Medioevo n. 262, Novembre 2018

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Mens. Anno 22 numero 262 Novembre 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

DANTE IN ESILIO ULTIMI GIORNI DI BISANZIO SANTA MARIA ANTIQUA VITOZZA DOSSIER IL BUON GOVERNO

SIENA

ROMA

IN EDICOLA IL 3 NOVEMBRE 2018

A

BI VE SAN NE ZIO ZI A

MEDIOEVO n. 262 NOVEMBRE 2018

EDIO VO M E



SOMMARIO

Novembre 2018 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE Un altro paio di maniche

Promesse d’amore

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ITINERARI Sulle orme di un grande maestro 6 APPUNTAMENTI Medioevo Oggi Tradizioni a prova di gnomo Lo stratagemma di capitan Alfonso L’Agenda del Mese

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STORIE DANTE ALIGHIERI Una vita in esilio di Chiara Mercuri

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26 LUOGHI ROMA S. Maria Antiqua Colori e splendori di Stefano Mammini

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MEDIOEVO NASCOSTO Toscana

Nella città fantasma

di Carlo Casi e Luciano Frazzoni 72

CALEIDOSCOPIO MUSICA Fra sogno e incanto

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LIBRI Lo scaffale

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Dossier MOSTRE Venezia Morte (e rinascita) a Venezia di Pietro Tondello

SIENA Per il bene comune? Leggere il «Buon Governo» 44

di Marco Fabbrini

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Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Carlo Casi è direttore scientifico del Parco Archeologico Antica Castro e di Fondazione Vulci. Francesco Colotta è giornalista. Marco Fabbrini è socio dell’Associazione Italiana Public History (AIPH). Luciano Frazzoni è direttore del Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller» di Farnese. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Chiara Mercuri è dottore di ricerca in storia medievale. Stefania Romani è giornalista. Pietro Tondello è assistente scientifico presso il Museo Diocesano di Freising (Germania). Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

MEDIOEVO Anno XXII, n. 262 - novembre 2018 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Cortesia Museo Diocesano di Freising: Jens Bruchhaus: copertina (e p. 45); Walter Bayer: pp. 46, 56/57; Biblioteca Nazionale Marciana, Alessandro Moro: p. 47; Galleria Nazionale delle Marche, Urbino: p. 48; Bayerische Staatsbibliothek, Monaco di Baviera: p. 49; Gallerie degli Uffizi, Firenze: p. 50; Bibliothèque nationale de France, Parigi: p. 51; Ikonen-Museum, Recklinghausen: p. 52; RMN-Grand Palais/Daniel Arnaudet: p. 53; Archivio della Procuratoria di San Marco, Venezia: p. 54; Gallerie dell’Accademia, Venezia: p. 55 – Mondadori Portfolio: pp. 90/91, 94-99, 101, 102-111; AKG Images: pp. 5, 28/29; Leemage: p. 37; Archivio Lensini/ Fabio e Andrea Lensini: pp. 87, 88/89; Leemage: pp. 92/93 – Cortesia Archivio Leiden Marketing: pp. 6-8 – Cortesia Vestioevo: pp. 10-11 – Cortesia KölnTourismus: Dieter Jacobi: p. 12 – Cortesia degli autori: pp. 14 (alto), 72/73, 73, 74/75, 76-77, 79, 80-83, 85 – Cortesia Getty’s Open Content Program: p. 14 (basso) – Archivi Alinari, Firenze: su concessione MiBAC/Raffaello Bencini/Archivi Alinari: p. 27 – DeA Picture Library: pp. 30-33, 34/35; A. Dagli Orti: p. 36; Pineider: p. 40; S. Vannini: pp. 100/101 – Doc. red.: pp. 34, 91 – Da: Il Villani illustrato, Le Lettere, Firenze 2005: pp. 38-39, 41 – Shutterstock: pp. 58/59, 61 (basso), 68/69, 70/71, 78/79, 84/85, 88 – Cortesia Ufficio Stampa Parco Archeologico del Colosseo: pp. 66 (basso), 70; Gaetano Alfano: pp. 60, 61 (alto), 62-63, 66 (alto); Claudia Pescatori: p. 68 – Da: Santa Maria Antiqua tra Roma e Bisanzio, Electa, Milano 2016: pp. 64-65, 67 – Marka: Danilo Donadoni: p. 75 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 72. .

Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina l’Icona di San Luca di Freising, magnifico esempio dell’arte medio-bizantina.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Nel prossimo numero santo stefano

Il racconto del primo martire cristiano

itinerari

Sulla via Romea Germanica

l’arte delle antiche chiese/1

Casale Monferrato e Vercelli


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Promesse d’amore

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i ricorre oggi all’espressione «un altro paio di maniche» quando si vuole intendere una condizione o un qualcosa di totalmente diverso, che non c’entra nulla con la precedente né è paragonabile con un’altra. L’uso ha origine nel Basso Medioevo, quando, soprattutto tra il XIV e il XVI secolo, si utilizzavano maniche di ricambio, in particolare per gli abiti sontuosi, tessuti con stoffe pregiate. In realtà l’uso di cambiare le maniche non era appannaggio dei soli nobili, giacché per praticità, in casa si usavano maniche piú modeste, per poi indossare quelle piú ricercate in occasioni mondane. Per le classi aristocratiche, in ogni caso, non si trattava soltanto di una questione di mode, ma anche di una pratica legata a dei riti particolari. Durante la cerimonia di promessa di fedeltà, si svolgeva un particolare rituale che prevedeva di scambiarsi appunto le maniche di abiti ricchi, impreziosite da gioielli, magari foderate da pellicce e tenute al vestito da bottoni o nastri. Il significato dell’espressione sarebbe già comprensibile: cambiando le maniche di un vestito, si ottiene tutt’altra cosa. Ma alcuni studiosi propongono un ulteriore approfondimento. Al momento della promessa di fidanzamento, in vista del matrimonio, i due giovani, dopo essersi scambiati le maniche degli abiti, si promettevano di portarle reciprocamente in segno del loro amore, alla stessa stregua di come si fa con lo scambio degli anelli. Il trovatore catalano Vidal de Bezaudun (attivo nel XIII secolo), in una sua novella, ci trasmette infatti questa curiosa tradizione e ci fa sapere che, se l’amore finiva o il fidanzamento saltava, quando veniva intrapresa una nuova relazione, essi cambiavano anche le maniche, indossando allora... «un altro paio di maniche». L’uso di «levare le maniche» per donarle era una prassi diffusa anche durante i tornei, quando le dame usavano regalare una manica al vincitore, quale pegno d’amore che veniva esposto, dopo averlo legato alle spalle. Chrétien de Troyes, nel romanzo Érec et Énide, cosí descrive l’apertura di un torneo: «Che spettacolo di bandiere rosse, di veli e maniche turchesi o bianche donate in segno d’amore!». Dall’usanza di «dare una manica» (manche in francese) ha origine un altro modo di dire, che è quello di dare la «mancia»; intendendo con questa espressione fare un «dono», oggi ridotto a quel tanto che si elargisce in piú a un cameriere, a un usciere o a chiunque offra un servizio. Ritratto di Giovanna degli Albizzi Tornabuoni, tecnica mista su tavola del Ghirlandaio (al secolo Domenico Bigordi). 1489-1490. Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza. In primo piano, spicca la resa della manica riccamente decorata dell’abito.


ANTE PRIMA

Sulle orme di un grande maestro

ITINERARI • Leida si appresta a celebrare, nel 2019,

uno dei suoi figli piú celebri: Rembrandt van Rijn. E la ricorrenza può essere l’occasione per scoprire il cuore antico di questa importante città olandese

P

er celebrare il 350° anniversario dalla morte di Rembrandt van Rijn (1606-1669), che ricorre nel 2019, Leida, la città natale del pittore, ha messo a punto un calendario di rassegne e riaperture dedicate al periodo giovanile dell’artista, che nel centro portuale olandese a sud di Amsterdam trascorse l’infanzia e gli anni della formazione. Ai limiti dell’antico abitato, il Museo De Lakenhal, maestosa struttura del 1640, dopo i lavori di ampliamento, ospiterà una mostra sul protagonista del Secolo d’Oro, con quaranta opere

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prestate da istituzioni di tutto il mondo, mentre è stato inaugurato da qualche mese The Young Rembrandt Studio, un piccolo museo audiovisivo, allestito all’interno di una casa del XVII secolo, nella quale il ragazzo acquisí i rudimenti della pittura, del disegno e dell’incisione, sotto la guida del maestro Jacob van Swanenburg (1571-1638). A Leida è stato organizzato anche un itinerario sulle orme di Rembrandt, che tocca Weddesteeg, il vicolo, vicino alla porta occidentale della città, in cui venne alla luce l’ottavo erede del mugnaio che, in quanto novembre

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proprietario di un macinatoio lungo il Reno, venne chiamato «van Rijn». Il circuito prosegue quindi alla volta della Scuola Latina, dove il piccolo, come tanti figli della buona borghesia, studiò fino a quattordici anni, per poi toccare l’Hortus botanicus, che condivide l’ingresso con la prestigiosa Università del 1575, la piú antica dei Paesi Bassi, alla quale l’artista si iscrisse senza tuttavia frequentare.

Qui sotto la chiesa di S. Pietro, il piú antico luogo di culto di Leida, fondato del 1211. In basso una veduta del centro storico della città.

Canali concentrici Il tragitto può essere l’occasione per riscoprire le tracce di età medievale, ancora ben leggibili nell’impianto urbanistico, stretto fra i due rami del Reno e segnato da canali concentrici, spesso fiancheggiati da lunghe file di alberi. Le prime notizie relative a Leida risalgono al IX secolo, quando la località era inserita fra i beni che facevano capo alla chiesa di S. Martino di Utrecht. Successivamente, proprio a difesa della foce del fiume, il conte d’Olanda fondò un forte per fronteggiare eventuali attacchi dei Normanni e, nel 1266, il conte Nella pagina accanto, in alto lo Young Rembrandt Studio, un museo audiovisivo, allestito in una casa del XVII sec. A sinistra un tipico paesaggio urbano di Leida, città attraversata da una fitta rete di canali.

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novembre

Fiorenzo V concesse alla città importanti privilegi. Nel Trecento Leida era il crocevia per il commercio di tessuti di lusso, che verranno prodotti in loco su vasta scala già nel secolo successivo. Nel 1389, per l’esigenza di ampliare l’abitato, venne disegnato il Rapenburg, il canale che i geografi del XVIII secolo elessero «luogo piú bello del mondo». Sul corso d’acqua, che racchiude in una sorta di mandorla l’insediamento, condizionandone il disegno, si affacciano diverse istituzioni, come il Museo Nazionale di Antichità, il SieboldHuis, dedicato al Giappone, l’Università e i Giardini Botanici. Fra le tappe che riportano all’epoca medievale, figura il Burcht, il castello a pianta centrale, che sorge su un’altura artificiale, forse eretta già nel IX secolo con zolle e argilla,

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ANTE PRIMA

In alto uno scorcio del quartiere in cui si snoda il Weddesteeg, il vicolo in cui nacque Rembrandt. Sullo sfondo, il mulino De Put. In alto, a destra la Hooglandse Kerk, la chiesa di S. Pancrazio. A sinistra il Burcht, il castello innalzato su un’altura artificiale, forse realizzata già nel IX sec.

per ottenere una visuale ampia sui canali e sui dintorni. Della fortezza rimangono in buone condizioni le mura con feritoie e i bastioni che poggiano su archi, dai quali oggi si gode di una splendida panoramica. Non lontano merita una visita la chiesa di S. Pietro, il piú antico luogo di culto di Leida, nato del 1211 come cappella del conte del posto e ampliato nel tempo. Prima chiesa cattolica, la basilica dedicata al patrono, che custodisce un pulpito in stile tardo gotico e un organo del XVI secolo, diventa in seguito

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protestante. Nel 1512 un temporale ne abbatté la torre, una delle piú alte del Vecchio Continente, e, secondo la leggenda, la campana cadde in un vicolo che proprio per questo motivo si chiamerebbe «della Campana».

Pubbliche esecuzioni Dietro all’edificio c’è la vecchia prigione del Trecento, con torre e celle, che si aprono di fronte a uno spiazzo nel quale avvenivano le esecuzioni pubbliche, a pochi passi dalla Scuola Latina. Sempre nel cuore di Leida, in un’area

ricca di palazzi nobiliari, dietro al canale Nieuwe Rijn, torreggia la Hooglandse Kerk, la chiesa di S. Pancrazio. In stile gotico sia all’interno che all’esterno, con grandi vetrate, ha una struttura particolare, perché conta il piú ampio transetto gotico del mondo e una navata relativamente bassa rispetto al coro. Infine, fra le otto porte che in origine segnavano l’accesso in città, ne sono sopravvissute due, la Morspoort e la Zijlpoort, rispettivamente sul lato occidentale e orientale dell’abitato: la prima, presso la quale nel Medioevo venivano esposti i corpi di chi era stato condannato a morte, sorge su un’area un tempo paludosa ed è stata rimaneggiata nel Seicento; la seconda, sormontata da Marte e Medusa, richiama le porte trionfali romane, realizzate secondo il gusto del Secolo d’Oro. Per il calendario delle manifestazioni in programma nel 2019: www.holland.com, sito dell’Ente del turismo olandese, in italiano, e www.visitleiden.nl/en, in inglese. Stefania Romani novembre

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ANTE PRIMA

EDIOEVO MOGGI

M M

ichela Renzi, insegnante piacentina che nel tempo libero si dedica alla ricerca storica nel campo dell’abbigliamento e degli accessori medievali, ha scelto di condividere questa sua passione dando vita a Vestioevo (www.vestioevo.com), sito a cui si affianca una pagina Facebook, che si sta affermando come uno dei punti di riferimento nell’ambito delle rievocazioni. Il desiderio di condivisione, però, non si ferma alla divulgazione on line, ma si traduce anche nell’organizzazione di seminari sui vari periodi storico-stilistici dell’età di Mezzo e in collaborazioni alla realizzazione di cortei ed eventi storici. Dai molti capi finora realizzati sono inoltre nate varie mostre, come quella recentemente dedicata a Valentina Visconti (1366-1408), figlia di Gian Galeazzo Visconti, allestita nel Palazzo del Podestà di Castell’Arquato (Piacenza), e che ha documentato la moda medievale femminile a cavallo fra Tre e Quattrocento attraverso il ricco corredo di abiti della nobildonna lombarda.

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A sinistra pellanda (sopravveste) con ricami dorati, un alto collaretto chiuso da bottoni e maniche dal taglio frontale. La cintura è decorata con perle. Nella pagina accanto, da sinistra, in senso orario un’altra pellanda, con maniche «ad ala», chiusa da bottoni dorati; due cottardite, sopravvesti realizzate con tessuti di pregio e, in questo caso, provviste di cappucci in lana foderata; due guarnacche, sopravvesti che figurano anch’esse nell’inventario del corredo di Valentina Visconti. L’esposizione dedicata al corredo di Valentina Visconti, che andò in sposa a Luigi di Valois, fratello del re di Francia Carlo VI, è nata dall’analisi delle testimonianze contenute nel Rerum Italicarum Scriptores (RIS), una raccolta di fonti medievali, di natura narrativa, della storia d’Italia, dal 500 al 1500, compilata da Ludovico Antonio Muratori.

Un corredo di valore inestimabile Il capitolo centocinquantunesimo degli Annales si apre con «Anno domini MCCCLXXXIX», anno in cui Valentina partiva da Milano con trecento cavalieri a garanzia di un ingente corredo verso la Francia «portando seco non soltanto uno inestimabile tesoro di oggetti d’arte, ma un gran corredo di vesti e di ornamenti della persona, il cui inventario ci dà ancora la piú smagliante visione del lusso ch’era nella corte dei Visconti», come riporta Pietro Toesca ne La pittura e la miniatura nella Lombardia. Dai piú antichi monumenti alla metà del Quattrocento, pubblicata nel 1912. L’inventario del corredo di Valentina Visconti è una fonte importante, che descrive diversi capi novembre

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d’abbigliamento, accessori come cappucci o cinture e oggetti di sua proprietà come collane o bottoni. I copricapi sono elencati singolarmente o abbinati alle sopravvesti, fra cui vi sono le famose cottardite, di cui quattro «cum caputio» (RIS, col. 809 C) confezionate in ricchi tessuti, come lo scarlatto di grana, il velluto, ornate da ricami di teste di leone, lettere, trifogli, fiori di cui si legge appunto «floribus boraginis» e fogliami. Per la mostra sul corredo di Valentina Visconti, Vestioevo ha dunque presentato due cottardite con cappuccio in lana foderata: una decorata verticalmente con ricami di fiori dorati, dalle maniche larghe dall’orlo lavorato, e una decorata da ricami floreali dalle maniche attargate sul gomito.

Descrizioni puntuali Nell’inventario curato da Muratori si trovano poi due importanti sopravvesti «Opelanda una scarlatae granae, laborata ubique ad diaciminus perlarum minutarum» cosparsa di piccole perle e «Opelanda una paconacii granae, laborata ad capellum unum rosatum circa collum, cum certis soliis, rosis, & botonis super manica sinistra», una pellanda corredata di cappuccio (capellum) in questo caso. Descrizioni da cui

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sono nate due pellande. La prima, realizzata con ricami dorati, ha un alto collaretto chiuso frontalmente da bottoni, e ha come particolarità le maniche dal taglio frontale, orlate da affrappature a foglia. Della seconda sopravveste, dalle maniche «ad ala», si trova un riferimento nel De natura deorum, un manoscritto del XV secolo. Nell’inventario del corredo di Valentina figurano poi tuniche (RIS, col. 810 A), insieme alle camicie, «camisi», in lino, «lini» (RIS, col. 810 A): vesti comuni e ampiamente diffuse da indossare sopra la camicia. Fra le sopravvesti vi sono anche «guarnacche con tagli laterali (finestre d’inferno) per mostrare le forme femminili» (Storia di Milano, Bernardino Corio). Per la mostra è stata confezionata una guarnacca lunga, caratterizzata dalla lunga fila di bottoni frontali senza asola, applicati, secondo la moda del periodo, come gioielli decorativi. Un’altra tipologia di guarnacca, dal particolare taglio corto, è stata infine replicata basandosi su quella che si può osservare sulla lastra tombale di Valentina, realizzata da Donato Benti e Benedetto da Rovezzano nel 1408, anno in cui la donna si spense, vedova e abbandonata. (red.)

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ANTE PRIMA

Tradizioni a prova di gnomo

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el periodo dell’Avvento, Colonia viene animata da diversi mercatini di tradizione medievale, i Kölner Weihnachtsmärkte, quest’anno in programma da lunedí 26 novembre a domenica 23 dicembre. Il piú imponente va in scena nella piazza della Cattedrale, attorno al piú grande albero natalizio della Renania. Fra oltre 160 casette in legno addobbate a festa, si possono vedere gli artigiani al lavoro, acquistare articoli da regalo e decorazioni natalizie, e si può assaggiare una vasta scelta di dolci e prelibatezze locali. Il piú antico mercatino di Colonia, risalente al XIV secolo, è invece allestito presso il Neuemarkt, il Nuovo Mercato, fra la chiesa dei Ss. Apostoli e la zona dello shopping, dove le bancarelle offrono prodotti dell’artigianato e della gastronomia locali.

Marionette e giocattoli Da non perdere il mercatino allestito sull’Alter Markt, il Mercato Vecchio, nel cuore del centro storico, di fronte al vecchio Municipio, a soli 200 m dalla Cattedrale. Qui, in un’incantevole atmosfera romantica, i bambini trovano giostre, un teatro di marionette e molti stand di giocattoli. Secondo una leggenda, gli gnomi Heinzelmännchen controllano che non siano venduti beni di consumo

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APPUNTAMENTI • Il Natale

si avvicina e, rinnovando una tradizione millenaria, si accendono le luci dei mercatini che ogni anno animano la città di Colonia

Il mercatino natalizio nella piazza della Cattedrale di Colonia. moderni. Sullo sfondo storico di Hahnentorburg, una delle tre porte medievali di Colonia, il mercatino sulla Rudolfplatz porta invece nel mondo delle fiabe dei fratelli Grimm. Imperdibile infine il pittoresco mercatino Rheinauhafen, allestito nel porto storico di Colonia. Qui si possono acquistare oggetti artistici e delizie culinarie, assistendo a spettacoli teatrali con antichi pirati. L’Avvento è un’occasione imperdibile per visitare Colonia, le sue dodici chiese romaniche e la sua imponente Cattedrale, inserita dall’UNESCO fra i beni del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. La Hohe Domkirche St. Peter und Maria è il cuore della città, nonché la chiesa gotica piú grande d’Europa. I lavori di costruzione iniziarono nel 1248 e furono ultimati nel 1880, con un periodo di pausa di quasi 300 anni a causa della mancanza di fondi. Notevole è il sarcofago dorato tempestato di gioielli in cui sono ospitate le reliquie dei Re Magi, portate qui da Federico Barbarossa come bottino di guerra dalla basilica di S. Eustorgio a Milano, e motivo per cui la Cattedrale è stata fatta erigere. Tiziano Zaccaria novembre

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ANTE PRIMA

Lo stratagemma di capitan Alfonso APPUNTAMENTI • La cittadina spagnola di

Torrejoncillo propone una rievocazione ammantata di bianco, come quello delle lenzuola usate cinquecento anni fa in occasione di una celebre battaglia...

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orrejoncillo è un paese spagnolo di 3000 abitanti, situato sulle colline della comunità autonoma dell’Estremadura, vicino al confine con il Portogallo. In questo piccolo centro, ogni anno, il 7 dicembre va in scena l’Encamisá, un rito dalle origini incerte, che si suppone provengano da una battaglia medievale alla quale parteciparono i torrejoncillanos. Alcuni studiosi lo fanno risalire all’assedio portato alla vicina cittadina di Coria nel 1465: durante un attacco notturno sferrato di sorpresa, gli assalitori avrebbero indossato camicie bianche per distinguersi dal nemico nell’oscurità. Un’altra ipotesi, che nel tempo ha guadagnato maggior credito, porterebbe alla battaglia di Pavia del 1525. In quell’occasione, il capitano Alfonso d’Ávalos avrebbe camuffato i suoi uomini sotto le lenzuola per renderli invisibili in mezzo alla neve, riuscendo cosí ad avere In alto Torrejoncillo (Estremadura, Spagna). La sfilata degli encamisados. A sinistra Ritratto di Alfonso d’Avalos, Marchese del Vasto (particolare), olio su tela di Tiziano. 1533. Los Angeles, J. Paul Getty Museum.

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la meglio. Quando alcuni torrejoncillanos che avevano partecipato all’azione tornarono in paese, i cittadini iniziarono a rappresentare la prodezza guerriera del capitano, affiancandola al fervore mariano, ritenendo che la Vergine avesse contribuito alla vittoria.

