Medioevo n. 264, Gennaio 2019

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«Q IL UI MI NT ST O ERO VA D NG EL EL O»

MEDIOEVO n. 264 GENNAIO 2019

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SOMMARIO

Gennaio 2019 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE Come il pozzo di San Patrizio

Un predicatore di successo

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RESTAURI Al suono di sette campane

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INCONTRI Appuntamento in piazzetta

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MOSTRE Nell’isola di Alfredo

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APPUNTAMENTI Medioevo Oggi Un maggiordomo per il patrono Vichinghi per un giorno L’Agenda del Mese

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MULTIMEDIALITÀ Dallo stilo al mouse

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di Federico Canaccini

44 COSTUME E SOCIETÀ ICONOGRAFIA Il lavoro Ritorno al Paradiso

di Corrado Occhipinti Confalonieri 52

62 LUOGHI ARTE DELLE ANTICHE CHIESE/2 Valle d’Aosta Tesori sotto i tetti di Furio Cappelli

LETTERATURA RELIGIOSA Anonimo piemontese di Alessandro Bedini

62

CALEIDOSCOPIO

De Imitatione Christi

44

MUSICA Evviva gli sposi!

113

LA CONDIZIONE FEMMINILE

34

34

111

Dossier

STORIE BATTAGLIE Rouen Piú delle armi poté la fame

LIBRI Capolavori accademici

CARTOLINE Francesco è (forse) stato qui 104

Rompere il silenzio di Isabelle Chabot

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«Q IL UIN MIS TO TER VA O D NG EL EL O»

MEDIOEVO n. 264 GENNAIO 2019

MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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17/12/18 17:29

MEDIOEVO Anno XXIII, n. 264 - gennaio 2019 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Isabelle Chabot è professore associato di storia medievale all’Università degli Studi di Padova. Francesco Colotta è giornalista. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Corrado Occhipinti Confalonieri è cultore di materie storiche. Stefania Romani è giornalista. Corrado Valente è architetto. Tiziano Zaccaria è giornalista. Illustrazioni e immagini: Bridgeman Images: copertina (e pp. 44/45) e pp. 47, 48/49 – Doc. red.: pp. 5, 6/7, 8 (basso), 11, 22-23, 41 (alto), 58, 62/63, 65, 74 (alto), 74/75, 76, 78, 86-87, 89, 90, 92, 96-101, 103, 107 – Cortesia degli autori: pp. 6, 7, 8 (alto), 9, 10 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 12-15 – Cortesia Scriptorium Foroiuliense: pp. 16-18 – Cortesia British Library/Bibliothèque nationale de France: pp. 19-21 – DeA Picture Library: p. 40; M. Seemuller: pp. 34/35, 41 (basso) – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 36-37, 50-51, 61, 80-83, 85, 88, 102; Erich Lessing/ Album: pp. 38, 77, 84 (basso); Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 46; Leemage: pp. 53, 91, 94/95; AGE: p. 54 (e particolare a p. 55, in alto); Electa/Paolo e Federico Manusardi: p. 56 (alto); Electa: p. 73; Album/ Fine Art Images: p. 74 (basso); Album/Prisma: pp. 79, 92/93; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: p. 84 (alto) – Getty Images: Universal History Archive: p. 39 – Shutterstock: pp. 55 (basso), 59, 64 – Cortesia Corrado Occhipinti Confalonieri: pp. 56 (basso), 57, 60 – Cortesia Furio Cappelli: pp. 63, 66, 67 (basso), 68-71 – Cortesia Corrado Valente: pp. 104, 104/105, 105 (basso), 106, 108-110 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 39, 65, 105.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Vanità (particolare), olio su tela di Simon Renard de Saint-André. 1650 circa. Collezione privata.

Nel prossimo numero orosio «l’arabo»

Uno storico romano alla corte dei califfi

itinerari

Ferrara medievale

l’arte delle antiche chiese/3

Milano. S. Lorenzo e S. Ambrogio


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Un predicatore di successo

«E

ssere come il pozzo di san Patrizio» significa non avere fondo. Ma questo pozzo profondissimo può essere interpretato in due modi opposti. Oggi l’espressione si usa perlopiú per indicare una persona insaziabile, un uomo o un qualcosa che non ne ha mai a sufficienza, che inghiotte tutto ciò che viene profuso per lui, senza che chi si affanna riesca mai a ottenere alcun risultato soddisfacente. In realtà, l’espressione può anche significare un pozzo inesauribile, ma da cui si potrà attingere acqua all’infinito, stando dunque a significare una riserva di beni senza fine. Questo modo di dire nasce da una leggenda di origine irlandese, legata a san Patrizio, patrono dell’isola verde. Nato in Britannia intorno al 385, Patrizio sarebbe stato catturato dai pirati e portato sui mercati irlandesi per essere venduto come schiavo. Dopo essere riuscito a fuggire, tornò in Irlanda come predicatore del Vangelo, ottenendo enorme successo, nonostante i numerosi ostacoli creati dagli eretici pelagiani e dalla iniziale ritrosia dei clan irlandesi, per lo piú ancora pagani. Nella Station Island, un’isoletta del Lough Derg (lago di Derg), nel Munster, si trova una caverna nota come «il pozzo di san Patrizio»: si narrava che il cunicolo fosse stato scavato dal santo per ritirarvisi in preghiera e in penitenza, lontano da tutto e da tutti. Ma la leggenda vuole che la grotta fosse nientemeno che l’ingresso del Purga-

torio: occorre subito chiarire che ai tempi di san Patrizio, l’idea del Purgatorio era ben lontana dal nascere, essendo stata elaborata tra il XII e il XIII secolo. Non a caso questa leggenda venne diffusa dal cistercense Enrico di Saltrey, vissuto alla fine del 1100, rielaborata in forma letteraria nel Tractatus de Purgatorio Sancti Patricii e dagli storici Matteo Paris e Maria di Francia. Quanti avevano il coraggio di entrare nella grotta, trascorrervi un giorno e una notte, ottenevano automaticamente la remissione di tutti i peccati commessi (concetto, anch’esso, molto piú tardo). Lo ricorda anche Ludovico Ariosto nell’Orlando Furioso (X, 92), quando scrive che «Il santo vecchiarel fece la

cava, in che tanta mercé par che si truove, che l’uom vi purga ogni sua colpa prava». La tradizione cronachistica vuole che dei tanti che vi entravano, solo pochi riuscivano a uscirne illesi (e perdonati): ma proprio da questa sua duplice natura (infinita profondità, e luogo dispensatore di indulgenza plenaria) si sono originati i due significati contraddittori. Mappa seicentesca della Station Island (Lough Derg, Irlanda), nella quale sono indicati il «Pozzo di san Patrizio» (Caverna Purgatory) e le strutture penitenziali edificate sull’isola, il cui sottosuolo era considerato sacro fin dai tempi pagani, perché ritenuto residenza dei maghi Tuatha, un leggendario popolo della tradizione celtica.


ANTE PRIMA

Al suono

di sette campane RESTAURI • Grazie agli

interventi eseguiti sulla facciata, la Cattedrale di Lucca ha riacquistato lo splendore originario, frutto dell’opera di maestri attivi fra il XIII e il XV secolo

N

el marzo del 1057, quando fu nominato vescovo di Lucca, Anselmo da Baggio († 1073) trovò l’importante diocesi toscana in pessime condizioni, sia economiche che morali e religiose. Iniziò cosí un duro lavoro di recupero, combattendo contro la simonia e preoccupandosi di incoraggiare la vita monastica; la tenace opera riformatrice continuò anche dopo la sua elevazione al soglio pontificio,

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gennaio

MEDIOEVO


Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae

Nella pagina accanto Lucca. La facciata della Cattedrale di S. Martino, interessata da un recente intervento di restauro. In alto particolari della decorazione della facciata, giocata anche sull’impiego di marmi di colori diversi. L’opera è considerata come una delle migliori espressioni del romanico lucchese. In basso il monumento funebre di Ilaria del Carretto, seconda moglie di Paolo Guinigi, opera di Jacopo della Quercia, custodito nella Sacrestia della Cattedrale lucchese. 1406-1408.

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nel 1061, con il nome di Alessandro II. Il papa, infatti, conservò il seggio episcopale e soggiornò spesso nella cittadina, dove, nel 1070, alla presenza della contessa Matilde di Canossa, ne consacrò la Cattedrale – fondata nel VI secolo da san Frediano e dedicata al santo ungherese Martino –, la cui facciata è considerata uno dei piú significativi esempi di romanico lucchese. Adesso, dopo oltre vent’anni di interventi volti al consolidamento e integrale risanamento della struttura interna, si è concluso anche il restauro delle superfici esterne,

incluso il portico, con una capillare azione di pulitura e di rimozione dei materiali che coprivano i particolari di questo pregevole complesso architettonico e scultoreo.

Sculture duecentesche La facciata, che si presenta asimmetrica, con l’arcata destra piú piccola per l’integrazione del preesistente campanile che ospita sette campane, è decorata con raffinate sculture, risalenti al principio del XIII secolo e firmate da Guidetto Bigarelli da Como, artista attivo anche in altri centri

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ANTE PRIMA

toscani, come Pisa e Pistoia. Piú tardi di qualche decennio sono invece gli ornamenti del loggiato, impreziositi dalla triade cromatica dei marmi bianchi, verde e rosa con episodi della vita di Cristo e rilievi che rappresentano la storia di san Martino e i mesi dell’anno, a significare il tempo che passa e il susseguirsi dei cicli naturali, probabili opere giovanili di Nicola Pisano.

L’enigma che salva la vita Scolpito nel pilastro destro è il labirinto circolare a undici spire, un’immagine molto diffusa in epoca medievale, come cammino simbolico verso Dio, spesso usata per la pavimentazione, come per esempio a Chartres. Fra i pochi esemplari sopravvissuti ai rimaneggiamenti delle epoche successive, reca ancora

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gennaio

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Nella pagina accanto, in alto e in questa pagina, in basso altri particolari della ricca decorazione architettonica della facciata della Cattedrale. In alto due immagini dell’interno della chiesa, nell’area del transetto. Nella pagina accanto, in basso il crocifisso ligneo noto come Volto Santo, la cui realizzazione viene tradizionalmente attribuita

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a Nicodemo, un fariseo, discepolo del Maestro, il quale, insieme a Giuseppe d’Arimatea, aveva deposto il Cristo dalla Croce e desiderava ardentemente raffigurarlo cosí come lo ricordava. Da sempre, la scultura è oggetto di grande venerazione da parte dei Lucchesi e ogni anno, il 3 maggio e il 13 e 14 settembre, viene «vestita» con preziosi paramenti.

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ANTE PRIMA l’iscrizione «Questo è il labirinto che costruí il cretese Dedalo; tutti quelli che vi entrarono vi si persero, eccetto Teseo, grazie al filo di Arianna» (HIC QUEM CRETICUS EDIT. DAEDALUS EST LABERINTHUS. DE QUO NULLUS VADERE. QUIVIT QUI FUIT INTUS. NI THESEUS GRATIS ADRIANE. STAMINE JUTUS). Una leggenda narra che i condannati a morte fossero portati di fronte a questa raffigurazione e chi risolveva l’enigma venisse graziato. Il porticato era spesso occupato dai cambiavalute che facevano affari con i pellegrini diretti a Roma; e un’iscrizione ricorda proprio agli operatori di non truffare i clienti, invitando questi ultimi a chiedere protezione agli ecclesiastici in caso di necessità. Ebbe invece luogo fra Tre e Quattrocento il rinnovamento

interno della chiesa, che presenta forme gotiche, con un delicato cleristorio per far passare luce e aria. Oltre a un gruppo scultoreo raffigurante il santo titolare a cavallo mentre divide il suo mantello con un povero, la Cattedrale custodisce una delle piú note opere del Senese Iacopo della Quercia, eseguita intorno al 1407: la tomba di Ilaria del Carretto, seconda moglie del potente

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A destra la personificazione di Giugno (Iunius) nel ciclo di rilievi della facciata che mostra i mesi dell’anno, forse opera giovanile di Nicola Pisano. In basso ancora un particolare del transetto della Cattedrale, consacrata da papa Alessandro II nel 1070, che di Lucca era vescovo dal 1057 e conservò il titolo anche dopo l’elezione a pontefice.

Paolo Guinigi, signore di Lucca nel primo trentennio del XV secolo.

Con il cagnolino ai piedi Morta di parto a 26 anni, la defunta è rappresentata giacente con un cagnolino ai piedi, simbolo di fedeltà, elementi compositivi di derivazione francese. La raffinata veste che Ilaria indossa è caratterizzata da ampie maniche dai polsini alti e aderenti,

con una cintura stretta sotto il seno, mentre il volto è incorniciato da un soggolo che enfatizza l’elaborata acconciatura con motivi floreali. Riferimenti di gusto tardo-gotico si accompagnano alla tradizione statuaria classica come la marcata plasticità del rilievo e l’iconografia del fregio con i putti reggifestoni che corrono intorno al sarcofago. Stilisticamente riconducibile al Duecento è, invece, il Volto Santo (vedi anche «Medioevo» n. 225, ottobre 2015, on line su issuu. com), conservato in un tempietto marmoreo firmato da Matteo Civitali, artista formatosi nel circolo di Antonio Rossellino a Firenze e influenzato dai maestri fiorentini. Secondo la tradizione, il crocifisso ligneo fu iniziato da Nicodemo e completato miracolosamente, per poi essere portato a Lucca nel 782; l’effigie, molto venerata dai Lucchesi, presenta Cristo coperto da una lunga tunica, al posto del drappo sui fianchi e, durante speciali occasioni, è incoronata, avvolta in un prezioso abito e addobbata con gioielli per essere portata in processione. Mila Lavorini gennaio

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Appuntamento in piazzetta INCONTRI • L’Associazione Ranuccio Bianchi

Bandinelli ha presentato una proposta di legge per la tutela dei centri storici, uno dei patrimoni che piú caratterizzano il tessuto delle città italiane

per la maggior parte chiuso i battenti e al loro posto, con arbitrari cambi di destinazione d’uso, hanno aperto locali per il ristoro dei turisti e della movida notturna. Addio alle tanto decantate «voci dei vicoli», scomparsi i mercati, le botteghe, spopolati i palazzi, siamo pervasi da suoni nuovi, il rumore delle rotelle dei trolley trascinati dai turisti sui vecchi selciati, il vociare assordante, la notte, dei consumatori di bevande alcoliche… Finalmente ecco una proposta di legge che, a cinque anni dal grido

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n occasione del convegno «Il diritto alla città storica» (svoltosi a Roma nello scorso novembre), l’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli ha presentato una proposta di legge per la salvaguardia «dei centri storici, dei nuclei e dei complessi edilizi», alla cui stesura hanno contribuito illustri urbanisti, giuristi ed esperti del patrimonio culturale guidati da Vezio De Lucia (urbanista e presidente dell’Associazione). I centri storici, leggiamo nel primo articolo del documento, «costituiscono la piú ampia testimonianza, materiale e immateriale, avente valore di civiltà, del patrimonio culturale della nazione e la loro tutela è finalizzata a preservare la memoria della comunità nazionale nelle plurali identità di cui si compone e ad assicurarne la conservazione e la pubblica fruizione anche al fine di valorizzare e promuovere l’uso residenziale, sia pubblico che privato, per i servizi e per l’artigianato». Ancora, nell’articolo 2, si ribadisce: «I centri storici sono dichiarati “beni culturali d’insieme”», da proteggere e conservare «con divieto di demolizione e ricostruzione e di trasformazione dei caratteri tipologici e morfologici degli organismi edilizi e dei luoghi aperti, di modificazione della trama viaria storica e dei relativi elementi costitutivi, con divieto altresí di

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gennaio

nuova edificazione anche degli spazi rimasti liberi; sono esclusi gli usi non compatibili ovvero tali da recare pregiudizio alla loro conservazione».

Un mutamento profondo Il cambiamento del nucleo storico delle città d’arte è stato profondo e devastante negli ultimi decenni; piazze, chiese e monumenti civici che dovrebbero essere pubblici, come già denunciato nel 2013 dallo storico dell’arte Tomaso Montanari nel libro Le pietre e il popolo (Minimum fax editore) sono diventati, in nome del turismo di massa, «luna park a pagamento per il divertimento e il tempo libero», sottraendo spazi alla comunità che non ha piú luoghi nei quali potersi confrontare. I residenti sono notevolmente diminuiti, sia per l’aumento dei canoni d’affitto, sia per lasciare spazio a redditizi Bed & Breakfast; anche le botteghe artigiane hanno

Roma in una tavola del Liber chronicorum di Hartmann Schedel. 1493. d’allarme di Montanari, prevede un «ripopolamento dei centri storici e una normativa sulla sospensione dei cambi di destinazione d’uso sia delle abitazioni che delle botteghe». In particolare, l’articolo 5 della proposta di legge esplicita la necessità di un «programma straordinario di ripristino della residenza negli insediamenti storici», con interventi mirati all’utilizzo del patrimonio pubblico immobiliare dismesso (statale, comunale e regionale), e con un ritorno al canone agevolato per le proprietà comunali oltre ad altre misure sulle locazioni di immobili privati. Sul sito dell’Associazione Bianchi Bandinelli (www. bianchibandinelli.it) è disponibile il testo completo della proposta: sarà accolta da chi di dovere? Lorella Cecilia

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ANTE PRIMA

Nell’isola di Alfredo

MOSTRE • Dalla caduta

dell’impero romano e fino alla conquista normanna l’Inghilterra fu dominata dai regni anglosassoni. Una vicenda lunga sei secoli, ora ripercorsa dalla ricca rassegna allestita alla British Library di Londra, impreziosita da alcune importanti presenze «italiane»...

A

gli inizi del V secolo, nel quadro del piú generale declino dell’impero romano, il filo che legava la Britannia a Roma andò rapidamente assottigliandosi, fino a spezzarsi. Complice il ritiro delle stesse truppe che l’ormai ex superpotenza teneva di stanza sull’isola, l’esistenza della provincia creata nell’ormai lontano 43 d.C. poteva dirsi conclusa. Aveva cosí inizio una fase nuova, destinata

a caratterizzare il destino dell’Inghilterra fino al fatidico 1066, anno in cui un nuovo conquistatore, Guglielmo, duca di Normandia, ne acquisí il controllo, all’indomani della vittoriosa battaglia di Hastings. I seicento anni che separano i due eventi sono ora raccontati alla British Library di Londra da un’esposizione che ripercorre le vicende succedutesi nell’arco di quei secoli attraverso una ricca selezione di materiali. Protagonisti principali della mostra sono i manoscritti – per i quali, oltre al patrimonio della British Library stessa, si è fatto ricorso a molti In alto pergamena del testamento di una nobildonna di nome Wynflaed. X-XI sec. Londra, British Library. A sinistra il Gioiello di Alfred (Alfred Jewel), in oro, cristallo di rocca e smalti, rinvenuto nel Somerset nel 1693. IX sec. Oxford, Ashmolean Museum.

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Qui sotto pagina di una raccolta nota come Meraviglie dell’Oriente, scritta in inglese antico, forse a Winchester. XI sec. Londra, British Library. La vignetta di destra raffigura un membro della leggendaria popolazione dei Blemmi, esseri senza testa, con occhi e bocca che si aprivano nel torace.

Qui sopra vignetta raffigurante l’arcangelo Michele in lotta con il drago, dal Tiberius Psalter. XI-XII sec. Londra, British Library.

prestiti eccellenti –, affiancati da importanti reperti archeologici e opere d’arte. Il progetto espositivo ha infatti inteso ricostruire il contesto storico e culturale compreso fra il V e l’XI secolo a partire innanzitutto dal ruolo chiave giocato dalla letteratura, senza però tralasciare l’altrettanto importante contributo fornito dalla produzione artistica e artigianale.

L’avvento dei regni L’insieme di questi materiali costituisce al tempo stesso il riflesso dell’evoluzione degli assetti geopolitici: come evoca il titolo della

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mostra, i territori britannici, dopo essere usciti dall’orbita romana, videro affermarsi vari regni, la cui organizzazione non assunse quasi mai i caratteri tipici di tali organizzazioni statuali, ma fu comunque un passo Particolare di una pagina del Vercelli Book (o Codex Vercellensis), un’antologia in versi e in prosa redatta in inglese antico alla fine del X sec. Vercelli, Biblioteca Capitolare.

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ANTE PRIMA

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DOVE E QUANDO

«Regni anglosassoni: l’arte, la parola, la guerra» Londra, The British Library fino al 19 febbraio Orario lu, 9,30-18,00; ma, 9,30-20,00; me-ve, 9,30-18,00; sa, 9,3017,00; do, 11,00-17,00 Info www.bl.uk In alto, a sinistra pagina dell’Harley Psalter in cui, prima del testo, è raffigurato Dio che, dal cielo, osserva gli uomini, «fabbricatori di ingiustizia», alcuni dei quali si stanno battendo. XI sec. Londra, British Library. In alto, a destra croce pettorale in oro con granato (?) al centro, facente parte del tesoro rinvenuto nel 2009 nello Staffordshire (Inghilterra). VIII sec. Birmingham, Birmingham Museum and Art Gallery-Potteries Museum and Art Gallery. Nella pagina accanto miniatura che ritrae il profeta Ezra, dalla Bibbia Amiatina (Codex Amiatinus). VIII sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

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importante verso la nascita della Corona d’Inghilterra. Dal punto di vista culturale, il fenomeno piú rilevante fu la diffusione della lingua inglese, che per la prima volta cominciò a essere utilizzata e trascritta. Un’innovazione che la mostra racconta attraverso quattro documenti di straordinaria importanza: il manoscritto dell’XI secolo contenente i 3183 versi del Beowulf, il poema epico che narra le imprese dell’eroe omonimo; il Vercelli Book, che torna in Inghilterra grazie al prestito concesso dalla Biblioteca Capitolare di Vercelli; l’Exeter Book e il Junius Manuscript. Dall’Italia ha raggiunto Londra anche la Bibbia Amiatina (o Codex Amiatinus), una versione in lingua latina del libro sacro realizzata su commissione dell’abate Ceolfrith nel monastero

di Wearmouth-Jarrow (Inghilterra nord-orientale) agli inizi dell’VIII secolo e portata in Italia nel 716, affinché venisse donata al neoeletto papa Gregorio II. Accordandone il prestito, la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze ha cosí permesso che l’opera tornasse per la prima volta «a casa» a oltre 1000 anni dalla sua creazione. Come accennato, accanto a questi e altri giganti della letteratura medievale, spiccano materiali archeologici altrettanto eccezionali: basti pensare al Gioiello di Alfred (Alfred Jewel) o a uno dei preziosi manufatti appartenenti al tesoro trovato nello Staffordshire nel 2009, che fanno bella mostra di sé nel percorso espositivo e sono ormai vere e proprie icone dell’epoca dei regni anglosassoni. Stefano Mammini

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ANTE PRIMA

EDIOEVO MOGGI

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L

e competenze e i segreti degli amanuensi rivivono nel Castello di Ragogna (Udine), che torreggia su uno sperone, controllando il guado del Tagliamento e la pedemontana friulana dal VI secolo. La struttura fortificata – con mastio, cortile interno, mura di cinta e porta settentrionale –, accoglie l’Opificium librorum, la cui attività è gestita dallo Scriptorium Foroiuliense, nato nel 2012 come associazione culturale vocata al recupero della calligrafia e dei mestieri legati al libro. Racconta Roberto Giurano, direttore dello Scriptorium: «Abbiamo iniziato copiando in gotico un testo regalato al pontefice dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, un Vangelo secondo Matteo in lingua friulana. L’anno successivo abbiamo registrato un exploit di visite e, da allora, hanno partecipato ai nostri laboratori oltre 1000 persone di età diverse, provenienti da tutto il mondo». Giurano prosegue spiegando che «l’attività è partita al Castello, dove inizialmente mostravamo il lavoro di scrittura caratteristico del Medioevo, poi via via abbiamo riprodotto tutte le fasi che portano alla creazione di un manoscritto o di un libro, occupando all’interno del museo spazi sempre piú ampi, nei quali i visitatori vengono accolti da figuranti in abiti d’epoca. In questi

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anni, sono passati da noi 30 000 studenti di ogni ordine, dalle elementari alle superiori, e per il 2019 abbiamo già prenotazioni per oltre 2000 ragazzi». Nel Castello di Ragogna si svolgono ora visite guidate e dimostrazioni sul procedimento dal quale nasce un testo: dalla confezione della carta fatta a mano alla miniatura, realizzata con penna d’oca e inchiostri naturali.

Un volano per il turismo locale I corsi di grafia e legatura si svolgono invece a San Daniele del Friuli (Udine), dove vengono prodotti anche oggetti di nicchia, come agende o armi personalizzate da motivi cesellati. I progetti museali sono seguiti da uno staff poliglotta di sei persone, impegnate stabilmente nell’Associazione che, forte del riscontro finora ottenuto, può fungere da volano per il turismo locale. Negli anni le iniziative dello Scriptorium si sono moltiplicate: il gruppo friulano è stato per tre volte al Salone del Libro di Torino e ha partecipato con Sulle due pagine Ragogna (Udine). Due vedute del Castello, che ospita le attività dell’Opificium librorum.

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ANTE PRIMA

In alto e a destra replica sperimentale della tecnica di scrittura basata sull’impiego della penna d’oca.

Qui sopra uno dei corsi organizzati dallo Scriptorium Foroiuliense. In basso lo stand allestito dall’associazione friulana in occasione di una delle manifestazioni a cui ha recentemente partecipato.

un laboratorio mobile a grandi eventi, come Expo Milano 2015, registrando nel Padiglione Italia 20 000 visitatori in una settimana. Inoltre ha preso parte al festival medievale di Kalamazoo, nel Michigan, fra gli appuntamenti sull’età di Mezzo piú prestigiosi a livello internazionale. L’Opificium partecipa poi a rievocazioni, con figuranti in costume e tamburini. Ma non è tutto, perché per workshop e seminari gli studiosi che lavorano con Roberto Giurano hanno inaugurato due nuove sedi a Roma, presso la libreria antiquaria Gutenberg al Colosseo, e a Venezia, al piano nobile di Palazzo Gradenigo, e hanno in programma altre aperture a Firenze e Reggio Calabria.

Scrivere per il sociale In cantiere ci sono altri due progetti, particolarmente ambiziosi, come sottolinea il direttore della Scuola Italiana Amanuensi: «Il primo è una collaborazione con varie carceri del Triveneto, per insegnare un nuovo lavoro ai detenuti, in modo che una volta acquisite le competenze necessarie si possono associare in cooperative. Stiamo quindi lavorando a uno studio sull’attenuazione dei DSA (disturbi specifici dell’apprendimento), tramite l’esercizio della grafia medievale, con il dipartimento di ingegneria e biomeccanica dell’Università di Udine, che approfondisce i movimenti mano-braccio, per applicarli alla robotica e alla riabilitazione». Info: www.scriptoriumforoiuliense.it Stefania Romani

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Dallo stilo al mouse MULTIMEDIALITÀ • Una significativa selezione dell’inestimabile patrimonio

custodito dalla Bibliothèque nationale de France e dalla British Library è on line. E cosí la rete si sostituisce agli amanuensi nella trasmissione di un sapere antico

L

a scelta di uscire dall’Unione Europea sembra avere resuscitato anche plasticamente l’isolamento dell’Inghilterra, ma non per questo vengono meno iniziative di segno opposto, come nel caso del progetto «Manoscritti medievali», realizzato dalla Bibliothèque nationale de France di Parigi e

Pagine appartenenti a due delle opere ora disponibili on line grazie al progetto realizzato dalla Bibliothèque nationale de France e dalla British Library, con il patrocinio della Fondazione Polonsky: si tratta di due edizioni della Bibbia, rispettivamente conservate a Parigi (in alto; MS Latin 116) e Londra (Cotton Caligula A. VII).

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ANTE PRIMA

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XII secolo e contenente una delle prime rappresentazioni del martirio del santo stesso; i due volumi della monumentale Bibbia di Chartres (XII secolo); o, ancora, lo splendido Salterio di Canterbury, che prende nome dalla città in cui fu redatto e offre il testo dei Salmi in tre lingue: latino, francese e inglese. Sul valore del progetto, significative sono le parole di Kathleen Doyle, della British Library: «Speriamo che la possibilità di consultare liberamente i manoscritti diffonda la consapevolezza di quanto stretti In alto l’homepage del sito web manuscrits-franceangleterre.org, parte delle cui informazioni sono disponibili anche in lingua italiana. A sinistra una pagina del Salterio Anglo-Catalano. 1200 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Le vignette illustrano episodi narrati nel Libro della Genesi. Nella pagina accanto capolettera miniato raffigurante Davide che decapita Golia, dal Salterio di Eadwig. 1012-1023. Londra, British Library.

della British Library di Londra, con il patrocinio della Fondazione Polonsky, un’organizzazione inglese che sostiene la valorizzazione del patrimonio culturale e della ricerca. Grazie alla rete, infatti, le due prestigiose istituzioni hanno messo liberamente a disposizione un ricchissimo patrimonio, composto da ben 800 manoscritti, databili fra l’VIII e il XIII secolo, attraverso il quale si vuole almeno simbolicamente cancellare il fatidico canale della Manica e offrire una testimonianza concreta dei rapporti che intercorsero fra Francia e Inghilterra nel periodo in questione.

Facili da consultare L’attivazione del sito www. manuscrits-france-angleterre.org ha coronato un progetto sviluppato nell’arco di due anni, al termine del quale le opere scelte (circa 400 per ciascuna delle due bibioteche) sono state integralmente digitalizzate e preparate per la consultazione. Una consultazione, peraltro, assai agevole e che, almeno per quanto riguarda le fasi essenziali della navigazione, è disponibile anche in lingua italiana. I manoscritti vengono «sfogliati» a partire dall’infrastruttura Gallica marque blanche, con l’ausilio del visualizzatore Mirador, già sviluppata e sperimentata dal progetto «BnF Gallica», che offre la possibilità di compiere varie operazioni, come

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per esempio ingrandimenti delle pagine, annotazioni o anche confronti fra uno e piú titoli. Nel novero dei materiali attualmente disponibili possiamo ricordare, fra gli altri, una raccolta di lettere di san Tommaso Beckett, composta nel

furono i rapporti politici e culturali tra Francia e Inghilterra, in un periodo in cui gli scribi si muovevano da un Paese all’altro, redigendo in latino, francese e inglese opere di bellezza ed eleganza insuperate». S. M.

