamplona Lisbona Tago Cordoba Cadice

Roma

Palermo

MAR MEDITERRANEO 36

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MEDIOEVO


Qui sotto, a sinistra moneta in argento con una nave vichinga, da Birka (Svezia) e, forse, battuta a Haithabu (Danimarca). IX sec.

In basso la nave di Oseberg, utilizzata come sepoltura femminile, forse per la regina Åsa Haraldsdottir di Agder. IX sec. Oslo, Museo delle Navi Vichinghe. Nella pagina accanto in basso Reykjavik, Islanda. Il monumento eretto nel secolo scorso davanti alla chiesa di Hallgrímskirkja in onore di Leif Eriksson, navigatore vichingo che raggiunse il continente americano.

Novgorod Dü

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Rostow

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MAR NERO Costantinopoli

MAR CASPIO

MEDIOEVO

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Fibula proveniente dalla necropoli di Vendel (Uppland, Svezia). VI-VIII sec.

insediamenti che non ebbero però lunga fortuna. L’espansione vichinga fu possibile grazie a una politica, condotta su vasta scala, basata essenzialmente su incursioni e saccheggi: lo strandhögg, la razzia costiera, lungo i paesi scandinavi, fu tollerato sino a circa il IX secolo. In seguito, con l’avvento delle prime dinastie monarchiche, i sovrani indirizzarono tali azioni contro paesi stranieri: a costo di dover affrontare le onde dei mari del Nord, i Vichinghi venivano ripagati da bottini ben piú sostanziosi di quelli costituiti dai capi di bestiame razziati nelle loro vicinanze. Dalle coste inglesi o europee, infatti, oltre a beni di consumo alimentare, i pirati scandinavi tornavano a casa con donne e con uomini giovani, utili per alimentare il mercato degli schiavi, ben radicato e attivo nelle loro terre. Il principale strumento offensi-

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battaglie fiume nissan Qui sotto terminale scolpito in corno d’alce raffigurante un guerriero vichingo, da Sigtuna (Svezia). X-XI sec. Stoccolma, Museo Storico Statale. In basso elmo in ferro e bronzo, dalla nave-sepoltura n. 1 di Vendel (Uppland, Svezia). VII sec. Stoccolma, Museo Storico Statale.

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vo dei Vichinghi era la loro lunga e bassa nave: vascelli ai quali si deve il successo delle loro conquiste, delle loro esplorazioni e delle loro scoperte. La maggior parte delle informazioni a riguardo proviene dalle navi stesse, riportate alla luce da scavi archeologici, tra cui spiccano per importanza quelle di Gokstad (1880) e Oseberg (1903), oltre a molte altre imbarcazioni di vario genere e dimensione, scoperte nel corso del Novecento, tra cui lo scafo rinvenuto a Roskilde. La nave rinvenuta a Gokstad, per esempio, era detta skuta, o karfi, e poteva essere utilizzata sia per azioni mercantili che piratesche: si può tuttavia immaginare che, nel primo caso, gli scafi fossero piú larghi di quelli stretti, lunghi e affusolati utilizzati per la guerra. Le prime avevano inoltre un bordo piuttosto alto e basavano la loro propulsione soprattutto sulle vele, mentre le seconde si affidavano ai remi e – ben piú delle altre – al

basso pescaggio e alla leggerezza, caratteristiche che permettevano loro di navigare nei fiumi o di essere agevolmente tirate in secca in caso di tempesta. La nave di Gokstad, messa in acqua, affondava per meno di 40 cm, consentendo cosí la navigazione anche in fiumi dai fondali molto bassi, cosí da poter penetrare in profondità nelle aree continentali.

Legate l’una all’altra

Dopo il 1000 i drakkar fanno registrare un’evoluzione, al punto da poter imbarcare fino a 80 uomini e trasformarsi in mezzi adatti a vere e proprie battaglie navali con flotte vichinghe nemiche: i pontili si allargano per permettere ai guerrieri di lanciare contro il nemico le frecce e le lance stipate sotto gli scranni. Anche a causa della minore agilità, queste imbarcazioni potevano diventare teatro di scontri «terrestri», quando, unite assieme, creavano un lungo campo di battaglia galleggiante. La nave principale, a bordo della quale viaggiavano il re o il condottiero, veniva posta al centro dello schieramento, cosicché questa massa di legni legati tra loro assumeva le sembianze di un’autentica muraglia in mare aperto. Il contemporaneo storico danese Saxo Grammaticus, scriveva che «dopo aver disposto le navi in una linea, le uniscono tutte assieme cosí che, durante il suo cammino, ogni flotta verrebbe distrutta. E quando venivano unite per questo intento, venivano fissate in maniera solida cosí che, in caso di vittoria o di sconfitta, nessuno potesse abbandonare i propri compagni. Con questa tattica veniva rinvigorita la eventuale debolezza loro». Non potendo emulare le manovre delle triremi greche, le battaglie navali medievali si riduceagosto

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vano perlopiú a un avvicinamento tra vascelli, all’abbordaggio e al combattimento che si concludeva con la cattura o la distruzione dello scafo sconfitto. Per ottenere questo risultato occorreva naturalmente molto tempo e, se la flotta era numerosa, per giungere alla conclusione di una battaglia e a un responso soddisfacente, potevano trascorrere molte piú ore di quanto non accadeva abitualmente in una battaglia campale combattuta sulla terraferma.

«Spietato» e ambizioso

Il 9 agosto del 1062 uno scontro interminabile ebbe luogo alla foce del fiume Nissan (nelle acque antistanti la città di Halmstad, oggi in Svezia), tra le flotte del re di Danimarca, Sven Estridson, e quelle del re di Norvegia, Aroldo III Hårdråde («lo Spietato»). I due si erano già scontrati un’altra volta: a causare questa nuova battaglia fu la volontà di decidere con le armi i destini della Danimarca. Nonostante le razzie annuali che conduceva in terra danese, lo Spietato non riusciva infatti a controllare la regione e voleva perciò sconfiggere Sven Estridson in modo plateale, in una battaglia navale appunto. Per l’occasione il re di Norvegia organizzò una grande flotta, forte di ben 300 navi, sulle quali imbarcò tutti i suoi uomini. Si pose quindi a capo di un grande drakkar da 70 remi e si diresse al luogo prestabilito, alla foce del Nissan, in attesa della flotta nemica. Al mancato arrivo dei Danesi, Aroldo pensò che Sven Estridson avesse eluso lo scontro e cosí ordinò che la metà dei suoi vascelli facesse ritorno in Norvegia, i guerrieri tornassero alle proprie case, in attesa del prossimo turno di razzie. Con il re rimasero i veterani, molti dei quali lo avevano seguito in Russia e a Bisanzio dopo il 1030, anno in cui suo padre, Olaf, aveva tentato di recuperare il regno, ma era

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agosto

Didascalia Archeologia aliquatur adi odis

sperimentale

Lo Stallone prende il largo que L’archeologia vero ent qui sperimentale ha doloreium conectu prodotto negli ultimi decenni rehendebis eatur interessanti. molti risultati tendamusam In Francia è tuttora attivo il consent, perspiti di Guédelon (presso cantiere-studio conseque Treigny, nis in Borgogna), dove si sta maxim eaquis un vero e proprio castello costruendo earuntia conessolo delle tecniche e degli servendosi apienda. strumenti utilizzati nel Medioevo.

Criteri analoghi hanno guidato la ricostruzione di un vascello vichingo, l’Havhingsten (Stallone Marino) fra Glendalough, replica fedele della Skuldelev 2, una delle navi rinvenute nei pressi di Roskilde, in Danimarca, e costruita intorno al 1042, quindi assai simile a quelle utilizzate da Aroldo III durante la sua spedizione contro il re danese. In realtà, sino alla fine del IX secolo, non doveva esserci distinzione tipologica o di nomenclatura tra navi mercantili e da guerra. Solo allora iniziano ad apparire termini quali knorr (o kuanskip) per le navi commerciali e drakkar (o snekkja o skeid) per quelle con specifici fini militari. Per quanto possibile, gli archeologiscienziati hanno ricostruito il vascello servendosi di tecniche e materiali di epoca vichinga, a cominciare dal legname, ricavato abbattendo ben 300 querce. Informazione da non sottovalutare è il fatto che i Vichinghi non conoscevano e quindi non adoperavano la sega, lavorando perciò solo con asce e accette l’intero fasciame dei loro scafi. La nave aveva una chiglia lunga e bassa, con due terminazioni a prua e poppa, assai pronunciate e alle cui estremità erano fissati i cordami che reggevano l’unica ampia vela fissata sull’albero. Un grande timone laterale agevolava la dirigibilità del vascello. Tutto lo scafo è stato realizzato

sovrapponendo diversi strati di legname, tenuti insieme da grandi chiodi di ferro. A bordo del drakkar ricostruito potevano trovare posto nei loro sedili (sessa) 60 rematori che, giunti in vista di una terra, riponevano i remi, lunghi 4,5 m circa, nello scafo, recuperavano gli scudi rotondi, posizionati lungo i fianchi della nave, dipinti a colori vivaci, in modo da formare un disegno cromatico e, asce alla mano, si davano alle loro azioni piratesche. L’Havhingsten (Stallone Marino) fra Glendalough in navigazione.

(segue a p. 44)

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battaglie fiume nissan Sven Estridson

Un’ascesa piena di ostacoli Sven II Estridson era figlio del duca anglosassone Ulf, marito di Estrid, figlia di Sven I (955-1014), detto «Barbaforcuta». Sven I fu re di Danimarca (986) e, sebbene per due anni appena, anche re danese di Inghilterra (1013), contro cui guerreggiò per quasi vent’anni (994-1013), avendone infine ragione. A Sven I si devono la diffusione del cristianesimo e la formazione di un esercito professionista, oltre alla crescita delle attività economiche nei mari del Nord. Come detto, diede in sposa sua figlia Estrid a un nobile anglosassone, suggellando la pace tra i due regni e garantendo la continuità della corona. Tuttavia, suo nipote, Sven II, figlio di Estrid (Estrid-son), dovette inizialmente piegarsi allo strapotere del re di Norvegia Magnus, governando la Danimarca in qualità di suo vassallo. Nel 1043, infine, si ribellò a Magnus e, quattro anni piú tardi, la corona gli fu finalmente riconosciuta da Aroldo III lo Spietato, erede di Magnus. Dopo aver elevato Roskilde a capitale del nuovo regno, Sven dovette affrontare non pochi nemici, tra cui lo stesso Spietato – desideroso di sottomettere la Danimarca, da lui riconosciuta un quindicennio prima – e l’Inghilterra.

Roskilde (Danimarca), Cattedrale. Dipinto murale che ritrae Sven II Estridson, il re di Danimarca che uscí duramente sconfitto dalla battaglia navale combattuta alla foce del fiume Nissan nell’agosto del 1062. XV sec.

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stato sconfitto e ucciso in battaglia. In quegli anni lo Spietato si distinse come guardia personale dell’imperatore, per poi fare ritorno in Norvegia nel 1047, dove poté finalmente cingere la corona. Non appena la flotta di 150 navi norvegesi sparí dalla vista di Aroldo, ai suoi occhi si parò quella dei Danesi, forte di ben 300 legni. Anziché darsi alla fuga, il sovrano fece stringere attorno alla nave principale gli altri drakkar, cosí da creare una muraglia, protetta sui fianchi dalle imbarcazioni di Håkon Ivarsson, mossa che fu subitamente imitata dal suo avver-

sario Estridson, il quale, dopo aver serrato i ranghi, si gettò all’attacco dei drakkar nemici: le due flotte si scontrarono mentre il sole era ormai al tramonto.

Una pioggia di frecce

Le fonti in nostro possesso, sia di parte norvegese che danese, concordano nell’affermare che la battaglia si protrasse per tutta la notte. Una poesia illustra bene il ruolo delle armi da lancio utilizzate in questo corpo a corpo in mezzo ai flutti. Il re di Norvegia piegava e piegava / per tutta la notte il proprio arco, agosto

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Kirkwall (Isole Orcadi, Scozia), cattedrale di St. Magnus. Vetrata policroma con il ritratto del re Aroldo III di Norvegia, detto Hårdråde («lo Spietato»), il vincitore della battaglia alla foce del fiume Nissan. XIX sec.

Ed una pioggia di frecce piombava / sui candidi scudi di Danimarca. Sanguigne lance aprivan fessure / nelle nemiche ferree armature. Gli scudi venivan cosí trapassati / dai dardi che Hardråda dal drago scagliava. Non doveva essere inusuale che i capi vichinghi utilizzassero l’arco come arma in battaglia: sappiamo dalle fonti che molti dei loro capi (e forse lo stesso Aroldo III) morirono colpiti da un dardo nella mischia. Fu questa la sorte del re danese Aroldo «Dente Azzurro» e, dall’altra parte della barricata, anche di Håkon, re di Norvegia. Dopo ore di scontri, nel cuore della notte, Håkon Ivarsson ordinò alle sue navi, che proteggevano i fianchi della flotta, di attaccare i deboli vascelli danesi dai lati. Ebbe cosí inizio un aspro combattimento, che mise però in luce la superiorità dei Norvegesi, che cominciarono a ricacciare indietro le navi nemiche, abbordate una a una. Per ultima fu attaccata quella centrale, a bordo della quale si trovava lo stesso Sven Estridson. Nel 1028, quando Canuto il Grande, re di Danimarca, mosse alla conquista della Norvegia, aveva imbarcato le sue truppe su navi dotate di 16 banchi, con 32 rematori e forse altri 25 uomini armati. Nel Codice di Gulating, una raccolta norvegese di leggi compilata probabilmente intorno al 1100, ma che si riferisce agli anni intorno al Mille, si afferma che la nave piú piccola in dotazione era il karv, dotato di 13 banchi e 26 vogatori: ebbene, di questa foggia e di queste dimensioni si devono forse immaginare le navi danesi impegnate alla foce del Nissan.

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I Norvegesi non ebbero pietà e i Danesi sfuggiti alla morte si lanciarono in acqua quando ancora l’alba non era giunta. Infine, quando sorse il sole, la flotta danese era ridotta in pezzi, centinaia erano i caduti e non si aveva notizia del sovrano. Delle 300 navi di Estridson, appena 70 erano sfuggite al disastro.

La fuga del sovrano

A battaglia conclusa, si seppe che il re danese si era salvato gettandosi in acqua e trovando scampo a bordo della nave nemica di Håkon Ivarsson, fingendosi un soldato semplice. Gli fu addirittura concesso di sbarcare sulla costa e poté tornare, libero, in Danimarca. La battaglia, conclusasi con la chiara vittoria norvegese, non portò in realtà ad alcuna svolta politica significativa. L’eroe del giorno, Håkon Ivarsson, fu presto dimenticato e, poco dopo, venne addirittura condannato all’esilio da Aroldo III. Nel 1064 i due sovrani rivali firmarono un trattato di reciproco rispetto, po-

nendo fine, in sostanza, ai reciproci saccheggi. Nonostante la sconfitta, Sven Estridson riuscí a mantenere il proprio trono in Danimarca ancora per piú di un decennio. Lo Spietato, invece, deluso dal risultato dell’impresa, iniziò a volgere le proprie attenzioni a nuove terre e, dopo due anni di perlustrazioni e progetti, nel 1066 salpò con una enorme flotta con l’obiettivo di sottomettere la Britannia: si trattava dell’ultima grande spedizione vichinga. Sul trono di Londra s’era insediato da pochi mesi il re Aroldo II, che affrontò l’esercito vichingo con i suoi AngloSassoni, nel settembre del 1066, a Stamford Bridge (vedi «Medioevo» n. 260, settembre 2018; anche on line su issuu.com). L’isola britannica faceva gola a molti e la sua conquista sarebbe stata l’obiettivo di piú di un pretendente. In quegli stessi mesi il cielo fu solcato dalla cometa di Halley, annunciando agli uomini del Medioevo tempi di grandi mutazioni. F

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costume e società

«Una volta e in eterno» di Davide Iacono

Il mito di Artú e dei suoi cavalieri è sicuramente la piú potente e duratura di tutte le narrazioni medievali. Ma quali sono gli elementi costitutivi di questa incredibile fortuna?

È

probabilmente re Artú la figura piú famosa fra quelle che popolano l’immaginario collettivo sul Medioevo. Chiunque ne avrà sentito parlare almeno una volta ed è facile (come per chi scrive) che il leggendario personaggio abbia rappresentato un primo, infantile, approccio con l’età di Mezzo. Al sovrano britannico sono state dedicate non meno di 262 opere, tra film, spettacoli, cartoni animati, mentre nel mondo anglosassone è stato coniato un preciso termine – Arthuriana – per indicare il vastissimo repertorio di produzioni artistiche ispirate ad Artú e ai suoi cavalieri. La fascinazione per il mitico re, tutt’altro che recente, rimonta già ai secoli del Medioevo. Per esempio, La dinastia plantageneta – discendente dal normanno Guglielmo, vincitore ad Hastings – per giustificare e legittimare un possesso, altrimenti discutibile, sulle isole britanniche, mise in campo un vasto apparato, che vide la mobilitazione, nel segno dinastico, di Artú e dei suoi cavalieri. A partire dal regno di Enrico II, si assiste, in vari modi, a un revival arturiano.

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La Tavola Rotonda di Winchester. 1275. Winchester, Castello di Winchester, Great Hall. Sul seggio di Artú è ritratto Enrico VIII d’Inghilterra, al centro campeggia la rosa dei Tudor. La struttura in legno è stata datata al regno di Edoardo I (1272-1307), mentre la superficie venne fatta dipingere da Enrico VIII intorno al 1522, in occasione della visita dell’imperatore Carlo V.


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costume e società Artú venne inserito dallo scrittore e storico Goffredo di Monmouth (1100 circa-1154) tra i re di Britannia, cosí che i sovrani della dinastia normanna potessero vantare un illustre predecessore (al pari di Carlo Magno per i Capetingi), e accrescere il proprio prestigio tra gli altri monarchi europei.

La genealogia – anche se immaginaria – era infatti importantissima nel Medioevo, poiché costituiva un potente veicolo per l’affermazione di pretese dinastiche e territoriali, e un manifesto politico per i regnanti. Artú offriva, in questo caso, un modello che potremmo definire espansionista:

I Cavalieri della Tavola Rotonda si accingono a partire per la ricerca del Sacro Graal, acquerello su carta di William Dyce. 1849. Edimburgo, National Galleries of Scotland.