Trecento cavalieri per l’immagine della Madonna Alle dieci di sera del 7 dicembre, vigilia dell’Immacolata Concezione, la porta della parrocchia di San Andres si apre per far uscire lo stendardo celeste con l’immagine ricamata della Madonna. In quel momento, nell’antistante Plaza Mayor un gruppo di persone armate di fucili spara a salve in onore della Vergine, coprendo la piazza con il fumo e l’odore della polvere da sparo. Lo stendardo viene consegnato al Maggiordomo della festa (l’incaricato di organizzare l’Encamisá, sorteggiato fra i candidati il terzo week end di novembre), in sella a un cavallo e accompagnato da almeno trecento cavalieri coperti da un lenzuolo bianco, adornato con pizzo e in alcuni casi dall’immagine di Maria Immacolata o da stelle dorate. La processione con il Maggiordomo e i cavalieri encamisados percorre le strade del paese in una notte magica e misteriosa. In giro vengono accesi i falò per combattere il freddo o semplicemente per chiacchierare con la famiglia e gli amici. Dopo due ore e mezzo, la processione torna nella piazza centrale, dove i fedeli si raccolgono attorno allo stendardo della Madonna per chiederle una grazia. Si finisce poi tutti a gustare i coquillos e gli ottimi vini della zona. Nella giornata successiva, l’8 dicembre, noto come il giorno de La Pura, dopo la messa di mezzogiorno, lo stendardo dell’Immacolata Concezione viene nuovamente portato in processione, questa volta senza gli encamisados. La festa si chiude il 9 dicembre, noto come il giorno de La Pura Chica, con molte attività dedicate ai bambini e banchetti per gli abitanti del villaggio. T. Z. novembre

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AGENDA DEL MESE

Mostre SANSEPOLCRO PIERO DELLA FRANCESCA. LA SEDUZIONE DELLA PROSPETTIVA Museo Civico di Sansepolcro fino al 6 gennaio 2019

Il progetto espositivo si articola intorno al De prospectiva pingendi, trattato composto da Piero della Francesca intorno al 1475, e ha anche l’obiettivo di illustrare, attraverso riproduzioni di disegni, modelli prospettici, strumenti scientifici, plaquette e video, le ricerche matematiche applicate alla pittura di Piero della Francesca e la conseguente eredità lasciata ad artisti come Leonardo da Vinci, Albrecht Dürer, Daniele Barbaro e ai teorici della prospettiva almeno fino alla metà del Cinquecento. La mostra vuole inoltre mostrare al pubblico le due anime di Piero: raffinato pittore e grande matematico. Oltre a essere Maestro d’abaco, geometra euclideo, studioso di Archimede, l’artista è stato anche un innovatore nel campo della pittura, poiché per lui, quest’ultima, nella matematica e nella geometria, trovava il suo sostanziale fondamento. I suoi scritti, infine, soprattutto il De prospectiva pingendi, composto in volgare per gli artisti e in latino per gli umanisti, hanno dato inizio alla grande esperienza della prospettiva rinascimentale. info tel. 199 151 121;

a cura di Stefano Mammini

e-mail: mostre@civita.it; www.museocivicosansepolcro.it

VENEZIA IL GIOVANE TINTORETTO Gallerie dell’Accademia TINTORETTO 1519-1594 Palazzo Ducale fino al 6 gennaio 2019

Per celebrare il cinquecentenario del piú veneziano tra gli artisti del Rinascimento, il Tintoretto (al secolo Jacopo Robusti, 15191594), la sua città natale ha elaborato un progetto espositivo che si articola in una rassegna monografica in Palazzo Ducale, centrata sul periodo piú fecondo della sua arte – dalla piena affermazione, verso metà degli anni Quaranta del Cinquecento, fino agli ultimi

lavori – e in una grande mostra alle Gallerie dell’Accademia, dedicata ai capolavori del primo decennio di attività e al contesto in cui il pittore avviò il suo percorso artistico. Alle due esposizioni si affiancano numerose ulteriori iniziative, come quelle proposte dalla Scuola Grande di San Rocco, uno dei siti cardine dell’attività del maestro, custode di cicli pittorici imponenti, e dalla Curia Patriarcale, con le molte chiese che ancora oggi conservano preziose opere del Tintoretto. info www.mostratintoretto.it VENEZIA PRINTING REVOLUTION 1450-1500 Museo Correr fino al 7 gennaio 2019

L’esposizione è il risultato di un grande progetto di ricerca europeo, il 15cBOOKTRADE, che usa i libri come fonte storica: basato all’Università di Oxford, alla British Library, a Venezia, e finanziato dal Consiglio Europeo delle Ricerche, applica le tecnologie

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digitali alle fonti storiche, ampliando la capacità di comprendere la rivoluzione della stampa. La ricerca ha riguardato 50mila di questi libri sparsi oggi tra 360 biblioteche europee e americane con la collaborazione di oltre 130 editor. Attraverso una decina di sezioni, l’esposizione mette in evidenza come nel 1500 in Europa ci fossero milioni di libri, non solo per le élite, come comunemente si ritiene, ma per «tutti», con una vasta produzione per la scuola. La rivoluzione della stampa è una delle colonne portanti dell’identità europea perché si è tradotta in alfabetizzazione diffusa, promozione del sapere, formazione di un patrimonio culturale comune. In quei primi decenni (dal 1450 al 1500) la stampa coincise con la sperimentazione e l’intraprendenza. I libri a stampa furono il prodotto di una nuova collaborazione tra diversi settori della società: sapere, tecnologia e commercio. Anche la Chiesa comprese immediatamente l’enorme potenzialità dell’invenzione e ne divenne precoce promotrice. Le idee si diffusero veloci come mai prima. Ora si è in grado di tracciarne la circolazione seguendo il movimento e l’uso novembre

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MOSTRE • Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’antica America Faenza – MIC (Museo Internazionale delle Ceramiche)

fino al 28 aprile 2019 (dall’11 novembre 2018) info http://www.micfaenza.org/

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ell’affrontare il vasto e articolato universo delle civiltà precolombiane, la rassegna si concentra soprattutto sulla Mesoamerica e sull’area peruviana. E lo fa attingendo alle notevoli collezioni del MIC, perlopiú con pezzi custoditi nei suoi depositi e finora mai esposti al pubblico. Completano il percorso espositivo reperti selezionatissimi, concessi in prestito dai piú importanti musei e raccolte italiane. Protagonisti principali della mostra sono gli Aztechi, ai quali si deve la creazione del piú potente impero della Mesoamerica, e che stupirono i conquistadores per il livello della loro organizzazione sociale, non dissimile da quella dell’Europa del tempo, pur in presenza di aspetti, come il cannibalismo e i sacrifici umani, inaccettabili per i nuovi arrivati. Poi i Maya, del Periodo Classico, capaci di elaborare sistemi calendariali raffinatissimi e una scrittura logo-sillabica che è stata decifrata solo negli ultimi decenni. E infine gli Inca, che costruirono il piú grande impero di tutto il Nuovo Mondo. Con un’organizzazione sociale che ha spinto alcuni studiosi a parlare di «socialismo». dei libri stessi. Info Call center 848 082 000; e-mail: info@fmcvenezia.it, biblioteca@marciana.venezia.sbn.it; www.correr.visitmuve.it, www.marciana.venezia.sbn.it PARIGI LA NASCITA DELLA SCULTURA GOTICA. SAINT-DENIS, PARIGI, CHARTRES, 1135-1150 Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 7 gennaio 2019

È un quindicennio davvero cruciale, per la regione dell’Îlede-France, quello documentato dalla nuova mostra allestita al Museo di Cluny: nei grandi cantieri che sono oggetto dell’esposizione – Parigi, Saint-Denis e Chartres – vengono infatti sperimentate soluzioni nuove, che, pur affrancandosi dai canoni del romanico, non possono ancora dirsi pienamente gotiche. Quelle fabbriche tengono a battesimo uno stile

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embrionale, nel quale si fondono innovazioni tecnologiche e stilistiche. Sono i prodromi della scultura gotica che matura sulla scia dell’emulazione reciproca fra capomastri, scultori e committenti: se, per esempio, l’introduzione dei portali con statue che fungono al tempo stesso da colonne si deve agli scultori che lavorano alla chiesa abbaziale di Saint-Denis, il modello raggiunge la sua piena completezza a Chartres. Nel percorso espositivo che ricostruisce questo fenomeno si succedono poco meno di 150 opere che, oltre a materiali facenti parte della collezione permanente del museo parigino, comprendono importanti prestiti da raccolte europee e statunitensi, nonché opere inedite, fra cui quelle recuperate grazie a recenti indagini archeologiche condotte nella

stessa Saint-Denis. info musee-moyenage.fr NEW YORK ARMENIA! The Metropolitan Museum of Art fino al 13 gennaio 2019

«Armenia!» si annuncia come uno degli eventi di punta del Metropolitan Museum di New York per la prossima stagione. L’esposizione ripercorre la storia del popolo armeno dal momento della loro

conversione al cristianesimo – agli inizi del IV secolo – fino all’epoca in cui ebbero un ruolo di primo piano nel controllo dei traffici commerciali internazionali, nel XVII secolo. Obiettivo dei curatori della rassegna è quello di sottolineare come gli Armeni abbiano sviluppato una ben definita identità nazionale nella loro madrepatria, ai piedi del Monte Ararat, e come siano stati capaci di conservare e trasformare quelle peculiarità anche quando hanno dato vita alle numerose comunità che si sono insediate in molte regioni del mondo. A tale scopo viene presentata una selezione di poco meno di 150 oggetti e opere d’arte, che comprende reliquiari, manoscritti miniati, tessuti, preziose suppellettili sacre, khachkar (le tipiche croci in pietra), modellini di chiese e libri. Materiali che, per la maggior parte, sono giunti a New York grazie ai prestiti accordati dal Ministero della Cultura della Repubblica d’Armenia e dalla Chiesa armena, in particolare attraverso la Santa Sede di Echmiadzin. Un contributo essenziale si deve anche al Matenadaran, la biblioteca che ha sede a Yerevan, che ha concesso al museo newyorchese alcune delle opere grazie alle quali l’istituzione viene riconosciuta come un autentico santuario dei manoscritti antichi. info www.metmuseum.org TORINO LA SINDONE E LA SUA IMMAGINE Palazzo Madama, Corte Medievale fino al 21 gennaio 2019

Realizzata in occasione della riapertura della restaurata Cappella della Sindone, opera di Guarino Guarini, la mostra

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AGENDA DEL MESE

è allestita nella Corte Medievale di Palazzo Madama, suggestivo ambiente fatto edificare da Cristina di Francia nel 1636, dove, sulla parete di fondo, è ben visibile un affresco raffigurante l’Ostensione della Sindone organizzata nel 1642 per celebrare la fine delle ostilità tra la stessa Madama Reale, reggente per il figlio Carlo Emanuele II, e i suoi cognati, il principe Tommaso e il cardinale Maurizio. Il percorso espositivo ripercorre la storia della Sindone e le diverse funzioni delle immagini che l’hanno riprodotta nel corso di cinque secoli, da quando il Sacro Lino fu trasferito da Chambéry a Torino nel 1578, per volere di Emanuele Filiberto di Savoia, fino a oggi. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it LONDRA MANTEGNA E BELLINI National Gallery, Sainsbury Wing fino al 27 gennaio 2019

La National Gallery presenta la storia di due artisti, delle loro famiglie e delle loro città; una storia, quella di Giovanni Bellini (attivo tra il 1459-1516 circa) e Andrea Mantegna

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Veronese. Mantegna e Bellini lavorano per sette anni mantenendo uno stretto dialogo creativo; sarà questo ciò che i visitatori della mostra saranno in grado di osservare in prima persona attraverso i raggruppamenti chiave dei soggetti rappresentati da entrambi gli artisti. Ispirati dall’esempio dell’altro, entrambi sperimentano e lavorano in modi con cui non erano del tutto familiari allo scopo di affinare le loro capacità artistiche e le identità. Mentre Mantegna esemplifica l’artista intellettuale, Bellini è l’archetipo del pittore paesaggista, il primo che utilizza il mondo naturale per trasmettere emozioni. info www.nationalgallery.org.uk MILANO TABULA PICTA. DIPINTI TRA TARDOGOTICO E RINASCIMENTO Galleria Salamon fino al 1° febbraio 2019 (dal 23 novembre)

Da sempre oggetto di un (1430/1-1506), intrecciata di arte, famiglia, rivalità, matrimonio, pragmatismo e personalità. Grazie a prestiti rari ed eccezionali di dipinti, disegni e sculture, Mantegna e Bellini offre un’occasione unica per confrontare le opere dei due maestri, che erano anche cognati: una connessione familiare dalla quale entrambi hanno tratto la forza e la lucentezza durante la loro carriera. Senza l’altro artista, non sarebbero esistiti né la carriera né lo sviluppo di entrambi e senza queste opere permeate con la loro creatività e innovazione, non sarebbe esistita l’arte rinascimentale come la conosciamo oggi, quella dei personaggi del calibro di Tiziano, Caravaggio e

amore appassionato da parte dei collezionisti, i «fondi oro» sono protagonisti della nuova mostra presentata dalla Galleria Salamon, in Palazzo Cicogna, a Milano. Attraverso 15 dipinti su tavola, tutti databili tra l’ultimo quarto del Trecento e l’inizio del Cinquecento, viene proposto un percorso che si snoda lungo l’intera Penisola e che parte dal Lazio e dalle Marche, e attraversando la Toscana, approda nel nord-est, senza tralasciare la Lombardia. Le tavole documentano un’Italia chiaramente di territori, in cui tutti gli artisti cercano di parlare una stessa lingua pur con inflessioni e sostrati originali e diversi. Ne risulta un importante confronto fra civiltà, che percorrere l’intero Quattrocento: un’epoca che, come sosteneva Roberto Longhi, non vede l’irradiazione di una temperie formale da un «centro» verso tante «periferie» come accade per esempio in Francia nello stesso periodo, quanto piuttosto la simultanea espressione di lingue differenti. Ciascuna delle 15 tavole rappresenta un capitolo mai secondario della storia dell’arte nell’Italia del Quattrocento. info tel. 02 76024638; e-mail: info@salamongallery.com; https://salamongallery.com/ MACERATA LORENZO LOTTO IL RICHIAMO DELLE MARCHE Palazzo Buonaccorsi, Musei Civici di Macerata fino al 10 febbraio 2019

Lorenzo Lotto torna protagonista nelle Marche, sua terra d’elezione. A Macerata, le sale del settecentesco Palazzo Buonaccorsi, sede del Museo Civico, ospitano una rassegna che riunisce per la prima volta novembre

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valorizzare il suo immenso patrimonio. info biglietteria di Palazzo Buonaccorsi: tel. 0733 256361; e-mail: info@maceratamusei.it, macerata@sistemamuseo.it; www.mostralottomarche.it, www.maceratamusei.it, www.sistemamuseo.it TORINO SFUMATURE DI TERRA CERAMICHE CINESI DAL X AL XV SECOLO MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 10 febbraio 2019

le opere create per il territorio e poi disperse nel mondo o quelle che, per storia e realizzazione, hanno avuto forti legami con le Marche. Un’esposizione di ricerca, per certi versi sperimentale nell’abbinare forza espositiva, supporti multimediali, grandi capolavori ma anche spunti di ricerca e discussione critica. Una mostra preziosa, che rivela inediti materiali documentari sull’attività dell’artista e opere mai esposte in precedenti eventi – tra tutti una Venere adornata dalla Grazie di collezione privata, pubblicata da Zampetti nel 1957 e rimasta all’oscuro per sette decenni –, ma che si completa necessariamente nel territorio marchigiano, ponendosi in stretto dialogo con i lavori lotteschi (25 opere) disseminati nei diversi centri e volutamente lasciati nei siti di appartenenza. Ancona, Cingoli, Jesi, Loreto, Mogliano, Monte San Giusto, Recanati e Urbino danno forma con Macerata a una sorta di mostra diffusa, da vivere insieme alle bellezze artistiche e naturali delle Marche: regione ferita purtroppo dall’ultimo drammatico sisma che ha colpito il Centro Italia, ma che tenacemente sta puntando a

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Le preziose ceramiche cinesi selezionate per la nuova mostra presentata dal MAO coprono un arco temporale di cinque secoli. Si tratta perlopiú di eleganti pezzi monocromi databili tra la dinastia Song (960-1279) e la dinastia Yuan (1271-1368), esemplificativi delle produzioni delle maggiori fornaci del periodo. Opere, che, secondo il gusto estetico di quasi tutti gli intenditori e i collezionisti, rappresentano il massimo grado di raffinatezza mai raggiunto dall’arte ceramica in Cina. Al tempo dei Song vennero perfezionati i processi tecnologici di una delle piú grandi tradizioni ceramiche al mondo. I risultati furono dei manufatti di grande raffinatezza nella forma, piacevolezza tattile della superficie invetriata, consistenza e brillantezza di

colori senza precedenti. info tel. 011 4436927; e-mail: mao@fondazionetorinomusei.it; www.maotorino.it; pagina Facebook MAO. Museo d’Arte Orientale LONDRA REGNI ANGLO-SASSONI: L’ARTE, LA PAROLA, LA GUERRA British Library fino al 19 febbraio 2019

della produzione poetica in antico inglese. info www.bl.uk PARIGI MAGICI UNICORNI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 25 febbraio 2019

La mostra dà voce alle genti anglosassoni attraverso le testimonianze letterarie che di esse ci sono pervenute e che dunque abbracciano un periodo compreso tra la fine della Britannia romana e la conquista normanna dell’isola.

L’esposizione che segna la riapertura del Museo di Cluny-Museo Nazionale del Medioevo prende le mosse dagli arazzi del ciclo della Dama e l’unicorno, capolavori della raccolta parigina. Eseguiti intorno al 1500, sono una prova dell’importanza attribuita alla leggendaria creatura nei

Per farlo, la British Library ha riunito una selezione di opere di grandissimo pregio, attingendo ai propri fondi e grazie a prestiti eccezionali. Fra gli altri, si possono cosí ammirare i Vangeli di Lindisfarne, il Beowulf e l’Historia ecclesiastica gentis Anglorum scritta da Beda il Venerabile, ai quali sono affiancati reperti provenienti dal sito di Sutton Hoo e manufatti facenti parte del Tesoro dello Staffordshire. Da segnalare anche la presenza del Vercelli Book, un manoscritto redatto in uno scriptorium verso la fine del X secolo, che costituisce una testimonianza fondamentale

secoli del Medioevo. Animale «magico» – nell’età di Mezzo era diffusa la convinzione che il suo corno fosse in grado di accertare la presenza di veleni e dunque purificare i liquidi – l’unicorno era al tempo stesso simbolo di castità e d’innocenza. Vari manoscritti miniati ricordano inoltre la tradizione secondo la quale solo giovani vergini potevano avvicinare gli unicorni. A queste testimonianze fa da corollario la documentazione della fortuna moderna del tema, di cui sono prova, per esempio, i costumi disegnati per il balletto La dama e l’unicorno di Jean Cocteau. info musee-moyenage.fr

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ANTE PRIMA

IN EDICOLA

LE

GRANDI

DINASTIE DELL’

ITALIA

MEDIEVALE ♦ NORMANNI ♦ SVEVI ♦ ANGIOINI ♦ ARAGONESI

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ra l’XI e il XV secolo quattro grandi dinastie si affacciano alla ribalta della storia italiana e ne scrivono altrettanti capitoli, in un susseguirsi di eventi e personaggi epocali. Ad aprire questa magnifica sequenza sono i Normanni, le cui avanguardie, cavalieri crociati che si fermarono nelle terre della Penisola nel viaggio di ritorno dalla Terra Santa, furono presto raggiunte da gruppi sempre piú numerosi, scesi dalla Normandia. Dopo di loro fu la volta degli Hohenstaufen, gli Svevi, d’origine germanica, che in terra italiana salutarono la venuta al mondo di una delle personalità piú insigni di sempre, Federico II, lo Stupor mundi. A soppiantarli, nella seconda metà del XIII secolo, furono gli Angioini, anch’essi d’origine francese, che diedero vita a un regno esteso e potente, di cui elessero a capitale Napoli, facendone una delle metropoli del tempo. Infine, alle soglie del Rinascimento, vennero gli Aragonesi, dalla Spagna, che arrivarono a creare un vero e proprio impero mediterraneo. Le vicende di queste nobili casate sono ripercorse nel nuovo Dossier di «Medioevo» da Tommaso Indelli, che offre una ricostruzione puntuale ed esauriente dei fatti, guidando il lettore fra le trame di una storia intricata e ricca di colpi di scena. Napoli, Arco Trionfale di Castel Nuovo. Il rilievo che raffigura l’ingresso in città di re Alfonso d'Aragona, ritratto come un conquistatore romano. XV sec.

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Una vita in

esilio

di Chiara Mercuri, con un’intervista all’autrice a cura di Andreas M. Steiner

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n esclusiva per i nostri lettori, anticipiamo uno dei capitoli piú significativi dell’ultimo libro di Chiara Mercuri, Dante. Una vita in esilio, nel quale la storica del Medioevo rilegge le drammatiche vicende in cui il poeta venne coinvolto nei primi anni del 1300 e che lo indussero a non fare rientro nella sua città, Firenze. Eventi che, come spiega l’autrice, sono stati per troppo tempo ricostruiti quasi esclusivamente sulla scorta della Nuova Cronica di Giovanni Villani, storico e cronista contemporaneo di Dante, che di quei fatti non può essere considerato un testimone imparziale. Occorre dunque affidarsi a Dino Compagni, amico personale dell’Alighieri, e alla sua Cronica, una sorta di «diario privato» dell’autore della Commedia. Ma, prima di entrare nel vivo del libro di Chiara Mercuri, ecco come la studiosa ha risposto ad alcune nostre domande

C hiara, perché una storica del Medioevo decide di scrivere un libro su un poeta come Dante Alighieri? «Proprio perché le biografie su Dante sono sempre state scritte da filologi, italianisti, dantisti e “dantomani” – come diceva Benedetto Croce –, mentre gli storici sono rimasti sempre in disparte, hanno sempre avuto timore ad accostarsi alla sua vita. Credo, però, che fosse urgente rileggerla proprio in una prospettiva puramente storica». V uoi dire che dagli italianisti non era stato chiarito a sufficienza il quadro storico di riferimento? «Voglio dire che le prospettive sono diverse; per uno storico della letteratura – giocoforza – l’opera di un autore resta sempre piú importante della sua vita e il punto per lui è capire come si collochi un’opera in relazione a ciò che c’è stato prima e a ciò che arriva dopo». E la vita di Dante è piú importante della Commedia? «Forse sí, nel senso che non si può comprendere davvero un’opera letteraria, senza capire a fondo da quale esperienza umana sia nata. E comunque questa è stata la mia preoccupazione, indagare la sua vicenda, reinserendola nel quadro storico e politico di riferimento. Ciò vuol dire rimettere Dante nel suo contesto, insieme ai suoi

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A destra Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Cappella della Maddalena. Particolare dell’affresco con la raffigurazione del Paradiso, tradizionalmente attribuito a Giotto, nel quale compare Dante Alighieri (primo a destra). 1332-1337.

contemporanei, insieme ai suoi compagni di partito, ai suoi amici, alle donne amate, ai figli, ai suoi nemici politici e non continuare a considerarlo come un’icona solitaria, staccata da tutto e fuori dal tempo». M a cos’era piú urgente chiarire dal punto di vista storico? «Per esempio, i motivi per i quali Dante non accettò di rientrare a Firenze, quando gli si aprì la possibilità di farlo. A scuola abbiamo imparato che Dante non si presentò a processo né il 27 gennaio, né il 10 marzo del 1302 e che quindi, in un certo senso, “meritò” l’esilio e la condanna a morte. Infine, rifiutando di rientrare a seguito dell’amnistia del 1315 “meritò” anche di morire in esilio...». Ma nessuna antologia dice che Dante «meritò» l’una e l’altra cosa... «Non lo dicono, ma ce lo fanno pensare... e non è colpa di quelli che scrivono o hanno scritto le antologie». novembre

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storie dante alighieri E di chi è la colpa allora? «La colpa è di uno storico, ma non uno di quegli storici attenti a testimoniare i fatti che piacciono a noi, ma di uno preoccupato a risolvere a favore dei guelfi neri la controversia tra Dante e Firenze». Ti riferisci a Giovanni Villani, l’autore della Nuova Cronica fiorentina, un contemporaneo di Dante... ma perché sei cosí feroce con Giovanni Villani? Alla sua Cronica dobbiamo molto della conoscenza della storia di Firenze di quegli anni... «Certo, gli dobbiamo molto, però non possiamo non tener conto del fatto che tutto quello che scrisse, lo scrisse nell’ottica di giustificare il suo partito, quello dei guelfi neri appunto. Cosí, quando si trovò nell’imbarazzo di dover giustificare il fatto che Dante – ormai famoso nel resto d’Italia – fosse morto in esilio, volle – colpevolmente – buttare fumo negli occhi dei suoi lettori, suggerendo che fosse stata colpa di Dante». Ma Giovanni non fa accenno al fatto che Dante non si presentò a processo o che rifiutò di rientrare a seguito dell’amnistia... «Giovanni non dice espressamente che le cose stiano cosí, però ce lo suggerisce, inventando un Dante altezzoso, superbo, di cattivo carattere, irascibile, poco ragionevole e soprattutto non incline al dialogo. Quei semi – consapevolmente gettati – hanno dato frutti enormi: dopo Giovanni, dire che Dante fosse un irascibile, un cane da catastrofe, un superbo e un presuntuoso divenne la norma e la sua immagine ne fu totalmente deformata. Ormai nel nostro immaginario, infatti, c’è il Dante di Giovanni, poi rappresentato dagli artisti, secondo la sua suggestione. Eppure il suo piú antico ritratto, quello del Bargello, realizzato ben prima della stesura della Cronica di Giovanni, non mostra affatto questo tratto altero del suo contegno». P erché, però, Dante non si presentò a processo e non rientrò a seguito dell’amnistia? «La faccenda dell’amnistia è complessa, nel libro spero di averla chiarita. Il perché non si presentò a processo è spiegato invece dalla Cronica di Dino Compagni». D ino Compagni era il compagno di partito di Dante. Nel tuo libro gli attribuisci un’importanza enorme. Ma perché venne preferita la versione di Giovanni – che è improbabile che Dante avesse conosciuto – rispetto a quella di Dino, un suo compagno di partito, appunto? «Giovanni Villani, l’abbiamo ricordato, era lo storico del partito dei vincitori. La sua cronaca fu subito diffusa e s’impose come storia ufficiale. Quando Dino, invece, scrisse la sua, non la divulgò perché al potere c’erano appunto gli amici di Giovanni, i guelfi neri. Duecento anni dopo, all’epoca di Machiavelli, la sua cronaca restava ancora pressoché sconosciuta e lo rimase fino a quando, nel 1726, Muratori la scoprí e la pubblicò. Alla fine dell’Ottocento, peraltro, si avevano ancora proble-

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Firenze, S. Maria del Fiore. Dante e la Divina Commedia, dipinto su tavola di Domenico di Michelino. 1465.

mi a dimostrarne l’autenticità». Perché la consideravano un falso? «Quella cronaca, pur non parlando direttamente di Dante, sembra scritta apposta per riabilitarlo sul piano politico. Questo faceva nascere il sospetto che fosse stata scritta in età moderna da un falsario appassionato di Dante. Poi, alla fine dell’Ottocento, si scoprí un manonovembre

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scritto d’età medievale che non lasciava piú dubbi. Tuttavia le polemiche che avevano pesato sulla sua autenticità impedirono di dare il giusto peso al sensazionale ritrovamento di quel codice, che avrebbe dovuto essere celebrato come la scoperta di Troia». Addirittura? «E certo! Perché, vedi, è come se avessimo scoperto il

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diario segreto di Dante: quella cronaca è una sorta diario privato che racconta le circostanze tragiche attraverso le quali si arrivò alla sconfitta politica di Dante e, ovviamente, dello stesso Dino Compagni». Dunque dobbiamo abbandonare il Dante suggerito da Giovanni Villani e affidarci a quello di Dino? «Sí, ed è quello che prova a fare questo libro».