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ANTE PRIMA

Un maggiordomo per il patrono APPUNTAMENTI • Ad Acehuche, nell’Estremadura,

si rinnovano le celebrazioni in onore di san Sebastiano, animate da personaggi dall’aspetto grottesco e terribile

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in dal Medioevo ad Acehuche, villaggio spagnolo nella provincia di Cáceres (Estremadura), non molto distante dalla capitale, viene celebrata ogni anno, il 20 e 21 gennaio, la figura del patrono, san Sebastiano. Soldato dell’esercito romano vissuto nel III secolo, Sebastiano fu condannato al martirio per non aver rinnegato la fede cristiana. Il maggiordomo della festa è incaricato di sostenere le spese, come si dice popolarmente, «per servire il Santo», una circostanza che si deve generalmente a una promessa fatta a san Sebastiano in cambio di un favore assegnato. La festa inizia già nella mattinata del 19 gennaio, quando da una località di campagna nei pressi del paese parte un corteo religioso con tutti i fedeli, il cui arrivo ad Acehuche è annunciato dai fuochi artificiali e dal rintocco delle campane della chiesa cittadina. Al crepuscolo dello stesso giorno, molti giovani del paese si recano in pellegrinaggio nel luogo noto come «Gorrón Blanco», situato a un chilometro dal villaggio, dove l’ambiente è animato dal tamborilero, un personaggio che suona il flauto e il tamburo. All’alba del 20, fra i fuochi artificiali che annunciano l’arrivo della festa,

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In questa pagina e nella pagina accanto, a sinistra alcune immagini della festa in onore di san Sebastiano, che ogni anno anima la cittadina spagnola di Acehuche, nella provincia di Cáceres. il tamborilero e il maggiordomo sono incaricati di svegliare tutti coloro che devono vestirsi da carantoña. Si tratta di un costume folcloristico il cui termine deriva da carátula, termine che indica una «maschera di cartone dall’aspetto orribile e mortifero».

Nella casa del maggiordomo avviene il rito della vestizione dei carantoña, che indossano pelli di pecora o capra strette da una cinghia e una maschera mostruosa.

Canti, balli e spari a salve Altri personaggi della festa sono le regaoras, ragazze che indossano il vestito tipico locale e che danno colore con canti e balli, e i tiraores, gruppi di ragazzi che con i loro fucili sparano a salve in aria durante il corteo. Le carantoñas, le regaoras, i tiraores, il tamborilero e tutta la cittadinanza si riuniscono in prossimità del domicilio del maggiordomo alle 10,30, per poi raggiungere la chiesa paesana. Dopo canti ed elogi a san Sebastiano, gennaio

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dalla chiesa parte la processione per il paese con in testa la statua del patrono, scortata dalle regaoras, che cantano durante il percorso. I tiraores aspettano in piccoli gruppi negli angoli del paese e, all’arrivo della processione, fanno esplodere gli spari a salve. Durante il corteo una trentina di carantoñas precedono il santo e, in fila per due, ogni tanto gli fanno una riverenza, emettendo una sorta di grido selvaggio con in mano un ramo di olivo selvatico detto «tárama», mentre il popolo canta inni che esaltano la figura

Vichinghi per un giorno N

del patrono. Il 21 gennaio, data in cui, secondo il calendario cristiano, si celebra san Sebastiano, la festa trascorre uguale al giorno precedente, ma, come variante, un secondo maggiordomo si incarica di servire il santo. Non si conoscono con certezza le origini di questa celebrazione, né il significato esatto dei suoi personaggi. Tuttavia, secondo una leggenda, anticamente la zona vicina fu colpita da un’epidemia di peste e gli abitanti di Acehuche si raccomandarono a san Sebastiano affinché il morbo non giungesse nel loro paese. E siccome ciò accadde, lo nominarono patrono e iniziarono a fare una festa in suo onore. Tiziano Zaccaria

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ell’ultimo martedí di gennaio il villaggio scozzese di Lerwick, nelle isole Shetland, è teatro dell’Up Helly Aa. È l’evento dalle origini vichinghe piú grande e spettacolare delle Isole Britanniche, che celebra la fine della stagione piú fredda. A capo dei festeggiamenti c’è il Guizer Jarl, un «conte» eletto annualmente, che ispira il suo costume a un personaggio leggendario o a un antico eroe. Per essere ammessi alla prestigiosa carica di Guizer Jarl, occorre aver fatto parte del comitato delle feste almeno per quindici anni e mettere a disposizione un budget di circa 3000 euro, da spendere in costumi e armature. Per l’occasione, molti uomini si fanno crescere barba e baffi in modo da somigliare ai guerrieri vichinghi ai quali si ispirano. Vestiti di tuniche nere, blu o scarlatte, con armature luccicanti, elmi e scudi, cinquanta di loro formano la scorta del «conte».

Fuoco alla galea! La giornata inizia alle 10,00 del mattino, quando la squadra del Guizer Jarl porta una nave vichinga dalla piazza del mercato fino al porto, attraversando tutto il centro di Lerwick. Ma il vero spettacolo comincia alla sera, quando gli uomini delle varie squadre cittadine accendono le loro fiaccole. Poi, al suono delle cornamuse e della banda cittadina, si snoda un lungo serpentone con un migliaio di fiaccole da Lower Hillhead fino alla spiaggia e alla nave vichinga, lunga 9 m, dai colori accesi e dalla polena a testa di drago. Gli uomini gettano le torce dentro la nave, che presto è avvolta dalle fiamme e viene ridotta in cenere, mentre tutti intonano The Galley Song, «la canzone della galea». Poi tutta la popolazione di Lerwick si ritrova nei pub cittadini per mangiare, bere, cantare, ballare e divertirsi fino al mattino. Le varie squadre passano di festa in festa, presentando il proprio spettacolo in tema con il costume indossato. Secondo l’Etymological Dictionary of the Scottish Language, il termine «up» è usato nel senso di qualcosa che sta per finire, «helly» si riferisce a un giorno di festa e «aa» significa tutto. T. Z.

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AGENDA DEL MESE

Mostre SANSEPOLCRO PIERO DELLA FRANCESCA. LA SEDUZIONE DELLA PROSPETTIVA Museo Civico di Sansepolcro fino al 6 gennaio

Il progetto espositivo si articola intorno al De prospectiva pingendi, trattato composto da Piero della Francesca intorno al 1475, e ha anche l’obiettivo di illustrare, attraverso

riproduzioni di disegni, modelli prospettici, strumenti scientifici, plaquette e video, le ricerche matematiche applicate alla pittura di Piero della Francesca e la conseguente eredità lasciata ad artisti come Leonardo da Vinci, Albrecht Dürer, Daniele Barbaro e ai teorici della prospettiva almeno fino alla metà del Cinquecento. La mostra vuole inoltre mostrare al pubblico le due anime di Piero: raffinato pittore e grande matematico. Oltre a essere Maestro d’abaco, geometra euclideo, studioso di Archimede, l’artista è stato anche un innovatore nel campo della pittura, poiché per lui, quest’ultima, nella matematica e nella geometria, trovava il suo sostanziale fondamento. I suoi scritti, infine, soprattutto il De prospectiva pingendi,

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a cura di Stefano Mammini

composto in volgare per gli artisti e in latino per gli umanisti, hanno dato inizio alla grande esperienza della prospettiva rinascimentale. info tel. 199 151 121; e-mail: mostre@civita.it; www.museocivicosansepolcro.it VENEZIA IL GIOVANE TINTORETTO Gallerie dell’Accademia TINTORETTO 1519-1594 Palazzo Ducale fino al 6 gennaio

Per celebrare il cinquecentenario del piú veneziano tra gli artisti del Rinascimento, il Tintoretto (al secolo Jacopo Robusti, 15191594), la sua città natale ha elaborato un progetto espositivo che si articola in una rassegna monografica in Palazzo Ducale, centrata sul periodo piú fecondo della sua arte – dalla piena affermazione, verso metà degli anni Quaranta del Cinquecento, fino agli ultimi lavori – e in una grande mostra alle Gallerie dell’Accademia, dedicata ai capolavori del primo decennio di attività e al contesto in cui il pittore avviò il

suo percorso artistico. Alle due esposizioni si affiancano numerose ulteriori iniziative, come quelle proposte dalla Scuola Grande di San Rocco, uno dei siti cardine dell’attività del maestro, custode di cicli pittorici imponenti, e dalla Curia Patriarcale, con le molte chiese che ancora oggi conservano preziose opere del Tintoretto. info www.mostratintoretto.it GUBBIO UN GIORNO NEL MEDIOEVO. LA VITA QUOTIDIANA NELLE CITTÀ ITALIANE DEI SECOLI XI-XV Logge dei Tiratori della Lana fino al 6 gennaio

Le attività economiche, gli stili di vita, le pratiche religiose, gli aspetti culturali e ludici di una città italiana tra il 1000 e il 1500 sono ricostruiti nella mostra allestita presso le Logge dei Tiratori della Lana. In esposizione figura una selezione ricca e articolata di documenti: dalla lettera con cui la figlia di Marco Polo reclama in dote i beni che il padre ha portato dalla Cina a un trattato medico, impreziosito da figure

anatomiche, per fornire consigli su come evitare la peste. Ma anche strumenti utili alla vita di tutti i giorni, dalle armi per difendere la città, ai banchi di commercio e delle attività economiche che si aprivano sulle piazze; e fino agli aspetti piú intimi della quotidianità: dalla dimensione religiosa al letto e alla tavola imbandita per i pasti, agli svaghi e alla musica di una società che sapeva anche gioire e divertirsi. info tel. 075 8682952; e-mail: loggedeitiratori@ fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte.it; www.festivaldelmedioevo.it VENEZIA PRINTING REVOLUTION 1450-1500 Museo Correr fino al 7 gennaio

L’esposizione è il risultato di un grande progetto di ricerca europeo, il 15cBOOKTRADE, che usa i libri come fonte storica: basato all’Università di Oxford, alla British Library, a Venezia, e finanziato dal Consiglio Europeo delle Ricerche, applica le tecnologie

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Venezia Museo Correr 01.09.2018 > 07.01.2019 Sale Monumentali della Biblioteca Marciana 01 > 30.09.2018

I cinquant’anni che hanno cambiato l'Europa

Il libro dei conti di un librario veneziano 1484-88 25,000 libri a stampa venduti con il loro prezzo indicato, 15 anni dopo l’introduzione della stampa nella città che velocemente diventò la più grande produttrice ed esportatrice di libri in tutta Europa

“Scarabocchi, vecchie carte? Questo documento straordinario cambierà la nostra comprensione dell’impatto economico della rivoluzione della stampa” Cristina Dondi

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15cBOOKTRADE Il 15cBOOKTRADE è un progetto diretto da Cristina Dondi all’Università di Oxford, finanziato da una Consolidator Grant del Consiglio Europeo delle Ricerche (2014-19). Ha l’obiettivo di valutare l’impatto sociale ed economico dell’invenzione della stampa a caratteri mobili in Europa (1450) sullo sviluppo della società europea del primo periodo moderno, con un approccio innovativo: esaminando il mezzo milione di esemplari stampati prima del 1501 che ancora sopravvivono oggi in 4000 biblioteche, per la maggior parte in Europa e negli Stati Uniti.

“Il 15cBOOKTRADE è un progetto ambizioso, complesso e ben articolato che avanzerà la ricerca in direzioni che non siamo neppure in grado di predire [...] generalizzazioni e ipotesi saranno sostituite da prove documentate” Valutatori anonimi ERC

“La nascita dell’economia della conoscenza” Financial Times, 9 Gennaio 2018

digitali alle fonti storiche, ampliando la capacità di comprendere la rivoluzione della stampa. La ricerca ha riguardato 50mila di questi libri sparsi oggi tra 360 biblioteche europee e americane con la collaborazione di oltre 130 editor. Attraverso una decina di sezioni, l’esposizione mette in evidenza come nel 1500 in Europa ci fossero milioni di libri, non solo per le élite, come comunemente si ritiene, ma per «tutti», con una vasta produzione per la scuola. La rivoluzione della stampa è una delle colonne portanti dell’identità europea perché si è tradotta in alfabetizzazione diffusa, promozione del sapere, formazione di un patrimonio culturale comune. In quei primi decenni (dal 1450 al 1500) la stampa coincise con la sperimentazione e l’intraprendenza. I libri a stampa furono il prodotto di una nuova collaborazione tra diversi settori della società: sapere, tecnologia e commercio. Anche la Chiesa comprese immediatamente l’enorme potenzialità dell’invenzione e ne divenne precoce promotrice. Le idee si diffusero veloci come mai prima. Ora si è in grado di tracciarne la circolazione

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seguendo il movimento e l’uso dei libri stessi. Info Call center 848 082 000; e-mail: info@fmcvenezia.it, biblioteca@marciana.venezia.sbn.it; www.correr.visitmuve.it, www.marciana.venezia.sbn.it

LA NASCITA DELLA SCULTURA GOTICA. SAINT-DENIS, PARIGI, CHARTRES, 1135-1150 Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 21 gennaio

È un quindicennio davvero cruciale, per la regione dell’Île-de-France, quello documentato dalla nuova mostra allestita al Museo di Cluny: nei grandi cantieri che sono oggetto dell’esposizione – Parigi, Saint-Denis e Chartres – vengono infatti sperimentate soluzioni nuove, che, pur affrancandosi dai canoni del romanico, non possono ancora dirsi

capomastri, scultori e committenti: se, per esempio, l’introduzione dei portali con statue che fungono al tempo stesso da colonne si deve agli scultori che lavorano alla chiesa abbaziale di Saint-Denis, il modello raggiunge la sua piena completezza a Chartres. Nel percorso espositivo che ricostruisce questo fenomeno si succedono poco meno di 150 opere che, oltre a materiali facenti parte della collezione permanente del museo parigino, comprendono importanti prestiti da raccolte europee e statunitensi, nonché opere inedite, fra cui quelle recuperate grazie a recenti indagini archeologiche condotte nella stessa Saint-Denis. info musee-moyenage.fr NEW YORK ARMENIA! The Metropolitan Museum of Art fino al 13 gennaio

pienamente gotiche. Quelle fabbriche tengono a battesimo uno stile embrionale, nel quale si fondono innovazioni tecnologiche e stilistiche. Sono i prodromi della scultura gotica che matura sulla scia dell’emulazione reciproca fra

«Armenia!» si annuncia come uno degli eventi di punta del Metropolitan Museum di New York per la prossima stagione. L’esposizione ripercorre la storia del popolo armeno dal momento della loro conversione al cristianesimo – agli inizi del IV secolo – fino all’epoca in cui ebbero un

ruolo di primo piano nel controllo dei traffici commerciali internazionali, nel XVII secolo. Obiettivo dei curatori della rassegna è quello di sottolineare come gli Armeni abbiano sviluppato una ben definita identità nazionale nella loro madrepatria, ai piedi del Monte Ararat, e come siano stati capaci di conservare e trasformare quelle peculiarità anche quando hanno dato vita alle numerose comunità che si sono insediate in molte regioni del mondo. A tale scopo viene presentata una selezione di poco meno di 150 oggetti e opere d’arte, che comprende reliquiari, manoscritti miniati, tessuti, preziose suppellettili sacre, khachkar (le tipiche croci in pietra), modellini di chiese e libri. Materiali che, per la maggior parte, sono giunti a New York grazie ai prestiti accordati dal Ministero della Cultura della Repubblica d’Armenia e dalla Chiesa armena, in particolare attraverso la Santa Sede di Echmiadzin. Un contributo essenziale si deve anche al Matenadaran, la biblioteca che ha sede a Yerevan, che ha concesso al museo newyorchese alcune delle opere grazie alle quali l’istituzione viene riconosciuta come un autentico santuario

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AGENDA DEL MESE dei manoscritti antichi. info www.metmuseum.org

MOSTRE • Filippo Rusuti e la Madonna di San Luca in Santa Maria

FIRENZE

fino al 27 gennaio info e prenotazioni tel. 06 32810410; www.art-city.it

L’ACQUA MICROSCOPIO DELLA NATURA. IL CODICE LEICESTER DI LEONARDO DA VINCI Gallerie degli Uffizi, Aula Magliabechiana fino al 20 gennaio

Nel Codice Leicester Leonardo da Vinci afferma che è proprio l’acqua a svolgere e aver svolto

da sempre la funzione di motore vero e proprio dell’evoluzione del pianeta: «L’acqua vetturale della natura». Tutto il manoscritto, 36 fogli, 72 pagine, è fitto di appunti, riflessioni, teorie e straordinari disegni per illustrarci i concetti esposti, e la protagonista indiscussa del prezioso testo, acquistato nel 1994 da Bill Gates, è l’acqua. La preziosa opera viene ora esposta a Firenze, a coronamento di un progetto che ha richiesto oltre due anni di preparazione e che presenta apparati tecnologici grazie ai quali è possibile consultare non soltanto il codice leonardesco, ma anche altri

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Roma – Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo

P

rotagonista dell’esposizione è l’icona Madonna con il Bambino, proveniente dalla chiesa di S. Maria del Popolo a Roma, il cui recente restauro ne ha permesso l’attribuzione all’artista duecentesco Filippo Rusuti. L’opera, finora tradizionalmente attribuita all’evangelista Luca e per questo nota come Madonna di San Luca, è una delle immagini piú venerate della storia della città di Roma, come attestano vuoi la fama di «immagine miracolosa» vuoi gli atti ufficiali della storia della Chiesa. La tavola (nello specifico una tela impannata su tre assi in legno di noce) mostra un’immagine di derivazione bizantina – la Vergine è ritratta di fronte, tiene in braccio il Bambino rigidamente eretto, completamente vestito e benedicente – e propone i tratti dell’iconografia tradizionale dell’Odigitria, «colei che mostra la via», cioè Cristo, arricchita però di un diverso pathos, quello dell’affettuosità familiare: la Madre volge il capo verso il figlio, indirizzandogli uno

preziosi fogli vinciani. Oltre alle teche che espongono le pagine originali dei Codici e altri manoscritti preziosissimi, prestati per l’occasione da altre prestigiose istituzioni, grandi pannelli e schermi digitali narrano, anche con animazioni, del volo degli uccelli, dello scorrere dell’acqua dei fiumi e del moto ondoso dai mari, degli effetti delle maree, della luna, delle gocce d’acqua e delle bolle di sapone, del principio della costanza di flusso uguale sia nella confluenza di due fiumi che nell’organizzazione e funzionamento della circolazione sanguigna nell’uomo, del progetto avveniristico del canale navigabile sull’Arno da Firenze al mare, delle macchine per realizzarlo, per azionare una grande gru, per misurare le grandi distanze sul terreno. info www.uffizi.it

TORINO LA SINDONE E LA SUA IMMAGINE Palazzo Madama, Corte Medievale fino al 21 gennaio

Realizzata in occasione della riapertura della restaurata Cappella della Sindone, opera di Guarino Guarini, la mostra è allestita nella Corte

Medievale di Palazzo Madama, suggestivo ambiente fatto edificare da Cristina di Francia nel 1636, dove, sulla parete di fondo, è ben visibile un affresco raffigurante l’Ostensione della Sindone organizzata nel 1642 per celebrare la fine delle ostilità tra la stessa Madama Reale,

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MEDIOEVO


del Popolo sguardo pieno di tenerezza. Il Figlio poggia la mano sinistra su quella della Madre, confermando il suo attaccamento. L’opera si discosta dall’inanimata astrazione delle figure, tipica dell’iconografia dell’epoca, e mostra nella gestualità e nella vivacità cromatica quel carattere d’intimità che sollecita l’empatia del fruitore. L’ultimo e accurato restauro ha portato alla luce parti di firma che si è potuta riconoscere come quella di Filippo Rusuti che firmò, verosimilmente entro il 1297, il monumentale mosaico che ancora orna, in parte nascosto dal loggiato settecentesco, la fascia superiore della facciata della basilica di S. Maria Maggiore.

reggente per il figlio Carlo Emanuele II, e i suoi cognati, il principe Tommaso e il cardinale Maurizio. Il percorso espositivo ripercorre la storia della Sindone e le diverse funzioni delle immagini che l’hanno riprodotta nel corso di cinque secoli, da quando il Sacro Lino fu trasferito da Chambéry a Torino nel 1578, per volere di Emanuele Filiberto di Savoia, fino a oggi. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it

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LONDRA MANTEGNA E BELLINI National Gallery, Sainsbury Wing fino al 27 gennaio

La National Gallery presenta la storia di due artisti, delle loro famiglie e delle loro città; una storia, quella di Giovanni Bellini (attivo tra il 1459-1516 circa) e Andrea Mantegna (1430/1-1506), intrecciata di arte, famiglia, rivalità, matrimonio, pragmatismo e personalità. Grazie a prestiti rari ed eccezionali di dipinti, disegni e sculture, «Mantegna e Bellini» offre un’occasione

unica per confrontare le opere dei due maestri, che erano anche cognati: una connessione familiare dalla quale entrambi hanno tratto la forza e la lucentezza durante la loro carriera. Senza l’altro artista, non sarebbero esistiti né la carriera, né lo sviluppo di entrambi e senza queste opere permeate con la loro creatività e innovazione, non sarebbe esistita l’arte rinascimentale come la conosciamo oggi, quella dei personaggi del calibro di Tiziano, Caravaggio e Veronese. Mantegna e Bellini lavorano per sette anni mantenendo uno stretto dialogo creativo;

sarà questo ciò che i visitatori della mostra saranno in grado di osservare in prima persona attraverso i raggruppamenti chiave dei soggetti rappresentati da entrambi gli artisti. Ispirati dall’esempio dell’altro, entrambi sperimentano e lavorano in modi con cui non erano del tutto familiari allo scopo di affinare le loro capacità artistiche e le identità. Mentre Andrea Mantegna esemplifica l’artista intellettuale, Giovanni Bellini è l’archetipo del pittore paesaggista, il primo che utilizza il mondo naturale per trasmettere emozioni. info www.nationalgallery.org.uk

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AGENDA DEL MESE MILANO TABULA PICTA. DIPINTI TRA TARDOGOTICO E RINASCIMENTO Galleria Salamon fino al 1° febbraio

Da sempre oggetto di un amore appassionato da parte dei collezionisti, i «fondi oro» sono protagonisti della nuova mostra presentata dalla Galleria Salamon. Attraverso 15 dipinti su tavola, tutti databili tra l’ultimo quarto del Trecento e l’inizio del Cinquecento, viene proposto un percorso che si snoda

lungo l’intera Penisola e che parte dal Lazio e dalle Marche, e attraversando la Toscana, approda nel Nord-Est, senza tralasciare la Lombardia. Le tavole documentano un’Italia chiaramente di territori, in cui tutti gli artisti cercano di parlare una stessa lingua pur con inflessioni e sostrati originali e diversi. Ne risulta un importante confronto fra civiltà, che percorre l’intero Quattrocento: un’epoca che, come sosteneva Roberto Longhi, non vede l’irradiazione di una temperie formale da un «centro» verso tante «periferie», come per esempio in Francia, quanto piuttosto la simultanea espressione di lingue differenti. Ciascuna delle 15 tavole rappresenta un capitolo mai

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secondario della storia dell’arte nell’Italia del Quattrocento. info tel. 02 76024638; e-mail: info@salamongallery.com; https://salamongallery.com/ MACERATA LORENZO LOTTO IL RICHIAMO DELLE MARCHE Palazzo Buonaccorsi, Musei Civici di Macerata fino al 10 febbraio

Lorenzo Lotto torna protagonista nelle Marche, sua terra d’elezione. A Macerata, le sale di Palazzo Buonaccorsi, sede del Museo Civico, ospitano una rassegna che riunisce per la prima volta le opere create per il territorio e poi disperse nel mondo o quelle che, per storia e realizzazione, hanno avuto forti legami con le Marche. Un’esposizione di ricerca, per certi versi sperimentale nell’abbinare forza espositiva, supporti multimediali, grandi capolavori, ma anche spunti di ricerca e discussione critica. Una mostra che rivela inediti materiali documentari sull’attività dell’artista e opere mai esposte in precedenti eventi – tra tutti una Venere adornata dalle Grazie di

collezione privata, pubblicata da Zampetti nel 1957 e rimasta all’oscuro per sette decenni –, ma che si completa necessariamente nel territorio marchigiano, ponendosi in stretto dialogo con i lavori lotteschi (25 opere) disseminati nei diversi centri e volutamente lasciati nei siti di appartenenza. Ancona, Cingoli, Jesi, Loreto, Mogliano, Monte San Giusto, Recanati e Urbino danno forma con Macerata a una sorta di mostra diffusa, da vivere insieme alle bellezze artistiche e naturali delle Marche: regione ferita purtroppo dall’ultimo drammatico sisma che ha colpito il Centro Italia, ma che tenacemente sta puntando a valorizzare il suo immenso patrimonio. info biglietteria di Palazzo Buonaccorsi: tel. 0733 256361; e-mail: info@maceratamusei.it, macerata@sistemamuseo.it; www.mostralottomarche.it, www.maceratamusei.it, www.sistemamuseo.it TORINO SFUMATURE DI TERRA CERAMICHE CINESI DAL X AL XV SECOLO MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 10 febbraio

Le preziose ceramiche cinesi selezionate per la nuova mostra presentata dal MAO coprono un arco temporale di cinque secoli. Si tratta perlopiú di eleganti pezzi monocromi databili tra la dinastia Song (960-1279) e la dinastia Yuan (1271-1368), esemplificativi delle produzioni delle maggiori fornaci del periodo. Opere, che, secondo il gusto estetico di quasi tutti gli intenditori e i collezionisti, rappresentano il massimo grado di raffinatezza mai raggiunto dall’arte ceramica in Cina. Al tempo dei Song vennero perfezionati i

processi tecnologici di una delle piú grandi tradizioni ceramiche al mondo. I risultati furono dei manufatti di grande raffinatezza nella forma, piacevolezza tattile della superficie invetriata, consistenza e brillantezza di colori senza precedenti. info tel. 011 4436927; e-mail: mao@fondazionetorinomusei.it; www.maotorino.it; pagina Facebook MAO. Museo d’Arte Orientale LONDRA REGNI ANGLO-SASSONI: L’ARTE, LA PAROLA, LA GUERRA British Library fino al 19 febbraio

La mostra dà voce alle genti anglosassoni attraverso le testimonianze letterarie che di esse ci sono pervenute e che dunque abbracciano un periodo compreso tra la fine della Britannia romana e la conquista normanna dell’isola. Per farlo, la British Library ha riunito una selezione di opere di grandissimo pregio, attingendo ai propri fondi e grazie a prestiti eccezionali. Fra gli altri, si possono cosí ammirare i Vangeli di Lindisfarne, il Beowulf e l’Historia ecclesiastica gentis Anglorum scritta da Beda il Venerabile, ai quali sono affiancati reperti provenienti dal sito di Sutton Hoo e manufatti facenti parte del Tesoro dello Staffordshire. Da segnalare anche la gennaio

MEDIOEVO


presenza del Vercelli Book, un manoscritto redatto in uno scriptorium verso la fine del X secolo, che costituisce una testimonianza fondamentale della produzione poetica in antico inglese. info www.bl.uk

TRENTO DI TERRA E DI FUOCO. IL SAN SEBASTIANO DI ANDREA RICCIO Castello del Buonconsiglio fino al 24 febbraio

A dieci anni esatti dall’importante rassegna monografica che il Castello del

Buonconsiglio dedicò al grande scultore rinascimentale Andrea Briosco, detto il Riccio per la sua capigliatura, il museo presenta una scultura inedita del famoso artista, nato a Trento nel 1470, raffigurante san Sebastiano. Si tratta di un’opera in terracotta realizzata sul finire del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento che, nella tensione del volto, nella modellazione incisiva e grafica dei capelli, nella resa anatomica serrata e precisa del corpo evidenzia i tratti piú tipici del fare del Riccio, artista formatosi come orafo ma divenuto ben presto famoso plasticatore e bronzista, vero protagonista della scultura rinascimentale. Dell’opera, che fino a oggi aveva avuto diverse attribuzioni – da chi la riteneva un lavoro di Antonio o Giovanni Minelli, altri di Giovanni de Fondulis, fino a Domenico Boccaloro, tutti scultori attivi nel Padovano agli inizi del Cinquecento –, grazie agli studi e alle scoperte di Giancarlo Gentilini e Luciana Giacomelli, viene alla luce la corretta paternità. info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it

gennaio

corollario la documentazione della fortuna moderna del tema, di cui sono prova, per esempio, i costumi disegnati per il balletto La dama e l’unicorno di Jean Cocteau. info musee-moyenage.fr VENEZIA

MAGICI UNICORNI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 25 febbraio

GLI ULTIMI GIORNI DI BISANZIO. SPLENDORE E DECLINO DI UN IMPERO Biblioteca Nazionale Marciana, Salone della Libreria Sansoviniana fino al 5 marzo

L’esposizione che segna la riapertura del Museo di Cluny-Museo Nazionale del Medioevo prende le mosse dagli arazzi del ciclo della Dama e l’unicorno, capolavori della raccolta parigina. Eseguiti intorno al 1500, sono una prova dell’importanza attribuita alla leggendaria creatura nei secoli del Medioevo. Animale «magico» – nell’età di Mezzo

Cuore della mostra è la cosiddetta «icona di San Luca di Freising», opera bizantina raffigurante la Madonna dal titolo «Speranza dei disperati«. L’opera è emblema della situazione tragica in cui si trovava Bisanzio, in lotta con gli Ottomani, fra Tre e Quattrocento. Per ottenere sostegno militare, l’imperatore Manuele II Paleologo

PARIGI

MEDIOEVO

era diffusa la convinzione che il suo corno fosse in grado di accertare la presenza di veleni e dunque purificare i liquidi – l’unicorno era al tempo stesso simbolo di castità e d’innocenza. Vari manoscritti miniati ricordano inoltre la tradizione secondo la quale solo giovani vergini potevano avvicinare gli unicorni. A queste testimonianze fa da

