Medioevo n. 261, Ottobre 2018

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NE L’ U L M NI

MEDIOEVO n. 261 OTTOBRE 2018

ED VER IO SITÀ EV O

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

www.medioevo.it

Mens. Anno 22 numero 261 Ottobre 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

PRIME UNIVERSITÀ SVIZZERA

Nascita di una nazione

ANTEPRIMA

Tutti gli animali del Medioevo

PROTAGONISTI

Jan Zizka eroe contadino

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€ 5,90

BATTAGLIA DI CASILINO JAN ZIZKA UNIVERSITÀ ANIMALI DEL MEDIOEVO DOSSIER LA NASCITA DELLA SVIZZERA

LE

IN EDICOLA IL 3 OTTOBRE 2018



SOMMARIO

Ottobre 2018 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE Fare bancarotta

Nessuna pietà per gli insolventi

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ARCHEOLOGIA Un albergo sulla laguna

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RESTAURI Il maestro delle «buone cose» Tutti per il Santo

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MUSEI A tu per tu col genio

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APPUNTAMENTI I giorni della storia Falò di ottobre L’Agenda del Mese

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di Federico Canaccini

PERSONAGGI Jan Zizka Quel contadino che si fece eroe di Federico Canaccini

STORIE BATTAGLIE Casilino Trionfo bizantino

38 COSTUME E SOCIETÀ 38

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UNIVERSITÀ In principio fu lo Studium testi di Carla Frova e Antonio Ivan Pini

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CALEIDOSCOPIO

28

28

CARTOLINE Porta della Lombardia

106

LIBRI Lo scaffale

110

MUSICA Non c’è amore senza fortuna 112

STORIE Gli animali nel Medioevo Gli amici di Adamo di Furio Cappelli

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Dossier

SVIZZERA Nascita di una nazione di Roberto Roveda e Fabrizio Panzera

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NE L’ U L M NI

MEDIOEVO n. 261 OTTOBRE 2018

ED VER IO SITÀ EV O

MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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Mens. Anno 22 numero 261 Ottobre 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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21/09/18 13:03

MEDIOEVO Anno XXII, n. 261 - ottobre 2018 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Carla Frova è storica del Medioevo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Garbini è professore di letteratura latina medievale presso «Sapienza» Università di Roma. Nicoletta Giovè Marchioli è professore ordinario di paleografia presso l’Università degli Studi di Padova. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Fabrizio Panzera è storico della Svizzera italiana. Chiara Parente è giornalista. Antonio Ivan Pini († 2003) è stato professore ordinario di storia medievale presso Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Roberto Roveda è cultore della materia in storia medievale all’Università di Bergamo. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Album: copertina (e p. 52) e pp. 4, 44/45, 69, 70, 96/97, 100; Leemage: pp. 40, 43, 44, 55, 58-59, 61, 82, 104/105; AKG Images: pp. 41, 42, 68, 85, 90/91, 96, 98; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: pp. 50/51; AGE: pp. 60, 92 – Cortesia Università Ca’ Foscari, Venezia: pp. 6-9 – Cortesia Opificio delle Pietre Dure, Firenze: pp. 10-12 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 13-15 – Cortesia degli autori: pp. 17, 108 (alto) – Bridgeman Images: pp. 28, 36/37, 57, 62-65, 67, 99 – Doc. red.: pp. 28/29, 31, 32, 36, 66, 76/77, 101, 102-103 – Giorgio Albertini: disegno a p. 34 – Shutterstock: pp. 38/39, 86/87, 92/93, 94/95 – Getty Images: Radek Mica: pp. 46/47 – DeA Picture Library: M. Seemuller: pp. 56/57; S. Vannini: p. 88 – Da: Uomini e animali nel Medioevo. Storie feroci e fantastiche, Il Mulino, Bologna 2018: pp. 72-75, 77, 78-81 – Cortesia Oskar Cecere: p. 83 – Cortesia Agenzia di Accoglienza e Promozione Turistica Locale della provincia di Alessandria: pp. 106-107, 108/109 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 30/31, 33, 35, 89, 106.

Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano In copertina particolare di una miniatura raffigurante una lezione all’Università di Bologna, da un’edizione dell’Etica nicomachea di Aristotele. Berlino, Staatliche Museen.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Nel prossimo numero novembre 885

I Vichinghi alle porte di Parigi

itinerari

Ferrara medievale

dossier

Galvano, il cavaliere perfetto


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Nessuna pietà per gli insolventi

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l significato dell’espressione «fare bancarotta» è ben chiaro: essa viene utilizzata per esprimere, in modo figurato, il «fallire» o comunque l’«avere un insuccesso totale». Anche questa locuzione è legata alla storia medievale, e in particolare alle norme vigenti negli Statuti comunali nei quali venivano stabiliti diritti e doveri dei negozianti al minuto e dei «mercatanti» all’ingrosso. In particolare, con l’approssimarsi della fine del Duecento e la crescente crisi economica, si stilarono norme che riguardavano coloro i quali, in malafede, si rendevano insolventi e continuavano a ingannare i creditori: negli Statuti piú volte furono etichettati col titolo di «infamissimi». Il modo di dire è legato ai termini «bancae ruptio», cosí come si trovano scritti negli statuti e che indicavano, appunto, l’insolvenza, dolosa o colposa, del commerciante. Comunque, nel Medioevo, tutti i falliti, senza distinzione, erano ritenuti, frodatori e bancarottieri: «Decoctus, ergo fraudator». La dichiarazione di fallimento avveniva tramite una cerimonia pubblica a cui si deve l’origine del nostro motto. L’avvenimento spettacolarizzato consisteva nella rottura fisica del banco e nella chiusura del negozio dell’insolvente, da cui i termini di «bancarotta» e «bancarottiere». Uno dei casi piú celebri fu quello che travolse Firenze nel corso della cosiddetta Crisi del Trecento. A controllare il mercato internazionale vi erano le famiglie degli Scali, dei

Peruzzi e dei Bardi – veri e propri colossi della finanza del tempo –, dotate di enormi capitali, in grado di piazzare rappresentanti nei principali centri nevralgici d’Europa. Tra questi, i Bardi e i Peruzzi divennero addirittura controllori dell’ufficio del cambio del Regno d’Inghilterra. E proprio il legame con re Edoardo III causò l’ascesa e il tracollo di queste famiglie. Se all’inizio del secolo i fallimenti sono rari e occasionali, a partire dal 1340 fu chiaro che una crisi profonda stava per travolgere il mondo della finanza fiorentina (e non solo). Il Plantageneto, infatti, non sarebbe stato in grado di restituire l’esorbitante cifra di 1 365 000 fiorini che i mercanti-banchieri gli avevano prestato per coprire gli enormi costi della guerra contro la Francia. A peggiorare le cose, come anche oggi accade, vi fu il timore dei titolari dei depositi, che corsero immediatamente a prelevare i propri averi, e la sfiducia dei sovrani del Regno di Napoli, che provocarono il fallimento a catena degli Acciaioli, dei Bonaccorsi, dei Cocchi, degli Antellesi, dei Corsini e di molte altre nobili famiglie. La «bancarotta» a Firenze fu quasi totale al punto che «non rimase quasi sustanzia di pecunia ne’ nostri cittadini». Miniatura raffigurante un banco, da un libro dei conti del monastero di S. Mattia a Murano. XIV sec. Venezia, Biblioteca Diocesana «Benedetto XVI».


