Medioevo n. 268, Maggio 2019

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MEDIOEVO n. 268 MAGGIO 2019

L A NO C T CO AT RE-D M TED AM ’ER R E A ALE

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Mens. Anno 23 numero 268 Maggio 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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IN EDICOLA IL 2 MAGGIO 2019



SOMMARIO

Maggio 2019 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE Tenere a stecchetto

Consigli da falconieri

5

SPECIALE Un lutto «internazionale»

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MOSTRE Sublime quartetto È l’anno di Leonardo La pergamena che ha cambiato la storia APPUNTAMENTI Tornei di montagna Devozione... bovina L’Agenda del Mese

Dossier

10 14 22 24 25 30

STORIE

56 LUOGHI ARTE DELLE ANTICHE CHIESE/6 Toscana Cattedrali in miniatura di Furio Cappelli

66

PROTAGONISTI Corradino di Svevia

Corradino, l’ultimo mistero di Federico Canaccini

PUGLIA

Viaggio in Capitanata

40

di Furio Cappelli

40 COSTUME E SOCIETÀ

66

MEDIEVALISMO/4 Odino a Roma

CALEIDOSCOPIO

di Davide Iacono

56

ICONOGRAFIA La Madonna dal braccio armato di Corrado Occhipinti Confalonieri

96

CARTOLINE Sant’Antonio e il noce

106

MUSICA Tecnologia amica

113

79


MEDIOEVO n. 268 MAGGIO 2019

LA NO C T CO AT RE-D M TED AM ’ER R E A ALE

MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE

AREZZO

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Mens. Anno 23 numero 268 Maggio 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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19/04/19 13:30

MEDIOEVO Anno XXIII, n. 268 - maggio 2019 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Davide Iacono è storico del Medioevo. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Elda Martellozzo Forin è stata professoressa di storia medievale all’Università di Padova. Corrado Occhipinti Confalonieri è cultore di materie storiche. Stefania Romani è giornalista. Tiziano Zaccaria è giornalista. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e pp. 56/57) e pp. 51-53, 58, 66/67, 68/69, 69, 71, 76 (centro) – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 5, 62 (alto), 74-75, 77, 96/97, 99; Album/Fine Art Images: p. 101; Fine Art Images/Heritage-Images: pp. 103 (alto), 105; Album/Oronoz: p. 103 (basso) – Cortesia Ufficio Stampa Palazzo Madama, Torino: pp. 6, 10-11 – Doc. red.: pp. 7, 40/41, 42, 44-49, 60 (sinistra), 62 (basso), 63, 65, 76 (alto), 79, 84 (basso), 98, 100, 102, 104 (alto e basso) – Bridgeman Images: pp. 8/9 – Cortesia Ufficio Stampa Castello Sforzesco, Milano: pp. 14-15 – Cortesia Ufficio Stampa Scuderie del Quirinale, Roma: p. 16 – Cortesia Ufficio Stampa Museo Civico di Sansepolcro: p. 17 – Cortesia Ufficio Stampa Da Vinci Experience: p. 18 – Cortesia Ufficio Stampa Museo Leonardiano, Vinci: p. 19 – Cortesia Ufficio Stampa Musei Reali, Torino: pp. 20-21 – Cortesia Ufficio Stampa Fondazione Torino Musei: pp. 22, 24 – Cortesia degli autori: pp. 26-27, 59, 60 (destra), 61, 64, 104 (alto) – DeA Picture Library: pp. 70/71, 72/73, 73; G. Dagli Orti: p. 72; A. Dagli Orti: p. 81 (basso) – Cortesia Furio Cappelli: pp. 80, 82, 84 (alto), 85, 86-95 – Cortesia IAT VAlle Agredo: Archivio fotografico IAT Valle Agredo: p. 106; Valerio Franceschin: p. 107 (alto), 108-111 – Patrizia Ferrandes: cartine e rialaborazioni grafiche alle pp. 42/43, 68, 81, 104, 107. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Roma, chiesa di S. Paolo entro le Mura. Cristo in Trono nella Gerusalemme celeste (particolare), mosaico del catino absidale realizzato su disegno di Edward Burne-Jones. 1881-1907.

Nel prossimo numero protagonisti

Alfonso X il Saggio

medievalismi

Crociate vecchie e nuove

dossier

Marco Polo


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Consigli da falconieri

«T

enere a stecchetto» significa imporre un regime di dieta severissimo, con poco cibo, oppure, in un’accezione piú ampia, uno stile di vita particolarmente restrittivo, con poche risorse o con poco denaro. Il senso si intuisce in un brano de Il Malmantile racquistato (1688), poema eroicomico di Lorenzo Lippi, in cui si legge che «il Duca, per la sua spilorceria, ognor viepiú tenevalo a stecchetto». Incerta è l’origine di questa espressione, ma con buona probabilità si deve attribuire al linguaggio dell’arte venatoria e in particolare all’uso di cacciare con il falcone e con altri uccelli rapaci. Chi addomesticava i falconi, infatti, imbeccava gli uccelli appena nati con piccoli bocconcini di cibo infilzati appunto sulla punta di altrettanti stecchetti. Questa modalità di alimentare i rapaci tenendoli a stecchetto ne garantiva ovviamente anche l’addomesticamento e quindi l’obbedienza. Celebrata nel famoso trattato De arte venandi cum avibus di Federico II, la caccia con il falcone divenne il diletto per eccellenza dell’aristocrazia medievale. La si praticava perlopiú in riva ai fiumi, presso paludi e nelle campagne, non certo nei boschi: in luoghi aperti e ben controllabili, cosí come era controllabile il rapace, adeguatamente addomesticato. A differenza delle altre pratiche venatorie, come la caccia al cinghiale, al cervo, quella col falcone era

l’unica a possedere aspetti ludici e talvolta, nelle fonti, è appunto assimilata al gioco. Negli Annales Fuldenses, all’anno 870, si legge proprio «cum falconibus ludere», cioè «giocare con i falconi», probabilmente anche nella fase dello svezzamento: lo sapeva bene lo stesso Federico II, il quale asseriva che il momento piú piacevole della caccia col falco non era certo lo scontro con la preda, quanto piuttosto l’osservazione del volo del rapace. Considerato che il falco era divenuto nel corso dei secoli l’alter ego del nobile miles, osservarne le evoluzioni coincideva con l’osservare la propria nobilitas. Nei secoli finali del Medioevo, il falco divenne uno dei doni piú graditi dai nobili e in molti si fecero ritrarre con un rapace posato sull’avambraccio, pronto a spiccare il volo. L’arte della falconeria divenne quindi il simbolo, ma anche l’esercizio, di un vero e proprio dominio, quindi appannaggio esclusivo dell’aristocrazia. La caccia col falco, infatti, poteva avvenire solo dopo il lento e difficile addestramento di un animale selvaggio, parzialmente addomesticato anche grazie alla dieta… a stecchetto! Miniatura raffigurante alcuni falconieri, da un’edizione del trattato di Federico II di Svevia De arte venandi cum avibus. 1258-1266. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.


ANTE PRIMA

Lutto «internazionale» SPECIALE • L’immagine delle fiamme che divorano la cattedrale di Notre-Dame

resterà per sempre impressa nella memoria collettiva. Perché, ancora una volta, la vittima appartiene a un patrimonio non solo nazionale, ma universale

I

l rogo di Notre-Dame, iniziato la sera dello scorso 14 aprile richiede, da parte nostra, una riflessione, appena accennata, poiché il numero della rivista deve andare in stampa in queste ore. La distruzione (parziale, evitabile, rimediabile in parte, lo sapremo meglio nei prossimi giorni e settimane) di una cattedrale-simbolo dell’architettura sacra medievale europea coinvolge e sgomenta tutti noi, anche se tragicamente adusi, ormai, alla pluridecennale cronaca di distruzioni e violenze perpetrate – dall’uomo e dalla natura – nei confronti della memoria culturale racchiusa dal patrimonio monumentale mondiale. Poco tempo ci separa dall’annus horribilis in cui, tra la primavera e l’estate del 2015, il mondo venne a sapere dell’esistenza di una grande città dell’antichità, la siriana Palmira, violentata e irrimediabilmente distrutta da un manipolo di terroristi. E dieci anni ci separano – per rimanere a casa nostra – dal terremoto che ha sfregiato L’Aquila… La scomparsa delle testimonianze del passato – sembrano volerci ricordare questi eventi – è un loro/nostro inevitabile destino. Ma sappiamo che non è cosí, e la plurisecolare vicenda di NotreDame de Paris ne è la monumentale riprova. La densità simbolica di questa cattedrale gotica, la cui nascita risale al 1163 (verrà completata 150 anni piú tardi), travalica i limiti stessi del suo tempo, similmente a quanto accade per altri edifici del gotico europeo: le fiamme

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Parigi. La cattedrale di Notre-Dame, voluta dal vescovo Maurizio di Sully e la cui prima pietra venne posta, secondo la data tradizionalmente accettata, nel 1163. Nella pagina accanto il rogo che ha colpito la cattedrale nel pomeriggio dello scorso 14 aprile.

hanno distrutto la monumentale capriata lignea (in ampia parte, sí, risalente al XII secolo), ma anche la guglia, costruita con travi di quercia rivestite di piombo, simbolo degli imponenti lavori di rinnovamento voluti, nell’Ottocento, dal geniale architetto Eugéne Viollet-le-Duc. Inoltre, come non riconoscere, a questo monumento, un’identità – materiale, letteraria – tutta «moderna», celebrata dalle pagine di Victor Hugo e, perché no, dal cinema di Walt Disney? E, immaginiamo, quale cortocircuito di significati si sarebbe prodotto se,

a cedere alle fiamme, non fosse stata la navata della chiesa, ma le due torri che ne segnano il fronte… Una cattedrale è e rimane – per credenti e laici – il luogo di riferimento di una comunità (leggiamo, in proposito, l’introduzione all’articolo che, in questo numero, Furio Cappelli dedica alle pievi di Arezzo). Quello per le ferite di Notre-Dame si configura, cosí, come un lutto «internazionale». Che ha colpito tutti coloro che, come noi, in quella comunità si riconoscono. Andreas M. Steiner maggio

MEDIOEVO


I SECOLI DI UN CAPOLAVORO DELL’ARTE GOTICA I II secolo d.C. A Lutezia, l’antica Parigi, è attiva una comunità di cristiani e papa Fabiano invia come primo vescovo Dionigi, che sarebbe stato martirizzato nell’area del Mons Martyrum (l’odierna Montmartre). All’epoca il culto si praticava probabilmente nella sala di una residenza gallo-romana. IV sec. All’indomani dell’editto di Costantino (313) sorge un primo edificio cristiano, forse sulla riva sinistra della Senna. V-XII secolo In una data ancora oggi imprecisata viene costruita la prima grande cattedrale, intitolata a santo Stefano (Saint-Etienne). La chiesa sorge su un piú antico tempio pagano e doveva articolarsi in cinque navate, con un assetto simile a quello delle grandi basiliche di Roma e Ravenna. Grazie alle indagini archeologiche è stato possibile accertare che la sua facciata si innalzava una quarantina di metri a ovest dell’attuale facciata di Notre-Dame. 1160 Maurizio di Sully viene eletto vescovo di Parigi e, all’indomani della nomina, si fa promotore della ricostruzione di una chiesa cattedrale da intitolare alla Vergine (Notre-Dame), che raggruppi le funzioni di chiesa episcopale, chiesa dei canonici e battistero. Il progetto si traduce nell’apertura di un gigantesco cantiere, che prevede: la demolizione dell’antica cattedrale di Saint-Etienne e la costruzione di

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Notre-Dame; la realizzazione di un sagrato inteso come spazio intermedio fra il mondo profano e quello della fede; l’apertura della rue Neuve-Notre-Dame, una strada larga 6 m che permetta di accedere agevolmente alla nuova cattedrale; la ricostruzione del palazzo vescovile e dell’Hôtel-Dieu. 1163 Data in cui, secondo la tradizione, viene posta la prima pietra di Notre-Dame, alla presenza di papa Alessandro III. Il nuovo edificio si inserisce nell’avvento di una nuova arte, destinata a essere battezzata «gotica». 1163-1182 Costruzione del coro e del suo doppio deambulatorio. Il 19 maggio 1182 il legato pontificio Henri de Château-Marçay, assistito da Maurizio di Sully, consacra l’altare maggiore del coro. 1182-1190 Viene portata a termine la costruzione delle ultime tre campate della navata centrale, delle navate laterali e delle tribune. 1190-1225 Costruzione delle fondamenta della facciata e delle prime due campate della navata, che vengono collegate alla facciata, innalzata fino alla galleria dei re. 1225-1250 Costruzione della galleria sopraelevata e delle due torri; le finestre piú alte vengono modificate e ingrandite; realizzazione delle cappelle laterali distribuite tra i contrafforti.

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ANTE PRIMA ANATOMIA DI UN MONUMENTO INSIGNE

e torri furono innalzate fra il 1220 L e il 1250. Nel corso dei restauri condotti da Viollet-le-Duc fra il 1853 e il 1864, la galleria delle Chimere, che le collega, è stata ripopolata da sculture fantastiche.

Il tetto conservava, fino all’incendio dello scorso aprile, le tegole originarie, costituite da lastre in piombo la cui posa in opera venne ultimata nel 1326.

Le vetrate originali furono quasi totalmente sostituite, nel XVIII secolo, da lastre bianche, cosí da far filtrare piú luce all’interno della cattedrale. Nuovi interventi si ebbero negli anni Trenta del Novecento e poi nel 1965.

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L a guglia centrale, innalzata in corrispondenza del transetto (e crollata a seguito dell’incendio), fu realizzata da Eugène Viollet-le-Duc, in sostituzione di quella originale, demolita fra il 1786 e il 1792.

I l rosone Sud si mostra oggi nell’aspetto conferitogli dai restauri condotti nel XVIII secolo.

L e cappelle laterali distribuite tra i contrafforti della chiesa furono realizzate fra il 1225 e il 1250. Alla metà del XIX secolo furono decorate con nuove pitture murali.

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ine del XIII-inizi del XIV secolo In questa fase F sono attivi vari capomastri, dei quali conosciamo i nomi: Jean de Chelles, Pierre de Montreuil, Pierre de Chelles, Jean Ravy, Jean le Bouteiller. Sotto la loro direzione si compiono i seguenti interventi: ampliamento dei bracci del transetto; allestimento delle cappelle del coro; costruzione dei grandi archi rampanti del coro e della copertura; il coro e il santuario vengono racchiusi da un recinto in pietra istoriata. XVII-XVIII secolo Sotto la direzione di Robert de Cotte e per adempiere al voto di Luigi XIII, la cattedrale viene ristrutturata. Si susseguono poi vari interventi, che comprendono il restauro del rosone meridionale e la sostituzione delle vetrate del XII e XIII secolo con vetri bianchi. L’architetto Germain Soufflot guida la realizzazione di una nuova sacrestia e la ristrutturazione del portale centrale. Al tempo della Rivoluzione francese viene abbattuta la guglia centrale e vengono distrutte le 28 statue di sovrani che ornavano la galleria dei re, nonché tutte le grandi statue dei portali, con l’eccezione di quella della Vergine nel portale del Chiostro. 1801 Viene siglato un nuovo concordato e Notre-Dame viene restituita al culto cattolico romano il 18 aprile 1802. 1844 Il governo del re Luigi Filippo I dispone il restauro della cattedrale a la costruzione di una sacrestia. Il cantiere di restauro viene affidato agli architetti Eugène Viollet-le-Duc e Jean-Baptiste Lassus. Alla morte di quest’ultimo, nel 1857, Viollet-le-Duc assume per intero la direzione dei lavori. Sotto la sua guida vengono compiuti numerosi interventi: ricostruzione della guglia; restituzione delle sculture; costruzione di una nuova sacrestia; ripristino delle vetrate, avvalendosi del contributo di grandi maestri vetrai; ripristino del portale centrale, che viene riportato allo stato precedente l’intervento di Soufflot; ricostituzione di parte del Tesoro e degli arredi; realizzazione di pitture murali nelle cappelle laterali; completo rifacimento del grande organo. 1864, 31 maggio La cattedrale viene riconsacrata da Georges Darboy, arcivescovo di Parigi. 1965 Dopo un lungo dibattito, viene portata a termine la sostituzione delle vetrate, installando quelle realizzate dal maestro Jacques de Chevallier e che conferiscono al monumento un’illuminazione simile a quella che dobbiamo immaginare lo caratterizzasse nel XIII secolo. 1990-1992 Restauro dell’organo. 2000 Conclusione del decennale intervento di restauro e ripulitura della facciata occidentale. 2004 Il cardinale arcivescovo Jean-Marie Lustiger promuove la realizzazione di un nuovo presbiterio.

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ANTE PRIMA

Sublime quartetto MOSTRE • Grazie alla

collaborazione con il Museo nazionale del Medioevo di Parigi, giungono a Torino quattro magnifiche sculture originariamente appartenenti alla decorazione della cattedrale di Notre-Dame

A

ll’indomani dell’incendio che l’ha devastata (e del quale diamo conto in apertura di questa Anteprima), la cattedrale di NotreDame ha visto ulteriormente crescere la sua fama e l’interesse per la sua storia. Una storia plurisecolare e già piú volte travagliata, come provano, per esempio, le vicende di cui fu protagonista o, meglio, vittima, al tempo della Rivoluzione francese. Fra le opere colpite dalla furia giacobina vi sono le quattro magnifiche sculture, considerate

altrettanti capolavori dell’arte gotica, ora esposte a Torino, nell’ambito di una mostra che analizza appunto la produzione artistica della prima metà del XIII secolo, e si sofferma, in particolare, sul cantiere della grande chiesa parigina. Dal portale dell’Incoronazione della Vergine, sulla facciata occidentale, proviene la Testa d’Angelo, mentre dal portale del braccio settentrionale del transetto provengono la Testa di Re mago, la Testa di uomo barbuto e la Testa di figura femminile, allegoria di una virtú teologale. Oltre a essere esempi di altissima qualità della scultura medievale europea, le quattro opere sono testimonianze di quel momento della civiltà gotica indicato dallo storico dell’arte Cesare Gnudi come «classicismo gotico» o «naturalismo gotico», che ebbe un forte influsso, alla fine del Duecento, anche sui protagonisti del gotico Sulle due pagine, da sinistra Testa di Re mago, Testa di figura femminile, Testa d’Angelo e Testa di uomo barbuto, dalla cattedrale di Notre-Dame. 1210-1258. Parigi, Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge.

DOVE E QUANDO

«Notre-Dame de Paris. Sculture gotiche dalla grande cattedrale» Torino, Palazzo Madama, Sala Stemmi fino al 30 settembre Orario lu-do, 10,00-18,00; chiuso il martedí Info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it

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in Italia: Giotto, Nicola Pisano, Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio. Le teste sono presentate con un allestimento audiovisivo, realizzato da Leandro Agostini, che ricrea uno sfondo architettonico e ambientale per le sculture, arricchendo la visita con proiezioni e voci fuori campo, che animano i quattro personaggi e ne raccontano la storia.

Un simbolo da cancellare Come accennato, tra il 1793 e il 1794 le sculture furono rimosse dalla cattedrale parigina, insieme a molte altre che decoravano la galleria dei Re e i portali della facciata, su ordine del Comité revolutionnaire de la Section de la Cité, in quanto simbolo della feudalità, della monarchia e della religione. Dal 1793 la Francia era infatti divenuta una repubblica, retta da un Comitato di salute pubblica guidato da Robespierre. Le sculture, molte ormai ridotte in frammenti, abbandonate a lungo sul sagrato della chiesa, vennero successivamente cedute a impresari cittadini interessati a reimpiegarle come materiale da costruzione. Una perdita che è all’origine

dell’imponente cantiere di restauro della cattedrale a opera di Eugène Viollet-le-Duc e Jean-Baptiste Lassus, che si dovettero basare, per realizzare le nuove sculture, in sostituzione di quelle perdute, su disegni e incisioni antiche raffiguranti i portali, imitando, per lo stile, il linguaggio delle sculture

Esmeralda condotta davanti a Notre-Dame per l’impiccagione, da un’edizione illustrata di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo. Parigi, 1844. gotiche coeve di Chartres, Reims e Amiens. Molte delle sculture originali di Notre-Dame, comprese le quattro opere esposte a Palazzo Madama, insieme a centinaia di frammenti, sono state rinvenute nel 1977 durante lavori alle fondazioni dell’hôtel Moreau a Parigi, sede della Banque Française du commerce extérieur, che poi decise di donarle allo Stato francese per essere depositate al Musée de Cluny. A Torino si possono quindi ammirare quattro capolavori del gotico francese e trovare al contempo spunti di riflessione su altri temi: l’organizzazione di un cantiere medievale complesso come quello di una cattedrale, la distruzione e la mutilazione delle opere d’arte per ragioni politiche, fino a quello del restauro integrativo «romantico» dei monumenti medievali, che caratterizza gli interventi del XIX secolo in tutta Europa. (red.)

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ANTE PRIMA

È l’anno di Leonardo N

el 1513, poco piú che sessantenne (la cittadina di Vinci gli aveva dato i natali nel 1452), Leonardo fu chiamato a Roma da Giuliano de’ Medici, capitano generale della Chiesa e grande mecenate. Tuttavia, sebbene il suo ingegno fosse stato da tempo riconosciuto, si vide escluso dai grandi progetti allora in corso – la basilica di S. Pietro e la decorazione del Vaticano –, per i quali gli furono preferiti Michelangelo e Raffaello. Cosí, sul finire del 1516, accolse l’invito di Francesco I, re di Francia, che gli mise a disposizione una residenza nel castello di Cloux, presso Amboise, riconoscendogli una pensione annua come «premier peintre, architecte et mechanicien du roi». Leonardo continuò a lavorare di gran lena, dedicandosi a studi

di anatomia, progetti architettonici e realizzando un gran numero di disegni, nonostante fosse stato colpito da una paralisi alla mano destra. Tuttavia, intuiva che la sua parabola terrena fosse prossima alla conclusione e i suoi presagi si possono cogliere nelle straordinarie rappresentazioni della fine del mondo realizzate in quegli anni. Il 29 aprile 1519 dettò il suo testamento e, tre giorni piú tardi, si spense. Il cinquecentenario di quella morte illustre viene celebrato con un fitto programma di eventi, organizzati in Italia e all’estero. Nelle pagine che seguono abbiamo dunque scelto di segnalare alcuni di quelli piú significativi, riservandoci comunque di dare conto anche nei prossimi mesi delle iniziative promosse per ricordare il maestro. Rendering della proiezione multimediale realizzata per il progetto «Sotto l’ombra del Moro. La Sala delle Asse». Castello Sforzesco di Milano. Aperto nel 2013, il cantiere di studio e restauro della Sala era stato sospeso per la prima volta durante il semestre di Expo 2015.

Alberi e installazioni multimediali

MILANO I

l rapporto fra Milano e Leonardo da Vinci è stato intenso e gli anni trascorsi nel capoluogo ambrosiano sono stati fra i piú fecondi nella carriera del grande artista e scienziato. Non è dunque un caso che la città lombarda proponga un ciclo di iniziative, «Milano e Leonardo 500», distribuite nell’arco di ben nove mesi. Cuore di questo ricco palinsesto è il Castello

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Sforzesco, dove Leonardo giunse nel 1482 per mettere le sue competenze a servizio del duca Ludovico Sforza, detto Il Moro. Appuntamenti principali sono la riapertura al pubblico, con la collaborazione dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e delle istituzioni territoriali del MiBAC, della Sala delle Asse e l’inaugurazione delle iniziative collegate che avranno luogo al

Ora, smontati integralmente i ponteggi, la struttura si ripresenta dopo una nuova fase di lavori, svelando il pergolato di gelsi, progettato come un gigantesco trompe l’oeil per trasformare il grande spazio alla base della Torre Falconiera in un salone di rappresentanza del duca, la possente radice (detta «il Monocromo» perché realizzata a chiaro scuro) che costituisce un sorprendente dettaglio grafico e pittorico del grandioso pergolato costituito da 16 alberi di gelso, le molte porzioni di disegno preparatorio emerse durante il cantiere, dal 2016 a oggi, con la rimozione degli strati di scialbo dalle pareti realizzata con strumenti laser. maggio

MEDIOEVO


Grazie all’installazione multimediale «Sotto l’ombra del Moro. La Sala delle Asse», i visitatori saranno guidati nella lettura dello spazio integrale della Sala, spostando l’attenzione dalla volta alle pareti laterali, e scopriranno come Leonardo abbia qui sviluppato il suo concetto di imitazione della natura tanto da immaginare un sottobosco e, al di là degli alberi, case e colline all’orizzonte: dalla stanza del duca Sforza al territorio da lui governato. Sempre al Castello, nel Cortile delle Armi, sarà svelato un vero pergolato di alberi di gelso, in scala 1:2, che riprodurrà dal vivo ciò che Leonardo ha rappresentato nella Sala: un’autentica architettura vegetale, che crescerà con il ciclo naturale delle stagioni e sarà un richiamo permanente all’opera leonardesca per i milioni di visitatori che attraversano ogni anno le corti del Castello, oltre che un invito a entrare in Museo per ammirarla direttamente. Il progetto intende infatti favorire la conoscenza della Sala delle Asse, portandola «all’esterno» per offrire un punto di vista diverso, piú prettamente botanico e paesaggistico, che permetterà al visitatore non solo di apprezzare ancora di piú l’opera di Leonardo, ma anche di vivere fisicamente l’esperienza di un pergolato cosí come poteva essere

Allegoria dello specchio solare, penna e inchiostro di Leonardo da Vinci. 1490-1494 crica. Parigi, Museo del Louvre.

DOVE E QUANDO

«Sotto l’ombra del Moro. La Sala delle Asse» Milano, Castello Sforzesco, Museo d’Arte Antica, Sala delle Asse fino al 12 gennaio 2020 (dal 16 maggio) «Intorno alla Sala delle Asse. Leonardo tra Natura, Arte e Scienza» Milano, Castello Sforzesco, Museo d’Arte Antica, Sala dei Ducali fino al 18 agosto (dal 16 maggio) concepito e realizzato negli anni milanesi di Leonardo da Vinci.

Maestri a confronto Nella Sala dei Ducali, viene invece presentata la mostra «Intorno alla Tempesta su paesaggio collinare, penna e inchiostro su pietra nera di Leonardo da Vinci. 1517-1518. Windsor Castle, The Royal Collection/HM Queen Elizabeth II.

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maggio

«Il museo virtuale della Milano di Leonardo» Castello Sforzesco, Museo d’Arte Antica, Sala delle Armi fino al 12 gennaio 2020 (dal 16 maggio) Orario Castello: tutti i giorni, 7,0019,30; Musei: ma-do, 9,00-17,30; chiuso il lunedí, 25 dicembre, 1° gennaio, 1° maggio Info www.milanocastello.it Sala delle Asse. Leonardo tra Natura, Arte e Scienza», concepita attorno a una rigorosa selezione di disegni originali di Leonardo da Vinci e di altri maestri del Rinascimento, che mostrano relazioni iconografiche e stilistiche stringenti con particolari della decorazione naturalistica e paesaggistica della Sala delle Asse, ora resi visibili grazie ai saggi di scopritura effettuati sulle pareti, indizi di straordinaria importanza per poter approfondire la conoscenza del progetto compositivo originario. Il progetto espositivo di significativo valore scientifico e culturale è concepito dalla Direzione del Castello con la partecipazione di grandi musei internazionali, con prestiti provenienti dalla Her Majesty The Queen from the Royal Collection, dal Museo del Louvre, Parigi, dal

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ANTE PRIMA Kupferstichkabinett, Berlino e dalle Gallerie degli Uffizi, Firenze. Infine, nella Sala delle Armi, il percorso multimediale «Il museo virtuale della Milano di Leonardo» condurrà il visitatore alla scoperta della città di Milano cosí come doveva apparire agli occhi del maestro durante i suoi soggiorni milanesi (in diversi momenti tra il 1482 e il 1512).

Sulle orme del genio Nel percorso sarà inserita una mappatura visiva georeferenziata di quanto ancora si conserva di quei luoghi, sia in città che all’interno di musei, chiese ed edifici del territorio: spazi urbani, residenze aristocratiche ed edifici sacri, quali la chiesa di S. Francesco Grande, il Borgo delle Grazie, il Castello Sforzesco, l’antica Porta Vercellina, corso Nirone e l’asse dell’attuale Corso Magenta-contrada dei Meravigli-Cordusio. Il tour nella città virtuale farà riemergere, a distanza di cinque secoli, la peculiare composizione sociale di questi quartieri, ma anche il loro aspetto, caratterizzato da sontuosi palazzi le cui facciate erano affrescate con episodi di storia romana narrata attraverso arditi scorci prospettici. Si passerà poi a visitare i vasti giardini interni agli isolati, utilizzati per ospitate magnifiche feste e tornei cavallereschi. Al percorso virtuale in città, si aggiungono 8 itinerari nel territorio lombardo che permettono di ritrovare ancora oggi nell’arte, nel paesaggio e nella stessa cultura enogastronomica gli elementi naturali tipici della terra lombarda piú volte rappresentati da Leonardo nelle sue opere. Gli itinerari accompagneranno il pubblico a riscoprire non solo i legami storici della Lombardia con Leonardo e la corte degli Sforza, ma soprattutto a ritrovare con gli occhi del genio di Vinci le stesse suggestioni naturalistiche che caratterizzano la sua grande opera artistica e scientifica.