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Ecco, nelle pagine che seguono, un lungo estratto dal volume di Chiara Mercuri, che qui pubblichiamo per concessione dell’autrice e dell’editore Laterza. Il 4 novembre dell’anno 1301 Dante è a Roma, incaricato dal Comune fiorentino di un’ambasceria presso il papa. È una trappola, ma lui ancora non lo sa. Qualcosa sembra, però, preavvertirlo dell’immane catastrofe. È l’aria immobile della città, spezzata solo da qualche refolo di scirocco. A un uomo come lui, abituato all’aria fina dell’Appennino, il clima di Roma deve apparire insopportabile; quell’aria appiccicosa che ti si condensa addosso, compatta, ostile come una barriera, come un ostacolo insormontabile. È un’aria infernale, da Malebolge, che rarefà la speranza. Dante però non vuole arrendersi a quell’atmosfera paludosa e stagnante che regna sovrana nella città imperiale, una città che ride dell’impegno civile, che giudica ingenuo e provinciale chi come lui se ne faccia sacerdote. È a Roma già da un mese, c’è arrivato insieme ad altri due delegati fiorentini, Ruggierino Minerbetti e Corazza da Signa, che però il papa ha congedato, trattenendo lui soltanto in città. Come se con lui avesse ancora da fare, come se con lui avesse ancora intenzione di ragionare, di vagliare, di cercare strade e soluzioni per risolvere la crisi fiorentina: quella che oppone due famiglie, due partiti, ormai due clan, i Cerchi e i Donati. Ci vuole – a detta del papa – un arbitro esterno, un uomo super partes che possa fare da paciere e che butti acqua sul fuoco sull’ultimo grande incendio divampato in città a seguito dei fatti di Calendimaggio di un anno prima. Che cosa abbia esattamente acceso la rissa in quella notte di Calendimaggio del 1300 è difficile dirlo. O meglio è difficile ricostruirlo sulla base dei pochi dati certi a nostra disposizione. Però i contorni ci sono fin troppo chiari: un’aggressione compiuta ai danni di un giovanissimo rampollo della casa dei Cerchi da parte del clan rivale, in un clima sempre piú arroventato dall’invidia e dal risentimento. Nella pagina accanto pagina autografa della Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi di Dino Compagni. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale. L’opera abbraccia la storia di Firenze dal 1280 al 1312. A destra ritratto ottocentesco di Dino Compagni. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

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La notte bianca di Calendimaggio è da alcuni decenni, nei rinati Comuni dell’Italia bassomedievale, una notte di euforia e di eccitazione. Una notte in cui i giovani imitano i padri, li imitano nei gesti di amicizia come in quelli d’inimicizia, fanno le prove generali per quando saranno loro a comandare. È una notte, soprattutto, in cui i figliocci giocano a fare i padrini: fanno loro il verso, ne assumono la posa, ma la loro iniziativa manca di strategia, di prospettiva, e per questo risulta ancora piú efferata, frutto solo d’istintiva bestialità. Dei loro cattivi maestri, infatti, essi hanno acquisito solo l’arroganza, senza averne assimilato il cinismo e la freddezza. Le donne pure a Calendimaggio – fatto eccezionale – sono in giro per le strade della città: i maschi allora entrano in scena, ancora piú eccitati. I giovani neri iniziano la


storie dante alighieri caccia, si mettono in cerca dei bianchi perché non c’è notte brava senza una rissa che si ricordi. I neri hanno il complesso dei bianchi. I bianchi parlano, i bianchi pensano, i bianchi pianificano, perché i bianchi sono una classe sociale in ascesa: commercianti, affaristi, grandi imprenditori, persone abituate a mediare, a cercare il compromesso, a non chiedersi mai a quale fede religiosa o politica appartenga il loro cliente. Il danaro è da sempre un apolide, viaggia oltre i confini nazionali, disegna identità ibride, aggancia alleanze trasversali. I bianchi si muovono benissimo nel nuovo mondo disegnato dal fiorino internazionale, e come tutti quelli a cui le cose vanno bene vogliono solo starsene in pace. I neri, invece, si sentono franare il terreno sotto ai piedi perché il mondo da cui provengono – quello delle armi, delle guerre, dell’omaggio feudale – sta tramontando. Come tutti quelli che annaspano, si aggrappano scompostamente alle loro certezze: rinfacciano rabbiosi ai bianchi di essere loro quelli che gli permettono di dormire sonni tranquilli, quelli che hanno depositi di armi e di cavalli da competere con uno Stato nazionale; loro quelli decisivi sul campo di battaglia, loro quelli che hanno fatto vincere Firenze a Campaldino. I bianchi pure sono stati a Campaldino; anche Vieri de’ Cerchi, il loro capo, ha combattuto in quella battaglia ma, se potesse, le battaglie le combatterebbe solo attraverso la finanza; come se per punire i nemici bastasse escluderli da una cordata produttiva, e per premiarli, invece, fosse sufficiente inserirli in un circuito d’affari redditizio. Come se la politica si potesse fare col danaro, tirando dentro gli amici e tenendo fuori i nemici.

Una guerra senza sangue

Una guerra cosí, come quella che vorrebbero combattere i bianchi, è una guerra senza sangue. Come se il sangue e le armi fossero termini obsoleti, parole vecchie, credenze al limite del superstizioso. Per i bianchi conta solo il vantaggio, il guadagno, la concordia tra le parti, che favorisce lo scambio, che allarga il mercato, che conquista nuove piazze. Bianchi, neri, papali, antipapali, alla fine per loro va bene tutto. La politica in sé non ha alcuna importanza, ciò che conta è garantire a Firenze di continuare a fare ciò che le riesce bene: la finanza, i traffici, i consumi elevati di una città che cresce, cresce, cresce a dismisura: centomila abitanti contro i trentamila di Roma, Napoli, Parigi e Praga, contro i sessantamila di Milano. Ma se i bianchi credono di poter fare a meno della contrapposizione tra le parti, i neri, al contrario, gliela portano in casa la guerra, sono disposti a inventarsela, perché la loro forza, il loro valore, il loro essere necessari si misura solo attraverso la guerra. Gli aristocratici sono stati per secoli il nerbo stesso di Firenze, la sua

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Miniatura raffigurante Corso Donati che rientra a Firenze nel novembre del 1301 e libera i prigionieri, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

anima, i suoi difensori in armi. Restare ai vertici della società è stato a lungo per loro un diritto inalienabile e trasmissibile, garantito dal sangue, dalla terra, dalle armi, dagli stemmi comitali. In questo nuovo mondo, invece, quello che le consorterie dei bianchi dimostrano di apprezzare, essi sono condannati a divenire famiglie come le altre, gettate nella grande corsa della produzione, in cui tutto è aleatorio e mutevole. Un mondo in cui i neri si sentono spaesati, sentono di non contare, di non essere decisivi. E peggio, si vedono surclassati da gente che ai loro occhi è niente: gente nuova, senza storia, senza tradizioni, senza valori; bifolchi provenienti dalla campagna, come i Cerchi della Val di Sieve. I Cerchi. Si sono inurbati da poco e in luogo di camminare a testa bassa, come si converrebbe a dei rustici, a dei nuovi venuti, a degli arricchiti, hanno spocchia e manie di grandezza: comprano palazzi sempre piú grandi e vistosi al centro della città, palazzi che si ergono fieri vicini a quelli dei Donati di antica nobiltà. I Cerchi, dunque, ostentano. Non si fanno nessuno scrupolo a rilevare, nel cuore della città, il magnifico palazzo dei conti Guidi, gente la cui presenza non è piú gradita in città per motivi politici. A livello simbolico comprare il palazzo di un signore è una mossa vincente: insieme al palazzo compri la sua aura. Al tempo stesso, però, ti presenti agli occhi di chi guarda con invidia all’astro nascente della tua ricchezza come uno che erediti la fortuna altrui, come uno che arrivi quando gli altri cadono in disgrazia, come un avvoltoio che plani a finire un corpo già cadavere. Al crescere dell’invidia dei neri, inoltre, i bianchi pensano di poter rispondere isolandoli, facendo loro il vuoto intorno, comprandone la manovalanza, togliendo loro servitú; in politica, però, non si deve mai umiliare troppo l’avversario, mai ostentare superiorità, mai lasciare che il tuo nemico se ne stia in un angolo a schiumare rabbia: «La città, retta con poca giustizia, cadde in nuovo pericolo, perché i cittadini si cominciorono a dividere per gara d’ufici, abbominando l’uno l’altro. Intervenne, che una famiglia che si chiamavano i Cerchi (uomini di basso stato, ma buoni mercatanti e gran ricchi, e vestivano bene, e teneano molti famigli e cavalli, e avevano bella apparenza), alcuni di loro comperarono il palagio de’ conti Guidi, che era presso alle case de’ Pazzi e de’ Donati, i quali erono piú antichi di sangue, ma non sí ricchi. Onde, veggendo i Cerchi salire in altezza (avendo murato e cresciuto il palagio, e tenendo gran vita), cominciorono avere i Donati grande odio contro loro» (Dino Compagni, Cronica, I, XX, 1). Ma non fu solo l’invidia a disfare quella che all’epoca era la piú prosperosa città d’Europa. Ci fu annovembre

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che un errore politico. Da troppi mesi, di dritto o di sguincio, i bianchi, forti della loro prevalenza morale e numerica, forti della simpatia crescente che dimostravano loro le classi borghesi in ascesa, predominavano nel governo inaugurato da Giano della Bella, tenendo i neri fuori dai giochi politici. I bianchi trattano i neri come gente buona solo a menar le mani, a impugnare le armi, a moltiplicare le guerre, a soffiare sui conflitti. Peggio, li trattano come un gruppo sociale decaduto e già in via d’estinzione. Se i neri sono divenuti, in questi anni, i favoriti del papa non è per motivi ideologici, ma perché sono un gruppo in difficoltà; la loro incapacità di restare a galla tra i flutti della nuova politica comunale, progressista e democratica, li ha resi bisognosi di appoggi e relazioni esterne, li ha resi docili e servili verso la Curia romana. I Cerchi si

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comportano, invece, come se di quell’alleanza – dell’alleanza col vicario di Cristo – non gli importasse nulla, come se non ne avessero alcun bisogno. Quando il papa invita a Roma il loro capo, Vieri de’ Cerchi, lui, spesso, neppure si presenta. E quando si presenta rispedisce al mittente le richieste di aiuto politico e finanziario. Vieri può permettersi il lusso di non partecipare al «nobile» progetto papale di pacificare Firenze, cui la Curia dice di tenere molto. Vieri sa benissimo che il pontefice sta solo cercando ponti, alibi, alleati per un’operazione sporca: allungare le mani sulla città. Vieri, allora, ignora i suoi inviti, fa spallucce alle sue minacce velate, finge di non accorgersi delle sue trame. Ma cosí facendo, neppure gli si oppone apertamente, neppure tenta una politica che al pontefice sia davvero contraria, neppure lo tratta, come meriterebbe, da nemico.

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Se potesse, se avesse speranza di riuscirci, Vieri con lui stringerebbe pure un patto di non aggressione: Roma ai romani e Firenze ai fiorentini. Ma questa politica del laisser faire, del «tutto si aggiusta», si dimostrerà fatale e gli attirerà il disprezzo dei suoi compagni di partito. Di fronte all’indifferenza dei bianchi, il papa si volge dunque verso i neri, il cui capo, Corso Donati, è fermamente intenzionato a distruggere la famiglia di Vieri de’ Cerchi. Corso inizia col diffamarli, e la cosa, via via, assume toni sempre piú pesanti. A torto siamo convinti che la diffamazione politica, l’attacco personale, la ridicolizzazione dell’avversario – magari fatta in maniera bassa, volgare, insistendo su qualche difetto fisico o tirando fuori dall’armadio di famiglia qualche inevitabile scheletro – sia una cosa che abbia a che vedere con il mondo dei media, di internet, dei blog, dei social, della stampa e della televisione. Non è cosí.

Screditare gli avversari

Nella Firenze del Duecento esiste uno strumento altrettanto micidiale per screditare gli avversari e suonare il tam tam delle notizie false e tendenziose: i giullari. Giullari o buffoni o menestrelli – li si chiami come si vuole – vanno in giro per i vicoli, per le strade, per le piazze di Firenze; ti si parano davanti mentre esci da una bottega, ti seguono canticchiando su uno strumentino a corda per almeno due isolati con la speranza di una moneta; si appostano sul sagrato delle chiese dove strimpellano versi irriverenti, infamanti, allusivi, in alcuni casi persino minacciosi; sembrano innocui, schietti, disperati, umorali, folli, cani sciolti, ma spesso dietro a loro si nasconde un mentore; le loro parole – solo in apparenza «dal sen fuggite» – troppo spesso gli sono state messe in bocca da qualcuno. Corso Donati è uno di quelli che troppo spesso paga la loro giornata: «Cominciò per questo l’odio a multiplicare; e messer Corso molto sparlava di messer Vieri, chiamandolo l’Asino di Porta, perché era uomo bellissimo, ma di poca malizia,

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In alto San Gimignano, Palazzo Comunale. Particolare degli affreschi che raffigurano la battaglia di Campaldino. 1292. A destra la signoria di Firenze nomina Dante come suo rappresentante presso Bonifacio VIII, 1301, da Medio Evo, 1892. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

né di bel parlare; e però spesso dicea: Ha raghiato oggi l’asino di Porta? E molto lo spregiava, e chiamava Vieri Cavicchia. E cosí rapportavano i giullari, e spezialmente uno si chiamava Scampolino, che rapportava molto peggio non si diceva» (Dino Compagni, Cronica, I, XX, 20-25). Vieri è dunque – nelle parole di Corso – un uomo grezzo, un asino, un somaro, che raglia in luogo di parlare. Vieri è il mercante, il duro, l’ottuso: «Cavicchia» lo chiama, cioè «pezzo di legno», «testa dura». E i giullari non si limitano a sbeffeggiarlo per le sue origini contadine e per il suo modo impacciato di esprimersi, essi «rapportano» molto peggio, e cioè che i Cerchi sono nemici del papa, sono in segreto filoghibellini e quindi anche traditori di quella Firenze che vuole tenere i ghibellini in esilio. La base del partito prega allora Vieri di reagire, prima che Corso – in barba alle leggi – travolga quello che in questo momento è il sistema di governo piú avanzato e novembre

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L’anno successivo, con i facinorosi ancora in esilio, il Comune si prepara a festeggiare la notte di Calendimaggio del 1300 con animo sereno, certo che non si verificheranno altri disordini. E invece, proprio quando anche i bianchi iniziano a sentirsi al sicuro, accade l’irreparabile. Piccoli padrini crescono: i giovani neri – lontano il loro capo – prendono da soli l’iniziativa. Insultano, provocano, istigano, attirano a loro il piú reattivo e fiero dei giovani bianchi, Ricoverino de’ Cerchi. Il topolino abbocca, reagisce, si stacca dal gruppo e finisce isolato, con le spalle al muro. Lo spintonano, lo trascinano in un angolo, lo tengono fermo mentre il piú feroce del branco gli amputa il naso; poi, sfigurato, ancora grondante sangue, lo rimandano dai compagni di brigata. Calendimaggio, la notte piú attesa dell’anno, dell’anno giubilare del 1300, a Firenze inizia cosí. In politica, l’inizio della discesa è quasi sempre preannunciato dal sopraggiungere di un grande onore.

Un incarico delicato

democratico di tutta l’Italia comunale. Ma Vieri de’ Cerchi temporeggia, attende, attende che si trovi un nuovo processo, un nuovo appiglio, una nuova via – comunque legale – per estrometterlo dal gioco politico. La famiglia dei Cerchi è forse, al momento, la piú ricca d’Europa, con reti d’affari sparse in tutta la cristianità e nell’Africa musulmana. Vieri vorrebbe quindi continuare solo a portare avanti – con serenità – ciò che gli sta dando ricchezza e prestigio: la mercatura. Corso, però, lo istiga continuamente; continuamente lo offende e lo oltraggia. Allora è uno della stessa consorteria, uno della nobile e potente famiglia dei Cavalcanti, Guido – il migliore amico di Dante –, a decidersi a fare quello che i Cerchi non vogliono fare: scende in strada, giavellotto alla mano, e lo scaglia contro Corso Donati; ma lo manca. Il Comune di Firenze decide allora di mandare in esilio entrambi, gettando la colpa della zuffa sullo stesso Corso, cui contesta, pure, diversi altri reati.

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Dante riceve un enorme riconoscimento con l’incarico dell’ambasceria a Roma nel momento piú delicato e difficile della signoria. Anche il papa sembra omaggiarlo, trattenendo lui soltanto del gruppo dei delegati fiorentini. Cosí Dante attende di essere ricevuto dal pontefice, accarezzando la speranza di poterlo convincere a non inviare alcun paciere a Firenze, ed è certo che l’aver trattenuto lui soltanto sia segno del proprio valore e dell’importanza che si attribuisce alla sua missione. In realtà il pontefice ha solo compreso che un argine, una barriera, un muro contro cui potrebbe infrangersi il suo tentativo di farsi arbitro assoluto delle contese cittadine, a Firenze c’è. C’è un governo riconosciuto, un governo che scalcia per non essere svuotato delle sue funzioni, che lotta con tutte le sue forze per mantenersi autonomo. E Dante è proprio uno tra quelli che si sono mostrati piú agguerriti, piú determinati, piú compatti nel mantenerlo tale. È uno di quelli che apertamente – durante le assemblee cittadine – ha detto pane al pane e vino al vino, ha spiegato che accettare un paciere inviato dal papa equivarrebbe a commissariare Firenze, a destituire la signoria dei suoi poteri. Ha obiettato che rispetto al valore supremo della libertas fiorentina, il sangue sparso da pochi nobili sia, tutto sommato, roba di poco conto; ha spiegato cosa stia davvero accadendo tra Tevere ed Arno; ha sbraitato che l’abbraccio letale col pontefice trasformerebbe Firenze in uno Stato servo di Roma; ha denunciato quel che del resto vedrebbe anche un bambino, che Firenze con il suo vertiginoso giro d’affari, con i suoi centomila abitanti, rappresenti per i decaduti figli della Lupa una miniera a cielo aperto, un pollo succulento che se ne stia lí a cuocere davanti ad una folla d’affamati. Un megafono come Dante, uno che sa usare la pa-

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rola in modo cosí fermo e tagliente, uno che per giunta non si fa mai il calcolo di quanto quella parola gli potrà costare, se proprio non lo puoi silenziare, se proprio non lo puoi schiacciare come faresti con uno scarafaggio, devi almeno poterlo allontanare dal centro della scena durante la fase piú delicata della conquista del potere. Questo il papa sta facendo, per questo lo trattiene a Roma, mentre lui è ancora convinto che quel papa la legge la voglia magari un po’ forzare, ma che non intenda voltarle le spalle completamente.

Le mire di Bonifacio VIII

Ad aprire fisicamente le porte della città di Firenze all’uomo feroce fu Carlo di Valois. Al suo seguito entrarono a Firenze milleduecento armati, troppi, e troppo armati per far sperare per il meglio. Milleduecento armati capeggiati da un cadetto in cerca di fortuna, un senzaterra, avido di conquista e di avventura, tutta quella che non poteva permettersi in casa del fratello, il re di Francia Filippo il Bello. Un cadetto gregario di quel Bonifacio VIII che è cosí desideroso di allungare le mani sulla città. Con l’entrata di milleduecento uomini armati fino ai denti, inizia la missione «di pace» di Bonifacio VIII e di Carlo di Valois a Firenze. Bonifacio VIII e Carlo di Valois, come dire menzogna e tradimento che si danno la mano, prevaricazione e arbitrio che si baciano. All’indomani dall’arrivo del francese, i priori della

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città sono costretti a conferirgli ampi poteri, tutti quelli di cui egli fa richiesta. Col pretesto di assicurare alla giustizia i colpevoli delle faide cittadine, Carlo pretende la sorveglianza della porta d’Oltrarno. A uno dei priori in carica, Dino Compagni – che gli chiede garanzie affinché quella breccia strategica resti ben sorvegliata –, Carlo promette allerta e vigilanza massima. Per mentire ci vuole temperamento, ci vuole arroganza, ci vuole disprezzo per il prossimo, ci vogliono tutte queste qualità messe insieme, e Carlo di Valois le assomma tutte. A Dino non resta che credere nell’ostentata buonafede del cadetto; a Dino non resta che cedere al suo bisogno di credere, al suo bisogno di sperare che le cose non stiano davvero come, invece, le preavverte. A notte, la città, che nelle promesse di Carlo avrebbe dovuto dormire tranquilla, comincia, invece, a muoversi irrequieta. Carlo si affretta ad aprire la porta ai fuoriusciti: in primis a Corso Donati. Sono mesi che Corso manca dalla città. Mesi che gli Ordinamenti di Giano lo tengono lontano dal suo teatro d’azione, dall’epicentro delle sue malefatte, dalla stanza dei bottoni dei suoi piani criminali. Ma finalmente il vento è cambiato, Corso è tornato e, come abbiamo detto, è pronto a vendicarsi di quelli che l’hanno messo al bando. C’è chi è capo per nascita, chi per elezione, e chi lo diventa seminando panico e spargendo sangue. E Corso di sangue ne vuole spargere tanto e proprio nella maniera novembre

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante papa Bonifacio VIII. XIII sec. Vicenza, Biblioteca Civica Bertoliana. A destra particolare della replica ottocentesca della Veduta della Catena, realizzata da Francesco di Lorenzo Rosselli. 1472 circa. Firenze, Palazzo Vecchio. L’opera, il cui appellativo deriva dalla catena chiusa da un lucchetto che la circonda (non visibile in questo particolare), è un documento di straordinaria importanza per la conoscenza dell’assetto urbano di Firenze nella seconda metà del Quattrocento, ed è il primo esemplare noto nella storia della topografia che ritragga dettagliatamente tutta la città con i suoi edifici e la sua fitta rete viaria.

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storie dante alighieri in cui frutta di piú: vuole spargerlo a caso. L’azione imprevedibile è sempre vincente quando si tenti la scalata al potere, perché centuplica il sentimento di paura di quelli che ti stanno intorno, rendendoli ancora piú inermi. Per giorni Corso incendia, assalta, svuota, disfa case, fa violare donne, senza che Carlo di Valois muova un dito. Sulle prime i bianchi, avvisati del suo rientro, reagiscono, si recano alle porte della città per chiedere ragione della loro mancata chiusura, ma vengono trucidati dai neri, a monito per quanti vogliano seguire il loro esempio. Le guardie del Comune di fronte a quella mattanza iniziano ad abbandonare di propria iniziativa le torri, una dopo l’altra, per timore di fare la stessa fine. Nelle case, i piú avveduti non rientrano neppure, altri spargono tronchi d’albero sulla propria via, davanti all’uscio, per impedirne l’accesso. Vi si asserragliano dentro, fingendosi muti o assenti, attendendo nell’ombra che passi la nottata, che si faccia luce su cosa stia davvero accadendo. Dalla strada si vedono fiammelle tremolare, si odono voci concitate, rumore confuso di armati e di cavalli trattenuti, lanci sinistri di pietre. Finti


speziali si aggirano per i vicoli, offrono la loro mercanzia al fine di allertare i bianchi: devono stare vigili, devono armarsi prima che faccia giorno. Non è una guerra questa. Che guerra è mai quella in cui non puoi distinguere in campo i colori del tuo avversario? Qualcuno sta sparigliando il gioco, qualcuno mescola le carte a caso per intorbidare le acque. Nessuno capisce piú cosa sia vero e cosa sia falso, a quali voci affidarsi e a quali non dare alcun credito.

Paura e confusione

Tutti, però, assistono sbigottiti al verificarsi di strani eventi, di strane coincidenze che forse coincidenze non sono affatto. Tutti assistono attoniti al cambiamento di campo di tanti: a decine, a centinaia, a migliaia quelli che fino a poche ore prima militavano con i bianchi ora si radunano con i neri. Questo blocca la reazione dei bianchi: la paura, forse la consapevolezza che ad ogni angolo della strada si sia già aperto il mercato; che ad ogni angolo della strada, se non ti hanno già venduto, presto lo faranno: forse il tuo servo, forse un tuo amico, forse un tuo stesso familiare. Laddove c’è mercato, c’è sempre qualcuno disposto a vendere e qualcuno disposto a comprare, per fame di guadagno o per avere salva la vita della figlia, della madre, del fratello. A decine in strada aspettano solo che ci si affacci, che ci si sporga, che ci si appalesi per trucidarlo barbaramente. I bianchi preferiscono allora temporeggiare, restare fermi, nascosti, senza neppure cambiare stanza, chiusi immobili nel loculo in cui si sono autoconfinati, sicuri che il tradimento piomberà loro addosso da ogni fessura, da ogni anfratto, da ogni pianella dissestata del

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Sulle due pagine miniature tratte dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Da sinistra, nella notte di Calendimaggio del 1300, un gruppo di giovani neri amputa il naso a Ricoverino de’ Cerchi, della fazione dei bianchi; la città di Firenze si divide fra bianchi e neri; Bonifacio VIII riceve Carlo di Valois, chiedendogli di recarsi a Firenze per riportare la pace in città.

pavimento. Nella notte dei sotterfugi e dei sospetti, il podestà resta cinicamente chiuso in casa. Come se la tragedia che sta avendo corso non fosse di sua stretta competenza, o come se qualcuno l’avesse pagato per fingersi assente. Quando il sole si fa alto sull’Arno, torme di uomini rabbiosi vanno a prenderlo, vogliono la sua testa di vigliacco e di traditore, la vogliono esporre al ludibrio pubblico, allo scherno, allo strazio di piazza. Ma il podestà, proprio come fanno i vigliacchi e i traditori quando sono messi alle strette, inizia a guaire, rantola, nega di essere coinvolto nei fatti occorsi durante la notte; giura e spergiura di non aver stretto alcun accordo con i fuoriusciti, di non essere neppure al corrente dei linciaggi notturni. Carlo di Valois gli giunge in soccorso: s’indigna, monta in collera, alza la voce piú in alto delle loro proteste, si professa egli stesso vittima di un complotto; esige, lui per primo, la testa di quelli che hanno tradito; di quanti, a sua insaputa, hanno aperto proditoriamente le porte della città, facendo rientrare i fuoriusciti. È una legge di natura: chi mente ha sempre maggiori chance di essere creduto, perché segue un copione. La verità, invece, con i suoi turbamenti, con i suoi scru-

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storie dante alighieri poli di coscienza, con la sua naturale pudicizia, risulta sempre meno convincente. Cosí Carlo, seguendo il suo canovaccio, insiste: farà impiccare al palo piú alto della città il responsabile di quella carneficina. Anzi, intende cominciare da subito, prendere provvedimenti; solerte si rimbocca le maniche, deciso a stanare i colpevoli: quelli che hanno riaperto le porte ai fuoriusciti, quelli che hanno lasciato loro la libertà di aprire le carceri per reclutare manovalanza scelta. Convoca d’urgenza i capi delle due parti politiche: essi dovranno riferire davanti alla sua persona, dovranno fare chiarezza, spiegare cosa sia successo durante la notte appena trascorsa. La liturgia è davvero l’anima inossidabile del potere: Carlo accoglie scuro in volto i convitati, severo e solenne come un sovrano orientale, sprezzante e ieratico tra sbuffi d’incenso e colate di cera. Di fronte a quella messa in scena, di fronte a quella cinica e determinata dissimulazione, i bianchi restano L’incontro tra Dante e il poeta Forese Donati (Purgatorio, canto XXIII), da un’edizione illustrata della Divina Commedia. XV sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

confusi; associano i fatti come fanno i bambini, mettono in fila gli eventi, cercando di concatenarne i rapporti di causa-effetto, ma i conti non tornano; continuano a non capire, a guardarsi intorno spaesati, spauriti, come fossero topi presi in trappola. Dopo breve parlamento, Carlo lascia andare i neri, mentre a sorpresa trattiene i bianchi (il gesto arbitrario, sempre quello vincente!). Li trattiene in arresto per tutta la notte, senza dir loro perché, senza che essi possano capire cosa stia accadendo fuori e quali scenari si stiano profilando. Finalmente Ingenuità si sveglia, anche se ormai è troppo tardi: i bianchi sono in arresto e a nulla giova ora comprendere che quella che era sembrata solo una coincidenza – l’arrivo di Carlo e il rientro di Corso – una coincidenza non lo è affatto. La notizia che i capi di parte bianca sono stati trattenuti serpeggia veloce per tutta Firenze, raggiunge i priori che, sgomenti, si attaccano alle corde delle campane, le suonano all’impazzata, affinché richiamino la popolazione, l’avvisino del pericolo, dell’abuso, della catastrofe. Ma la gente non si muove. I priori pregano, implorano di sollevarsi, d’impugnare le armi, di salvare


Miniatura raffigurante la morte di Corso Donati, capo della fazione dei neri, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 13501375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

la città, ma la gente resta immobile, perché quello che sta accadendo è ormai chiaro a tutti, cosí come è chiaro a tutti che dall’abitazione di chi dovrebbe muoversi per primo – dall’abitazione di Vieri de’ Cerchi – non si sta muovendo nessuno, né a piedi né a cavallo. Ormai è troppo rischioso correre in soccorso dei prigionieri, ormai è solo il tempo dei martiri e degli eroi. L’uomo comune resta in casa a spiare la situazione da dietro agli scuri, roso dall’angoscia e dal rimorso. Del tutto inascoltati e isolati, il 7 novembre, i Priori si dimettono e lasciano la città. L’8 di novembre si insedia un nuovo governo, il governo dei neri. Carlo di Valois conferisce l’incarico di podestà a Cante de’ Gabrielli da Gubbio, che già in passato aveva ricoperto la carica podestarile in città, dandone pessima prova. I nuovi priori si affrettano a intimare a quelli che li hanno preceduti nella carica di non tentare il rientro in città, pena il taglio della testa, poi danno inizio alla repressione: processi sommari, liste di proscrizione, incendi, abusi, stupri, violenze gratuite, saccheggi, ruberie, distruzioni di case e di beni. Con le dimissioni dei priori che lo avevano incaricato dell’ambasceria presso il pontefice, la missione di Dante viene a decadere. Egli potrebbe, dunque, rientrare a Firenze. Ma il clima in città è teso e malfido e rientrare a Firenze nei giorni del trionfo della matta bestialità non avrebbe alcun senso. Con una legge speciale il nuovo governo ha istituito una commissione ad hoc affinché sia aperta un’inchiesta straordinaria sull’operato di quanti, nei due anni precedenti, abbiano ricoperto la carica di priori. Si trat-

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ta di una misura pretestuosa, tesa a produrre falsi capi d’accusa contro il partito avversario al fine di decapitarlo. La procedura ordinaria, infatti, prevede già che alla fine di ogni mandato, s’indaghi sulla condotta dei priori. Riaprire procedimenti già archiviati serve solo a dare parvenza di legalità a quella che nei fatti è una semplice epurazione. Siamo abituati a pensare, per averlo studiato a scuola, che alla condanna Dante ci arrivi in maniera colpevole, per aver disatteso di comparire a processo per ben due volte nel corso del 1302: il 27 gennaio e il 10 marzo. Ma in entrambi i casi si trattò di inviti a comparire davanti ad un tribunale insediato a seguito di un colpo di stato il quale, attraverso un uso strumentale della giustizia, intendeva distruggere il partito dei bianchi, i cui capi vengono tutti sistematicamente accusati di estorsione, concussione e peculato. Quando, nel giugno del 1302, questa stagione si chiuderà, saranno i numeri a parlare: 698 condanne, di cui 559 alla pena capitale. Tra queste c’è quella di Dante.