ANTE PRIMA

Un albergo sulla laguna

ARCHEOLOGIA • Grazie

all’inaspettata scoperta di una grande stazione di posta, la storia dell’abitato di Jesolo fra la tarda antichità e il Medioevo si arricchisce di un nuovo e importante tassello In alto scodella in ceramica sigillata restituita dagli scavi condotti a Jesolo dall’Università Ca’ Foscari di Venezia. A destra Jesolo. Foto zenitale dei resti della mansio (stazione di posta) venuta di recente alla luce nel corso delle indagini. La fondazione della struttura si colloca sul finire del IV sec.

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e ricerche archeologiche che Sauro Gelichi, ordinario di archeologia medievale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, conduce nel sito di Jesolo hanno riportato alla luce resti di una mansio (una sorta di albergo), costruita al di sopra di uno degli isolotti che, nel IV secolo d.C., costituivano un piccolo arcipelago all’interno di una laguna paralitoranea. All’indomani della scoperta, abbiamo dunque incontrato l’archeologo, per avere maggiori dettagli su questa nuova e importante acquisizione. Professor Gelichi, in quale settore dello scavo sono avvenuti questi ritrovamenti e quali sono gli obiettivi del progetto archeologico che sta guidando? «La scoperta di questi resti è avvenuta in prossimità dell’area “Le antiche Mura”, una zona periferica rispetto all’abitato attuale ma che conserva ancora i ruderi di un importante edificio medievale, la cattedrale romanica di S. Maria Assunta. Nel passato questi ruderi avevano attratto l’attenzione dei ricercatori e, in differenti occasioni di scavo, erano venuti alla luce i muri perimetrali di due precedenti edifici di culto, uno dei quali decorato con un prezioso pavimento musivo databile al VI secolo. L’importanza del luogo (sede episcopale almeno dal IX secolo), delle sue aristocrazie (note dalle fonti scritte) e delle passate scoperte archeologiche hanno costituito le ragioni per elaborare un progetto archeologico, fortemente voluto e supportato anche dall’Amministrazione Comunale: per gli abitanti dell’attuale Jesolo, rinomato centro balneare nord-adriatico, è l’occasione per riappropriarsi di un passato reciso dall’abbandono dell’antica Equilo nel corso del XIII secolo; per noi, che da anni ci stavamo occupando della storia di Venezia e della formazione degli insediamenti nell’area

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In alto Jesolo. Un settore dell’area indagata nel quale sono state individuate anche alcune sepolture. lagunare e para-lagunare, si tratta dell’opportunità di indagare uno dei tanti centri di insuccesso sorti e abbandonati nel Medioevo». Il ritrovamento, a nord-est dei ruderi della cattedrale, dei significativi resti di una mansio tardo-antica ha però costituito una sorpresa anche per voi... «Indiscutibilmente non ci aspettavamo di scoprire i resti di un complesso del genere, peraltro tra i meglio conservati nel nostro Paese. In particolare sono emerse le tracce di un grande edificio suddiviso in ambienti regolari di forma rettangolare, ciascuno dei quali spartito in tre vani provvisti di focolari (non molto diverso da un albergo di oggi). La particolarità è che questa mansio si trovava su

Errata corrige con riferimento al Dossier Per il tempo di Dio e quello degli uomini (vedi «Medioevo» n. 258, luglio 2018) desideriamo precisare che l’ordinanza che autorizzava il lavoro notturno citata a p. 88 venne emanata nel 1322 dal re di Francia Carlo IV, detto il Bello, e non da suo padre Filippo IV, soprannominato anch’egli il Bello. Con riferimento, invece, all’articolo Il grande gioco (vedi «Medioevo» n. 259, agosto 2018) vogliamo segnalare che il rilievo raffigurante Porto Pisano (riprodotto alle pp. 40/41), databile al 1290, è conservato nel Museo di S. Agostino di Genova e non presso il Camposanto Monumentale di Pisa. Del tutto ci scusiamo con gli autori degli articoli e con i nostri lettori.


ANTE PRIMA

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A sinistra e a destra ancora due immagini del cantiere di scavo. Le indagini stanno documentando le diverse fasi di frequentazione dell’area, che abbracciano un orizzonte cronologico compreso fra il II e il XIII sec. In basso una lucerna recuperata durante gli scavi. un isolotto e dunque lungo una via d’acqua para-litoranea e non, come di solito, lungo una strada consolare. La fondazione, forse d’origine pubblica (e in questo caso dobbiamo supporre che il complesso servisse anche da luogo di stazionamento per i funzionari imperiali), avvenne verso la fine del IV secolo e dev’essere sicuramente collegata con l’importanza politica e militare che assume, in questo periodo, la città di Aquileia. Altri significativi indicatori del ruolo di questo luogo sono il ritrovamento di notevoli quantitativi di merci di importazione, quali anfore, lucerne e ceramiche di

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origine africana. La storia di questo imponente complesso dovette essere breve (venne distrutto nel corso del V secolo), ma la vita in questo arcipelago continuò ancora a lungo». La storia dunque non si ferma all’antichità, ma che cosa accadde successivamente? «Dopo l’abbandono della mansio, l’area dovette passare nelle disponibilità della Chiesa e di questo passaggio è testimonianza l’edifico di culto, con mosaici, databile al VI secolo. Le aree che abbiamo scavato noi (e nelle quali si trovavano i resti maggiori della mansio) vennero adibite a cimitero della comunità che, nel frattempo, si era formata attorno all’episcopio. Un’ultima radicale riconversione ebbe luogo verso il tardo X-XI secolo, quando lo stesso spazio venne trasformato in una zona di stoccaggio di derrate alimentari, derivanti molto probabilmente dalle rendite dei sempre piú cospicui possedimenti vescovili. Ne costituiscono una tangibile testimonianza archeologica i resti di silos e granai in legno ma, soprattutto, i preziosi oggetti trovati in associazione, tra cui uno sperone in bronzo e rarissime ceramiche smaltate provenienti dall’area egiziana». Giampiero Galasso

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ANTE PRIMA

Il maestro delle «buone cose» RESTAURI • L’intervento condotto

dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze sull’opera che presentiamo in queste pagine permette di ammirare un pregevole polittico dello Starnina, pittore fiorentino che dopo gli allori colti in Spagna si fece apprezzare grandemente anche nella città del giglio

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no dei piú grandi e importanti musei universitari d’Europa è intitolato a Johann Martin von Wagner, archeologo, collezionista antiquario e agente artistico del re Ludwig I di Baviera, agli inizi del XIX secolo. Fondata nel 1832, la collezione ha sede nell’ala meridionale della Residenza Würzburg e comprende anche un pregevole nucleo di arte grafica, oltre a capolavori scultorei e pittorici, come il trittico di Gherardo di Jacopo, detto lo Starnina, risalente al 1409. Attribuito a un ignoto primitivo toscano fino a tempi recenti, il dipinto si trova in Germania proprio perché venne acquistato dal raffinato studioso teutonico, il quale ne riconobbe l’alta qualità e decise di comperarlo

A sinistra la restituzione del polittico dello Starnina al Martin von Wagner Museum di Würzburg dopo il restauro, condotto dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze.

