Medioevo n. 269, Giugno 2019

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L’E FER DE TÀ R GL D’OAR IE R A BR O EI

MEDIOEVO n. 269 GIUGNO 2019

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

www.medioevo.it

GIUGNO 1288 Le Fiandre in guerra

Mens. Anno 23 numero 269 Giugno 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

PROTAGONISTI Francesco Gualdi e l’«anticomoderno» UMBRIA Capolavori longobardi

MAIMONIDE A FERRARA

GLI EBREI IN ITALIA TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO

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WORRINGEN ALFONSO X FRANCESCO GUALDI ANTICHE CHIESE DELL’UMBRIA DOSSIER MAIMONIDE A FERRARA

ALFONSO X Un Saggio sul trono di Castiglia

IN EDICOLA IL 1° GIUGNO 2019



SOMMARIO

Giugno 2019 ANTEPRIMA

avviso ai lettori Per esigenze redazionali, in questo numero non compare la nuova puntata della serie dedicata al medievalismo, la cui pubblicazione riprenderà regolarmente nel prossimo numero.

IL PROVERBIO DEL MESE Bestia nera

Il colore della paura

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MOSTRE Il piú eccelso dei maestri 6 «Sanza lettere», ma non troppo 12 RISORSE DIGITALI On line gli studi di una vita

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ITINERARI All’ombra delle (scomparse) torri Arte e spirito

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SCOPERTE Di scimmie ammaestrate e altri prodigi...

17

APPUNTAMENTI Cosí finí il giudicato Vino bianco, sangue rosso L’Agenda del Mese

20 22 26

di Federico Canaccini

PROTAGONISTI Alfonso X Un Saggio sul trono di Castiglia di Tommaso Indelli

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COSTUME E SOCIETÀ RIVELAZIONI

70

Francesco Gualdi

Il cavaliere dell’anticomoderno di Fabrizio Federici

STORIE BATTAGLIE Worringen Caccia alla «grande balena»

44

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LUOGHI 36

ARTE DELLE ANTICHE CHIESE/7 Umbria Longobardi all’ombra dell’antico di Furio Cappelli

Dossier

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CALEIDOSCOPIO LIBRI Lo Scaffale

112

MUSICA Armonie incantatrici

114

MAIMONIDE A FERRARA Gli Ebrei in Italia tra Medioevo e Rinascimento a cura di Andreas M. Steiner, con un contributo di Giulio Busi

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FE

L’E R DE TÀ R GL D’OAR IE R A BR O EI

MEDIOEVO n. 269 GIUGNO 2019

MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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15/05/19 16:27

MEDIOEVO Anno XXIII, n. 269 - giugno 2019 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Giulio Busi è direttore dell’Istituto di Studi Ebraici della Freie Universität di Berlino. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Fabrizio Federici è storico dell’arte. Tommaso Indelli è assegnista in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Chiara Parente è giornalista. Tiziano Zaccaria è giornalista. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 36/37, 52, 82 (sinistra) – Mondadori Portfolio: Archivio Magliani/Mauro Magliani & Barbara Piovan: p. 5; AKG Images: pp. 38/39, 40 (destra), 41; @ Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Gianni Cigolini: pp. 42/43; Album/Oronoz: p. 46; Album/Joseph Martin: pp. 60/61; Album/Metropolitan Museum of Art: pp. 62/63 – Cortesia Ufficio Stampa Fondazione Palazzo Strozzi, Firenze: Museo Nazionale del Bargello, Firenze: pp. 6 (basso); © Her Majesty Queen Elizabeth II 2019: pp. 6 (alto), 7 (basso, a destra); ©Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie/Christoph Schmidt: p. 7 (alto); su concessione MiBAC: pp. 7 (centro, a sinistra), 9 (destra); © The National Gallery, London: pp. 7 (centro, a destra), 8 (destra); su concessione MiBAC-Museo e Real Bosco di Capodimonte: p. 8 (sinistra); Gabinetto Fotografico delle Gallerie degli Uffizi/Francesco del Vecchio: p. 9 (centro); © Victoria and Albert Museum, London: p. 10 (centro); Musei Civici Fiorentini-Museo di Palazzo Vecchio: p. 10 (destra) – Cortesia Opera Laboratori Fiorentini-Civita: pp. 12-13, 18 – Cortesia Associazione Ambiente & Cultura, Alba: pp. 14, 16, 16/17 – Cortesia Ente Turismo Alba-Bra-LangheRoero: pp. 15 – Cortesia Ufficio Stampa Università degli Studi di Milano: p. 17 – Cortesia degli autori: pp. 20, 22, 61, 62, 64, 67-69 – Doc. red.: pp. 44/45, 47, 48-51, 55-57 – da: Fori Imperiali. Demolizioni e scavi. Fotografie 1924/1940, Electa, Milano 2007: p. 65 – Cortesia Stefano Suozzo: pp. 70/71, 72 (alto), 72/73, 73, 74-81, 82 (destra), 82/83 – Cortesia MEIS, Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, Ferrara: pp. 85-103, 106-111 – Patrizia Ferrandes: cartine e rialaborazioni grafiche alle pp. 40, 53, 72, 104/105.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Cordova. Particolare del monumento in onore del filosofo e medico ebreo Mosheh ben Maimon, meglio noto come Maimonide. 1964.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Nel prossimo numero 28 luglio 1488

La battaglia di Saint-Aubin

costume e società

Ogni mese ha il suo vestito

marche

Le grandi chiese monastiche


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Il colore della paura

O

ggi nessuno si stupisce quando in un articolo sportivo si legge che una certa squadra è la bestia nera del nostro team preferito, tale è la paura che incute, magari a fronte di innumerevoli sconfitte già patite. L’espressione può essere utilizzata anche per qualcosa che risulti particolarmente difficile, come per molti la matematica, bestia nera di piú di uno scolaro... Ma si può utilizzare questo modo di dire anche riferendosi a una persona, indicando in questa maniera un tipaccio che incute paura, che turba e verso il quale non si prova altro che odio. L’origine di questo modo di dire va probabilmente ricercata nelle rappresentazioni medievali del Diavolo, il cui colore per eccellenza, ereditato dal simbolismo precristiano, è appunto il nero: nera è la pelle del Demonio, o nere sono le sue vesti, oppure ha le sembianze di un animale nero (da cui l’espressione pecora nera, a indicare una persona negativa all’interno di un gruppo, o la superstizione del gatto nero). Talvolta, vero e proprio non plus ultra, il Diavolo è raffigurato come un cavaliere nero in groppa a un altrettanto nero destriero. E nere sono le tenebre della

notte e la terra in cui vengono sepolti i morti. Altro colore prediletto dai miniaturisti medievali per rappresentare Satana è naturalmente il rosso, simbolo del sangue e del fuoco. Raramente lo si vede tinto di verde, colore dei cacciatori per gli enciclopedisti medievali: e, dunque, quale miglior colore per colui che vaga per la Terra a caccia di anime? Qualche nesso potrebbe esserci anche con la sacralità del colore verde per l’Islam, considerato che se ne hanno attestazioni nel periodo delle crociate: una sorta di diavolo-eretico musulmano. Nell’antichità, invece, ai demoni veniva perlopiú riservato il blu: quel colore bluastro che il corpo assume una volta che il sangue si raffredda e inizia il processo di livor mortis. Cosí ci appaiono, per esempio, il diavolo dell’etere fiammeggiante in un papiro egiziano o i demoni etruschi Charun e Tuchulca, che figurano in varie pitture murali. Torcello, duomo di S. Maria Assunta. Due demoni raffigurati nel mosaico del Giudizio Universale, in controfacciata, opera di maestri bizantini. XI sec.


ANTE PRIMA

Il piú eccelso dei maestri MOSTRE • Firenze rende omaggio ad Andrea del Verrocchio, riconoscendo per la

prima volta in maniera adeguata l’importanza del suo contributo alla formazione di tutti gli artisti che, dopo di lui, innescarono l’«esplosione» del pieno Rinascimento

«A

iutato piú dallo studio che dalla natura, pervenne tra gli scultori a ‘l sommo de’ gradi et intese l’arte perfettamente», ma «fu tenuto duro e crudetto nella maniera de’ suoi lavori, e sempre tali sono apparite le cose sue, ancora che sieno mirabili nel cospetto di chi le conosce»: cosí nell’edizione del 1550 delle Vite, Giorgio Vasari descrive Andrea di Michele di Francesco Cioni, noto come Verrocchio. Fu proprio questo giudizio a creare un problema di natura critica, «dannando» per secoli una delle figure piú eccelse della maniera moderna, rendendola incompresa e, in qualche modo, relegata in secondo piano, nonostante abbia lasciato una eredità enorme fino alla generazione successiva a quella dei suoi allievi. Adesso, nell’ambito delle celebrazioni leonardiane, è stata organizzata la prima retrospettiva a lui dedicata, che si qualifica come uno dei piú importanti eventi a livello internazionale.

Dama dal mazzolino, scultura in marmo di Andrea del Verrocchio. 1475 circa, Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

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Centoventi opere tra sculture, dipinti e disegni, ci illustrano non solo la grandezza del protagonista, ma anche il valore di artisti suoi contemporanei o discepoli, del calibro di Domenico del Ghirlandaio, Sandro Botticelli e, naturalmente, Leonardo da Vinci, regalandoci un affresco dell’epoca.

Un’autentica età dell’oro Siamo negli anni di Lorenzo il Magnifico, in una Firenze effervescente, che può fregiarsi del A destra Braccia e mani femminili; Testa maschile in profilo, disegno su carta di Leonardo da Vinci. 1474-1486 circa. Castello di Windsor, Royal Library, The Royal Collection Trust titolo di capitale mondiale della cultura insieme a Budapest, grazie all’accorta politica di pace del signore mediceo e alla conseguente stabilità interna, che ne accelera la crescita artistica e filosofica. Proliferano le botteghe, fra le quali emerge quella del Verrocchio, che diventa punto di riferimento locale e ottiene decine di commissioni pubbliche e private, attraverso le quali seppe captare e trascrivere immagini esemplari e sentimenti, senza che lo sforzo verso l’ingegno formale gli recasse pregiudizio. Una carriera variegata, la sua, dove la statuaria antica e la tradizione classica ebbero un ruolo giugno

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determinante, che toccò differenti discipline, dalla scultura alla pittura, passando per il disegno, iniziata nel campo dell’oreficeria per sfociare nella bronzistica, con manufatti d’eccezione come l’Incredulità di san Tommaso per la chiesa fiorentina di Orsanmichele, allestita al Museo Nazionale del Bargello e il gruppo equestre di Bartolomeo Colleoni a Venezia. Tante polemiche hanno accompagnato la sua produzione pittorica, in quanto le sue due maggiori pale, il Battesimo degli Uffizi e la Madonna di Piazza a Pistoia, furono eseguite perlopiú da altri. Eppure insegnò a Perugino, Leonardo, Ghirlandaio, Bartolomeo della Gatta e Lorenzo di Credi e, intorno al 1470, creò una nuova immagine della Madonna col Bambino, dalla geometria impeccabile, la cui tensione è sospesa in un’atmosfera solenne e insieme vivace tra penombre poco accentuate, aprendo l’orizzonte verso paesaggi invasi di luce.

Qui accanto Madonna col Bambino, tempera su tavola di Andrea del Verrocchio. 1470 circa. Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie. Qui sotto, a destra L’arcangelo Raffaele e Tobiolo, tempera su tavola di Andrea del Verrocchio e bottega. 1470-1472 circa. Londra, The National Gallery. pensava di costruire una fontana. La statuetta bronzea, che raffigura un fanciullo alato in bilico su una calotta sferica, mentre stringe tra le braccia un pesce guizzante,

Quasi una polifonia La mostra monografica, che si snoda secondo un filo tendenzialmente cronologico, ma al tempo stesso radunando temi e generi sperimentati e sviluppati dal maestro fiorentino, è suddivisa in nove sezioni e otto sale, con accostamenti che creano una sensazione polifonica. Per l’occasione, è stata avviata una campagna di quattordici restauri che ha riportato all’originale splendore alcuni capolavori come il Putto col Delfino (Spiritello con pesce), in prestito dal Museo di Palazzo Vecchio che, usualmente, lo ospita al centro del Terrazzo di Giunone, oggi tamponato, ma che era in origine un loggiato aperto, dove Cosimo I de’ Medici

In basso Madonna che allatta il Bambino contro un paesaggio e altri soggetti, disegno di Leonardo da Vinci. 1478 circa. Castello di Windsor, Royal Library.

David vittorioso, statua in bronzo con tracce di dorature di Andrea del Verrocchio. 1468-1470 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

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ANTE PRIMA

A sinistra Madonna col Bambino e due angeli, tempera su tavola di Sandro Botticelli (al secolo Sandro di Mariano Filipepi). 1468 circa. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte. fu commissionata da Lorenzo il Magnifico per la villa medicea di Careggi: la figura è uno straordinario esempio di naturalezza, vitalità e dinamismo e suggerisce l’interesse di Verrocchio per il movimento che, qui, è rinforzato da quello del pesce e dall’acqua che gli fuoriesce dalla bocca. Per l’accurato trattamento delle superfici, è indubbio il debito a Desiderio da Settignano, «alter ego» dell’anziano Donatello, che non era piú in grado di lavorare il marmo e con cui Andrea cresce e matura. La prima sezione («Verrocchio tra Desiderio e Leonardo: i ritratti femminili») è incentrata sui bustiritratti muliebri, in cui Verrocchio fu capace di infondere i moti del corpo e dell’anima, con attento e sensibile studio delle espressioni,

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A destra Madonna col Bambino e due angeli (Madonna di Volterra), tempera su tavola di Andrea del Verrocchio. 1471-1472 circa. Londra, The National Gallery.

poi trasmesso a Leonardo pittore. Qui spicca la scultura in marmo, nota come Dama col Mazzolino, che evoca l’ideale di bellezza femminile dell’età laurenziana, basata su nobile grazia e virtú morali, ma anche innovativa rappresentazione grazie all’inserimento di braccia e mani, ponendosi come modello referenziale per i suoi seguaci.

Come un adolescente A «Gli eroi antichi e il David» è dedicata la seconda sala, che espone, al centro, un disegno leonardiano, sintesi dei due temi presentati, con teste caratterizzate da un lato e profilo del David dall’altro. La biblica figura è invece rappresentata da Verrocchio come un elegante e innocente adolescente, mentre si

ispirò ai rilievi marmorei di Desiderio per la produzione di eroi ed eroine dell’antichità, a mezzo busto e di profilo, ovali o rettangolari, ricercati per arredare gli studioli umanistici e decorare complessi architettonici, specializzandosi, però, nelle coppie di celebri condottieri affrontati, in rivalità generazionale e militare. Tra le opere esposte anche un disegno di Filippo Lippi chiamato Figura maschile panneggiata, che forse è lo studio di un manichino vestito di panni bagnati, secondo una pratica poi in uso anche nella bottega dello stesso Verrocchio. Il percorso prosegue con «Le Madonne tra scultura e pittura», spazio emblematico di quella breve, ma intensa stagione pittorica durante la quale il laboratorio di Andrea giugno

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diventò una fucina di giovani talenti e dove si realizzarono le cosiddette Madonne del davanzale, nelle quali Gesú è tenuto in piedi dalla madre, come prova l’opera proveniente da Berlino: un capolavoro caratterizzato da un’atmosfera limpida e tersa, di richiamo fiammingo, in cui la naturalezza è perseguita da un perfezionismo maniacale nei dettagli dei preziosi gioielli e degli abiti sontuosi, in una composizione elegante nella ricerca della monumentalità, quasi come in una presentazione teatrale, dove sguardi e gesti si concatenano in un dialogo affettivo, ma si fermano, sospesi in una purezza inumana. In scultura, il primo a essere attratto nell’orbita di Andrea e che ne divenne un’eco fedele fu il coetaneo Francesco di Simone Ferrucci, al quale il maestro delegò le committenze in marmo per dedicarsi al piú remunerativo bronzo, mentre Leonardo prese in carico il settore della pittura.

umbro realizzò in collaborazione con il giovane Pintoricchio e che decoravano gli stipiti di una nicchia nell’oratorio di Perugia a lui intitolato; la nitidezza delle scene poste in ambienti dalla accurata prospettiva, abitati da eleganti figure e racchiuse da cornici dipinte che simulano la presenza di pietre preziose fecero scuola al di fuori della cerchia iniziale, arrivando anche a Roma, dove, tra l’altro, Andrea soggiornò per un breve periodo chiamato da papa

Sisto IV; per l’altare della Cappella Sistina, eseguí alcune statue di Apostoli in argento, oggi perdute. Proprio l’esperienza romana che, cronologicamente, ha luogo dopo il passaggio dall’oreficeria alla scultura monumentale – dovuto all’insegnamento di Donatello e Desiderio –, viene ricordata nella sesta sala, che propone, tra l’altro, un piccolo disegno di forma trapezoidale dai delicati effetti tonali, intitolato Venere e Cupido e attribuito a Verrocchio, con la probabile collaborazione del giovane Leonardo, la cui mano è riconoscibile nelle canne palustri sulla sinistra, mosse dal vento.

Un ritratto «verista» Verrocchio si cimentò anche come frescante, raggiungendo eccellenti risultati, come testimonia il frammento di affresco strappato dalla sagrestia della chiesa di S. Domenico a Pistoia che raffigura san Girolamo e una santa martire, dettaglio di una composizione raffigurante una Sacra Conversazione, inserita in una imponente architettura pervasa di luce chiara. L’accentuata caratterizzazione del volto intensamente espressivo e l’evidenziazione di rughe e vene del santo prefigurano la resa fisica attuata poi da Leonardo, in quegli anni garzone nella sua bottega. Sulla «Scuola di Verrocchio pittore» si focalizza, invece, la quinta area della rassegna, ricca di opere di Ghirlandaio e Perugino, eredi e divulgatori del linguaggio del loro maestro, elaborato in maniera personale, come attestano, per esempio, le tavole con le Storie di san Bernardino, che l’artista

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In alto San Girolamo, tempera su carta incollata su tavola di Andrea del Verrocchio 1465-1470 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi. A destra Incredulità di san Tommaso, gruppo in bronzo con dorature di Andrea del Verrocchio. 1467-1483. Firenze, Chiesa e Museo di Orsanmichele.

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ANTE PRIMA La scultura che diventa «padrona dello spazio» è, invece, la tematica del settimo ambiente, che ha come «star» il già citato Putto con delfino, commissionato da Lorenzo il Magnifico, opera in cui classicità e dinamismo si uniscono in una invadente dimensione spaziale, pensata per decorare l’apice di una fontana monumentale il cui prototipo moderno costituito da una serie di vasche concentriche fu fissato da Andrea, che decise di esportare i modelli realizzati per i Medici alla corte ungherese del re Mattia Corvino. A quest’ultimo ci riporta il blasone degli Hunyadi – due corvi su un ramo che tengono nel becco un anello diamantato –, riprodotto su un frammento. La penultima sezione omaggia l’arte piú matura del protagonista che, dal 1475, si fece piú solenne, con la ricerca di una maggiore dolcezza nei volti delle figure dai panneggi rigonfi e disposte simmetricamente, come testimoniano la pala d’altare per la cappella della Madonna di Piazza, eretta per volere del vescovo Donato de’ Medici, completata da Lorenzo di Credi un decennio piú tardi, e il cenotafio del cardinale Niccolò Forteguerri per il Duomo di Pistoia; l’innovativa invenzione scenografica di Andrea, dove il monumento è trasformato quasi in una pala d’altare unificata, è apprezzabile nei bozzetti in terracotta. Di indubbio interesse è la teletta con la Testa di san Donato a confronto con la Madonna di Piazza, e con gli studi di panneggio su lino di Verrocchio e di Leonardo, nella sala seguente: indagare i moti interiori studiando Qui accanto Madonna col Bambino, scultura in terracotta di Leonardo da Vinci. 1472 circa. Londra, Victoria and Albert Museum. A destra Spiritello con pesce (Putto col delfino), scultura in bronzo di Andrea del Verrocchio, 1470-1475 circa. Firenze, Musei Civici FiorentiniMuseo di Palazzo Vecchio.

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le sembianze fisiche fu una costante in Leonardo, cosí come i tratteggi diagonali inclinati a sinistra.

Tecniche sperimentali Chiude l’esposizione in Palazzo Strozzi «Il “Piegar de’ Panni” si immerge nella Luce», in cui si tratta lo studio dei panneggi che, nella seconda metà del XV secolo, assunse il valore di genere autonomo. Nel laboratorio di tecniche sperimentali di Andrea si testarono dipinti su sottilissime tele di lino che riproducevano drappi veri imbevuti di cera o terra liquida modellati su manichini. Mentre nei lini di Andrea dai tagli esatti, le superfici monocrome prendono vita attraverso la luce, in quelli di Leonardo i passaggi piú sfumati raggiungono un tale un livello di astrazione da rendere superflua la presenza della figura umana. Circondata dai preziosi teli, è possibile ammirare l’unica opera plastica nota di Leonardo, eseguita quando era ancora tirocinante, raffigurante una Madonna con Bambino in terracotta monocroma,

che ha alcuni riscontri diretti con disegni e dipinti dell’autore, ottimo modellatore di argilla grazie alla sua lunga permanenza a lato del suo maestro. Un unicum nel panorama della scultura italiana rinascimentale, dall’esecuzione magistrale, nata in un ambiente sofisticato, conservata al Victoria and Albert Museum di Londra come manufatto erroneamente attribuito ad Antonio Rossellino. Mila Lavorini

DOVE E QUANDO

«Verrocchio, il maestro di Leonardo» Firenze, Palazzo Strozzi, con una sezione speciale al Museo Nazionale del Bargello fino al 14 luglio Orario tutti i giorni, 10,00-20,00 (giovedí, orario serale prolungato fino alle 23,00) Info tel. 055 2645155; www.palazzostrozzi.org Catalogo Marsilio Editori giugno

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ANTE PRIMA

«Sanza lettere», ma non troppo MOSTRE • Il Museo Galileo di Firenze fa luce su un

aspetto all’apparenza «oscuro» di Leonardo. Rivelando come il genio fosse tutto, fuorché un illetterato...

N

on sapremo mai se quando volle definirsi «omo sanza lettere», Leonardo non l’avesse fatto con una punta di civetteria, sapendo bene di non essere un ingegno come tanti. Eppure, quell’ormai celeberrimo outing ha alimentato il mito del genio capace di prodigiose invenzioni, ma non altrettanto a suo agio fra testi della classicità e trattati. Un’immagine suggestiva, ma priva

di fondamento. Leonardo, infatti, non era un illetterato, ma, anzi, era alla costante ricerca del dialogo con gli autori, antichi e moderni e, nel tempo, era diventato un appassionato lettore e bibliofilo. Da questo assunto ha preso le mosse la mostra allestita nel Museo Galileo di Firenze che racconta come per lui i libri non fossero soltanto oggetti, bensí affascinanti «macchine» mentali, da costruire e smontare, con i loro In alto una pagina dell’opera Summa di arithmetica geometria proportioni e proportionalità di Luca Pacioli. 1494. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale. A sinistra pagina di un’edizione della Commedia di Dante Alighieri commentata da Cristoforo Landino. 1481. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.

ingranaggi (parole, pensieri, immagini). Alla fine della sua vita, arrivò a possedere quasi duecento volumi: un numero straordinario per un ingegnere-artista del Quattrocento.

La biblioteca «perduta» Tuttavia, la biblioteca di Leonardo è uno degli aspetti meno conosciuti del suo laboratorio, perché si tratta di una biblioteca «perduta»: un solo libro è stato finora identificato, il trattato di architettura e ingegneria di Francesco di Giorgio Martini conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, con postille autografe dello stesso Leonardo. Per la prima volta, dunque, si è tentata la ricostruzione di questa biblioteca, in un percorso che

DOVE E QUANDO

«Leonardo e i suoi libri. La biblioteca del Genio Universale» Firenze, Museo Galileo fino al 22 settembre

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Orario lu-do, 9,30-18,00 (martedí chiusura alle 13,00) Info tel. 055 265311; e-mail: info@museogalileo.it https://mostre.museogalileo.it/ bibliotecageniouniversale giugno

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racconta l’incontro di Leonardo con il mondo dei libri e della parola scritta: i documenti della famiglia Da Vinci, i primi grandi libri del giovane Leonardo (Dante, Ovidio), i grandi maestri (Alberti, Toscanelli, Pacioli). Per la mostra sono stati riuniti manoscritti e incunaboli identificati con i testi utilizzati da Leonardo, affiancati da applicazioni multimediali che consentono di sfogliarli e confrontarli con i codici autografi. È stato inoltre ricostruito lo studio di Leonardo, con gli strumenti di scrittura e da disegno da lui utilizzati. (red.) Qui sotto una pagina della Cronicha de tuto el monde vulgare di Giacomo Filippo Foresti. 1491. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale. Al centro lista di libri stilata da Leonardo da Vinci, dal Codice Atlantico. 1495 circa. Milano, Biblioteca Ambrosiana.

On line gli studi di una vita U

n po’ come Leonardo da Vinci, del quale parliamo in queste stesse pagine, anche lo storico dell’arte Giovan Battista Cavalcaselle (18191897) si definí «non uomo di lettere, ma bensí uno il quale ha passato la vita studiando le opere d’arte». Resta il fatto che mise insieme una mole considerevole di appunti e di studi, frutto delle sue ricerche e dei numerosi viaggi in Italia e in Europa, ai quali si aggiungono i libri. Nel 1904, quel patrimonio fu donato dalla vedova, Angela Rovea, alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, andando a costituire il Fondo Cavalcaselle. In quattordici manoscritti è documentato l’importante lavoro di studio e ricerca che Giovan Battista compí nell’arco della sua vita, ai quali si aggiungono cinquecento fra libri e opuscoli. Quel patrimonio è stato interamente digitalizzato ed è ora disponibile on line: http:// fondocavalcaselle.venezia.sbn.it/FondoCavalcaselleWeb/frame.htm. Per storici dell’arte e per appassionati è dunque accessibile una miniera ricchissima di notizie «visive» sui piú grandi artisti della storia dell’arte: Antonello, i Bellini, Raffaello, Mantegna, Tiziano, i fiamminghi. (red.) In basso una pagina dal Trattato d’abacho di Benedetto da Firenze. 1480 circa. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

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ANTE PRIMA

All’ombra delle (scomparse) torri ITINERARI • Un nuovo percorso di

visita, denominato «Alba sotterranea», propone la riscoperta della plurisecolare vicenda urbanistica della città piemontese. A partire dalle «radici» delle strutture che nel Medioevo ne connotarono la fisionomia

A

Alba. Ricostruzione grafica delle torri romaniche di piazza Duomo. Nella parte bassa del disegno si immagina il cantiere della Torre Negri.

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lba è detta «Città delle Cento Torri», eppure, quando passeggiamo per il centro storico di quest’affascinante cittadina langarola – nota ai gourmet di ogni parte del mondo per il prezioso tartufo bianco –, pur ammirando qua e là qualche torre d’epoca comunale, stentiamo a comprendere le ragioni di un simile appellativo. Un inconsueto percorso archeologico, articolato in 32 tappe nel cuore della città invisibile, illustra attraverso pregevoli resti romani e medievali come si presentava il tessuto urbano nei secoli IV-V e in che modo le progressive trasformazioni ne hanno modificato l’assetto insediativo. Punto di osservazione privilegiato per la ricostruzione delle vicende architettoniche è piazza Risorgimento, fulcro civile e religioso fin dall’età romana. Quest’area ha restituito i reperti piú antichi di Alba Pompeia: due strutture murarie parallele in ciottoli fluviali e laterizi e cinque basi di grandi pilastri quadrangolari riconducibili a un edificio pubblico con porticato, che dava sull’ala lunga meridionale giugno

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del foro. Quest’ultimo, di forma rettangolare, era attraversato dal cardine massimo, e circondato sui lati lunghi da due porticati, mentre su quelli corti affacciavano un tempio e una basilica, emersa in parte sotto la cattedrale di S. Lorenzo. Forse risalente al periodo paleocristiano, l’ecclesia episcopalis risulta perfettamente inserita nella maglia urbica romana e, come è accaduto in altre località, anche ad Alba pare sia stata innalzata nel sito piú ricco di valenze simboliche della città pagana per affermare il predominio della nuova fede, proponendo una differente gerarchia di poteri, nel contesto delle concitate fasi di transizione dall’età classica all’Alto Medioevo.