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ROMA A

Roma, l’esposizione allestita presso le Scuderie del Quirinale, «Leonardo da Vinci. La scienza prima della scienza», propone un percorso conoscitivo alla scoperta del maestro all’interno della fitta trama di relazioni culturali e del fermento artistico che ha caratterizzato il periodo tra Quattro e Cinquecento. L’opera vinciana è indagata secondo le piú aggiornate linee guida museologiche e museografiche nelle declinazioni legate alla storia dell’ingegneria, del pensiero, della cultura scientifico-tecnologica, andando dalla formazione toscana al soggiorno milanese per arrivare al tardo periodo romano. Presenza illustre sono i dieci disegni dall’Ambrosiana, tra i piú noti del testo piú importante di Leonardo, il Codice Atlantico. Disegni che ne confermano le qualità di uomo capace di immaginare un futuro non immediato e di influire quindi sulle aspettative di contemporanei e posteri. La mostra propone poi un altro elemento di altissimo valore: i portelli originali della chiusa del Naviglio di S. Marco, rimasti in uso fino al 1929. A corredo degli originali leonardeschi una ricca selezione di modelli storici del Museo della Scienza e della Tecnologia. A questa importante collezione si affianca una vasta selezione di opere provenienti da istituzioni italiane e straniere. Oltre ad alcuni disegni autografi la mostra racchiude stampe, manoscritti, cinquecentine illustrate e dipinti, che ben rappresentano il contesto in cui Leonardo vive e lavora. In alto modello di vite aerea, 1953. Milano, Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci. A destra frontespizio di un’edizione seicentesca del Trattato della pittura di Lionardo da Vinci. DOVE E QUANDO

«Leonardo da Vinci. La scienza prima della scienza» Roma, Scuderie del Quirinale fino al 30 giugno Orario do-gio, 10,00-20,00; ve-sa, 10,00-22,30 Info www.scuderiedelquirinale.it maggio

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SANSEPOLCRO N

ata come sintesi di tre mostre precedenti – Gli ingegneri del Rinascimento (1995), L’automobile di Leonardo (2004) e La mente di Leonardo (2006) – la mostra organizzata a Sansepolcro, «Leonardo da Vinci: Visions. Le sfide tecnologiche del genio universale», invita a esplorare alcuni ambiziosi progetti di Leonardo, che ben illustrano la sua attitudine a cimentarsi con temi di inaudita complessità. Il volo, il conferire movimento a oggetti inanimati, il progetto della piú grande statua equestre mai realizzata: sogni che fanno parte della storia dell’umanità da tempi remoti e prendono forma nei suoi disegni e nelle macchine da lui ideate. La mostra è un contributo alla conoscenza della genialità e della tenacia con cui Leonardo affrontava le piú audaci sfide tecnologiche e artistiche. Sognato dell’uomo fin dai tempi piú antichi, il volo prende forma nei suoi studi e nelle macchine che ha disegnato. Leonardo si misura anche con l’idea di conferire il movimento a oggetti inanimati: il carro semovente

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In alto e a destra modelli di una macchina volante e di un leone meccanico. e il leone meccanico sono eloquenti testimonianze dei risultati che egli raggiunse, dal potenziale fortemente innovativo. Infine, il progetto per la gigantesca statua equestre in bronzo in memoria di Francesco Sforza costituisce un’ulteriore prova dell’eccezionale intelligenza con cui affrontava le sfide piú audaci. Video e animazioni in 3D, realizzati dal Museo Galileo di Firenze, fanno da corredo al percorso espositivo, consentendo sia di approfondire i temi affrontati, sia di comprendere i principi che governano il funzionamento delle numerose macchine esposte. DOVE E QUANDO

«Leonardo da Vinci: Visions. Le sfide tecnologiche del genio universale» Sansepolcro, Museo Civico fino al 24 febbraio 2020 Orario invernale, 25 set-9 giu: 10,00-13,00 e 14,30-18,00;

estivo, 10 giu-24 set: 10,00-13,30 e 14,30-19,00 Info e prenotazioni tel 199 151 121 oppure 0575 732218; e-mail: mostre@civita.it; www.museocivicosansepolcro.it

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ANTE PRIMA In questa pagina alcuni particolari delle installazioni multimediali e dell’allestimento di «Da Vinci Experience».

TREVISO F

orse la domanda piú frequente che ci si pone uscendo da «Da Vinci Experience» è cos’altro avrebbe potuto creare Leonardo se avesse avuto a disposizione anche soltanto una frazione della tecnologia impiegata dai curatori della mostra immersiva che gli viene dedicata a Treviso. Oppure chiedersi in quale altro modo oggi sarebbe possibile, se non sfruttando e incrociando le soluzioni offerte dalla potenza del digitale, condensare con altrettanta efficacia in uno spazio di 45 minuti il percorso di un uomo capace di essere pittore, architetto, scultore, ingegnere, poeta e musicista.

DOVE E QUANDO

«Da Vinci Experience» Treviso, Palazzo della Camera di Commercio di Treviso e Belluno fino al 4 agosto

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Orario ma-do, 10,00-19,30 Info tel. 393 8007367; e-mail: info@ davinciexperience.it; www.davinciexperience.it

Milioni di pixel, scenografie animate proiettate con definizione estrema, la cristallina perfezione sonora del Dolby Surround, sono comunque strumenti digitali con i quali non è forse scontato riuscire a trasmettere compiutamente un’idea dello scenario «fisico», oltre che storico e sociale, in cui il genio toscano ha potuto muoversi e operare. Si può volare con occhi e suoni nella suggestione di un mondo che non c’è, insomma, ma anche toccare i progenitori di strumenti di uso comune – dal cric alla bicicletta, dal cambio di velocità al pistone –

riprodotti con la massima fedeltà sulla base di disegni di Leonardo. Videomaker, ingegneri informatici e del suono hanno sempre lavorato a stretto contatto con professionisti editoriali e storici dell’arte, per scongiurare il rischio che la tecnologia diventasse una pura esibizione di se stessa, limitando il suo ambito al ruolo di splendida gregaria deputata all’esaltazione dei contenuti di cui essa si fa portatrice. maggio

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e alla giovinezza, ma proseguirono anche in età adulta, forse proprio durante il periodo in cui Leonardo si trovava sul territorio per lavorare al progetto, piú impegnativo, per la deviazione del fiume Arno. Veduta ispirata ai luoghi della sua terra natale, rappresentazione di una natura in continuo divenire o paesaggio ideale denso di significati di difficile interpretazione? Attraverso installazioni multimediali si dà conto delle diverse

VINCI L

a mostra allestita nel Museo Leonardiano della città natale di Leonardo, «Leonardo a Vinci. Alle origini del Genio», è incentrata sul legame biografico di Leonardo con la sua città natale e sulle suggestioni che la terra d’origine offrí al suo percorso di artista, tecnologo e scienziato. In quest’ottica, sono presentati i documenti in prestito dall’Archivio di Stato di Firenze, che ricostruiscono in maniera inequivocabile le primissime vicende della vita di Leonardo a Vinci, e il primo disegno conosciuto da lui realizzato, Paesaggio (inv. 8P) datato dall’artista 5 agosto 1473. Attorno a quest’opera giovanile, che costituisce una sorta di palinsesto di tutta la futura produzione di Leonardo, si dipana l’intero percorso espositivo.

L’elemento acqua, che ritroviamo nel Paesaggio e che Leonardo ha sempre indagato, è richiamato dai modelli di imbarcazioni a pale e macchine azionate dalla sua forza motrice e declinato attraverso gli studi per il canale navigabile tra Firenze e il mare.

Progetti per il territorio La volontà dello scienziato di regimare e sfruttare le acque ci conduce poi a indagare anche i suoi progetti, meno conosciuti, per il territorio di Vinci ricostruiti attraverso un video mapping. Questi studi, supportati anche da altri appunti presenti nei manoscritti giunti fino a noi, documentano come il legame e la frequentazione con Vinci non si limitarono all’infanzia In alto il Paesaggio disegnato da Leonardo e il particolare in cui si legge la data del 5 agosto 1473. Firenze, Gallerie degli Uffizi. A sinistra una veduta di Vinci.

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interpretazioni del celebre Paesaggio, dove si colgono suggestioni tratte dagli scenari del Montalbano, che certamente Leonardo frequentava e conosceva sin dall’infanzia, e al contempo si evidenziano elementi figurativi che ricorrono in altri disegni e dipinti dell’epoca. DOVE E QUANDO

«Leonardo a Vinci. Alle origini del Genio» Vinci, Museo Leonardiano fino al 15 ottobre Info tel. 0571 933251; e-mail: info@museoleonardiano.it; www.museoleonardiano.it Eventi in calendario a Vinci Ufficio Turistico di Vinci: tel. 0571 933285; e-mail: ufficioturistico@comune.vinci.fi.it Iniziative nei comuni dell’Empolese Valdelsa Toscana nel cuore: e.mail: info@toscananelcuore.it, www.toscananelcuore.it Itinerari Leonardo da Vinci. Nelle terre del Genio Sigma Csc: tel. 055 2340742; e-mail: prenotazioni@cscsigma.it

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ANTE PRIMA A sinistra Studi di carri d’assalto, penna e inchiostro su carta. 1485 circa. Torino, Musei Reali, Biblioteca Reale. In basso Autoritratto, sanguigna su carta. 1490 o 1515-1516? Torino, Musei Reali, Biblioteca Reale.

TORINO I

l percorso espositivo di «Leonardo da Vinci. Disegnare il futuro» allestito nella Galleria Sabauda ruota intorno al nucleo di disegni autografi di Leonardo da Vinci conservati alla Biblioteca Reale, comprendente tredici fogli acquistati dal re Carlo Alberto nel 1839, oltre al celebre Codice sul volo degli uccelli donato da Teodoro Sabachnikoff al re Umberto I nel 1893. Opere, databili all’incirca tra il 1480 e il 1515, in grado di documentare l’attività di Leonardo dalla giovinezza alla maturità. Alcuni disegni sono in relazione con celebri capolavori del maestro: i nudi per la Battaglia d’Anghiari, i cavalli per i monumenti Sforza e Trivulzio, lo studio per l’angelo della Vergine delle Rocce, noto come Volto di fanciulla. Oltre all’unicum, il celeberrimo Autoritratto di Leonardo, posto in dialogo con rappresentazioni di sé realizzate dagli artisti contemporanei Luigi Ontani, Salvo, Alberto Savinio.

«La scuola del mondo» Per restituire il senso, l’origine e la peculiarità del lavoro di Leonardo, la genesi dei disegni torinesi è indagata in relazione con analoghe esperienze di altri artisti, attraverso l’esposizione di maestri fiorentini quali Andrea del Verrocchio e Pollaiolo, lombardi come Bramante e Boltraffio, fino a Michelangelo e a Raffaello. Riunendo in mostra il disegno di Michelangelo per la battaglia di Cascina, quello di Leonardo per la battaglia di Anghiari e i combattimenti di nudi di Raffaello provenienti da Oxford, si presenta ciò che Benvenuto Cellini definí «la scuola del mondo».

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Un comitato per Leonardo Quelli segnalati in queste pagine sono soltanto alcuni dei numerosi eventi organizzati per celebrare i cinquecento anni dalla morte di Leonardo. Per avere un panorama completo, si può consultare il sito web del Comitato Nazionale istituito per l’occasione – www.leonardocinquecento.it –, che fornisce informazioni sui contenuti dei singoli eventi e ne evidenzia calendario e localizzazione, consentendo di selezionarli per tipologia (mostra, convegno, attività di ricerca, ecc.), per area geografica e per cadenze temporali mensili. In basso una pagina del Codice sul volo degli uccelli, composto da 18 carte vergate a penna e inchiostro bruno su carta, in alcuni casi con tracce di pietra nera e sanguigna. 1505 circa.

In alto Testa di fanciulla (studio per la Vergine delle Rocce). 1483-1845. Torino, Musei Reali.

DOVE E QUANDO

«Leonardo da Vinci. Disegnare il futuro» Torino, Musei Reali, Sale Palatine della Galleria Sabauda fino al 14 luglio Orario ma-do, 8,30-19,30; chiuso il lunedi Info tel. 011 5211106; e-mail: mr-to@beniculturali.it

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In mostra è presente anche il Codice Trivulziano, concesso in prestito dalla Biblioteca Trivulziana del Castello Sforzesco di Milano per la prima volta dopo il 1935. Un’opera capitale, il quaderno sul quale Leonardo annotò i suoi pensieri e le sue riflessioni sul lessico. L’itinerario è suddiviso in sette sezioni corrispondenti ad altrettante possibili chiavi di lettura dell’opera del maestro e delle esperienze condotte dagli artisti del Rinascimento: l’eredità dell’arte antica; l’esplorazione dell’anatomia e delle proporzioni del corpo umano; il confronto tra l’arte e la poesia; l’autoritratto; lo studio dei volti e la sfida della rappresentazione delle emozioni. Infine, gli studi sul volo, l’architettura e un tema finora inesplorato: la sezione Leonardo e il Piemonte con le citazioni dei luoghi presenti negli scritti di Leonardo e che mostra, quale disegno catalizzatore, il foglio del Codice Atlantico con il Naviglio di Ivrea. La mostra si avvale di un percorso accessibile e inclusivo, grazie all’impiego di dispositivi allestitivi e tecnologie che consentono non solo l’accessibilità sensoriale (per non udenti, non vedenti e ipovedenti), ma anche una piú ampia inclusione culturale e linguistica, con soluzioni efficaci per diversi tipi di esigenze percettive e cognitive. Lungo il percorso di visita sono collocate tavole multisensoriali con riproduzioni tattili di opere scelte tra gli autografi di Leonardo conservati presso la Biblioteca Reale di Torino. Tramite Qr-code e NFC, i visitatori possono inoltre accedere a contenuti multimediali. (a cura della Redazione)

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ANTE PRIMA

La pergamena che ha cambiato la storia MOSTRE • Nel giugno del 1215, dopo

essere stata firmata dal re d’Inghilterra Giovanni Senzaterra, la Magna Charta ricevette, in rappresentanza del papa, il sigillo del cardinale Guala Bicchieri. L’intera vicenda e la figura dell’illustre prelato vercellese sono il tema dell’esposizione allestita in suo onore dalla città piemontese

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er celebrare gli ottocento anni dalla fondazione dell’abbazia di S. Andrea, Vercelli propone, all’interno dello spazio Arca, la mostra «La Magna Charta. Guala Bicchieri e il suo lascito», per ricordare la figura del cardinale vercellese che, in veste di legato papale, mise il sigillo sul documento con cui il re d’Inghilterra In alto una delle copie conformi al documento originale della Magna Charta Libertatum. Londra, British Library. A sinistra particolare del cofano di Guala Bicchieri. 1220-1225 circa. Torino, Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica. Giovanni Senzaterra fu costretto dai baroni del regno a riconoscerne alcuni privilegi e libertà, limitando i poteri del sovrano. Il pezzo forte della rassegna, che restituisce la statura internazionale del religioso, è naturalmente la Magna Charta, esposta per la prima volta nel nostro Paese, e valorizzata dall’allestimento firmato da Daniele De Luca. Il percorso si apre con un’installazione multimediale che fa entrare il visitatore nel mondo del cardinale, attraverso immagini, suoni, racconti e scritti che ricostruiscono la sua attività diplomatica, introducendo anche al significato della Magna Charta nella storia dei diritti dell’uomo. (segue a p. 24)

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ANTE PRIMA A sinistra Ritratto a mezzo busto del cardinale Guala Bicchieri. 1847 circa. Vercelli, Ospedale Sant’Andrea. A destra il manico del coltello eucaristico di Guala Bicchieri. Milano, Castello Sforzesco. In basso medaglione con figura maschile che combatte contro un drago. 1220-1225 circa. Torino, Palazzo Madama.

L’allestimento, nel tono dell’azzurro Limoges, fa da sfondo a diversi codici, come I Biscioni, che raccolgono le concessioni del Comune a Guala, che finanzierà il complesso di S. Andrea. Nella stessa teca è esposto il codice pergamenaceo Bibliorum Concordantiae, che contiene elenchi di citazioni bibliche, accompagnate da miniature di scuola parigina con elementi fitomorfi e zoomorfi. In questa sezione campeggia anche un ritratto ottocentesco di Bicchieri, di fronte alla teca con il coltello eucaristico donato dal religioso all’abbazia vercellese. L’itinerario di visita prevede quindi una sorta di sacello, in rosso cardinalizio, preceduto da un pannello che da un lato riporta una sintesi, dall’altro il testo integrale della Magna Charta, sia in latino che in italiano: l’interno del sacello con il prezioso documento della cattedrale di Hereford conta un’atmosfera raccolta, quasi mistica. Il percorso continua con altri documenti, un ritratto

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DOVE E QUANDO

«La Magna Charta: Guala Bicchieri e il suo lascito. L’Europa a Vercelli nel Duecento» Arca, ex chiesa di San Marco, Vercelli. fino al 9 giugno Orario ma-do, 10,00-19,00 Info santandreavercelli.com, con indicazioni sulle altre iniziative dell’ottavo centenario, che coinvolgono varie istituzioni cittadine secentesco del cardinale e il suo Cofano limosino, utilizzato come baule da viaggio. Si possono infine ammirare nove medaglioni con figure del bestiario medievale, fra gli smalti di Limoges appartenuti al prelato. Stefania Romani maggio

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ANTE PRIMA

Tornei di montagna APPUNTAMENTI • In uno dei piú

incantevoli comprensori dell’Alto Adige torna la tradizionale serie delle quattro competizioni organizzate per rievocare la figura di Oswald von Wolkenstein, poeta, compositore, nonché diplomatico vissuto fra Tre e Quattrocento

O

swald von Wolkenstein fu un poeta, compositore e diplomatico tedesco, nato probabilmente nel 1377 al castello di Scaunia, in Val Pusteria. Era uno dei sette figli di Friedrich von Wolkenstein, della nobile dinastia residente a Castel Trostburg, e di Katharina von Villanders, dei signori di Villandro. Ancora adolescente, Oswald abbandonò il castello natale e iniziò a fare viaggi nei Paesi nordeuropei e islamici, cominciando anche a scrivere canzoni. Nel 1398, quando suo padre morí, tornò in Alto Adige, avviando un lungo contenzioso con i fratelli sull’eredità. Solo nel 1407 si arrivò a un accordo: Oswald ricevette un terzo di Castelvecchio a Siusi, allo Sciliar, riscattando negli anni successivi gli altri due terzi dal cavaliere Martin Jäger. La sua carriera di diplomatico iniziò nel 1415, al Concilio di Costanza, come membro della corte di Federico IV d’Asburgo. Divenne poi consigliere di Sigismondo di Lussemburgo, che nel 1433 venne nominato imperatore del Sacro Romano Impero. Fra il 1423 e il 1431 il poeta e menestrello realizzò due manoscritti su pergamena con

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le sue canzoni. Padre, a sua volta, di sette figli, morí nel 1445 a Merano. In quasi tutti i ritratti conservati, Oswald viene mostrato con l’occhio destro chiuso, e un esame del cranio ha rilevato che probabilmente si trattava di una malformazione innata della cavità oculare. A questa figura storica ogni anno è dedicata una competizione equestre che si svolge fra Ponte Gardena, Castelrotto, Siusi e Fiè allo Sciliar. Quattro squadre di

cavalieri e amazzoni si cimentano in altrettanti tornei per portare a casa lo stendardo.

Prove di destrezza Il primo torneo della cavalcata di Oswald von Wolkenstein è il «Passaggio degli anelli» e ha luogo sul Monte Calvario, a Castelrotto. Ogni cavaliere deve compiere il giro per il colle, facendo passare un’asta attraverso tre anelli appesi a intervalli regolari. Il secondo maggio

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A sinistra e nella pagina accanto due momenti delle gare organizzate a Castelrotto e dintorni per ricordare la figura di Oswald von Wolkenstein.

torneo, il «Labirinto», si svolge a Siusi allo Sciliar, precisamente al «Matzlbödele». Impugnando l’asta, i concorrenti cavalcano fianco a fianco verso la fortezza, dove ognuno deve seguire un percorso a forma di labirinto. Il terzo torneo, il «Galoppo con ostacoli», è ambientato a Fiè allo Sciliar, presso il laghetto di Fiè. I cavalieri, galoppando, affrontano gli ostacoli che comprendono cavalletti, un cannone, un cesto in cui depositare una palla. L’ultimo torneo, lo «Slalom», si svolge sui prati ai piedi dell’imponente Castello di Presule a Fiè. Ciascun cavaliere transita lungo il percorso di andata e ritorno tra otto pali. L’edizione 2019 inizierà venerdí 31 maggio con la festa d’inaugurazione nella piazza di Castelrotto. Sabato 1° giugno, grande sfilata da Telfen alla piazza di Castelrotto, con la partecipazione delle squadre in gara, bande musicali, sbandieratori, costumi tradizionali e carrozze. Domenica 2 giugno, la 37esima edizione della Cavalcata, con i quattro tornei a Castelrotto, Siusi, Laghetto di Fiè e Presule. Tiziano Zaccaria

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Devozione... bovina O

gni anno, nel quarto week end di maggio, la cittadina agrigentina di Casteltermini celebra la sagra del Tataratà, inserita all’interno dell’antica festa di Santa Croce. Il Tataratà consiste in una danza spettacolare: un gruppo di ragazzi interamente vestiti di bianco, alla maniera araba, si esibisce ingaggiando una sorta di battaglia a colpi di poderose spade di ferro. I giovani eseguono una serie di figure scenografiche, disponendosi ora a cerchio, ora a coppie, seguendo il ritmo incessante di un tamburo: da qui il nome onomatopeico della danza. Il Tataratà viene fatto risalire al Medioevo, quando le popolazioni arabe abitavano i casali del territorio di Casteltermini, ancor prima del 1629, anno in cui il principe Gian Vincenzo Maria Termini fondò ufficialmente il Comune. In realtà, le sue origini sembrano ancor piú antiche: lo si evince da alcuni elementi. Per esempio, i danzatori indossano in testa una corona di fiori: un uso che si riferirebbe ad arcaici rituali pagani volti a favorire la fertilità della terra, che l’avvento del cristianesimo non riuscí a sradicare, soprattutto nel mondo rurale. La Festa di Santa Croce celebra invece un’antica croce paleocristiana. Secondo la leggenda, in un’epoca imprecisata alcune vacche che pascolavano nelle terre del feudo Vaccarizzo ogni giorno si allontanavano e, giunte in un punto preciso della campagna, si inginocchiavano. Sorpreso da questo fenomeno, il mandriano iniziò a scavare in quel luogo, portando alla luce, con grande meraviglia, una croce lignea. Tentò poi di rimuoverla, legandola alle vacche, ma inutilmente. Cosí, per custodirla, la popolazione locale decise di costruire nello stesso luogo una chiesetta, l’attuale eremo di Santa Croce, dove nei secoli medievali, il 3 maggio di ogni anno, si svolgeva una festa agreste.

La croce piú antica del mondo? Di recente, per stabilire l’età della croce, un campione del suo legno di quercia è stato sottoposto all’esame del carbonio 14: il legno risale al I secolo d.C. e ciò porterebbe a considerarla la piú antica croce lignea esistente. Alta 3,49 e larga 2,25 m, alla sua sommità presenta un incavo rettangolare profondo 3,5 cm, forse fatto in tempi relativamente recenti per prelevare una reliquia. Oggi la Festa di Santa Croce inizia il venerdí, con l’ingresso a Casteltermini dei quattro ceti cittadini – Celibi, Pecorai, Borgesi e Real Maestranza – accompagnati dalle rispettive bande musicali. Il sabato è il giorno di una grande sfilata a cavallo. La mattina della domenica i quattro ceti si riuniscono nella chiesa Madre per una solenne celebrazione eucaristica. Nel pomeriggio il corteo storico fa due volte il giro per il paese, recandosi poi all’eremo di Santa Croce per riportarvi la croce lignea. Durante le tre giornate il gruppo dei Tataratà, in costumi arabi, si esibisce in vari luoghi del paese, danzando al ritmo dei tamburi. Quest’anno la festa è in programma da venerdí 24 a domenica 26 maggio. T. Z.

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ANTE PRIMA

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IN EDICOLA

GLI

ITALIANI ALLE CROCIATE

Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’assedio di Gerusalemme del 1099, da un’edizione della Historia di Guglielmo di Tiro. XIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

MEDIOEVO

maggio

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Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

ITALIANI ALLE

CROCIATE Guerra, fede e affari nel Levante mediterraneo

GLI ARGOMENTI

€ 7,90

IN EDICOLA IL 30 APRILE 2019

Il contributo degli Italiani alle crociate costituisce dunque una vicenda complessa, che nel Dossier viene dipanata e analizzata in maniera minuziosa, ricostruendone le molteplici trame e tracciando il profilo di tutti i suoi protagonisti principali. Senza dimenticare la folla di anonimi mastri d’ascia che assicurarono i beni forse piú preziosi per le armate cristiane, vale a dire le navi. Furono soprattutto veneziani, genovesi e pisani i legni, grandi e piccoli, che solcarono il Mediterraneo per puntare sul Levante e partecipare a battaglie e assedi.

GLI

GLI ITALIANI ALLE CROCIATE

Nel tempo, a rendere peculiare la partecipazione italiana alle spedizioni crociate fu semmai il carattere non sempre nobilissmo delle imprese di volta in volta patrocinate: soprattutto le grandi potenze marinare – Genova, Pisa e Venezia – intuirono infatti le formidabili ricadute economiche delle «guerre sante», fatte di spartizione di terre, controllo delle rotte commerciali, quando non di veri e propri saccheggi, come accadde nel 1204 a Costantinopoli. Dove peraltro la Serenissima scrisse una delle pagine meno lusinghiere della sua storia, che oggi si tende a dimenticare, abbagliati dai tesori che dal Bosforo furono portati sulla laguna.

VO MEDIO E Dossier

N°32 Maggio/Giugno 2019 Rivista Bimestrale

ome scrive Antonio Musarra, che firma questo nuovo Dossier di «Medioevo», la storia delle crociate è stata e viene vista da molti come una questione prettamente franco-anglo-tedesca. In realtà, il fatidico appello lanciato da papa Urbano II a Clermont nel 1095 venne ascoltato anche in Italia e furono in molti ad accoglierlo, ingrossando le fila delle schiere di miltes Christi che partirono alla volta della Terra Santa, per portare aiuto ai cristiani d’Oriente, minacciati dall’avanzata turca, e liberare il Santo Sepolcro.