Da leggere Chiara Mercuri, Dante. Una vita in esilio, Laterza, Bari-Roma, 231 pp. 18,00 euro ISBN 978-88-581-3321-7 www.laterza.it


mostre venezia

Morte (e rinascita) a Venezia di Pietro Tondello

«La speranza dei senza speranza»: è l’epiteto riportato sulla cornice di un capolavoro dell’arte medio-bizantina, la cosiddetta Icona di San Luca, dipinta, secondo un’antica tradizione cristiana, dallo stesso apostolo. Il preziosissimo oggetto, da secoli conservato in Germania, sarà per la prima volta esposto alla veneziana Biblioteca Nazionale Marciana, insieme ad altre opere di grandissimo pregio. Per raccontare gli eventi cruciali che segnarono i rapporti tra la città lagunare e Bisanzio all’indomani della conquista ottomana

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n Germania è nota come «Freisinger Lukasbild» («Immagine di San Luca di Freising»): si tratta di un’icona bizantina del X secolo che raffigurante la Vergine in atto di intercessione. Con il capo reclinato e le braccia protese in preghiera, risponde all’iconografia dell’Agiosoritissa (letteralmente, «della Santa Urna», con riferimento all’immagine in cui la Vergine tiene in mano il reliquiario in cui è custodita la sua cintola, n.d.r.) di cui rappresenta uno splendido esempio databile all’epoca medio-bizantina. Sulla cornice d’argento, decorata da smalti preziosi e applicata all’icona nel XIV secolo, si legge l’epiteto «Elpis ton apelpismenon», «Speranza dei senza speranza»; un epiteto che ne riflette il destino, intimamente connesso alla tragica sorte dell’impero bizantino prima della caduta di Costantinopoli. L’icona, infatti, lascia la città sul Bosforo alla volta dell’Europa in un momento di grande disperazione, nell’inverno del 1399, trasportata da uno degli ultimi imperatori cristiani d’Oriente: Manuele II Paleologo (1348-1425). Il viaggio in Occidente del sovrano bizantino e la storia dell’icona della Vergine di Freising (Frisinga, presso Monaco di Baviera) costituiscono il cuore della mostra «Gli ultimi giorni di Bisanzio. Splendore e declino di un impero», che si inaugura nel Salone Sansoviniano della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia il prossimo 25 novembre. Sullo sfondo dei rivolgimenti geopolitici che portarono alla conquista di Costantinopoli da parte

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Tutte le opere riprodotte nell’articolo sono esposte a Venezia, nella mostra «Gli ultimi giorni di Bisanzio. Splendore e declino di un impero», allestita presso la Biblioteca Nazionale Marciana. L’Icona di San Luca di Freising, magnifico esempio dell’arte medio-bizantina che mostra la Vergine nell’atto di intercedere. Il dipinto risale al X sec., mentre la cornice in argento, decorata da smalti, fu aggiunta nel XIV sec. Freising, Museo Diocesano.

dei Turchi nel 1453, l’esposizione mette in luce l’intenso dialogo in atto tra l’Europa – e in particolare Venezia – e Bisanzio nella prima metà del XV secolo. A illustrarlo sono straordinari manoscritti e reliquiari, icone e dipinti, diari di viaggio, vedute di città e doni diplomatici: testimonianze materiali di un’epoca di profondo cambiamento, segnata dal crollo di un impero millenario agli albori dell’Umanesimo in Occidente.

Una sconfitta clamorosa

Il quadro storico in cui si apre la mostra è quello della fine del XIV secolo, all’indomani della battaglia di Nicopoli, consumatasi nel 1396. Di fronte all’irrefrenabile avanzata ottomana nei Balcani, le potenze cristiane europee si erano mosse insieme contro gli infedeli, inaugurando quella che sarebbe stata l’ultima crociata della storia medievale. Lo scontro decisivo avvenne a Nicopoli, nell’attuale Bulgaria, e si concluse con la clamorosa sconfitta dei crociati da parte del sultano Bayezid I (1360 novembre

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mostre venezia A sinistra l’altare realizzato per accogliere l’Icona di San Luca. 1629. Freising, Museo Diocesano. Nella pagina accanto pagina illustrata dal Liber Insularum Archipelagi di Cristoforo Buondelmonti. Seconda metà del XV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

LE DATE DA RICORDARE 1396 Il sultano Bayezid I assedia e conquista Nicopoli. 1399 Gli Ottomani assediano Costantinopoli. 1430 Conquista ottomana di Salonicco. 1438-1439 Durante il concilio di Ferrara e Firenze, l’imperatore Giovanni VIII riconosce la sovranità ecclesiastica del papa. 1444 Gli Ottomani sconfiggono l’esercito crociato presso Varna. 1453 Gli Ottomani conquistano Costantinopoli (29 maggio), segnando cosí la fine dell’impero bizantino. 1460 La fortezza di Mistrà (Peloponneso) si arrende agli Ottomani. 1461 L’impero di Trebisonda si arrende agli Ottomani di Maometto II. circa-1403), la cui brama di conquista si indirizzava ora inevitabilmente verso Costantinopoli. Offre uno spaccato della gloriosa capitale, cosí come doveva apparire nel XV secolo, l’illustrazione dal Liber insularum di Cristoforo Buondelmonti, nella quale sono riconoscibili la cupola dell’Haghia Sophia, il palazzo imperiale, l’ippodromo e la colonia genovese di Pera, a nord della città. L’angustia dell’epoca, caratterizzata da aspri conflitti e da uno stato di crescente trepidazione e smarrimento, è testimoniata da due oggetti di straordinaria eloquenza: un’illustrazione dal diario di viaggio di Hans Schiltberger rievoca la crudeltà con la quale i cavalieri crociati furono massacrati dai Turchi dopo la disfatta di Nicopoli (vedi foto a p. 48, nel riquadro), mentre un panno di seta rossa ricamata, utilizzato probabilmente in ambito liturgico (una cosiddetta «podea»), mostra un uomo d’armi bizantino in vesti aristocrati-

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che che supplica in ginocchio l’arcangelo Michele di prestargli soccorso contro gli infedeli (vedi foto a p. 48). Se il manoscritto di Schiltberger illustra la prospettiva occidentale sugli eventi appena consumatisi nei Balcani, la seta ricamata riflette la sensibilità del mondo bizantino, nel quale si concentravano l’angoscia e lo sconforto di fronte al pericolo ottomano.

Una minaccia incombente

All’epoca l’impero bizantino era ridotto a poco piú della capitale, di Tessalonica e del despotato di Morea, nel Peloponneso. Su di esso regnava dal 1261 la stirpe dei Paleologi, alla quale apparteneva Manuele II, figlio di Giovanni V e di Elena Cantacuzena. Questi era salito al trono nel 1391 e, dopo la disfatta di Nicopoli, si trovava costretto a fronteggiare la sempre piú incombente minaccia ottomana nella persona di Bayezid I, novembre

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A destra miniatura raffigurante il massacro dei cavalieri crociati a Nicopoli, dove vennero battuti dalle truppe di Bayezid, nel 1396, dal diario di viaggio di Hans Schiltemberger. 1477 circa. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek. Nella pagina accanto panno in seta rossa ricamata, utilizzato probabilmente in ambito liturgico (una cosiddetta «podea») di Manuele Nothos Paleologo. Primo decennio del XV sec. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. Il manufatto rappresenta un uomo d’armi bizantino in vesti aristocratiche che supplica in ginocchio l’arcangelo Michele di prestargli soccorso contro gli infedeli.

il sultano che per la fulmineità delle sue inarrestabili conquiste era conosciuto come «la Folgore». Con questo appellativo compare nel ritratto proveniente dagli Uffizi all’inizio del percorso espositivo (vedi foto a p. 50). Al suo fianco, il profilo del successore Maometto II, conquistatore di Costantinopoli, preannuncia l’ineluttabile destino di Bisanzio, che si sarebbe giocato mezzo secolo piú tardi. Ai due sultani, che incarnavano la temutissima minaccia del mondo musulmano, si contrappone la persona di Manuele II Paleologo, capo dell’impero romano d’Oriente nel pieno del suo lento e inesorabile declino. Di lui si trova uno splendido ritratto a figura intera nel manoscritto del discorso funebre che pronunciò nel 1407 per il fratello Teodoro, deceduto despota di Morea (vedi foto a p. 51). Uomo di estrema cultura e fine letterato, Manuele II aveva dimostrato la levatura del proprio pensiero fin dall’inizio della sua attività politica: appena ricevuta la corona imperiale, nel 1391, compose l’opera oggi conosciuta come i Dialoghi con un musulmano, principale scritto teologico del giovane imperatore. Sotto forma di 26 dialoghi, condotti con un «mudarris» – un autorevole dotto musulmano –, durante una campagna militare presso Ankara, Manuele II espose le ragioni della fede cristiana contro quella islamica. Se i toni della conversazione non appaiono particolarmente concilianti, la disponibilità al dialogo dimostrata dai rappresentanti delle due religioni testimonia la ricerca di alternative possibili allo scontro armato e la volontà di un incontro pacifico e razionale tra le due parti. Il conflitto bizantino-ottomano degenerò irrimediabilmente nel 1399, quando il sultano Bayezid giunse alle porte di Costantinopoli, mettendola sotto assedio. Di

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fronte al pericolo imminente, l’imperatore Manuele II si risolse a partire verso l’Occidente, nel tentativo di cercare soccorso militare ed economico presso i sovrani europei. Salpò nel dicembre del 1399 a bordo di una galea della Serenissima e approdò pochi mesi piú tardi a Venezia, festosamente accolto dal neoeletto doge Michele Steno. Dalla città lagunare, che da secoli intratteneva un intenso e fruttuoso scambio commerciale con Bisanzio, Manuele intraprese un viaggio in Italia settentrionale, passando da Padova e Milano, per poi spingersi verso la Francia e l’Inghilterra. Sarebbe tornato a Costantinopoli solo tre anni piú tardi, nella primavera del 1403.

La prima volta dell’icona

Nel corso del viaggio, l’imperatore fu ospitato presso i piú influenti signori del tempo. Tra questi vi era Gian Galeazzo Visconti (1351-1402), Duca di Milano dal 1395, piú volte ritratto nel suo salterio in stile francese, il cosiddetto «Libro d’Ore Visconti», proveniente dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, uno dei piú preziosi codici del XIV secolo. L’Icona di San Luca di Freising passò per la prima volta in mani europee alla corte del Visconti. L’imperatore Manuele l’aveva portata con sé come dono diplomatico, consapevole tanto dell’inestimabile pregio materiale dell’oggetto, quanto del suo innegabile valore simbolico. L’immagine della Vergine in preghiera, «Speranza dei senza speranza», come recita l’iscrizione posta sopra di essa, doveva interpellare direttamente il suo destinatario, richiamandolo all’urgenza di un intervento in favore di Bisanzio. Attraverso l’efficace presenza visiva dell’icona, l’imperatore Manuele poteva fregiarsi dell’intercessione divina a favore della propria causa, garantita da un

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mostre venezia A destra ritratto del sultano Bayezid I, detto «la Folgore», olio su tavola di Cristofano dell’Altissimo. Prima del 1560. Firenze, Gallerie degli Uffizi. Nella pagina accanto elogio funebre dell’imperatore Manuele II Paleologo per suo fratello Teodoro. 1407. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

intermediario privilegiato quale la Madre di Dio. Impossibile dire se fu in seguito a questa mediazione che il Visconti concesse all’imperatore un equipaggiamento per il proseguimento del suo viaggio, promettendogli appoggio militare contro gli Ottomani. Certo è che nel consegnare l’icona della Vergine come dono diplomatico, l’imperatore manifestava l’enorme riguardo riservato alle immagini sacre nel mondo bizantino. Un riguardo che si estendeva ben oltre le pratiche religiose, affermandosi nella cultura e nell’immaginario di ogni strato sociale.

L’Evangelista pittore

All’origine e al significato delle icone è dedicata un’intera sezione della mostra, che ripercorre tradizioni e tipi iconografici diversi dell’arte sacra bizantina. Un esempio del Mandylion, l’icona del volto di Cristo, rimanda alla credenza nelle cosiddette immagini «acheropite», cioè non prodotte da mano d’uomo (dal greco acheiropoietos, derivante dall’unione tra la alfa con funzione privativa, cheir, «mano», e poiein, «fare», n.d.r.), nella quale la rappresentazione di soggetti divini trovava la sua legittimazione. A questa tradizione si accompagnava la leggenda dell’evangelista-pittore Luca, riferita in particolare alle icone della Vergine: oltre che autore sacro, san Luca sarebbe stato anche un abile pittore e avrebbe ritratto fedelmente la Madre di Dio durante i suoi anni di vita terrena, offrendo un modello autorevole per ogni successiva riproduzione. A partire dall’icona di Freising, la mostra illustra diversi tipi di immagini mariane, venerate a Bisanzio con particolare devozione: la Madonna Odigitria («che conduce, che indica la via», dall’unione dei termini greci odos, «via» e ago, egeomai, «guidare, condurre», n.d.r.), che tiene il Cristo bambino tra le sue braccia, indicandolo come vera via, cosí come la particolare Maria Eleousa micromosaicata di Venezia, che differisce dall’Odigitria solo per la posizione del capo, inclinato verso il figlio. Infine, l’icona russa della Madre di Dio Petrovskaja, dell’inizio del XVI secolo, rimanda al protrarsi dell’eredità iconografica bizantina nella tradizione russa.

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Se il culto delle immagini sacre era da secoli parte integrante della devozione cristiana orientale, la domanda sulla sua legittimità era stata al centro di accesi dibattiti – e scontri spesso violenti – tra i difensori delle icone e i sostenitori dell’iconoclastia, che venne ufficialmente bandita da Bisanzio nell’anno 843. La memoria di questo evento si protrasse a lungo nella storia dell’arte bizantina, come dimostra l’icona Il trionfo dell’Ortodossia di Emmanuel Tzanfournaris, realizzata tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, nella quale un comitato di angeli, santi e teologi celebra festosamente il culto delle icone come assolutamente ortodosso. L’attribuzione di rappresentazioni mariane alla mano di san Luca trovò largo seguito anche nell’Europa cattolica, come nel caso della stessa icona di Freising. È interessante, d’altra parte, che l’attribuzione avvenne solo successivamente: se a Bisanzio essa era riconosciuta con l’epiteto di Speranza dei senza speranza, solo dopo il suo arrivo in Europa adottò la denominazione di «icona di San Luca». In questa veste fu donata dal vescovo di Freising, Nicodemo della Scala, al Duomo della sua città novembre

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San Luca dipinge l’icona della Vergine Odigitria, tempera su legno. 1500 circa. Recklinghausen, Museo delle icone.

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A sinistra una pagina del codice che raccoglie opere dello Pseudo-Dionigi Aeropagita donato dall’imperatore Manuele II al monastero parigino di Saint-Denis. 1408. Parigi, Museo del Louvre. In basso ritratto di Manuele Crisolora, disegno forse eseguito da Paolo Uccello. Inizi del XV sec. Parigi, Museo del Louvre.

nel 1440. Lasciata molto presto la corte lombarda del Visconti, infatti, l’icona era passata per vie dinastiche nelle mani della cognata di Gian Galeazzo, Lucia Visconti, che la portò con sé in Inghilterra, per poi cederla al cugino veronese Brunoro della Scala. Questi la donò a sua volta al fratello Nicodemo, nominato vescovo di Freising nel 1422. Dagli anni Venti del Quattrocento, l’icona bizantina non avrebbe piú lasciato la Baviera, conservata dapprima nel Tesoro, poi nella stessa Cattedrale. Qui, l’allora vescovo Veit Adam, le dedicò nel 1629 un altare in argento ornato da sculture e circondato da angeli lignei di fattura barocca: l’intero complesso è ora visibile nella mostra di Venezia, per la prima volta al di fuori dei confini bavaresi. Nel 1402, quando il sultano Bazeyid I fu sconfitto ad

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Ankara dal temibile condottiero Tamerlano e il pericolo ottomano fu allontanato per il momento dalle porte di Costantinoploli, Manuele II interpretò l’inatteso soccorso come il risultato dell’intercessione della Vergine «Speranza dei senza speranza».

La spina e la tunica

L’icona di Freising non era, del resto, l’unico dono diplomatico trasportato dall’imperatore Manuele II durante il suo viaggio in Occidente. Tra i pochi che si sono conservati fino a oggi vi sono anche due reliquie della Passione, destinate rispettivamente allo stesso Gian Galeazzo Visconti e all’antipapa residente ad Avignone Benedetto XIII: una spina della corona di Cristo e un drappo della sua tunica, doni che testimoniano il tenta-

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mostre venezia tivo, analogo a quello dell’Icona di San Luca, di intervenire in rapporti politici e diplomatici attraverso il valore soprannaturale riconosciuto in questi oggetti. Diversa era la funzione del prezioso codice con opere di Dionigi Areopagita, donato nel 1408 al monastero parigino di Saint-Denis e conservato oggi al Museo del Louvre (vedi foto a p. 53, a sinistra). Manuele II lo fece consegnare alla comunità benedettina qualche anno dopo la sua permanenza in Francia, come ringraziamento per l’ospitalità ricevuta. Oltre a opere del padre della Chiesa orientale, il manoscritto contiene un magnifico ritratto dell’imperatore Manuele con sua moglie Elena Dragaš e tre dei loro figli, ieraticamente stanti sotto l’egida della Vergine con il Bambino, che raccolgono la famiglia imperiale sotto le proprie braccia. Incaricato della consegna del manoscritto fu l’intellettuale bizantino Manuele Crisolora, uomo di fiducia dell’imperatore e illustre letterato, la cui autorevolezza è rievocata nella mostra da un ritrattato cartaceo proveniente dal Louvre (vedi foto a p. 53, a destra). La sua figura riflette emblematicamente l’importante contributo dato dalla cultura bizantina allo sviluppo dell’Umanesimo in Europa. Docente all’università di Firenze

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prima, e diplomatico imperiale poi, Crisolora fu uno strenuo promotore della lingua e della filosofia greche nella prima metà del XV secolo, alla cui diffusione erano connessi evidenti fini politici. L’affermazione della propria identità culturale rappresentava per Bisanzio tanto una forma di resistenza alla minaccia della dominazione ottomana, quanto il tentativo di animare l’interesse dell’interlocutore occidentale, sensibilizzandolo alla propria causa contro gli infedeli. Che questa forma di promozione culturale non avesse avuto il successo sperato, fu dimostrato dai fatti che seguirono. Tuttavia, la riscoperta dei classici greci e della filosofia platonica e neoplatonica, che caratterizzò la nascita dell’Umanesimo in Italia nella prima metà del Quattrocento, trovava in questa stessa promozione culturale uno degli stimoli piú significativi. Venezia si era dimostrata un bacino privilegiato per la ricezione della cultura bizantina in Europa ben prima dell’attività del Crisolora in Occidente. Ciò fu dovuto al fatto che, già nel VI secolo, essa si trovava sotto il dominio dell’impero romano d’Oriente, dal quale seppe presto svincolarsi politicamente. L’influenza economica e culturale di Bisanzio continuò tuttavia a segnare pro-

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A destra, la stauroteca del cardinale Basilio Bessarione, che custodiva una reliquia della Vera Croce. 1347-1354. Venezia, Gallerie dell’Accademia. In basso, a sinistra cofanetto per reliquie in argento dorato realizzato a Trebisonda, città natale del cardinal Bessarione. XI-XII sec. Venezia, Basilica di S. Marco.

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mostre venezia Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

fondamente la storia della Serenissima fino a dopo la caduta di Costantinopoli, quando numerosi coloni greci trovarono asilo in laguna. Nel corso dei secoli, preziosi oggetti provenienti da Bisanzio confluirono a Venezia per diverse vie: in parte semplicemente acquistati, in parte offerti come doni o pegni per il saldo di debiti, in parte derubati durante il sacco di Costantinopoli a conclusione della quarta crociata, nel 1204. Rientrano tra questi oggetti le cinque legature bizantine d’argento smaltato presenti nell’esposizione, datate tra i secoli IX e XIV e confluite durante il Trecento nel Tesoro Marciano di Venezia. Questi cinque pezzi, di indiscutibile pregio artistico, assumono un interesse particolare per le corrispondenze riscontrabili

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con la cornice dell’Icona di San Luca. Evidenti analogie nella tecnica, nel formato e nella rappresentazione, in particolare degli smalti, tradiscono la comune provenienza dalle rinomatissime manifatture bizantine. Degno di altrettanta attenzione è il salterio di Basilio II, realizzato tra il X e l’XI secolo, dal quale proviene il celebre ritratto a figura intera dell’imperatore bizantino, gloriosamente incoronato da Cristo come signore dei popoli sottomessi.

