Medioevo n. 267, Aprile 2019

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MEDIOEVO n. 267 APRILE 2019

DE I LL SE A G M R AS E SO T NE I RI A

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IN EDICOLA IL 2 APRILE 2019



SOMMARIO

Aprile 2019 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE Andare a Buda

Una vittoria pagata a caro prezzo 5 RESTAURI Fascino del «ben finito»

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MOSTRE Un mondo in festa

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APPUNTAMENTI Madre universale Intrecci pasquali I giorni dei tamburi L’Agenda del Mese

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LUOGHI

STORIE BATTAGLIE Mohi Terrore mongolo di Federico Canaccini

60 ARTE DELLE ANTICHE CHIESE/5 Emilia-Romagna Sette chiese per Bologna

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di Furio Cappelli

MEDIOEVO NASCOSTO

COSTUME E SOCIETÀ

Lombardia

MEDIEVALISMO/4 Benvenuti a Westeros!

di Corrado Occhipinti Confalonieri

di Riccardo Facchini

50

50

60

L’«altro» Francesco

104

104

CALEIDOSCOPIO MUSICA Tempi di rivoluzioni

112

LIBRI Lo Scaffale

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Dossier MASSONERIA

La fratellanza del compasso 75 di Marina Montesano


MEDIOEVO n. 267 APRILE 2019

DE I LL SE A G M R AS E SO T NE I RIA

MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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21/03/19 16:25

MEDIOEVO Anno XXIII, n. 267 - aprile 2019 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Angelo Disanto è storico e antropologo. Riccardo Facchini è dottore di ricerca in storia della civiltà europea. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Marina Montesano è professore ordinario di storia medievale all’Università degli Studi di Messina. Corrado Occhipinti Confalonieri è cultore di materie storiche. Tiziano Zaccaria è giornalista. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 46, 60/61, 62 (basso), 63 (basso), 64/65, 66-67, 69 (alto), 70-71, 82 – Doc. red.: pp. 5, 16 (alto), 40-41, 44, 78, 78/79, 80, 83, 85, 86/87, 88/89, 90/91, 96, 97 (centro e basso), 99 – Cortesia Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Malcangi/Mondadori Portfolio: pp. 6-8 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 9 (alto), 37, 45 (basso), 84/85, 94/95, 101; Collection Christophel/ CTB Film Company/Andreevsky Flag Film Company: pp. 34/35; Age: pp. 38, 75, 88, 92/93, 95 (alto e basso); HBO/Album: pp. 50-51, 52; Electa: p. 63 (alto); Fine Art Images/Heritage Images: pp. 72 (basso), 80/81; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: pp. 79, 98 (basso); Historica Graphica Collection/Heritage Images: p. 92; Erich Lessing/Album: p. 97 (alto); Album/ Quintlox: p. 98 (alto); Album/Fine Art Images: pp. 102/103 – Cortesia Ufficio Stampa Tour Jean Sans Peur: © BnF: pp. 9 (basso), 10 – Cortesia Angelo Disanto: pp. 16-17, 18, 20 – Cortesia degli autori: pp. 21, 22, 111 (destra) – DeA Picture Library: pp. 39, 53; A. Dagli Orti: p. 76 – Bridgeman Images: pp. 45 (alto), 77 – da: Game of Thrones, HBO: pp. 54-59 – Cortesia Furio Cappelli: pp. 64, 65, 68, 69 (basso) – Archivi Alinari, Firenze: pp. 72/73 – Cortesia Virtus Zallot: pp. 104/105, 106, 106/107, 107 (alto), 108109, 110 – Cortesia Tino Mantarro: p. 111 (sinistra) – Patrizia Ferrandes: cartine e rialaborazioni grafiche alle pp. 36/37, 42-43, 107. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina particolare dello scranno su cui siede il sovrano dei Sette Regni nel Trono di Spade, composto da un migliaio di lame appartenute a nemici sconfitti.

Nel prossimo numero storie

L’ultimo mistero di Corradino

itinerari in capitanata

Tra Federico II e Carlo d’Angiò

medievalismi

Il Medioevo dei preraffaelliti


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Una vittoria pagata a caro prezzo

O

ggi scarsamente utilizzata, l’espressione «Andare a Buda» significa, come notava l’erudito Paolo Minucci (1626-1695), andare via «per non ritornare piú», ovvero morire. Il modo di dire doveva essere ben noto ai contemporanei di Minucci, giacché si collega all’episodio storico dell’interminabile assedio di Budapest, avvenuto nel 1686. Dai tempi della caduta di Bisanzio (1453), la paura del turco si era profondamente radicata nella mentalità europea. Nel 1456 i Turchi furono respinti a Belgrado, rinviando la sottomissione di buona parte dell’Europa orientale: la città sarebbe caduta nelle mani di Solimano il Magnifico solo nel 1521. Se l’assedio di Vienna del 1529 fu un fallimento, Budapest cadde nel 1540 e la cristianità ebbe un nuovo sussulto. A Lepanto, nel 1571, la flotta cristiana sconfisse la flotta di Alí Pascià, ma, nel corso del XVII secolo, il conflitto tra Austria e impero turco riprese in modo virulento. Nel 1683 le forze ottomane furono sconfitte nuovamente a Vienna e l’anno seguente i cristiani tentarono di riprendere la capitale ungherese. L’assedio del 1686 fu appunto il secondo tentativo in tal

senso e l’operazione militare durò due mesi e mezzo, impegnando un esercito composto da circa 74 000 soldati, quasi il doppio rispetto al fallito assedio del 1684. L’esercito era sotto il comando del duca di Lorena, Carlo V, ed era composto da Austriaci, Tedeschi, Ungheresi, Cechi, Italiani, Francesi, Svedesi e moltissimi volontari, accorsi da tutta Europa. Durante le operazioni morí un numero enorme di cristiani e perciò «andare a Buda» divenne presto sinonimo di «andare a morire». Ha scritto Ernst Trost nella biografia del principe di Savoia che «contro i Turchi, la cui lunga e ostinata resistenza era costata una cosí gran quantità di vite di loro camerati, si scagliarono i vincitori senza riguardo né all’età né al sesso». Di significato analogo era l’espressione, anch’essa ormai in disuso, «andare a Patrasso». Ma in questo caso la città di Patrasso non c’entra affatto: si tratta infatti di una corruzione della espressione latina «ire ad Patres», cioè «andare a trovare i propri avi», da cui il senso di «morire». La presa di Buda nel 1686, olio su tela di autore anonimo. 1686 circa. Berlino, Deutsches Historisches Museum.


ANTE PRIMA RESTAURI • Della

Scuola di Atene, uno dei capolavori di Raffaello Sanzio ci è giunto anche il cartone preparatorio. Un’opera di straordinario valore, artistico e documentario, che la Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano torna ora a esporre

Sulle due pagine il cartone preparatorio per la Scuola di Atene, disegno a biacca e carboncino di Raffaello Sanzio. 1509. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Nella pagina accanto un momento dell’intervento di restauro dell’opera.

Fascino del «ben finito» S

tudi e bozzetti su carta emanano un fascino particolare, poiché offrono la sensazione di poter apprezzare ancor meglio dell’opera finita la «mano» di chi ne è stato l’artefice. Ed è proprio quel che accade nel trovarsi al cospetto del grandioso cartone preparatorio disegnato da Raffaello Sanzio per la Scuola di Atene, che torna a farsi ammirare dopo un minuzioso intervento di restauro. Il maestro urbinate ricevette l’incarico per la realizzazione dell’opera nel 1508, da papa Giulio II, il quale gli affidò la decorazione di una delle sale dei suoi appartamenti in Vaticano, la Stanza detta «della Segnatura». L’opera è nota come Scuola di Atene, ma il titolo piú esatto è La Filosofia, come suggerisce l’omonima allegoria che

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occupa la vela sovrastante l’affresco, seguendo un complesso progetto iconografico. Le quattro pareti della stanza propongono, infatti, la Filosofia, la Teologia (affresco noto come Disputa sul santissimo Sacramento), la Giurisprudenza e la Poesia (Il Parnaso).

Un trionfo della saggezza antica Il cartone trasmette l’equilibrio compositivo e la chiarezza di contenuto che l’artista voleva raggiungere in questo dipinto, vero e proprio trionfo della saggezza antica radunata attorno alle figure cardine di Platone e Aristotele. Con una capacità sintetica senza pari, Raffaello riesce a condensare in due semplici gesti l’intera indagine filosofica dei due pensatori: il primo indica con la mano destra

l’iperuranio, il mondo delle idee trascendenti, il secondo ha il palmo della mano rivolto verso il basso, a indicare la sua filosofia improntata all’indagine del mondo concreto. Tutt’intorno si dispone il consesso degli altri pensatori dell’antichità. In primo piano, sulla destra, si può osservare il gruppo dei filosofi interessati ai fenomeni celesti e della natura, tra di essi scorgiamo una figura barbuta che regge un globo: si tratta di Zoroastro, intento a dialogare con Tolomeo, di spalle e accompagnato dalla sfera terrestre. Poco piú in là vi è una figura china a disegnare col compasso: è stata interpretata come Euclide nell’atto di dimostrare dei teoremi. Sulla sinistra invece è riconoscibile la figura di Pitagora intento a scrivere, mentre il filosofo adagiato sulla scalinata ai aprile

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piedi di Aristotele è Diogene. Rispetto all’affresco del Vaticano, nel cartone manca l’imponente architettura che inquadra la scena, con possenti arcate aperte sul cielo limpido e ispirata ai progetti del Bramante per la nuova basilica di S. Pietro. È assai probabile che sia stato realizzato un secondo cartone riportante il disegno della parte architettonica, purtroppo perduto.

Presenze illustri Nella redazione finale del dipinto, in primo piano, Raffaello aggiunse una figura pensosamente china su un blocco di marmo, probabilmente il filosofo Eraclito: la tradizione vuole che il pittore vi abbia ritratto le sembianze di Michelangelo, anche se oggi la critica preferisce indicarlo come Il penseroso, e l’autoritratto di Raffaello, che a destra dell’affresco si raffigurò insieme al Sodoma. Altri ritratti di personaggi famosi dell’epoca sono sparsi in tutto il

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ANTE PRIMA DOVE E QUANDO

«Il Raffaello dell’Ambrosiana In principio il Cartone» Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana Orario ma-do, 10,00-18,00; chiuso il lunedí Info tel. 02 80692.1; e-mail: info@ambrosiana.it; www.ambrosiana.it Particolare del cartone preparatorio della Scuola di Atene raffigurante un gruppo di personaggi collocati da Raffaello alla destra di Aristotele.

dipinto: in Platone sono riconoscibili le fattezze di Leonardo, mentre la figura di Euclide, intenta a disegnare con il compasso, sembra sia un ritratto di Bramante. Nel 1626 il cardinale Federico Borromeo acquistò il cartone per la Scuola di Atene – disegnato su carta con carboncino e biacca – dalla vedova del conte Fabio Borromeo Visconti, per la somma di seicento lire imperiali. In realtà, il conte Borromeo Visconti aveva concesso in prestito l’opera all’Ambrosiana sin dal 1610, ma la conclusione dell’acquisto fu un vero e proprio successo per il cardinale, che si assicurava cosí un’opera originale del genio urbinate, preziosissimo materiale di studio per gli allievi dell’Accademia Ambrosiana delle

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Arti e del Disegno. Nei suoi scritti infatti egli teneva a sottolineare l’autografia del cartone, cosa che a suo avviso non si poteva affermare con altrettanta sicurezza per l’opera finita, poiché, come è noto, Raffaello si serviva ampiamente di aiuti.

Trasferimento o ricalco Nel Rinascimento l’utilizzo dei cartoni preparatori per riportare il disegno sull’intonaco o supporti mobili era una pratica comune con due principali tecniche: lo spolvero, che prevedeva di bucherellare i contorni nelle figure e ripassarli con un tampone contenente generalmente polvere di carbone, in modo che venissero trasferiti su altro supporto; oppure il ricalco, nel quale il cartone veniva poggiato

sull’intonaco o preparazione a gesso e i contorni principali incisi, frapponendo tra questo e la superficie su cui trasferire il disegno una carta sporcata con carbone o sanguigna, o facendo tale trattamento sul verso del cartone stesso. In entrambi i casi il cartone finiva per essere distrutto e cosí si introdusse un ulteriore passaggio, che venne utilizzato anche nel caso del cartone di Raffaello: il cartone principale, detto anche «ben finito cartone», veniva bucherellato inframezzandolo con un altro cartone non disegnato: era quest’ultimo che veniva utilizzato direttamente per il trasporto e tagliato in giornate per le pitture a buon fresco, per poi essere distrutto. Il «ben finito cartone» conteneva tutte le informazioni necessarie alla realizzazione dell’opera: non solo i contorni delle figure e dello scenario in cui esse andavano a disporsi, ma i movimenti, le espressioni dei volti, il chiaroscuro e la provenienza della luce, fornendo un’immagine pressoché definitiva di quello che sarebbe poi stato il risultato finale. Questo permetteva al maestro di poter affidare agli aiuti la realizzazione di parte dell’affresco sul muro, mantenendo invece totalmente la paternità ideativa e progettuale dell’opera. (red.) aprile

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Un mondo in festa MOSTRE •

Ricorrenze religiose, solennità civili, ma anche carnevali e compleanni: gli uomini (e le donne) del Medioevo non si facevano certo mancare i pretesti per darsi allo svago, piú o meno sfrenato...

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el Medioevo ogni occasione era buona per fare festa: l’esistenza era scandita, infatti, da ricorrenze religiose, private, comunitarie, politiche e, al suo concludersi, funerarie. Attraverso le riproduzioni di documenti miniati della Biblioteca Nazionale di Francia e di quella dell’Arsenale, la mostra «La Festa nel Medioevo» alla Tour Jean Sans Peur, nel cuore di Parigi, illustra il calendario di una società ricca di

In alto miniatura raffigurante il Ballo degli Ardenti, organizzato per allietare il re di Francia Carlo VI, da un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart. 1470-1472. Londra, British Library. A sinistra miniatura raffigurante un vescovo che battezza un bambino alla presenza di due padrini, tre madrine, un paggio e alcuni chierici, dal Pontificale di Etienne de Givry. 1405-1410. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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ANTE PRIMA Miniatura raffigurante una danza campestre, dal Libro d’Ore di Carlo d’Angoulême. 1480 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

date da celebrare con canti, danze, tornei e banchetti. Dal Natale all’Epifania era una grande lunga festa: s’indossavano abiti nuovi, si decoravano le abitazioni e i giovani giocavano, in ampi spazi aperti, alla «soule», una sorta di partita di calcio, originaria della Normandia e Piccardia, che poteva coinvolgere anche un intero villaggio. Seguivano poi le feste di Carnevale e, per tre giorni interi, era lecito lasciarsi andare a sfrenati divertimenti e partecipare a feste in maschera. Uno dei travestimenti piú in voga era quello dell’«uomo selvaggio»

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sfoggiato anche durante il «Ballo degli Ardenti», cosí denominato dopo una tragica festa alla corte di Carlo VI, nel 1393, durante la quale i costumi presero fuoco e quattro danzatori, tutti appartenenti alla nobiltà francese, perirono.

Gli obblighi quaresimali Con l’inizio della Quaresima ogni credente aveva l’obbligo di astenersi dal fare la guerra, dal mangiare la carne e dal praticare attività sessuale. Arrivavano poi la Pasqua e, quaranta giorni dopo, l’Ascensione, e quindi la Pentecoste; in questo periodo

si organizzavano processioni e pellegrinaggi. Rappresentazioni teatrali «di strada», denominate «Misteri» accompagnavano spesso le festività religiose. Nel 1420, ad Arras, un Mistero che raccontava la storia biblica di Adamo ed Eva e la resurrezione di Cristo durò quattro giorni e coinvolse 224 persone. Oltre alle feste comandate si celebravano, ieri come oggi, battesimi, comunioni e matrimoni. Quest’ultimo divenne un sacramento religioso nel XII secolo; la Chiesa, nei quaranta giorni precedenti le nozze, svolgeva indagini sulle famiglie degli sposi. All’inizio del XIV secolo apparvero, poi, i primi charivari, messinscena orchestrate da giovani in costume che sbeffeggiavano un matrimonio mal assortito; per impedire l’umiliante farsa, i futuri coniugi dovevano offrire una bevuta all’allegra combriccola. La prima notte di nozze il prete benediva il talamo nuziale e il giorno seguente, all’alba, si offriva agli sposi la «chaudeau», una bevanda rigenerante a base di uova, latte, vaniglia e spezie. Per chi voglia scoprire altre curiosità sulle feste nel Medioevo la mostra sarà aperta fino ai primi di maggio e rappresenta anche un’occasione per visitare la suggestiva Tour Jean San Peur, una testimonianza unica della Parigi medievale. La torre è, infatti, la sola architettura superstite di un grande complesso di proprietà del duca di Borgogna, Giovanni senza Paura, e risale agli inizi del XV secolo. Lorella Cecilia DOVE E QUANDO

«La festa nel Medioevo» Parigi, Tour Jean sans Peur fino al 5 maggio Orario me-do, 13,30-18,00 Info www.tourjeansanspeur.com aprile

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ANTE PRIMA

In gara per cento soldi

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

nizierà il 24 aprile con il passaggio del banditore e l’apertura delle osterie e si concluderà il 12 maggio con la gara equestre la 51ª Corsa all’Anello di Narni. Nelle due settimane antecedenti la seconda domenica di maggio, quando avviene l’attesa giostra, la città si veste di Medioevo e torna indietro nel tempo, fino al 1371. Piú di cento gli eventi in programma, tra i quali spiccano le manifestazioni della tradizione a partire dal mercato medievale (4 e 5 maggio), le giornate medievali (Mezule il 26 aprile, Fraporta e Santa Maria il 1° maggio), l’offerta dei ceri e la liberazione del prigioniero in Cattedrale (2 maggio), la messa solenne, la processione in onore di san Giovenale e la corsa storica (3 maggio) e le cerimonie di investitura dei cavalieri (Fraporta 8, Santa Maria 9, Mezule 10 maggio) che faranno da preludio al clou della festa con il corteo storico (11 maggio) e la Corsa all’Anello (12 maggio).

La storia Negli statuti comunali dell’anno in questione si legge infatti di giochi popolari e sfide cavalleresche organizzate nei primi giorni di maggio per onorare san Giovenale. Nell’antico documento, il De anulo argenteo currendo viene indicato come il palio piú importante e ambito, riservato

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ai migliori cavalieri del territorio che si contendevano il ricco premio di «cento soldi cortonesi» cercando di infilare con una lancia, al galoppo, un piccolo anello di ferro sospeso in aria. Ora, la tradizione della gara viene mantenuta nella spettacolare corsa storica che ha luogo proprio il 3 maggio, giorno del patrono, nell’antica Platea Major (piazza dei Priori), ma la vera Corsa all’Anello, pur traendo origine da ciò, presenta regole moderne e viene disputata allo stadio San Girolamo (Campo de li Giochi) la seconda domenica di maggio.

La Corsa all’Anello Nell’avvincente gara che si svolgerà il 12 maggio i cavalieri si scontreranno in un duello diretto. La gara consiste nell’infilare con la lancia un anello sospeso su un braccio meccanico. La caratteristica della corsa è la velocità e la tecnica. Ciascun fantino di terziere deve battere quello dell’altro terziere sul tempo per arrivare prima a infilare l’anello. Rapidità, buona mira e freddezza sono le armi vincenti del cavaliere, che deve infilare l’anello di 10 cm di diametro al galoppo. Un dispositivo elettronico sgancia automaticamente l’anello avversario quando al terzo giro l’altro viene preso dal primo dei cavalieri che arriva sul aprile

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porta anelli. La gara si svolge su un tracciato ellissoidale dove ciascun fantino sfida gli altri con gare uno contro uno su tre giri e tre tornate. Ogni anello conquistato ha un punteggio, vince il terziere che al termine delle tornate ha totalizzato piú punti. La gara si svolge in tre tornate, ognuna formata da tre gare dirette e decreterà il vincitore dell’anello che «ne vanterà gloria per l’anno intero».

Sulle due pagine immagini di repertorio della Corsa all’Anello di Narni e delle altre manifestazioni che vengono organizzate come corollario della competizione.

Il Corteo Storico La Corsa all’Anello è preceduta dal grande corteo storico, che sabato 7 maggio, a partire dalle 21,00, si snoderà per le vie della città. La sfilata conterà la presenza di piú di settecento figuranti e riproporrà per tradizione la processione in onore di san Giovenale del 1371. I settecento costumanti, tutti ricostruiti dopo un capillare lavoro di ricerca sul personaggio e sul costume, ricreano un immaginario che riporta alla processione del lontano 3 maggio 1371. Aprirà il corteo, come da tradizione, il suono dei musici, il gruppo delle magistrature comunali e pontificie con i propri gonfaloni e stendardi, quindi i terzieri di Mezule, Fraporta e Santa Maria secondo l’ordine di arrivo alla Corsa all’Anello dell’anno precedente, con i gruppi delle fanfare, le autorità, le rappresentanze militari, i cavalieri della corsa, le corporazioni delle arti e le nobili casate.

La benedizione dei cavalieri

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

La benedizione e l’investitura dei cavalieri dei tre terzieri piazza dei Priori e il Duomo e ha il vessillo rosso e blu rappresentano uno dei momenti piú emozionanti della e infine Santa Maria, che va dalla chiesa di S. Maria festa. Anche quest’anno, come da tradizione, inizierà Impensole fino a Porta della Fiera (parte bassa della città) il terziere Fraporta (8 maggio), che con una cerimonia e presenta lo stendardo arancio e viola. I terzieri sono nella chiesa di S. Francesco darà vita all’investitura dei veri e propri centri di aggregazione, punti di riferimento suoi tre cavalieri. Musici, dame, cavalieri e popolani per gli abitanti che offrono il loro impegno e la loro accompagneranno in chiesa i fantini, che riceveranno Errata corrige con professionalità riferimento al per Dossier il successo della festa. Ogni terziere la benedizione del parroco e verranno fregiati attraverso haalle realizzato propria scuderia per la preparazione l’investitura della nomina di cavalieri. Il corteo si recherà L’umanista che andò crociatela(vedi cavalieri Corsa all’Anello che si allenano in poi al Duomo, dove in segno di devozione e «Medioevo» come n. 220,dei aprile 2015)della desideriamo attrezzate strutture. Le donne richiesta di protezione verrà portata una rosa simbolica precisare che la medaglia in bronzo riprodotta a lavorano nelle sartorie sotto la guida diNovello costumisti nella tomba di san Giovenale. Rito che verràp.ripetuto 93 (in basso) ritrae Malatesta (alstorici per la realizzazione dei costumi del corteo signore storico, uno dei piú apprezzati anche dai cavalieri degli altri due terzieri. Giovedí secolo 9Domenico Malatesta, 1418-1465) in Italia. LaMalatesta, produzione di ogni abito è frutto sia di maggio sarà la volta di Santa Maria, che, presso la chiesa di Cesena, e non Sigismondo come approfondite ricerche su di S. Maria Impensole, procederà con la benedizione e indicato in didascalia. Dell’errore ci scusiamotessuti, con tagli e personaggi, sia di abili mani. I giovani dei terzieri si incontrano la cerimonia di investitura dei cavalieri che correranno l’autore dell’articolodell’opera e con i nostri lettori. per organizzare le giornate medievali, ideando scene e la Corsa all’Anello. A chiudere gli eventi legati alle ambientazioni, spettacoli e drammatizzazioni su trame investiture sarà il terziere Mezule che venerdí 10 maggio rigorosamente ricreate attraverso studi approfonditi sceglierà come di consueto la cornice della chiesa di S. della storia di Narni dal 1350 al 1400. Sugli stessi canoni Margherita per la cerimonia dedicata ai suoi cavalieri. i terzieri ricreano anche l’atmosfera medievale legata a luoghi fisici, denominata ambiente. Si tratta di botteghe I terzieri artigiane, ricostruzioni di elementi civici come porte, Come nella Narni medievale, di nuovo oggi nella Corsa all’Anello la città ha suddiviso il suo territorio tra le bandiere, portafiaccole, insegne e tutto ciò che, per tutta la durata della festa, possa riportare Narni al Medioevo. mura in tre terzieri. Si tratta di Mezule, che comprende Fulcro dei terzieri sono le taverne, spazi per momenti la zona a monte verso la Rocca ed è contraddistinto ludici e conviviali che rappresentano il motore della festa. dai colori bianco e nero, Fraporta, che si estende tra la




ANTE PRIMA

Madre universale

APPUNTAMENTI • Come ogni anno, Canosa di Puglia celebra la ricorrenza

pasquale mettendo in scena un rito dalle origini antichissime. Ne sono protagoniste le «dolenti», che condividono con Maria lo strazio per la perdita del Figlio

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anosa di Puglia (BarlettaAndria-Trani) è caratterizzata, sin dall’antichità, dalla presenza importante del femminino, come provano i vasi esposti nel locale Museo Civico Archeologico, descritti da Prosper Biardot – archeologo e acquerellista francese della fine dell’Ottocento – e che offrono un’«istantanea» dei corredi dell’aristocrazia canosina di epoca ellenistica (fine del IV-III secolo a.C.). E il «femminino» è tuttora presente a Canosa nel momento religioso-popolare del Sabato Santo, tempo di meditazione sulla Passione e la Morte del Signore, in attesa della sua Resurrezione. Nel clima di mestizia che pervade i partecipanti, dalle nove del mattino di sabato 20 aprile, si snoda la processione della Desolata, che parte dalla chiesa dei Ss. Francesco e Biagio. Un vero e proprio rituale lega i fedeli a tradizioni ancestrali,

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anche simboliche della loro terra, da non leggersi come una tradizione folklorica e spettacolare. Il gruppo statuario della Desolata fu realizzato nel 1880 dallo scultore Giuseppe Catello (1814-1894) mentre era priore Giuseppe Decorato di Nicola della Confraternita di San Gioacchino e Nostra Signora della Salette, che aveva allora sede nella chiesa di S. Francesco, attigua all’oratorio della Confraternita di San Biagio. La notizia si evince da un manoscritto inedito, Cenni storici sull’Origine e progresso [proseguimento] della Congregazione di Nostra Signora Riconciliatrice della Salette e S. Gioacchino, conservato nell’archivio della parrocchia di Gesú, Maria e Giuseppe a Canosa (Documenti Confraternita di San Gioacchino e Nostra Signora della Salette: memoria storica, 27 XI 1928). Nel documento si legge che la prima processione della Desolata si

In alto particolare del fregio della Tomba delle Danzatrici di Ruvo di Puglia (Bari). V sec. a.C. circa. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso e nella pagina accanto Canosa di Puglia (Barletta-Andria-Trani). Immagini della processione della Desolata.

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svolse nel 1881, «sull’albegiare» del Sabato Santo, per rientrare prima della funzione della Resurrezione di Gesú, che a quel tempo si svolgeva a mezzogiorno. Il gruppo statuario era in origine un manichino con testa, mani e piedi in legno, rivestito da abiti in stoffa. Le due chiese affiancate di S. Francesco e di S. Biagio, danneggiate da un bombardamento che colpí Canosa nel 1943, furono in seguito ricostruite in un’unica chiesa. Anche il gruppo statuario fu rovinato, e venne perciò rifatto nel 1953, sostituendo gli abiti in stoffa con cartapesta leccese, su committenza di Giuseppe D’Elia.

Portato a spalla In occasione della processione, il simulacro viene oggi collocato su un fercolo (piedistallo) del 1905, donato da Alfonso Serlenga, priore della Confraternita di San Biagio; anticamente, invece, veniva portato senza alcun sostegno. Il gruppo statuario viene trasportato a spalla da 52 portatori, che si alternano in gruppi di 4 per adempiere all’ambito compito. La Desolata raffigura il settimo dolore della Via Matris («la via della Madre»), quello per la sepoltura di Gesú. Infatti la Vergine Maria è affiancata alla tomba del Salvatore, sulla quale si legge «SEPULCRUM DOMINI» e «POSUIT ME DESOLATAM». Con il titolo di «Desolata» Maria cattura l’attenzione del popolo, che vede riflessi in lei i dolori dell’umanità. Alle sue spalle sta un angelo consolatore, anch’esso in origine un manichino con abiti in stoffa, poi realizzato in cartapesta. Sul sepolcro è issata la croce nuda, con un lenzuolo che rappresenta la sindone. Il petto della Vergine è trafitto da una piccola spada in argento, secondo le parole che il vecchio Simeone le rivolse nella presentazione del bambino Gesú al tempio (Vangelo di Luca, 2, 35). Lo spadino rappresenta il dolore fisico e

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ANTE PRIMA Le «dolenti» velate nella processione della Desolata intonano un canto funebre, sul tipo del threnos dell’antica Grecia.

morale che una madre può provare assistendo alla morte di un figlio; un dolore lancinante, che entra nel petto, nel cuore, in tutto il corpo, nella sua maternità. Dallo spadino pende una corona di spine in argento; l’una e l’altra facevano parte dell’originario gruppo statuario. La Vergine Maria regge con la destra un fazzoletto, mentre con la sinistra stringe al petto un ex voto a forma di cuore con la sigla «PGR» («Per grazia ricevuta»). In questo giorno non è la «regina del cielo», come viene decantata nelle antifone mariane, bensí la «regina del dolore», la «Mater dolorosa». E profondo è il legame che unisce i Canosini alla loro «Mamma Addolorata». La sera del Venerdí Santo nella chiesa dei Ss. Francesco e Biagio viene officiata l’«Ora della Desolata», con canti che evocano i «lai» (lamenti) per l’immenso cordoglio, che trovano radice nel libro biblico delle Lamentazioni. Il Sabato Santo diventa per i Canosini il Sabato della Desolata, nel quale si svolge la processione, aperta da un uomo che reca la croce penitenziale, detta «dei Misteri»,

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con gli strumenti della Passione. Seguono gruppi di bambine vestite da angioletti, con velo nero, che recano i simboli della Passione. Alcune portano cartigli con le ultime sette parole dette da Gesú. Dietro di loro vengono ragazze vestite di viola, con il volto velato, e bambini che portano piccole croci con le effigi delle stazioni della Via Crucis. Il tutto è simile ai riti della Confraternita del Gonfalone di Roma, documentati fin dal XVI-XVII secolo.