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In alto Madonna col Bambino tra gli Angeli, scomparto centrale del polittico dello Starnina. 1409. Würzburg, Martin von Wagner Museum der Universität Würzburg. ottobre

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A destra il polittico dello Starnina nei laboratori dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. In basso particolare della Madonna col Bambino tra gli Angeli, scomparto centrale del polittico dello Starnina. 1409. Würzburg, Martin von Wagner Museum der Universität Würzburg.

per arricchire la sua raccolta privata. Grazie all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, le tre tavole su tempera sono ora tornate a risplendere e l’intervento ha anche permesso di individuare venti frammenti che facevano originariamente parte dell’opera. Non si tratterebbe dunque di un trittico, bensí di un piú complesso polittico, la cui ricostruzione darà presto vita a un’esposizione temporale. La composizione – che vede nello scomparto centrale una Madonna col Bambino tra gli Angeli, e in quelli laterali da una parte Santa Margherita d’Antiochia e San Filippo, e dall’altra San Pietro e Santa Maria Maddalena – è tornata a casa.

Nelle grazie del sovrano Testimonianza fondamentale nella fase di passaggio tra gotico internazionale e primo Rinascimento, il manufatto fa parte del corpus dello Starnina, la cui prolifica attività si concluse presumibilmente nel 1413, anno della sua morte, avvenuta all’età di 59 anni, quando aveva raggiunto grande fama sia in patria che all’estero. Dai controversi documenti pervenuti, si deduce che si era iscritto alla corporazione dei pittori nella Compagnia di San Luca poco piú che venticinquenne e che soggiornò in Spagna a lungo, ben accolto alla corte del re Juan I, per il quale realizzò tante «buone cose», che piacquero molto al sovrano, come riporta lo storico dell’arte Juan Agustín

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ANTE PRIMA In questa pagina altri particolari del polittico dello Starnina. 1409. Würzburg, Martin von Wagner Museum der Universität Würzburg. A sinistra, la parte inferiore dello scomparto con la Madonna col Bambino tra gli Angeli; in basso, dall’alto, Santa Margherita d’Antiochia e San Filippo e dall’altra San Pietro e Santa Maria Maddalena.

Ceán Bermúdez. Allievo di Antonio Veneziano e Agnolo Gaddi, l’artista aveva alle spalle un background culturale di tutto rispetto, che gli permise di creare figure maestose, dalle solide forme e dall’espressione immanente.

Artista «internazionale» Acquisite maniere gentili e cortesi – oltre a premi, distinzioni e un generoso salario –, Gherardo fece ritorno a Firenze, dove fu ricevuto con grande ossequio e stupore, grazie anche alle novità formali, come la foggia degli abiti di moda in terra iberica, che vi esportò. È un’interpretazione vivace e descrittiva quella dell’«internazionale» Starnina, che nel polittico di Würzburg raggiunse l’eccellenza, marcando il ruolo di innovatore che svolse in pittura agli inizi del Quattrocento. Non è certo se abbia portato da Valenza un collega, di gran talento, che nella città spagnola si era distinto, donando splendore allo stile tardo gotico. Tale ipotesi aiuterebbe a spiegare il dubbio sollevato dal tratto lusitano riscontrabile in alcuni lavori ascritti, in passato, al cosiddetto Maestro del Bambino Vispo. I resti dello Starnina riposano nella sua città natale, nella chiesa di S. Iacopo sopr’Arno, dove un epitaffio lo descrive: «Summae inventionis et elegantiae pictori». Mila Lavorini

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Tutti per il Santo RESTAURI • C’è tempo fino al 17 ottobre per chi

voglia partecipare alla raccolta di fondi destinati al restauro di una delle piú antiche immagini di Antonio da Padova, affrescata su un pilastro della controfacciata della basilica a lui intitolata

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a pontificia basilica di S. Antonio, a Padova, è uno dei luoghi di culto piú frequentati della città, al quale affluiscono fedeli provenienti da ogni parte d’Italia e del mondo. La chiesa è al tempo stesso un monumento insigne, nel quale il messaggio di fede è amplificato da un insieme di forme e colori che annovera capolavori assoluti della storia dell’arte. Un simile crogiolo di eccezionali testimonianze e forme diverse d’arte richiede naturalmente un impegno straordinario in fatto di protezione e salvaguardia, affinché ogni tassello di questo variegato mosaico di stili, tecniche e materiali riceva la debita attenzione. Particolarmente bisognosa d’indagine e restauro è l’antica figura di Sant’Antonio collocata su uno dei pilastri di controfacciata, e parte di una serie di tre santi (in origine quattro: oltre ad Antonio, vi sono Ludovico, Lucia e forse un tempo Francesco) realizzata nella prima metà del XIV secolo. Sant’Antonio è ritratto a grandezza poco inferiore al naturale, quasi fosse fisicamente presente, e con gesto benedicente, a sottolineare l’aspetto di interazione tra la figura dipinta e il fedele che vi si avvicinava; regge col braccio sinistro un libro, simbolo della propria dottrina. L’affresco, una delle piú antiche immagini del santo nella chiesa antoniana, accoglie visitatori e pellegrini che varcano la soglia della Basilica, e indica a coloro che si dirigono verso la tomba di Antonio

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Padova, basilica di S. Antonio. Il ritratto ad affresco del Santo, dipinto su un pilastro della controfacciata. XIV sec. quel modello di vita proposto nel Vangelo e ribadito da san Francesco, fondatore dell’Ordine dei Minori. E proprio questo dipinto è stato scelto per inaugurare una collaborazione con il progetto LoveItaly, un’iniziativa no profit che, attraverso lo strumento del crowdfunding, raccoglie risorse da destinare alla protezione e al restauro del patrimonio artistico italiano. Nato dalla società LVenture Group, rivolta alle innovazioni nel settore digitale e alle startup, LoveItaly è un progetto che si propone di sensibilizzare una platea sempre piú vasta all’importanza del restauro e alla partecipazione diretta ad attività di tutela, anche attraverso il piccolo finanziamento.

Pubblici ringraziamenti La campagna di raccolta fondi durerà fino al prossimo 17 ottobre. Ogni donazione riceverà un riconoscimento e sarà ricambiata con attività o omaggi legati all’affresco e alla basilica, dal ringraziamento pubblico sul web, fino all’iscrizione del nome nella targa dei donatori, dai biglietti dei Musei Antoniani fino a visite riservate alle parti generalmente non accessibili della Basilica del Santo. Con questo progetto, la Veneranda Arca del Santo – l’ente che, istituito nel 1396,

ha il compito di provvedere alla conservazione e al miglioramento degli edifici monumentali della basilica di S. Antonio da Padova e degli altri stabili – lancia l’iniziativa restaurAntonio per mantenere vivo l’interesse di tutti sul prezioso e talvolta fragile caleidoscopio di emergenze artistiche che è la Basilica di S. Antonio. Le donazioni vengono raccolte attraverso il portale web www.loveitaly.org. Info: Veneranda Arca di S. Antonio: e-mail: arcadisantantonio@gmail.com; www. arcadelsanto.org (red.)