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AGENDA DEL MESE intraprese tra il 1399 e il 1403 un viaggio diplomatico in Occidente, durante il quale portò con sé l’icona di San Luca e molti altri oggetti di estremo valore da donare ai potenti europei. In questa eccezionale occasione, per la prima volta dopo piú di sei secoli, l’icona è tornata a Venezia, città del suo primo approdo in Europa. Nella mostra, in otto sezioni, sullo sfondo dei rivolgimenti politici internazionali che portarono alla caduta di Costantinopoli nel 1453, viene illustrato il significato del viaggio dell’imperatore Manuele II e dei suoi doni diplomatici, testimonianze dell’intenso scambio culturale tra l’Europa – e in particolare Venezia – e Bisanzio agli albori dell’Umanesimo. info tel. 041 2407211; https://marciana.venezia.sbn.it FAENZA AZTECHI, MAYA, INCA E LE CULTURE DELL’ANTICA AMERICA MIC-Museo Internazionale della Ceramica fino al 28 aprile

Nell’affrontare il vasto e articolato universo delle civiltà precolombiane, la rassegna si concentra soprattutto sulla Mesoamerica e sull’area peruviana. E lo fa attingendo

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alle notevoli collezioni del MIC, perlopiú con pezzi custoditi nei suoi depositi e finora mai esposti al pubblico. Completano il percorso espositivo reperti selezionatissimi, concessi in prestito dai piú importanti musei e raccolte italiane. Protagonisti principali della mostra sono gli Aztechi, ai quali si deve la creazione del piú potente impero della Mesoamerica, e che stupirono i conquistadores per il livello della loro organizzazione sociale, non dissimile da quella dell’Europa del tempo, pur in presenza di aspetti, come il cannibalismo e i sacrifici umani, inaccettabili per i nuovi arrivati. Poi i Maya, del Periodo Classico, capaci di elaborare sistemi calendariali raffinatissimi e una scrittura logo-sillabica che è stata decifrata solo negli ultimi decenni. E infine gli Inca, che costruirono il piú grande impero di tutto il Nuovo Mondo. Con un’organizzazione sociale che ha spinto alcuni studiosi a parlare di «socialismo». info www.micfaenza.org GUBBIO TESORI RITROVATI. RESTAURI PER «GUBBIO AL TEMPO DI GIOTTO»

Palazzo dei Consoli

fino al 1° maggio

La mostra «Gubbio al tempo di Giotto» (vedi «Medioevo» n. 260, settembre 2017) ha restituito alla comunità una serie di opere restaurate, che, di fatto, rappresentano il nucleo piú consistente dell’intero patrimonio museale cittadino d’epoca medievale. Questa

operazione ha permesso di realizzare un nuovo progetto espositivo «Tesori ritrovati. Restauri per “Gubbio al tempo di Giotto”», dedicato ai restauri e ai recuperi e quindi ai confronti possibili tra opere e maestri, tra materiali e tecniche esecutive, tra forme e funzioni del prodotto artistico in un percorso che si dipana tra XIII e XIV secolo, nell’età d’oro di Gubbio e del suo vasto contado. Vengono dunque presentate molte delle opere recentemente restaurate: come le due grandi croci dipinte del Museo Civico di Gubbio, le opere del Maestro della Croce di Gubbio, del Maestro espressionista di Santa Chiara, di Pietro Lorenzetti, del cosiddetto «Guiducci Palmerucci» e di Mello da Gubbio. info tel. 075 9274298; e-mail: museo@gubbiocm.it gennaio

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

IN EDICOLA

IN

NOME DEL

POPOLO

Leader e rivolte che hanno infiammato l’età di Mezzo I

IN

GLI ARGOMENTI

Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

♦ I PRIMI «POPULISTI» ♦ TRIBUNI E PREDICATORI RIBELL I ♦ LE PROTESTE FISCALI ♦ LA GUERRA DEGLI SCHIAVI

N°30 Gennaio/Febbraio 2019 Rivista Bimestrale

Leader e rivolte che hanno infiammato l’età di Mezzo

IN NOME DEL POPOLO

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NOME DEL

POPOLO

• LE RIVOLTE CITTADINE • COLA DI RIENZO

• L’EUROPA DEGLI SCONTENTI • LE LOTTE DI CLASSE • IL TUMULTO DEI CIOMPI • LE FIANDRE IN RIVOLTA • LA JACQUERIE • PIETRO L’EREMITA • ROBIN HOOD • JAN HUS • GIROLAMO SAVONAROLA

MEDDosIOsieEr VO

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IN EDICOLA IL 28 DICEMBRE 2018 Timeline Publishing Srl - Poste Italiane

MEDIOEVO DOSSIER

lunghi secoli del Medioevo furono percorsi a piú riprese da forti tensioni sociali, dalle quali ebbero origine rivolte non di rado lunghe e sanguinose. Ma quali furono le cause del malcontento? A dispetto di quel che verrebbe spontaneo immaginare, uomini e donne scesero sí in piazza per rivendicare condizioni di vita migliori, tali da garantire una dignitosa sopravvivenza, ma, come leggerete nel nuovo Dossier di «Medioevo», a fomentare le sommosse furono piú spesso il peso insostenibile delle tasse oppure le prevaricazioni dei padroni nei confronti dei salariati. Si potrebbe quasi affermare che proprio nei secoli dell’età di Mezzo siano state insomma sperimentate le forme di lotta destinate a caratterizzare le rivendicazioni sindacali dell’età moderna. Tuttavia, al di là di parallelismi suggestivi, ma solo in parte giustificati, molte delle inquietudini che agitarono l’Italia e le principali nazioni europee furono espressione di contesti tipicamente medievali, come nel caso delle lotte fra guelfi e ghibellini. E, come da sempre accade in E simili frangenti, a catalizzare gli umori e i voleri delle folle LL DE VO TE E furono solitamente personaggi carismatici, determinati, L IO ED M IVO IL R a volte visionari. Per questo, un’ampia parte del Dossier è dedicata ai protagonisti delle vicende piú famose: da Cola di Rienzo a Michele di Lando, che guidò l’effimero Tumulto dei Ciompi, senza dimenticare figure come quelle di Pietro l’Eremita o Jan Hus, perché anche le questioni di natura religiosa si trasformarono piú volte in potenti inneschi delle sedizioni.

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Ferrara. Particolare del monumento a Girolamo Savonarola, opera di Stefano Galletti. 1875.

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gennaio

MEDIOEVO


battaglie rouen 19 GENNAIO 1419

Piú delle armi poté la fame

di Federico Canaccini

La capitolazione di Rouen fu uno dei momenti di svolta della Guerra dei Cent’Anni e aprí agli Inglesi la strada verso Parigi. Per arrivare alla resa, Enrico V di Lancaster dovette però sostenere un lungo assedio, e la resistenza della città francese fu piegata solo quando i suoi abitanti ebbero finito le scorte di cibo

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eicento anni fa, per ben sei mesi, dall’afa del luglio 1418 al gennaio del 1419, il re inglese Enrico V di Lancaster fu impegnato sotto le mura di Rouen, con lo scopo di farsi largo verso Parigi, per cingere la corona di Francia. La clamorosa vittoria ottenuta nel 1415 ad Azincourt aveva assicurato al sovrano l’appoggio dei nobili inglesi per il suo rinnovato progetto di conquista della Francia. Dopo aver sconfitto sul campo l’esercito nemico, occorreva ora sottomettere la Normandia, per poi puntare sulla capitale. Salpati da Southampton, gli Inglesi giunsero alla foce della Touques (un fiume della regione costiera normanna, n.d.r.) il 1° agosto del 1417. Da lí ebbero inizio le prime

Miniatura raffigurante l’assedio di Rouen, da un’edizione delle Vigiles de Charles VII di Martial d’Auvergne. 1484 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

MEDIOEVO

gennaio

operazioni che, in modo rapido e senza intoppi, portarono alla capitolazione della Bassa Normandia. Verso l’aprile del 1418 gli assedi si concentrarono su Domfront e Cherbourg, piazzeforti che ancora resistevano e che rappresentavano gli ultimi seri ostacoli prima di poter giungere alla capitale del ducato di Normandia, Rouen. Domfront si arrese alla metà di luglio e, benché Cherbourg resistesse sino ai primi di settembre, Enrico V, dopo la caduta della prima, giudicò la propria posizione abbastanza sicura per attaccare Rouen, la cui capitolazione gli avrebbe garantito una testa di ponte sulla Senna, divenendo il punto di partenza per la conquista dell’Alta Normandia e di tutto il bacino di Parigi. Enrico giunse in vista di Rouen già il 29 luglio 1418, ma non poteva certo immaginare che l’assedio lo avrebbe impegnato per ben 24 settimane.

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battaglie rouen Enrico V di Lancaster

L’eroe di Azincourt

LE DATE DA RICORDARE 1415 Battaglia di Azincourt 1416 Battaglia di Valmont 1417 Enrico V arriva a Touques 1419 Viene assassinato il duca di Borgogna che si allea con l’Inghilterra 1420 Trattato di Troyes 1421 Battaglia di Baugè 1422 Nascita di Enrico VI. Muoiono sia Enrico V che Carlo VI di Francia 1423 Battaglia di Cravant 1424 Battaglia di Verneuil 1429 Giovanna d’Arco prende Orléans; battaglia di Patay; Carlo VII incoronato a Reims 1435 Trattato di Arras: la Borgogna si allea con la Francia contro l’Inghilterra 1444 Tregua di Tours

La presa della città francese ebbe una vasta eco, anche perché si trattò del piú grande obiettivo fortificato conquistato dagli Inglesi durante l’intera Guerra dei Cent’Anni. Ai primi del XV secolo la capitale del ducato di Normandia contava circa 20 000 abitanti, che si sarebbero quasi raddoppiati al volgere del secolo. Di questi, circa 4000 uomini costituivano le truppe deputate alla guardia della città, protetta dalla Senna, da potenti mura e da grandi torri. L’esercito inglese contava circa 7000 uomini, due terzi dei quali erano arcieri, e comprendeva sia coloro

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Enrico V di Lancaster regnò sull’Inghilterra per appena nove anni (1413-1422), ma il suo regno è tra i piú intensi e significativi della storia inglese. Nei secoli successivi alla sua vita, Enrico divenne l’archetipo del re-eroe: anche se la sua fama è in parte nata dalla leggenda, è fuor di dubbio che Enrico mise a segno alcuni grandi successi. Nato nel 1387 a Monmouth, guidò, appena sedicenne, le truppe del padre Enrico IV, contro i Gallesi ribelli, capeggiati da Owen Glendower. Alla morte del padre (1413), Enrico gli succedette, non senza problemi: dovette infatti reprimere il movimento dei Lollardi (1414) e sventare una congiura che voleva portare al trono Edmund Mortimer, il presunto erede di Riccardo II, il re spodestato anni prima da Enrico IV. Vista l’instabilità della situazione, Enrico tentò di imporsi sui nobili, il Parlamento e il popolo inglese, riaprendo in grande stile la politica estera che era stata dei Plantageneti: armata una flotta, dunque, attraversò la Manica con l’obiettivo di recuperare territori in terra di Francia. Il momento era propizio a causa di una aspra contesa tra Armagnacchi e Borgognoni, e anche per la presenza sul trono di un sovrano mentalmente La battaglia di Azincourt in un’altra miniatura dalle Vigiles de Charles VII. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

che avevano iniziato la campagna fin dal principio, sia i rinforzi (circa 3000 uomini) inviati dall’Inghilterra fra maggio e giugno. Ai primi di settembre poi, dopo che il duca di Gloucester aveva ottenuto la resa di Cherbourg, le fila inglesi si erano ulteriormente ingrossate.

Bloccare i rifornimenti

Appena giunto dinnanzi alle mura, re Enrico dispose vari campi di assedio, per presidiare i punti nevralgici della città, sia via terra che via fiume (Rouen sorge infatti sulla Senna, n.d.r.). Tra un accampamento e

l’altro ordinò poi ai soldati di scavare profonde trincee, cosí da rendere impossibile ogni collegamento con l’esterno: il sovrano inglese puntava a prendere la città per fame, ma sapeva che non sarebbe stata impresa semplice e infatti, ancor prima di dare inizio all’assedio, si era premunito di conquistare Pont-de-l’Arche (20 luglio 1418), laddove la Senna incontra l’Eure, facendo issare poi una catena di ferro all’altezza di Rouen, appunto per impedire rifornimenti fluviali da Parigi. Una masnada di soldatacci irlandesi era stata poi incaricata di controllare i villaggi nei dintorni, assicurandosi le loro vettovaglie per rifornire l’esercito inglese. Inoltre il re si garantí la non belligeranza di Caudebec, minacciandone la distruzione se i suoi abitanti avessero intralciato i suoi piani, e garantendosi cosí i rifornimenti dal porto di Harfleur, conquistato nel 1415. gennaio

MEDIOEVO


instabile, come Carlo VI, detto il Folle. Dopo aver stipulato un’alleanza coi Borgognoni, Enrico strinse d’assedio il porto di Harfleur: la spedizione terminò con il successo, ma a un prezzo carissimo, poiché tra le fila inglesi molti morirono a causa della dissenteria. Per mostrare ai Francesi chi fosse il vero re, Enrico decise di imbarcarsi a Calais, attraversando in modo avventato il territorio nemico, con un esercito ridotto numericamente. Tale azzardo terminò ad Azincourt dove però, nel 1415, Enrico riportò la sua piú grande e inaspettata vittoria contro un esercito almeno tre volte superiore al suo. Dopo quel trionfo, celebrato anche da Shakespeare nel suo Enrico V, il giovane sovrano riprese nel 1417 la conquista della Normandia, giungendo ad assediare Parigi. Nel 1420, con il trattato di Troyes, si fece riconoscere reggente di Francia e designò i propri figli come eredi di Carlo VI, che gli aveva concesso in moglie la figlia Caterina. Il suo unico figlio, Enrico VI, divenuto re ad appena un anno di età, a causa della prematura morte del padre, non ebbe la stessa fortuna, né probabilmente le stesse doti paterne: fu infatti vittima della riconquista francese e della successiva Guerra delle Due Rose. In questa pagina vignette che illustrano un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart. 1455-1460. Parigi, Bibliohtèque nationale de France. In alto, Enrico V di Lancaster ascolta le lamentele di una rappresentanza della città belga di Gand; a sinistra, Carlo VI, il Folle, riceve in udienza il duca delle Fiandre.

MEDIOEVO

gennaio

A questo punto Enrico V si posizionò su di un colle dedicato a santa Caterina, a est della città. A quel punto, Rouen era circondata: a sud, al di là della Senna, vi era l’accampamento di Huntingdon, posto a presidiare l’unico accesso alla città tramite un ponte; a ovest gli accampamenti di Ormonde, del duca di Clarence e del conte di Marshal; a presidiare la porta per Beauvais, a nord, vi era il duca di Exeter; a est, infine, oltre a re Enrico, si trovavano i signori di Gloucester, Warwick e Salisbury. Il sovrano inglese era esperto in tattiche di assedio, che aveva appreso in Galles: il suo piano era quello di prendere la fortezza per fame anziché bombardarla, sia perché le mura erano possenti, e avrebbero richiesto un impiego massiccio di armi da fuoco per ottenere un qualche effetto significativo, sia perché – in vista del prosieguo della guerra,

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battaglie rouen

Miniatura raffigurante la resa degli abitanti di Harfleur a Enrico V, al quale consegnano le chiavi della città. XV sec.

e dell’assedio di Parigi – il re voleva prendere la città integra, cosí da avere un punto d’appoggio sicuro per i mesi successivi. Di contro, i Francesi, avevano appiccato fuoco ad alcune case nei suburbi di Rouen, soprattutto quelle prospicienti le mura, cosí da rendere ancor piú difficile l’avvicinamento delle macchine da guerra nemiche. Il comandante della guarnigione

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di Laon, Guy Le Boutellier, sire de la Roche Guyon, poteva contare su migliaia di uomini e su numerose bocche da fuoco poste sulle torri e sulle mura di Rouen. Il fuoco francese mieteva vittime tra le fila inglesi e Le Boutellier ordinò a piú riprese pericolose sortite simultanee e su vasta scala, che portarono scompiglio e distruzione tra i nemici.

L’insegna di una nazione

Intorno alla metà di dicembre, Enrico ordinò ai propri uomini di dormire con l’armatura indosso, poiché

dal 17 novembre il re francese Carlo VI, detto il Folle – la cui instabilità mentale si era aggravata al punto che le redini del regno erano ormai contese fra la regina e i duchi d’Orléans e di Borgogna –, aveva fatto issare l’orifiamma, il vessillo da guerra di Francia. Quest’ultimo era uno stendardo costituito da un drappo rosso disseminato di stelle o fiamme d’oro, sostenuto da un’asta di lancia dorata e, trattandosi del vexillum beati Dyonisii e dell’insegna dell’abbazia di Saint-Denis, rappresentava in sostanza la protezione gennaio

MEDIOEVO


Francia 1360

Francia 1314

Possedimenti francesi

Territori fedeli al delfinato

Possedimenti inglesi

Possedimenti inglesi

Altri territori vassalli

Altri territori vassalli

Territori che riconoscevano la sovranità inglese

La Manica

FIANDRE

BLOIS

FRANCIA La Marche

BORGOGNA

SPAGNA

EVREUX Maine

Poitou

BLOIS

BORGOGNA

Limosino GUIENNA Auvergne RODEX GUASCOGNA ROUERGUE BEARN Linguadoca BIGORRE FOIX

RR

A

Sacro Romano impero

NA VA

Limosino GUIENNA Auvergne RODEX GUASCOGNA ROUERGUE BEARN Linguadoca BIGORRE

BRETAGNA

BORGOGNA

Sacro Romano impero

GUIENNA

A

Poitou

BLOIS

NORMANDIA

EVREUX Parigi Maine Champagne

RR

BRETAGNA

FIANDRE

PONTHIEU

NA VA

EVREUX Parigi Maine Champagne

FOIX

A RR

La Manica

NORMANDIA

NORMANDIA

La Marche

FIANDRE

PONTHIEU

PONTHIEU

FRANCIA

Londra

RODEX GUASCOGNA ROUERGUE BEARN BIGORRE FOIX

La Manica

Poitou

INGHILTERRA

Londra

Londra

BRETAGNA

Alleati degli Inglesi

INGHILTERRA

INGHILTERRA

NA VA

Francia 1422

Possedimenti francesi

Sacro Romano impero

SPAGNA

john page

Parola d’arciere

In alto, a destra l’evoluzione degli assetti geopolitici nel corso della Guerra dei Cent’Anni. A destra disegno raffigurante l’assedio di Rouen da parte di Enrico V, da un’edizione dei Beauchamp Pageants. Post 1483. Londra, British Library.

MEDIOEVO

gennaio

L’interminabile assedio di Rouen è narrato in un poemetto di 1300 versi scritto da un Inglese, tal John Page, che asserisce di avervi partecipato: «At that sege with the kyng I lay». Nell’esaminare le pergamene contenenti i nomi degli arcieri arruolati nelle spedizioni di Enrico, tra le migliaia di nomi, fa effettivamente capolino anche un John Page, arruolato al comando di Sir Philip Leche, che partecipò alla spedizione del 1417: si tratta probabilmente del nostro autore. Da alcuni particolari interni, gli studiosi hanno stabilito che il componimento è ascrivibile agli anni compresi tra il 1419 e il 1421. Questa fonte ci conduce direttamente dentro un assedio medievale, mostrandoci il punto di vista di un soldato come tanti, asserragliato dietro a una palizzata per mesi. La narrazione evidenzia aspetti della quotidianità, il non facile rapporto con la popolazione locale e naturalmente la durezza del servizio militare.

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battaglie rouen

Rouen

Una città di mercanti e artigiani La città di Ratuma (o Ratumacos), di origine gallica, era stata ribattezzata dai Romani Rotomagus e visse la sua stagione piú fiorente nel III secolo, quando l’imperatore Diocleziano la scelse quale capitale della Gallia Lugdunesis Secunda. Al tempo delle invasioni, Rotomagus venne sottomessa dai Franchi nel corso del V secolo, per essere poi integrata nel regno di Neustria. Già nel IX secolo, Rouen fu mira di ripetuti attacchi normanni e infine assegnata da Carlo il Semplice a Rollone, il quale, nel 911, la elesse a capitale del neonato ducato di Normandia. In questi decenni sono molto attivi i commerci e la fabbricazione di tessuti con le isole britanniche avviati fin dall’epoca romana. La spedizione capeggiata da Guglielmo il Bastardo (conclusasi nel 1066 con la vittoria a Hastings e la nascita del regno d’Inghilterra), legò Rouen e la Normandia ai destini tanto di Francia quanto di Inghilterra. Nel 1144, infatti, Rouen ottenne proprio dai sovrani inglesi-duchi normanni alcuni privilegi municipali, che continuò a conservare anche dopo la caduta del possente Château Gaillard e l’annessione

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Ancora una miniatura dalle Vigiles de Charles VII raffigurante l’esecuzione di Giovanna d’Arco. 1484 crica. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

alla corona di Francia nel 1204, quando Filippo Augusto ricondusse il ducato sotto il dominio francese. Tale ri-conquista francese fu ampiamente giustificata, dinnanzi all’opinione pubblica, a causa dell’assassinio, nel castello di Rouen, di Arturo di Bretagna per ordine del re inglese Giovanni Senza Terra. Nel corso del Duecento i mercanti di Rouen ottennero il monopolio del traffico fluviale della bassa Senna, accordandosi nel 1210 con i mercanti di Parigi, nonché quello sull’esportazione dei pregiati vini di Francia e Borgogna. Nel 1302, sotto Filippo il Bello, Rouen divenne, sede dello Scacchiere, la corte delle finanze e della giustizia della regione di Normandia. Rouen fu poi al centro della conquista di Enrico V: dopo aver capitolato nel 1419, divenne teatro del processo e della condanna a morte di Giovanna d’Arco nel 1431. Tornò a essere francese solamente nel 1449, sotto Carlo VII, che la riportò in auge. Tra il XV e il XVI secolo Rouen era divenuta la seconda città di Francia, con circa 40 000 abitanti, vantando anche un prospero artigianato e fiorenti traffici commerciali in tutta Europa. gennaio

MEDIOEVO


del santo nazionale, patrono del regno. Per questo motivo, già dal XII secolo, era divenuta l’insegna militare dei re di Francia.

A sinistra Rouen. L’Historial Jeanne d’Arc, uno spazio di recente allestimento che ripercorre la vicenda della pulzella d’Orléans. In basso vignetta raffigurante la presa di Rouen da parte degli Inglesi, da un’altra edizione delle Vigiles de Charles VII. XV sec. Rouen, Bibliothèque municipale.

Alla vigilia del Natale

Dopo essersi radunate, le truppe del Folle avevano iniziato a marciare compatte verso Pontoise e poi Beauvais, creando le premesse per una battaglia campale. Tuttavia, pochi giorni prima di Natale, i comandanti francesi – forse memori della tremenda lezione patita ad Azincourt appena tre anni prima, in cui migliaia di nobili francesi avevano trovato la morte – valutarono probabilmente che il proprio esercito non era forte abbastanza per af-

frontare il nemico e cosí decisero di ripiegare. O forse l’intento del pavido re Carlo era quello di spaventare le truppe inglesi con una marcia che spezzasse l’assedio? La sola certezza è che, dai primi di gennaio del 1419, gli abitanti di Rouen compresero che non avrebbero ormai ricevuto alcun aiuto dal re o da altri: il 2 gennaio giunse una missiva segreta del duca di Borgo-

MEDIOEVO

gennaio

gna che suggeriva a Le Boutellier di trattare con gli Inglesi una resa, la piú vantaggiosa possibile. Nel frattempo, fuori dalle mura di Rouen, la situazione si era fatta disperata: dalla metà di dicembre, infatti, a causa della penuria di viveri, la popolazione aveva tentato di indurre il re di Francia a venire in soccorso, espellendo dalla città donne, vecchi e bambini. Le crona-

che parlano di migliaia di persone, come riporta anche un Inglese che prese parte alle operazioni, John Page (vedi box a p. 39), il quale parla di «many a hundred», che si trovarono intrappolati in una fascia di terra di nessuno tra le mura di Rouen e le linee inglesi, poiché Enrico V non permise loro di passare. La strategia del re inglese era sottile e psicologica: dopo aver instillato negli sfollati l’idea d’essere stati abbandonati dai loro stessi concittadini e «traditi dalla loro stessa nazione», riporta il cronista inglese, Enrico – in occasione del Natale – distribuí viveri a quei disgraziati, lasciandoli mangiare nelle fosse scavate per l’assedio. Al che, scrive ancora Page, quei disperati «risposero intonando un inno di grazie a re Enrico che aveva avuto piú pietà della loro stessa nazione»: da carnefice quale era stato fino a quel momento considerato, il Lancaster divenne il piú desiderabile dei sovrani. La strategia della fame (e del freddo) aveva fatto il suo corso ed Enrico doveva solo aspettare. Le trattative per la resa non si fecero attendere e alla capitolazione di Rouen fecero seguito quelle di numerosi castelli della valle della Senna: la strada per Parigi era aperta. F

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de imitatione christi

Anonimo di Alessandro Bedini

piemontese Sulla paternità di una delle opere religiose piú importanti nella storia della cristianità, il De Imitatione Christi, la controversia è ancora in atto. Se però analizziamo con attenzione gli «indizi» a nostra disposizione, scopriremo una nuova pista. Che ci porta in direzione di un borgo del Vercellese...

I

l vescovo e teologo francese Jacques Bossuet (1627-1704) lo definí «Il quinto evangelo», altri: il gioiello piú prezioso; è il testo religioso piú letto dopo la Bibbia. Si tratta del De imitatione Christi, opera redatta in latino medievale, composta da quattro libri e scritta probabilmente – ma, come vedremo, la controversia è ancora aperta – tra il XIII e il XIV secolo da un anonimo. Un testo prezioso di ascesi cristiana che, sebbene concepito e nato in epoca medievale, presenta ancora oggi tratti di attualità straordinari, amato da santi come Teresa di Lisieux e Giovanni XXIII. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che i quattro libri dell’Imitatio appartengano ad autori diversi e che siano stati scritti in tempi diversi. L’unità dell’opera è messa in discussione a causa della presunta differenza nello stile che si riscontrerebbe tra i quattro libri, oltre all’apparente difformità tra i temi trattati in ciascuno di essi. Studi piú recenti, come quelli di Tiburzio Lupo (1901-2001), hanno invece evidenziato l’unità dell’opera sia riguardo lo stile, sia per i contenuti che seguono una linea coerente, fondata sui diversi momenti dell’elevazione spirituale di chiunque intraprenda un autentico cammino di ascesi. Nelle pagine del De Imitatione, la sequela Christi (locuzione latina con la quale, soprattutto nel Medioevo, si esprime l’impegno religioso sull’esempio del Salvatore, n.d.r.)

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Vanità, olio su tela di Simon Renard de Saint-André. 1650 circa. Collezione privata. L’opera è una delle nature morte concepite dall’artista in chiave intellettuale e designate appunto con il titolo di Vanitas, poiché viste come una sorta di monito sull’ineluttabilità del nostro destino. In questo caso, domina la composizione un’edizione a stampa del De Imitatione Christi.


de imitatione christi è in effetti esplicita fin dal primo libro e prosegue coerentemente per l’intero scritto. Tiburzio Lupo individua tre temi secondari che si sviluppano in successione nei primi tre libri: la meditazione sulla vita e sulla dottrina di Cristo; l’interna conversazione illuminativa; l’unione mistica con Gesú. Il quarto libro non è affatto distaccato dagli altri, come qualcuno vorrebbe, ma costituisce il necessario compimento del dialogo tra l’anima e Dio, tramite l’unione sacramentale dell’Eucarestia.

Ascesi e sacrificio

Ma esaminiamo piú da vicino la celebre opera. Nel primo libro, Admonitionem ad spiritualem vitam utiles (Esortazioni utili per la vita spirituale), l’autore insiste sul distacco dell’asceta dalle cose visibili. Non a caso, il testo si apre con il versetto del Vangelo di Giovanni: «Chi segue Me non cammina nelle tenebre». Il tema del contemptus mundi (letteralmente, il disprezzo del mondo, inteso come rifiuto dell’esistenza terrena in vista di quella ultraterrena, n.d.r.) caro al monachesimo sia orientale sia occidentale, viene richiamato in modo esplicito dall’anonimo autore, rafforzando cosí l’ipotesi che l’Imitatio abbia avuto origine in ambiente monastico e sia stata concepita per il chiostro e non per l’intero popolo cristiano. «A questo pensiero fondamentale – osserva Lupo – l’autore ispira tutta l’opera, cominciando nei primi due libri a distaccare le anime dall’amore delle cose transitorie». Nel secondo libro, Admonitiones ad interna trahentes (Esortazioni che ci inducono all’interiorità), l’autore sostiene con vigore la necessità del sacrificio, fino al martirio, come via necessaria per raggiungere la salvezza. Si tratta di «accettare la grazia a caro prezzo – osserva lo studioso Enzo Bianchi (fondatore della comunità monastica di Bose, n.d.r.) – in quanto la natura umana è inscritta in limiti dolorosi». Il terzo libro, De interna consolatione (Sulla consolazione interiore), può essere definito come un inno all’amore che unisce l’anima del discepolo al suo Signore attraverso un dialogo fatto di preghiere e pratiche ascetiche. Infine, nel De sacramento altare (Il sacramento dell’altare), l’autore pone in risalto il sacrificio eucaristico che è la definitiva unione con il Cristo. Attraverso il «pane salvifico», l’anima realizza quell’unità che permette il dialogo diretto con il Signore, prefigurazione di ciò che il discepolo potrà godere in paradiso. Appare evidente come l’opera possieda un carattere che potremmo definire «anti-intellettualistico», in quanto, secondo l’autore, la buona coscienza prevale sul sapere e sulla speculazione scientifica. Quindi il testo – cosí come il suo autore – si estrania dalle contese teologico-filosofiche proprie del XIII e XIV secolo: dalla metodologia della scolastica, alle polemiche tra i maestri di Parigi e quelli di Oxford e con le stesse autorità ecclesiastiche, precedute, nel secolo precedente, dal duro confronto tra Bernardo di Chiaravalle e Pietro Abelardo.