Un velo per il «cuore rotto» Il valore universale della pietà per la morte di Cristo è rappresentato dal lamento di circa 400 «dolenti», in abiti vedovili, calze e scarpe nere (alcune scalze), il capo coperto dal «velo da corrotto» («cuore rotto»), a indicare l’immedesimazione col dolore di Maria. Le radici di queste «dolenti» sono arcaiche; cosí il colore nero che indica la morte. La partecipazione delle donne al dolore di Maria diviene il centro nevralgico dell’intero rito. Si piange insieme con la Madre desolata, a somiglianza dell’antico pianto

funebre di matrice mediterranea, del quale il cattolicesimo si riveste. La scena è di una potenza espressiva grandiosa, che riporta alle lamentazioni, antichi riti funebri del mondo greco-romano. Con il loro atteggiamento, le «dolenti» rievocano, insieme agli incappucciati, il verso di Isaia (53, 3) applicato a Gesú: «Uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia». In questo rito collettivo la sofferenza viene esperita come causa di un cambiamento. La processione segue un itinerario che percorre le antiche vie cittadine. È il sacro che si muove attraverso le persone nello spazio, che in qualche modo viene vivificato. Le «dolenti» procedono unite, tenendosi sottobraccio, a formare una catena, in un itinerario di purificazione collettiva. La loro presenza presuppone l’adempimento di un voto fatto per ottenere una grazia, oppure per devozione tramandata, o ancora una passione per il canto. Il procedere unite tenendosi sottobraccio si ritrova nelle misteriose nove donne di aprile

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ANTE PRIMA «Regina del dolore» A Canosa di Puglia il pianto della Vergine Maria, unito a quello delle pie donne, è raffigurato nella Crocifissione, affresco dell’XI-XII secolo della basilica cattedrale di S. Sabino. In esso si vede la Vergine Maria in lacrime, seguita dalle tre Marie. Come si legge nel Vangelo di Giovanni (19,25): «Stavano presso la croce di Gesú sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala». Da questo evento deriva la sequenza del XIII secolo Stabat Mater, attribuita a Jacopone da Todi, il cui testo ha ispirato la versione italiana Stava Maria dolente. Il soggetto iconografico della Desolata di Canosa si ritrova nella tela del 1761 esposta nella stessa cattedrale, opera firmata dal pittore Giuseppe De Musso di Giovinazzo, raffigurante l’Addolorata accanto al sepolcro, un angelo consolatore, san Sabino patrono di Canosa, un altro santo (forse un padre servita o per altri san Filippo Neri) e, in primo piano, alcuni confratelli. Addolorata e santi (particolare), olio su tela di Giuseppe De Musso. 1761. Canosa di Puglia, cattedrale di S. Sabino. un affresco del V secolo a.C., proveniente dalla Tomba delle Danzatrici di Ruvo di Puglia (Bari) e attualmente conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Il tutto individua un clima di luttuosità che pervade l’intera cittadinanza e mantiene intatta la tradizione. L’atteggiamento delle «dolenti» esprime una forte drammaticità nel canto corale, quasi un grido di dolore che rompe il silenzio liturgico del Sabato Santo, accomunandole al dolore della Madonna. Le radici del lamento funebre affondano nelle prefiche del mondo antico, persistenti per secoli nel Meridione. L’effetto struggente della sacralità del rito, accompagnato dal canto e dalle preghiere, è sublimato dalle note dell’Inno alla Desolata, suonato dal complesso bandistico locale. L’inno fu musicato nell’Ottocento dal canosino Domenico Iannuzzi (1862-

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1929) e la melodia è completamente diversa da quella dello Stava Maria dolente, composta dal veneziano Antonio Lotti (1666-1740), come confermato dalla partitura originale dell’Inno alla Desolata di Iannuzzi. Piú tardi la partitura originaria subí varie aggiunte, con l’inserimento di nuovi strumenti, come i sassofoni. Il testo dello Stava Maria dolente cantato a Canosa riprende le prime quattro strofe del Pianto di Maria, opera del carmelitano Evasio Leone (1765-1847), che tradusse dal latino lo Stabat Mater di Jacopone da Todi (1230-1306).

Dal dolore alla gioia Suggestivo è il rientro in chiesa. Dapprima il gruppo statuario sosta sul sagrato, rivolto verso i fedeli, con le «dolenti» che cantano l’Inno; poi viene introdotto in chiesa. Tolto il velo dal capo, le ragazze si abbracciano e si baciano in segno di

gioia per aver ben interpretato il loro ruolo. Adesso si può risorgere, cosa che avverrà con l’annuncio pasquale nella messa della vigilia di Pasqua. L’intero rito genera un senso di grande equilibrio e di pace interiore. L’«esserci nel mondo» attraverso questi riti fa superare quella che l’etnologo e storico delle religioni Ernesto De Martino (1908-1965) chiamava «crisi della presenza». Questo antico rituale evidenzia nel suo svolgersi un retroterra sacrale, diventando un momento di propiziazione e di liberazione dai ritmi frenetici del quotidiano. L’atteggiamento del mondo femminile non è di sconfitta né di folklore. Canosa nel Sabato Santo, «il Sabato della Desolata», continua cosí a conservare i sentimenti profondi della maternità, dell’essere donne intimamente unite nella sofferenza alla Madre di Cristo. Angelo Disanto aprile

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Intrecci pasquali APPUNTAMENTI • A Barano

d’Ischia tornano a incrociarsi le spade, rievocando antichi scontri con i Saraceni

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el piccolo borgo di Buonopane, frazione del Comune di Barano d’Ischia, ogni Lunedí in Albis (il giorno dopo Pasqua) va in scena la ‘Ndrezzata. Si tratta di una caratteristica danza di spade, memoria dei combattimenti che gli abitanti dell’isola vulcanica nel Golfo di Napoli sostennero nel Medioevo per difendersi dagli assalti dei Saraceni. In dialetto ischitano il termine ‘ndrezzata significa «intrecciata». In genere i danzatori sono diciotto, nove maschi e nove «femmine», tutti impersonati da uomini. Metà di loro entrano in scena con un giubbetto di colore rosso, che rappresenta i maschi; l’altra metà indossa un corpetto verde, che simboleggia le femmine. Tutti hanno pantaloni bianchi al ginocchio e calzettoni bianchi. Dopo la sfilata iniziale, i danzatori formano due cerchi concentrici, impugnando un «mazzariello» (un bastone) nella mano destra e una spada di legno nella Gli ‘ndrezzatori di Buonopane, frazione di Barano d’Ischia, impegnati nella tradizionale danza di spade.

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sinistra. Al ritmo dei suonatori parte la danza, che ricalca le mosse di base della scherma: saluto, stoccate, parate e schivate. Gli ‘ndrezzatori saltellano con frenesia, mentre il rullio dei tamburi diventa sempre piú irruente. Un passaggio fondamentale è la formazione della rosa, con l’elevazione su di essa del caporale, che in antico dialetto ischitano recita una «predica» dedicata all’amore, alla paura dei Saraceni e alla difficoltà del lavoro nei campi.

La cintura della discordia La ‘ndrezzata si ballava già nel Medioevo, ma le sue origini appaiono ancor piú remote, connesse alla cultura greca. A ogni modo, si racconta che nel 1540 un pescatore di Barano, chiamato Rocc’none, regalò alla fidanzata una cintura di corallo, ma questa un giorno fu trovata nelle mani di un giovane di Buonopane, tal Giovannone. Ne seguí uno scontro sanguinoso fra la popolazione dei due paesi. La pace fu sancita ai piedi della statua della Madonna della Porta, nella chiesa di S. Giovanni Battista, il Lunedí in Albis, grazie all’intervento del vescovo. In quella occasione la cintura della discordia fu bruciata e i Buonopanesi ballarono una ‘ndrezzata. Da allora questa danza popolare si ripete il giorno di Pasquetta e il 24 giugno in onore di san Giovanni Battista. Tiziano Zaccaria

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I giorni dei tamburi APPUNTAMENTI • La cittadina

spagnola di Hellín saluta le festività pasquali con una tradizione che difficilmente passa inosservata...

L

a spagnola Hellín, nella comunità autonoma di Castiglia-La Mancia, è detta «città del tamburo», per via dell’antica tradizione legata al piú classico strumento a percussione. In particolare, durante le celebrazioni della Settimana Santa, vi si svolgono le tamboradas: cortei che sfilano nel centro storico fra l’incessante e assordante suono di migliaia di tamburi suonati dai cittadini. La prima tamborada è quella «infantil», che va in scena nel pomeriggio del Mercoledí Santo con bambini e ragazzi. L’apice si raggiunge nella nottata del Giovedí Santo, quando, dalla mezzanotte, migliaia di persone, con una tunica nera e un fazzoletto rosso al collo, affollano le strade del centro. Dopo aver suonato per tutta la notte, all’alba la popolazione conduce la processione della Discesa del Calvario nel silenzio piú assoluto. Alla mezzanotte del Sabato Santo, un’ultima tamborada annuncia la Resurrezione di Gesú. All’alba del giorno di Pasqua tutti si ritrovano nella spianata della Fiera, dove ha luogo l’incontro tra la Madonna e il Cristo Resuscitato.

Il monito di san Vicente La tradizione delle tamboradas ha origini medievali. Secondo la tradizione, quando dominavano in Spagna, gli Arabi, durante la Settimana Santa, facevano rumore per beffarsi dei cristiani che volevano avvicinarsi alla Pasqua con le loro processioni in silenzio. Da allora, in

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A destra un gruppo di tamborileros di Hellín posa orgogliosamente con il proprio strumento. In basso un momento della Discesa del Calvario.

risposta alle provocazioni, i cristiani iniziarono ad accompagnare i loro cortei religiosi con i tamburi. In particolare l’usanza viene fatta risalire al 1411, quando san Vicente Ferrer, nella sua predica contre le streghe, visitò Hellín con una processione di penitenza accompagnata dal suono lugubre di tamburi. Nacque allora la tradizione di un gruppo di tamborileros alla guida dei cortei religiosi organizzati

dalla Confraternita di Nuestra Señora del Rosario, patrona della città. In seguito il clero locale inviò un documento alle autorità municipali per denunciare la proliferazione fuori dalle processioni di numerosi tamborileros, intravedendo l’opportunità di «castigarli severamente» per oltraggio alla religione cristiana. Ma come conseguenza del tentativo di bandire ogni manifestazione rumorosa collaterale, i tamborileros iniziarono a suonare in modo assordante per le strade cittadine durante i riti pasquali. E ancora oggi è la principale tradizione di Hellín, cittadina di 30 000 abitanti situata nella parte meridionale della Mancia. Fondata dagli Iberi, fu conquistata dai Romani, poi dai Visigoti e infine dagli Arabi, prima di entrare a far parte del Regno di Castiglia. Oggi vi si possono ammirare il «barrio arabo», ovvero il vecchio quartiere musulmano, e la chiesa di S. Maria de la Asunción, fondata nel 1499 e poi modificata nei secoli successivi. T. Z. aprile

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SIGNORIE DELL’ITALIA MEDIEVALE LE GRANDI

L’Italia delle signorie è, insomma, un Paese nuovo, che si fa teatro di una stagione destinata a rimanere sotto molti aspetti ineguagliata.

Battista Sforza, scomparto del dittico a olio su tavola di Piero della Francesca che raffigura i duchi di Montefeltro (l’altro scomparto compare nella copertina del Dossier riprodotta qui sopra). 1473-1475 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi. È

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GRANDI

N°31 Marzo/Aprile 2019 Rivista Bimestrale

Dai Visconti agli Estensi, dai Gonzaga ai Medici, c’è poi un comune denominatore non meno importante: la propensione per le arti e per le lettere. Milano, Mantova, Ferrara o Firenze non si impongono soltanto come centri di potere politico, ma divengono anche culle di un mecenatismo illuminato, grazie al quale, ancora oggi, possiamo ammirare straordinarie realizzazioni nei campi dell’architettura, della pittura e della scultura e rilevare, parallelamente, l’eccezionale fioritura di opere di poesia e di prosa.

LE

LE GRANDI SIGNORIE DELL’ITALIA MEDIEVALE

Se dell’Italia comunale erano state protagoniste soprattutto le collettività, con l’affermazione dei regimi signorili si profilano singoli personaggi e le loro relative dinastie, che si fanno artefici di realtà amministrative nelle quali possiamo vedere altrettante forme embrionali di organismi statuali. Un mutamento significativo, dunque, che nel Dossier viene illustrato attraverso le vicende delle signorie che maggiormente si distinsero sulla scena italiana.

VO MEDIO E Dossier

DE IL M

ommaso Indelli, autore del nuovo Dossier di «Medioevo» esordisce ricordando come l’avvento delle signorie costituisca ancora oggi un fenomeno di non facile lettura dal punto di vista storiografico. Tuttavia, anche in anni recenti, le ricerche hanno contribuito in maniera decisiva a dissipare piú di un’incertezza, permettendo di ricostruire le tappe fondamentali di un fenomeno che ha segnato la storia della Penisola fra XIV e XV secolo.

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• LA NASCITA DELLE SIGNORIE • I VISCONTI E GLI SFORZA • I GONZAGA • GLI ESTENSI • I MEDICI • LE SIGNORIE MINORI

una delle opere ritrattistiche piú celebri del Rinascimento: l’armonia classicheggiante dei profili dei nobili si colloca in una prospettiva che fa emergere anche i minuti particolari del paesaggio marchigiano, ben visibili sullo sfondo.

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AGENDA DEL MESE

Mostre FERRARA CANTIERI PARALLELI. LO STUDIOLO DI BELFIORE E LA BIBBIA DI BORSO. 1447-1463 Pinacoteca Nazionale fino al 22 aprile

In occasione del rinnovamento dei suoi spazi espositivi, la Pinacoteca Nazionale di Ferrara in Palazzo dei Diamanti ospita uno dei manoscritti rinascimentali piú importanti al mondo, la Bibbia di Borso

d’Este, capolavoro fra i piú rappresentativi della civiltà figurativa nata nell’antica capitale del ducato, ora conservato alla Biblioteca Estense di Modena. L’illustrazione della Bibbia, realizzata da un’équipe di miniatori guidata da Taddeo Crivelli e Franco dei Russi, ha costituito uno dei due cantieri artistici nel quale è stato forgiato lo stile della scuola ferrarese del Rinascimento. L’opera è esposta nella sala dedicata allo studiolo di Belfiore in Palazzo dei Diamanti, ambiente voluto per la prima volta da Leonello d’Este alla metà del Quattrocento come luogo dedicato alla meditazione e ai piaceri intellettuali. Alla Bibbia di Borso d’Este si affianca un altro illustre ospite, ovvero la tavola raffigurante la musa Polimnia, proveniente dalla

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a cura di Stefano Mammini

Gemäldegalerie di Berlino, che si riunisce all’Erato e all’Urania con cui formava parte della decorazione pittorica di questo spazio. Una selezione di medaglie rinascimentali, monete e gemme antiche provenienti dalle raccolte della Galleria Estense di Modena ricorda come lo studiolo fosse anche luogo dedicato all’accumulo e all’esposizione delle prime collezioni umanistiche. Un touch screen realizzato da FrameLAB, laboratorio del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna, permette inoltre al pubblico di visitare virtualmente lo studiolo, ammirando e interrogando le muse che lo abitavano. Una seconda postazione multimediale consente di sfogliare virtualmente la Bibbia per intero. info tel. 0532 205844; www.gallerie-estensi.beniculturali. it/pinacoteca-nazionale/ FAENZA AZTECHI, MAYA, INCA E LE CULTURE DELL’ANTICA AMERICA MIC-Museo Internazionale della Ceramica fino al 28 aprile

Nell’affrontare il vasto e articolato universo delle civiltà precolombiane, la rassegna si concentra soprattutto sulla Mesoamerica e sull’area peruviana. E lo fa attingendo alle notevoli collezioni del MIC, perlopiú con pezzi custoditi nei suoi depositi e finora mai esposti al pubblico. Completano il percorso espositivo reperti selezionatissimi, concessi in prestito dai piú importanti musei e raccolte italiane. Protagonisti principali della mostra sono gli Aztechi, ai quali si deve la creazione del piú potente impero della Mesoamerica, e che stupirono i

conquistadores per il livello della loro organizzazione sociale, non dissimile da quella dell’Europa del tempo, pur in presenza di aspetti, come il cannibalismo e i sacrifici umani, inaccettabili per i nuovi arrivati. Poi i Maya, del Periodo Classico, capaci di elaborare sistemi calendariali raffinatissimi e una scrittura logo-sillabica che è stata decifrata solo negli ultimi decenni. E infine gli Inca, che costruirono il piú grande impero di tutto il Nuovo Mondo. Con un’organizzazione sociale che ha spinto alcuni studiosi a parlare di «socialismo». info www.micfaenza.org GUBBIO TESORI RITROVATI. RESTAURI PER «GUBBIO AL TEMPO DI GIOTTO» Palazzo dei Consoli fino al 1° maggio

La mostra «Gubbio al tempo di Giotto» (vedi «Medioevo» n. 260, settembre 2017; anche on line su issuu.com) ha restituito alla comunità una serie di opere restaurate, che, di fatto, rappresentano il nucleo piú consistente dell’intero patrimonio museale cittadino d’epoca medievale. Questa operazione ha permesso di realizzare un nuovo progetto espositivo «Tesori ritrovati. Restauri per “Gubbio al tempo di Giotto”», dedicato ai restauri e ai recuperi e quindi ai confronti possibili tra opere e maestri, tra materiali e tecniche esecutive, tra forme e funzioni del prodotto artistico in un percorso che si dipana tra XIII e XIV secolo, nell’età d’oro di Gubbio e del suo vasto contado. Vengono dunque presentate molte delle opere recentemente restaurate: come le due grandi croci dipinte del Museo Civico di Gubbio, le opere del Maestro della Croce di Gubbio, del Maestro espressionista di Santa Chiara, di Pietro Lorenzetti, del cosiddetto «Guiducci Palmerucci» e di Mello da Gubbio. info tel. 075 9274298; e-mail: museo@gubbiocm.it

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FIRENZE NUOVE ACQUISIZIONI 2016-2018 Galleria dell’Accademia fino al 5 maggio

Il programma per l’anno 2019 della Galleria dell’Accademia di Firenze ha come fil rouge la tutela del patrimonio culturale e «Nuove Acquisizioni 20162018» ne costituisce la prima, significativa testimonianza. La mostra riunisce capolavori che,

in maniere diverse, sono giunti ad arricchire le collezioni permanenti: alcune sono state acquistate sul mercato antiquario, altre sono pervenute grazie a generose donazioni, altre da confische in seguito all’esportazione illecita a opera del Nucleo Patrimonio dei Carabinieri, altre, infine, sono giunte in Galleria dai depositi della Certosa di Firenze. Le tavole acquisite nel 2017 con i fondi ordinari della Galleria dell’Accademia sono due raffinati sportelli provenienti da un tabernacolo, disperso, di Mariotto di Nardo, pittore fiorentino di cui si hanno notizie dal 1394 al 1424. I pannelli frammentati sono stati comprati da due diversi proprietari e

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ricomposti dopo l’acquisto. Impreziosito da raffinate decorazioni in pastiglia dorata che racchiudono le figure dei santi, il tabernacolo è sicuramente frutto di una committenza prestigiosa ed è stato eseguito da Mariotto di Nardo intorno al 1420. I pannelli, che in origine erano certamente di dimensioni maggiori, includevano molto probabilmente altre due coppie di santi, purtroppo perdute o fino a oggi non ritrovate. I quattro frammenti oggi ricomposti si trovavano, alla fine dell’Ottocento, esposti in sale diverse della raccolta Corsini, nell’omonimo palazzo fiorentino in riva all’Arno. Ben quattro opere sono giunte nel 2016 al Museo da un deposito situato presso la Certosa di Firenze. Si tratta di una Incoronazione della Vergine e angeli di Mariotto di Nardo; di una Santissima Trinità del Maestro del 1419; di una Madonna col Bambino in trono fra angeli del Maestro del 1416 e di una Madonna col Bambino e santi di Bicci di Lorenzo. A causa di una cattiva condizione di conservazione, l’Incoronazione di Mariotto di Nardo e la Santissima Trinità del Maestro del 1419 sono stati recuperati nei loro valori pittorici da un accurato lavoro di restauro. Due strepitose opere come I due santi di Niccolò di Pietro Gerini, in origine scomparto destro di un trittico disperso, e la Madonna dell’Umiltà del raro Maestro della Cappella Bracciolini, sono state assegnate alla Galleria dopo il brillante recupero da parte del Reparto Operativo dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Roma. info tel. 055 0987100; www.galleriaaccademiafirenze. beniculturali.it

ALESSANDRIA ALESSANDRIA SCOLPITA. 1450-1535. SENTIMENTI E PASSIONI FRA GOTICO E RINASCIMENTO Palazzo del Monferrato fino al 5 maggio

Nata da un attento studio sul patrimonio storico-artistico del Piemonte alessandrino e maturata dopo anni di ricerca sul campo, la rassegna invita a riconsiderare la fisionomia di Alessandria negli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento. Una periodizzazione che coincide con i decenni di effettivo dominio sforzesco sulla città e con la sua ascesa quale fulcro territoriale e originale snodo culturale di un’area di cerniera tra realtà diverse: Milano e Pavia da un lato e Genova dall’altro. I frammenti figurativi superstiti restituiscono infatti la posizione sorprendente e policentrica di Alessandria nel grande rinnovamento figurativo dell’epoca e l’immagine di una cultura artistica che, ricca di accenti propositivi, elabora modelli propri, specie nel

vastissimo campo dei crocifissi. Ognuna delle tre ampie sezioni dell’esposizione è idealmente collegata a un gruppo del Compianto sul corpo di Cristo. La prima parte è incentrata su quello proveniente dal Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo a Roma, la seconda su quello dell’oratorio della Pietà a Castellazzo Bormida (Alessandria) e la terza su quello dell’oratorio dei Bianchi a Serravalle Scrivia (Alessandria). Ciascun manufatto rappresenta l’ideale manifesto di tre generazioni di artisti piemontesi, che testimoniano i paradigmi di altrettante diverse maniere di intendere la forma. info tel. 0131 313400; e-mail: info@palazzomonferrato.it; www.palazzomonferrato.it PARIGI LA FESTA NEL MEDIOEVO Tour Jean sans Peur fino al 5 maggio

Gli spazi espositivi della torre parigina che porta il nome di Giovanni senza Paura ospitano una rassegna dedicata alla

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AGENDA DEL MESE festa, tema di grande interesse anche per i molteplici risvolti di carattere sociale. Si parte da un dato eloquente: nei secoli dell’età di Mezzo un giorno su tre era festivo, vuoi perché dedicato a solennità

religiose, vuoi perché scelto per celebrare ricorrenze personali, collettive o politiche, in occasione delle quali si allestivano giostre, tornei e banchetti. Questa sorta di viaggio nello svago si apre con i grandi appuntamenti devozionali del Natale e della Pasqua, con il loro vasto e articolato corollario di riti e consuetudini. Seguono quindi gli appuntamenti con i santi patroni e le tappe che scandivano la vita di uomini e donne: battesimo, prima comunione, cresima, matrimonio e, infine, funerale. Ma, come detto, c’è spazio anche per il profano e dunque per mascherate, charivari, feste campestri… Un’atmosfera rutilante di suoni, voci, colori, sapientemente evocati nel percorso della mostra. info www.tourjeansanspeur.com TORINO LEONARDO DA VINCI. TESORI NASCOSTI Palazzo Cavour fino al 12 maggio

In occasione delle celebrazioni

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del cinquecentenario dalla scomparsa di Leonardo da Vinci, promosse a livello mondiale, il Palazzo Cavour di Torino propone una rassegna che offre l’opportunità di ammirare e comprendere in una visione d’insieme la straordinaria complessità del genio nella pittura del suo tempo. L’uomo e lo scienziato, anello di congiunzione tra il mondo dell’arte e il mondo della tecnica, viene presentato e descritto tramite le opere dei suoi allievi e non solo. Nello specifico si intende ragionare, con elementi nuovi e avvincenti, sulla posizione storica di alcuni frammenti di vita di Leonardo e dei rapporti artistici intercorsi con i suoi piú fidati allievi e seguaci: il nastro che unisce la dialettica figurativa del maestro a tali diretti discendenti, è calcolato sulla base delle suggestioni e delle riflessioni che la cultura del tempo ha recepito dal leggendario e innovativo genere di proporre argomenti umanistici, scientifici e figurativi, sino a quel momento ignoti. La mostra di Torino riporta al grande pubblico, fra le altre, la visione di un’opera di straordinaria rilevanza: la Maddalena discinta, che il compianto decano degli studi vinciani, Carlo Pedretti, aveva già assegnato alla collaborazione tra Leonardo e il capace allievo Giampietrino.

info tel. 011 19214730; e-mail: info@nextexhibition.it; https://mostradavinci.it/

MILANO ANTONELLO DA MESSINA. DENTRO LA PITTURA Palazzo Reale fino al 2 giugno

Poche, purtroppo, sono le opere superstiti di Antonello da Messina (1430-1479), scampate a tragici avvenimenti naturali come alluvioni, terremoti, maremoti e

all’incuria e ignoranza degli uomini; quelle rimaste sono disperse in varie raccolte e musei fra Tirreno e Adriatico, oltre la Manica, al di là dell’Atlantico; molte hanno subito in piú occasioni pesanti restauri che hanno alterato per sempre la stesura originaria, altre sono arrivate sino a noi miracolosamente intatte. Oltre la metà delle 35 che ne conta la sua autografia giungono ora Milano, in una mostra che costituisce perciò una occasione imperdibile per entrare nel mondo di un artista eccelso e inconfondibile, considerato il piú grande ritrattista del Quattrocento. Si potranno dunque ammirare, fra gli altri, il Sant’Agostino (1472-1473), il San Girolamo (1472-1473) e il San Gregorio Magno (1470-1475), forse appartenenti al Polittico dei Dottori della Chiesa, tutti aprile

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provenienti da Palazzo Abatellis di Palermo; ma anche il celeberrimo Ritratto d’uomo (1465-1476) dall’enigmatico sorriso proveniente dalla Fondazione Culturale Mandralisca di Cefalú, utilizzato originariamente come sportello di un mobiletto da farmacia, oggetto di vari restauri e conosciuto nella tradizione locale come «ignoto marinaio». E poi, dalla National Gallery di Londra, il San Girolamo nello studio (1474-1475) in cui si armonizzano ispirazioni classiche e dettagli fiamminghi e il Cristo benedicente (1474 circa). O, ancora il Ritratto d’uomo (Michele Vianello?) (1475-1476) dalla Galleria Borghese di Roma e il poetico Cristo in pietà sorretto da tre angeli (1474-1476 circa) dal Museo Correr di Venezia. info www.palazzorealemilano.it

Senzaterra fu costretto a concedere ai baroni del Regno, suoi diretti feudatari, presso Runnymede, il 15 giugno 1215. Per la prima volta nella storia un testo di natura giuridica elenca i diritti fondamentali del popolo (o di una parte del popolo) e riconosce che nessuno, sovrano compreso, è al di sopra della legge e che chiunque ha diritto a un processo equo. Guala

VERCELLI LA MAGNA CHARTA: GUALA BICCHIERI E IL SUO LASCITO. L’EUROPA A VERCELLI NEL DUECENTO Arca, ex chiesa di San Marco fino al 9 giugno

A 800 anni dalla fondazione dell’abbazia di S. Andrea, Vercelli espone per la prima volta in Italia il manoscritto della Magna Charta Libertatum, nella sua redazione del 1217, che proviene dal Capitolo della cattedrale di Hereford nel Regno Unito. Si rende cosí omaggio al cardinale Guala Bicchieri che, con la posa della prima pietra alla data convenzionale del 19 febbraio 1219, avviò la costruzione dell’abbazia. La figura del prelato è però legata soprattutto alla vicenda della Magna Charta Libertatum, documento scritto in latino che il re d’Inghilterra Giovanni

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Bicchieri, legato pontificio presso la corte inglese e tutore del giovane re inglese Enrico III fece da «supervisore» al documento ponendo il proprio sigillo sia nella versione revisionata del 1216, sia nella riconferma della carta qui esposta, redatta nel 1217. info e-mail: info@ santandreavercelli.com; http://santandreavercelli.com

NEW YORK LA STORIA DI GENJI: UN CLASSICO GIAPPONESE ILLUSTRATO The Metropolitan Museum of Art fino al 16 giugno

A cavallo dell’anno Mille, quando la capitale dell’impero giapponese era Heian (l’odierna Kyoto), Murasaki Shikibu, nata nella potente famiglia dei Fujiwara, divenne dama di corte di Fujiwara no Akiko, imperatrice e mecenate. Da quell’esperienza la donna trasse ispirazione per comporre il Genji Monogatari (La storia di Genji), opera narrativa che viene considerata come il primo romanzo realistico della letteratura giapponese. Suddivisa in 54 capitoli, la storia narra la vita di Genji, il principe «splendente», dando conto delle sue innumerevoli avventure amorose e, dopo la sua morte, passa a descrivere le vicende dei suoi discendenti, introducendo personaggi femminili che si sono affermati come altrettante icone della letteratura giapponese. Ma, soprattutto, il romanzo è un grande quadro della società aristocratica del periodo Heian, descritta dall’autrice in tutto il suo splendore raffinato, ma anche nel dramma intimo dei suoi protagonisti, sentito come

una concatenazione di fatalità ineluttabili. Nel tempo, il Genji Monogatari ha goduto di una straordinaria fortuna, della quale è ora testimonianza la mostra proposta dal Metropolitan Museum of Art, che, grazie a una selezione di oltre 100 opere, offre un saggio eloquente della copiosa produzione artistica ispirata dal romanzo nell’arco di circa mille anni. Articolata in otto sezioni tematiche, la rassegna spazia dai dipinti alle calligrafie, dai manufatti in seta alle lacche, fino a comprendere una preziosa portantina nuziale – realizzata per la consorte di uno shogun –, stampe e moderni manga. info www.metmuseum.org ROMA LEONARDO DA VINCI. LA SCIENZA PRIMA DELLA SCIENZA Scuderie del Quirinale fino al 30 giugno

Realizzata dalle Scuderie del Quirinale insieme al Museo Nazionale della Scienza e della