MEDIOEVO DOSSIER

C

CR SPE OC CIA IA LE TE

GUERRA, FEDE E AFFARI NEL LEVANTE MEDITERRANEO

16/04/19 12:44

• MILITES CHRISTI • LE CITTÀ MARINARE IN TERRA SANTA • LA CROCIATA DI FEDERICO II • IL VOTO DI LUIGI IX IL SANTO • LA CRISI DEL REGNO LATINO • DOPO LE CROCIATE

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AGENDA DEL MESE

Mostre FIRENZE NUOVE ACQUISIZIONI 2016-2018 Galleria dell’Accademia fino al 5 maggio

Il programma per l’anno 2019 della Galleria dell’Accademia di Firenze ha come fil rouge la tutela del patrimonio culturale e «Nuove Acquisizioni 20162018» ne costituisce la prima, significativa testimonianza. La mostra riunisce capolavori che, in maniere diverse, sono giunti ad arricchire le collezioni

permanenti: alcune sono state acquistate sul mercato antiquario, altre sono pervenute grazie a generose donazioni, altre da confische in seguito all’esportazione illecita a opera del Nucleo Patrimonio dei Carabinieri, altre, infine, sono giunte in Galleria dai depositi della Certosa di Firenze. Le tavole acquisite nel 2017 con i fondi ordinari della Galleria dell’Accademia sono due raffinati sportelli provenienti da un tabernacolo, disperso, di Mariotto di Nardo, pittore

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a cura di Stefano Mammini

fiorentino di cui si hanno notizie dal 1394 al 1424. I pannelli frammentati sono stati comprati da due diversi proprietari e ricomposti dopo l’acquisto. Impreziosito da raffinate decorazioni in pastiglia dorata che racchiudono le figure dei santi, il tabernacolo è sicuramente frutto di una committenza prestigiosa ed è stato eseguito da Mariotto di Nardo intorno al 1420. I pannelli, che in origine erano certamente di dimensioni maggiori, includevano molto probabilmente altre due coppie di santi, purtroppo perdute o fino a oggi non ritrovate. I quattro frammenti oggi ricomposti si trovavano, alla fine dell’Ottocento, esposti in sale diverse della raccolta Corsini, nell’omonimo palazzo fiorentino in riva all’Arno. Ben quattro opere sono giunte nel 2016 al Museo da un deposito situato presso la Certosa di Firenze. Si tratta di una Incoronazione della Vergine e angeli di Mariotto di Nardo; di una Santissima Trinità del Maestro del 1419; di una Madonna col Bambino in trono fra angeli del Maestro del 1416 e di una Madonna col Bambino e santi di Bicci di Lorenzo. A causa di una cattiva condizione di conservazione, l’Incoronazione di Mariotto di Nardo e la Santissima Trinità del Maestro del 1419 sono stati recuperati nei loro valori pittorici da un accurato lavoro di restauro. Due strepitose opere come I due santi di Niccolò di Pietro Gerini, in origine scomparto destro di un trittico disperso, e la Madonna dell’Umiltà del raro Maestro della Cappella Bracciolini, sono state assegnate alla Galleria dopo il brillante recupero da parte del Reparto Operativo dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio

Culturale di Roma. info tel. 055 0987100; www.galleriaaccademiafirenze. beniculturali.it ALESSANDRIA ALESSANDRIA SCOLPITA. 1450-1535. SENTIMENTI E PASSIONI FRA GOTICO E RINASCIMENTO Palazzo del Monferrato fino al 5 maggio

Nata da un attento studio sul patrimonio storico-artistico del Piemonte alessandrino e maturata dopo anni di ricerca sul campo, la rassegna invita a riconsiderare la fisionomia di Alessandria negli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento. Una periodizzazione che coincide con i decenni di effettivo dominio sforzesco sulla città e con la sua ascesa quale fulcro territoriale e originale snodo culturale di un’area di cerniera tra realtà diverse: Milano e Pavia da un

lato e Genova dall’altro. I frammenti figurativi superstiti restituiscono infatti la posizione sorprendente e policentrica di Alessandria nel grande rinnovamento figurativo dell’epoca e l’immagine di una cultura artistica che, ricca di accenti propositivi, elabora modelli propri, specie nel vastissimo campo dei crocifissi. Ognuna delle tre ampie sezioni dell’esposizione è idealmente collegata a un gruppo del Compianto sul corpo di Cristo. La prima parte è incentrata su quello proveniente dal Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo a Roma, la seconda su quello dell’oratorio della Pietà a Castellazzo Bormida (Alessandria) e la terza su quello dell’oratorio dei Bianchi a Serravalle Scrivia (Alessandria). Ciascun manufatto rappresenta l’ideale manifesto di tre generazioni di artisti piemontesi, che

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testimoniano i paradigmi di altrettante diverse maniere di intendere la forma. info tel. 0131 313400; e-mail: info@palazzomonferrato.it; www.palazzomonferrato.it PARIGI LA FESTA NEL MEDIOEVO Tour Jean sans Peur fino al 5 maggio

Gli spazi espositivi della torre parigina che porta il nome di Giovanni senza Paura ospitano una rassegna dedicata alla festa, tema di grande interesse anche per i molteplici risvolti di carattere sociale. Si parte

da un dato eloquente: nei secoli dell’età di Mezzo un giorno su tre era festivo, vuoi perché dedicato a solennità religiose, vuoi perché scelto per celebrare ricorrenze personali, collettive o politiche, in occasione delle quali si allestivano giostre, tornei e banchetti. Questa sorta di viaggio nello svago si apre con i grandi appuntamenti devozionali del Natale e della Pasqua, con il loro vasto e articolato corollario di riti e consuetudini. Seguono quindi gli appuntamenti con i santi patroni e le tappe che scandivano la vita di uomini e

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MOSTRE • Il Rinascimento parla ebraico Ferrara - MEIS, Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah

fino al 15 settembre info e prenotazioni call center: tel. 848 082380, da cellulare e dall’estero: tel. +39 06 39967138 (attivi tutti i giorni 9,00-18,00); e-mail: meis@coopculture.it, prenotazioni@coopculture.it; www.meisweb.it

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ema dell’esposizione è uno dei periodi cruciali della storia culturale della Penisola, decisivo per la formazione dell’identità italiana, svelandoci un aspetto del tutto originale, quale la presenza degli Ebrei e il fecondo dialogo culturale con la cultura cristiana di maggioranza. Nel Rinascimento gli Ebrei c’erano ed erano in prima fila, attivi e intraprendenti: a Firenze, Ferrara, Mantova, Venezia, Genova, Pisa, Napoli, Palermo e, ovviamente, Roma. A periodi alterni accolti e ben visti, con un ruolo non secondario di prestatori, medici, mercanti, oppure oggetto di pregiudizio. Interpreti di una stagione che racchiude in sé esperienze multiple, incontri, scontri, momenti armonici e brusche cesure. Il MEIS racconta per la prima volta questo ricco e complesso confronto. Ricostruire tale intreccio di reciproche sperimentazioni significa riconoscere il debito della cultura italiana verso l’ebraismo ed esplorare i presupposti ebraici della civiltà rinascimentale. E significa ammettere che questa compenetrazione non è sempre stata sinonimo di armonia, né di accettazione priva di traumi, ma ha comportato intolleranza, contraddizioni, esclusione sociale e violenza ai danni del gruppo ebraico, impegnato nella difficile difesa della propria specificità. Della ricca selezione di opere scelte per la mostra fanno parte dipinti come la Sacra famiglia e famiglia del Battista (1504-06) di Andrea Mantegna, la Nascita della Vergine (1502-07) di Vittore Carpaccio e la Disputa di Gesú con i dottori del Tempio (1519-25) di Ludovico Mazzolino, Elia e Eliseo del Sassetta, dove spuntano a sorpresa scritte in ebraico. Si possono inoltre ammirare manoscritti miniati ebraici, di foggia e ricchezza rinascimentale, come la Guida dei perplessi di Maimonide (1349), acquistato dallo Stato italiano meno di un anno fa. O l’Arca Santa lignea piú antica d’Italia, mai rientrata prima da Parigi, o il Rotolo della Torah di Biella, un’antichissima pergamena della Bibbia ebraica, tuttora usata nella liturgia sinagogale.

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AGENDA DEL MESE donne: battesimo, prima comunione, cresima, matrimonio e, infine, funerale. Ma, come detto, c’è spazio anche per il profano e dunque per mascherate, charivari, feste campestri… Un’atmosfera rutilante di suoni, voci, colori, sapientemente evocati nel percorso della mostra. info www.tourjeansanspeur.com TORINO LEONARDO DA VINCI. TESORI NASCOSTI Palazzo Cavour fino al 12 maggio

In occasione delle celebrazioni del cinquecentenario dalla scomparsa di Leonardo da Vinci, promosse a livello mondiale, il Palazzo Cavour di Torino propone una rassegna che offre l’opportunità di ammirare e comprendere in una visione d’insieme la straordinaria complessità del genio nella pittura del suo tempo. L’uomo e lo scienziato,

anello di congiunzione tra il mondo dell’arte e il mondo della tecnica, viene presentato e descritto tramite le opere dei suoi allievi e non solo. Nello specifico si intende ragionare, con elementi nuovi e avvincenti, sulla posizione storica di alcuni frammenti di vita di Leonardo e dei rapporti artistici intercorsi con i suoi piú fidati allievi e seguaci: il nastro che unisce la dialettica figurativa del maestro a tali diretti discendenti, è calcolato

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sulla base delle suggestioni e delle riflessioni che la cultura del tempo ha recepito dal leggendario e innovativo genere di proporre argomenti umanistici, scientifici e figurativi, sino a quel momento ignoti. La mostra di Torino riporta al grande pubblico, fra le altre, la visione di un’opera di straordinaria rilevanza: la Maddalena discinta, che il compianto decano degli studi vinciani, Carlo Pedretti, aveva già assegnato alla collaborazione tra Leonardo e il capace allievo Giampietrino. info tel. 011 19214730; e-mail: info@nextexhibition.it; https://mostradavinci.it/ MILANO ANTONELLO DA MESSINA. DENTRO LA PITTURA Palazzo Reale fino al 2 giugno

Poche, purtroppo, sono le opere superstiti di Antonello da Messina (1430-1479), scampate a tragici avvenimenti naturali come alluvioni, terremoti, maremoti e all’incuria e ignoranza degli uomini; quelle rimaste sono disperse in varie raccolte e musei fra Tirreno e Adriatico, oltre la Manica, al di là dell’Atlantico; molte hanno subito in piú occasioni pesanti restauri che hanno alterato per sempre la stesura originaria, altre sono arrivate sino a noi miracolosamente intatte. Oltre la metà delle 35 che ne conta la sua autografia giungono ora a Milano, in una mostra che costituisce perciò una occasione imperdibile per entrare nel mondo di un artista eccelso e inconfondibile, considerato il piú grande ritrattista del Quattrocento. Si potranno dunque ammirare, fra gli altri, il Sant’Agostino (1472-1473), il San Girolamo (1472-1473)

e il San Gregorio Magno (1470-1475), forse appartenenti al Polittico dei Dottori della Chiesa, tutti provenienti da Palazzo Abatellis di Palermo; ma anche il celeberrimo Ritratto d’uomo (1465-1476) dall’enigmatico sorriso proveniente dalla Fondazione Culturale Mandralisca di Cefalú, utilizzato originariamente come sportello di un mobiletto da farmacia, oggetto di vari restauri e conosciuto nella tradizione locale come «ignoto marinaio». E poi, dalla National Gallery di Londra, il San Girolamo nello studio (1474-1475) in cui si armonizzano ispirazioni classiche e dettagli fiamminghi e il Cristo benedicente (1474 circa). O, ancora il Ritratto d’uomo (Michele Vianello?) (1475-1476) dalla Galleria Borghese di Roma e il poetico Cristo in pietà sorretto da tre angeli (1474-1476 circa) dal Museo Correr di Venezia. info www.palazzorealemilano.it

VERCELLI LA MAGNA CHARTA: GUALA BICCHIERI E IL SUO LASCITO. L’EUROPA A VERCELLI NEL DUECENTO Arca, ex chiesa di San Marco fino al 9 giugno

A 800 anni dalla fondazione dell’abbazia di S. Andrea, Vercelli espone per la prima


volta in Italia il manoscritto della Magna Charta Libertatum, nella sua redazione del 1217, che proviene dal Capitolo della cattedrale di Hereford nel Regno Unito. Si rende cosí omaggio al cardinale Guala Bicchieri che, con la posa della prima pietra alla data convenzionale del 19 febbraio 1219, avviò la costruzione dell’abbazia. La figura del prelato è però legata soprattutto alla vicenda della Magna Charta Libertatum, documento scritto in latino che il re d’Inghilterra Giovanni Senzaterra fu costretto a concedere ai baroni del Regno, suoi diretti feudatari, presso Runnymede, il 15 giugno 1215. Per la prima volta nella storia un testo di natura giuridica elenca i diritti fondamentali del popolo (o di una parte del popolo) e riconosce che nessuno, sovrano compreso, è al di sopra della legge e che chiunque ha diritto a un processo equo. Guala Bicchieri, legato pontificio

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presso la corte inglese e tutore del giovane re inglese Enrico III fece da «supervisore» al documento ponendo il proprio sigillo sia nella versione revisionata del 1216, sia nella riconferma della carta qui esposta, redatta nel 1217. info e-mail: info@ santandreavercelli.com; http://santandreavercelli.com NEW YORK LA STORIA DI GENJI: UN CLASSICO GIAPPONESE ILLUSTRATO The Metropolitan Museum of Art fino al 16 giugno

A cavallo dell’anno Mille, quando la capitale dell’impero giapponese era Heian (l’odierna Kyoto), Murasaki Shikibu, nata nella

potente famiglia dei Fujiwara, divenne dama di corte di Fujiwara no Akiko, imperatrice e mecenate. Da quell’esperienza la donna trasse ispirazione per comporre il Genji Monogatari (La storia di Genji), opera narrativa che viene considerata come il primo romanzo realistico della letteratura giapponese. Suddivisa in 54 capitoli, la storia narra la vita di Genji, il principe «splendente», dando conto delle sue innumerevoli avventure amorose e, dopo la sua morte, passa a descrivere le vicende dei suoi discendenti, introducendo personaggi femminili che si sono affermati come altrettante icone della letteratura giapponese. Ma, soprattutto, il romanzo è un grande quadro della società aristocratica del periodo Heian, descritta dall’autrice in tutto il suo splendore raffinato, ma anche nel dramma intimo dei suoi protagonisti, sentito come una concatenazione di fatalità ineluttabili. Nel tempo, il Genji Monogatari ha goduto di una straordinaria fortuna, della quale è ora testimonianza la mostra proposta dal Metropolitan Museum of Art, che, grazie a una selezione di oltre 100 opere, offre un saggio eloquente della copiosa produzione artistica ispirata dal romanzo nell’arco di circa mille anni. Articolata in otto sezioni tematiche, la rassegna spazia dai dipinti alle calligrafie, dai manufatti in seta alle lacche, fino a comprendere una preziosa portantina nuziale – realizzata per la consorte di uno shogun –, stampe e moderni manga. info www.metmuseum.org

ROMA LEONARDO DA VINCI. LA SCIENZA PRIMA DELLA SCIENZA Scuderie del Quirinale fino al 30 giugno

Realizzata dalle Scuderie del Quirinale insieme al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano e alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, la mostra propone un percorso conoscitivo alla scoperta di Leonardo all’interno della fitta trama di relazioni culturali e del fermento artistico che hanno caratterizzato il periodo tra Quattro e Cinquecento. L’esposizione indaga l’opera vinciana secondo le piú aggiornate linee guida museologiche e museografiche nelle declinazioni legate alla storia dell’ingegneria, del pensiero, della cultura scientifico-tecnologica, andando dalla formazione toscana al soggiorno milanese per arrivare al tardo periodo romano. Spicca, nel percorso espositivo, la presenza di dieci disegni tra i piú noti del Codice Atlantico e dei portelli originali della chiusa del Naviglio di San Marco, rimasti in uso fino al 1929. A corredo degli originali leonardeschi una ricca selezione di modelli storici del Museo della Scienza e della Tecnologia, tra i quali grandi esemplari non esposti

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AGENDA DEL MESE da decenni, manufatti di notevole importanza e impatto scenografico, alcuni dei quali restaurati negli ultimi anni. info www.scuderiequirinale.it ROMA FILIPPO RUSUTI E LA MADONNA DI SAN LUCA IN SANTA MARIA DEL POPOLO Castel Sant’Angelo, Sala della Biblioteca fino al 30 giugno

Protagonista dell’esposizione è l’icona Madonna con il Bambino, proveniente dalla chiesa di S. Maria del Popolo a Roma, il cui recente restauro ne ha permesso l’attribuzione all’artista duecentesco Filippo Rusuti. L’opera, finora tradizionalmente attribuita all’evangelista Luca e per questo nota come Madonna di San Luca, è una delle immagini piú venerate della storia della città di Roma, come attestano vuoi la fama di «immagine miracolosa» vuoi gli

atti ufficiali della storia della Chiesa. La tavola (nello specifico una tela impannata su tre assi in legno di noce) mostra un’immagine di derivazione bizantina – la Vergine è ritratta di fronte, tiene in braccio il Bambino rigidamente eretto, completamente vestito e benedicente – e propone i tratti dell’iconografia tradizionale dell’Odigitria, «colei che mostra la via», cioè Cristo, arricchita però di un diverso pathos, quello dell’affettuosità familiare: la Madre volge il capo verso il figlio, indirizzandogli uno sguardo pieno di tenerezza. Il Figlio poggia la mano sinistra su quella della Madre, confermando il suo attaccamento. L’opera si discosta dall’inanimata astrazione delle figure, tipica dell’iconografia dell’epoca, e mostra nella gestualità e nella vivacità cromatica quel

carattere d’intimità che sollecita l’empatia del fruitore. L’ultimo e accurato restauro ha portato alla luce parti di firma che si è potuta riconoscere come quella di Filippo Rusuti che firmò, verosimilmente entro il 1297, il monumentale mosaico che ancora orna, in parte nascosto dal loggiato settecentesco, la fascia superiore della facciata della basilica di S. Maria Maggiore. info tel. 06 32810410; www.art-city.it TREVISO GIAPPONE. TERRA DI GEISHA E SAMURAI Casa dei Carraresi fino al 30 giugno

FIRENZE VERROCCHIO, IL MAESTRO DI LEONARDO Palazzo Strozzi, con una sezione speciale al Museo Nazionale del Bargello fino al 14 luglio

Paraventi, dipinti, fotografie, armature e oggetti databili tra il 1300 e il 1900 raccontano l’arte, la cultura e i costumi del Giappone antico attraverso le opere raccolte in alcuni decenni dal collezionista trevigiano Valter Guarnieri. Lo straordinario rapporto dei Giapponesi con la natura e l’alternarsi delle stagioni, la determinazione assoluta dei samurai e la grazia sopraffina della geisha: sono questi alcuni degli argomenti piú importanti trattati nelle sale di Casa dei Carraresi.

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Il percorso si sviluppa per isole tematiche, approfondendo da un lato i molteplici aspetti relativi ai costumi e alle attività tradizionali del popolo giapponese, dall’altro proponendo approfondimenti sulle peculiarità e sulla storia della collezione. Da segnalare, a coronamento del percorso espositivo, la sezione riservata a una delle forme d’arte piú complesse e insieme piú affascinanti del Giappone, la scrittura, documentata da grandi paraventi ornati di potenti calligrafie. info tel. 0422 513150; e-mail: mostre@artikaeventi.com; www.casadeicarraresi.it

Dedicata a un artista emblematico del Rinascimento e prototipo del genio universale, la mostra riunisce capolavori di Verrocchio, a confronto serrato con opere capitali di precursori, artisti a lui contemporanei e discepoli, come Desiderio da Settignano, Domenico del Ghirlandaio, Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Bartolomeo della Gatta, Lorenzo di Credi e Leonardo da Vinci. Verrocchio sperimentò nella sua bottega tecniche e materiali diversi, dal disegno alla scultura in marmo, dalla pittura alla fusione in bronzo. Egli formò un’intera generazione di maestri, con i quali ha sviluppato e condiviso generosamente il proprio sapere. Nella storia dell’arte solo Giotto, Donatello e Raffaello hanno dato origine a maggio

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una «scuola» paragonabile a quella di Verrocchio. Tramite il suo insegnamento si formarono artisti che hanno diffuso in tutta Italia, e fuori, il gusto e il linguaggio figurativo fiorentino, come testimoniano opere quali il David in prestito dal Museo Nazionale del Bargello, uno dei simboli assoluti dell’arte del Rinascimento e della città di Firenze stessa, e il Putto col delfino, in prestito dal Museo di Palazzo Vecchio, opera capitale e modello di naturalezza. Alla scultura si affiancano dipinti supremi come la Madonna col Bambino della Gemäldegalerie di Berlino o la Madonna col Bambino e angeli e l’Arcangelo Raffaele e Tobiolo della National Gallery di Londra: capolavori presentati insieme per la prima volta, che attestano lo straordinario talento di Verrocchio nel campo della pittura, in cui diviene punto di riferimento per i suoi celebri allievi. La mostra, inoltre, collega idealmente Palazzo Strozzi col Museo del Bargello: luoghi espositivi distinti, ma

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complementari, di un percorso articolato in undici sezioni, di cui nove a Palazzo Strozzi e due al Museo del Bargello, dedicate al tema dell’immagine di Cristo, dove sarà esposta l’Incredulità di san Tommaso, capolavoro bronzeo di Verrocchio. info tel. 055 2645155; www.palazzostrozzi.org TORINO MICHELANGELO. DISEGNI DA CASA BUONARROTI Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli fino al 21 luglio

Con questa mostra, la Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, che offre in esposizione permanente negli spazi progettati da Renzo Piano venticinque capolavori appartenuti all’avvocato Giovanni e a sua moglie Marella, prosegue la propria ricerca sul panorama collezionistico nazionale e internazionale, incontrando in Casa Buonarroti un’altra straordinaria esperienza di raccolta familiare resa disponibile alla fruizione pubblica. Il

percorso espositivo propone accostamenti che restituiscono ai visitatori il senso del dialogo tra anatomia e architettura, essenziale nell’opera di Michelangelo, dando nel contempo modo di scoprire momenti della genesi degli affreschi della volta della Cappella Sistina. In primo piano vi sono gli studi dedicati all’anatomia, potente espressione di un’analisi meticolosa e appassionata del corpo umano. Accanto a essi due fogli preparatori degli affreschi della volta della Cappella Sistina, testimonianze eccezionali

dell’ideazione dell’Adamo della Cacciata dal Paradiso Terrestre e di un particolare degli Ignudi. A confronto con questo nucleo, quattro splendidi disegni di studi per la facciata di S. Lorenzo e per il vestibolo della Biblioteca Laurenziana. info tel. 011 0062713; www.pinacoteca-agnelli.it PARIGI TESSUTI LITURGICI DI TRADIZIONE BIZANTINA DALLA ROMANIA Museo del Louvre fino al 29 luglio

Ruota intorno all’importante prestito dello Stendardo di

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AGENDA DEL MESE TORINO

San Giorgio la mostra nuova allestita nell’Ala Richelieu del Louvre, che mira a sottolineare l’eccezionale levatura delle collezioni rumene di tessuti ricamati di tradizione bizantina. Realizzato su commissione del re Stefano III il Grande (14571504) nel monastero di Zografou (uno dei complessi religiosi del Monte Athos), lo stendardo fu donato dalla Francia alla Romania nel 1917 e in questo suo ritorno temporaneo è affiancato da altre opere di grande pregio, tessute e ricamate fra il XV e il XVII secolo. Eredi dei modelli sviluppati a Bisanzio, i paramenti delle panoplie sacerdotali – destinate a vescovo, sacerdoti e diaconi – e quelli delle panoplie liturgiche – utilizzate durante le cerimonie – compongono un insieme unico al mondo, nel quale si coglie il passaggio dalle figure ieratiche tipicamente bizantine a una ritrattistica piú vicina al vero. info www.louvre.fr MATERA RINASCIMENTO VISTO DA SUD: MATERA, L’ITALIA MERIDIONALE E IL MEDITERRANEO TRA ‘400 E ‘500 Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna della Basilicata Palazzo Lanfranchi fino al 19 agosto

Il progetto espositivo intende ricostruire, attraverso un racconto visivo fatto di opere d’arte ma anche di oggetti e documenti storici, la fioritura artistica e culturale avvenuta nell’Italia meridionale nel secolo a cavallo tra la metà del Quattrocento e la metà del Cinquecento in relazione con il piú ampio contesto del Mediterraneo. La mostra, che prevede un approfondimento particolare su Matera e la Basilicata, è integrata e

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GOCCIA A GOCCIA DAL CIELO CADE LA VITA. ACQUA, ISLAM E ARTE MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre

Ma’, poche lettere in arabo. Comincia tutto da lí. E a partire dalle affermazioni del Corano e della letteratura successiva, l’esposizione illustra lo sviluppo storico dei tanti ruoli e significati ricoperti dall’acqua e l’incarnazione dei suoi significati nell’arte e nei manufatti islamici. Tra l’acqua e il mondo islamico esiste infatti un rapporto antico e intimo. Le ragioni climatiche lo spiegano solo in parte: vi è un’eredità antica di culture e civiltà precedenti, un senso religioso profondo e tante complesse ragioni sociali e culturali. L’acqua appartiene ai nostri sogni piú profondi: evoca la maternità, la pulizia, la purità, la sensualità, la nascita e la morte. Questo naturalmente vale per arricchita da speciali percorsi di conoscenza e valorizzazione delle opere d’arte tardogotiche e rinascimentali disseminate nel territorio regionale, inamovibili per tipologia o per dimensioni. In tali percorsi vengono considerati i principali affreschi locali del tempo, per esempio quelli di S. Donato a Ripacandida, quelli della chiesa rupestre di S. Barbara a Matera e quelli della Trinità di Miglionico, ma anche i grandi polittici come quello di Cima da Conegliano sempre a Miglionico, che testimonia, insieme alla straordinaria scultura raffigurante Sant’Eufemia del Duomo di Montepeloso oggi Irsina, l’attenzione locale alla cultura veneta; oppure le opere realizzate nei primi decenni del

Cinquecento da Giovanni Luce o Francesco da Tolentino a Pietrapertosa o, infine, i numerosi polittici eseguiti per i paesi lucani (Senise, San Chirico Raparo, Salandra, Stigliano etc), da Simone da Firenze, prolifico pittoreemigrante che nella Basilicata interna trovò una committenza pienamente soddisfatta del suo linguaggio «moderno», che guardava ai maestri toscani della fine del secolo precedente. I percorsi di valorizzazione territoriale coinvolgono anche la vicina Puglia, dove non si possono dimenticare, per esempio, gli affreschi della chiesa di S. Caterina a Galatina o quelli di S. Stefano a Soleto. info tel. 0835 256384; www.materaevents.it

ogni civiltà, ma nell’Islam tale serie di idee ha trovato un suo senso piú profondo, facendo dell’acqua uno dei cardini stessi dell’esistenza umana: un cardine tanto spirituale quanto sociale ed estetico. La mostra è una narrazione maggio

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attraverso immagini, reperti, libri e miniature: tecnologia, vita quotidiana e arte, che per secoli si sono rispecchiate nelle tante diverse fruizioni dell’acqua. info tel. 011 4436932; e-mail: mao@fondazionetorinomusei.it; www.maotorino.it LEIDA GIARDINI MEDIEVALI. PARADISI TERRENI A ORIENTE E A OCCIDENTE Rijksmuseum van Oudheden fino al 1° settembre

musicali. Un insieme di materiali che provano quanto i giardini fossero importanti per l’uomo medievale, non solo dal punto di vista pratico – perché in grado di produrre piante commestibili e medicamentose –, ma anche per il ristoro e lo svago. Ed è significativo ricordare come la parola paradiso derivi dal vocabolo antico persiano pairidaeza e come sia nel Corano che nella Bibbia il paradiso venga descritto come un giardino nel quale crescono piante sempreverdi, attarversato da placidi corsi d’acqua, e dove uomini e animali vivono in armonia. info www.rmo.nl TORINO NOTRE-DAME DE PARIS. SCULTURE GOTICHE DALLA GRANDE CATTEDRALE Palazzo Madama, Sala Stemmi fino al 30 settembre

Frutto di una collaborazione con il Musée de Cluny-Musée Grazie a una ricca selezione di reperti archeologici e opere d’arte il museo olandese offre un’immagine eloquente della ricchezza, dell’importanza e delle multiformi declinazioni dei giardini nell’Occidente cristiano e nel mondo islamico fra il 1200 e il 1600. Si possono ammirare tappeti, erbari, manoscritti miniati con immagini di giardini ideali e maioliche orientali decorate da motivi floreali. Non mancano poi utensili e attrezzature per l’allestimento degli spazi verdi, semi e piume, cappucci per i falconi utilizzati nella caccia, pedine del gioco degli scacchi, vasi da farmacia e strumenti

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national du Moyen Âge di Parigi, l’esposizione dà vita a quattro sculture gotiche provenienti dalla cattedrale di Notre-Dame de Paris. L’evento si configura come una mostra dossier dedicata al tema della scultura gotica francese nella prima metà del 1200 e, in particolare, al cantiere della cattedrale parigina. Dal portale dell’Incoronazione della Vergine sulla facciata occidentale proviene la Testa d’Angelo, mentre dal portale del braccio settentrionale del transetto provengono la Testa di Re mago, la Testa di uomo barbuto e la Testa di figura femminile, allegoria di una virtú teologale. Queste quattro opere, oltre a essere esempi di altissima qualità della scultura medievale europea, sono testimonianze di quel momento della civiltà gotica indicato dal celebre storico dell’arte Cesare Gnudi come «classicismo gotico» o «naturalismo gotico», che ebbe un forte influsso, alla fine del Duecento, anche sui protagonisti del Gotico in Italia: Giotto, Nicola Pisano, Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it

BASSANO DEL GRAPPA ALBRECHT DÜRER. LA COLLEZIONE REMONDINI Palazzo Sturm fino al 30 settembre

Finalmente restaurato in tutte le sue parti, Palazzo Sturm, propone per la prima volta in modo integrale, il tesoro grafico di Albrecht Dürer (1471-1528), patrimonio delle raccolte museali bassanesi. Un corpus di 214 incisioni che, per ampiezza e qualità, è classificato, con quello conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna, il piú importante e completo al mondo. Dürer inizia la sua carriera come incisore di legni (xilografie) nel 1496 e, dal 1512 al 1519, lavora per l’imperatore Massimiliano I, per il quale realizza l’Arco di trionfo e la Processione trionfale, quest’ultimo nelle collezione di Bassano del Grappa. Molto probabilmente passò per la città sul Brenta. Lo si vede nei paesaggi e nelle vedute di sfondo di opere come la Grande Fortuna. I temi trattati da Dürer sono mitologici, religiosi, popolari, naturalistici, ritratti, paesaggi e nelle collezioni bassanesi sono incluse le serie complete dell’Apocalisse, della Grande Passione, della Piccola Passione e della Vita di Maria. Per Massimiliano realizza

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AGENDA DEL MESE anche una delle sue incisioni piú popolari, il Rinoceronte, a ricordo dell’esotico animale che l’imperatore aveva destinato al papa, ma che non arrivò mai a Roma, vittima di un naufragio di fronte alle coste liguri. Intorno a quest’opera, Chiara Casarin propone un approfondimento che da un lato rievoca la vicenda e dall’altro percorre la fortuna dell’incisione nei secoli. info www.museibassano.it VINCI LEONARDO DA VINCI. ALLE ORIGINI DEL GENIO Museo Leonardiano fino al 15 ottobre

Il Museo Leonardiano di Vinci propone una rassegna incentrata sul legame biografico del maestro con la sua città natale e sulle suggestioni che la terra d’origine offrí al suo percorso di artista, tecnologo e scienziato. In quest’ottica, vengono presentati i documenti concessi in prestito dall’Archivio di Stato di Firenze, grazie ai quali è possibile ricostruire in maniera inequivocabile le primissime vicende della vita di Leonardo a Vinci, e il primo disegno conosciuto da lui realizzato, Paesaggio (inv. 8P)

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datato dall’artista 5 agosto 1473, concesso in prestito al Museo Leonardiano per le prime sei settimane dell’esposizione. Attorno a quest’opera giovanile, che costituisce una sorta di palinsesto di tutta la futura produzione di Leonardo, si dipana l’intero percorso espositivo. info www.museoleonardiano.it MILANO LEONARDO DA VINCI PARADE Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci fino al 31 ottobre