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«Devi preferire di farti guidare da uno migliore di te, piuttosto che andar dietro alle tue fantasticherie; prima di agire devi consigliarti con persona saggia e di retta coscienza. Giacché è la vita virtuosa che rende l’uomo saggio della saggezza di Dio, e buon giudice in molti problemi. Quanto piú uno sarà intimamente umile e soggetto a Dio, tanto piú sarà saggio e pacato in ogni cosa». (L’Imitazione di Cristo, libro I, cap. IV)

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A destra capolettera miniato ÂŤQÂť con la Resurrezione, da un codice manoscritto che comprende il De Imitatione Christi. 1454. Londra, British Library. In basso San Bernardo, pannello laterale superiore del Polittico di San Cristoforo, tempera su tavola di Bartolomeo Vivarini. 1436. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

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de imitatione christi

Anche in quel caso a fronte della definizione secondo cui «fides quarens intellectum», ovvero «la fede richiede l’intellegibilità», Bernardo pone l’accento sulla fides, su quella che viene definita «teologia del cuore» tipicamente monastica, mentre Abelardo fonda la sua speculazione sulla ragione come mezzo per la comprensione, una «teologia della ragione». L’anonimo autore dell’Imitatio vuole insomma suggerire una saggezza pratica in cui prevalgono le virtú morali rispetto a quelle intellettuali. Non a caso, alcune fonti manoscritte indicano proprio in san Bernardo uno dei possibili autori dell’Imitatio. Del

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resto, non è forse vero che nei secoli centrali del Medioevo la cosiddetta teologia spirituale, nella quale rientra a pieno titolo il celebre testo, ebbe un carattere quasi esclusivamente monastico? L’anonimo autore doveva senz’altro essere a conoscenza delle polemiche e delle contrapposizioni che agitavano la cristianità e sembra ispirarsi in primo luogo alla patristica dei primi secoli dell’età di Mezzo, sulla scorta della Regola benedettina, alla filosofia bernardiana, alla tradizione certosina. Dalle pagine del De imitatione Christi traspaiono i fondamenti della Regola dettata gennaio

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Un capitolo al giorno... Scrittori, letterati, filosofi di tutti i tempi, credenti e non, si sono confrontati con l’Imitatio. Ecco una selezione dei loro giudizi: «Un libro talmente misterioso nella sua semplicità, che non sanno compilarlo i filosofi, i dottori e i professori di tutte le cattedre» (Giovanni Papini); «Uno dei piú eccellenti trattati che siano stati scritti» (Gottfried Leibniz); «L’Imitazione è il piú sublime libro religioso del Medioevo» (Giosuè Carducci). Possiamo inoltre ricordare che sant’ Ignazio di Loyola suggerí ai Gesuiti di leggere ogni giorno un capitolo dell’Imitatio e che Jules Michelet diceva che mentre era intento a leggere questo capolavoro dell’ascetica medievale – da cui Giovanna d’Arco venne grandemente influenzata –, aveva la sensazione di «vedere la grande camera fredda e senza mobili, rischiarata veramente da una luce misteriosa». Voltaire lo definí un libro prezioso per chiunque. Teresa di Lisieux, Teresa d’Avila, san Carlo Borromeo e pontefici come Pio V, Pio X e Giovanni XXIII ne hanno caldamente consigliato la lettura e la meditazione. Miniatura raffigurante un monaco impegnato in una predica sull’Imitatio Christi, da un’edizione de Sermons sur la Passion et Traites Divers del teologo e filosofo Jean de Gerson. XV sec. Valenciennes, Biblioteca Municipale.

nella quale il celebre teologo belga indica le tappe spirituali che portano dalla dissomiglianza alla somiglianza con il Cristo. Secondo lo stesso Pitigliani, si troverebbero ben sessanta passi paralleli tra l’Epistola e l’Imitatio. L’obiezione che alcuni – in particolare lo storico francese Henri Martin, il sacerdote, anch’egli transalpino, Paul Naudet, e Samuel Kettlewel, teologo inglese e commentatore dell’Imitatio – hanno mosso al famoso testo è quella di aver rivolto l’attenzione solo all’individuo e alla sua personale ascesi, non al prossimo, come dettato nei Vangeli. L’accusa di «egoismo spirituale» ha circolato fin dal XIX secolo e l’assenza di qualsiasi accenno all’apostolato è parsa come una mancanza grave per un cristiano. Tuttavia, appare logico che un monaco medievale del XIII-XIV secolo si rivolga principalmente ai suoi confratelli e con le sue esortazioni voglia spingerli verso la santità. Inoltre l’amore incondizionato per Cristo coincide con l’amore per il prossimo, come avevano ben compreso i primi monaci che in Oriente avevano deciso di ritirarsi nel deserto.

Dagli scriptoria dei Benedettini da san Benedetto: l’obbedienza, la stabilitas loci (permanenza in un luogo), la conversatio morum (conversione dei costumi). Lo sviluppo dell’ascetica monastica bernardiana ha avuto sicuramente la sua influenza sulle pagine uscite dalla penna del pio monaco rimasto, per sua volontà, anonimo. Dal canto suo Riccardo Pitigliani, raffinato studioso e profondo conoscitore dell’Imitatio, sostiene che l’autore ha sicuramente letto l’Epistola ad fratres de Monte Dei del monaco e teologo certosino Guglielmo di Saint Thierry, discepolo di san Bernardo (1085 circa-1148),

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I manoscritti che contengono il De imitatione Christi sono numerosi: se ne contano all’incirca 420, ma alcuni sostengono che ve ne siano piú di 600, conservati in varie biblioteche, oltre che italiane – che custodiscono gli esemplari piú antichi e preziosi –, a Parigi, Londra, Oxford, Vienna, Monaco di Baviera. I codici sono stati collocati nel periodo che va dal 1280 al 1330 e fino alla fine del XV secolo e provengono in buona parte dagli scriptoria benedettini. Oltre 200 di essi recano la datazione, mentre gli altri sono acroni. Tuttavia, la scienza paleografica, attraverso l’analisi della scrittura, ha permesso di risalire al periodo in cui questi ultimi sono stati copiati.

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de imitatione christi Un ambiente fervido di studi Nel borgo di Cavaglià esisteva dall’XI secolo un priorato benedettino intitolato ai santi Vincenzo e Atanasio. A Vercelli, all’inizio del XIII secolo, era stato istituito uno Studio Generale dove cominciarono ad affluire diversi importanti studiosi. Tra il 1243 e il 1254 il numero dei maestri aumentò: vi si trovavano Uberto da Bobbio, Francesco Ranzo, giuristi del calibro di Uberto da Bonaccorso. Il filosofo francese Tommaso Gallo aveva istituito una scuola di mistica. In questo ambiente fervido di studi potrebbe senz’altro avere avuto origine l’Imitatio. Come accennato, i codici piú antichi sono quelli italiani e fra i piú importanti vi è il De Advocatis, rinvenuto a Parigi nel 1830 e oggi conservato presso l’Archivio capitolare metropolitano di Vercelli, che contiene i quattro libri nell’ordine tradizionale. Il Cavensis, che risale al XV secolo, appartenne all’abbazia benedettina di Cava dei Tirreni e si trova attualmente presso la Biblioteca Nazionale di Parigi. Il codice Aronensis proviene verosimilmente dall’abbazia benedettina di S. Caterina a Genova e venne in seguito portato presso la casa dei Gesuiti di Arona, sul lago Maggiore, donde la sua denominazione. Secondo esperti paleografi, fra cui Mario Vayra, il manoscritto, oggi nella Biblioteca Nazionale di Torino, risalirebbe alla seconda metà del XIII secolo o al massimo agli inizi del XIV. Ben 23 manoscritti benedettini sono indicati come codici Giustiniani, in quanto provenienti dalla badia di S. Giustina di Padova. Il piú importante di essi risale al 1436, ma è molto probabile che sia una copia piú tarda e che nel monastero patavino circolassero, fin dal XIV secolo, codici che contenevano l’Imitatio. Per quanto riguarda le edizioni a stampa si contano ben 80 incunaboli, 18 dei quali anonimi, 37 attribuiti a Jean Gerson, 21 a Tommaso da Kempis e 4 a san Bernardo. Non si contano, invece, le edizioni a stampa vere e proprie, a dimostrazione del grado di diffusione di quest’opera in tutta la cristianità.

Otto nomi eccellenti

Ma a chi può essere attribuita la paternità del De imitatione Christi? Chi è il suo misterioso, anonimo autore? La controversia sull’attribuzione è ancora aperta e vede

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contrapposte diverse scuole di pensiero. Procediamo allora per esclusione. Abbiamo accennato all’ambito dal quale l’Imitatio avrebbe avuto origine: sarebbe quello monastico benedettino, in un periodo a cavallo tra XIII e XIV secolo. In base ai manoscritti pervenutici, otto sono i personaggi a cui viene assegnata la paternità dell’opera: sant’Agostino, sant’Anselmo, san Bernardo, Giovanni Gersenio, san Bonaventura, Jean Gerson, Tommaso di Kempis e un anonimo monaco certosino. Tiburzio Lupo osserva che le prime cinque attribuzioni testimoniano che l’opera doveva essere piuttosto antica. La prima ipotesi farebbe escludere Jean Gerson: il cancelliere dell’Università di Parigi infatti è vissuto tra il 1364 e il 1429. E altrettanto varrebbe per Tommaso di Kempis, poiché il mistico tedesco visse tra il 1380 e il 1471. Pertanto non regge l’ipotesi secondo cui l’Imitatio avrebbe avuto origine nell’ambito della Devotio Moderna, come alcuni studiosi sostengono. Questo movimento di rinnovamento spirituale, basato sulla povertà, la meditazione individuale sulle Sacre Scritture e su un forte impulso all’apostolato, vide infatti la luce alla fine del XIV secolo. Ne fu iniziatore Geert Groote, predicatore olandese e fondatore dei fratelli della vita comune, una comunità di sacerdoti e laici che, sulla base della Devotio, si dedicavano alle opere di misericordia e alla diffusione della dottrina ascetica (vedi «Medioevo» n. 245, giugno 2017). Tommaso di Kempis viene ricordato per le sue virtú e per l’afflato mistico che ha caratterizzato la sua esistenza. Tuttavia, un accurato confronto tra i suoi scritti e l’Imitatio evidenzia una profonda diversità di stile e di contenuti. Inoltre nessun manoscritto – osserva Lupo – fra i tanti redatti prima del 1441, riporta l’attribuzione al canonico di Windesheim, nella Renania-Palatinato. Il primo incunabolo che attribuisce l’Imitatio a Tommaso di Kempis risale al 1487. Il cardinale Ildefonso Schuster scriveva a proposito di Tommaso: «L’autore medievale parla troppo di monaci, del voto di stabilità nel cenobio, della clausura monastica, ha troppe reminescenze della regola di San Benedetto, ricorda troppo le questioni universitarie del secolo XIII, per poter pensare che egli [l’autore, n.d.r.] sia invece un buon canonico regolare di Windesheim al principio del Rinascimento». Secondo monsignor Edoardo Puyol, che all’Imitatio ha dedicato una corposa opera di ben nove volumi, il celebre testo andrebbe attribuito a Giovanni Gersen, o Gersenio, secondo l’italianizzazione del nome, che fu gennaio

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A destra l’Ultima Cena in un’incisione realizzata per la traduzione in francese dell’Imitatione Christi curata dal poeta tragico Pierre Corneille nel 1656. Nella pagina accanto incisione seicentesca che ritrae Tommaso da Kempis, il monaco e scrittore tedesco da molti indicato come autore del De Imitatione Christi.

abate di S. Stefano in Vercelli, tra il 1220 e il 1245. Si sarebbe verificato un equivoco, sostiene lo storico della Sorbona, tra il cognome Gerson e Gersen: piú di un copista avrebbe insomma frainteso, anche perché il primo godeva di una solida fama, era un teologo apprezzato in tutta Europa, autore inoltre di una importante trilogia spirituale, mentre il secondo era soltanto un umile abate piemontese. Da qui la possibile modifica dell’ortografia del cognome, associata al fatto che entrambi avevano il nome proprio di Giovanni. L’equivoco appare ancor piú evidente se si esaminano alcuni manoscritti italiani nei quali è riportato il nome Gersen seguito dall’appellativo «cancelliere di Parigi».

La controversia sull’attribuzione

Come abbiamo piú volte ribadito, è oramai pressoché certo che il libro è uscito dalla mente e dalle mani di un monaco il quale rivolge ai suoi confratelli una serie di esortazioni improntate alla preghiera e alla meditazione. Jean Gerson non risponde affatto a queste caratteristiche: non era infatti un monaco, ebbe una vita assai movimentata, partecipando attivamente alle vicende politiche e alle controversie ecclesiastiche del suo tempo, e lo stile dei suoi numerosi scritti ha ben poco a che fare con quello dell’Imitatio. Giovanni Gersen è, in conclusione, il piú probabile autore del De Imitatione Christi. Monaco benedettino originario di Cavaglià, nel Vercellese, nato del 1243, fu indicato come autore per primo dallo storico Antonio de Gregory, a cui si deve una Storia letteraria vercellese. Dal momento che per i sostenitori della paternità kempesiana il pio monaco non sarebbe neppure mai esistito, frutto di un semplice errore ortografico Gerson/Gersen, de Gregory non solo ha documentato l’esistenza del Gersen, ma ha indicato con precisione i manoscritti che gli attribuiscono l’opera. Per esempio, il codice Allatianus assegna l’Imitatio a Joannes de

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Canabaco e Canabaco è l’antico nome di Cavaglià, luogo di nascita del nostro monaco; un altro manoscritto, il Codex Genuensis, del 1501, ci informa che l’originale dell’opera si trova a Vercelli. Vi sono inoltre una ventina di manoscritti, italiani ed esteri, che certificano la paternità gerseniana del celebre libro. In ogni caso, a prescindere da chi ne sia l’autore, il De Imitatione Christi ha ispirato intere generazioni di cristiani e non; il pio monaco che ha messo per iscritto le massime spirituali che vi sono contenute, le ha certamente scritte per gli uomini del suo tempo, il Medioevo, in particolare per i suoi confratelli monaci, ma forse senza volerlo e senza saperlo, ha pensato e pregato per l’eternità. F

Da leggere L’Imitazione di Cristo, a cura di Ugo Nicolini, presentazione di Enzo Bianchi, Paoline, Milano 1990 Piergiovanni Bonardi, Tiburzio Lupo, L’Imitazione di Cristo e il suo autore, SEI, Torino 1964 Jean-Joseph Surin, I fondamenti della vita spirituale. Tratti da L’Imitazione di Cristo, Jaca Book, Milano 2017

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iconografia il lavoro

Ritorno al Paradiso

di Corrado Occhipinti Confalonieri

Durante l’Alto Medioevo, inteso come il periodo che va dal V all’XI secolo, la concezione del lavoro – e la percezione, che ne deriva, del ruolo sociale dei suoi protagonisti – mutano in maniera significativa rispetto all’evo antico. Prevale, infatti, l’immagine del lavoro inteso come castigo per il peccato originale commesso dai progenitori degli uomini. Una visione che si traduce anche nella produzione artistica, dando origine a raffigurazioni enigmatiche e talvolta bizzarre…

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e Adamo ed Eva non avessero trasgredito, sarebbero stati vegetariani, cosí come tutte le specie animali, perché Dio dà «come nutrimento le erbe verdi». L’assenza del male viene simboleggiata proprio da questo tipo di alimentazione che non prevede la sofferenza. Tutto cambia con il peccato originale. Cacciati dal Paradiso Terrestre, Adamo ed Eva sono condannati a vivere in una natura ostile, simboleggiata dalla fatica del lavoro per lui e dal travaglio del parto per lei. Entrambi proveranno un perenne stato di freddo e di vergogna a causa della loro nudità. Adamo non è piú il custode del sereno giardino dell’Eden, mentre Eva perde il suo ruolo di paritaria compagna. Il colpevole desiderio della carne la rende sottomessa all’uomo e sofferente per la morte dei figli, il piú terribile castigo per un genitore. Attraverso la continuità nel faticoso lavoro dei campi, Caino tramanda le colpe dei genitori e per aver ucciso il fratello Abele inaugura il concetto

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di morte terrena. Il lavoro è quindi conseguenza del peccato, la fame la sua quotidiana punizione: per soddisfarla l’uomo ha bisogno anche di uccidere gli animali.

Il patriarca dal volto sofferente

Una delle figure che meglio rappresenta l’umanità di quest’epoca è Giobbe, ritratto nel monastero di Subiaco (vedi foto alla pagina accanto). Il patriarca appare con il volto sofferente, ricoperto di piaghe sul corpo scarno e reca in mano l’iscrizione «Nudus egressus sum de utero matris mea» («Sono nato nudo dal seno di mia madre»). Non per niente è considerato patrono dei lebbrosi, «immagini viventi del peccato». Grande è il timore dell’uomo per il Giudizio Universale e dopo la morte ci sono solo due alternative: l’Inferno oppure il Paradiso, per sempre beati o in eterno dannati. Il terrore nell’aldilà è ben rappresentato nelle sculture della cattedrale di Autun, in Borgogna, dove Gisleberto scolpisce due grandi mani

Nella pagina accanto San Gregorio e Giobbe piagato e afflitto, affresco attribuito al Maestro di frate Francesco. XIII sec. Subiaco (Roma), Monastero di S. Benedetto-Sacro Speco, Cappella di S. Gregorio. Assistito dallo Spirito Santo rappresentato sotto forma di colomba, il santo mostra un cartiglio con l’incipit del Libro di Giobbe «Vir erat in terra Us nomine Job» («C’era nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe»), mentre il patriarca regge l’iscrizione in cui si legge «Nudus egressus sum de utero matris mea» («Sono nato nudo dal seno di mia madre»).

che ghermiscono la testa di un defunto appena uscito dal sepolcro. Il deceduto tiene poggiate sulle ginocchia le proprie mani e le gambe sono allargate: secondo i canoni della gestualità medievale, indicano che ha peccato di superbia (vedi foto alle pp. 54-55). Giobbe immagina l’aldilà come una città buia posta sottoterra, da cui, una volta varcata la soglia, non è piú possibile fuggire. Un luogo di silenzio assoluto, cosí angosciante che non c’è neppure bisogno di altri castighi. gennaio

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iconografia il lavoro

La Chiesa scandisce al suono delle campane la vita di questa società essenzialmente contadina e decide quando è il tempo di lavorare, di riposarsi e di santificare le feste. Dietro pagamento della decima, intercede per la misericordia di Dio come segno di pace. I giudici e gli armati sono sempre pronti a ricordare la punizione divina, perché comminano la pena terrena a chi non versa il tributo. Il teologo Onorio Augustodunense (attivo nel XII secolo) sintetizza efficacemente il ruolo dei contadini «per il cui lavoro e fatica la Chiesa è nutrita» essi sono «i suoi piedi», instaurando cosí una diretta dipendenza. Tuttavia, a partire dal XII secolo, si comincia a pensare che il lavoro non è solo punizione per il peccato originale ma strumento di riscatto e salvezza che permette di tornare in Paradiso. Per questo motivo nel Duomo di Modena, costruito da Wiligelmo proprio a

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partire dal 1099, vediamo raffigurati gli operai che hanno contribuito a erigere l’edificio sacro e una scultura di Adamo ed Eva mentre zappano la terra, coperti da pesanti abiti per proteggerli dal freddo, come sollievo alle loro sofferenze (vedi foto qui accanto).

La chiesa dei bovari

Nella chiesa di S. Bassiano a Lodi Vecchio, sullo sfondo stellato di una bianca volta a crociera, sono rappresentati gli operai assieme ai carri trascinati dai buoi che recano i grandi tronchi e i laterizi utilizzati dalla fabbrica (vedi foto a p. 56, in alto). Su di una formella posta all’interno della basilica si trova un mandriano a cavallo con l’iscrizione «1323. La corporazione dei bovari fece realizzare questo soffitto» (vedi foto a p. 56, in basso), mentre su di una colonna un calzolaio al suo banco è intento a fabbricare un paio di stivali (vedi foto a p. 57). gennaio

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Nella pagina accanto Autun (Francia), Cattedrale. Il timpano del portale ovest con il Giudizio Universale scolpito da Gisleberto, nel quale il defunto che ha peccato di superbia (vedi foto qui sotto) viene ghermito da due grandi mani. 1120. In basso Modena, Duomo. Il pannello con la cacciata dal Paradiso Terrestre, facente parte del ciclo di rilievi con storie della Genesi scolpito da Wiligelmo e inserito nella facciata della chiesa. 1099.

Il lavoro comincia quindi a essere considerato nobilitante, perché l’uomo ha acquisito una maggiore consapevolezza di sé. Rappresentarlo cosí di frequente vuol significare la sua importanza. A Cremona, nell’abside della chiesa di S. Michele, sotto il Giudizio Universale del XIII secolo (1285) rappresentato da Cristo che brandisce una spada, troviamo assieme ai Beati anche i Reprobi, fra i quali si notano il giu-

rista, con un mantello di vaio e un libro, il cavaliere e il vescovo. Vengono quindi citati indifferentemente i vari ceti sociali, anche se rimane centrale il giudizio divino. Tale concetto si sviluppa appieno nelle formelle del campanile di Giotto della seconda metà del XIV secolo, dove sono citate tutte le professioni. Quelle in basso rappresentano il lavoro pratico, fatto con le mani, quelle al di sopra il lavoro intellettuale (vedi foto a p. 58).

Studio e progresso

Partendo dal lato ovest, prospiciente il battistero, è significativo che non troviamo né la tentazione di Eva, né la cacciata dal Paradiso Terrestre, come invece nel Duomo di Modena, ma si comincia da lei che fila e Adamo al lavoro nei campi. A seguire i lavori basilari, fra cui la pastorizia, la metallurgia e la produzione del vino. Sul lato sud il lavoro dell’uomo diventa il progresso che lo realizza: astronomia,

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In alto Lodi Vecchio (Lodi), S. Bassiano. La volta dei bovari, affresco del Maestro di San Bassiano. 1323. A destra Lodi Vecchio (Lodi), S. Bassiano. Rilievo del Maestro di San Bassiano, raffigurante un bovaro. 1323.

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Lodi Vecchio (Lodi), S. Bassiano. Rilievo del Maestro di San Bassiano, raffigurante un calzolaio. 1323.

edilizia, medicina, equitazione, tessitura, legislatura e meccanica. Il lato est è un tributo al sapere perché rivolto dove aveva sede lo studium. Nella parte inferiore, sono raffigurati i lavori fondamentali per la civiltà, come il teatro, la giustizia e l’architettura. In alto il lavoro intellettuale, le materie insegnate all’università: il trivium (grammatica, dialettica e retorica) e il quadrivium (aritmetica, musica, geometria e astronomia). Nel Quattrocento vennero spostate sulla facciata nord, vicina al Duomo, alcune formelle fra cui la pittura e la scultura per dare loro maggiore importanza. L’operosità dell’uomo rende la vita migliore e ogni attività porta lassú, ben oltre la cima del campanile (vedi foto a p. 59). Si comincia però a pensare che non ci sia piú un imminente ritorno di Cristo e, anziché riflettere sul Giudizio Universale, ci si interroga su cosa avverrà dopo la propria morte. Anche la confessione, che da pubblica diventa privata, fa meditare l’uomo sui propri peccati, lo fa emozionare quando pensa ai suoi errori e alle sue virtú, in una sorta di autoanalisi dove la conclusione è sempre la stessa: il desiderio di salvezza per la propria anima. L’uomo non crede piú che la vita terrena sia un brusco passaggio verso l’Inferno o il Paradiso. Si afferma la convinzione di un terzo regno, il Purgatorio, dove vanno tutti, tranne la sparuta minoranza dei manigoldi e degli assassini come Caino. La Chiesa si appropria di questa nuova idea di un regno intermedio: in fondo è lei che canonizza i santi e decide chi va in cielo. Il pentimento seguito dalla confessione cancella sí la colpa, ma rimane da scontare la pena stabilita dal sacerdote. La proclamazione del primo anno santo, voluto nel 1300 da papa Bonifacio

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VIII, risponde proprio a questa necessità di scandire modi e tempi del nuovo Regno. Quell’anno migliaia di pellegrini si riversarono a Roma, tanto che fu necessario regolare l’affluenza delle persone sul Ponte Milvio. Chi avesse visitato in devoto pellegrinaggio le basiliche degli apostoli Pietro e Paolo, dopo la confessione, avrebbe visto cancellate come con un colpo di spugna tutte le colpe e meritato l’indulgenza plenaria per quelle che avrebbe dovuto scontare in Purgatorio. I sacrestani raccoglievano con i rastrelli le monete che gli entusiasti pellegrini gettavano come offerte sul pavimento degli altari.

Per il benessere di tutti

Sempre l’organizzazione ecclesiastica calcola il tempo da trascorrere in Purgatorio prima di assurgere in Paradiso e permette di far giungere ai morti i suffragi dei propri cari attraverso l’elemosina, le opere pie, le messe e le indulgenze. La carità verso i poveri e gli ammalati abbrevia la permanenza dei morti in questo regno dell’oltretomba, ma contribuisce anche al progresso dell’economia, perché era un mo-

do importante per far circolare la moneta, con il conseguente effetto positivo di far crescere il benessere della collettività. Mentre Giobbe accettava passivamente la volontà del Signore, dalla fine del Duecento l’iconografia medievale cambia e propone l’uomo nel suo umile ma attivo realismo, ritratto nell’esercitare la misericordia in modo da accorciare il periodo che da morto deve trascorrere in Purgatorio. Il tempo di queste pene intermedie lascia intatti i rapporti con amici e famigliari, perché da questo luogo si può uscire con piú facilità, apparendo in sogno o in visione ai vivi per chiedere compassione. Lo si nota nella chiesa di Paganico (Siena), dove sotto l’immagine dell’Arcangelo Michele, sono raffigurati un uomo munito di zappa mentre offre i prodotti del proprio lavoro, un cesto di pane e una brocca di vino e una donna, con la rocca appoggiata alla spalla, che mostra la sua caritatevole operosità, una veste candida tenuta fra le mani. La scena rappresenta il giudizio tra il bene e il male. Alla vittoria dell’angelo sul demonio, fa seguito il suo

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iconografia il lavoro giudizio imparziale e implacabile che soppesa sui palmi delle mani, come piatti della bilancia, le anime ignude dei due defunti (vedi foto a p. 58, in basso). Il lavoro, un tempo castigo di Adamo ed Eva è mezzo di redenzione perché permette di esercitare la misericordia e quindi di accumulare i meriti per l’aldilà. Per questo due sottili fili congiungono gli oggetti che mostrano all’Arcangelo Michele, fino a una stella sopra le mani delle loro anime. Con le opere buone si sono avviati verso la salvezza: il lavoro caritatevole è quindi virtú per tagliare il traguardo del giudizio divino.

Misericordia e opere di bene

Incontriamo un’altra sorprendente rappresentazione della misericordia all’interno dell’Oratorio di Solaro (Milano; vedi box a p. 60). Sulla volta d’ingresso si trovano le Storie dei progenitori. Densa di significato è la vela dove un Dio molto misericordioso aiuta Adamo ed Eva a indossare le maniche delle vesti che li proteggeranno dal freddo e dalla vergogna dopo la trasgressione. L’Oratorio si caratterizza anche per l’affresco di due mendicanti, uno

dei quali ritratto in modo molto realistico, mentre ricevono da Gioacchino e Anna la carità. Le opere di bene fanno assurgere in Paradiso e tutti ci andranno senza distinzione di classe sociale: quelle raffigurazioni sono lí a ricordarlo per sempre. L’affermarsi della credenza che tutti vanno in cielo attraverso il lavoro e le opere buone porta però come conseguenza negativa l’affievolirsi del timore per la dannazione eterna. Se tutti vanno in Paradiso, allora si può an-

In alto e in basso formelle eseguite da Andrea Pisano per il campanile del Duomo di Firenze (foto alla pagina accanto), la cui costruzione fu avviata da Arnolfo di Cambio e portata a termine da Giotto. 1337. Dall’alto: l’arte della geometria; Fidia, o l’arte della scultura; Apelle, o l’arte della pittura.

A sinistra Paganico (Siena), S. Michele Arcangelo. Il Purgatorio, l’Arcangelo, Michele e l’Inferno, affresco di Biagio di Goro Ghezzi. 1368.

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iconografia il lavoro L’oratorio di Solaro

Un vivace specchio del tempo Costruito nel 1363 nel borgo vicino a Milano per volere del nobile Ambrogio Birago e di sua moglie Caterina, l’oratorio di Solaro si caratterizza per gli affreschi terminati nel 1367 da allievi giotteschi e che sono la sintesi di come l’uomo del Trecento vede il lavoro e la misericordia. Appena entrati, sul soffitto della navata a crociera, spicca in quattro vele la storia di Adamo ed Eva. Dopo l’ammonizione del Signore ai nostri progenitori, vediamo la scena dell’offerta del frutto proibito che Eva stacca dall’albero, in asse con il grande crocefisso in fondo al presbiterio, come a significare la salvezza per il sacrificio del figlio prediletto da Dio. Un messaggio quindi di speranza nel futuro. Dopo la rara scena della vestizione (1), con un Dio

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misericordioso che aiuta i due peccatori a indossare vesti in pelle, simbolo del sacrificio di altri esseri viventi per proteggerli dal freddo, notiamo la scena del lavoro nei campi. Qui Eva riacquista parità nel rapporto con Adamo, perché si trova al suo fianco e collabora con lui a zappare la terra (2). Com’è diversa questa sua rappresentazione rispetto a quella nel Duomo di Autun, in una cui scultura vediamo un’Eva distesa a terra, sinuosa come un serpente (vedi foto a p. 59)! Il Giudizio Universale a Solaro è raffigurato nella parete a sinistra dell’ingresso, non in posizione centrale e poco illuminato da una sola finestra, che fa capire com’è distante il tempo in cui avverrà. La presenza di Maria che mostra i seni nudi e di san

Giovanni Battista con la propria testa in mano, sono entrambi segno di intercessione per l’umanità verso il Cristo giudicante nel mezzo dell’affresco. Dopo un arco a botte, l’oratorio viene inondato dalla luce di due finestre laterali, dove viene rappresentata la storia di Maria che parte da lontano, prima del suo concepimento. Inizia in alto a sinistra con i suoi genitori, Gioacchino e Anna, mentre fanno la carità ai due mendicanti, di cui uno storpio per via della stampella, sotto lo sguardo ammirato di alcuni astanti sulla destra. Particolari realistici sono il bicchiere e la brocca a terra e la faccina di un bimbo che assiste alla scena affacciandosi da una finestrella, come se imparasse cosí quello che dovrà fare da grande (3).