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ANTE PRIMA

A tu per tu col genio MUSEI • È stata inaugurata la nuova sala che gli Uffizi hanno dedicato a Leonardo

da Vinci. Vi sono riunite le opere che realizzò a Firenze, quando mosse i primi passi nella bottega del Verrocchio, che ben presto non ebbe piú nulla da insegnargli

L

e Gallerie degli Uffizi hanno salutato il riallestimento della sala dedicata a Leonardo da Vinci, segnando cosí un nuovo e significativo traguardo nel rinnovamento della raccolta. Il nuovo spazio è stato pensato in relazione con lo svolgersi degli eventi di cui il maestro si rese protagonista: nel 1504 a Firenze giungeva Raffaello Sanzio, giovanissimo, ma già eccelso – secondo il racconto vasariano –, richiamato dalla fama dei cartoni preparati da Leonardo e Michelangelo Buonarroti in vista della decorazione della Sala Grande di Palazzo Vecchio, con la Battaglia di Anghiari e la Battaglia di Cascina. Si era dunque, in quel momento, davanti a una concentrazione di geni assoluti, quale mai piú si verificherà nella storia della città. Leonardo era tornato nel 1503, dopo un’assenza ventennale in cui era stato al servizio di Ludovico il Moro a Milano. Ma a Firenze aveva cominciato i

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suoi studi, presso la bottega del Verrocchio e proprio le opere della sua giovinezza, dai primi passi autonomi nel mondo dell’arte al momento della partenza, sono custodite agli Uffizi.

La storia in un percorso È ora possibile ammirarle nella nuova collocazione, nella sala 35 dell’ala di ponente degli Uffizi, in omaggio a un ritrovato rispetto per

il principio narrativo cronologico della Galleria. La Sala di Leonardo, infatti, si trova ora a precedere quella dedicata, appunto, a Michelangelo e Raffaello. Le opere sono state inserite, come è stato fatto negli ultimi allestimenti delle sale di Caravaggio e del Seicento e di Michelangelo e Raffaello, in teche che garantiscono una situazione microclimatica ottimale, chiuse da speciali vetri che annullano gli

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DOVE E QUANDO

Gallerie degli Uffizi Firenze, piazzale degli Uffizi 6 Orario martedí-domenica, 8,15-18,50; chiuso tutti i lunedí, il 25 dicembre e il 1° gennaio Info tel. 055 294883; www.uffizi.it effetti di rifrazione della luce, a tutto vantaggio dei visitatori. Entrando, a sinistra, è il Battesimo di Cristo, eseguito per la chiesa di S. Salvi nel 1475-78, anni in cui l’artista ancora collaborava con il Verrocchio: l’opera testimonia sia le divisioni dei compiti all’interno delle botteghe, sia il salto stilistico e tecnico tra il maestro e l’allievo. Leonardo, infatti, per le parti da lui eseguite si avvalse della pittura a olio, molto piú adatta a ottenere gli effetti di sfumato per cui diventerà poi celebre. Al solo Leonardo si deve l’elegante angelo di profilo che regge la veste di Cristo, tanto sublime da far nascere la leggenda (riportata da Vasari) secondo cui Verrocchio, sopraffatto dalla superiorità di Leonardo, da lí in poi abbandonò per sempre la pittura. Sulla parete di fronte è esposta l’Annunciazione, proveniente dalla chiesa di Monte Oliveto, con un angelo cosí reale e materiale da proiettare la propria ombra sul prato fiorito, mentre atterra, chiudendo le ali su quelle degli uccelli. Sullo sfondo, un paesaggio di mare e montagne in cui la simbologia

Sulle due pagine le opere della sala di Leonardo da Vinci degli Uffizi di Firenze. Nella pagina accanto, Annunciazione, olio su tavola, 1472 circa. A destra, Battesimo di Cristo, olio e tempera su tavola. 1475-78. mariana si traduce in una prova tra le piú alte dell’artista sulla resa atmosferica dei «lontani».

Capolavoro incompiuto Al centro si ammira l’Adorazione dei Magi, commissionata dai canonici regolari agostiniani per la chiesa di S. Donato a Scopeto, e lasciata incompiuta quando Leonardo partí per Milano, nel 1482. Restaurata recentemente dall’Opificio delle Pietre Dure, grazie al finanziamento degli Amici degli Uffizi, con un

lavoro che rimarrà alla storia anche per le innovazioni adottate e per gli straordinari risultati ottenuti, la pala è come una grandissima pagina di appunti, con brani piú avanzati, altri appena accennati, tanto che, guardandola, pare quasi di partecipare al processo creativo di Leonardo stesso. Questo miracolo di immedesimazione è ora possibile per tutti i visitatori, che possono fermarsi a inseguire sulla superficie, la ricchezza di idee, dettagli, episodi. (red.) Sulle due pagine l’allestimento dell’Adorazione dei Magi, disegno a carbone, acquerello di inchiostro e olio su tavola realizzato da Leonardo intorno al 1482. L’opera rimase incompiuta a causa della partenza per Milano dell’artista.

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I giorni della storia APPUNTAMENTI •

Bologna saluta la XV edizione della Festa Internazionale della Storia. Un evento che offre, per tutto il mese di ottobre, un ricco calendario di iniziative. Per riscoprire l’importanza del passato e del nostro patrimonio

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a oltre un decennio la Festa Internazionale della Storia di Bologna – in programma quest’anno dal 20 al 28 ottobre – costituisce un raccordo continuo e vitale tra l’ateneo felsineo, la città e il territorio con le sue entità culturali, scolastiche e associative e che ha attivato raccordi significativi con altre città italiane ed europee. Si tratta di un multiforme progetto culturale, attivato da soggetti uniti dalla volontà di promuovere e diffondere la conoscenza della storia quale fondamento e fattore di consapevolezza, responsabilità e libertà di scelta.

Un evento «diffuso» Si svolge ogni anno fondandosi su attività che si svolgono in permanenza, ma che si manifestano con eventi concentrati prevalentemente nella terza settimana di ottobre in palazzi, piazze, strade, chiese, teatri e musei di Bologna e del suo territorio, in numerosi centri della regione Emilia-Romagna e in altre città ttaliane ed estere. A promuoverla e organizzarla sono il Laboratorio Multidisciplinare di Ricerca Storica e

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il Centro Internazionale di Didattica della Storia e del Patrimonio del Dipartimento di Scienze dell’Educazione «Giovanni Maria Bertin» dell’Università di Bologna in collaborazione con docenti di ogni ordine e grado e con operatori di musei, archivi, biblioteche, soprintendenze, associazioni ed enti

di promozione culturale, accomunati dalla convinzione che la conoscenza del patrimonio storico e di tutte le sue eredità sia preliminare e indispensabile per la sua tutela e valorizzazione. Oltre agli argomenti affrontati ogni anno e che non hanno confini tematici, né limiti di tempo (la ottobre

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musica, l’arte, la letteratura, il teatro, l’alimentazione, lo sport, la moda, la religione, la politica, la tecnologia), per la XV edizione si è ritenuto di progettare iniziative su volti della storia, culture, incontri e patrimoni, anche in considerazione del fatto che il 2018 è stato dichiarato «Anno europeo del patrimonio culturale».