Per celebrare i cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci, il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia torna alle origini, esponendo le due collezioni con cui ha aperto al pubblico il 15 febbraio 1953. Una parata in cui 52 modelli leonardeschi e 29 affreschi di pittori lombardi del XVI secolo, provenienti dalla Pinacoteca di Brera, tornano a offrirsi all’ammirazione del pubblico. Si tratta di un percorso inedito per rimettere al centro l’unità della cultura con accostamenti insoliti di arte e scienza e che, peraltro, permette ai visitatori di continuare a godere della

collezione dei modelli storici leonardeschi durante il periodo in cui la storica Galleria Leonardo resta chiusa per importanti lavori edili, strutturali e impiantistici. «Leonardo da Vinci Parade» è la prima iniziativa realizzata in preparazione del programma «Milano e Leonardo» promosso dal Comitato Territoriale per la celebrazione dei 500 anni dalla morte di Leonardo. Milano è la città dove Leonardo operò piú a lungo in tutta la sua vita, circa vent’anni, esplorando molti campi del sapere. info tel. 02 485551; e-mail: info@museoscienza.it; www.museoscienza.org

disegni e nelle macchine da lui ideate. Visions è un contributo alla conoscenza della genialità e della tenacia con cui Leonardo affrontava le piú audaci sfide tecnologiche e artistiche. Sognato dell’uomo fin dai tempi piú antichi, il volo prende forma nei suoi studi e nelle macchine che ha disegnato. Leonardo si misura anche con l’idea di conferire il movimento a oggetti inanimati: il carro semovente e il leone meccanico sono eloquenti testimonianze dei risultati che egli raggiunse, dal potenziale fortemente innovativo. Infine, il progetto per la gigantesca statua equestre in bronzo in

SANSEPOLCRO LEONARDO DA VINCI: VISIONS Museo Civico di Sansepolcro fino al 24 febbraio 2020

Omaggio concepito in occasione del cinquecentesimo anniversario della morte del maestro, la mostra invita i visitatori a esplorare alcuni ambiziosi progetti di Leonardo, che ben illustrano la sua attitudine a cimentarsi con temi di inaudita complessità. Il volo, il conferire movimento a oggetti inanimati, il progetto della piú grande statua equestre mai realizzata: sogni che fanno parte della storia dell’umanità da tempi remoti e prendono forma nei suoi

memoria di Francesco Sforza costituisce un’ulteriore prova dell’eccezionale intelligenza con cui affrontava le sfide piú audaci. Video di approfondimento e animazioni 3D realizzati dal Museo Galileo di Firenze fanno da corredo al percorso espositivo consentendo sia di approfondire i temi affrontati che di comprendere i principi che governano il funzionamento delle macchine esposte. info tel 199 15 11 21 oppure 0575 732218; www.museocivicosansepolcro.it maggio

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Appuntamenti maggio, ad Amboise, e la nascita di Cosimo I de’ Medici, il 12 giugno, a Firenze. I due anniversari sono stati scelti come spunto per il consueto ciclo d’incontri all’Antica Canonica di San Giovanni. Per Leonardo le letture privilegiano i pensieri (vale a dire le trame e i contenuti illustrati), mentre di Cosimo I viene commentato lo spessore intellettuale che informò il suo collezionismo archeologico. Questo il calendario dei prossimi appuntamenti:

PAGAZZANO (BG) PAGAZZANO LONGOBARDA 4-5 maggio

Il 4 e 5 maggio Pagazzano torna longobarda. Il magnifico castello visconteo della cittadina lombarda ospiterà infatti «Pagazzano Longobarda», evento storico-rievocativo che accenderà i riflettori sull’Alto Medioevo in terra bergamasca. Curata dalla medievista Elena Percivaldi in collaborazione con i gruppi storici Fortebraccio Veregrense e Bandum Freae, la due giorni proporrà un campo storico con attività didattiche, spettacoli e laboratori con particolare attenzione all’armamento, all’abbigliamento e ai vari aspetti della vita quotidiana nel VI-VIII secolo. L’evento sarà preceduto, il 26 aprile, da una

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maggio

giornata di approfondimento volta a valorizzare il patrimonio longobardo locale e in particolare il MAGO, Museo Archeologico delle Grandi Opere, che ospita i reperti emersi dai recenti scavi lungo l’autostrada Bre-Be-Mi. info www.castellodipagazzano.it, www.ilongobardi.jimdo.com FIRENZE UMANESIMO E «MANIERA MODERNA» Antica Canonica di S. Giovanni, Sala Brunelleschi fino al 21 maggio

Nel 2019 ricorrono due cinquecentenari importanti per altrettanti protagonisti (ancorché in ambiti distinti) della cultura fiorentina fra umanesimo e «maniera moderna»: la morte di Leonardo da Vinci, il 2

7 maggio, Fabrizio Paolucci, Sotto il segno dell’Antico: il collezionismo archeologico di Cosimo I; 21 maggio, Gianluca Garelli, L’umanesimo oltre l’umanesimo. Tutti gli incontri sono in programma a partire dalle ore 17,00 e l’ingresso è libero fino a esaurimento dei posti disponibili. info eventi@operaduomo.firenze.it; www. operaduomo.firenze.it

PISTOIA DIALOGHI SULL’UOMO X EDIZIONE 24-26 maggio

Tema della rassegna, che taglia il traguardo dei dieci anni, è «Il mestiere di convivere: intrecciare vite, storie e destini». Con-vivere significa «vivere con», vivere assieme nel rispetto dell’altro. Come e perché noi umani stiamo insieme? Come ci rapportiamo con gli altri esseri viventi e, piú in generale, con il mondo in cui ci è dato vivere, con gli animali e la natura? Proporre il tema convivenza significa evocare la questione dell’essere umano nella sua completezza e nell’accezione aristotelica di animale politico. Significa riflettere su come si forma il legame sociale e sul rapporto tra convivenza e conflitto, analizzare come altre società e altre epoche hanno organizzato e realizzato la convivenza. Significa inoltre parlare della famiglia, nucleo basilare della società, dei suoi modelli e della sua evoluzione. Con-vivere è un «mestiere», nel senso che la società è un ambito di costruzione, non un approdo naturale dell’essere umano. In una società ogni giorno piú segnata da un’accelerazione

generale, in cui i rapporti sono costantemente mediati dal digitale, diventa sempre piú difficile dialogare in modo profondo ed egualitario. info www.dialoghisulluomo.it

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protagonisti corradino di svevia

Corradino,

l’ultimo

di Federico Canaccini

mistero Quello tra Svevi e Angioini nei Piani Palatini fu uno scontro «tra nazioni»? E a quali esiti condusse la «memoria storica» di quel fatale evento? Ce ne parla Federico Canaccini, autore di un volume, appena pubblicato, dedicato alla battaglia di Tagliacozzo

I I

l 23 agosto del 1268, presso Scurcola Marsicana (L’Aquila), si combatteva la battaglia di Tagliacozzo, che decise la fine della casata degli Hohenstaufen e confermò il predominio angioino nel Mezzogiorno (vedi anche «Medioevo» n. 199, agosto 2013, anche on line su issuu.com). Federico II era morto nel 1250, suo figlio Corrado IV quattro anni piú tardi. Il figlio illegittimo dell’imperatore, Manfredi, ottenne qualche successo negli anni Sessanta del XIII secolo, per poi soccombere a Benevento (1266; vedi anche «Medioevo» n. 169, febbraio 2011, anche on line su issuu.com), travolto dalla cavalleria guelfo-angioina finanziata anche dalle casse pontificie. Due anni dopo, appunto a Tagliacozzo, anche l’ultimo degli Svevi, Corradino, finí i suoi giorni. Quello consumatosi fra Carlo d’Angiò e Corradino di Svevia è stato spesso letto come uno scontro fra «nazioni», nel senso moderno del termine: una battaglia franco-tedesca, insomma. Del resto, molti autori che si occuparono della vicenda dello sfortunato Hohenstaufen, decapitato a sedici anni a Napoli da Carlo d’Angiò, si accostarono alle vicende dello scontro svevo-angioino in tempi particolari, tra l’Otto e il Novecento, pregni di sentimenti patriottici e poi di nazionalismi. A leggere le fonti coeve, però, non rinveniamo molte (segue a p. 44)

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La sconfitta di Corradino, in una miniatura raffigurante lo Svevo e Carlo I d’Angiò nella battaglia di Tagliacozzo, dalle Chroniques de France (o de St Denis). 1332-1350 circa. Londra, British Library. Pochi mesi dopo la vittoria, il re angioino fece decapitare l’ultimo degli Hohenstaufen, eliminando cosí l’ultimo pretendente alla corona del regno di Sicilia.

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Passo della Cisa

protagonisti corradino di svevia Genova

Pontremoli

Varazze Pistoia

La discesa di Corradino di Svevia Miniatura raffigurante la battaglia di Tagliacozzo, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

ASCESA E CADUTA

Lucca

Firenze

Pisa Poggibonsi

Siena

Colle

1250 Muore Federico II 1252 Nasce Corrado V, detto «Corradino» 1254 Muore Corrado IV. Manfredi è re di Sicilia 1260 Battaglia di Montaperti. 1262 Prima curia di Corradino a Ulm 1265 Clemente IV invita Carlo I d’Angiò in qualità di re di Sicilia 1266 Manfredi è sconfitto e ucciso a Benevento 1268 Corradino viene scomunicato. Sceso in Italia, è sconfitto a Tagliacozzo da Carlo d’Angiò e decapitato a Napoli

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LA DISCENDENZA DI FEDERICO II Federico II = (1) Costanza d’Aragona († 1222) (2) lolanda (o Isabella) di Brienne († 1228) (3) Isabella d’Inghilterra († 1241)

Ponte a Valle

(1)

Enrico (VII) 1220-1242

Arezzo

(2)

Corrado IV re di Sicilia

1250

25 giugno 1268

Corradino

(3)

Margherita sposa Alberto langravio di Turingia

(3)

Enrico II (Carlotto)

1252-1268

Federico «de Stuffa» † 1323

Buonconvento discendenti illegittimi

(Bianca Lancia d’Agliano)

Bolsena

Manfredi † 1266

(?)

(Adelaide d’Urslingen)

(?)

(Maria/Matilda d’Antiochia)

Fedrico di Pettorano

Violante sposa Riccardo conte di Caserta

Enzo

† 1272

sposa Adelasia di Sardegna

Federico d’Antiochia sposa Margherita di Poli

Viterbo

TAGLIACOZZO 23 agosto 1268 12

Tivoli Roma

Sulle due pagine disegno che ricostruisce le tappe della discesa in Italia di Corradino di Svevia, nonché il suo tentativo di fuga, all’indomani della sconfitta patita a Tagliacozzo, conclusosi con la cattura ad Astura. Il percorso marittimo tratteggiato in verde si riferisce all’itinerario della flotta che il Comune di Pisa armò per sostenere lo Svevo e della quale affidò il comando al nobile Guido Bocci e al rappresentante del re, Federico Lancia.

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Astura


protagonisti corradino di svevia tracce di questo sentimento nazionale, per quanto primitivo, in relazione alla vicenda di Corradino e Carlo I. Ricordiamo per un istante la composizione delle truppe schierate ai Piani Palentini, che non erano certamente eserciti nazionali: sotto le bandiere dello Svevo combattevano Tedeschi, Romani, ghibellini toscani e lombardi, e gli Spagnoli di Enrico di Castiglia; agli ordini di Carlo d’Angiò, militavano invece Provenzali, guelfi italiani e mercenari francesi. Basti ricordare che gli abitanti della Provenza non erano considerati «francesi», in quanto legati piú alla cultura del Nord Italia e separati anche dalla barriera linguistica: e la storiografia ufficiosa della casa reale di Francia non esitava a definirli «barbari».

Sentimenti «protonazionali»

Tuttavia, scorrendo le Cronache relative alla battaglia, frammenti di un sentimento «protonazionale» si possono forse riscontrare. In primo luogo, le truppe francesi scelte, strette attorno a Carlo d’Angiò combattevano in nome di un sentimento religioso che li legava niente meno che a Carlo Magno. E al sovrano carolingio Carlo d’Angiò venne associato piú volte dai guelfi italiani, sulla base di antichi canti e documenti che gli attribuivano addirittura la legittimità al potere imperiale quale discendente del primo imperatore franco. Pur avendo ben chiare le distinzioni tra i vari grup-

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A sinistra e nella pagina accanto Pernes les Fontaines, Tour Ferrande. Due particolari del ciclo pittorico che narra la conquista della Sicilia da parte di Carlo I d’Angiò: il combattimento tra un cavaliere francese e Manfredi re di Sicilia (o la morte di Manfredi; qui accanto); l’incoronazione del sovrano angioino, che, in realtà, non fu consacrato re da papa Clemente IV, ma da cinque cardinali da lui incaricati. XIII sec.

pi degli eserciti schierati, il cronista Saba Malaspina († 1298), che nella sua opera, ultimata nel 1285, descrive la fine della prima fase della battaglia, non ha alcun dubbio: da un lato vi sono i Germani, dall’altro i Francesi, intendendo la riserva di Carlo d’Angiò. Similmente si comporta Giovanni Villani (1280 circa-1348), che distingue le origini dei vari plotoni, ricordando però che «i Tedeschi si credettono avere vinto», riferendosi ai soli Tedeschi i quali, precisa il cronista, «sono vaghi delle prede». Nel discorso che Saba immagina e attribuisce al sovrano angioino, ricorre spesso il termine «gallicus» e questo si ritrova in altre fonti, talvolta contrapposto a «germanicus» o «teutonicus»: persino in uno scambio di brevi motti attribuiti ai contendenti, le aquile germaniche avrebbero spennato i galli francesi, mentre le clavi galliche avrebbero spezzato le ali alle suddette aquile teutoniche. In Francia, nel tempo, le vicende legate a Corradino furono lette sempre piú spesso come una fonte di discordia tra i due popoli. Primat – monaco di Saint-Denis atti-

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vo nel XIII secolo al quale si deve la prima redazione delle Grandes Chroniques de France – chiama le truppe di Carlo «exercitus Francorum», e considera barbari gli Italiani e i Provenzali, i quali, senza i condottieri francesi, sarebbero incapaci persino di stare in ordine nei plotoni: gli unici degni di lodi sono i Franci o i Francigene. A darsi alla fuga, dopo l’impeto degli Svevi, non sono mai i Francesi, ma i Provenzali e gli Italiani: i pochi Francesi presenti, quali Jean de Clary, Guglielmo l’Estendard o Enrico di Cousance, combattono eroicamente, in qualche caso fino alla morte. Nell’arringare i suoi, Carlo ricorda il loro legame con la nobile stirpe dei Franchi, ancella prediletta della Chiesa dai tempi di Clodoveo e poi di Carlo Magno. Anche in Germania, dove le fonti coeve si occupavano di storia locale piú che di quella mediterranea, gli eventi legati alla vicenda di Corradino non ebbero sul momento una grande eco. Ma quando le ambizioni angioine iniziarono a minacciare i confini meridionali dell’Impero, la battaglia di Tagliacozzo fu letta, in maniera retrospettiva, come uno scontro franco-tedesco e Carlo d’Angiò venne dipinto come nemico acerrimo dei Tedeschi.

Un odio immotivato?

Ai tempi di Enrico VII, l’odio «tedesco» nei confronti dei «Francesi» angioini era ormai radicato e connesso anche all’episodio di Tagliacozzo. Lo attesta uno scrittore filo-angioino, quando, in uno scritto diretto a papa Cle-

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protagonisti corradino di svevia mente V, afferma che l’inimicizia dei Tedeschi per Carlo d’Angiò era totalmente immotivata, poiché il sovrano aveva combattuto un bellum iustum, in difesa della Chiesa di Roma. Durante la discesa di Enrico VII, questo sentimento era talmente esacerbato che i soldati ghibellini e tedeschi giurarono di ricalcare le orme di Corradino, raggiungere la Scurcola e distruggere l’abbazia di S. Maria della Vittoria, vendicando cosí la barbara uccisione del giovane Hohenstaufen. Da questo punto di vista, l’opera piú significativa è però il breve componimento scritto a caldo, l’anno seguente alla esecuzione di Corradino, dal notaio Pietro da Prezza, che compose una Invettiva contro Carlo d’Angiò per l’uccisione di Corradino di Svevia, dedicandola al vicecancelliere di Corrado IV, Enrico, langravio di Turingia e marchese della Misnia. Pietro esprime devozione, affetto e riconoscenza per il giovane Svevo e manifesta, invece, un odio viscerale contro l’Angioino, definito «secondo Ruffino e nuovo Catilina». L’autore conosceva bene la succitata vox populi che

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Nella pagina accanto Corradino di Svevia, in una miniatura del Codice Manesse, una collezione di ballate e componimenti poetici redatta a Zurigo tra il 1300 e il 1340. Heidelberg, Biblioteca dell’Università. Il giovane sovrano, che è incluso nella raccolta perché fu anche autore di due canzoni a tema amoroso, è ritratto mentre pratica la caccia con il falcone, uno «sport» molto in voga tra la nobiltà nel Medioevo. In basso miniatura raffigurante Corradino che riceve l’ordine di Clemente IV di non combattere contro Carlo I d’Angiò, da un’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana. Il giovane sovrano, seduto su uno scranno e privo di ogni insegna, riceve i due messi pontifici che gli consegnano la lettera con cui il papa gli ordina di desistere dal proposito di conquistare il regno di Sicilia, pena la scomunica.

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protagonisti corradino di svevia A sinistra Napoli, chiesa di S. Maria del Carmine. Il monumento di Corradino, realizzato da Peter Schöpf nel 1845, su disegno dell’artista danese Bertel Thorvaldsen.

univa l’Angioino a Carlo Magno, ma non aveva dubbi sulla sua infondatezza, quando elenca le sue origini e afferma che Carlo discende da Carlo Magno «non piú di quanto il cuculo discenda dall’aquila, o il topo dal leone»! Negando il legame con Carlo Magno si negava il legame angioino con l’impero, una prerogativa ormai tutta tedesca (benché Carlo Magno fosse franco!). Pietro da Prezza insiste invece sulla malvagità propria della casa di Francia: «Altri re della Francia si succedettero, uno dopo l’altro, proprio non diversamente dai lupi rapaci

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Miniatura raffigurante l’esecuzione di Corradino e dei suoi compagni, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

che avendo divorato la stirpe degli eccellenti leoni, hanno occupato il loro posto e rivendicato il diritto per sé di comandare sulla plebe delle fiere». L’attacco è ormai diretto contro la casa di Francia, accusata di decine di nefandezze: con la retorica tipica del tempo, il notaio esclama: «Perché dunque non ti vergogni, o Francia, indegna dei meriti e senza ragione disonorata, di servire tali tiranni!». E, dopo l’elenco dei parenti piú prossimi, Pietro si rivolge alle «nazioni»: «Quindi piangi con dolore o mesta Ger-

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mania, sua nutrice, privata di un carissimo figlio con grave danno, ma con piú grave vergogna! Piangi o Svevia angosciata, sua personale eredità, resa vedova in modo biasimevole dal tuo principe naturale. Piangi molto, oh Italia, poiché è caduto il tuo capo, nel quale speravi e pienamente respiravi. Piangi, oh misero regno di Sicilia, piangi poiché tra le tue stesse viscere hai visto il vero Signore per la tua redenzione». Tale sentimento rimase vivo e, in qualche misura, contribuí a quella secolare rivalità tra Francia e Ger(segue a p. 52)

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protagonisti corradino di svevia heinrich himmler

L’ossessione della purezza Il 7 ottobre del 1900, nasceva l’uomo destinato a diventare il braccio destro di Adolf Hitler: Heinrich Himmler, il secondo dei tre figli di Gebhard Himmler e di Anna Maria Heyder. Dopo essere stato addirittura il precettore personale del principe Enrico di Wittelsbach – un’antichissima famiglia, che aveva dominato il ducato di Baviera nel Basso Medioevo –, il padre fu un facoltoso insegnante di scuola superiore e si interessò personalmente per fornire una educazione di alto livello ai propri figli. Allo scoppio della prima guerra mondiale, il giovane Himmler, appena quattordicenne, ma infervorato di sentimenti nazionalistici, spinse i genitori a far leva su queste influenti figure per poter arruolarsi come ufficiale cadetto, ma senza successo. Himmler doveva essere appassionato di storia tedesca sin dall’infanzia, ma mescolò sempre fatti storici e mitologici: i Germani e la battaglia di Teutoburgo, Odino e Sigfrido, la razza ariana e l’impero germanico. Era un vero e proprio fanatico di Enrico I, detto l’Uccellatore (vedi box a p. 51), considerato primo re dei Tedeschi, e colui che aveva respinto i Boemi e i Magiari, ponendo le basi per la creazione del Sacro Romano Impero Germanico. Nel 1936, a Quedlinburg, durante le celebrazioni del millenario del sovrano, chiarí la missione delle SS in un discorso delirante, che associava le gesta di dieci secoli prima a quelle che la Germania nazionalsocialista stava

per intraprendere, trascinando l’Europa nell’abisso: «Noi dobbiamo onorare la sua memoria e farne in questo sacro luogo, in silenziosa meditazione, il nostro modello. Noi dobbiamo proporci e riproporci di fare nostre le sue stesse virtú umane e di comando, quelle con cui rese felice il nostro popolo un millennio fa. E dobbiamo infine convincerci che il miglior modo di onorarlo è di onorare l’uomo che mille anni dopo re Enrico ha ripreso la sua eredità umana e politica con una grandiosità senza precedenti: e quindi di servire il nostro Führer Adolf Hitler, per il bene della Germania e del Germanesimo, con i pensieri, le parole e i fatti, con l’antica fedeltà e nell’antico spirito». Ossessionato dall’occulto, il gerarca nazista riteneva addirittura di essere la reincarnazione di Enrico I e la sua adesione alla Società Thule (organizzazione nata nel 1910 come forza politica antirivoluzionaria e che fu una delle componenti all’origine del movimento nazionalsocialista, n.d.r.) lo allontanò progressivamente dalla religione cristiana, per avvicinarlo a un paganesimo germanico, di cui si faceva latore. In un discorso radiofonico trasmesso nel 1937 affermò che era appunto preferibile essere pagani che cristiani: «Molto meglio adorare le entità tangibilmente presenti in natura e quelle degli antenati che non una divinità invisibile e i suoi fasulli rappresentanti in terra, poiché un popolo che onora i propri antenati

e cerca di onorare se stesso darà sempre vita a nuovi figli e perciò vivrà in eterno». Questa sua «fede» nella Germania e nei predecessori, lo spinse ad appassionarsi ancor di piú alla storia del suo Paese, a esaltarne le gesta, a ricercare la purezza delle origini germaniche, e, naturalmente, a vendicare gli oltraggi subíti nel corso della storia. Un’antica leggenda voleva che, durante gli assalti degli Slavi dall’Est, nel corso delle cosiddette Seconde Invasioni (IX-X secolo), un solo castello fosse rimasto indenne dagli attacchi. Ossessionato da questo concetto di «purezza» della razza, delle forme, delle origini, nel 1934 Himmler fece battere a tappeto la Germania occidentale con lo scopo di scoprire quale fosse questo castello «non contaminato». Gli venne proposto il Wewelsburg, una fortezza in rovina presso una frazione della città di Büren, in Vestfalia, ricostruita in forma triangolare tra il 1603 e il 1609 dal principe di Paderborn e poi caduta nuovamente in rovina (vedi box a p. 53). Artefice della scelta e della successiva ristrutturazione fu Karl Maria Wiligut, un Austriaco schizoide e megalomane, piú volte ricoverato, fermo assertore della razza ariana, esoterista nonché membro e sedicente erede di una stirpe di mistici germanici in grado di entrare in contatto con gli antenati. Un personaggio sinistramente singolare, che arrivò perfino a cambiare il proprio nome in Weisthor, da weise, saggio, e Thor, nome del dio germanico del tuono.

Nella pagina accanto Merseburgo (Germania). Il monumento in onore di Enrico I l’Uccellatore, opera di Paul Juckoff, inaugurato nel 1933, in occasione del millenario della morte del sovrano.

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Enrico I l’Uccellatore

Il primo re dei Tedeschi Nato verso l’876, Enrico I era figlio del duca di Sassonia Ottone, detto l’Illustre. A 36 anni ereditò il titolo di duca dal padre (912) e fu designato come successore al trono di Germania da Corrado I. Alla morte di quest’ultimo, Enrico divenne re di Germania (919), e per questo è considerato il capostipite della dinastia regale sassone: rifiutò però di essere incoronato e consacrato. Appena insediatosi, dovette piegare i signori di Svevia e Baviera, che non lo avevano accolto favorevolmente, e poi

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riconquistò la Lotaringia, strappata dal re di Francia anni prima, sconfiggendo Carlo III, detto il Semplice (925). Alla fine del X secolo la Germania era preda delle incursioni di Slavi e Magiari, che penetravano in profondità, saccheggiando e devastando le città, i borghi e le campagne. Nel 929 sconfisse gli Slavi e, nel 933, si impose sui Magiari, con i quali stipulò una tregua e che, solo nel 955, suo figlio, Ottone I debellò in modo definitivo nella battaglia di Lechfeld. Alla luce di queste vittorie, ma

consapevole della continua minaccia da Est, Enrico I si diede a un’intensa opera di fortificazione dei castelli e delle abbazie, avviando la nascita della civiltà urbana in Germania. Dopo la vittoria sui Magiari intraprese una vittoriosa campagna contro il re danese Gnupa, che fu costretto ad abbandonare il paganesimo, convertirsi al cristianesimo e pagare un tributo annuo al regno di Germania. Nel 936 assicurò la successione al figlio maggiore del suo secondo matrimonio, il futuro Ottone I.

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protagonisti corradino di svevia

mania che, nel XX secolo, sfociò in due conflitti bellici, poi divenuti mondiali. Lo scrittore Heinrich Heine (1797-1856) ricordava di aver sentito, in una birreria a Gottinga, un giovane tedesco dichiarare che la Germania doveva vendicare la morte di Corradino, decapitato dai Francesi a Napoli, nonostante ciò fosse accaduto nel lontano 1268. Probabilmente i Francesi avevano dimenticato da tempo il macabro episodio, ma i Tedeschi, soggiunse, non dimenticano nulla.

Sulle tracce del giovane Svevo

L’espressione forse piú inquietante di quanto il legame della Germania con gli Svevi fosse rimasto vivido viene riassunta dalla vicenda del gerarca nazista Heinrich Himmler (vedi box a p. 50). Nel 1937, la famiglia Himmler si recò in Libia – constatando che «gli Arabi erano cosí piú puliti degli Ebrei» – e sulla via del ritorno si fer-

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mò in Italia per ricercare le tracce degli Hohenstaufen. Il 19 novembre 1937 gli Himmler si fermarono a Cosenza, presso un castello di Federico II, e, il 9 dicembre, visitarono «la tomba e il luogo dove Corradino, l’ultimo degli Hohenstaufen, era stato decapitato». I Tedeschi non avevano dunque dimenticato e, stando alle parole del generale Hermann Balck, di stanza in Italia nelle fasi finali della seconda guerra mondiale, nei giorni della battaglia di Salerno (settembre 1943), sarebbe giunto a Napoli un uomo mandato direttamente da Himmler con la missione specifica di riprendere i resti di Corradino. «Dal momento che questo tipo si mostrò inoffensivo, e non procurò particolari danni – si legge in Order in Chaos, l’autobiografia di Balck pubblicata nel 2017 –, gli fu dato il permesso di fare il suo lavoro e se ne ritornò in Svevia, con le ossa». maggio

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wewelsburg

Culla del fanatismo Intorno al Mille, al posto dell’attuale castello Wewelsburg, si ergeva la provvisoria fortezza di Wifilisburg. Solo piú tardi, intorno al 1123, il conte Friedrich von Arnsberg fece edificare la prima costruzione in pietra. Poi, per piú di un secolo, i documenti tacciono. Sappiamo che nel 1301 il conte di Waldeck consegnò il maniero al vescovo di Paderborn, il quale, a sua volta, cedette metà del feudo al nobile Berthold von Büren. Tra il 1604 e il 1607, il Wewelsburg acquistò l’aspetto che tuttora conserva, per diventare, sotto il regime di Hitler, il centro ideale del nuovo ordine nazista. All’inizio doveva accogliere una scuola per i dirigenti nazisti, un centro di studio della preistoria, della storia medievale e del folklore tedeschi. Nel progetto di Heinrich Himmler però, la fortezza sarebbe divenuta, dopo la «vittoria finale», il centro del nuovo mondo, e per questo era stato progettato un muro circolare del diametro di 1 km attorno al maniero. Nelle sale circolari della torre nord, si tenevano riunioni a sfondo magico. Il pavimento fu decorato con un simbolo legato ai culti pagani nordici, il cosiddetto «Sole Nero», e nella sala trovavano posto dodici scranni disposti a cerchio attorno a un tavolo: era la nuova Tavola Rotonda. Questi dodici cavalieri sarebbero stati il sèguito di Himmler durante riti sconosciuti praticati all’interno del castello. Benché si supponga che questi incontri avvenissero regolarmente, l’unica riunione documentata è del giugno 1941. A soli due giorni dall’arrivo degli alleati, Himmler diede l’ordine di distruggere la fortezza. Ordine che non fu mai eseguito. Stando dunque alle parole del generale nazista, ai piedi del monumento a Corradino di Svevia nella basilica napoletana di S. Maria del Carmine Maggiore, disegnato da Bertel Thorwaldsen, non ci sarebbero le spoglie del giovane sovrano. E se anche vi fossero resti umani, sarebbe necessaria, a questo punto, l’analisi del DNA, per confrontarli con quelli del nonno, Federico II, sepolto a Palermo. Non sarebbe da escludere, infatti, che nel trafugare le ossa, il misterioso emissario di Himmler, non abbia deposto altre ossa all’interno del sacello. Sul destino di questo sconosciuto, ripartito alla volta della Germania con «il nobile scopo» di seppellire in terra sacra, in terra tedesca, l’ultimo degli Hohenstaufen, mentre l’Italia era sconvolta dalla guerra, non sapremo probabilmente mai piú nulla. Nè, forse, dei resti mortali di Corradino. F

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Sulle due pagine una veduta esterna del Wewelsburg (Renania settentrionaleVestfalia) e il pavimento decorato con il motivo del «Sole Nero».