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Rilievo di Gisleberto raffigurante Eva distesa, dalla Cattedrale di Autun. 1120. Autun, Musée Rolin.

che peccare un po’, ci si può anche lasciare andare al lusso e alla vanità, tanto il passaggio nel terzo regno è transitorio. Il piacentino Giovanni de Mussis è particolarmente colpito da questo lusso sfrenato, ai limiti dell’osceno, tanto da distinguere nella sua Cronaca due tipi di abbigliamento femminile: le donne «honestae» sfoggiano vesti in tessuti di lana, di seta e di velluto impreziositi da perle trapuntate, con le maniche cosí ampie da toccare per terra. Le loro tuniche sono chiuse da un alto collare, possono essere strette in vita da una cintura e munite di un corto cappuccio. Le donne definite dal cronista «ciprianae», invece, oltre alle stesse vastissime maniche delle prime, indossano abiti stretti come una guaina, chiusi da pomelli d’argento o di perle e sono cosí scollati che pare «quod mamillae velint exire de sino earum». La Chiesa non poteva tollerare che il Purgatorio fosse considerato come un luogo ameno, anche se per la mancanza dei diavoli e con la sola presenza del fuoco era difficile e monotono rappresentarlo. Occorre ricordare che Lucifero, l’angelo piú avvenente del Paradiso, si era ribellato a Dio perché si credeva piú bello di Lui. Proprio l’eccesso di superbia

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che derivava da questa convinzione l’aveva accecato, perdendo cosí il privilegio di vedere il Signore. Per instaurare allora nelle persone il timore del regno intermedio, un luogo orrendo, anche se ancora vicino alla terra, dove il tempo scorreva lento, lungo e terribile, decide di puntare sul timore per le conseguenze della morte terrena: il disfacimento del corpo. Cosí a partire dal XIV secolo esplode la rappresentazione del macabro.

Quella vecchia rugosa...

Quello stesso corpo curato, ammirato, declamato dai poeti e ricoperto dalle vesti piú preziose provenienti dalle piú lontane terre d’oriente doveva essere rappresentato come appariva dopo la morte: putrido e in disfacimento. Lo si può notare sempre a Paganico dove, accanto alla rappresentazione delle anime soppesate dall’Arcangelo Michele, notiamo un orribile essere alato che esce dall’antro di una buia caverna, «la donna de lo ‘nferno». Si tratta di una rugosa vecchia dai radi capelli bianchi, con i seni avvizziti e dal corpo in parziale stato di decomposizione che si contrappone efficacemente alla sua bella figura di quando in vita peccava forse

di accidia, per via delle mani legate dietro la schiena. Si rivolge all’Arcangelo alla sua sinistra come a reclamare le anime di Adamo ed Eva sulla bilancia. Ma dall’espressione severa di Michele che sottintende un netto rifiuto, si capisce che non le cederà, perché lui ha valutato positivamente il lavoro e la carità che hanno portato avanti in vita. Simili «film dell’orrore» dovevano spaventare non poco i fedeli e non bastava neppure chiudere gli occhi o distogliere lo sguardo come facciamo noi, perché la scena restava sempre lí ad perpetuam rei memoriam. F

Da leggere Rosanna Ferrari, Stupore e bellezza. Oratorio santi Ambrogio e Caterina, Associazione Padre Monti, Saronno 2010 Chiara Frugoni (a cura di), Il Duomo di Modena, Franco Cosimo Panini Editore, Modena 1996 Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio, Torino, Einaudi, 2014 Pietro Toesca, La pittura e la miniatura nella Lombardia dai piú antichi monumenti alla metà del Quattrocento, Hoepli, Milano 1912

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L’arte delle antiche chiese/2

AOSTA

Tesori sotto i tetti 62

di Furio Cappelli gennaio

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Sulle due pagine Aosta, cattedrale di S. Maria Assunta. Affresco raffigurante la piaga dei tafani. 1040-1050. Nella pagina accanto, sopra il titolo capolettera miniato raffigurante il rito per la festa della dedicazione del Duomo di Aosta, dal Messale donato da Francesco de Prez. 1464. Aosta, Biblioteca Capitolare.

Riscoperti solo pochi decenni fa, gli affreschi del Duomo e della chiesa di S. Orso, sebbene mutili, costituiscono una straordinaria testimonianza dell’arte medievale italiana ed europea. Sono composizioni dai colori vivaci, orchestrate con una regia sapiente ed efficace, di cui sono protagonisti i personaggi piú insigni e venerati dell’Antico e del Nuovo Testamento MEDIOEVO

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arte delle antiche chiese/2

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uando pensiamo alle cattedrali e ai santuari dell’arte romanica italiana, la mente va agli esempi illustri del Duomo di Modena o di quello di Pisa, del S. Ambrogio di Milano o del S. Marco di Venezia: edifici meravigliosi e ben conservati, che tuttavia non compongono un quadro esaustivo. Esistono infatti testimonianze altrettanto preziose, anche se meno note e appariscenti, senza le quali non potremmo avere un’idea efficace di alcune importanti componenti dell’arte monumentale romanica. Per esempio, le modifiche costruttive e decorative comportavano spesso, nel tempo, l’eliminazione pressoché totale dei cicli pittorici. Nel caso di Aosta, però, nel Duomo e nella collegiata extramuranea dei Ss. Pietro e Orso, le pareti dell’aula sono state controsoffittate nel XV secolo e nell’intercapedine tra le volte e le travature del tetto si è cosí creata una fascia di rispetto, che ha permesso la sopravvivenza di larga parte della fascia sommitale dei dipinti. Esistono casi in cui le pitture romaniche si sono conservate in modo molto piú ampio, per esempio nella basilica campana di S. Angelo in Formis, i cui affreschi (1072-86) si devono alla volontà dell’abate Desiderio di Monte Cassino, ma quelle di Aosta sono piú antiche, e si osservano per giunta in un ambiente urbano o periurbano. E il Duomo ci offre inoltre l’unico caso superstite di una decorazione pittorica in una cattedrale dell’XI secolo.

Un chiostro senza precedenti

Le particolarità non si fermano peraltro ai cicli pittorici: S. Orso conserva infatti nel suo chiostro, quasi interamente, l’arredo scultoreo della struttura originaria (1133 circa) e in particolare un complesso di 30 capitelli istoriati (due dei quali dislocati a Torino), che è di per sé un unicum nell’arte italiana. Prima della fioritura dei particolarissimi chiostri cosmateschi, opera di quei maestri romani che padroneggiavano il marmo a mosaico in modo insuperato, dovevano esistere altri chiostri romanici sul tipo di Aosta, non solo nei complessi monastici ma anche presso le cattedrali e le collegiate dei canonici. Tuttavia, allo stato attuale, in Italia, oltre ad Ao-

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Le due torri campanarie simmetriche della cattedrale aostana di S. Maria Assunta, la cui costruzione venne avviata nell’XI sec., sui resti di una precedente basilica paleocristiana.

sta, rimane all’attenzione il solo grande chiostro che affianca la cattedrale siciliana di Monreale, realizzato diversi decenni piú tardi (1180 circa). Un caso piú vicino, cronologicamente e geograficamente, è semmai il chiostro di S. Andrea di Genova (1160 circa), ricomposto presso la Porta Soprana, i cui sostegni sono però solo in parte riconducibili alla struttura romanica originaria. Per trovare oggi equivalenti adeguati, insomma, il chiostro di S. Orso, sia pure ricomposto e incompleto, dev’essere ricollegato ad alcuni celebri esempi che si rinvengono Oltralpe, in Provenza, nel Rossiglione e in Catalogna. Le due chiese aostane presentano anche resti di pavimenti a mosaico istoriato del XII secolo, e alla stessa epoca risalgono le vetrate superstiti del Duomo: due tondi conservati nel Museo del Tesoro, che raffigurano gennaio

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In alto pianta del centro storico di Aosta con, in evidenza, la cattedrale di S. Maria Assunta e la chiesa di S. Orso.

la Morte e l’Assunzione della Vergine e che sono le piú antiche attestazioni del vetro istoriato con scene narrative di tutto il Medioevo italiano.

La storia

La principale chiesa di Aosta è dedicata a S. Maria Assunta e sorge presso il Foro della città romana (Augusta Praetoria), di cui è ben evidente il vasto criptoportico. Le origini di Notre Dame (cosí il duomo era noto quando il francese era la sola lingua ufficiale nella Valle) possono essere ripercorse grazie alle indagini archeologiche. L’analisi dei reperti murari ha infatti permesso di visualizzarne le fasi costruttive piú antiche, a partire da una domus aristocratica che poté accogliere le riunioni della prima comunità cristiana del luogo. Ma l’archeologia ha anche contribuito a chiarire l’epoca precisa e l’assetto originario della chiesa attuale, che si deve sostanzialmente a una vasta opera ricostruttiva intrapresa nei primi decenni dell’XI secolo. In quella fase storica si decise di demolire la cattedrale paleocristiana a navata unica con l’annesso battistero (IV-V secolo) e sul luogo dell’antico complesso si realizzò cosí

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S. Maria Assunta, il Crocifisso ligneo. XIV sec.

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arte delle antiche chiese/2

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

un unico, vasto edificio, con aula a tre navate e doppio coro. Si introdussero in questo modo novità che erano patrimonio dell’arte aulica d’Oltralpe, per effetto delle costruzioni monumentali promosse in epoca carolingia e ottoniana. La chiesa, infatti, si presentò con un verticalismo inconsueto: lo slancio in altezza delle pareti – che tanta importanza avrebbe poi assunto nella genesi dell’architettura gotica – era già in uso nelle grandi chiese di rappresentanza volute dagli imperatori o dai loro dignitari, ma non godette mai di grande fortuna in Italia, dove resisteva un concetto della proporzione ereditato dalla tradizione classica.

Preghiere e pubbliche letture

Di grande effetto era poi l’inaudita struttura a due cori. Alle due estremità dell’aula, sia a oriente che a occidente, si presentava cioè un altare di spicco con la propria abside, affiancata per giunta da due torri che permettevano di accedere a un piano superiore, nel quale erano alloggiate cappelle o tribune. L’altare del coro orientale, il piú importante, era dedicato a santa Maria ed era riservato alla liturgia festiva, a uso del vescovo e dei canonici. L’altare del coro occidentale, di uso parrocchiale, per la liturgia quotidiana come pure per la lettura dei

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Sulle due pagine particolari degli affreschi che si conservano in S. Maria Assunta, databili agli anni 1040-1050. Da sinistra, in senso orario: la greca che accompagna i ritratti di eminenti figure religiose (in alto) e il bastone gettato a terra da Aronne che si trasforma in un serpente; i maghi del faraone; un maestoso cavallo dal manto pomellato nella scena della conversione di sant’Eustachio.

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Pianta della cattedrale aostana: 1. altar maggiore; 2. ambone; 3. cattedra vescovile; 4. custodia eucaristica; 5. fonte battesimale; 6. chiostro dei canonici; I. Crocifisso; II. Mosaici pavimentali romanici; III. Museo del Tesoro della Cattedrale; IV. Urne-reliquiari dei beati Bonifacio I ed Emerico I di Quart.

pubblici editti, era dedicato a san Giovanni Battista, e raccoglieva cosí la memoria dell’antico battistero. Non c’era una facciata «classica» e l’ingresso principale era situato sul fianco meridionale, mentre su quello opposto si sviluppava il chiostro dei canonici, poi sostituito dalla struttura attuale, che risale al XV secolo. Il vescovo che promosse questa formidabile impresa si chiamava Anselmo – da non confondersi con l’omonimo filosofo Anselmo d’Aosta – e fu in cattedra tra il 994 e il 1025. Prima di intraprendere il cantiere del Duomo, Anselmo aveva fondato fuori le mura la chiesa dei Ss. Pietro e Orso, in un luogo denso di memorie, già sacralizzato dall’antica chiesa cruciforme di S. Lorenzo con l’annessa necropoli. Rivestire la carica episcopale in Aosta significava appartenere al rango dei piú importanti dignitari della corona (la città apparteneva allora al regno di Borgogna): lo stesso Anselmo sfoggiava un titolo principesco (princeps Regni) e poteva peraltro vantare un legame indiretto con il sovrano. Sua madre Aldiuda, prima di celebrare le nozze con un conte, era stata infatti concubina del re Corrado e aveva dato alla luce suo figlio Burcardo, arcivescovo di Lione e abate

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di Saint-Maurice-d’Agaune, un’importante fondazione monastica del Vallese (nella Svizzera sud-occidentale). Prima ancora che Anselmo morisse, nel 1022, fu già designato il suo successore. Si trattava di un ulteriore Burcardo, figlio di sua sorella Ancilia, che si era sposata con Umberto I Biancamano, conte del Belley e capostipite dei Savoia. Si creò cosí una congiuntura di vaste implicazioni, giacché Umberto divenne conte di Aosta nel 1024, e l’anno dopo suo figlio Burcardo salí sulla cattedra episcopale. Da un lato Umberto pose le basi della dominazione familiare sulla città, dall’altro Burcardo dette prova di un certo dinamismo, badando al proprio prestigio e al potere della sua stirpe. Nel 1031 non esitò ad abbandonare la sede di Aosta per divenire vescovo di Lione, e non rinunciò alla sua carica di prevosto di SaintMaurice-d’Agaune (laddove l’abate era suo fratello Aimone!). La sua ingordigia risultò talmente vistosa che il suo nome passò agli annali ben oltre le Alpi e il monacocronista Rodolfo il Glabro (985 circa-1050 circa), nelle sue Storie, lo addita come un esempio di superbia.

Un progetto ambizioso

Le analisi dendrocronologiche condotte sui legni del sottotetto del Duomo, permettono di affermare che la chiesa era in corso d’opera proprio all’epoca di Bur-

LA VISITA

Il Duomo Dopo gli interventi di epoca moderna, l’unico ambiente dell’assetto originario del Duomo che si può notare è la cripta, che si trova in corrispondenza del presbiterio. Ma la vera sorpresa è costituita dai resti delle pitture romaniche che si possono ammirare nel sottotetto della navata centrale, a seguito della recente scoperta (1979) e di un lungo restauro (1986-91). Salite alcune rampe di scale, si accede a un camminamento che si fa strada tra le capriate lignee, sopra all’estradosso delle volte. Gli affreschi si datano agli anni 1040-50 e dovevano in origine presentare tre registri per lato: il superstite era quello conclusivo, intervallato dalle finestre che un tempo illuminavano la navata. Sul coronamento corre un’elegante greca, che propone, a sinistra, una galleria di antenati di Cristo che culmina con Maria, mentre a destra si succedono ritratti di eminenti religiosi contemporanei. Tra un ritratto e l’altro, si interpongono talvolta un oggetto o un animale di forte carica simbolica, mentre la severa galleria dei personaggi biblici lascia spazio al racconto della volpe che si finge morta per fare strage di galline. Sulle due pagine altri particolari degli affreschi di S. Maria Assunta. 1040-1050. Da sinistra, in senso orario: il capitano dai lunghissimi baffi, che vorrebbe fare sua Teospite, moglie di sant’Eustachio; un servitore impegnato a portare cibi per la mensa del ricco Epulone; sant’Eustachio che si dispera perché un leone e un lupo hanno catturato i suoi figli.

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Il complesso narrativo sottostante, congegnato sul modello illustre dei perduti cicli pittorici delle basiliche paleocristiane di Roma, si componeva in totale di 40/60 riquadri. Ne sono stati recuperati 16 (8 per lato), nella misura in cui lo consentono le profilature delle volte. Sulla parete destra, a partire da est, si svolge una narrazione basata su temi biblici, in massima parte episodi tratti dall’Antico Testamento. Dopo una prima scena non identificabile con certezza, si racconta l’incontro di Aronne con il faraone. Il fratello di Mosè tenta di convincere il sovrano egizio a liberare il popolo ebraico ridotto in schiavitú, e, per dare una prova del potere divino di cui è latore, getta per terra il proprio bastone e questo si trasforma in un serpente. I maghi del faraone, in tutta risposta, compiono un incantesimo con i loro bastoni, ma i loro serpenti vengono abbattuti dal serpente di Aronne (Esodo, 7). Nel frammento visibile, il faraone, sbigottito o in preda alla collera, è assiso nella sua reggia con due guardie impassibili alle spalle, e addita un rettile che descrive ampie ed eleganti spire. Si tratta forse del serpente di Aronne, intento a colpire uno dei serpenti dei maghi. Seguono le piaghe d’Egitto e si riconoscono la trasformazione in sangue delle acque del Nilo, l’invasione delle rane e la piaga delle mosche. Risultano efficaci proprio le evocazioni degli animali molesti (in particolare le mosche che si stagliano in gran numero sul bianco dello sfondo), cosí come la caratterizzazione dei maghi, intenti a emulare con scrupolo i terribili prodigi divini con un bastone immerso nelle acque del fiume. Dal canto suo, il faraone vede planare una rana nel mezzo della ciotola da cui sta bevendo, ed è letteralmente subissato da un nugolo di mosche.

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Si registra poi uno stacco sorprendente che ci porta a un tema desunto dal Nuovo Testamento: la parabola di Lazzaro e del ricco Epulone (Luca 16, 19-31). Di quest’ultimo si nota quanto resta di una scena di banchetto, con la bella figura di un servo all’opera, mentre del povero vediamo l’anima condotta in cielo da un angelo. Osservando la parete di controfacciata, notiamo invece due grandi angeli che sembrano adagiarsi sulla volta. L’effetto, naturalmente, è del tutto casuale, poiché dobbiamo immaginarli al culmine di un arco trionfale, nell’atto di rendere omaggio a una figura che doveva campeggiare sul catino dell’abside occidentale, un Cristo in maestà o una Vergine col Bambino. Sulla parete sinistra, ripartendo da ovest, si scorrono gli episodi dell’articolato romanzo agiografico di sant’Eustachio, qui nella sua prima trasposizione figurativa superstite (vedi «Medioevo» n. 244, maggio 2017). Un maestoso cavallo con il manto pomellato (a macchie tonde) segnala la scena in cui il protagonista, nel mezzo di una caccia (sfoggia

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arte delle antiche chiese/2 infatti un corno da richiamo appeso a tracolla) assiste all’apparizione del Signore. Uno strepitoso personaggio caratterizzato da baffi lunghissimi, raffigurato a bordo di una nave, è il turpe capitano che pretende le grazie di Teospite, la bella moglie di Eustachio, come pagamento di una traversata. Ed efficacissima è la scena di dolore che ritrae il santo nell’atto di tirarsi i capelli con rabbia, quando si avvede che i suoi figli sono stati rapiti dalle belve. Al culmine della storia, si nota poi un accorgimento di grande forza cinematica. Da un lato, rivolto verso sinistra, si nota l’imperatore Traiano seduto sotto una tenda da campo che accoglie Eustachio tra le fila dei suoi generali piú fidati e, subito dopo, il «terribile» Adriano, rivolto verso destra con uno sguardo attento e deciso, che condanna lo stesso Eustachio al martirio, all’interno della sua corte.

S. Orso

La chiesa si preannuncia anche da lontano grazie alla splendida torre campanaria che sorge isolata di fronte all’ingresso principale, innalzata – almeno in parte – intorno al 1151, come risultava da un’epigrafe scomparsa. A seguito di una modifica tardo-medievale, si presenta coronata da

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una guglia piramidale con quattro torricini d’angolo. La torre campanaria originaria era invece conglobata nella chiesa, facendo corpo con il settore centrale della facciata antica. All’interno, si nota ancora oggi un resto della struttura, leggibile sulla parete sinistra della navata centrale. Della fase riconducibile al vescovo Anselmo rimangono pure la severa cripta e, soprattutto, gli affreschi del sottotetto (1015-20), ai quali si correlano alcuni lacerti osservabili nell’aula attuale. I dipinti furono eseguiti pochi decenni prima che venisse decorato il Duomo, dove agí in prima battuta la stessa squadra di pittori già impegnata in S. Orso. Vi ritroviamo la greca sommitale, qui «abitata» esclusivamente da pesci e da uccelli, come pure uno stile inconfondibile, al tempo stesso concreto e immaginoso. Anche in S. Orso le pitture murali, note sin dal 1944, sono fruibili grazie a un camminamento appositamente realizzato (1968). Proprio l’ingombro della predetta torre in fondo alla chiesa impose di «trasferire» il Giudizio Universale (generalmente eseguito in controfacciata) sulla parete sinistra della navata centrale. Spiccano in modo particolare due angeli che suonano le trombe, con senso di ritmo e di «musicalità» delle linee, grazie alla loro vivacità grafica e cromatica.

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Sulle due pagine particolari degli affreschi della chiesa di S. Orso. 1015-1020. A sinistra, sant’Andrea governa la barca a bordo della quale sono assiepati gli apostoli mentre soffiano venti di tempesta; nella pagina accanto, san Giovanni Evangelista.

Da leggere Sandra Barberi, Il chiostro di S. Orso ad Aosta, L’Erma di Bretschneider, Roma 1988 Sandra Barberi (a cura di), Medioevo aostano. La pittura intorno all’Anno Mille in Cattedrale e in Sant’Orso, Umberto Allemandi & C., Torino 2000

Sulla parete destra, a partire da est, si susseguono scene ispirate a personaggi del Nuovo Testamento, con una particolare attenzione per gli apostoli. Memorabile è il gesto imperioso del proconsole Egeas al momento di ordinare il martirio di sant’Andrea. San Giovanni Evangelista si staglia con una posa severa da profeta di fianco a un paesaggio urbano che rievoca Efeso (Anatolia). Ha invece un’intonazione quasi teatrale la scena in cui san Giacomo Maggiore viene condotto al martirio dal suo accusatore, lo scriba Josias, con una corda stretta al collo. Lo sfondo articolato degli edifici di Gerusalemme ha un forte effetto scenico, e accentua il senso «realistico» della rappresentazione. Due scene ambientate sul lago di Genezaret (o di Tiberiade) si susseguono in una sorta di geniale dittico, con sant’Andrea e san Pietro che si ripetono con pose lievemente diverse, come in due fotogrammi di una stessa ripresa. Essi spiccano come rematori sul gruppo degli apostoli assiepati nella barca, dapprima in preda all’agitazione e poi rasserenati. I venti (raffigurati come gustose facce alate) soffiano impetuosi e increspano pericolosamente le acque, ma poi la tempesta viene sedata. La figura di san Pietro, nel suo ruolo di rematore sereno e impassibile, allude naturalmente al suo ruolo di guida della Chiesa, e si ricollega alla dedicazione originaria della chiesa aostana. La sua calma è naturalmente determinata dalla fede in Cristo, che nel primo episodio camminava sulle acque (Giovanni 6, 16-21) e nel secondo, come si vede ancora oggi, è intento a dormire, disteso sul fondo della barca (Luca 8, 22-25). Unificati dall’ambientazione ma distinti, i due episodi sono stati fusi con grande ingegno visivo. Simili virtuosismi rendono affascinante e sorprendente l’universo della pittura romanica, soprattutto se, come nel caso di Aosta, le sopravvivenze sono ampie e di cosí alta qualità.

cardo, segno evidente che questa fastosa realizzazione rientrava in pieno negli ambiziosi piani degli Umbertini. Essi ebbero infatti modo di legare il proprio nome all’edificio piú importante della città, prima ancora di assumerne la signoria. I conti di Savoia assunsero la dominazione di Aosta nel 1191, e la città rientrò nello Stato sabaudo nel 1416.

Una ristrutturazione radicale

Gli interessi della famiglia dominante erano rappresentati in città da un visconte della nobile e potente stirpe degli Challant, a cui apparteneva il canonico della cattedrale, Giorgio, che, nel 1494, intraprese un vasto programma di ristrutturazione della chiesa. In particolare, si realizzò un nuovo soffitto a volte e venne abolito il coro occidentale, in modo da costituire una facciata secondo l’assetto piú consueto degli edifici sacri. Alla fine di tutte queste modifiche sopravvissero solo due delle quattro torri, quelle poste ai lati del coro orientale. Come accennato, proprio i lavori intrapresi dallo Challant hanno tuttavia permesso di «salvare» i fascioni superstiti della decorazione pittorica originaria, nel Duomo come in S. Orso. Lo stesso personaggio, in veste di priore, provvide infatti anche alla radicale ristrutturazione della chiesa extramuranea, a partire dal 1499. S. Orso era all’epoca gestita da una comunità di canonici di primo piano nell’ambiente cittadino, tanto che affiancavano i canonici della stessa cattedrale al momento dell’elezione del vescovo. Un capitello del chiostro testimonia che il collegio venne fondato (o riformato) nel 1133, secondo la Regola di sant’Agostino, per volontà del vescovo Erberto (vedi «Medioevo» n. 240, gennaio 2017). F

NELLA PUNTATA PRECEDENTE ● Piemonte: Casale Monferrato, S. Evasio; Vercelli, S. Andrea NEL PROSSIMO NUMERO Lombardia: Milano, S. Lorenzo e S. Ambrogio

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di Isabelle Chabot

LA CONDIZIONE FEMMINILE

Rompere il silenzio

Sul ruolo sociale della donna nell’età di Mezzo le fonti sono, perlopiú, avare. Tuttavia, recenti indagini hanno setacciato canali diversi e alternativi a quelli della storiografia abituale, svelando la vera storia dell’«altra metà del cielo» nel Medioevo...

Città del Vaticano, Palazzi Vaticani, Appartamento Borgia. Particolare della Visitazione di Pinturicchio (al secolo Bernardino di Betto), raffigurante giovani donne che filano e ricamano, e vari personaggi in secondo piano, fra cui il profeta Zaccaria intento a leggere un libro. 1492-1494. L’affresco simboleggia la divisione dei compiti nella società medievale, che assegna i lavori di casa alle donne.


Dossier

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ell’autunno del 1928, la consultazione del catalogo della British Library, dove si era recata in cerca di informazioni sulle cause della povertà femminile, destò nella scrittrice inglese Virginia Woolf (1822-1941) «stupore, meraviglia, sconcerto», sentimenti di cui fece partecipi i suoi lettori l’anno successivo in un saggio sulla creatività letteraria femminile destinato a diventare una pietra miliare del pensiero femminista (Una stanza tutta per sé, 1929): «Avete un’idea di quanti libri sulle donne si scrivono nel corso di un anno? E avete un’idea di quanti fra questi sono scritti da uomini»? In questa «valanga» di saggi scientifici, trattati morali e manuali di comportamento stilati da «schiere di insegnanti e religiosi pronti a salire su pedane e pulpiti e a dissertare con loquacità», la scrittrice rinunciò ben presto a trovare risposte alle sue domande. In quel fiume di opinioni assai contraddittorie sulle donne, angeli e demoni, eteree muse e pericolose tentatrici da domare, era difficile trovare il bandolo della matassa: «Era deprimente, era sconcertante, era umiliante», e la Woolf concluse che «si poteva fare benissimo a meno di aprire i loro testi». Di ritorno a casa, decise quindi di «restringere il campo, di chiedere allo storico, che registra non le opinioni ma i fatti, di descrivere le condizioni in cui le donne hanno vissuto, non nel corso dei secoli, ma in Inghilterra, per esempio all’epoca di Elisabetta».

Cercare altrove

Eppure, scorrendo i titoli dei capitoli e l’indice analitico della Storia dell’Inghilterra di George Trevelyan, pubblicata due anni prima, la scrittrice si convinse subito che «la» storia cosí come la concepiva l’illustre professore di Cambridge non contemplava minimamente la presenza femminile, a eccezione di qualche sporadica menzione di regine e nobildonne. Certo, era assai

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In alto miniatura raffigurante la contessa Iolanda di Soissons mentre prega davanti alla Vergine, dal Salterio-Libro d’Ore della stessa nobildonna. 1280-1299. New York, Pierpont Morgan Library. A destra la scrittrice inglese Virginia Woolf (1882-1941), che accusò il mondo accademico di scarsa attenzione nello studio della condizione femminile nella storia.

Sulle due pagine miniatura raffigurante un corteo di donne che suonano strumenti musicali, dalla Bibbia di re Venceslao IV di Boemia. 1389-1400. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. gennaio

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probabile che le donne comuni non avessero preso parte a guerre, conquiste e grandi processi diplomatici, «che creano quell’idea del passato che è cara agli storici». Le piú modeste «gesta» femminili andavano ricercate altrove, raccogliendo in una documentazione probabilmente «sparpagliata» – la Woolf suggeriva con notevole acume di indagare nei «registri parrocchiali e nei libri di conti» – quella massa di informazioni capace di colmare la «scarsità di fatti» nella quale si era

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imbattuta. «Una impresa ambiziosa aldilà di ogni mia audacia, pensavo cercando sugli scaffali dei libri che non c’erano, quella di suggerire agli studiosi di quelle famose università che avrebbero dovuto riscrivere la storia, la quale, devo ammetterlo, cosí com’è spesso risulta un po’ strana, irreale, sbilenca: ma perché non si potrebbe aggiungere un supplemento alla storia? Che si potrebbe chiamare, naturalmente, con qualche nome poco appariscente in modo tale che le donne possano

figurarvi in maniera non sconveniente per nessuno?». A poco meno di un secolo di distanza, si può dire che la sfida lanciata in tono quasi dimesso dalla Woolf sia stata ampiamente raccolta da nuove leve di storiche, presto raggiunte da storici, che hanno esplorato insospettati giacimenti documentari, ma, soprattutto, sottoposto le fonti già conosciute a un rinnovato questionario. A dire il vero, le donne del Medioevo non erano del tutto scono-

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Dossier sciute: una tradizione di studi iniziata nell’Ottocento aveva esplorato la loro condizione giuridica, ma anche gli aspetti piú spicci della loro vita quotidiana. Il Medioevo rivisitato alla luce di un revival gotico inaugurato dai romantici era popolato di insigni figure femminili – regine, sante e badesse –, ma anche di oscure massaie «del buon tempo antico», ritratte nel loro «regno» domestico, di dame prese al gioco dell’amor cortese e di streghe malefiche.