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quello di un dux bellorum che sconfigge i Sassoni e fonda un vasto regno tra Bretagna, Irlanda, Islanda, Norvegia e Gallia. Grazie all’attività di storiografi e cronisti, realtà e mito si fusero, fino a farsi indistinguibili, e, da figura pseudo-storica, Artú divenne un re leggendario. Non piú re dei Britan-


ni, ma degli Inglesi, venne arruolato a tutti gli effetti tra i sovrani plantageneti per essere idealizzato in tutta Europa come massimo esempio di re, cavaliere e cristiano insieme: Artú arrivò a figurare tra i paladini della cristianità, insieme a Goffredo di Buglione e Carlo Magno, tra i Nove Prodi, la classifica dei modelli

di eroismo teorizzata dalla cultura cortese-cavalleresca. Il fenomeno assunse i precisi caratteri di un programma ideologico soprattutto con Edoardo I (12391307) e con suo nipote Edoardo III (1312-1377). Il primo si presentò come un novello Artú per legittimare il possesso di una terra – il Galles – in

cui il «messianismo» del sovrano dormiente, e pronto a tornare, era ancora vivo. La volontà di porre fine agli aneliti separatisti è stata da molti studiosi considerata la molla che spinse il sovrano inglese a celebrare una solenne cerimonia di sepoltura del leggendario predecessore: Edoardo I si recò presso l’abbazia di Glastonbu-

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costume e società ry, nel Somerset, dove la tradizione collocava la tomba di Artú, e, dopo averne fatto riesumare le enormi ossa, sovrintese, insieme alla regina Eleonora, alla loro nuova inumazione. Un gesto che dunque escludeva ogni possibile «ritorno». Piú tardi, per celebrare la definitiva conquista del Galles e presentarsi come nuovo Artú, Edoardo I fece re-

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alizzare per il castello di Winchester una Tavola Rotonda (vedi foto alle pp. 44/45), mentre allo stesso tempo sottrasse l’antica corona venerata dai Gallesi come quella di re Artú.

Una nuova età dell’oro

Piú tardi, al culto arturiano non rinunciò Edoardo III, il sovrano che diede inizio alla Guerra dei Cent’An-

ni. Pensiamo alla fondazione da parte sua dell’Ordine della Giarrettiera nel 1348, nell’intento di far rivivere l’ordine della Tavola Rotonda. Le stesse cronache parlavano del sovrano inglese come di un nuovo Artú, portatore, con le sue vittorie – celebrate con tornei fastosi e feste magnifiche – di una nuova età dell’oro. L’influenza di Artú nelle mitolo-

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gie politiche dei re d’Inghilterra non fu confinata al periodo medievale; anche i Tudor trovarono opportuno ricorrervi: nel 1485 Enrico VII marciò contro Riccardo III per prendere il trono inglese sotto lo stendardo del Drago rosso arturiano ed Enrico VIII si fece ritrarre come novello Artú proprio sulla Tavola Rotonda di Winchester insieme alla rosa dei Tu-

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A sinistra il cenotafio del principe Alberto nella Memorial Chapel del Castello di Windsor in una tavola ottocentesca.

In alto La tomba di Re Artú, acquerello su carta di Dante Gabriel Rossetti. 1854. Londra, British Museum.

dor, simbolo della nuova Inghilterra riunita e pacificata. La leggenda arturiana conobbe una lunga eclissi durante tutta l’età moderna, quando le élite europee si richiamarono soprattutto all’antichità classica. Il mito del re e dei suoi cavalieri della Tavola Rotonda rinacque nel XX secolo – insieme al medievalismo a esso collegato –, connotandosi come un fenomeno planetario. La letteratura, i fumetti e il cinema – piú del lavoro degli storici – fecero conoscere la leggenda di Artú al grande pubblico. In particolare, si deve allo zelo romantico la riscoperta de La morte di Artú di Thomas Malory, scritta nella seconda metà del Quattrocento, che divenne ben presto un successo editoriale e l’opera, da oggetto di interesse antiquario, passò al dominio dell’immaginario collettivo sull’età di Mezzo. Da quel momento in poi, per evocare il Medioevo arturiano, letterati, poeti e artisti si ispirarono essenzialmente a Malory, nel cui segno, per esempio, la Confraternita dei Preraffaelliti (quella di Rossetti, Mor-

ris & Co.; vedi «Medioevo» n. 268, maggio 2019, anche on line su issuu. com) consacrò il suo sodalizio nella realizzazione dell’ambizioso ciclo di affreschi della Oxford Union Library.

Un regno «unito»

Dal punto di vista politico, inoltre, il mito arturiano continuava a offrire il modello di un regno «unito», secondo una prospettiva anglocentrica, in cui Galles, Irlanda e Scozia risultavano sottomesse nel nome di un mitico passato comune. La casata degli Hannover, di origini tedesche, riprese l’immagine di Artú anche in chiave dinastica, per presentarsi nel solco della migliore e piú pura tradizione monarchica britannica (ricordiamo che nel 1714, alla morte della regina Anna, ultima sovrana degli Stuart, salí al trono un suo lontano cugino di origini tedesche, del casato degli Hannover, che divenne re con il nome di Giorgio I). A questa rinnovata epopea nazionale rinviano gli affreschi realizzati da William Dyce, per volere del principe consorte, il duca Alberto di

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costume e società il mito secondo gustave doré

Un mondo alternativo Oltre a essere noto per aver illustrato opere come la Divina Commedia di Dante, la Storia delle Crociate di Joseph Michaud o Don Quichotte di Miguel de Cervantes, il grande artista francese Gustave Doré (1832-1883) realizzò, nel 1868, 36 incisioni per gli Idilli del re, rielaborazione vittoriana de La morte di Artú di Malory. Quello di Dorè rappresenta uno dei piú importanti contributi all’immaginario arturiano. Estremamente suggestive, le incisioni – nove per ognuno dei quattro poemi di cui l’opera di Tennyson si componeva (Enid, Vivien, Elaine, Guinevere) – raffigurano momenti eroici, drammatici o violenti. Non mancano personaggi immersi tra fitte foreste, cadenti rovine, paesaggi sublimi. Secondo la critica, le illustrazioni di Doré sono riuscite a superare, per grandiosità e potenza immaginifica, la stessa opera letteraria di Tennyson. Proponendo un mondo alternativo,

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in cui realismo e supernaturale, reale e immaginario si fondono, Doré ha coniato e diffuso un ideale estetico che ha anticipato molta della letteratura e dell’arte fantastica dei secoli a seguire.

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Sassonia-Coburgo, per il neogotico Palazzo di Westminster. Lo stesso principe Alberto fu presentato dal poeta Alfred Tennyson (1809-1892), negli Idilli del re – il piú grande re-telling della materia arturiana dai tempi di Malory –, come un novello re Artú e cavaliere ideale. E cosí fu poi raffigurato nel cenotafio decorato da Henri de Trinqueti, nel 1873, presso la Memorial Chapel a Windsor. La mitologia arturiana non serví solamente a costruire l’identità linguistica e nazionale britannica, ma si rivelò utile anche per legittimare l’espansione coloniale inglese, tanto che, durante la Seconda Guerra Boera (1899-1902), l’organizzazione per promuovere l’unione tra la patria e le colonie prese il nome di «Round Table Movement». Il Regno Unito, come Camelot, estendeva i suoi confini oltre la Manica, mentre molti suoi ufficiali partirono nella convinzione di incarnare i cavalieri di Artú in lotta contro la barbarie per una guerra di civilizzazione: lo stesso Lawrence d’Arabia, inviato presso le tribú beduine affinché si sollevassero contro il dominio turco, portò con sé una copia de Le Morte Darthur di Malory.

Gentlemen e boy scout

Tra l’età vittoriana e quella edoardiana, il cavaliere medievale – arturiano per antonomasia – divenne anche un modello guerriero, di virilità, pedagogico, etico e di condotta. Il gentleman vittoriano vi si identificava e, come tale, venne proposto nelle public school – gli istituti scolastici frequentati dalle classi aristocratiche – nella letteratura per l’infanzia o nell’arte. La nuova cavalleria arturiana, idealizzata e moralizzata, ispirò anche la creazione dei boy scout di Robert Boden-Powell: gli scout, infatti, erano incoraggiati a leggere storie cavalleresche e molte virtú proprie dello scoutismo costituiscono nient’altro che un’epitome dell’idealizzato codice cavallerescoarturiano di matrice vittoriana.

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Nella pagina accanto tavola di Gustave Doré raffigurante il viaggio verso la corte di Artú dei protagonisti di Enid, uno dei quattro poemi che compongo gli Idilli del Re di Alfred Tennyson. 1867.

In alto Sir Galahad, olio su tela di George Frederick Watts. 1860-1862. Harvard, Fogg Museum. Figlio di Lancillotto, Galahad è uno dei protagonisti piú giovani della saga arturiana.

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costume e società I temi arturiani furono quindi presenti nei numerosi War memorial della Grande Guerra, le cui vetrate istoriate raffigurarono Artú, Lancillotto, Tristano, Galahad. La stessa figura di Lord Kitchener, il vincitore della guerra boera – il cui faccione, con il cappello da Field Marshall e gli inconfondibili baffoni, divenne il manifesto propagandistico per antonomasia durante il primo conflitto mondiale – risultò ammantata da una mitica aura arturiana. A seguito, infatti, di un incidente avvenuto durante una traversata nel Mare del Nord, il corpo del famoso militare non venne mai ritrovato; si vociferava riposasse in qualche isola delle Orcadi come un novello Artú ad Avalon, in un sonno incantato pronto a destarsi. Cosí venne anche ricordato dallo scrittore americano Irvine Graff in The Return of Arthur, una ballata in cui Artú ritorna nei panni del militare inglese scomparso. Dal Regno Unito la fortuna della leggenda arturiana passò anche negli Stati Uniti. In particolare negli Stati sudisti, ossessionati dalla moda del medievalismo proveniente

La rilettura nazista

Un’appropriazione sinistra Se la Grande Guerra aveva fatto registrare l’uso trasversale della metafora arturiano-cavalleresca, nel secondo conflitto mondiale, l’adozione da parte dell’Asse di una retorica e di un’iconografia che rinviavano ai guerrieri medievali indusse le potenze alleate, per reazione, a rigettare tale immaginario. La Germania nazista si era infatti dotata di un bagaglio mitologico che affastellava glorie del Reich medievale (degli Ottoni e degli Svevi), odinismo, il Parsifal di Richard Wagner: il tutto saldato in un’ottica espansionista e razzista. Al contempo, Heinrich Himmler – convinto di reincarnare Enrico I di Sassonia, l’Uccellatore – fece costruire nel castello di Wewelsburg, quartier generale delle SS, un tavolo circolare per dodici «cavalieri della Tavola Rotonda», che avrebbero rinnovato una tradizione europea sopita dalla modernità. I deliri mistico-medievalisti del regime arrivarono a finanziare spedizioni volte alla ricerca del Santo Graal. La missione venne affidata a Otto Rahn. Nel suo libro Crociata contro il Graal (1933), lo studioso sosteneva che il calice mistico fosse in realtà una pietra; un oggetto che sarebbe stato custodito dai catari – con l’aiuto dei Templari e di Federico II Hohenstaufen – discendenti dei «puri» ariani, contro le grinfie della giudaizzante Chiesa di Roma. Rahn iniziò le sue ricerche nei Pirenei, in Francia, recandosi – inutilmente – a Montsegur, ultima roccaforte catara. La sua morte in circostanze oscure non fermò le ricerche: contemporaneamente all’avanzata nazista nell’Est Europa, squadre di archeologi cercarono invano artefatti magici da inviare al Führer. Le infruttuose cacce al tesoro naziste indussero l’industriale Albert Pietzsch, amico di Hitler, a fabbricare un falso Graal (noto come Calderone di Chiemsee, dal nome del lago bavarese in cui nel 2001 venne ripescato) da donare al dittatore. Ovviamente non rivelò mai la vera natura della coppa, portando il segreto nella tomba.

Nella pagina accanto La damigella del Santo Graal, olio su tela di Dante Gabriel Rossetti. 1874. Collezione privata. A destra veduta aerea del castello di Montsegur, nei Pirenei francesi. La fortezza fu l’ultimo rifugio dei catari e fu visitata da Otto Rahn, storico e ufficiale delle SS, convinto che potesse nascondere il Sacro Graal.

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costume e società la versione di romero

Con la moto al posto del cavallo Nel 1981, il regista George A. Romero (1940-2017), noto per aver inventato il genere zombie, ha realizzato un interessante e originalissimo adattamento della materia arturiana (è dello stesso anno il piú pretenzioso e oscuro Excalibur di Boorman). Si tratta di Knightriders, che – attraverso l’escamotage del sogno già utilizzato da Mark Twain – racconta di una comunità di bikers-cavalieri del Midwest americano minacciata e assediata non dagli zombie, ma da una commercializzazione e da un affarismo sempre piú invadenti. A differenziare il film di Romero dalle prime pellicole «arturiane» degli anni Cinquanta e Sessanta – dal regista stesso molto apprezzate – è la prospettiva postmoderna. Gli anni Ottanta videro infatti il fiorire del genere apocalittico (basti pensare a Blade Runner o Mad Max), in cui le paure, le ansie dei tempi, erano rielaborate attraverso la categoria neomedievale. Ossia l’idea che, in una società giunta al collasso, il venir meno delle strutture e dei capisaldi della modernità (come stato di diritto, tecnologia, benessere economico...) darebbe luogo a un «Medioevo prossimo venturo» (per citare il d’oltreoceano, i grandi proprietari terrieri amavano identificarsi con i cavalieri medievali in contrapposizione agli yankee. D’altra parte, nel Nord progressista, ci si faceva beffe dei loro ideali «medievali» e del loro definirsi gentlemen. Nel 1889, lo scrittore Mark Twain si scagliò, in Un americano alla corte di re Artú, attraverso una satira irriverente, contro questa moda neoarturiana e neocavalleresca impe-

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saggio del 1971 di Roberto Vacca). Tuttavia, nel film di Romero, il mondo neomedievale (o postmoderno) è letto in chiave positiva e costruttiva: il mondo romanticizzato e «camelottizzato» dei cavalieribikers diventa un faro di speranza; rante negli Stati del Sud (tristemente foriera dei cavalieri del Ku Klux Klan). Allo stesso tempo, la leggenda andò a legarsi con la mitologia, tutta americana, della conquista del Far West. Il cavaliere arturiano diventò un antesignano dei pionieri dell’Ovest, del cow boy. Come nel fumetto di Harold Foster, in cui il protagonista, Prince Valiant, incarna a pieno l’American Dream: egli è un self made man, che, proveniente dal

un modello, per la rinascita di una società piú giusta e solidale. In questo senso il film prende le distanze dalla severa e radicale critica alla società americana, che caratterizza le precedenti opere di Romero, La notte dei morti viventi e Zombi. nulla, riesce in una scalata sociale accessibile a tutti. Tra il 1953 e il 1954, Artú approda sul grande schermo. A quegli anni risalgono ben tre pellicole a tema arturiano prodotte a Hollywood (The Black Knight, I cavalieri della tavola rotonda e Prince Valiant). Specchio del clima politico da Red Scare (la «paura rossa») e guerra fredda, questi film ponevano l’accento sulla pax arturiana, con Camelot metafora di un nuoagosto

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vo ordine basato sugli ideali di democrazia americani in lotta contro la minaccia di una Dark Age comunista. Tra il 1961 e il 1963, gli anni della presidenza Kennedy, furono ricordati come la «Camelot era». Il paragone tra John F. Kennedy e la sua Casa Bianca con Arthur e Camelot, contribuí a consolidare la reputazione postuma del presidente. Gli anni Sessanta videro infatti negli Stati Uniti un ritorno della moda arturiana tra film, spettacoli teatrali musical, studi, a cui la nuova amministrazione non si sottrasse. Un mese dopo l’elezione di Kennedy, nel 1960, debuttava poi il musical, apprezzatissimo dallo stesso presidente, Camelot di Alan Jay Lerner che si ispirava, come fece poi Walt Disney, alla leggenda di re Artú sulla base del romanzo del 1958 di Terence Hanbury White, Re in eterno. Il nesso Kennedy-Camelot divenne fortissimo nel discorso politico. Per molti Americani, la nuova amministrazione, come Camelot, rappresentava un orizzonte ideale: i Kennedy sembravano la perfetta incarnazione delle utopie progressiste e la famiglia reale che mancava agli Stati Uniti. In particolare, fu la morte cruenta e prematura del bello e giovane presidente ad alimentare simili parallelismi. Si arrivò addirittura a sostenere un ritorno messianico di JFK, il quale, al pari di Artú dormiente ad Avalon, si pensava riposasse in stato vegetativo in posti segreti, che andavano da Washington a Skorpios, l’isola privata degli Onassis (ricordiamo che l’industriale greco Aristotelis Onassis aveva sposato nel 1968 Jacquelin Lee Bouvier, vedova del presidente assassinato a Dallas, n.d.r.). Ancora nel 1988 si scriveva di quell’omicidio come del sacrificio del principe di Camelot alle forze del bigottismo, dell’irrazionali-

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tà, del fanatismo. La stessa Jackie Kennedy in un’intervista rilasciata a Life il 6 dicembre 1963 realizzava tristemente «Non ci sarà mai piú un’altra Camelot». È un mito an-

Nei primi anni Cinquanta del Novecento, la saga arturiana approda sul grande schermo e a Hollywood si girano le prime tre pellicole che vedono protagonisti il giovane re e i suoi cavalieri

La copertina di uno dei volumi della miniserie a fumetti Camelot 3000, scritta da Mike W. Barr, disegnata da Brian Bolland e pubblicata dalla DC Comics tra il 1982 e il 1985.

cora vivo, se pensiamo che la presidenza Obama, nel 2007, venne accolta, seppur in tono minore, come una «Camelot 2.0».

Fate e guerriere

Con i suoi modelli di virilità e i temi guerrieri, il mito arturiano sembrerebbe aver messo il ruolo delle donne in secondo piano se non in una luce negativa (pensiamo alla regina Ginevra considerata, con la sua infedeltà, la causa della fine del sogno arturiano). Questo tipo di narrazione muta bruscamente tra gli anni Settanta e la fine degli anni Novanta, quando il femminismo inizia ad attribuire alle donne un ruolo equiparabile quasi a quello di Merlino, complice il revival celtico che aveva accompagnato la moda New Age. Nel romanzo Le nebbie di Avalon (1983) di Marion Zimmer Bradley, Morgana appariva cosí la custode di una tradizione celtica pienamente in contatto con la natura; espressione di un femminismo preda di un mondo dominato da brutali cavalieri, simbolo della modernità. Piú tardi un’altra corrente iniziò ad attribuire alle donne anche un ruolo guerriero. Come nel film King Arthur (2004) in cui la celtica Ginevra (Keira Knightley) si batte armi in pugno in un drastico ribaltamento del topos romantico-cortese della «damsel in distress» (la «damigella in pericolo»). Nel cinema francese, quello della Nouvelle Vague, si ravvisa invece il rovesciamento, se non il rifiuto, della prospettiva eroica. Sullo schermo vengono portate la dimensione psicologica, il dramma interiore, dei protagonisti. In Lancelot du lac di Robert Bresson (1974), i cavalieri sono falliti che ritornano a Camelot senza aver adempiuto alla cerca del Graal. Il codice cavalleresco appare un vuoto rituale privo

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costume e società di senso, mentre i cavalieri sono automi che neanche la fede può riscattare. A una prospettiva di crudo realismo che non risparmia orrori, violenza e nichilismo, dinanzi alla rovina e alla catastrofe, si rifà anche Excalibur di John Boorman (1981). Probabilmente una delle piú potenti e fortunate rivisitazioni cinematografiche del mito arturiano dominato com’è dal tema della terre guaste e dai Carmina Burana di Carl Orff, perfetta colonna sonora alle atmosfere mistiche, violente, barbariche e decadenti del film. In questo caso non mancano gli elementi fantasy (in origine il regista stava lavorando a un adattamento del Signore degli anelli) e

Artú secondo Disney

Alla corte di Semola

In alto la locandina del film Lancelot du Lac (1974), diretto dal regista francese Robert Bresson e distribuito in Italia con il titolo di Lancillotto e Ginevra. Nella pagina accanto un fotogramma de La spada nella roccia, la trasposizione della vicenda di Artú realizzata dalla Walt Disney nel 1963, con la regia di Wolfgang Reitherman. A sinistra la locandina di Excalibur, film di John Boorman del 1981.