Case di legno e pietra Tra il VII e l’VIII secolo, Alba assunse un aspetto molto diverso da quello precedente. Umili abitazioni lignee quadrangolari, con pali inseriti nelle murature di domus da tempo abbandonate, frutto di un sapere costruttivo trasmesso da popolazioni longobarde giunte d’Oltralpe, occupavano lo

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Il Medioevo di Alba 490 Alba è saccheggiata dai Burgundi. 640 La città subisce un nuovo saccheggio, da parte dei Longobardi di Rotari. ● Fine dell’VIII sec. Fase carolingia della storia di Alba. ● X sec. Scorrerie di Ungari e Saraceni. ● Fine dell’XI-metà Si sviluppa il libero Comune. del XII sec. ● 1259 Ha inizio il primo periodo angioino. ● 1283 Alba si concede a Guglielmo VII di Monferrato. ● 1303 Secondo periodo angioino. ● 1342 Gli Angioini cedono la città a Tommaso II di Saluzzo ● 1369 Dopo alterne vicende, Alba torna definitivamente sotto il marchesato di Monferrato. Nell’ultimo quarto del XV sec. il marchese Bonifacio III concede gli Statuti comunali, il cosiddetto Libro della Catena. Un volume pergamenaceo, con legatura in cuoio su tavolette di legno, che deve il suo nome alla catena con cui era legato al banco, sul quale si esponeva per la consultazione. ● ●

spazio pubblico d’epoca romana, inframmezzandosi a costruzioni in rovina e grandi aree coltivate a orto. La rinascita urbanistica coincide con la scomparsa degli immobili in legno e l’avvio, tra il tardo XI secolo e la prima metà del successivo, dell’architettura in

In alto, da sinistra la torre campanaria del Duomo, databile tra la fine del XII e il XIII sec.; la torre Parrussa (o Paruzza; XVII sec.), la cui elevazione originaria fu abbassata in epoca moderna, e, in secondo piano, la torre Astesiano (XII-XIII sec.); la torre di Sineo, che si ritiene risalga al XII sec.

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ANTE PRIMA pietra. Tre semplici corpi di fabbrica rettangolari, che disposti intorno a un cortile centrale ricalcano gli orientamenti delle sottostanti murature del complesso pubblico romano pur non sfruttandone le fondazioni, e un torrione, sono tra gli esempi piú remoti. In generale la tecnica edilizia delle prime case medievali di Alba fu caratterizzata dal massiccio uso di pietre squadrate, recuperate dalle strutture romane. Conci lapidei di maggior grandezza, soprattutto negli angoli, furono utilizzati solo nella torre di piazza Risorgimento, con un lato di 4,30 m, appena inferiori a quelle della torre Belli. Quest’ultima, di ridotto volume, prospetta sulla via Maestra. Affiorata per intero durante i recenti restauri del palazzo rinascimentale, nella cui facciata fu inglobata nel Quattrocento, risale al Mille ed è ritenuta un unicum nel panorama In alto un capitello romano reimpiegato in una muratura di epoca medievale. A sinistra il Libro della Catena, manoscritto in pergamena del XV sec. che custodisce gli Statuti medievali del Comune di Alba. A destra la parete interna di una casa-forte, i cui resti sono compresi nel percorso di visita denominato «Alba sotterranea».

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albese, in quanto prima torre in blocchi di pietra da taglio. Col tempo alcune case-forti invasero piazza del Risorgimento, insieme a torri sempre piú vicine tra loro, altre si addensarono in corrispondenza della via Maestra, altre ancora occuparono con il loro torrione in fronte lo spazio, ove in precedenza si trovavano vie, aie e porticati, dando origine a un intensivo sviluppo dello spazio, a conferma di una densità insediativa notevole. giugno

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Le torri piú antiche, collegate a una fabbrica in pietra di forma rettangolare allungata (23 x 6 m circa), dotata di un piano superiore già nel XII secolo e partizioni interne in legno, hanno dimensioni minori, mentre quelle successive, piú grandi, mostrano una massiccia presenza di rivestimento e decorazione fittile. In origine non accessibili al piano terreno, esse appaiono caratterizzate da mura di 1,50 m, che in elevato riducono pian piano il loro spessore.

Abbassate e declassate Nel Quattro e Cinquecento, assistiamo a un’inversione di tendenza. Da una parte numerose ristrutturazioni interessano le abitazioni esistenti, determinandone la probabile riduzione dell’altezza delle torri, che hanno ormai perso lo scopo iniziale di rappresentare il prestigio e la ricchezza del loro

Di scimmie ammaestrate e altri prodigi... I

rapporti diplomatici fra l’Etiopia e l’Europa occidentale ebbero inizio nei primi anni del Trecento, vale a dire un secolo prima di quanto finora si sapeva. È quanto ha scoperto un gruppo di studenti dell’Università degli Studi di Milano impegnato in una ricerca coordinata da Paolo Chiesa, docente di Letteratura Latina Medievale e Umanistica dello stesso ateneo. Lo studio si è concentrato sulla trascrizione e la pubblicazione di un’opera latina inedita, la Cronaca universalis del frate domenicano milanese Galvano Fiamma, scritta nel XIV secolo e conservata in un unico manoscritto, realizzato a Milano e oggi negli Stati Uniti. In una sezione, l’autore medievale riferisce del ritrovamento di un’opera che si credeva perduta, un Tractatus scritto da Giovanni da Carignano, sacerdote titolare della chiesa situata nel porto di Genova, in cui si menzionavano ambasciatori etiopici approdati in città, venivano spiegate le ragioni della loro missione ed elencate le tappe del loro viaggio. Il Tractatus forniva inoltre numerose informazioni sull’Etiopia dell’epoca, dall’organizzazione politica ed ecclesiastica della regione (un regno cristiano, con vescovi e arcivescovi indipendenti dall’autorità del papa) a costumi e tradizioni locali (scimmie addestrate a diventare provetti arcieri, segni indelebili apposti alla fronte dei neonati come simboli di riconoscimento tribale, simboli e vestiti specifici utilizzati da sovrani e religiosi…), che Galvano puntualmente riporta. La parola passa ora agli specialisti del settore, che avranno il compito di validare la ricerca degli studenti, accertando anche quanto di questi racconti corrisponda effettivamente alla realtà storica. (red.)

proprietario. Dall’altra nuove, sontuose, dimore accolgono i ceti dirigenti cittadini. E il popolo? Risiede in case piú dimesse, costruite ancora parzialmente in legno e decorate con frontespizi in cotto, che riemergono sovente nei continui lavori di restauro nel centro storico. Per informzioni: www.ambientecultura.it, sezione Alba Sotterranea, tel. 339 7349949 o 342 6433395. Chiara Parente

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ANTE PRIMA

Arte e spirito ITINERARI • È ispirato

da questo significativo binomio il nuovo percorso di visita del magnifico Complesso Monumentale del Duomo di Spoleto

È

tornato visitabile, e lo sarà fino al prossimo 3 novembre, il Complesso Monumentale del Duomo di Spoleto, che comprende la Cattedrale, il Museo Diocesano e la Basilica di S. Eufemia, con le inedite «visioni» dall’alto – interne ed esterne – della sommità dell’abside del Duomo e del campanile. Il progetto promosso dall’Archidiocesi, con la collaborazione di Civita Opera, è stato battezzato «Arte dello Spirito-Spirito dell’Arte», formula con la quale si vuole proporre una lettura piú ampia dei monumenti della città, in cui la Cattedrale torna a essere non solo fulcro spirituale, ma anche artistico, da cui si diparte ogni altro itinerario. In questa prospettiva, due «visioni» straordinarie fanno parte del percorso. Il visitatore può ammirare dall’alto il ciclo di Filippo Lippi nell’abside e salire sulla vetta del campanile, dalla terra al cielo come espone l’iconografia degli affreschi del pittore fiorentino: dall’Annunciazione alla Natività, dalla Morte della Vergine all’Assunzione, fino alla rappresentazione dell’Empireo. D’altra parte la Cattedrale custodisce numerosi capolavori, dalla facciata al pavimento alle varie cappelle, percorrendo stili e scuole, dall’arte delle origini al romanico, dal Rinascimento al neoclassicismo.

Francesco scrive a Leone Ma il Duomo non conserva soltanto monumenti, è anche luogo per eccellenza della spiritualità, con particolare riguardo alla Cappella delle Reliquie dove è custodita la preziosa lettera autografa di san Francesco d’Assisi a frate Leone. Al santo, che ebbe la sua conversione a Spoleto, è dedicato anche un ciclo di affreschi ancora inedito, con l’episodio del lupo di Gubbio, che può essere mostrato ai visitatori durante la salita alla vista dell’abside. Oltre alla visita della Cattedrale, è possibile proseguire il cammino al Museo Diocesano e alla basilica di S. Eufemia. Situato

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DOVE E QUANDO

«Percorso Arte dello Spirito-Spirito dell’Arte» Spoleto, Cattedrale, campanile, basilica di S. Eufemia e Museo Diocesano Orario gli orari variano per i singoli siti coinvolti (vedi info) Info tel. 0577 286300; e-mail: prenotazioni@ duomospoleto.it; www.duomospoleto.it In alto la basilica di S. Eufemia. A sinistra il Duomo.

all’interno del Palazzo Arcivescovile, il museo è stato inaugurato alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso con lo scopo di conservare e di valorizzare il patrimonio storico-artistico del territorio dell’Archidiocesi di SpoletoNorcia. Le opere sono disposte cronologicamente nelle sale di rappresentanza del palazzo, dette «appartamento del Cardinale», che presentano affreschi eseguiti a partire dalla seconda metà del Cinquecento. La chiesa di S. Eufemia, uno dei piú notevoli edifici romanici dell’Umbria, si inserisce e impreziosisce il percorso del Museo Diocesano. Restano incerte le sue origini: secondo l’ipotesi piú accreditata, essa sorge sull’area un tempo occupata dal palatium, quando Spoleto fu sotto il dominio dei Longobardi che elessero la città a sede ducale. La basilica risulterebbe dunque come l’evoluzione della cappella palatina dei duchi longobardi dedicata alla stessa sant’Eufemia. (red.) giugno

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ANTE PRIMA

Cosí finí il giudicato APPUNTAMENTI • Nel

giugno di oltre seicento anni fa Sanluri fu teatro di una battaglia decisiva per le sorti della Sardegna. Il cui ricordo, come è ormai tradizione, anima uno dei piú avvincenti eventi rievocativi in programma nell’isola

Mannu, in piena. Le truppe di Arborea cercarono cosí di sfuggire risalendo un’altura, oggi nota col triste nome di S’Occidroxiu (il macello), dove furono massacrate. Tuttavia re Martino non godette a lungo della vittoria: morí appena un mese dopo, di malaria, contratta probabilmente nell’accampamento allestito vicino a una palude.

In posizione strategica Oggi queste vicende storiche vengono rievocate ogni anno nel piccolo centro sardo alla fine di

I

l 30 giugno 1409, nelle campagne attorno al paese sardo di Sanluri, le truppe locali del giudicato di Arborea, guidate da Guglielmo III, subirono l’attacco dell’esercito aragonese comandato da Martino I re di Sicilia. Quest’ultimo, benché numericamente inferiore, era militarmente piú preparato dell’esercito arborense. All’alba di quella domenica le truppe aragonesi si avvicinarono al borgo fortificato di Sanluri e a quel punto Guglielmo III uscí allo scoperto con i suoi fanti e lanciò la cavalleria contro la fanteria aragonese in un luogo oggi chiamato Bruncu de sa Battalla (Poggio della Battaglia). Martino I dispose i suoi a cuneo e la scelta tattica si rivelò vincente, in quanto sfondò lo schieramento avversario investendolo al centro e spezzandolo in due tronconi. La parte sinistra si divise a sua volta in due: una ripiegò a Sanluri, dove le forze aragonesi irruppero falcidiando 600 fanti; l’altra si rifugiò nel vicino castello di Monreale. Nel frattempo, il troncone destro delle truppe locali fu incalzato dalla cavalleria nemica, che gli chiuse ogni via di fuga e lo spinse nella vallata di Furtei, dove era impossibile guadare il Flumini

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giugno, con un’intera settimana di convegni, caroselli, spettacoli medievali, nonché la ricostruzione della battaglia del 1409, meglio nota in sardo come «Sa Battalla», con tanto di fanti e cavalieri nello stesso luogo dove avvenne. Oggi Sanluri è un comune della provincia del Sud Sardegna, che si estende a un’altitudine media di 135 m sul livello del mare. Come testimoniano vari ritrovamenti archeologici, la sua fondazione risale al periodo nuragico, ma la parte piú interessante della sua storia iniziò nel Medioevo. Pur essendo

Immagini di repertorio della «Batalla» in programma a Sanluri (Medio Campidano). un villaggio, per la sua posizione strategica fu conteso a lungo fra i Sardi del giudicato di Arborea e gli Aragonesi. L’esito della battaglia del 1409 comportò la fine del giudicato e la nascita del marchesato di Oristano. Al centro del paese svetta tuttora l’antico castello – oggi di proprietà privata –, costruito tra il XII e il XIV secolo, ampliato dagli Aragonesi nel 1436, quando ne entrarono in possesso. Tiziano Zaccaria giugno

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ANTE PRIMA

Vino bianco, sangue rosso APPUNTAMENTI • Il gesto maldestro

di un sacerdote è all’origine del miracolo prodottosi nel 1380 a Boxtel, nel Brabante. Un prodigio ancora oggi ricordato con sincera devozione e solennemente celebrato

B

oxtel è una cittadina olandese fondata nell’XI secolo, il cui benessere economico e sociale è stato garantito nel tempo dalle varie famiglie nobili che l’hanno governata: Van Horn, Van Cuyk, Van Merheym e Van Ranst. Situato nella provincia del Brabante Settentrionale, questo centro ha la sua tradizione piú radicata nel miracolo del Sangue Sacro, avvenuto nel XIV secolo. Tutto risale all’anno 1380, quando un sacerdote di nome padre Eligius van den Aker, durante la celebrazione di una santa messa nella chiesa di S. Pietro, dopo aver consacrato il vino lo versò in modo accidentale sulla tovaglia dell’altare. Nonostante fosse bianco, secondo la leggenda popolare il vino si trasformò miracolosamente in sangue rosso. Al termine della funzione religiosa, il sacerdote corse in sacrestia e cercò di rimuovere le macchie di sangue dal corporale, ma ogni tentativo si rivelò infruttuoso. Non sapendo cosa fare, nascose la tovaglia in un baule sotto il suo letto. Soltanto qualche mese piú tardi, in punto di morte, padre Eligius rivelò il segreto al suo confessore, padre Willem van Meerheim, il quale, a sua volta, informò subito il cardinale Pileus de Prata, delegato apostolico di papa Urbano VI e arcivescovo titolare della chiesa di S. Prassede. Dopo aver esaminato gli eventi, il cardinale autorizzò ufficialmente la venerazione delle reliquie del miracolo con un decreto datato 25 giugno 1380.

Il ritorno delle reliquie Molti secoli piú tardi, nel 1652, a causa di conflitti inter-confessionali, le reliquie furono trasferite a Hoogstraten, al confine con il Belgio. Soltanto nel 1924, dopo ripetuti appelli, il corporale macchiato di sangue fu restituito alla città di Boxtel. Ancora oggi, ogni anno, in occasione della festa della Santissima Trinità

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Due immagini della processione che ogni anno sfila per le vie di Boxtel (Olanda), commemorando il miracolo del Sangue Sacro di cui la città fu teatro nel 1380. (quest’anno nel pomeriggio di domenica 16 giugno) i cittadini di Boxtel organizzano una solenne processione per commemorare il miracolo eucaristico, esponendo la reliquia alla pubblica venerazione. Fra le oltre 500 comparse in costumi storici che animano il corteo, sfilano numerosi figuranti legati alle sacre scritture: Adamo ed Eva, Caino e Abele, i profeti Mosè, David, Isaia, Geremia, Ezechiele, gli apostoli guidati da Pietro. Non mancano poi tutti i protagonisti storici legati al miracolo, dal sacerdote Eligius van den Aker al pastore Willem van Merheim, dal cardinale Pileus de Prata con la sua delegazione ai nobili dell’entourage del signore di Boxtel, nonché una folta schiera di ancelle, scrittori, pellegrini: il tutto per offrire una vivida e realistica «fotografia» del Medioevo locale. T. Z. giugno

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GLI

ITALIANI ALLE CROCIATE

Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’assedio di Gerusalemme del 1099, da un’edizione della Historia di Guglielmo di Tiro. XIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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CROCIATE Guerra, fede e affari nel Levante mediterraneo

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Il contributo degli Italiani alle crociate costituisce dunque una vicenda complessa, che nel Dossier viene dipanata e analizzata in maniera minuziosa, ricostruendone le molteplici trame e tracciando il profilo di tutti i suoi protagonisti principali. Senza dimenticare la folla di anonimi mastri d’ascia che assicurarono i beni forse piú preziosi per le armate cristiane, vale a dire le navi. Furono soprattutto veneziani, genovesi e pisani i legni, grandi e piccoli, che solcarono il Mediterraneo per puntare sul Levante e partecipare a battaglie e assedi.

GLI

GLI ITALIANI ALLE CROCIATE

Nel tempo, a rendere peculiare la partecipazione italiana alle spedizioni crociate fu semmai il carattere non sempre nobilissmo delle imprese di volta in volta patrocinate: soprattutto le grandi potenze marinare – Genova, Pisa e Venezia – intuirono infatti le formidabili ricadute economiche delle «guerre sante», fatte di spartizione di terre, controllo delle rotte commerciali, quando non di veri e propri saccheggi, come accadde nel 1204 a Costantinopoli. Dove peraltro la Serenissima scrisse una delle pagine meno lusinghiere della sua storia, che oggi si tende a dimenticare, abbagliati dai tesori che dal Bosforo furono portati sulla laguna.

VO MEDIO E Dossier

N°32 Maggio/Giugno 2019 Rivista Bimestrale

ome scrive Antonio Musarra, che firma questo nuovo Dossier di «Medioevo», la storia delle crociate è stata e viene vista da molti come una questione prettamente franco-anglo-tedesca. In realtà, il fatidico appello lanciato da papa Urbano II a Clermont nel 1095 venne ascoltato anche in Italia e furono in molti ad accoglierlo, ingrossando le fila delle schiere di miltes Christi che partirono alla volta della Terra Santa, per portare aiuto ai cristiani d’Oriente, minacciati dall’avanzata turca, e liberare il Santo Sepolcro.

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CR SPE OC CIA IA LE TE

GUERRA, FEDE E AFFARI NEL LEVANTE MEDITERRANEO

16/04/19 12:44

• MILITES CHRISTI • LE CITTÀ MARINARE IN TERRA SANTA • LA CROCIATA DI FEDERICO II • IL VOTO DI LUIGI IX IL SANTO • LA CRISI DEL REGNO LATINO • DOPO LE CROCIATE

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AGENDA DEL MESE

Mostre VERCELLI LA MAGNA CHARTA: GUALA BICCHIERI E IL SUO LASCITO. L’EUROPA A VERCELLI NEL DUECENTO Arca, ex chiesa di San Marco fino al 9 giugno

A 800 anni dalla fondazione dell’abbazia di S. Andrea, Vercelli espone per la prima volta in Italia il manoscritto della Magna Charta Libertatum, nella sua redazione del 1217, che

a cura di Stefano Mammini

riconosce che nessuno, sovrano compreso, è al di sopra della legge e che chiunque ha diritto a un processo equo. Guala Bicchieri, legato pontificio presso la corte inglese e tutore del giovane re inglese Enrico III fece da «supervisore» al documento ponendo il proprio sigillo sia nella versione revisionata del 1216, sia nella riconferma della carta qui esposta, redatta nel 1217. info e-mail: info@ santandreavercelli.com; http://santandreavercelli.com

comprendere una preziosa portantina nuziale – realizzata per la consorte di uno shogun –, stampe e moderni manga. info www.metmuseum.org

A cavallo dell’anno Mille, quando la capitale dell’impero giapponese era Heian (l’odierna Kyoto), Murasaki Shikibu, nata nella potente famiglia dei Fujiwara, divenne dama di corte di Fujiwara no Akiko,

romanzo realistico della letteratura giapponese. Suddivisa in 54 capitoli, la storia narra la vita di Genji, il principe «splendente», dando conto delle sue innumerevoli avventure amorose e, dopo la sua morte, passa a descrivere le vicende dei suoi discendenti, introducendo personaggi femminili che si sono affermati come altrettante icone della letteratura giapponese. Ma, soprattutto, il romanzo è un grande quadro della società aristocratica del periodo Heian, descritta dall’autrice in tutto il suo splendore raffinato, ma anche nel dramma intimo dei suoi protagonisti, sentito come una concatenazione di fatalità ineluttabili. Nel tempo, il Genji Monogatari ha goduto di una straordinaria fortuna, della quale è ora testimonianza la mostra proposta dal Metropolitan Museum of Art, che, grazie a una selezione di oltre 100 opere, offre un saggio eloquente della

imperatrice e mecenate. Da quell’esperienza la donna trasse ispirazione per comporre il Genji Monogatari (La storia di Genji), opera narrativa che viene considerata come il primo

copiosa produzione artistica ispirata dal romanzo nell’arco di circa mille anni. Articolata in otto sezioni tematiche, la rassegna spazia dai dipinti alle calligrafie, dai manufatti in seta alle lacche, fino a

del fermento artistico che hanno caratterizzato il periodo tra Quattro e Cinquecento. L’esposizione indaga l’opera vinciana secondo le piú aggiornate linee guida museologiche e museografiche

NEW YORK LA STORIA DI GENJI: UN CLASSICO GIAPPONESE ILLUSTRATO The Metropolitan Museum of Art fino al 16 giugno

proviene dal Capitolo della cattedrale di Hereford nel Regno Unito. Si rende cosí omaggio al cardinale Guala Bicchieri che, con la posa della prima pietra alla data convenzionale del 19 febbraio 1219, avviò la costruzione dell’abbazia. La figura del prelato è però legata soprattutto alla vicenda della Magna Charta Libertatum, documento scritto in latino che il re d’Inghilterra Giovanni Senzaterra fu costretto a concedere ai baroni del Regno, suoi diretti feudatari, presso Runnymede, il 15 giugno 1215. Per la prima volta nella storia un testo di natura giuridica elenca i diritti fondamentali del popolo (o di una parte del popolo) e

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ROMA LEONARDO DA VINCI. LA SCIENZA PRIMA DELLA SCIENZA Scuderie del Quirinale fino al 30 giugno

Realizzata dalle Scuderie del Quirinale insieme al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano e alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, la mostra propone un percorso conoscitivo alla scoperta di Leonardo all’interno della fitta trama di relazioni culturali e

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nelle declinazioni legate alla storia dell’ingegneria, del pensiero, della cultura scientifico-tecnologica, andando dalla formazione toscana al soggiorno milanese per arrivare al tardo periodo romano. Spicca, nel percorso espositivo, la presenza di dieci disegni tra i piú noti del Codice Atlantico e dei portelli originali della chiusa del Naviglio di San Marco, rimasti in uso fino al 1929. A corredo degli originali leonardeschi una ricca selezione di modelli storici del Museo della Scienza e della Tecnologia, tra i quali grandi esemplari non esposti da decenni, manufatti di notevole importanza e impatto scenografico, alcuni dei quali restaurati negli ultimi anni. info www.scuderiequirinale.it ROMA FILIPPO RUSUTI E LA MADONNA DI SAN LUCA IN SANTA MARIA DEL POPOLO Castel Sant’Angelo, Sala della Biblioteca fino al 30 giugno

MOSTRE • L’Italia del Rinascimento. Lo splendore della maiolica Torino - Palazzo Madama, Sala Senato

fino al 14 ottobre (dal 14 giugno) info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it

A

llestita nella Sala del Senato di Palazzo Madama, «L’Italia del Rinascimento. Lo splendore della maiolica» presenta un insieme eccezionale di maioliche rinascimentali prodotte dalle piú prestigiose manifatture italiane, riunendo per la prima volta oltre 200 capolavori provenienti da collezioni private tra le piú importanti al mondo e dalle raccolte dello stesso Palazzo Madama. Il percorso espositivo si apre con una grande vetrina, che evoca il mobile protagonista della sala da pranzo rinascimentale, la credenza, dove le raffinate maioliche erano esposte sia per essere ammirate sia per servire all’apparecchiatura della tavola. Si passa quindi a documentare l’attività dei principali centri produttori di maiolica in Italia – Deruta, Faenza, Urbino, Gubbio, Venezia, Castelli e Torino –, per poi illustrare l’ampia varietà di temi riprodotti sulla maiolica istoriata, che, oltre ai soggetti religiosi, vede riccamente rappresentati soggetti profani, tratti dalla storia antica e dalla mitologia, o riguardanti la vita affettiva, come i temi amorosi, o lo status sociale dei committenti, come i servizi araldici.

Tra il 1400 e il 1500 si amplia e si differenzia l’uso delle maioliche nella vita sociale: nell’arredamento della casa italiana, in particolare nelle residenze di campagna, le maioliche istoriate venivano esposte sulle credenze ma anche usate sulle tavole e potevano essere offerte come doni in occasioni quali il matrimonio e il battesimo. L’epilogo è affidato a una serie di capolavori, collocati in singole vetrine: una coppia di albarelli di Domenigo da Venezia, un grande rinfrescatoio di Urbino e la brocca in porcellana medicea di Palazzo Madama, eccezionale esemplare della prima imitazione europea della porcellana cinese, realizzato da maiolicari di Urbino che lavoravano a Firenze alla corte di Francesco I de’ Medici.

Protagonista dell’esposizione è l’icona Madonna con il Bambino, proveniente dalla chiesa di S. Maria del Popolo a Roma, il cui recente restauro ne ha permesso l’attribuzione all’artista duecentesco Filippo Rusuti. L’opera, finora tradizionalmente attribuita all’evangelista Luca e per

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AGENDA DEL MESE questo nota come Madonna di San Luca, è una delle immagini piú venerate della storia della città di Roma, come attestano vuoi la fama di «immagine miracolosa» vuoi gli atti ufficiali della storia della Chiesa. La tavola (nello specifico una tela impannata su tre assi in legno di noce) mostra un’immagine di derivazione bizantina – la Vergine è ritratta di fronte, tiene in braccio il Bambino rigidamente eretto, completamente vestito e benedicente – e propone i tratti dell’iconografia tradizionale dell’Odigitria, «colei che mostra la via», cioè Cristo, arricchita però di un diverso pathos, quello dell’affettuosità familiare: la Madre volge il capo verso il figlio, indirizzandogli uno sguardo pieno di tenerezza. Il Figlio poggia la mano sinistra su quella della Madre, confermando il suo attaccamento. L’opera si discosta dall’inanimata astrazione delle figure, tipica dell’iconografia dell’epoca, e mostra nella gestualità e nella vivacità cromatica quel carattere d’intimità che sollecita l’empatia del fruitore. L’ultimo e accurato restauro ha portato alla luce parti di firma che si è potuta riconoscere come quella di Filippo Rusuti che firmò, verosimilmente entro il 1297, il monumentale mosaico che ancora orna, in parte nascosto dal loggiato settecentesco, la fascia superiore della facciata della basilica di S. Maria Maggiore. info tel. 06 32810410; www.art-city.it TREVISO GIAPPONE. TERRA DI GEISHA E SAMURAI Casa dei Carraresi fino al 30 giugno

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ROMA L’ARTE DI SALVARE L’ARTE. FRAMMENTI DI STORIA D’ITALIA Palazzo del Quirinale, Palazzina Gregoriana fino al 14 luglio

Ospitata nelle sale della Palazzina Gregoriana del Palazzo del Quirinale, l’esposizione è stata realizzata in occasione del 50° anniversario dell’istituzione del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Paraventi, dipinti, fotografie, armature e oggetti databili tra il 1300 e il 1900 raccontano l’arte, la cultura e i costumi del Giappone antico attraverso le opere raccolte in alcuni decenni dal collezionista trevigiano Valter Guarnieri. Lo straordinario rapporto sviluppato nei secoli dai Giapponesi con la natura e l’alternarsi delle stagioni, la determinazione assoluta dei samurai e la grazia sopraffina della geisha: sono questi alcuni degli argomenti piú importanti trattati nelle sale di Casa dei Carraresi. Il percorso si sviluppa per isole tematiche, approfondendo da un lato i molteplici aspetti relativi ai costumi e alle attività tradizionali del popolo giapponese, dall’altro proponendo approfondimenti sulle peculiarità e sulla storia della collezione. Da segnalare, a coronamento del percorso espositivo, la sezione riservata a una delle forme d’arte piú complesse e insieme piú affascinanti del Giappone, la scrittura, documentata da grandi paraventi ornati di potenti calligrafie. info tel. 0422 513150; e-mail: mostre@artikaeventi.com; www.casadeicarraresi.it

Culturale, un reparto specializzato dell’Arma dei Carabinieri che venne creato il 3 maggio del 1969 per contrastare i crimini a danno al nostro patrimonio storico-artistico. Sono stati dunque riuniti alcuni dei piú significativi beni culturali recuperati in mezzo secolo di intensa e proficua attività investigativa, unitamente a opere restituite al patrimonio artistico nazionale grazie

all’azione di diplomazia culturale messa in atto di concerto con il Ministero per i beni e le attività culturali. Si possono ammirare oggetti trafugati da chiese, musei, aree archeologiche, biblioteche e archivi, e conoscere, nel contempo, la storia del loro recupero; in mostra vi sono anche alcuni beni messi in sicurezza nelle zone dell’Italia centrale colpite dai drammatici eventi sismici del 2016. info http://palazzo.quirinale.it/

TORINO LEONARDO DA VINCI. DISEGNARE IL FUTURO Musei Reali, Sale Palatine della Galleria Sabauda fino al 14 luglio

Il percorso espositivo allestito nella Galleria Sabauda ruota intorno al nucleo di disegni autografi di Leonardo da Vinci conservati alla Biblioteca Reale, comprendente tredici fogli acquistati dal re Carlo Alberto nel 1839, oltre al giugno

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celebre Codice sul volo degli uccelli donato da Teodoro Sabachnikoff al re Umberto I nel 1893. Opere, databili all’incirca tra il 1480 e il 1515, in grado di documentare l’attività di

combattimenti di nudi di Raffaello provenienti da Oxford, si presenta ciò che Benvenuto Cellini definí «la scuola del mondo». In mostra è presente anche il Codice Trivulziano, concesso in prestito dalla Biblioteca Trivulziana del Castello Sforzesco di Milano per la prima volta dopo il 1935. Un’opera capitale, il quaderno sul quale Leonardo annotò i suoi pensieri e le sue riflessioni sul lessico. info tel. 011 5211106; e-mail: mr-to@beniculturali.it FIRENZE VERROCCHIO, IL MAESTRO DI LEONARDO Palazzo Strozzi, con una sezione speciale al Museo Nazionale del Bargello fino al 14 luglio

Leonardo dalla giovinezza alla maturità. Alcuni disegni sono in relazione con celebri capolavori del maestro: i nudi per la Battaglia d’Anghiari, i cavalli per i monumenti Sforza e Trivulzio, lo studio per l’angelo della Vergine delle Rocce, noto come Volto di fanciulla. Oltre all’unicum, il celeberrimo Autoritratto di Leonardo, posto in dialogo con rappresentazioni di sé realizzate dagli artisti contemporanei Luigi Ontani, Salvo, Alberto Savinio. Per restituire il senso, l’origine e la peculiarità del lavoro di Leonardo, la genesi dei disegni torinesi è indagata in relazione con analoghe esperienze di altri artisti, attraverso l’esposizione di maestri fiorentini quali Andrea del Verrocchio e Pollaiolo, lombardi come Bramante e Boltraffio, fino a Michelangelo e a Raffaello. Riunendo in mostra il disegno di Michelangelo per la Battaglia di Cascina, quello di Leonardo per la Battaglia di Anghiari e i

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Dedicata a un artista emblematico del Rinascimento e prototipo del genio universale, la mostra riunisce capolavori di Verrocchio, a confronto serrato con opere capitali di precursori, artisti a lui contemporanei e discepoli, come Desiderio da Settignano, Domenico del Ghirlandaio, Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Bartolomeo della Gatta, Lorenzo di Credi e Leonardo da Vinci. Verrocchio sperimentò nella sua bottega tecniche e materiali diversi, dal disegno alla scultura in marmo, dalla pittura alla fusione in bronzo. Egli formò un’intera generazione di maestri, con i quali ha sviluppato e condiviso generosamente il proprio sapere. Nella storia dell’arte solo Giotto, Donatello e Raffaello hanno dato origine a una «scuola» paragonabile a quella di Verrocchio.