La regina dei trovatori

Nella galleria di ritratti delle donne illustri spiccavano immancabilmente Eleonora, duchessa di Aquitania, sposa licenziosa e traditrice di due monarchi, uno francese, l’altro inglese, e «regina dei trovatori», oppure Eloisa, colta paladina del libero amore, entrambe vissute nel XII secolo e dipinte, insieme a poche altre, come le campionesse di un improbabile proto-femminismo senza seguito. Oltre a queste innocue ribelli, una schiera indistinta di buone mogli e madri di famiglia ritratte attraverso gli usi e costumi del loro tempo veniva esaltata nel nome di un ideale borghese di femminilità addomesticata. Reminiscenze di questo «Medioevo al femminile» (al femminile singolare) si possono ancora trovare qua e là,

nel cinema o nella letteratura, talvolta anche in opere storiche che non rinunciano facilmente a certi schemi rassicuranti, ma il quadro concettuale e gli strumenti d’analisi disponibili agli storici sono ormai radicalmente mutati. Cosí, passati al vaglio di un’accurata critica filologica e storica, i rari testi che evocano Eleonora, Eloisa e poche altre Dame del XII secolo – cosí s’intitolava la serie di biografie che compongono l’ultima opera di Georges Duby – restituiscono un’immagine meno dirompente di queste

figure femminili, e – avverte lo storico francese – parlano piú distintamente delle rappresentazioni che gli uomini del tempo si facevano delle donne e del posto che assegnavano loro nell’ordine del mondo. Per secoli, infatti, le donne non si sono espresse con una voce propria. Anche se, in contesti abbastanza eccezionali, hanno avuto accesso alla scrittura, di loro non rimangono che rarissime, e talvolta incerte testimonianze dirette. È assai probabile, per esempio, che il famoso scambio epistolare tra Eloisa e Abelardo non sia da leggere come la confessione intima e autografa di una folle passione amorosa, bensí come uno dei tasselli di una costruzione letteraria realizzata in un ambiente monastico alla metà del XII secolo, con fini edificanti e morali. Il monopolio quasi incontrastato della parola maschile, durante buona parte del Medioevo, è indubbiamente il principale scoMiniatura raffigurante Clotilde, regina dei Franchi, che, alla morte del marito, Clodoveo, divide il regno fra i quattro figli maschi, da un’edizione delle Grandes Chroniques de Saint-Denis. Prima metà del XIV sec. Tolosa, Biblioteca Municipale.

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Nella pagina accanto, in alto illustrazione raffigurante santa Radegonda che viene condotta davanti al re Clotario, da un’edizione manoscritta della Vita di santa Radegonda. XI sec. Poitiers, Bibliothèque municipale. A destra miniatura raffigurante la badessa Eloisa con un allievo, da un’edizione delle Lettere della religiosa. 1500 circa. Londra, British Library.

glio, difficilmente superabile, che gli storici si trovano davanti quando vogliono avvicinarsi alla realtà delle condizioni di vita delle donne. A prendere la parola sono prevalentemente uomini di Chiesa, i quali, per scelta, si sono imposti di non avvicinarsi alle donne, di non conversare con loro. Il loro discorso, profondamente intriso di una misoginia che varia soltanto di intensità da un autore all’altro, ha sostanzialmente una triplice funzione: la prima è di confortare i chierici stessi della fondatezza e della superiorità della loro rigorosa scelta di vita, costretti come sono a una castità che non pochi sono tentati di trasgredire: la moralizzazione della Chiesa è una battaglia che si combatte anche con le armi della retorica. La seconda è di mettere in guardia gli altri uomini, i laici, dagli spaventosi pericoli in cui incorrono nel frequentare

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troppo assiduamente quegli esseri per «natura» imperfetti, viziosi, malvagi; la terza è di controllare e disciplinare questa pericolosa malvagità femminile per impedirle di nuocere.

Un pensiero arcaico

I detentori dell’alta cultura ecclesiastica sono sicuri della loro missione e attingono le loro certezze alle Sacre Scritture e alla tradizione dei Padri della Chiesa, nonché al sapere filosofico e scientifico antico progressivamente riesumato negli scriptoria dei monasteri, nelle scuole e nelle università. Forti di argomentazioni sedimentate nei secoli, gli uomini dell’Occidente medievale edificano il proprio quadro teorico e ideologico di un sistema di pensiero estremamente arcaico e – ci dicono gli antropologi – universalmente condiviso da tutte le società umane che, sulla base dell’osservazione di

una differenza biologica, ha assegnato una valenza differenziale ai sessi stabilendo cosí una gerarchia presentata come fondata in natura allorché è il prodotto di una complessa elaborazione culturale. Per i monaci e i prelati alla guida della cristianità, la gerarchia è già insita nel mito fondatore raccontato nelle prime pagine del libro della Genesi. I glossatori parigini del XII secolo, riallacciandosi a una lunga tradizione di commenti che va da sant’Agostino (V secolo) a Beda il Venerabile, Alcuino (VIII secolo), Rabano Mauro (IX secolo) per citarne solo alcuni, leggono nel racconto della Creazione la volontà divina di assoggettare la donna all’uomo, la cui superiorità deriva dall’immediata somiglianza con Dio, mentre la sua compagna ne è solo un pallido riflesso. Nata dalla costola di Adamo per dargli «un aiuto», Eva,

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Dossier creatura secondaria e ausiliaria, gli somiglia, ma solo in parte: come lui è dotata di ragione – sant’Agostino lo concede –, ma in lei predomina la parte animale che comanda il corpo, il desiderio; questa fatale debolezza non sfugge al serpente ed Eva si lascia facilmente tentare, trascinando Adamo nella disubbidienza e quindi nella Caduta. Quando si tratta di attribuire le responsabilità del peccato, la gerarchia si inverte: è lei la principale colpevole, ed è principalmente su di lei che si abbatte il castigo divino: «Io moltiplicherò i dolori delle tue gravidanze, tu partorirai nel dolore. La tua bramosia ti spingerà verso tuo marito ed egli dominerà su di te». Il destino delle donne è già segnato. Basta leggere la Bibbia. A Eva, «madre di tutti i morenti

per la natura», i dotti contrappongono Maria «madre di tutti i viventi per la grazia», la cui maternità virginale è uno dei dogmi che la Chiesa aveva affermato fin dal V secolo. Un canto anonimo del IX secolo scorge questa antinomia nel nome stesso di «Eva», l’esatto inverso dell’«Ave» rivolto alla Vergine dall’Angelo annunciante.

Ma almeno fino al XII secolo, quando trionfa il culto mariano, la Vergine rimane un modello irraggiungibile alle donne di quaggiú proprio per il mistero della sua eccezione. Lentamente, grazie alla promozione orchestrata da nuovi Ordini monastici – i Cistercensi per primi, seguiti dai Francescani e soprattutto dai Domenicani –, la presenza della madre di Gesú si umanizza e questa maggiore vicinanza trova una delle sue espressioni nella pittura e nella scultura tardo-medievali.

Pietà per il Cristo

Piú vicina a una femminilità reale e non idealizzata, perché peccatrice, senza tuttavia incarnare il Male assoluto, Maria Maddalena è un’altra figura femminile che emerge con insistenza dalla riflessione dei chierici nell’XI e XII secolo. In Occidente, la figura emblematica della penitente è stata «inventata» nel VI secolo da papa Gregorio Magno, il quale riconobbe in lei altre due donne ricordate dai Vangeli: l’anonima «peccatrice della città», una prostituta, e Maria, sorella di Marta e Lazzaro; la confusione era possibile poiché tutte e tre avevano versato profumo sul corpo di Gesú, tutte e tre si erano prosternate davanti a lui ed erano state accolte di buon grado nonostante le rimostranze degli uomini che assistevano alla scena. La Maddalena fu poi anche «inventata» da Goffredo, l’abate di Vézelay eletto nel 1037, uno di quegli accesi riformatori che, agli albori dell’XI secolo, vedevano nella Maddalena, metafora della Chiesa miliQui accanto scultura raffigurante Maria Maddalena in preghiera, con la veste composta dei suoi stessi capelli. XIV sec. Écouis, Collégiale Notre-Dame d’Écouis. A sinistra Madonna del latte, statua in marmo di Carrara con tracce di policromia di Andrea Pisano, capolavoro dell’arte trecentesca, dalla chiesa pisana di S. Maria della Spina. Prima metà del XIV sec. Pisa, Museo Nazionale di S. Matteo. gennaio

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Miniatura raffigurante l’incontro di Adamo ed Eva con il serpente (in alto) e la loro punizione al lavoro nei campi, da un’edizione del Livre des cas des nobles hommes et femmes di Giovanni Boccaccio. 1465. Chantilly, Musée Condé.

tante, una preziosa alleata. La serva del Signore, di cui improvvisamente si scoprirono i resti nella cripta, affiancò gli antichi patroni dell’abbazia – il Cristo, la Vergine e san Pietro – per qualche decennio, prima di spodestarli definitivamente all’inizio del XII secolo. Una leggenda scritta appositamente giustificò la presenza delle reliquie in Borgogna e i racconti dei suoi miracoli attirarono a Vézelay folle di pellegrini. Esplose allora il culto della santa, peccatrice penitente che, con la dura mortificazione della sua carne, indicava a tutti, uomini e donne, la strada della salvezza. Lo sviluppo di questa devozione non fu senza relazione con la nascita del Purgatorio, luogo di penitenza, certo, ma anche di speranza, se lasciava scorgere ai peccatori decisi a pentirsi che la redenzione era possibile. Per quanto redenta, la Maddalena, che aveva conosciuto gli uomini fuori dal sacro vincolo del matrimonio, non poteva essere proposta come modello ma, per secoli, la Chiesa pose sotto la protezione della santa le donne «pericolanti» o già «cadute» nel peccato. Nel XII secolo, Roberto d’Arbrissel accolse le meretrices nel suo Ordine e consacrò loro il priorato della Maddalena di Fontevraud. Dalla fine del Medioevo e per tutta l’età moderna fiorirono gli istituti femminili che proponevano il recupero dell’onore perduto attraverso la reclusione e un’intensa opera di disciplinamento; una tradizione plurisecolare se, in Irlanda, l’ultima «casa di correzione» delle Magdalene è stata chiusa nel 1996. La Chiesa ordina le donne virtuose in tre gruppi – le vergini, le vedove e le donne sposate – secondo criteri morali esclusivamente legati

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all’integrità del corpo e all’uso della sessualità, proponendo a tutte di elevarsi lungo una scala di valori che afferma l’incomparabile superiorità dello stato virginale. Ricorrendo alla parabola evangelica del grano che rende il cento, il sessanta o il trenta per uno, secondo la bontà della terra in cui viene seminato (Matteo, XIII, 4-9), sant’Ambrogio e soprattutto san Girolamo fondarono sull’osservanza della castità una gerarchia di meriti e un sistema di classificazione destinati a un successo plurisecolare.

Dominate dalla natura

Rispetto alla perfezione raggiunta solo dalle vergini (100), la vedovanza promette una resa intermedia (60), a patto che le donne sappiano cogliere l’opportunità di un parziale riscatto, rifiutando le seconde nozze; altrimenti precipitano nuovamente

sul terreno, assai piú arido, delle coniugate costrette all’adempimento del debito coniugale, ma al solo fine della procreazione (30). I predicatori e i moralisti che, a partire dal XII secolo, si rivolgono sempre piú direttamente a un pubblico femminile rimangono straordinariamente fedeli a questo schema classificatorio che, prescindendo dai mutamenti storici e dalle dinamiche della società, àncora irrimediabilmente le donne alla loro corporalità, dominate come sono dalla loro natura. Il sapere filosofico e medico degli antichi e principalmente le teorie galeniche e aristoteliche, consegnate in modo frazionato all’Occidente medievale dagli Arabi, confortano i teologi nella loro convinzione dell’inferiorità delle donne, della loro pericolosità. Il loro corpo è freddo e umido, e questa

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Christine de Pisan

La storia come un abecedario Fra le intellettuali del Medioevo, le «storiche» di professione sono una rarità. Il tipo di istruzione che, negli ambienti colti, si impartiva alle donne non contemplava l’acquisizione del sapere storico e delle sue regole. Escluse dall’arena pubblica, le donne non rivestivano responsabilità politiche; lontane da un’osservazione e da una pratica dirette, difficilmente avrebbero avuto accesso alle fonti d’informazione orali e scritte che consentirono a Leonardo Bruni e a Niccolò Machiavelli, entrambi cancellieri della repubblica fiorentina nel Rinascimento, oppure a Francesco Guicciardini che ne fu ambasciatore, di scrivere la storia della loro città e addirittura la storia dell’Italia. Non mancano esempi di opere biografiche come le Vitae di santi uscite dagli scriptoria dei monasteri femminili, ma la storia ufficiale di un re di Francia composta da una donna rimane un unicum; e Le livre des fais et bonnes meurs de sage roy Charles V scritto nel 1404, fu commissionato a Christine de Pisan da Filippo II, duca di Borgogna e fratello del sovrano ormai scomparso. Per ritrarre il re di Francia e raccontare le sue gesta sotto la forma di una biografia morale, Christine

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scorse le cronache, raccolse le testimonianze di alcuni personaggi della corte, ma si affidò anche ai suoi ricordi. Veneziana di nascita, ma parigina di adozione fin dall’infanzia, Christine era figlia di Tommaso da Pezano, un rinomato fisico e astrologo chiamato alla corte di Francia proprio da Carlo V. Il marito, Étienne de Chastel, era invece notaio e segretario del re. Oltre alla vicinanza, seppur mediata da questi due uomini, al soggetto della sua opera, Christine de Pisan trovò nella ricca biblioteca paterna gli autori greci e latini, nonché gli strumenti per l’acquisizione di una cultura storica: «Cosí come il bambino allinea dopo la “a” la “b” e poi la “c” e la “d”, io ho studiato le teorie antiche a partire dall’inizio del mondo, a partire dagli Ebrei, dagli Assiri e come tutti i grandi regni del mondo si sono succeduti l’uno traendo origini dal precedente: i Romani, i Franchi, i Bretoni». Piú nota come letterata e pedagoga che come storica – basti citare La cité des Dames, ispirata al De claris mulieribus di Boccaccio, e Le livre des trois vertus – Christine de Pisan fu una delle rare figure di intellettuale che riuscí a vivere del suo mestiere e mantenere la sua famiglia dopo la precoce scomparsa del marito. gennaio

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante la Ragione, la Rettitudine e la Giustizia che esortano Christine de Pisan a costruire la «città delle dame», una società ideale in cui le donne si distinguono per le loro doti, da un’edizione del Livre de la Cité des Dames. 1405 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra miniatura raffigurante Christine de Pisan che offre un libro con i suoi scritti alla regina Isabella di Baviera, da un’edizione delle opere della poetessa francese. 1410-1411. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

freddezza è dovuta alla periodica e involontaria perdita di sangue, veicolo del calore della vita. Da questo difetto, di cui sono immuni gli uomini, discende la costituzionale imperfezione del corpo femminile e, di conseguenza, la sua naturale subordinazione nella generazione. Proprio perché non disperdono il loro sangue, gli uomini raggiungono una temperatura perfetta, tale da consentire, tramite un procedimento di cozione, la trasformazione del sangue in sperma, una sostanza che racchiude in sé la vita, il pneuma, la forma e il pensiero, ossia tutte qualità che sono l’essenza dell’uomo. Il sangue femminile nutre l’embrione e, successivamente, tramite lo stesso procedimento di cottura, che tuttavia rimane incompiuto per mancanza di calore, riesce soltanto a trasformarsi in latte, sostanza inferiore allo sperma, ma necessaria ad alimentare la materia che sarà il supporto della vita, del pneuma, della forma e del pensiero. Altre imperfezioni fisiche giu-

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stificano la gerarchia tra i sessi: secondo il principio dell’analogia, gli organi riproduttivi femminili sono considerati simili a quelli maschili, ma non si sono esteriorizzati sempre per l’insufficiente calore del corpo femminile. Quel corpo dagli inquietanti poteri, sede di un desiderio misterioso e insaziabile che ne fa lo strumento del peccato, inculca una paura condivisa dai medici e dai teologi, preoccupati di spiegare e controllare una sessualità che non deve avere altra finalità se non la procreazione.

Ruoli predeterminati

Da questo fiume di parole maschili emerge un sistema di valori che ascrive a «la» donna, intesa come una categoria indifferenziata, collettivamente definita dalla sua natura essenzialista, comportamenti e ruoli predeterminati dalle sue qualità (o meglio dai suoi difetti) innate, e che circoscrive rigidamente il suo posto all’interno della famiglia e della società, rette dagli uomini.

Indubbiamente, decostruire quest’inesauribile catalogo di stereotipi senza tempo – vincendo la noia che suscita la sua disarmante monotonia – ci dice molto sulle radici profonde di un sistema di rappresentazione ancora largamente presente nella cultura occidentale, ma, in fondo, ci informa piú sugli uomini, detentori del sapere, che sulle donne, praticamente ridotte al silenzio. È infatti assai difficile scorgere nei trattati teologici e scientifici, nei sermoni e nei manuali pedagogici medievali la realtà delle condizioni di vita delle donne, questa volta intese al plurale, come individui di ogni condizione sociale; piú difficile ancora capire quanto e come queste teorie, questi precetti hanno effettivamente condizionato l’esistenza e le pratiche delle donne. Eppure, allargando il ventaglio delle fonti, che si arricchiscono con l’avvicinarsi dei secoli finali del Medioevo, gli storici riescono a scovare una materia piú viva per scrivere una storia sociale delle donne.

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VITE SEGNATE

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ino a tempi relativamente recenti, nascere maschio o nascere femmina non offriva le medesime chance: di sopravvivenza, innanzitutto, ma anche di accudimento, di educazione, di scelte di vita. Il genere costituisce una discriminante fondamentale che indirizza subito le bambine e i bambini verso percorsi di crescita e di formazione differenziati. Non si può prescindere da un dato culturale, ideologico, condiviso da numerose società antiche e moderne e fortemente interiorizzato dalle donne stesse: era il maschio il figlio che conta e che contava, l’erede del nome e dei beni della famiglia, il successore la cui nascita non spezzava la linea ininterrotta degli antenati. E la sua venuta al mondo veniva in genere salutata con manifestazioni di giubilo piú o meno rumorose. Nel 1489, quando nacque il primogenito di Annibale Bentivoglio, signore di Bologna, «sonò per alegreza le chanpane de san Yachomo e quele del chomun e la tore dey Asini e questo fu perché fu el suo primo fiolo maschio». L’avvenimento colpí Gaspare Nadi, un umile muratore bolognese e attento cronista della sua città, che ne consegnò il ricordo al suo diario. La nascita di una femmina non scatenava certo gli stessi entusiasmi. Nella lettera che il Fiorentino Marco Parenti scrisse il 21 aprile 1469 al cognato, Filippo Strozzi, si intuisce la delusione suscitata dalla nascita di una bambina, anche se, in quel caso, era attenuata dal fatto che il neopadre aveLa nascita della Vergine, dipinto su tavola del Maestro della Vita della Vergine, dalla Marienkapelle della chiesa di S. Orsola a Colonia. 1470-1480. Monaco, Alte Pinakothek.

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Dossier va già avuto un maschietto: «Buon pro ti facci della fanciulla ti nacque ieri (...) Parmi che avendone uno maschio (...) che non di meno ti debbi rallegrare di questa, ‘sendo femina, che se fussi maschio: perché prima ne comincerai a trarre frutto che del maschio, cioè ne farai prima un bello parentado». Meno desiderate, le femmine acquistavano quindi valore quando si avvicinava il momento di darle in sposa; un valore sociale legato alla loro funzione di raccordo tra «casate», la cui ossatura era solo maschile, l’unico, secondo il fiorentino Giovanni Morelli († 1444), capace di giustificare il loro ingresso nella biografia collettiva della famiglia: «Non è bisogno di fare memoria delle femmine – scriveva nel 1401 a proposito della discendenza di un cugino – perché sono di piccola età: quando sarà

il tempo di maritare, se vengono a quello istato, allora ne faremo memoria». Eppure, non sempre si produceva questa integrazione delle figlie nella memoria familiare: i memorialisti fiorentini del Tre-Quattrocento costruivano le loro genealogie secondo criteri abbastanza selettivi, dimenticando spesso le figlie uscite di casa con il matrimonio, e inserendovi invece le mogli che, con il loro ingresso nella famiglia, ne assicuravano la riproduzione. In condizioni di miseria, lo scarso valore di una bambina poteva anche significare un immediato e ben piú drastico rigetto da parte della famiglia.

Infanzia abbandonata

«Il padre non la voleva perché era femmina», annotano i rettori dell’ospedale fiorentino di S. Gallo quando, negli anni Venti del Quattrocento, accolgono una neonata consegnata dalla madre. Questa condanna era tutt’altro che rara e il mondo dell’infanzia abbandonata ci offre un osservatorio estremamente significativo delle discriminazioni di genere in atto fin dalla nascita. A partire dal XIII secolo, l’abbandono dei bambini è un fenomeno in costante aumento, meno condannato dell’infanticidio, anche perché percepito come un’alternativa positiva alla soppressione pura e semplice di neonati indesiderati, una soluzione drastica che colpiva in prevalenza le femmine. Accolti in strutture assistenziali che sorgono già alla fine del XII secolo, i bambini sarebbe-

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ro stati almeno nutriti e curati e avrebbero avuto qualche chance in piú di sopravvivere. Tra i bambini «gettati» via dalle famiglie povere e ricche – a Siena li chiamavano «gittatelli» – le femmine erano comunque sempre in netta maggioranza: nel Quattrocento rappresentano tra il 60 e il 70% dei piccoli accolti nei brefotrofi toscani e lombardi, l’ospedale di S. Maria della Scala, l’omonima struttura di San Gimignano, l’ospedale degli Innocenti di Firenze e l’Ospedale Maggiore di Milano. Nel tardo Medioevo i registri di ammissione degli ospedali per esposti parlano chiaramente di modalità di abbandono differenziate secondo il genere: mentre la decisione di abbandonare un maschio era molto piú ponderata dai genitori, che ci pensavano per giorni, se non addirittura per alcune settimane, le bambine erano «gettate» subito, appena nate, e spesso anche in malo modo, a giudicare dalle condizioni in cui venivano raccolte dagli enti assistenziali. L’abbandono delle femmine era anche molto piú definitivo. I neonati di sesso maschile approdavano all’ospedale dotati di maggior segni utili per un futuro riconoscimento – nodi, nastri, moneta spezzata, bigliettini –, perché, almeno idealmente, molti genitori non escludevano di riprenderli con sé, superato il momento di crisi che li aveva spinti a compiere quel drammatico passo; e, in effetti, i rari bambini ripresi dalla famiglia, mai prima dello svezzamento, erano quasi sempre maschi. Ovviamente, le bambine avevano anche scarsissime possibilità di trovare una famiglia di adozione: nel secondo Quattrocento, le coppie senza figli che si rivolgevano all’ospedale degli Innocenti gennaio

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Nella pagina accanto, in alto Firenze, Ospedale degli Innocenti. Uno dei medaglioni in ceramica invetriata di Andrea della Robbia raffiguranti bambini in fasce che decorano il portico della facciata. 1463. A destra Madonna della Misericordia, dipinto di Domenico di Michelino restaurato agli inizi del Cinquecento dalla bottega di Francesco Granacci. Firenze, Ospedale degli Innocenti. Nella pagina accanto, in basso ritratto di bambino, busto in terracotta dello scultore fiorentino Andrea della Robbia. 1475 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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di Firenze o all’Ospedale Maggiore di Milano richiedevano un ragazzo da avviare al mestiere nella bottega del nuovo padre. Questa discriminazione cosí evidente negli Stati piú poveri si traduce comunque nei grandi numeri delle popolazioni sui quali gli storici della demografia pre-moderna si interrogano. Durante tutta l’età medievale, contare con precisione le donne e gli uomini era un’operazione assai difficile, ma, pur tenendo conto delle inevitabili lacune della documentazione, lo squilibrio nel rapporto numerico tra i sessi emerge costantemente in età carolingia, nel XII secolo, nel Quattrocento, e pone indubbiamente un problema. Perché, in varie epoche e luoghi, le donne sono meno numerose degli uomini? Si ipotizza la mancata registrazione delle bambine, una mortalità piú elevata anche per denutrizione e mancanza di cure, l’abbandono o addirittura l’infanticidio selettivo. Quest’ultima ipotesi, per esempio, era stata avanzata sulla base dello studio delle famiglie di contadini censite nel polittico di Saint-Germain-des-Près (820), ma non trova riscontro negli altri rari censimenti carolingi disponibili. Negli ultimi secoli del Medioevo, quando la documentazione consente valutazioni piú precise, emerge chiaramente che il sesso introduce una reale discriminazione di fronte alla morte. Il destino di un migliaio di bambini nati in famiglie agiate fiorentine tra il 1300 e il 1550 permette di accertare l’elevata mortalità infantile – il 20% scompariva prima dei tre anni di età, il 30% prima dei dieci anni, il 34% prima di raggiungere l’adolescenza – anche in un ambiente sociale privilegiato, in cui le condizioni di vita erano sicuramente migliori che negli ospedali per trovatelli, dove la morte falcidiava circa la metà degli effettivi nel primo anno di vita. Certo, questo è un periodo catastrofico, in cui le epidemie si susseguono

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senza tregua, colpendo in particolare i piccoli fino a dieci anni, ma sorprende il fatto che la morte selezioni molto piú duramente le bambine: globalmente, nelle case dei ricchi, 724 maschi e 676 femmine su 1000 potevano sperare di raggiungere l’età di dieci anni; a quindici, il divario si accentuava con 696 maschi e 618 femmine sopravvissuti.

Dati anomali

Questa maggiore erosione degli effettivi femminili nelle famiglie dell’élite trova conferma nel censimento di tutta la popolazione fiorentina del 1427, in cui il numero degli uomini ogni cento donne è di 113 tra zero e cinque anni e di 123 tra i dieci e i quattordici. Le ragioni di uno squilibrio cosí anomalo non sono del tutto chiare. Incidono la mancata registrazione, la frode e altri fattori di distorsione imputabili a un censimento di popolazione ancora primitivo; altri possibili fattori di squilibrio sono l’abbandono selettivo delle bambine e la reclusione in convento delle ragazze non maritabili. I contemporanei pensavano

che le donne fossero piú vulnerabili al bacillo della peste e, in effetti, l’osservazione della mortalità in anni di epidemia sembrerebbe confermarlo; eppure, nelle famiglie dell’élite fiorentina, l’altissima mortalità delle bambine non accenna a diminuire, anzi, tende addirittura ad aumentare negli ultimi decenni del Quattrocento, quando il flagello della peste si allontana. Ci si può chiedere quanto i tempi di cura, le attenzioni, un’alimentazione differenziata a seconda del sesso incidessero sulle chance di sopravvivenza di maschi e femmine. A tutti gli effetti, una differenza di trattamento esisteva. Gli enti assistenziali accolgono molte bambine «magre», «male governate» se non addirittura «morte di fame», che

Sulle due pagine particolari dell’affresco di Domenico di Bartolo raffigurante l’accoglimento, l’educazione e la crescita dei trovatelli. 1441-1442. Siena, S. Maria della Scala, Pellegrinaio.

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Dossier Caterina da Siena scambia il suo cuore con quello di Gesú, olio su tavola del pittore toscano Guidoccio Cozzarelli. 1470-1517. Siena, Pinacoteca Nazionale.

l’infanzia delle sante

Bambine esemplari Secondo la copiosa tradizione agiografica tardo-medievale, le sante vissero la propria infanzia all’insegna di una precoce quanto spettacolare abnegazione. Ricorre lo stereotipo del rifiuto spontaneo degli svaghi: la flagellazione collettiva era l’unico gioco che Caterina da Siena condivideva con i suoi coetanei, mentre Benvenuta Poiani († 1280) preferiva dedicare interminabili ore alla preghiera se il suo biografo la diceva capace, a sette anni, di recitare 1700 avemaria e 700 paternostri in un giorno. Le sante in erba dimostrano soprattutto precoci tendenze autodistruttive: si infliggevano ogni sorta di umiliazioni e dolori fisici portando il cilicio, procurandosi piaghe e bruciature, si privavano continuamente di sonno e di cibo – si è parlato di «santa anoressia» – nell’intento di distaccarsi precocemente dal loro corpo. È probabile che la svalutazione del corpo e del mondo fosse proposta come modello degno di emulazione da parte delle bambine, la cui educazione era centrata sul ferreo controllo dei piaceri sensoriali. vengono abbandonate dalla famiglia intorno all’anno di età, ossia al termine dell’allattamento materno, comunque anticipato rispetto ai maschi. Anche nelle famiglie patrizie fiorentine le bambine erano svezzate piú precocemente dei loro fratelli. Ad allattare non era quasi mai la madre, ma una balia, alla quale i neonati venivano affidati per i primi due anni di vita.

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Tendenzialmente, i piccoli nati in città passavano la loro prima infanzia in campagna; una balia disposta a trasferirsi nella casa del bambino che allattava era molto piú difficile da reclutare – le contadine che vendevano il loro latte preferivano rimanere vicino alla propria famiglia –, ed era comunque un lusso che i genitori si permettevano molto piú volentieri per tenere

d’occhio la crescita dell’erede: cosí, il 23% dei maschi, ma solo il 12% delle femmine non veniva allontanato dalla famiglia durante i primi anni di vita. Di solito, i genitori risparmiavano anche sul salario della balia, facendo svezzare le loro bambine un po’ prima dei loro fratelli. Secondo la tradizione aristotelica e galenica, riecheggiata dalla trattatistica medica e didattica gennaio

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L’adolescenza

Ritratto di fanciulla (particolare), olio su tavola del pittore fiammingo Petrus Christus che mostra una giovane donna con abiti caratteristici di un elevato rango sociale. 1470 circa. Berlino, Gemäldegalerie.