Progettare il futuro Dal 1° al 19 ottobre, nelle tre settimane che precedono la festa vera e propria, si sviluppa dunque l’evento «I volti della storia», che offre un patrimonio di beni, di idee e di cultura che costituiscono il retroterra necessario a comprendere il presente e a progettare piú consapevolmente e con piú ampie prospettive il futuro. I lasciti che ci giungono da tempi vicini o remoti costituiscono le risorse comuni e individuali in cui convergono esperienze e innovazione, eredità e progettazione, saperi antichi e recenti. La percezione e la consapevolezza dello spessore del Patrimonio rivelano la pienezza della persona mettendo in campo tutte le eredità culturali e scientifiche che permettono di perseguire personalità e identità dagli apporti molteplici, dagli orizzonti ampi e dagli sviluppi illimitati e di condurre scambi concettuali, comparazioni e integrazioni con un dialogo interculturale da svolgersi in tutti i settori delle attività umane. La conoscenza della storia induce l’attivazione di sensibilità ed emotività e porta a considerare tutte le realtà attuali come una ricchezza da fruire nel rispetto della pluralità delle culture. Infine, nell’ambito della «Festa» si svolge dal 2008 il conferimento del Premio Internazionale Jacques Le Goff, che, nelle edizioni precedenti, è stato assegnato, fra gli altri, ad Alessandro Barbero, Franco Cardini, Antonio Paolucci, Andrea Emiliani, Jared Diamond e Jacques Le Goff stesso. (red.)

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ottobre

Falò di ottobre L

o Hi-matsuri, letteralmente il «Festival del fuoco», che va in scena ogni anno il 22 ottobre sul monte Kurama, a nord di Kyoto, può essere l’occasione giusta per assaporare lo spirito mistico dell’antico Giappone. Le origini di questo rito risalgono al X secolo, durante il periodo Heian, quando Kyoto era la capitale dell’impero del Sol Levante. Dopo un violento terremoto, nell’anno 940 l’imperatore istituí un pellegrinaggio della sua corte al santuario scintoista di Yuki Jinja, sul Kurama. Lungo la strada gli abitanti accesero falò per accompagnare la processione, allo scopo di richiamare la protezione degli spiriti della terra da nuovi disastri. Il festival odierno ricostruisce quell’antico pellegrinaggio. Poco prima del tramonto, gli abitanti dell’omonimo villaggio di Kurama accendono i falò, chiamati kagaribi, davanti alle loro case. Man mano che scende la sera, le strade si affollano. E quando ormai è buio, i residenti, in gruppi di tre o quattro persone, si caricano sulle spalle enormi torce di pino, chiamate taimatsu, accese con i tizzoni dei falò di casa. Le piú grandi pesano oltre 80 kg e sono alte fino a 5 m. In tutto se ne contano trecento; alcune di piccole dimensioni sono destinate a gruppi di bambini.

L’augurio dei portatori di torce I portatori di torce attraversano il villaggio gridando «Sairei! Sairyo!», traducibile in «Che sia il migliore dei festival!», a esorcizzare lo sforzo fisico del trasporto e il calore delle fiamme. Gli adulti indossano la hakama, un abito tradizionale giapponese simile a una larga gonna-pantalone, mentre i piú giovani portano un indumento piú succinto con una sorta di perizoma. Il corteo si conclude nella piazza principale del paese, sotto le scalinate dell’antico tempio scintoista, dove la folla si raduna attorno a un enorme falò. Quando ormai è notte, i festeggiamenti culminano con l’entrata in scena di due mikoshi: palanchine sacre, decorate e laminate in oro, portate a spalla da gruppi di quattro giovani. I mikoshi percorrono le vie principali del villaggio seguiti dalla popolazione, al ritmo travolgente dei tamburi. In occasione del festival del fuoco, il paese di Kurama viene invaso da una folla di migliaia di turisti. Sempre il 22 ottobre, nella vicina Kyoto durante il giorno si svolge l’altrettanto celebre Jidai matsuri, il festival della storia. Tiziano Zaccaria

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre

protagonista del canto XIII del Purgatorio di Dante, la nuova mostra allestita presso il Museo San Pietro. La figura emerge per la forte caratterizzazione, con tratti molto sofferti e risentiti quale interprete dell’invidia. Peccò sí tanto d’invidia da giungere all’insania. Nonostante il nome, infatti, la zia paterna di Provenzan Salvani, capo della parte ghibellina, già incontrato da Dante fra i superbi, non fu «savia» nell’augurarsi la

MONTEPULCIANO LEONARDO DA VINCI. ANATOMIE: MACCHINE, UOMO, NATURA Fortezza fino al 7 ottobre

Oltre che come artista eccezionale, Leonardo da Vinci (1453-1519) è stato a lungo celebrato come inventore di macchine e dispositivi meccanici straordinari, che sarebbero divenuti patrimonio comune della cultura tecnica solo alcuni secoli dopo la sua morte. Pur traendo ispirazione dal profondo processo di rinnovamento dei saperi tecnici che ebbe luogo in Italia a partire dalla fine del XIV secolo, Leonardo offrí in molti ambiti contributi di assoluta originalità e di straordinaria

carica anticipatrice. La mostra mette in luce proprio uno degli aspetti piú innovativi dell’opera di Leonardo, per il quale macchine, corpo umano e natura sono governati dalle medesime leggi universali: idea che trova espressione in una serie di magistrali disegni che segnano la nascita della moderna illustrazione scientifica. info tel. 0577 286300; www.leonardoanatomie.it

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TRENTO MADONNA IN BLU. UNA SCULTURA VERONESE DEL TRECENTO Castello del Buonconsiglio fino al 28 ottobre

La rassegna è dedicata a una rara scultura in pietra policroma del Trecento. Insieme con la Madonna allattante, molto probabilmente proveniente dalla cattedrale di Trento e ora nel Museo Diocesano Tridentino, opera del «Maestro del sorriso», la trecentesca Madonna in blu (già Madonna della rosa) è tra le pochissime testimonianze rimaste di scultura lapidea veronese del Trecento nel Trentino. Proveniente dal complesso agostiniano di S. Marco, l’opera è stata restaurata e ricondotta alle sue splendide cromie originali, su tutte la veste blu di azzurrite che ne fa un unicum nel panorama artistico nazionale. info tel. 0461/233770; e-mail: museo@castellodelbuonconsiglio. tn.it; www.buonconsiglio.it

sconfitta dei propri concittadini senesi nella battaglia di Colle di Val d’Elsa (vv. 109-111): «Savia non fui, avvegna che Sapía / fossi chiamata, e fui delli altrui danni / piú lieta assai che di ventura mia». Il percorso espositivo presenta dunque le testimonianze di miniatori, incisori, scultori e

pittori, interpreti di una figura non convenzionale che, per i caratteri di umana fragilità con cui è delineata, può considerarsi una sorta di antieroina della storia medievale senese. info tel. 0577 286300; e-mail: info@collealtamusei.it; www.collealtamusei.it MONTEPULCIANO IL TEMPIO DI SAN BIAGIO A MONTEPULCIANO DOPO ANTONIO DA SANGALLO. STORIA E RESTAURI Tempio di San Biagio fino al 4 novembre