Tramite il suo insegnamento si formarono artisti che hanno diffuso in tutta Italia, e fuori, il gusto e il linguaggio figurativo fiorentino, come testimoniano opere quali il David in prestito dal Museo Nazionale del Bargello, uno dei simboli assoluti dell’arte del Rinascimento e della città di Firenze stessa, e il Putto col delfino, in prestito dal Museo di Palazzo Vecchio, opera capitale e modello di naturalezza. Alla scultura si affiancano dipinti supremi come la Madonna col Bambino della Gemäldegalerie di Berlino o la Madonna col Bambino e angeli e l’Arcangelo Raffaele e Tobiolo della National Gallery di Londra: capolavori presentati insieme per la prima volta, che attestano lo straordinario talento di Verrocchio nel campo della pittura, in cui diviene punto di riferimento per i suoi celebri allievi. La mostra, inoltre, collega idealmente Palazzo Strozzi col Museo del Bargello: luoghi

espositivi distinti, ma complementari, di un percorso articolato in undici sezioni, di cui nove a Palazzo Strozzi e due al Museo del Bargello, dedicate al tema dell’immagine di Cristo, dove sarà esposta l’Incredulità di san Tommaso, capolavoro bronzeo di Verrocchio. info tel. 055 2645155; www.palazzostrozzi.org TORINO MICHELANGELO. DISEGNI DA CASA BUONARROTI Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli fino al 21 luglio

Con questa mostra, la Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, che offre in esposizione permanente negli spazi progettati da Renzo Piano venticinque capolavori appartenuti all’avvocato Giovanni e a sua moglie Marella, prosegue la propria ricerca sul panorama collezionistico nazionale e internazionale, incontrando in Casa Buonarroti un’altra straordinaria esperienza di raccolta familiare resa disponibile

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AGENDA DEL MESE alla fruizione pubblica. Il percorso espositivo propone accostamenti che restituiscono ai visitatori il senso del dialogo tra anatomia e architettura, essenziale nell’opera di Michelangelo, dando nel contempo modo di scoprire momenti della genesi degli affreschi della volta della Cappella Sistina. In primo piano vi sono gli studi dedicati all’anatomia, potente espressione di un’analisi meticolosa e appassionata del corpo umano. Accanto a essi due fogli preparatori degli affreschi della volta della Cappella Sistina, testimonianze eccezionali dell’ideazione dell’Adamo della Cacciata dal Paradiso Terrestre e di un particolare degli Ignudi. A confronto con questo nucleo, quattro splendidi disegni di studi per la facciata di S. Lorenzo e per il vestibolo della Biblioteca Laurenziana. info tel. 011 0062713; www.pinacoteca-agnelli.it PARIGI TESSUTI LITURGICI DI TRADIZIONE BIZANTINA DALLA ROMANIA Museo del Louvre fino al 29 luglio

Ruota intorno all’importante prestito dello Stendardo di San Giorgio la mostra nuova allestita nell’Ala Richelieu del Louvre, che mira a sottolineare l’eccezionale levatura delle collezioni rumene di tessuti ricamati di tradizione bizantina. Realizzato su commissione del re Stefano III il Grande (14571504) nel monastero di Zografou (uno dei complessi religiosi del Monte Athos), lo stendardo fu donato dalla Francia alla Romania nel 1917 e in questo suo ritorno temporaneo è affiancato da altre opere di grande pregio, tessute e ricamate fra il XV e il XVII secolo. Eredi dei modelli sviluppati a Bisanzio, i paramenti delle panoplie sacerdotali – destinate a vescovo, sacerdoti e diaconi – e quelli delle panoplie liturgiche – utilizzate durante le cerimonie – compongono un insieme unico al mondo, nel quale si coglie il passaggio dalle figure ieratiche tipicamente bizantine a una ritrattistica piú vicina al vero. info www.louvre.fr TREVISO DA VINCI EXPERIENCE Palazzo della Camera di Commercio di Treviso e Belluno fino al 4 agosto

Sfruttando e incrociando le soluzioni offerte dal digitale, Da Vinci Experience condensa nello spazio di 45 minuti il percorso di Leonardo, un uomo capace di essere pittore, architetto, scultore, ingegnere, poeta e musicista. Il progetto espositivo permette di volare con occhi e suoni nella suggestione di un mondo che non c’è, ma anche toccare i progenitori di strumenti di uso comune – dal cric alla bicicletta, dal cambio di velocità al pistone – riprodotti con la massima fedeltà sulla base dei disegni del maestro. info tel. 393 8007367; e-mail: info@davinciexperience.it; www.davinciexperience.it

capelli liberi, lunghi, scarmigliati da un vento che irrompe violento in scena: in questa tavoletta Leonardo dipinge esattamente ciò che lui stesso ha suggerito, a proposito della raffigurazione della chioma della figura femminile, nel Trattato sulla pittura: «Fa tu adunque alle tue teste gli capegli scherzare insieme col finto vento intorno agli giovanili volti, e con diverse revolture graziosamente ornargli». Quattro le sezioni in cui si articola la rassegna. La prima include alcune antichità e i primi passi di una ricerca pittorica rinascimentale che troverà in Leonardo la sua massima espressione. La seconda annovera alcuni dipinti e disegni originali di Leonardo o di ambito

PARMA LA FORTUNA DE «LA SCAPILIATA» DI LEONARDO DA VINCI Complesso Monumentale della Pilotta, Galleria Nazionale fino al 12 agosto

Una sequenza di opere di altissimo livello – firmate da artisti del calibro di Gherardo Starnina, Bernardino Luini, Hans Holbein, Tintoretto, Giovanni Lanfranco – fa da corona alla affascinante «Scapiliata» leonardesca. Nessuna cuffia, nessuna crocchia o velo intorno al volto, bellissimo e intenso. Ma

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fiorentino, precedenti o contemporanei all’artista, in cui viene trattato il tema dei capelli scomposti, come fiamme ondeggianti nell’aria a causa del vento, tra cui la celebre Leda degli Uffizi. Vengono poi riunite derivazioni antiche del tema leonardesco, a testimonianza della precoce fortuna critica di questo soggetto iconografico. info tel. 0521 233309; http://pilotta.beniculturali.it giugno

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MILANO INTORNO ALLA SALA DELLE ASSE. LEONARDO TRA NATURA, ARTE E SCIENZA Castello Sforzesco, Museo d’Arte Antica, Sala dei Ducali fino al 18 agosto

Collection, dal Museo del Louvre, Parigi, dal Kupferstichkabinett, Berlino e dalle Gallerie degli Uffizi, Firenze. info www.milanocastello.it

La mostra fa da corollario alla riapertura della Sala delle Asse, all’interno della quale Leonardo sviluppò il suo concetto di imitazione della

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natura tanto da immaginare un sottobosco e, al di là degli alberi, case e colline all’orizzonte: dalla stanza del duca Sforza al territorio da lui governato. La rassegna è concepita attorno a una rigorosa selezione di disegni originali di Leonardo da Vinci e di altri maestri del Rinascimento, che mostrano relazioni iconografiche e stilistiche stringenti con particolari della decorazione naturalistica e paesaggistica della Sala delle Asse, ora resi visibili grazie ai saggi di scopritura effettuati sulle pareti, indizi di straordinaria importanza per poter approfondire la conoscenza del progetto compositivo originario. Il progetto espositivo si deve alla Direzione del Castello Sforzesco, che ha potuto avvalersi della partecipazione di grandi musei internazionali, con prestiti provenienti dalla Her Majesty The Queen from the Royal

Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna della Basilicata Palazzo Lanfranchi fino al 19 agosto

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RINASCIMENTO VISTO DA SUD: MATERA, L’ITALIA MERIDIONALE E IL MEDITERRANEO TRA ‘400 E ‘500

Il progetto espositivo intende ricostruire, attraverso un racconto visivo fatto di opere d’arte ma anche di oggetti e documenti storici, la fioritura artistica e culturale avvenuta nell’Italia meridionale nel secolo a cavallo tra la metà del Quattrocento e la metà del Cinquecento in relazione con il piú ampio contesto del Mediterraneo. La mostra, che prevede un approfondimento particolare su Matera e la Basilicata, è integrata e arricchita da speciali percorsi di conoscenza e valorizzazione delle opere d’arte tardogotiche e rinascimentali disseminate nel territorio regionale, inamovibili per tipologia o per dimensioni. In tali percorsi vengono considerati i principali affreschi locali del tempo, per esempio quelli di S. Donato a

Ripacandida, quelli della chiesa rupestre di S. Barbara a Matera e quelli della Trinità di Miglionico, ma anche i grandi polittici come quello di Cima da Conegliano sempre a Miglionico, che testimonia, insieme alla straordinaria scultura raffigurante Sant’Eufemia del Duomo di Montepeloso oggi Irsina, l’attenzione locale alla cultura veneta; oppure le opere realizzate nei primi decenni del Cinquecento da Giovanni Luce o Francesco da Tolentino a Pietrapertosa o, infine, i numerosi polittici eseguiti per i paesi lucani (Senise, San Chirico Raparo, Salandra, Stigliano etc), da Simone da Firenze, prolifico pittoreemigrante che nella Basilicata interna trovò una committenza pienamente soddisfatta del

suo linguaggio «moderno», che guardava ai maestri toscani della fine del secolo precedente. I percorsi di valorizzazione territoriale coinvolgono anche la vicina Puglia, dove non si possono dimenticare, per esempio, gli affreschi della chiesa di S. Caterina a Galatina o quelli di S. Stefano a Soleto. info tel. 0835 256384; www.materaevents.it

PARIGI CINQUE SENSI. UN’ECO ALLA DAMA E L’UNICORNO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 20 agosto

Nel Medioevo, ciascuno dei cinque sensi – dal tatto alla vista – aveva una funzione non soltanto materiale, ma anche spirituale e da questo presupposto nasce il percorso ideato dal Museo di Cluny per far scoprire ai visitatori le proprie collezioni in attesa che vengano ultimati i lavori di ristrutturazione dell’edificio. I cinque sensi sono descritti e valutati in numerosi trattati medievali e vengono utilizzati come altrettante chiavi di lettura dell’universo, dalla sfera delle relazioni umane alla religione. Secondo i dettami dell’amor cortese, traducono il progressivo avvicinamento verso la persona amata, fino a che essa non viene toccata; quanto alla liturgia, dall’uso dell’incenso alla vestizione del sacerdote, il ricorso ai cinque sensi è costante e facilita l’esperienza del divino. A sviluppare e approfondire questo tema affascinante concorrono una cinquantina di

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AGENDA DEL MESE tessuti ricamati, miniature, sculture e gioielli, la cui presentazione culmina con il ciclo di arazzi della Dama e l’unicorno, nella cui rappresentazione compare un padiglione sormontato dal motto «Mon seul desir» («Il mio unico desiderio»), che sembra evocare un sesto sesto, forse capace – secondo la filosofia medievale – di dare accesso al discernimento. info www.musee-moyenage.fr TORINO GOCCIA A GOCCIA DAL CIELO CADE LA VITA. ACQUA, ISLAM E ARTE MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre

Ma’, poche lettere in arabo. Comincia tutto da lí. E a partire dalle affermazioni del Corano

nostri sogni piú profondi: evoca la maternità, la pulizia, la purità, la sensualità, la nascita e la morte. Questo naturalmente vale per ogni civiltà, ma nell’Islam tale serie di idee ha trovato un suo senso piú profondo, facendo dell’acqua uno dei cardini stessi dell’esistenza umana: un cardine tanto spirituale quanto sociale ed estetico. La mostra è una narrazione attraverso immagini, reperti, libri e miniature: tecnologia, vita quotidiana e arte, che per secoli si sono rispecchiate nelle tante diverse fruizioni dell’acqua. info tel. 011 4436932; e-mail: mao@fondazionetorinomusei.it; www.maotorino.it LEIDA GIARDINI MEDIEVALI. PARADISI TERRENI A ORIENTE E A OCCIDENTE Rijksmuseum van Oudheden fino al 1° settembre

e della letteratura successiva, l’esposizione illustra lo sviluppo storico dei tanti ruoli e significati ricoperti dall’acqua e l’incarnazione dei suoi significati nell’arte e nei manufatti islamici. Tra l’acqua e il mondo islamico esiste infatti un rapporto antico e intimo. Le ragioni climatiche lo spiegano solo in parte: vi è un’eredità antica di culture e civiltà precedenti, un senso religioso profondo e tante complesse ragioni sociali e culturali. L’acqua appartiene ai

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Grazie a una ricca selezione di reperti archeologici e opere d’arte il museo olandese offre un’immagine eloquente della ricchezza, dell’importanza e delle multiformi declinazioni dei giardini nell’Occidente cristiano e nel mondo islamico fra il 1200 e il 1600. Si possono ammirare tappeti, erbari, manoscritti miniati con immagini di giardini ideali e maioliche orientali decorate da motivi floreali. Non mancano poi utensili e attrezzature per l’allestimento degli spazi verdi, semi e piume, cappucci per i falconi utilizzati nella caccia, pedine del gioco degli scacchi, vasi da farmacia e strumenti musicali. Un insieme di materiali che provano quanto i giardini fossero importanti per l’uomo medievale, non solo dal punto di vista pratico – perché

in grado di produrre piante commestibili e medicamentose –, ma anche per il ristoro e lo svago. Ed è significativo ricordare come la parola paradiso derivi dal vocabolo antico persiano pairidaeza e come sia nel Corano che nella Bibbia il paradiso venga descritto come un giardino nel quale crescono piante sempreverdi, attraversato da placidi corsi d’acqua, e dove uomini e animali vivono in armonia. info www.rmo.nl FERRARA

un ruolo non secondario di prestatori, medici, mercanti, oppure oggetto di pregiudizio. Interpreti di una stagione che racchiude in sé esperienze multiple, incontri, scontri, momenti armonici e brusche cesure. Il MEIS racconta per la prima volta questo ricco e complesso confronto. Ricostruire tale intreccio di reciproche sperimentazioni significa riconoscere il debito della cultura italiana verso l’ebraismo ed esplorare i presupposti ebraici della civiltà rinascimentale. E significa ammettere che questa compenetrazione non è sempre stata sinonimo di armonia, né di accettazione priva di traumi, ma ha comportato intolleranza, contraddizioni, esclusione sociale e violenza ai danni del gruppo ebraico, impegnato nella difficile difesa della propria specificità. Della ricca selezione di opere scelte per la mostra fanno parte dipinti come la Sacra famiglia e

IL RINASCIMENTO PARLA EBRAICO MEIS, Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah fino al 15 settembre

Tema dell’esposizione (si veda anche, in questo numero, il Dossier alle pp. 85-111) è uno dei periodi cruciali della storia culturale della Penisola, decisivo per la formazione dell’identità italiana, svelandoci un aspetto del tutto originale, quale la presenza degli Ebrei e il fecondo dialogo con la cultura cristiana di maggioranza. Nel Rinascimento gli Ebrei c’erano ed erano in prima fila, attivi e intraprendenti: a Firenze, Ferrara, Mantova, Venezia, Genova, Pisa, Napoli, Palermo e, ovviamente, Roma. A periodi alterni accolti e ben visti, con

famiglia del Battista (1504-06) di Andrea Mantegna, la Nascita della Vergine (1502-07) di Vittore Carpaccio e la Disputa di Gesú con i dottori del Tempio (1519-25) di Ludovico Mazzolino, Elia e Eliseo del giugno

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Sassetta, dove spuntano a sorpresa scritte in ebraico. Si possono inoltre ammirare manoscritti miniati ebraici, di foggia e ricchezza rinascimentale, come la Guida dei perplessi di Maimonide (1349), acquistato dallo Stato italiano meno di un anno fa. O l’Arca Santa lignea piú antica d’Italia, mai rientrata prima da Parigi, o il Rotolo della Torah di Biella, un’antica pergamena della Bibbia ebraica, tuttora usata nella liturgia sinagogale. info e prenotazioni call center: tel. 848 082380, da cellulare e dall’estero: tel. +39 06 39967138 (attivi tutti i giorni 9,00-18,00); e-mail: meis@ coopculture.it, prenotazioni@ coopculture.it; www.meisweb.it LONDRA BARTOLOMÉ BERMEJO, MAESTRO DEL RINASCIMENTO SPAGNOLO The National Gallery fino al 29 settembre (dal 12 giugno)

Bartolomé de Cardénas, meglio noto come Bermejo, cioè rossastro – appellativo che probabilmente gli fu dato per via di una qualche particolarità fisica, come i capelli rossi o l’incarnato molto colorito – fu uno dei piú innovativi e affermati pittori spagnoli della seconda metà del Quattrocento. Nativo di Cordova, ebbe come principale committente la corte d’Aragona, e lavorò soprattutto a Tous, Valencia, Daroca, Saragozza e Barcellona. Scarse sono comunque le notizie biografiche sul suo conto, ma è probabile che fosse un converso, ovvero un Ebreo convertito, e il suo continuo girovagare potrebbe forse essere stato dettato dalla necessità di sfuggire alle persecuzioni antiebraiche promosse dall’Inquisizione. Per rendergli omaggio, la National

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BASSANO DEL GRAPPA ALBRECHT DÜRER. LA COLLEZIONE REMONDINI Palazzo Sturm fino al 30 settembre

Finalmente restaurato in tutte le sue parti, Palazzo Sturm propone per la prima volta e in modo integrale il tesoro grafico di Albrecht Dürer (1471-1528), patrimonio delle raccolte museali bassanesi. Un corpus di 214 incisioni che, per ampiezza e qualità, è classificato, con quello del Kunsthistorisches Museum di Vienna, come il piú importante e completo al Gallery affianca a opere facenti parte della sua collezione permanente alcuni importanti lavori conservati in Spagna e che per la prima volta sono stati concessi in prestito e hanno varcato i confini nazionali. info www.nationalgallery.org.uk TORINO NOTRE-DAME DE PARIS. SCULTURE GOTICHE DALLA GRANDE CATTEDRALE Palazzo Madama, Sala Stemmi fino al 30 settembre

Frutto di una collaborazione con il Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge di Parigi, l’esposizione dà vita a quattro sculture gotiche provenienti dalla cattedrale di Notre-Dame de Paris. L’evento si configura come una mostra dossier dedicata al tema della scultura gotica francese nella prima metà del 1200 e, in particolare, al cantiere della cattedrale parigina. Dal portale dell’Incoronazione della Vergine sulla facciata occidentale proviene la Testa d’Angelo, mentre dal portale del braccio settentrionale del transetto provengono la Testa di Re

mago, la Testa di uomo barbuto e la Testa di figura femminile, allegoria di una virtú teologale. Queste quattro opere, oltre a essere esempi di altissima qualità della scultura medievale europea, sono testimonianze di quel momento della civiltà gotica indicato dal celebre storico dell’arte Cesare Gnudi come «classicismo gotico» o «naturalismo gotico», che ebbe un forte influsso, alla fine del Duecento, anche sui protagonisti del Gotico in Italia: Giotto, Nicola Pisano, Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it

mondo. Dürer inizia la sua carriera come incisore di legni (xilografie) nel 1496 e, dal 1512 al 1519, lavora per l’imperatore Massimiliano I, per il quale realizza l’Arco di trionfo e la Processione trionfale, quest’ultimo nella collezione di Bassano del Grappa. Molto probabilmente passò per la città sul Brenta. Lo si vede nei paesaggi e nelle vedute di sfondo di opere come la Grande Fortuna. I temi trattati da Dürer sono mitologici, religiosi, popolari, naturalistici, ritratti, paesaggi e nelle collezioni bassanesi sono incluse le serie complete dell’Apocalisse, della Grande Passione, della Piccola Passione e della Vita di Maria. Per Massimiliano realizza anche una delle sue incisioni piú popolari, il Rinoceronte, a ricordo dell’esotico animale che l’imperatore aveva destinato al papa, ma che

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AGENDA DEL MESE non arrivò mai a Roma, vittima di un naufragio di fronte alle coste liguri. Intorno a quest’opera, Chiara Casarin propone un approfondimento che da un lato rievoca la vicenda e dall’altro percorre la fortuna dell’incisione nei secoli. info www.museibassano.it VINCI LEONARDO DA VINCI. ALLE ORIGINI DEL GENIO Museo Leonardiano fino al 15 ottobre

Il Museo Leonardiano di Vinci propone una rassegna incentrata sul legame biografico del maestro con la sua città natale e sulle suggestioni che la terra d’origine offrí al suo percorso di artista, tecnologo e scienziato. In quest’ottica, vengono presentati i documenti concessi in prestito dall’Archivio di Stato di Firenze, grazie ai quali è possibile ricostruire in maniera inequivocabile le primissime vicende della vita di Leonardo a Vinci, e il primo disegno conosciuto da lui realizzato, Paesaggio (inv. 8P) datato dall’artista 5 agosto 1473, concesso in prestito al Museo Leonardiano per le prime sei settimane dell’esposizione. Attorno a quest’opera giovanile, che costituisce una sorta di palinsesto di tutta la futura produzione di Leonardo, si dipana l’intero percorso espositivo. info www.museoleonardiano.it

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MILANO LEONARDO DA VINCI PARADE Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci fino al 31 ottobre

Per celebrare i cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci, il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia torna alle origini, esponendo le due collezioni con cui ha aperto al pubblico il 15 febbraio 1953. Una parata in cui 52 modelli leonardeschi e 29 affreschi di pittori lombardi del XVI secolo, provenienti dalla Pinacoteca di Brera, tornano

a offrirsi all’ammirazione del pubblico. Si tratta di un percorso inedito per rimettere al centro l’unità della cultura con accostamenti insoliti di arte e scienza e che, peraltro, permette ai visitatori di continuare a godere della collezione dei modelli storici leonardeschi durante il periodo in cui la storica Galleria Leonardo resta chiusa per importanti lavori edili, strutturali e impiantistici. «Leonardo da Vinci Parade» è la prima iniziativa realizzata in preparazione del programma «Milano e Leonardo» promosso dal Comitato Territoriale per la celebrazione dei 500 anni dalla morte di Leonardo. Milano è la città dove Leonardo operò piú a lungo in tutta la sua vita, circa

vent’anni, esplorando molti campi del sapere. info tel. 02 485551; e-mail: info@museoscienza.it; www.museoscienza.org

ricorrere con frequenza al compromesso e la popolazione farsi parte attiva nel decidere la sorte dei condannati. info www.tourjeansanspeur.com

PARIGI

VINCI

CRIMINI E GIUSTIZIA NEL MEDIOEVO Tour Jean sans peur fino al 29 dicembre

LEONARDO VIVE Museo Ideale Leonardo da Vinci fino al 31 dicembre

Le fonti giudiziarie risalenti alla fine del Medioevo permettono di venire a conoscenza di numerosi casi che ridimensionano l’immagine di un sistema violento e sbrigativo che troppo spesso viene associato alla giustizia medievale. E, soprattutto, consentono di fissare una gerarchia dei crimini diversa da quella moderna, in seno alla quale la notorietà (la fama) degli individui coinvolti ha un ruolo importante, a prescindere dalla loro estrazione sociale, cosicché l’omicidio per motivi d’onore diviene spesso tollerabile. Organizzata per celebrare i

Organizzata per tenere a battesimo la riapertura del Museo Ideale Leonardo Da Vinci e la realizzazione del nuovo Museo Leonardo e il Rinascimento del vino, a Sant’Ippolito in Valle, la mostra esemplifica l’attualità di Leonardo nell’arte e nella cultura contemporanea, e presenta anche i risultati delle ricerche genealogiche attraverso venti generazioni fino al presente e al DNA. Il percorso si articola in cinque sezioni. La prima (Leonardo Heritage) propone documenti d’archivio e reperti frutto di studi genealogici: dalle reliquie dei capelli ai documenti relativi al padre ser Piero, alla sempre meno misteriosa madre Caterina, al nonno Antonio. La seconda riguarda la bottega di Leonardo: la Gioconda nuda, e anche la Santa Caterina nella macchina di tortura di un allievo di Leonardo (Giampietrino) che presenta impronte digitali e palmari. La terza (Leonardo e il Rinascimento del vino)

vent’anni di attività della Tour Jean sans peur come spazio espositivo e a 600 anni dall’assassinio del suo antico proprietario – il duca di Borgogna Giovanni senza Paura –, la mostra offre dunque un quadro per molti aspetti sorprendente della società dell’età di Mezzo, che vede giudici e imputati giugno

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approfondisce i rapporti di Leonardo con il territorio e con l’agricoltura, che ebbe un ruolo importante nella sua biografia e nei molteplici studi di natura, di enologia e tecnologia rurale, oltre che negli scritti letterari. La quarta (Leonardismi attraverso i secoli) procede dalle cartelle dei Nodi vinciani xilografate da Albrecht Dürer agli inizi del Cinquecento, prosegue tra l’immagine di Leonardo e antiche incisioni d’après, giunge al furto del 1911 e alla Gioconda L.H.O.O.Q. di Duchamp, fino a Dalì, Beuys, Warhol e altri protagonisti delle neoavanguardie internazionali. Per l’Attualità di Leonardo, tra le opere rappresentative di artisti contemporanei di diversi Paesi, spicca il Dialogo con il Paesaggio di Leonardo del 1473 del pittore cinese Xu Li giunto da Pechino. info www.museoleonardo.it SANSEPOLCRO LEONARDO DA VINCI: VISIONS Museo Civico di Sansepolcro fino al 24 febbraio 2020

Fulcro della mostra sono alcuni ambiziosi progetti di Leonardo, che ben illustrano la sua attitudine a cimentarsi con temi di inaudita complessità. Il volo, il conferire movimento a oggetti inanimati, il progetto della piú grande statua equestre mai realizzata: sogni che da sempre fanno parte della storia dell’umanità. Visions è un contributo alla conoscenza della genialità e della tenacia con cui Leonardo affrontava le piú audaci sfide tecnologiche e artistiche. Il volo prende forma nei suoi studi e nelle macchine che ha disegnato. Leonardo si misura anche con l’idea di conferire il movimento a oggetti inanimati: il carro semovente e il leone meccanico sono eloquenti

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declinazioni: dal mito del comune medievale alla città neogotica; dalle utopie letterarie di Calvino sino all’immaginario cinematografico e pop. info Naomi Castellani: n.castellani@campus.uniurb.it SIENA testimonianze dei risultati raggiunti, dal potenziale fortemente innovativo. Infine, il progetto per la gigantesca statua equestre in bronzo in memoria di Francesco Sforza costituisce un’ulteriore prova dell’eccezionale intelligenza con cui affrontava le sfide piú audaci. Fanno da corredo al percorso espositivo video di approfondimento e animazioni 3D realizzati dal Museo Galileo di Firenze. info tel 199 15 11 21 oppure 0575 732218; www.museocivicosansepolcro.it

Appuntamenti URBINO-GRADARA

LA CITTÀ DEL CIELO DAL FACCIATONE DEL DUOMO NUOVO IL PANORAMA DI SIENA NUOVI ORIZZONTI SULLA CITTÀ fino all’8 settembre

ROMA VIAGGI NELL’ANTICA ROMA Foro di Augusto: via Alessandrina, lato Largo Corrado Ricci Foro di Cesare: Foro Traiano, in prossimità della Colonna Traiana fino al 3 novembre

Torna il progetto Viaggi nell’antica Roma, che, attraverso due spettacoli multimediali, racconta e fa

Il Complesso Monumentale del Duomo di Siena, dedicato a santa Maria Assunta, invita a contemplare nuovi orizzonti con la salita al Facciatone, Panorama sulla Città. Per tutto il giorno, durante la permanenza sulla terrazza panoramica, i visitatori possono contemplare il panorama attraverso un’introduzione alla città effettuata da accompagnatori multilingua. Questo grande e alto muro che, nell’intento dei Senesi, doveva divenire la

rivivere la storia del Foro di Cesare e del Foro di Augusto. Grazie a sistemi audio con cuffie e accompagnati dalla voce di Piero Angela e da filmati e proiezioni che ricostruiscono i due luoghi cosí come si presentavano nell’antica Roma, gli spettatori possono godere di una rappresentazione emozionante e dal grande

facciata di un Nuovo Duomo, sogno architettonico, guarda il capoluogo per intero. I visitatori che salgono all’Acropoli e attraversano il Duomo, la cosiddetta Cripta, il Battistero e il Museo dell’Opera si trovano immersi in un tripudio di forme e colori che, nell’intenzione dei committenti e degli artisti, segnano l’accesso alla «Gerusalemme celeste». info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com; www.operaduomo.siena.it

rigore storico e scientifico. Le modalità di fruizione dei due spettacoli sono differenti. Per il Foro di Augusto sono previste tre repliche ogni sera (durata 40 minuti), mentre per il Foro di Cesare è possibile accedervi ogni 20 minuti, secondo il calendario pubblicato (percorso itinerante in quattro tappe, per complessivi 50 minuti circa). info tel. 06 06 08 (tutti i giorni, 9,00-19,00); #viaggioneifori; www.viaggioneifori.it; www.turismoroma.it

CITTÀ IDEALI, INVISIBILI, IMMAGINATE VI EDIZIONE DI MEDIOEVO FRA NOI Urbino, Palazzo Ducale Gradara, Rocca 6-8 giugno

Perché siamo incantati dal Medioevo? Quali sono i rapporti tra quel millennio lontano e le sue odierne reinterpretazioni? Nelle affascinanti cornici di Urbino e Gradara, studiosi e pubblico dialogheranno tra loro nel segno e nel sogno del Medioevo. Giunto alla VI edizione, il convegno ha per tema le «Città ideali, invisibili, immaginate». Viene indagato l’immaginario della città medievale in tutte le sue

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battaglie worringen 5 GIUGNO 1288

Caccia alla

di Federico Canaccini

«grande balena» Alla morte dell’ultima erede legittima, il ducato di Limburgo, regione storica dei Paesi Bassi, scatena l’appetito di una schiera fin troppo folta di pretendenti e la parola passa, inevitabilmente, alle armi. Scoppia un conflitto che si trascina per cinque lunghi anni, alla fine dei quali, nel 1288, la vittoria arride alle truppe guidate da Giovanni I di Brabante, che sconfiggono le forze guidate da Sigfrido di Westerburg, arcivescovo di Colonia. Ma il prezzo da pagare sarà altissimo...