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Nel 1939 Walt Disney ottenne i diritti del racconto di Terence H. White La spada nella roccia (The Sword in the Stone), prima parte della tetralogia Re in eterno (The Once and Future King). L’opera combinava in maniera originale leggenda, storia, fantastico e commedia. Il progetto entrò in produzione solo nel 1960, quando Disney rimase affascinato dal musical Camelot di Alan Jay Lerner (anche’esso ispirato all’opera di White). Protagonista del cartone animato, diretto da Wolfgang Reitherman, è un giovanissimo Artú, detto Semola, totalmente ignaro e impreparato al ruolo di futuro re di Britannia. Cresciuto da un burbero e grasso nobilotto, sir Ector, insieme al fratellastro un po’ tonto, sir Kay, Semola incontra per «caso» – come solo un mago potrebbe – Merlino. Da questo momento inizia l’educazione, diremmo moderna, del giovane. Sono numerose infatti le bordate – sulla scia di Mark Twain – in chiave antimedievale. Cosí il mondo cavalleresco è bollato come un mondo brutale, credulone e ignorante; i cavalieri usano armature disarticolate e malridotte mentre il Medioevo è «confuso e arretrato». A questo il mago contrappone il valore dell’istruzione, della cultura e della non violenza come vera forza. Cosa dimostrata ulteriormente un gusto kitsch tipico di quegli anni (che richiama il successo di Star Wars, anch’essa pellicola dalle forti venature medieval-arturiane). Interessanti variazioni sul tema sono La leggenda del re pescatore di Terry Gilliam (1991), che ambienta la cerca del Graal tra i grattacieli di


da Merlino, che sconfigge Maga Magò – trasformatasi in un drago –, contagiandola come un banale batterio. A ben vedere, si tratta di una traduzione americana del mito arturiano. Semola – che da semplice sguattero diventa re di Britannia – riassume infatti l’American way of life, il cui successo è dovuto esclusivamente alla forza di volontà, all’ottimismo, all’immaginazione, allo spirito di sacrificio. Manhattan; la saga di Star Wars di George Lucas, che attinge a piene mani alla materia di Bretagna; Monty Python and the Holy Grail (1975), che rappresenta l’apice comico della sovversione alla materia arturiana. I molteplici adattamenti al mito arturiano che, lungo il XX secolo,

l’hanno reinterpretato e reso popolare, non sono mai stati l’uno identico all’altro. Essi hanno attinto al repertorio di figure, personaggi, eventi che piú risultavano attuali e utili alle attese socio-politiche dell’epoca. Una nuova riconfigurazione del mito è oggi condotta sulla scorta delle questioni razziali o di genere. Cosí, nella serie del 2012 prodotta dalla BBC Merlin, Ginevra è interpretata da un’attrice di colore, o nel film di Guy Richie, King Arthur. Il potere della spada (2017), i panni di sir Bedivere sono indossati dall’attore beninese Djimon Hounsou. In Kingsman: The Secret Service (2014), in cui un gruppo di superspie adotta i nomi in codice dei cavalieri di Artú, il ruolo di Lancillotto è affidato a una giovane donna. Non resta che chiedersi, a que-

sto punto, quali forme prenderà il mito nei prossimi decenni: REX QUONDAM REXQUE FUTURUS («Re una volta e re in eterno») recitava, secondo Malory, l’epitaffio della tomba di Artú. F

NEL PROSSIMO NUMERO ● Mitici eretici

Da leggere Matteo Sanfilippo, Il Medioevo secondo Walt Disney, Castelvecchi, Roma 1993 Mario Domenichelli, Cavaliere e gentiluomo: saggio sulla cultura aristocratica in Europa: 15131915, Bulzoni, Roma 2002 Vito Attolini, Immagini del Medioevo nel cinema, Dedalo, Bari 1993

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storie la lira

Antica quanto

Carlo Magno di Maria Paola Zanoboni

Per i millennials non è piú nemmeno un ricordo, ma la lira ha avuto una storia lunga e gloriosa, iniziata prima dell’anno Mille, quando il grande imperatore franco avvertí l’esigenza di regolamentare il sistema monetale. Una vicenda ricca di implicazioni sociali e politiche, come prova il caso della repubblica fiorentina: i conii con il giglio e l’emblema di san Giovanni divennero la valuta piú forte di tutto il mondo allora conosciuto

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e origini della moneta che circolava in Italia fino al 2001, cioè prima dell’adozione dell’euro, risalgono alla notte dei tempi. La sua storia racchiude le vicende economiche, politiche e culturali del Vecchio Continente e della sua progressiva espansione alla ricerca di nuovi mercati, di nuovi poli di approvvigionamento, di nuove occasioni di contatti culturali, politici, economici, religiosi. Ripercorrerla significa quindi ripercorrere la storia dell’Europa. Il termine «lira» deriva da «libbra», vocabolo con il quale veniva designata la misura di peso romana equivalente a 325 grammi di argento. La trasformazione della libbra in unità monetaria risale alla riforma messa in atto da Carlo Magno, tra il 781 e il 794, a causa della drammatica penuria di metalli preziosi che in quell’epoca aveva colpito l’Europa. Prima della riforma carolingia, l’unità valutaria fondamentale nella Penisola era invece il soldo d’oro con le sue frazioni, sempre auree, chiamate «tremissi», valuta che continuò a circolare nel Mezzogiorno d’Italia nelle aree controllate dagli Arabi e dai Bizantini e poi dai Normanni.

Sconfitti i Longobardi e occupata la la Penisola, Carlo Magno vi estese la riforma monetaria iniziata da suo padre Pipino il Breve nel regno franco, che prevedeva l’introduzione del monometallismo argenteo, istituendo come unica moneta legale il denaro d’argento (che pesava inizialmente 1,3 e, in seguito, 1,7 grammi), di cui le zecche dovevano coniare 240 pezzi per ogni libbra di argento ricevuta. Alla libbra veniva in ogni caso lasciato il carattere di misura di peso, anziché di unità monetaria. La riforma carolingia non prevedeva infatti multipli del denaro, che, sebbene fosse sufficiente nelle normali transazioni – dato l’alto potere d’acquisto dell’argento in quell’epoca –, risultava però decisamente scomodo per i pagamenti di un certo rilievo (compravendite di terreni, partite di grano, oggetti preziosi). Occorreva perciò trovare un comune denominatore, tale da rappresentare un multiplo fisso; ne

nacque una soluzione spontanea e non imposta da alcuna autorità: non disponendo di multipli del denaro, si cominciò a usare la libbra come unità ideale di conto. In questo modo, sebbene la lira non esistesse materialmente, si evitavano per grosse cifre conti troppo complicati, sostituendo «1 lira» a «240 denari». La lira rimase una «moneta fantasma» materialmente inesistente, pura unità ideale di conto, per quasi 1000 anni, sebbene le principali transazioni avvenissero appunto in lire. Dalle rive della Manica alla corte di Aquisgrana, alla Pianura Padana e alle colline toscane, essa rappresentò la comune unità di misura, e dovunque significava 240 denari. La conquista carolingia aveva infatti reso l’Occidente cristiano un’unica area monetaria, contrapposta a quelle bizantina e musulmana. Nella penisola italiana soltanto nella zona a sud di Roma, non toccata dall’espansione dei Franchi, perdurò la tradizione monetaria romano-bizantina, o finí per prevalere quella musulmana. A Roma, per buona parte del Medioevo, circolarono entrambi i tipi di moneta. Il rapporto 1 lira = 20 soldi = 240 denari rimase in vigore nei sistemi monetari europei fino alla rivoluzione francese, quando in Francia e nei paesi entrati nella sua orbita venne introdotto il sistema decimale. In Gran Bretagna, invece, dove l’ondata rivoluzionaria francese non arrivò, il sistema monetario conserva ancora oggi le tre unità secondo il modello carolingio, sulla base di 1 pound (= libbra) = 20 shillings (soldi) = 240 pennies (= denari). Se per circa 100 anni il peso e la lega d’argento del denaro rimasero invariati, a partire dal X secolo, durante il periodo dell’anarchia postcarolingia, il conseguente disgregarsi dell’autorità pubblica determinò il progressivo svilimento del titolo (= percentuale di argento) del denaro e una sua continua diminuzione di peso, che lo portò dagli 1,7 grammi iniziali agli 0,1/0,3 grammi del XII secolo. La svalutazione riguardò naturalmente anche la lira, che, pur rappresentando ancora 240 denari, vide diminuito sempre di piú il suo potere d’acquisto.

Nella pagina accanto Carlo Magno, olio su tela di Jules Lefèbvre. 1897. Parigi, Palazzo di Giustizia, Corte di Cassazione.

In questa pagina moneta in argento battuta al tempo di Carlo Magno avente un peso di 1,3 grammi. 780-800.

Solo con l’argento

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storie la lira A ciò si aggiunse un’ulteriore complicazione: dalla fine dell’XI secolo, con l’affermarsi delle autonomie comunali nell’Italia centrosettentrionale, le zecche si moltiplicarono e cominciarono a battere denari di peso e titolo diverso l’una dall’altra, al contrario di quanto avveniva in passato, quando il limitato numero di zecche esistente produceva denari tutti dello stesso peso e con la stessa lega d’argento. I denari, e quindi le lire – milanesi, genovesi, fiorentine o veneziane – avevano dunque un diverso potere d’acquisto e un diverso rapporto di scambio con l’oro.

Fiorino largo di Firenze coniato nel 1437. Presenta il giglio al dritto e san Giovanni Battista che regge lo stemma dei Canigiani al rovescio.

La moneta scarseggia

Federico Barbarossa tentò una parziale riforma, imponendo in tutta l’Italia centro-settentrionale un unico tipo di denaro rivalutato per peso e lega, il «denaro imperiale», ma la svalutazione riprese quasi subito, in quanto l’aumento continuo delle transazioni e la scarsità del metallo prezioso disponibile producevano una penuria sempre maggiore di moneta, alla quale si ovviò in parte ideando pratiche commerciali piú evolute (come la lettera di cambio, equiparabile al moderno assegno), e in parte diminuendo il peso dei singoli pezzi e aggiungendo all’argento una quantità sempre maggiore di rame. Genovino in oro. 1252. L’introduzione di monete come questa rispose alle esigenze del commercio internazionale, che aveva fatto registrare l’aumento del volume delle transazioni.

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Nel 1252, in un momento in cui la crescita economica e demografica dell’Occidente medievale, lo sviluppo delle manifatture cittadine e delle produzioni rurali, nonché la rivoluzione commerciale erano ormai al culmine, e, parallelamente, l’egemonia degli imperatori svevi sulla Penisola era ormai in declino, lo sviluppo crescente delle transazioni internazionali impose il ritorno alla coniazione dell’oro: Genova, Firenze e Venezia produssero allora monete di metallo purissimo (il genovino, il fiorino e il ducato), tutte del peso di 3,5 grammi. A partire da quest’epoca si tentò, senza successo, di dare corpo alla lira: il fiorino d’oro coniato a Firenze nel 1252, infatti, valeva esattamente 240 denari d’argento correnti nella città in quell’anno, e voleva rappresentare appunto l’unità ideale di conto. Oltre ai motivi economici, per il governo guelfo della città di Dante la creazione della nuova valuta costituiva anche un notevolissimo traguardo di natura politica: la coniazione nella moneta rappresentava infatti una prerogativa sovrana per eccellenza, una di quelle regalíe per le quali i comuni dell’Italia centro-settentrionale avevano tanto a lungo lottato contro il Barbarossa. Come asseriva orgogliosamente il cronista Giovanni Villani «il fiorino era guadagnato per gli Fiorentini sopra loro molte vittorie» e a ciò si doveva la sua eccezionale stabilità. Sorretto dalle sempre piú consistenti transazioni commerciali dei suoi mercanti, il successo della valuta fiorentina, che portava nel mondo l’emblema del giglio e l’effigie di san Giovanni, fu subito immenso, non solo nella Penisola, ma in tutta l’Europa, il Nord Africa, il Levante e ogni parte del mondo conosciuto: da Pisa e Roma a Barcellona, a Parigi, Digione agosto

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Miniatura raffigurante il conio di un fiorino speciale, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

In basso tavola a colori raffigurante Gengis Khan in battaglia. Oltre che eccellente capo militare, Temujin (questo era il suo vero nome) diede prova di grandi capacità organizzative, rivelatesi decisive nel processo di formazione dell’impero mongolo.

In alto, sulle due pagine l’espansione dell’impero mongolo durante il regno di Gengis Khan e dei suoi successori.

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storie la lira

e alle fiere della Champagne, ai Paesi Bassi, alla Germania e all’Ungheria, ad Aleppo, San Giovanni d’Acri e al regno crociato di Gerusalemme, le transazioni piú importanti avvenivano in questa moneta, che anche le popolazioni delle regioni piú remote avevano imparato a riconoscere, accordandole fiducia. Esso rappresentava insomma – secondo le parole dello storico Carlo Maria Cipolla – «un solido mezzo di pagamento di valore unitario elevato, che desse affidamento di stabilità intrinseca per poter essere accettato anche fuori del ristretto mercato locale». La continua svalutazione dell’argento in rapporto all’oro fece sí che solo pochi anni dopo la sua prima coniazione il fiorino raggiungesse, di fatto, un valore

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molto superiore a quello della lira come moneta ideale di conto (= 20 soldi = 240 denari d’argento), tanto piú che, a differenza delle emissioni auree che lo avevano preceduto (come il tarí amalfitano e siciliano e l’augustale battuto dalle zecche di Federico II nel 1231) – il cui contenuto di oro fino non superava i 20,5 carati –, la moneta fiorentina si distingueva per i suoi 24 carati di metallo purissimo e per la stabilità del suo peso. Dai 20 soldi d’argento iniziali, necessari nel 1252 per ottenere un fiorino, si passò dunque ai 47 soldi dell’anno 1300 e ai 167 soldi del 1542. Non solo, quindi, il tentativo di materializzare la lira era completamente fallito, ma si era intanto creata una doppia circolazione monetaria, costituita da un lato da agosto

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Dritto di un ducato veneziano battuto al tempo del doge Pietro Gradenigo raffigurante san Marco che consegna il vessillo al doge. 1298-1311. Sulle due pagine Il Molo verso la Zecca con la Colonna di San Teodoro, olio su tela del Canaletto. 1735 circa. Milano, Castello Sforzesco.

zione francese e all’introduzione del sistema decimale con la divisione in centesimi, anziché in 240 denari, della lira francese, che dal 1795 prese il nome di «franco». Furono allora stabiliti un peso fisso di 5 grammi e un titolo fisso di 900 millesimi di argento, applicati anche alla lira italiana con decreto napoleonico del 1806. Solo in quest’epoca, quindi, venne coniata per la prima volta quella che era stata per un millennio l’unità monetaria ideale di quasi tutta l’Europa. F

Da leggere

circolante d’oro o d’argento di buon titolo, usato nelle transazioni piú importanti (moneta «grossa»), e, dall’altro, dalla «moneta piccola», sempre piú svilita, utilizzata per le spese quotidiane e il pagamento dei salari.

Un fallimento dopo l’altro

Per questo motivo anche i successivi tentativi di dar corpo materiale alla lira con pezzi di buon metallo, d’oro o argento, si rivelò sempre un fallimento, poiché, poco dopo la coniazione, il titolo del denaro a cui la lira era agganciata sviliva, col conseguente aumento del valore del pezzo materiale di buon metallo che avrebbe dovuto rappresentare l’unità ideale di conto. La lira rimase dunque un fantasma fino alla rivolu-

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Mario Bernocchi, Le monete della Repubblica fiorentina, Vol. III: Documentazione, Olschki, Firenze 1976; parte II Roberto S. Lopez, Settecento anni fa: il ritorno all’oro nell’Occidente duecentesco, in Rivista Storica Italiana, 65 (1953); pp. 19-55 Carlo M. Cipolla, Le avventure della lira, Il Mulino, Bologna 1975 Carlo M. Cipolla, Il fiorino e il quattrino. La politica monetaria a Firenze nel Trecento, Il Mulino, Bologna 1982 David Abulafia, Maometto e Carlo Magno: le due aree italiane dell’oro e dell’argento, in Storia d’Italia. Annali VI. Economia naturale, economia monetaria, Einaudi, Torino 1983; pp. 223-270 Richard A. Goldthwaite, Giulio Mandich, Studi sulla moneta fiorentina (secoli XIII-XVI), Olschki, Firenze 1994 Lucia Travaini (a cura di), Firenze 1252-2002: 750 anni del fiorino, Atti della Giornata elebrativa in ricordo del numismatico fiorentino Alberto Banti (Firenze, 16 novembre 2002), in Rivista italiana di numismatica e scienze affini, CVII (2006); pp. 403-469 Amedeo Feniello, Dalle lacrime di Sybille. Storia degli uomini che inventarono la banca, Laterza, Roma-Bari 2013; pp. 40-48 Franco Franceschi, 1252. Il fiorino di Firenze, il dollaro della crescita medievale, in Storia mondiale dell’Italia, Laterza, Roma-Bari 2017; pp. 262-266

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iconografia peccatori

Quell’avaro con la borsa al collo di Corrado Occhipinti Confalonieri

Usurai, truffatori, accumulatori di denaro: da Giotto a Dante, ma anche per tutto il Quattrocento, un variopinto programma iconografico ne decreta la condanna religiosa e sociale

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e riuscivano in un modo o nell’altro a campare gli è perché del reddito veniva volontariamente trasferito loro mediante la carità». Questa frase del grande storico Carlo Maria Cipolla (1922-2000) ben sintetizza il sistema di redistribuzione della ricchezza nel Basso Medioevo: in una società nella quale il 2% della popolazione deteneva il 50% dei beni, i frequenti periodi di carestia potevano far sí che fino al 20% degli abitanti si ritrovasse in condizioni di povertà La Chiesa fece proprio il diritto di redistribuire la ricchezza e considerò l’avarizia come un vizio capitale, poiché impediva la circolazione del benessere, cosicché, a partire dal XII secolo, si moltiplicarono le rappresentazioni di avari con appese al collo borse cariche di soldi. All’ingresso del Duomo di Lodi, per esempio, si può vedere la statua di un uomo con le mani sulle ginocchia, segno di potere, il quale porta al collo una borsa cosí gonfia di denaro che il peso lo ingobbisce, mentre sul suo volto compare un ghigno malefico. Sulla facciata della pieve di S.