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AGENDA DEL MESE

Tecnologia di Milano e alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano la mostra propone un percorso conoscitivo alla scoperta di Leonardo all’interno della fitta trama di relazioni culturali e del fermento artistico che hanno caratterizzato il periodo tra Quattro e Cinquecento. L’esposizione indaga l’opera vinciana secondo le piú aggiornate linee guida museologiche e museografiche nelle declinazioni legate alla storia dell’ingegneria, del pensiero, della cultura scientifico-tecnologica, andando dalla formazione toscana al soggiorno milanese per arrivare al tardo periodo romano. Spicca, nel percorso espositivo, la presenza di dieci disegni tra i piú noti del Codice Atlantico e dei portelli originali della chiusa del Naviglio di San Marco, rimasti in uso fino al 1929. A corredo degli originali leonardeschi una ricca

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selezione di modelli storici del Museo della Scienza e della Tecnologia, tra i quali grandi esemplari non esposti da decenni, manufatti di notevole importanza e impatto scenografico, alcuni dei quali restaurati negli ultimi anni. info www.scuderiequirinale.it ROMA FILIPPO RUSUTI E LA MADONNA DI SAN LUCA IN SANTA MARIA DEL POPOLO Castel Sant’Angelo, Sala della Biblioteca fino al 30 giugno

Protagonista dell’esposizione è l’icona Madonna con il Bambino, proveniente dalla chiesa di S. Maria del Popolo a Roma, il cui recente restauro ne ha permesso l’attribuzione all’artista duecentesco Filippo Rusuti. L’opera, finora tradizionalmente attribuita all’evangelista Luca e per questo nota come Madonna di San Luca, è una delle

immagini piú venerate della storia della città di Roma, come attestano vuoi la fama di «immagine miracolosa» vuoi gli atti ufficiali della storia della Chiesa. La tavola (nello specifico una tela impannata su tre assi in legno di noce) mostra un’immagine di derivazione bizantina – la Vergine è ritratta di fronte, tiene in braccio il Bambino rigidamente eretto, completamente vestito e benedicente – e propone i tratti dell’iconografia tradizionale dell’Odigitria, «colei che mostra la via», cioè Cristo, arricchita però di un diverso pathos, quello dell’affettuosità familiare: la Madre volge il capo verso il figlio, indirizzandogli uno sguardo pieno di tenerezza. Il Figlio poggia la mano sinistra su quella della Madre, confermando il suo attaccamento. L’opera si discosta dall’inanimata astrazione delle figure, tipica dell’iconografia dell’epoca, e mostra nella gestualità e nella vivacità cromatica quel carattere d’intimità che sollecita l’empatia del fruitore. L’ultimo e accurato restauro ha portato alla luce parti di firma che si è potuta riconoscere come quella di Filippo Rusuti che firmò, verosimilmente entro il 1297, il monumentale mosaico che ancora orna, in parte nascosto dal loggiato settecentesco, la fascia superiore della facciata della basilica di S. Maria Maggiore. info tel. 06 32810410; www.art-city.it

Dedicata a un artista emblematico del Rinascimento e prototipo del genio universale, la mostra riunisce capolavori di Verrocchio, a confronto serrato con opere capitali di precursori, artisti a lui contemporanei e discepoli, come Desiderio da Settignano, Domenico del Ghirlandaio, Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Bartolomeo della Gatta, Lorenzo di Credi e Leonardo da Vinci. Verrocchio sperimentò nella sua bottega tecniche e materiali diversi, dal disegno alla scultura in marmo, dalla pittura alla fusione in bronzo. Egli formò un’intera generazione di maestri, con i quali ha sviluppato e condiviso generosamente il proprio sapere. Nella storia dell’arte solo Giotto, Donatello e Raffaello hanno dato origine a una «scuola» paragonabile a quella di Verrocchio. Tramite il suo insegnamento si formarono artisti che hanno diffuso in tutta Italia, e fuori, il gusto e il linguaggio figurativo fiorentino, come testimoniano opere quali il David in prestito dal Museo Nazionale del Bargello, uno dei simboli assoluti dell’arte del

FIRENZE VERROCCHIO, IL MAESTRO DI LEONARDO Palazzo Strozzi, con una sezione speciale al Museo Nazionale del Bargello fino al 14 luglio

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Rinascimento e della città di Firenze stessa, e il Putto col delfino, in prestito dal Museo di Palazzo Vecchio, opera capitale e modello di naturalezza. Alla scultura si affiancano dipinti supremi come la Madonna col Bambino della Gemäldegalerie di Berlino o la Madonna col Bambino e angeli e l’Arcangelo Raffaele e Tobiolo della National Gallery di Londra: capolavori presentati insieme per la prima volta, che attestano lo straordinario talento di Verrocchio nel campo della pittura, in cui diviene punto di riferimento per i suoi celebri allievi. La mostra, inoltre, collega idealmente Palazzo Strozzi col Museo del Bargello: luoghi espositivi distinti, ma complementari, di un percorso articolato in undici sezioni, di cui nove a Palazzo Strozzi e due al Museo del Bargello, dedicate al tema dell’immagine di Cristo, dove sarà esposta l’Incredulità di san Tommaso, capolavoro bronzeo di Verrocchio. info tel. 055 2645155; www.palazzostrozzi.org PARIGI TESSUTI LITURGICI DI TRADIZIONE BIZANTINA DALLA ROMANIA Museo del Louvre fino al 29 luglio (dal 17 aprile)

Ruota intorno all’importante prestito dello Stendardo di San Giorgio la mostra nuova allestita nell’Ala Richelieu del Louvre, che mira a sottolineare l’eccezionale levatura delle collezioni rumene di tessuti ricamati di tradizione bizantina. Realizzato su commissione del re Stefano III il Grande (14571504) nel monastero di Zografou (uno dei complessi religiosi del Monte Athos), lo stendardo fu donato dalla

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Francia alla Romania nel 1917 e in questo suo ritorno temporaneo è affiancato da altre opere di grande pregio, tessute e ricamate fra il XV e il XVII secolo. Eredi dei modelli sviluppati a Bisanzio, i paramenti delle panoplie sacerdotali – destinate a vescovo, sacerdoti e diaconi – e quelli delle panoplie liturgiche – utilizzate durante le cerimonie – compongono un insieme unico al mondo, nel quale si coglie il passaggio dalle figure ieratiche tipicamente bizantine a una ritrattistica piú vicina al vero. info www.louvre.fr TORINO NOTRE-DAME DE PARIS. SCULTURE GOTICHE DALLA GRANDE CATTEDRALE Palazzo Madama, Sala Stemmi fino al 30 settembre

barbuto e la Testa di figura femminile, allegoria di una virtú teologale. Queste quattro opere, oltre a essere esempi di altissima qualità della scultura medievale europea, sono testimonianze di quel momento della civiltà gotica indicato dal celebre storico dell’arte Cesare Gnudi come «classicismo gotico» o «naturalismo gotico», che ebbe un forte influsso, alla fine del Duecento, anche sui protagonisti del Gotico in Italia: Giotto, Nicola Pisano, Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it VINCI LEONARDO DA VINCI. ALLE ORIGINI DEL GENIO Museo Leonardiano fino al 15 ottobre (dal 15 aprile)

dell’Incoronazione della Vergine sulla facciata occidentale proviene la Testa d’Angelo, mentre dal portale del braccio settentrionale del transetto provengono la Testa di Re mago, la Testa di uomo

Il Museo Leonardiano di Vinci propone una rassegna incentrata sul legame biografico del maestro con la sua città natale e sulle suggestioni che la terra d’origine offrí al suo percorso di artista, tecnologo e scienziato. In quest’ottica, vengono presentati i documenti concessi in prestito dall’Archivio di Stato di Firenze, grazie ai quali è

Frutto di una collaborazione con il Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge di Parigi, l’esposizione dà vita a quattro sculture gotiche provenienti dalla cattedrale di Notre-Dame de Paris. L’evento si configura come una mostra dossier dedicata al tema della scultura gotica francese nella prima metà del 1200 e, in particolare, al cantiere della cattedrale parigina. Dal portale

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AGENDA DEL MESE possibile ricostruire in maniera inequivocabile le primissime vicende della vita di Leonardo a Vinci, e il primo disegno conosciuto da lui realizzato, Paesaggio (inv. 8P) datato dall’artista 5 agosto 1473, concesso in prestito al Museo Leonardiano per le prime sei settimane dell’esposizione. Attorno a quest’opera giovanile, che costituisce una sorta di palinsesto di tutta la futura produzione di Leonardo, si dipana l’intero percorso espositivo. info www.museoleonardiano.it MILANO LEONARDO DA VINCI PARADE Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci fino al 31 ottobre

Per celebrare i cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci, il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia torna alle origini, esponendo le due collezioni con cui ha aperto al pubblico il 15 febbraio 1953. Una parata in cui 52 modelli leonardeschi e 29 affreschi di pittori lombardi del XVI secolo, provenienti dalla Pinacoteca di Brera, tornano a offrirsi all’ammirazione del pubblico. Si tratta di un percorso inedito per rimettere al centro l’unità della cultura con accostamenti insoliti di arte e scienza e che, peraltro, permette ai visitatori di continuare a godere della collezione dei modelli storici leonardeschi durante il periodo in cui la storica Galleria Leonardo resta chiusa per importanti lavori edili, strutturali e impiantistici. «Leonardo da Vinci Parade» è la prima iniziativa realizzata in preparazione del programma «Milano e Leonardo» promosso dal Comitato

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Territoriale per la celebrazione dei 500 anni dalla morte di Leonardo. Milano è la città dove Leonardo operò piú a lungo in tutta la sua vita, circa vent’anni, esplorando molti campi del sapere. info tel. 02 485551; e-mail: info@museoscienza.it; www.museoscienza.org SANSEPOLCRO LEONARDO DA VINCI: VISIONS Museo Civico di Sansepolcro fino al 24 febbraio 2020

Omaggio concepito in occasione del cinquecentesimo anniversario della morte del maestro, la mostra invita i visitatori a esplorare alcuni ambiziosi progetti di Leonardo, che ben illustrano la sua attitudine a cimentarsi con temi di inaudita complessità. Il volo, il conferire movimento a oggetti inanimati, il progetto della piú grande statua equestre mai realizzata: sogni che fanno parte della storia dell’umanità da tempi remoti e prendono forma nei suoi disegni e nelle macchine da lui ideate. Visions è un contributo alla conoscenza della genialità e della tenacia con cui Leonardo affrontava le piú audaci sfide tecnologiche e artistiche. Sognato dell’uomo fin dai tempi piú antichi, il volo prende forma nei suoi studi e nelle macchine che ha

disegnato. Leonardo si misura anche con l’idea di conferire il movimento a oggetti inanimati: il carro semovente e il leone meccanico sono eloquenti testimonianze dei risultati che egli raggiunse, dal potenziale fortemente innovativo. Infine, il progetto per la gigantesca statua equestre in bronzo in memoria di Francesco Sforza costituisce un’ulteriore prova dell’eccezionale intelligenza con cui affrontava le sfide piú audaci. Video di approfondimento e animazioni 3D realizzati dal Museo Galileo di Firenze fanno da corredo al percorso espositivo consentendo sia di approfondire i temi affrontati che di comprendere i principi che governano il funzionamento delle macchine esposte. info tel 199 15 11 21 oppure 0575 732218; www.museocivicosansepolcro.it

Appuntamenti ROMA LUCE SULL’ARCHEOLOGIA. ROMA VERSO L’EUROPA Teatro Argentina 7 aprile

Giunta alla sua V edizione, «Luce sull’Archeologia», la rassegna di incontri di storia e arte al Teatro Argentina, ha ripercorso quest’anno la parabola ascendente di Roma, che, affermata la propria egemonia nel Lazio, prosegue il processo di romanizzazione con la conquista della Gallia e la Gallia Cisalpina a opera di Giulio Cesare, che pone cosí aprile

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APPUNTAMENTI • Settimana Santa Cerianese Ceriana (Imperia) 14-21 aprile info www.comune.ceriana.im.it

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eriana, piccolo centro ligure in provincia di Imperia, raggiunge un momento coinvolgente durante la Settimana Santa. Questa tradizione, di origini medievali, un tempo culminava nella processione dei flagellanti, fedeli incappucciati e vestiti di nero, che si percuotevano a sangue per espiare i propri peccati. Oggi la Settimana Santa Cerianese entra nel vivo nel pomeriggio del Giovedí Santo, quando in paese inizia a risuonare il cupo suono dei corni di corteccia di castagno lavorati a mano. In serata, nella chiesa parrocchiale dei Ss. Pietro e Paolo viene celebrata una messa animata da antichi canti delle confraternite cittadine, al suono dei corni e delle tabulae, tavolette percosse con un bastone di ferro. Il Venerdí Santo le quattro antiche confraternite cittadine (Misericordia, Santa Caterina, Visitazione, Santa Maria) vanno in processione con torce e standardi, eseguendo antichi canti penitenziali, fino a raggiungere la chiesa dei Ss. Pietro e Paolo. Nella stessa giornata si svolge la Processione degli angioletti: i bambini del paese, vestiti da angeli, sfilano portando gli strumenti simbolici della Passione quali il gallo, i chiodi, il martello e la corona di spine. Infine, nella mattina di Pasqua, la messa solenne è accompagnata dai canti delle confraternite e dal suono di corni e tabulae.

i presupposti dell’Italia augustea e lascia un’impronta indelebile nella storia d’Europa. Chiude questo ampio excursus un incontro dedicato all’archeologia e alla storia della Lucania romana, pensato come omaggio a Matera Capitale Europea della Cultura 2019: 7 aprile, ore 11,00, Roma in Lucania: Venosa e Grumento «luci» sulle città romane (Maria Luisa Marchi); Orazio e le sue origini lucanoapule (Antonio Marchetta); L’idea del monumento aere perennius nella storia della civiltà occidentale (Claudio Strinati). info tel. 06 684000354; e-mail: catia.fauci@teatrodiroma.net; www.teatrodiroma.net PAGAZZANO (BG) PAGAZZANO LONGOBARDA 4-5 maggio

Il 4 e 5 maggio Pagazzano torna longobarda. Il magnifico castello visconteo della cittadina lombarda ospiterà infatti «Pagazzano Longobarda», evento

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storico-rievocativo che accenderà i riflettori sull’Alto Medioevo in terra bergamasca. Curata dalla medievista Elena Percivaldi in collaborazione con i gruppi storici Fortebraccio Veregrense e Bandum Freae, la due giorni proporrà un campo storico con attività didattiche, spettacoli e laboratori con particolare attenzione all’armamento, all’abbigliamento e ai vari aspetti della vita quotidiana nel VI-VIII secolo. L’evento sarà preceduto, il 26 aprile, da una giornata di approfondimento volta a valorizzare il patrimonio longobardo locale e in particolare il MAGO, Museo Archeologico delle Grandi Opere, che ospita i reperti emersi dai recenti scavi lungo l’autostrada Bre-Be-Mi. info www.castellodipagazzano.it, www.ilongobardi.jimdo.com FIRENZE UMANESIMO E «MANIERA MODERNA» Antica Canonica di S. Giovanni, Sala Brunelleschi fino al 21 maggio

Nel 2019 ricorrono due cinquecentenari importanti per altrettanti protagonisti (ancorché in ambiti distinti) della cultura fiorentina fra umanesimo e «maniera moderna»: la morte di Leonardo da Vinci, il 2 maggio, ad Amboise, e la nascita di Cosimo I de’ Medici, il 12 giugno, a

Firenze. I due anniversari sono stati scelti come spunto per il consueto ciclo d’incontri all’Antica Canonica di San Giovanni. Per Leonardo le letture privilegiano i pensieri (vale a dire le trame e i contenuti illustrati), mentre di Cosimo I viene commentato lo spessore intellettuale che informò il suo collezionismo archeologico. Questo il calendario dei prossimi appuntamenti: 9 aprile, Marino Biondi, Destino dell’umanesimo; 23 aprile, Sergio Givone, Forma e deformazione dall’Alberti a Leonardo; 7 maggio, Fabrizio Paolucci, Sotto il segno dell’Antico: il collezionismo archeologico di Cosimo I; 21 maggio, Gianluca Garelli, L’umanesimo oltre l’umanesimo. Tutti gli incontri sono in programma a partire dalle ore 17,00 e l’ingresso è libero fino a esaurimento dei posti disponibili. info eventi@operaduomo.firenze.it; www. operaduomo.firenze.it

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battaglie mohi 11 APRILE 1241

Terrore

Agli inizi del XIII secolo le orde di Gengis Khan si riversarono di Federico Canaccini dall’Asia in Occidente, trasformandosi in un vero e proprio incubo per le potenze cristiane. E, nella primavera del 1241, presso il villaggio di Mohi (Ungheria orientale), un esercito di 50 000 soldati ungheresi, croati e cavalieri templari viene accerchiato dalle truppe di Batu Khan...

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entre i Turchi lanciavano la controffensiva alla crociata cristiana e, alla fine del XII secolo, il Saladino riusciva a recuperare gran parte della Terra Santa, ancora piú a est si profilava un nuovo, temibile nemico, pronto a riversarsi sull’Europa: le orde mongole, che, sotto la guida del carismatico Temujin (forse 1167-1227), crearono uno dei piú vasti imperi della storia. Temujin, che dal 1206 aveva assunto il titolo onorifico di Gengis Khan – «Imperatore degli Oceani» – sottomise Cina e Corea (1216), poi diresse le proprie truppe attraverso le steppe asiatiche, invadendo ciò che restava dell’antico impero persiano. Intorno al 1221 i Mongoli travolsero la Transoxiana (la regione che si estendeva oltre il fiume Oxus – l’odierno Amu Darya –, corrispondente grosso modo agli attuali Uzbekistan e Kazakistan) e invasero le terre ucraine. Due anni piú tardi, sulle sponde del

fiume Kalka, una enorme coalizione di Russi, di Turchi comani, di Galiziani e di molti altri popoli cercò di frenare l’avanzata mongola. Il generale del khan, Subotai, era in netta minoranza quando affrontò le truppe russe, potendo contare su appena 20 000 uomini, contro gli 80 000 comandati dal turco Kotian e da Mtislav, principe di Galizia. Tuttavia, durante un inseguimento durato, a detta dei cronisti, ben nove giorni, molti degli alleati erano rimasti indietro e, quando si trovarono dinnanzi al Kalka, il rapporto era ormai alla pari. Dopo aver impugnato le lance e messo mano alle spade, la battaglia infuriò e, alla fine della giornata, i Mongoli avevano avuUna scena di battaglia del film Mongol (2007), diretto dal regista russo Sergej Vladimirovic Bodrov, che ricostruisce la biografia del condottiero mongolo Gengis Khan.


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Massima estensione dell’impero mongolo (fine del XIII sec.) Limite del mondo islamico

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to ancora una volta la meglio, forti di cavalcature, elmi, cotte di maglia e scudi di metallo, contro una massa di fanti leggeri e poco avvezzi a manovre coordinate. Piogge di frecce «tali da oscurare il sole», come spesso usavano scrivere i cronisti del tempo, decimarono gli eserciti dei Turchi e dei Galiziani, decretando il trionfo

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Golfo del Bengala

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Ripartizione dell’Impero tra i quattro figli di Gengis Khan (1227)

I DISCENDENTI DI GENGIS KHAN

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Confederazione mongola sotto Gengis Khan (1206-27)

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definitivo del generale di Gengis Khan. Subotai e Chepe, il suo piú vicino collaboratore, non si curarono degli eserciti sfuggiti al massacro, in particolare quelli di Kiev e Chernigov, ma proseguirono la loro marcia verso occidente. Giunti in vista del Mar Nero, depredarono Soldaja, una colonia della Repubblica di Genova, meta aprile

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preziosa per il commercio di schiavi e pellicce. Alcuni mesi piú tardi, risalendo il Volga, si diedero a rapine e saccheggi ai danni della Bulgaria, per poi ripiegare verso oriente, facendo ritorno alla corte di Gengis Khan. L’Europa sembrava rivivere la paura delle invasioni ungare e normanne, quando, intorno al X secolo, era stata percorsa da orde di razziatori e pirati.

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In basso tavola a colori raffigurante Gengis Khan in battaglia. Oltre che eccellente capo militare, Temujin (questo era il suo vero nome) diede prova di grandi capacità organizzative, rivelatesi decisive nel processo di formazione dell’impero mongolo.

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Nell’agosto del 1227 Gengis Khan morí, lasciando ai suoi successori – come già accennato – il piú grande impero mai costituito fino ad allora. Nel 1241 uno dei nipoti del condottiero, Batu Khan, guidò un nuovo, massiccio attacco contro l’Occidente. Dopo avere sottomesso la Russia, il suo piano consisteva nell’annettere, con una triplice operazione, Polonia, Ungheria e Romania. La prima parte della campagna fu affidata ai suoi luogotenenti, Baidar e Kadan, sotto la guida del fratello, Ordu. Dopo aver saccheggiato Cracovia e Sandomierz, i Tartari – altro nome con il quale i Mongoli erano conosciuti in Occidente – seguirono il corso

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In alto, sulle due pagine l’espansione dell’impero mongolo durante il regno di Gengis Khan e dei suoi successori.

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battaglie mohi dell’Oder in direzione di Breslau, dividendosi in diversi plotoni per puntare verso la Silesia e Wrocław: alla notizia del loro arrivo, gli abitanti furono presi dal panico e abbandonarono immediatamente la città, che pure era difesa da truppe bene armate. A quel punto, però, alla notizia che il duca Enrico II Pobozny, detto il Pio, si stava avvicinando con un esercito, e che era probabile anche l’arrivo di un’armata ceca guidata da Venceslao I, i Mongoli si diressero a ovest, verso Legnica, a 25 km circa da Wrocław (Polonia occidentale, a pochi chilometri dall’odierno confine tedesco, n.d.r.), proprio là dove il duca di Silesia, Enrico II, aveva radunato un formidabile esercito composto da cavalieri polacchi, tedeschi e dalla militia Christi, le truppe dei Cavalieri Teutonici, dei Templari e

degli Ospedalieri che sventolavano sui loro vessilli croci di varie fogge e colori. Il 9 aprile 1241 questa grande armata cristiana veniva sconfitta dai Mongoli presso Legnica e, due giorni piú tardi, presso Mohi, un altro esercito mongolo, guidato da Batu Khan in persona, annientò l’armata ungherese di Bela IV.

Testimonianze preziose

Per narrare gli eventi culminati nella battaglia di Mohi, detta anche del fiume Sajo, possiamo avvalerci delle cronache di Tommaso di Spalato e dell’arcidiacono Ruggero, un testimone oculare di origini italiane che seguí e documentò tutte le fasi della guerra portata dai Tartari in Europa. Le avvisaglie dell’arrivo dell’orda mongola avevano già messo in allarme i signori di Budapest. Particolare del monumento a Bela IV. Il re ungherese tentò di fermare l’avanzata in Europa delle truppe mongole, ma fu sconfitto nel 1241 a Mohi e costretto a fuggire in Dalmazia.

Bela IV

Un regno tormentato Figlio del re d’Ungheria Andrea II, Bela IV salí al trono nel 1235, alla morte del padre. Prima di morire Andrea era riuscito a combinare le nozze dell’erede, unendolo in matrimonio alla figlia dell’imperatore di Nicea, Teodoro I Lascaris. Pochi anni dopo il suo insediamento, Bela dovette affrontare l’orda mongola e, sconfitto a Mohi, riparò in Dalmazia. Al suo ritorno, si dedicò alla ricostruzione del proprio regno e alla riorganizzazione dell’esercito regio. Per evitare nuove invasioni in futuro, intraprese una intensa attività diplomatica, dando vita a numerose alleanze, suggellate da matrimoni con famiglie nobili dell’Europa orientale. Una volta ristabilito l’ordine sul proprio regno, intraprese campagne militari che gli garantirono il controllo sulla Stiria e gli permisero di mantenere il dominio sulla Dalmazia. Nel 1245 associò al trono il figlio Stefano, nominandolo governatore della Stiria. Ma la scelta si rivelò infelice e la nobiltà gli si rivoltò contro, costringendo Stefano ad abbandonare la regione nel 1258. Dopo aver ottenuto la Transilvania, mosse guerra contro suo padre che lo privò della successione. Bela fu sconfitto nel 1265 dal figlio, che riottenne il diritto e la corona e nel 1270, alla morte del padre, poté finalmente ascendere all’agognato trono di Ungheria.

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gli eserciti di russia, polonia e ungheria

Druzhina, szeklers e altri Dal punto di vista militare la Russia, la Polonia e l’Ungheria organizzarono i propri eserciti in modo piuttosto originale. In Russia, in realtà divisa tra molti principati indipendenti, l’esercito era articolato in tre elementi principali: la druzhina, il polk e un’ampia fetta di contingenti mercenari. La druzhina era composta da uomini a cavallo legati a un nobile o a un principe. Il termine significa «fratellanza», ed era in uso anche in Polonia. Sembra che la druzhina di re Boleslao I (967-1025) raggiungesse le 20 000 unità. Il polk, invece, era una milizia cittadina, composta da tutti gli uomini abili: piú che dipendere dal principe, esso era controllato (e convocato) dal consiglio

cittadino, il veche. Ogni città doveva fornire un contingente di 1000 uomini (tisiach), al comando di un tisiatzki (comandante di 1000 uomini). Al di sotto di questi vi erano dieci sotskii, cioè i «centurioni». In Polonia la druzhina, sempre organizzata su base decimale, fu successivamente sostituita da cavalieri feudali, detti rycerz, molto piú vicini al sistema militare occidentale, anche per quanto riguarda l’armamento, benché nella parte decorativa un’influenza orientale fosse rimasta sempre presente. In Ungheria, infine, le fonti ci permettono di fare luce su due elementi tipici degli eserciti: gli szeklers e i kunok. I primi, il

cui significato forse è quello di «guardiani», erano probabilmente il retaggio di gruppi tribali incaricati di proteggere le frontiere orientali: si trattava di cavalieri armati alla leggera, in grado di scagliare numerosi giavellotti dal dorso del proprio cavallo. I kunok, invece, di lingua turca, erano dotati di arco e frecce. La loro presenza aumentò dopo il 1239, quando re Bela IV ne accolse diverse migliaia nel proprio regno, suscitando la disapprovazione della Chiesa di Roma. Nel corso del XIV secolo, infine, i Cumani, come venivano chiamati i kunok, abbandonarono i loro costumi nomadi, si convertirono al cristianesimo e furono cosí assimilati alla popolazione magiara. Miniatura raffigurante Batu Khan, comandante delle truppe mongole nella battaglia di Mohi, insieme ad alcuni suoi dignitari, da un manoscritto persiano del XV sec. Parigi, Bibliothèque Nationale de France.

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battaglie mohi Ungheria e dispacci erano giunti sino in Russia: era dal 1068 che in queste terre non si affacciava una seria minaccia da Oriente. Sfruttando le proprie capacità di spostamento, i Mongoli entrarono in Transilvania attraverso i Carpazi sud-orientali. Il 12 marzo 1241 l’esercito di Batu stabilí una testa di ponte strategicamente fondamentale, occupando il passo montano di Verecke, su cui sorgeva un castello, protetto da una piccola guarnigione rapidamente sbaragliata. In contemporanea, un altro esercito penetrò in Transilvania da est, guidato dal condottiero Kadan: alla fine di aprile altri eserciti, guidati da Baidar e Orda, raggiunsero la frontiera settentrionale, marciando verso Trencsén, in Slovacchia. Quando i soldati ungheresi di

A destra la battaglia di Legnica in una incisione realizzata per la Chronica di Johann Ludwig Gottfried. 1630. Lo scontro si combatté due giorni prima di quello di Mohi e vide le truppe di Batu Khan annientare l’esercito guidato da Enrico II di Slesia. In basso miniatura raffigurante l’esercito mongolo condotto da Batu Khan in battaglia presso il Danubio, dal Codice Francese 2623. XIV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

Il sistema militare mongolo

Mobili e perfettamente addestrati Il segreto del successo militare dei Mongoli risiedeva nella combinazione fra mobilità sul campo, strategia e addestramento dei soldati. Se si eccettuano pochi e rari corpi di ausiliari, le truppe erano composte esclusivamente da corpi di cavalleria, pesante e leggera. Tutto l’esercito era organizzato sulla base del sistema decimale: la piú grande unità mobilitabile, infatti, era il

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tuman, che consisteva in ben 10 000 uomini. Tre di questi tuman costituivano, solitamente, un’armata. A sua volta, ciascun tuman era composto da 10 plotoni, detti minghan, da 1000 uomini ciascuno. Come in un sistema di scatole cinesi, il minghan era formato da 10 jagun, reggimenti da 100 uomini. Infine, ogni jagun era suddiviso in 10 piccoli gruppi da 10 uomini ciascuno, detti arban.

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re Bela IV giunsero al villaggio di Mohi, a 170 km circa da Buda, si trovarono di fronte il solo contingente guidato da Batu e Subotai. Se tutte le orde si fossero riunite insieme, non ci sarebbe stata speranza alcuna. L’esercito messo in piedi da re Bela si aggirava attorno ai 50 000 uomini (alcuni ipotizzano addirittura 80 000) ed era, probabilmente, simile a quello del suo avversario Batu. Il nerbo dell’esercito era costituito dalla cavalleria pesante degli Ordini cavallereschi dei Cavalieri Teutonici e degli Ospedalieri, dai contingenti a cavallo del re, dei nobili del suo seguito e dei maggiorenti del territorio. A questo nucleo ben equipaggiato si aggiungeva una grande massa di uomini armati in maniera molto disomogenea e provenienti dalle campagne, guidati dai loro capi (ispans). Tra questi molti erano dotati di archi, ma, di certo, non eguagliavano i Mongoli nell’arte dello scoccare le frecce.