Gli anni della trasformazione Nei trattati di medicina, composti in Occidente tra l’XI e il XV secolo e che guardano soprattutto al corpo della donna nella pienezza delle sue funzioni riproduttive, l’adolescente non acquisisce una fisionomia molto chiara. Chiamata puella, ovvero con il diminutivo di puer che contraddistingue il ragazzo tra i 7 e i 14 anni, l’adolescente tende a confondersi ancora con la bambina mentre si distingue meglio dalla juvenis, la giovane donna; il termine virgo, che rimanda soltanto all’integrità fisica, non consente di isolare la ragazza per età. Nel suo trattato Causae et curae, Ildegarda di Bingen († 1179) paragona la matrice delle piccole a un edificio incompiuto di cui esistono solo le fondamenta e un abbozzo di mura, la cui costruzione giunge al termine tra i quindici e i vent’anni: allora la casa può essere arredata. In genere, però, i medici non discernono bene nella morfologia delle adolescenti dove finisce la bambina e dove comincia la donna. Fra le

trasformazioni legate alla pubertà, il menarca – tra i dodici e i quindici anni secondo i trattati – stabilisce invece una piú chiara cerniera tra l’infanzia e la vita adulta della donna. La mestruazione è ampiamente descritta come un flusso superfluo, evacuato dal temperamento femminile che, per la sua freddezza e umidità, si rivela incapace di trasformare il sangue in seme come fanno gli uomini. La mestruazione è vista anche come la chiave della maternità, ma

medievale, la superiorità biologica del bambino, la sua maggiore attività fisica imponevano una nutrizione piú accurata e abbondante, e cure piú prolungate: cosí, non c’è da stupirsi se, nel suo Libro di buoni consigli, Paolo da Certaldo (di cui vari documenti attestano la presenza a Firenze fra il 1347 e il 1370, n.d.r.) consigliava: «La fanciulla femmina vesti bene, e come la

pasci non cale, pur ch’abbia sua vita; non la tenere troppo grassa». Di ritorno dalla casa della balia, tutti i bambini, maschi e femmine, venivano consegnati alla madre, che dovevano imparare a conoscere meglio. La prima infanzia si svolgeva sotto la sua guida, nello spazio domestico, e in questa fase educativa iniziale il padre era scarsamente coinvolto. Oltre all’apprendimento

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i medici ritengono che il corpo delle adolescenti conservi ancora troppo il segno dell’infanzia per essere pronto ad affrontare un concepimento: cosí Ildegarda di Bingen afferma la necessità di rispettare «un tempo per baciare», aspettando di aver raggiunto i 20 anni. Ma la maturazione sessuale della puella è fonte di straordinaria inquietudine per lo scompiglio interiore dovuto ai desideri inesauditi e il pericolo che possano essere soddisfatti. E se i trattati di medicina, che si dilungano sull’esistenza e la natura dell’imene, talvolta forniscono anche ricette di misture varie e indicazioni pratiche capaci di restituire alla puella quel prezioso marchio di una verginità incautamente perduta, dobbiamo pensare che non sempre le ragazze aspettassero il matrimonio per «baciare». L’adolescenza è quindi un’età da superare rapidamente, consegnando al piú presto a un legittimo sposo la responsabilità di quel corpo giovanile. delle regole di igiene e dei «buoni costumi», dei rudimenti di dottrina e di morale cristiana, alla madre era affidata anche l’iniziazione alla lettura, che poteva effettuarsi in modo ludico e «gastronomico», sul tavolo di cucina: «Formate delle lettere in frutte, berlingozi, zucherini e altri cibi puerili – consigliava Giovanni Rucellai († 1525) –, incitate il fanciullo con essi prometterli darglieli s’egli li conosce, dicen-

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Dossier A sinistra San Gimignano, chiesa di S. Agostino. Particolare della Presentazione di Agostino alla scuola di Tagaste raffigurante l’educazione dei fanciulli, prima di diciassette scene affrescate dal pittore toscano Benozzo Gozzoli che ripercorrono la vita del santo e filosofo berbero. 1464-1465.

lari, cosí come i trovatelli accuditi negli ospedali, avevano raramente la possibilità di sedere sui banchi di scuola e alla loro formazione professionale avrebbe provveduto il maestro della bottega dove, intorno a cinque o sei anni, venivano avviati al lavoro. Varie forme di apprendistato caratterizzavano il lavoro dei minori; in genere, d’accordo con la famiglia o l’ospedale, il maestro assicurava cibo e vestiario, il suo insegnamento e una piccola rimunerazione che aumentava progressivamente con l’acquisizione delle competenze. I contratti riguardanti piccole apprendiste, prevalentemente inserite nel settore tessile, non sono molto

doli: questo torto è uno S». Intorno all’età di sei o sette anni, era tempo di sottrarre i maschi alle dolcezze materne per mandarli a perfezionare seriamente a scuola il loro apprendimento dell’alfabeto e imparare a far di conto. Ma lí, al posto dei piccoli premi, avrebbero presto conosciuto la bacchetta del maestro.

Solo nozioni di base

Nella Firenze della prima metà del Trecento, che contava oltre 100 000 abitanti, si stima che circa 15 000 ragazzi dai sei ai dodici anni frequentassero le scuole pubbliche, ossia il 45% dei giovani che rientravano in questa classe di età. Secondo il cronista Giovanni Villani († 1348), l’istruzione di base era aperta anche alle femmine, mentre i gradi superiori, dove si insegnava l’aritmetica, il latino e la logica, erano invece loro preclusi. La maggioranza dei bambini dei ceti popoMiniatura raffigurante una scena di matrimonio, da una copia manoscritta francese del Decretum Gratiani. XIII sec. Laon, Bibliothèque municipale.

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frequenti: sia gli enti assistenziali, sia i genitori indigenti tendevano a collocare le bambine a servizio in qualche «onesta casa», affidandone la custodia a un padre-padrone che avrebbe provveduto a remunerare gli anni di lavoro domestico con la costituzione di una dote.

Un’esclusiva maschile

Tornando sull’osservazione del Villani, l’effettiva scolarizzazione delle bambine non trova molti riscontri documentari e sembra essere soggetta a cauzione. Che l’istruzione delle femmine fosse inutile, se non addirittura inopportuna, era un’opinione largamente condivisa. Intorno al 1370, Paolo da Certaldo, come prima di lui Filippo da Novara e Francesco da Barberino, consigliava a ogni buon padre di famiglia: «S’ella è fanciulla femmina, polla a cuscire e non a leggere ché non ista troppo bene a una femmina sapere leggere se già non la volessi fare monaca». Nella famiglia ospedaliera, l’alfabetizzazione dei piccoli tornati dalla balia era riservata ai maschi. Nelle case dell’élite, il discorso appare un po’ diverso: dai pagamenti registrati in qualche libro di conti, dove compare un salario «alla maestra che ‘nsegna a leggiere», si intuisce che una precettrice potesse talvolta sostituirsi alla madre nell’educazione delle figlie; ma sembra che, in quell’ambiente sociale, i padri investissero piú volentieri il loro denaro in lezioni di musica o di danza. La voce di Christine de Pisan si leva – ne La città delle dame (1406) – per denunciare come infondata una discriminazione scolastica che, evidentemente, era del tutto consueta anche presso l’élite: «Se ci fosse l’usan-

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Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore. Santa Elisabetta d’Ungheria, particolare di un affresco di Simone Martini. 1322-1326. Il culto per la religiosa fu molto diffuso nell’Europa medievale, un tributo popolare per le sue opere di assistenza nei riguardi di poveri e bambini.

Elisabetta di Turingia

Nobile anche di spirito La biografia di Elisabetta di Turingia è sotto molti aspetti emblematica della vita delle fanciulle di nobile lignaggio. Nata nel 1207, Elisabetta era la terzogenita del re Andrea II d’Ungheria e di Gertrude da Merano. Nel 1211, all’età di quattro anni, quando era ancora «allattata al seno» dalla sua balia, fu promessa a Ludovico IV, langravio di Turingia; oltre alla somma di 1000 marchi, la sua dote comprendeva oggetti d’oro e d’argento, gioielli e vesti preziosi, coltri e lenzuola, carrozze, una tinozza da bagno e altre cose, «se ella vivrà» precisava il contratto che, data la giovane età della promessa sposa, non poteva che essere provvisorio. Una volta siglato l’accordo di alleanza, la bambina fu trasferita alla corte di Turingia e una leggenda racconta che la madre dovette mandare una certa Adelaide per calmare i suoi pianti disperati. Nel castello di Wartburg, Guda, una damigella preposta alla persona di Elisabetta, fu testimone dell’infanzia esiliata e priva di affetti della santa in erba e poté deporre, insieme ad altre tre ancelle, durante il processo di canonizzazione ordinato da papa Gregorio IX nel 1235. Il matrimonio con Ludovico fu celebrato nel 1221, quando Elisabetta ebbe compiuto i quattordici anni, e pose termine alla sua fanciullezza: a quindici anni mise al mondo il primo dei suoi tre figli, a venti era già vedova. Spossessata della dote dal cognato, la giovane trovò rifugio da uno zio dopo un periodo di vita errabonda; morí nel 1232, all’età di ventiquattro anni. Il culto di Elisabetta fu fra i piú diffusi nell’Europa medievale e la santa dovette la sua fama alle opere di misericordia nei confronti dei fanciulli. Da vedova, Elisabetta consacrò la sua esistenza ad assistere i bambini poveri e, dopo la sua morte, quasi seicento persone, perlopiú donne, testimoniarono le risoluzioni miracolose attribuite alla santa di gravidanze difficili, malattie e incidenti mortali di fanciulli. Uno degli episodi raccontati dai biografi richiama la pratica diffusa dell’abbandono dei neonati e l’emergenza, nel XIII secolo, di una preoccupazione assistenziale specifica nei confronti dell’infanzia.

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Dossier la «serbanza»

Un valore protetto con la reclusione A dodici anni – l’età della pubertà legale che coincideva pressappoco con la maturazione sessuale – le fanciulle uscivano dall’infanzia ed entravano in una fase della loro esistenza da viversi nella segregazione piú totale. La loro virtú, ossia la loro verginità, era infatti un bene prezioso quanto perituro e, per proteggerla, occorreva sottrarla ai pericoli derivanti dall’esposizione pubblica. La «serbanza», questa reclusione conventuale provvisoria piú garantita della segregazione domestica non poteva che meglio sigillare la reputazione delle ragazze di buona famiglia in attesa di matrimonio. Nel 1453, il mercante fiorentino Luca da Panzano chiude in convento due figlie, Mattea e Alessandra, rispettivamente di 13 e 11 anni, «solo per alimentarlle perché ànno le dote e vole maritare». La sorella maggiore, già sposata, ha concordato con le monache le condizioni del loro soggiorno, aggiungendo alle spese di pensione quelle del completamento della loro educazione, «perché lle dette fanciulle ànno due maestre che l’ànno a insengnare». Si prevede anche che, nei quattro anni di permanenza, le ragazze completino il loro corredo filando e cucendo «per loro, cioè a utile de le fanciulle propie e fare quello vorrano per loro propie». Il convento ha il solo compito di «conservare» il valore matrimoniale di queste adolescenti. Una custodia cosí costosa era preclusa alle ragazze di condizione modesta, ma i loro genitori condividevano con le famiglie piú agiate la stessa preoccupazione di salvaguardia dell’onore sessuale delle figlie e talvolta ricorrevano agli enti specializzati nell’assistenza ai trovatelli per attuare una simile strategia di reclusione temporanea. Nel 1434, Agnola fu lasciata dalla madre all’ospedale fiorentino di S. Gallo «perché ella non capitasse male e la detta monna Uliva non la poteva nutricare e conveniva a lei stare per fante»; due anni prima un’altra madre aveva chiesto di accogliere la figlia dodicenne, perché è «cosí grande e avistata [vistosa] che se eglino la ponessino con altrui [a servizio] avrebbe male», pregando che «si conducesse a onore» provvedendo alla sua dote. Delegando a un ente piuttosto che a un padre-padrone la loro funzione di custode dell’onore sessuale delle figlie, queste due povere donne sono consapevoli delle insidie che minacciavano le piccole fantesche nelle «oneste» case patrizie.

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A sinistra miniatura raffigurante un gruppo di suore che vestono una ragazza, da un’edizione del Decretum Gratiani. XIV sec. Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati. Nella pagina accanto le nozze di una trovatella, particolare dell’affresco Accoglienza, educazione e matrimonio della figlia dello spedale di Domenico di Bartolo. 1441-1442. Siena, Santa Maria della Scala, Pellegrinaio.

za di mandare le bambine a scuola e di insegnare loro le scienze come si fa con i bambini, imparerebbero altrettanto bene e capirebbero la sottigliezza di tutte le arti, cosí come essi fanno». I fanciulli e gli adolescenti ricevevano quindi una formazione scolastica e pratica scandita da tappe ben identificate, che richiedeva almeno due decenni: superati i vari gradi della scuola, intorno ai quattordici anni passavano alla bottega o al banco; alcuni proseguivano gli studi all’università, mentre i figli di mercanti avrebbero presto intrapreso un grand tour nelle varie piazze commerciali europee prima di fondare la propria compagnia. I tempi dell’educazione delle bambine erano assai piú brevi e indifferenziati rispetto a quelli dei loro fratelli, gli spazi assai piú circoscritti e custoditi. L’obiettivo prin-

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cipale era la conservazione del loro valore matrimoniale e l’apprendimento del mestiere di moglie in previsione delle nozze che ponevano precocemente un termine alla loro adolescenza; lo si raggiungeva attraverso una «pedagogia», se cosí si può dire, basata essenzialmente sull’acquisizione del senso del pudore, della sottomissione e dell’ubbidienza nonché delle necessarie abilità manuali.

Tenere a bada i sensi

Le fanciulle dovevano soprattutto imparare a dominare il loro corpo attraverso il «controllo dei cinque sensi» preconizzato dallo scrittore e umanista Vespasiano da Bisticci († 1498). L’acquisizione di una condotta e di posture irreprensibili era il frutto di un lungo addestramento in cui ogni movimento in-

consulto, gli sguardi troppo diretti, i gesti spontanei di affetto, le risate e i pianti rumorosi dovevano essere sistematicamente repressi. Nel severo contegno di un corpo chiuso, nella gestualità misurata, nella continenza visiva, nell’ubbidienza silenziosa si rispecchiavano le qualità morali e quella virtú garante dell’integrità fisica ereditata dalla nascita che doveva essere conservata fino alle nozze. Il modello educativo nobiliare, adottato dai ceti alti e medio-alti delle città comunali, prevedeva anche un buon livello di alfabetizzazione, la padronanza delle buone maniere e l’adozione di comportamenti «cortesi». «Nulla cosa sta piú bene in donna che cortesia», scriveva Dante nel Convivio, e l’amorevole ritratto che Giovanni Morelli ha lasciato di sua sorella, Mea, nata nel 1365 e morta all’età di 22 anni dopo aver partorito il suo quarto figlio, tradisce la perfetta riuscita di un simile percorso formativo: «Di sua mano ella sapea fare ciò ch’ella voleva, che a donna si richiedesse; e ‘n tutte sue operazioni virtuosissima: nel parlare dilicata, piacevole, con atto onesto e temperato, con tutte effettuose parole; baldanzosa, franca donna e d’animo verile, grande e copiosa di tutte virtú. Leggeva e scrivea tanto bene quante alcun uomo, sapea perfettamente cantare e danzare e arebbe servito a una mensa d’uomini e di donne cosí pulitamente come giovane uso e pratico a nozze e simili cose. Era saputa nella masserizia della casa, e non con punto d’avarizia o di miseria ma traeva il sottile del sottile, ammunendo e dirizzando la sua famiglia con tutti buoni assegnamenti e buoni costumi, vivendo lieta e allegra».

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LA SPOSA È MIA!

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Tavoletta di biccherna del pittore e miniatore toscano Sano di Pietro raffigurante la cerimonia di matrimonio di una coppia della nobiltà senese. 1473. Siena, Archivio di Stato. La scena, che mostra la grande opulenza della celebrazione, si riferisce al momento del dono dell’anello.

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li uomini del Medioevo concepiscono difficilmente la condizione femminile al di fuori del matrimonio o, in alternativa, della reclusione conventuale. Deboli per «natura», le donne sono destinate a vivere sotto tutela, maritale o istituzionale. In città come in campagna, ci sono donne senza uomini, senza famiglia, che sperimentano forme di religiosità non inquadrate nel mondo monastico e talvolta pericolosamente eterodosse, lavoratrici senza qualifica, prostitute e vagabonde: tutte figure di una marginalità piú o meno vistosa rispetto all’ordine «naturale». La loro estrema vulnerabilità richiama i ricchi e i potenti a precisi doveri di protezione, di carità e di assi-

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stenza costantemente ribaditi dalla Chiesa, che vede nelle donne una categoria di poveri «privilegiati»; ma la società percepisce anche come una minaccia tutte queste femmine «senza freno», facili prede degli uomini, ma anche istigatrici di un grave disordine morale. Sul finire del Medioevo, si assiste nelle città a un’impressionante fioritura di conventi femminili, nei quali le famiglie rinchiudono le figlie che non possono essere collocate sul mercato matrimoniale (vedi box a p. 92). Nello stesso periodo, molti governi cittadini inaugurano una politica di segregazione della prostituzione, confinando i postriboli, ora sotto controllo pubblico, in

luoghi periferici, obbligando le meretrici a indossare segni e colori distintivi o addirittura sonagli per avvertire della loro presenza. Quando lo Stato nascente si erge a difensore della moralità, lo fa anche attraverso un riordino dello spazio urbano che renda immediatamente percettibile la distinzione tra le donne pubbliche e quelle oneste, che siano patrizie confinate nei loro palazzi o chiuse in convento oppure popolane insediate nei quartieri operosi.

Lo scrigno dell’onore

Lo spazio domestico è lo scrigno in cui meglio si custodisce l’onore delle famiglie, che molto deve alla virtú delle sue donne, ed è anche l’unico territorio nel quale le donne oneste sono autorizzate a «regnare». Fin da piccole, le femmine devono essere iniziate all’arte del governo della casa, imparando, per emulazione della madre, il mestiere di moglie. Non è un apprendistato molto lungo: ancora adolescenti, le figlie sono chiamate a mettere in pratica il loro sapere domestico nella casa dove si trasferiscono una volta maritate. Il matrimonio segna una tappa decisiva nella definizione dell’appartenenza e dell’identità familiari delle donne, ma occorre notare subito che, nell’Occidente medievale, non ci si sposa ovunque nella stessa maniera e proprio i termini del contratto matrimoniale incidono in modo determinante non solo sulle strutture familiari, ma anche sulla distribuzione dei ruoli all’interno della coppia coniugale. Le società umane si strutturano intorno allo scambio delle donne, insieme alle quali circolano ricchezze che legittimano e saldano l’alleanza tra due famiglie e, al tempo stesso, segnalano le rispettive posizioni sociali ed economiche. Durante un lunghissimo Medioevo, protrattosi fino al tempo delle codificazioni degli Stati nazionali, una pluralità di diritti e di consuetudini locali regola questi trasferimenti gennaio

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A destra un’altra tavoletta di Biccherna di Sano di Pietro raffigurante le nozze di Roberto Sanseverino. 1473. Siena, Archivio di Stato. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un matrimonio, da un’edizione delle Institutiones di Giustiniano. XIV sec. Padova, Biblioteca Capitolare.

di beni e di persone. Senza avventurarsi in meandri giuridici spesso tortuosi e mutevoli nel tempo, ci limitiamo a evidenziare due sistemi molto diversi che determinano il grado di autonomia della coppia coniugale, le gerarchie al suo interno, ma anche i diritti delle donne sui figli e sulle risorse familiari. Le regine della casa non portano tutte la stessa corona, non regnano ovunque con lo stesso potere. Nell’area mediterranea, nel Sud della Francia, nell’Italia centro-settentrionale e piú tardi in Spagna, la norma patrilineare si è imposta rapidamente a tutti i livelli della società, poiché i modelli dell’aristocrazia feudale erano stati presto emulati dai nuovi ceti mercantili e artigiani delle città. Il lignaggio, o la casata, trae la propria forza dalla conservazione del suo patrimonio materiale – la terra, i castelli, le case – e del

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suo capitale simbolico – il nome, lo stemma, il prestigio sociale – nelle mani dei padri, che devono assicurarne la trasmissione nella linea di discendenza maschile, escludendo il piú possibile le donne da questa eredità. Lo strumento di tale estromissione è la dote, che, a partire dal XII secolo, tende a prevalere su altre prestazioni economiche legate allo scambio matrimoniale il cui peso, nell’Alto Medioevo, gravava in prevalenza sul marito.

Gestione esclusiva

Gli Statuti comunali iniziano presto a riscrivere le regole del gioco successorio allontanandosi talvolta radicalmente dall’impostazione meno discriminatoria del diritto romano giustinianeo: la dote, quasi sempre in denaro, tacita qualsiasi altra pretesa delle figlie sull’eredità del padre e sempre piú spesso anche

su quella della madre, che vengono cosí riservate ai figli maschi. In cambio della dote, di cui ha la gestione esclusiva durante la vita coniugale, il marito non concede piú alla moglie una compartecipazione al patrimonio familiare, come avveniva nell’Alto Medioevo, bensí una semplice donazione, il cui valore è spesso assai modesto e oltretutto percepibile solo in caso di vedovanza solitaria. Il coniuge ha il solo obbligo, sancito dalla legge, di non sperperare quel credito muliebre e di garantirne, con delle ipoteche, la restituzione nel caso in cui la sua morte sciolga il vincolo coniugale; tanto piú che il sistema lo esenta dal preoccuparsi della sicurezza materiale della propria vedova. Un tale regime di separazione dei beni non favorisce certamente la nascita di una comunità coniugale solidale, e questa fragilità struttura-

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

le viene accentuata dalla residenza patrilocale: di regola, i figli portano la loro sposa nella casa paterna e, se il pater familias è ancora vivo, la nuova coppia si sottopone alla sua autorità. Aggiungiamo che, per preservare l’onore femminile, il matrimonio pone spose giovanissime, in genere neanche diciottenni, sotto l’autorità di un marito piú vecchio di almeno una dozzina d’anni. Incorniciata in una duplice gerarchia familiare e coniugale, inizialmente la condizione di moglie non può che risultare assai debole. Negli ultimi secoli del Medioevo il regime dotale, ormai perfeziona-

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to, emargina le figlie dalla propria casata, non aggrega pienamente le mogli alla famiglia del marito e, in molti casi, seleziona gli eredi delle madri per incanalare i beni di queste nell’asse patrilineare. Vettori di alleanza e spesso di pacificazione tra famiglie, nonché strumento indispensabile della riproduzione biologica, le donne entrano ed escono da case la cui struttura portante è tutta maschile, senza poter veramente radicarsi nella famiglia. L’ideologia patrilineare e le pratiche successorie che la sorreggono alimentano una potente «illusione ottica», quella di un processo di devoluzione dei beni

e di riproduzione familiare che deve ben poco alle madri. La transitorietà delle donne, iscritta in molti diritti locali, è percettibile negli spostamenti contraddittori che la sposa novella effettua durante il rituale nuziale. Il trasferimento dalla casa natia alla dimora del marito proclama pubblicamente il cambiamento di status della figlia divenuta moglie. Tuttavia, a Venezia, come a Firenze o altrove, le cerimonie nuziali non si concludono con l’insediamento della moglie sotto il nuovo tetto: di solito entro otto giorni dalla celebrazione delle nozze, un corteo a ritroso – si chiagennaio

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Doni di nozze

Una generosità... temporanea Nel regime dotale, il matrimonio può sembrare un buon affare che frutta agli uomini una discreta somma di denaro, senza comportare controparti sostanziali. La realtà è però piú complessa: i Libri di Ricordi dei mercanti fiorentini documentano un altro livello di scambi, regolato dalla consuetudine e teso a controbilanciare la forte asimmetria insita nella dote. Nelle varie fasi della celebrazione nuziale e nel primo anno di vita coniugale, i mariti dovevano offrire gioielli e costituire un guardaroba alla sposa. Si trattava di doni costosi, il cui valore talvolta equivaleva a piú di un terzo di quello della dote ricevuta, un’ostentazione che le leggi suntuarie tentarono inutilmente di contenere, perché tali doni miravano anche ad aggregare la sposa alla sua nuova famiglia. Ed erano «doni» per modo di dire, poiché, giuridicamente, il marito ne rimaneva sempre proprietario. Esaurita la fase di consolidamento dell’unione matrimoniale, non di rado i Fiorentini smembravano pezzo per pezzo, perla a perla, manica per manica tutte le

ma «ritornata» o «revertalia» – riporta la sposa novella nella casa paterna, attestando cosí la persistenza dei legami con la famiglia di origine. Se le donne possono andare e venire tra le case, anche i trasferimenti di beni avvenuti al momento del matrimonio sono potenzialmente reversibili: con le nozze, né la sposa, né le sue ricchezze sono definitivamente acquisite dal marito e dalla sua famiglia; cosí, paradossalmente, l’alleanza può veramente «concludersi» soltanto quando la coppia è dissolta dalla scomparsa di uno dei coniugi. La situazione piú critica si verifica alla morte del marito

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parure di gala di cui la sposa era stata adornata, per poi rivenderle oppure prestarle o affittarle a parenti e amici che stavano per convolare a nozze. Alla morte del marito, vesti e gioie appartenevano alla vedova soltanto se le erano state lasciate per via testamentaria. Non tutti i Fiorentini davano prova di generosità, perché il lascito di questo «contro-corredo» aveva un significato simbolico molto preciso: quello di aggregare definitivamente la sposa al lignaggio del marito. Di fatto, esiste una chiara correlazione tra la maturità della coppia e questo tipo particolare di lascito: a compiere questo gesto erano uomini maturi che, col passare degli anni, avevano visto svanire l’incertezza che inizialmente pesava su ogni unione, consolidando la coppia di cui la vedova, non piú in età di risposarsi, avrebbe assicurato la perennità: l’attribuzione del pieno possesso sui doni nuziali perfezionava il significato rituale iniziale e aveva senso soltanto se, rimanendo in casa, la vedova garantiva il «dono» definitivo della sua dote. Solo cosí l’alleanza poteva dirsi veramente conclusa. In alto un corteo nuziale, particolare del pannello di cassone Giustizia di Traiano, opera dello Scheggia (al secolo Giovanni di Ser Giovanni). 1450-70. Collezione privata. Sulle due pagine Firenze, Oratorio dei Buonomini di S. Martino. La celebrazione del matrimonio e la stipula del relativo atto notarile in un affresco attribuito alla bottega di Domenico Ghirlandaio. XV sec.

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e i giochi si decidono subito, senza aspettare l’anno di lutto che la Chiesa tenta invano di far rispettare. Tutto dipende da cosa fa la vedova: rimane o se ne va? Se lei decide di «tornare» o, come spesso accade, la sua famiglia la riprende per poi eventualmente mandarla sposa in un’altra casa, un corteo di parenti la scorta fino alla dimora paterna la sera stessa del funerale del consorte.

Tutto in un baule

La vedova porta al seguito la sua dote o, meglio, un baule contenente il suo corredo che, in quella sequenza rituale, rappresenta i beni che dovranno essere restituiti; i figli, che appartengono alla casa nella quale sono nati, non possono però accompagnarla e ancora meno seguirla in un’eventuale nuova dimora: nelle famiglie patrizie, gli orfani non trovano quasi mai nel patrigno un sostituto del padre, mentre la matrigna è una figura piuttosto comune. Non di rado, una madre vedova che,

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umiliana dei cerchi

Meglio la carità della penitenza Umiliana dei Cerchi (1219-1246) incarna una forma innovatrice di ascetismo, ed è uno dei primi modelli agiografici di devozione laica e domestica proposto dai Francescani in risposta alla diffusa aspirazione penitenziale espressa dalla popolazione femminile delle città. Nata a Firenze intorno al 1219, Umiliana fu maritata a sedici anni a un mercante, ma mostrò subito di disprezzare la vita mondana. La giovane sposa iniziò cosí il suo percorso penitenziale in casa del marito, dedicandosi, con la cognata e altre pie donne, alla carità: nottetempo preparava cibi sottratti alla mensa familiare per poi uscire all’alba e distribuirli a poveri e ammalati; dopo aver smembrato il suo corredo nuziale, ritagliò e restrinse le splendide vesti donate dal marito: tesseva e ricamava al lume di candela per vestire gli indigenti, regalava all’infermeria di un monastero biancheria sottratta alla camera nuziale. Mettendo non solo il suo lavoro di moglie ma anche i suoi beni a servizio dei poveri e non della casa – offrí anche al marito la sua dote, affinché potesse riscattarsi dal peccato di usura –, Umiliana adottò un comportamento totalmente fuori dalla norma, che le valse i rimproveri e le violenze dei membri della casa. Dopo cinque anni, la morte del marito la liberò dal giogo coniugale. Ma quando, al termine dell’anno di lutto, la vedova fece ritorno nella casa paterna, dovette affrontare un ben piú duro calvario domestico. Avendo rifiutato con caparbia determinazione le seconde nozze, che i suoi parenti tentavano di imporle, Umiliana si ritirò in una stanza gennaio

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risposandosi, deve separarsi dalla propria prole, viene chiamata a occuparsi dei figli di primo letto del nuovo marito. Nelle famiglie povere, invece, le seconde nozze della madre sono tra le principali cause di abbandono dei figli negli ospedali per trovatelli. Per le vedove, la «tornata» è quindi un diritto di asilo sancito dagli Statuti, ma si può anche rivelare un diritto dei padri a riaffermare la patria potestas che il matrimonio non aveva abolito e, di conseguenza, il loro controllo sui beni dotali delle figlie da riciclare in un’altra alleanza socialmente utile alla famiglia. La mobilità delle donne e dei loro beni, funzionale alle strategie Nella pagina accanto ancora un affresco, dell’Oratorio dei Buonomini di S. Martino, a Firenze raffigurante la compilazione dell’inventario di un lascito. XV sec. In basso busto reliquiario della terziaria francescana Beata Umiliana dei Cerchi. 1362 circa. Firenze, Museo di S. Croce.

matrimoniali e patrimoniali delle casate, è un temibile fattore di instabilità delle alleanze, una delle principali cause di conflitto tra famiglie, soprattutto nel momento in cui la precoce vedovanza femminile – frequente, dato il notevole scarto di età tra gli sposi – rivela clamorosamente tutte le contraddizioni del sistema dotale e del patrilignaggio. Infatti, gli stessi uomini che non esitano a riprendere con sé una figlia vedova, con la sua dote ma senza i figli, per risposarla al piú presto, accusano dell’abbandono e della rovina dei suoi piccoli una nuora uscita di casa per i medesimi motivi.