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Padova, Cappella degli Scrovegni. Allegorie della Carità (a destra) e dell’Invidia (nella pagina accanto). La decorazione pittorica del monumento venne eseguita da Giotto, tra il 1303 e il 1305.

Maria Assunta a Fornovo di Taro (Parma), troviamo invece una formella che raffigura i sette vizi capitali e mostra un avaro con ben tre borse al collo, mentre sopra di lui i diavoli gli caricano sulle spalle un forziere pieno di denaro (vedi foto a p. 66). Anche le istituzioni pubbliche condannavano l’avarizia, perché conduce al disordine sociale, è ne-

mica del buon governo e incompatibile con i valori civili: ecco perché sui palazzi comunali di Mantova, Brescia e Padova vediamo gli avari rappresentati come infami. Dalla fine del XIII secolo, in una società ormai composita e complessa, la condanna dell’avarizia come vizio capitale era troppo generica per indurre al pentimento i agosto

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iconografia peccatori A sinistra Fornovo di Taro (Parma), S. Maria Assunta. Il rilievo al centro del quale è l’avaro con tre borse appese al collo. XIII sec. In basso, sulle due pagine miniatura raffigurante, sulla destra, Dante che parla agli usurai, da un’edizione della Divina Commedia illustrata da Priamo della Quercia. 1442-1450. Londra, British Library.

peccatori. Si sentí dunque l’esigenza di rappresentare la natura del peccato e di mostrare palesemente la sua punizione. L’inferno divenne allora un’accurata descrizione di lavoratori e professionisti in cui i vivi possono specchiarsi. In questo modo, macellai, calzolai, osti, giudici, notai, religiosi che vedono la loro immagine ritratta nel regno del male sono indotti a riflettere sul loro comportamento. Fu operata una distinzione fra le professioni lecite, ma esercitate con la frode per ottenere un illecito arricchimento, e quelle invece totalmente rifiutate dalla Chiesa, come l’usura. Il prestatore di denaro a interesse è condannato all’inferno senza appello, perché la sua attività non prevedeva la produzione e la trasformazione di materiale senza margine di rischio; di fatto, egli vendeva il tempo che intercorreva fra la concessione del prestito e la sua riscossione, ma il tempo appartiene solo a Dio. La pratica dell’usura si era peraltro talmente diffusa che si cercò di distinguere fra forme lecite e illecite. Si individuarono vie di fuga dall’in-

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ferno, come la restituzione in vita degli illeciti arricchimenti e, dopo la morte, le preghiere dei vivi sui morti che contribuirono all’imporsi del purgatorio come regno intermedio.

Un banchiere... generoso

Nella ricerca delle distinzioni fra i vari modi di concedere denaro, il caso piú famoso è quello del banchiere padovano Enrico degli Scrovegni. Per evitare di essere ricordato come un usuraio, fece dipingere a Padova, da Giotto, la famosa cappella dedicata a S. Maria della Carità (ma oggi piú nota con il nome della famiglia del committente), dove, fra i peccati, non c’è mai un riferimento diretto al prestito di denaro. In un affresco osserviamo la borsa trattenuta da Invidia (vedi foto a p. 65), mentre Carità (vedi foto a p. 65) calpesta sacche piene di ricchezze, come farina e grano, ma nessuna delle due immagini mostra le monete. L’iscrizione spiega che Karitas disprezza i beni terreni e preferisce distribuirli. Anche nella scena dei mercanti nel tempio è raffigurata solamente la compravendita di animali, mentre non ci sono cambiavaagosto

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lute e neppure denaro in evidenza. Il peccatore è quindi l’avaro che lo accumula, non chi lo finanzia. Come ha scritto Chiara Frugoni, «appare del tutto evidente la cura da parte del programmatore nell’evitare di rappresentare figure che alludano ai prestatori di denaro in situazioni negative» (L’affare migliore di Enrico, Torino 2008). Scrovegni volle insomma accreditarsi come il cittadino benefattore che concede il prestito per permettere la redistribuzione della ricchezza che fa crescere e prosperare la sua città. Dante elaborò invece una visione dell’uomo con la borsa al collo diametralmente opposta alle sfumature rappresentate da Giotto: collocò sia gli avari che gli usurai nel XVII canto dell’Inferno, nel girone dei violenti, fra bestemmiatori e sodomiti:

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«che dal collo a ciascun pendea una tasca / ch’avea certo colore e certo segno, / e quindi par che loro occhio si pasca». La tasca è la borsa su cui Dante identifica uno stemma dinastico, diverso per forma e per colore. La sua è una condanna totale di ogni forma di accumulo e prestito del denaro, senza distinzioni sociali, praticata dai potenti del clero, della nobiltà e della borghesia, fra cui anche Reginaldo degli Scrovegni padre di Enrico.

Lavoro fraudolento

La società trecentesca superò la rigorosa visione di Dante con la sola condanna della frode e della falsificazione. Negli affreschi del Giudizio Universale presso l’oratorio di S. Stefano a Lentate sul Seveso (MonzaBrianza; vedi anche «Medioevo» n. 263, dicembre 2018; anche on line

su issuu.com), attribuiti ad allievi di Giotto, non troviamo borse al collo dei dannati, ma solo i rispettivi peccati per aver condotto in modo fraudolento il proprio lavoro. Viene escluso esplicitamente, come a Padova, il prestito di denaro. Al di sotto di un diavolo che con i suoi artigli ghermisce un peccatore, assistiamo a un girotondo in cui due uomini hanno appesi al collo un coltellaccio e una mannaia con i perni sul manico (vedi foto a p. 69). Si tratta di due macellai, che sono accusati di frode perché, nonostante fossero sottoposti al controllo da parte delle autorità pubbliche, hanno aggirato la legge. Le regole sulla macellazione e sul commercio della carne sono molto severe e riguardano: l’omogeneità di pesi e misure; la disposizione su banchi

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iconografia peccatori diversi per evitare scambi fraudolenti; il divieto di macellare animali morti; la vendita solo di giorno, perché l’oscurità maschera la frode e la qualità della merce. Sopra i macellai, notiamo un uomo con una sfera al collo, che lo identifica come baro, perché contiene le schede che gli permettono di guadagnare con la truffa. Si tratta di un «ribaldo», una categoria giuridica di gente senza fissa dimora e senza un reddito sicuro, che comprende giocatori d’azzardo, sfruttatori di prostitute, finti invalidi mendicanti, giullari e saltimbanchi.

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In particolare, il gioco d’azzardo era visto dal predicatore Bernardino da Siena (1380-1444) come la pratica che piú spesso porta l’umanità a peccare e a perdere l’anima.

I doveri dell’oste

Nella parte superiore del girone notiamo un uomo con una caraffa e un boccale attorno al collo. Si tratta di un oste, che lavora nelle taverne – luogo in cui si incontrano, prostitute, bari e ubriaconi – e fra i suoi compiti ci sono anche quelli di impedire che gli avventori giochino d’azzardo e di vigilare che non be-

stemmino. In realtà è piú occupato a mescere il vino e ad annacquarlo, come si evince dal colore del vino nella brocca trasparente. Alla destra dell’oste, con le mani sul volto in segno di contrizione, troviamo un giudice oppure un notaio, perché al collo ha un calamaio e un portapenne. Il notaio sa leggere e scrivere, conosce e interpreta il latino quindi può scrivere un testo che non corrisponde a verità; il giudice esercita illecitamente il suo potere, nega l’appello al processo, è negligente ad assicurare una difesa, impedisce la verità e scrive sentenze

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sbagliate. Le due donne dai lunghi capelli biondi, di cui una con il seno in mostra, rappresentano la lussuria e la prostituzione. Davvero singolare è poi la rappresentazione dei peccati nel Giudizio Universale affrescato nella chiesa della Ss. Annunziata di Sant’Agata de’ Goti (1389-1404). Sulla sinistra di un enorme Cristo Giudicante, un albero della morte appare contrapposto a quello della vita. La condanna piú severa è riservata ai personaggi che detengono il potere, ma lo esercitano in modo iniquo, perché il loro comportamento alimenSulle due pagine Lentate sul Seveso (Monza-Brianza), oratorio di S. Stefano. Particolare degli affreschi della parete di fondo della chiesa (sorta fra il 1369 e il 1375 per volontà del nobile lombardo Stefano Porro) tra i quali è compresa la scena in cui si vede un gruppo di peccatori, tra i quali spiccano due macellai, riconoscibili per avere appesi al collo un coltellaccio e una mannaia. Le pitture sono opera di allievi giotteschi.

ta le ingiustizie (vedi foto a p. 70). Un pontefice nudo con la tiara in testa è condannato a essere segato a metà – in senso longitudinale – da due diavoli: la scritta lo identifica come Giuliano l’Apostata, anche se alcuni studiosi hanno riconosciuto in lui papa Urbano VI, definito l’Apostata, oppure l’antipapa Clemente VII, protagonisti dello Scisma d’Occidente (1348-1417). Intorno a lui vediamo gli attori delle ingiustizie: professionisti corrotti, truffatori, peccatori. La loro raffigurazione riprende la Visione di san Paolo, un testo apocrifo sull’Apocalisse molto diffuso nel Medioevo, che risale al V secolo d.C.: «E sancto Paulo pose mente alle porte del ninferno e vide arbori di fuoco ardenti; e gli peccatori saliano e discendiano per questi arbori, et instavano impesi in quelli arbori, tali per le mani, tali per li piedi, tali per le lingue, tali per gli orecchi». Rispetto alle rappresentazioni fin qui descritte, i peccatori non compaiono con il peccato al collo,

ma appesi ai rami dell’albero per il peccato: non sono piú persone ma frutti del peccato stesso.

Come un contrappasso

La drammaticità della scena e l’orrore che ne consegue sono sorprendenti: troviamo l’omicida legato per il collo; il blasfemo per la lingua; il ladro appeso per il braccio destro; la ruffiana trattenuta per i capelli, simbolo della seduzione femminile; il peccatore carnale penzola dal ramo per il proprio membro; il traditore per il piede destro; il sacrilego per la fune che gli cinge la vita; il falso testimone oculare per l’occhio destro. Tutti in una sorta di contrappasso, in cui l’organo che ha commesso il peccato diventa lo strumento del castigo eterno. Nella parte inferiore dell’affresco troviamo i dannati che, proprio per il fraudolento esercizio della loro attività, sono condannati a lavorare per sempre all’inferno. Un serpente morde le braccia al fabbro

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costume e societĂ


i tarocchi

monete, il dannato allo spiedo potrebbe essere un sodomita.

Leggere il futuro

Un monito per i fedeli

Dall’ultimo quarto del XIV secolo fanno la loro comparsa in Europa carte da gioco che rappresentano una vera novità. I rari mazzi giunti fino a noi sono tarocchi che non nascono per leggere il futuro, bensí come divertimento. Alle normali carte da gioco sono stati aggiunti ventidue «atout» con diversi simboli del mondo: il Papa, la Morte, il Giudizio Universale, la Papessa Giovanna e cosí via. I tarocchi piú belli appartengono alle famiglie aristocratiche, come i Visconti, gli Sforza e gli Estensi, e uno dei piú completi è appunto il «mazzo dei Visconti». Fu realizzato fra il 1441 (data del matrimonio tra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti) e il 1447, anno della morte del duca Filippo Maria Visconti, padre di Bianca Maria. Delle 78 carte originarie ne rimangono 74, di cui 35 alla biblioteca Pierpont Morgan a New York, 26 all’Accademia Carrara di Bergamo e 13 in collezione privata. Tutti i trionfi e le figure sono colorati con un fondo oro e tocchi d’argento per le armature e per le vesti, mentre le carte numerali hanno uno sfondo color crema con decorazione floreale.

In alto l’Appeso (o Impiccato) carta facente parte dei tarocchi «di Carlo VI», realizzati nell’Italia del Nord. Fine del XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto Sant’Agata de’ Goti (Benevento), chiesa della Ss. Annunziata. Particolare del Giudizio Universale affrescato nella controfacciata. XV sec.

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che utilizza la sua arte in modo errato, producendo armi per accoltellamenti, duelli, rapine o perché i manufatti sono piú piccoli e scadenti di quanto richiesto. Stessa sorte capita al banchiere, che è cambiavalute e può fare cambi errati; dare denaro falso perché conosce le leghe ed è usuraio. Giudice e notaio si trovano alla stessa scrivania con codici e pergamena, e confabulano perché sono complici nella truffa. Il calzolaio, intento a tagliare un pezzo di stoffa o di cuoio, ha usato materiale scadente per le scarpe vendute poi a caro prezzo; il sarchiatore (contadino) con in mano la roncola ha spostato i confini dei terreni; il mugnaio intento a macinare granaglie con la macina a pedale ha truffato sul peso; il macellaio mostra un pezzo di carne e l’oste brinda con in mano un grosso boccale. Un diavolo costringe l’usuraio a bere il metallo fuso con cui si coniano le

La strategica collocazione del Giudizio Universale all’uscita dalla chiesa fa sí che, dopo la messa, i fedeli trovino in quelle immagini terribili un monito a condurre con rettitudine le proprie attività. Il tema riprende quello della pittura infamante: una forma di giustizia municipale che consiste nel dipingere sul muro di casa i falsari, ritratti anche in scene grottesche, per sottoporli al pubblico scherno. Nell’ambito di un luogo sacro, queste immagini diventano terrificanti perché se i peccatori non si redimono, le torture diventano eterne. Di tenore analogo sono infine i cosiddetti «tarocchi di Carlo VI» (1368-1422), un mazzo realizzato in Italia alla fine del Quattrocento, oggi conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi, in cui compare la carta dell’Appeso (o Impiccato; vedi foto qui accanto). Appeso a testa in giú per il piede destro, tiene in mano due sacche colme di monete che rappresentano il prezzo del suo tradimento. Anche nella simbologia degli stati del mondo, quindi, si rappresentava in modo negativo chi guadagnava in modo fraudolento e non piú il prestatore di denaro, che faceva ormai parte a pieno titolo delle normali classi imprenditoriali nobili e borghesi. F

Da leggere Chiara Frugoni, L’affare migliore di Enrico: Giotto e la cappella degli Scrovegni, Einaudi, Torino 2008 Chiara Fugoni (a cura di), Lavorare all’inferno: gli affreschi di Sant’Agata de’ Goti, Laterza, Bari-Roma 2004 Giuliano Milani, L’uomo con la borsa al collo. Genealogia e uso di un’immagine medievale, Viella, Roma 2017

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arte delle antiche chiese/9

L’arte delle antiche chiese/9

NEL SOLCO DI

di Furio Cappelli; con un reportage fotografico di Stefano Suozzo

san Bernardo L’Ordine dei Cistercensi non si distinse solo per la specificità dei suoi principi, ma anche per essere stato fautore di una sorta di rivoluzione architettonica. E due degli esempi migliori di quella stagione si concentrano nelle terre del basso Lazio...

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Fossanova (Priverno, Latina). L’abbazia, di fondazione cistercense. La consacrazione dell’altare maggiore della chiesa, che segnava la conclusione del cantiere, avvenne per mano di papa Innocenzo III, nel 1208.

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arte delle antiche chiese/9

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an Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) viene spesso ritenuto l’iniziatore del movimento monastico cistercense, ma, in realtà, all’origine di quella vasta e rivoluzionaria esperienza vi fu lo spirito inquieto di Roberto di Molesme (1028 circa-1111). Nel 1098, insoddisfatto dello stile di vita instauratosi appunto nel cenobio di Molesme, si addentrò insieme a ventun confratelli nel fitto di una foresta della Borgogna e vi fondò il monastero di Cîteaux (da Cistercium, che significava: «al di qua della terza [pietra miliare]»). Cominciò cosí una grande riforma, che, in polemica con lo sfarzo mondano di Cluny (abbazia, fondata nel 910 da Bernone, che fu l’epicentro di una grande congregazione, n.d.r.), si proponeva di giungere a una rigorosa proposta di vita monastica, basata sull’ascetismo e sul lavoro. Intenti che si tradussero in un modello che avrebbe potuto essere trasmesso in modo chiaro e lineare. Il rigore delle strutture, in un piano fedelmente repli-

COME UNA PICCOLA CITTÀ 1. Negli scriptoria i monaci amanuensi copiano i testi. I libri sono conservati nella biblioteca, in questo caso situata al piano superiore. 2. La chiesa, piú o meno grandiosa, è l’edificio principale. 3. Il chiostro è il centro della vita monastica; qui i monaci meditano e possono trovare un po’ di svago. 4. La foresteria od ostello accoglie i pellegrini e gli ospiti di passaggio. È collegata all’edificio in cui si trovano la cantina e la dispensa.

5. La cucina e il ripostiglio per gli abiti sono situati sul lato ovest dell’abbazia. 6. Il chiostro può non essere unico: in questo caso ne esiste un altro per i novizi. Sul lato sud del chiostro si trova il refettorio comune. 7. I monasteri sono dotati di tutti i servizi. Accanto alle latrine si trovano i bagni; al piano superiore, la lavanderia. 8. Nella sala capitolare, al piano terra, l’abate tiene le riunioni amministrative. Al piano superiore, si trova il dormitorio dei monaci.

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Chiaravalle Milanese Danubio Morimondo Aiguebelle Le Garde-Dieu Valsainte Sénanque Castagnola Monte Acuto Silvacane S. Galgano Chiaravalle di Fiastra La Oliva Fontfroide S. Martino Le Thoronet Valbuena Roma Casamari Valbonne Fossanova Santes Creus Monsalud S. Maria delle Paludi S. Stefano Cadouin

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Mediterraneo

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L’ORDINE CISTERCENSE PPrincipali i i li monasterii di dipendenti d da: Clairvaux (80 femminili) Cîteaux (28 femminili) Morimond (28 femminili) Pontigny (16 femminili) La Ferté (5 femminili) Zona di grande densità monastica cluniacense e cistercense L’Ordine cistercense comprende 525 abbazie alla fine del XII sec. e 694 abbazie alla fine del XIII sec.

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Mappa che mostra la diffusione in Europa dell’Ordine cistercense, che conobbe un notevole sviluppo sotto la guida di san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153).

cato nei suoi aspetti essenziali, è un tratto che si ritrova nelle fondazioni cistercensi di tutta Europa. La semplicità lineare delle chiese andava di pari passo con la funzionale organizzazione degli spazi del cenobio. La sala capitolare e il dormitorio dei monaci erano sempre a est. Il dispensario e il dormitorio dei conversi (i laici che prestavano manodopera nelle attività agricole, edili e commerciali dei monasteri) erano sempre a ovest. Nacque in questo modo un’organizzazione ramificata e potente e di quella fioritura troviamo nel Lazio due splendidi esempi, direttamente gemmati dalla Francia centro-orientale.