Un protagonista del suo tempo

A conclusione della sezione dedicata al rapporto tra Bisanzio e Venezia, viene presentato un contratto siglato tra Manuele II e la Repubblica Serenissima nel maggio del novembre

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Legatura bizantina in argento smaltato. Fine del XII-inizi del XIII sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

1406, che riporta il percorso espositivo all’inizio del XV secolo. Nasceva in questi anni un personaggio centrale per l’incontro tra le due culture nei decenni precedenti la fine di Bisanzio e all’indomani della caduta di Costantinopoli: il cardinale Basilio Bessarione (1403-1472). Originario della città bizantina di Trebisonda, si era formato nella capitale dell’impero e a Mistrà, dove era stato iniziato alla filosofia platonica. Giunse in Italia tra il 1438 e il 1439, al seguito dell’imperatore Giovanni VIII, figlio di Manuele II, in occasione del Concilio di Ferrara e Firenze; da allora non avrebbe piú lasciato la Penisola. Fu nominato cardinale nello stesso 1439 e si stabilí presto a Venezia. Intimo amico della famiglia imperiale, pronunciò ancora giovane un elogio

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a Manuele II in occasione della sua morte, avvenuta nel 1425. Dotto teologo e fine umanista, uomo di fede e di politica, oratore stimato e filosofo avveduto, mosso dalla ricerca di una sintesi tra il pensiero cristiano, aristotelico e platonico, Bessarione diede un contributo decisivo alla formazione del pensiero umanista nel corso del Quattrocento, rappresentando strenuamente la cultura greca in Occidente, prima e dopo il crollo di Bisanzio. Di questa cultura sono testimonianza materiale gli ultimi tre oggetti della mostra, tutti legati alla vicenda personale e intellettuale di Bessarione: la sua celebre stauroteca dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia, contenente una reliquia della Vera Croce (vedi a p. 55); il preziosissimo cofanetto per reliquie di Trebisonda, città natale del cardinale, realizzato in argento dorato tra l’XI e il XII secolo e giunto a Venezia, si suppone, attraverso lo stesso Bessarione (vedi a p. 54); infine, il discorso funebre pronunciato per l’imperatore Manuele II, contenuto in un codice manoscritto della Biblioteca Marciana, nel quale non solo vengono passate in rassegna le grandi vicende della vita del Paleologo, ma ne viene esaltata anche l’elevatissima statura morale e intellettuale. Il cardinal Bessarione è dunque uno dei protagonisti della mostra e suggella il percorso espositivo con la sua poliedrica grandezza. Dello stesso Bessarione la Biblioteca Marciana festeggia nel 2018 il 550° anniversario dall’importante lascito di libri greci. La donazione del cardinale del 1468 avrebbe costituito il primo nucleo della futura biblioteca veneziana, fondata come istituzione pubblica – la prima in tutto il mondo – circa un secolo piú tardi, nel 1560. A conclusione delle manifestazioni per l’Anno Bessarioneo, questa mostra, prodotta e ideata dal Museo Diocesano di München-Freising in collaborazione con la Biblioteca Marciana stessa e con Swiss Lab for Culture Projects, ricostruisce, in un progetto di respiro internazionale, la storia dell’incontro e dello scontro tra diverse culture, quella bizantina, latina e ottomana, avvenuto alle soglie di una «nuova epoca». F

Dove e quando «Gli ultimi giorni di Bisanzio. Splendore e declino di un Impero» Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Salone della Libreria Sansoviniana, ingresso dal Museo Correr fino al 5 marzo 2019 (dal 25 novembre) Orario tutti i giorni, 10,00-17,00 Info tel. 041 2407211; https://marciana.venezia.sbn.it Catalogo (in lingua tedesca) Sieveking

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Splendori e colori

di Stefano Mammini

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A Roma, nel cuore del Foro Romano, si conserva uno dei piú importanti monumenti dell’arte medievale: è la chiesa di S. Maria Antiqua. Che, dopo un lungo e impegnativo restauro, è tornata a farsi ammirare dai visitatori. Un luogo di straordinaria suggestione, soprattutto per la presenza di un vasto ciclo di dipinti murali, realizzati fra il V e l’VIII secolo per volere dei papi che in quegli anni si succedettero al soglio di Pietro. Un corpus eccezionale, che, dopo un lungo oblio, venne finalmente riportato alla luce ai primi di gennaio del 1900

Salvo diversa indicazione, tutte le foto che corredano l’articolo si riferiscono alla chiesa di S. Maria Antiqua, nel Foro Romano. L’interno della chiesa, tornata a essere regolarmente visitabile nel 2016 e ora inserita, con l’Oratorio dei Quaranta Martiri e la Rampa Domizianea, nel biglietto S.U.P.E.R. (vedi box a p. 70).

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no dei massimi monumenti dell’arte medievale a oggi noti nasce da un riciclo, alla metà del VI secolo, quando a Roma, nel cuore del Foro Romano, un edificio innalzato ai piedi del Palatino per iniziativa dell’imperatore Caligola (37-41 d.C.) e poi ristrutturato da Domiziano (81-96 d.C.) viene trasformato nella chiesa di S. Maria Antiqua. La nascita del nuovo luogo di culto viene tradizionalmente collocata al tempo dell’imperatore bizantino Giustino II – all’epoca, per effetto della riconquista dell’Occidente promossa da Giustiniano, l’Italia era appunto tornata sotto il controllo di Bisanzio –, che regnò dal 565 al 578, ma, secondo studi

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recenti, è probabile che la «forchetta» possa essere ulteriormente ristretta agli anni fra il 565 e il 571 e che la fondazione possa avere avuto come committente Narsete.

La devozione del generale

Il celebre generale bizantino era allora reggente per l’Italia e in quel periodo visse a lungo a Roma, fissando la sua residenza sul Palatino, dunque nei pressi della futura chiesa e la suggestiva ipotesi che lo vuole come promotore della sua realizzazione nasce, oltre che da considerazioni cronologiche, dalla notizia riportata dalle fonti secondo la quale Narsete era profondamente devoto alla Vergine – tanto da

In alto Oratorio dei Quaranta Martiri. La scena dipinta nell’abisde dell’edificio, ricavato da uno dei vani situati a sud del quadriportico realizzato dall’imperatore Domiziano. Metà del VI sec. Vittime del martirio furono alcuni soldati cristiani di stanza in Armenia che si erano rifiutati di rinnegare la propria fede.

invocarne l’appoggio prima di ogni azione militare – e avrebbe dunque potuto vedere con favore l’impresa. Al di là delle suggestioni e di possibili paternità eccellenti, la chiesa venne ricavata sfruttando parte di una domus alla quale Caligola accedeva passando per il vicino Tempio dei Castori, nel quale amava farsi adorare come un dio, sedendo novembre

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Cosa c’è da vedere A destra planimetria dell’area di S. Maria Antiqua: 1. Oratorio dei Quaranta Martiri; 2. Atrio; 3. Chiesa di S. Maria Antiqua; 4. Aula occidentale. Il tracciato in rosso indica il percorso di visita e il tratto puntinato corrisponde alla rampa domizianea (5), che saliva ai palazzi imperiali del Palatino. 1

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In basso veduta del Foro Romano. In primo piano, sulla sinistra, la chiesa di S. Maria Nova (piú nota come S. Francesca Romana), il luogo di culto che ereditò il titulus di S. Maria Antiqua dopo l’abbandono della seconda in seguito al terremoto dell’847.

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Sulle due pagine vedute d’insieme e di dettaglio della straordinaria «parete palinsesto» conservatasi alla destra dell’abside centrale della chiesa. Vi sono state identificate ben sei fasi pittoriche diverse, realizzate fra il IV-V e l’VIII sec. Qui accanto la raffigurazione della Vergine, tradizionalmente indicata come Maria Regina e databile nella prima metà del VI sec. La madre del Salvatore siede su un trono tempestato di gemme e perle e sorregge il Figlio, che tiene un piccolo codice, decorato anch’esso con perle e pietre preziose.

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fra le statue dei Dioscuri. Narrano le fonti che l’imperatore vi aveva fatto allestire una biblioteca, verosimilmente ospitata dall’atrio del complesso e dagli ambienti oggi occupati da S. Maria Antiqua. In ogni caso, la configurazione originaria della struttura può ormai essere solo presunta, poiché essa venne distrutta dagli incendi del 64 e dell’80 d.C. e la successiva ricostruzione promossa da Domiziano ne modificò radicalmente l’assetto.

Dall’alto, a sinistra una veduta d’insieme della «parete palinsesto» e i particolari di due delle figure oggi meglio leggibili, tra cui, in alto, il cosiddetto Angelo Bello, ascrivibile al terzo strato (fine del VI sec.).

Collegata ai palazzi

La nuova domus si articolava in quattro settori comunicanti: una grande Aula occidentale, uno degli ambienti piú vasti dell’architettura flavia e da alcuni identificato con il Tempio del Divo Augusto, anche se l’ipotesi è tuttora assai dibattuta; un ambiente piú piccolo, a est, che oggi funge da atrio della chiesa di S. Maria Antiqua e nel quale aveva forse sede la biblioteca ad Minervam ricostruita da Domiziano; un

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roma s. maria antiqua La riscoperta

1900, l’anno della rinascita Nell’847 Roma venne colpita da un terremoto e la chiesa di S. Maria Antiqua cadde in disuso, poiché il sisma aveva fatto franare alcune porzioni di muro dal soprastante colle del Palatino, rendendola in larga parte inagibile. Si procedette quindi alla costruzione, a ridosso del Tempio di Venere e Roma, della chiesa di S. Maria Nova e solo l’atrio dell’Antiqua continuò a essere utilizzato per qualche secolo, come Cappella di S. Antonio. Nel XIII secolo, sui ruderi della chiesa fu edificato un nuovo tempio, dedicato a Maria de Inferno, che passa poi a essere indicata come Maria libera nos a poenis inferni oppure Liberatrice. Nel 1617 la chiesa venne restaurata e qualche decennio piú tardi, il 24 maggio del 1702, il capomastro Andrea Bianchi, che aveva affittato un appezzamento di terra nell’orto retrostante S. Maria Liberatrice per cavarne mattoni, scopre fortuitamente il presbiterio

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di una chiesa. Il ritrovamento mette in luce le pitture dell’abside e delle pareti laterali. Accertata l’impossibilità di provvedere ai restauri, il presbiterio fu nuovamente interrato, ma non prima che Francesco Valesio ne registrasse in un acquerello con sintetica esattezza le pitture. Dopo due secoli, Giacomo Boni l’8 gennaio del 1900 inizia a demolire la chiesa di S. Maria Liberatrice, sotto la quale scopre i resti dell’Oratorio dei Quaranta Martiri. Il 22 marzo dello stesso anno, nel giardino retrostante, appare la parete absidale con l’Adorazione della Croce. Il 5 agosto scopre la «parete palinsesto». Il 20 dicembre, nella Cappella di Teodoto, torna alla luce l’iscrizione «Sanctae Dei Genetricis senperque Birgo Maria qui appellatur antiqua». La chiesa, nuovamente scoperta, ha un nome: «Santa Maria Antiqua». Già all’indomani della scoperta nel 1900, Giacomo Boni si preoccupa di salvaguardarne

A destra planivolumetria degli scavi nell’area della basilica e dell’atrio realizzata da Antonio Petrignani, uno dei collaboratori di Giacomo Boni. In basso ipotesi di ricostruzione del complesso, elaborata anch’essa da Petrignani.

le pitture e di provvedere alla loro documentazione, grafica e fotografica, prima che, liberate dalla terra, si deteriorino o si offuschino. Lo accompagnano in questa impresa i suoi «compagni di lavoro», Romolo Artioli, Maria Barosso, Angelo Bonelli,

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tica, e dunque pagana, equivaleva infatti a una presa di possesso non soltanto materiale. Tra le poche modifiche strutturali del complesso imperiale va sottolineata la creazione dell’abside, ricavata nello spessore del muro romano. Tuttavia, fin dall’inizio, l’intervento che con piú forza connota S. Maria Antiqua e che oggi ne costituisce il motivo di maggior interesse è la realizzazione delle pitture murali che, in origine, ne rivestivano l’interno. Un patrimonio che, sebbene ci sia giunto solo in parte, si conserva per oltre 250 mq e costituisce una delle testimonianze piú preziose dell’arte medievale romana e, piú in generale, di tutto il mondo greco-bizantino.

I martiri soldati Torquato Ciacchi, Geremia Di Scanno, Ignazio Gabellini, Luigi Giammiti, Leonardo Paterna Baldizzi e Pietro Picca, impegnati a documentare accuratamente con disegni, campagne fotografiche e relazioni di scavo il progredire delle scoperte. Il piano di documentazione prevede la realizzazione di copie 1:1 su carta di tutte le pitture di S. Maria Antiqua, ricorrendo a lucidi a contatto e riproducendo l’esatta cromia dei dipinti murali che, come egli stesso ammette, «la fotografia non basta a riprodurre». Il compito di redigere il rilievo dettagliato degli scavi viene affidato, invece, all’architetto Antonio Petrignani. Fra il 1900 e il 1903 egli redige un’assonometria e una planivolumetria che abbracciano l’area della chiesa, dell’atrio e della rampa di Domiziano. Le tavole di Petrignani sono oggi l’unico «testo» che documenta le evidenze archeologiche, non piú verificabili, di quell’enorme scavo.

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quadriportico voltato; un insieme di tre vani a sud del quadriportico. Sul lato orientale, il complesso domizianeo era chiuso da una rampa a tornanti, voluta per creare una comunicazione diretta con i soprastanti palazzi imperiali. Nel VI secolo, in una Roma in cui l’autorità alla quale molti guardano come a un vero e proprio sovrano è quella della Cattedra di Pietro, il quadriportico ideato da Domiziano viene identificato come luogo ideale per la realizzazione di una chiesa: sono infatti sufficienti minimi interventi per trasformarne gli ambienti in altrettante navate e la storia di S. Maria Antiqua ha cosí inizio. Si tratta, dopo la vicina chiesa intitolata ai Ss. Cosma e Damiano – che nacque anch’essa dal riuso di alcuni ambienti del Tempio della Pace (voluto da Vespasiano e portato a termine da Domiziano) –, della seconda consacrazione nell’area del Foro Romano e il gesto ebbe un importante valore simbolico: destinare alla pratica della religione cristiana un settore del cuore della Roma an-

Il percorso di visita ha inizio al di fuori della chiesa vera e propria: poco prima dell’atrio si può infatti visitare l’Oratorio dei Quaranta Martiri, ricavato in uno degli ambienti che in origine si trovavano a sud del quadriportico domizianeo. Nell’abside, anche in questo caso scavata nello spessore del muro romano, si conserva la rappresentazione del martirio dei titolari dell’oratorio: si trattava di un gruppo di soldati cristiani, di stanza in Armenia, che, secondo la tradizione, dopo essersi rifiutati di abiurare la loro fede, erano stati costretti a immergersi nelle gelide acque di un lago. A quel punto, soltanto uno di loro ne uscí e si immerse nella piscina d’acqua tiepida fatta predisporre dal prefetto Agricola, mentre gli altri preferirono morire congelati pur di non rinnegare il Cristo. Alla vista di tanta determinazione, una delle guardie sarebbe entrata nel lago, morendo insieme agli altri trentanove. Si passa quindi nell’atrio, che oggi si presenta spoglio, ma nel quale era all’origine presente una grande composizione voluta da papa Adriano I – uno dei cinque pontefici che hanno lasciato il proprio

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roma s. maria antiqua LE DATE DA RICORDARE VI secolo Consacrazione di S. Maria Antiqua. Dopo la basilica dei Ss. Cosma e Damiano, è la seconda chiesa nel Foro Romano, testimonianza della presa di possesso cristiana del luogo pagano per eccellenza della antica Roma. 649-653, papato Decorazione delle parti del di Martino I presbiterio e di molte aree della navata centrale. 705-707, papato Il pontefice trasferí l’episcopio dal di Giovanni VII Laterano alla domus tiberiana sul Palatino, a cui era collegata S. Maria Antiqua tramite la rampa imperiale. La chiesa divenne con lui basilica e cappella palatina. Nuova decorazione del presbiterio, esecuzione dei cicli pittorici nella Cappella dei Santi Medici e in molte altre parti del monumento. 741-752, papato Realizzazione della cappella del di Zaccaria donatore Teodoto, alto funzionario della burocrazia pontificia, che era il dirigente amministrativo della diaconia della chiesa di S. Maria Antiqua.

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757-767, papato Ultima decorazione dell’abside e di Paolo I realizzazione dei cicli dell’Antico e del Nuovo Testamento che decorano le navate laterali. 772-795, papato Ultimo intervento pittorico nell’atrio di Adriano I della chiesa prima del suo abbandono. 847 Roma è colpita da un terremoto e crolli nell’edificio provocano l’abbandono della chiesa. XI secolo Nell’atrio di S. Maria Antiqua si installa la cappella di S. Antonio. Ne restano numerosi brani dipinti, in parte restaurati negli anni Ottanta del secolo scorso, in parte da restaurare. 1702 Occasionale ritrovamento dell’abside testimoniato da un acquerello. 1900 Giacomo Boni scopre S. Maria Antiqua dopo la distruzione di S. Maria Liberatrice. 1901-03 Ricostruzione dei muri e delle volte a botte del presbiterio e delle cappelle laterali. 1910 Si costruisce una tettoia sulla navata centrale per proteggere i dipinti. 1946 Sopralluogo di Cesare Brandi. Nella Cappella di Teodoto erano stati messi sacchi di sabbia a protezione novembre

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contro i bombardamenti. Le pitture a cui erano addossati i sacchi risultarono danneggiate dall’umidità. Vengono staccati il riquadro con la Vergine con Bambino, Santi, Papa Zaccaria e Teodoto e riparati nell’Antiquarium forense. 1948 Viene staccato anche il riquadro con la Crocifissione. 1955 Completamento dell’attuale facciata. 1980 Chiusura al pubblico della chiesa per interventi di restauro strutturale. 1981-1982 Restauro delle pitture del muro orientale della navata sinistra della chiesa. 1984-1988 Viene ripristinata l’impermeabilizzazione del tetto. 1985-1989 Restauri delle pitture nell’atrio. 2000 Nell’imminenza del Giubileo vengono affrontati e risolti i piú immediati problemi connessi con la presenza di umidità all’interno della chiesa. Coperture, impermeabilizzazioni, infissi alle aperture permettono di risolvere le fonti di danno piú macroscopiche. 2001 Il World Monuments Fund, soprattutto attraverso il cofinanziamento del «Robert W. Wilson Challenge to Conserve Our Heritage», interviene con il finanziamento di un primo lotto di restauri delle pitture con un contributo di 25 000 dollari. La collaborazione continua negli anni successivi. 2001-02 Diagnosi e progettazione. 2002-04 Consolidamento dei dipinti murali e degli intonaci non dipinti. 2004-05 Restauro della Cappella dei Santi Medici. 2005-07 Restauro della Cappella di Teodoto 2005-12 Restauro di tutti gli altri dipinti murali e superfici architettoniche. 2013-15 Intervento sui pavimenti e sarcofagi, completamento del restauro integrale del monumento. 2016 Riapertura al pubblico del monumento. In alto uno dei santi anargyroi, cioè guaritori, ritratti nella cappella omonima, la cui decorazione fu promossa da Giovanni VII, che fu papa dal 705 al 707. Nella pagina accanto, in alto particolare delle scene dipinte nel passaggio verso la Rampa Domizianea,

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commissionate anch’esse da papa Giovanni VII. Nella pagina accanto, in basso la Rampa Domizianea, che inizia in corrispondenza del lato orientale del quadriportico e raggiunge i palazzi imperiali del Palatino.

segno nella decorazione di S. Maria Antiqua –, che fu staccata nel 1956 ed è ora esposta lungo la parete occidentale della chiesa. Vi si vedono la Vergine e, fra i vari personaggi, lo stesso Adriano I. Il distacco dalla sede originaria venne deciso per il degrado al quale l’opera stava andando incontro, ma, nel futuro, non si esclude – grazie all’utilizzo delle tecnologie conservative ora disponibili – di poterla ricollocare in situ. Va inoltre segnalato che gli scavi condotti nel 1900 da Giacomo Boni (l’architetto e archeologo che, dal 1898, avviò la prima esplorazione sistematica del Foro Romano) portarono alla scoperta, nell’area dell’atrio e sotto il pavimento della chiesa, di numerose sepolture, databili tra l’VIII e il IX secolo. In alcuni casi, i defunti – verosimilmente personaggi di spicco – furono deposti in sarcofagi romani reimpiegati all’occorrenza, fra i quali spicca quello che – realizzato nella seconda metà del III secolo d.C. da un’officina di

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roma s. maria antiqua

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

marmorari romani – presenta scolpite a rilievo le figure di un sapiente e di una orante, il battesimo di Gesú nel Giordano e storie del profeta Giona: si tratta di uno dei primi manufatti del genere con scene bibliche, che può dunque essere considerato come una testimonianza di matrice dichiaratamente cristiana (vedi foto a p. 71). Entrando nel corpo principale del monumento, l’attenzione viene calamitata dalla grande icona sospesa fra la navata centrale e il retrostante presbiterio. Si tratta di una replica dell’icona della Madonna con il Bambino, che accolse i fedeli di S. Maria Antiqua fino a quando la chiesa rimase in uso, cioè fino al IX secolo (vedi foto a p. 58). Fu allora che, all’indomani del terremoto dell’847 e del conseguente abbandono, l’immagine venne spostata in S. Maria Nova (piú nota come S. Francesca Romana), il luogo di culto che ereditò il titulus di S. Maria Antiqua, situato fra l’Arco di Tito e il Tempio di Venere e Roma. L’opera risale alla seconda metà del VI secolo ed è forse il piú antico ritratto di Maria a oggi noto, non soltanto in ambito romano ma in tutto il mondo cristiano.

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Alle spalle di questa imago antiqua, è conservata, alla destra dell’abside, la «parete palinsesto», tornata alla luce il 5 agosto 1900 (vedi foto alle pp. 62-63): si tratta di una straordinaria testimonianza della pittura medievale, nella quale sono state riconosciute – da cui il nome – ben sei diverse fasi, comprese fra il IV-V e l’VIII secolo, prima delle quali va inoltre considerato un settimo strato, costituito dai residui di una decorazione in opus sectile di epoca tardo-antica.

Fasi e figure

A guardarla per come appare oggi, la parete propone una situazione irreale, nella quale i vari strati – e dunque le diverse fasi – appaiono come un insieme unitario, per quanto caotico. Tuttavia, basta fermarsi qualche minuto in piú e concentrarsi sulle diverse figure per cogliere le differenze e riconoscere l’appartenenza dei vari lacerti ad altrettante composizioni. I personaggi di piú facile lettura sono: la Madonna in Trono, riferibile al secondo strato (VI secolo) e che venne dipinta prima dell’apertura dell’abside; i volti di un’altra Vergine e del cosiddetto Angelo Bello, ascri-

In alto una fase del light mapping, grazie al quale è possibile seguire la successione degli interventi nella Cappella di Teodoto, decorata negli anni del pontificato di Zaccaria (741-752). A destra uno scorcio della Cappella di Teodoto, dominata da una Crocifissione.

vibili al terzo strato (prima metà del VII secolo); e la testa di un Padre della Chiesa, dipinta in occasione del sesto e ultimo intervento, eseguito negli anni del pontificato di Giovanni VII (705-707). Lo spazio alla destra dell’abside è occupato dalla Cappella dei Santi Medici, che assolveva verosimilmente alle funzioni di diaconicon di S. Maria Antiqua, uno degli spazi di servizio adiacenti al presbiterio, tipico delle chiese bizantine. novembre

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Il suo nome è stato ispirato dalle pitture in essa conservate, che, realizzate anch’esse al tempo di Giovanni VII, hanno appunto come soggetti santi anargyroi, cioè guaritori, che non accettano denaro in cambio dei loro interventi (vedi foto a p. 67). La scelta di questo tema suggerisce che la cappella potesse essere utilizzata da malati in cerca di guarigione, che vi si recavano per meditare e trascorrere la notte. In posizione simmetrica, alla si-

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nistra dell’abside, la chiesa offre un altro dei suoi gioielli, la Cappella di Teodoto (vedi foto in queste pagine), un alto funzionario della Chiesa, che nell’iscrizione che lo menziona – tracciata in corrispondenza del suo ritratto – è citato come primicerius defensor e dispensator della diaconia di S. Maria Antiqua, ovvero primo degli avvocati della curia e amministratore dell’istituto diaconale. In questo caso, il ciclo pittorico è databile al pontificato di Zacca-

ria (741-752) e ha come soggetto il martirio di Giulitta e del figlio Quirico, che era ancora un bambino. Il racconto viene sviluppato in otto grandi riquadri, ancora ben leggibili, e culmina con la morte del piccolo santo, che, secondo la tradizione, sarebbe stato ucciso dal governatore romano Alessandro, il quale lo scaraventò a terra dopo che, alla vista delle torture inflitte alla madre aveva esclamato «Sono anch’io un cristiano!». Di grande potenza visiva è

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roma s. maria antiqua la formula s.u.p.e.r.

I magnifici sette In un volume pubblicato alla metà degli anni Ottanta del Novecento, alla chiesa di S. Maria Antiqua era stata riservata questa breve descrizione: «La prima impressione che si ha, entrando nella chiesa di S. Maria Antiqua al Foro Romano, è quella di trovarsi in un grande laboratorio adibito alla catalogazione e al restauro di reperti archeologici. Un grande numero di giovani studiano, osservano, registrano e ripongono in apposite cassette di plastica centinaia di migliaia di pezzetti di coccio, frammenti di antiche suppellettili, scaglie di mattoni, tessere di mosaico, e cosí via.

Tanto che viene da chiedersi se realmente tutto ciò che si trova e che si mette da parte durante gli scavi archeologici sia veramente cosí importante e meriti perciò di essere conservato con cura o se, viceversa, la maggior parte di quegli innumerevoli frammenti non sia paragonabile a un mucchio di pietrame senza interesse alcuno. Non si vuole, in questa sede, esprimere opinioni in merito, ma si valuta comunque molto positivamente il fatto che, nel momento in cui si scrivono queste brevi note, tutta la zona compresa tra la basilica Giulia e la casa delle Vestali, è sottoposta a un minuzioso lavoro di ricerca storico-archeologica. Per questo motivo la chiesa di S. Maria Antiqua è chiusa al pubblico e chiusa rimarrà chissà per quanti anni ancora» (Giovanni Tesei, Le chiese di Roma, Anthropos, 1986). Al di là delle considerazioni sulla valutazione dei

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In alto un particolare della Crocifissione nella Cappella di Teodoto all’indomani del restauro. A sinistra una fase degli interventi di restauro condotti fra il 2001 e il 2015.

reperti, visti come «un mucchio di pietrame», lo scetticismo sulla riapertura del monumento può essere ormai archiviato come una nota di costume: dal 2016, infatti, S. Maria Antiqua e l’Oratorio dei Quaranta Martiri sono tornati a essere regolarmente visitabili e sono stati recentemente inseriti nel nuovo biglietto S.U.P.E.R. (Seven Unique Places to Experience in Rome), che è una delle nuove proposte ideate per il pubblico del Parco Archeologico del Colosseo. La nuova formula, oltre a garantire, naturalmente, l’ingresso a Colosseo, Foro Romano e Palatino, permette di accedere ai seguenti siti: Museo Palatino, Casa di Augusto, Casa di Livia, Aula Isiaca con la Loggia Mattei, Tempio di Romolo, nonché, appunto, chiesa di S. Maria Antiqua con l’Oratorio dei Quaranta Martiri e la Rampa di Domiziano.

Dove e quando S. Maria Antiqua, Oratorio dei Quaranta Martiri e Rampa Domizianea Roma, Parco Archeologico del Colosseo ingressi: largo della Salara Vecchia 5/6 (Foro Romano), Via di San Gregorio 30 (Palatino) Orario tutti i giorni, 9,00-15,45 Info tel. 06 39967700; www.coopculture.it; www.colosseo.beniculturali.it

La parete orientale della navata laterale sinistra, sulla quale sono ritratti santi e Padri della Chiesa. Le pitture risalgono all’epoca di papa Paolo I (757-767). Sulla sinistra, un sarcofago con raffigurazioni cristiane. III sec.