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’ra Otto e Novecento, il Belgio è stato spesso al centro delle cronache a causa della divisione fra Fiamminghi e Valloni, separati da lingua, cultura e dal legame, piú o meno stretto, con il vicino territorio francese. Tuttavia, ben altre e ben maggiori erano e sono le divisioni interne di quella nazione: abbiamo, infatti, le regioni delle Fiandre dell’Est e quelle dell’Ovest, il Brabante e il Limburgo, a cui si aggiungono le rivalità tra singole città. Ai tempi dell’impero carolingio, la fiandra era un pagus affacciato sul Mare del Nord e dipendente dalla Francia occidentale. Dopo l’843, con la divisione dell’impero stabilita a Verdun, questo territorio fu trasformato in un principato autonomo da una famiglia comitale che seppe approfittare del caos provocato dalle invasioni vichinghe e dal vuoto di potere centrale, per affermarsi e fondare una dinastia. Il conte Baldovino I († 879) e i suoi discendenti estesero il proprio dominio verso sud, scontrandosi con i Normanni e con il re di Francia.

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DĂźsseldorf. Particolare del monumento inaugurato in occasione del settimo centenario della battaglia di Worringen, opera di Bert Gerresheim. 1988. La composizione celebra, in particolare,

il contributo dato alla vittoria finale dai contadini accorsi dalla Renania, regione di cui Dßsseldorf è la capitale.


battaglie worringen

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I contadini della Renania alla battaglia di Worringen, xilografia di Peter J.T. Janssen, 1893. Berlino, Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte.

La Cronaca di Jan van Heelu

Resoconto in versi Sulla battaglia di Worringen siamo ben informati: in particolare, lo scrittore fiammingo Jan van Heelu ci offre una lunga descrizione poetica dell’evento, in una cronaca di oltre 4000 versi (Rymkronyk van Jan van Heelu...). Si tratta di una fonte preziosa, anche perché, oltre ai singoli episodi della battaglia, illustra le tattiche militari del XIII secolo. La testimonianza, però, è anche assai controversa e di difficile interpretazione. Van Heelu, infatti, è palesemente schierato con i vincitori dello scontro e il suo componimento, in fondo, si risolve in una sorta di

panegirico per il duca di Brabante. L’opera era stata scritta affinché la principessa inglese Margherita, sposa di Giovanni II di Brabante – figlio del campione di Worringen –, acquisisse familiarità con la lingua del consorte, il fiammingo. Di certo, però, Jan van Heelu poté usufruire di informazioni provenienti anche da parte dei Brabanzoni, sconfitti assieme all’arcivescovo di Colonia. La Cronaca è databile al 1290, appena un paio di anni dopo gli eventi, e si è ipotizzato che l’autore sia stato testimone oculare della battaglia.

Col passare dei secoli, la zona delle Fiandre si distinse per la produzione di tessuti pregiati, realizzati dapprima nelle zone rurali e poi in città, e che furono esportati sempre piú lontano, soppiantando quelli prodotti nella zona della Mosella e imponendo la loro terra d’origine come il principale centro industriale dell’Europa settentrionale. Contemporaneamente, nell’area compresa tra le Fiandre e il territorio di Liegi, un fenomeno analogo vide protagonista un’altra famiglia comitale, che acquisí una posizione di predominio fra le varie casate nobili della regione, affermandosi come punto di riferimento del territorio ancora oggi chiamato Brabante (vedi box a p. 42). Altrettanto vale per la zona posta ancora piú a est, il cosiddetto Limburgo, al confine con l’attuale Germania, dove, nei secoli dopo il Mille, un’altra famiglia di conti impose il proprio dominio. Quest’ultima si estinse alla fine del XIII secolo, mentre quella brabanzona era destinata ad avere maggiori fortune. Il 5 giugno del 1288, presso Worringen, non lontano da Colonia, venne infatti stabilita, con le armi, proprio la successione al trono del Limburgo. Dopo la morte di Ermengarda (1283), ultima erede del duca di quella regione, Walramo IV, oltre al marito, Reginaldo I di Gheldria,

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battaglie worringen Le fasi della battaglia 1

Worringen Worringen

Campo Campo

Campo Campo

1 Contadini della Renania della Milizie della cittàRenania 21 Contadini

1 31 4 3 5 4 5

2 2

e Arnoldo di Looz

8 6 Sigfrido di Westerburg, 9 8 arcivescovo di Colonia 9 di Westerburg, 6 Sigfrido di Colonia Fanteria e carroccio 7 arcivescovo dell'arcivescovo e carroccio 7 Fanteria Enrico di Lussemburgo 8 dell'arcivescovo di Lussemburgo 89 Enrico Reginaldo I di Gheldria

e Arnoldo di Looz

9 Reginaldo I di Gheldria

di Colonia della città 2 Milizie Colonia Adolfo VIII di Berg 3 di e Eberardo Mark VIII IdidiBerg 3 Adolfo EberardoI di I diBrabante Mark 4 eGiovanni I diJülich Brabante 4 Walramo di 5 Giovanni

5 Walramo di Jülich

6 6 7 7

al 1288. Alla fine il conflitto si risolse con una battaglia campale, combattuta appunto a Worringen, nella piana di Fühlingen, una ventina di chilometri a nord-ovest di Colonia. Il terreno prescelto risultava ideale per le cariche di cavalleria, se non vi fossero stati i fossati realizzati per l’irrigazione che correvano lungo i sentieri che attraversavano i campi. L’esercito di Sigfrido di Westerburg, arcivescovo di Colonia, composto dalle truppe di Reginaldo di Gheldria e di Enrico di Lussemburgo, risalí dalla località di Brauweiler (situata pochi chilometri a ovest di Miniatura raffigurante la battaglia di Worringen, da un’edizione della Cronica van der hilliger Stat van Coellen di Johann Koelhoff. 1499. Collezione privata.

Fuhlingen Fuhlingen

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Worringen Worringen

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Campo Campo 1 Contadini della Renania della Milizie della cittàRenania 21 Contadini di Colonia della città 2 Milizie Colonia Adolfo VIII di Berg 3 di e Eberardo Mark VIII IdidiBerg 3 Adolfo EberardoI di I diBrabante Mark 4 eGiovanni I diJülich Brabante 4 Walramo di 5 Giovanni

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e Arnoldo di Looz

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e Arnoldo di Looz

9 Reginaldo I di Gheldria

5 Walramo di Jülich

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Fuhlingen Fuhlingen

1. Sigfrido di Westerburg sferra un attacco contro le milizie della città di Colonia e poi, vista la resistenza opposta dai conti di Mark e di Berg, si volge contro il centro dello schieramento nemico, guidato da Giovanni di Brabante. 2. Dovendo attraversare una strada e un fosso il contingente dell’arcivescovo si disunisce e, in piú, Reginaldo di Gheldria si stacca per saccheggiare il campo nemico: il contrattacco di Giovanni e dei suoi alleati si rivela vincente.

in molti accamparono pretese sulle ricche terre fiamminghe. Si presentò infatti sulla scena, con il proprio esercito, il conte Adolfo VIII di Berg, un nipote di Walramo IV, ma anche altri signorotti scesero in campo, avanzando pretese di legittimità sul ducato. Con l’intervento di Giovanni I, duca di Brabante, e dell’arcivescovo di Colonia, Sigfrido di Westerburg, la successione al ducato di Limburgo si trasformò in una vera e propria guerra per il controllo del Basso Reno, che travolse e devastò ampie regioni del Limburgo, trascinandosi per cinque lunghi anni, dal 1283

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Colonia) con lo scopo di far desistere il duca di Brabante dall’assedio posto alla cittadina di Worringen, che ricadeva sotto la giurisdizione di Colonia.

Una metafora ben studiata

L’arcivescovo voleva ricacciare ed eliminare Giovanni I, il quale, stando alle parole che il prelato avrebbe rivolto ai suoi soldati, come «una grande balena si era arenato nelle sue terre»: era giunto dunque il momento di uccidere il «cetaceo» e distribuirne i pezzi tra i vincitori! L’esempio giugno

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giovanni i di brabante

Un potere basato sul commercio Giovanni di Brabante, detto «il Vittorioso», divenne duca ad appena 15 anni, nel 1267. Concentrò tutti i suoi sforzi nel tentativo di ottenere il controllo sulla via che dal Mare del Nord conduceva al Reno, fiume navigabile, preziosa via di trasporto tramite lunghe chiatte di legname e di vari prodotti provenienti dal Centro Europa: tale connubio idrografico era la chiave economica di tutto il quadrante commerciale brabantino. Grazie a una cauta e abile politica economica, il duca ottenne ben presto l’appoggio delle città mercantili dell’area. Nel 1283, quando acquistò i diritti alla successione sul ducato di Limburgo, il conflitto con gli altri pretendenti fu inevitabile, specie con il potente arcivescovo di Colonia e il conte di Gheldria. Appena sei anni dopo la vittoria di Worringen, però, il duca moriva in Francia, a Bar, nel corso di un torneo. Miniatura raffigurante Giovanni I di Brabante in battaglia, dal Codice Manesse. 1310-1340 circa. Heidelberg, Biblioteca Universitaria.

non era stato certo scelto a caso: nei bestiari medievali, infatti, la balena è considerata un animale demoniaco, che inganna sia gli uomini che i pesci. Ai primi si mostra a pelo dell’acqua e gli ignari marinai vi attraccano per essere poi rovesciati; ai pesci tira un tranello, attirandoli tra le sue fauci con un odore mellifluo. Inoltre, se catturata, una balena poteva sfamare decine di uomini: e il paragone risultava quanto mai azzeccato, per far gola ai numerosi alleati dell’arcivescovo di Colonia. Il 5 giugno del 1288 i due eserciti entrarono in

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rotta di collisione. Stando alle fonti, si trattava di due grandi armate: da un lato, Giovanni I schierava 2300 cavalieri e 2500 fanti, perlopiú provenienti da Colonia, e uomini di pertinenza del conte di Berg; sul fronte opposto, l’arcivescovo aveva ai suoi ordini 2800 uomini a cavallo e 1400 appiedati, superando perciò di 500 cavalieri le schiere del nemico, ben piú importanti delle fanterie. Entrambi i contendenti iniziarono a schierare le proprie truppe secondo la consuetudine del tempo, cioè su

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battaglie worringen tre schiere. Il duca di Brabante si pose al centro con i suoi cavalieri; l’ala sinistra fu riservata invece alle truppe dei conti di Berg e Mark, assieme alle fanterie di Colonia e della Renania; infine, l’ala destra fu affidata ai conti di Looz e Jülich. L’arcivescovo Sigfrido di Westerburg guidava invece personalmente l’ala destra del suo esercito; il centro era affidato al conte di Lussemburgo e ai suoi fratelli; il conte di Gheldria, infine, comandava l’ala sinistra. Le ostilità si aprirono con l’avanzata dell’arcivescovo Sigfrido, che indirizzò la propria carica contro i cittadini di Colonia che gli si erano ribellati: il conte di Berg resse l’urto solo per pochi istanti e poi, travolto dalla cavalleria pesante, abbandonò il campo con i suoi cavalieri. Ciononostante, le forze di Sigfrido non riuscirono ad avere completamente ragione dell’ala sinistra, vista la resistenza opposta dal conte di Mark, cosicché l’arcivescovo decise di volgere il proprio attacco contro il centro dello schieramento avversario, dove si trovava Giovanni di Brabante.

Una scelta infelice

Una scelta, secondo quel che riferisce un cronista del tempo, Jan van Heelu (vedi box a p. 39), quanto mai avventata, giacché, per convergere sul centro nemico, la cavalleria di Sigfrido dovette attraversare una stradina e il fosso che gli correva accanto, scompaginando cosí l’intero schieramento. Van Heelu scrive che, alla vista di un’azione tanto sconsiderata, uno dei soldati brabanzoni si lasciò andare a grida di giubilo, prevedendo ciò che poi puntualmente si verificò, vale a dire lo spezzettamento in tanti piccoli reparti di quello che era un magnifico, compatto e temibile corpo di cavalleria pesante. A quel punto, i condottieri del centro brabanzone avrebbero cominciato a discutere su come contrattaccare: da un lato la superiorità numerica dell’avversario induceva alcuni ad attaccare per liberarsi da un eventuale accerchiamento, altri invece proponevano di serrare i ranghi per respingere l’attacco nemico. Prevalse la seconda opinione e Giovanni di Brabante, dopo aver rincuorato i suoi, caricò le truppe nemiche al galoppo. Mentre il duca si scontrava con le truppe lussemburghesi dell’arcivescovo, alcuni reparti del conte di Gheldria si distaccarono e saccheggiarono l’accampamento dei Brabanzoni, una mossa che, in realtà, ridusse la superiorità numerica degli effettivi sotto il comando di Sigfrido. Anche per questo motivo – oltre che per la dispersione causata dall’attraversamento del fosso – i conti di Looz e Jülich ebbero ben presto ragione della non piú temibile cavalleria nemica. La battaglia, però, non era conclusa e tra i due schieramenti centrali infuriava ancora la mischia. Nonostante vari tentativi, l’arcivescovo di Colonia non era infatti riuscito a sfondare la linea centrale guidata dal duca e,

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Il Brabante

Una regione chiave Il Brabante era una regione posta al confine tra la Francia orientale e la Germania occidentale, in quella lunga striscia di territori, un tempo di pertinenza di Lotario, che in suo onore furono appunto detti «Lotaringia». Proprio a causa di questa sua caratteristica, si tratta forse della zona militarmente piú contesa d’Europa: non a caso il Belgio, nonostante la sua ridotta estensione, detiene il triste primato di aver accolto il maggior numero di battaglie sul proprio suolo. Alla fine del IX secolo, nel momento in cui l’impianto dell’impero carolingio inizia sempre piú a vacillare, l’aristocrazia locale, qui come in altre zone, cominciò ad avanzare le proprie pretese, senza però ottenere successi immediati. Si deve infatti attendere ancora un secolo per assistere alla nascita di veri e propri principati indipendenti. A cavallo dell’anno Mille, i Regnier, famiglia di origini carolingie, con ampi possedimenti fondiari nella zona della Mosa, riuscirono a costituire un principato che comprendeva il Brabante e l’Hainaut, con a capo Lovanio, incuneandosi tra le terre del conte di Fiandra e quelle del vescovo di Liegi. In seguito, sia grazie a riconoscimenti imperiali, sia per effetto delle continue usurpazioni di beni ecclesiastici nei territori di Lovanio e Bruxelles, videro crescere il proprio potere. Forti di queste acquisizioni e dei potenti monasteri di Nivelle e di Gembloux, i conti di Lovanio ottennero anche i titoli ducali della Bassa Lorena e il marchesato di Anversa, aprendosi un importante sbocco sul mare e sui commerci. Quando poi, proprio grazie alla vittoria di Worringen, riuscí ad annettere anche il ducato del Limburgo, Giovanni I divenne il principe piú potente dei Paesi Bassi.

Carta del ducato di Brabante, da un’edizione del Theatrum Orbis Terrarum, sive Atlas Novus di Willem e Joan Blaeu. 1635. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

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fra l’altro, i suoi alleati – il conte di Lussemburgo e i suoi fratelli – erano stati uccisi, causando panico e confusione tra i propri ranghi. Terminata l’azione sull’ala destra, i conti di Looz e Jülich operarono una convergenza verso il centro, andando parzialmente a serrare in una tenaglia le truppe di Sigfrido. A questi si aggiunsero le truppe appiedate di Colonia e gli uomini del conte di Berg, riordinatisi dopo lo scontro iniziale. Ancora van Heelu riporta che i fanti brabanzoni e gli abitanti di Colonia, incapaci di distinguere gli stemmi dei nobili nemici, pur di eliminare gli avversari, uccisero in un primo momento tutti coloro che gli capitavano a tiro, massacrando cosí nemici e amici. Solo dopo aver compreso che si stava consumando una carneficina indiscriminata, un contingente del Brabante li indirizzò contro i soli avversari. Il conte di Gheldria e l’arcivescovo Sigfrido furono

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catturati nella mischia e il carroccio che trasportava il vessillo arcivescovile fatto in mille pezzi. Con la vittoria in pugno, i fanti del Brabante e gli uomini di Colonia si riversarono sulla piana, uccidendo i fuggiaschi e depredando i cadaveri. Alla fine della giornata il campo era coperto di corpi. Se gli sconfitti contavano 1000/1200 morti, i vincitori piangevano comunque tra i 600 e gli 800 caduti, per un totale, forse, di 2000 vittime. A seguito della battaglia di Worringen, dunque, cambiarono gli equilibri dell’area fiammingo-tedesca: la vittoria del duca di Brabante da un lato e la disfatta dell’arcivescovo di Colonia dall’altro provocarono l’ascesa dei conti di Fiandra, mentre l’area del Basso Reno iniziò a emanciparsi dalla tutela dell’arcivescovo. Persino la città di Colonia, che viveva sotto una sorta di vescovo-conte da tempo immemorabile, avviò finalmente un processo di liberazione da quella dominazione. F

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protagonisti alfonso x

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Un Saggio sul trono di Castiglia

di Tommaso Indelli

L’appellativo scelto per Alfonso X riassume con efficacia le doti dell’uomo che nel 1252 cinse la corona del regno da cui ebbe origine la Spagna: il sostanziale fallimento delle sue ambizioni universalistiche venne infatti compensato dalla importante e ricca eredità culturale

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Miniatura raffigurante Alfonso X, detto «el Sabio» («il Saggio»), re di Castiglia e León, a cavallo, in armi e con le sue insegne, dal cosiddetto Tumbo A, una raccolta dei privilegi reali concessi a Santiago de Compostela, avviata intorno al 1129 e conclusa intorno al 1255. Santiago de Compostela, Archivo de la Catedral de Santiago de Compostela.

lfonso X nacque a Toledo, nel 1221, da Ferdinando III (1230-1252), re di Castiglia e León, e Beatrice di Svevia († 1235), cugina dell’imperatore Federico II di Hohenstaufen (1198-1250). Suo padre fu uno dei sovrani piú importanti nella storia di Spagna e, nel 1230, aggregò i regni di Castiglia e León che, fino a quel momento, erano stati separati, dando un grande contributo al processo di unificazione politica del Paese (vedi box alle pp. 52-53). Tuttavia, l’impresa non era stata facile. Nel 1217, alla morte del re di Castiglia Enrico I (1214-1217), sua sorella Berenguela (o Berengaria, † 1246) fu designata regina, ma, per assicurare la corona al figlio Ferdinando III, rinunciò al trono e il fanciullo venne proclamato re. Il padre di Ferdinando, Alfonso IX (1188-1230), re di León, che aspirava al trono castigliano, dichiarò guerra alla moglie, ma fu sconfitto e costretto a ritirarsi nel suo regno. Deciso a vendicarsi, diseredò Ferdinando III e designò come eredi al trono di León le figlie di primo letto, Sancia e Dolce, le quali, alla sua morte, nel 1230, furono incoronate regine.

Accordo fra regine madri

Le cortes di León, però, rifiutarono di riconoscerle come sovrane e acclamarono re Ferdinando, causando una guerra che si concluse pochi mesi piú tardi, quando le due mogli di Alfonso IX – Teresa del Portogallo († 1250) e Berenguela – stipularono un trattato che, nell’interesse dei rispettivi figli, definí la questione della successione al trono. In base all’accordo, Sancia e Dolce rinunciavano al regno, a favore del fratellastro Ferdinando, in cambio di un congruo appannaggio. Ottenuta anche la corona del León, Ferdinando III si diede anima e corpo alla Reconquista e conseguí grandi successi militari che consentirono alla Castiglia di

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protagonisti alfonso x

espandersi verso il sud della Spagna e, per la sua strenua difesa della fede cattolica contro l’Islam, nel 1671 venne canonizzato (vedi box a p. 54). Alla sua morte, nel 1252, il figlio Alfonso X salí al trono e decise di muoversi nel solco della saggia politica paterna. In vista di tale obiettivo, favorí buoni rapporti con l’Aragona, rafforzati dalle sue nozze con Violante († 1301), figlia del re Giacomo I il Conquistatore (1213-1276), e avviò relazioni positive con l’Inghilterra, cementate anche dall’unione tra la sorella, Eleonora († 1290), ed Edoardo († 1307), erede al trono inglese.

Un fitto intrico di matrimoni e alleanze

Il re d’Inghilterra era allora in guerra con la Francia, a cui intendeva sottrarre il pieno dominio sui territori che deteneva Oltremanica a titolo feudale, cioè Angiò, Maine, Normandia e Aquitania. Sull’Aquitania, nella Francia sud-occidentale, accampava pretese anche Alfonso, in quanto discendente della duchessa Eleonora († 1204), moglie del re inglese Enrico II Plantageneto (1154-1189) e nonna della castigliana Berenguela. Alfonso costruí ottime relazioni anche con il Portogallo,

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dando in sposa la figlia naturale Beatrice († 1303) al re Alfonso III (1248-1279), al quale forní aiuto nella conquista dell’Algarve. A differenza del padre, Alfonso non fu un grande condottiero, né conseguí grandi risultati combattendo contro i Mori, se si esclude, nel 1257, la conquista della città andalusa di Niebla. Alla morte dell’imperatore germanico Federico II, nel 1250, iniziò un lungo periodo conosciuto come «Lungo Interregno» (1250-1273), nel corso del quale la corona imperiale restò vacante: molti pretendenti si scontrarono per ottenerla, sperando anche di guadagnarsi l’appoggio del pontefice, e Alfonso X fu tra questi. Papa Innocenzo IV (1243-1254), in guerra con Federico II e non disposto ad accordarsi con lui, aveva convocato un concilio ecumenico a Lione, nel corso del quale, nel 1245, lo aveva scomunicato e sciolto i sudditi dal vincolo di obbedienza. In Germania, per creare difficoltà all’imperatore, il papa aveva inoltre appoggiato l’elezione dell’antire Enrico Raspe, langravio di Turingia, mentre in Italia si aggravava lo scontro tra l’Impero e i comuni della Lega lombarda. Secondo le ultime volontà di Federico, il regiugno

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ANTENATI DI SANGUE GERMANICO Alfonso IX di León (1171-1230) = Berengaria di Castiglia (1180-1246) Ferdinando III «il Santo», re di Castiglia e León (1201-1252) = Beatrice di Svevia (1205-1235)

Mayor Guillén de Guzmán (†1262) = (1)

Alfonso X «il Saggio» (1221-1284) Elvira Rodríguez de Villada = (2)

Filippo di Svevia (1179-1208) = Irene Angelina di Costantinopoli (1181-1208)

= (3) Violante d’Aragona (1236-1302)

A destra Cordova, giardini dell’Alcázar de los Reyes Cristianos. Statua di Alfonso X il Saggio, opera dello scultore spagnolo Juan Polo Velasco. 1965. Nella pagina accanto due pagine di un’edizione delle Tavole alfonsine, tavole che servivano a calcolare la posizione del sole, della luna e degli astri, assumendo come dato di partenza la loro posizione astronomica rispetto alla terra a partire dal primo gennaio del 1252, anno dell’incoronazione di Alfonso X.

Beatrice di Alcocer (1242-1303)

Alfonso (†1281)

Berengaria di Castiglia (1253-1300) Beatrice di Castiglia (1254-1280) Ferdinando de la Cerda (1255-1275) Sancho IV di Castiglia (1258-1295) Costanza di Castiglia (1259-1280) Pietro (1260-1283) Giovanni (1262-1319) Violante di Castiglia (1265-?) Giacomo di Castiglia (1266-1284)

Salito al trono nel 1252, Alfonso X scelse di rimanere nel solco tracciato dal padre e mantenne gli equilibri e le alleanze che questi aveva stabilito MEDIOEVO

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protagonisti alfonso x gno di Sicilia fu assegnato al figlio Corrado IV, il quale, eletto re di Germania, non riuscí a ottenere la corona imperiale, ma, sceso in Italia nel 1252, per prendere possesso della Sicilia, vi morí nel 1254. Nel frattempo, in Germania, nel 1247 era morto Enrico Raspe e i principi tedeschi avversi agli Hohenstaufen avevano scelto come sovrano Guglielmo, conte d’Olanda, che non riuscí a farsi incoronare imperatore. Nel 1256 Guglielmo morí e Alfonso di Castiglia ritenne giunto il momento di far valere i suoi diritti, invocando la legittima discendenza dagli Hohenstaufen, da parte della madre Beatrice. Alcuni degli elettori imperiali – il duca di Sassonia, il vescovo di Treviri e il margravio del Brandeburgo – si schierarono dalla sua parte, ma gli altri elessero re di Germania Riccardo di Cornovaglia, fratello del sovrano d’Inghilterra, Enrico III (1216-1272). La caotica situazione del regno tedesco andò avanti fino alla morte di Riccardo, nel 1272, e spinse Alfonso a non allontanarsi mai dalla Castiglia.