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arte delle antiche chiese/9 Fossanova La storia

Se si lascia il tracciato dell’antica via Appia, tra Roma e Capua, e ci si inoltra nell’entroterra, in direzione dell’odierno borgo collinare di Priverno, Fossanova spicca a 5 km da lí, in una località isolata di pianura ai piedi dei Monti Lepini. Il cenobio originario fu fondato sul luogo di una villa rustica di età romana, e nei pressi sorgeva l’antica città di Privernum, abbandonata in modo definitivo nel XII secolo, quando tutti i suoi abitanti si erano ormai trasferiti nel nuovo insediamento d’altura.

L’arrivo dei monaci cistercensi fu reso possibile da una concessione di papa Innocenzo II (1130-1143), il quale, nel 1135, affidò loro la gestione del monastero benedettino originario di S. Stefano. Si trattava di una fondazione che risaliva forse all’epoca altomedievale, e non è dato sapere se il passaggio delle consegne abbia comportato un trasferimento della comunità ancora insediata o se alcuni suoi componenti abbiano accolto di buon grado il cambiamento, accettando le costituzioni di Cîteaux. Di certo giunse direttamente dalla Francia un «drappello» di monaci bianchi che pose le

L’interno della chiesa abbaziale si caratterizza per la sua sobrietà, ma, al tempo stesso, impressiona per la grandiosità dell’opera e per la cura riposta nella sua realizzazione. Le volte a crociera poggiano su pilastri maestosi, che, sul lato rivolto verso la navata centrale, ostentano semicolonne interrotte da mensole di forma conica, che danno luogo a un suggestivo effetto di «sospensione».

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basi di una nuova realtà, facendo tabula rasa di tutto ciò che vi era in precedenza. La grande istituzione cosí impiantata, in onore di S. Maria e di S. Stefano, era una filiazione dell’abbazia di Hautecombe, nella regione della Savoia, a sua volta emanata dalla Clairvaux di san Bernardo. Alla guida del nuovo cenobio, secondo la tradizione, vi fu in prima battuta un discepolo dello stesso Bernardo, il beato Gerardo martire. Il successore, Geoffroy (Goffredo) di Auxerre, arrivò a Fossanova dopo aver ricoperto l’incarico di abate a Clairvaux (1162-1165). Già allievo a

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Parigi di Pietro Abelardo (1079-1142) – lo sfortunato amante di Eloisa, finito sotto gli strali di san Bernardo e condannato dall’autorità ecclesiastica – Goffredo era entrato in giovane età nel mondo cistercense dalla porta maestra, come discepolo e segretario personale, oltreché biografo, del grande antagonista di Abelardo, Bernardo in persona. La svolta determinata dalla riforma del cenobio laziale emerge proprio dal toponimo Fossanova, che indica bene l’impegno profuso dai conversi nei lavori di bonifica dei terreni paludosi della Pianura Pontina, con la

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arte delle antiche chiese/9

realizzazione di un canale per la conduzione dell’acqua in esubero nell’alveo del fiume Amaseno. Vale la pena infatti sottolineare che in ogni paese europeo i monaci cistercensi legarono il proprio ricordo a opere di ingegneria idraulica di vario genere e notevole impegno. In Portogallo, nella chiesa monastica di Alcobaça, si legge un’epigrafe con la scritta Aque Ductus e con la rappresentazione di due mani con gli indici puntati, a segnare il chiusino in corrispondenza della condotta, per i necessari lavori di manutenzione. Tornando a Fossanova, si ritiene che la costruzione della chiesa sia stata avviata nel 1163. La consacrazione solenne dell’altar maggiore fu comunque compiuta nel 1208 da papa Innocenzo III (1198-1216), il

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grande ideologo della regalità della figura del pontefice e, come tale, sostanziale fondatore dello Stato della Chiesa. La sua venuta, qui come altrove dettata da una precisa volontà politica, non coincise con l’ultimazione dell’edificio, ma è comunque verosimile che i lavori fossero quasi al termine. Il complesso monastico si definí rapidamente intorno agli stessi anni, anche se alcune componenti furono aggiunte o modificate nei periodi seguenti. Altrettanto rapidamente si affermò l’importanza della fondazione sotto ogni riguardo. Il riflesso di Fossanova si legge infatti anche al di fuori della sua specifica realtà, grazie alle numerose fondazioni a cui dette vita fino in Calabria, cosí come al determinante agosto

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Il lato sud del chiostro, ingentilito dalla presenza di un pozzo, collocato in uno spazio distinto, quasi a voler ricavare un luogo di delizie.

influsso che la sua architettura ebbe in tante manifestazioni della nuova edilizia urbana, non solo in ambito sacro ma anche civile. Occorre anche immaginare che, qui come a Casamari, le severe norme della vita monastica non dovettero essere rispettate in modo impeccabile, soprattutto nei momenti dell’apogeo del cenobio. Le indagini archeologiche condotte negli anni 1994-1996 hanno infatti rivelato che i monaci facevano uso di ceramiche di alta fattura, provenienti dalle piú rinomate manifatture del mondo mediterraneo. Sono state poi rinvenute olle preposte alla bollitura delle carni. Tutto ciò indica che non solo i religiosi adottavano uno stile di vita di stampo signorile, ma aggiravano per giunta uno dei divieti piú

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espliciti della loro regola, riservandosi un certo quantitativo della carne dei propri allevamenti. Una flessione della floridezza si cominciò ad avvertire sul finire del XIV secolo. Ma, come accadeva spesso, la decadenza dell’istituzione coincise, a partire dal secolo XVI, con il ricorso alla commenda, cioè quando i pontefici decidevano di affidare i monasteri ad abati di fiducia (commendatari, appunto). Nel 1810, dopo varie vicissitudini, sopravvenne infine la soppressione napoleonica, ma già nel 1826 papa Leone XII aveva reintregrato il patrimonio e ricostituito la vita religiosa dell’abbazia, affidandola ai Certosini. Nel 1932 subentrarono i frati Minori Conventuali, che tuttora ne detengono la gestione.

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arte delle antiche chiese/9

Galleria del chiostro, angolo sud-est. Si nota bene la differenza tra la raffinatezza gotica del braccio sud e la severità romanica del braccio est.

La visita

Poche costruzioni riescono a evocare la purezza e il rigore dell’architettura cistercense come la chiesa abbaziale di Fossanova. Edificata interamente in travertino, ha un suo fascino particolare già soltanto per la veste costruttiva, con apparati murari realizzati in tecnica impeccabile, in conci perfettamente squadrati e ordinati su filari regolari. I volumi risultano netti, lineari, senza alcuna concessione a elementi curvilinei o a qualunque articolazione. Si concede spazio aereo solo a una torre di crociera, posta all’incrocio tra la navata e il transetto. L’effetto decorativo è dato essenzialmente dal gioco delle sporgenze dei contrafforti o dalla cesura delle cornici, ma la facciata mostra senza dubbio una ricercatezza particolare. Sembra sia stata realizzata in una fase finale, quando, evidentemente, la severità dell’impostazione generale lasciò spazio a un certo qual desiderio di

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finezza ornamentale. Ecco allora che si apre un grande ed elaborato rosone, raccordato a un portale adorno di un mezzo rosone nella lunetta, per giunta realizzato con finiture a mosaico, secondo lo stile dei maestri cosmateschi (quei musivari di gran classe che proprio tra XII e XIII secolo dominavano la scena della decorazione architettonica a Roma). Doveva completare l’insieme un portico, previsto ma mai realizzato. A fronte dell’indubbia fastosità tecnica, l’interno mostra una veste davvero scarnita. Unica nota decorativa sono i capitelli realizzati «in serie», ma la bellezza scaturisce piuttosto dalla grandiosità e dall’accuratezza dell’insieme. Un apparato continuo di volte a crociera ricade sui pilastri con una ritmica di perfetta armonia (da notare le semicolonne rivolte verso la navata centrale, interrotte da mensole di forma conica, con un elegante effetto di «sospensione»). La verticalità dell’impianto è attutita e ricondotta a una norma proporzionale grazie agosto

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In alto l’interno della sala capitolare. A sinistra Madonna regina tra gli arcangeli Michele e Gabriele, affresco. X-XI sec. Fossanova, Museo Medievale.

alla cornice orizzontale che corre sulle pareti della navata. Le finestre sono semplici monofore, con particolari effetti di luce, però, grazie agli sguanci, svasati ai lati e modellati da gradini nel mezzo. L’intero annesso complesso monastico merita poi una particolare attenzione. Il chiostro mostra su tre lati un’impostazione decisamente spartana, con il categorico rifiuto di qualsiasi forma di ornato. Le gallerie sono chiuse da pareti traforate in basso da semplicissime archeggiature su colonne. Tutto cambia, radicalmente sul lato sud: si inserisce all’improvviso una nota di leggerezza, con le pareti ampiamente traforate da un raffinato apparato scultoreo, e il pozzo viene contornato da uno spazio distinto, come un luogo di delizie. Sembra giunta d’incanto la fascinazione irresistibile del chiostro normanno di Monreale. Mentre la sala capitolare si spinge ben oltre la ricercatezza tecnica ed estetica della chiesa, con un

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effetto di innegabile nobiltà, il refettorio dei monaci ha l’aspetto spoglio di un vasto fienile, realizzato tuttavia con estrema finezza nei suoi dettagli. Grandi archi scandiscono lo spazio sostenendo le travature, e una gradinata perimetrale permette di accedere al pulpito, dove si svolgevano le letture durante i pasti. La grande sala della foresteria accoglie oggi la sezione medievale del Museo Archeologico di Priverno (www.privernomusei.it). Tra gli elementi di maggiore interesse si segnala l’affresco dell’altare maggiore dell’antica cattedrale, abbandonata nel XII secolo. Si tratta di una pregevole Madonna regina tra gli arcangeli Michele e Gabriele, databile tra il X e l’XI secolo. Negli scavi che hanno interessato l’abbazia è stato inoltre individuato un elaboratissimo tabernacolo in pietra per la custodia delle ostie consacrate, che è stato possibile ricomporre parzialmente. Doveva impreziosire uno degli altari della chiesa (XIII secolo).

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arte delle antiche chiese/9 Casamari La storia

L’abbazia sorge in una località di bassa collina tra Frosinone e Sora, in piena Ciociaria. Il luogo ha una lunga vicenda insediativa, dal momento che lí sorgeva un municipium di età romana il cui nome era Cereatae Marianae. La duplice denominazione era dovuta al fatto che la città era dedicata alla dea Cerere e accoglieva per giunta una residenza del celebre console Caio Mario, forse il suo stesso luogo di nascita. L’attuale toponimo Casamari indicherebbe appunto la sua dimora. I segni della realtà romana sono peraltro consistenti e signi-

ficativi. Oltre ai numerosi reperti raccolti nel museo allestito all’interno del monastero, proprio nei pressi dell’abbazia si notano un acquedotto e un ponte antico gettato sul torrente Amaseno. Come nel caso di Fossanova, anche qui preesisteva un cenobio benedettino di cui però non si possiedono indicazioni attendibili. Sembra comunque che intorno alla metà dell’XI secolo i monaci avessero realizzato una chiesa a tre navate di non grandi dimensioni, riutilizzando ampiamente il materiale antico reperibile nei pressi. A questa struttura apparterrebbero gli elementi architettonici raccolti nell’atrio, dove si osCasamari (Frosinone). La facciata dell’abbazia, dove i Cistercensi si sarebbero installati nel 1140, in coincidenza con la venuta di Bernardo di Chiaravalle. A sinistra, nel riquadro, l’interno della chiesa abbaziale.

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servano capitelli medievali a semplici foglie d’acqua, basi attiche e fusti scanalati. L’inizio dell’avventura cistercense a Casamari coinciderebbe nientemeno con la venuta di san Bernardo in questo luogo, nel 1140, durante una delle sue frequenti visite in Italia. La stessa comunità benedettina avrebbe abbracciato con favore l’idea di adottare le costituzioni di Cîteaux. Secondo un’altra versione dei fatti, tramandata da una Cronaca – un po’ tendenziosa – del XIII secolo, il cenobio era stato pressoché abbandonato e ridotto in stato pietoso dai «monaci neri», e il papa in persona, dopo aver visto un tale sfacelo

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con i propri occhi, decise di affidarlo ai «monaci bianchi». Di sicuro, comunque, Casamari era già «figlia» di Clairvaux durante il pontificato di Eugenio III (11451153), che fu discepolo di san Bernardo e che era giunto in Italia per fondare, nella stessa Roma, l’abbazia di S. Paolo alle Tre Fontane. Il primo documento che menziona un abate cistercense di Casamari, Giovanni, è appunto una lettera scritta da quel papa nel 1151. Innocenzo III si fece volentieri coinvolgere anche per questa chiesa abbaziale e ne benedisse la prima pietra nel 1203. Papa Onorio III (1216-1227) provvide alla consacrazione dell’altar maggiore il 15 settembre 1217,

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arte delle antiche chiese/9 con dedica a Maria e ai santi Giovanni e Paolo. Una bolla emanata dallo stesso pontefice nel 1220 permette di individuare un responsabile di primo piano nella realizzazione dell’edificio, il monaco Guglielmo da Milano. Tra gli ospiti illustri del monastero, una menzione d’obbligo spetta a Federico II, che fu qui nel 1221, allorché doveva incontrare papa Onorio a Veroli, per discutere sulla sua partecipazione alla V crociata. Nella stessa occasione lo Svevo ottenne la condivisione dei beni spirituali dell’abbazia, in linea con una già evidente attenzione nei riguardi dell’Ordine. Ma va anche ricordato che il grande mistico Gioacchino da Fiore (1130 circa-1202) vestí l’abito cistercense presso l’abbazia di Sambucina (Cosenza), che era una filiazione di Casamari, e passò un periodo molto prolifico proprio a Casamari, nell’arco di un anno e mezzo, tra il 1183 e il 1184. L’attività espansiva del cenobio laziale fu molto consistente, ed ebbe forti risvolti anche in Toscana, che fu l’ultima area dell’Italia a conoscere l’espansione dei Cistercensi, con ripercussioni anche lí molto incisive nella vita stessa e nella cultura delle comunità urbane. Basterà ricordare che la celebre abbazia di S. Galgano, che è appunto una filiazione di Casamari, forní a Siena personaggi di primo piano nella gestione dei cantieri piú importanti (come quello della cattedrale), e molti suoi monaci entrarono a svolgere ruoli essenziali nella canA sinistra una delle finestre che, nel 1950, sono state provviste di schermature in onice, tali da diffondere una luce calda e dorata all’interno della chiesa. Nella pagina accanto, in alto il chiostro dell’abbazia, scandito da archi e capitelli di notevole eleganza. Nella pagina accanto, in basso la sala capitolare, considerata fra le piú felici espressioni dell’architettura cistercense.

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celleria stessa del comune. Casamari visse un declino per molti versi simile a quello di Fossanova, a differenza della quale è però riuscita a mantenere con pervicacia una certa continuità di vita religiosa. Solo dopo la soppressione napoleonica (1810), negli anni 1811-1814, i monaci non hanno avuto modo di gestire l’abbazia, che tuttora ospita una comunità cistercense.

La visita

Prima ancora di raggiungere la chiesa, l’abbazia ci accoglie con una singolare struttura di tipo palatino. La porta di ingresso è infatti sormontata da una probabile aula di ricevimento, degna di una corte, in seguito trasformata come residenza dell’abate commendatario. Di fianco all’entrata è presente il dispensario per i poveri e per i pellegrini. La chiesa abbaziale è spesso definita «sorella» di Fossanova, ma non mancano elementi di distinzione. La facciata, completa del consueto portico, ha un semplice rosoncino lobato (senza la raggiera a colonnine), ed è cosí molto piú in linea con lo standard delle chiese cistercensi. Una elaborata e insolita decorazione floreale, sia pure trattata con uno schema prettamente geometrico, caratterizza tuttavia la lunetta del portale, inquadrato per giunta da una ampia e articolata strombatura. All’interno si nota che le volte sono piú elaborate rispetto a Fossanova. Sono infatti dotate di costoloni sulle nervature. In modo alquanto insolito, poi, la torre di crociera non si trova sulla campata di incrocio tra navata e transetto, ma sulla campata successiva, a ovest. Potrebbe trattarsi di un «capriccio» comunque giustificabile in base ad alcuni rapporti proporzionali. Due altari del transetto conservano inoltre i paliotti originali in pietra istoriata, con fantasie floreali, viticci ed elementi simbolici. Se, nella prima cappella a sinistra, l’opera ha un accento quasi altomedievale, nella corrispondente cappella a destra, la raffinatezza dell’intaglio ricorda gli effetti dei decori a stucco e delle tappezzerie. L’effetto di luce dorata dato dalle schermature in onice delle finestre, molto piacevole, è frutto di un intervento di restauro del 1950. Il chiostro si pone in una fase intermedia tra i due momenti già osservati nella corrispondente struttura di Fossanova. C’è ancora il tratto «rigorista» del muro continuo traforato dalle luci, ma gli archi e i capitelli sono trattati con notevole eleganza. Non manca poi una curiosità: nel lato sud, caso unico in una decorazione che rifugge rigorosamente l’immagine umana o bestiale, un capitello mostra una testa coronata, mentre due ulteriori ritratti sono presenti nel capitello a fianco: una figura virile non caratterizzata e un monaco. Il re viene tradizionalmente identificato con Federico II. La sala capitolare è ancor piú raffinata dell’esemplare di Fossanova. Si tratta davvero di un saggio di «regaagosto

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Da leggere

le» perfezione, degno di un sontuoso ambiente di corte. Di tutt’altro segno, ma altrettanto memorabile, è il dispensario che si trova nell’ala dei conversi, sul braccio occidentale del complesso. È una struttura a due navate con una spina centrale costituita da sette poderosi pilastri cilindrici. Proprio perché si tratta di uno spazio a carattere prettamente funzionale, privo di qualsiasi aspetto ornamentale, lascia stupefatti per l’efficacia e la spoglia eleganza del suo linguaggio architettonico. F

NEL PROSSIMO NUMERO ● Abruzzo: Casauria, S. Clemente

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Lelia Fraccaro De Longhi, L’architettura delle chiese cistercensi italiane, Ceschina, Milano 1958 Federico Farina, Benedetto Fornari, L’architettura cistercense e l’abbazia di Casamari, Casamari 1981 Georges Duby, San Bernardo e l’arte cistercense, Einaudi, Torino 1982 Louis J. Lekai, I Cistercensi. Ideali e realtà, Certosa di Pavia, Firenze 1989 Melinda Mihályi, Angiola Maria Romanini, Valerio Ascani, Carla Ghisalberti, Helen J. Zakin, Marina Righetti TostiCroce, Cistercensi, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1993; on line su treccani.it Terryl N. Kinder, I Cisterciensi. Vita quotidiana, cultura, arte, Jaca Book, Milano 1997 Carlo Tosco, Andare per le abbazie cistercensi, Il Mulino, Bologna 2017

NELLE PUNTATE PRECEDENTI ● Piemonte (n. 263, dicembre 2018); Valle d’Aosta (n. 264, gennaio 2019); Lombardia (n. 265, febbraio 2019); Veneto (n. 266, marzo 2019); Emilia-Romagna (n. 267, aprile 2019); Toscana (n. 268, maggio 2019); Umbria (n. 269, giugno 2019); Marche (n. 270, luglio 2019)

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di Paolo Grillo

Particolare della Pala di Brera raffigurante Federico di Montefeltro (per l’immagine completa e la descrizione dell’opera, vedi a p. 94).