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anche la Crocifissione dipinta nella nicchia che sormonta il ciclo di Quirico e Giulitta sul lato meridionale della cappella e che mostra il Cristo in Croce affiancato da Giovanni Battista e un soldato a destra e dalla Vergine e Longino sulla sinistra. Come già per la «parete palinsesto» e la Cappella dei Santi Medici, anche nella Cappella di Teodoto le varie fasi della decorazione vengono illustrate attraverso un’installazione multimediale basata sul light mapping: a intervalli regolari, l’illuminazione dell’ambiente viene spenta e ha inizio la proiezione dei contorni delle diverse scene e

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figure, accompagnata da brevi testi. Una soluzione di notevole efficacia, soprattutto per le zone in cui piú difficile è la lettura delle pitture.

Una lunga carrellata

Uscendo dalla Cappella di Teodoto, lungo la parete orientale della navata sinistra, corre una delle sezioni meglio conservate del corpus pittorico di S. Maria Antiqua: si tratta, in questo caso, di una lunga carrellata, eseguita al tempo di papa Paolo I (757-767), nella quale, ai lati di un Cristo in trono, si vedono Padri e Dottori della Chiesa occidentale e di quella orientale (vedi

foto in questa pagina). Sopra questa teoria di personaggi severi e ieratici, vi sono riquadri con scene bibliche. All’estremità della navata si apre il passaggio verso la già citata rampa domizianea, che merita senz’altro d’essere percorsa, anche se, a questo punto, è altrettanto opportuno riguadagnare il centro della chiesa per contemplarla nel suo insieme. E sarà allora facile intuire, immaginando i dipinti murali nella loro interezza e nella piena vivacità delle cromie originarie, l’emozione che S. Maria Antiqua e le sue pitture dovevano trasmettere ai suoi frequentatori di un tempo. F

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luoghi vitozza 6

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Vitozza LAZIO

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di Carlo Casi e Luciano Frazzoni novembre

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Al confine fra Toscana e Lazio, nella frazione di San Quirico di Sorano – in provincia di Grosseto – si conservano i resti del suggestivo insediamento rupestre medievale di Vitozza, oggi compreso nel territorio del Parco Archeologico «Città del Tufo». Un luogo dai connotati quasi fiabeschi, fra le cui grotte echeggiano le vicende di uomini e donne che lí abitarono oltre mille anni fa

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In alto Vitozza (San Quirico di Sorano, Grosseto). I resti della «Chiesaccia», luogo di culto forse dedicato a san Quirico e la cui costruzione si può attribuire a maestranze romaniche senesi. Sulle due pagine pianta a volo d’uccello dell’insediamento di Vitozza: 1. abitazioni rupestri; 2. Rocca Sud; 3. II castello 4. «Chiesaccia»; 5. colombari; 6. acquedotto.

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ntrare in una città fantasma è un po’ come perdersi nella memoria di tempi passati, che non abbiamo vissuto, ma che, grazie al fermo immagine dell’abbandono, ci sembra di poter rivivere. È questa la prima sensazione che si prova entrando a Vitozza, dove lo sviluppo ininterrotto di grotte – molte delle quali utilizzate chiaramente come abitazioni – rimanda a immagini di centri sicuramente piú famosi con cui condivide la medesima sorte, almeno sino a un passato non troppo recente. Conosciamo i nomi e le storie degli ultimi abitanti, veri e propri cavernicoli moderni, che si sono progressivamente trasferiti in alcuni paesi limitrofi e hanno dato origine al piú moderno centro di San Quirico, posto a circa 1 chilometro. Ci troviamo in quell’ultimo brandello di Toscana che si affaccia sul Lazio e sull’Umbria, protetta alle spalle dall’alto massiccio del Monte Amiata e che a sud strizza l’occhio alle sabbiose coste tirreniche vulcenti, dove sfocia il fiume principale della zona: il Fiora. Con le sue 200 e piú grotte, Vitozza risulta uno dei piú importanti ed estesi siti rupestri medievali in Italia. (segue a p. 76)

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luoghi vitozza Alcune delle grotte che si aprono al di sotto del pianoro di Vitozza. Nel sito si contano oltre 200 cavitĂ , che, nel corso del tempo, sono state variamente utilizzate, sia a scopo abitativo che funzionale (ricoveri per animali, depositi, ecc.).

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Un mondo di piccole nicchie Oltre alle monumentali tombe rupestri di età etrusca, il paesaggio tufaceo di Sorano è caratterizzato da numerose cavità aperte su alte pareti a strapiombo, al cui interno s’intravedono piccole nicchie semicircolari o quadrate (25 x 25 cm circa), fittamente accostate e che, negli ambienti piú vasti, possono raggiungere facilmente il migliaio. Per lungo tempo questi ambienti sono stati assimilati ai monumenti funerari in uso presso i Romani dal I secolo a.C. al II secolo d.C., nei quali le file sovrapposte di nicchie, i loculi (colombaria), contenevano le urne cinerarie dei defunti come, per esempio, quelli situati sulla via Appia a Roma dei liberti di Livia e di Augusto. Tuttavia, con il progredire degli studi, questa interpretazione è risultata sempre meno condivisibile, anche perché presupponeva un’elevata densità di popolazione in età romana non altrimenti documentata. Lo stesso termine di colombarium è tramandato dagli autori antichi per le strutture dedicate all’allevamento dei colombi (per esempio Columella), diffuse in ambito romano a partire dal I secolo a.C. La pianta di questi apprestamenti, minuziosamente descritte nei trattati di agricoltura medievale e rinascimentale,

rispondeva essenzialmente a esigenze funzionali. La principale era la necessità di impedire l’accesso agli animali predatori, ciò che spiega la posizione dell’accesso nei punti piú impervi dei costoni tufacei, raggiungibili solo con lunghe scale di legno. Proprio la stretta rispondenza tra le descrizioni tramandate dalle fonti scritte e le strutture con cellette presenti nell’area dei tufi ha ormai definitivamente accreditato l’ipotesi che si tratti di ambienti realizzati in epoca medievale e rinascimentale, destinati all’allevamento dei colombi e dei piccioni. Gli ambienti erano costruiti appositamente o sfruttando strutture piú antiche, come attesta il colombario situato nella necropoli di Monte Rosello-Valle Bona a Sovana, realizzato adattando lo scavo di una tomba etrusca, della quale restano il soffitto a lacunari e una parte del perimetro originario. C. C.

In alto Sorano. Un colombario, con le tipiche nicchie: a lungo interpretate come loculi per la deposizione delle urne cinerarie, le cavità sono state ora riferite all’allevamento dei colombi o dei piccioni.

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luoghi vitozza Sorge su uno sperone tufaceo delimitato dai valloni dei torrenti Lente e San Quirico, ed è delimitato a sud-est da una rocca, la Rocca Sud, e da un fossato artificiale; nella parte opposta, a nord-ovest, l’insediamento ha come limite naturale il profilo del promontorio, caratterizzato da pareti molto scoscese. Un varco che si apre nella cinta muraria, collegata alla Porta Sud, assicurava il controllo e la difesa nel punto di accesso verso il lato sud-ovest, mentre un altro fossato artificiale separa la rocca dal pianoro retrostante.

Le prime ricerche

La «città diruta chiamata Vitozzo» non è stata visitata da George Dennis (1814-1898; archeologo e diplomatico inglese, che compí numerosi viaggi in Etruria, raccontati nel libro The Cities and Cemeteries of Etruria, n.d.r.), il quale dice di averla vista solamente dal lato opposto di un ampio burrone, privandoci dunque di una delle sue preziose descrizioni, ma viene comunque da lui definita di epoca medievale. Piú tardi, nel 1927, l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) parla dei colombari situati presso lo sperone di Sant’Angiolino, indicandoli come di origine romana. Dopo questi sporadici riferimenti, il sito sembra di nuovo cadere nell’oblio per molti decenni. Le prime ricerche archeologiche vennero infatti condotte tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta del secolo scorso, quando 67 grotte furono rilevate e numerate dal professor Roberto Parenti. In seguito, tra il 1983 e il 1984, Vitozza fu interessata da un intervento di ricerca e valorizzazione, curato della Cooperativa Archeologia di Firenze, durante il quale fu effettuato il rilievo di altre grotte, dei colombari, delle strutture della cinta muraria sud-ovest e del pianoro centrale (l’area II), e venne predisposto un percorso attrezzato di visita al sito. Dal 1998 Vitozza fa parte del Parco Archeologico «Città del Tufo» del Comune di Sorano (vedi box a p. 85). Per scoprire questa città fantasma, si può partire da San Quirico e seguire la strada indicata dai cartelli per Vitozza; lungo il sentiero, in località Piancistalla, si incontrano un piccolo oratorio rupestre, riconoscibile dalla piccola croce, e alcune grotte, in parte ancora utilizzate dagli abitanti di San Quirico come pollai, rimesse e magazzini per gli attrezzi agricoli. Poco prima di giungere a Vitozza, si trovano le grotte n. 9, 10 e 11. La prima, presenta tre aperture lungo il sentiero, che danno accesso a un vasto ambiente circolare al centro e a pianta rettangolare sul lato sinistro; si tratta probabilmente di una cava di materiale inerte, utilizzato per la preparazione della malta; la seconda grotta (n. 10), era una cava di materiale lapideo da costruzione, come indicano i segni delle zeppe sul banco di tufo posto sulla destra; la terza (n. 11) presenta quattro aperture ed è formata all’interno dall’unione di almeno tre

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A destra Vitozza. Il ponte in legno che oggi permette di superare il fossato difensivo e, in secondo piano, i resti della Rocca Sud, la cui costruzione può essere collocata nel XII sec. Nella pagina accanto, in basso una «pestarola», vasca scavata nel tufo che poteva essere adibita alla pigiatura dell’uva o a operazioni connesse alla concia delle pelli.

ambienti; conosciuta come «grotta della salnitraia», veniva probabilmente sfruttata nel XVIII secolo per la fabbricazione del salnitro, utilizzato per la polvere da sparo. Data la vicinanza di queste grotte alla struttura fortificata sullo sperone sud, è possibile pensare che servissero per la realizzazione dei conci di tufo e della malta per costruire le murature difensive.

Una città difesa

La prima struttura muraria che si incontra è la Rocca Sud, posta sullo sperone roccioso della parte sud-est dell’abitato, a difesa e controllo della porta di accesso da questo lato, a cui è collegata da un muro a conci di tufo poggiante sulla nuda roccia. Definita «fortilizio diruto» nella stima catastale del 1783 (redatta in relazione all’alienazione dei beni del Granducato), era probabilmente costituita, in origine, da una serie di edifici, in parte novembre

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crollati o franati. Sul lato nord, si nota un largo fossato artificiale profondo circa 4 m, da cui probabilmente si accedeva alla struttura fortificata mediante un ponticello di legno. Di questa, sono attualmente riconoscibili un torrione e un tratto di muro pertinente forse a un altro ambiente, su cui si aprono due finestre; nella parete interna si notano inoltre cinque fori quadrangolari, nei quali erano alloggiate le travi del solaio del piano superiore. In base alla tecnica muraria, la fortificazione si può datare intorno alla metà del XII secolo. Proseguendo il percorso in direzione del pianoro, nel tratto tra la Rocca Sud e la chiesa, si possono notare i resti di strutture murarie in blocchi di tufo, probabilmente pertinenti ad abitazioni medievali. Scendendo di quota lungo il sentiero a sinistra, si incontra un pianoro dove sono presenti alcune pesta(segue a p. 81)

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luoghi vitozza Lo «zolfanello» e i suoi tesori Il 25 ottobre 1293 Anastasia degli Aldobrandeschi di Sovana, figlia della contessa Margherita e nipote di Ildebrandino, sposò Romano di Gentile Orsini: le nozze furono cariche di conseguenze per il piccolo borgo di Sovana, al quale gli Orsini preferirono altre sedi. Il castello di Sorano divenne allora un caposaldo difensivo della vasta «Contea di Pitigliano» e assunse un ruolo decisivo nel XV secolo, quando le mire espansionistiche della Repubblica di Siena causarono aspre lotte con gli Orsini, costretti a firmare, nel 1417, una dichiarazione di indiretta sovranità dello Stato senese sulle loro terre. Alla caduta di Siena, avvenuta nel 1555, il conte Niccolò Orsini ritornò a Sorano: la famiglia ne mantenne il possesso fino al 1604 quando nulla poté contro nuovi nemici, i Medici di Firenze. L’abitato di Sorano, che conserva il caratteristico impianto

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medievale, è dominato dalla mole della Fortezza Orsini: costruito sotto gli Aldobrandeschi nel XIII secolo, l’edificio fu ampliato sotto il dominio degli Orsini che ne fecero un funzionale esempio di architettura militare, rispondente alle nuove esigenze dettate dall’uso delle armi da fuoco. L’assetto definitivo fu raggiunto nel 1522, con la costruzione di due bastioni angolari e del mastio centrale, a opera dell’architetto senese Anton Maria Lari. Lo stesso Cosimo I de’ Medici apprezzò le qualità e le soluzioni architettoniche del complesso militare, definendolo come lo «zolfanello delle guerre d’Italia». La visita della Fortezza è una scoperta continua. Nei resti dell’antico cassero, inglobati piú tardi nella ristrutturazione cinquecentesca,

Sulle due pagine Sorano. La poderosa Fortezza Orsini, che è divenuta sede del Museo del Medioevo e del Rinascimento. Nella pagina accanto, in alto ceramiche rinascimentali. Sorano, Museo del Medioevo e del Rinascimento.

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il Museo del Medioevo e del Rinascimento propone raffinate ceramiche recuperate nei «butti» rinvenuti non solo nella fortezza, ma anche a Sovana, Vitozza e Castell’Ottieri; è inoltre possibile ammirare, nella torre ottagonale, una stanza decorata da affreschi eseguiti intorno al 1580, che, fra grottesche e scene mitologiche, ripropongono anche la partitura musicale di un madrigale musicato a quattro voci. Il mastio centrale, che un tempo, oltre al corpo di guardia e all’armeria, ospitava anche il magazzino della polvere da sparo e del salnitro, la fonderia e le prigioni, oggi è la sede del Centro Informazioni del Parco tematico degli Etruschi. Il mastio era collegato ai bastioni angolari, detti di San Marco (a levante) e di San Pietro (a ponente), che a loro volta ospitavano baluardi minori, abitazioni per la famiglia comitale e per i soldati, cisterne e magazzini, oltre a mulini per la lavorazione delle granaglie e della polvere da sparo. Una

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A destra Sorano, Fortezza Orsini. Particolare dell’affresco nella torre ottagonale in cui è riprodotta la partitura di un madrigale per quattro voci. 1580 circa.

fitta rete di camminamenti sotterranei su piú livelli, muniti di feritoie a bocca di lupo necessarie all’utilizzo di archibugi e colubrine, permetteva lo spostamento delle truppe nel caso di assalto nemico, attraversando rapidamente l’intero complesso, che era ulteriormente difeso, all’esterno, da un doppio fossato.

Non si può dunque non andare alla scoperta di questo capolavoro dell’architettura militare rinascimentale, compresi i suoi suggestivi sotterranei: basta seguire le indicazioni suggerite nel sito web, dove si ricorda che «nella visita agli ambienti sotterranei si consiglia l’uso di una giacca»! C. C.

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Sulle due pagine, da sinistra, in senso orario i resti della porta di accesso alla Rocca Sud; il lato orientale della Chiesaccia, con le aperture delle finestre e l’imposta della volta; i resti del campanile della Chiesaccia; una delle murature della Rocca Sud nella quale si vedono i fori quadrangolari nei quali erano alloggiate le travi dei solai.

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role», vasche scavate nel tufo e utilizzate per la pigiatura dell’uva o la concia delle pelli. Al di sotto di quest’area, sul lato sud-ovest, si trova l’altra porta di accesso che conduceva alla parte centrale dell’abitato, e che si apre entro una imponente cortina muraria a conci di tufo legati da malta, che termina a strapiombo sul fosso San Quirico. La porta, larga 2,5 m e alta 3, era sormontata da un arco, non piú conservato, ma di cui rimangono tracce negli stipiti, e presenta su un lato una mensola ancora in situ. Sulla sinistra della porta si aprivano tre feritoie, di cui una soltanto conservata. Non è chiaro se questo tratto di mura con la porta di accesso sia contemporaneo alle altre strutture difensive, o se sia stato realizzato in un momento successivo, per difendere meglio l’insediamento sul lato sud-ovest, dopo una prima fase di espansione dall’estremo sperone di Sant’Angiolino verso sud. Al centro del pianoro si trova la cosiddetta «Chie-

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saccia», cosí chiamata nel catasto del 1783 in quanto già diruta. Potrebbe forse trattarsi della chiesa dedicata a san Quirico citata nelle decime del 1276-77 e del 1296-1324. L’edificio è a pianta rettangolare con abside e campanile a vela. Le pareti laterali, a filaretti di blocchi squadrati di tufo, presentano finestre; su quella del lato est si apre inoltre una porta ad arco ribassato. La presenza di peducci in tufo all’interno delle pareti laterali farebbe pensare a una copertura a volta in muratura. L’abside presenta almeno due fasi costruttive, identificabili dalle diverse tecniche murarie, come si riscontra anche nel campanile. È probabile che l’edificio, nella sua fase originaria, sia opera di maestranze romaniche senesi, cui si devono molti degli edifici ecclesiastici presenti tra la Bassa Toscana e l’Alto Lazio. Dopo la chiesa, il pianoro termina in direzione nordovest con un altro fossato artificiale, al di là del quale si trova un altro edificio fortificato, che controlla una via tagliata nel tufo che conduce all’ultima parte dello

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sperone dell’insediamento, chiamato Sant’Angiolino dai resti di una chiesa definita nel catasto del 1783 «di S. Angelo». Oggi ne rimangono uno spigolo con la mazzetta di una porta e un’imponente massa di macerie costituite da blocchi squadrati di tufo. Non si può stabilire se la struttura fosse in origine dedicata a san Bartolomeo o san Vittore, come riportano le notizie delle decime. Non vi sono comunque tracce di altre chiese nell’insediamento di Vitozza. Su questo pianoro, di forma pressappoco triangolare, che domina la valle del Lente e dei suoi affluenti, si trovano anche un fossato artificiale tagliato in senso nord-sud, alcuni silos e cisterne, tre grotte, di una delle quali rimangono solo due pareti e i gradini di accesso scavati nel tufo (grotte nn. 66 e 67), e due colombari.

Usi diversi e di lunga durata

Come si è detto, a Vitozza si contano oltre 200 grotte, realizzate secondo schemi e in tempi diversi. Si possono suddividere in grotte destinate al solo uso abitativo, novembre

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Sulle due pagine altre immagini delle grotte di Vitozza. È in generale molto difficile stabilire una datazione precisa per la realizzazione delle cavità e ricostruirne la frequentazione in epoca antica, poiché molte di esse hanno continuato a essere utilizzate fino a tempi recenti, a scopi diversi. Nella foto in alto, per esempio, si riconosce una mangiatoia per gli animali.

grotte utilizzate sia come abitazione che come stalla, grotte utilizzate soltanto come stalle e ricovero per animali, e infine grotte per altri usi (forni, ricovero per attrezzi agricoli, ecc.). È da notare che quelle usate come abitazione si trovano concentrate prevalentemente sullo sperone sud-ovest, meglio esposto al sole, mentre le cavità adibite a stalle si trovano su quello nord-est. Gli ambienti utilizzati come abitazioni presentano al loro interno, sia sul pavimento che sulle pareti, tracce di manufatti funzionali alla vita quotidiana: nicchie scavate per fungere da dispensa o per appoggiarvi fonti di illuminazione; fori per graticci lignei per i giacigli (rapazzole), silos per la conservazione delle derrate alimentari o sfruttati come riserve d’acqua, in quest’ultimo caso con le pareti intonacate per renderle impermeabili. Inoltre, presentano spesso fori verticali, utilizzati come canne fumarie per disperdere il fumo dei focolari accesi per cuocere i cibi, e canalette per lo scolo delle acque piovane. Le grotte piú antiche risalgono a un periodo compreso tra il IX e il X secolo, mentre il

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loro utilizzo è testimoniato almeno sino al XIX secolo; si pensi che ancora tra il XVII e il XVIII secolo il costo dell’affitto di una grotta era di poco inferiore a quello di una normale abitazione.

Un confronto fuorviante

Come già ricordato, nello sperone sud-ovest, chiamato di Sant’Angiolino, Bianchi Bandinelli segnalò nel 1927 la presenza di almeno 10 grotte-colombari, da lui datate in epoca romana (I secolo a.C.-I secolo d.C.) e destinate secondo lo studioso a uso funerario per conservare le urnette con le ceneri dei defunti, in base a confronti con i numerosi colombari presenti a Roma. Di queste, soltanto tre sono attualmente visibili e praticabili, cioè la grotta n. 36, la n. 67 e un altro piccolo ambiente posto a un livello inferiore della parete tufacea in direzione della Porta Sud-Ovest. Questi ambienti sono caratterizzati da piccole nicchie disposte sulle pareti; gli studi su questo tipo di manufatti portano a escluderne l’uso funerario (le cellette sono oltretutto

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luoghi vitozza Quei canyon scavati nel tufo... Nel distretto vulcanico vulsino, che in Toscana comprende i comuni di Pitigliano e Sorano, le vie «cave» (cioè «scavate») costituiscono una presenza costante in un paesaggio caratterizzato da ampi pianori tufacei incisi da profonde valli. Questi sentieri ripidissimi, tortuosi e profondamente incassati nella roccia sono infatti sempre presenti per collegare, con un tragitto piú breve, i centri abitati con la campagna coltivata situata sulle alture circostanti o con altri insediamenti. Di fronte allo stupore che si prova percorrendo queste imponenti trincee – l’altezza delle pareti può superare anche i 20 m – realizzate con il solo lavoro manuale, a forza di piccone e di cunei per spaccare la roccia, occorre comunque fare due considerazioni, che consentono di valutare nella giusta misura l’effettivo lavoro occorso per la loro realizzazione: il tufo è una roccia facilmente lavorabile quando è ancora umida; il livello di percorrenza odierno è sempre assai piú basso di quello originario, a volte di oltre 10 m. Quando il percorso fu realizzato per la prima volta, quindi, la trincea scavata nel tufo aveva solo la profondità minima per superare agevolmente il dislivello tra le quote; gli ulteriori approfondimenti sono invece dovuti a successivi interventi eseguiti allo scopo di regolarizzare l’erosione del piano di calpestio, causato in particolare dagli zoccoli ferrati degli animali (muli, asini, cavalli). Alcune vie «cave» sono sicuramente riconducibili, nel loro impianto originario, al sistema viario di epoca etrusca come il «Cavone» di Sovana. La realizzazione in età etrusca di questa importante direttrice verso il Monte Amiata è attestata, in maniera inequivocabile, dalle numerose tombe a camera del VI secolo a.C. che si affacciano su di essa e, soprattutto, dall’iscrizione profondamente incisa a circa 170 cm dal piano stradale odierno. Incompleta e scritta da destra verso sinistra, è delimitata da segni cruciformi: vi si legge vertn[a]/vertn[es], il nome individuale da assegnare alla persona che ha fatto compiere lavori nella via cava; a questa è affiancata un’incisione a forma di svastica, anch’essa di epoca etrusca. Altre vie «cave» risalgono all’età medievale oppure, in questo periodo piú tardo, sono state oggetto di rifacimento. In tutte si nota, comunque, un’attenta opera di regimazione delle acque, ormai quasi completamente cancellato dall’abbandono nel quale da tempo si trovano. L’oscurità che avvolge questi profondi tagli nella roccia e la suggestione che da essi emana ha favorito, nell’era cristiana, la realizzazione lungo il loro percorso degli «scacciadiavoli», piccole nicchie con immagini sacre dipinte a soccorso dei viandanti. C. C.

Pitigliano. Un tratto di una delle spettacolari vie cave che si possono percorrere nei dintorni della cittadina toscana.

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parco archeologico «città del tufo»

Passeggiate nel tempo Inaugurato nel 1998 su iniziativa del Comune di Sorano, in collaborazione con la Regione Toscana e con la Soprintendenza ai Beni Archeologici della Toscana, il Parco Archeologico «Città del Tufo» occupa un’area estesa, fortemente caratterizzata dall’azione erosiva dei torrenti e quindi da un paesaggio singolare e suggestivo, ricco di profondi canyon che si aprono nell’altopiano. Il Parco propone un percorso che realizza in pieno la sintesi tra natura, paesaggio e monumenti della civiltà etrusca e medievale. Esso comprende la città di Sovana, con i suoi monumenti piú significativi, le vie cave e le necropoli che si sviluppano intorno a esse, con le celebri tombe Ildebranda, della Sirena, Pola, Pisa e del Sileno. Qui è visitabile anche il Museo di San Mamiliano, recentemente inaugurato. Nelle immediate vicinanze di Sorano, in posizione panoramica sopra il fiume Lente, è inoltre visitabile l’insediamento rupestre di San Rocco, con le sue testimonianze storiche di età medievale. Da qui si può raggiungere Sorano e visitare la Fortezza Orsini, che ospita il Museo del Medioevo e del Rinascimento. La visita si completa con il villaggio rupestre di Vitozza, nelle immediate vicinanze della frazione di San Quirico di Sorano, con le sue duecento grotte. DOVE E QUANDO Parco Archeologico«Città del Tufo» Info tel. e fax: 0564 614074; www.leviecave.it; Comune di Sorano: tel. 0564 633023, fax: 0564 633033; CoopZoe: tel. e fax 0761 458609; e-mail: coopzoe@libero.it Note gli orari e le modalità di accesso ai siti e musei possono variare, anche in funzione della stagione: si consiglia quindi di verificarli attraverso il sito web della struttura o prendere contatto con le sue sedi Frammento di terracotta architettonica, da Sovana. II sec. a.C. Sovana, Museo di San Mamiliano.

troppo piccole per contenere le urne in terracotta); tali ambienti venivano invece utilizzati, in varie epoche, a partire dall’età tardo-repubblicana, ma soprattutto dal Medioevo fino ai nostri giorni, per l’allevamento dei colombi a scopo alimentare (vedi box a p. 75). La grotta n. 36 è costituita da un primo ambiente con una porta di servizio laterale per permettere l’accesso agli allevatori; sul pavimento sono tracce di piccoli recinti, vasche e canalette per l’acqua; le pareti presentano una fitta serie di nicchie di forma ogivale; da qui si passa a una seconda stanza, anch’essa con nicchie alle pareti, e una piccola porta aperta sul dirupo, da dove i volatili potevano entrare e uscire. Con la visita ai colombari si conclude l’itinerario di Vitozza. F Gli autori ringraziano per la consueta collaborazione Lara Arcangeli, direttrice del Parco Archeologico «Città del Tufo» e Claudia Pietrini, Presidente della Cooperativa Zoe.