A destra il cortile dell’Università di Salamanca. Istituito da Alfonso IX nel 1218, l’ateneo divenne il centro di insegnamento superiore piú prestigioso di Spagna e, tra il XV e il XVII sec., fu uno dei maggiori poli culturali d’Europa. In basso la biblioteca dell’Università di Salamanca. Nel 1242 Ferdinando III concesse all’istituzione il privilegio reale, ma solo la Carta Magna di Alfonso X, nel 1254, pose l’ateneo nelle condizioni di funzionare come un vero e proprio centro di studi superiori.

La minaccia di papa Gregorio X

In quel periodo il re tentò di estendere il suo raggio d’azione anche in direzione dell’Italia, appoggiando lo schieramento ghibellino – che si opponeva ai comuni e alla Chiesa – e che faceva capo al marchese del Monferrato, Guglielmo VII (1253-1292), a cui diede in sposa la figlia legittima Beatrice († 1280). Ma il nuovo papa, Gregorio X (1271-1276), al quale spettava il conferimento della corona imperiale, aveva altri progetti e, nel 1273, spinse gli elettori germanici a scegliere come re

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Rodolfo I d’Asburgo (1273-1291), a cui promise anche l’impero, minacciando di scomunica Alfonso, se non avesse rinunciato alla corona tedesca. Il re di Castiglia si piegò alla volontà del pontefice, anche perché doveva occuparsi di faccende ben piú serie. Nel 1275, infatti, durante una campagna contro i Mori, era morto il suo primogenito, Ferdinando de La Cerda, e cosí Alfonso pensò di costituire, nell’interesse dei suoi nipoti – Ferdinando († 1322) e Alfonso († 1333) – un appannaggio che, benché facesse parte del regno castigliano, avrebbe compreso la città di Jaén e altri territori. L’iniziativa di Alfonso si scontrò con l’opposizione del suo secondogenito, Sancio († 1295), candidato naturale alla successione, che si ribellò e mosse guerra al padre e ai nipoti, provocando un sanguinoso conflitto civile. Nel 1282, con l’appoggio delle cortes, Sancio esautorò il padre – ormai confinato nella Castiglia meridionale – e si fece eleggere re, mentre il papa, Martino IV (1281-1285), lo scomunicava e si schierava dalla parte del sovrano deposto. Per evitare d’essere catturati dallo zio, los Infantes de la Cerda – i nipoti di Alfonso – fuggirono in Aragona con la nonna Violante, mentre la madre, Bianca († 1320), fuggí dal fratello, il re di Francia Filip-

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po III l’Ardito (1270-1285), che decise di intervenire nel conflitto. Allora Alfonso diseredò Sancio IV e designò eredi i nipoti. Pur di ridurre il secondogenito a piú miti consigli, Alfonso si alleò persino con l’emirato di Granada e con il sovrano del Marocco, ma senza successo e, alla fine, fu costretto ad accettare la successione al trono di Sancio, il quale, alla morte del padre, nel 1284, venne incoronato re di Castiglia e León.

Mecenate delle arti e della cultura

Se il bilancio politico del lungo regno di Alfonso fu mediocre, non può dirsi altrettanto delle iniziative di cui il sovrano fu promotore in campo culturale e intellettuale e che gli guadagnarono il soprannome di el Sabio (il Saggio). Il re potenziò le università di Palencia (1208) e Salamanca (1218), fondate in Castiglia e León dai suoi predecessori. Le due istituzioni furono i primi centri di alta formazione fondati in Europa su iniziativa del potere pubblico, ben prima dello Studium federiciano di Napoli nel 1224. Alfonso promosse inoltre la Scuola dei traduttori di Toledo – istituto fondato all’indomani della conquista cristiana della città e potenziato dal vescovo Raimondo (1125-1152) –, che ebbe il compito

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protagonisti alfonso x

In alto miniatura raffigurante Alfonso X attorniato dai membri della sua corte, da un’edizione del Libro de los juegos (o Libro del axedrez, dados e tablas), compendio delle attività sportivo-intellettuali praticate dalla nobiltà, che riserva particolare attenzione ai giochi da tavolo, soprattutto gli scacchi (axedrez). L’opera fu compilata tra il 1252 e il 1284. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial. Nella pagina accanto, in alto miniatura raffigurante un musico musulmano e uno cristiano che suonano la baldosa, un antico

strumento a corde di origine provenzale o forse spagnola, che si pizzicava con il plettro (come in questo caso fa il moro) oppure senza. Cantigas de Santa Maria, cantiga 120. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial. Nella pagina accanto, in basso suonatori di cialamello (strumento popolare a fiato, ad ancia doppia, di antica origine, dal quale si fa derivare il moderno oboe) e crotali. Cantigas de Santa Maria, cantiga 330. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.

di avviare traduzioni in latino e in castigliano di manoscritti redatti in arabo e contenenti importanti studi di filosofia, matematica, teologia, astronomia e medicina. Attraverso la traduzione degli scritti di intellettuali come Avicenna († 1037) e Averroè († 1198), nuove idee iniziarono a circolare negli ambienti universitari europei, dando vita a quella rivoluzione culturale conosciuta come Rinascimento del XII secolo.

e scientifico. Molte opere tradotte o scritte per impulso del re sono giunte fino a noi in preziosi manoscritti, decorati da splendide miniature. Tra le opere di cui lo stesso Alfonso fu autore si ricordino alcune liriche in gallego-portoghese – lingua neolatina allora usata soprattutto nella produzione poetica – che entrarono a far parte di un vero e proprio «canzoniere» – Cantigas de Santa Maria – nel quale furono raccolti circa 420 componimenti, in gran parte dedicati alla Vergine, ai santi del calendario liturgico o ispirati a episodi di storia sacra. La produzione in versi di Alfonso comprende anche alcune cantigas de maldizer o de escarnho, vere e proprie invettive satiriche, indirizzate a laici o ecclesiastici dell’epoca, che sferzavano la corruzione dei costumi imperante e che, nella struttura metrica e nei contenuti, si rifacevano alla grande tradizione lirica dei trovatori provenzali, da cui traevano ispirazione i troveiros spagnoli per i loro componimenti.

La nuova lingua del regno

Alfonso stesso fu scrittore prolifico e patrocinò la traduzione e composizione di molte opere in latino o in castigliano. In tal modo, favorí anche la diffusione di questa lingua romanza che, ben presto, divenne l’idioma ufficiale del regno di Castiglia. Sotto il profilo strettamente linguistico, le iniziative di Alfonso furono straordinarie, perché consentirono l’adeguamento del castigliano, sotto il profilo lessicale, all’uso burocratico

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Alla corte di Alfonso furono ospiti anche molti trovatori provenzali, tra i quali Guiraut Riquier († 1292), autore di una Supplica (1275), in cui richiedeva al sovrano di legiferare in merito alla disciplina della «professione poetica», cosí da distinguere formalmente, sul piano sociale e giuridico, gli autori dei testi – i trovatori veri e propri – dai semplici recitatori – i giullari –, che si limitavano a recitare e cantare le composizioni scritte da altri.

Un’ottica geocentrica

Nel campo della letteratura scientifico-astronomica, Alfonso promosse la redazione di alcune opere – in genere traduzioni dall’arabo in castigliano di testi di astronomia, matematica e geometria – tra cui sono da ricordare le cosiddette Tavole alfonsine, ovvero tavole astronomiche – compilate sia in castigliano che in latino – che costituivano un aggiornamento delle tavole compilate tempo prima dall’astronomo toledano Al Zarqali († 1087). Le

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protagonisti alfonso x la spagna cristiana

Lotta all’«infedele»

La statua di san Giacomo in veste da pellegrino, ritratto sulla Porta Santa della basilica compostellana (nella pagina accanto), costruita nel 1611 e aperta per la prima volta nel 1666.

Quando Alfonso X salí al potere, la Spagna era occupata dai musulmani e divisa in numerosi regni cristiani, ciascuno con proprie dinastie: Castiglia, León, Aragona, Portogallo e Navarra. Nel 711, all’indomani dell’invasione e dell’occupazione araba, una parte della nobiltà del regno visigoto di Toledo si ritirò a nord-ovest, dove, sotto la guida del duca Pelagio († 737), si costituí il regno cristiano delle Asturie, con capitale Oviedo. Agli inizi del X secolo, quando Alfonso III (866-910) trasferí la capitale delle Asturie nella città di León, anche il regno mutò nome. In quello stesso secolo, subordinate al León, su iniziativa di alcuni dinasti locali, si costituirono le contee di Navarra, Castiglia e Aragona mentre, alla fine del secolo precedente, nella Spagna nordorientale si era costituita la contea di Catalogna – o Barcellona – sotto la guida di Goffredo I il Villoso (870-897). Nell’814, la scoperta di alcune reliquie – che furono attribuite a san Giacomo – rese le Asturie meta di un imponente flusso di pellegrini proveniente da tutta Europa e, presso la tomba dell’apostolo, si costruí una basilica, intorno alla quale nacque l’insediamento da cui ebbe origine l’attuale Santiago de Compostela. Nell’844, dopo la miracolosa apparizione alla testa degli eserciti cristiani nella battaglia di Clavijo – combattuta contro i musulmani – san Giacomo divenne, nell’immaginario

Tavole alfonsine servivano a calcolare la posizione del sole, della luna e degli astri, assumendo come dato di partenza la loro posizione astronomica rispetto alla terra a partire dal primo gennaio del 1252, anno dell’incoronazione di Alfonso. I calcoli astronomico-matematici contenuti nelle Tavole furono elaborati sempre in un’ottica geocentrica, propria della concezione aristotelicotolemaica dell’universo, recepita anche dagli Arabi. Riguardo la compilazione di testi giuridici promossa dal re, si ricordino il Fuero real e la Ley de las Siete Partidas, codici promulgati nel tentativo di dotare la Castiglia di un complesso normativo chiaro e organico che non fosse in latino, ma in castigliano, e quindi piú

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popolare, El Matamoros, ovvero l’uccisore di Mori. Nel 1000, il conte di Navarra, Sancio III il Grande, assunse il titolo regio e sottomise le contee contermini di Castiglia e Aragona che, annesse, costituirono regni per i suoi figli. Nel 1035, alla morte di Sancio III, gli successero, come re, Garcia III (1035-1054), in Navarra, Ferdinando I (1035-1065), in Castiglia, e Ramiro I (1035-1063), in Aragona: si erano formalmente costituiti i regni cristiani che avrebbero fatto la storia di Spagna. Nel 1037, alla morte di Bermudo III, re di León, il cognato Ferdinando I di Castiglia ne occupò il regno, proclamandosi re, ma il León tornò a separarsi dalla Castiglia nel 1157, per esserne definitivamente incorporato nel 1230. Il regno di Castiglia e León raggiunse la massima potenza sotto il figlio di Ferdinando, Alfonso VI (10651109), che, proclamatosi imperatore di Spagna, diede grande impulso alla Reconquista e, nel 1085, occupò Toledo, che divenne la nuova capitale della Castiglia, al posto di Burgos. Alfonso occupò il territorio tra il Duero e il Mondego, che fu costituito in contea del Portogallo e affidato al genero, Enrico di Borgogna († 1112). Morto Enrico, gli subentrò il figlio, Alfonso Henriques (1128-1185), che sconfisse i Mori a Santarém e, nel 1147, occupò Lisbona, destinata a diventare la nuova capitale dello Stato. Nel 1179, Alfonso ottenne

comprensibile sia dai funzionari regi che dai sudditi. Il Fuero fu una raccolta di statuti regi e di consuetudini applicabili alle città del regno, al fine di uniformarne la struttura amministrativa e l’organizzazione interna, mentre la Ley de las Siete Partidas – divisa in sette parti – era un codice onnicomprensivo, contenente sia norme di diritto pubblico che privato, con moltissimi riferimenti anche al diritto canonico, nella disciplina di alcune materie di rilevanza ecclesiastica. Nella Ley, opportunamente tradotti e aggiornati, vennero trasfusi il codice, redatto in latino, dell’epoca visigota, noto come Lex Recesvindiana (VII secolo), e la raccolta canonica nota come il Decretum Gratiani (XII segiugno

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Al-Andalus è il nome dato dagli Arabi alla provincia dell’impero califfale che corrisponde alla penisola iberica. In questa e nelle altre cartine sono anche indicate le principali battaglie combattute nel corso della Reconquista.

dal papa l’investitura del titolo regio. Nel 1137, le nozze della regina Petronilla (1137-1174) col conte di Barcellona, Raimondo Berengario IV (1131-1162), consentirono alla corona d’Aragona di annettere la Catalogna e spostare il baricentro politico verso il Mediterraneo dove, alla fine del XIII secolo, inglobò anche la Sardegna e la Sicilia. Dal XIII secolo, l’intera Spagna fu coinvolta in un lungo e difficile processo di ricomposizione politico-territoriale che, nel Quattrocento, sfociò nell’unificazione del Paese. Nel 1469, con le nozze dei principi ereditari Ferdinando († 1516) e Isabella († 1504) – poi incoronati re d’Aragona e di Castiglia e León – una parte consistente della penisola iberica fu unita in un solo regno, anche se Aragona, Castiglia e León conservarono le rispettive cortes e i distinti ordinamenti amministrativi. Nel 1492, i re cattolici – come iniziarono a essere chiamati Ferdinando e Isabella – occuparono Granada e, completata la Reconquista e annientati i Mori, solo il regno di Navarra – con capitale Pamplona e corrispondente agli odierni Paesi Baschi – conservò la sua indipendenza. Quando Ferdinando d’Aragona occupò anche la Navarra, nel 1512, tutta la Spagna – escluso il Portogallo – fu unita sotto la guida di un solo monarca. Santiago de Compostela

Zamora

Portogallo

Mérida

Lisbona

Huelva

Siviglia

Cadice

Gibilterra

Asturie

Saragozza

Rueda

Salamanca

Toledo

Badajoz Mérida Cordova Siviglia

Andorra

Catalogna

Huesca Lérida

Barcellona Tarragona

Murcia

Granada Almeria

Alcoraz

Contea di Barcellona

Huesca

Aragona

Uclés

Barcellona Tarragona

Valencia

Murcia Almeria

al-Andalus nel 900

Oviedo Santiago de Compostela

Galizia

León

Navarra

Coimbra

Badajoz

Andorra

Pamplona

Aragona

Burgos Saragozza go go gozza ozza zza zza

Salamanca

Portogallo

al-Andalus nel 790

Primi successi Alfonso III Magno, re delle Asturie, avanza lungo il Duero, e conquista Zamora e altre roccheforti arabe. Nel 917 Ordoño II, re di León, alleato con il re di Navarra, Sancho I Garcés, ottiene nuove vittorie.

Valladolid

Oporto

Lisbona

Valencia

Jaén

Burgos goss Tudela gos

Castiglia

Palma

Toledo

Cordova

Guadalete

Alla metà del XII sec. l’impero degli Almoravidi si sgretola: Alfonso VII di León e Castiglia ne approfitta, conquistando, tra le altre, Cordova (1144), la fortezza di Aurelia, presso Ocaña, Coria e, nel 1147, Almeria.

Aragona

Granada Almeria

Granada

Saragozza

Murcia

Cordova Siviglia

Al-Zallaqa

Nuova Castiglia

Badajoz

Badajoz

Zamora

Navarra

Salamanca Madrid

Coimbra

Lisbona

Coimbra

Burgos Tudela

Valencia

Toledo

Galizia

Castiglia

Braganza Oporto

Salamanca Coimbra

León

Lisbona

Girona Tudela Huesca Saragozza Barcellona Tarragona

Zamora

Oporto

Andorra

Burgos Pamplona

Valdejunquera

Santiago de Compostela

Oporto

Covadonga

Regno León delle Asturie

San Sebastian

Oviedo

Asturie León Galizia

Oviedo Santiago de Compostela

Catalogna

Fraga

Castiglia Cutanda

Toledo

Barcellona Tarragona

Valencia

Palma

Alarcos Las Navas de Tolosa

Cordova Siviglia Huelva Granada Almeria Cadice Gibilterra

al-Andalus nel 1150

Agli inizi del XIV sec. il sultanato di Granada è il solo dominio arabo in Spagna. La città cadde infine, nel 1492, nelle mani delle corone di Castiglia e Aragona e dei rispettivi re, Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona.

Possedimenti castigliani Possedimenti aragonesi Granada

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protagonisti alfonso x La Reconquista

Alle origini dell’Hispanidad Attestato per la prima volta nel Diccionario de la Real Academia Española (1843), il termine Reconquista designa appunto la progressiva riconquista, da parte dei regni cristiani, del territorio iberico dominato dai musulmani. I primi conflitti iniziarono già nell’VIII secolo – al tempo dell’occupazione islamica della Spagna – quando Pelagio, re delle Asturie, conseguí, contro i Mori, la vittoria di Covandonga (722). Ma la Reconquista ebbe effettivamente inizio solo nell’XI secolo, sotto il regno di Alfonso VI di Castiglia e León. All’epoca, il confine tra il dominio musulmano e i regni cristiani correva, approssimativamente, lungo il corso del fiume Duero ed era mobile, mutando a seconda dei successi militari dell’una o dell’altra parte. Man mano che i regni cristiani sconfiggevano i Mori e avanzavano verso sud, ripopolavano le terre conquistate – repoblaciones –, con l’invio di coloni cristiani per formare nuovi insediamenti, dotati di un’organizzazione amministrativa basata sugli alcaldes – governatori – e sulla promulgazione di fueros, ovvero privilegi e statuti normativi. Nel 1064, Castigliani e Aragonesi sottrassero ai Mori, rispettivamente, Coimbra e Barbastro e, alla vigilia dell’impresa – vera e propria crociata ante litteram –, papa Alessandro II (1061-1073) emanò un’apposita bolla – Eos qui eunt in Hispaniam –, con cui benedisse i combattenti, promettendo l’indulgenza a chi vi avesse partecipato. Alla presa di Toledo da parte di Alfonso VI di Castiglia e León, nel 1085, seguí, nel 1118, la presa di Saragozza, da parte dell’Aragona, e, nel frattempo, furono istituiti gli Ordini religioso-militari di Alcántara (1156), Calatrava (1158) e Santiago (1170), col compito di combattere i Mori.

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Il 16 luglio del 1212, con la vittoria di Las Navas de Tolosa, presso la Sierra Morena, i regni cristiani inflissero una durissima sconfitta ai musulmani, che furono costretti a ripiegare in Marocco. Iniziarono, allora, una serie di fortunate campagne militari che portarono la Castiglia, sotto la guida di Ferdinando III, a occupare Cordova (1236), Murcia (1243), Jaén (1246) e Siviglia (1248), mentre l’Aragona occupò le Baleari (1232) e Valenza (1238). Alla fine del XII secolo, tra la Sierra Morena e il golfo di Malaga, sotto il governo della dinastia dei Nasridi, sopravviveva solo l’emirato di Granada, ormai tributario della Castiglia e vera e propria enclave musulmana in terra spagnola. Nel 1492, la conquista di Granada da parte dei re cattolici sancí la fine della Reconquista, mentre i marrani e i moriscos – le minoranze ebraico-musulmane – furono costretti a convertirsi o a emigrare. L’importanza che la Reconquista ha avuto nel forgiare l’identità culturale della Spagna è, da tempo, al centro del dibattito storiografico. Alcuni storici hanno sostenuto il carattere senza dubbio cattolico e castigliano dell’Hispanidad – l’identità culturale iberica – maturata proprio nel corso del conflitto contro i musulmani, sotto la guida della Castiglia. Secondo questi storici, la lunga permanenza degli Arabi nella penisola non alterò mai i caratteri etnico-culturali originari delle genti iberiche, ma fu solo una lunga parentesi storica, conclusasi con la presa di Granada. Tale visione è stata fatta propria da Claudio Sánchez Albornoz († 1984) e Ramón Menéndez Pidal († 1968), autori di due opere fondamentali sul tema: La Spagna, un enigma storico (1956) e La Spagna del Cid (1929). Alle loro tesi si oppose Americo Castro († 1972), il quale,

nel saggio La Spagna nella sua realtà storica (1954), sostenne la natura composita dell’Hispanidad, frutto della fusione di elementi culturali diversi, non solo cristiani e castigliani, ma anche ebraici e musulmani, e sottolineò anche che l’eccessiva influenza della Chiesa e della mentalità cavalleresca aveva prodotto effetti negativi, impedendo alla Spagna di adeguarsi ai valori della «modernità». Castro, inoltre, smentí la visione della Reconquista come una serie continua di guerre e ribadí che i rapporti tra musulmani e cristiani non furono solo conflittuali, ma anche di scambio e reciproco arricchimento culturale. La complessità della vicenda è ben rappresentata da Rodrigo Diaz de Vivar († 1099) – El Cid Campeador – eroe per eccellenza dell’epica iberica. Il condottiero serví il re di Castiglia, Sancio II il Grande, ma alla sua morte, avvenuta nel 1072 durante l’assedio di Zamora, passò al servizio del fratello Alfonso VI – che, già re di León, lo divenne anche della Castiglia – in qualità di alferéz, ossia comandante dell’esercito. Nel 1081, El Cid fu bandito dalla corte con l’accusa di malversazioni e passò al servizio degli emiri di Saragozza e di Valenza. Infine, nel 1094, morto l’emiro al Qadir, si insignorí di Valenza, che consegnò ad Alfonso VI, mettendosi nuovamente al suo servizio. Da quanto detto, emerge come la visione tradizionale della Reconquista, sebbene non possa dirsi totalmente errata, vada senz’altro rettificata. Il processo di formazione dell’Hispanidad fu infatti complesso e non fu soltanto l’esito della guerra contro i Mori, ma anche del contributo pacifico di elementi culturali appartenenti a civiltà che, benché confliggenti, furono in grado anche di cooperare con risultati proficui. giugno

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colo). Inoltre, Alfonso dispose, con la sua legislazione, il recepimento in Castiglia dello ius commune, cioè del diritto romano contenuto nel Corpus Iuris giustinianeo (VI secolo) e che, all’epoca, grazie all’insegnamento universitario, era il diritto comune dell’intera Res publica christiana. L’applicazione del diritto comune fu suppletiva, destinata a colmare le lacune normative nei casi non disciplinati dalla legge regia.

I millenni della Spagna

In campo storiografico, sono da ricordare la Crónica general de España e la Grande e General Estoria, due grandi cronache, composte su ordine di Alfonso, che avevano la finalità di celebrare la grandezza della Castiglia e, con essa, di tutta la Spagna cristiana. La prima era una storia della penisola iberica dall’epoca preistorica fino agli inizi del XIII secolo, la seconda una storia universale – cronologicamente ordinata –, che andava dall’origine del mondo fino al regno alfonsino. Le fonti a cui attinsero i compilatori furono la Bibbia, la storiografia latina, gli annali e le cronache latine medievali, i testi agiografici cristiani e alcune opere storiche di storiografi

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La riconquista della città di Cadice da parte di Alfonso il Saggio, olio su tela del pittore sivigliano Manuel Cabral y Aguado Bejarano (1827-1891). Segovia, Alcázar.

spagnoli come il De rebus Hispaniae del vescovo di Toledo Rodrigo Jiménez de Rada (1208-1247). Tra l’altro, il De rebus Hispaniae fu un’opera storica importantissima e molto conosciuta, che, per la prima volta, individuò nell’anno 711 – data dell’invasione islamica della penisola iberica – una cesura cronologica e storiografica rispetto alle fasi precedenti della storia spagnola. Alfonso, infine, promosse anche la traduzione dall’arabo in castigliano di alcune opere rientranti nella cosiddetta «letteratura di intrattenimento», tra cui la raccolta di favole arabe Kalila wa Dimna – mutuata a sua volta dalla favolistica indiana – e il Libro de los juegos (noto anche come Libro del axedrez, dados e tablas) sul gioco degli scacchi e dei dadi. Tra le opere d’intrattenimento è da menzionare anche il Kitab al-Mi’rag – il Libro della Scala – di autore arabo sconosciuto, ma di cui sopravvivono manoscritti in latino e francese. Si tratta di un testo in cui si racconta il

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protagonisti alfonso x 1

Sulle due pagine miniature che corredano l’edizione delle Cantigas de Santa Maria conservata presso la Biblioteca Nazionale di Firenze (Ms B.R. 20). XIII sec.

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1. Cantiga 136. Vi si narra di «come in terra di Puglia, in una città che si chiama Foggia, una donna giocava ai dadi con altre compagne davanti a una chiesa, e poiché perdeva scagliò una pietra per colpire il bambino dell’immagine di Santa Maria ed ella alzò il braccio e parò il colpo». 2

2. Cantiga 162. Qui le scene raccontano «come Santa Maria fece in modo che la sua immagine che avevano spostato da un altare a un altro tornasse a collocarsi donde l’avevano tolta». 3. Cantiga 222. Storia «del cappellano che cantando messa nel monastero delle monache di Chelas, che si trova in Portogallo, inghiottí un ragno che poi gli uscí dal braccio».

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4. Cantiga 228. Le scene si riferiscono all’episodio in cui «un buon uomo aveva un mulo con i piedi tutti rattrappiti, ordinò a un suo servo di scuoiarlo e mentre il servo si preparava il mulo si levò guarito e si avviò alla chiesa». 4

viaggio mistico compiuto da Maometto († 632) – accompagnato dall’arcangelo Gabriele e in groppa al destriero dal volto femmineo Al-Buraq – attraverso l’Inferno e gli otto cieli, fino al cospetto di Allah. Il libro rielaborava il racconto già contenuto nel Corano e in parte trasmesso dalla Sunna, la tradizione orale islamica. Secondo alcuni studiosi, il Libro della Scala fu noto anche a Dante Alighieri, che lo avrebbe utilizzato nella composizione della Divina Commedia.

Da leggere Max Aub, Storia della letteratura spagnola dalle origini ai giorni nostri, a cura di Dario Puccini, Editori Laterza, Bari 1972 Américo Castro, La spagna nella sua realtà storica, Garzanti, Milano 1995 Jaime Vicens Vives, Profilo della storia di Spagna, Einaudi, Torino 2003

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rivelazioni

Il cavaliere dell’anticomoderno di Fabrizio Federici

Francesco Gualdi, gentiluomo riminese, della prima metà del Seicento, è uno dei protagonisti della scena culturale romana: appassionato di antichità e collezionista, si fa conoscere soprattutto per il magnifico museo allestito nella sua casa (oggi scomparsa) nei pressi dei Mercati di Traiano. A lui dobbiamo il trattato, Delle memorie sepolcrali: una testimonianza rara preziosa sull’arte funeraria medievale. Nonché di una «passione» colta e attenta per le vestigia dell’età di Mezzo

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Q Q

uando pensiamo alla Roma barocca, alla Roma di Gian Lorenzo Bernini e di papa Urbano VIII, si materializza nella nostra mente l’immagine di una città in tumultuosa trasformazione, proiettata verso il futuro, tutta intenta a elaborare forme artistiche e architettoniche nuove. Una città che guarda avanti, e ha poco rispetto per le vestigia antiche: si pensi soltanto al celebre adagio «Quod non fecerunt barbari...» («... fecerunt Barberini», «Ciò che non fecero i barbari, l’hanno fatto i Barberini»: battuta con cui si volle alludere appunto a papa Urbano VIII Barberini, che spogliò il Pantheon dei suoi bronzi per fonderli e riutilizzarli, n.d.r.). Tuttavia, tale immagine è molto parziale. La Roma seicentesca è anche una città che ammira, studia e rielabora il proprio passato: quello piú

In alto il cavalier Francesco Gualdi (1574-1657) in un ritratto a penna e acquerello. XVII sec. A sinistra Veduta del Campo Vaccino, olio su tela di Claude Gellée, meglio noto come Claude Lorrain. 1636. Parigi, Museo del Louvre.

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rivelazioni remoto, innanzitutto, ovvero la venerata Antichità classica; e quello dei primi gloriosi secoli del cristianesimo. Ma non solo: nella Roma dei Barberini vi è anche chi abbina all’interesse per l’antico e per l’età paleocristiana una viva attenzione per il passato piú recente, per gli ultimi secoli di quell’immane arco cronologico che noi chiamiamo Medioevo (e per il quale, nel Seicento, si spendeva spesso il singolare aggettivo «anticomoderno»; vedi box alle pp. 66-67).

«Familiare» dei papi

Tra i personaggi che nella Roma barocca si interessarono al Medioevo spicca il cavalier Francesco Gualdi (1574-1657), nobiluomo originario di Rimini che fu a lungo impiegato alla corte pontificia in qualità di «familiare» di ben quattro papi. Egli crebbe a stretto contatto con un personaggio di grande spessore intellettuale e culturale, quale fu il cardinale Alessandro de’ Medici (poi papa per soli 27 giorni, nel 1605, con il nome di Leone XI); il prelato instillò nel giovane Gualdi la curiosità per le «memorie» del passato e gli trasmise una particolare sensibilità nei confronti della loro salvaguardia. Tale premura trovò diverse maniere di tradursi in pratica. Innanzitutto il nobiluomo diede vita, nella sua casa nei pressi dei Mercati di Traiano (poi distrutta in epoca fascista), a un celebrato museo, in cui ricoverò oggetti antichi, paleocristiani e medievali (vedi box a p. 65). In secondo luogo Gualdi – che non era certo la classica figura di erudito chiuso nella torre d’avorio del suo studiolo – si impegnò attivamente affinché significative testimonianze del passato venissero salvate dalla distruzione e restaurate: si trattò di opere antiche (come il mausoleo di Cecilia Metella o il ponte di Tiberio a Rimini), ma anche medievali e quattrocentesche, come il sepolcro del cardinale Adam Easton in S. Cecilia (di cui il

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Tutte le xilografie di lastre tombali riprodotte nell’articolo sono tratte dall’opera di Francesco Gualdi Delle memorie sepolcrali.