Le celebrazioni per il V centenario dell’edificazione del Tempio di San Biagio a Montepulciano, uno dei capolavori dell’architettura rinascimentale italiana realizzato su progetto di Antonio da Sangallo il Vecchio dal 1518 al 1548, offrono l’occasione per rivisitare e riproporre l’arredo interno originale della chiesa, realizzato a partire dall’ultimo quarto del Cinquecento, con le nuove regole emanate dal Concilio di Trento in materia di apparato liturgico e di arte sacra. Un arredo in gran parte asportato durante il

COLLE DI VAL D’ELSA (SI) SAVIA NON FUI. DANTE E SAPÍA FRA LETTERATURA E ARTE Museo San Pietro fino al 28 ottobre

È ispirata a Sapía, gentildonna senese nata Salvani, ottobre

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restauro neorinascimentale del monumento avvenuto a partire dagli anni ottanta dell’Ottocento. Il complesso architettonico con il Tempio a pianta centrale e l’adiacente Canonica, costruiti in blocchi di travertino delle vicine cave di Sant’Albino, è stato oggetto di numerosi studi, che sottolineano l’uso sapiente e armonico degli ordini, dei partiti architettonici e delle proporzioni classiche in un rapporto dialettico tra uomo, architettura e paesaggio. Alla morte del Sangallo (1534) i lavori continuarono con la costruzione della cupola tra il 1543 e il 1545, mentre il primo campanile fu concluso solo nel 1564 e il secondo resta ancor oggi incompiuto. info tel. 0577 286300; e-mail: info@tempiosanbiagio.it; www.tempiosanbiagio.it;

GUBBIO GUBBIO AL TEMPO DI GIOTTO. TESORI D’ARTE NELLA TERRA DI ODERISI Palazzo dei Consoli, Museo Diocesano, Palazzo Ducale fino al 4 novembre

Gubbio conserva intatto il suo aspetto medievale: è ancora la città del tempo di Dante e di Oderisi da Gubbio, il miniatore che il sommo poeta incontra tra i superbi in Purgatorio e al quale dedica versi importanti, che sanciscono l’inizio di un’età moderna che si manifesta proprio con la poesia di Dante e l’arte di Giotto. Distribuita in tre sedi diverse, la mostra «Gubbio al tempo di Giotto. Tesori d’arte nella terra di Oderisi» restituisce l’immagine di una città di media grandezza, ma di rilievo politico e culturale nel panorama italiano a cavallo tra

la fine del Duecento e i primi decenni del Trecento, esponendone il patrimonio figurativo sia civile che religioso. Dipinti su tavola, sculture, oreficerie e manoscritti miniati delineano, anche con nuove attribuzioni, le fisionomie di grandi artisti come Guido di Oderisi, alias Maestro delle Croci francescane, Il Maestro della

Croce di Gubbio, il Maestro Espressionista di Santa Chiara ovvero Palmerino di Guido, «Guiduccio Palmerucci», Mello da Gubbio e il Maestro di Figline. Il padre di Oderisi, Guido di Pietro da Gubbio, viene oggi identificato in uno dei protagonisti della cosiddetta «Maniera Greca», da Giunta Pisano a Cimabue. Palmerino fu compagno di Giotto nel 1309 ad Assisi, e con lui dipinse le pareti di due cappelle di San Francesco, per poi tornare a Gubbio e affrescare la chiesa dei frati Minori e altri edifici della città. info www.gubbioaltempodigiotto.it TREVI, MONTEFALCO, SPOLETO E SCHEGGINO (PERUGIA) CAPOLAVORI DEL TRECENTO. IL CANTIERE DI GIOTTO, SPOLETO E L’APPENNINO

MOSTRE • La nascita della scultura gotica. Saint-Denis, Parigi, Chartres, 1135-1150 Parigi - Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge

fino al 7 gennaio 2019 (dal 10 ottobre) info musee-moyenage.fr

È

un quindicennio davvero cruciale, per la regione dell’Île-de-France, quello documentato dalla nuova mostra allestita al Museo di Cluny: nei grandi cantieri che sono oggetto dell’esposizione – Parigi, Saint-Denis e Chartres – vengono infatti sperimentate soluzioni nuove, che, pur affrancandosi dai canoni del romanico, non possono ancora dirsi pienamente gotiche. Quelle fabbriche tengono a battesimo uno stile embrionale, nel quale si fondono innovazioni tecnologiche e stilistiche. Sono i prodromi della scultura gotica che matura sulla scia dell’emulazione reciproca fra capomastri, scultori e committenti: se, per esempio, l’introduzione dei portali con statue che fungono al tempo stesso da colonne si deve agli scultori che lavorano alla chiesa abbaziale di Saint-Denis, il modello raggiunge la sua piena completezza a Chartres. Nel percorso espositivo che ricostruisce questo fenomeno si succedono poco meno di 150 opere che, oltre a materiali facenti parte della collezione permanente del museo parigino, comprendono importanti prestiti da raccolte europee e statunitensi, nonché opere inedite, fra cui quelle recuperate grazie a recenti indagini archeologiche condotte nella stessa Saint-Denis.

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AGENDA DEL MESE Montefalco, Complesso Museale di San Francesco Scheggino, Spazio Arte Valcasana Spoleto, Museo Diocesano-basilica di S.Eufemia e Rocca Albornoz-Museo Nazionale del Ducato di Spoleto Trevi, Museo di San Francesco fino al 4 novembre

Sono stati selezionati per l’occasione una settantina di dipinti a fondo oro su tavola, sculture lignee policrome e miniature, che raccontano la meraviglia ambientale dell’Appennino centrale e la civiltà storico-artistica, civile e socio-religiosa nell’Italia del primo Trecento. Nelle quattro sedi espositive è possibile vivere uno sguardo corale, emozionante, sulla trama di chiese, pievi, eremi e abbazie in Umbria, Marche, Abruzzo e Lazio, dove artisti di cultura giottesca hanno lavorato tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, connessi attraverso itinerari organizzati che permettono di scoprire luoghi e opere d’arte incantevoli. Il successo, nel cuore verde d’Italia, della lezione rivoluzionaria di Giotto e dello stupefacente virtuosismo dei caposcuola senesi Pietro Lorenzetti e Simone Martini, vengono raccontati attraverso una costellazione di artisti, spesso anonimi, che si fecero interpreti dell’anima piú profonda e vera dell’Appennino, declinando emozioni di fede e dolcezza, dipinte con un linguaggio pittorico intenso, e un magistero tecnico sorprendente. Da segnalare, inoltre, la possibilità di ammirare i due dossali esposti nell’appartamento di rappresentanza di Sua Santità il Pontefice, entrambi provenienti da Montefalco, restaurati per l’occasione; oppure lo straordinario