FEDERICO DI MONTEFELTRO

Il migliore Fin da bambino, la parabola del duca di Urbino sembrò quella di un predestinato. Ma la straordinaria ascesa di uno dei massimi protagonisti del Quattrocento italiano fu resa possibile, innanzitutto, dalle sue doti di abile condottiero e illuminato statista. A cui si aggiunse l’amore per le arti e le lettere, testimoniato dal grandioso Palazzo Ducale voluto nella capitale del ducato


Dossier

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a vita di Federico di Montefeltro ebbe, sin dalla nascita, quei caratteri romanzeschi che ben ci si aspetta da un principe destinato a costruire la sua fama nel turbolento panorama del Quattrocento italiano. Suo padre Guidantonio, conte di Montefeltro e Urbino, afflitto dalla sterilità del suo matrimonio con Rengarda Malatesta, lo concepí nel 1422 nel corso di una relazione extraconiugale con una donna nubile di Gubbio. Costei, la cui identità è purtroppo ignota, aveva contemporaneamente una tresca anche con il nobile Bernardino Ugolini della Carda: voci insistenti, messe in circolazione dalla stessa Rengarda, attribuivano dunque a quest’ultimo la paternità. Nonostante Guidantonio avesse esplicitamente riconosciuto Federico come suo figlio, i dubbi restarono, tanto che persino Pierantonio Paltroni, suo biografo ufficiale, do-

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vette cavarsela dichiarando che Federico era comunque «nato da preclarissima stirpe», in quanto sia Guidantonio sia Bernardino discendevano da famiglie di grande fama.

Inviso alla matrigna

Nel 1423, alla morte di Rengarda, Guidantonio da Montefeltro si risposò con la nipote di papa Martino V, Caterina Colonna, dalla quale ebbe un figlio maschio, Oddantonio, e tre femmine. Benché una bolla pontificia gli avesse riconosciuto il diritto di succedere al padre, Federico dovette passare in secondo piano dopo la nascita dell’erede legittimo. Per sottrarlo all’ostilità della matrigna, nel 1427, il piccolo fu promesso sposo a Gentile Brancaleoni – di cinque anni piú anziana, erede della contea della Massa Trabaria – e alloggiato a casa della suocera, Giovanna Alidosi. Paradossalmente, il destino di

figlio cadetto garantí a Federico una giovinezza piú vivace e stimolante di quella del fratellastro. Assai piú «spendibile» di Oddantonio, venne infatti inviato per lunghi soggiorni nelle città del Nord Italia, dove ebbe occasione di studiare e di entrare in contatto con un mondo decisamente meno provinciale del natio Montefeltro. Rimasto in patria, Oddantonio sembra fosse diventato un individuo assai piú grezzo, dedito, come passatempo principale, a una smodata lussuria. Anche Federico, in realtà, si fece rapidamente una fama di tombeur de femmes ma, mentre corteggiava le fanciulle dedicando loro sonetti e canzoni, Oddantonio, secondo la testimonianza di Enea Silvio Piccolomini, si dilettava a violentare le popolane, pur non trascurando talvolta di molestare anche le nobildonne. Pruderie a parte, gli anni della

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Nella pagina accanto Battaglia di San Romano, tempera su tavola di Paolo Uccello. 1435-1440. Firenze, Gallerie degli Uffizi. L’opera faceva parte di un ciclo di tre dipinti che celebrava la vittoria dei Fiorentini sulle truppe senesi e sull’alleanza guidata dal duca di Milano. In basso lo stemma nel soffitto della biblioteca del Palazzo Ducale di Urbino. Al centro campeggia un’aquila, emblema dei Montefeltro, circondata da una corona di cherubini e da una raggiera.

l’albero genealogico

Un’ascendenza incerta =

Antonio da Montefeltro Conte di Urbino

Agnesina de’ Prefetti di Vico

(† 1404)

(† 1416)

(1404)

Guidantonio Conte di Urbino

Galeazzo Malatesta = Battista di Montefeltro Signore di Pesaro

(madre non identificata)

(† 1442)

(† 1452)

(† 1450)

(1422)

Elisabetta = Pier Gentile Malatesta Varano († 1477) Signore di Camerino († 1433)

Costanza Varano († 1447)

(1444)

= Alessandro Sforza Signore di Pesaro († 1473)

giovinezza furono fondamentali nella formazione di Federico, che ebbe modo di ampliare decisamente i suoi orizzonti geografici e culturali, nonché di crearsi una rete di contatti e di amicizie destinata a essergli assai utile in futuro. Nel 1433, all’età di 11 anni, fu trattenuto per 15 mesi come ostaggio a Venezia, garante per una pace mediata dalla Serenissima. Fra il 1434 e il 1436 l’adolescente Federico soggiornò invece nella Mantova gonzaghesca, uno dei cuori culturali dell’Italia padana, dove ebbe l’occasione di studiare con uno dei piú grandi umanisti dell’epoca, Vittorino da Feltre. Qui incontrò anche l’imperatore Sigismondo, che lo insigní del cingolo cavalleresco. Nel 1438,

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(1460)

Federico II I Duca di Urbino

=

(1422-82)

Battista Sforza (1446-72)

V

infine, fresco di matrimonio con Gentile Brancaleoni, fu inviato a Milano. Questa volta, però, non si trattava di un viaggio di studio: a sedici anni, infatti, il figlio di Guidantonio aveva raggiunto l’età per imparare la professione del suo futuro, il mestiere delle armi.

La carriera militare

In questa occasione, la strada di Federico tornò a incrociarsi con quella del suo possibile padre naturale, Bernardino Ubaldini, vicario di Guidantonio e comandante della

cosiddetta «compagnia feltresca», composta da circa 800 cavalieri e da un numero doppio di scudieri e assistenti, postasi al servizio dei Visconti. Morto Bernardino, infatti, Federico ereditò il comando su metà della milizia, iniziando cosí la propria carriera di condottiero. Per un quindicennio, nonostante qualche pausa dovuta a ferite piú o meno gravi, combatté quasi ininterrottamente su tutto lo scacchiere dell’Italia centrale, guadagnandosi fin dal 1441 una fama di tutto rispetto, grazie alla conquista della

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Dossier Le compagnie di ventura

Alla ricerca dell’affidabilità L’uso delle milizie mercenarie, che caratterizzò la storia degli Stati italiani fra tardo Medioevo e Rinascimento, conobbe un brusco cambiamento fra Tre e Quattrocento. Sino ad allora, infatti, città e signori si erano affidati alle cosiddette «compagnie di ventura», spesso composte da miliziani stranieri – francesi, tedeschi, inglesi o spagnoli –, prive di legami con il territorio e sempre a disposizione del migliore offerente. I limiti di tale atteggiamento furono presto evidenti: i mercenari, infatti, erano totalmente inaffidabili, mantenevano sotto costante ricatto i loro datori di lavoro e nei periodi di inattività, non avendo altre fonti di reddito, si davano autonomamente alla guerra e al saccheggio. malatestiana rocca di San Leo, sino ad allora ritenuta inespugnabile. Anche dopo la propria ascesa al principato del Montefeltro – avvenuta nel 1444 e di cui si parlerà piú diffusamente in seguito – Federico non rinunciò ai propri incarichi militari, facendone anche uno strumento di governo. I proventi delle sue condotte divennero infatti la principale entrata statale.

Mai un voltafaccia

Negli anni Quaranta del Quattrocento, la situazione politica italiana era assai confusa. Al Nord, Filippo Maria Visconti era in continuo stato di guerra contro Venezia, Firenze e la Savoia, mentre al Sud Alfonso d’Aragona, che aveva da poco conquistato Napoli, doveva affrontare la minaccia di una riscossa angioina appoggiata dalla Francia. Nel vasto Stato pontificio, infine, le ambizioni di personaggi quali Francesco Sforza, Pandolfo

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La soluzione fu trovata nell’uso, perdurato per tutto il Quattrocento, di utilizzare condottieri italiani, scegliendoli fra titolari di piccole dominazioni, oppure compensando i loro servigi con l’attribuzione di castelli e feudi. In tal modo i comandanti militari diventavano piú controllabili: una base territoriale li inseriva piú saldamente nel gioco diplomatico e, d’altro canto, ne moderava le pretese e i voltafaccia, poiché una condotta troppo spregiudicata avrebbe potuto irritare eccessivamente coloro che li avevano assoldati e portare come conseguenza alla perdita dei castelli, del patrimonio e, come accadde al conte di Carmagnola, anche della vita.

Redditi e prestigio di Federico crebbero in proporzione: nel 1446 portò 405 lance (ossia squadre formate da un cavaliere e da due o tre uomini di supporto) al servizio dei Fiorentini. Quando la condotta gli fu rinnovata, nel 1448, i cavalieri erano saliti a 506. Nel 1452 entrò alle dipendenze di Alfonso d’Aragona con 500 lance, che, nell’anno successivo, salirono a 700. Contemporaneamente, crescevano anche i compensi da lui percepiti, fino a raggiungere, nel 1453, l’ingente cifra di 86 000 ducati annui: per fare un paragone, si consideri che con 13 000 ducati, nel 1445, Federico aveva potuto comprare la signoria su Fossombrone e tutto il suo territorio, allargando cosí considerevolmente le frontiere del suo Stato. Un colpo piuttosto grave alla carriera e alle entrate del condot-

Malatesta e Federico stesso, desiderosi di crearsi ampi domini, causavano una continua instabilità. I margini d’azione erano dunque molto larghi per il condottiero feltrino, che poté passare dal servizio dei Visconti a quello pontificio, per poi militare al soldo dei Fiorentini e successivamente di Francesco Sforza, dopo che questi si fu impadronito del ducato di Milano, e infine arruolarsi sotto le insegne aragonesi. Si noti comunque che il Montefeltro ebbe l’accortezza di concludere sempre tutti i contratti e di non cambiare mai bandiera senza il permesso del principe che in quel momento lo stipendiava. Si costruí in tal modo una solida reputazione di affidabilità, che contribuí non poco ad aumentare il valore dei suoi servigi, preferiti normalmente a quelli di Pandolfo Malatesta, piú brillante nel comando, ma anche maggiormente umorale e imprevedibile. agosto

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tiero fu portato dalla pacificazione generale a cui giunsero i principali Stati italiani nel 1454, con la conclusione della pace di Lodi e la stipulazione della Lega Italica, che impegnava Milano, Venezia, Firenze, Napoli e il Papato a una politica di non aggressione reciproca e al mantenimento dell’equilibrio raggiunto nella Penisola. Per oltre un decennio Federico dovette accontentarsi di modesti contratti da tempo di pace.

Un vicinato difficile

In compenso, fu occupato in una lunga sequela di conflitti confinari con il vicino dominio malatestiano: soltanto fra il 1462 e il 1463 riuscí a volgere la lotta in suo favore, prima piegando le milizie di Pandolfo Malatesta sul piano della Marotta, poi strappandogli Senigallia e riducen-

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In alto verso di una medaglia di Filippo Maria Visconti raffigurante il duca di Milano a cavallo con in mano la lancia, opera del Pisanello. XV sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. In basso allegoria della gloria mondana di Francesco Maria Sforza, tempera su pergamena di Giovan Pietro Birago. 1490-1496. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

done il dominio alle sole Rimini e Cesena. Anche quest’ultima venne poi fagocitata dal dominio pontificio nel 1465. I buoni rapporti intessuti da Federico con tutti i protagonisti della Lega Italica, dagli Sforza al papa, da Venezia a Firenze, per finire con gli Aragona di Napoli, gli consentirono inoltre di acquisire un ruolo di prestigio nelle vesti di capitano generale delle milizie della Lega stessa. La qualifica divenne vieppiú preziosa quando, dopo neppure quindici anni, la pace generale iniziò a scricchiolare e le grandi potenze regionali ricominciarono a competere, scatenando piccole, ma non per questo meno insidiose guerre locali. Nel 1467 Federico dovette confrontarsi con un altro grande condottiero, Bartolomeo Colleoni, inviato da Venezia a portare disordine

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Dossier nelle province pontificie: pur senza infliggergli sconfitte decisive, riuscí a indurlo alla ritirata dopo una sanguinosa campagna. Due anni dopo, al contrario, fu impegnato contro le truppe papali che volevano strappare Rimini agli eredi di Pandolfo Malatesta: con l’appoggio degli

Aragonesi, riuscí a piegare le milizie avversarie a Mulazzano, il 30 agosto 1469, il che portò al reinsediamento della dinastia un tempo rivale a Rimini e a Fano. Nel 1472 Federico fu agli ordini di Firenze, nel domare la rivolta di Volterra, conclusasi con un duro saccheggio della città.

Federico di Montefeltro ottenne numerose e prestigiose onorificenze, arrivando a essere insignito dell’Ordine della Giarrettiera dal re d’Inghilterra Edoardo IV

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L’evidente logorio della Lega Italica tornava a offrire occasioni di lavoro e di arricchimento ai condottieri, ma l’ormai ultracinquantenne Federico non era piú cosí bramoso di approfittarne. Da un lato le sue condizioni fisiche – nel 1477 una brutta caduta gli aveva menomato la gamba sinistra – non lo invogliavano a stare in campo, dall’altro, da principe avveduto, si accorgeva che anche il suo Stato avrebbe tratto vantaggio dal mantenimento della pace generale. Il condottiero, che dal marzo del 1474 poteva fregiarsi del titolo di duca per concessione papale, era infatti ormai un personaggio di primo piano nel gioco politico dell’Italia quattrocentesca. Il suo prestigio si misurava anche dalla stima di cui godeva presso le corti e che si tradusse in una sequela di importanti onorificenze: il titolo di gonfaloniere della Chiesa, l’Ordine dell’Ermellino (la piú

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L’espediente che ne ha fatto un’icona Il profilo di Federico di Montefeltro è forse il piú famoso del Medioevo e del Rinascimento italiano. Immortalato in vari ritratti – fra cui questo, celeberrimo, dipinto da Piero della Francesca fra il 1473 e il 1475 e oggi conservato a Firenze, nelle Gallerie degli Uffizi –, pur essendo una ripresa degli stilemi classici, aveva anche una motivazione molto pratica. L’avventuroso Federico, infatti, partecipando a un torneo nel 1451, ebbe un pauroso incidente: la lancia dell’avversario si infilò fortuitamente nella visiera del suo elmo e gli portò via parte del naso e l’occhio destro. Rimasto guercio e sfigurato, il signore urbinate decise di celare la sua menomazione, offrendo ai pittori – e ai posteri – soltanto il suo profilo migliore, reso in effetti vieppiú riconoscibile, ai nostri occhi, dalla particolare forma del naso mutilato.

importante onorificenza aragonese) e addirittura l’Ordine della Giarrettiera, concessogli dal re di Inghilterra Edoardo IV. Il nuovo approccio di Federico ai problemi italiani venne messo alla prova nel 1478, quando, a Firenze, Giuliano de’ Medici rimase vittima della congiura dei Pazzi. Ne nacque una profonda crisi fra Lorenzo il Magnifico e papa Sisto IV, sospettato di essere l’ispiratore dell’azione. Con l’appoggio degli Aragonesi, la Santa Sede mosse guerra alla città toscana. Il duca di Montefeltro si trovò in una posizione imbarazzante, poiché aveva sempre goduto di una profonda amicizia da parte dei Medici, ma non poteva sottrarsi al suo ruolo di comandante generaNella pagina accanto Venezia. Il monumento equestre a Bartolomeo Colleoni realizzato da Andrea del Verrocchio tra il 1480 e il 1488.

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Dossier le delle forze papali e napoletane. Nell’estate del 1478 si risolse a invadere la Repubblica fiorentina, muovendosi però in modo per lui inusuale: invece di avanzare con decisione verso la capitale, perse tempo in una successione di piccole spedizioni e lunghi assedi a località minori, sempre rifiutando gli scontri campali con l’esercito avversario. Mentre guadagnava tempo in tal modo, poté cosí adoperarsi per una riconciliazione fra Ferdinando d’Aragona e il Magnifico, effettivamente conclusa nell’anno successivo nonostante l’opposizione pontificia.

Si spezzano gli equilibri

La Pala di Brera, olio su tavola di Piero della Francesca che raffigura la Madonna in atteggiamento di preghiera dinanzi a Gesú bambino e affiancata da figure di angeli e di santi. 1472. Milano, Pinacoteca di Brera. Sulla destra, in ginocchio, è ritratto Federico di Montefeltro, committente dell’opera, con indosso l’armatura.

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Federico era allora all’apogeo della sua fortuna politica e militare. Oltre al prestigio diplomatico conseguito, aveva ai suoi ordini una compagnia di ben 1500 cavalieri, assistiti da altri 2500 uomini a cavallo e da oltre 4000 fanti. Per porla al servizio degli Aragonesi, poté richiedere un compenso di oltre 120 000 ducati annui. Tuttavia, il fragile tessuto della politica dell’equilibrio e della Lega Italica era ormai troppo sfilacciato. Le guerre fra gli Stati, che avevano costituito la radice prima dei successi del duca, ora rischiavano di minacciare le posizioni raggiunte. Il colpo mortale alla pace venne inferto il 2 maggio 1482, con lo scoppio della guerra di Ferrara, mossa da Venezia contro gli Estensi per la supremazia nell’area del delta del Po. Dovere della Lega era muovere a difesa dell’aggredito, e dovere di Federico, in quanto capitano della Lega stessa, era di prendere il comando delle operazioni. Zoppo, orbo e tormentato dalla gotta, il duca si mosse alla testa delle sue truppe, fra le lagune del Polesine, nel caldo estivo. La vittoria di Campomorto sulle milizie venete guidate da Alfonso di Calabria fu l’ultima della carriera di Federico: ammalatosi, venne trasferito d’urgenza a Ferrara dove morí, sessantenne, il 10 settembre 1482. agosto

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Urbino. Il cortile del Palazzo Ducale, capolavoro dell’architetto Luciano Laurana, percorso da due iscrizioni celebrative di Federico.