A sinistra, in alto xilografia della lastra tombale di Angelotto Normanni, ritratto in armi. Qui accanto xilografia della lastra tombale del vescovo Pietro Alberini.

cavaliere recuperò il baldacchino) e due stemmi della famiglia Anguillara sulle facciate dell’Ospedale Lateranense, che Gualdi fece ricollocare al loro posto nel corso dei lavori di ricostruzione dell’edificio. Massima espressione della sensibilità di Gualdi per la tutela delle testimonianze del passato e del suo grande interesse per le tracce materiali lasciate dagli ultimi secoli del Medioevo fu l’ideazione di un ampio trattato dedicato alle lastre tombali tre-quattrocentesche delle chiese di Roma: l’opera, intitolata Delle memorie sepolcrali, doveva essere corredata di un ricco apparato icogiugno

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nografico, costituito da un centinaio di xilografie, che riproducono in larghissima parte lastre terragne. Il testo e le immagini furono approntati negli ultimi anni del pontificato di Urbano VIII, tra il 1640 e il 1644. Accanto al collezionismo e all’azione diretta di salvaguardia, Gualdi promuove dunque la documentazione, come strumento per trasmettere ai posteri, se non gli oggetti nella loro fisicità, perlomeno un ricordo del loro aspetto. Siamo in anni nei quali la documentazione grafica delle testimonianze figurative del passato assume una sempre maggiore rilevanza: alla metà degli anni Trenta del Seicento vede la luce la Roma sotterranea di Antonio Bosio (1575-1629), con le sue minuziose riproduzioni delle catacombe e delle semplici e «devote» pitture che le ornano; e nello stesso perio-

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do il cardinale Francesco Barberini (1597-1679) avvia un’imponente campagna di documentazione dei mosaici e degli affreschi medievali delle chiese di Roma, il cui fine principale era, come ebbe a scrivere il biografo d’artisti Giovanni Baglione (post 1566-1643), quello di «ravivar nella memoria de’ fedeli gli habiti, e riti della primitiva Chiesa».

I motivi della scelta

Sulla scia di queste imprese si pone Francesco Gualdi, che concentra l’attenzione su una categoria ben precisa di manufatti: le lastre tombali realizzate tra il XIV e il principio del XVI secolo, che recano incisa o a rilievo la figura del defunto, e a cui di solito si accompagnano uno o due stemmi e un’iscrizione sepolcrale. Alla base di questa scelta possiamo riconoscere diverse

Il ponte di Tiberio a Rimini in una incisione di Giovanni Battista Piranesi. 1750 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. Il monumento fu tra quelli per i quali Francesco Gualdi si adoperò al fine di promuoverne il restauro.

motivazioni. Vi è, innanzitutto, la già ricordata premura nei confronti della tutela: le lastre correvano un gran pericolo di andare perdute, non solo perché consunte dai passi dei fedeli, ma soprattutto perché erano le prime vittime dei rinnovamenti degli spazi ecclesiali e dei pavimenti delle chiese, che senza sosta si succedevano nella Roma della prima metà del Seicento. È lo stesso Gualdi a descriverci il meccanismo che portava alla distruzione delle lastre: quando si restaurava una chiesa, i responsabili dei lavori, «poco intendenti, e meno carita-

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rivelazioni

Xilografie di lastre tombali raffiguranti Giovanni da Montopoli in abiti da pellegrino (in alto) e Maria Cenci.

tivi», concedevano «a conto di pagamento al capo maestro muratore le rovine degli ammassati marmi, co’ quali ci hanno comprese anchora centinaia delle nostre antiche lapidi sepolcrali; e con simili altri modi, e patti giornalmente vien deteriorata la veneranda antichità ecclesiastica». In tal modo le lastre finivano per essere riusate come materiale da costruzione, o addirittura venivano ridotte in calcina. Se dunque il proposito di documentare l’aspetto di manufatti in grande pericolo ha costituito uno stimolo fondamentale alla stesura del

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trattato, non meno determinante fu l’intrinseco interesse delle lastre terragne figurate, da piú punti di vista. La compresenza di immagini, stemmi, iscrizioni che le caratterizza, infatti, fa sí che le lastre siano uno straordinario concentrato di informazioni per storici, genealogisti, araldisti, epigrafisti e antiquari (o, come diremmo oggi, studiosi della storia della cultura materiale). Fu soprattutto quest’ultimo aspetto, quello dell’importanza delle lastre come fonti per la ricostruzione degli «usi e costumi» dell’evo anticomoderno, ad affasci-

nare Gualdi: «l’habito è fondamento della nostra fatica», si legge nel trattato. L’intento di fornire una documentazione il piú possibile esaustiva delle vesti indossate nella Roma del Tre e Quattrocento influenza fortemente la scelta delle lastre da riprodurre: si tratta delle sepolture di magistrati civici (senatori di Roma), uomini d’arme, ecclesiastici, mercanti, donne, e c’è persino un pellegrino. Le xilografie ci restituiscono, insomma, il ritratto di un’intera società, còlta nella quiete dell’eterno riposo. Un ruolo importante, nella giugno

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scelta di focalizzarsi sulle lastre, lo svolse anche l’interesse di Gualdi per l’araldica e le genealogie: scegliendo di occuparsi di tombe appartenenti a casate «la maggior parte romane, e viventi», il cavaliere voleva «dimostrare al mondo, che anche hoggi, assai nobili, et antiche famiglie durano in questa città reggia del mondo ad onta de’ barbari, e del tempo».

Fedeltà del segno «largo»

La scelta di ricorrere a stampe da matrice lignea non sembra affatto scontata, in un momento in cui, nella trattatistica antiquaria, l’incisione calcografica (da matrice in rame) stava prendendo il sopravvento, perlomeno per le illustrazioni a piena pagina. Il ricorso alla xilografia non appare in questo caso motivato da ragioni pratiche ed economiche (il minor costo delle matrici in legno), ma sembra piuttosto rispondere a una precisa scelta espressiva. Da un lato, il segno «largo» della xilografia si presta assai meglio di quello sottile del bulino alla riproduzione delle lastre, e in particolare di quelle in cui le figure non sono scolpite a rilievo, ma delineate nei marmi, mediante poche ed essenziali incisioni; dall’altro, pare che, attraverso una scelta «all’antica» – che guarda ai primordi dell’illustrazione libraria a stampa –, si voglia stabilire come un’armonia tra l’epoca in cui le lastre terragne furono scolpite e il modo in cui vengono ora visualizzate. Le stampe di Gualdi, in altre parole, non vogliono assolutamente svelare la loro natura seicentesca, ma ambiscono a essere scambiate (e in effetti potrebbero esserlo) per illustrazioni quattrocentesche, saltate fuori da chissà quale incunabolo.

il museo di gualdi

Il piú bel fiore dell’antichità Già nel 1624 il celebre poeta Giovan Battista Marino aveva parole di grande elogio per la collezione di Francesco Gualdi: «In una sola camera si vede raccolto il fiore del piú bello che dal seno dell’antichità potrebbe altri giamai sperare». In effetti, come negli altri musei eruditi del tempo, i reperti antichi rivestivano nella raccolta del cavalier Gualdi un ruolo centrale: si trattava di piccoli oggetti, di solito non strepitosi da un punto di vista estetico, ma di notevole interesse antiquario, come gemme e monete, anelli, strumenti in bronzo, iscrizioni, urne sepolcrali, rilievi. Tuttavia, a differenza di quanto avveniva nella maggior parte delle collezioni dell’epoca, l’attenzione non era concentrata sulla sola antichità classica: Gualdi raccolse con pari ardore anche reperti di epoca paleocristiana (lucerne, iscrizioni) e, cosa ancor piú insolita, manufatti medievali, come sigilli, monete, manoscritti. Il museo del gentiluomo divenne una delle piú celebrate raccolte della Roma barberiniana, anche grazie all’accorta strategia promozionale orchestrata da Gualdi, attraverso menzioni della collezione nelle principali imprese editoriali dell’epoca e tramite la pubblicazione di fogli volanti a stampa, dedicati a singoli reperti. Consapevole del destino che attendeva la sua creatura (condannata a essere dispersa dopo la morte di chi l’aveva creata, come di solito succedeva alle collezioni di questo genere), il nobiluomo tentò di evitare questa triste sorte, donando il museo, nel 1649, al re di Francia, l’allora undicenne Luigi XIV: sotto il nome di Cabinet Royal o Museum Regium, la raccolta sarebbe dovuta rimanere per sempre a Roma, nel convento della Trinità dei Monti, dove i reperti furono trasferiti nei primi anni Cinquanta del Seicento. Il sogno del Cabinet Royal fu tuttavia di breve durata: poco dopo la morte di Gualdi (1657), il re ordinò il trasferimento a Parigi dell’intera raccolta, che prese la via della Francia nel 1661-62. Ancora oggi è possibile identificare, disperso in diversi musei e istituzioni culturali della capitale francese, un piccolo, ma significativo nucleo di reperti un tempo appartenuti a Gualdi.

Roma. Un’immagine degli sventramenti compiuti per la realizzazione della via dell’Impero (oggi via dei Fori Imperiali), che causarono, fra le altre, la demolizione della casa di Francesco Gualdi nei pressi dei Mercati di Traiano, nella quale il cavaliere aveva allestito il suo museo.

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rivelazioni Della novantina di lastre fatte riprodurre da Gualdi circa la metà è andata perduta. Il corpus gualdino rappresenta dunque una fonte importante per la conoscenza di un patrimonio scultoreo che ha subito negli ultimi secoli un pesante ridimensionamento. Quando invece la lastra riprodotta è giunta fino a noi, si ha l’occasione di mettere a confronto originale e copia, e di verificare la grande accuratezza e fedeltà della xilografia (specie se pensiamo agli standard seicenteschi in materia di riproduzione di opere medievali). Grande attenzione è riservata alla riproduzione delle vesti e dei caratteri degli epitaffi (maiuscole gotiche e capitali); sorprendente è pure la fedeltà con cui si attesta lo stato di conservazione delle lapidi, riproducendone le eventuali rotture, le fratture, le parti consunte. Nelle proporzioni generali, invece, è evidente come le xilografie si distanzino dalle lastre: le proporzioni allungate di quest’ultime, infatti, vengono modificate in modo che la larghezza risulti maggiore del vero, con la conseguenza che i defunti vengono fatti «ingrassare» nel pas-

saggio dalla lastra alla riproduzione. Non sappiamo chi sia l’autore di questo singolarissimo corpus, realizzato nel corso del 1640: i «sospetti»si addensano sul grossetano Crescenzio Bindi (1596 circa-1661), che lavorò come intagliatore di matrici lignee per diverse imprese editoriali dell’epoca e che fu a lungo in contatto con il cavalier Gualdi.

Redazione a piú mani

Non meno interessante delle xilografie è l’ampio testo del trattato Delle memorie sepolcrali. In ciascuno dei settanta capitoli che ci sono giunti, digressioni erudite si alternano a trascrizioni di epitaffi (solo in parte utilizzate da Vincenzo Forcella per la sua monumentale silloge Iscrizioni delle chiese e d’altri edificii di Roma). La vastità dell’impresa, e il fatto che Gualdi non possedesse né l’ampia erudizione, né il «bello stile» necessari a condurla in porto, indussero il cavaliere a giovarsi dell’aiuto di alcuni collaboratori, a cominciare dallo storico Costantino Gigli, infaticabile indagatore degli archivi romani e dei pavimenti delle chiese, al quale toccò in gran parte il

«lavoro sporco» della ricerca e della trascrizione delle epigrafi. Altro importante collaboratore di Gualdi fu l’antiquario pesarese Gauges de’ Gozze, al quale si devono alcuni excursus eruditi che rientrano tra quelli piú interessanti dell’intero trattato. La maggior parte delle digressioni non sono tuttavia dovute a lui, bensí allo scrittore e poeta Ottavio Tronsarelli, che le redasse nel corso del 1644. L’abile letterato non era nuovo a collaborazioni di questo tipo, e non disdegnava l’attività di ghost writer: a detta di Giovan Pietro Bellori, Tronsarelli avrebbe «disteso» le Vite de’ pittori, scultori et architetti di Giovanni Baglione, dando un’accettabile veste letteraria alle «cognitioni, et sensi» del pittore (che in effetti se la cavava meglio con il pennello che con la penna…). I discorsi di Gozze e Tronsarelli toccano una gran varietà di argomenti: dalle istituzioni e dalle cariche, sia civili che ecclesiastiche, dei secoli precedenti, alle credenze, ai comportamenti e ai rituali funebri, dal significato di certe parole presenti nelle iscrizioni alle acconciature, alle vesti e agli accessori dei defunti.

Anticomoderno

Quel «piuttosto ridicoloso imbratto»... Nella letteratura artistica ricorre con una certa frequenza, dalla seconda metà del Cinquecento, l’aggettivo «anticomoderno», che grosso modo corrisponde al nostro «medievale». La sua origine va forse ricercata nelle Vite di Giorgio Vasari: nell’edizione Torrentiniana (1550), si parla per due volte dei «vecchi moderni», alludendo agli artisti che piú spesso l’Aretino identifica semplicemente come «vecchi», e che oggi definiremmo medievali. L’espressione di Vasari porta a vedere in «anticomoderno» non l’indicazione di una compresenza o di un passaggio tra i due membri che compongono l’aggettivo («tra l’evo antico e quello moderno»), ma piuttosto una delimitazione del significato del secondo membro da parte del primo («la fase antica dell’evo moderno»). Tuttavia, come suggerisce l’esistenza dell’espressione «antichità moderna», non si può escludere che all’origine dell’aggettivo

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vi sia stato un processo esattamente opposto, basato sull’interpretazione del Medioevo come una seconda fase, «moderna», dell’«antico». Le prime attestazioni dell’aggettivo risalgono comunque agli ultimi anni del Cinquecento: il pittore Giovan Battista Paggi lo utilizza in una lettera al fratello Girolamo, del 1591, che denota tutto il disprezzo dell’artista per le «goffe» immagini medievali, che sono «piuttosto ridicoloso imbratto che altro, come nelle pitture che noi chiamiamo antiche moderne, cioè antiche rispetto ai nostri tempi, per molte tavole e muri ancora si vede». Negli stessi anni l’aggettivo, specialmente nella forma sostantivata («li nostri antichi moderni»), è ampiamente utilizzato nel resoconto delle scoperte archeologiche avvenute a Roma nella seconda metà del Cinquecento dello scultore Flaminio Vacca nel 1594 e noto come Memorie di varie antichità. Nella prima metà giugno

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Ancora due xilografie realizzate per le Memorie sepolcrali di Gualdi nelle quali è possibile apprezzare la resa fedele del manufatto originale, di cui si documentano anche eventuali lesioni e lacune.

Spesso, infarcite di citazioni di autori classici, le digressioni si allontanano sensibilmente dalle lastre terragne da cui prendono spunto; non mancano tuttavia alcuni passaggi in cui l’intreccio tra dato figurativo e fonte letteraria (all’incirca coeva) si rivela meditato e proficuo. L’inconsueta presenza della barba che incornicia il volto del defunto nella perduta lastra tombale di Pietro Omniasancti († 1384) , per esempio, viene messa in dialogo con un passaggio delle Istorie volgari di lingua romana antica, ovvero della cosiddetta Cronica dell’Anonimo Romano, in cui si descrive la nuova moda di portare «varva foita a muodo de heremitano», una «barba folta come quella di un eremita». Giovanna Tasca Boccabella (†

del secolo successivo l’aggettivo ricorre nella Memoria delli nomi dell’artefici di Gaspare Celio, pubblicata nel 1638, e ne Le nove chiese di Roma di Giovanni Baglione (1639), che risulta essere in assoluto il testo in cui «anticomoderno» è piú presente; Gualdi e soci lo utilizzano di frequente nelle Memorie sepolcrali. In questi testi l’aggettivo si riferisce soprattutto a opere e artisti del Tre-Quattrocento, ma vi si incontrano anche testimonianze di un uso ampio, che porta a includere sotto l’ombrello di «anticomoderno» tutto l’ampio periodo che va dalla fine dell’età antica alle soglie del Cinquecento. Cosí lo intende, Oltralpe, André Félibien che, nei suoi Principes de l’architecture, de la sculpture et de la peinture (1676), scrive: «antiques. Par ce mot l’on entend d’ordinaire des statuës antiques, et par le mot d’antiquitez, les statuës, les medailles, et les bastimens anciens qui nous restent. Il y a des choses antiques, que l’on nomme Antiques modernes, comme sont nos anciennes eglises, et d’autres bastimens gottiques, que l’on distingue d’avec ceux des Anciens, Grecs et Romains».

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rivelazioni

In questa pagina confronto tra la lastra sepolcrale di Pietro Lante e la sua xilografia: appare evidente il mancato rispetto delle proporzioni originali del manufatto che, nella restituzione grafica, acquista una maggiore larghezza, facendo «ingrassare» il defunto.

1382) reca, nella sua effigie sepolcrale, la corona sul capo: Gualdi e i suoi collaboratori la interpretano come una corona nuziale, e come un segnale del fatto che la giovane era scomparsa nei giorni del suo matrimonio. Per illustrare le antiche usanze nuziali romane e la dettagliata raffigurazione dell’abito da sposa di Giovanna, si ricorre a due testi che appaiono quanto mai a proposito: Li Nuptiali di Marco Antonio Altieri, scritti ai primi del Cinquecento, ma riguardanti usi che affondavano le radici nei secoli preceden-

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ti; e le norme suntuarie contenute negli statuti di Roma, che disciplinavano l’aspetto di accessori quali la corona, la «veste imperiale», lo scaggiale (cintura), tutti raffigurati nella lastra della Tasca Boccabella. Possiamo riconoscere in questi brani i primi passi di un’«antiquaria medievale» che piú tardi, tra Sei e Settecento, avrebbe raggiunto la maturità, con le opere di Mabillon, Montfaucon e, in Italia, Muratori. Una disciplina che punta a ricostruire la cultura materiale dei «secoli bui», riprendendo l’approccio e i

metodi dell’antiquaria classica, a cominciare dall’incrocio tra testimonianze figurative e letterarie.

Un’epoca «semplice»

Dalle pagine delle Memorie emerge un’immagine sorprendente del Medioevo: un Medioevo celebrato come epoca della «semplicità», in contrapposizione al lusso e alla decadenza morale dei tempi presenti. Già colpisce la scelta di focalizzare l’attenzione su secoli che non rientrano certo tra i piú illustri della lunga e gloriosa storia di Roma, caratterizzagiugno

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catacombe «nella lor semplicità e rozzezza mostrano nulladimeno i raggi della pietà et purità, o innocenza di que’ secoli» (Peiresc al cardinale Francesco Barberini, 28 febbraio 1635); e, per l’altro, anticipa, in maniera embrionale, l’idealizzazione del Medioevo come epoca di valori nobili e incorrotti, che tanta parte avrà nella cultura e nella letteratura otto-novecentesca.

Dall’oblio alla stampa

In questa pagina le xilografie delle perdute lastre tombali di Pietro Omniasancti (a sinistra) e di Giovanna Tasca Boccabella.

ti come furono dall’assenza del papa dalla città, dalle lotte intestine, dalla crisi demografica ed economica; ma ancor piú singolare è il fatto che tali secoli vengano idealizzati, basandosi sulle informazioni fornite dalle lastre tombali, con le loro raffigurazioni di vesti sobrie e modeste (un’idealizzazione che non avrebbe retto, se si fosse tenuto conto anche di altre testimonianze figurative di quell’epoca, come le sfarzose pale tardogotiche del tipo della Pala Strozzi di Gentile da Fabriano…). Nell’esaltazione del passato e nella condanna del presente Gualdi può dare libero sfogo al suo moralismo: «in que’ tempi rozzi, e semplici (...) non tanta ambitione, né pompa regnava»; la plebe non era ancora «altera, come hoggi a’ tempi

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nostri, tanto ardita, e superba, che nel vestire alla nobiltà s’uguagliasse»; gli abiti erano di una tale semplicità da «far arrossire le delitie di questi secoli». Bersaglio privilegiato degli strali di Gualdi sono le donne: «hoggi il mondo è tanto corrotto, che ha trascurate tutte le buone usanze, e perciò né veli, né corone di fiori, o d’oro si veggiono piú, ma in lor luogo le donne fanno ambitiosa mostra d’una bella, e bizzarra intrecciatura per esser vagheggiate, e ammirate non solamente dallo sposo, cui deve sol piacere, ma da chiunque le vede». Questa esaltazione dei secoli «anticomoderni» come epoca «rozza, e semplice» si riallaccia per un verso alle lodi tributate ai primi cristiani da Bosio e da altri autori, secondo i quali le modeste decorazioni delle

Con la morte di papa Urbano VIII (1644) iniziarono per Gualdi una serie di difficoltà economiche che, tra le altre cose, gli impedirono di pubblicare il trattato Delle memorie sepolcrali. Nel 1653-1654 l’ormai anziano collezionista riuscí a far realizzare le prove di stampa di sette capitoli dell’opera, a cui non seguí tuttavia la pubblicazione vera e propria del trattato nella sua interezza. Rimaste inedite per secoli, le Memorie stanno finalmente per vedere la luce: l’edizione critica del trattato, approntata da chi scrive, sotto la supervisione di Salvatore Settis, come tesi di perfezionamento alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dovrebbe essere pubblicata, dopo il necessario lavoro di revisione e aggiornamento, probabilmente presso le edizioni della Biblioteca Apostolica Vaticana, l’istituzione che in massima parte custodisce i materiali relativi all’opera (redazioni dei capitoli, appunti preparatori). La pubblicazione di questo precoce esempio di «medievalismo» renderà accessibile a studiosi e appassionati un’opera che, da un lato, rappresenta una notevole espressione culturale degli ambienti eruditi della Roma barberiniana, non esclusivamente interessati allo studio dell’antichità classica, ma aperti all’indagine della storia e della cultura materiale dei secoli piú recenti; e che, dall’altro, costituisce una fonte significativa per la conoscenza della storia, della storia dell’arte, dell’epigrafia a Roma tra Medioevo e Rinascimento.

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Longobardi all’ombra dell’antico

di Furio Cappelli, con un reportage fotografico di Stefano Suozzo

A Spoleto e a Campello sul Clitunno, nelle terre di uno dei principali domini della Langobardia Minor, oggi comprese nei confini della moderna Umbria, si possono ammirare due magnifiche testimonianze dell’architettura religiosa elaborata al tempo dei duchi di stirpe germanica: dedicate entrambe al Salvatore, offrono un esempio significativo della fusione fra i modelli d’ispirazione classica e le soluzioni originali elaborate da artisti e artigiani

L

Campello sul Clitunno (Perugia), località Pissignano. L’inconfondibile facciata «antica» del Tempietto (vedi alle pp. 79-83), il cui assetto attuale è frutto degli interventi compiuti in epoca longobarda tra la fine del VI e gli inizi del VII sec.

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a lista dei siti UNESCO che compongono il Patrimonio mondiale dell’umanità (World Heritage List), si è arricchita nel 2011 di un gruppo di testimonianze altomedievali poste sotto la dicitura «Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)» (www.longobardinitalia.it). Si tratta di realtà che raccontano in modo assai eloquente una pagina di storia e di cultura della Penisola, allorché i Longobardi, al culmine della loro dominazione, giunsero a rivestire un ruolo di committenti di alto rango, dalle terre del regno italico fino al ducato di Benevento. Proprio al centro di questo scenario, nelle terre umbre che rientravano nei confini del ducato di Spoleto, si situano due illustri testimonianze del gruppo: la basilica di S. Salvatore, che sorge nel suburbio dell’antica capitale dello stesso ducato, e un’altra chiesa dedicata al Salvatore, nota come Tempietto del Clitunno. La basilica si trova nei pressi dell’attuale cimitero urbano, alle falde del Colle Ciciano, mentre il Tempietto sorge in un contesto pienamente rurale, in una località di fondovalle sita lungo lo storico percorso della via Flaminia, 14 km a nord della città, nel territorio del Comune di Campello sul Clitunno (Perugia). L’importanza dei due edifici non si limita al ruolo politico e ideologico rivestito quando Spoleto era la capitale del ducato. Essi infatti si inseriscono in perfetta simbiosi in un preciso ambiente, che conferisce loro un carattere inconfondibile. In tal modo, le due chiese raccolgono l’eredità di una tradizione di lungo corso e, per giunta, pongono le basi di una vicenda storicoculturale destinata a svilupparsi ben oltre la fine del dominio longobardo.

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Spoleto, S. Salvatore La storia

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MARCHE Arezzo

Pietralunga

Tevere

La basilica extraurbana di S. Salvatore è, innanzitutto, parte integrante dei primordi del cristianesimo a Spoletium. Come ha di recente ribadito la compianta archeologa medievista Letizia Ermini Pani, essa ha infatti origini remote e, in particolare, rientrava nel circuito dei santuari che costellavano in modo assai significativo il suburbio della città antica. In direzione di Roma, a sud, ai lati della via Flaminia, si fronteggiavano le chiese di S. Pietro e di S. Paolo, a riecheggiare in modo lampante l’immagine delle piú illustri basiliche dell’Urbe. Tuttora le due chiese spoletine si offrono all’attenzione con la veste assunta dopo varie riedizioni, con particolare riguardo ai rifacimenti della piena età romanica, tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo. Fuori le mura antiche sorgeva anche la basilica di S. Gregorio Maggiore, a nord della città, presso quell’Anfiteatro ancora in parte leggibile, che Teodorico in persona volle ristrutturare come piazzaforte

In alto la facciata della basilica spoletina di S. Salvatore, realizzata nel V sec. e poi rimaneggiata e integrata nel VI-VII sec.

MontoneGubbio

TOSCANA

Fabriano Tolentino

Gualdo Tadino

Lago Trasimeno

Perugia

Deruta

Assisi

Nocera Umbra

Spello Foligno

Campello sul Clitunno

Todi Orvieto Lago di Bolsena

Acquasparta

ra

Ne

Spoleto

Norcia Cascia

Ferentillo Amelia Cascata Terni delle Marmore Narni Orte Rieti Viterbo

Lago di Vico

difensiva. L’attuale chiesa romanica conserva, tra le altre, le spoglie del santo dedicatario, un martire spoletino. Superata la cinta muraria del tardo Duecento, laddove sorgeva la Porta S. Gregorio, si individua, sotto l’attuale calpestio, il Ponte Sanguinario, del I secolo a.C., che valicava l’antico invaso del torrente Tessino e che prende probabilmente nome dal fatto che in questo luogo si sarebbero compiute stragi di cristiani all’epoca delle persecuzioni.

LAZIO

A destra la decorazione che sormonta il portale centrale. Sopra alla riquadratura originale si nota il fregio aggiunto nel VI-VII sec., con volute ai lati e cornice sommitale.

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A destra la finestra centrale che si apre nella parte superiore della facciata, con due pilastrini che sostengono un arco a tutto sesto, la cui ghiera è decorata da motivi d’impronta classica.