Da leggere Federico Canaccini è storico del Medioevo e da anni si occupa di storia comunale, con un’attenzione particolare per la fazione ghibellina. Ha insegnato storia medievale in Italia e all’estero, e si occupa anche di trascrizioni di fonti inedite. Agli argomenti affrontati in questo articolo ha dedicato il suo ultimo libro, 1268. La battaglia di Tagliacozzo, pubblicato per i tipi degli Editori Laterza (ISBN 978-88-581-3416-0).

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costume e società

Odino a Roma di Davide Iacono

Il pittore britannico Edward Burne-Jones (1833-1898) è stato uno tra i principali esponenti della corrente «preraffaellita». Dedicatosi, sotto l’influenza del grande William Morris, alla riscoperta della tradizione mitico-religiosa del Medioevo nordico, ne divenne un infervorato promotore. Non tutti sanno, però, che un’importante testimonianza di quel suo sogno romantico, puntellato dalla visione di un mondo onirico e fantastico, si trova proprio al centro della Capitale…

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Roma convivono, forse piú che in ogni altra città al mondo, architetture antiche, medievali, rinascimentali e barocche, fino alle piú recenti opere del razionalismo o delle archistar contemporanee. Tuttavia, c’è un lato meno conosciuto della Città Eterna, un po’ nascosto, ma altrettanto affascinante: quello neomedievale. Numerosi sono infatti gli edifici religiosi (non solo cristiano-cattolici) e civili costruiti secondo forme neogotiche, neoromaniche, neobizantine, o secondo un particolare stile ecclettico o troubadour, che fonde e mescola tutti questi vari stilemi. Basti soltanto pensare al visionario scrigno medievaleggiante che va sotto il nome di Quartiere Coppedè, un complesso di palazzine e villini situato fra la via Salaria e la Nomentana, che prende nome dal suo eclettico ideatore, l’architetto fiorentino Gino Coppedè (1866-1927). Una delle migliori testimonianze di come la medieval fever (febbre medievale) dei romantici abbia colpito Roma nell’Ottocento è srappresentata anche dalla chiesa di S. Paolo Entro le Mura, in via Nazionale. Insieme edificio neogotico ed espressione monumentale del medievalismo artistico dei preraffaelliti, essa costituisce un esempio eccezionale che non trova eguali neanche nel Regno Unito, che pure fu patria del Gothic taste (gusto gotico).

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Roma, chiesa di S. Paolo entro le Mura. Cristo in Trono nella Gerusalemme celeste (particolare), mosaico del catino absidale realizzato su disegno di Edward Burne-Jones. 1881-1907.

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costume e società Costruita in stile neogotico Roma. La chiesa di dall’architetto George Edmund StreS. Paolo entro le Mura, et tra il 1873 e il 1876, S. Paolo entro costruita in stile neogotico le Mura custodisce una delle piú belle su progetto dell’architetto opere decorative di ambito ecclesiaGeorge Edmund Street fra stico effettuate a Roma alla fine del il 1873 e il 1876. XIX secolo. Si tratta del ciclo musivo realizzato su disegno di sir Edward Burne-Jones (1833-1898), a cui l’artista, appartenente al gruppo inglese noto come Confraternita dei Preraffaelliti (vedi box a p. 64), dedicò gli ultimi anni di attività (1881-1898). Progettati nel 1881 e portati a compimento nel 1907 dall’allievo di Burne-Jones, Thomas M. Rook, i mosaici decorano il catino absidale con il tema di Cristo in trono nella Gerusalemme celeste e della Gerusalemme terrena, mentre i due arconi antistanti raffigurano, rispettivamente, l’Annunciazione e l’Albero della vita. Quest’ultimo, il «Tree of life», rappresentazione simbolica del Cristo crocefisso alla croce che è allo stesso tempo albero vivo (da cui i termini lignum vitae o arbor crucis) è l’argomento di un’indagine che si dipana tra sogno del Medioevo e rappresentazioni di un passato mitico. Ampiamente studiato, il tema del lignum vitae è caro sia all’iconografia che alla teologia medievale. BurneJones dimostra infatti di conoscere attentamente la simbologia e i temi legati alla tradizione iconografica cristiano-medievale. Attraverso lo studio delle miniature tratte dai manoscritti custoditi nelle biblioteche di storica dell’arte Fortunée De Lisle, alla tradizione reliOxford e del British Museum, la consultazione di testi giosa cristiana dell’albero della croce andrebbe a sommedievali in facsimile (come le didascaliche Bibbie dei marsi quella pagana e germanica. Nella figura del palpoveri) o i viaggi in Italia alla scoperta dei grandi maelido Cristo del Tree of Life – che non è il Christus patiens, stri, è possibile quindi che l’artista abbia attinto al tema sofferente, tipico delle rappresentazioni del XIII secolo dell’albero della vita. E non soltanto per la chiesa di S. – e in quell’albero – in cui la croce sembra totalmente Paolo, ma anche per le numerose vetrate istoriate che svanire tra i rami – si adombrerebbero allora il sacrificio realizzò per conto della Morris & Co. dell’amico, e predi Odino appeso al frassino cosmico e trafitto da una raffaellita anch’esso, William Morris. lancia; o il messianico dio Baldr, figlio di Odino, e alter Il mito del frassino cosmico ego del Cristo bianco degli Scandinavi. Oltre al tema insieme medievale e cristiano del lignum Suggestioni sincretistiche tra miti scandinavi e crivitae è possibile però affiancare un altro albero leggenstianesimo non costituivano una novità durante l’Otdario che potrebbe aver ispirato Burne-Jones nella reatocento ed erano oggetto di dibattito e indagine accalizzazione del Tree of Life. Si tratta di Yggdrasill, il frassidemica. Nel 1889, il filologo norvegese Sophus Bugge no cosmico della mitologia germanica. Secondo questa esaminò i due miti strettamente correlati riguardanti suggestiva interpretazione, sostenuta per esempio dalla Odino sulla forca e il frassino di Yggdrasill, descritti nel-

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Roma, chiesa di S. Paolo entro le Mura. A sinistra, L’albero della vita (Tree of life, particolare), un altro dei mosaici realizzati su disegno di Edward Burne-Jones messo a confronto con il bozzetto ad acquerello dell’opera (in basso), oggi conservato presso il Victoria & Albert Museum di Londra.

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costume e società l’Hávamál (Il discorso di Hár) e nella Völuspá (La profezia della veggente) – raccolte di carmi comprese nell’Edda poetica – sostenendo che entrambi sarebbero derivati da leggende anglosassoni medievali riguardanti la crocifissione di Cristo. Allo stesso modo, per Bugge, nel mito del dio Baldr trafitto da un rametto di vischio dal dio cieco Hödr, ingannato da Loki, dominava l’elemento cristiano. La saggezza e lo splendore di Baldr erano un riflesso di Cristo, che ricevette dagli Scandinavi l’appellativo di Hvítakristr, il «Cristo Bianco». Cosí Baldr diven-

In basso Albero della Croce, dipinto su tavola di Pacino di Buonaguida, dal convento delle Clarisse di Monticelli. 1310-1315. Firenze, Galleria dell’Accademia.

In alto raffigurazione dell’Yggdrasill, dall’Edda oblongata, frammento di manoscritto islandese cartaceo che illustra la mitologia norrena. 1680 circa. Reykjavík, Istituto Árni Magnússon.

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ne il dio paziente che soffre il sacrificio fatale e che alla fine risorgerà; Hödr il cieco viene associato a Longino (cieco come lui), che perfora con la lancia il fianco del Crocifisso; Loki, infine, come Lucifero, è incatenato e non sarà sciolto che all’ultimo giorno. La teoria di Bugge, che oggi risulta piuttosto grossolana, venne accolta all’epoca da seri studiosi e godette di notevole fortuna, fino a essere riproposta in uno studio inglese del 1991.

Gli eroi di Ásgardr

Teorie simili a quelle di Sophus Bugge circolavano già da tempo in particolare grazie a una vasta letteratura: la prima identificazione tra Baldr e Cristo risale al 1806, e compare nella tragedia Baldur hiin gode (Baldur il buono) del drammaturgo danese Adam Oehlenschläger. Ebbe vasta eco in Europa e nell’Inghilterra vittoriana la Frithiofs saga (1825) un retelling romantico della saga omonima in cui si fa riferimento a Cristo come «nuovo Baldr», di carnagione bianca e amorevole. Nel 1857 un racconto per bambini delle sorelle Annie ed Elizabeth Keary, The Heroes of Ásgardr (Gli eroi di Ásgardr) si concludeva con i piccoli protagonisti che apprendevano come l’albero di Natale fosse un ricordo dell’Yggdrasill. Risale al 1877 Balder the Beautiful: A Song of Divine Death (Balder il Bello: canzone per una morte divina) un lungo poema composto dallo scozzese Robert Buchanan, nel quale Baldr addirittura incontra il suo alter ego, il «Cristo bianco» («The white Christ»), e insieme discutono delle rispettive affinità. Nel 1878 il mito di Baldr giunse persino negli Stati Uniti, coinvolto anch’esso nel revival nordico, quando Julia Clinton Jones pubblicò, a San Francisco, Valhalla. L’autrice, che definiva l’opera una saga dedicata alla scoperta dell’America da parte dei Vichinghi, suggeriva anche una serie di analogie: Baldr anticipava Cristo, Loki invece Satana; il Ragnarök (nella mitologia nordica è lo scontro finale che vede contrapposti gli dèi ai giganti e ad altre forze del caos, n.d.r.) prefigurava l’Apocalisse cristiana; l’arcangelo Gabriele, che con la spada fiammeggiante sorveglia le porte del Paradiso, è al pari di Heimdallr, il guardiano di Ásgardr; la trinità degli Æsir (Odino,Víli, e Vé) corrispondeva a quella cristiana e, ovviamente, Yggdrasill all’Albero della vita. Thomas Carlyle, filosofo, germanista e grande medie-

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Edward Burne-Jones (a sinistra) e William Morris fotografati presso l’abitazione del primo, a Grange. 1874.

valist dell’età vittoriana, in On Heroes, Hero-Worship, and the Heroic in History (Gli eroi, il culto degli eroi e l’eroico nella storia, 1841), non mancava di suggerire come i primi missionari avessero trovato Cristo somigliante a Baldr «il dio bianco, radioso, giusto e benevolo». Probabilmente ispirato dalle evocative pagine di Carlyle, Burne-Jones stesso scrisse, nel 1856, il breve racconto A Story of the North (Una storia del Nord), ambientato, appunto, in un generico Nord Europa. Nel racconto, il cristianesimo prevale sul contesto pagano: nelle pagine finali della storia, quando alcuni personaggi che attendono il ritorno messianico di «Baldur the White God» scambiano un missionario che recava con sé una croce per il dio nordico.

Il Grande Nord

Tuttavia, la figura che forse piú di qualsiasi altra ha influenzato l’immaginario artistico di Burne-Jones fu William Morris stesso. Pioniere degli studi di filologia germanica – a lui si deve infatti la traduzione in inglese di numerose saghe islandesi – Morris fu uno dei grandi protagonisti dell’«invenzione» del «Medioevo del Grande Nord», come lo ha definito Tommaso di Carpegna Falconieri. Il fenomeno si colloca nel quadro di un piú vasto recupero dell’identità anglosassone, germanica e norrena che coinvolse le società dell’Europa settentrionale durante l’Ottocento e a cui è anche legato, negli stessi anni, il particolare revival vichingo negli Stati Uniti. Il rinvenimento di importanti manoscritti medievali, la nascita degli studi sulla filologia, sul folklore e l’archeologia germanica avevano, infatti, emancipato la cultura «germanica» dalla tradizione classica, attingendo al patrimonio mitico-religioso del Medioevo nordico. Alla riscoperta si accompagnò anche l’idealizzazione delle società norrene, viste come piú integrate e vitali rispetto a un presente industrializzato sempre meno innocente. Morris, socialista e anarchico, guardava per esempio al (presunto) egualitarismo delle società germaniche come a una via, per cosí dire, medievalista alle sue idee sul socialismo rivoluzionario. Nel 1883, all’apice della sua fama, Morris venne con(segue a p. 64)

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costume e società Vinland Estate

In basso placchetta in bronzo con scena di Crocifissione, dal monastero di Clonmacnoise (contea di Offaly, Irlanda). XI-XII sec. Dublino, National Museum of Ireland.

La passione di un’ereditiera La moda per l’architettura neomedievale si diffuse negli Stati Uniti, tra i magnati del dollaro, allo scopo di rivendicare un retaggio storico e culturale mai posseduto. Nel 1882, l’ereditiera del tabacco Catherine Lorillard Wolfe si fece costruire una dimora in stile neoromanico presso Newport, Rhode Island. Lorillard Wolfe ammirava in particolare il vecchio mulino di pietra nel centro di Newport, che si pensava prova dell’insediamento vichingo lungo le coste del Nord America. Nel 1841, il poeta americano Henry Wadsworth Longfellow scrisse un poema – The Skeleton in Armor – in cui faceva riferimento alla scoperta, presso l’Old Stone Mill di Newport, di uno scheletro vichingo in armatura dissotterrato nella vicinanze. Forte di queste suggestioni e in onore di questo (presunto) passato nordico, Lorillard Wolfe nominò il suo cottage «Vinland», ispirando cosí la dimora alla storia vichinga di quelle terre. A destra la residenza in stile neoromanico costruita nel 1882 per Catherine Lorillard Wolfe e che oggi ospita uffici e biblioteche della Salve Regina University di Newport.

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Disegno raffigurante Loki e Hödr che uccidono Baldr, dall’edizione dell’Edda di Snorri illustrata da Jakob Sigurdsson. 1764. Reykjavík, Istituto Árni Magnússon.

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costume e società tattato per realizzare alcune vetrate istoriate per una dimora in stile neoromanico costruita a Newport, Rhode Island, di proprietà dell’ereditiera del tabacco Catherine Lorillard Wolfe (vedi box a p. 62). Morris propose soggetti legati ai navigatori del Nord che per primi esplorarono quelle coste batezzandole «Vinland». A realizzare i cartoni preparatori fu lo stesso Burne-Jones. Sul primo registro campeggiavano Odino, Thor e Frey, mentre il registro sottostante raffigurava gli avventurieri del Vinland: Thorfinn Karlsefni, la moglie Gudridr e Leif il Fortunato, figlio di Erik il Rosso; infine, in un altro pannello, era rappresentata un’imbarcazione vichinga con, ai lati, una frase tratta dall’Edda poetica. L’incarico

Religioni a confronto

Un singolare avvicendamento Gli studiosi sono oggi largamente concordi nel considerare il sacrificio di Odino quale un antico tema legato all’iniziazione sciamanica, ma, allo stesso modo, è stata generalmente accettata l’idea che il cristianesimo abbia assimilato la cultura nordica per adeguare il suo messaggio all’immaginario religioso pagano, come dimostra la Pietra di Jelling (o Pietra di Aroldo Dente Azzurro), nello Jutland. In quella che è la sua piú antica raffigurazione a oggi nota in area scandinava

(risale infatti alla seconda metà del X secolo), il nuovo arrivato Gesú – raffigurato con le braccia aperte in forma di croce e impigliato in quelli che sembrano essere rami/ serpenti – pare adottare l’immagine di Odino appeso per nove notti all’Yggdrasill. La combinazione di iconografia cristiana e pagana ha portato a suggerire che sia stata utilizzata per rendere piú efficace il messaggio della conversione di Aroldo Dente Azzurro e indicare con piú forza che Cristo aveva sostituito il dio pagano nordico Odino.

i preraffaelliti

Quel «canone medievale»

Illustrazione raffigurante il dio Odino, da un’edizione dell’Hávamál (Il discorso di Hár), raccolta compresa nell’Edda poetica, illustrata da William Gershom Collingwood. 1908.

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La nascita della Confraternita dei Preraffaelliti (o P.R.B., acronimo di PreRapahaelite Brotherhood con il quale i pittori siglavano nell’anonimato le loro prime opere) è legata a Dante Gabriele Rossetti (1828-1882), l’allora ventenne figlio del patriota italiano, e dantista, Gabriele Rossetti. La Confraternita nasce nel 1848, su iniziativa di Rossetti, probabilmente ispirata dagli ideali carbonari e di esoterismo politico promossi da suo padre. Del gruppo originario facevano parte sette pittori, tra cui spiccavano i nomi di John Everett Millais e William Hunt. Ad accomunare questi giovani artisti erano l’ammirazione per i «primitivi italiani», cioè quei pittori, come Giotto e Cimabue, attivi prima di Raffaello, e l’interesse nei confronti della riscoperta del Medioevo e della sua religiosità. In particolare, alla fine degli anni Cinquanta del XIX secolo, Rossetti realizzò una serie di acquerelli che rimandavano a iconografie, manoscritti miniati, cronache medievali, incisioni tedesche, antiche ballate. Nel 1858 il Medioevo evocato dalla Confraternita raggiunse il suo apice con gli affreschi realizzati per la Oxford Union Society – ispirati a scene della Morte di Artú di Thomas Malory –, a cui seguí la nascita della Morris & Co., dedicata alla realizzazione di arredamenti a tema medievale. Questa seconda fase della Confraternita diede un contributo definitivo alla creazione di un immaginario medievale, tuttora fortissimo, dominato da dame e cavalieri. maggio

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L’originale e una replica colorata della pietra runica di Jelling sulla quale corre la dedica di Aroldo Dente Azzurro. X sec. Il personaggio che domina la composizione è stato interpretato come un’immagine del Cristo che sembra riprendere il modello del dio Odino appeso all’Yggdrasill.

per la residenza della Wolfe segnò in maniera decisiva il rapporto di Burne-Jones con l’immaginario nordico. Come riconobbe John Ruskin, critico d’arte e amico di Burne-Jones, al termine della sua carriera l’artista aveva raggiunto una tale padronanza da riuscire ad armonizzare mitologia nordica e tradizioni cristiano-medievali. Negli anni della fase ormai piú matura, BurneJones aveva cosí definito la sua visione artistica: «Intendo per pittura un bel sogno romantico di qualcosa che non è mai stato, né mai sarà (…) in una terra che nessuno può definire o ricordare, solo desiderare». Non a caso, la nostalgia per un’epoca – mai vissuta, e che si vorrebbe però far rivivere – rappresenta uno degli elementi che piú caratterizzano il medievalismo, in particolare quello romantico. Cosí facendo, Burne-Jones giunge da un’altra strada, piú estetizzante e visionaria, a quel medievalismo fantastico, ma ugualmente onirico e mitopoietico, alla quale approda, in quella stessa tornata di anni, William Morris. Nei romances che caratterizzeranno la sua ultima attività di scrittore (come The House of the Wolfings, La casa dei Wolfing, e The Roots of the Mountains, Le radici delle montagne), il contesto spazio-temporale è infatti indistinto, quasi evanescente. Società medievali e germaniche si

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Da leggere Maria Teresa Benedetti, Nazareni e Preraffaelliti: un nodo della cultura del XIX secolo, in Bollettino d’Arte, 14, Roma 1982; pp. 121-144 (anche on line su www.bollettinodarte. beniculturali.it) Renato Bordone, Lo specchio di Shalott: l’invenzione del Medioevo nella cultura dell’Ottocento, Liguori, Napoli 1993 Guido Bulla, William Morris fra arte e rivoluzione, Editrice Garigliano, Cassino 1980 Gianna Chiesa Isnardi, I miti nordici, Longanesi, Milano 2012

confondono, immerse nell’atmosfera magica del folktale e dell’epica; l’adozione di un inglese arcaico rende poi alla perfezione una mitica, lontanissima, atmosfera medievaleggiante. Per questo Morris è generalmente considerato come il padre della letteratura fantasy: lo stesso John R. R. Tolkien ebbe a dichiarare il suo debito nei confronti di queste opere per la creazione del mondo neomedievale piú famoso di sempre: la Terra di Mezzo. F

NEL PROSSIMO NUMERO ● Vecchie e nuove crociate

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l’arte delle antiche chiese /6

Cattedrali in di Furio Cappelli

miniatura

Una pieve situata nel centro cittadino, sul luogo dell’antico foro di epoca romana: inizia con la visita di S. Maria Assunta il nostro viaggio alla scoperta del romanico nella provincia di Arezzo 66

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he cosa è una pieve? D’istinto associamo questo termine all’immagine di una chiesa isolata, in piena campagna. Si tratta spesso di edifici ben caratterizzati e di dimensioni ragguardevoli, certo, non grandi quanto può esserlo una chiesa abbaziale, ma di sicuro impatto in un ambiente che dobbiamo immaginare privo di altre costruzioni in muratura altrettanto evidenti. Se si eccettuano i castelli e i borghi fortificati, spesso arroccati in siti d’altura, la pieve campeggia senza rivali in un paesaggio rurale dominato da campi coltivati e villaggi, con boschi e corsi d’acqua a fare da cornice. Situata lungo strade frequentate, è un punto di riferimento per tutto il contado circostante, e non ha mura che la recingono. Dal punto di vista sacramentale, la pieve aveva una prerogativa precisa: entro un determinato territorio (piviere), in essa, e in essa sola, si poteva ricevere il battesimo. Il rito veniva di solito celebrato in modo collettivo, in coincidenza di ricorrenze festive importanti (per esempio nella notte della vigilia di Pasqua). E proprio il fatto che, nella pieve, si compiva l’ingresso nella comunità dei fedeli, ne denotava l’importanza. Lo stesso termine plebs designava in origine il gruppo di persone che si riuniva in un posto determinato, e che traeva la propria identità religiosa proprio dal legame con il luogo dell’assemblea. In seguito, plebs passò a designare la chiesa (compresa la sua struttura organizzativa) in cui il gruppo si riuniva. Si trattava di un presidio religioso di primaria importanza nell’organizzazione delle diocesi, e assunse di conseguenza un ruolo fondamentale nel periodo in cui le chiese episcopali e i monasteri si consolidavano nel territorio, soprattutto in età carolingia e nell’epoca della riforma ecclesiastica (XI-XII secolo). In sostanza, la pieve è una chiesa che assume le prerogative del vescovo in un settore

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Sulle due pagine Arezzo. Uno scorcio della piazza Grande, l’antica platea communis aretina. Da sinistra, si riconoscono: l’abside della pieve di S. Maria Assunta (o chiesa di S. Maria della Pieve); il palazzo del Tribunale; il palazzo della Fraternita dei Laici. La piazza occupa lo spazio che, in epoca romana, accoglieva il Foro dell’antica Arretium.

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l’arte delle antiche chiese /6 EMILIA-ROMAGNA Carrara Massa Viareggio

Pistoia Lucca

MAR

Pisa

Prato

FIRENZE

LIGURE

Romena Gropina

Arezzo

Siena

Arcipelago

Follonica Sovana

UMBRIA

To s c a n o MAR TIRRENO

LAZIO

specifico della diocesi. La cattedrale stessa, ossia la chiesa cittadina in cui il vescovo risiede, è, almeno in origine, l’unica pieve (o parrocchia) presente entro le mura, e dunque l’unica chiesa dove gli abitanti possono ricevere il battesimo.

Fuori le mura

Fino al XIII secolo, la cattedrale di Arezzo si trovava fuori le mura, su una lieve altura a sud-ovest della città, il colle Pionta. Lí, al margine della necropoli etrusco-romana, nel IV-V secolo si sviluppò un cimitero cristiano, e in quest’ambito fu costruita una cappella funeraria che custodiva le reliquie di un santo martire locale, il vescovo Donato. Nel VII o nell’VIII secolo, si decise di abbandonare una presumibile cattedrale che sorgeva nel nucleo urbano e, di fianco al santuario di S. Donato, fu istituita una nuova cattedrale intitolata a santa Maria e a santo Stefano. Al culmine della storia del sito, nell’XI secolo, dobbiamo immaginare che le due chiese, ricostruite in stile romanico, fossero corredate dalle residenze del vescovo e dei canonici, oltre che da ulteriori fabbricati di servizio. Tutto l’insieme componeva un complesso cinto da mura proprie, un vero e proprio castello che fu poi completamente demolito, nel 1561. Al margine dell’antico nucleo urbano, faceva da pendant alla cattedrale la pieve di S. Maria Assunta,

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che, almeno dall’XI secolo, era la chiesa preposta al rito battesimale in ambito cittadino. Ci troviamo cosí di fronte a un quadro apparentemente contraddittorio, o comunque stravagante. La cattedrale, che di solito sorge entro le mura di cinta, si trova sulla sommità di un colle extraurbano, e la pieve, che per definizione è una chiesa «vassalla» della cattedrale, ha viceversa l’onore di situarsi laddove sorgeva il presumibile Foro della città romana. In generale, i vescovi erano i

naturali custodi delle memorie sacre cittadine e istituivano spesso sedi secondarie presso santuari di spicco, dove potevano stabilirsi in forma piú o meno temporanea, a seconda delle esigenze e delle congiunture. Nel caso di Arezzo, già nell’Alto Medioevo la sede istituita presso il santuario di S. Donato divenne la residenza del vescovo in pianta stabile, molto probabilmente perché assolveva meglio a un ruolo di egemonia simbolica sulla città e sull’intero contado. maggio

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A sinistra l’abside della pieve di S. Maria Assunta, ampiamente ripristinata nell’Ottocento. La costruzione attuale fu iniziata negli ultimi decenni del XII sec.

In basso la facciata della chiesa, caratterizzata dalla terminazione rettilinea. I ricorsi di arcate e di logge ripropongono un tema caro al romanico toscano.

Arezzo, pieve di S. Maria Assunta (o chiesa di S. Maria della Pieve) La storia

Come è risultato dalle indagini archeologiche, l’area dove sorge la pieve era interessata da un edificio pubblico di età augustea. La piazza del comune, che si sviluppa dietro all’abside della chiesa, eredita poi il ruolo del «foro», laddove forse era situato il forum della città romana. Nell’alto Medioevo questo spazio rivestiva una funzione pubblica per le

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esigenze del mercato (un settore era anche noto come platea porcorum) e per le attività giudiziarie. Il «foro» di Arezzo venne concesso da Carlo il Calvo al vescovo Giovanni il 1° marzo 876, con un atto tuttora conservato in originale e forse steso dal vescovo in persona, che aveva rivestito l’incarico di capo dei notai presso la corte imperiale. Dopo essere stato incoronato a Roma (Natale 875), il sovrano ebbe modo di essere ospitato proprio nella città toscana, e rimase sorpreso dal fatto che la domus Dei non si trovasse all’interno delle mura. Decise cosí di concedere quello spazio pubblico perché divenisse un nuovo fulcro di vita religiosa, con una cattedrale e un annesso chiostro, al servizio dei

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canonici che dovevano amministrarla formando in loco una comunità di tipo monastico. Ma né Giovanni, né i suoi successori si mossero dal colle Pionta. Il vescovo Elemperto (986-1010 circa) ricostruí la cattedrale, mentre il suo successore Adalberto (10141021) promosse il rifacimento del santuario di S. Donato (il «Duomo vecchio»), dando istruzioni precise al proprio architetto Maginardo. Egli infatti si sarebbe dovuto recare a Ravenna per studiare la celebre basilica di S. Vitale, e da questa avrebbe dovuto trarre ispirazione. Il castello del potere episcopale si definisce nel modo piú completo con la sua cerchia di mura, e il vescovo Arnaldo nel 1052 non esita a

definirsi conte della città e del contado. In questa fase di particolare fervore si colloca plausibilmente l’origine della pieve di S. Maria. In ogni caso, nei primi decenni dell’XI secolo la chiesa esiste già in una prima versione. Nel 1043 e nel 1046, infatti, alcuni beni di proprietà della pieve sono concessi in beneficio a due fondazioni monastiche. Nel 1064 il vescovo Costantino cedette poi metà dei beni della pieve stessa ai canonici della cattedrale. Quattro anni dopo è attestato un collegio di chierici preposti a S. Maria, ed è probabile che questa comunità religiosa costituisse una filiazione del capitolo dei canonici della cattedrale. La nascita del comune dette alla maggio

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Particolare dei rilievi con personificazioni dei Mesi che ornano la volta del portale centrale. 1235 circa. Da sinistra: Marzo che suona uno strumento a fiato; Febbraio che pota una pianta; Gennaio, reso come un Giano bifronte, che beve vino davanti a un paiolo sospeso sul fuoco e a un’asta da cui pendono salsicce.

pieve un ruolo simbolico di primo piano, determinando una frattura insanabile nei rapporti tra le due comunità religiose. La pieve stessa, infatti, ospitò le assemblee della nuova magistratura consolare e, in quanto caposaldo urbano, assunse una funzione concorrenziale nei confronti del castello vescovile. I dissidi tra il comune e il potere episcopale sfociarono poi in un’azione di guerra ai danni del castello sul Pionta, nel 1110. Un anno piú tardi, la dura azione punitiva inferta alla città dall’imperatore Enrico V non risolse alcunché. Nel 1129 il comune torna all’attacco: il vescovo dovette abbandonare le sue prerogative signorili e già nel 1139 risulta trasferito in un palazzo situato presso la pieve di S. Maria. Anche i canonici della cattedrale furono costret-

ti a lasciare il Pionta, e dovettero cosí stabilirsi dentro le mura, al servizio di S. Maria. Alla fine del XII secolo ebbero inizio i lavori di ricostruzione della chiesa, di certo su impulso del comune stesso, per segnare la fine dell’egemonia temporale dei vescovi. Lavori che si estesero poi alla prima metà del XIII secolo, con aggiunte e modifiche nel secolo successivo. Tra il 1203 e il 1204, frattanto, si risolse la difficile convivenza tra i collegi canonicali: i chierici della cattedrale si trasferirono in una zona distinta della città, su un altopiano soprastante, dove sorgeva la chiesetta camaldolese di S. Pietro Maggiore; il vescovo si trasferí a S. Pietro nel 1256 e, nel 1276, lí si iniziò la nuova cattedrale.