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Dossier

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UN SIGNORE ILLUMINATO

uidantonio da Montefeltro morí a Urbino nella notte fra il 19 e il 20 febbraio 1443. Alla guida della contea gli succedette il figlio legittimo Od-

dantonio, mentre Federico, dopo le esequie, riprese la sua vita di condottiero, entrando al servizio del papa contro il collega Francesco Sforza, impegnato a costruirsi

un dominio personale nelle Marche. Il 22 luglio 1444, però, Oddantonio venne assassinato da un gruppo di congiurati, esasperati dal carattere brutale del conte e

Comunione degli Apostoli, olio su tavola di Giusto di Gand (Joos Van Wassenhove). 1473-1476. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. La pala mostra Gesú che distribuisce la comunione agli apostoli, inginocchiati intorno a lui e al tavolo-altare sul quale sono appoggiati, a sinistra, il vino e il calice (che alludono all’Eucaristia) e, a destra, un’ampolla d’acqua e una saliera (che alludono al Battesimo); a terra, una brocca e un bacile evocano la lavanda dei piedi. Sul lato destro, inoltre, si riconosce il duca Federico, accompagnato dal piccolo Guidubaldo, in braccio alla balia (o forse Battista Sforza?), da alti dignitari (Ottaviano Ubaldini e Costanzo Sforza?) e da un personaggio in ricchi abiti orientali, probabilmente un medico ebreo di nome Isaac, ambasciatore dello scià di Persia.

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dall’intollerabile pressione fiscale che questi aveva imposto. Com’era facile prevedere, alla notizia dell’uccisione di Oddantonio, tutti si volsero a Federico, destinato a succedergli alla guida dello Stato. Era corresponsabile della morte del fratellastro-rivale? Di sicuro non perseguí i congiurati, ai quali concesse anzi la piú larga amnistia, giustificandosi con la necessità di conservare la pace. In tal modo non fu condotta alcuna inchiesta per appurare le eventuali responsabilità dell’erede, il quale, anche secondo i contemporanei piú neutrali, di sicuro non era ignaro della trama, né si adoperò per fermarla.

Assassini impuniti

Non si sa, però, se ciò sia sufficiente per identificare in Federico il promotore dell’azione e se l’epiteto di «Caino», con cui da quel momento lo chiamarono i suoi nemici, fosse realmente meritato. Colpisce comunque che gli assassini non siano stati per nulla puniti o, quantomeno, penalizzati: uno fra loro, Pierantonio Paltroni, divenne addirittura segretario personale e uomo di fiducia del nuovo conte. In ben altra maniera Federico si comportò quando egli stesso fu minacciato da Ritratto di Federico da Montefeltro e del figlio Guidobaldo, detto «Doppio ritratto», olio su tavola di Pedro Berruguete. 1476-1477. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. Il signore di Urbino, seduto su una sorta di trono, è assorto nella lettura di un volume manoscritto. Indossa l’armatura, la mantella di broccato rosso e una pelliccia di ermellino, sovrastata a sua volta dal collare dell’Ermellino, l’onorificenza conferitagli dal re di Napoli nel 1474. Ha la gamba sinistra distesa e mette in mostra la giarrettiera, onorificenza donatagli dal re d’Inghilterra sempre nel 1474. Accanto a Federico sta il piccolo Guidobaldo, che impugna il bastone del comando, con chiaro riferimento alla sua futura eredità dinastica.

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Dossier da uomo a mito

Novello Annibale e dotto bibliofilo Abile condottiero e onesto principe, Federico, dopo la morte, è stato oggetto di una vera e propria mitizzazione. Ciò è avvenuto prima di tutto a Urbino stessa, dove le mutate condizioni politiche ed economiche dell’Italia cinquecentesca non avevano consentito ai duchi successivi di mantenere il peso fiscale ai livelli precedenti. Oppressi da crisi, guerre e imposte, gli abitanti del ducato non tardarono a vedere nell’epoca federiciana una vera e propria età dell’Oro. Già in vita, d’altronde, il condottiero aveva goduto di una grande fama, non sempre disinteressatamente attribuitagli dai letterati che godevano dei suoi favori. Anche altri, da Poggio Bracciolini a Enea Silvio Piccolomini, ne tesserono le lodi nelle loro opere. Dopo la sua morte, fu principalmente Il Cortegiano di Baldassarre Castiglione – ambientato, come si ricorderà, proprio a Urbino – a tramandare la

memoria del duca, definito come colui che «a’ dí suoi fu lume della Italia»: egli era «bellissimo d’aspetto e di persona» e anche la mancanza di un occhio non era che un difetto apparente in quanto serviva a farlo somigliante «a’ bellicosissimi capitani antichi che quello difetto aver avuto si legge, come Antigono, Filippo, Annibale, Sertorio, agli quali di vertú non era punto inferiore». Da questo prototipo derivò il cliché del principe feltrino: capitano astuto e valoroso, dotto e mecenate, nuovo Annibale e dotto bibliofilo, specchio delle virtú – e di qualche vizio – dell’Italia protorinascimentale.

un complotto: nel 1446 i tre responsabili di un maldestro tentativo di detronizzazione furono fatti decapitare sulla pubblica piazza. In ogni caso, per Urbino e il Montefeltro il cambiamento di regime si rivelò benefico. Già al momento di entrare nella capitale per succedere al fratellastro, Federico si conquistò il benvolere dei ceti produttivi urbani promettendo una generalizzata riduzione della pressione fiscale e una sua piú equa redistribuzione, tale da colpire anche la nobiltà delle campagne.

Cresce l’occupazione

Il nuovo signore promosse inoltre un gran numero di investimenti pubblici, nella costruzione del Palazzo di Urbino, di parecchie fortezze, di molti edifici religiosi e civili e di infrastrutture per tutto il territorio: di conseguenza, si crearono molti posti di lavoro e forti opportunità di investimento e di arricchimento, che aumentarono ulteriormente il consenso verso il figlio illegittimo di Guidantonio. Ancora, venne organizzato un articolato sistema di fattorie, per garantire lo sfruttamento ottimale dei vasti patrimoni terrieri della dinastia dominante, garantendo cosí allo Stato un reddito sicuro senza dover ricorrere alle imposte. Federico di Montefeltro, duca di Urbino, suo figlio Guidobaldo e altri ascoltano una lezione (particolare), olio su tavola di Giusto di Gand (Joos Van Wassenhove). 1480 circa. Londra, Hampton Court Palace. Nel particolare qui riprodotto il duca, seduto e con un voluminoso libro fra le mani, indossa l’uniforme dell’Ordine della Giarrettiera e sul mantello si riconosce lo stemma con la croce di san Giorgio circondato da un nastro (la giarrettiera, per l’appunto) sul quale corre il motto dell’Ordine «Honi Soit qui mal y Pense» («Sia svergognato colui che pensa male»). Accanto a lui sta il figlio Guidobaldo, con un prezioso vestito intessuto di fili d’oro.

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Il Montefeltro

Quando il ducato si fece Stato Al contrario di gran parte dell’Italia centro-settentrionale, la zona del Montefeltro non aveva visto nei secoli XII e XIII l’affermazione di grandi città. A cavallo fra Marche, Umbria e Romagna si confrontavano le volontà espansionistiche di diversi poteri, senza che però si delineasse un baricentro attorno al quale potesse strutturarsi un territorio coerente. Fra il 1375 e il 1384, grazie alla conquista di due centri importanti quali Cagli e Gubbio, il conte Antonio di Montefeltro riuscí ad affermarsi come figura egemone. I suoi successori procedettero però ancora in un’espansione piuttosto disordinata, con ambizioni che li conducevano talvolta sull’altro versante dell’Appennino, affacciandosi fino a Città di Castello, talvolta verso l’Umbria centro-orientale, con la momentanea occupazione di Assisi, la Romagna interna, con un’altrettanto momentanea presa di Forlí, o ancora la costiera adriatica, dove vi era però la fortissima concorrenza malatestiana. Soltanto con Federico questa venne sgominata e il ducato, trovata in Urbino la propria capitale, poté svilupparsi secondo le forme di un vero e proprio Stato e non di un semplice aggregato di poteri signorili.

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Il ducato di Urbino, affresco realizzato su cartone di Egnazio Danti fra il 1580-1585. Città del Vaticano, Galleria delle Carte Geografiche.

Non fu solo Urbino a contrattare le condizioni per l’ascesa al potere di Federico. Ognuna delle aree e delle comunità sottomesse aveva uno status particolare, consacrato da capitoli e accordi conclusi con il potere centrale. A differenza di quanto avveniva nel Nord o in Toscana, non vi erano poche, grandi città, ognuna con il proprio territorio sottomesso: i centri urbani (Urbino, Gubbio, Cagli, Fossombrone e San Leo) erano molto piccoli e non dominavano che una parte assai ridotta delle campagne. Fiorivano, invece, i piccoli borghi

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Dossier

o i semplici castelli, ognuno dei quali rappresentava un’unità politica e amministrativa autonoma. Lo Stato era il frutto di un paziente lavoro di aggregazione di una mi-

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riade di poteri locali, ciascuno garantito nelle proprie prerogative da accordi che, contemporaneamente, costituivano anche i titoli di legittimità della sovranità di Federico,

non soltanto imposta dall’alto, ma anche riconosciuta dalla base. Alla radice di tale diffuso consenso vi era indubbiamente il modesto peso fiscale della dominazione felagosto

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Particolare dei Trionfi allegorici dipinti sul retro del dittico di Piero della Francesca che ritrae i duchi di Urbino (vedi foto alle pp. 93 e 109). 1473-1475 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi. Federico da Montefeltro siede su un carro trainato da due cavalli bianchi, mentre una Vittoria alata gli cinge il capo con una corona d’alloro; davanti a lui trovano posto quattro figure femminili che rappresentano le virtú cardinali.

ulteriormente nei suoi ultimi anni di vita. L’imponente afflusso di denaro garantito dalle condotte consentiva in effetti di provvedere alle necessità del governo pur tenendo basse le imposte; in compenso le comunità soggette garantivano la loro partecipazione diretta nella piú redditizia attività statale, inviando miliziani e guastatori durante le campagne belliche del loro principe.

Larghe autonomie

tresca. Annualmente, grazie alla sua attività militare, Federico era in grado di incassare fra i 25 000 (in pace) e i 45 000 ducati (in guerra): come si è visto, tali somme aumentarono

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Anche sotto altri aspetti il dominio feltresco fu assai poco gravoso. Vi era un gran numero di ufficiali di nomina signorile, ma costoro non erano parte di un’efficiente amministrazione centrale: semplici emissari di Federico, finivano spesso col fare gli interessi delle comunità locali piú che quelli del governo centrale. Solo verso gli anni Settanta si crearono giurisdizioni piú vaste, con la creazione di due «commissariati» del Montefeltro e della Massa Trabaria con competenze giuridiche e fiscali. Allo stesso modo, non esisteva una legislazione coerente emanata dal dominio, e l’autonomia di borghi e città nella redazione e nella modifica dei loro statuti era larghissima. Unica eccezione a questa latitanza del governo centrale erano le necessità difensive. Spada di Damocle sullo Stato del Montefeltro era l’inimicizia con i Malatesta. La dinastia riminese era infatti stata per decenni la piú accanita rivale dei conti feltreschi per il dominio della costa fra Marche e Romagna. A questa situazione pregressa

si aggiungeva anche un piú immediato motivo di contesa: Pandolfo Malatesta era infatti il piú temibile concorrente di Federico e rivaleggiava con lui nell’assicurarsi la palma di miglior condottiero e, di conseguenza, i contratti piú lucrosi. Il frutto di tale contesa fu che Pandolfo non mancava di far gravare sull’avversario una continua minaccia militare, conducendo ripetute scorrerie contro le Marche settentrionali. Fino alla definitiva eliminazione della minaccia, nel 1463, lo stato di instabilità favorí la costruzione di un gran numero di fortezze, destinate a garantire la sicurezza della regione. Oltre alla difesa delle aree sottomesse, le attività militari avevano come fine anche l’allargamento del territorio soggetto. Alla morte di Federico, lo Stato si estendeva fra San Marino e Gubbio, la valle del Marecchia e Senigallia e si era praticamente triplicato, vuoi per conquiste, vuoi per sottomissioni pacifiche, rispetto ai domini di Guidantonio. Come si è detto, si trattava di un dominio poco centralizzato e, in apparenza, destinato a disperdersi miseramente di fronte alla prima crisi. E, invece, a dimostrazione del fatto che è bene non dare giudizi a priori, non fu cosí. Alla sua morte, Federico lasciò uno Stato vasto, incentrato sul solido asse Urbino-Cagli-Gubbio, consacrato nel 1474 dal titolo ducale, sostenuto da un vasto consenso locale e dai confini ormai stabili. Seppur formalmente incluso entro i confini dello Stato pontificio, il ducato rappresentava ormai una piccola potenza, integrata nel piú ampio sistema degli Stati italiani. Esso poté cosí resistere alla robusta offensiva condotta dal papato a cavallo fra Quattro e Cinquecento per riportare sotto il proprio dominio le signorie autonome, e sopravvivere per oltre un secolo e mezzo alla scomparsa del suo piú celebre signore.

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NELLA REGGIA DEL PRINCIPE MECENATE

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l grandioso Palazzo Ducale di Urbino, realizzato su progetto dell’architetto Luciano Laurana (1420/25-1479), doveva essere prima di tutto un manifesto della natura di Federico, principe-umanista. Non un castello, dunque, a differenza dei coevi palazzi degli Sforza o dei Gonzaga, bensí un edificio civile, accogliente, in con-

tinuità stilistica con il resto della città, grazie all’uso dello stesso materiale delle costruzioni circostanti, cosí come Federico era il successore – anche se forse non pienamente legittimo – degli altri signori del Montefeltro e di Urbino. La decorazione esterna e interna esibiva la ripresa di elementi classicheggianti, segno dell’aper-

tura culturale del signore verso la nuova cultura umanistica. Dentro le mura del palazzo si svolgeva la vita della corte feltresca, razionalmente organizzata nell’ambito di ambienti predisposti. Attorno al grandioso cortile centrale si trovavano gli uffici burocratici, aperti al pubblico: la cancelleria, la tesoreria, la sede del sigillo. Attraverso uno scalone monumentale si accedeva al piano nobile, riservato alla famiglia ducale e ai suoi ospiti e caratterizzato da un vasto salone, dedicato ai ricevimenti e

Il Palazzo Ducale di Urbino, con l’imponente facciata dei Torricini. XV sec.

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A destra Cagli. Questo poderoso torrione è l’unica stuttura superstite della Rocca che faceva parte del sistema di fortificazioni progettato da Francesco di Giorgio Martini nel 1481, su incarico di Federico di Montefeltro.

ai banchetti, e dagli appartamenti privati di Federico, di Battista e dei figli. Fra le stanze riservate al duca vi era il celeberrimo Studiolo, luogo di raccoglimento e di meditazione, accuratamente decorato con fregi e intarsi destinati a favorire le piú auliche riflessioni.

Le imprese e le passioni

Luciano Laurana iniziò a lavorare al Palazzo nel 1466 e smise nel 1472, quando però l’opera era tutt’altro che terminata. Altri architetti, e una schiera di artigiani, ingegneri e decoratori, si affannarono negli anni successivi a completare, perfezionare e adornare l’imponente costruzione. Se l’edificio era una sorta di perenne work in progress, altrettanto si può dire delle iniziative culturali a esso connesse. Bisognava infatti adornarne l’interno e l’esterno con quadri, affreschi, bassorilievi e sculture che ritraessero e glorificassero Federico, le sue imprese e le sue passioni. Ancora, all’interno vi

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era la vasta biblioteca, da colmare di libri di ogni genere, possibilmente a loro volta esteticamente pregevoli e riccamente miniati. A Urbino si realizzò cosí un’impressionante concentrazione di intellettuali e di artisti: dai piú grandi architetti dell’epoca, quali Francesco di Giorgio Martini o Laurana, ai pittori, scultori e decoratori, per i quali basterà ricordare i nomi di Piero della Francesca, Giusto di Gand, Melozzo da Forlí e un semisconosciuto Sante (o Sanzio), il cui figlio, Raffaello, contribuirà in seguito a innalzare non poco la fama dell’arte marchigiana. Tutti costoro furono impegnati in primo luogo nella grandiosa impresa del Palazzo Ducale, ma anche nella costruzione o nella decorazione di chiese e fortezze, nonché di altri manufatti di ingegneria civile. Il palazzo urbinate non fu la sola realizzazione feltresca. Anche a Gubbio, per esempio, Federico si fece costruire un ricco palazzo, che

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Dossier

In alto il portale d’accesso all’Appartamento della Jole, nella parte piú antica del Palazzo Ducale. Come altri elementi della decorazione sia esterna che interna dell’edificio, è caratterizzato dalla ripresa di elementi classicheggianti, segno dell’apertura di Federico verso la cultura umanistica. In basso La sala del trono nel Palazzo Ducale. Deve il nome a un seggio risalente al periodo della dominazione pontificia. Come il resto del palazzo, anche questo ambiente ospita oggi la Galleria Nazionale delle Marche.

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dominava, chiudendola in parte, l’antica piazza del Comune. Come a Urbino, pur profondamente innovativo all’interno, il nuovo edificio, in cui era impegnato anche Francesco di Giorgio, rispettava l’ambiente circostante, conformandosi all’aspetto medievale del centro. In tutto il ducato, da San Leo, a Sassocorvaro e a Fossombrone fervette l’attività edilizia, con la realizzazione di rocche, chiese e residenze. Presso Federico si raccolsero anche poeti e letterati, spesso in contatto con i piú importanti circoli culturali dell’epoca, come quello nato attorno al cardinal Bessarione. Il mecenate corrispondeva loro un salario in cambio di impegni precisi, quali la realizzazione di opere propagandistiche, l’insegnamento o la cura della gigantesca biblioteca che si andava costituendo entro il palazzo urbinate. In essa, con grande apertura culturale, Federico volle raccogliere opere di ogni genere: Vespasiano da Bisticci parla con entusiasmo di tali «libri tutti belli in superlativo grado», che includevano «tutti gli scrittori cosí sacri come gentili, et cosí composti come tradotti». Federico non amava i libri a stampa, che gli parevano piuttosto volgari: si fece dunque ricopiare, dai piú abili amanuensi dell’epoca, una

biblioteca di dimensioni eccezionali: trenta o quaranta professionisti della penna operarono per lui per circa un quindicennio, trascrivendo testi classici e moderni, in latino, in greco, in volgare e addirittura – ne possedeva piú di un centinaio di esemplari – in ebraico, frutto per la maggior parte del sacco di Volterra. Non mancavano comunque una cinquantina di incunaboli, scelti fra i piú belli e ritenuti degni di figurare tra i manoscritti miniati. Altrettanto eccezionale fu la spesa: si dice che la collezione di libri urbinate abbia inghiottito una somma di circa 30 000 ducati, ossia l’intero guadagno annuo del condottiero.