Nascosti nella foresta

L’esercito ungherese si diresse verso il fiume Sajo, là dove però l’armata mongola era già in attesa, nascosta nelle foreste. Presso Mohi gli Ungheresi piantarono le proprie tende, protette da carriaggi e difese da paludi tutto attorno, sino a lambire il punto in cui il Sajo si

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gettava nel Tisza, non prima di essersi assicurati il controllo dell’unico ponte che garantiva l’attraversamento del primo dei due corsi d’acqua con una guarnigione di 1000 cavalieri. Era il 9 aprile e, nello stesso frangente, a Legnica, come abbiamo poc’anzi ricordato, l’armata mongola capitanata da Baidar e Kadan annientava l’esercito del duca Enrico (vedi «Medioevo» n. 183, aprile 2012; anche on line su issuu.com). La preoccupazione di occupare il ponte mostra chiaramente che la strategia di Bela puntava a un combattimento basato sulla difesa piú che sull’attacco: impedendo l’attraversamento del fiume ai Mongoli, si sperava cosí di ammortizzare il numero di vittime tra le fila ungheresi. Il giorno succesivo i Tartari attaccarono in massa il ponte, con un massiccio bombardamento di copertura assicurato dai trabucchi: si trattava di 40 000 cavalieri comandati da Batu, ma la fiera resistenza organizzata dal principe Coloman e dall’arcivescovo di Kalocsa, Ugrin, respinse l’attacco dei Tartari, sebbene a costo di molte perdite. Questo primo successo rincuorò gli Ungheresi, i quali però abbassarono troppo presto la guardia, ritenendo forse che quello fosse tutto l’esercito nemico. Contemporaneamente, invece, altri due battaglioni di Mongoli attraversarono il fiume: a nord, Sei-

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Le fasi della battaglia

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A. Fase I Gli Ungheresi di Bela IV inseguono l’armata mongola dai pressi di Pest sino alla confluenza fra il Sajo e la Tisza (1). All’insaputa di Bela, Batu e Subotai hanno già scelto l’area come terreno dello scontro e i cavalieri mongoli, piú veloci, attraversano l’unico ponte sul Sajo e scompaiono nella foresta (2). Bela ordina di esplorare il bosco sul lato opposto al fiume, ma i suoi uomini non riescono a localizzare il nemico e riguadagnano la sponda sud-occidentale del corso d’acqua.

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B Fase II Dopo aver piazzato un distaccamento in prossimità 2 a del isz ponte (1), l’esercito di Bela monta il campo (2) e lo circonda T me con carriaggi. Nel frattempo, Batu e i suoi ufficialiFiucontrollano le posizioni nemiche da una collina che domina il campo (3). Sebbene contino sulla solidità della propria posizione, le truppe 1 di Bela sono di fatto chiuse fra le paludi a destra, il Sajo di fronte e le foreste di Lomnitz e Diosgyor alla sinistra e sul retro.

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1 ordina a 30 000 C Fase III Quando cala la notte, Subotai cavalieri di attraversare le colline fino al Sajo (1) e di costruire un 2 ponte sul fiume. Batu dispone il resto dei suoi uomini affinché attacchino gli Ungheresi servendosi del ponte in muratura (2). 1

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2 di passare D Fase IV Batu ordina ai suoi arcieri a1 cavallo all’azione (1), ma il distaccamento2 di cavalleria pesante di Bela riesce a resistere grazie allo stretto passaggio praticabile in corrispondenza del ponte (2). La strenua resistenza assicura al 1 grosso delle forze ungheresi il tempo sufficiente per uscire dal 2 campo e avanzare verso il ponte (3). Nel frattempo, gli uomini di 3 Subotai lavorano alla costruzione dell’altro ponte (4).

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E Fase V Non riuscendo ad avere la4 meglio sugli Ungheresi attraverso lo stretto ponte in pietra, i Mongoli cominciano a bombardare il campo con sette3 catapulte leggere (1), scagliando 2 proiettili incendiari tra le fila dell’esercito di Bela (2). Il caos che 1 ne scaturisce offre a Batu e ai 3Mongoli la possibilità di riversarsi nello spazio conteso (3) e di schierarsi sulla brughiera. 3

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ban guidò i suoi tra le acque del Sajo, a sud, Subotai improvvisò un ponte mobile attraverso il quale ben 30 000 cavalieri superarono il fiume, 1 riversandosi alle spalle del nemico. Di certo i Mongoli conoscevano e utilizzavano bene macchine,2 ingegneri militari, strategie e tattiche. Non è certo invece che, in questa occasione, facessero uso di armi da fuoco di origine cinese.

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Un errore fatale

F Fase VI Batu schiera lentamente le sue forze (1), attirando 1 l’attenzione degli Ungheresi sui suoi arcieri e muovendo 2 astutamente gli uomini in maniera tale da far sí che il nemico si ritrovi esposto all’attacco delle forze di Subotai che giungono da ovest, senza essere 1state individuate (2). Bela lancia una 2 carica dopo l’altra contro le truppe mongole, numericamente 1 e le linee dei guerrieri delle steppe cominciano inferiori (3) 3 1 ad assottigliarsi. Inspiegabilmente, Batu ordina agli arcieri 2 superstiti di accerchiare la cavalleria pesante ungherese (4).

2 luci dell’alba dell’11 aprile, quando molti deAlle prime 1 3 gli Ungheresi stavano ancora dormendo, i Tartari avevano completato l’accerchiamento del campo1 avversario: 3 4 la mancanza di truppe di riserva si rivelò un errore fatale 4 per Bela e i suoi. La mattina trascorse in un continuo 2 combattimento da parte degli Ungheresi nel tentativo di difendere sino alla fine l’accampamento, senza però alcuna speranza di ricevere aiuti dall’esterno, o la possi3 bilità di organizzare una strategia di attacco, impegnati come erano, nel rintuzzare l’assedio del nemico. Gli Ungheresi erano in trappola. Gli Annali cinesi riportano che i Magiari si difesero strenuamente, fin quando i Tartari non aprirono un varco nel blocco degli1 avversari, seminando il panico e causando ulteriore caos: nel2frattempo, armi incendiarie 1 avevano appiccato il3fuoco tra i carriaggi e le tende. A difendere sino all’ultimo l’accampamento rimasero i Templari e le truppe fedeli al re Bela. Dal varco aperto dai 5 Mongoli riuscirono a fuggire molti cavalieri, lasciando 4 1di armi in mano al nemico. alle proprie spalle migliaia 4 Coloro che poterono,3dunque, abbandonarono il campo e, tra questi, lo stesso re Bela IV e suo fratello Coloman che però, a causa delle 3 ferite1riportate in battaglia, morí poche settimane piú tardi. Bela attraversò tutto il regno, tallonato da truppe 3 mongole e raggiunse la costa dalmata, dove trovò infi4 ne rifugio presso il castello di Traú. La colonna di fuggiaschi si incanalò nella gola da cui era arrivata pochi giorni prima e divenne facile bersaglio per i Mongoli, che la seguirono per giorni, bersagliandola con frecce e trasformando la strada che conduceva a Buda in un sentiero disseminato di cadaveri. La fuga del re può ap-

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G Fase VII Mentre i ranghi sempre piú esigui di Batu si dispongono a formare una mezzaluna per opporsi alle soverchianti forze di Bela (1), nuovi contingenti di arcieri appaiono alle spalle delle truppe ungheresi e cominciano a comporre una seconda mezzaluna (2), minacciando di circondare la cavalleria pesante. Tempestato dalla pioggia di frecce mongole, Bela intuisce di aver perso l’iniziativa e ordina al suo campo fortificato di arrendersi (3).

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H Fase VIII Respingendo l’attacco (1), i Mongoli schierano la propria artiglieria (2) e cominciano a lanciare proiettili incendiari sul campo nemico (3). Gli 1 Ungheresi tentano di caricare le macchine da assedio, ma sono respinti. Dopo ore di martellamento, il morale degli Ungheresi cede e i lancieri mongoli si preparano 1 ad assestare al nemico il colpo di grazia (4). In questo movimento si apre però una breccia (5) e un gruppetto di Ungheresi in fuga si trasforma rapidamente in una 1 fiumana. I piú fedeli seguaci di Bela non fuggono e 3 vengono massacrati. I superstiti ungheresi che fuggono attraversando la gola verso Pest sono braccati dagli arcieri mongoli e l’esercito cristiano viene distrutto.

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battaglie mohi parire un gesto di vigliaccheria, ma in realtà la successiva resistenza mostrata da Bela vanificò i progetti di supremazia in Ungheria dei Mongoli che, alcuni anni piú tardi, si ritirarono.

Le armi dell’orda

Morte e devastazione

Alla metà del Duecento, uno dei primi seguaci di san Francesco d’Assisi, fra’ Giovanni da Pian del Carpine, venne inviato da papa Innocenzo IV in missione a Karakorum, capitale del Gran Khan Guyuk. Il suo obiettivo era convertire i Mongoli e, una volta divenuti cristiani, stipulare un’alleanza per muovere insieme contro la minaccia turca. Lungo il viaggio Giovanni raccolse una mole enorme di informazioni, preziosissime per la conoscenza di questo popolo. La Historia Mongolorum, composta da otto volumi piú un nono, aggiunto posteriormente, descrive il popolo mongolo, rompendo con la precedente tradizione leggendaria, poiché forniva informazioni di prima mano. Il Francescano non può naturalmente esimersi dal trattare anche l’arte della guerra: stando

Non è facile quantificare i danni che l’orda mongola provocò al regno magiaro. La gran parte dell’armata ungherese venne annientata a Mohi: le cronache riportano che – escluso il re – i principali condottieri morirono in battaglia, inclusi due arcivescovi, tre vescovi, il conte palatino – che era la carica piú importante tra i nobili ungheresi – e molti altri uomini di alto lignaggio. Alcune fonti parlano di 60 000 morti, circa i tre quarti dell’esercito impegnato in battaglia. Le devastazioni sul territorio dovettero essere spaventose: si pensa che la popolazione delle campagne diminuí del 15 per cento e fu addirittura dimezzata in aree interessate direttamente da scenari di guerra. Fra l’aprile del 1241 e il gennaio dell’anno seguente, gli Ungheresi

Gli archi innanzitutto

uomini e cavalli

Una vita in simbiosi Presso i Mongoli il servizio di leva era obbligatorio per tutti gli adulti sino all’età di 60 anni e, trattandosi di una popolazione della steppa, non esisteva il concetto di «cittadino» da arruolare: tutti erano coinvolti. Fin da quando era bambino, il giovane mongolo veniva educato a montare il cavallo e a destreggiarsi sulla sua groppa: in pochi anni, imparava a effettuare qualsiasi manovra militare a dorso del proprio destriero. Questi uomini erano forgiati nell’arte della guerra a cavallo, educati a tirare con l’arco in corsa e con una enorme capacità di resistenza fisica, abituati dalle lunghe migrazioni a cui erano costantemente sottoposti. Durante le marce ogni tuman aveva al proprio seguito un gran numero di cavalli, cosí da poter effettuare continui cambi: ciascun cavaliere aveva a disposizione

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almeno tre cavalli, che gli garantivano spostamenti molto veloci. Anche gli animali erano naturalmente sottoposti a un allenamento serrato e in guerra si preferivano le giumente agli stalloni. Le prime cavalcature furono i cosiddetti «cavalli di Przewalski», quadrupedi forti, di piccola taglia, dalle gambe possenti e noti nelle steppe per il loro coraggio. Dopo i primi due anni dedicati a domarli, venivano tenuti per tre anni in gruppo, cosí da imparare a coordinarsi: solo allora erano pronti per affrontare la guerra. Ben presto furono però rimpiazzati dai cavalli arabi, purosangue, di stazza ben maggiore. Per i Mongoli, i cavalli erano come compagni d’arme e venivano trattati in egual maniera: era quindi proibito ucciderli per cibarsi della loro carne e, se un cavallo era ormai

vecchio o malato, veniva lasciato al pascolo, perché potesse trascorrere in libertà i suoi ultimi giorni. Se invece un guerriero moriva in battaglia, allora il suo cavallo lo seguiva nella tomba, per assicurare al soldato una compagnia fedele anche nell’aldilà.

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alle sue parole, i Mongoli utilizzano due archi, uno corto e uno piú lungo, dotati di frecce molto leggere e appuntite per il tiro sulla distanza, e piú pesanti e con punta piú larga per i tiri ravvicinati. I loro corpi di cavalleria pesante sono equipaggiati con scudi, mazze e scimitarre di imitazione turca e sono armati di lance dotate di arpioni per disarcionare gli avversari. La cavalleria leggera, invece, utilizza spade, archi e talvolta anche dei giavellotti. I guerrieri si proteggono con armature di vario genere e composte di materiali eterogenei: dalla maglia di ferro alle scaglie metalliche, dal cuoio cotto a giubbe rivettate. Anche negli assedi i Mongoli si servono di macchine simili a quelle degli Occidentali: usano infatti una specie di trabucco che, anziché sfruttare il contrappeso, si serve del tiro di corde in simultanea da parte di molti uomini preposti al lancio di proiettili, anche di 40 kg di peso, sino a 500 m di distanza. Modelli simili erano stati in realtà già adottati nel Vicino Oriente dai Turchi Selgiuchidi nel corso del XII secolo.

In alto a sinistra punte di freccia mongole in ferro. Hohhot, Museo della Mongolia Interna. Qui sopra Batu Khan attacca l’Europa Occidentale, illustrazione tratta da una cronaca russa scritta durante il regno di Ivan il Terribile che descrive una fase della battaglia di Mohi del 1241. XVI sec. San Pietroburgo, Biblioteca dell’Accademia Russa delle Scienze. A sinistra miniatura raffigurante un arciere mongolo che scaglia frecce in fase di ritirata, tecnica con cui i soldati asiatici sorprendevano i nemici. XIII sec. Nella pagina accanto una punta di freccia e un elmo mongoli. XIII sec. Hohhot, Museo della Mongolia Interna.

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cercarono di riconquistare l’area del Danubio caduta sotto il controllo dei Mongoli e ottennero un ampio quanto insperato successo. Durante l’inverno le due potenze si scontrarono piú volte sulle rive ghiacciate del fiume che i Mongoli tentavano in tutti i modi di guadare. Quando infine l’Orda d’Oro dilagò, la famiglia reale ungherese riparò in Austria chiedendo aiuto al duca Federico II, il quale invece imprigionò i membri della delegazione e pretese un riscatto in oro e le contee ungheresi di Moson, Sopron e Vas, confinanti con l’Austria.

Appelli inascoltati

A questo punto il re Bela e il suo entourage fuggirono verso sud-ovest, attraversando i territori ormai sotto il dominio dei Mongoli, per raggiungere il castello di Traú, dove rimasero sino al ritiro dei Tartari. Dopo aver valutato i rischi della precaria situazione, Bela IV scrisse piú volte ad altri sovrani, inclusi il papa, l’imperatore e il re di Francia, ottenendo da tutti un rifiuto. Di fatto, i vari interlocutori sottostimarono il reale pericolo rappresentato dall’avan-

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Tumulo funerario presso la località di Mohi, 160 km circa a nord-est di Budapest, nel parco memoriale che celebra la battaglia del 1241 tra le truppe ungheresi e mongole.

zata mongola e nessuno forse riusciva a immaginare che potessero concretamente minacciare la stabilità dell’Occidente: solo i reduci dalle sconfitte avevano compreso la pericolosità dei Tartari, giunti ad appena una settimana a cavallo dal confine del regno di Francia! Le sconfitte patite a Legnica e Mohi chiarirono bene all’Occidente le capacità militari dei Mongoli, guerrieri in grado di simulare ritirate, tendere imboscate e circondare il nemico. Sul campo gli Asiatici superarono gli Occidentali grazie alla perfetta coordinazione tra cavalleria pesante e leggera, prima per affrontare il nemico, e poi per finirlo in azioni congiunte. Se non altro, le severe lezioni ricevute indussero gli Occidentali ad adottare una maggior coordinazione tra cavalleria e fanteria che, nel corso del Trecento, trovò sempre maggior impiego nei campi di battaglia europei. F aprile

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costume e società

Benvenuti a Westeros! di Riccardo Facchini

Nata dal genio creativo dello scrittore statunitense George R.R. Martin, Il Trono di Spade figura tra le produzioni fantasy piú fortunate di tutti i tempi. Ma a quale «idea di Medioevo» si ispira la serie televisiva, contrassegnata da un realismo particolarmente crudo e violento?

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piú di un anno dall’ultima puntata, inizia in questi giorni la stagione finale di uno degli show televisivi piú visti, discussi e apprezzati di sempre: Game of Thrones – che il pubblico italiano conosce come Il Trono di Spade, –, la fortunata serie fantasy prodotta dall’emittente statunitense HBO e tratta dalla saga A Song of Ice and Fire (Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco), frutto del genio creativo di George R.R. Martin. La serie fece il suo esordio nel 2011, fra molte attese e non pochi dubbi. La complessità dell’intreccio – che sovvertiva una consolidata tradizione, introducendo punti di vista narrativi diversi e decostruendo i non pochi cliché di un prodotto fantasy convenzionale –, nonché la cruenta descrizione di scene di violenza e sesso, rappresentava infatti una sfida non da poco per David Benioff e Daniel Weiss, chiamati a traslare sul piccolo schermo l’affascinante e controverso mondo creato dalla mente di Martin.

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Qui accanto lo scranno sul quale siede il sovrano dei Sette Regni nel Trono di Spade: collocato nella Fortezza Rossa, è composto da circa un migliaio di lame appartenute a guerrieri nemici sconfitti.

Otto anni dopo, possiamo dire che la scommessa è stata piú che vinta. L’enorme mole di mezzi e investimenti, la costante supervisione di Martin – coinvolto anche nella scrittura di alcuni episodi – e, non ultimo, un pubblico pronto alla ricezione di un determinato immaginario, hanno infatti contribuito a fare del Trono di Spade una delle produzioni piú ammirate degli ultimi decenni. Ai premi – nel settembre del 2018 Game of Thrones si è aggiudi-

L’attore britannico Kit Harington interpreta Jon Snow, uno dei protagonisti della serie televisiva Il Trono di Spade, ispirata a eventi e fenomeni tipici del Medioevo.


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costume e società A sinistra George R.R. Martin (nato a bayonne, New Jersey, nel 1948), autore de Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco (1996), da cui è tratto Il Trono di Spade. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la battaglia di Barnet. XV sec. Gand, Universiteitsbibliotheek. Svoltosi nell’aprile del 1471, fu uno degli scontri decisivi della Guerra delle Due Rose. Il conflitto dinastico che in Inghilterra oppose i Lancaster e gli York è stata una delle fonti di ispirazione di Martin nel concepire eventi e personaggi delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco.

cata l’Emmy Award come miglior serie drammatica – e al successo di critica e pubblico, si sono però aggiunte, negli anni, anche le attenzioni degli storici di professione. Un fenomeno che potrebbe sorprendere forse molti, ma non certo i nostri lettori, senza dubbio consapevoli di come il fenomeno Trono di Spade possa e debba essere letto alla luce del concetto di «medievalismo». Facciamo però qualche breve passo indietro: per chi non conosca il prodotto in questione, occorre infatti precisare che, sebbene Il Trono di Spade rientri nel macro-genere comunemente denominato fantasy, rispetto ad altri lavori analoghi è forse quello che piú ha insistito, per motivi che vedremo, sulla corrispondenza dei fatti narrati a eventi o fenomeni socio-culturali tipici del «vero» Medioevo. Per gli studiosi di medievalismo, tale rivendicazione basta quindi da sola a farne un lavoro degno di attenzione, non tanto per attestarne la reale corrispondenza al Medioevo storico, ma per investigare su come e perché si sia sentito il bisogno di rappresentare

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quel lontano passato in una chiave piuttosto inedita per il panorama televisivo globale.

Un’occasione mancata

Purtroppo, tale approccio non è stato invece fatto proprio da molti specialisti che si sono avvicinati allo studio sia della serie che della saga letteraria che l’ha ispirata, e la produzione editoriale e scientifica ha spesso mancato l’occasione di offrire uno sguardo di tipo medievalista nei confronti della serie. È stato cosí analizzato, per esempio, il rapporto fra Il Trono di Spade e la filosofia, la politica o la religione nel mondo contemporaneo, cercando costantemente richiami a tematiche attuali anche laddove queste non siano state chiaramente indicate né da Martin, né dagli sceneggiatori. In altri casi, gli studi sul rapporto tra Il Trono di Spade e la storia medievale hanno inoltre risentito oltremodo di quella «verifica positivista» descritta nel 1977 dallo storico francese Marc Ferro, dilungandosi in continui paralleli tra «veri» eventi medievali e i loro corrispettivi lette-

rari o televisivi. Tuttavia, se in passato tale «verifica» veniva compiuta per evidenziare le lacune e l’inattendibilità storica di un prodotto, in questo caso si è assistito al tentativo di legittimare la presunta storicità della saga, spesso presentata come ispirata al «vero» Medioevo. Questo approccio risulta evidente nel lavoro di Carol Larrington Winter is Coming (2016), che propone una lunga serie di analogie tra la saga e alcuni eventi o fenomeni storici, o nel volume Game of Thrones Versus History, curato da Brian A. Pavlac (2017). Simili lavori possono tutt’al piú rappresentare un utile strumento per avvicinare allo studio della storia medievale gli spettatori della serie, ma evitano di porsi quelle domande che uno studioso, e un medievista in questo caso, dovrebbe rivolgersi di fronte a simili prodotti. Quesiti riguardanti le fonti nonmedievali di Martin, il rapporto tra la storia e le sue rappresentazioni oppure riflessioni sulla relazione tra la società post-moderna e il suo passato medievale. Una menzione a parte merita il recente volume di Shiloh Carroll (Medievalism in A Song of Ice and Fire and Game of Thrones, 2018), che si colloca nella tradizione degli studi sul medievalismo, e in cui l’autrice è riuscita ad analizzare compiutamente l’intreccio tra la saga, la sua ricezione da parte del pubblico, le fonti e le loro rappresentazioni aprile

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costume e società cavalieri inesistenti

Dalla «Montagna» al «Mastino»: storie di uomini poco esemplari Uno dei piú importanti topoi medievali decostruito da George R.R. Martin è la cavalleria. Lo scrittore statunitense non è stato il primo a cercare di sfatare tale mito, ma qualcosa lo differenzia rispetto ad altri tentativi del genere. Egli non intende infatti parodiare o tantomeno denunciare il tramonto di un ideale archetipico, di un qualcosa che fu, ma che potrebbe essere nuovamente. Al contrario, sostiene che «quel» cavaliere, in sostanza, non è mai esistito. Tale obiettivo è stato raggiunto dipingendo i personaggi investiti di questo ruolo come uomini abietti (la «Montagna» ser Gregor Clegane), disillusi o rinnegati (ser Jorah Mormont, Jamie Lannister) o privi della stereotipata virilità cavalleresca (Loras Tyrell); vi è tra loro chi, come il «Mastino» Sandor Clegane, rifiuta addirittura l’investitura, poiché convinto che «non esistano veri cavalieri». Il topos dell’addio alla dama prima della battaglia viene volutamente ridicolizzato, compiendo un parallelo tra gli stilemi cavallereschi e preraffaeliti e quello del nano

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A sinistra il duello nella quarta stagione del Trono di Spade tra la Montagna che Cavalca, ser Gregor Clegane, e la Vipera Rossa di Dorne, Oberyn Martell, interpretati rispettivamente da Hafþór Júlíus Björnsson e Pedro Pascal. Nella pagina accanto l’attore inglese Isaac Hempstead-Wright nei panni di Bran Stark, un altro dei protagonisti del Trono di Spade.

post-medievali. Un intreccio che la Carroll considera influenzato dalla ricerca del realismo storico. Principale fautore di questa meticolosa, a tratti ossessiva e forse pretestuosa, continua rincorsa del «realismo» e della «accuratezza storica» è stato senza dubbio la mente all’origine di tutto, George R.R. Martin, di cui Benioff e Weiss hanno saputo adeguatamente interpretare lo spirito. L’autore, infatti – che ha al suo attivo dozzine e dozzine di romanzi, dal fantasy, alla fantascienza fino all’horror –, ha sempre sostenuto che la sua saga fosse attraversata da continui rimandi a personaggi, eventi o costumi tipici dell’età medievale. In un’intervista, rilasciata nel 2013 all’Austin Chronicle, dichiarava: «Molta gente ha fatto notare che probabilmente la maggior influenza sulle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco è rappresentata dalla Guerra delle Due Rose, e ciò è cer-

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Tyrion a Shae, la sua compagna prostituta, prima della Battaglia delle Acque Nere. Anche il tema della disabilità ha svolto il fondamentale ruolo di ribaltare i costrutti neocavallereschi, cosí come testimoniano soprattutto le figure del giovane Bran, i cui sogni si infrangono sulla impossibilità di camminare, e quella di Jaime, che intraprende un percorso di rinascita cavalleresca in seguito all’amputazione della mano destra. È curioso invece notare come l’unico esempio positivo di cavalleria sia rappresentato da una donna, Brienne di Tarth, che parzialmente ricalca il topos della donna cavaliere presente in altre tradizioni. Un altro mezzo attraverso il quale Martin raggiunge il suo scopo consiste nel «punire» quei personaggi – pensiamo a Sansa o all’anziano cavaliere Barristan Selmy – che vivono nel mito nostalgico della cavalleria. Il tema della nostalgia di un passato mitico e cavalleresco del continente di Westeros è molto presente nella saga ed emerge ancora nella figura di Jaime Lannister. Nonostante i tratti decisamente negativi con cui viene raffigurato all’inizio della narrazione, il personaggio porta con sé la consapevolezza che sia esistito un passato mitico, un’«età dell’oro» in cui la cavalleria svolgeva dignitosamente il suo ruolo.

tamente vero. Ho anche letto molto riguardo ad altri conflitti medievali. La Guerra dei Cent’Anni ha rappresentato un’altra grande fonte di ispirazione, cosí come le crociate, la crociata albigese, e ho anche tratto molti dettagli dalla storia scozzese, che fu particolarmente sanguinosa. In tal modo si può cosí attingere dalla storia, ma non credo che sia sufficiente solo trascrivere certi eventi. (…) Si deve prendere un po’ di questo, un po’ di quello. Si deve combinare, ripensare il tutto. Aggiungere poi nuovi colpi di scena che forse neanche uno studente di storia si aspetterebbe; e infine inserire elementi fantasy per rendere il tutto piú grande e colorato».

I modelli dell’autore

Secondo Martin, quindi, la sua saga sarebbe fortemente ispirata dalla grande tradizione del romanzo storico, con l’innesto di pochi elementi fantasy. Il suo universo dimostra pe-

rò il riflesso di secoli di interpretazioni e rielaborazioni di quella «idea di Medioevo» di cui abbiamo già avuto modo di parlare (vedi «Medioevo» n. 265, febbraio 2019; anche on line su issuu.com) e che egli mostra di aver assorbito o radicalmente e volontariamente rifiutato. A quale Medioevo fa dunque riferimento Martin? A un primo sguardo, esso sembra oscillare tra il Medioevo «barbarico» e quello «romantico», due delle tipologie delineate da Umberto Eco nel 1983 nel suo fondamentale saggio Dieci modi di sognare il Medioevo. L’idealizzazione romantica dell’età di Mezzo, e soprattutto i suoi eredi novecenteschi, hanno infatti ricoperto un ruolo basilare nella formazione di Martin, nato nel 1948 e cresciuto negli anni in cui si affermava Il Signore degli Anelli e in cui la Disney codificava il «suo» Medioevo grazie a lungometraggi come La Spada nella Roccia (1963). Da entrambi questi poli

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costume e società prese quindi inizialmente le mosse, per poi distaccarsene nettamente. Martin, infatti, ha ripetutamente rivendicato la diversità del suo modo di fare fantasy – crudo, realista, «storico» – rispetto a quello di altri autori, soprattutto di molti epigoni di Tolkien, rei, a suo avviso, di aver perpetrato l’idea di un Medioevo «disneyano» fatto di castelli e principesse da salvare. Tutto ciò si è tradotto nella raffigurazione di un Medioevo efficacemente definito gritty («crudo», appunto) da Helen Young (2016), che si adeguava oltretutto perfettamente ai canoni del cosiddetto grimdark, sottogenere del fantasy che si caratterizza per l’elevata presenza di scene di violenza e sesso esplicito. Il Medioevo gritty di Martin ha ricevuto un’accoglienza a volte ambigua da parte del pubblico. Da un lato, infatti, non pochi hanno sollevato dubbi sull’opportunità di dover raffigurare scene di violenza – anche sessuale – senza lasciare molto alla fantasia. In certi casi ci si è spinti fino ad accusare Martin, Benioff e Weiss di eccessivo maschilismo, proprio a causa di una presunta raffigurazione della donna come mero oggetto sessuale. Accuse respinte, in particolare da Martin, afferman-

do che il sesso raffigurato nel Trono di Spade deve per sua natura essere brutale, in quanto rappresentazione di una sessualità «medievale» e non di tipo «contemporaneo».

Una scelta ideologica

Da queste dichiarazioni emerge quindi, a piú riprese, che tale «ripetitiva ossessione nei confronti di sesso, violenza e potere» (Elliott, 2015) non delinea soltanto una serie di scelte stilistiche, ma coincide esattamente con il tipo di Medioevo che si vuole trasmettere, reputato piú attendibile e piú realistico di quello che, per citare Matteo Sanfilippo, potremmo definire un Medioevo secondo Walt Disney (2003). In que-

sto caso il realismo diventa quindi una scelta di tipo ideologico, tesa a giustificare solo in secondo luogo scelte stilistiche e contenutistiche, e volta a veicolare in primis una precisa idea di Medioevo. Nel 1986, sulle pagine di Quaderni Medievali, Franco Cardini stilò alcune categorie attraverso le quali il Medioevo storico è stato letto, narrato e rappresentato. Lo studioso fiorentino parlava dell’esistenza di vari «Medioevi»: quello barbarico, colto, feudale, cittadino, nordico, mediterraneo, mistico, scettico, irreligioso, mercantile e, infine, guerriero. Basta aver visto anche solo alcune puntate del Trono di Spade per rendersi facilmente conto di come tutte le succitate categorie siano presenti nel contesto narrativo: concetti spesso cronologicamente e spazialmente lontani tra loro, ma riuniti anacronisticamente da Martin in un unico e coerente universo. Come ha infatti ricordato David Perry, «Martin e i creatori dello show hanno attinto dalle idee piú affascinanti proprie di vari periodi e vari luoghi, fossero esse storiche, leggendarie o letterarie, e le hanno fatte confluire in unico mondo» (2017). Ciò ha inevitabilmente stimolato il pubblico a riconoscere


In alto e a destra due momenti dell’eccidio delle Nozze Rosse, nella terza stagione del Trono di Spade. L’episodio è stato da alcuni ricondotto a un fatto realmente accaduto nel Medioevo, ovvero a un banchetto svoltosi in Danimarca nel 1157 o in Scozia nel 1440.

A sinistra, sulle due pagine una creatura sovrannaturale, appartenente agli Estranei, che nel Trono di Spade minacciano spesso gli umani nel periodo dei lunghi inverni.