La visita

Realizzata tutta in macigno, un tipo di arenaria locale, la pieve di S. Maria ha una sua precisa caratterizzazione già soltanto per l’effetto cromatico e materico della pietra. Compatta e al tempo stesso fragile nei suoi strati superficiali, mostra in facciata gli effetti dell’esposizione secolare al vento e alla pioggia.

A destra veduta d’insieme della volta con le personificazioni dei Mesi e della lunetta. Quest’ultima accoglie una immagine della Madonna regina assunta in cielo, con gli Angeli che la affiancano sorreggendo le braccia.

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In alto altre personificazioni dei Mesi. Da sinistra: Luglio, che batte il grano; Agosto, che costruisce una botte; Settembre, che vendemmia. 1235 circa. A sinistra rilievo con la Natività, oggi nella pieve di Arezzo, dal pulpito smembrato di una pieve della Valdichiana. XIII sec.

Si tratta poi di una pietra «bigia», dai toni smorzati, che però, al contatto della luce, assume un effetto di lieve doratura. L’interno a tre navate possiede un senso di grandezza monumentale, con pilastri di suddivisione che hanno uno slancio degno di una cattedrale gotica. L’aspetto attuale è il risultato di radicali campagne di restauro che, nel XIX secolo, hanno eliminato molti elementi che si erano aggiunti alla struttura medievale, senza esitare poi a riconfigurare o a ricostruire in stile elementi perduti o alterati, come la veste esterna

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dell’abside o la cripta (completamente ottocentesca). Un occhio attento può riconoscere, tra i capitelli della zona presbiteriale, alcuni saggi di scultura romanica, il cui linguaggio si può agevolmente riscontrare nelle pievi del territorio. Il portale che si apre sul fianco destro è arricchito nell’inquadramento da un Sansone che smascella il leone e reimpiega una lunetta preesistente, con un elaborato intreccio di foglie, croci e viticci. Lo schema prettamente geometrico, debitore di una lunga tradizione, è al servizio di un tema ben preciso. Sull’asse centrale si in-

serisce infatti la testa del Redentore, secondo l’iconografia del Cristo come fonte di vita eterna. È probabile che la lunetta derivi dalla pieve piú antica (XI secolo). La splendida facciata, dalla terminazione rettilinea, con i suoi ricorsi di arcate e di logge, ripropone un tema caro al romanico toscano, sviluppato in modo particolare a Pisa e a Lucca. Spicca la cura meticolosa con cui si è voluto differenziare al massimo il gioco delle colonnine, con i fusti e i capitelli che disegnano una ritmica all’insegna di una brillante ricchezza di forme. C’è persino maggio

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Qui sopra le personificazioni di Maggio, raffigurato come un cavaliere, e di Giugno, intento a mietere. 1235 circa.

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l’arte delle antiche chiese /6 una statua-colonna, con la figura di un presumibile vescovo. Il portale destro, alla base della torre campanaria, dava accesso alla cappella battesimale, ed è decorato sulla lunetta dal Battesimo di Cristo nelle acque del Giordano (1221). Il portale centrale sfoggia invece un’importante composizione incentrata sulla Madonna regina assunta in cielo, con gli Angeli che la affiancano sorreggendo le braccia. La posa da orante nasconde un sottile rimando al passo biblico in cui Mosè viene sostenuto da Aronne e da Hur, con le braccia rivolte al cielo, per impetrare la vittoria sugli Amaleciti (Esodo, XVII, 12). Il rilievo, con una morbida alternanza di piani e un senso quasi tattile del dettaglio (si vedano i ricami delle vesti), è «firmato» dallo scultore Marchio (ossia Marchese, noto anche come Marchionne) ed è datato

Romena (Pratovecchio) pieve di S. Pietro. Due dei capitelli riccamente decorati della chiesa; a sinistra, sotto una citazione del Vangelo, Cristo dona le chiavi a san Pietro; nell’esemplare in alto, angeli in figura stante si alternano a telamoni. XII sec.

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Romena (Pratovecchio). L’interno della pieve di S. Pietro, innalzata in forme basilicali intorno alla metà del XII sec., su una piú antica fondazione.

1216. Lo stesso scultore realizzò probabilmente il pregevole rilievo dell’Adorazione dei Magi che si osserva in controfacciata, presumibile resto di un pulpito smembrato. Intorno al 1235 la volta di inquadramento del portale propose una sequenza con la personificazione dei Mesi, con le figure a tutto tondo che hanno rivelato una sorprendente policromia a seguito dei restauri presentati al pubblico nel 2002. Le sculture si dispongono su quattro registri, due per lato, con alcune didascalie impaginate al contrario (febbraio, giugno) per indicare il percorso di lettura. Il Giano bifronte di Gennaio, a dispetto della sua matrice divina, è immerso in una scena di disarmante quotidianità, intento a sorseggiare vino, mentre il paiolo è sospeso sul fuoco e un’asta appesa al soffitto mostra una salsiccia messa a stagionare. L’uccisione del maiale, nel mese di Dicembre, è raccontata con una semplicità immediata, con il coltello che sembra davvero incidere la cotenna. Tre eleganti colonnine, degne di una no-

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bile scenografia, fanno da contrappunto alla violenza dell’atto.

Romena e Gropina La storia

Dalla pieve cittadina passiamo a due esempi di pievi della provincia aretina. Seguendo l’alto corso dell’Arno, s’incontra per prima S. Pietro a Romena, nel Comune di Pratovecchio, ossia nell’area del Casentino. L’altra è S. Pietro a Gropina, nel Comune di Loro Ciuffenna, nell’area del Valdarno Superiore. Entrambe sono state ricostruite intorno alla metà del XII secolo in forma basilicale, con l’uso di un’arenaria ben squadrata, ed entrambe, grazie alle indagini archeologiche, hanno rivelato un’edizione piú antica. Nel caso di Gropina si tratta di una chiesa altomedievale a navata unica, dotata in secondo tempo di una navata aggiuntiva sulla destra. Nel caso di Romena si individua già all’origine una struttura a tre navate, di cronologia controversa (in genere datata all’VIII-IX secolo, ma forse riferibile all’XI).

La pieve di Gropina (dall’etrusco Krupina, «villaggio») ha rivelato per giunta l’esistenza di una chiesa ancora piú antica, una piccola aula absidata forse riferibile al VI secolo. La prima menzione documentaria si data invece al 1016. Una campana, a quanto pare, recava la data 1153, in perfetto accordo con l’assetto attuale dell’edificio. Si legge agevolmente, tuttora, la data 1152 su un’epigrafe che sormonta un capitello di Romena (toponimo derivato forse dalla presenza di una «via romea», su un itinerario dei pellegrini diretto a Roma). Si specifica poi, con un certo orgoglio, che in quel momento incombeva una crisi generale, senza che questo impedisse un’impresa cosí onerosa. Era infatti il «tempo della fame». Le popolazioni del contado erano cioè alle prese con una carestia, e il fatto potrebbe avere attinenze con uno stato di guerra che perdurava da anni, per via delle rivendicazioni feudali della dinastia dei conti Guidi. Lo stesso casato possedeva il castello situato proprio nei pressi del-

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l’arte delle antiche chiese /6 la pieve, ed è quindi probabile che abbia contribuito alla costruzione della chiesa attuale. In quella fase storica essa ricadeva nel territorio diocesano di Fiesole.

La visita

Come accennato, le due pievi hanno molti punti di contatto. Secondo uno stile ben radicato nel territorio, sfoggiano capitelli assai ben caratterizzati, che compongono una sorta di galleria di grande fascino ai lati della navata centrale. Maestranze specializzate operose su un vasto areale, con diverse esperienze e vari livelli di abilità tecnica, avevano creato uno stile al tempo stesso omogeneo e vario, con un repertorio ricchissimo di temi e di soluzioIn alto tavola con disegni della pieve di S. Pietro a Gropina (Loro Ciuffenna), da Ricordi di architettura: raccolti autografati e pubblicati da una società di architetti fiorentini. 1880. A sinistra l’abside della pieve di S. Pietro a Gropina, con archeggiature disposte su un duplice ordine. Metà del XII sec.

ni, sia dal punto di vista figurativo che prettamente formale. Non si disdegnava affatto un disegno elementare, con una resa grafica immediata e non priva di humour, e al tempo stesso ci si poteva cimentare su variazioni e combinazioni infinite a partire dai solenni modelli decorativi dell’antichità romana. Sorprende, per esempio, l’accostamento tra capitelli di grande impegno e opere di tutt’altro effetto, dove conta soltanto una simbologia

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di facile decifrazione. A Gropina si contrappone vivacemente il gruppo dei capitelli finemente modellati, di stile oltralpino, ai numerosi casi di apparente «arcaismo», dove le figure bestiali si impongono con disarmante linearità. Analoghe variazioni di temi e di stile si riscontrano anche nei capitelli di prima fase della pieve di Arezzo, segno, quindi, che le maestranze che lavoravano in città e in campagna erano le stesse, e che

proprio le pievi del territorio, nel loro ruolo di «cattedrali in miniatura», trasponevano e adattavano in un altro contesto un modo di fare condiviso nelle grandi realtà. D’altro canto, la raffinata partitura delle absidi di Romena e di Gropina, con un motivo solenne di archeggiature sovrapposte su un duplice ordine, anche all’interno, si raccorda molto bene con gli stili delle chiese delle maggiori città toscane (per esempio le già citate Pisa e Lucca). Si tratta di soluzioni che coniugano una certa idea di classicità a un senso di preziosità delle superfici, di gusto prettamente bizantino, tanto che lo studioso Guido Tigler propone un accostamento con l’abside della basilica di Murano, nella laguna di Venezia (vedi «Medioevo» n. 266, marzo 2019, anche on line su issuu.com). Il delizioso pulpito di Gropina, maggio

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Da leggere Alberto Fatucchi, Maria Grazia Paolini, Arezzo, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1991 (anche on line su treccani.it) Walter Angelelli, Francesco Gandolfo, Francesca Pomarici, La scultura delle Pievi. Capitelli medievali in Casentino e Valdarno, Viella, Roma 2003 Guido Tigler, Toscana romanica, Jaca Book, Milano 2006; pp. 173-192; 303-305 Gaetano Curzi, Gli scultori della Pieve, in Marco Collareta, Paola Refice (a cura di), Arte in terra d’Arezzo. Il Medioevo, Edifir, Firenze 2010; pp. 127-137 Giovanni Cherubini, Franco Franceschi, Andrea Barlucchi, Giulio Firpo (a cura di), Arezzo nel Medioevo, Giorgio Bretschneider Editore, Roma 2012

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L’elegante pulpito della pieve di S. Pietro a Gropina.

infine, è stato ricomposto con alcuni adattamenti, e a prima vista sembra che la qualità «elementare» dei rilievi possa essere spiegata solo con un’origine altomedievale dell’arredo. A ben vedere, però, esso risulta in tutto coevo alla chiesa attuale. Gli oranti ignudi che «corrono» intorno ai capitelli delle colonne di sostegno sembrano omuncoli appena sbarcati da un’astronave, ma sono impaginati in un modo geniale e virtuosistico, quasi divertito. Al centro, tra un capitello e l’altro, dove c’è il vuoto, l’orante sembra appeso per le braccia all’architrave. Si poteva esprimere meglio una umanità «piccola» e impaurita, che può trovare senso e conforto solo accogliendo con umiltà la Rivelazione? Ed ecco infatti emergere con forza, sul lettorino soprastante, tre dei simboli degli Evangelisti, su una verticale di grande efficacia compositiva. Il parapetto curvilineo è cinto da rilievi figurati o di carattere prettamente astratto. Gli ornati che si ripetono in sequenze alludono ai fiumi del paradiso. Una lastra è dedicata al peccato, e in particolare alla lussuria. Un uomo è morso alla testa da due terribili serpenti, mentre la donna si presenta sotto forma di conturbante sirena, con una folta chioma e una doppia coda dalle pinne ben evidenziate. Di fianco si evidenzia invece la virtuosistica raffigurazione di un serafino, la cui testa e le cui estremità emergono a fatica dal vasto apparato delle sei ali. Gli spazi di risulta, agli angoli, sono poi riempiti da raffinati simboli cristologici: due aquile rampanti e due agnelli che reggono la croce.

NELLE PUNTATE PRECEDENTI ● Piemonte (n. 263, dicembre 2018); Valle d’Aosta (n. 264, gennaio 2019); Lombardia (n. 265, febbraio 2019); Veneto (n. 266, marzo 2019); Emilia-Romagna (n. 267, aprile 2019) NEL PROSSIMO NUMERO Umbria: Campello sul Clitunno, il Tempietto; Spoleto, S. Salvatore

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di Furio Cappelli

Viaggio in

Capitanata Prediletto da Federico II, il lembo settentrionale dell’odierna Puglia conserva numerose e illustri testimonianze della presenza dello Svevo. Ecco dunque un invito alla loro riscoperta, con un itinerario che prende le mosse dalla domus di Castel Fiorentino, nella quale, sfidando le profezie che pure avevano cercato di metterlo sull’avviso, lo stupor mundi finí i suoi giorni La Capitanata in una mappa acquerellata realizzata dai cartografi olandesi Willem e Joan Blaeu. 1644.


Dossier

N N

ell’estate del 1250 la situazione sembrava sotto controllo. Nonostante l’ampio scacchiere delle operazioni militari e il continuo pericolo di rivolte, Federico II poteva contare su una ritrovata saldezza. L’esercito imperiale reggeva bene sul fronte della lotta contro il papa e contro le città della regione padana, e la situazione interna dei domini federiciani, in Germania e nel regno di Sicilia, non destava preoccupazioni particolari. Forse occorreva comunque far sentire il peso della propria presenza, e forse c’era qualche sentore di possibili agitazioni intorno a Napoli: fatto sta che lo stupor mundi («meraviglia del mondo», la celebre definizione coniata dal cronista inglese Matteo Paris) si affidò ai propri generali, lasciò le terre della Chiesa e fece ritorno nel suo regno. Si diresse in prima battuta verso la Basilicata, dove rimase fino a ottobre, per poi trasferirsi in Capitanata, quel lembo settentrionale della Puglia che tanto gli stava a cuore, e raggiunse Fog-

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In questa pagina due immagini della cattedrale di Foggia (sede episcopale dal 1856). In facciata si vede la fascia basale della decorazione romanica (foto a destra). Sul fianco sinistro, al di sopra del portale di S. Martino, sono presenti alcuni altorilievi del XIII sec. (in basso): il Cristo in trono benedicente tra due serafini in volo e, sotto, un cavaliere che abbatte il diavolo; ai lati, Sansone che abbatte il leone e san Martino di Tours.

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gia, dove sorgeva il palatium che egli stesso aveva voluto edificare (vedi box alle pp. 82-83).

Una battuta fatale

Agli inizi di dicembre Federico decise di organizzare una battuta di caccia nei territori dell’impervio entroterra. Evidentemente non c’erano situazioni difficili da fronteggiare nell’immediato, e il sovrano poteva cosí dedicarsi a una delle sue attività predilette, che per lui non era un semplice motivo di svago, bensí l’esercizio di una vera e propria arte, che richiedeva non solo abilità fisica ma anche scienza (ars venandi). La sorte gli giocò però un brutto colpo e la battuta dovette chiudersi prima del tempo. Si narra che Federico fosse scomparso all’improvviso, nel bel mezzo di un’azione. Gli era bastato girare un anello magico che possedeva, l’anello del Prete Gianni (leggendario sovrano cristiano dell’Etiopia), per rendersi

Rodi

Parco

San Nicandro Garganico

Serracapriola A14

Vieste

Lago di Varano

Lago di Lèsina

Castel Pagano

Nazionale

Pugnochiuso

del Gargano

San Severo

Golfo di Manfredonia

Manfredonia

Castel Fiorentino

SS17

SS89

Lucera Foggia

Orta Nova SS16

Orsara di Puglia Savignano Irpino

Candela

A14

Cerignola

Torre Alemanna

SS93

In alto cartina della Capitanata, con, in evidenza, le località descritte nel testo. A sinistra augustale in oro battuto al tempo di Federico II coniato a Brindisi o a Messina, incisore Balduino Pagano. XIII sec.

del tutto invisibile ai presenti. In realtà, l’imperatore era rimasto vittima di un attacco di dissenteria che non fu efficacemente curato e si aggravò a tal punto da degenerare in enterite infettiva. Febbricitante, Federico trovò rifugio in un posto d’altura, a Castel Fiorentino, dove tempo prima aveva fatto edificare un’ampia domus proprio pensando alle comodità necessarie a margine delle sue attività venatorie. E lí si compí il suo destino. Il cronista Saba Malaspina, alla fine del XIII secolo (morí nel 129798), attesta infatti che alcuni indovini (aruspices) a cui Federico si era affidato, gli predissero che si sarebbe «appassito» sotto il segno di un fiore (sub flore; vedi box alle pp. 84-85). Aspirando all’immortalità, lo Sve-

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Dossier Foggia

Una «illustre sede imperiale»

Eretto nel 1223, il palatium di Foggia era una residenza invernale di particolare fasto, nella quale piú volte Federico II si stabilí insieme a tutti i numerosi componenti della propria corte itinerante. Della struttura sono rimasti due elementi dell’ingresso monumentale che si apriva sulla facciata dell’edificio principale o sul muro di cinta del complesso. Si tratta di un’epigrafe e dell’arco istoriato che sormontava l’entrata, oggi murati sul Palazzo Arpi, vicino al Museo Archeologico. Proprio grazie alla residenza regia, Foggia aveva acquisito lo status di capitale di Stato, come l’epigrafe stessa sottolinea parlando di urbs regalis e di sedes imperialis. Il fasto della residenza era ben riflesso dalla chiesa principale della

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Nella pagina accanto un’epigrafe e l’arco istoriato che sormontava l’entrata del Palatium di Foggia, oggi murati sul muro esterno di Palazzo Arpi, nei pressi del Museo Archeologico. 1223.

città, la pregevole collegiata di S. Maria Icona Vetere, che sorgeva non lontano da lí e che costituisce il nucleo originario dell’odierna cattedrale. Come indica il nome, essa trae lustro da un’antica immagine della Vergine, la Madonna dei Sette Veli, tuttora conservata ma rigorosamente celata alla vista dei fedeli per via di una tradizione che le attribuisce il potere di abbacinare chiunque la osservi. A seguito del rovinoso terremoto del 1731, la chiesa è oggi, in sostanza, un’elegante costruzione barocca, ma la veste esterna della navata, sul primo ordine delle pareti, ha una tessitura architettonica e scultorea di evidente fattura romanica (1180 circa). Spicca, in facciata, il superstite cornicione di schema classico, a mensole e a cassettoni, ma con l’apporto di un vivace estro creativo nella ricca messe di figurazioni, tra cui un bovino a tutto tondo che si proietta nel vuoto sul fianco destro. L’ampia cripta è ingentilita da capitelli di raffinato intaglio, ricondotti a una ricostruzione di epoca federiciana (1220-30), e l’interessante Portale di S. Martino, sul fianco sinistro (accessibile dalla canonica), è arricchito da una dinamica figura di cavaliere dall’ampio manto, intento a schiacciare il demonio (XIII secolo). Potrebbe trattarsi di un’immagine dell’imperatore Costantino, resa «attuale» dal carisma di Federico in persona. S. Maria Icona Vetere, d’altronde, conservava proprio le viscere dello Svevo, traslate in un monumento marmoreo che si trovava in prossimità dell’ingresso della chiesa.

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vo pensò bene di evitare i luoghi che richiamavano l’idea del fiore nel proprio nome. Saba sottolinea che, nella misura del possibile, egli si tenne perciò alla larga da Firenze (Florentia) e da Florentinum (Castel Fiorentino), ma a nulla valsero quelle precauzioni. Al capezzale del sovrano c’erano il figlio Manfredi, allora diciottenne, e personaggi di vario genere, tutti di alto rango. Tra questi, Giovanni da Procida, il medico di corte che in seguito legò il proprio nome ai Vespri siciliani. Non mancava un poeta della scuola siciliana, Fosco, presente insieme allo zio Pietro Ruffo, preposto alle scuderie imperiali, che sarebbe poi divenuto uno dei «registi» della resistenza filo-sveva contro Carlo d’Angiò in terraferma. Berardo di Castagna, arcivescovo di Palermo, nonché uno dei piú importanti e fidati consiglieri della corte, sottoscrisse il testamento dettato da Federico il 7 dicembre, gli assicurò l’estrema unzione e ne scortò la salma a Palermo. Berardo celebrò le solenni esequie nella cattedrale siciliana (febbraio 1251), dove tuttora si ammira il sarcofago dello Svevo, insieme ai sepolcri dei genitori e del nonno Ruggero.

Con il saio dei Cistercensi

Tra le ultime volontà, il sovrano dispose la restituzione dei beni sottratti alla Chiesa (con la clausola che venissero contestualmente restituiti i beni sottratti all’impero…), ordinò un’amnistia e un alleggerimento del carico fiscale che incombeva sui propri sudditi, reso sempre piú gravoso dalle esigenze finanziarie della guerra. Come atto di umiltà, stando al già citato Matteo Paris, Federico volle inoltre indossare il bianco saio dei monaci cistercensi sul letto di morte. Il 13 dicembre passò cosí a miglior vita, a Castel Fiorentino, colui che lo stesso Paris ebbe anche a definire «mirabile innovatore». Le parole del cronista si ritrova-

no nel monumento eretto a Castel Fiorentino in onore dello Svevo. Si tratta di una stele in travertino di forma ottagonale, realizzata dallo scultore tedesco Markus Wolf. L’ottagono rimanda naturalmente alla simbologia del potere imperiale e una fascia in metallo dorato, al sommo, allude alla corona del sovrano. Inaugurata il 13 dicembre 2000, per il 750° della morte di Federico, l’opera fa parte di una serie di monumenti celebrativi che ricordano l’imperatore in tutta Europa. Ubicato nel comune di Torremaggiore (Foggia), il sito è isolato e non è segnalato come meriterebbe. Versa purtoppo in uno stato di malaugurata incuria, ma assicura sensazioni fortissime al visitatore. Già dal punto di vista paesaggistico, infatti, si può godere di un affaccio su un ampio scenario silenzioso, fatto di campi e di alture, e intuire l’effetto che doveva esercitare da lontano la domus dello Svevo. Essa, infatti, aveva sfruttato lo spazio occupato in precedenza da una fortificazione normanna, e ne esaltò l’effetto dominante, sull’estremità occidentale di un lungo sperone. A seguito delle indagini archeologiche e dei restauri, l’edificio federiciano è ben leggibile nelle parti superstiti, e si può arguire l’accuratezza che lo caratterizzava, nonostante la semplicità dell’impianto. Ancora oggi si possono apprezzare l’estensione della superficie interessata e la solidità delle strutture murarie. Due sale contigue, già intonacate e pavimentate in mattoni disposti a spina di pesce (opus spicatum), ospitavano al pianterreno i convenuti e il personale addetto all’amministrazione. La stanza ovest si distingue per la presenza di due camini, mentre quella est, di minore lunghezza, era forse un’anticamera, dotata di una lunga bancata in muratura. La residenza regia era senz’altro nel piano nobile e si notano ancora i resti degli archi trasversali che al pianterreno sostenevano la struttu-

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Dossier ra soprastante. Alcuni frammenti di finestre finemente intagliate e di vetrate policrome, hanno permesso di intuire i raffinati aspetti decorativi delle facciate, con una probabile concentrazione di effetti sulla fascia piú alta della costruzione. Occorre poi immaginare gli spazi incolti che si sviluppano verso est occupati in origine da una città con tanto di sede vescovile. Si notano ancora i resti della cattedrale, già amministrata da ben 15 canonici, e, nelle vicinanze della stele ricordata in precedenza, una torre segnava il limite dell’insediamento. Su quel lato si sviluppò un sobborgo, nel momento della massima vitalità In alto Castel Fiorentino. I resti della domus di Federico II. A destra miniatura raffigurante Federico II soffocato da Manfredi, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-75. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Nella pagina accanto il monumento in onore dello Svevo realizzato da Markus Wolf a Castel Fiorentino.

la morte dell’imperatore

Una fine segnata da foschi presagi e dal mistero Secondo il letterato Benvenuto da Imola (1330 circa-1387/88), la profezia della morte dello Svevo sarebbe stata formulata dal filosofo e scienziato scozzese Michele Scoto (1175 circa–1235 circa), astrologo ufficiale della corte federiciana. Questi elaborava effettivamente gli oroscopi nell’interesse del proprio sovrano, ma non si può ovviamente stabilire se qualcuno poté davvero predire il luogo della sua morte. A ogni modo, la storia della profezia, variata e arricchita, conobbe una larga fortuna, esattamente come le narrazioni leggendarie sulla nascita dello Svevo nella città marchigiana

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di Jesi (vedi «Medioevo» n. 251, dicembre 2017; anche on line su issuu.com). Era naturale, d’altronde, che la nascita e la scomparsa di un personaggio cosí carismatico lasciassero larga briga alla fantasia, anche in chiave prettamente negativa. Secondo l’Anonimo Vaticano, compilatore di una Historia sicula condotta fino al 1282, Federico deflorò una giovane donna in una chiesa, sotto un’immagine della Vergine Maria, proprio mentre si trovava a caccia «con i suoi falconi». La dissenteria giunse a tormentarlo come punizione divina per l’atto sacrilego, ma il colpo di grazia non fu dato dalla malattia, perché Manfredi maggio

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in persona, figlio naturale dello Svevo, lo soffocò con un cuscino. Entrambi i filoni della leggenda (la profezia e il parricidio) confluiscono poi nella Nuova cronica di Giovanni Villani (1280 circa–1348). In due punti (VII, 35; 41), il cronista fiorentino ricorda il presagio formulato da alcuni indovini (aguri ossia àuguri) di ispirazione demoniaca. Villani è convinto che, per paura della morte, Federico non mise mai piede a Firenze, ma – ironizza – non fu abbastanza cauto: «Elli non si guardò di Fiorenzuola» (lo Svevo, cioè, non si mise in guardia da Castel Fiorentino). Per giunta, il cronista concede

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credito alla diceria sul soffocamento. Manfredi, in sostanza, voleva mettere subito mano al tesoro regio e alla corona di Sicilia, e temeva che il padre guarisse o dettasse un testamento a favore di altri. Di qui sarebbe dunque scaturita la macchinazione del parricidio, complice un dignitario di corte, che in cambio del proprio silenzio ricevette promesse di doni e di onori. Il turpe intreccio è poi arricchito dalla totale mancanza di conforti religiosi, sicché il moribondo sarebbe spirato non solo con il peso della scomunica pontificia, ma anche senza aver compiuto alcuna penitenza, e senza aver ricevuto alcuna benedizione.

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Dossier In basso l’eccezionale vista di cui si gode da Castel Pagano: l’occhio abbraccia l’ampia distesa del Tavoliere sino a Foggia e si spinge sino alle alture del versante abruzzese.

dell’abitato (fine del XII secolo), ma il declino era già in atto nella seconda metà del XIII secolo. La sede vescovile cessò nel XIV secolo, mentre le ultime presenze insediative risalgono agli inizi del XVII secolo.