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riavvicinamento, che si compie per la prima volta dall’Ottocento, del Trittico con l’Incoronazione della Vergine del Maestro di Cesi e il Crocifisso con Christus triumphans dipinti entrambi per il monastero di S. Maria della Stella di Spoleto, oggi separati tra il Musée Marmottan Monet di Parigi e il Museo del Ducato di Spoleto. info www.capolavorideltrecento.it MATELICA (MACERATA) MILLEDUECENTO. CIVILTÀ FIGURATIVA TRA UMBRIA E MARCHE AL TRAMONTO DEL ROMANICO Museo Piersanti fino al 4 novembre

Ultimo appuntamento espositivo 2018 del progetto Mostrare le Marche, «Milleduecento. Civiltà figurativa tra Umbria e Marche al tramonto del Romanico» documenta come, intorno al 1200, tra Umbria e Marche, il linguaggio figurativo si sia trasformato sensibilmente, orientandosi verso un naturalismo di grande potenza plastica, e l’arte guida sia divenuta la scultura in legno policromo. A guidare il progetto espositivo è la certezza che le opere d’arte rappresentino un contributo insostituibile alla formazione di una civiltà, che a sua volta si esprime attraverso le loro forme. La civiltà di questi territori si racconta anche attraverso la qualità del suo patrimonio, soprattutto medievale. Si parte dal Cristo trionfante, rappresentato vivo sulla croce e vittorioso sulla morte, immagine centrale e paradigmatica di una cultura che proprio esaltando questa iconografia persegue un suo rinnovamento della forma.

Crocifissi monumentali e Madonne in trono col Bambino dialogano con tavole dipinte e oreficerie per ricomporre un tessuto dinamico e sorprendente. info tel 0737 84445; e-mail: museopiersantimatelica@virgilio.it PISA PISA CITTÀ DELLA CERAMICA Centro Espositivo San Michele degli Scalzi, Museo Nazionale di San Matteo, Palazzo Blu e Camera di Commercio di Pisa fino al 5 novembre

ceramisti ancora in attività, ma anche un sito web fruibile da smartphone, con mappe personalizzabili per costruire in autonomia il proprio itinerario di visita. La mostra invita a rileggere un intero territorio, che fu un’avanguardia nella tecnica destinata a cambiare le abitudini dell’Occidente, cominciando dalla tavola, per diventare un settore trainante per l’economia: la produzione della ceramica. info www.pisacittaceramica.it; e-mail: info@pisacittaceramica.it, jenny.delchiocca@cfs.unipi.it; prenotazioni: pisacittaceramica@ gmail.com SANSEPOLCRO PIERO DELLA FRANCESCA. LA SEDUZIONE DELLA PROSPETTIVA Museo Civico di Sansepolcro fino al 6 gennaio 2019

Il progetto espositivo si articola intorno al De prospectiva pingendi, trattato composto da Piero della Francesca intorno al 1475, e ha anche l’obiettivo di illustrare, attraverso riproduzioni di disegni, modelli prospettici, strumenti scientifici, plaquette e video, le ricerche matematiche applicate alla pittura di Piero della Francesca e la conseguente eredità lasciata ad artisti come La rassegna si sviluppa in quattro sedi principali (San Michele degli Scalzi, Palazzo Blu, Camera di Commercio di Pisa, Museo Nazionale di San Matteo), con oltre 500 pezzi in mostra, eventi dedicati a tutte le fasce di età, percorsi guidati in città e nel territorio pisano alla scoperta di inediti palazzi, chiese decorate da bacini ceramici, esempi di archeologia industriale e ottobre

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Leonardo da Vinci, Albrecht Dürer, Daniele Barbaro e ai teorici della prospettiva almeno fino alla metà del Cinquecento. La mostra vuole inoltre mostrare al pubblico le due anime di Piero: raffinato pittore e grande matematico. Oltre a essere Maestro d’abaco, geometra euclideo, studioso di Archimede, l’artista è stato anche un innovatore nel campo della pittura, poiché per lui, quest’ultima, nella matematica e nella geometria, trovava il suo sostanziale fondamento. I suoi scritti, infine, soprattutto il De prospectiva pingendi, composto in volgare per gli artisti e in latino per gli umanisti, hanno dato inizio alla grande esperienza della prospettiva rinascimentale. info tel. 199 151 121; e-mail: mostre@civita.it; www.museocivicosansepolcro.it VENEZIA IL GIOVANE TINTORETTO Gallerie dell’Accademia TINTORETTO 1519-1594 Palazzo Ducale fino al 6 gennaio 2019

Per celebrare il cinquecentenario del piú veneziano tra gli artisti del Rinascimento, il Tintoretto (al secolo Jacopo Robusti, 15191594), la sua città natale ha elaborato un progetto espositivo che si articola in

una rassegna monografica in Palazzo Ducale, centrata sul periodo piú fecondo della sua arte – dalla piena affermazione, verso metà degli anni Quaranta del Cinquecento, fino agli ultimi lavori – e in una grande mostra alle Gallerie dell’Accademia, dedicata ai capolavori del primo decennio di attività e al contesto in cui il pittore avviò il suo percorso artistico. Alle due esposizioni si affiancano numerose ulteriori iniziative, come quelle proposte dalla Scuola Grande di San Rocco, uno dei siti cardine dell’attività del maestro, custode di cicli pittorici imponenti, e dalla Curia Patriarcale, con le molte chiese che ancora oggi conservano preziose opere del Tintoretto. info www.mostratintoretto.it VENEZIA PRINTING REVOLUTION 1450-1500 Museo Correr fino al 7 gennaio 2019

L’esposizione è il risultato di un grande progetto di ricerca europeo, il 15cBOOKTRADE,

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che usa i libri come fonte storica: basato all’Università di Oxford, alla British Library, a Venezia, e finanziato dal Consiglio Europeo delle Ricerche, applica le tecnologie digitali alle fonti storiche,

Europa ci fossero milioni di libri, non solo per le élite, come comunemente si ritiene, ma per «tutti», con una vasta produzione per la scuola. La rivoluzione della stampa è una delle colonne portanti dell’identità europea perché si è tradotta in alfabetizzazione diffusa, promozione del sapere, formazione di un patrimonio culturale comune. In quei primi decenni (dal 1450 al 1500) la stampa coincise con la sperimentazione e l’intraprendenza. I libri a stampa furono il prodotto di una nuova collaborazione tra diversi settori della società: sapere, tecnologia e commercio. Anche la Chiesa comprese immediatamente l’enorme potenzialità dell’invenzione e ne divenne precoce promotrice. Le idee si diffusero veloci come mai prima. Ora si è in grado di tracciarne la circolazione seguendo il movimento e l’uso dei libri stessi. Info Call center 848 082 000; e-mail: info@fmcvenezia.it, biblioteca@marciana.venezia.sbn.it; www.correr.visitmuve.it, www.marciana.venezia.sbn.it NEW YORK ARMENIA! The Metropolitan Museum of Art fino al 13 gennaio 2019

ampliando la capacità di comprendere la rivoluzione della stampa. La ricerca ha riguardato 50mila di questi libri sparsi oggi tra 360 biblioteche europee e americane con la collaborazione di oltre 130 editor. Attraverso una decina di sezioni, l’esposizione mette in evidenza come nel 1500 in