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costume e società Westeros ed Essos

La geografia di Game of Thrones L’universo narrativo del Trono di Spade non è intriso solo di medievalismo. Un altro fenomeno socio-culturale che ha profondamente influenzato lo sforzo creativo di Martin è quello che Edward Said, nel 1978, definí «orientalismo», intendendo con esso quel processo di costruzione di una generica «identità orientale» compiuta, a partire dal XIX secolo, dalle élite colonialiste occidentali. A differenza di altri cliché propri della tradizione medievalista, che Martin, come abbiamo visto, sfata abilmente, nei confronti di tropi tipici del discorso orientalista non è stato attuato un simile processo di decostruzione, a dimostrazione del persistere, nella cultura occidentale, di numerosi pregiudizi e immaginari stereotipati nei confronti dell’Oriente. La divisione fra continente occidentale (Westeros) e continente orientale (Essos) risulta per esempio netta; rispettivamente civilizzato il primo, barbarico il secondo. Gli stessi nomi, Westeros ed Essos, ricalcano i termini binari, Ovest ed Est, sui quali si è fondata l’intera concettualizzazione dell’orientalismo. Pensiamo a Dorne, le zona meridionale di Westeros, simile alla nostra Europa mediterranea, in cui gli abitanti sono generalmente piú scuri di pelle e godono della reputazione di traditori e lussuriosi; a Est, poi, l’orientalismo martiniano si dispiega al massimo grado. Lí le steppe, che tanto somigliano a quelle euroasiatiche, sono popolate da selvaggi e nomadi guerrieri a cavallo, i Dothraki, da mercanti di schiavi senza scrupoli e da sette di assassini. Tutti elementi che potremmo trovare nei resoconti dei viaggiatori dell’Ottocento, e che si riassumono in schiavitú, torture, sesso promiscuo, tradimento. La stessa religione, chiave fondamentale per qualificare «l’Altro» nel discorso orientalista, è descritta come millenarista, fanatica, imbevuta di proselitismo, dualista, in antitesi all’antico culto dei Sette Dèi praticato a Ovest.

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In alto uno dei Dothraki, popolo di nomadi guerrieri a cavallo che abita nella regione di Essos, uno dei due continenti nei quali è ambientata la serie Il Trono di Spade. In basso i due stalloni di pietra che delimitano l’ingresso a Vaes Dothrak, capitale dei Dothraki.

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nella produzione quella che Francis Dubost (1991) ha definito una «medievalità diffusa», una sensazione, un feeling, frutto della creazione di un Medioevo unificato, omogeneo e facilmente riconoscibile. Tale sensibilità condivisa ha certamente alimentato l’amore del pubblico per la saga, alla quale è stato attribuito uno spessore culturale percepito in qualche modo come «alto». Illustre vittima di questo meccanismo è stato il rapper Snoop Dogg che, in un’intervista del marzo 2015, ha dichiarato: «Guardo Il Trono di Spade per ragioni storiche, per cercare di capire su cosa si basasse questo mondo in passato. Mi piace scoprire come siamo giunti da quel periodo al presente, e le somiglianze tra il passato e l’oggi». Sebbene questo possa rappresentare un caso limite, il dibattito sulla rilevanza di un prodotto come Il Trono di Spade nei confronti della medievistica è molto acceso, soprattutto nell’ambito accademico anglosassone, dove di frequente ci si imbatte in corsi di storia o letteratura medievale che utilizzano il pro-

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dotto televisivo come strumento di insegnamento (non sempre, a dire il vero, con risultati entusiasmanti). È possibile, inoltre, riscontrare in rete contributi in cui gli autori si sono esercitati in costanti paragoni tra i fatti e temi narrati nella serie ed eventi realmente accaduti, al fine di identificare la fonte usata per narrare un determinato episodio. Per una parte dei fan, quindi, non è piú sufficiente limitarsi a ricordare che l’intera saga è ispirata alle Guerra delle Due Rose. Si arriva infatti fino ad analizzare meticolosamente altri aspetti, da quelli all’apparenza meno importanti come la scelta dei costumi, a quelli piú rilevanti dal punto di vista narrativo. Tale procedimento è stato per esempio applicato nel caso delle Nozze Rosse, episodio da alcuni ricondotto a un eccidio verificatosi durante un banchetto svoltosi in Danimarca nell’agosto del 1157, o a un altro svoltosi in Scozia nel 1440, sebbene nessuno dei due fosse un convivio nuziale.

Espedienti familiari

Tali automatismi, che potremmo definire quasi come riflessi pavloviani, si innescano oltretutto perché il pubblico ha assimilato per lungo tempo – attraverso la letteratura, le arti visive o i mass-media – numerosi archetipi medievalisti, che Martin dimostra di conoscere molto bene, sia quando li utilizza per evocare un Medioevo riconoscibile, sia nel momento in cui se ne serve per decostruire un immaginario considerato troppo tradizionale, rassicurante e fittizio. Gli spettatori hanno quindi una certa confidenza con determinati tropi, li riconoscono e li percepiscono come familiari, e ciò alimenta in loro la convinzione di usufruire di un prodotto che ha, dalla sua, una qualche – seppur indefinita – solida base storica. Piú di altre saghe letterarie o produzioni televisive di ambientazione fantasy, Il Trono di Spade può quindi aiutarci a dimostrare come la perce-

zione del Medioevo si confermi essere un fenomeno molto complesso e sfaccettato. La nostra idea dell’età di Mezzo, infatti, può non essere frutto di un contatto diretto con le fonti dell’epoca – un privilegio di cui godiamo soprattutto noi medievisti –, ma connotarsi come il risultato della ricezione di immaginari mediati da narrazioni medievaliste precedenti. Come ha ricordato Amy Kaufman (2010), il medievalismo, infatti, non è soltanto il «sogno del Medioevo», ma anche e soprattutto il sogno «del medievalismo di qualcun altro». Spesso, quindi, non è altro che un’articolata e complessa «rappresentazione di una rappresentazione», il risultato di un secolare gioco di specchi, che ha sedimentato nelle nostre coscienze strati e strati di immaginario che contribuiscono ad alimentare numerose, e a volte contraddittorie, versioni di quel millennio non poi cosí lontano da noi.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Yggdrasill a Roma: i preraffaelliti a S. Paolo entro le Mura

Da leggere Franco Cardini, Medievisti «di professione» e revival neomedievale. Prospettive, coincidenze, equivoci, perplessità, in Quaderni Medievali, 21 (1986); pp. 33-52 Umberto Eco, Dieci modi di sognare il Medioevo, in Quaderni Medievali, 21 (1986); pp. 187-200 Matteo Sanfilippo, Il Medioevo secondo Walt Disney, Edizioni Dedalo, Bari 1987 Riccardo Facchini, «I watch it for historic reasons», Representation and reception of the Middle Ages in A Song of Ice and Fire and Game of Thrones, in Práticas da Historia, 5 (2017); pp. 43-73 (anche on line su Academia.edu)

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Sette chiese per Bologna

di Furio Cappelli

L’interno del Santo Sepolcro, una delle sette chiese comprese nel complesso dedicato a santo Stefano, la cui prima fondazione risale alla metà del V sec. e viene tradizionalmente attribuita al vescovo Petronio. La costruzione si rifà al modello dell’omonimo tempio gerosolimitano.

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Secondo la tradizione, alla metà del V secolo, l’energico vescovo di Bologna, Petronio, si recò alla corte di Costantinopoli rivendicando il diritto della sua città a vedersi restituita la dignità «regia». La missione andò in porto e, al suo rientro, il presule si fece promotore della costruzione di un santuario in onore di Stefano, primo martire della cristianità. Nasceva cosí uno dei complessi monumentali piú insigni del capoluogo emiliano

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ello scenario di Piazza Maggiore, nel cuore di Bologna, spicca la facciata incompiuta della grande basilica di S. Petronio. È il tempio cittadino piú illustre, ed è stato deliberato dall’istituzione comunale nel 1388 proprio per costituire un nuovo polo identitario della città. S. Petronio mette cosí in ombra la chiesa del vescovo, l’antica cattedrale di S. Pietro, che sorge non lontano, sull’attuale via dell’Indipendenza, e non pochi visitatori si convincono che proprio S. Petronio sia la cattedrale di Bologna. L’equivoco è anche favorito dal fatto che il titolare era un vescovo della città, in carica tra il 431/2 e il 450. Il comune si appropriò a buona ragione della memoria di Petronio, come patrono e difensore illustre di Bologna. Il santo vescovo, infatti, era noto come leggendario ricostruttore dell’antica Bononia, allorché l’imperatore Teodosio I (379-395) l’aveva ridotta in macerie, onde punirla per aver ucciso un alto funzionario del fisco, che aveva vessato gli abitanti con prelievi esorbitanti e con prepotenze di ogni genere. Questa narrazione agiografica, priva di ogni concreto aggancio storico, rivestí di attualità la figura stessa di Petronio, perché Bologna aveva opposto una forte resistenza a Federico Barbarossa, a partire dall’uccisione del podestà imperiale Bezo (1164), il quale, tra l’altro, aveva esacerbato gli animi proprio con il ricorso a pesanti prelievi fiscali. Stando al racconto che ci è pervenuto, elaborato nel XII secolo, Petronio era cognato dell’imperatore d’Oriente, Teodosio II (408-450), nipote del «distruttore» di Bologna. Il presule si recò alla corte di Costantinopoli per rendere giustizia alla città italica, affinché risorgesse degnamente con tutti gli onori che spettavano a una

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l’arte delle antiche chiese /5 «città regia». La missione ebbe naturalmente successo, ed ebbe uno sviluppo importante, perché Petronio approfittò della vicinanza alla Palestina per raggiungere Gerusalemme, dove visitò attentamente i luoghi santi. Ritornando alla sua sede episcopale, non solo avviò la ricostruzione della città ma provvide alla nascita del santuario di S. Stefano, tenendo conto proprio delle suggestioni del suo viaggio in Terra Santa. Situato a est del centro cittadino, fuori dal circuito delle mura – fintantoché non si realizzò la seconda cerchia detta «dei torresotti» (dal nome delle sue caratteristiche portetorri, 1177-1205) – S. Stefano fu per molto tempo l’unica depositaria delle reliquie del santo vescovo. La stessa basilica di S. Petronio ne rimase del tutto sguarnita fino a tempi piuttosto recenti. Solo nel 1743, grazie alla benignità di papa Benedetto XIV, la grande chiesa di Piazza Maggiore riuscí a ottenere la testa del suo titolare.

Tutte le chiese di S. Stefano 9 10

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La storia

Il luogo in cui sorse S. Stefano aveva già una storia illustre e occorre a questo punto fare un passo indietro, all’epoca in cui sant’Ambrogio in persona, il celebre vescovo di Milano, si trovò a Bologna, nel 392. La città emiliana custodiva la memoria di due martiri, Vitale e Agricola, che proprio grazie ad Ambrogio conobbero grande fama. Vitale, per esempio, è il titolare della fastosa basilica eretta a Ravenna sotto l’egida di Giustiniano. I due santi bolognesi erano vittime della persecuzione ordita da Diocleziano (303-305). Vitale era un servo del nobile Agricola, e per primo abbracciò

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Planimetria generale del complesso di S. Stefano: 1-3. chiesa del Crocifisso; 2. cripta; 4. Santo Sepolcro; 5. Ss. Vitale e Agricola; 6. cortile di Pilato; 7. chiesa della Croce (o del Golgota); 8. chiostro; 9. cappella della Benda; 10. Museo.

Veduta di piazza Santo Stefano, dominata dal complesso religioso da cui prende nome.

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Pianta di Bologna: Bononia docet Mater Studiorum (particolare), olio su tela di Giovanni

In basso rilievo sulla facciata della basilica dei Ss. Vitale e Agricola raffigurante Gesú fra i santi titolari della chiesa.

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Maria Tamburini. 1630. Bologna, Museo della Storia di Bologna. In evidenza, il complesso di S. Stefano.

il cristianesimo. Agricola seguí le orme del suo servo e fece la sua stessa fine. I loro corpi furono inumati nel cimitero ebraico affinché i fedeli non potessero ritrovarli, ma, con l’aiuto e per la gioia degli stessi Ebrei, Ambrogio poté identificarne le sepolture. Nell’ambito della stessa necropoli fu edificata la cella o «memoria» nella quale i due santi corpi furono tumulati e nelle cui immediate vicinanze, a quanto pare, si trovava un tempio a pianta centrale dedicato alla dea Iside. E Petronio avrebbe edificato il santuario di S. Stefano proprio sul luogo del tempio pagano. In tal modo fu introdotto a Bologna, e con una certa precocità, un culto che stava interessando diverse città, come la stessa Roma, dove papa Simplicio (468-483) consacrò la basilica di S. Stefano Rotondo al Celio. La nascita dei santuari stefaniani era scaturita da una precisa circostanza. Infatti, il corpo del protomartire (il primo martire dell’intera cristianità) era stato rinvenuto alcuni decenni prima, a Gerusalemme, nel 415. Grazie all’impegno della pia imperatrice Eudocia (421-460), la salma fu poi traslata nel santuario appositamente eretto fuori le mura, nel presunto luogo in cui il santo subí la lapidazione. Il S. Stefano di Bologna omaggiava la nuova fonda-

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l’arte delle antiche chiese /5 zione gerosolimitana. Allo stesso modo, la chiesa di S. Giovanni in Monte, non lontano da S. Stefano e in posizione leggermente elevata, sarebbe stata eretta dallo stesso Petronio in riferimento al Monte degli Ulivi della Città Santa. Non mancò addirittura una corrispondenza con la piscina di Siloe, altro luogo santo di Gerusalemme, grazie alla presenza di un invaso utilizzato dai monaci come peschiera proprio nei pressi di S. Giovanni in Monte. E nel pieno Medioevo, durante la Settimana Santa, i due monasteri di S. Stefano e di S. Giovanni in Monte si trovavano ai capi di un significativo itinerario processionale, che mirava a rievocare la città di Gerusalemme nella sua duplice accezione, terrena e celeste. Un antico elemento identificativo qualifica ancora oggi il santuario di S. Giovanni come una meta o «stazione» di tutto rilievo: si tratta della croce istoriata in pietra che sorge nel mezzo dell’aula della chiesa, realizzata in epoca carolingia, durante l’episcopato di Vitale (documentato nell’801). Ed era senz’altro questa la croce che almeno sin dal XII secolo era posta a simboleggiare il luogo stesso in cui Cristo era salito in cielo.

Un invito ai fedeli

Anche a S. Stefano si conserva un oggetto altomedievale, assai singolare e di gran pregio, ma della tarda età longobarda. È il cosiddetto «catino di Pilato», situato nel cortile omonimo, un vaso di pietra cosí chiamato perché la tradizione lo associa curiosamente alla famosa scena evangelica in cui il procuratore romano si lava le mani. A parte Pilato, il cui nome potrebbe essere scaturito da un modo di chiamare l’oggetto (forse da pila = vasca), il vaso non era destinato a contenere acqua. Sopra all’elegante decorazione a baccello corre infatti un’iscrizione che invita i fedeli a riempire il recipiente con le proprie offerte in occasione della santa messa, raccomandando di farlo per bene, fino all’orlo, insomma, altrimenti il sacerdote (o il Signore in per-

Il cortile di Pilato, nel quale si può ammirare l’omonimo catino (foto qui accanto). Secondo la tradizione, il vaso sarebbe stato utilizzato dal procuratore romano per lavarsi pubblicamente le mani, gesto con il quale non volle assumersi la responsabilità di condannare a morte Gesú Cristo. In realtà, il nome del manufatto deriva verosimilmente dal latino pila, cioè vasca.

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In alto la decorazione a intarsio del paramento del Santo Sepolcro, giocata sull’alternanza cromatica tra elementi di differente tonalità (marmi, mattoni e conci in arenaria). A destra l’edicola del Santo Sepolcro al cui interno si conservano le ossa del vescovo (e poi santo) Petronio.

sona, secondo un’altra interpretazione) non si sarebbe fatto scrupolo di richiedere quello che mancava. Il catino, in sostanza, era perciò pensato per contenere oro e argento, possibilmente in gran quantità, per tutta la durata delle sacre funzioni. Oggi esposto a cielo aperto, il vaso doveva essere collocato all’interno di una chiesa notevolmente frequentata, presso l’ingresso, e questa chiesa poteva essere senz’altro una di quelle che già nell’Alto Medioevo componevano il complesso di S. Stefano. La cronologia del manufatto, recentemente restaurato, è fornita dall’epigrafe stessa, che nomina i re longobardi Liutprando e Ildebrando, associati al

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trono di Pavia tra il 737 e il 744. Viene anche nominato il vescovo bolognese dell’epoca, Barbato. Carlo Magno venne a conoscenza del santuario bolognese di Vitale e Agricola, e nel 786 ne richiese alcune reliquie da destinare alla cattedrale di Clermont (oggi Clermont-Ferrand). A Bologna giunsero in cambio varie reliquie di santi franchi. Seguí un periodo di decadenza, sicché, alla fine del IX secolo, l’episcopato bolognese perse la giurisdizione su S. Stefano. Un privilegio di Carlo III il Grosso, datato 887, assegna infatti la chiesa a Vibodo, vescovo di Parma. Il documento non specifica se già fosse insediato un monastero, ma in compenso attesta che S. Stefano era anche noto come «Gerusalemme». Di sicuro un monastero benedettino è già stabilito a S. Stefano nel X secolo. Intorno al 950 entra infatti nella comunità religiosa un singolare personaggio, Bononio, che si trasferisce poi a condur-

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re vita eremitica in Egitto. Nel 973 S. Stefano torna nella giurisdizione bolognese. Tra l’XI e il XII secolo si registra una fase di grande fervore, ed è questa l’epoca in cui il complesso si definisce nelle sue linee essenziali, cosí come oggi lo osserviamo. Il 3 marzo 1019 i corpi dei martiri Vitale e Agricola vengono trasferiti nella nuova cripta appositamente predisposta nella chiesa di S. Giovanni Battista (oggi nota come chiesa del Crocifisso), dal momento che il santuario è in pessime condizioni. Nel 1141 un rovinoso incendio devasta la cattedrale di S. Pietro, e, per rimediare alle perdite, si dispone una minuziosa ricerca di reliquie all’interno del complesso di S. Stefano, dove erano già in corso lavori di restauro e di ricostruzione, a seguito del terremoto del 1117. A parte i sepolcri già noti, risultava che erano stati creati molteplici depositi segreti per mettere al riparo le sacre ossa da eventuali aprile

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Sulle due pagine l’interno (in alto) e la facciata della basilica dei Ss. Vitale e Agricola.

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l’arte delle antiche chiese /5 furti o devastazioni, visto che Bologna era stata piú volte esposta alle orde degli Ungari. Nel corso delle indagini, nella rotonda di S. Stefano (oggi nota come Santo Sepolcro) viene ispezionata un’edicola funeraria esemplata su quella che si vedeva nella chiesa della Resurrezione (Anastasis) di Gerusalemme. La relazione dice infatti che il monumento era ispirato al sepolcro di Cristo. Lí si rinvengono le ossa di san Petronio, insieme ad altre reliquie, che forse provengono proprio dalla Città Santa. In questa fase storica, come è evidente, il riferimento a Gerusalemme si intensifica sotto l’effetto dei pellegrinaggi oltremare e delle stesse crociate. La sequenza di strutture definita dalla rotonda, dal cortile di Pilato e dalla chiesa della Croce (o del Golgota), configura l’effetto generale della Anastasis cosí come si presentava dopo le ricostruzioni promosse nel 1042-48 dall’imperatore bizantino Costantino IX Monòmaco (1042-1055). Una situazione assai singolare si verificò poi alla fine del XIV secolo. Nel santuario dei Ss. Vitale e Agricola era stato rinvenuto nel 1141 un sarcofago con la scritta Symon. I monaci, intorno al 1388, pensarono bene di identificare il personaggio defunto nientemeno che con san Pietro in persona (Simon Pietro), il cui corpo risultava pertanto tumulato a Bologna, non a Roma. La scoperta riscosse un immediato successo, ma papa Eugenio IV (1431-1447) reagí duramente, disponendo che venissero murati gli ingressi della chiesa dei Ss. Vitale e Agricola (ribattezzata frattanto come S. Pietro), «rea» di aver dato luogo a una plateale montatura ai danni del Principe degli Apostoli. A causa dell’abbandono, tempo dopo si verificò per giunta un crollo all’interno dell’edificio.

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La comunità monastica fu esautorata e S. Stefano venne amministrato da abati commendatari. La situazione perdurò finché non intervenne il vescovoabate Giuliano della Rovere (futuro papa Giulio II), nel 1493. Egli introdusse a S. Stefano una comunità di monaci celestini, appartenenti cioè a una congregazione benedettina fondata da papa Celestino V, al secolo Pietro da Morrone (1209/10-1296). In piú, il vescovo ottenne il permesso di riaprire e di restaurare la chiesa «incriminata». I Celestini recuperarono e arricchirono la tradizione del luogo, componendo un percorso che si articola tuttora in un cospicuo numero di chiese e cappelle. Il complesso giunse cosí a conseguire il numero fatidico di sette chiese.

La visita

Piazza S. Stefano, a forma di triangolo allungato, è sicuramente uno degli scenari piú incantevoli di Bologna, con la sua pavimentazione in declivio e le facciate a portico che la cingono, in larga parte con raffinati accenti rinascimentali. Dove manca la «quinta» dei portici, a formare una sorta di fondale, si evidenzia in progressione una sequenza di tre edifici sacri che compongono nel loro insieme la «facciata» del complesso monastico. L’edificio che sopravanza gli altri è la chiesa del Crocifisso (in origine S. Giovanni Battista), già esistente nel X secolo ma chiaramente sottoposta a un’ampia serie di ricostruzioni nel corso del tempo. Conserva ancora la torre campanaria della fase romanica e la predetta cripta inaugurata nel 1019. Al di sopra di questa, il presbiterio è stato da ultimo ristrutturato in stile barocco (1637), quando si pensò di ricostruire l’intero edificio

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In alto uno dei capitelli che ornano l’ingresso alla basilica dei Ss. Vitale e Agricola. A sinistra, una figura virile alle prese con un drago a due teste; a destra, Maria ed Elisabetta nella scena della Visitazione. Nella pagina accanto il sarcofago di Vitale, sul quale sono scolpiti due pavoni che si abbeverano alla croce di Cristo. XI sec. A sinistra il sarcofago di Agricola, il cui rilievo mostra un cervo e un leone ai fianchi di una ghirlanda che racchiude un Arcangelo. XI sec.

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innalzando in modo considerevole la quota del soffitto, ma il progetto rimase incompiuto. Spicca in facciata, sull’angolo sinistro, una sorta di pulpito su mensole: si tratta dell’arengario, realizzato nel 1488 in funzione delle feste e delle adunanze che si tenevano in piazza. Sebbene mostri chiari segni di integrazioni dovute ai restauri otto-novecenteschi, la rotonda del Santo Sepolcro è perfettamente leggibile nel suo assetto romanico. Si compone al centro di una cupola su tamburo di forma dodecagonale, sotto la quale, all’interno, si apre un matroneo. Alla base si delinea un anello di 12 pilastri circolari, fasciato sull’esterno da un corridoio, chiuso a sua volta da un prisma ottagonale. L’edicola del sepolcro, situata nel settore centrale, a ridosso del colonnato, si presenta

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In alto la torre campanaria della chiesa del Crocifisso.

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In alto il chiostro monastico, frutto di due fasi costruttive che si articolano tra la fine del XII e gli inizi del XIII sec. A sinistra la chiesa della Croce (o del Golgota).

oggi come un insieme composito. La parte che forma di lato una struttura di altezza minore, presenta pregevoli altorilievi in stucco del XII secolo con i simboli degli Evangelisti, provenienti da un altro contesto. I tre stucchi sul fronte del monumento risalgono invece all’epoca della nuova sistemazione (XIV secolo), e mostrano scene evangeliche ispirate alla resurrezione di Cristo. Il colonnato, infine, mostra un intrigante aspetto archeologico, poiché include nel suo circuito sette antiche colonne di marmo in situ, le cui basi sono in fase con uno strato pavimentale di tarda età romana. Potrebbe trattarsi di una «reliquia» dell’originario tempio della dea Iside.

Ritmo e solidità

La terza chiesa che prospetta sulla piazza, direttamente accessibile dal Santo Sepolcro, è la basilica dei Ss. Vitale e Agricola. La sua facciata è in larga parte un’opera neomedievale, frutto dei restauri integrativi, ma l’interno rivela un ambiente assai suggestivo e una struttura originale ampiamente conservata. Grazie all’alternanza pilastro-colonna, i sostegni forniscono senso di ritmo e di solidità. Di un certo effetto sono i capitelli dei pilastri cruciformi, con una severa forma geometrica a «cubo scantonato», mentre le colonne mostrano capitelli di riuso o di forma anticheggiante. In fondo alle navate laterali si osservano i sarcofagi

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l’arte delle antiche chiese /5

istoriati dei santi titolari (XI secolo), presumibilmente collocati in origine nella cripta di S. Giovanni Battista, come ipotizza la studiosa Laura Marchesini. Le casse furono in seguito trasferite in questa nuova collocazione, forse per esigenze di spazio o di ristrutturazione, mentre le sacre ossa rimasero nella cripta del Battista, dove sono conservate tuttora. Nel sarcofago di Vitale, due pavoni si «abbeverano» alla croce di Cristo. Nell’altro sarcofago, un cervo e un leone affiancano una ghirlanda che racchiude un Arcangelo. Pensati per essere osservati frontalmente, a distanza ravvicinata e su una stessa linea, i due prospetti ribadivano nelle loro rispondenze di base il pensiero di Ambrogio sul fatto che la santità avesse abbattuto la barriera sociale tra i due personaggi. Il nobile Agricola e il servo Vitale godono

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Da leggere Mario Fanti, S. Stefano di Bologna, in Giovanni Spinelli (a cura di), Monasteri benedettini in Emilia Romagna, Silvana Editoriale, Milano 1980; pp. 144-155 Sergio Stocchi, L’Emilia Romagna, collana Italia romanica, Jaca Book, Milano 1984; pp. 302-337 AA.VV., 7 colonne e 7 chiese. La vicenda ultramillenaria del Complesso di Santo Stefano, Grafis Edizioni, Bologna 1987 Francesca Bocchi, Ivanka Nikolajevic, Bologna, Storia e urbanistica; Architettura, secoli 6°-13°, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1992; disponibile anche on line su treccani.it. Giovanni Feo, Francesca Roversi Monaco (a cura di), Bologna e il secolo XI. Storia, cultura, economia, istituzioni, diritto, Bononia University Press, Bologna 2011 Giuliano Milani, Bologna, collana Il Medioevo nelle città italiane, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2012 A sinistra chiesa della Croce. Gruppo scultoreo in legno dipinto con l’Adorazione dei Magi, realizzato in collaborazione con il pittore bolognese Simone di Filippo (o dei Crocifissi). 1370 circa. Nella pagina accanto, in basso particolare dell’affresco con la Strage degli Innocenti, dal Santo Sepolcro. 1255 circa.

allo stesso modo della beatitudine eterna. Ambrogio in persona è raffigurato di fianco nel sarcofago di Agricola, tra lo stesso martire e Tecla, la santa dedicataria dell’antica cattedrale milanese. Quando si accede al cortile di Pilato, merita attenzione la tessitura del paramento del Santo Sepolcro, con un raffinato gioco di decorazioni geometriche a intarsio, giocate sull’alternanza cromatica tra elementi di differente tonalità (marmi, mattoni e conci in arenaria). Oltrepassato il predetto catino di Pilato, sul lato opposto al Santo Sepolcro si può visitare la chiesa della Croce o del Golgota, che rappresenta il nucleo originario di tutto l’insieme, poiché qui si deve immaginare il santuario paleocristiano in onore di Vitale e di Agricola. Si tratta oggi di un edificio spurio, in larga parte frutto di

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ricostruzioni condotte con spirito «filologico». Conserva tuttavia un bellissimo gruppo scultoreo in legno dipinto con l’Adorazione dei Magi (1370 circa), realizzato in collaborazione con il pittore bolognese Simone di Filippo (o dei Crocifissi, attivo già nel 1355 e morto nel 1399). L’itinerario di visita si conclude con il vasto e bellissimo chiostro monastico, dominato dalla torre campanaria del Crocifisso e che si compone di due fasi costruttive. Il portico di pianterreno risale ai primi decenni del XII secolo e ha un’evidente compattezza romanica, ingentilita tuttavia da ingegnosi riusi di marmi altomedievali. Il loggiato, invece, databile tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, mostra un’impaginazione organica, «aerea» e raffinata, con fitte sequenze di colonnine binate. Nei locali dell’annesso Museo, infine, si può tra l’altro ammirare il pregevole affresco staccato della Strage degli Innocenti. Faceva parte di una decorazione pittorica che fino al 1803 si poteva vedere nella chiesa del Santo Sepolcro, sulle pareti della cupola, dove un registro presentava in sequenza alcune scene della narrazione evangelica. Databile intorno al 1255, il dipinto ha una raffinata intonazione bizantina, ed è stato attribuito a Marco Berlinghieri da Lucca.

NELLE PUNTATE PRECEDENTI ● Piemonte: Casale Monferrato, S. Evasio; Vercelli, S. Andrea ● Valle d’Aosta: Aosta, la cattedrale di S. Maria Assunta e la chiesa di S. Orso ● Lombardia: Milano, S. Ambrogio e S. Lorenzo ● Veneto: Torcello, Duomo; Murano, Ss. Maria e Donato NEL PROSSIMO NUMERO Toscana: Arezzo, S. Maria; Loro Ciuffenna (AR), S. Pietro a Gròpina; Pratovecchio (AR), S. Pietro a Romena

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di Marina Montesano

La fratellanza del compasso All’inizio – ma siamo in età moderna, nella Londra del primo Settecento – ci sono le «logge dei liberi muratori» (masons, in inglese). Che si ispirano agli artigiani dell’Alto Medioevo, ma anche ai Templari e ai cavalieri dell’Ordine di San Giovanni e, perfino, al mitico re Salomone. Ecco un viaggio – tra presunta continuità storica e «medievalismo» spinto – alla scoperta della massoneria, dei suoi simboli e riti… Il compasso rosacrociano, uno dei simboli della massoneria operativa che traccia la forma perfetta per eccellenza, il cerchio, in una riproduzione tratta da un’edizione del 1932 de Il libero muratore di Eugen Lennhoff, classico della storiografia massonica.