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l’arte delle antiche chiese /7 Oltrepassato l’attuale tracciato della via Flaminia, nei pressi dell’odierno cimitero monumentale si individuano due ulteriori santuari, a brevissima distanza: S. Ponziano e la stessa basilica di S. Salvatore. Anche Ponziano è un martire spoletino, e la basilica del Salvatore era intitolata in origine a san Concordio, un’altra vittima delle persecuzioni. Una recente rilettura del monumento, a opera della già citata Pani Ermini e dell’archeologo Patrizio Pensabene, ha infatti evidenziato che la chiesa è il risultato, essenzialmente, di due fasi costruttive. La fase originaria si può ascrivere al V secolo, ed è motivata proprio dal culto del santo martire Concordio, dal momento che in quel luogo era situata la sua sepoltura. Secondo il racconto che ci è stato tramandato, questi era un prete oriundo di Roma, a sua volta figlio di un sacerdote di nome Gordiano. Nominato suddiacono da Pio, vescovo dell’Urbe, Concordio si ritrova nel pieno delle persecuzioni ordite dall’imperatore Antonino Pio (138-161). Si reca allora in Sabina, presso un suo avo materno di profonda fede cristiana, ma il «conte di Tuscia» Torquato, che ha il proprio palazzo a Spoleto, lo deporta nella città umbra e lo fa incarcerare. Durante la prigionia il vescovo locale lo ordina sacerdote. In seguito viene torturato e decapitato e la sua salma viene deposta in un luogo particolarmente rinomato per via di un’acqua che si rivela prodigiosa nella cura di varie malattie. La chiesa si presentava, già nel V secolo, a tre navate e con le attuali, cospicue dimensioni, segno evidente di un culto ben radicato, e che doveva richiamare l’attenzione dei fedeli su un ampio raggio, grazie anche alle vicine fonti di acqua dalle presunte virtú terapeutiche. Ma un trauma violento dovette ben presto sconvolgere l’edificio. Le indagini archeologiche hanno infatti accertato la presenza di tracce di

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A sinistra il presbiterio della basilica. Al centro dell’abside si nota la nicchia con la croce gemmata ad affresco.

incendio sulle inquadrature delle porte di ingresso della facciata, e segni analoghi sono stati riscontrati all’interno. Le colonne originali che suddividevano le navate mostrano tuttora estesi segni di calcinazione, con perdite macroscopiche della scanalatura dei fusti. Molto probabilmente l’incendio dovette verificarsi in concomitanza della guerra greco-gotica (535553). Dopo aver ottenuto la resa di due città del Picenum, le attuali Fermo e Ascoli, l’ostrogoto Totila si diresse in direzione di Spoleto. La via di penetrazione piú rapida era costituita senza dubbio dalla via Nursina, un antico percorso di valico che si immetteva nella Flaminia proprio nei pressi di S. Salvatore. Ciò significa che la basilica poteva costituire una testa di ponte o co-

munque un primo presidio utile in vista dell’attacco alla città umbra. Se non fu casuale, la devastazione dell’illustre edificio poteva rientrare in una strategia del terrore nei riguardi di chi era preposto alle difese di Spoletium. Come attesta lo storico Procopio di Cesarea, l’assedio si risolse in ogni caso con la resa della città. La basilica fu in seguito ampiamente restaurata, assumendo l’assetto che la caratterizza tuttora. L’intervento si situa pienamente nell’epoca della dominazione longobarda, poiché i dati stilistici e archeologici orientano verso la fine del VI e la prima metà del VII secolo. Ai fini di queste conclusioni, si è rivelata particolarmente utile l’analisi di una ciotola frammentaria in terracotta, riutilizzata nel giugno

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riempimento della muratura della facciata in occasione dei lavori svolti in questa fase. Oltre al materiale del contenitore, sottoposto alla termoluminescenza, è stato possibile anche analizzare al radiocarbonio le ossa di animale (residui di cibo) che erano al suo interno. Sempre in epoca longobarda si colloca l’adozione del titolo attuale, S. Salvatore, una dedica al Cristo che si riscontra spesso nelle fondazioni legate ai re o ai duchi longobardi. La studiosa svizzera Carola Jäggi ha evidenziato, in particolare, un probabile legame con l’alta dirigenza dell’epoca, ipotizzando una funzione della basilica come chiesa di corte dei duchi di Spoleto, tenuta magari in gran conto come luogo solenne di sepoltura. In ogni caso, la chiesa dovette essere ben presto collegata a un monastero benedettino, attestato per la prima volta nell’815, in un diploma dell’imperatore Ludovico il Pio. Dal documento risulta che S. Salvatore dipendeva dall’abbazia sabina di Farfa, una fondazione non a caso molto legata ai duchi di Spoleto sin

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dall’epoca di Faroaldo II, che la pose sotto la propria protezione nel 705. Agli inizi del IX secolo si colloca anche la redazione del predetto racconto agiografico di san Concordio, molto probabilmente realizzato proprio in ambito farfense. Si spiega cosí, per esempio, il fatto che il santo abbia trovato rifugio in Sabina, mentre il riferimento al «conte di Tuscia» insediato a Spoleto, del tutto anacronistico rispetto all’ambientazione storica del racconto, adombra un ricordo dell’assetto politico del ducato nella appena conclusa epoca longobarda. Forse già alla fine del X secolo, e sicuramente alla metà dell’XI, si dovette assistere a un avvicendamento nella giurisdizione del monastero spoletino, con una probabile «usurpazione» messa in atto dal vescovo locale, come ipotizza lo storico Eugenio Susi. Fatto sta che nel 1064 vi risulta insediata una comunità di monache, sotto la guida della badessa Inga. Le stesse religiose decisero di ripristinare l’antica dedica a san Concordio, che si mantenne immutata fino al XVII secolo.

Nell’abside si sovrappongono affreschi di epoca diversa: una Madonna con il bambino e santi (XIII sec.) e una piú tarda Crocifissione (XVI sec.)

La visita

Occorre premettere che la chiesa non è attualmente accessibile al suo interno poiché ha riportato alcuni problemi strutturali a seguito del terremoto di Norcia (30 ottobre 2016). Al momento è solo possibile gettare uno sguardo attraverso i vetri della bussola dell’ingresso principale. Nella speranza che la situazione possa essere presto risolta, la visita è sicuramente di grande effetto già soltanto soffermando l’attenzione sulla facciata della basilica, di unicità indiscussa. Nonostante le perdite e i danni che si sono susseguiti nel tempo, essa è infatti un documento di altissima qualità e ben conservato, con un assetto originale che le chiese dell’epoca assai raramente sono riuscite a tramandare. Siamo infatti di fronte alla facciata di una basilica del V secolo, restaurata con modifiche e integrazioni nel VI-VII

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l’arte delle antiche chiese /7 A sinistra Spoleto, S. Salvatore. Il lato destro del presbiterio, con le strutture originali e le colonne aggiunte agli angoli. In basso e nella pagina accanto due immagini del Tempietto sul Clitunno, che sorse in un sito assai frequentato fin dall’età romana per la presenza delle sorgenti del fiume da cui prende nome.

ti al restauro del VI-VII secolo, si agganciano ai fregi dei portali grazie alla presenza di una croce al sommo, ed erano scandite da lesene corinzie, di cui rimangono le basi. Almeno in origine, infine, in luogo dell’attuale coronamento rettilineo, correva un coronamento a timpano. La muratura a facciavista, naturalmente, non fa testo, secolo, e mai in seguito interessata da nuove aperture o aggiornamenti di stile, come tanto spesso accadeva. Una tale persistenza doveva essere legata a un preciso valore riconosciuto all’edificio, per la sua qualità estetica e per la sua natura di testimonianza, proprio in ragione della sua antichità. Non a caso, lo splendido fregio marmoreo inserito in epoca longobarda al di sopra dell’ingresso principale ha fatto da «matrice» per talune importanti decorazioni locali di età romanica, prima fra tutte quella che si riscontra nel corrispondente portale di facciata del duomo di S. Maria Assunta. Ciò significa che nel pieno Medioevo S. Salvatore era ancora visto come un prezioso depositario dell’identità storica cittadina, in senso religioso e culturale. La composizione del fregio, con i girali di acanto che si sviluppano ai lati della croce di Cristo, rimanda alla fondamentale associazione simbolica tra la croce stessa e l’albero della vita. Il sangue del sacrificio del Salvatore è la linfa che vivifica eternamente i rami fioriti, posti cosí a comporre una visione del paradiso. Lo schema della nuova decorazione si completa con la cornice soprastante (di reimpiego) e con le

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volute che si sviluppavano ai lati, formando modiglioni in aggetto di sorprendente eleganza e di indubbio virtuosismo. Rimane intatta la sola voluta di sinistra. La stessa impostazione del fregio, volute comprese (tutte perdute), è stata poi ripetuta negli ingressi laterali. Volgendo lo sguardo verso l’alto, una serie di mensoline suggerisce la presenza di un portico frontale (o nartece), quanto meno previsto nel progetto originario. Le tre elegantissime finestre a edicola della fascia superiore, pertinen-

perché tutto l’insieme doveva essere reso omogeneo da una decorazione a intonaco e a stucco. La penombra domina all’interno nel suggestivo e ampio invaso dell’aula. Le modifiche di età longobarda hanno infatti comportato l’eliminazione di un piano aperto a finestre che correva ai lati della navata centrale. Anche le arcate di collegamento alle navate laterali sono del VI-VII secolo. Nell’assetto originale dei sostegni, le colonne di reimpiego sorreggevano un architrave continuo, a sua volta sormongiugno

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A destra la croce che orna il timpano sopra l’abside del Tempietto. Nella pagina accanto veduta dall’interno del portico frontale. In basso l’abside del Tempietto, inquadrata in un’edicola. Il tabernacolo centrale è sormontato dalla calotta con l’immagine del Cristo pantocratore.

tato da un fregio dorico, con riquadri alternati a partizioni scanalate (metope e triglifi). Ai lati del presbiterio, l’impostazione paleocristiana è ancora ben leggibile in tutta la sua palpitante romanità. Al centro dell’abside «longobarda», invece, spicca una nicchia in cui si delinea una croce gemmata dipinta ad affresco. Sui bracci laterali si notano preziosi pendenti, nonché l’alfa e l’omega che simboleggiano il principio e la fine di ogni cosa.

Campello sul Clitunno, Tempietto del Clitunno La storia

L’area in cui sorge il Tempietto è rinomata da tempi assai remoti. Le acque limpidissime delle sorgenti del Clitunno costituivano infatti un elemento di enorme attrattiva almeno sin dall’epoca romana. Grazie infatti alla qualità dell’acqua e alla felice cornice paesaggistica, quelle fonti avevano assunto un grande valore cultuale. Tutt’intorno si dispiegavano piccoli templi, e qui venivano condotti i buoi da destinare ai sacrifici rituali. La frequentazione era cosí intensa che proprio nelle vicinanze del Tempietto, sulla via Fla-

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minia, era situata una nota stazione di posta che fungeva da albergo per i «turisti» dell’epoca. La chiesa di S. Salvatore, il Tempietto cioè, si integra perfettamente in questo scenario, senza apparente soluzione di continuità. Si tratta, infatti, di un piccolo edificio di culto

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eretto in connessione con una fonte d’acqua, e che, persino dal punto di vista architettonico, si presenta come uno dei numerosi tempietti pagani di cui Plinio il Giovane ricorda la presenza in questa zona. La prima menzione documentaria della chiesa risale al XIV secolo.

quando S. Salvatore risulta dipendere dalla pieve di S. Angelo in Capite di Pissignano, il castello che sorge in cima al colle sovrastante. La mancanza di notizie sulle origini e sulla funzione dell’edificio fornisce massima importanza alla lettura archeologica e stilistica delle sue comgiugno

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Sulle due pagine particolari della decorazione dell’abisde: in alto, tre clipei, al cui interno compaiono una croce gemmata (al centro) e due Angeli; a sinistra, il Cristo pantocratore.

ponenti. In particolare, grazie a un fondamentale studio dello storico dell’arte antica e medievale Judson J. Emerick (1998), è stato possibile approdare a un’ipotesi cronologica ben supportata dai dati disponibili. Realizzato in due fasi costruttive distinte, l’edificio è sorto sin dall’ori-

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gine come chiesa, assumendo infine l’impronta templare «antica» che lo caratterizza all’esterno in modo cosí smaccato, soprattutto grazie all’aggiunta del portico frontale con architrave e timpano. La definizione dell’assetto è coeva alla fase longobarda della basilica spoletina, risultando databile tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo.

La visita

Il Tempietto sembra (e vuole sembrare) una costruzione antica adattata al culto cristiano, ma è, in realtà, una chiesa sotto forma di sacello pagano. Si tratta sotto questo aspetto di una costruzione davvero unica, che ha tratto in inganno molti architetti del Rinascimento, come Andrea Palladio o Antonio da Sangallo il Giovane. D’altronde il letterato tedesco Johann Gottfried Herder (1744-1803), durante il suo viaggio in Italia (1788-89), convinto di trovarsi di fronte al «tempio della dea Diana», entrò «come un pazzo» dentro

l’aula ed ebbe l’amara sorpresa di trovare un crocifisso al posto della statua pagana che si aspettava. L’utilizzo intensivo di elementi di reimpiego, abilmente assemblati e integrati, è evidente nei fregi dei timpani e nell’edicola che contorna l’abside all’interno. Come nei portali della basilica di Spoleto, la croce (all’esterno) oppure il monogramma cristologico (all’interno), in entrambi i casi al culmine di un motivo a girali di acanto, costituisce l’elemento tematico unificante nei campi decorati, appositamente scolpiti. All’esterno spicca inoltre la superstite epigrafe del fregio frontale, di perfetta impaginazione classica, ma con riferimento agli angeli e alla resurrezione delle anime. Completavano l’insieme altre due epigrafi montate sui fregi laterali, in corrispondenza degli ingressi, sormontate da altrettanti timpani decorati. Una cella inferiore, in origine affrescata, sembra motivata dalla presenza di una fonte d’acqua

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Dove e quando Tempietto sul Clitunno Via del Tempio 1, loc. Pissignano, Campello sul Clitunno (PG) Orario ma-do, 12,00-18,00 Info tel. 0743 275085; http://polomusealeumbria. beniculturali.it dall’evidente valore simbolico. A tal riguardo, gli antichi Statuti del castello di Pissignano ricordano una rinomata fonte di S. Salvatore in cui era tassativamente vietato immergersi o lavare panni. Secondo gli storici Nessi e Ceccaroni, si faceva riferimento a uno specchio d’acqua che doveva spandersi proprio di fronte al Tempietto, un tempo alimentato dalla sorgente captata nel sotterraneo. L’aula della chiesa (la cella superiore) offre un apparato decorativo assai prezioso e ampiamente leggibile sulla parete absidale. L’edicola di inquadramento dell’abside stessa, oltre alle sue componenti scultoree già notate, presenta in-

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fatti al suo interno e nella lunetta sovrastante un apparato pittorico sorprendente. La lunetta sommitale era articolata in tre clipei. Al centro (come nella nicchia absidale di S. Salvatore di Spoleto) spiccava la croce gemmata con l’alfa e l’omega. Ai lati (in particolare a sinistra) si notano ancora oggi due Angeli di delicatissima fattura. Nel catino absidale si delinea l’immagine del Cristo pantocratore, mentre nell’emiciclo sottostante, ai lati di un tabernacolo marmoreo, San Pietro e San Paolo si rivolgono allo spettatore con una intensità e un senso di presenza che lasciano stupefatti. Non ci sono dubbi sul fatto che una simile pittura abbia diretti

A sinistra le sorgenti del Clitunno. In alto e a destra San Paolo e San Pietro, affreschi che decorano l’emiciclo sottostante il catino absidale, ai lati di un tabernacolo marmoreo (vedi la foto d’insieme a p. 79).


Particolare del mosaico del Giudizio Universale, in controfacciata, con la rappresentazione dell’Inferno, opera di maestri bizantini. XI sec. In alto, intorno a Lucifero con l’Anticristo in braccio, si notano i superbi; nei riquadri sottostanti, i lussuriosi, i golosi, gli iracondi; sotto ancora, gli invidiosi, gli avari e gli accidiosi.

Da leggere Lamberto Gentili, Luciana Giacchè, Bernardino Ragni, Bruno Toscano, Spoleto, collana L’Umbria. Manuali per il territorio, Edindustria, Roma 1978; pp. 76-82 Silvestro Nessi, Sandro Ceccaroni, Da Spoleto a Trevi, lungo la Flaminia, collana Itinerari spoletini, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1979; pp. 73-79 Giordana Benazzi (a cura di), I dipinti murali e l’edicola marmorea del Tempietto sul Clitunno, Ediart, Todi 1985 Massimiliano Bassetti, Letizia Ermini Pani, Enrico Menestò (a cura di), La Basilica di San Salvatore di Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2012

legami con la migliore produzione artistica della Roma del tempo, direttamente connessa all’ellenismo piú raffinato del mondo bizantino. Visitatori di varie epoche hanno lasciato un segno di sé nei graffiti eseguiti sull’intonaco dipinto. Tra le testimonianze piú antiche, databili all’VIII-IX secolo, si rilevano un prete di nome Teodorico e una monaca (ancilla Dei ossia «serva del Signore») dal nome longobardo, Cometruda, forse accompagnata da una consorella che si firma Trudora.

NELLE PUNTATE PRECEDENTI ● Piemonte (n. 263, dicembre 2018); Valle d’Aosta (n. 264, gennaio 2019); Lombardia (n. 265, febbraio 2019); Veneto (n. 266, marzo 2019); Emilia-Romagna (n. 267, aprile 2019); Toscana (n. 268, maggio 2019) NEL PROSSIMO NUMERO Marche: Portonovo, S. Maria; Genga di Frasassi, S. Vittore delle Chiuse; Fiastra, S. Maria di Chiaravalle.

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a cura di Andreas M. Steiner; con un contributo di Giulio Busi

MAIMONIDE A FERRARA

Sefer Torah (Rotolo della Torah), dalla Sinagoga di Biella. Produzione della Francia settentrionale, 1250 circa (bastoni del XVII sec.). Vercelli, Comunità ebraica.

Una grande mostra allestita al Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah indaga il contributo degli Ebrei alla vita culturale e civile dell’Italia tra Basso Medioevo e Rinascimento. Ne emerge il quadro di una stagione intellettuale unica e straordinaria, segnata da incontri e influssi reciproci, ma anche da polemiche e discriminazioni


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È

esposto in una teca di vetro, aperto su una pagina miniata dai colori blu, rosso e oro, ed è uno dei piú antichi oggetti presentati nella mostra «Il Rinascimento parla ebraico», aperta al MEIS (Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah) di Ferrara fino al 15 settembre prossimo. Il manoscritto, di rara bellezza, riporta la piú importante e complessa riflessione filosofico-religiosa del grande Mosè Maimonide (noto anche come il Rambam, acronimo per Rabbi Mosheh Ben Maimon, il «rabbino Mosè figlio di Maimon»), filosofo, medico e studioso, vissuto nella Spagna al tempo della dominazione araba (nacque a Cordoba nel 1135 e morí in Egitto, al Cairo, nel 1204) e universalmente considerato uno dei piú importanti pensatori dell’ebraismo medievale: Moreh nevukim, la «Guida dei perplessi», è il titolo di questo opus magnum di Maimonide, da lui stesso scritto in giudeo-arabo e che vide due traduzioni in ebraico a opera dei suoi contemporanei, il rabbino Samuel ibn Tibbon (11501230) e il poeta ispano-giudaico (segue a p. 90)

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Pagine del Codice Maimonide. Si tratta di un prezioso manoscritto membranaceo, miniato, in scrittura semicorsiva ashkenazita che contiene il Moreh nevukim (Guida dei perplessi) di Mosè Maimonide. Prodotto in area ashkenazita, dal copista Ya’aqov ben Shemu’el. 1349. Roma, MiBAC, Direzione Generale Archivi.


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Testi sacri e profani In alto Licenza di praticare la medicina, concessa all’ebrea Virdimura, Catania, 7 novembre 1376. Registro cartaceo. Palermo, Archivio di Stato. A destra, sulle due pagine manoscritto membranaceo, miniato, noto come Salterio ebraico di Parma e contenente i testi della Bibbia ebraica e dei Salmi, nonché il commento dell’esegeta Avraham ibn Ezra. Fine del XIII sec. Parma, Biblioteca Palatina. In basso Contratto per l’istituzione di una scuola di ballo, musica e canto, tra l’ebreo Joseph di Moysè da Pesaro e il cristiano Francesco di Domenico, Firenze, 1467. Firenze, Archivio di Stato.

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Judah Harizi (1170-1235 circa). Nella Guida, il Rambam interroga Aristotele e i neoplatonici, la Bibbia, la teologia rabbinica e la filosofia araba per dimostrare la compatibilità tra il pensiero razionale e gl’insegnamenti della religione… Il «Codice Maimonide» esposto a Ferrara possiede, però, anche una storia «moderna» che lo rende, oggi, ancora piú prezioso: fu infatti realizzato nel 1349 (l’opera reca la firma del copista, tale Ya’aqov ben Shemu’el, autore di ambito tedesco – come risulta dal tipo di scrittura cosiddetta semicorsiva ashkenazita – che vi ha apposto anche la data secondo il computo ebraico, ovvero l’anno 5109 dalla Creazione) nell’«anno in cui la luce si è trasformata in tenebre», vi leggiamo, laddove le tenebre si riferiscono alla peste che, in quegli anni, sparge il terrore in Europa. Un flagello di cui la

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responsabilità verrà attribuita agli Ebrei, accusati di aver intenzionalmente contribuito alla diffusione del mortale contagio.

Fra i libri del banchiere

Da un documento di possesso che accompagna il Codice Maimonide si apprende che esso trova la via dell’Italia (vi arriverà dalla Germania e, forse, già verso la fine del Trecento). Qui viene venduto da Baruk, figlio di Yosef Kohen, a Mosheh ben Natan’el Norsa. Siamo nel gennaio del 1516. Il manoscritto entra cosí a far parte della biblioteca dei Norsa, un’illustre famiglia di banchieri mantovani, e vi rimarrà per cinque secoli. Fino all’anno scorso, quando il volume viene acquistato dalla Direzione Generale per gli Archivi, che provvede al suo restauro. Il magnifico Codice è, però, solo uno dei tanti oggetti «parlanti» del-

In alto un particolare dell’allestimento della mostra in corso al MEIS, che, documentando la presenza degli Ebrei in Italia e il dialogo con la cultura cristiana di maggioranza, fa luce su un capitolo della storia del nostro Paese decisivo per la formazione dell’identità nazionale.

la mostra ferrarese. Di pertinenza strettamente «medievale» (e teniamo presente il valore convenzionale che accompagna questo termine) vi sono diversi altri, rarissimi, tesori: dalla Sinagoga di Biella proviene, cosí, il piú antico Sefer Torah, il Rotolo della Torah, ancora in uso. Risale al 1250 circa ed è stato confezionato nella Francia settentrionale. Il reperto è stato rinvenuto di recente, quasi per caso, durante l’inventario dei manoscritti della comunità ebraica di Vercelli. O, ancora, il documento conservato alla Biblioteca Apostolica Vaticana e che riporta giugno

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Capitello con Cena di Erode e Decollazione del Battista, opera del cosiddetto Maestro del capitello del Battista. 1200 circa. Ferrara, Museo della Cattedrale. Il manufatto proverrebbe dal protiro della porta dei Mesi della Cattedrale ferrarese, abbattuto nel Settecento.

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il giuramento di fedeltà, prestato dagli abitanti di Ferrara – cristiani ed ebrei –, a papa Clemente V il 26 marzo del 1310: i primi giurano sul Vangelo, i secondi sulla «Legge che Dio diede a Mosè sul Monte Sinai».

Una singolare coincidenza

Curata da Giulio Busi e Silvana Greco, la mostra abbraccia cosí un arco cronologico che dal Basso Medioevo giunge alla stagione del Rinascimento, passando per la

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data simbolo del 1492 che – oltre a coincidere con la scoperta dell’America da parte di Colombo – vede i regnanti di Spagna pronunciare l’editto che, per usare le parole di Simonetta Della Seta, direttore del MEIS, comportò, per la cultura ebraica, «un trauma quasi pari alla distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte di Tito nel 70 dopo l’era volgare», ovvero l’espulsione degli ebrei dalla Spagna e dai territori del regno, tra cui l’Italia meridionale. Spiega ancora Simonetgiugno

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Sulle due pagine un altro particolare dell’allestimento della mostra, il cui progetto si deve allo studio GTRF-Giovanni Tortelli Roberto Frassoni Architetti Associati.

Per custodire i beni piú preziosi A sinistra uno dei curatori della mostra, Giulio Busi, illustra le caratteristiche di due importanti prestiti concessi dal Musée d’art et d’histoire du Judaïsme di Parigi: un Aron ha-qodesh (armadio sacro adibito alla conservazione dei rotoli della Torah) in legno di noce e legni colorati, intagliati e intarsiati prodotto a Modena nel 1472 e un Bimah (pulpito) in legno di noce, con intarsi di legni di diverse tonalità, prodotto nell’Italia settentrionale e databile fra il 1440 e il 1475. Enrambi i manufatti appartenevano alla collezione di Isaac Strauss (1806-1888). A destra cassaforte di produzione italiana composta da una robusta struttura in legno, laminata in ferro battuto, con fitta borchiatura. XVI sec.? Ferrara, Comunità Ebraica.

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Ancora un particolare dell’allestimento della mostra in corso a Ferrara.

ta Della Seta che «dopo la brutale cacciata da tutte le città meridionali della Penisola, Napoli inclusa, dove in certi casi costituivano ormai il 10% della popolazione rafforzandone il tessuto culturale ed economico, gli ebrei si spostarono o verso i domini del Sultano o a nord della Penisola, affluendo nella comunità romana, ma anche in quelle di Firenze, Mantova, Ferrara, Venezia, Genova, Pisa… In queste stesse città arrivarono gli ebrei in fuga da Spagna e Portogallo. Cosí, mentre il Sud si svuotava di quella cultura ebraica presente ormai da oltre quindici secoli, il Nord incontrava una cultura ebraica nuova, quella proveniente da Sefarad (Spagna, in ebraico). È a questo punto che nelle città italiane vivono compo-

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nenti ebraiche di origine diversa: provenienti dalla Terra di Israele, o da Roma (riti designati ormai come “italiani”), o dalla Sicilia, dalla Catalogna, dalla Castiglia, dal Portogallo (riti sefarditi) o dall’Europa centrale (riti aschenaziti, dalla parola Askenaz, ebraico per Germania). Questo accadde in particolare a Venezia e a Ferrara ed ebbe i suoi frutti positivi sia sulla cultura ebraica che su quella circostante, prima di ricadere nuovamente in una dura ondata di antigiudaismo».

Un’osmosi di culture

La presenza degli Ebrei compenetra, dunque, la grande stagione del Rinascimento e, con ciò, la stessa «identità» italiana. Al contempo, sarà l’ebraismo a rimanerne, a sua

Categorie divine Rotolo membranaceo con albero sefirotico e commenti. XV sec. Brescia, Biblioteca Queriniana. Si tratta di una delle tradizionali visualizzazioni diagrammatiche delle sefirot (plurale di sefirah, ebraico per «cifra»), le categorie divine al centro della qabbalah. Lo schema di questo esemplare è alquanto inusuale e si presenta imperniato sulla sesta sefirah, detta tif’eret, o bellezza.

volta, profondamente informato. La mostra di Ferrara approfondisce, per la prima volta, con grandissima competenza e una scelta di oggetti estremamente significativi calati in un allestimento a sua volta «parlante», questo capitolo cosí poco noto giugno

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

eppure eminentemente costitutivo della nostra storia nazionale. Le sezioni illustrano i diversi ambiti in cui si è espresso l’apporto dell’ebraismo alla vita economica, politica e artistica dell’Italia rinascimentale: dalla medicina all’attività di prestito, dalla poesia alla scrittura, alle forme della presenza ebraica nelle città italiane, alle case, alle sinagoghe con i loro arredi sacri, alle pratiche rituali, al ruolo delle donne ebree… Una sezione particolare –

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e che meriterebbe una trattazione a parte – si rivolge a uno dei piú affascinanti aspetti della tradizione mistica ebraica, la Qabbalah, la cui prima documentazione scritta risale al Medioevo (tra il XII e il XIII secolo), sebbene il richiamo a una precedente trasmissione orale della speculazione cabbalistica suggerisca una tradizione ben piú antica. È un rapporto di «curiosità reciproca», quello che segnala la presenza degli ebrei nell’Italia ri-

nascimentale, un rapporto segnato da frequentazione, quotidianità, perfino amicizia, e, poi, naturalmente, da intolleranza e violenza. Il Rinascimento, scrive Giulio Busi nell’introduzione al catalogo della mostra – «va compreso nelle sue ombre non meno che nelle molti luci». Come non soffermarsi, allora, davanti al rilievo ligneo policromo, un tempo parte dell’altare maggiore della chiesa dei Ss. Pietro e Paolo a Trento, in cui viene raffigurato il (segue a p. 101) giugno

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L’accusa che attribuisce agli ebrei l’uso di commettere omicidi rituali è stata una delle armi piú micidiali dell’antigiudaismo medievale Simonino, il «martire» Supposto martirio di Simon Unferdorben (Simonino da Trento), gruppo in legno scolpito e intagliato policromo forse realizzato dalla bottega di Daniel Mauch. 1500-1510 circa. Trento, Museo Diocesano Tridentino. L’opera evoca l’episodio avvenuto nel 1475, quando gli ebrei di Trento furono appunto incolpati di avere ucciso, durante la Pasqua, Simon Unferdorben, figlioletto di un conciapelli cristiano, e di averne usato il cadavere per un macabro rito in sinagoga.


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Un testimone prezioso della cultura artistica Facsimili di alcune pagine della cosiddetta «Bibbia di Mosheh da Castellazzo» con illustrazioni del Pentateuco, corredate da didascalie in ebraico e in volgare. La Bibbia in questione è un codice illustrato, eseguito probabilmente a Venezia negli anni Venti del Cinquecento. Ritrovato alla fine della seconda guerra mondiale negli scantinati del comando della Gestapo di Varsavia e conservato poi presso l’Istituto di storia ebraica della stessa città (ms. 1164), il manoscritto fu inviato nel 1980 a uno studio fotografico per essere riprodotto. Non tornò piú alla biblioteca, e a oggi risulta smarrito o rubato. Curato da Kurt e Ursula Schubert nel 1983-1986 e pubblicato in 950 esemplari, il facsimile è pertanto l’unico testimone dell’opera. Mosheh da Castellazzo (1466-1526) fu pittore e disegnatore piuttosto noto, come egli stesso afferma nella richiesta di privilegio di stampa, rivolta al Senato veneziano nel 1521. Mosheh dichiara di aver disegnato un ciclo d’illustrazioni bibliche, di cui intende affidare alle proprie figlie («mie fiole») le incisioni su legno. La Bibbia di Mosheh da Castellazzo è un documento importante della cultura artistica ebraica nell’Italia del primo Cinquecento, con illustrazioni che ampliano il dettato biblico, attraverso aggiunte tratte dai midrashim, i commenti rabbinici, di carattere prevalentemente omiletico.