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presenta

LE

GRANDI DINASTIE DELL’ ITALIA MEDIEVALE

♦ NORMANNI ♦ SVEVI ♦ ANGIOINI ♦ ARAGONESI Da Ruggero II, il re normanno che trasformò Palermo in una delle piú splendide città d’Europa, all’aragonese Alfonso il Magnanimo, sotto il quale il regno di Napoli acquisí le fattezze di un autentico impero, il nuovo Dossier di «Medioevo» passa in rassegna alcune fra le piú importanti dinastie del Medioevo, ripercorrendo, oltre a quelle di Normanni e Aragonesi, le imprese degli Svevi e degli Angioini. Vicende che si snodano nell’arco di circa quattro secoli, fra l’XI e il XV, e che vedono protagonisti molti personaggi di eccezionale levatura, se solo pensiamo, per esempio, a Federico II di Svevia o a Carlo I d’Angiò. E delle loro storie l’Italia non fu soltanto il contenitore, ma una componente altrettanto importante, con le sue specificità culturali, oltre che geografiche. Una stagione lunga, densa di eventi e avvincente, brillantemente raccontata per noi da Tommaso Indelli.

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di Marco Fabbrini

Il Buon Governo di Siena, biccherna (tavoletta-copertina) ispirata all’omonimo ciclo di affreschi eseguito da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico della città toscana. 1344. Siena, Archivio di Stato. La scena mostra un vecchio seduto in trono, la personificazione del Comune, che indossa un abito bianco e nero (i colori di Siena) e regge tra le mani le insegne del potere: lo scettro e uno scudo recante il sigillo municipale.

Per il bene comune? Ambrogio Lorenzetti ha consegnato alla storia uno dei cicli affrescati piú importanti dell’arte di ogni tempo, l’Allegoria e gli Effetti del Buono e del Cattivo Governo, situato a Siena, nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico. Si tratta di una composizione grandiosa, nella quale, al realismo dei paesaggi – che ci restituisce un’immagine vivida e fedele della città toscana e del suo territorio –, si unisce il valore «programmatico» dell’opera: una sorta di manifesto politico dell’allora potente Repubblica


Dossier

I I

l dipinto del celebre ciclo detto del Buon Governo, situato nella Sala della Pace (o dei Nove) in Palazzo Pubblico a Siena, offre una delle piú importanti e piú interessanti chiavi di lettura della vita comunale nell’Italia Centrale fra il XIII e il XIV secolo. Se ciò è vero per quanto riguarda molti degli aspetti della vita quotidiana, delle consuetudini e della vita politica dell’epoca, lo è altrettanto per ciò che attiene la comunicazione politica. Godere della bellezza artistica del dipinto realizzato da Ambrogio Lorenzetti significa dunque confrontarsi con una delle prime e piú

Salvo diversa indicazione, tutte le immagini che corredano questo Dossier si riferiscono al ciclo Allegoria e gli Effetti del Buono e del Cattivo Governo, affrescato da Ambrogio Lorenzetti, fra il 1338 e il 1339, nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena.

importanti esperienze di comunicazione politica, sia iconografica che scritta, ricca di messaggi piú o meno subliminali che colpiscono nell’immediato l’immaginario e l’istinto dell’osservatore, a prescindere dal fatto se esso sia o meno conscio delle dinamiche storico-politiche che ne portarono alla commissione e alla realizzazione. Per poter comprendere perché questo dipinto sia venuto al mondo, che cosa esso voglia trasmetterci e, soprattutto, quali siano le tecniche rivoluzionarie di comunicazione a esso legate, occorre innanzitutto analizzare il contesto storico e il

In alto il Palazzo Pubblico di Siena, affacciato sulla piazza del Campo. L’edificio è stato costruito fra il XII e il XIV sec. A destra la Sala della Pace (o dei Nove), sulle cui pareti si svolge il ciclo affrescato da Ambrogio Lorenzetti.

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«clima politico» che si poteva respirare nella Siena del Trecento.

Aspre divisioni

La Siena del XIII e XIV secolo aveva visto lo sviluppo di una forma di governo estremamente innovativa e che, contestualmente alle altre città del Centro-Nord della Penisola, rappresenta un’esperienza unica. Il riferimento è ovviamente al Comune; da non intendere in alcun modo con

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esperienze di tipo moderno, ma, per dirla con le parole di Paolo Cammarosano, «un governo cittadino popolare, cioè un sistema politico che pur conoscendo una predominanza economica e sociale di persone e famiglie nobili e pur facendo uno spazio larghissimo alla nobiltà, (…) Tuttavia cercò di affermare una autonomia del governo politico dalla privata influenza di quelle persone e famiglie, un ordine pubblico il piú

possibile protetto dalla preponderanza nobiliare e dalla turbolenza del modo di vita aristocratico». Come anticipato, Siena non fu l’unica città italiana a vivere un’esperienza di questo tipo e sono molti gli esempi di realtà comunali che nel Medioevo hanno scritto la storia della Toscana, dell’Italia Centrale e in parte dell’Italia Settentrionale. La particolarità senese risiede però nelle turbolente e, per certi novembre

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la storia di sapía

Uno scontro durissimo «Io fui sanese», rispuose, «e con questi / altri rimondo qui la vita ria, lacrimando a colui che sé ne presti. / Savia non fui, avvegna che Sapía fossi chiamata, e fui de li altrui danni / piú lieta assai che di ventura mia. E perché tu non creda ch’io t’inganni, / odi s’i’ fui, com’io ti dico, folle, già discendendo l’arco dei miei anni. / Eran li cittadin miei presso a Colle in campo giunti co’ loro avversari, / e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle». (La Divina Commedia, Purgatorio, Canto XIII) Questi versi provengono dal XIII canto del Purgatorio della Divina Commedia di Dante Alighieri e, nel racconto della storia di Sapía, donna senese parente della guida ghibellina Provenzano Salvani – la quale gioisce per la sconfitta dei suoi concittadini contro la guelfa Firenze –, risiede tutta la drammaticità di uno scontro aspro, estremamente acceso che era in pieno svolgimento nel cuore di Siena già, all’incirca, dalla metà del XIII secolo. In alto Dante incontra Sapía nel Purgatorio, olio su tela di Adeodato Malatesta. 1839 circa. Modena, Collezione privata. A sinistra particolare degli Effetti del Buon Governo: una scena di vita quotidiana nella città di Siena, con botteghe, artigiani al lavoro, nonché un pastore che conduce il gregge.

versi, drammatiche conseguenze del repentino cambiamento di schieramento politico (anche se forse sarebbe piú corretto dire assetto politico-economico) che portarono la città a modificare la propria posizione da roccaforte ghibellina, fedele all’imperatore, a realtà guelfa. Non tragga però in inganno la dicotomia tra papato e impero, poiché i motivi del cambiamento, cosí come le sue conseguenze, fu-

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rono molto piú strettamente legate a dinamiche interne alla città di quanto si possa immaginare.

Una società in crisi

Siamo nel 1269 e il ghibellinismo senese accusa un durissimo colpo a seguito della sconfitta di Colle Val d’Elsa, subita appena un anno prima contro Firenze. Che questo fosse il colpo di grazia a un sistema politico affetto da lacerazioni

interne tanto grandi da determinare il collasso della società stessa lo si evince anche dalla letteratura e da un personaggio in particolare: Sapía, ricordato nel Purgatorio di Dante (vedi box in questa pagina). Teniamo dunque conto che un periodo di stabilità politica successivo a questo momento di forti contrasti sociali verrà a instaurarsi, come ci dice William Bowsky, solo a partire dal 1287 con l’ascesa

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Dossier definitiva dei Nove e la strutturazione di una complessa riorganizzazione del tessuto politico-amministrativo del territorio. Nella prima metà del XIV secolo, dunque, la città di Siena, che contava una popolazione di circa 42 000 abitanti, vive nel pieno della maturità di una nuova fase politica. Proprio in questo contesto si trova a operare Ambrogio Lorenzetti nel momento in cui gli viene commissionata la realizzazione del dipinto della Sala della Pace in Palazzo Pubblico. Su quale sia la corretta interpretazione da dare al dipinto del Buon Governo esistono una letteratura piuttosto ampia e un dibattito in

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generale molto vivace, ma che, a giudizio di chi scrive, prendono le mosse principalmente dall’analisi di due studiosi, risultati fondamentali nell’affrontare il tema delle fonti che ispirarono la realizzazione del dipinto. Uno di questi è Nicolai Rubinstein, che rivede nel dipinto di Lorenzetti il messaggio politico di Aristotele e di Tommaso d’Aquino.

Come un sovrano

L’elemento forse piú importante alla base del ragionamento di Rubinstein è rappresentato dal vecchio Reggente, circondato dalle virtú, che si trova a destra nella raffigurazione centrale dell’affresco. Questi, ipotizza Rubinstein, pur ri-

cordando la figura di un sovrano, rappresenterebbe simbolicamente non un individuo, bensí la Repubblica di Siena stessa. L’ipotesi è avvalorata da tre elementi figurativi fondamentali: la veste bianconera, la sigla C.S.C.C.V. (che egli interpreta come: Comune Senarum Cum Civilibus Virtutibus) e la presenza della lupa che allatta i gemelli. Ma se ci si limitasse a intendere, sic et simpliciter, il vecchio Reggente come la città di Siena non si comprenderebbe il reale messaggio politico cosí ben congegnato dietro questa figura. L’altro aspetto fondamentale, infatti, è che essa rappresenti anche la personificazione stessa del bene comune, cosí come

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facilmente si evincerebbe dalla didascalia presente nella cosiddetta Canzone del Buon Governo, «Un ben comun per lor signor si fanno», intendendo quindi il bene comune rappresentato dalla figura del Reggente e, di conseguenza (mi sentirei di aggiungere), dall’esistenza stessa della Repubblica di Siena. È su questo, dunque, che Rubinstein poggia la sua teoria di un’influenza teorica aristotelico-tomistica non solo dietro al dipinto, ma probabilmente anche alla sua commissione. Il bonum commune è un concetto propugnato da Aristotele e ripreso successivamente da Tommaso d’Aquino, cosí come da molti degli allievi di Tommaso (in partico-

lare Remigio de’ Girolami), vissuti fino agli anni Venti del XIV secolo. Si tratta di un indizio molto forte a favore del fatto che questo tipo di idee, relativamente al concetto di pro communi bono, circolassero con ogni probabilità al momento della commissione e realizzazione del dipinto di Ambrogio Lorenzetti e che avessero un peso ideologico e politico molto forte sulla classe dirigente del tempo (ancor di piú in un periodo di consolidamento di una nuova organizzazione della società, figlia in parte del riscatto socio-economico del ceto mercantile, ma con alle spalle lunghi periodi di lotte intestine alla Repubblica). Relativamente alle virtú teologali, Rubinstein afL’Allegoria del Buon Governo. Sulla sinistra, si vede la Giustizia, assistita dalla Sapienza, che è sopra di lei e regge la tradizionale bilancia. Sulla destra, la composizione è dominata dalla figura del vecchio Reggente, vestito con i colori di Siena (bianco e nero); sopra di lui volteggiano le virtú teologali – Fede, Carità e Speranza –, mentre ai suoi lati siedono le quattro virtú cardinali – Giustizia, Temperanza, Prudenza e Fortezza –, alle quali si aggiungono la Pace e la Magnanimità.

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ferma come il ruolo piú rilevante spetti alla piú importante di esse, la Caritas (una conferma gli viene fornita da Tolomeo da Lucca, allievo di Tommaso d’Aquino).

Le due giustizie

La posizione della Caritas, posta al di sopra del Reggente, non sembra essere casuale, ma quasi volta a volerlo guidare o ispirare nelle proprie azioni. Una relazione molto simile si nota immediatamente nella parte sinistra del dipinto centrale, dove la Justicia è sormontata dall’immagine della Sapientia. Peraltro Rubinstein rinviene proprio nella Giustizia un secondo chiaro rimando alle teorie aristoteliche, poi riprese da Tommaso d’Aquino. Stiamo parlando della distinzione tra giustizia distributiva e giustizia commutativa. Rubinstein va oltre la semplice interpretazione visiva, ipotizzando che possano insistere sul dipinto delle influenze legate al trattato sulle leggi contenuto all’interno della Summa Theologica di Tommaso d’Aquino, secondo il quale è appunto la saggezza divina che sta alla base del diritto positivo, e il diritto naturale è primario rispetto a quello dell’uomo. Per quanto attiene le virtú politiche di Pax e Concordia, Rubinstein ritiene che esse siano difficilmente rinviabili alle fonti tomistiche, ma rimandino piuttosto a ispirazioni all’antica Roma, in particolare il binomio Pax-Securitas. Uno degli elementi forse piú importanti, tuttavia, che lega insieme le immagini del primo dipinto del Buon Governo e che rafforza il rinvio alle teorie aristotelicotomistiche è, sicuramente, l’elemento della corda. La doppia corda parte dalla Giustizia (come abbiamo visto guidata dalla Sapienza) e giunge fino al vecchio Reggente, a dimostrazione della funzione fondamentale di guida della giustizia sia rispetto al bene comune, sia rispetto alle altre virtú politiche. Non a caso, sottolinea ancora Ru-

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Dossier binstein, proprio in Tommaso d’Aquino si ritrova il fortissimo nesso tra la legge e il bene comune. L’altro grande protagonista dello studio sul messaggio politico del Buon Governo è Quentin Skinner. Questi sceglie di schierarsi contro l’interpretazione data da Rubinstein e di attribuire l’Allegoria e gli effetti del Buono e del Cattivo Governo a influenze teoriche discendenti molto di piú dalle dottrine preumanistiche rispetto a quelle aristotelico-tomistiche. Alla base del suo ragionamento sta la diversa interpretazione della figura del vecchio Reggente e, soprattutto, della già citata frase «un ben comun per lor signor si fanno». Secondo questa nuova teoria, infatti, l’interpretazione data da Rubinstein, il quale l’aveva vista come la scelta di considerare come proprio «sovrano» il bene comune, sarebbe sbagliata. Piuttosto, afferma Skinner, essa starebbe a significare come il bene comune possa essere raggiunto grazie alla presenza del loro signore.

Lo Stato ideale

Per «Signore» s’intenderebbe in questo caso solo una rappresentazione simbolica della signoria, ma nel concreto si vuole raffigurare la presenza di autorità elette dai cittadini e vincolate dalle leggi provenienti sempre dalla Giustizia, guidata dalla Sapienza. Proprio in questa scena del dipinto, il passaggio della corda attraverso i ventiquattro uomini, dalla Giustizia al Reggente, risiederebbe la conferma della fondatezza di questa teoria. Una condizione che Skinner ritrova nell’ideale di Stato tipico delle fonti preumanistiche. Per Skinner, dunque, il Reggente è la personificazione delle autorità elettive della città. Tuttavia, è per l’inquadramento delle virtú che, a mio modo di vedere, la teoria di Skinner appare molto piú debole. Un caso su tutti risulta emblematico: la Sapientia. Skinner, come detto, concorda sul

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ruolo centrale della Giustizia all’interno del dipinto e sul suo legame con il Reggente, ma allo stesso tempo afferma che la Sapienza come guida indiscutibile della stessa Giustizia sia un concetto teorico rinvenibile in Cicerone. Non si spiega, tuttavia, il legame tra l’origine divina della Sapienza cosí come evidentemente raffigurata da Lorenzetti, che la inserisce infatti tra le virtú teologali, e il concetto di sapienza come sostenuto da Cicerone, il quale ne faceva discendere la virtú esclusivamente dall’intelletto umano. Una contraddizione che lo stesso

Sulle due pagine i protagonisti principali dell’Allegoria del Buon Governo: la Giustizia (in alto) e il vecchio Reggente (nella pagina accanto). Nel tempo, il secondo personaggio è stato variamente interpretato dagli studiosi: per esempio, come personificazione della stessa Siena o del concetto di bene comune.

Skinner evidenzia, ma che giustifica come una sorta di «licenza artistica» di Lorenzetti. A questo punto lo studioso affronta proprio il problema della Giustizia. Come giustificare la compresenza di giustizia commutativa e distributiva? Skinner affernovembre

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Dossier Il volto della Sapienza, nell’Allegoria del Buon Governo. La figura appare coronata e con un libro nella mano sinistra; con la destra regge invece la bilancia (vedi foto a p. 94), attraverso la quale la Giustizia svolge il suo compito.

sente nelle fonti preumanistiche, e su questo si potrebbe dire che Rubinstein e Skinner convengano. Il problema nasce relativamente alla centralità del ruolo della Pax nella visione di Skinner, il quale si convince che essa rappresenti il valore piú importante del dipinto poiché sta «in medio» e giacché le fonti latine erano solite porre le virtú piú importanti in mezzo, ciò varrebbe anche per la Pace nel dipinto di Lorenzetti.

Qualche forzatura

ma che, sebbene i termini utilizzati (commutativa e distributiva) siano inequivocabilmente da attribuire ad Aristotele, questo non può avere nulla a che vedere con il tipo di interpretazione che ne dà Lorenzetti nel proprio dipinto e che non esiste un coordinamento tra giustizia commutativa e distributiva né in Aristotele, né in Tommaso d’Aquino. Un’affermazione che alcuni studiosi hanno contestato rinviando all’Etica nicomachea. Nonostante potesse esservi un

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punto di incontro, in Skinner si ritrova una diversa lettura anche di Pax e Concordia che, se per Rubinstein rappresenterebbero piú l’effetto delle altre Virtú, situate alla sinistra e alla destra del Reggente, tanto da fargli ammettere un ammissibile rimando a fonti preumanistiche, per Skinner sarebbero molto di piú: si tratterebbe di una sorta di obiettivo finale da raggiungere. Una visione teorica che non si ritrova originariamente in Tommaso d’Aquino, mentre è molto piú pre-

Tuttavia, notano alcuni, nelle fonti latine solitamente non è Pax a stare «in medio». Inoltre, come aveva precedentemente sottolineato Rubinstein, la virtú principale per Lorenzetti, soprattutto alla luce della parte scritta del dipinto (fondamentale tanto quanto la parte grafica), non sembra essere la Pace, bensí la Giustizia. Infine vengono prese in esame la Temperantia e la sua raffigurazione con l’oggetto simbolico della clessidra. Non c’è in Tommaso d’Aquino, afferma Skinner, nessun riferimento al tempo e alla clessidra collegato alla Temperanza; piuttosto è in Cicerone che si ritrova un rimando alla moderazione del tempo. L’impressione è che vi sia in Skinner, in generale, una certa tendenza a giustificare la propria teoria e il legame con le dottrine preumanistiche con diverse forzature. Riklin, per esempio, afferma che in Skinner le fonti preumanistiche sembrano prendere il sopravvento rispetto al dipinto di Lorenzetti stesso. Un po’ come se lo sforzo fosse quello di adattare il dipinto alle fonti e non partire imprescindibilmente dall’opera per comprenderne l’originale missione. novembre

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NARRAZIONE BIPOLARE E TIRANNIDE

ALCUNE PARTICOLARITÀ DEL DIPINTO DI AMBROGIO LORENZETTI Ho voluto cominciare da qui perché è abbastanza unanime la convinzione che proprio le interpretazioni fornite da Rubinstein e Skinner costituiscano la base del ragionamento per l’analisi iconografica dell’affresco del Buon Governo. Dopo di loro, tutti gli studiosi che si sono soffermati su questa tematica hanno finito per schierarsi a favore dell’una o dell’altra versione. Oltre l’analisi delle possibili fonti che furono alla base del messaggio politico del ciclo, esiste una serie di aspetti assolutamente interessan-

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ti, che ci consentono di osservare concretamente lo sviluppo di un linguaggio del tutto nuovo e la creazione di quello che potremmo definire un vero e proprio «codice» comunicativo, basato sulle immagini e sulle parole, capace di racchiudere un messaggio politico ben definito e fonte indispensabile per la comprensione del contesto storico della Siena medievale. Partiamo da un presupposto chiave: nel Medioevo la propaganda non poteva che essere ispirata, almeno nelle modalità rappresenta-

Allegoria del Cattivo Governo. La scena ha come protagonista la Tirannide, presentata come una creatura mostruosa, con zanne, corna, una capigliatura demoniaca, occhi strabici e piedi artigliati. La figura fa da contraltare al vecchio Reggente del Buon Governo.

tive, da quella risorsa straordinaria di messaggi iconografici che era da sempre il mondo ecclesiastico. L’immagine del Comune rappresentato come vecchio Reggente era abbastanza diffusa nella pittura del XIV secolo, in particolare nella forma del

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Sulle due pagine particolari dell’Allegoria del Cattivo Governo. A sinistra, il volto della Tirannide; in alto, la Giustizia, caduta in disgrazia a causa del malgoverno: è rappresentata a terra, soggiogata, spogliata del mantello e della corona, e con le mani legate.

cosiddetto «Comune Rubato», che a sua volta traeva ispirazione dalla rappresentazione della Chiesa perseguitata dai suoi nemici. Del resto l’immagine del Comune Rubato, cosí come quella della Chiesa perseguitata si rifacevano allo stesso tipo di messaggio. Se l’immagine della persecuzione ingiusta della Chiesa aveva lo scopo di invitare lo spirito dei fedeli a non dubitare del giudizio divino e a rac-

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cogliersi nella fede, cosí l’immagine del Comune Rubato (o Comune Pelato) rappresentava soprattutto un invito ai cittadini a disprezzare coloro che cercavano di «aggredire» il Comune (e quindi il bene comune) per il proprio interesse personale, sia attraverso la lotta per l’ottenimento di una qualche sorta di supremazia, sia anche tramite il non rispetto delle leggi.

Conseguenze nefaste

Contestualmente voleva essere una sorta di monito a non seguire certe linee di condotta comportamentale perché le conseguenze sarebbero state sicuramente nefaste per gli aggressori. Non è questo l’unico caso. Si può notare infatti come la

rappresentazione da un lato degli effetti del Buon Governo e quelli del Cattivo Governo dall’altro (un tempo chiamati affreschi della Pace e della Guerra), richiamino l’immagine del Paradiso e dell’Inferno. In modo particolare, gli Effetti del Buon Governo sarebbero una trasposizione della Civitas Dei nella Civitas Mundi. Anche per il Buon Governo, quindi, nasce in questo contesto la scelta di creare un’iconografia del Comune e una sua personificazione nell’immagine volutamente «sovrana» del vecchio Reggente. A esso vengono affiancate le Virtú con il preciso intento di costruire e rappresentare un patrimonio valoriale ideale attorno all’immagine figurata del Comune.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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In alto particolare della raffigurazione di Timor nell’Allegoria del Cattivo Governo. A sinistra Arezzo, Duomo. La formella del cenotafio del vescovo Guido Tarlati che raffigura il Comune Pelato, alludendo al malgoverno dei predecessori del presule: vi si vede un uomo a cui altri tirano la barba. 1327-1330.

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C’è però da dire che, rispetto alle rappresentazioni del Comune Rubato, sostanzialmente coeve al Buon Governo di Lorenzetti, vi siano nel dipinto senese anche differenze sostanziali, che lo rendono totalmente unico. Qui, infatti, l’immagine vera e propria del Comune Rubato, come conferma Maria Monica Donato, non esiste. Il richiamo piú simile che può essere scorto è quello che riguarda la Giustizia, che, se nel Buon Governo scinde a metà il protagonismo dell’affresco con il Reggente, nel Cattivo Governo è incatenata e fatta prigioniera. L’altro aspetto importante da sottolineare è che anche le rappresentazioni del Comune Rubato avevano una chiave di lettura, per cosí dire, «bipolare», ossia una fase negativa e una positiva della narrazione. Tuttavia, nel Comune Rubato la fase negativa è sempre precedente a quella positiva e il Comune è finalmente trionfante sui suoi persecutori. Nel dipinto di Lorenzetti, invece, l’attacco della narrazione è proprio dall’allegoria del Buon Governo, alla quale seguono gli effetti e solo successivamente si passa alla narra-

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Particolare delle architetture in cui è inserita l’Allegoria del Cattivo Governo. Nel ciclo affrescato da Lorenzetti, spicca il realismo della rappresentazione, che mostra un’immagine fedele della città di Siena e del suo territorio.

zione del Cattivo Governo, dove peraltro è presente una figura assolutamente unica: la Tirannide. È questo, forse, uno degli aspetti dirimenti della questione, il motivo per cui è comprensibile che studiosi come Skinner e, successivamente, Patrick Boucheron abbiano voluto provare a proporre contributi e punti di vista diversi allo studio interpretativo. Ciò non sarebbe stato possibile se la lettura del Buon Governo fosse stata, cosí come per le altre opere

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artistiche per cosí dire «politiche» del XIV secolo, agilmente preimpostata dal percorso narrativo di allegoria ed effetti. La scelta di tenere come punto di partenza e come perno della narrazione l’Allegoria del Buon Governo è una scelta particolarissima che si presta a interpretazioni diverse.

Costituzioni a confronto

Da qui nasce la disputa tra sostenitori della dottrina aristotelica e coloro che invece rivedono nel messaggio del dipinto le teorie preumanistiche. Per i primi, il messaggio va letto nel suo insieme e, in particolare, nell’antitesi delle due figure dominanti: vecchio Reggente, nonché bene comune, o Comune

di Siena, o ancor piú esplicitamente governo di molti in raffronto alla Tirannide, il governo di un solo uomo. Quindi si tratterebbe a tutti gli effetti di un contrasto fra due diverse costituzioni. Per i secondi, il messaggio, letto nella sua sequenzialità, porterebbe a una visione piuttosto timorosa, o comunque volutamente minatoria, delle conseguenze derivanti del cattivo governo. Boucheron, in particolare, ritiene che nel dipinto esista un messaggio esplicitamente ammonitorio nei confronti del rischio dell’avvento della signoria. Tanto da ipotizzare che la città rappresentata nel Cattivo Governo sia in realtà una raffigurazione di Pisa e del suo recente (al tempo) destino signorile. novembre

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A destra particolare della personificazione del Furore, rappresentata accanto alla Tirannide nell’Allegoria del Cattivo Governo (vedi l’immagine d’insieme a p. 97).