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olto si è detto e scritto circa la presunta antichità della massoneria. In realtà, la nascita del fenomeno va datata agli anni Venti del Settecento, quando siamo in grado di individuare un movimento dotato di tre caratteri essenziali: l’iscrizione del gruppo in una tradizione legata al mestiere di muratore (o di scalpellino: entrambi, per l’inglese, mason); la rivendicazione della religione naturale quale base spirituale; l’elaborazione di riti segreti che accompagnano le riunioni e, soprattutto, la cooptazione di nuovi membri. Se è possibile ricostruire il milieu in cui la nascita della massoneria si situa, composto di interessi – talvolta convergenti, talvolta contraddittori – della borghesia e dell’aristocrazia britannica nei confronti di posizioni politiche, religiose, esoteriche e filosofiche assai diffuse al tempo, è meno facile far la storia delle sue origini: non solo di quelle remote e leggendarie, ma anche di quelle immediatamente precedenti alla sua fondazione. Tale difficoltà dipende dall’assenza di materiali d’archivio sul periodo di formazione della Gran Loggia di Londra nel primo ventennio del XVIII secolo; e risulta arduo stabilire un legame di continuità fra le logge di mestiere inglesi e scozzesi del Seicento (sulle quali torneremo) e la Gran Loggia di Londra.

Un gruppo di gentlemen

Allo stato delle conoscenze attuali, si può dire soltanto che nel 1717 un gruppo di gentlemen inglesi (cioè di alto borghesi che vivevano secondo i costumi della nobiltà) fondano un gruppo d’appartenenza nuovo, modellato sulle logge dei muratori inglesi e soprattutto scozzesi, che nel secolo precedente avevano talvolta accolto gentlemen nelle loro fila. L’oscurità di questi inizi deriva dal fatto che le prime Costituzioni della Gran Loggia, in cui si fornisce questa data d’inizio, risalgo-

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no a ventuno anni piú tardi. Vi si afferma come, dopo una riunione preparatoria, quattro logge che portano i nomi delle taverne in cui si riunivano («The Goose And The Gridiron», «The Crown», «The Apple Tree», «The Rummer And Grapes») si sarebbero federate in una Gran Loggia il 24 giugno 1717, festa di san Giovanni Battista. I membri avrebbero eletto un gran maestro, il gentleman Anthony Sayer; negli anni successivi si sarebbero alternati nella carica George Payne (un funzionario delle imposte), Jean

In alto tavola con le insegne delle corporazioni medievali artigiane. Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo. Secondo alcune interpretazioni, la massoneria medievale presenta strette connessioni con le tradizioni e le attività delle corporazioni cittadine. Nella pagina accanto frontespizio di un’edizione ottocentesca de Le Costituzioni dei Liberi Muratori del pastore presbiteriano scozzese James Anderson, testo settecentesco che segnò la nascita della massoneria moderna. Parigi, Bibliothèque nationale de France. aprile

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Le Costituzioni di Anderson

Non un «ateo stupido», né un «libertino religioso» Le Costituzioni di James Anderson appaiono nel 1723 con la prefazione di un ex gran maestro, Jean Théophile Désaguliers. Il testo si apre con una prima parte dedicata interamente alla storia mitica del mestiere di architetto, mentre nella seconda si parla degli usi e dei doveri del massone. La terza parte concerne i regolamenti generali: distribuzione delle cariche in seno alla loggia, modalità di voto per l’accettazione di un «profano», cioè di un nuovo adepto (interessante notare che è richiesta l’unanimità); funzionamento della Gran Loggia, che riunisce i rappresentanti di tutte le logge; modalità di elezione del gran maestro. La quarta e ultima parte

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contiene quattro canti massonici con testi e musica. La seconda parte è la piú interessante, se si vogliono comprendere le posizioni della massoneria del tempo. Il primo articolo riguarda Dio e la religione; vi si legge che il massone «non sarà mai un ateo stupido né un libertino irreligioso»: poiché storicamente ogni confratello è stato inquadrato all’interno di Paesi dotati di una tradizione religiosa (si postula qui un’antichità della massoneria che sappiamo essere del tutto ipotetica), egli ha dovuto aderirvi per ragioni di convenienza; è tuttavia da preferire «quella religione su cui tutti gli uomini sono d’accordo», con riferimento quindi a principi generali che, al tempo, si credevano comuni

alle diverse fedi e che costituivano dunque la «religione naturale». Nel secondo articolo si manifesta la necessità di lealismo verso il proprio governo, escludendo la partecipazione a complotti e cospirazioni. Nel terzo si prende in considerazione la condizione dei membri della loggia, i quali devono essere nati liberi e di età matura, mentre non sono ammessi schiavi o donne, né persone dalla condotta scandalosa. Gli articoli restanti si soffermano sul comportamento che ciascun massone deve adottare all’interno della loggia, verso i confratelli anche stranieri, e sull’atteggiamento (dettato dalla prudenza) da tenere in presenza di estranei.

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In alto Saint-Thibault (Borgogna, Francia), chiesa parrocchiale. Particolare di un retablo ligneo policromo raffigurante due muratori all’opera. XIV sec.

Théophile Désaguliers (francese protestante in esilio dopo la revoca dell’Editto di Nantes nel 1685), ancora George Payne nel 1720. Solo a partire da questo momento è possibile trovare documenti esterni che corroborano le notizie sulla Loggia: in particolare, la notizia dell’elezione a gran maestro di un nobile legato alla corte degli Hanovre, John duca di Montagu, nel 1721; dal 1722-23 pamphlet, giornali e diari confermano l’esistenza della Loggia e danno notizia delle sue riunioni. Il riscontro è immediato, con

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la formazione di una rete di logge che dipendono da quella londinese; le ragioni di tale successo si possono trovare nella generale tendenza di quei decenni a favorire varie forme d’associazionismo: fioriscono infatti le accademie scientifiche, letterarie, filosofiche, politiche, in cui la borghesia medio-alta incontra la nobiltà e dà vita alla coscienza del comune appartenere a una società civile, con tendenze egualitaristiche al suo interno, ma chiusa agli ordini inferiori della compagine sociale.

Fra storia e mito

Nel 1723 il pastore della Chiesa presbiteriana scozzese a Londra, James Anderson, figlio di un vetraio (segretario della sua loggia scozzese

di mestiere), redige le Constitutions of Freemasons, che rappresentano il vero punto di partenza della massoneria moderna e l’invenzione della sua tradizione iniziatica (vedi box a p. 77). Nonostante si tratti di un documento del tutto nuovo e privo di precedenti diretti, uno degli scopi delle Costituzioni è quello di indicare, al contrario, una linea di filiazione rispetto al passato, che guarda in particolare verso due direzioni: una storica (sebbene priva di una continuità verificabile), che riguarda le associazioni di costruttori del Medioevo e della prima età moderna; una mitica, che lega la massoneria al re biblico Salomone e al suo architetto Hiram. La massoneria individua nei secoli che siamo soliti aprile

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A sinistra miniatura raffigurante un cantiere, da un’edizione delle Grandes Chroniques de Saint-Denis. Inizi del XIV sec. Tolosa, Biblioteca municipale. In basso particolare di una tavoletta

chiamare Medioevo l’origine delle corporazioni da cui sarebbero discese direttamente le logge del XVIII secolo; anche se, come detto, questa filiazione è del tutto immaginaria in quanto priva di una reale continuità, è indubbio che il modello delle «arti» medievali offriva un termine di paragone affascinante. Il significato di tale associazionismo può esser compreso solo alla luce degli sviluppi socio-culturali successivi all’anno Mille. Un sensibile rinnovamento artistico accompagna, infatti, i grandi progressi della società europea a partire dall’XI e soprattutto dal XII secolo. Nei primi anni furono le città e le corti francesi, in particolare quelle meridionali, a ospitare i segni del cam-

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biamento; in tutt’altra atmosfera, ma quasi contemporaneamente, i Cistercensi diffusero in ampie aree d’Europa il «manto di chiese bianche», come le descrive il cronista Rodolfo il Glabro: è la diffusione di uno stile che nel corso dell’Ottocento sarebbe stato chiamato nel suo complesso «romanico».

Le prime firme d’artista

In realtà, le forme dell’architettura romanica sono le piú varie: influenzate dallo stile arabo nell’Italia meridionale normanna e nelle aree di confine cristiano-musulmane della Spagna; dall’arte tardoclassica, paleocristiana e bizantina in Italia. Le iniziali forme spoglie, care ai Cistercensi, lasciano posto

di biccherna raffigurante un muratore impegnato nella costruzione della cinta muraria di una fortezza, sugli edifici della quale compare lo stemma bianco e nero del Comune di Siena. 1440. Siena, Archivio di Stato.

man mano a rilievi scultorei sulle facciate e sui capitelli. Emergono i primi nomi di artisti: Gislebertus, Antelami, Niccolò. Le città si dotano di nuove cattedrali, simboli della crescita economica e della nascita delle istituzioni comunali. Al di là delle Alpi, però, già nella seconda metà del XII secolo, un nuovo stile si andava affermando. Anch’esso sarebbe stato conosciuto con un termine non coevo, ma coniato con intenti spregiativi nel corso del Rinascimento: il «gotico», che caratterizzerà ogni ambito delle arti basso- e tardo-medievali con le sue forme rivoluzionarie, gli slanci degli archi acuti che sostituiscono le volte a botte, le altezze impressionanti delle guglie nell’Île-de-

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Dossier In basso capolettera miniato raffigurante un architetto e due operai intenti alla costruzione di un ponte, dallo Statuto del Comune di Bologna. 1376. Bologna, Archivio di Stato.

France, dove l’esempio piú celebre è dato dalla cattedrale di Chartres. Abbandonato il romanico, i Cistercensi saranno fra i maggiori diffusori di questo stile in Europa; solo l’Italia è inizialmente scettica sulle forme del gotico, che vi si affermerà piú lentamente solo nel corso del Duecento. Un contributo all’introduzione di queste nuove forme architettoniche nelle città viene dagli Ordini Mendicanti. Infine, non bisogna dimenticare che, soprattutto a partire dal XIII secolo, le città avviano programmi di edilizia pubblica, che nell’Italia centro-settentrionale assumono particolare rilievo. La piena età comunale corrisponde, sotto il profilo urbanistico-architettonico, al sorgere dei palazzi pubblici, poli complementari alle cattedrali, che miravano a significare in modo esplicito il ruolo e il primato del Comune. In quest’epoca, il palazzo pubblico è programmaticamente concepito come un edificio superiore per fasto e proporzioni rispetto a tutte le altre costruzioni laiche; l’altezza delle torri elevate dalle famiglie del ceto gentilizio dev’essere quindi ampiamente superata.

etimologie

Operaio o tagliatore di pietra? I termini «massone» e «frammassone» derivano dalla forma inglese freemason, che si incontra per la prima volta in un documento del 1376. Il dibattito sul significato originario del termine è stato vivace in seno alla massoneria moderna e ai suoi studiosi. Oggi restano in piedi due ipotesi: secondo la prima, portata avanti soprattutto dalla storiografia inglese, il freemason sarebbe stato originariamente un operaio aprile

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In alto, sulle due pagine incisione francese raffigurante una delle fasi dell’iniziazione di un maestro della massoneria. XVIII sec. Collezione privata.

piú abile degli altri, un tagliatore della freestone (cioè un freestone mason), un tipo particolare di pietra tenera perché sabbiosa o calcarea, e dunque adatta ai lavori piú raffinati, quali quelli scultorei, mentre quella dura sarebbe stata lasciata a tagliatori comuni. La seconda ipotesi identifica nel freemason un operaio libero in quanto le sue abilità di costruttore gli garantiscono la stima e la

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protezione delle autorità civili ed ecclesiastiche. Il Livre des métiers, raccolta di statuti delle corporazioni parigine, composto da Étienne Boileau, prevosto della città sotto Luigi IX il Santo nel 1268, parla in effetti di franc-mestier. In ogni caso, però, il termine freemason impiegato nel Trecento non suppone una «libertà» dell’operaio dalla corporazione d’appartenenza, alla quale è anzi strettamente legato.

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Firenze, chiesa di Orsanmichele. Il gruppo dei Quattro Santi Coronati (copia dell’originale di Nanni di Banco), posto in una nicchia sulla facciata. I santi, secondo la tradizione martirizzati nel periodo dell’imperatore Diocleziano, sono venerati dalla massoneria moderna per la loro connessione con le attività di costruzione, evocate nel rilievo presente alla base del tabernacolo.

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Nelle città fervono le attività tanto di tipo commercial-finanziario, quanto a carattere manifatturiero: importazione di materie prime (come spezie oppure lana in fiocchi), lavorazione di tali materie, esportazione dei prodotti finiti, investimenti e prestiti di denaro liquido, acquisto e gestione di proprietà terriere. Cosí come la vita religiosa si va sempre piú organizzando sul modello associazionistico delle confraternite, anche l’intero insieme di queste attività lavorative è regolato e inquadrato: le associazioni professionali dette «corporazioni», «gilde» o «arti» servono a disciplinare le varie attività produttive, a regolare prezzi e salari, a impedire lo sviluppo di un’economia basata sulla concorrenza: sono pertanto, in un certo senso, organismi di autodifesa degli imprenditori e dei produttori, dai quali vengono tenuti lontani i salariati, ai quali non si riconosce alcun diritto.

Tutelare la professionalità

Alle arti si accede attraverso un apprendistato attentamente regolato, al termine del quale il «giovane di bottega» può mettersi in proprio; ha inoltre grande importanza la trasmissione delle regole dell’arte e della professionalità di padre in figlio. Le organizzazioni corporative hanno nel «comune delle arti» il ruolo di disciplinare l’attività politica, mantenendo il potere entro gli esponenti della loro cerchia o comunque i membri regolarmente iscritti a una di esse. L’importanza assunta, come si è visto, dallo sviluppo architettonico tanto civile quanto ecclesiastico fa sí che le corporazioni dei muratori acquisiscano una buona rilevanza: padroneggiare gli strumenti del mestiere non è facile, e dunque la salvaguardia della propria professionalità si impone prioritariamente. Al contrario di altre corporazioni che hanno conosciuto piuttosto presto la stesura di statuti, quelle dei

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I simboli

Alla ricerca della perfezione Il mondo massonico settecentesco ha assunto nella 1 propria simbologia numerose figure tratte dagli oggetti tipici del mondo dei costruttori: questi simboli vengono inizialmente disegnati e poi cancellati sul pavimento delle sale in cui si riuniscono le logge; in seguito si comincia a comporli insieme su tableaux da esporre nelle medesime occasioni. Vediamo il significato degli elementi principali: la squadra e il compasso associati sono il simbolo della fratellanza massonica; la squadra è lo strumento centrale nel lavoro dell’architetto, che serve a tracciare, costruire o verificare la perfezione dell’angolo retto; una perfezione che si traspone sul piano morale come elemento fondante dell’attitudine del massone. Il compasso, che misura e traccia la forma perfetta per eccellenza, il cerchio è l’immagine del pensiero aperto: il massone è il punto dal quale parte il compasso, il cerchio rappresenta il suo mondo. Inoltre, l’associazione tra i due simboli può anche esser letta come quella tra quadrato e cerchio, o tra materia e spirito. Altri simboli ricorrenti sono il maglio e lo scalpello (da interpretare rispettivamente come gli strumenti che servono al massone per trasformare se stesso attraverso la forza e la precisione), il regolo a 24 sezioni (simbolo dell’esistenza regolata), il filo a piombo (per la rettitudine e la dirittura morali). Una corda con nodi circonda il pannello: è la corda che serve ai muratori per la misurazione in cantiere, e rappresenta la catena dell’unione che lega tutti i massoni. Simboli tratti dagli oggetti tipici del mondo dei costruttori usati dalla massoneria italiana del XIX sec. per indicare le cariche ricoperte dagli adepti: 1. venerabile; 2. tesoriere; 3. m. architetto; 4. segretario.

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Dossier A destra Salomone presenzia alla costruzione del tempio, olio su tela di Luca Giordano. 1692-1702. Firenze, Gallerie degli Uffizi. Fin dal Medioevo, la figura del biblico re d’Israele è divenuta simbolo di sapienza, nonché archetipo di costruttore e depositario di arti magiche. Nella pagina accanto, in basso miniatura raffigurante il re Salomone, dalla Bibbia in lingua latina detta «de saint Étienne Harding», perché commissionata da saint Étienne, abate di Cîteaux. 1109. Digione, Biblioteca municipale.

muratori hanno mantenuto a lungo le forme di trasmissione orale, al fine probabilmente di mantenere la segretezza sui dati tecnici del proprio mestiere. Una fra le prime menzioni di una gilda di muratori si incontra nel 926 a York, e pare esser stata creata per volere del re Athelstan. Per avere notizie sull’organizzazione interna di tali corporazioni bisogna però attendere il periodo della rinascita e dell’espansione economica dell’Europa, quando si cominciano a incontrare testi come il Livre des métiers, una raccolta di statuti delle corporazioni cittadine redatta nel 1268 da Étienne Boileau, prevosto di Parigi sotto Luigi IX il Santo. Nel corso del secolo successivo le testimonianze aumentano e

re salomone

Costruttore e mago La ricezione della figura di Salomone fra Medioevo ed età moderna ne fa, oltre che un modello di sapienza e un archetipo del costruttore, anche un padre della magia. Al leggendario re ebreo si attribuisce, infatti, la stesura di parecchi testi magici. Nello Speculum astronomiae, Alberto Magno ricorda numerosi fra questi testi, e Ruggero Bacone, nel Liber secretorum, contesta la veridicità dell’attribuzione a Salomone e l’utilità delle formule in essi contenute. Erano tuttavia molto diffusi, e avevano spesso un carattere di magia «nera», cioè di magia che attraverso l’evocazione dei morti o dei demoni aveva scopi nocivi.

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Tra questi conosciamo il Testamentum Salomonis, che descrive i demoni principali e il modo per sottometterli al proprio volere; di un altro testo di negromanzia, noto come Liber Salomonis, non conosciamo il contenuto ma sappiamo che venne bruciato nel 1350 su ordine di papa Innocenzo VI; il Dixit Salomon è probabilmente un codice alchemico del XV secolo. Il piú celebre fra tutti è la Clavicula Salomonis (la «Piccola Chiave» di Salomone): la copia manoscritta piú antica risale al XII-XIII secolo, è in greco ed è conservata presso il British Museum di Londra; ne esistono tuttavia numerose varianti, molte delle aprile

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quali pubblicate a stampa nei secoli successivi. Il testo mescola elementi ebraici, cristiani, greci ed egizani: si insiste sui rituali di purificazione dell’officiante (digiuni, abluzioni, castità), che, attraverso preghiere ed evocazioni, si appropria del potere di indurre la follia, la discordia, la morte. La traduzione inglese della Clavicula Salomonis si deve a MacGregor Mathers, egli stesso un seguace delle pratiche negromantiche e cofondatore della «Golden Dawn», nonché maestro tanto di William Butler Yeats quanto di Aleister Crowley. A riprova del fatto che la tradizione magica legata a Salomone ha lasciato un segno fino a epoche recenti.

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Dossier molte provengono dall’Inghilterra: si conoscono statuti dei muratori di York per gli anni 1352, 1370, 1409, e di Londra nel 1356, redatti in latino e in francese (dal momento che sotto la dinastia dei Plantageneti, di origine angioina, il francese è la lingua volgare colta, e tale sarebbe restata molto a lungo). Sono i testi delle Old Charges (gli «Antichi Doveri»), che la tradizione storiografica sul tema individua come i possibili antenati (ma meglio sarebbe dire i modelli, visto che si esclude una linea di continuità diretta) degli statuti della massoneria moderna: la cosiddetta massoneria «speculativa», contrapposta a quella «operativa» delle logge di muratori. Fra i vari testi che ci sono giunti, uno ha particolare importanza: è il cosiddetto «Manoscritto regio», datato intorno al 1390 (ma forse copiato da un documento precedente) e conservato al British Museum di Londra. Il testo è diviso in sette parti: una breve storia della corporazione dei muratori; gli statuti della corporazione, in quindici articoli e cinque punti; un ricordo dei santi Quattro Coronati, patroni dei muratori; la vicenda della Torre di Babele; l’elogio delle sette Arti liberali; un breve codice di buone maniere. Vi si descrivono sotto forma di precetti le regole di moralità e di comportamento che il muratore esperto deve seguire; si tratta di regole morali, professionali, e di ciò che si deve fare per divenire un membro della corporazione; non mancano le norme a difesa dei membri, come quella che impedisce il lavoro notturno. Testi di questo genere mostrano quanto le corporazioni tenessero alla formazione degli apprendisti, in quanto la regolamentazione delle norme di accesso alla corporazione è il modo migliore per proteggere il mestiere contro i rischi di contraffazione. I maestri muratori sono in possesso di segni di riconoscimento (parole e gesti con la mano) che li qualificano come membri della

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corporazione anche presso artigiani di altre corporazioni di muratori, provando cioè il possesso degli strumenti del mestiere senza necessità di dover dimostrare ogni volta le proprie conoscenze. L’apprendista comincia a lavorare all’età di dodici anni ed è affidato a un maestro muratore con un contratto settennale. Trascorsi tre anni, viene sottoposto a una cerimonia di iniziazione; apprende alcuni segni che gli devono servire a farsi riconoscere come apprendista muratore e ottiene l’autorizzazione ad avere un proprio marchio, una specie di firma sotto forma di un piccolo simbolo che, d’allora in poi, scolpisce nella pietra per identificare il suo lavoro. Al termine dei sette anni, diviene a pieno titolo membro della corporazione e, dopo un certo tempo, maestro egli stesso, con la possibilità di istruire apprendisti.

riali per la costruzione del Tempio sul Monte Moriah, dove, all’inizio del proprio regno, il suo successore Salomone – al quale Dio ha donato grande saggezza – si adopera per concretizzare il progetto. Dalle cave della stessa Gerusalemme fa estrarre grandi blocchi di pietra destinati alle fondazioni e ai muri perimetrali del Tempio. Salomone stipula anche un accordo con Hiram, re di Tiro, per la fornitura di legno di cedro (portato via mare su grandi chiatte fino a Joppa, antico nome di Jaffa, da dove è trasferito a Gerusalemme), carpentieri e tagliatori di pietra. Hiram, chiamato anche Hiram-Abi (II Cronache 2, 12), è anche il nome di un fonditore del bronzo inviato al re Salomone dal re di Tiro (I Re 7, 13), che fonde e plasma il bronzo delle due colonne situate davanti all’ingresso del Tempio, nonché il

I santi scalpellini

Per quanto concerne il patronato della corporazione, si è accennato all’importanza conferita al culto dei santi Quattro Coronati: Sinforiano, Claudio, Nicostrato e Castorio erano quattro scalpellini cristiani, martirizzati in Pannonia nel 304 sotto l’impero di Diocleziano, la cui memoria è stata resa celebre alla fine del Duecento dal racconto del loro martirio contenuto nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze. La loro professione li ha resi santi patroni dei muratori. Oltre ai martiri cristiani, le corporazioni amano annoverare quali loro predecessori figure mitiche di grandi architetti del passato, fra le quali non manca mai un riferimento a Salomone e Hiram. Narrano i libri delle Cronache (I 22, 14; 29, 4; II, 3,1) del Vecchio Testamento che, prima della morte, re Davide avesse accumulato mateTavola a colori che riassume la struttura della massoneria americana, mettendo a confronto i gradi conferiti dalle logge di rituale scozzese (a sinistra) e di York. aprile

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La massoneria americana fa proprie le regole delle logge di rito scozzese e di quelle di York, viste come un percorso di cui coincidono l’inizio e la fine e che è invece segnato da tappe diverse. In un caso sono previsti 30 gradi, mentre nel secondo ve ne sono soltanto 10

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Dossier grande bacino destinato alle abluzioni rituali (I Re 7, 23-26) e tutti gli utensili e gli ornamenti in bronzo. Nelle corporazioni della massoneria operativa, la costruzione del Tempio è vista come il primo esempio di eccellenza in una linea di continuità che giunge fino alle cattedrali gotiche, mentre nella massoneria moderna essa diviene metafora dell’educazione morale e spirituale.

L’architetto di Salomone

La figura dell’architetto di Salomone, generalmente chiamato HiramAbiff, è anche oggetto di particolare interesse: le colonne di bronzo da lui fuse e chiamate Jachin («fondare») e Boaz («forza»), sono fra gli elementi ricorrenti dei tableaux massonici, nei quali rappresentano i pilastri che segnano l’ingresso nello spazio sacro e l’abbandono della dimensione profana. Inoltre, la massoneria speculativa ha elaborato alcune leggende sulla figura di Hiram (complessivamente note come «leggenda hiramica»), simili tra loro, che cosí possiamo sintetizzare: Hiram, figlio di una vedova, è l’architetto del Tempio di Salomone, nel quale si reca spesso per pregare e tracciare i disegni che gli operai dovranno seguire. Una sera è accostato da tre muratori che vogliono impadronirsi dei segreti dei maestri d’opera; lo minacciano e lo attaccano con i loro strumenti, ma Hiram muore senza rivelarli. Gli assassini ne sotterrano il corpo e cercano di fuggire, ma sono presi e condannati a una morte orribile, come prevede lo statuto della corporazione per quanti infrangono il giuramento di fratellanza. Il corpo decomposto di Hiram viene riportato alla luce e condotto nel Tempio per una degna sepoltura. La storia dovrebbe sottolineare l’importanza della conservazione dei segreti e la rettitudine morale di chi li mantiene, opposta alla corruzione di quanti commettono il

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crimine piú grave per un massone, cioè il venir meno al giuramento. Per quanto concerne la veridicità storica della costruzione del Tempio di Salomone, bisogna concludere che oggi molti dubbi sono stati sollevati dalla ricerca archeologica. Nel X secolo a.C. non vi sono tracce a Gerusalemme di una dinastia tanto potente da costruire un tempio delle dimensioni descritte dalla Bibbia; l’esistenza del re Davide e di suo figlio Salomone non viene messa piú in dubbio, ma niente fa pensare che prima dell’VIII secolo a.C. vi siano state a Gerusalemme costruzioni imponenti.

In questa pagina, dall’alto il sigillo, dal 1719 al 1817, del Gran Capitolo di Londra, e un altro sigillo raffigurante una piramide e una sfinge: i riferimenti alla religiosità egizia furono adottati dalla cultura massonica come simboli iniziatici e di mistero.

In alto, sulle due pagine l’interno del tempio massonico dell’Andaz Hotel a Londra, realizzato nel 1912 dall’architetto Charles Barry Junior.

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Anche se le prospezioni archeologiche sotto la cosiddetta «spianata» del Tempio sono difficili, oltre che per la situazione politica della Terra Santa attuale (la spianata corrisponde infatti all’Haram eshSheriff, il «sacro recinto» e vi sorge la moschea di al-Aqsa), anche e soprattutto per il fatto che il Tempio originario è stato distrutto dai Babilonesi nel 586 a.C. e poi ricostruito nel 515 a.C. e molte volte rimaneg-

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giato (soprattutto da Erode), sino alla definitiva distruzione voluta dall’imperatore romano Tito nel 70, a seguito di una rivolta.

Solo una leggenda?

A questo si deve aggiungere che né le fonti egiziane, né quelle di altri popoli del Vicino Oriente contengono riferimenti all’imporsi della dinastia davidica nel X secolo; e neppure per quel periodo si conosce un re fenicio

di nome Hiram. L’insieme di questi elementi ha indotto a concludere che la leggenda del grande tempio salomonico sia stata elaborata nel VII secolo a.C., nell’ambito di un progetto di esaltazione della tradizione israelitica promosso dal re Gioisia. Al di là del mito e della leggenda, le origini della massoneria moderna vanno rintracciate nella Scozia e nell’Inghilterra del XVII secolo, sebbene anche per que-

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Cerimonia d’iniziazione in una loggia massonica viennese durante il regno di Giuseppe II, dipinto di Ignaz Unterberger. 1789. Vienna, Museen der Stadt Wien. Tra gli astanti figurerebbe anche il compositore Wolfgang Amadeus Mozart (uno dei personaggi seduti sulla sinistra).

sto periodo le fonti a disposizione non siano molte: nessun archivio permette di seguire continuativamente la storia di una loggia; ci si deve accontentare di una decina di indicazioni isolate circa l’esistenza di cerimonie durante le quali si comunicavano ai nuovi iniziati alcuni segni e parole segreti; per la maggior parte, questi documenti registrano l’ingresso di apprendisti, il passaggio ai gradi superiori, le norme del soccorso reciproco. I primi archivi di una loggia permanente in Inghilterra sono datati al 29 settembre 1701 ad Alnwick, una località situata a pochi chilometri dal confine scozzese: si tratta di una loggia di mestiere che risponde al nome di «The Company and Fellowship of Free Masons att a lodge held at Alnwick». La prima loggia di cui abbiamo conoscenza viene creata da William Shaw, scozzese già al servizio come maestro di cantiere sotto Giacomo VI, alla fine del Cinquecento: sembra di capire che tali logge siano una sovrapposizione rispetto alle corporazioni, che raccolgono solo i muratori di una determinata città e forse anche un certo numero di artigiani e manovali con funzioni diverse nei cantieri, mentre le logge appaiono riservate a lavori specializzati. Qualche traccia in piú ci viene dalla corporazione dei muratori di Londra: nel 1619 è segnalata l’esistenza di una «London Company of Freemasons», che, tra il 1654 e il 1655, diviene la «London Company of Masons». Negli archivi della corporazione si trovano menzionate modalità di adesione alla corporazione differenti da quelle consuete, che prevedevano la cooptazione attra-

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verso l’apprendistato o per diritto ereditario; durante riunioni specifiche alcuni individui vengono «accettati» e diventano accepted freemasons. La storiografia si è divisa sul significato da conferire a queste cerimonie: alcuni propendono per l’ipotesi che l’accettazione riguardasse solo persone che non appartenevano al mestiere e che venivano introdotte a titolo onorifico nella loggia; è anche vero, però, che le testimonianze londinesi mostrano come molti fra gli «accettati» fossero già iscritti alle corporazioni, ma avevano acquisito particolare celebrità come tagliatori di pietre nelle chiese o al servizio di sovrani, o magari perché a capo delle corporazioni.