Da fortezza a domus

Il fondatore di Florentinum è un alto ufficiale bizantino, Basilio Boioannes, attivo nei primi decenni dell’XI secolo. Era un catapano (o catepano, da cui Capitanata), vale a dire il governatore insediato a Bari e preposto al tema di Langobardia (Italia). Quel tema era una circoscrizione di confine adeguatamente presidiata che comprendeva la stessa Puglia. La nuova fortezza, insieme ad altri punti-chiave, costituiva un presidio contro i Longobardi del principato di Benevento. Ereditata dai Normanni, fece poi spazio all’abitazione di lusso di Federico II, come si è visto, e in seguito, sotto gli Angioini, la stessa do-

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mus fu probabilmente ristrutturata in funzione di presidio militare. Castel Pagano, nel territorio del comune di Apricena (Foggia), è un sito di straordinario fascino sul versante del Gargano, a 545 m di altitudine. Lo si può raggiungere solo a piedi, percorrendo i saliscendi di una mulattiera che si snoda tra gli scoscendimenti e le propaggini rocciose di una brulla collina. La vista, di eccezionale raggio, si spinge sino alle alture del versante abruzzese, e permette di abbracciare l’ampia distesa del Tavoliere sino a Foggia. Il bestiame che pascola allo stato brado è l’unico aspetto superstite di una lunghissima storia di frequentazione e di insediamento. La fortificazione in rovina, collocata sul punto di massima visibilità, su un vasto sperone roccioso, è stata recentemente oggetto di una campagna di scavi archeologici e di restauri. Le indagini, estese fino all’abitato che si sviluppava a sud-est,

ai piedi del grande mastio di forma trapezoidale, hanno permesso di individuare 9 fasi antropiche, fino a toccare l’età del Bronzo Medio. Le tracce insediative piú importanti non superano d’altra parte la soglia del XV secolo, quando l’abitato sembra già semiabbandonato. Il toponimo di Castel Pagano è già attestato nell’XI secolo e deriva con tutta probabilità da paganus, in relazione a pagus (villaggio). L’origine dell’insediamento medievale non è accertata, ma la fortezza si maggio

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Castel Pagano. I resti della fortificazione medievale, collocata nel punto di massima visibilità, su un vasto sperone roccioso. Sotto al mastio, in primo piano, si notano i resti di una piccola chiesa. Recenti indagini archeologiche hanno accertato che la frequentazione del sito ebbe inizio nell’età del Bronzo Medio (XV-XIV sec. a.C.).

deve sicuramente all’interessamento dei Normanni. Nel 1105, il duca di Puglia e di Calabria Ruggero Borsa, erede del conquistatore Roberto il Guiscardo, assegnò il castello in feudo al capitano Ferualdo. Un fatto d’armi rimarchevole si registrò a quanto pare nel 1137, allorché le truppe imperiali di Lotario II di Supplimburgo (Lotario III come re d’Italia), in guerra contro i Normanni, investirono proprio Castel Pagano. Sembra inoltre che lo stesso Federico II, nel 1233, im-

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piantò nel villaggio una colonia di Saraceni deportati dalla Sicilia. Un progressivo abbandono investí poi tutto l’insieme della realtà insediativa, votandola alla rovina, ma anche preservando tracce di fasi storiche significative che non furono nascoste o cancellate da trasformazioni successive. Di qui, naturalmente, l’importanza del sito dal punto di vista archeologico, come ben risulta dalle relazioni di Andrea Luciarelli e di Tania Suadoni. Oltre al mastio, la fortezza evi-

denzia nel circuito della struttura una vasta torre circolare, che risponde nella sua fisionomia ai modelli «nordici» dell’architettura militare diffusi proprio dai Normanni. Le strutture di pianterreno del mastio ancora rilevabili mostrano all’interno una sequenza di archi perimetrali di significato puramente decorativo. Nel seminterrato si individuano due ambienti che non erano direttamente accessibili dall’esterno. Illuminati da sole feritoie, conservavano be-

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Dossier A sinistra Torre Alemanna. Particolare della decorazione ad affresco con i clipei delle sante vergini e martiri e il sottostante finto drappeggio nella chiesa di S. Maria Alamannorum. A destra uno scorcio del complesso di Torre Alemanna, recentemente restaurato. La struttura eponima risale al XIV sec.

ni preziosi di sussistenza. Si tratta infatti di due cisterne, una per l’acqua, l’altra per il grano. Nei pressi del mastio è stata indagata una piccola chiesa che si sviluppava su una lunghezza di 10 m circa, e che era dotata di un portico affrescato sul lato di ingresso, a ovest. Sono stati rinvenuti numerosi frammenti di intonaco dipinto, anche di forma concava, a indicare che le stesse volte di copertura erano dipinte. I motivi decorativi si datano tra il XIII e il XIV secolo, e si collocano quindi nell’ultimo momento di vitalità del castrum. Nello stesso portico era stata apprestata un’area funeraria, e l’analisi dei rinvenimenti si è rivelata molto interessante. Gli inumati erano stati collocati in due fasi, l’ultima delle quali, tra il XIV e il XV secolo, successiva al crollo della struttura. Ciò indica che, quando la chiesa era stata abbandonata o ridimensionata, continuava comunque a rivestire un significato di area sacra. I defunti analizzati erano in larga parte di età giovanile (numerosi i neonati) e hanno mostrato chiari segni di patologie legate a lavori usuranti e a malnutrizione. D’altro canto è stato evidenziato l’eccezionale ricorso alla pratica del

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seppellimento con corredo in alcune tombe, secondo usi che erano cessati in modo generale in area italica già nell’Alto Medioevo. Sono stati infatti rinvenuti numerosi elementi decorati in bronzo e in ferro pertinenti a collane e a guarnizioni di abiti e cinture, ed è stata cosí ipotizzata l’immissione di usi alloctoni o l’adozione di un rito particolare, vista la giovane età dei defunti. Piú in generale, resta da accertare come un sito dalle con-

Qui sopra lo stemma dei cavalieri dell’Ordine teutonico, il cui baliato pugliese fondò l’insediamento di Torre Alemanna nel 1231.

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dizioni di vita cosí difficili, senza fonti di acqua sorgiva, abbia potuto conoscere una continuità insediativa cosí pervicace.

Presidio teutonico

Rimanendo sempre nel territorio, ma in un contesto di pianura, nel bel mezzo del Tavoliere, merita poi una particolare attenzione la commenda di Torre Alemanna, nell’ambito del Comune di Cerignola (Foggia). A prima vista, da lontano, sembra una masseria come le tante che si incontrano nelle campagne pugliesi, ma la torre che dà il nome al sito, e che ne costituisce il fulcro significante, suggerisce una realtà storica di notevole interesse. Il nome stesso riconduce alle origini dell’insediamento, perché lí si stabilí una comunità di monacicavalieri dell’Ordine teutonico. Sin dal 1231 Torre Alemanna dipendeva infatti dal baliato pugliese dei cavalieri Teutonici, con sede nella non lontana Barletta. Nel XIV secolo la sede del baliato si sarebbe poi trasferita a S. Leonardo di Siponto (Manfredonia), dove era situato uno storico presidio dell’Ordine. Il caratteristico toponimo, attestato per la prima volta nel 1334, sottolinea ancor piú l’origine germanica dei religiosi. Essi acquisirono una chiesa preesistente intorno al 1226, negli anni in cui Federico II era in ottimi rapporti con l’Ordine, e in particolare con il gran maestro Ermanno di Salza (1170 circa-1239). All’epoca, infatti, il tema della crociata era di stretta attualità, e un Ordine religioso come quello dei Teutonici, intento a proteggere i pellegrini (purché germanici) e a promuovere azioni militari in Terra Santa, era fittamente presente nella Capitanata. I porti pugliesi, infatti, erano punti di imbarco privilegiati per raggiungere le terre d’Oltremare. I dati disponibili sull’economia di Torre Alemanna ci forniscono il quadro di un’azienda agraria davve-

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Sulle due pagine Orsara di Puglia. Immagini della chiesa dell’Annunziata. Dall’alto, in senso orario: veduta del presbiterio, con l’arco, oggi tamponato, che inquadrava la slanciata abside; un’epigrafe del XIII-XIV sec. che ricorda i lavori disposti dall’abate Pietro di León (Spagna); un leone stiloforo (XIII sec.).

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ro florida e di notevole estensione: contava infatti su oltre 2800 ettari di terreno e nel 1440 risulta possedere 387 vitelli, 4355 pecore, 2025 suini. In quell’epoca si registrano inoltre fino a 5037 ducati annui di entrate, non solo grazie al commercio degli animali, ma anche con la vendita di lana, pelli, latte, foraggio. Si trattava quindi di un centro prezioso per sostenere economicamente le attività dell’Ordine. Una recente campagna di restauri e indagini archeologiche ha permesso il recupero del bene architettonico, e lo ha anche rivitalizzato come polo di cultura. Il complesso storico, gestito in modo attivo e coinvolgente, è ora dotato di un percorso di visita che include un’espo-

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sizione museale dei reperti. Proprio la torre, completamente percorribile in tutti i suoi piani, costituisce l’elemento piú interessante del complesso. Alta 24 m, comparve solo in seconda battuta, nel XIV secolo.

Una torre polivalente

Qui e in altre fondazioni dell’Ordine, in quel periodo, una diffusa sensazione di insicurezza aveva infatti suggerito di rafforzare le difese in vista di possibili attacchi di milizie o di predoni. Integrata con il muro di cinta, la torre rispondeva a queste esigenze, poiché assicurava un maggior controllo dell’area, nonché la presenza di ambienti sopraelevati in cui concentrare attrezzi, derrate e beni di una certa importanza.

Entrando nel vano di pianterreno si è subito colti di sorpresa, perché, inaspettatamente, alla base di questa struttura di stampo militare si trova il coro affrescato di S. Maria Alamannorum. I monaci, infatti, decisero di impostare la torre stessa sulla campata finale della loro chiesa. Si trattava di un’aula semplicissima, rettangolare, composta dalla successione di «blocchi» spaziali di forma quadrata. Sull’ultimo di questi «blocchi», là dove era situato l’altar maggiore, spicca la nuova costruzione. Al pianterreno della torre, gli scavi hanno poi permesso di individuare la fondazione dell’abside semicircolare della chiesa che preesisteva all’insediamento dei Teutonici, i quali, quindi, realizzarono

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Dossier la propria aula di culto sullo stesso luogo in cui sorgeva la chiesa altomedievale che avevano acquisito. La parte iniziale della chiesa «teutonica» è andata perduta, ma quando la torre venne aggiunta era ancora esistente. L’inserzione del nuovo edificio non interruppe infatti la funzione dell’aula sacra. Questa, per giunta, venne arricchita da una nuova decorazione pittorica. La decorazione originale consisteva, alla base, in un finto drappeggio policromo (velarium).

Lucera

La colonia dei Saraceni

L’Albero della Croce

Al di sopra, all’interno di una teoria di clipei, si sviluppava una serie di ritratti di santi. Ancora oggi, sulla parete sud, si vede una sequenza di santi vescovi e papi a cui fanno seguito, a destra, sante vergini e martiri. Sulla parete est, in corrispondenza dell’altare, occorre immaginare una grande rappresentazione teofanica, con il Cristo in maestà contornato dalla corte celeste, con Maria e gli Apostoli. Sulla parete nord, infine, oggi si può ammirare quel che rimane della decorazione trecentesca, sovrapposta a quella originaria. Si trattava di una vasta rappresentazione che sviluppava il motivo dell’Albero della Croce. Seguendo il pensiero del teologo francescano san Bonaventura da Bagnoregio (1260 circa), la figura del crocifisso era cioè associata all’idea dell’Albero della vita (Lignum vitae), la cui linfa è cosí costituita dal sangue stesso di Gesú. Un particolare intrigante è poi costituito dal pentagramma esoterico che campeggia in chiave di volta, sul soffitto originale del coro. Come si può vedere nell’esposizione museale, poi, molti elementi di ceramica prodotti in loco dal XV secolo in poi, mostrano quello che doveva essere proprio l’emblema di Torre Alemanna: una T (o «tau»), ossia una «mezza croce» iscritta in una circonferenza. Potrebbe darsi che venne in tal modo «recupera-

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Federico II avviò in Sicilia una politica di recupero del territorio nel segno della cristianità, incontrando l’inevitabile opposizione della locale popolazione islamica. Ben presto ai Saraceni si pose la dura alternativa tra la deportazione sulla terraferma e la resistenza armata. I primi imbarchi risalgono agli anni 1222-23, e, nell’arco di un ventennio, migliaia di Saraceni furono cosí condotti forzatamente in Puglia. Al termine del conflitto svevo-musulmano, quando furono schiacciati gli ultimi focolai di resistenza (1246), in terraferma la presenza forzata dei Saraceni consisteva in un numero stimabile di 20-40 mila persone.

La torre della Leonessa (o della Regina), realizzata su progetto dell’architetto francese Pierre d’Angicourt all’indomani della conquista di Lucera da parte di Carlo d’Angiò.

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A destra uno scorcio della fortezza di Lucera che permette di apprezzare l’ottima posizione del sito, dal quale si poteva dominare il territorio circostante.

Lucera, lontana dal mare, ubicata com’è nel cuore del Tavoliere, vera e propria «isola musulmana» contornata dalla cristianità, costituiva il nerbo centrale e la prova piú vistosa di questa strategia di colonizzazione e di conversione progressiva. L’aspetto psicologico e sociale piú interessante di questa presenza «aliena» in terra pugliese è la grande fedeltà che i coloni stessi manifestarono nei riguardi del sovrano e della sua casata, anche quando l’astro degli Svevi si avvicinava al suo crepuscolo, con la venuta di Carlo I d’Angiò. Nonostante il duro retroscena, i coloni ebbero modo di ambientarsi rapidamente, prosperando con un ampio ventaglio di attività agricole e artigianali, anche di alta specializzazione. Piú passava il tempo, piú si allentavano i legami con la Sicilia, e piú ci si sentiva incardinati alla realtà politica e militare del regno. Il segno piú forte di questa sudditanza è dato dalla presenza di nuclei armati saraceni negli eserciti imperiali, specie negli impegnativi scontri con le città del Nord Italia. Carlo d’Angiò, a maggior ragione, fece gran fatica a espugnare la piazzaforte di Lucera. I Saraceni si erano già distinti a fianco di Manfredi nella battaglia di Benevento (22 febbraio 1266) e avevano dato un forte sostegno a Corradino, sceso in armi contro l’Angiò. Quando già la battaglia di Tagliacozzo (23 agosto 1268; vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 38-49) aveva tarpato le ali all’ultimo sussulto della casata sveva, Carlo, nel campo di Lucera, si trovò a fronteggiare un’accanita resistenza, con un assedio logorante, che si protrasse per oltre un anno. La resa incondizionata fu stipulata il 27 agosto 1269. Nonostante la «leggenda nera» che aleggia sul sovrano angioino, questi non mostrò alcun segno di intolleranza religiosa, ma dette prova di una certa magnanimità nei confronti dei Saraceni sconfitti, evitando deportazioni o punizioni esemplari. Di tutt’altro tenore fu invece l’approccio di suo figlio Carlo II lo Zoppo, che ai danni di Lucera mise in atto un’operazione di «pulizia etnica» di evidente ispirazione «religiosa». Senza alcun motivo di ordine pubblico, di punto in bianco decise infatti di porre fine con la forza alla presenza islamica nella città. Affidandosi al condottiero Giovanni Pipino da Barletta, nel 1300 (non a caso l’anno del Giubileo indetto da papa Bonifacio VIII) dette battaglia a tutti i residenti, senza alcuna pietà nei confronti di chi tentava di reagire. L’entrata delle truppe si risolse in una carneficina. Finiti i combattimenti, due giorni dopo, il 27 agosto, si dava avvio alla deportazione dei superstiti. Ridotti a schiavi, furono condotti a Napoli e in altri porti del regno per essere venduti al migliore offerente, mentre Lucera veniva ribattezzata Santa Maria della Vittoria.

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In basso l’epigrafe romana reimpiegata sulla soglia della Porta di Lucera, l’entrata principale della fortezza.

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to» un emblema che distingueva in origine i conversi (laici) dai monaci, che adottavano invece la croce nera (intera) su mantello bianco.

In alto Lucera. Il basamento troncopiramidale del palatium di Federico II. 1240 circa. In basso l’interno della cattedrale di Lucera, sorta nel 1300 sulla preesistente moschea.

Nel segno dell’arcangelo

Orsara di Puglia, un appartato centro alle pendici dei Monti Dauni, non lontano da Troia, presenta un santuario medievale con interessanti aspetti storici e artistici. L’intitolazione a S. Angelo si ricollega al celebre santuario di S. Michele sul Monte Gargano. Una grotta preposta al culto dell’Arcangelo si osserva tuttora nell’ambito del complesso, ed è considerata il nucleo generatore di un monastero attestato nel XII secolo. Alla prima metà dello stesso secolo si data l’attigua chiesa dell’Annunziata. Il suo interno, molto suggestivo, presenta una sola navata di forma piuttosto stretta e allungata. Due

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archi trasversali la suddividono in tre campate e sui lati estremi si evidenziano due cupole di differente forma, circolare una, ellittica l’altra, in corrispondenza dell’altare. Tra una cupola e l’altra si sviluppa una volta a botte, secondo uno schema tipicamente pugliese, che si ritrova per esempio nella chiesa di S. Leonardo di Siponto. Ma l’interesse del cenobio di Orsara si spinge ben oltre, per via di un legame tuttora inspiegato che sembra essersi stabilito con la Spagna all’epoca di Federico II. Nel 1229, infatti, papa Gregorio IX avrebbe concesso S. Angelo all’Ordine cavalleresco di Calatrava, cosí chiamato dal nome della località ispanica in cui fu istituito (1158). Questi monaci-cavalieri, strettamente legati alla Penisola iberica, avrebbero cosí avuto modo di istituire una casa madre in territorio italico.

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Il palazzo nobiliare dei Guevara sorgerebbe nel luogo in cui era situata la domus dei cavalieri e gli stessi Guevara trasformarono l’Annunziata nella propria cappella gentilizia. E tale famiglia aristocratica di origine spagnola ebbe senza dubbio un ruolo importante nel consolidare la memoria dei monacicavalieri ispanici in questo angolo suggestivo della Daunia. Lucera ha origini antiche: nasce infatti da un insediamento dauno e si qualifica come centro importante già in età romana. Si tratta dunque del capoluogo storico della Capitanata. Il nostro percorso svevoangioino parte dalla considerevole fortezza, dove un’epigrafe romana della città antica è reimpiegata a bella posta sulla soglia dell’entrata principale (la Porta di Lucera). Nel cortile interno si nota innanzitutto la robusta struttura troncopiramidale che faceva da basamento al palatium di Federico II, ultimato intorno al 1240. Esso si ergeva come una torre estesa per 50 m su ogni lato. Il supporto di tecnologia visuale 3D oggi offerto ai visitatori (sistema Ario), permette in situ di rivedere la costruzione nelle sue fattezze originali. Si rimane cosí sorpresi nel trovarsi di fronte a un’opera di grande raffinatezza, che è al tempo stesso un presidio fortificato e una residenza di lusso. L’edificio formava al suo interno un cortile quadrato, e, al secondo piano, le pareti del cortile stesso disegnavano un ottagono sullo sfondo del cielo, prefigurando l’effetto di Castel del Monte. La cinta della fortezza, che si sviluppa per ben 900 m, è stata disposta da Carlo I d’Angiò dopo la conquista della città (1270-1282). Nell’impresa fu particolarmente impegnato il nobile architetto Pierre d’Angicourt, oriundo della Piccardia (Francia settentrionale), talmente benvoluto da ottenere il permesso di ampliare la propria abitazione, a Barletta, rettificando la strada pubblica prospiciente. La maestria

di Pierre, con un tocco di eleganza «franciosa», spicca in particolare nella torre della Leonessa (o della Regina), di forma circolare, con un piacevole contrasto tra il bugnato di base e la liscia compattezza della sezione superiore, coronata da un raffinato apparato di mensole. Nel cuore del centro urbano, la cattedrale segna dal canto suo la vicenda finale della colonia saracena impiantata in città. La chiesa, infatti, è stata disposta da Carlo II in persona nell’anno stesso della sua «vittoria» (1300), e sorge sul luogo della moschea degli «infedeli». Si tratta di un perfetto ma poco noto saggio dell’architettura gotica di committenza angioina, con un senso di raffinatezza che si unisce a una nitida e sapiente classicità, in modi analoghi a quelli che Carlo stesso aveva promosso a Napoli per la «sua» nuova cattedrale. V L’autore desidera ringraziare per la cortese accoglienza e per la gentile disponibilità Daniela Bubba, Francesca Capacchione e Raffaele Fanelli della Cooperativa Frequenze.

Da leggere Ernst H. Kantorowicz, Federico II imperatore, Garzanti, Milano 1988 David Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Einaudi, Torino 1993 Maria Stella Calò Mariani, Cavalieri teutonici in Capitanata. L’insediamento di Torre Alemanna, Cerignola 2004 Jean-Marie Martin, Castel Fiorentino; Foggia, in Federiciana, Fondazione Treccani, Roma 2005; anche on line su treccani.it Amedeo Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana, Laterza, Roma-Bari 2011 Guido Iorio, Carlo I d’Angiò re di Sicilia, Editoriale GEDI-L’Espresso, Roma 2018

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iconografia

La Madonna dal braccio armato di Corrado Occhipinti Confalonieri

Sulle due pagine La battaglia di Lepanto, olio su tela del Vicentino (al secolo Andrea Michieli). 1571. Venezia, Palazzo Ducale, Sala dello Scrutinio.

La battaglia di Lepanto, combattuta nel golfo di Corinto nel 1571, segnò la definitiva vittoria delle forze d’Occidente sul nemico ottomano. Ma a quale misteriosa forza la Lega Santa dovette la sua superiorità militare? La risposta si trova, forse, in un curioso affresco conservato nei pressi di Lugano… 96

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omperemo le corna all’indomita bestia»: con queste parole, papa Pio V incuteva ottimismo a Veneziani e Spagnoli suoi alleati nella Lega Santa contro il sultano Selim, che, nel 1571, minacciava l’Occidente con la sua politica espansionistica nel Mediterraneo. E d’ottimismo ce n’era veramente bisogno per la buona riuscita di un’impresa che si dimostrava tutt’altro che facile, anche per la diffidenza che da sempre regnava fra i due imperi. Per il pontefice, l’alleanza rappresentava un’eccezionale occasione per l’ultima, definitiva crociata: dopo la caduta, nel 1291, di San Giovanni d’Acri, non era avvenuta nessun’altra mobilitazione generale della cristianità contro i musulmani. Causa scatenante della guerra fu la rivendicazione dell’impero ottomano su Cipro, allora dominio della Serenissima. Dal 1569 Marcantonio Barbaro, ambasciatore veneziano a Istanbul, inviava continui rapporti al doge,

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nei quali sosteneva che l’arsenale della Mezzaluna stava costruendo nuove galere (navi da guerra che andavano sia a remi che a vela). Con questa dimostrazione di forza, i Turchi chiesero a Venezia l’isola che distava 2000 km dalla città lagunare e solo 70 da Istanbul. Gli abitanti greci di Cipro non tolleravano piú i Veneziani, per via delle tasse, che giudicavano esose, e per le contrapposizioni religiose fra cristiani e cristiano-ortodossi. Per mantenere il dominio, la città lagunare già pagava al sultano 8000 fiorini d’oro annui e il tributo si rivelò un’arma a doppio taglio, perché ne legittimava la rivendicazione. Durante il colloquio di Selim con l’ambasciatore Barbaro, il sultano spiegò di volere l’isola per questioni di sicurezza: la giudicava una base sulla rotta fra Egitto e Costantinopoli per i «corsari ponentini», pirati cristiani di origine spagnola e maltese, pronti a depredare perfino i fedeli che si recavano alla Mecca. Selim non pensava

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iconografia

In alto pianta di Famagosta, pubblicata a Venezia da Donato Bertelli nell’opera Civitatum aliquot insigniorum et locorum, magis munitorum exacta delineatio... 1574. Nella pagina accanto miniatura di scuola turca raffigurante l’assedio ottomano di Famagosta, che si concluse nel 1571 con la caduta della città, difesa da Marcantonio Bragadin. 1581. Istanbul, Biblioteca del Palazzo Topkapi.

che i Veneziani sarebbero entrati in guerra per cosí poco. Oltretutto, aveva sostenuto con Barbaro, Cipro era stata per trent’anni sotto il dominio turco, si pregava Dio nelle moschee, quindi anche le autorità religiose musulmane erano contrarie al mantenimento della concessione. I Veneziani però non volevano cederla, perché credevano di essere una grande potenza mondiale. Iniziò cosí una gara a chi fra i due contendenti mettesse in mare piú galere. In realtà la preoccupazione maggiore della Serenissima era che il sultano volesse impadronirsi di Corfú, un importante snodo marittimo e logistico fra Adriatico ed Egeo. Nel giugno 1570 la flotta veneziana – 94 galere al comando di Girolamo Zane – partí per difendere Cipro, ma perse troppo tempo, perché all’altezza di Zara scoppiò a bordo il tifo petecchiale e riuscí ad arrivare solo fino a Corfú. Intanto, grazie all’appoggio della popolazione locale, 40 000 Ottomani sbarcarono a Cipro senza difficoltà e conquistarono Nicosia, mentre solo Famagosta resisteva all’assedio. A Venezia molti erano spaventati da una guerra che si preannunciava difficile e dispendiosa, oltretutto contro un importante partner commerciale: serpeggiava la propensione per un accordo con i Turchi, ma prevalse invece la corrente di chi voleva proseguire le ostilità. Il comandante Zane venne messo agli arresti e rimandato a Venezia dove fu rinchiuso in prigione senza uscirne vivo. Nella primavera del 1571 Famagosta era sotto scac-

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co, la flotta dei Turchi si trovava in mare con l’obiettivo di smantellare il dominio veneziano: attaccarono Creta e le isole ionie di Zante e Cefalonia e, durante l’estate, si spinsero persino nell’Adriatico, tanto che in laguna si temette un attacco imminente. Galvanizzato da questi successi relativamente facili, il sultano Selim pensò di non accontentarsi di Cipro: voleva conquistare Zara e Corfú e da qui dirigersi oltre nel Mediterraneo, sbarcare in Italia e giungere fino a Roma, alla «mela rossa», come chiamava la cupola della basilica di S. Pietro. Il mondo occidentale tirò un sospiro di sollievo quando Filippo II, re di Spagna, decise di accettare la proposta del papa ed entrò nella Lega Santa, firmata il 2 luglio 1571. Risultava indispensabile che alla flotta veneziana, indebolita dal tifo, si aggiungesse presto l’immensa potenza di quella spagnola, padrona anche di tutta l’Italia. Occorreva però capire se gli alleati erano ancora in tempo a contrastare gli Ottomani prima che questi penetrassero sempre di piú nell’Adriatico, dove già assediavano Cattaro, in Montenegro.

I movimenti delle flotte

Intanto Famagosta aveva capitolato il 1° di agosto e, alla fine dello stesso mese, la flotta cristiana era approdata nello strategico porto di Messina dove, ai primi di settembre, fu pronta a salpare contro i Turchi. Le galere erano giunte da Napoli, Genova, Barcellona, ma a causa delle avverse condizioni del mare mollarono gli ormeggi soltanto il 15 di quel mese. I ritardi furono dovuti anche alla diffidenza degli alleati, soprattutto dei Genovesi al comando di Gian Andrea Doria, che manifestarono insofferenza ad arrischiarsi in quella guerra per i Veneziani con l’autunno alle porte: era costume infatti che le navi non combattessero in quella stagione, perché iniziava il periodo del rimessaggio. Anche gli Spagnoli, nonostante l’accordo militare, giudicavano infingarda la Serenissima. Riferí il loro ambasciatore a Roma, Juan de Zuniga, che «se il nemico attaccasse Malta i veneziani farebbero quello che gli pare». Appreso che la flotta della Lega Santa si trovava già a Messina, gli ammiragli turchi decisero di non rimanere in Adriatico, perché si sarebbero trovati in un pericoloso imbuto e ripiegarono verso il Levante. Per ricevere ordini, scrissero al sultano Selim e al Gran Visir, che dirigevano le operazioni militari da Istanbul, e che risposero loro di accettare la battaglia. La flotta turca era logorata dalle numerose battaglie di quell’estate e non disponeva di sufficienti munizioni, pertanto si fermò in Grecia – nel golfo di Lepanto (Patrasso) – per trascorrere l’inverno. Quella cristiana era fresca e i suoi ammiragli, al comando di don Juan d’Austria, decisero di andare a Lepanto per vedere se i Turchi sarebbero venuti allo scoperto. Il fratellastro del re di Spagna riuscí a mantenere l’ordine nella Lega Santa, nonostanmaggio

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iconografia Venezia, chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo. Il monumento funebre a Marcantonio Bragadin, attribuito a Vincenzo Scamozzi.

La fine di Bragadin

Un epilogo tragico Nonostante la resa di Famagosta, Marcantonio Bragadin e i suoi uomini vennero uccisi brutalmente da Lala Mustafà pascià. Già irritato dalle risposte evasive sulla fine dei prigionieri di guerra turchi, il generale della Mezzaluna perse la ragione al rifiuto di Bragadin di lasciargli in ostaggio un comandante veneziano, perché la richiesta non era prevista nel capitolato di resa. A quel

punto, il pascià mise agli arresti i comandanti della Serenissima e ne ordinò l’immediata decapitazione. A Bragadin tagliò naso e orecchie e, dopo avergli inferto pesanti umiliazioni, lo fece scorticare vivo. Anni dopo, commentando l’avvenimento, Lala Mustafà ammise di aver esagerato. Il lungo assedio e le risposte arroganti del generale veneziano avevano contribuito al tragico epilogo.

Il papa credeva fermamente nell’operazione di guerra. Aveva inviato un nunzio a don Juan per promettere la vittoria agli alleati a condizione però che avessero fede in Dio, si pentissero e mutassero vita. Ogni soldato ricevette un rosario benedetto e un agnus dei in cera consacrata a salvaguardia dei grandi pericoli a cui andavano incontro. Anche le informazioni delle spie sulle cattive condizioni della flotta turca rincuorarono i cristiani che cominciarono a credere di essere piú forti. Prima della battaglia si affermò la convinzione che se i Turchi fossero usciti dalla rada sarebbero stati sconfitti. te il comandante della flotta veneziana, Sebastiano Venier, gli avesse inferto una grave onta: senza confrontarsi con lui, aveva fatto giustiziare per insubordinazione un capitano formalmente agli ordini della Spagna. Grazie alla mediazione di Marcantonio Colonna, comandante della flotta papale, Venier rimase al comando ma non partecipò piú ai consigli di guerra. Don Juan fece uno sforzo enorme per accettare il compromesso. Già umiliato perché il re di Spagna non voleva che lo chiamassero «Altezza», ma solo «Eccellenza», anni dopo ricordò che gestire i comandanti della flotta era stato tanto difficile quanto battersi con i Turchi. Questi ultimi non pensavano che i cristiani li avrebbero affrontati in mare aperto, erano convinti che la flotta della Lega servisse a una conquista territoriale, perché all’epoca la strategia militare non prevedeva la battaglia decisiva.