Da Urbino al Vaticano

La passione federiciana per i bei manoscritti era tale che anche nel 1478, al momento di assumere il comando delle armate napoletane contro Firenze, egli era assai preoccupato per la sorte di una Bibbia miniata che stava facendo realizzare nella città toscana: Lorenzo il Magnifico in persona, con gesto magnanimo, si preoccupò di fargliela recapitare. La biblioteca feltresca fu poi trasferita a Roma, nel 1675: ancora oggi il grandioso fondo dei Codices Urbinates rappresenta una delle parti piú belle e preziose

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PRIMO PIANO

Cortigiani e semplici cittadini hanno accesso al cortile d’onore e al grande salone utilizzato per feste e cerimonie.

L’appartamento ducale comprende una camera, lo Studiolo, un camerino, un salotto e una grande sala.

L’appartamento della duchessa, affacciato sul giardino pensile, dispone di ampie sale ove riunire artisti e intellettuali.

I torricini offrono al duca e ai suoi familiari percorsi privati per spostarsi nelle parti piú riservate del palazzo.

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Dossier Assonometria ricostruttiva del Palazzo Ducale di Urbino, la residenza voluta da Federico di Montefeltro e la cui costruzione ebbe inizio nel 1454. Il nuovo complesso inglobò alcuni edifici medievali preesistenti e, nel 1464, la direzione dei lavori venne affidata all’architetto dalmata Luciano Laurana. A lui si devono la facciata dei Torricini, il Cortile d’onore, lo Scalone monumentale e la Biblioteca al piano terreno; al primo piano, invece, furono realizzati su suo disegno il Salone del trono, il Salone degli Angeli e la Sala delle Udienze.

La lavanderia e la tintoria dispongono di ampie vasche, direttamente collegate a varie cisterne.

La scuderia grande (ce n’è un’altra al secondo seminterrato), divisa in 25 stalle, è pavimentata con pietre forate, per lo scarico delle sostanze organiche. I cavalli vengono ferrati e sellati nella selleria (nel locale a destra, i gabinetti riservati a maniscalchi e scudieri).

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Delle cucine, la piú grande serve per gli ospiti di Federico, i suoi ufficiali e i cortigiani, mentre nella piú piccola si preparano i pasti per il duca stesso e i suoi commensali. I cuochi alloggiano in un locale adiacente.

della pur colossale Biblioteca Apostolica Vaticana. Tanto mecenatismo rappresentava anche un ben mirato investimento propagandistico. Federico non mancava dunque di dimostrare in tutte le maniere la sua attenzione per le lettere e per le arti. Nel celebre ritratto dedicatogli da Piero della Francesca, il duca si fece rappresentare in berretta e vestito da umanista, senza connotazioni principesche o insegne di comando (vedi foto a p. 93). Anche una tavola attribuita a Giusto di Gand (o, da altri, a Melozzo da Forlí) lo mostra con berretto e mantello, affiancato dal figlio Guidobaldo, tutto intento ad ascoltare una lezione (vedi foto a p. 98). Un’altra opera di Melozzo e Pedro Berruguete lo mostra inginocchiato davanti alla Dialettica personificata, che gli consegna un libro.

L’uso del bagno è riservato al duca e ai suoi familiari piú stretti. Questa zona è concepita anche per soste rilassanti nel calidarium, una sorta di sauna.

Fra la stalla e la cucina si trovano i locali in cui si conservano le provviste, il ghiaccio (neviera) e la legna da ardere. Le cantine per il vino e le stanze degli addetti alle dispense sono collocate oltre le cucine.

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Dossier Ma la pittura ci restituisce anche un’altra immagine ducale. Piú spesso, infatti, Federico amava vedersi armato, seppure intento a tutt’altre attività. Eccolo dunque nella Pala di Brera del medesimo Piero, devotamente inginocchiato, ma bardato d’acciaio e pronto per un’immediata partenza in guerra (vedi foto a p. 94). Ancor piú significativamente, Giusto di Gand lo ritrae con la corazza indosso e la spada al fianco, ma anche seduto e assorto nella lettura, come a significare che nel principe, condottiero e umanista, la vita attiva e la vita contemplativa avevano A destra uno scorcio dello Studiolo del duca, le cui pareti, rivestite di tarsie lignee, erano coronate dai ritratti di 28 uomini illustri, attribuiti al pittore fiammingo Giusto di Gand e allo spagnolo Pedro Berruguete, oggi divisi tra Urbino e Parigi. In basso particolare di una miniatura raffigurante Federico di Montefeltro che riceve un libro, dalle Disputationes camaldulenses dell’umanista Cristoforo Landino. 1480 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

lo studiolo del duca

Quasi un pantheon della cultura Nello Studiolo di Federico, gioiello nel gioiello, incastonato nel Palazzo Ducale di Urbino, 28 ritratti di personaggi illustri dovevano tenere compagnia e fungere da modello al condottiero in dotta meditazione. Il loro elenco è di per sé una prova eloquente delle molteplici curiosità del principe umanista e dell’articolata composizione del suo cosmo intellettuale.

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Pensatori di epoca classica, come Platone, Aristotele, Tolomeo, Euclide, Solone, Cicerone, Seneca, Omero, Virgilio e Ippocrate si confondevano con i biblici Mosè e Salomone e con intellettuali cristiani quali Boezio, san Gregorio, san Girolamo, sant’Agostino, sant’Ambrogio, Alberto Magno, Scoto Eriugena e Tommaso d’Aquino. Non mancavano i grandi del Trecento italiano, quali i letterati Dante e Petrarca, il medico Pietro d’Abano o il giurista

Bartolo da Sassoferrato. Fra i contemporanei, erano omaggiati l’antico maestro di Federico a Mantova, Vittorino da Feltre, i papi Pio II e Sisto IV, e il dottissimo cardinal Bessarione. Una compagnia variegata e dai numerosi interessi intratteneva dunque il duca nelle sue meditazioni e dialogava con lui, grazie alle molteplici opere di tutti questi autori che Federico aveva fatto accuratamente ricopiare in tutte le biblioteche d’Italia. agosto

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Battista, la seconda moglie

Dietro un grand’uomo c’è sempre una grande donna Figlia del condottiero Alessandro Sforza, signore di Pesaro, e nipote del duca di Milano, Francesco, Battista non aveva che tredici anni quando, il 13 novembre 1460, andò in sposa al trentottenne Federico da Montefeltro, da tre anni vedovo della prima moglie, Gentile Brancaleoni. Personaggio dalla spiccata personalità, ella seppe ritagliarsi un ruolo autonomo a corte: lo dimostra anche l’originalità del suo studiolo, improntato a un gusto tardo-gotico estraneo allo stile del restante Palazzo Ducale, ma da lei fortemente apprezzato. È probabile che il grande amore della moglie per la lettura abbia condizionato la raccolta della grande biblioteca da parte di Federico: non è un caso, d’altronde, che, nel Trionfo di Battista Sforza, Piero della Francesca la raffiguri con un libro aperto in mano. Uno dei maestri della

corte di Urbino, Martino Filetico, ricorda le tre iocundissime giornate di discussioni culturali promosse da Battista nell’inverno 1462-63, che coinvolsero un gran numero di dotti e a cui la dama prese parte in prima persona. Per Federico, avere al fianco una donna di carattere fu un’esperienza importantissima: la sua stima per lei era tale che la volle con sé anche nel momento di uno dei suoi piú grandi successi militari, la presa di Fano, nel 1463. In rapida successione Battista diede al marito ben sei figlie (Elisabetta, Giovanna, Costanza, Agnese, Violante e Chiara, quasi tutte destinate a importanti matrimoni con le altre dinastie signorili della regione) e, infine, il sospiratissimo erede maschio, Guidobaldo, nato il 24 gennaio 1472. Purtroppo, forse proprio a causa della successione di sfiancanti gravidanze, Battista morí, appena venticinquenne, il 7 luglio dello stesso anno. Federico, legatissimo alla giovane moglie, ne fu sconvolto, tanto da escludere categoricamente ogni possibilità di sposarsi nuovamente. Il suo dolore venne rappresentato dal fido pittore Giusto di Gand in un quadro del 1474, la Comunione degli apostoli, nel quale si può scorgere il piccolo Guidobaldo in braccio alla nutrice piangente in ricordo del lutto, ancora fresco, per la scomparsa di Battista (vedi foto a p. 96). Battista Sforza, scomparto sinistro del dittico a olio su tavola di Piero della Francesca raffigurante i duchi di Urbino (lo scomparto destro, che ritrae Federico, è riprodotto a p. 93). 1473-1475 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

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trovato la loro piú piena realizzazione (vedi foto a p. 97). Quanto c’era di vero in questa immagine di principe-filosofo abilmente propagandata da Federico e dagli artisti alle sue dipendenze? Ignoriamo se realmente il duca di Urbino passava il tempo libero nel suo magnifico Studiolo, o se questo era solo una brillante realizzazione per impressionare gli ospiti. Sicuramente, però, Federico ebbe un valido tornaconto dai suoi investimenti culturali. Nella tormentata lotta politica italiana del XV secolo egli poté sempre contare sul non trascurabile appoggio di quell’importante fetta di opinione pubblica orientata dai letterati umanisti che, senza dubbio, delle molte facce del duca, apprezzavano quella del dotto mecenate piú che quella del capace condottiero. V

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CALEIDO SCOPIO

Splendide scarabattole LIBRI • Nei documenti d’archivio venivano definiti cosí gli avori delle raccolte

mediceo-granducali. Uniti a quelli donati da Louis Carrand, sono oggi uno dei vanti del Museo Nazionale del Bargello, finalmente documentato da un catalogo ragionato

Lato esterno di una tavola da gioco in avorio, osso e legni in parte tinti in verde, lega metallica e metallo, realizzata in un atelier della Borgogna o delle Fiandre. 1450-1480 circa. Su questo lato si giocava a scacchi, mentre il lato interno della tavola era riservato ad altri giochi, come il tric-trac e il backgammon.

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l Museo Nazionale del Bargello, a Firenze, custodisce la piú importante collezione di avori esistente in Italia, unanimemente considerata, per quantità e qualità, fra le maggiori a livello internazionale. A oggi, gli oltre 260 manufatti che la compongono non erano mai stati catalogati in maniera sistematica e la lacuna viene adesso colmata dal magnifico volume curato da Ilaria Ciseri. Un’opera di altissimo pregio, al quale contribuisce in maniera determinante l’eccellente corredo iconografico, che permette di cogliere al meglio le caratteristiche di questi candidi tesori. Prima del

In alto valva di custodia per specchio raffigurante l’assalto al castello di Amore, produzione parigina. 1320-1340 circa. catalogo sistematico delle opere, vengono ripercorse le vicende della collezione. Quest’ultima nasce dall’unione di due nuclei principali: quello derivante dalle raccolte mediceo-granducali e quello pervenuto al museo fiorentino grazie al lascito testamentario del collezionista francese Louis Carrand.

Presto un nuovo allestimento Ciò permise all’allora Museo Nazionale del Regno d’Italia, inaugurato nel 1865, di annoverare – dai primi anni Novanta dell’Ottocento – oltre 400 pezzi, comprendenti in primo luogo quelli che, in documenti d’archivio della famiglia Medici, venivano definiti «scarabattole». La riduzione al numero attuale ebbe luogo nel 1925, quando si decise di destinare parte degli avori al Museo degli Argenti in Palazzo Pitti. Da allora, il Bargello ha conservato il corpus che A sinistra valva di dittico raffigurante Adamo nel Paradiso Terrestre, prodotta da un atelier milanese o romano. Fine del IV-inizi del V sec.

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tuttora detiene, oggi esposto nell’allestimento curato nel 1989 da Giovanna Gaeta Bertelà, ma del quale, nel volume stesso, viene annunciata la prossima ristrutturazione. Di grande interesse sono poi le note biografiche su Louis Carrand e su suo padre Jean-Baptiste, che restituiscono un quadro vivace della temperie collezionistica ottocentesca, ma anche del clima politico dell’epoca, al quale il museo fiorentino «deve» gli avori dei due francesi: come si legge infatti nel suo testamento, Louis Carrand, fervente monarchico, si risolse a donare all’Italia e a Firenze in particolare la propria raccolta, poiché temeva che nella Francia repubblicana essa avrebbe potuto essere smembrata o comunque non adeguatamente tutelata. Il catalogo ragionato permette quindi di apprezzare l’altissima qualità dei materiali, in larga parte riferibili all’età medievale, della cui produzione artistica offrono un saggio variegato e significativo. Stefano Mammini

Ilaria Ciseri (a cura di) Gli avori del Museo Nazionale del Bargello con testi di Benedetta Chiesi, Danielle Gaborit-Chopin e Silvia Armando, Giampaolo Distefano, Marta Moi, Francesco Morena, Fabrizio Paolucci; fotografie di Antonio Quattrone, Officina Libraria, Milano, 494 pp., ill. col. e b/n 85,00 euro ISBN 978-88-99765-65-1 www.officinalibraria.net

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CALEIDO SCOPIO

Un improvvisatore d’eccezione MUSICA • Il gruppo Doulce Mémoire celebra il 500°

anniversario della morte di Leonardo da Vinci con una proposta originale e affascinante: ispirandosi ad altrettante opere del maestro, documenta la produzione musicale piú in voga al tempo in cui esse furono create

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ella scia delle celebrazioni per il 500° anniversario della morte di Leonardo da Vinci si inserisce il tributo musicale dell’ensemble Doulce Mémoire, che ha voluto omaggiare la produzione pittorica leonardesca, fonte ispiratrice per una raccolta di musiche della fine del Quattrocento. Sebbene Leonardo non si sia mai realmente dedicato all’arte musicale, Giorgio Vasari, nelle Vite de’ piú

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eccellenti pittori… (1550), racconta di come il genio vinciano fosse un appassionato di musica nonché suonatore di liuto e di lira da braccio, con i quali amava accompagnarsi secondo una consuetudine molto in voga presso gli artisti e gli intellettuali dell’epoca. La pratica dell’accompagnamento al canto era di natura prettamente improvvisatoria, come dimostra

l’assenza di fonti musicali dedicate in particolare alla lira da braccio. E non fa eccezione Leonardo, del quale, purtroppo, non ci è pervenuta alcuna notazione musicale autografa. In assenza di ulteriori testimonianze, Denis Raisin Dadre, alla guida del gruppo Doulce Mémoire, ha dunque scelto di procedere secondo una prospettiva diversa, ovvero prendendo le mosse da alcune delle opere piú note di Leonardo, traendone ispirazione per questo ideale itinerario musicale «leonardesco».

In tutte le corti d’Europa I 24 brani riuniti nell’antologia offrono un’esemplare panoramica della cultura musicale degli ultimi decenni del XV secolo e degli inizi del successivo; decenni durante i quali Leonardo si trova a lavorare a contatto con i potenti dell’epoca, (segue a p. 114) agosto

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CALEIDO SCOPIO come papa Leone X, Lorenzo il Magnifico, Ludovico il Moro, Francesco I di Francia, frequentando anche le corti di Mantova e Venezia. Rivolto a un pubblico di corte, il repertorio si snoda attraverso brani della scuola polifonica francofiamminga, imperante tra XV e XVI secolo, grazie all’assidua frequentazione di questi artisti oltremontani nelle corti italiane frequentate dallo stesso Leonardo. A questo proposito non si può non menzionare il mottetto Planxit autem David del grande Josquin Desprez (1450-1521), compositore al quale sembrerebbe riferirsi il Ritratto di Musicista dipinto da Leonardo nel 1485. Tra i temi iconografici «leonardiani» ha particolare rilevanza quello della bellezza femminile. Ai ritratti di dama (La Belle Ferronière), della Gioconda, di Ginevra Benci, di Isabella d’Este sono associate le musiche di Marchetto Cara e Bartolomeo Tromboncino, entrambi esponenti del genere della frottola, molto in voga alla fine del XV secolo e particolarmente apprezzato alla corte mantovana dei Gonzaga. All’area fiamminga ci riporta la chanson De tous biens playne di Hayne van Ghizeghem (seconda metà del XV secolo), che fu oggetto di piú manipolazioni da parte di altri compositori, come quelle di Agricola e di Desprèz, di cui qui ascoltiamo le rispettive versioni. Alla dimensione profana riconducono anche alcuni ascolti strumentali come la bassa danza anonima (XV secolo) e il Recercare per liuto di Francesco Spinacino († 1507), ovvero versioni strumentali di noti brani vocali, come, per esempio, Fortuna desperata di Heinrich Isaac (1450 circa-1517), proposto anche come contraffatto su testo italiano (Poi che t’hebbi nel core) in una versione anonima e un’altra di Johannes de Pinarol. Alle tele della Vergine delle Rocce, della Vergine col bambino e Sant’Anna, dell’Annunciazione, del

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Battesimo di Cristo e del San Giovanni Battista sono dedicati altrettanti brani del repertorio sacro tardoquattrocentesco.

Toni solenni Splendide le due laudi anonime che in un delicato contrappunto a 4 voci (in versione vocale e/o strumentale) commentano la grazia tutta intimistica dell’Annunciazione, celebrata anche con il brano Ave Maria di Frater Petrus; come anche l’Ave Mater Matris Dei, dedicato alla figura di sant’Anna, di Jean l’Héritier (1480 circa-1551 circa) a commento della Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnellino. Toni ancor piú solenni vengono riservati al Battesimo di Cristo, con l’ascolto dell’Agnus Dei dalla Messa-Parodia Fortuna Desperata di Jacob Obrecht (1457 circa-1505), brano composto sul materiale melodico del brano Fortuna Desperata di Heinrich Isaac, anch’esso presente nell’antologia nella sua veste originale. Che si tratti di danze strumentali, mottetti sacri, laudi, o chanson profane, l’approccio interpretativo del gruppo Doulce Mémoire, guidato dal flautista Denis Raisin Dadre, si attesta sempre ai massimi livelli in ognuno dei generi proposti. Incantevoli sono le voci dei cinque solisti Clara Coutouly, Marnix De Cat, Hugues Primard,

Matthieu Le Levreur e Marc Busnel, accompagnati dal liuto/ chitarra rinascimentale di Pascale Boquet, dall’arpa rinascimentale di Bérengère Sardin, dalla viola d’arco di Nolwenn Le Guern e dalla viella/lira da braccio di Baptiste Romain. Sia nei brani d’insieme che negli assolo per voce e strumenti, l’equilibrio ottenuto è ottimale, come opportuna risulta sempre la scelta delle combinazioni vocalistrumentali dei singoli brani. Il disco è accompagnato da un volume provvisto di un ricco apparato iconografico delle pitture, corredato da interessanti commenti critici, che mettono in risalto le peculiarità dello stile leonardesco e le similitudini con la coeva produzione musicale. Franco Bruni

Leonardo da Vinci. La musique secrète Doulce Mémoire direttore Denis Raisin Dadre Alpha Classics (Alpha 456), 1 CD + libro www.outhere-music.com agosto

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