Nuovi adepti

Ciò che interessa sottolineare, comunque, è che gradualmente, durante il Seicento, le corporazioni dei freemasons cominciano ad ammettere al loro interno gentlemen dotati di particolare reputazione: ufficiali dell’esercito, scienziati, architetti. Nel 1708 lo scrittore John Hatton annota in una descrizione della Londra del tempo (intitolata A new view of London) che numerosi fra nobili e borghesi sono membri di corporazioni di muratori. Probabilmente, da questo modello evolve l’idea della loggia massonica speculativa, che si avrà quando i gentlemen decideranno (seguendo percorsi che permangono ignoti) di fondare logge sul modello di quelle dei freemasons, ma prive ormai di ogni legame con i mestieri. A partire dalla sua nascita nell’Inghilterra degli anni Venti del Settecento, la massoneria moderna conosce una rapida espansione, nonostante, o forse grazie al fatto che si tratti di una società strettamente iniziatica: per divenire membri di una loggia bisogna esser scelti, accettati, iniziati. Si tratta di passaggi che, almeno al principio, non sono accompagnati da rituali molto ricchi; non si parla anzi di iniziazione

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Dossier in senso stretto, quanto piuttosto di «ricezione», ed esistono solo due gradi: apprendista e compagno. A partire dagli anni Trenta questo rituale si fa piú complicato, anche grazie all’elaborazione di leggende come quella di Hiram; l’entrata nella massoneria viene quindi vista progressivamente come passaggio per l’individuo a una condizione nuova, e si sente il bisogno di costruire attorno a questo momento una rete di atti e di simboli che sottolineino il mutamento. Contemporaneamente, le logge Tavola raffigurante un gruppo di massoni con, sullo sfondo, le insegne delle principali logge, da Cerimonie e costumi di tutto il mondo (1733) di Bernard Picart.

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conoscono una rapidissima proliferazione al di fuori dei confini britannici: oltre alle colonie (India, America del Nord, Canada) e all’Europa, la massoneria arriva anche in Sudamerica, in Turchia e persino in Cina. Nel 1738, la Gran Loggia di Londra assume il nome di Gran Loggia d’Inghilterra. Tuttavia, questi rapidi cambiamenti non rimangono privi di conseguenze in seno al movimento: comincia infatti una scissione dei massoni «antichi», cioè dei tradizionalisti, che non vedono di buon occhio il proliferare di rituali iniziatici e alcune decisioni prese dalla Gran Loggia di Londra; cosí, nel 1751, nove logge dissidenti, in ampia parte formate da Irlandesi, decidono di formare l’Antient Grand

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La tortura subita dall’uomo d’affari svizzero John Coustos, condannato nel 1743 dall’Inquisizione portoghese perché sospetto appartenente a una loggia massonica, da un’edizione de Il libero muratore di Eugen Lennhoff. 1932.

Lodge (l’antico inglese antient viene utilizzato al posto del piú comune ancient), opposta alla Gran Loggia d’Inghilterra; la disputa tra le due logge viene spesso indicata come querelle tra «antichi» e «moderni», non certo perché la loggia irlandese sia cronologicamente precedente (anzi, come si è visto è vero il contrario), ma perché afferma l’autenticità dei propri riti.

Rituali diversificati

La disputa verrà risolta solo nel 1813, con la costituzione di un’unica Gran Loggia, nota come Gran Loggia Unita degli Antichi Liberi Muratori d’Inghilterra, nella quale si attua un compromesso tra le diverse posizioni, che porta due anni piú tardi a una codificazione nelle Costituzioni della Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Tuttavia, poiché nei circa 45 anni intercorsi fra l’inizio dello scisma e la sua ricomposizione entrambe le correnti avevano avuto filiazioni in tutto il mondo, il risultato è stato un notevole grado di variabilità nei rituali in uso, che persiste ancora oggi. I gradi standard del percorso nella massoneria sono tre: apprendista, compagno e maestro. A questi si ag-

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giungono, nel corso del Settecento, altre cariche, la cui proliferazione sembra dovuta alla volontà di differenziazione sociale all’interno delle logge; per esempio il grado di «maestro scozzese» appare per la prima volta negli statuti del 1743, ed è escluso da particolari privilegi. Nelle revisioni successive, però, troviamo che a esso viene assegnato un ruolo di supervisione dei lavori della loggia; a partire dagli anni Quaranta altri gradi (maestro perfetto, irlandese, segreto, ecc.) vengono via via creati. Scopo dell’iniziazione massonica è il perfezionamento spirituale dell’aspirante. Il candidato viene ammesso in un Tempio, cosí chiamato per evidenziarne il carattere sacrale, edificato «alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo». Qui hanno luogo i riti di perfezionamento del candidato, che ascende i gradi previsti grazie non a un singolo «sacerdote», ma per merito del collegio dei membri, ai quali spetta avviarlo lungo il cammino della conoscenza esoterica. All’inizio delle Costituzioni di Anderson si legge che un massone è tenuto a obbedire alla legge morale, rigettando l’ateismo e il libertinaggio. Si aggiunge poi che, se un tem-

po i muratori erano stati costretti a seguire le confessioni dei Paesi in cui vivevano, sarebbe stato opportuno attenersi ormai «to that religion in which all men agree» («a quella religione nella quale tutti gli uomini convengono»). Il riferimento a una nozione della divinità, che sarà di lí a poco definita correntemente dalle logge «Grande Architetto dell’Universo», che non coincide con una denominazione religiosa e confessionale, si comprende bene alla luce degli sviluppi culturali della società del tempo, nella quale si andavano diffondendo i principi del deismo.

Dispute dottrinarie

La convinzione deista si fonda sulla dottrina della religione naturale, cioè una religione che non deriva da una rivelazione storica, ma viene elaborata dalla ragione umana in base all’osservazione della natura e alla convizione circa l’esistenza di un principio nel Creato. In opposizione al deismo inglese, gli intellettuali dell’Illuminismo, con in testa Voltaire, preferiscono parlare di «teismo», negando al principio divino il governo del mondo morale. La diffusione della massoneria al di fuori del mondo protestante e sino a quello cattolico, non poteva passare inosservata agli occhi della Chiesa; tanto piú che, soprattutto in Italia, l’affiliazione massonica si accompagna ben presto a uno spiccato anticlericalismo. Il primo intervento di censura nei confronti del fenomeno giunge con la lettera apostolica In eminenti apostolatus specula di papa Clemente XII, promulgata nel 1738, nella quale si legge, fra l’altro: «Già per la stessa pubblica fama Ci è noto che si estendono in ogni direzione, e di giorno in giorno si avvalo-

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rano, alcune Società, Unioni, Riunioni, Adunanze, Conventicole o Aggregazioni comunemente chiamate dei Liberi Muratori o des Francs Maçons, o con altre denominazioni chiamate a seconda della varietà delle lingue, nelle quali con stretta e segreta alleanza, secondo loro Leggi e Statuti, si uniscono tra di loro uomini di qualunque religione e setta, contenti di una certa affettata apparenza di naturale onestà. Tali Società, con stretto giuramento preso sulle Sacre Scritture, e con esagerazione di gravi pene, sono obbligate

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a mantenere un inviolabile silenzio intorno alle cose che esse compiono segretamente. Ma essendo natura del delitto il manifestarsi da se stesso e generare il rumore che lo denuncia, ne deriva che le predette Società o Conventicole hanno prodotto tale sospetto nelle menti dei fedeli, secondo il quale per gli uomini onesti e prudenti l’iscriversi a quelle Aggregazioni è lo stesso che macchiarsi dell’infamia di malvagità e di perversione: se non operassero iniquamente, non odierebbero tanto decisamente la luce. Tale fama

è cresciuta in modo cosí considerevole, che dette Società sono già state proscritte dai Principi secolari in molti Paesi come nemiche dei Regni, e sono state provvidamente eliminate».

La censura pontificia

La Chiesa tornerà a reiterare la propria censura nei confronti della massoneria in diverse occasioni, e in modo particolare con la Humanum genus (1884) di Leone XIII, poi recepita nel Codice di diritto aprile

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canonico del 1917. Ma, come si legge nel documento di papa Clemente, neppure le autorità laiche stavano a guardare. Già dagli anni Trenta si ha notizia dell’interessamento della polizia alle logge, con qualche perquisizione e alcuni arresti; anche le folle cittadine non sembrano entusiaste all’idea di clan segreti: nei Paesi Bassi e ad Amsterdam si registrano attacchi contro le sedi massoniche, e nella città olandese, nel 1744, si

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In alto caricatura antimassonica inglese sui metodi di iniziazione alle logge, da Il libero muratore di Eugen Lennhoff. 1932. A sinistra lapidi di cavalieri templari nella Round Church, una delle due parti in cui è divisa la chiesa del Tempio di Londra, edificata nel XII sec. da alcuni esponenti dell’Ordine. Secondo una tradizione le prime logge massoniche sarebbero state fondate da seguaci dei Templari. A destra l’adorazione del diavolo, altra illustrazione tratta da Il libero muratore.

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Dossier Il Santo Sepolcro

Una memoria venerabile Nel Medioevo occidentale, la memoria del Tempio di Gerusalemme è curiosamente sdoppiata. Non era infatti ignoto il fatto che il Tempio di Salomone, quello nel quale – ricostruito e ampliato da Erode III il Grande – Gesú stesso aveva predicato, era stato poi distrutto; ma in luogo di esso i musulmani avevano eretto due edifici sacri, la Cupola della Roccia, a nord, e la moschea di al-Aqsa, a pianta basilicale di tipo cristiano-bizantino, a sud. I cristiani denominano Templum Domini la prima e Templum Salomonis la seconda. Nel 1099, quando i guerrieri-pellegrini della cosiddetta «prima crociata» occupano Gerusalemme, la Cupola della Roccia viene trasformata in chiesa cristiano-latina, dedicata alla Vergine e affidata a canonici agostiniani (al pari di quelli In alto, a sinistra l’edicola del Santo Sepolcro raffigurata in un particolare di Dodici membri della Confraternita dei Pellegrini a Gerusalemme della città di Haarlem, olio su tavola di Jan Van Scorel. 1528. Haarlem, Frans Hals Museum. Qui accanto Laon (Francia). L’ottagonale cappella dei Templari, la cui origine è databile al XII sec.

arriva al divieto di riunione per la massoneria. Nonostante tali proibizioni, evidentemente applicate con zelo moderato, le logge continueranno pressoché indisturbate la propria attività. Diverso è il discorso per quanto concerne la Chiesa cattolica, che non ha mai ritirato la scomunica di Clemente XII; anzi, in linea con la lettera apostolica Humanum genus, i successivi documenti ecclesiastici ufficiali hanno ribadito che chi appartiene alla massoneria non può ricevere i Sacramenti, in quanto i principi delle associazioni massoni-

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Nella pagina accanto, a destra restituzione grafica di un sigillo di epoca crociata raffigurante la basilica del Santo Sepolcro. XII sec.

che officiano nella chiesa del Santo Sepolcro), mentre la moschea di al-Aqsa è adibita a usi militari e l’anno successivo il primo re di Gerusalemme, Baldovino di Boulogne, l’adatta a propria residenza. A quanto sembra, però, nel 1118 egli o il suo successore, Baldovino II, si ritirano a ovest della città, presso la Porta di Giaffa, dov’era la fortezza detta Torre di David; e, a quel che pare, lasciarono alla fraternitas templare la moschea di al-Aqsa con le sue dipendenze – i famosi sotterranei, noti come «stalle di Salomone» –; da allora, l’edificio diviene il «monastero-fortezza» centro dell’Ordine denominato appunto Militia pauperum militum Christi et Salomonici Templi. Peraltro, nei sigilli templari, l’edificio schematicamente raffigurato è un sacello a pianta centrale che ricorda non la moschea di al-Aqsa, bensí la Cupola della Roccia; e che rinvia altresí, data la sua forma, che vengono considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa. Negli anni Trenta del Settecento la massoneria inglese comincia a insediarsi anche in Francia, inizialmente per via di militari e viaggiatori britannici che danno vita a piccole logge in alcune città. Ma già nel 1739 viene fondata la Gran Loggia di Francia, con l’intento di coordinare lo spontaneismo che aveva caratterizzato gli esordi del movimento; il suo dominio sarà indisturbato sino al 1773, quando una scissione condurrà alla nascita della loggia del Grande Oriente di Francia.

Suggestioni templari

In territorio francese si compie l’avvicinamento della massoneria alla mitologia cavalleresca, con particolare riferimento alla vicenda dei Templari. In tutta l’Europa del Seicento si era avviato un movimento di interesse nostalgico per i costumi, le cerimonie, le tradizioni

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A sinistra grembiule da massone in seta con ricami in oro. Vienna, Collezione privata. Si notano alcuni simboli caratteristici: le colonne del tempio salomonico, un paio di compassi, la squadra, il sole e la luna.

alla «rotonda» dell’Anastasis, cioè della chiesa della Resurrezione. Si è andato da allora creando un certo malinteso, poiché i Templari non si sono insediati in alcuno di questi due edifici sacri né hanno mai avuto su di essi alcuna giurisdizione: in un certo senso, però, i pauperes milites se ne sono appropriati simbolicamente, e sembra che talvolta ne riproducessero schematicamente le forme nelle loro chiese disseminate in Europa, dove peraltro l’uso di costruire questi santuari ad instar Sancti Sepulcri era già vivo e attestato da secoli.

A sinistra ancora il Santo Sepolcro, questa volta in un’illustrazione del Pélegrinage a Jérusalem di Marie Joseph Geramb. 1839.

A destra il Gran Maestro dei Templari Jacques de Molay in un’incisione anonima cinquecentesca. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Dossier cavalleresche. In Inghilterra, Elias Ashmole, alchimista dilettante, curioso di cultura ermetica e in particolare dell’Ordine dei Rosacroce, nonché uno fra quei «non-manovali» ammessi nella massoneria operativa, scrivendo nel 1672 le Institutions, laws and ceremonies of the most noble Order of the Garter, aveva già rispolverato la memoria dei Templari, a suo dire nobili e generosi cavalieri che tuttavia, ricchi e superbi, si erano troppo subordinati al papa, causando cosí la propria rovina.

Il discorso del cavaliere

Le idee di Ashmole influenzano presumibilmente il giacobita André-Michel Ramsay, massone scozzese ma residente in Francia

e a lungo segretario di François Fénelon, conosciuto a Cambrai nel 1709, che lo aveva convinto a convertirsi al cattolicesimo. Nel 1736 il cavaliere di Ramsay pronunzia un discorso pubblico che marca profondamente lo sviluppo della massoneria francese; in origine, questo testo non è altro che un discorso di benvenuto, di quelli che ogni oratore della loggia usa tenere all’indirizzo dei nuovi iniziati. In questo caso, però, Michel Ramsay si spinge oltre: se nella prima parte del discorso espone le qualità richieste al massone, e cioè la capacità di mantenere un segreto, la moralità, l’amore per il prossimo, la passione per le scienze e le arti, nella seconIn alto ritratto di Carlo Guglielmo Ferdinando, duca di Brunswick, realizzato da Gerrit Kamphuysen. 1763. Tale carica politica in Germania, a fine Settecento, comportava anche la nomina a Gran Maestro dell’unione dell’Ordine dei Templari. A sinistra Ermete Termegisto, personaggio leggendario associato alla cultura egizia che figura tra i miti di riferimento della tradizione massonica, in un intarsio del pavimento del duomo di Siena. XV sec.

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da parla della storia della massoneria, che fa risalire non piú tanto alle corporazioni di muratori, quanto piuttosto alla cavalleria. Criticando quanti, a suo dire, pongono le origini delle logge in un’antichità troppo nebulosa, Ramsay afferma che la loro origine va posta nell’XI secolo, quando sovrani, nobili e cittadini si uniscono in confraternite per ristabilire il dominio cristiano in Terra Santa contro gli infedeli.

Il ritorno in Europa

Queste confraternite sarebbero poi confluite nell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, i cui membri, tornati in Europa, avrebbero dato vita alle logge nelle diverse nazioni; per esempio, un certo Jacques Stewart di Scozia sarebbe stato gran maestro di una loggia a Kilwinnen

nell’anno 1286; la sua loggia avrebbe accolto i conti di Gloucester e dell’Ulster. L’Inghilterra sarebbe dunque la principale sede della massoneria cavalleresca, prima che le guerre di religione del Cinquecento generassero una crisi in seno alla cristianità; per questa ragione è importante il ritorno della massoneria, promotrice di fratellanza, sul Continente, e in particolare in Francia.

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A destra seduta spiritica di Alessandro conte di Cagliostro (pseudonimo di Giuseppe Balsamo, 17431795) durante una riunione della loggia massonica di rito egizio da lui fondata. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso diploma di appartenenza alla massoneria. 1811. Mantova, Museo del Risorgimento e della Resistenza «Renato Giusti».

La storia proposta da Ramsay è ovviamente fantasiosa, ma destinata, con alcune modifiche, a grande successo. C’era tuttavia un problema non indifferente: si deve notare che egli non faceva riferimento ai Templari, quanto piuttosto ai Giovanniti, cioè agli Ospitalieri, che nel Settecento sono ormai divenuti il potente e prestigioso Ordine di Malta, che certo

non poteva vedere di buon occhio l’idea di esser posto all’origine delle logge massoniche, peraltro invise alla Chiesa. D’altro canto, Ramsay faceva proseliti in Francia, e questo impediva di chiamare in causa l’Ordine monastico-cavalleresco per eccellenza, ossia i Templari, come aveva suggerito Ashmole, dato che, soppressi da Filippo IV il Bello tra il 1307 e il 1314, godevano ancora di cattiva fama nella Francia d’ancien régime in quanto «nemici» della Corona. Perché dai Cavalieri di San Giovanni si passi ai Templari, bisogna trasferirsi dalla Francia in altre aree d’Europa. Per trovare il nesso fra massoneria e memoria dei Templari dobbiamo quindi volgerci alla Germania: qui, a partire dal tempo della guerra dei Sette Anni (1756-63), si registra un proliferare di circoli e una produzione di opere caratterizzati, al pari di quanto si è visto per la Francia, dalla volontà di collegare massoneria e cavalleria crociata. Si afferma che i Templari hanno ricevuto, per tramite dei canonici della chiesa del Santo Sepolcro di Geru-

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Dossier salemme, gli insegnamenti esoterici degli Esseni. Oltre ai segreti, essi avrebbero tramandato anche un tesoro materiale, il possesso del quale era stato il motivo scatenante della persecuzione imbastita contro di loro dal re di Francia. Oltre al tesoro, anche l’acquisizione della sapienza esoterica del Tempio era nelle mire di Filippo: l’Ordine, quindi, non sarebbe stato perseguitato perché dedito a pratiche eterodosse o magiche, e neppure in fondo per ragioni meramente politiche, quanto perché sodalizio di autentici fedeli la cui stessa presenza costituiva una denunzia della degenerazione e della corruzione dei falsi cristiani che guidavano la Chiesa. Tale cristianesimo profondo e autentico, l’insegnamento del quale sarebbe rimasto ininterrotto nei secoli, era passato per il tramite templare alla massoneria e in essa, nella sua religiosità priva di barriere confessionali, rivivrebbe. Prima di morire sul rogo nel 1314, l’ultimo Maestro del Tempio, Jacques de Molay, aveva confidato il nucleo della sua sapienza ad alcuni seguaci che erano approdati in Scozia, dove si erano tramandati attraverso generazioni la preziosa eredità. I custodi del segreto dei Templari sarebbero quindi i fondatori delle prime logge massoniche: un’idea che, nella massoneria tedesca di fine Settecento, si accompagna al proliferare di gradi e di dignità a carattere massonico-cavalleresco, in genere vendute ai molti adepti desiderosi di titoli nobilitanti.

I «gradi di vendetta»

Ne esce rinnovato anche il mito di Hiram, il costruttore fenicio del Tempio di Salomone, il cui assassinio viene letto in parallelo con il sacrificio di Jacques de Molay. Il ricordo della morte di Hiram-Jacques de Molay giustifica l’immissione nella gerarchia massonica dei cosiddetti «gradi di vendetta». E la vendetta, secondo l’ottica dei massoni

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La massoneria in Italia

Una storia segnata dalle scissioni Al pari di quanto avviene nel resto d’Europa, la massoneria si diffonde rapidamente anche in Italia. Le prime logge vengono fondate con ogni probabilità in Toscana: se ne segnala almeno una negli anni Trenta del Settecento a Firenze, dove il nucleo orginario sarebbe stato formato in prima istanza da Inglesi, poi raggiunti da nobili e borghesi fiorentini. Stessa cosa avviene a Roma: nel 1735 alcuni Inglesi danno vita a una loggia rimasta attiva solo fino al 1737, quando è sciolta per ordine del pontefice; va, infatti, ricordato che nell’anno successivo si ha il primo intervento ecclesiastico ufficiale contro la massoneria. Nel 1746 viene fondata una loggia a Venezia nella quale entrano, fra gli altri, Giacomo Casanova e Carlo Goldoni; l’esperienza è rapidamente conclusa dall’intervento dell’Inquisizione di Stato, anche se nuove aperture si segnalano negli anni Settanta del secolo. In Liguria la massoneria si sviluppa rapidamente, forse già dagli anni Quaranta, almeno a Genova e a Bordighera, a causa della presenza francese. Ugualmente, è attraverso il tramite francese e non inglese che la massoneria si impianta nel Regno di Napoli, nonostante l’opposizione dei Borboni che la proibiscono con un

decreto del 1751, ispirato alla bolla Providas Romanorum Pontificum emanata da papa Benedetto XIV per ribadire la condanna pontificia del 1738. La loggia italiana piú nota è quella di Chambéry in Savoia, con una patente di rappresentanza per la Savoia e il Piemonte rilasciata dalla Gran Loggia di Londra. Nel 1752 la loggia di Chambéry prende il nome di Gran Loggia Madre, assumendo il controllo sulle logge di tutto il Regno di Sardegna. Al pari di quanto accade Oltralpe, anche in Italia le logge seguono le molte scissioni che hanno luogo in seno alle massonerie britanniche e francesi, assumendo obbedienze, riti e affiliazioni piú disparati. Tuttavia, le cose prendono una piega diversa dopo la metà dell’Ottocento. L’8 ottobre 1859, a Torino, sette confratelli costituirono una nuova loggia, chiamata «Ausonia» dall’antico nome poetico dell’Italia. Nel 1859, a Torino, nasce un’organizzazione che aspira a diventare una Gran Loggia nazionale e assume la denominazione di Grande Oriente Italiano. In essa confluiscono gradatamente le altre logge, anche se nel primo decennio del Novecento si consuma una scissione permanente che conduce

neotemplari, sarebbe arrivata di lí a poco dove tutto era cominciato. Correva voce che Jacques de Molay, prima di morire tra le fiamme, avesse maledetto il papa e il re; una leggenda corroborata dal fatto che tanto Clemente V quanto Filippo il Bello morirono nello stesso 1314, il primo in aprile, il secondo in novembre. Se agli inizi del Settecento non era stato possibile per il cavaliere di Ramsay nobilitare la massone-

ria attraverso il riferimento ai Templari, con la Rivoluzione francese questo collegamento risulta invece auspicabile, come testimonia un’altra leggenda, prosecuzione della prima, secondo la quale, mentre la testa recisa del sovrano cadeva nel cesto, dalla folla si sarebbe levato il grido: «Oh, Jacques de Molay! Tu sei vendicato!». In fondo, le elucubrazioni dell’abate francese ed ex gesuita Augustin Barruel – secondo il quaaprile

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alla formazione della Serenissima Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori, nota anche come Gran Loggia di Piazza del Gesú (dalla sede prescelta). Dopo essere stata messa al bando dal fascismo nel 1925, la massoneria italiana si ricostituisce nel 1944. Fra gli le la Rivoluzione francese sarebbe stata un complotto ordito contro la Chiesa e la Corona dai massoni e dagli illuminati atei – finiscono per convergere nella sostanza con le fantasie dei massoni neo-templari. Anche in Germania la mania templaristica è tutt’altro che finita, e si avvia anzi a raggiungere il suo culmine. Karl Gotthelf von Hund, un proprietario terriero sassone che aveva compiuto il tirocinio masso-

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anni Settanta e Ottanta del secolo scorso è stata scossa dalle vicende della Loggia P2 – originariamente appartenente al Grande Oriente d’Italia –, sciolta d’autorità nel 1981 in quanto associazione segreta e oggetto di un’inchiesta parlamentare e vari procedimenti giudiziari. nico in Francia e si era convertito al cattolicesimo, pur coltivando sostanzialmente idee teiste, riscrive poco dopo la metà del Settecento il mito del segreto dei Templari, arricchendolo di particolari inediti: per esempio attribuendo un nome ai due superstiti, Aumont e Wildgraf di Salm, che avrebbero condotto i segreti dell’Ordine nell’Isola di Mull. Costruendo questa elaborata leggenda, von Hund sembrerebbe

Pagine con illustrazioni xilografiche di un’edizione stampata a Venezia da Aldo Manuzio della Hypnerotomachia Poliphili, romanzo allegorico scritto dal frate domenicano Francesco Colonna che contiene l’interpretazione di alcuni geroglifici egiziani. 1499. New York, Metropolitan Museum of Art.

aver voluto attrarre in un nuovo Ordine massonico-templare, detto «della Stretta Osservanza» e distinto in nove «province» che coprivano gran parte del territorio europeo, un buon numero di personaggi nobili o ben provvisti di danaro, affascinati dall’elaborato rituale, la ricchezza degli abiti e degli ornamenti, la fama d’un sapere occulto condiviso dagli adepti e il mistero di quelli che si dicevano essere gli

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Dossier Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro, olio su tela attribuito a Pierre Alexandre Wille. 1785 circa. Collezione privata. L’avventuriero ed esoterista italiano fondò a Parigi, nel 1784, la Loggia Madre dell’Adattamento dell’Alta Magia Egizia.

autentici capi dell’organizzazione, i «Superiori Sconosciuti». Altro caso interessante è quello di Johann August Starck, un erudito orientalista che aveva studiato a Göttingen ed era entrato in contatto con circoli massonici italiani, russi e francesi. Non potendo vantare, né ragionevolmente fingere origini nobiliari, lo Starck non può insistere sulla dignità cavalleresca dei «suoi» Templari, che stava organizzando: ne accentua pertanto il carattere clericale, pretendendo di aver appreso dallo studio della storia dell’Ordine che i chierici erano, all’interno di esso, indipendenti dai cavalieri, e ricollegandosi ai soliti canonici del Santo Sepolcro, naturalmente detentori del sapere segreto, della philosophia perennis, che avevano ereditato dall’Egitto attraverso la tradizione mosaica, salomonica ed essena. Nel 1772 i Templari della Stretta Osservanza di von Hund e i Canonici Templari dello Starck s’incontrano in un congresso a Kohlow in Prussia, durante il quale si decide l’unione fra i due Ordini e la proclamazione del duca di Brunswick a gran maestro. Tuttavia, l’unione si fraziona di lí ad alcuni anni in una serie di gruppi animati da una feroce volontà di scisma e di diffamazione reciproca, naufragando nel ridicolo.

Il mito dell’Egitto

Fra Sette e Ottocento, un nuovo tassello si aggiunge all’immaginario massonico delle origini: quello dell’Egitto, che nei circoli intellettuali, in special modo francesi, assume in quegli anni un peso rilevante. Il mito dell’Egitto affonda però le sue radici nel Rinascimento

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italiano. Nel 1419 un fiorentino di famiglia aristocratica, Cristoforo Buondelmonti, porta nella sua città un manoscritto sull’antica scrittura sacra, Hierogliphica, attribuito a un certo Horapollo. Il carattere simbolico dell’interpretazione dei geroglifici imprime una svolta sostanziale all’immaginario occidentale: se ne discute al concilio di Firenze del 1439 e, quando verso il 1460 giunge dalla Macedonia invasa dai Turchi la raccolta dei pretesi scritti di Ermete Trismegisto, Cosimo il Vecchio dà a Marsilio Ficino l’incarico di tradurli e studiarli. Ficino inventa una prisca theologia, che sarebbe cominciata con Ermete Trismegisto, contemporaneo di Mosè, per culminare in Platone e nei filosofi neoplatonici. Si fa largo, insomma, l’idea che l’origine della civiltà vada ricercata in Egitto e che ai geroglifici sia stata affidata una speciale saggezza. Nel 1492 Annio da Viterbo suggerisce elementi egiziani, e in particolare il mito di Iside e Osiride, al Pinturicchio per la decorazione dell’appartamento Borgia in Vaticano. Nasce anche una «scienza geroglifica» che culmina nella pubblicazione a Venezia, nel 1499, della Hypnerothomachia Poliphili di Francesco Colonna, un complesso romanzo iniziatico le cui influenze si ritrovano in artisti quali Pinturicchio, Giorgione, Dürer. Da allora il linguaggio dei geroglifici sarebbe stato indicato come l’unico adatto a penetrare i segreti della natura e della divinità. E i molti obelischi eretti nelle grandi città europee dal Cinquecento in poi hanno anzitutto la funzione di «captare» questa antica potenza sacrale. Symphorien Champier e Athanasius Kircher, dal canto loro, approfondiscono l’arte di tradurre la scienza iniziatica, e per tutto il Cinque e il Seicento non sembra esserci stata arte, scienza o magia che non sia passata per il mondo egiziano. Nel corso del Settecento la cultura massonica si impadronisce

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dunque della simbologia egiziana, e una moda architettonica «neoegiziana» si diffonde contemporaneamente accanto a quella greca, che avrebbe condotto al neoclassicismo, o a quella cinesizzante. L’esempio piú eclatante ci viene forse dal Flauto magico, che Mozart e Schikaneder ambientano in un fiabesco Egitto.