Uno status symbol

Eppure, padri e mariti non possono fare a meno della dote, che costituisce un potente indicatore del prestigio e dell’onore familiari, nonché uno strumento di acquisizione di status e di mobilità sociale. Anche per questo motivo, dal Trecento

le doti aumentano notevolmente, ma questo fenomeno inflazionistico impone dei correttivi, se non si vuole intaccare piú di tanto l’eredità dei figli maschi. Cosí, dalla metà del Trecento, un numero sempre piú cospicuo di ragazze finisce, intorno ai diciotto anni, in convento, unica alternativa onorevole al matrimonio in una società che non concepisce di lasciare le donne sole senza tutela. Anche la monacazione richiede una dote, ma di un valore assai piú modesto, fino a dieci volte inferiore a quello che costerebbe un bel matrimonio. A Firenze, si contano 16 monasteri femminili nel 1368, 26 nel 1415 e già 30 nel 1470, ma la crescente domanda delle famiglie porterà ad altre fondazioni; le monache che, nel 1336, rappresentano l’1,2% della popolazione cittadina, sono già il 6,7% nel 1427. A Firenze, come in molte altre città, l’incremento delle monacazioni è particolarmente vistoso a

della torre familiare, una sorta di cella domestica in cui, insieme alla sua ancella, sperimentò, nei sette anni che le rimasero da vivere, un durissimo percorso ascetico e penitenziale. Privata di mezzi, poiché il padre le aveva sottratto la dote con l’inganno, la santa vedova divise con i poveri i pani che costituivano il suo unico cibo. La leggenda agiografica redatta subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1246, rivela come intorno a Umiliana gravitasse uno dei primi nuclei di donne penitenti fiorentine che, influenzate dall’apostolato francescano, sperimentavano una nuova formula religiosa, inserita in una dimensione comunitaria non monastica. Nel XIII secolo, nei dintorni degli insediamenti francescani e domenicani, fiorirono queste case di «pinzochere», «mantellate» o «vestite» di vari Ordini, nei quali vivevano donne sole, spesso vedove, accomunate da una sorellanza spirituale e da un forte spirito solidaristico. Dalla fine del Trecento, queste aggregazioni passarono dallo stato secolare a quello monastico sotto la spinta normalizzatrice dei pontefici e delle gerarchie ecclesiastiche, che chiuse una stagione originale di religiosità femminile.

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Dossier

Le donne e la legge

La lunga marcia verso la parità Nei Comuni medievali le donne erano escluse dalla cittadinanza attiva, poiché non partecipavano alla vita pubblica; erano, tuttavia, considerate «cittadine» del loro luogo di nascita e in quanto tali soggette a specifici diritti e obblighi giuridici sanciti dagli Statuti. Nel nuovo contesto politico, in cui centinaia di comunità indipendenti con giurisdizioni territoriali erano dotate di capacità legislativa, i giuristi furono spesso posti di fronte al problema degli effetti del matrimonio sulla cittadinanza delle donne, in particolare di quelle donne «sposate altrove», ovvero con un marito residente in un’altra città che esse seguivano nella nuova patria. In aperto contrasto con il diritto romano, per il quale l’immutabilità della origo era un principio sacro custodito dalla Lex Adsumptio, all’inizio del XIII secolo, nella sua Glossa ordinaria al

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Corpus iuris di Giustiniano, il giurista Accursio sancí che le donne sposate a un forestiero perdevano la propria cittadinanza originaria per diventare automaticamente cittadine della origo del marito, cessando quindi di godere dei benefici e delle protezioni che il loro Comune riservava ai propri cittadini. Se i coniugi uniti dal vincolo del matrimonio erano una sola carne, la coppia sposata doveva avere un’unica personalità giuridica. Il giurista Bartolo di Sassoferrato († 1357) criticò la tesi accursiana e sostenne il principio della doppia cittadinanza per le donne, ma, anche se la sua posizione fu sostanzialmente condivisa dai successori, quell’abile compromesso dava comunque luogo a conflitti di giurisdizione, in particolare quando erano in gioco la capacità contrattuale delle donne e gli interessi contrapposti di padri e mariti sulle proprietà o le eredità femminili. In

pratica, una donna sposata con un uomo di una città diversa dalla sua si trovava spesso in una condizione precaria, penalizzata nella propria città e mai veramente integrata come cittadina nella patria del marito. Le dottrine medievali sulla perdita di cittadinanza delle donne sposate altrove trovarono ampio spazio nel Codice civile francese (1804) e furono successivamente recepite dal Codice civile dell’Italia unita (1865), fino alla nuova legge sulla cittadinanza promulgata nel 1912. Soltanto dal 1975, con la dichiarazione di incostituzionalità della legge del 1912 sulla perdita involontaria di cittadinanza da parte di una donna sposata e con la promulgazione del nuovo diritto di famiglia, è stata riconosciuta alle donne la condizione di cittadine autonome con capacità giuridiche identiche a quelle dei cittadini maschi. gennaio

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Nella pagina accanto Siena, Palazzo Pubblico, Sala della Pace. Particolare degli Effetti del Buon Governo in città affrescati da Ambrogio Lorenzetti raffigurante una giovane donna che si avvia alle nozze. 1338-1339. A destra due particolari delle Storie di Santa Francesca Romana, affreschi attribuiti al pittore Antoniazzo Romano e alla sua bottega, che ornano il monastero di Tor de’ Specchi a Roma. XV sec.

partire dal 1480 e si stima che nella Venezia di metà Cinquecento i tre quinti delle figlie del patriziato vivessero all’ombra dei chiostri. Quando la parentela è esplicitamente organizzata in modo bilaterale, cioè quando la linea paterna e la linea materna si pongono sullo stesso piano, la condizione delle figlie e delle mogli cambia notevolmente. In aree dell’Europa molto distanti, come la Sicilia e le Fiandre, le consuetudini che regolano il matrimonio e la successione attestano quest’altra cultura che valorizza la coppia coniugale, e non la discendenza maschile dei padri, come atomo costitutivo della parentela. Dopo i Vespri e l’affermazione della Corona aragonese, in Sicilia prende avvio la redazione delle consuetudini cittadine che attestano, ancora all’inizio del Trecento, l’ampia diffusione di un regime di comunione dei beni tripartita, che coinvolge in ugual misura il marito, la moglie e i loro figli di entrambi i sessi. Al momento del matrimonio, gli apporti dei coniugi confluiscono in un unico asse patrimoniale: il nucleo domestico che si forma, ampliandosi successivamente con la nascita dei figli, diventa titolare della ricchezza familiare presente e futura, agisce in modo collettivo

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nell’amministrazione dei beni e nell’attività contrattuale. In un sistema del genere, il matrimonio è un fattore di emancipazione: la coppia coniugale si svincola dall’autorità dei padri, insediandosi generalmente in una residenza indipendente, la moglie diventa parte integrante del nucleo familiare, esercita un’autorità sui figli, oltre a essere attivamente coinvolta nella solidarietà economica che unisce tutti i membri della casa. La successione egualitaria all’interno della famiglia non comporta alcuna discriminazione di genere: la quota delle figlie non è diversa, né per qualità né per quantità, da quella dei fratelli e, soprattutto, non è una dotazione strettamente legata al matrimonio.

Nuovi modelli

Il regime comunitario produce un modello familiare estraneo alla logica di continuità, di durata nel tempo propria del patrilignaggio: ogni passaggio di generazione, infatti, determina una frammentazione del patrimonio. Eppure, a eccezione dell’aristocrazia feudale, i ceti dirigenti come quelli popolari adottano il regime patrimoniale della comunità che, va notato, non è obbligatorio poiché esiste anche un altro tipo di consuetudine.

Tuttavia, dalla metà del Trecento, l’esigenza di protezione del patrimonio, o almeno dei beni piú preziosi da un punto di vista economico e simbolico, porta progressivamente alcuni esponenti di una classe dirigente cittadina in formazione a superare il regime di comunione, derogando alle regole consuetudinarie. Per farlo, occorre sposarsi in un altro modo, introducendo meccanismi di esclusione femminile: il contratto di matrimonio «alla greca», con la dotazione della sposa, consente di non rendere piú la moglie contitolare del patrimonio coniugale e di regolare, limitandolo, il flusso di beni paterni in uscita con le figlie che si sposano. Si tratta di un processo lento e non lineare, che svela comunque il nesso tra aspirazioni dinastiche ed esercizio del potere. Anche nelle città delle Fiandre e in diverse aree dell’Europa settentrionale, a partire dalla seconda metà del XIV secolo, le antiche consuetudini che regolano in senso comunitario le relazioni patrimoniali tra coniugi e la successione egualitaria vengono sovvertite tramite una pratica contrattuale che toglie progressivamente diritti e poteri familiari alle donne, favorendo il lento, ma inesorabile sviluppo della patrilinearità. V

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CALEIDO SCOPIO

Francesco è (forse) stato qui CARTOLINE • A Carinola, nel

Casertano, il convento intitolato al santo di Assisi è un gioiello architettonico, ricco di pregevoli opere d’arte. E, nel tempo, ha accolto ospiti di grande fama

C

ome ci informa nella sua pregevole Storia dell’arte italiana (1923), Adolfo Venturi († 1941), fu attratto anche dalla piccola realtà di Carinola (Caserta), centro dell’antica Terra Laboris – estraneo ai grandi percorsi storico-artistici nazionali –, definendola la «Pompei del Quattrocento» per la singolare presenza di architetture ascrivibili al tardo-gotico durazzesco-aragonese. Qualcosa di molto importante, quindi, attirò l’insigne studioso. Il primo faro su questo «tesoro nascosto» si accese nel primo decennio del Novecento, quando la Regia Soprintendenza ai Monumenti, intervenendo su una questione privata relativa al Palazzo Marzano, notificò un provvedimento di «interesse artistico». Fu l’inizio della scoperta di un importante cantiere angioino-catalano, lontano dalla capitale napoletana, per secoli rimasto sconosciuto, conservatosi per buona parte integro, soprattutto grazie allo spopolamento del sito. Il patrimonio storico-artistico di Carinola, che resta tutt’oggi un

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piccolo centro del Casertano, può considerarsi un unicum nel suo genere, realizzato quando fu luogo strategico e di interesse del Regno di Napoli (XIV-XV secolo) e che vide, come suoi signori, gli esponenti della potente famiglia Marzano e – per un breve periodo – Antonello Petrucci (segretario di Alfonso e Ferrante d’Aragona) e dei suoi figli alla vigilia della loro disfatta legata alla

congiura dei baroni (1485-1487). Uno dei «tesori nascosti» di Carinola è l’antico convento di S. Francesco, sorto nei pressi della frazione di Casanova. A dispetto della tradizione, la presenza dell’Assisiate nella terra carinolese non è certificata e sembrerebbe piú probabile il suo passaggio nella vicina Sessa Aurunca. Pertanto, potrebbe essere verosimile l’ipotesi gennaio

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antichi abitati che formano l’attuale Casanova), in prossimità della collina, subiva una diramazione con due strade, che conducevano ad altrettante, uniche e opposte, porte urbiche di Carinola. La dolce collina è totalmente immersa nel verde e da essa è possibile ammirare il vasto paesaggio: quello costiero, sul versate sud-occidentale; la fertile piana del Volturno – compresa tra la catena montuosa che delimita a settentrione il Casertano fino a raggiungere il Vesuvio – nelle belle giornate; i monti che percorrono tutto il versante nord-occidentale, che dal vulcano di Roccamonfina si spinge fino al litorale mondragonese-sessano. Un’oasi di meditazione e preghiera, dunque, la cui data di fondazione resta ancora sconosciuta, ma della quale si ha certezza dell’esistenza sin dai primi che avesse dimorato nell’incavo naturale posto su una leggera altura, ove sorgeva una sua comunità, che successivamente divenne luogo di particolare devozione, mutando anche la dedicazione originaria a san Giovanni Battista in favore del fondatore dell’ordine.

Un’oasi di fede e arte Il sito scelto dai fratelli francescani ben si prestava sia alla meditazione che alla vicinanza con la gente del luogo, trattandosi di una comunità religiosa non eremitica. La strada che conduceva al convento, dal borgo dei Carani (uno dei tre

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In alto Carinola (Caserta). Il complesso conventuale di S. Francesco. Nella pagina accanto, al centro il chiostro. In basso particolari di capitelli del chiostro tipici dell’espressione artistica gotico-angioina.

MOLISE LAZIO

PUGLIA

Roccamonfina

Carinola Caserta

Benevento CAMPANIA

Napoli

Avellino

Procida Golfo di Ischia Napoli Sorrento Capri

Salerno Amalfi

BASILICATA Eboli

Mar Tirreno Palinuro

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CALEIDO SCOPIO A sinistra particolari delle decorazioni in pietra della chiesa, tipiche del tardo-gotico durazzesco-catalano In basso, a sinistra lastra tombale di un milite (Giovanni Battista Pannetta) del 1575 con incisi una iscrizione in latino e un «monito» in volgare. In basso, a destra frammento di un paliotto (decorazione di ispirazione opus alexandrinum) dell’XI-XII sec. incastonato sotto la mensa di un altare del XVIII sec.

anni del XIV secolo, come riferisce frate Paolino da Venezia (vescovo di Pozzuoli) nel suo Provinciale, compilato intorno al 1334.

Ospiti illustri Luogo di frequentazione di grandi personaggi legati all’Ordine francescano (testimonianze che restano comunque nell’alveo della tradizione), come Guglielmo da Ockham (vedi box alla pagina accanto), che frate Guglielmo Gonzaga, nel De origine Seraficae Religionis (1587), afferma abbia trascorso gli ultimi anni della sua turbolenta vita nel piccolo e isolato convento di Carinola; Giacomo della Marca, confessore di Ferrante d’Aragona, che Marco da Lisbona, nelle Cronicas da Ordem dos frades Menores do Seraphico Padre Sam Francisco (15571562), asserisce abbia soggiornato

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Un pensatore scomodo Il filosofo e teologo Guglielmo di Ockham prende nome dal villaggio della contea del Surrey nel quale nacque intorno al 1285. Completò la sua formazione a Oxford, nel convento dei Frati Minori, e, sensibile all’influenza di Ruggero Bacone, si interessò subito alla materia destinata a diventare uno degli argomenti-chiave della sua futura speculazione, la logica, sulla quale produsse due trattati: l’Expositio aurea super totam artem veterem e la Summa logicae. Entrò ancor giovane nell’Ordine francescano, ma venne accusato di eresia e decise allora di raggiungere Avignone (che era allora sede pontificia) per discolparsi, proprio mentre divampava la controversia fra il generale dei Francescani, Michele da Cesena, e papa Giovanni XXII sulla povertà evangelica. Schieratosi con il suo generale, Guglielmo rimase preso nell’ingranaggio degli avvenimenti e seguí l’imperatore Ludovico il Bavaro, protettore di Michele da Cesena in Italia, ma, tramontata la fortuna dei ghibellini,

accompagnò l’imperatore nel suo ritorno in Baviera e si stabilí a Monaco. Nel 1347, dopo la morte di Ludovico, Ockham riallacciò i contatti con il papato, esprimendo il desiderio di trascorrere l’ultimo periodo della sua vita nell’Ordine francescano, lontano dagli echi delle lotte politiche a cui aveva assistito negli anni di soggiorno a Monaco di Baviera. A oggi, si ignora la data esatta della morte del filosofo: a lungo si è creduto che fosse stato vittima, nel 1349, della terribile epidemia di peste che aveva flagellato l’Europa a partire dal 1348, ma negli ultimi anni è stata invece avanzata l’ipotesi che Guglielmo abbia concluso la sua esistenza terrena nel 1347, prima dello scoppio della pestilenza. (red.)

Ockham (Surrey, Inghilterra). Vetrata policroma della All Saints Church raffigurante il grande filosofo e politico francescano Guglielmo di Ockham. XV sec. nel convento carinolese quando da Napoli raggiunse il suo sovrano, che dimorava temporaneamente nella cittadella poco distante. Il complesso conventuale resta ininterrottamente abitato dai Francescani fino alla chiusura, imposta nel 1810 dalle leggi napoleoniche. Nel 1838, con decreto del re di Napoli, il convento fu riconsegnato ai frati e restaurato. Verso la fine dell’Ottocento, i religiosi abbandonarono la struttura, nel frattempo divenuta proprietà del Comune di Carinola, che cadde in uno stato di profondo degrado fino alla metà del Novecento, allorché la Soprintendenza ai Monumenti della Campania cominciò a curarne il restauro. Successivamente, il convento fu affidato ai Frati Minori della Provincia Napoletana, che ne hanno a tutt’oggi cura.

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CALEIDO SCOPIO

La chiesa è ampia ed elegante nella sua semplice conformazione ad aula coperta a tetto, distintiva dell’Ordine francescano, ma anche della cultura architettonica religiosa angioina. Lungo la navata risaltano alcuni elementi decorativi delle tre cappelle a parete sul lato destro, con pilastri polilobati in pietra grigia e capitelli scolpiti con motivi floreali, tipici del gusto durazzesco-catalano; imponenti sono i quattro altari posti in corrispondenza dell’area absidale, realizzati tra il XVI e il XIX secolo, che ricordano la particolare devozione di famiglie facoltose carinolesi, che realizzavano, a proprie spese, tali arredi, preceduti dai loro sepolcreti ipogei, istituendo su di essi lo juspatronato. Tale esigenza portò, verosimilmente nel XVI secolo, all’edificazione di una navata laterale sinistra, nelle cui svariate cappelle erano ospitati tutti altari patronati.

Restauri e nuove scoperte Durante gli ultimi lavori di restauro e consolidamento della chiesa, lungo tutta la navata centrale, sono state rinvenute numerose camere ipogee con i resti mortali delle famiglie che li possedevano. Decorano l’aula anche pitture di diverse epoche,

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Sulle due pagine, particolari e veduta d’insieme dell’affresco con la Mater Dolorosa, san Giovanni e le pie donne. XVI sec. Interessante è soprattutto la scena riprodotta qui a sinistra, nella quale è raffigurato il gruppo dei frati guidati da Francesco (i santi Bernardino da Siena, sant’Antonio, san Bonaventura vescovo, san Ludovico d’Angiò vescovo e i protomartiri francescani Berardo, Ottone, Pietro, Accursio, Adiuto).

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CALEIDO SCOPIO Lavabo in marmo che reca l’iscrizione: FACIEM TUAM LAVAM A.D. MDLXXXXII F. M.

solo alcune delle quali sono opera di artisti locali. Interessante è un affresco del XIII-XIV secolo, in origine posto in una cappella a parete e poi distaccato, di buona fattura, raffigurante sant’Antonio e san Francesco che riceve le stigmate. Accanto alla chiesa è il chiostro quadrangolare, con le sue volte a crociera che si aprono su un cortile attraverso arcate gotiche sostenute da pilastri polistili con capitelli in pietra grigia lavorate, poste su due lati. I restanti lati presentano pilastri piú recenti, frutto di un’evidente ricostruzione. Oltre alla particolare lavorazione dei capitelli originari, in cui prevalgono elementi floreali con l’inserimento del giglio angioino, su alcune pareti claustrali si conservano affreschi ascrivibili al XVII secolo (opera di maestranze locali) che

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narrano le storie della vita di san Francesco. Piú antico, in origine posto in una campata addossata alla chiesa e poi distaccato, era un affresco raffigurante la Madonna con Cristo benedicente tra i santi Giovanni Battista e Francesco.

Al seguito di Cristo Ritrovato dopo un furto, l’affresco è oggi custodito nei depositi della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Caserta e Benevento. Nel refettorio, un vasto ambiente dove è andata distrutta la volta a crociera che lo ricopriva, sulla parete di fondo si possono ammirare i brani di un grande affresco, ascrivibile al XVI secolo, realizzato da un esperto autore ignoto. L’opera è stata rinvenuta, già parzialmente

lacunosa, durante i restauri degli anni Sessanta del Novecento, dietro una sottile parete. Probabilmente, in epoca non molto remota, essa venne occultata perché rovinata. A differenza dell’iconografia canonica, non vi è raffigurata l’Ultima Cena, ma una singolare Salita al Calvario e Crocifissione (che prende spunto dall’affresco coevo – attribuito ad Andrea da Salerno – posto nel refettorio antico della chiesa francescana di S. Maria la Nova a Napoli), alla presenza di Francesco e Chiara, accompagnati dai rispettivi seguaci. Purtroppo, il degrado ha completamente cancellato Chiara e le sue compagne, ma, fortunatamente, si sono salvati: la scena centrale del Cristo, che cede sotto il peso della croce, seguito dalla Mater dolorosa, sostenuta dalle pie donne; il corteo dei soldati e cavalieri vestiti secondo la «moda rinascimentale»; ancora, sulla sinistra, da una porta urbica incastonata tra due torri merlate cilindriche, muove il corteo guidato da san Francesco, che mantiene un cartiglio affiancato dal grande riformatore dell’Ordine, Bernardino da Siena, seguito dal giovane Antonio che ne regge la parte finale, con l’iscrizione in cui si invitano i «fratelli minori» a seguire Cristo. Dietro i tre importanti pilastri della Chiesa, i primi seguaci del santo che patirono il martirio per aver osato diffondere la rivoluzionaria Regola del nuovo Ordine nella penisola iberica invasa dai musulmani: Ottone, Addiuto, Bernardo, Pietro, Accursio. Il convento francescano carinolese, oltre a essere un’oasi di fede, ospita durante l’anno importanti manifestazioni culturali, di respiro nazionale e internazionale, attirando anche l’attenzione di artisti moderni, come il maestro Nicola Migliozzi, che ha realizzato le 15 stazioni (con la tecnica della pittura su pietra lavica) della Via Crucis lungo la strada che conduce al convento. Corrado Valente gennaio

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Capolavori accademici

Giovanni Valagussa (a cura di) Accademia Carrara Bergamo. Dipinti del Trecento e del Quattrocento. Catalogo completo Officina Libraria, Milano, 448 pp., 110 tavv. col., 200 ill. 65,00 euro ISBN 978-88-99765-68-2 www.officinalibraria.net Madonna con il Bambino, tempera e oro su tavola di Carlo Crivelli. 1482 circa.

LIBRI • È dedicato ai

magnifici dipinti del Tre e Quattrocento il primo catalogo scientifico della prestigiosa collezione custodita dall’Accademia Carrara di Bergamo

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F

ondata alla fine del Settecento per volere del conte Giacomo Carrara, l’Accademia bergamasca che ne porta il nome possiede un ricco patrimonio di opere d’arte, frutto delle donazioni dello stesso Carrara e di altri importanti collezionisti, come Giacomo Lochis, Guglielmo Morelli e, in tempi piú recenti, Federico Zeri. Lasciti che hanno affidato alla prestigiosa istituzione 1800 dipinti, un centinaio dei quali sono ora

pubblicati nel primo di una serie di cataloghi scientifici della raccolta. Questa selezione comprende le opere realizzate prima del 1500, che nel volume sono state suddivise secondo le aree di provenienza dei loro autori – toscana e centro-italiana, lombarda e veneta – e vengono presentate in ordine cronologico. Ogni scheda si apre con una sorta di carta di identità, nella quale sono specificati tutti i dettagli tecnici, alla quale fanno seguito la ricognizione dello stato di conservazione e l’analisi critica del dipinto. Fin dall’inizio si percepisce l’approfondito studio che ha portato

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CALEIDO SCOPIO A sinistra Resurrezione di Cristo, tempera e oro su tavola di Andrea Mantegna. 1492 circa. In basso Ritratto di Giuliano de’ Medici, tempera e olio su tavola di Sandro Botticelli e bottega. 1478-1480 circa.

alla realizzazione del catalogo, al quale si è affiancato un altrettanto decisivo riesame critico. Sono molte, infatti, le nuove attribuzioni proposte dagli studiosi coinvolti nella realizzazione del volume – negli apparati finali vengono elencate in una lista che comprende oltre la metà dei dipinti –, fra le quali spicca senza dubbio quella di una Resurrezione di Cristo, ora assegnata ad Andrea Mantegna e non piú alla scuola dello stesso maestro veneto (vedi foto in questa pagina).

Nuova paternità Si tratta di una tempera su tavola, databile intorno al 1492 e giunta in Accademia nel 1866, grazie al lascito Lochis, di cui Giovanni Valagussa (autore della scheda), argomenta la nuova paternità. E ipotizza anche che il dipinto raffigurasse in origine due episodi, il secondo dei quali – la Discesa di Cristo al Limbo (oggi in collezione privata) – sarebbe stato poi staccato. Ne sarebbe prova il fatto che nella Resurrezione si vede, in basso, sotto l’arco in pietra, la parte terminale di una croce, che presenta le medesime caratteristiche del vessillo tenuto dal Cristo che esce trionfante dal sarcofago. Il caso della Resurrezione viene giustamente evidenziato dai curatori stessi del volume, ma è bene sottolineare come il nome del Mantegna sia affiancato da quelli di molti dei piú grandi maestri tre-quattrocenteschi, come Benozzo Gozzoli, Botticelli, Pisanello o Giovanni Bellini. Accanto ai quali si possono ammirare opere assegnate ad artisti anonimi, ma non per questo minori, quali il Maestro di San Miniato o il Maestro dei Cartellini. Presenze che testimoniano l’altissima qualità delle collezioni d’origine, al mecenatismo dei cui proprietari dobbiamo oggi la possibilità di questo straordinario viaggio fra due secoli cruciali dell’arte italiana. Stefano Mammini

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Evviva gli sposi! MUSICA • Le partiture

del brillante compositore fiammingo Guillaume Dufay vengono rivisitate magistralmente nella piú recente incisione dell’ensemble Gothic Voices, trasportandoci nelle liete atmosfere delle feste nuziali

È

il primo giorno dell’anno e l’occasione festiva si presta alla celebrazione di un evento nuziale in cui gli ospiti sono invitati a celebrare i novelli sposi attraverso il canto e le danze. A questo particolare contesto si ispira l’antologia The Dufay Spectacle, in cui Guillaume Dufay, celebrato compositore fiammingo, è anche l’ospite speciale, le cui musiche concorrono ad arricchire l’evento. Proprio Dufay, in piú occasioni, fu chiamato ad allietare con le sue musiche e con ingaggi prestigiosi i personaggi di alcune delle piú famose corti del Quattrocento: i Malatesta a Rimini, gli Estensi a Ferrara, i Medici a Firenze, senza dimenticare la cappella papale, di cui fu cantore sotto il papato di Martino V, e la corte di Amedeo VIII di Savoia. Una carriera artistica a dir poco eccezionale che lo ha portato a essere, in breve tempo, tra i compositori piú richiesti del periodo, grazie anche a un linguaggio musicale straordinario, capace di farsi portavoce delle nuove

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tendenze musicali che da lí a poco sfoceranno nella grande stagione rinascimentale. Motivo conduttore della raccolta è la chanson Ce jour de l’an, tra le piú famose di Dufay, che celebra la gioia dell’amore. Il brano apre l’ascolto nella splendida esecuzione per voce sola del baritono Stephen Charlesworth e lo riascoltiamo, successivamente, in forma di improvvisazione strumentale con viella ad arco, in altre due versioni per salterio solo e viella ad arco sola, e, infine, a chiusura dell’antologia, in una lettura polifonica per voci e strumenti, in un tripudio di festose sonorità.

Gioie amorose e toni solenni Al tema della festa nuziale ci riconducono Resveillez vous, composta per il matrimonio di Carlo II Malatesta e Vittoria Colonna (1423), una chanson che, insieme a Vasilissa, ergo gaude, ci testimonia dei legami tra Dufay e la corte malatestiana. La stessa atmosfera legata al tema della gioia degli amanti si respira in

The Dufay Spectacle Motets and Chansons Gothic Voices Linn Records (CKD 568), 1 CD www.outhere-music.com Entre vous, gentils amoureux e Estrinez moy, je vous estrineray. Solenne è il tono proposto da Ecclesiae militantis, mottetto dedicato all’incoronazione di papa Eugenio IV, e da un altro mottetto, Salve flos Tuscae gentis, che celebra il popolo fiorentino: brani di circostanza, che danno prova, con molti altri della produzione di Dufay, e dei suoi legami con i «potenti» del tempo. Non mancano partiture dai toni piú mesti, come Je vous prie e Las que feray? Ovvero il canto di dolore Je me complains piteusement, la cui scrittura in ritmo giambico crea un forte pathos drammatico. Fatto tesoro di tutte le innovazioni prodotte durante la grande stagione arsonivistica del Trecento, Dufay compie una straordinaria opera di sintesi, aprendo il linguaggio musicale a una visione e a una

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CALEIDO SCOPIO sensibilità nuove, dove il testo diventa sempre piú fulcro ed elemento ispiratore principale. A questo modo di concepire il discorso musicale si ispira il quartetto inglese Gothic Voices, fondato nel 1980, con un’interpretazione sensibile e pronta a cogliere in maniera intelligente la ricchezza espressiva

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dei testi. Con estrema precisione ritmica le voci di Catherine King, Clare Wilkinson (ospite del gruppo), Steven Harrold, Julian Podger e Stephen Charlesworth si amalgamano perfettamente tra loro, creando una perfetta sintonia anche con i quattro strumentisti che li accompagnano: Jane Achtman alla viella d’arco e

al flauto; Andrew Lawrence-King all’organo, regale, arpa e salterio; Keith McGowan alla dulciana e alla ciaramella; ed Emily White al sackbut, antesignano del trombone. Una produzione di grande livello, in cui l’ensemble si conferma tra i migliori interpreti nel panorama della discografia medievale. Franco Bruni



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