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Dossier LA PAROLA OLTRE L’IMMAGINE

LA COMUNICAZIONE VERBALE NELLA SALA DELLA PACE

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Quando guardiamo l’affresco del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti nella Sala della Pace, siamo istintivamente portati a soffermarci in modo piú marcato sulle immagini e a cercare di cogliere una immediata lettura scenica e narrativa dell’opera rifacendoci esclusivamente all’iconografia. Ciò è normale se si considera che il cervello umano lavora per associazioni di idee e non per codici come un computer e questo è cosí da sempre, dalla pittura rupestre primitiva alla pubblicità contemporanea. Il linguaggio scritto, invece, è per l’appunto un codice che l’uomo si è dato per la trasmissione dei messaggi ed è estremamente interessante rilevare come, senza indugiare su eccessivi simbolismi, dietrologie o elucubrazioni particolarmente fantasiose, Ambrogio Lorenzetti e i Nove avessero elaborato una sorta di «guida» alla lettura dell’opera, che evidentemente doveva essere volutamente comprensibile e di impatto immediato sull’osservatore.

Un documento prezioso

Sessantadue versi in lingua volgare compongono la «Canzone del Buon Governo». Oggi alcune parti del poema non sono piú leggibili. Tuttavia, uno studio condotto da Furio Brugnolo, ripreso da Rosa Maria Dessí, ha riportato alla luce il piú antico manoscritto che contiene la quasi totalità dei versi. Un documento del XV secolo conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. Un primo aspetto fondamentale da notare è la contrapposizione speculare, cosí come già avviene per le immagini, anche dei versi, come altrettanto lo è la scelta di far partire la narrazione, in entrambi i casi, dalla Giustizia. Si legge nel Buon Governo: «Questa sancta virtú, là dove regge, induce ad unità li animi molti, Particolare degli Effetti del Buon Governo: una scena di vita campestre.

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e questi a cciò ricolti, un ben comun per lor signor si fanno lo qual, per governar suo stato, elegge di non tener giamma’ gli occhi rivolti da lo splendor de’ volti de le virtú che ‘ntorno a lui si stanno. Per questo con triunfo a llui si danno Censi tributi e signorie di terre, per questo senza guerre seguita poi ogni civile effetto utile, necessario e di diletto». Sarebbe a mio avviso sufficien-

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te la sola lettura di questi versi, associata alle immagini dell’Allegoria del Buon Governo, a giustificare a pieno titolo la teoria di Rubinstein di una visione aristotelica e tomistica dell’opera. Un concetto che, in realtà viene ancor di piú rafforzato dai versi speculari presenti sotto la Giustizia imprigionata del Cattivo Governo: «Là dove sta legata la iustitia, nessuno al ben comun già mai s’accorda, né tira a dritta corda:

però convien che tirannia sormonti, la qual, per adempir la sua nequitia, nullo voler né operar discorda dalla natura lorda de’ vitii che con lei son qui congionti. Questa caccia color c’al ben son pronti e chiama a sé ciascun c’a male intende; questa sempre difende chi sforza o robba o chi odisce pace, unde ogni terra sua inculta giace». Oltre ai versi che descrivono le allegorie, il poema prosegue nella novembre

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Giovani donne danzanti raffigurate negli Effetti del Buon Governo.

questa virtú ke piú d’altra risprende. Ella guarda e difende chi lei onora e lor nutrica e pascie; da la suo lucie nascie el meritar color c’operan bene e agl’iniqui dar debite pene». Al di là degli elementi stilistici notati da Rosa Maria Dessí e i richiami alla pittura infamante tipica del periodo, questo elogio della virtú della Giustizia, se si vuole, fuga ogni dubbio sul significato attribuibile al coordinamento tra la giustizia commutativa e quella distributiva che voleva essere rappresentato nel dipinto. Cercando di non soffermarmi eccessivamente sull’analisi del testo, la cui portata simbolica e il cui legame con il significato del dipinto mi sembrano già sufficientemente evidenti, concluderei con l’altro aspetto estremamente interessante, rappresentato dai cartigli che, sorretti dalle Virtú di Securitas nel Buon Governo e Timor nel Cattivo Governo, rappresentano una sorta di morale, una chiosa saggia a quello che appare come un chiaro ragionamento che si sviluppa simultaneamente in parole e immagini. Nelle mani di Securitas si legge: «Senza paura ogn’uom franco camini e lavorando semini ciascuno, mentre che tal comuno manterrà questa donna in signoria ch’el à levata a’ rei ogni balia». narrazione degli effetti del Buono e del Cattivo Governo, ancora con il medesimo stile e con lo stesso andamento speculare. Si legge nella parete est: «Volgete gli occhi a rimirar costei, vo’ che reggiete, ch’è qui figurata e per su ecciellenzia coronata, la qual sempr’a a ciascun suo dritto rende. Guardate quanti ben’ vengan da lei e come è dolce vita e riposata quella della città du’è servata

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Nel cartiglio di Timor invece sta scritto: «Per voler el ben proprio, in questa terra Sommess’è la giustizia a tyrannia, unde per questa via non passa alcun senza dubbio di morte, ché fuori si robba e dentro de le porte». Alla luce di tutto questo credo si possa affermare che la parte scritta dell’opera richiami l’attenzione in modo particolare sul ruolo della

Virtú della Giustizia all’interno del dipinto e vi si focalizzi in maniera imprescindibile. Essa diventa il fulcro della narrazione e sia nel Buono che nel Cattivo Governo, la sua posizione, il rapporto ideale che si ha nei suoi confronti, è centrale rispetto all’evolversi e allo svilupparsi di tutto il resto e nell’affresco del Lorenzetti il punto di attacco è rappresentato proprio dalla Giustizia del Buon Governo. Non è dunque un caso che nella Canzone si faccia riferimento alla Giustizia in maniera sia implicita che esplicita, con la parola che compare inconfondibilmente per tre volte e con almeno una decina di rimandi impliciti (Questa sancta virtú, Volgete gli occhi a rimirar costei, Guardate quanti ben’ vengan da lei, questa virtú ke piú d’altra risprende…). Questo ci riporta a considerare l’importante affermazione di Maria Monica Donato che sottolinea come il «buono stato», nel dipinto, non sia una fase auspicata o che si prevede arriverà per esigere giustizia sui malfattori, ma è «qui e ora».

Storia e propaganda

Se è vero che dalla lettura della narrazione verbale del Buon Governo emerge un ruolo fondamentale della Giustizia, tutto quello che abbiamo detto fin qui va letto, a mio avviso, sotto una duplice chiave di lettura. Da un lato storica, nel tentativo di contestualizzare il piú possibile il dipinto di Lorenzetti al momento della sua realizzazione, dall’altro comunicativo-propagandistica, cercando di capire quale ruolo potesse avere una simile opera nei termini del suo messaggio politico piú immediato e piú agilmente percepibile. Partirei da qui e dal contributo di Chiara Frugoni. Dobbiamo immaginare, infatti, che primi destinatari del messaggio politico all’interno del Buon Governo erano principalmente il governo della città, i membri del consiglio e i cittadini.

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Un altro particolare degli Effetti del Buon Governo: si tratta in questo caso della bottega di un calzolaio, in cui si possono riconoscere sia i prodotti finiti e venduti, sia gli arnesi per la loro fabbricazione.

In questo senso, è difficile pensare che potesse esservi una rappresentazione, anche simbolica, che si rifacesse alla venerazione «personale» dei reggenti. Non sembra convincente una rappresentazione di un governo impaurito, timoroso dell’avvento delle signorie. Piuttosto si può pensare che vi fosse la volontà di propagandare il culto di una determinata forma di governo (richiamo all’aristotelismo proposto da Rubinstein) o il perseguimento di alcuni comportamenti sulla base principalmente del diritto naturale, cosí come teologicamente inteso. Non dimentichiamo che, come detto all’inizio, in quegli anni e in quelli subito precedenti (in particolare tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo), Siena aveva visto il consolidamento istituzionale dell’egemonia mercantile e del regime di popolo che aveva innescato una rivoluzione anche nella realizzazione del messaggio politico a partire già dalla stessa architettura (Palazzo Pubblico è del 1281).

Come un’esortazione

Si può dunque condividere l’affermazione di Pierangelo Schiera, il quale rileva come il messaggio dietro il lavoro di Lorenzetti, commissionato, consigliato o semplicemente condiviso dai Nove, fosse essenzialmente un suggerimento ai suoi concittadini, un tentativo di convincere la propria gente a seguire una determinata linea di condotta. Un messaggio che doveva certamente essere figlio della storia recente di Siena e delle sue aspre lotte intestine, che avevano portato a un disordine tale da condurre la città sulle soglie del collasso e della guerra civile, e in questo le influenze esterne o le paure di vicende di città

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e contesti vicini (cosí fortemente richiamate da Skinner e Boucheron), avrebbero un peso davvero minore rispetto all’attenzione che Lorenzetti voleva che Siena riponesse su sé stessa e le sue vicende. Schiera concentra la sua analisi in modo particolare sulla posizione «melancolica» della pace. Una posizione che descriverebbe, nella sua visione, la fragilità della pace e il fatto che essa si regga su alcuni elementi raffigurati nell’Allegoria del Buon Governo che tuttavia non sono esattamente la rappresentazione di una città felice. La corda che collega i cittadini, i prigionieri portati al cospetto del Reggente, la testa mozzata sulle ginocchia della Giustizia e poi, negli Effetti, la forca nelle mani della Securitas, piú che felicità sembrano voler esprimere regole ferree, una città perfettamente disciplinata. Quindi qui la chiave di lettura del ruolo della Pace è ribaltata rispetto a come la intendono Skinner e Boucheron. Possibile che, quando parla di Pace, Lorenzetti si riferisca principalmente alla pace interna? Possibile che la sua attenzione sia rivolta soprattutto all’importanza di avere un governo stabile, capace di eliminare i contrasti cittadini che potrebbero portare a una sorta di guerra civile? Ecco che ci viene in soccorso la storicizzazione del dipinto: siamo a Siena nel Trecento, siamo all’interno della sala decisionale del Palazzo Pubblico, dove la base per ogni sorta di ragionamento non poteva prescindere, certamente, dalla conservazione del potere costituito dei gruppi dominanti della città, ma comunque sempre nell’ottica del mantenimento di una repubblica. E questo nell’accezione piú tradizionale del termine Res Publica, cosí vicino al concetto di bene comune.

Un messaggio chiaro

Riprendendo in considerazione quanto fin qui detto, la mia visione personale si affianca molto di piú alla lettura che Rubinstein e lo stes-

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so Schiera hanno dato del dipinto. Il messaggio risulterebbe chiaro e immediato: per avere il bene comune, che con sé porta pace e sicurezza, è necessario creare un sistema organizzato che si regga su determinate virtú politiche le quali, messe assieme, contribuiscono alla realizzazione del benessere collettivo.

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Tuttavia, per farlo, è necessario che nessuno prevarichi sull’altro, che tutti concorrano all’ottenimento di questo risultato, anche assoggettandosi al «bene superiore», che è la collettività cittadina e che vi sia un sistema in grado di provvedere tanto alla equa distribuzione delle risorse, quanto alla giusta commi-

nazione delle pene. E qual è l’unico strumento che consente di non avere prevaricazioni, creare un sistema che regoli il comportamento dei singoli e garantire un governo solido? La giustizia. Ma la giustizia nelle mani di un uomo solo è un male, guidato dalla superbia, mentre dovrebbe essere la novembre

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Da leggere Duccio Balestracci, Gabriella Piccinni, Siena nel Trecento. Assetto urbano e strutture edilizie, Edizioni Clusf, Firenze 1977 Patrick Boucheron, «Tournez le dos pour admirer, vous qui exercez le pouvoir, celle qui est peinte ici». La fresque du Bon Gouvernement d’Ambrogio Lorenzetti, Annales, Historie, Sciences Sociales, LX 2005 William M. Bowsky, Un comune italiano nel Medioevo, Siena sotto il regime dei Nove 1287-1355, Il Mulino, Bologna 1986 Paolo Cammarosano, Il Comune di Siena dalla solidarietà imperiale al Guelfismo: celebrazione e propaganda in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, Collection de l’École Française de Rome-201, Roma 1994 Rosa Maria Dessí, Da Tofo Pichi ad Aristotele: visioni risorgimentali del «Buon Governo» di Ambrogio Lorenzetti, Rivista Storica Italiana 122 (2010) Rosa Maria Dessí, Il Bene Comune nella comunicazione verbale e visiva. Indagine sugli affreschi del Buon Governo, in Il Bene Comune, forme di governo e gerarchie sociali nel Basso Medioevo, CISAM, Spoleto 2012 Maria Monica Donato, «Cose morali Ancora un particolare degli Effetti del Buon Governo, raffigurante alcuni contadini impegnati nella mietitura del grano. Anche in questo caso, l’immagine si presenta quasi come una vera e propria «fotografia» dell’epoca.

sapienza (intesa come diritto naturale o diritto divino) l’unica guida della giustizia. Seguire l’Allegoria del Buon Governo porta ai suoi benefici effetti (una sorta di paradiso terreno), non seguirli conduce al Cattivo Governo, alla mancanza di pace e sicurezza e a quanto di piú simile all’inferno possa esistere sulla terra.

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In questo senso, ritengo che il messaggio politico contenuto all’interno del ciclo di affreschi del Buono e del Cattivo Governo ci riporti a un confronto tra due diverse forme di governo. Una, quella che oggi viene chiamata Buon Governo, doveva essere quella che i Nove avevano portato, o erano idealmente decisi

e anche appartenenti secondo e’ luoghi»: per lo studio della pittura politica nel tardo medioevo toscano, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, Collection de l’École Française de Rome-201, Roma 1994 Maria Monica Donato, Il Pittore del Buon Governo: le opere «politiche» di Ambrogio in Palazzo Pubblico, in Chiara Frugoni (a cura di), Pietro e Ambrogio Lorenzetti, Le Lettere, Firenze 2002 Chiara Frugoni, Una lontana città: sentimenti e immagini nel Medioevo, Einaudi, Torino 1983 Alois Riklin, La Summa Politica di Ambrogio Lorenzetti, Armando Dadò Editore, Locarno 2000 Nicolai Rubinstein, Political Ideas in Sienise Art: The Frescos by Ambrogio Lorenzetti and Taddeo di Bartolo in the Palazzo Pubblico, The Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, XXI Pierangelo Schiera, Il Buongoverno «melancolico» di Ambrogio Lorenzetti e la «costituzionale faziosità» della città, Scienza e Politica, n. 34, 2006 Quentin Skinner, Ambrogio Lorenzetti: The Artist as Political Philosopher, Proceeding of the British Academy, LXII 1986

a portare, nella città di Siena. Tuttavia non si può semplicemente ricondurre il messaggio politico alle singole personalità. Sebbene alcuni ritengano che i Nove possano essersi autorappresentati all’interno del dipinto in qualche modo, ricorrendo alla simbologia dei numeri, direi che, ai fini del messaggio, ciò è totalmente ininfluente, poiché quel che il Buon Governo ci dice travalica per sua natura i protagonismi, proprio perché figlio della teoria del bonum commune che lo ha generato, tanto da apparire incredibilmente attuale anche ai giorni nostri.

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Fra sogno e incanto MUSICA • Due recenti progetti musicali

esplorano con successo l’immaginario trecentesco, spaziando dai miti dell’antichità alle invenzioni dantesche

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nteramente giocata sul tema del sogno, della fuga dalla realtà, questa nuova antologia proposta dal Sollazzo Ensemble offre l’occasione per ripercorrere alcuni generi e stili in voga in Europa tra XIV e inizi del XV secolo. Un arco cronologico durante il quale si sviluppano innumerevoli generi e stili musicali che, dall’Ars Nova trecentesca, condurranno, passando per l’Ars subtilior, ai primordi dell’Umanesimo musicale. Un tragitto fatto di brani incantevoli e di molte rarità, che evocano, ciascuno a loro modo, un mondo trasognato, dove le delicate movenze polifoniche delle voci e degli strumenti producono un affascinante effetto incantatorio. Apre la raccolta l’anonimo El Cant de la Sibilla, d’origine catalana, nel quale, su una nota tenuta di bordone, si svolge il canto della sibilla che annuncia con una linea melodica di grande pathos l’arrivo del Giudizio Universale, ammonendo gli ascoltatori a un comportamento retto. Molto interessante anche il secondo brano, la Litania mortuorum discordans, basata sulla melodia gregoriana Memento mei, alla quale, secondo una tradizione tramandata nel Medioevo in area milanese, veniva associata una seconda voce

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volutamente discordante negli intervalli eseguiti, tanto da creare un effetto di estraniamento totale. Di straniamento, ma questa volta dovuto alla morte dell’amata, è intriso anche il madrigale Morte m’a sciolt’amor di Andrea Stefani (fine del XIV secolo), composto su alcuni versi dedicati alla morte di Laura e tratti dal Canzoniere petrarchesco.

Una confraternita misteriosa Di tutt’altro tono è la lauda Magdalena degna da laudare, proveniente dal Canzoniere di Cortona (seconda metà del XIII secolo), un canto di origine popolareggiante la cui esecuzione da parte dei «laudesi» aveva lo scopo di accompagnare le processioni. Alternando l’ascolto con alcune estampide strumentali, l’antologia si sofferma su due brani

particolarmente intriganti. Frutto della mente speculativa di Solage è una delle ballate piú «audaci», Fumeux fume par fumée (fine del XIV secolo), un ambiguo testo del poeta Eustache Deschamps, il quale si sofferma sulla figura del fumatore e sull’effetto del fumo – da oppio? – motivo ispiratore di una musica fortemente dissonante e, a tratti, vicina al linguaggio musicale contemporaneo. All’enigmatica «confrérie de Fumeux» appartiene anche l’ascolto di Puisque je sui fumeux di Hohannes Symonis de Haspre († 1428). Nei due brani finali, En ce gracieux temps di Jacob de Senlèche e l’anonimo Dedout! Vous dormez trop, l’onomatopeia, a imitazione del canto degli uccelli o degli strumenti musicali, adorna il tema dell’amore con una fantasia compositiva di grande fascino. novembre

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Con musicisti provenienti da esperienze diverse, il Sollazzo Ensemble è un gruppo di recente formazione, dedito al repertorio medievale e primo-rinascimentale, composto dalle incantevoli voci di Perrine Devillers, Yukie Sato e Vivien Simon, accompagnati agli strumenti da Sophia Danilevskaia (viella e viella ad arco), Vincent Kibildis (arpa), e Anna Danilevskaia che, oltre a dirigere il gruppo, si cimenta alla viella ad arco. Voci e strumenti sono accostati in maniera raffinata, esaltando le particolari dimensioni evocate dai brani.

En seumeillant. Dreams and visions in the Middle Ages Sollazzo Ensemble, dir. Anna Danilevskaia Ambronay, AMY 309, 1 CD https://editions. ambronay.org

La Divine Comédie. Inferno La Camera delle Lacrime, dir. Bruno Bonhoure En Live, VOC8354, 1 CD www. lacameradellelacrime. com

Guidati dal cantastorie All’immaginazione e all’esperienza fantastica conduce anche il secondo ascolto dedicato all’Inferno di Dante Alighieri. Ispirandosi all’opera del poeta, Bruno Bonhoure, alla guida della Camera delle Lacrime, e il regista Khaï-dong Luong hanno dato vita a uno spettacolo teatrale-musicale in cui un cantastorie d’altri tempi, attraverso l’accompagnamento musicale e la recitazione di alcuni passi, ripercorre i momenti salienti del viaggio dantesco, proposti nella traduzione francese settecentesca di Antoine de Rivarol. Affidata all’attore Denis Lavant e accompagnata dagli strumenti, la recitazione si apre con i primi famosi versi danteschi, per soffermarsi sull’incontro con le fiere, con Virgilio, e poi attraversare il Limbo e i vari gironi infernali. Un percorso segnato anche da incontri eccellenti, come quelli con il trovatore Bertrand de Born e il conte Ugolino. L’alternanza tra la recitazione e l’elemento musicale si sussegue senza soluzione di continuità con temi musicali vari, alcuni improvvisati nello stile dell’epoca, altri provenienti dai famosi Carmina Burana (brani di contenuto moraleggiante e satirico dell’XI-

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XII secolo contenuti in un codice proveniente dal monastero bavarese di Benediktbeuern), altri ancora dello stesso Bernard de Born; il tutto presentato con la sapiente regia teatrale di Khaï-dong Luong, che dal 2003 collabora con Bruno Bonhoure a progetti volti al recupero delle pratiche teatrali basate su fonti medievali. Se da un lato si potrebbe rimpiangere la mancanza dell’aspetto visivo di quello che è essenzialmente uno spettacolo nato per la messa in scena, dall’altro il puro ascolto della narrazione e delle musiche permette di concentrarsi ancor meglio sui testi narrati (con un’alternanza dell’italiano e del francese), e

di godere ancor piú dell’aspetto musicale, elemento essenziale di questo programma. Mentre, come già ricordato, la parte narrativa è affidata a Denis Lavant, la cui recitazione è sempre avvincente e carica di pathos, coinvolgendo a 360 gradi l’ascoltatore, la performance musicale è curata dal coro e dai solisti de La Camera delle Lacrime diretta da Bruno Bonhoure. L’accompagnamento si basa su strumenti della tradizione medievale come la viella d’arco e la lyra (Andreas Linos), le percussioni (Antoine Morineau) e la gironda, la cornamusa, i flauti e il douduk, strumento a doppia ancia d’origine armena (Christophe Tellart). Franco Bruni

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Catherine Nixey Nel nome della Croce La distruzione cristiana del mondo classico Bollati Boringhieri, Torino, 348 pp., ill. col.

24,00 euro ISBN 978-88-339-2969-9 www.bollatiboringhieri.it

Storica e giornalista, Catherine Nixey accende i riflettori su una storia probabilmente poco nota al di fuori della cerchia degli studiosi: Nel nome della Croce ripercorre infatti le drammatiche vicende che si susseguirono in epoca tardo-antica e che ebbero per protagonisti tutti quei

cristiani che, nel nome della dottrina che professavano, ritennero di dover cancellare ogni traccia delle culture che bollavano come «pagane». Risulta fin troppo facile cogliere le analogie con i terribili eventi che, a causa di fanatismi religiosi di varia matrice, da molti

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anni insanguinano vaste regioni del mondo e hanno già portato alla distruzione di un numero impressionante di monumenti e opere d’arte. Tuttavia, non è la ricerca delle possibili analogie ad aver guidato la stesura del volume, bensí il desiderio di analizzare un fenomeno al quale l’egemonia raggiunta dalla Chiesa – in particolare in Occidente – ha contribuito a mettere una sorta di sordina. Nixey ha articolato l’opera in forma di viaggio: un viaggio che nei suoi intendimenti originari avrebbe dovuto essere reale, quasi una sorta di pellegrinaggio, ma che poi – essendo nel frattempo divenuti del tutto impraticabili o comunque insicuri luoghi come la Siria o la penisola del Sinai – è stato compiuto perlopiú nelle biblioteche. Merita inoltre d’essere segnalato l’efficace espediente narrativo a cui l’autrice ha fatto ricorso, scegliendo una sorta di Virgilio dantesco nella persona del filosofo Damascio, attivo fra il V e il VI secolo, che nel 529 si vide costretto a chiudere l’Accademia di Atene e ad andare

in esilio in Persia, vittima dell’intolleranza cristiana nei confronti delle sue posizioni. È infatti nel suo nome che il libro si apre e si conclude, offrendo al lettore piú di uno spunto di riflessione su una materia delicata e sulla quale, peraltro, è da tempo in atto un vivace dibattito. Claudio Lattanzi Orvieto nel Medioevo Ascesa e declino

Intermedia Edizioni, Orvieto 270 pp., ill. col. b/n

13,50 euro ISBN 978-88-6786-189-7 www.intermediaedizioni.it

Tra la fine del XII e la prima metà del XIV secolo, Orvieto visse una sorta di età dell’oro, che ne fece una delle protagoniste della storia di quei secoli. Il Comune e poi la breve signoria di Ermanno Monaldeschi, morto prematuramente nel 1334, assicurarono alla città un notevole sviluppo, che ebbe significativi

riflessi anche nella realizzazione di insigni opere d’arte, prima fra tutte il Duomo. Di questa straordinaria fioritura dà ora conto Claudio Lattanzi, che ripercorre la vicenda con l’intento di evidenziarne i piú importanti esiti materiali, ma anche per analizzarne gli aspetti sociali, soffermandosi, per esempio, sul ruolo giocato dai seguaci dell’eresia catara o dai Templari. Una trattazione fluida, che offre un quadro esauriente di una stagione luminosa, che la scomparsa di Monaldeschi interruppe bruscamente, facendo perdere alla città della rupe la sua indipendenza e ridimensionando la centralità che aveva saputo ritagliarsi. Daniela Villani, Giuseppe Solmi, Alessandro Balistrieri Il Libro d’Ore Un’introduzione

Edizioni Nova Charta, Padova, 150 pp., ill. b/n + XXXIV tavv. col.

19,00 euro ISBN 978-88-7814-404-0 www.novacharta.it

Proprio come i Libri d’Ore a cui è dedicato, questo volume unisce l’agile formato a un

contenuto prezioso. Esso permette infatti di scoprire tutti i segreti di un prodotto che, come scrivono gli stessi autori, può essere considerato «un best seller del tardo Medioevo e del Rinascimento» e i cui possessori mostravano con orgoglio a parenti e amici, cosí come, negli anni Cinquanta del Novecento, facevano quelli che per primi si erano dotati di un apparecchio televisivo… Al di là del

parallelo scherzoso (anch’esso suggerito dagli autori), ma efficace, il libro è una miniera di notizie e ha il merito di non limitarsi alla sola descrizione dei Libri d’Ore, offrendo anche un’articolata ricostruzione del contesto storico e culturale nel quale queste raccolte di preghiere vennero realizzate. (a cura di Stefano Mammini) novembre

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