Il conte alchimista

In questo contesto fa la sua comparsa Giuseppe Balsamo, meglio noto come conte di Cagliostro. Cagliostro è un alchimista e un falsario; gira l’Europa per sfuggire alle condanne per i suoi reati, finché nel 1784 a Parigi fonda la Loggia Madre dell’Adattamento dell’Alta Magia Egizia. Si elegge «Gran Cofto» e proclama la moglie, col nome di principessa Serafina e Regina di Saba, Grande Maestra del Rito d’Adozione, cioè della loggia riservata alle donne (che sono tradizionalmente escluse, sebbene con alcune eccezioni, dalle logge). Nonostante la sua esperienza massonica sia stata di breve durata, essa mette in evidenza l’interesse dell’epoca per la moda egiziana, che in una parte della massoneria si radicherà come tratto caratterizzante. Al di là della massoneria e del suo immaginario, i risultati della fantasiosa egittomania settecentesca avrebbero dato presto esiti piú interessanti. Il desiderio di verificare la realtà dell’Egitto è la molla che spinge molti intellettuali e artisti ad affollare l’esercito dell’allora generale Napoleone Bonaparte, quando, nel 1798, si appresta alla campagna d’Egitto. In occasione di tale impresa il Bonaparte fonda l’Institut d’Égypte, inviandovi uno straordinario bottino di antichità predato durante la spedizione. Fra i vari reperti, la cosiddetta «Stele di Rosetta», che a lungo studiata da Jean-François Champollion, ha consentito nell’Ottocento la decifrazione dei geroglifici.

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L’«altro»

di Corrado Occhipinti Confalonieri

Francesco

Nella chiesa di S. Maria Annunciata di Bienno, in Val Camonica, si conserva un ciclo pittorico di straordinario interesse: tema dei dipinti è infatti la vita del grande santo, narrata però in una versione parzialmente e significativamente diversa da quella accreditata da Bonaventura da Bagnoregio con la sua Legenda maior. L’Assisiate si mostra quindi in una veste ancor piú umana, pronto a prodigarsi per i poveri, i bisognosi e, all’occorrenza, anche per gli appestati... 104

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lo hanno fatto pure santo!» aveva esclamato stupito Dario Fo durante uno dei suoi spettacoli, riferendosi a Bonaventura da Bagnoregio. Il premio Nobel per la letteratura era rimasto inorridito dall’iniziativa del ministro generale dell’Ordine francescano che, nel 1266, aveva disposto la distruzione di tutte le biografie dedicate a Francesco di Assisi precedenti la propria. Il doctor Seraphicus volle costruire una nuova immagine di Francesco, facendone una figura tanto perfetta da impedire che i confratelli potessero imitare la proposta di vita cristiana del santo, limitandosi ad ammirarne l’inarrivabile perfezione, dimostrata dal dono delle stimmate, che nessun altro prima di lui aveva ricevuto. Cosí facendo, Bonaventura credette di aver messo la parola fine alla diatriba fra conventuali, i Francescani che protendevano verso una povertà piú sfumata, e gli spirituali, che invece volevano seguire alla lettera la Regola originaria di assoluta povertà. Gli affreschi della Chiesa Superiore della basilica di Assisi, ispirati alla Legenda maior di Bonaventura ebbero lo scopo di affermare per sempre il messaggio di questa biografia, mentre il ciclo francescano di S. Maria Annunciata, a Bienno (Brescia), dimostra invece che non tutte le biografie antecedenti vennero distrutte, perché il loro ricordo, a distanza di oltre duecento anni, era ancora vivo. Ci riferiamo, in particolare, alla Vita prima (1228), alla Vita seconda (1246) e al Trattato dei miracoli (composto alla fine degli anni Quaranta del XIII secolo) di Tommaso da Celano, ma anche al fiorire di leggende non contenute in alcuna biografia.

Specialisti del ferro

Salvo diversa indicazione, tutte le immagini si riferiscono al ciclo pittorico con storie francescane realizzato nel 1493 da Pietro di Cemmo nella chiesa di S. Maria Annunciata a Bienno (Brescia). La parte superiore del ciclo pittorico. Nella lunetta: il miracolo della stalletta; nella fascia sottostante, da sinistra, la rinuncia di Francesco ai beni paterni; il vescovo Guido II protegge Francesco con il suo mantello; Francesco, in abiti logori, chiede l’elemosina ai passanti nei pressi della basilica di S. Pietro, a Roma.

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Nel Medioevo Bienno era un centro della media Val Camonica, molto importante per attività artigianali nel campo della lavorazione del ferro e, fin dal XIII secolo, la presenza francescana fu molto attiva: lo dimostrano l’edificazione di un convento francescano e di un monastero di Clarisse. Tale presenza venne rafforzata in Valle nel corso del XV secolo, perché la diocesi di Brescia voleva contrapporsi alla comunità ebraica largamente presente. Il ciclo dedicato a Francesco si trova sulla parete destra, a fianco dell’altare maggiore, ed è composto da dodici scene, dipinte da Pietro da Cemmo nel 1493. Partendo dalla lunetta in alto, assistiamo alla nascita di Francesco. L’episodio si riferisce alla Leggenda della stalletta, dell’inizio del XV secolo, rappresentata per la prima volta nel 1451 da Benozzo Gozzoli nella chiesa di S. Francesco a Montefalco (Perugia; vedi «Medioevo» n. 225, ottobre 2015; anche on line su issuu.com). Nel manoscritto Vita e fioretti del 1477, conservato presso la biblioteca Ambrosiana di Milano, viene descritto l’avvenimento. Madonna Pica, futura genitrice del santo, prega la Vergine Maria perché interceda con il Figlio affinché

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto il Signore ispira a Francesco il sermone per convincere papa Innocenzo III ad approvare la Regola.

A destra Innocenzo III sogna il santo come salvatore della Chiesa in rovina e lo si vede sostenere il Laterano.

anche lei diventi madre. Un giorno, un angelo con una lunga barba, vestito da eremita, bussa alla sua porta e le dice: «Madonna vi annuncio che Dio ha ascoltato le vostre preghiere e presto avrete un figlio che diventerà specchio del mondo; prendetevi cura di lui perché seguirà la vita di Cristo, per questa ragione illuminerà la terra». Pica rimane incinta e Pietro di Bernardone, il futuro padre, al colmo della gioia, organizza grandi festeggiamenti per il lieto evento. Ma quando è il momento del parto il bambino non nasce. Disperata, madonna Pica si reca perciò dal suo confessore e gli dice: «Pregate per me padre perché sto per morire, non riesco a dare alla luce mio figlio». Allora il religioso le rivela: «Cara figlia, non ricordi che l’eremita ti annunciò che il bimbo sarebbe stato un seguace di Gesú? Se questo è vero, nascerà anche lui in una stalla». Ascoltate queste parole, Pica chiede di essere condotta in una stalla, partorisce un bel bambino e in quel luogo viene poi costruita una cappella a ricordo dell’evento.

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Nella scena di Bienno vediamo Pica che viene accompagnata da due donne nella stalla, poi due ancelle che lavano il piccolo Francesco già in piedi. Sullo sfondo stanno due figure maschili, di cui una con la barba: si tratta probabilmente dell’angelo eremita, mentre l’altro è il confessore, in quanto Pietro di Bernardone si trovava all’estero per lavoro. Sulla sinistra, vicino alla greppia, si vedono alcuni agnelli, gli animali piú amati da Francesco; a destra un particolare realistico: un fanciullo fa scaldare un paiolo d’acqua per il neonato. La scena dimostra come si sentisse la necessità di arricchire con episodi molto familiari la biografia di Bonaventura, che invece tendeva a rendere il santo una figura lontana. Come afferma lo storico del francescanesimo Paul Sabatier, «Già nel XIII e XIV secolo, un ciclo di graziose leggende si formò intorno a san Francesco. E non poteva essere altrimenti».

Una violenza inaudita

Nel registro sottostante sono raffigurati tre distinti momenti della conversione del santo, citati anche nella Legenda maior di Bonaventura, ma innovativi per alcuni particolari. La prima scena rappresenta la rinuncia ai beni paterni, con la restituzione del denaro e aprile

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A destra il miracolo della fanciulla di Pomarico. Accompagnato da un confratello, Francesco esorta la madre della ragazza a non

disperarsi: la donna impedisce allora di portare via il corpo della figlia, si volta verso di lei, invoca il nome del santo e questa si alza viva e sana.

SVIZZERA

Lago Maggiore

TRENTINOBienno ALTO ADIGE

Lago di Como

Varese

PIEMONTE

Parabiago

Lago di Garda

Bergamo Monza Milano

Lumezzane

Cortenuova Brescia

VENETO

Crema Vigevano

Pavia

P i a n u r a Pa d a n a

Cremona

Mantova

Voghera

EMILIA-ROMAGNA

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delle vesti. Il gesto di Pietro di Bernardone è sorprendente per la sua inaudita violenza: lo si vede alzare le mani su Francesco mentre la madre assiste impotente. La seconda scena rappresenta una continuazione della prima, perché sullo sfondo compare ancora la città con le mura merlate. Qui Francesco viene protetto dal mantello del vescovo Guido II. Le due immagini in sequenza si svolgono all’esterno, a significare che la disputa tra Francesco e la sua famiglia ha ormai assunto carattere pubblico, perché tutti vi possono assistere. Il gesto del vescovo è quello con cui si legittima un figlio e lo si riconosce come proprio. Il committente degli affreschi vuole cosí dare forza alla determinazione di Francesco nel cambiare il suo stato. Nell’ultimo riquadro Francesco, assieme a tre mendicanti, chiede l’elemosina a Roma, davanti alla basilica di S. Pietro. Le sue vesti sono logore e stracciate, tiene una ciotola in mano, si appoggia a un bastone e ha la bisaccia in vita. Qui si insiste sull’importanza del fare la carità, un modo per ribadire l’assoluto bisogno di fare del bene. L’avarizia era considerata infatti un grave peccato perché è la negazione del precetto evangelico: ama il prossimo tuo come te stesso.

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medioevo nascosto lombardia Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Francesco cura gli ammalati. Uomini e donne si presentano al santo con i segni della peste – che sostituisce la lebbra, sconosciuta nella Val Camonica – sul corpo e gli chiedono la grazia. In primo piano, un uomo mostra un bubbone sulla coscia, e dietro se ne vede un altro, con le braccia atrofizzate; ai lati, ci sono alcuni animali, colpiti anch’essi dal morbo.

Il terzo registro presenta il riquadro centrale fortemente danneggiato, ma dall’analisi di quelli laterali si può ipotizzare che rappresenti la conferma della Regola francescana. A destra, vediamo il Signore che ispira a Francesco il sermone per convincere papa Innocenzo III ad approvare la Regola, e, nel riquadro opposto, il pontefice sogna il santo come salvatore della Chiesa in rovina (vedi foto alle pp. 106 e 106/107). La posa di Francesco che in ginocchio sostiene dall’esterno la parte posteriore del Laterano è un’interpretazione simile a quella descritta nella Vita prima di Tommaso da Celano, perché nella Chiesa Superiore di Assisi, ispirata alla Le-

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genda maior di Bonaventura, il santo è visto come pietra angolare della Chiesa, quindi all’interno di essa.

La fanciulla resuscitata

Il quarto registro si apre con un miracolo citato solo nel Trattato dei miracoli del primo biografo di Francesco: si tratta della fanciulla di Pomarico resuscitata dal santo (vedi foto a p. 109). Nella città lucana un padre e una madre hanno una sola figlia, che cade malata. I genitori la assistono giorno e notte, ma una mattina la trovano morta. Nell’affresco la coppia e alcuni parenti si stanno preparando alla tumulazione, quando alla madre appare Francesco, accompagnato da un confratello, che le dice: «Non piangere giacché alla tua lucerna ormai del tutto spenta ecco io restituirò la luce!». La donna impedisce allora di portare via il corpo della figlia, si volta verso di lei, invoca il nome del santo e questa si alza viva e sana. La resurrezione di un defunto vuole riaffermare con aprile

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A sinistra la scena è lacunosa, ma sembra raffigurare Francesco – che un diavoletto cerca di trascinare nel precipizio – mentre difende dal peccato un frate piú piccolo. In basso i funerali di Francesco, con il corpo del santo che, seguendone le ultime volontà, è disteso sulla nuda terra.

to, i frati non abitavano piú nei lebbrosari ma in grandi e comodi conventi in muratura e volevano studiare e insegnare, anche per essere all’altezza della competizione che si era instaurata con i dotti Domenicani. Francesco rivendicava invece la povertà assoluta propugnata dal Vangelo, e per essere l’ultimo degli ultimi curava i lebbrosi invitando i confratelli a fare altrettanto. Nel periodo in cui viene dipinto l’affresco di Bienno era ormai ciclica la ricomparsa della peste, dopo la prima terribile epidemia che nel 1348 aveva falcidiato un terzo della popolazione italiana. Nella scena vediamo uomini e donne che mostrano al santo i segni della ma-

forza che solo la Chiesa può offrire santi come Francesco, in grado di compiere miracoli tanto strepitosi. A ribadire la supremazia di Francesco, ecco l’episodio delle stimmate sulla Verna, un miracolo concesso solo a lui e in questa scena viene ripresa la potente descrizione della Legenda maior di Bonaventura. Il santo viene trafitto da Cristo con i segni della passione attraverso la luce, che lo ferisce, provocando le stimmate, buchi nella carne.

Essere l’ultimo degli ultimi

Nel sesto registro, quello posizionato piú in basso e quindi piú visibile dalle persone che affollavano la chiesa, vediamo la scena piú sorprendente, dipinta anche nella tavola attribuita a Coppo di Marcovaldo (1250 circa) ispirata alle prime biografie di Tommaso da Celano: la cura degli ammalati (vedi foto a p. 108). Negli affreschi di Assisi non compare la scena del santo che cura i lebbrosi, perché, nel frattempo, l’Ordine era molto cambia-

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lattia sul corpo e gli chiedono la grazia. In primo piano notiamo un uomo che gli mostra un bubbone sulla coscia; dietro, se ne vede un altro con le braccia atrofizzate e, ai lati, ci sono alcuni animali, colpiti dalla malattia. È molto interessante la sostituzione del morbo: non la lebbra, sconosciuta nella Valle, ma la peste, una realtà terrificante per gli abitanti del tempo. Francesco ha indice e medio alzati, segno della parola ed è calzato, un particolare importante, perché negli affreschi della Chiesa Superiore di Assisi, quelli dopo la conversione, appare umilmente scalzo mentre i confratelli indossano i sandali. Questo particolare dimostra che all’epoca delle pitture di Bienno, oltre che taumaturgo, Francesco viene considerato colto e capace di predicare, un’immagine ben diversa da quella dell’uomo umile che voleva darne Bonaventura. Segue una scena priva della parte superiore. Francesco in primo piano sembra difendere dal peccato un frate piú piccolo con il capo coperto da un cappuccio.

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medioevo nascosto lombardia La Tavola Bardi

Una vita in 20 scene

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto i registri inferiori del ciclo pittorico, sotto i quali è raffigurata una danza macabra che presenta varie affinità con quella dipinta nel 1485 da Giacomo

La vita di Francesco di Assisi nei venti riquadri della Tavola Bardi, dipinta da Coppo di Marcovaldo fra il 1243 e il 1255 e conservata nella basilica di Santa Croce a Firenze, si riferisce esclusivamente alle biografie scritte da Tommaso da Celano. Sono presenti episodi come la cura affettuosa dei lebbrosi, il disprezzo del denaro, la predica pacifica ai musulmani, che non sono ripresi negli affreschi della Chiesa Superiore Busca nell’Oratorio dei Disciplini di Clusone (Bergamo). Sulla sinistra, la morte scaglia i suoi dardi contro chiunque: giovani, anziani, ricchi e poveri.

In basso Ugolino, vescovo di Ostia, riceve a Rieti Francesco, il quale profetizza al prelato la sua nomina a papa: assumerà il nome di Gregorio IX.

Un diavoletto nudo – lo si capisce dagli artigli al posto delle dita – cerca di trascinare il santo nel precipizio (vedi foto alle pp. 108/109). È quindi la volta dei funerali dell’Assisiate. Si intravedono tre prelati e tre frati, mentre Francesco, come dalle sue ultime volontà, è disteso sulla nuda terra (vedi foto a p. 109). La presenza ecclesiastica serve a testimoniare la verità delle stimmate, che non vennero riconosciute subito come miracolo: infatti nella bolla di canonizzazione sono taciute.

In udienza dal vescovo

Nell’ultima scena, Ugolino, vescovo di Ostia, riceve a Rieti Francesco (vedi foto qui accanto), un episodio citato solo nella Vita prima di Tommaso da Celano. Il santo lo aveva eletto a protettore dell’Ordine e, nella sua biografia, Tommaso sottolinea che «il signore lo aveva dotato di parola sapiente» simboleggiata dal libro. Francesco profetizza a Ugolino la sua nomina a papa: assumerà il nome di Gregorio IX. Si tratta dell’elogio dell’obbedienza dove il santo, inginocchiato davanti al futuro pontefice, si sottomette alla Chiesa. L’immagine richiama l’affresco della Chiesa Inferiore di Assisi, nel quale Francesco porta il giogo per simboleggiare questo concetto. Sotto gli affreschi con le storie francescane, è raffigurata una danza macabra, che riprende quella piú famosa dell’Oratorio dei Disciplini di Clusone (Bergamo), realizzato nel 1485 da Giacomo Busca, detto il Borlone (vedi «Medioevo» n. 241, febbraio 2107; anche on line su issuu.com). Qui la morte lancia i suoi dardi a tutti,

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A destra la Tavola Bardi, opera di Coppo di Marcovaldo ispirata alle biografie di Francesco scritte da Tommaso da Celano. 1243-1255. Firenze, basilica di Santa Croce. In basso una veduta di Bienno (Brescia).

della basilica di Assisi, ispirati alla Legenda maior di Bonaventura, l’unica biografia ufficiale del santo. L’affresco di Bienno – che riprende il tema della guarigione degli appestati e degli invalidi presente nella Tavola Bardi – dimostra che, a distanza di oltre duecento anni, c’era ancora bisogno di un Francesco calato nella realtà di vita, per mostrare la sua compassione per le sofferenze del genere umano.

Dove e quando Chiesa di S. Maria Annunciata Bienno (Brescia), via S. Maria Orario tutti i giorni, 9,00-18,00 Info www.invallecamonica.it indistintamente: giovani, anziani, abbienti e poveri. Le figure le portano vassoi con offerte e il particolare fa intendere che ormai è troppo tardi: occorre esercitare la misericordia quando si è in vita per accelerare la permanenza in purgatorio e assurgere finalmente in paradiso. Gli affreschi di Bienno su san Francesco hanno un chiaro intento divulgativo, dimostrato dalle iscrizioni in volgare poste al di sotto delle immagini. Tuttavia, l’utilizzo di varie fonti non ufficiali dimostra che si avvertiva la necessità di una nuova immagine di Francesco perché la biografia di Bonaventura non aveva mai unito tutte le correnti che animavano l’Ordine. F

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Da leggere Chiara de Capoa, Il ciclo di san Francesco nella chiesa di santa Maria, in Paola Castellini e Marco Rossi (a cura di), La chiesa di santa Maria annunciata a Bienno. Atti della giornata di studi, Comune di Bienno e Comunità della civiltà bresciana, Brescia 2005 Chiara Frugoni, Quale Francesco? Il messaggio nascosto della Basilica superiore ad Assisi, Einaudi, Torino 2016 Girolamo Golubovich, La storicità e autenticità della casa paterna di san Francesco di Assisi, Barbera, Firenze 1940

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CALEIDO SCOPIO

Tempi di rivoluzioni

MUSICA • Gli ideali propugnati da san Francesco

ebbero l’effetto di un terremoto per la Chiesa. E, per molti, non meno «sovversive» dovettero risultare le soluzioni adottate negli stessi anni dagli autori scelti dall’Anonima Frottolisti per questa nuova registrazione

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ra il XIII e il XIV secolo, la figura che piú di ogni altra ha colpito l’immaginario collettivo è Francesco d’Assisi, personaggio dalla biografia emblematica e che, attraverso la presa di coscienza della propria vocazione e la successiva rinuncia alle «sicurezze» di una vita agiata, fu artefice di un’autentica rivoluzione all’interno della Chiesa, fondando l’Ordine dei Frati Minori. Ruota ora intorno alla figura dell’Assisiate questa antologia dell’Anonima Frottolisti, che ci accompagna in un lungo percorso, dal XIII al XVI secolo. Un ampio excursus, segnato da altrettanto epocali sviluppi musicali, testimoniati dai brani proposti. Ad arricchire la raccolta non potevano mancare partiture tratte

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da due codici musicali del XIII secolo. In primis, il Codice Cantorino di Reims, manoscritto di fattura francese, conservato presso il Sacro Convento di Assisi, donato alla basilica di S. Francesco dal cardinale Matteo Rosso Orsini nel 1279, in occasione della sua elezione a protettore dell’Ordine. Si tratta di una raccolta di brani – qui ne vengono proposti cinque – che nel loro linguaggio compositivo rivelano una pratica polifonica primitiva, a due/tre voci, che si alterna a monodie liturgiche. L’altro grande protagonista è il Laudario di Cortona (metà del XIII secolo) appartenuto alla confraternita di Santa Maria della Laude della chiesa di S. Francesco a Cortona, anch’esso testimone di grande importanza

Gloriosus Franciscus The Music for St. Francis from the 13th to the 16th Century Anonima Frottolisti Tactus (TC 250001), 1 CD www.tactus.it in quanto contenente il primo repertorio conosciuto in lingua vernacolare. I brani del Laudario si caratterizzano per l’andamento schiettamente sillabico-musicale, aprile

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lontano da forme virtuosistiche, presentando testi nel popolare metro ottonario che ritroviamo nei due celebri ascolti proposti nell’antologia: Sia lodato San Francesco e Laudar vollio per amore.

Polifonia solenne Accanto a questi illustri testimoni «francescani» non potevano mancare i quattro brani del Proprium (introitus, graduale, alleluia e communio) della Missa sancti Francisci, tratti da un manoscritto quattrocentesco conservato a Trento, il cui stile ci riporta alla solenne polifonia fiamminga quattrocentesca.

Legati alla figura di Francesco sono quindi il Francisce Pater Pie, proveniente dal quattrocentesco Laudario Giustinianeo (Biblioteca Marciana di Venezia, Ms. IX, 145), il Franciscus ut in pubblicum, monodia tratta dall’Antifonario del fondo antico della cappella della basilica di Assisi, mentre al XVI secolo ci riconducono gli anonimi O San Francesco, dolce padre mio e Laudiam con gran fervore di Serafino Razzi. Passando da momenti musicali nei quali la semplicità melodica si sposa con un profondo senso religioso, ad altri polifonicamente piú complessi, ma altrettanto espressivi, l’antologia

dell’Anonima Frottolisti offre un piacevole spaccato sulla percezione della figura di san Francesco che ha stimolato in egual misura sia la vena musicale piú popolare che quella colta. Egregio è il lavoro dei tre ideatori del progetto, Massimiliano Dragoni, Luca Piccioni, Emiliano Finucci, che, insieme agli altri componenti del gruppo, si cimentano in varie combinazioni vocali-strumentali (liuto, organo, viella, dulcimelo, salterio, tromba, bombarda, ecc.) offrendo un ricco e stimolante ascolto nel rispetto delle prassi esecutive dei periodi coinvolti. Franco Bruni

Lo scaffale Arsenio Frugoni Incontri fra Medioevo e Rinascimento

a cura di Chiara Frugoni, Scholé, Brescia, 136 pp.

12,50 euro ISBN 978-88-284-0005-9 www.morcelliana.net

«Si potrebbe dire di alcuni libri come di certi uomini: li incontri dieci volte ed è come niente; poi un giorno te li senti dentro, che ti pare di aver passato il tuo tempo soltanto per aspettar loro». Cosí lo storico Arsenio

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Frugoni (1914-1970) ben sintetizza quel che ci rimane dentro, terminata la lettura dei suoi otto brevi saggi. Nonostante siano passati sessant’anni dalla prima pubblicazione, personaggi come Cola di Rienzo e Veronica Gambara acquistano una familiare profondità mai conosciuta prima. La figlia dell’autore - la storica del Medioevo Chiara Frugoni - ha curato la raccolta arricchendola di immagini e di ricordi che risultano utilissimi per comprendere meglio non solo i particolari dei protagonisti dei saggi, ma anche la personalità dei due storici. Nello scritto dedicato a Cola di Rienzo, l’Anonimo romano, che ne fu il

biografo, lo paragona, per la sua grassezza, «a muodo di un abate asiano». Alla domanda di Chiara diciassettenne su che cosa intendesse l’Anonimo, Arsenio Frugoni spiegò: un «Budda felice»; la sua immagine è riportata nel saggio. Un altro personaggio storico che assume un nuovo aspetto è quello di Veronica Gambara che durante i turbolenti pranzi di famiglia avrebbe suscitato una lunga discussione fra i due studiosi. Arsenio esalta della signora di Correggio le doti di gestrice del piccolo Stato ricevuto in eredità dal marito, oltre alle sue innegabili capacità di poetessa, senza dimenticare, però, che i testimoni dell’epoca ne sottolineavano la

scarsa avvenenza. Chiara ne rimarca la capacità di fare fronte con grande determinazione alle innumerevoli incombenze politiche, familiari e letterarie e conclude, con affettuosa polemica, che mai di un uomo con tali variegate doti si sarebbe ricordato l’aspetto fisico. La raccolta si apre con un piccolo gioiello: Storia di un giorno in una città medievale fra l’XI e il XII secolo, ma anche prima e dopo, come fa notare il Frugoni. Questo racconto, cosí ricco di dettagli, permette di immergersi totalmente nell’atmosfera dell’epoca, come se anche noi ci trovassimo fra gli abitanti di quella città. Molto bello è il

commento al diario di bordo di Cristoforo Colombo che rivela le sue ansie, il suo coraggio, la sua tempra, ma anche i piccoli sotterfugi nel non fare disperare i marinai impazienti di vedere la terra all’orizzonte, segnando ogni giorno meno percorso di quello realmente compiuto. Per questa capacità di cogliere il particolare rivelatore, lo storico bresciano rivela con pochi tratti la psicologia dei protagonisti senza però giudicare, ma cercando in primis le ragioni del loro

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale comportamento, partendo a volte anche da quanto da loro solo accennato. Come sostiene la curatrice, la scelta dei saggi «sta nel fatto che, messi di nuovo a disposizione del lettore possono essere considerati, ciascuno, un’illuminante introduzione a opere molto belle che forse senza questo suggerimento non verrebbe in mente di cercare, opere ancora presenti sul mercato librario e che una volta fra le mani, dopo la lettura di Incontri fra Medioevo e Rinascimento certamente saranno gustate ed intese meglio». Corrado Occhipinti Confalonieri Francesco Danieli Casaranello e il suo mosaico Per aspera ad astra

Edizioni Esperidi, Monteroni di Lecce, 108 pp., ill. col. s.i.p.

ISBN 978-88-94857-42-9

www.edizioniesperidi.com

Il volume è uno degli esiti di «Touch Casaranello», progetto di recupero e valorizzazione della chiesa di S. Maria della Croce a Casarano, nota anche come Casaranello. Iniziativa degna di nota, che ha riportato all’attenzione

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un monumento di notevole interesse nell’ambito dell’architettura e dell’arte dei primi secoli del cristianesimo. E dire che la chiesa, fino a poco piú di cento anni fa, versava in condizioni assai precarie: ormai non piú officiata e caduta in abbandono, era stata adibita a ricovero di animali, come poté constatare nel 1907 lo studioso tedesco Arthur Haseloff. Il quale, tuttavia, si rese conto del valore del sito e ne avviò la riscoperta, pubblicando i primi studi sul complesso e sui suoi mosaici. Dopo di lui, si ebbero ulteriori e importanti ricerche e, soprattutto, furono avviati gli interventi di restauro che hanno permesso a S. Maria della Croce di conservarsi fino ai nostri giorni. Il volume ripercorre l’intera vicenda e, dopo il capitolo dedicato alle pitture murali, esamina appunto le decorazioni musive, unanimemente considerate come l’elemento di maggior interesse della chiesa. Realizzati entro la prima metà del VI secolo, forse da maestranze efesine dirette a Ravenna e che avrebbero fatto

tappa a Casarano dopo essere sbarcate a Otranto, i mosaici sono stati a lungo interpretati come composizioni di tipo geometrico. Ora invece, come viene ampiamente argomentato nel libro, si tende a leggervi allusioni a temi di carattere religioso: in particolare, il ciclo della medusa costituirebbe la rappresentazione dell’anima del credente. Una lettura affascinante, sostenuta, va detto, da un corredo fotografico di qualità eccellente. Stefano Mammini Maria Stelladoro Vita di Santa Marina, la monaca vestita da uomo

Graphe.it Edizioni, Perugia, 84 pp.

14,90 euro ISBN 978-88-9372-056-4 www.graphe.it

Maria Stelladoro indaga i modelli agiografici orientali della santa travestita da uomo e della martire e lo fa prendendo le mosse da santa Marina di Bitinia e da santa Marina-Margherita di Antiochia. Le loro vicende, come è tipico di queste narrazioni, contengono spesso elementi quasi favolistici,

ISBN 978-88-3339-085-7 www.pisauniversitypress.it

la cui ricorrenza è forse l’indizio piú evidente della loro natura di stereotipi. Invenzioni che, tuttavia, non impedirono il sorgere di sentimenti devozionali profondi e forse ne furono il motore primo, assieme ai miracoli di volta in volta attribuiti ai personaggi in questione. E si trattò, del resto, di modelli di notevole successo, come prova la ricca serie di personaggi che la stessa autrice ricorda nel volume, la cui vita è segnata da episodi assai simili, quando non addirittura identici. Al di là degli aspetti religiosi, quindi, il saggio può leggersi soprattutto come un excursus di carattere letterario, su quello che fu un vero e proprio «genere». S. M. Thietmar di Merseburg Cronaca introduzione e traduzione di

Matteo Taddei, presentazione di Mauro Ronzani, appendice di Paolo Rossi, Pisa University Press, 366 pp.

20,00 euro

Vescovo della diocesi di Merseburg dal 1009 al 1019, Thietmar riportò in questa Cronaca i fatti avvenuti fra il tempo di Enrico II, l’Uccellatore, duca di Sassonia e poi re dei Franchi Orientali, e quello di Enrico II, incoronato imperatore a Roma nel 1014. In otto libri riassunse una fase storica di particolare rilevanza, che fece registrare l’ascesa della casata degli Ottoni, iniziata

appunto dal ducato di Sassonia. Questa nuova edizione del testo ha il merito d’essere stata ideata anche per i non addetti ai lavori e, con il contributo dei ricchi apparati proposti nell’Appendice, permette di ripercorrere un’epoca decisiva nella storia della Germania e dell’Europa. S. M. aprile

MEDIOEVO



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