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In alto Sacra Famiglia e famiglia del Battista, tempera su tela di Andrea Mantegna. 1504-1506 circa. Mantova, Basilica di S. Andrea, cappella di S. Giovanni Battista. Il personaggio sulla sinistra è Giuseppe, che ha il capo cinto da una fascia sulla quale, in lettere ebraiche, si legge av, «padre» (vedi particolare qui sotto).

A sinistra Nascita di Maria, olio su tela di Vittore Carpaccio e bottega. 1502-1507 circa. Bergamo, Accademia Carrara.

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«martirio» di Simonino da Trento, episodio tra i piú infami e rivelatori dell’antigiudaismo tardo-medievale in Italia? Di contro, come non rimanere sbalorditi dall’«incontro» che la grande arte rinascimentale, da Giotto a Michelangelo, compie con la piú «artistica» espressione formale dell’ebraismo, la sua scrittura? Basti citare qui, tra le diverse opere esposte nella sezione, la Nascita di Maria, tela attribuita a

Carpaccio e alla sua bottega, datato tra il 1502 e il 1507. Al fianco del letto della madre della Vergine campeggia una tabella con una scritta in ebraico che riporta una passo della liturgia cristiana, composta da due versi tratti dall’Antico Testamento: Qadosh qadosh qadosh ba-marom baruch ha-ba beshem Yhwh («Santo santo santo in eccelso. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore»).

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IN VIAGGIO CON

BINYAMIN Siamo partiti da un libro e chiudiamo questa breve presentazione (che vuole essere, soprattutto, un invito a visitare la bellissima mostra di Ferrara) con un altro libro, piú o meno coevo al primo. L’autore è Binyamin (o Beniamino) da Tudela, il piú importante viaggiatore ebreo del Medioevo (nacque intorno al 1130 nella città di Tudela, nel regno di Navarra, e morí nel 1173, in Castiglia). Partendo dalla sua terra natale, la Penisola Iberica, intorno al 1165, Binyamin viaggia alla volta dell’Italia per raggiungere la Grecia, il Levante e la Terra Santa, la Mesopotamia, la Persia, la Penisola Arabica, l’Egitto e l’Africa settentrionale, e quindi tornare, nel 1173, in Spagna. Il resoconto di questo suo viaggio, conosciuto come Massa’ot Binyamin mi-Tudela (I viaggi di Beniamino di Tudela) o, anche, semplicemente come Sefer ha-massa’ot (Il libro dei viaggi) rappresenta, ancora oggi, non solo una preziosissima descrizione delle comunità giudaiche sparse nei Paesi mediterranei e vicinoorientali del XII secolo, ma, naturalmente, anche una impagabile fonte di informazioni geografiche e storiche sui luoghi da lui visitati. Una prima edizione del Sefer ha-massa’ot vede la stampa a Costantinopoli nel 1543, una seconda, fondata su un differente manoscritto, viene stampata proprio a Ferrara, nel 1555. Binyamin da Tudela è stato, insieme al suo libro, protagonista di una precedente mostra allestita al MEIS, dedicata ai primi mille anni della presenza ebraica in Italia («Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni»). Ancora oggi, nella mostra permanente del Museo, la figura dell’ebreo di Navarra viene rievocata in un video da Giulio Busi, uno dei massimi studiosi di lingua e letteratura ebraica e specialista di misticismo ebraico. E allo stesso Busi si deve la traduzione, appena ripubblicata, su iniziativa del MEIS, dalla Casa Editrice Giuntina, dell’affascinante «libro di viaggi». Nelle pagine seguenti pubblichiamo, per gentile concessione del Museo e in esclusiva per i nostri lettori, l’introduzione al volume, in cui lo studioso illustra i segreti di questo straordinario racconto… (A. M. S.)

Fra gli elementi caratterizzanti dell’allestimento del MEIS figurano i «quadri parlanti», una serie di schermi attraverso i quali gli studiosi che vi hanno contribuito «raccontano» le diverse sezioni del percorso. Qui accanto, Giulio Busi.

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UN ATLANTE EBRAICO di Giulio Busi Se si ripercorre la fortuna dell’Itinerario di Binyamin da Tudela, ci si trova di fronte a una sorprendente discordanza di giudizi. Questo volumetto dall’apparenza cosí innocua, poche decine di pagine d’un ebraico terso ed essenziale, ha infatti suscitato, nel corso dei secoli, odi accesi e amori non meno appassionati. Parecchi i detrattori, che ne hanno puntigliosamente additato le inesattezze e deriso le esagerazioni, arrivando a sostenere che tutto il racconto non sarebbe altro che l’invenzione di un letterato presuntuoso e maldestro. Molti gli apologeti, che in centinaia di pagine di pazienti glosse e precisazioni hanno dimostrato la buona fede e l’attendibilità dell’autore, addossando perlopiú la colpa degli errori all’ignoranza e alla distrazione dei copisti medievali. A tanta inquietudine del mondo erudito fa tuttavia riscontro la felicissima sorte che ha arriso all’Itinerario presso i lettori comuni.

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Un gran numero di manoscritti e, soprattutto, decine e decine di edizioni a stampa e di traduzioni testimoniano un successo affatto insolito per un testo di questo genere. Un libro che resiste al trascorrere del tempo e che continua a catturare l’attenzione è innanzitutto, con buona pace dei dotti e dei critici, un libro bello. Un bel libro di viaggi, una gemma preziosa, tanto rara da suscitare in chi la trovi un senso di sorpresa e di stupore.

Un nuovo miraggio

La realtà non è mai avara con chi viaggia, ma si prodiga in emozioni e regala innumerevoli esperienze in un brevissimo volgere di tempo. Molto raramente viene ripagata con altrettanta generosità. Voler ridire cosa si è visto e provato è da pochi, saperlo ridire è un dono davvero inconsueto. Bisogna che la nostalgia del viaggio, che ostinata scuote ogni ritorno, si trasformi in un nuovo miraggio. Bisogna che il narratore cerchi di

nuovo una meta, che sappia ricreare nel lettore l’inquietudine che lo ha attirato lontano. Al nostro viaggiatore ebreo l’inquietudine non faceva certo difetto. Le pagine dell’Itinerario non lasciano trasparire nulla sull’uomo, sulla sua vita e sulle sue emozioni; una cosa risulta però ben chiara in ogni frase del racconto, in ogni tappa del percorso: Binyamin è il suo viaggio. La lunghissima peregrinazione, che lo porta – nella sesta decade del XII secolo – da Tudela sino al limitare dell’Oriente estremo, ai confini del mare periglioso «su cui domina Orione», è vissuta nel libro come una necessità, quasi un dovere ineludibile. Privo di ogni notazione personale, l’Itinerario, che quasi mai indulge alla lusinga del racconto in prima persona, ci trasmette la profonda convinzione dell’autore: non si poteva non compiere quel viaggio. Binyamin ha un’idea, ripercorrere la trama complicata della diaspora della sua gente. È

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Marsiglia Lunel Tudela

Béziers Narbona

Arles

Montpellier Gerona Saragozza Barcellona Tarragona

Toledo

Genova Lucca Pisa

Costantinopoli Benevento Roma Trani Capua Brindisi Melfi Napoli Taranto Otranto

Cordova Granada

Palermo

Messina

Drama Gallipoli Salonicco Cristopoli Mitilene Patrasso

Tebe

Samo Rodi

un’idea allo stesso tempo astratta e concretissima. Israele è disperso tra i popoli, i frammenti dell’antica unità sono stati scagliati lontano, negli angoli piú riposti della terra, nei siti piú impensabili. Per ricostruire l’immagine complessiva del popolo ebraico non v’é allora che un’unica via. Occorre ricostruire l’immagine del mondo. È necessario percorrerlo tutto, con pazienza e ostinazione. Anche i villaggi piú sperduti possono celare una minuscola comunità ebraica, anche oltre le montagne piú impervie può essersi spinto l’esilio di Giuda. Anzi, gli episodi piú distesi dell’Itinerario, le descrizioni di fiere congregazioni d’Israele, «libere dal giogo dei gentili e invincibili in guerra», diventano piú frequenti tanta maggiore è la di-

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stanza dall’Europa, teatro consueto di oppressioni e di angherie. Il miraggio dell’autonomia ebraica affascina Binyamin. È questo miraggio a spingerlo nel cuore dell’Asia musulmana, a determinare le tappe del percorso e il ritmo della narrazione.

Una geografia inedita

Il mondo islamico orientale riscuote la sua ammirazione, per il grado di civiltà e, ancora piú, per la considerazione che spesso vi godono gli ebrei. La mappa della diaspora disegnata da Binyamin s’infittisce di nomi e di particolari laddove migliore è la condizione ebraica, mentre sembra quasi voler sorvolare, con un senso di rammarico e di mestizia, sui luoghi ove amaro è l’esilio. Ne risulta una geografia

per noi inedita, proiettata verso sud e illuminata dalla luce vivida del Vicino e del Medio Oriente. È una rappresentazione del mondo assai simile – e non è un caso – a quella dei geografi e dei viaggiatori arabi del tempo, che pare come arrestarsi davanti al gelo del settentrione, davanti a un continente europeo ancora semibarbaro. Il lungo viaggio ripaga il protagonista delle sue fatiche, e gli consente di tracciare un quadro cangiante di tutti i colori della realtà. E della memoria. Giacché Binyamin non annota solo quel che vede ma anche, soprattutto, quello che sa. Dalla Scrittura, in primo luogo, con le sue storie sull’antico splendore del popolo ebraico. La Bibbia cita decine di monumenti, illustra con giugno

Chio

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Baghdad

Tiro

Damietta

Eufrate

Basra

Gerusalemme Farama

Cairo

Bilbeis Tayma

Fayyum Alessandria

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Damasco

Khaybar

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Dossier

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Sulle due pagine Profilo maschile, con turbante (a sinistra) e Profilo maschile, con copricapo di foggia ebraica (?), oli su tavola di artista lombardo. 1500-1512 circa. Collezione privata.

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dovizia i particolari delle vittorie e delle sconfitte di Israele. Ed ecco, nell’Itinerario, le vestigia di quei monumenti, le testimonianze di quelle vittorie e di quelle sconfitte. Ecco, a Roma, le colonne del tempio di Gerusalemme, trasportate nella basilica di S. Giovanni in Laterano. Ecco, a Haifa, le rovine dell’altare restaurato da Elia ai tempi di Acab. Nei pressi di Gerusalemme, Binyamin si dilunga sul sepolcro di Davide, a Geziret ibn ‘Omar, ai piedi dell’Ararat, ritrova l’arca di Noè, a Babilonia s’imbatte nella fornace di Daniele.

Laddove la Scrittura non è sufficiente, il viaggiatore legge il paesaggio sulla scorta della piú tarda storiografia giudaica. Gerusalemme «è una piccola citta, cinta da un triplice ordine di mura». Non è vero, o perlomeno non era piú vero al tempo del nostro autore, ma cosí recitava il Sefer Yosippon, un centone di leggende ebraiche allora molto in voga. A Binyamin questo bastava: il triplice ordine di mura non c’era piú, ma forse, a ben guardare, se ne sarebbero scorte le tracce. E comunque era esistito, e aveva cinto la Gerusalemme antica, veneranda

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Dossier di memorie. Sono questi anacronismi, e le contraddizioni che cosí di frequente s’incontrano nell’Itinerario a disorientare e scoraggiare gli studiosi. Il problema si semplifica sostenendo la totale falsità del racconto, affermando cioè che Binyamin non vide mai né Gerusalemme né molti altri luoghi da lui ricordati. Troppi sono i particolari esatti, troppa è per esempio la sicurezza con cui egli fissa la sua attenzione sui due monumenti piú «nuovi» della Gerusalemme dei crociati: la sede degli Ospitalieri e quella dei Templari. Non è un caso che anche i pellegrini cristiani del suo tempo restino colpiti dagli stessi edifici: Binyamin vede quello che c’è da vedere, quello che è «reale» e attuale, ma anche molto di piú. Le rovine che egli descrive esistevano davvero, e in gran parte esistono ancor’oggi. Semplicemente, erano quasi sempre meno antiche di quanto egli pretendesse.

Il palazzo di Acab

Binyamin cerca l’antico Israele, vuole a tutti i costi mostrare ai suoi correligionari le prove tangibili dello splendore dei tempi passati. Per realizzare questa sua idea, egli ha bisogno di tutta la sua erudizione e di tutta la sua fantasia. Deve sfruttare ogni spunto che la realtà gli offre, deve saper interpretare ogni pietra, ogni scorcio dell’immenso scenario che sta percorrendo. L’antico sito di Samaria pullula di rovine. Come non riconoscervi le tracce del palazzo di Acab, figlio di Omri? Come non risentire, davanti a quei resti, il lento avvio di un bellissimo episodio biblico: «Nabot (...) aveva una vigna accanto al palazzo di Acab, re di Samaria. Parlò dunque Acab a Nabot dicendo: “Cedimi la tua vigna per farmi un orto da erbaggi, giacche essa è attigua alla mia casa, e io in cambio ti darò una vigna migliore di quella o,

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se piú piace ai tuoi occhi, ti darò di questa il prezzo in argento”. Disse Nabot ad Acab: “Lontano da me, per il Signore, che io ti dia l’eredita dei miei padri”». Poco importa che quelle rovine risalissero, in realtà, all’età romana, alla Sebasta edificata da Erode. Binyamin non poteva, o non voleva, saperlo, e comunque, almeno in questo caso, la sua archeologia «sentimentale» non fallisce di molto: proprio in quei luoghi, infatti, gli scavi del nostro secolo hanno forse riportato alla luce le vestigia dell’antica fortezza dei re d’Israele. Binyamin è, innanzitutto, un uomo del Medioevo. Non ha paura degli anacronismi, ma usa il passato, che ha a portata di mano, per abbellire e giustificare il presente. C’è un elemento che irretisce il lettore dell’Itinerario, catturandone l’attenzione e costringendolo a seguire il protagonista, passo dopo passo, fino alla meta: la meraviglia. Tutte queste peregrinazioni, le fatiche e i continui pericoli hanno infatti, tanto per chi legge quanto per chi narra, un’unica, vera giustificazione: giungere al bello, allo strano, all’incredibilmente commovente. Non è un caso che alcuni dei piú bei libri di viaggio siano stati scritti nel Medioevo, un’epoca che del meraviglioso ebbe una frequentazione quanto mai assidua. Binyamin resta affascinato dal mondo che gli si dischiude davanti. Lo splendore delle dimore reali lo abbaglia, i racconti di regni lontani l’impressionano, le memorie del passato lo esaltano. Le pagine dell’Itinerario trasmettono intatte le emozioni di questo viaggiatore appassionato, che volle trasformare quel lunghissimo percorso nel destino della propria vita. Le tracce di Binyamin si perdono lungo la via del ritorno. I toni del racconto, cosí vividi fino alla descrizione della Sicilia, si spengono a poco a poco: solo pochi cenni, questa volta,

sulle tappe italiane e una confusa, affrettata, descrizione dell’Europa, sulla quale grava peraltro il sospetto d’essere un’aggiunta piú tarda. Terminata la grande impresa, Binyamin scompare per sempre dalla scena, con l’appagata indifferenza di un uomo che ha sognato il proprio sogno.

Binyamin e la diaspora italiana

A piú di trent’anni dalla prima edizione, questa versione italiana dell’Itinerario appare ora per iniziativa del Museo Nazionale dell’Egiugno

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braismo e della Shoah. È un’occasione per far rivivere uno dei temi piú appassionanti dell’opera di Binyamin da Tudela: l’Italia e la sua diaspora. Quando Binyamin arriva in Italia, e comincia a descrivere il suo percorso, nel XII secolo, gli ebrei sono sparsi da Genova fino all’Italia del Sud, alla Puglia, poi alla Calabria e alla Sicilia. Quali sono le loro occupazioni? Sono coinvolti e attivi nelle attività commerciali, nei traffici che animano la Penisola e la legano al mondo bizantino e alla grande koinè mu-

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sulmana, all’Africa Settentrionale e all’Oriente. Sono impegnati da un punto di vista economico e sono coinvolti anche nel campo della cultura. Gli ebrei sono partecipi della transizione dall’antica eredità latina a una nuova cultura, in cui si comincia a fare strada il volgare. Nell’economia e nella società, il retaggio feudale viene affiancato, e spesso sostituito, dalle realtà mercantili cittadine. Non a caso, Binyamin parla delle grandi città di Pisa e di Genova, regine dei traffici d’oltremare. Gli ebrei italiani sono parte di

questa grande struttura mercantile, che di nuovo si mette in movimento. Costituiscono un elemento di fermento, relativamente ben integrato, perlomeno al centro e sud Italia. Per esempio, Binyamin parla del ruolo che gli ebrei hanno addirittura nell’amministrazione pontificia. Descrive i buoni rapporti che intrattengono – a Napoli, a Salerno, in Puglia – con la realtà maggioritaria. Benché partecipi della vita economica e, in qualche modo, della vita culturale del resto della popolazione, gli ebrei italiani mantengono tuttavia una

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Un percorso «a quadri» Il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS) è ospitato dall’ex carcere di Ferrara, ristrutturato in modo impeccabile per essere adibito alla nuova destinazione d’uso: da luogo di segregazione e di esclusione, quale è stato per tutta la durata del Novecento e in particolare negli anni bui del fascismo, ha assunto, in una sorta di contrappasso, il ruolo quanto mai significativo di centro di

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cultura, di ricerca, di didattica, di confronto e dialogo, in una parola, di inclusione. Il MEIS verrà completato nel 2021, con la costruzione di cinque edifici moderni, connotati da volumi che richiamano i cinque libri della Torah, destinati a ospitare, accanto agli spazi espositivi, luoghi di accoglienza per il pubblico e per i servizi, dando cosí vita a un grande complesso museale e culturale.

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Il MEIS-Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, allestito negli edifici dell’ex carcere di Ferrara: in alto, la facciata dell’ingresso; in basso, il corpo centrale preceduto dal cortile in cui è allestito il «Giardino delle Domande» (incentrato sugli aspetti della normativa ebraica sull’alimentazione).

loro forte identità, una netta autonomia. Binyamin da Tudela ci ricorda la scuola talmudica romana, ci parla del Sefer ‘aruk, il lessico rabbinico, scritto a Roma da Natan ben Yehi’el. Parla, tra le altre cose, delle comunità pugliesi che sappiamo essere in questo periodo assai vivaci e produttive, nel campo della poesia, nel campo della mistica, nel campo della tradizione intellettuale.

Un ponte con l’Oriente

La diaspora italiana ha caratteristiche proprie e serve da ponte tra il mondo orientale e il resto degli insediamenti ebraici d’Europa. Sappiamo, per esempio, che la tradizione che viene da Eretz Israel passa attraverso la Penisola italiana e poi prosegue verso il nord. Binyamin descrive il suo viaggio italiano, tappa dopo tappa, con materiale in gran parte attendibile, prodigo com’è di particolari preziosi e altrimenti ignoti. L’intervento di riscrittura è, non di meno, complesso e sistematico, e inserisce nel testo frequenti richiami di natura tipicamente libresca. In questa luce vanno lette le digressioni sulle memorie ebraiche a Roma, che danno una coloritura prettamente giudaica ad alcuni monumenti dell’età classica e cristiana. «Nella chiesa di San Giovanni in Laterano – leggiamo – vi sono due colonne bronzee provenienti dal Tempio, opera del re Salomone, sia su di lui la pace, ciascuna delle quali reca la scritta: Salomone figlio di Davide; gli ebrei di Roma mi hanno raccontato che ogni anno, il 9 di Av, cola su esse un liquido simile all’acqua. V’e anche una grotta in

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cui Tito, figlio di Vespasiano, nascose gli oggetti che aveva sottratto al Tempio di Gerusalemme. In un’altra caverna, in una collina sulla riva del Tevere, sono sepolti dieci pii messi a morte dall’autorità. Davanti a S. Giovanni in Laterano sono raffigurati Sansone e la sua mano con una palla di pietra, Assalonne figlio del re Davide e Costantino il grande». Questo passo costituisce una sorta di corrispondente ebraico dei mirabilia Romae, tanto diffusi nel Medioevo cristiano. Benché l’autore dichiari esplicitamente di aver raccolto gli aneddoti dalla bocca degli ebrei romani, il susseguirsi delle immagini e il taglio narrativo rappresentano un piccolo gioiello di concisione e di capacità evocativa, che lega ciò che si vede (le colonne e le statue) e ciò di cui si favoleggia (la caverna) alle date del calendario liturgico ebraico (la celebrazione del 9 di Av) e ai temi della letteratura talmudica (i dieci pii messi a morte dai Romani). Se analizziamo i particolari di questa descrizione delle meraviglie di Roma, ci troviamo di fronte a una sapiente mescolanza di dati oggettivi, e variamente attestati, e di altre nozioni puramente ipotetiche o addirittura inverosimili, in un insieme calibrato da un tono posato e uniforme. Mentre alcuni elementi sono mutuati dalla tradizione cristiana – come nel caso delle colonne salomoniche (piú frequentemente localizzate in S. Pietro), che sono forse i piú famosi simboli architettonici «ebraici» di Roma, o come la palla, attribuita a Sansone anche dalla tradizione popolare romana, che la definiva «palla Sansonis»; un’aggiunta strettamente ebraica è, invece, l’essudazione delle colonne il 9 di Av, ricorrenza della distruzione del Tempio, per non dire della favolosa caverna sotterranea.

(la mano e la testa gigantesche si trovavano ancora alla fine del Quattrocento nel luogo indicato da Binyamin) e la sovrapposizione mitica operata dal nostro. Non sempre il compito è agevole, né di soluzione altrettanto rapida come nel caso dell’improbabile caverna. L’archeologia sentimentale di Binyamin richiede – per essere pienamente compresa – non soltanto il rigore dell’erudizione scientifica ma anche un’attenta sensibilità culturale, che sappia cogliere il messaggio di una descrizione del mondo interamente posta sotto l’insegna dell’ebraicità. Quella descritta da Binyamin è, insomma, un’ecumene ebraica. All’interno di essa, risalta un «caso italiano», che ha il proprio fulcro in Roma e, da qui, s’irradia verso il meridione. Da Binyamin da Tudela in poi, il voyage sentimentale ebraico comincia dall’Italia, e all’Italia ritorna.

Dove e quando «Il Rinascimento parla ebraico» Ferrara, MEIS, Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah fino al 15 settembre Orario martedí-domenica, 10,00-18,00: lunedí chiuso Info e prenotazioni call center: tel. 848 082380, da cellulare e dall’estero: tel. +39 06 39967138 (attivi tutti i giorni 9,00-18,00); e-mail: meis@coopculture.it, prenotazioni@coopculture.it; www.meisweb.it Catalogo Silvana Editoriale

Sovrapposizioni mitiche

Lo storico si trova dunque assai frequentemente a dover distinguere tra le vestigia realmente esistenti

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Riccardo Luisi Scudi di pietra I castelli e l’arte della guerra tra Medioevo e Rinascimento

Introduzione di Chiara Frugoni, Odoya, Bologna, 256 pp., ill. col. e b/n

18,00 euro ISBN 978-88-6288-411-2 www.odoya.it

Immagine emblematica del Medioevo, sia nella realtà che nel mito, il castello è una presenza d’obbligo in ogni rievocazione di quell’epoca. Lo storico, cosí come il narratore di una qualsiasi fiction di ambientazione medievale, non può fare a meno del castello. La pregnanza di significati

e di suggestioni dell’architettura fortificata, d’altronde, è arrivata a ispirare delle costruzioni di pura valenza estetica, quando ormai simili edifici non avevano piú alcun senso dal punto di vista militare. Ecco allora i proverbiali castelli realizzati in Baviera dal re Ludwig

II, fino ad approdare al castello della Cenerentola di Walt Disney, «ricostruito» nel parco del Walt Disney World, in Florida. Ed è proprio questo edificio da cartone animato, pura emanazione dell’immaginario, ad aprire il percorso articolato e coinvolgente del libro di Riccardo Luisi. Il riferimento a un Medioevo smaccatamente fiabesco mette subito a nudo l’esigenza di capire quali erano effettivamente le funzioni di questi edifici, e come essi fossero coinvolti nella pratica e nella teoria

dell’arte della guerra. Molto spesso chi si occupa di architettura fortificata riserva la propria attenzione in modo quasi esclusivo all’evidenza delle strutture, mentre lo storico che ricostruisce battaglie e assedi lavora soprattutto sulle fonti documentarie. Luisi incrocia in modo attento l’analisi degli edifici fortificati con le testimonianze relative agli eventi e alle situazioni storiche che li hanno ispirati. Cosí facendo, illustra caratteri ed elementi dell’arte castrense, ma non si limita a questo. Contestualizza le scelte adottate

nella realtà del tempo, facendo «rivivere» le fortificazioni. Un’esposizione lineare, corredata da un funzionale apparato di immagini, guida cosí il lettore alla comprensione di un mondo estremamente sfaccettato, dove anche gli aspetti piú ripugnanti del confronto armato venivano ricondotti alle cadenze di una brutale e festosa liturgia. Il percorso si conclude con la rivoluzionaria introduzione della polvere da sparo, che incrinò inesorabilmente una concezione millenaria del castello e dell’arte militare. Si assiste cosí alla fine di un’epoca e di una dimensione collettiva della guerra, dove anche le donne avevano svolto un ruolo prezioso, per esempio durante gli assedi, rifornendo gli armati lungo le mura difensive delle città e dei borghi. Furio Cappelli Miniatura raffigurante la distruzione di Fiesole da parte dei Romani, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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CALEIDO SCOPIO

Armonie incantatrici MUSICA • A ottocento anni dalla fondazione

dell’Ordine che porta il suo nome, Domenico di Guzmán riceve il raffinato omaggio dell’ensemble Discantus

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edicata a Domenico di Guzmán (1170-1221), fondatore dell’Ordine domenicano, questa antologia proposta dal gruppo Discantus ci guida nelle solitarie atmosfere di un convento femminile in occasione dell’esecuzione dei vespri dedicati allo stesso san Domenico, che fu canonizzato nel 1234. I brani della raccolta si concentrano nei primi decenni del XIV secolo, offrendo alcune rarità musicali pervenuteci in codici e fogli superstiti provenienti da conventi domenicani e da varie biblioteche sparse nel mondo (Melbourne, Monaco, Düsseldorf, Darmstadt, Roma, Parigi, Colmar, Ginevra e Zurigo). Si tratta di composizioni legate all’antica liturgia domenicana, che esprimono al meglio la profonda spiritualità legata al santo. Grandi sono il fascino e le atmosfere suggeriti dall’album, che si apre

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con il suono della campana che annuncia l’inizio dei primi vespri dedicati al santo, a cui fanno seguito l’antifona Gaude felix parens Yspania e l’inno Ymnum nove leticie. Già da questi primi due ascolti viene a crearsi una dimensione onirica, grazie alla suadente vocalità delle interpreti dell’ensemble Discantus, che producono un effetto quasi incantatorio sull’ascoltatore.

Un tocco di «internazionalità» L’antologia rappresenta anche un’occasione per ascoltare gli esempi piú antichi della polifonia che si alternano al canto monodico: si va dalle forme di un contrappunto improvvisato a due voci a generi piú complessi come l’organum, il conductus e il mottetto, elaborati tra il XII e il XIII secolo dai teorici della Scuola di Notre-Dame di Parigi. I brani si presentano generalmente a

Nova Sonet Harmonia Huitième centenaire des dominicains Ensemble Discantus, direzione Brigitte Lesne Bayard Musique (308 556.2), 1 CD www.bayardmusique.com due e tre voci e sono interpretati dal gruppo con assoluta maestria. Tra i piú belli sono da segnalare Hymnum nove leticie, Vix in Rama audista est, Dominator Domine, Ad laudes Marie cantemus, senza dimenticare il tocco di «internazionalità» costituito dalla presenza francese di alcune chansons mariane, come Nous devons de cuer loer la douce Virge Marie, testimonianza della devozione in lingua vernacolare nei confronti della Vergine. A dirigere brillantemente le soliste di Discantus è Brigitte Lesne. Sin dalla sua fondazione, nel 1990, questo ensemble ci ha abituati a esecuzioni di grande pregio, con proposte musicali dedicate alla monodia liturgica e alle prime manifestazioni del linguaggio polifonico. La chiarezza, la fluidità, la leggerezza dell’emissione rendono questo gruppo unico e sicuramente il piú adeguato nell’esecuzione di un repertorio del genere. Franco Bruni giugno

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