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Una bonaccia miracolosa

Come abbiamo visto, gli ordini del sultano Selim erano chiari: se fossero arrivati i miscredenti, per l’onore dell’impero i musulmani avrebbero dovuto attaccare. All’alba del 7 ottobre i Turchi uscirono dal golfo, e un vento favorevole permise loro di avvicinarsi velocemente alla formazione cristiana, prima che questa si potesse allineare, come previsto dalla strategia di battaglia. Improvvisamente, però, il vento cessò e la flotta cristiana ebbe cosí il tempo di mettersi in posizione. La bonaccia improvvisa venne interpretata dai testimoni come miracolosa, perché in quella zona al mattino il vento anziché mollare cresceva d’intensità. Tutti si convinsero che si fosse trattato di un intervento divino. Dopo aver esortato i soldati a battersi al meglio, don Juan, sulla Real, si inginocchiò a pregare ed esortò l’emaggio

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sercito a fare lo stesso. Sulle galere cristiane i cappellani voluti dal papa si aggiravano fra i vogatori e la ciurma: mostravano il crocefisso, sostenendo che con lui erano al sicuro. Dalle galere cristiane e da quelle turche proveniva un gran rumore di tamburi, di trombe, di nacchere, si intonavano canti e preghiere. Le due flotte erano imponenti, 50-60 000 uomini e 200 galere per ciascuna. In quella che venne ricordata come una delle piú grandi battaglie del Mediterraneo combatterono oltre 100 000 persone. A bordo di ogni galera c’erano 150 rematori – galeotti, qualche schiavo e buonavoglia (rematori volontari) –, 50 marinai e 100 soldati. Ciascuna disponeva di cannoni sulla prua che sparavano proiettili di pietra. La tecnica di guerra era molto semplice e consisteva nell’avvicinarsi al nemico e fare fuoco all’impazzata. I giannizzeri turchi erano armati di archibugio e affiancavano la cavalleria imbarcata, anche se poco adatta al combattimento sulle navi. I soldati cristiani erano meglio equipaggiati: oltre all’archibugio disponevano di picca – dotata di una notevole forza d’urto – e di armatura, mentre i Turchi ne erano privi. Le forze dei due schieramenti sul campo di battaglia erano uguali, ma la flotta cristiana disponeva di piú cannoni, anche a lunga gittata pesante, montati sulle sei navi da guerra in prima linea, chiamate galeazze, «alte come castelli in mare». Le armate della Lega Santa sparavano da maggiore distanza: i Turchi, convinti di essere abbastanza vicini, cannoneggiavano a loro volta, ma a vuoto. Anche questo avvenimento venne accolto dall’esercito cristiano come un miracolo.

Speronamenti e arrembaggi

Con la manovra di avvicinamento, le galere cominciarono a sparare a ripetizione: molti legni turchi furono colpiti e, incendiandosi, fecero levare spesse coltri di fumo, mentre i feriti gridavano disperati. La tattica prevedeva che ogni vascello ne speronasse un altro, in modo da spezzare i remi, assorbire l’urto e affiancarsi per l’arrembaggio delle truppe. A quel punto, i buonavoglia e i galeotti vennero liberati dalle catene perché partecipassero al combattimento, cosí come gli schiavi cristiani che riuscirono a liberarsi. La battaglia si consumò a colpi d’archibugio, di lancia e di spada, accompagnati da una pioggia di frecce, tirate soprattutto dagli Ottomani. Il fuoco greco – la micidiale miscela composta, fra l’altro, da pece, salnitro, zolfo e calce – venne sparato dai lanciafiamme oppure gettato a bordo con pignatte; per la reazione con la calce viva, non poteva essere spento dall’acqua, ma solo con la sabbia. Sulle navi in legno, sulle vele, sulle sartie L’isola di Corfú e la battaglia di Lepanto, affreschi realizzati su cartoni di Egnazio Danti fra il 1580-1585. Città del Vaticano, Galleria delle Carte Geografiche.

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iconografia la confraternita di loano

Cappe color del mare Quando partecipò alla battaglia di Lepanto, l’ammiraglio ligure Gian Andrea Doria aveva poco piú di trent’anni ed era da poco diventato padre dell’erede maschio, Andrea II, avuto dalla moglie Zenobia del Carretto che gli aveva portato in dote il ricco principato di Melfi, dono dell’imperatore Carlo V. Gian Andrea era feudatario di Loano e, a ricordo della vittoria, volle costituire in questa città ligure una Confraternita che si sarebbe occupata di opere ai bisognosi e di solidarietà reciproca. Le cappe di cui il marchese Andrea II riforní i confratelli erano del colore del mare, come le casacche dei marinai che avevano riportato a Lepanto la vittoria contro gli Ottomani. Per ricordare la gloriosa battaglia, l’organizzazione venne dedicata alla Madonna del Rosario, che si festeggia a Loano con una suggestiva processione la prima domenica di ottobre, istituita da Pio V in ricordo della vittoria riportata il 7 ottobre 1571. In alto Allegoria della battaglia di Lepanto, olio su tela di Paolo Veronese (al secolo Paolo Caliari). 1572-1573. Venezia, Gallerie dell’Accademia. La Serenissima è raffigurata come una donna vestita di bianco, introdotta al cospetto della Vergine dai santi Giustina e Marco, mentre sulla sinistra si riconoscono san Pietro e san Rocco. Il favore divino concesso alla flotta cattolica è sottolineato dai raggi luminosi e benefici che individuano le navi dei vincitori mentre ombre scure sembrano inesorabilmente flagellare le navi dei «nemici».

A sinistra il gonfalone della confraternita fondata a Loano per volere di Gian Andrea Doria dopo la vittoria di Lepanto.

e sulle cime questo fuoco ebbe un effetto devastante: moltissimi uomini rimasero ustionati, mentre cominciavano feroci combattimenti corpo a corpo. L’unico fronte cristiano ad avere la peggio fu quello del corno destro, al comando di Gian Andrea Doria, il quale, anziché mantenere la posizione in linea, si allontanò in mare aperto, forse per paura di danneggiare le proprie galere. Il comandante algerino Uluç Alí, quando vide che il Genovese aveva poca voglia di battersi,

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A sinistra Sebastiano Venier, olio su tela del Tintoretto (al secolo Jacopo Robusti). 1571 circa. Vienna, Kunstihistorisches Museum. Alle spalle del ritratto l’artista ha riprodotto la battaglia di Lepanto.

anziché lanciarsi al suo inseguimento, attaccò i vascelli rimasti scoperti dove i soldati della Lega combatterono fino all’ultimo prima di essere fatti a pezzi dai musulmani, nonostante le galere cristiane vicine si fossero lanciate al soccorso e, per fare piú velocemente, avessero tagliato le cime con cui rimorchiavano le navi prigioniere. Ma ormai non c’era piú nulla da fare: i pirati algerini scapparono con alcune galere. Qualche mese dopo, Pio V in una lettera al re di Spagna commentò cosí l’episodio: «Il Doria per quanto si intende si sarebbe potuto portar meglio nella giornata, et pare habbia atteso piú a conservarsi, che a offendere il nemico». Nonostante questo incidente e qualche duello perso, la fanteria cristiana catturò progressivamente le galere ottomane, macellò i Turchi e li gettò in mare. La Lega Santa aveva vinto su tutti gli altri fronti. Lepanto fu un avvenimento memorabile che riuscí a fermare l’espansione dell’impero ottomano in un solo giorno anche se negli accordi di pace Cipro ritornò ai Turchi.

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Insegne turche in rame, legno e crine di cavallo provenienti da Lepanto. 1570. Madrid, Armeria Reale.

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iconografia A

G E R M A N I A

Biel

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Zurigo

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AUSTRIA

Chur

Losanna Sion

Bellinzona Pazzalino Lugano I T A L I A

Pazzalino (Lugano). L’affresco che raffigura la battaglia di Lepanto, caratterizzato dal prodigioso intervento della Vergine. 1603. Alla tradizionale interpretazione «bellicosa» di Maria e del Bambino è stata affiancata l’ipotesi che quelle scagliate sui Turchi non siano palle di cannone o bombe, ma grani di rosario, in un gesto che potrebbe essere letto come un invito alla conversione.

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Alcuni anni piú tardi, lo spirito che aveva animato i partecipanti alla battaglia di Lepanto fu ben illustrato in un affresco nella chiesa di S. Maria a Pazzalino, vicino a Lugano. Trenta archibugieri lucernesi che avevano combattuto tra le forze papali – riportando due vessilli dei Turchi – descrissero gli avvenimenti al pittore, che immortalò la vicenda in modo sorprendente. La rappresentazione è divisa in due parti. In quella inferiore vediamo la scena visibile della battaglia, quella raccontata dai testimoni. La superiore illustra invece l’invisibile intervento celeste che domina l’evento storico, quello percepito dalla fede. Nella scena inferiore, nell’angolo sinistro, si vedono in primo piano papa Pio V e re Filippo II di Spagna, che, inginocchiati su di un cuscino verde, osservano l’armata ottomana in disfacimento. Di fronte ai vascelli nemici è schierata la flotta

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Filippo II offre l’infante Ferdinando alla Vittoria, olio su tela di Tiziano Vecellio. 1573-1575. Madrid, Museo del Prado. Il dipinto intende commemorare i fausti eventi vissuti dal re di Spagna nel 1571: la vittoria di Lepanto e la nascita di un erede.

della Lega Santa. Si notano solo i vessilli con lo stemma pontificio e regio, mentre è assente quello del Leone di san Marco, per dare risalto al carattere religioso della guerra rispetto a quello commerciale. Sui ponti delle rispettive galere sono schierati in postazione gli archibugieri che esplodono i colpi. Mentre le navi della Lega appaiono poderose, quelle dei musulmani appaiono solo come grandi barche, forse per fare risaltare la superiorità degli artigiani occidentali, che erano riusciti in breve tempo a costruire nuove e potenti navi con cui avevano pareggiato le flotte. In primo piano, il maestro di Pazzalino ha raffigurato un mare ondoso, nel quale i Turchi naufraghi cercano di aggrapparsi alle scialuppe di salvataggio fra cadaveri, resti umani e armi che galleggiano in mezzo ai pezzi di legno delle navi bombardate. Un Ottomano con una ciabatta appuntita sembra cadere dalla scialuppa, perdendo cosí anche l’ultima speranza di salvarsi la vita. Un altro si aggrappa disperato al bordo dell’affollata imbarcazione, mentre un suo compagno lo minaccia con la spada per non farlo salire. La scena sottolinea la meschinità dei soldati della Mezzaluna di fronte alla disfatta, la loro totale mancanza di pietà e solidarietà. Questo comportamento rappresenta un dettaglio della catastrofe che portò alla perdita di oltre 20 000 uomini e tinse di rosso sangue il mare.

Un contrasto sorprendente

La scena superiore rappresenta un unicum nell’iconografia della battaglia di Lepanto e appare anche la piú sorprendente. In una ghirlanda di nuvole nella quale si affacciano i visi degli angeli, vediamo la Madonna che, invece di compiere atti di misericordia, sgrana le bombe sopra l’armata degli infedeli. La Vergine porge l’ordigno a un angelo che ha il ruolo di bombardiere e Gesú bambino sulle sue ginocchia fa altrettanto. La raffica è continua, perché una terza bomba sta per cadere sui Turchi e una quarta ha già centrato l’imbarcazione ottomana. Sorprende il netto contrasto fra la micidiale efficacia dell’azione bellica e la mitezza dei visi celesti che oggi suscita in noi compassione nei confronti dei musulmani, i quali non possono contrastare in alcun modo quella soave violenza. Il motivo di questa insolita rappresentazione è da ricercarsi nella necessità di ribadire che Lepanto fu «vittoria religiosa»: la ragione che sottostà alla fede, un ritorno all’unità medievale prima che l’illuminismo compia la netta demarcazione. L’enorme sforzo di unione, sia intellettuale che economica, fu talmente sentito da

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Pio V da concedere a Venezia le decime delle chiese per ingrandire la flotta. Il papa, inoltre, ammoní che, per vincere, bisognava invocare il favore divino e lo propiziò con digiuni a tutto il clero. Quando la vittoria arrise, venne istituita la festa del Rosario dedicata alla Madonna che a Pazzalino riveste il suo significato piú simbolico per il suo intervento diretto nella battaglia. La riassumono le parole volute dal doge sotto l’affresco nella sala delle adunanze: «Non viri, non arma, non duces, sed Maria S. Rosarii fecit nos esse victores» («Non gli uomini, non le armi, non i comandanti ma Maria del santo Rosario ci rese vincitori»). Il carattere di guerra difensiva giustifica la presenza di armi fra le mani di Maria, perché punisce l’aggressore. L’aspetto negativo sta quindi nella malvagità degli infedeli che, grazie all’intervento divino, suscita nei cristiani la forza per contrastarla e punirla. Nel dipinto si afferma cosí che la giustizia è valore superiore alla vita, perché si vive per la giustizia, non per la rassegnazione. Dopo la caduta di Bisanzio (1453) e l’avanzata dei Turchi nell’Adriatico, sembrava che l’Occidente cristiano fosse incapace di reagire al pericolo. La vittoria invece, nella propaganda seguita allo scontro, esaltò l’Occidente unito contro un nemico comune che sembrava invincibile e spazzò via – in un sol giorno – quel senso di impotenza, grazie all’intervento della Madonna combattente. F

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Sant’Antonio e il noce

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santuario antoniano di Camposampiero, presso Padova, si venera il ricordo del santo francescano, che qui avrebbe a lungo vissuto, fra i rami d’un albero, attirando folle di devoti e compiendo numerosi miracoli Camposampiero (Padova). Il Santuario del Noce, sorto nel luogo in cui, secondo la tradizione, sant’Antonio avrebbe vissuto fra i rami di un noce, in una dimora costruita per lui da Tiso VI Da Camposampiero.

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utto ebbe inizio nel decennio 1220-30. Camposampiero era allora un borgo sull’antica via Aurelia, un gruppo di casupole serrate intorno alla chiesa di S. Pietro edificata accanto a un incrocio tra la strada romana che congiungeva Padova ad Asolo e un decumano della perfettamente conservata centuriazione romana. Era dominato da un castello protetto dalle acque abbondanti di un piccolo fiume di risorgiva, il Vandura. L’inespugnabile costruzione apparteneva a una famiglia d’origine tedesca stanziata nel territorio dall’XI secolo e che sarebbe stata chiamata Da Camposampiero. Il feudo signorile non era vasto, stretto com’era tra i beni del vescovado di Padova a sud e di Treviso a nord e bloccato a ovest dai parenti-nemici Da Onara. Capo

della famiglia Da Camposampiero era in quel decennio Tiso VI, uomo abile nel destreggiarsi tra i potenti vicini grazie al suo ruolo di «guardiano dei confini». Molto presto membri della abilissima domus avevano capito che il futuro si sarebbe giocato nelle città: già nel XII secolo si erano insediati in un palazzo a Treviso e in un altro nel cuore politico e commerciale di Padova, sul quale svettava l’alta torre tuttora esistente al centro delle maggio

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In alto l’interno del Santuario del Noce. Nell’abside si staglia la pala dipinta nel 1536 da Bonifacio Pitati e che rappresenta il santo sul noce.

AUSTRIA A LTO A D I G E

Cortina d’Ampezzo

Bolzano

Pieve di Cadore FRIULI

TRENTINO

Belluno Sedico Feltre

VENEZIA

GIULIA Vittorio Veneto

Conegliano Bassano del Grappa Asolo Marostica Treviso Oderzo Valdagno Camposampiero Caorle Vicenza Torcello Verona Mirano Murano MARE Padova Venezia ADRIATICO Monselice Este Chioggia Legnago Rovigo LOMBARDIA Adria EMILIA-ROMAGNA

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piazze. Dai primi anni del XIII secolo, Tiso VI aveva abilmente tessuto alleanze con i ricchissimi Da Baone prima e con i potenti signori di Este poi. Ne aveva riscosso tale fiducia che, alla morte di Azzo, era stato nominato tutore del giovane erede.

Uomo di potere e di fede Per gli Este era andato a combattere nelle Marche (1212-1218), aveva riportato vittorie ed era anche stato fatto prigioniero, era riuscito a pagare il riscatto e a tornare libero a Padova, dove aveva ripreso saldamente in mano il suo ruolo di capo della domus e di ascoltato membro del ceto dirigente cittadino. Tiso VI era certamente un uomo di potere, ma era anche uomo di autentica fede. Nelle Marche aveva conosciuto quei giovani vestiti di un

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povero saio che, senza preoccuparsi del domani, si spostavano da un borgo all’altro portando amore cristiano, serenità, fiducia e aiuto generoso: erano gli umili frati di san Francesco. Tornato nella sua terra, Tiso VI costruí un piccolo convento, povero come avrebbe voluto Francesco, accanto alla chiesetta di S. Giovanni, probabilmente la cappella di famiglia appena fuori dalle mura del castello. E vi chiamò a vivere alcuni Francescani, che avrebbero confortato gli umili contadini del territorio col messaggio della fratellanza cristiana. Nel 1231, quando frate Antonio, giunto in città da appena due anni – che bastarono però a farlo conoscere per sempre come il «Santo» di Padova –, dovette cercare una pausa perché stremato dalla predicazione del quaresimale che aveva messo in crisi la sua salute già minata, Tiso VI fu pronto a offrirgli un rifugio sereno in quel piccolo convento che sorgeva ai limiti di un immenso bosco, in un territorio ricco di acque. Antonio accettò l’invito e giunse nel villaggio alla ricerca di silenzio e di pace, in un ritorno a quell’eremo che aveva sempre cercato. E quasi

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a simboleggiare l’abbandono delle preoccupazioni terrene, Tiso VI costruí con le proprie mani tra i forti rami di un grande noce una cella per frate Antonio, che lassú poté forse avvertire la vicinanza al cielo.

Un incontro decisivo Esattamente due secoli dopo, un altro Camposampiero, quel Gregorio che come mercante sembrava possedere il tocco magico di trasformare ogni impresa in denaro sonante, incontrò un altro Francescano, un predicatore capace di scuotere le coscienze, Bernardino da Siena. Come Tiso VI, anche Gregorio fu toccato dalla novità della predicazione dei Francescani osservanti: nel 1423 decise di ricostruire chiesa e convento di S. Giovanni, in rovina dopo l’abbandono dei frati forse a causa della peste del 1348. Gregorio non si limitò a ricostruire quegli edifici; chiese al pontefice di affidarli agli osservanti, che giunsero a risiedere nel convento già nel 1427. Egli aveva cosí riallacciato l’antico legame tra la famiglia e i Francescani. Ma non gli bastò. Nel 1432 volle che, sul luogo dove sorgeva l’antico noce di cui restavano maggio

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In alto Vergine col Bambino tra sant’Antonio e san Girolamo, affresco che orna la lunetta sovrastante il portale d’ingresso. A sinistra e nella pagina accanto San Giovanni Battista e San Daniele e compagni martiri, affreschi che gli studi piú recenti tendono ad attribuire a Gualtiero Padovano. 1530-1540.

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solo le radici, fosse edificato un piccolo oratorio: fece costruire l’altare esattamente sopra le restanti radici e dette cosí un’immagine tangibile alla memoria degli abitanti che avevano continuato a narrare nei lunghi falò invernali di quando il santo pregava sul noce e tutti accorrevano ad ascoltarlo.

Nasce la confraternita La venerazione dei residenti tenacemente coltivata aveva trovato un luogo concreto da frequentare e da tramandare. Ben presto nacque in Camposampiero la confraternita dei santi Francesco, Antonio e Bernardino, che si incaricò della particolare cura dell’edificio. Nel decennio 1530-40 gli associati chiamarono ad affrescare l’oratorio un pittore, che si è creduto di identificare in Girolamo Dal Santo; ma recenti riletture sembrano orientare la critica verso Gualtiero Padovano. Sopra il semplice portalino d’ingresso all’oratorio l’affresco della lunetta presenta la Vergine col Bambino tra sant’Antonio e san Girolamo. La scelta del primo è ovvia; quella del secondo non è invece certa, ma si suppone che sia stata dettata dal desiderio di

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CALEIDO SCOPIO In questa pagina altri particolari degli affreschi attribuiti a Gualtiero Padovano. A sinistra, Il Santo libera una moglie dal sospetto di tradimento, ordinando all’infante d’individuare suo padre; in basso, Qui, mentre viene seminata la sacra Semente, le messi calpestate dai piedi risorgono piú vigorose. 1530-1540.

rappresentare il santo eponimo di Girolamo Camposampiero, in quegli anni il maggior esponente della famiglia discendente da Gregorio. L’interno del vano principale accoglie il visitatore con le pareti interamente affrescate da un ciclo rievocativo di alcuni miracoli compiuti da sant’Antonio. Finte cornici inquadrano ciascun episodio, profilando la struttura interna dell’edificio e scandendola in modo preordinato in tre lunette e due pareti divise verticalmente in dieci scomparti. Ogni riquadro porta una iscrizione esplicativa che appiana le difficoltà nel riconoscimento del tema. Le storie sono raggruppate e distribuite in modo che la figura di Antonio sia rappresentata secondo alcuni nodi concettuali: le verità di fede insidiate dall’eresia, il carisma di Antonio capace di parlare ai dotti dell’Università di Padova come ai poveri contadini del villaggio, il bisogno di salvezza e di aiuto della povera gente. Alcuni racconti di miracoli sono ricorrenti nei cicli a essi dedicati

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in diverse città italiane, come il miracolo della mula o quello della predica ai pesci. Altri rievocano episodi narrati con minor frequenza.

Il miracolo delle spighe Uno, in particolare, appartiene a una tradizione agiografica tarda nei testi, ma perennemente viva tra gli abitanti del paese: era allora, ed è stato fino a pochi decenni fa, quando ancora le nonne raccontavano ai nipotini le storie dell’attenzione del santo ai problemi della povera gente, un episodio caro alla tradizione locale. Emergeva dalle

parole delle narratrici tutto lo sgomento del contadino proprietario del campo che vedeva le belle spighe di grano calpestate da chi era accorso ad ascoltare le parole d’amore e di speranza del frate; ed esplodevano poi la gioia per la visione di quelle spighe che rialzavano la testa e la gratitudine per il provvidenziale intervento.

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Mentre miracolosamente guarisce la grave ferita, il Santo c’insegna ad avere una fede inconcussa, un altro degli affreschi attribuiti a Gualtiero Padovano. 1530-1540.

Nel riquadro che rappresenta l’evento, il santo è realmente seduto sui rami del noce, secondo una narrazione ininterrotta da quella lontana estate tra maggio e giugno durante la quale frate Antonio era vissuto nel piccolo convento per meditare, ma non aveva disdegnato di confortare gli umili. Il vano presbiteriale è dominato dalla pala di Bonifacio Pitati che rappresenta ancora una volta sant’Antonio sul noce. Ma mentre l’evento narrato nell’affresco fa parte della tradizione locale che ricorda il santo fisicamente asceso sul noce, la pala rappresenta l’apparizione sul grande albero del santo evocato dalla preghiera collettiva; e, a sua volta, il santo evoca la Madonna col Bambino che appaiono tra le nuvole con i santi Francesco e Giovanni Evangelista, titolari rispettivamente dell’Ordine e della chiesa del vicino convento nel quale frate Antonio ebbe la visione del Bambino. Ai piedi del noce stanno, da un lato, il podestà seduto su un tappeto persiano con i suoi collaboratori e gli ufficiali del comune, dall’altro

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bambini che giocano, donne in assorta preghiera intente a sgranare il rosario col simbolo bernardiniano, e uomini vestiti come per una parata cittadina. Sullo sfondo si vedono scene in cui frati e membri della confraternita curano i malati o sono impegnati in opere di carità.

Le tradizioni piú care In alto, sulle pareti del presbiterio, sono rappresentati alcuni santi dell’Ordine francescano, ben noti a Padova e alcuni legati in qualche modo a Camposampiero, come il beato Luca Belludi, «uomo famoso per bontà», che aveva accompagnato frate Antonio nel soggiorno nel villaggio, il beato Bernardino da Feltre, fondatore, nel 1492, del locale Monte di Pietà, che all’epoca della realizzazione degli affreschi era amministrato dalla confraternita francescana, e Giacomo della Marca, abilissimo predicatore che aveva a lungo soggiornato nel convento di Padova ed era stato conosciuto da Gregorio Camposampiero. Sulle pareti del piccolo oratorio erano dunque rappresentate le tradizioni

Da leggere Elda Martellozzo Forin (a cura di), I Da Camposampiero nel Medioevo veneto. Protagonisti, luoghi, eventi, Atti del Convegno, Camposampiero (Padova, 2 ottobre 2010), Centro Studi Antoniani, Padova 2014 Elda Martellozzo Forin, Luciano Bertazzo (a cura di), Camposampiero. La parabola del francescanesimo osservante (secoli XV-XVI), Giornata di Studio (sabato 23 maggio 2015), Centro Studi Antoniani, Padova 2016 Valeria Martellozzo, Il Santo, il Signore e il Tiranno. Antonio, Tiso Da Camposampiero ed Ezzelino Da Romano, ASI srl, 2016 piú care al cuore degli abitanti. E questo spiega come esso sia tuttora amato e frequentato: sta là in fondo a un piccolo viale delimitato da due fossatelli e da alti alberi frondosi. Arrivarci camminando lentamente nel silenzio è tuttora un’esperienza dello spirito. Elda Martellozzo Forin

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Tecnologia amica MUSICA • Recuperate

grazie all’utilizzo di sofisticate metodologie, le composizioni trascritte nel documento noto come Palinsesto di San Lorenzo sono ora protagoniste di un progetto discografico che fa luce sulla ricca produzione musicale fiorentina del XIV secolo MEDIOEVO

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iú di una volta, in queste pagine, abbiamo sottolineato l’importanza del Trecento musicale, noto per la fioritura di quella stagione che i teorici dell’epoca definirono come Ars Nova; un’epoca che ha visto nascere e svilupparsi una serie di generi poetico-musicali profani – in particolar modo la ballata, la chanson, il madrigale e la caccia – accompagnati da altrettanti rinnovamenti nel linguaggio polifonico, preludio alla grande stagione umanistica del XV secolo. La grande fioritura che ebbe luogo nel Trecento musicale europeo, e in particolare italiano, ci è oggi

testimoniata da una serie di codici musicali che hanno costituito per decenni la fonte principale per la conoscenza di quel repertorio.

Una panoramica esaustiva Basti pensare al celebre Codice Squarcialupi (inizi del XV secolo) o al Codice di Faenza (XV secolo) e al Codice Rossi della Biblioteca Apostolica Vaticana (metà del XIV secolo), che, insieme, offrono una panoramica esaustiva della produzione vocale e strumentale del XIV secolo. Ma questo panorama non sarebbe veramente completo senza prendere in considerazione un altro

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CALEIDO SCOPIO Di particolare bellezza sono Lasso dolente di Piero Mazzuoli, nonché Splendor da ciel di Giovanni Mazzuoli, che dà il titolo all’antologia, brano dedicato a una giovane donna, Lisa, dal celebre poeta fiorentino Franco Sacchetti, che è l’autore del testo.

Virtuosismi e sperimentazioni

Splendor da ciel Rediscovered Music from a Florentine Trecento Manuscript La Morra Ramée (RAM1803), 1 CD www.outhere-music.com testimone, il cosiddetto Palinsesto di San Lorenzo, conservato nell’archivio dell’omonima chiesa fiorentina (MS 2211). Intrigante la storia di questo codice pergamenaceo, oggi conosciuto come «Campione de’ Beni del 1504», ma originariamente allestito e concepito nel secondo decennio del XV secolo come raccolta di brani musicali. Seguendo il destino di molti altri codici medievali, le sue carte furono erase nel corso del XVI secolo, cosí da poter essere riutilizzate per altri scopi. E solo grazie all’intervento, nel 2013, del CSMC (Centre for the Study of Manuscript Cultures) di Amburgo si è riusciti, servendosi

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di accurate scansioni eseguite con camera multispettrale, a recuperare i testi cancellati.

Una famiglia di musicisti Al repertorio fortunatamente «risorto» del Palinsesto di San Lorenzo è dedicata un’antologia che ha il pregio di gettare nuova luce su aspetti della produzione fiorentina trecentesca, ben rappresentata nel documento insieme ad altri nomi illustri del Trecento musicale italiano e francese. Di particolare interesse sono i brani inediti di Giovanni Mazzuoli (13060 circa-1426) e di suo figlio Piero (1386-1430), entrambi musicisti attivi a Firenze. Giovanni fu organista presso la Confraternita di Orsanmichele e alla cattedrale, mentre il figlio Piero, alla carriera notarile alternò quella di organista nella medesima Confraternita, alla chiesa di S. Lorenzo per poi succedere al posto del padre alla cattedrale di Firenze.

Oltre alle novità assolute costituite dalle musiche dei due Mazzuoli, la silloge propone anche brani di altri nomi noti del Trecento italiano. Tre ascolti ci illustrano l’arte del benedettino Paolo da Firenze (1355-1436), impegnato nella carriera diplomatica e in quella musicale, le cui musiche esibiscono un affascinante quanto raffinato virtuosismo. Al genere dell’Ars subtilior ci riporta l’ascolto dedicato ad Antonio Zacara da Teramo (1360 circa-1416), altro grande rappresentante di quella fase finale dell’Ars Nova interamente votata allo sperimentalismo ritmico e notazionale. Oltre a brani anonimi che propongono chanson su testi francesi, altri ascolti sono dedicati a Jacopo da Bologna (ante 1340-1360), Giovanni da Cascia (ante 1340-1350) e, infine, due mottetti su testo latino firmati da Hubertus de Salinis (ante 1390-1420). Protagonista di questo pregevole progetto discografico è il gruppo La Morra, fondato nel 2000 e diretto da Corina Marti e Michał Gondo. Composto da eccellenti elementi, tutti provenienti dalla famosa Schola Cantorum di Basilea, l’ensemble è costituito da quattro voci e da tre strumentisti che si alternano all’organetto, clavicembalo, flauti, liuto e viella. Un gruppo di grande spessore musicale che si cimenta in questo repertorio con grande maestria, optando per una esecuzione che vede l’alternanza tra le voci, gli strumenti e/o l’abbinamento di entrambi in un mutevole gioco di grande efficacia e varietà sonora. Franco Bruni maggio

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