«Armenia!» si annuncia come uno degli eventi di punta del Metropolitan Museum di New York per la prossima stagione. L’esposizione ripercorre la storia del popolo armeno dal momento della loro conversione al cristianesimo – agli inizi del IV secolo – fino all’epoca in cui ebbero un ruolo di primo piano nel controllo dei traffici commerciali internazionali, nel XVII secolo. Obiettivo dei curatori della rassegna è quello di sottolineare come gli

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AGENDA DEL MESE Armeni abbiano sviluppato una ben definita identità nazionale nella loro madrepatria, ai piedi del Monte Ararat, e come siano stati capaci di conservare e trasformare quelle peculiarità anche quando hanno dato vita alle numerose comunità che si sono insediate in molte regioni del mondo. A tale scopo viene presentata una selezione di poco meno di 150 oggetti e opere d’arte, che comprende reliquiari, manoscritti miniati, tessuti,

TORINO LA SINDONE E LA SUA IMMAGINE Palazzo Madama, Corte Medievale fino al 21 gennaio 2019

preziose suppellettili sacre, khachkar (le tipiche croci in pietra), modellini di chiese e libri. Materiali che, per la maggior parte, sono giunti a New York grazie ai prestiti accordati dal Ministero della Cultura della Repubblica d’Armenia e dalla Chiesa armena, in particolare attraverso la Santa Sede di Echmiadzin. Un contributo essenziale si deve anche al Matenadaran, la biblioteca che ha sede a Yerevan, che ha concesso al museo newyorchese alcune delle opere grazie alle quali l’istituzione viene riconosciuta come un autentico santuario dei manoscritti antichi. info www.metmuseum.org

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Realizzata in occasione della riapertura della restaurata Cappella della Sindone, opera di Guarino Guarini, la mostra è allestita nella Corte Medievale di Palazzo Madama, suggestivo ambiente fatto edificare da Cristina di Francia nel 1636, dove, sulla parete di fondo, è ben visibile un affresco raffigurante l’Ostensione della Sindone organizzata nel 1642 per celebrare la fine delle ostilità tra la stessa Madama Reale, reggente per il figlio Carlo Emanuele II, e i suoi cognati, il principe Tommaso e il cardinale Maurizio. Il percorso espositivo ripercorre la storia della Sindone e le diverse funzioni delle immagini che l’hanno riprodotta nel corso di cinque secoli, da quando il Sacro Lino fu trasferito da Chambéry a Torino nel 1578, per volere di Emanuele

Filiberto di Savoia, fino a oggi. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it LONDRA MANTEGNA E BELLINI National Gallery, Sainsbury Wing fino al 27 gennaio 2019

La National Gallery presenta la storia di due artisti, delle loro famiglie e delle loro città; una storia, quella di Giovanni Bellini (attivo tra il 1459-1516 circa) e Andrea Mantegna (1430/1-1506), intrecciata di arte, famiglia, rivalità, matrimonio, pragmatismo e personalità. Grazie a prestiti rari ed eccezionali di dipinti, disegni e sculture, Mantegna e Bellini offre un’occasione unica per confrontare le opere dei due maestri, che erano anche cognati: una connessione familiare dalla quale entrambi hanno tratto la forza e la lucentezza durante la loro carriera. Senza l’altro artista, non sarebbero esistiti né la carriera né lo sviluppo di

entrambi e senza queste opere permeate con la loro creatività e innovazione, non sarebbe esistita l’arte rinascimentale come la conosciamo oggi, quella dei personaggi del calibro di Tiziano, Caravaggio e Veronese. Mantegna e Bellini lavorano per sette anni mantenendo uno stretto dialogo creativo; sarà questo ciò che i visitatori della mostra saranno in grado di osservare in prima persona attraverso i raggruppamenti chiave dei ottobre

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tradizione secondo la quale solo giovani vergini potevano avvicinare gli unicorni. A queste testimonianze fa da corollario la documentazione della fortuna moderna del tema, di cui sono prova, per esempio, i costumi disegnati per il balletto La dama e l’unicorno di Jean Cocteau. info musee-moyenage.fr soggetti rappresentati da entrambi gli artisti. Ispirati dall’esempio dell’altro, entrambi sperimentano e lavorano in modi con cui non erano del tutto familiari allo scopo di affinare le loro capacità artistiche e le identità. Mentre Mantegna esemplifica l’artista intellettuale, Bellini è l’archetipo del pittore paesaggista, il primo che utilizza il mondo naturale per trasmettere emozioni. info www.nationalgallery.org.uk PARIGI MAGICI UNICORNI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 25 febbraio 2019

L’esposizione che segna la riapertura del Museo di Cluny-Museo Nazionale del Medioevo prende le mosse dai sei arazzi che compongono il ciclo della Dama e l’unicorno, altrettanti capolavori della raccolta parigina. Eseguiti intorno al 1500, sono una prova dell’importanza attribuita alla leggendaria creatura nei secoli del Medioevo. Animale «magico» – nell’età di Mezzo era diffusa la convinzione che il suo corno fosse in grado di accertare la presenza di veleni e dunque purificare i liquidi – l’unicorno era al tempo stesso simbolo di castità e d’innocenza. Vari manoscritti miniati ricordano inoltre la

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Appuntamenti BERGAMO BERGAMOSCIENZA XVI EDIZIONE 6-21 ottobre

Com’è ormai tradizione, la rassegna propone conferenze, laboratori interattivi, spettacoli, mostre – piú di 160 incontri tutti gratuiti – con scienziati di fama internazionale.

Protagonista assoluta la scienza, affrontata come sempre con un linguaggio accessibile a tutti, in tutte le sue diverse componenti: dalla fisica, alla chimica, dalla tecnologia alle neuroscienze, dalla medicina alla biologia, ma anche musica, teatro e letteratura. Tra gli altri, segnaliamo l’intervento di Paolo Galluzzi, direttore del Museo Galileo di Firenze e membro dell’Accademia Reale delle Scienze di Stoccolma e Socio Nazionale dell’Accademia Nazionale dei Lincei, che racconterà un lato inedito di Leonardo da Vinci. In pochi sanno che Da Vinci è stato tra i primi a intuire, sulla base di alcune semplici osservazioni e deduzioni, la lunga storia geologica della Terra, segnata da continue

trasformazioni, e a chiedersi se in futuro queste trasformazioni potrebbero creare condizioni incompatibili con la vita degli uomini e degli animali. Nell’incontro La religione secondo Isaac Newton, Robert Iliffe, dell’Università di Oxford, ci guiderà invece in un viaggio alla scoperta dell’enigmatica figura di un gigante intellettuale quale è stato Isaac Newton, un vero genio, autore di opere rivoluzionarie, appassionato cultore di discipline scientifiche diverse, che però nutriva convinzioni religiose che lo mettevano in conflitto con la legge e la società e, che se rivelate, avrebbero minacciato non solo il suo sostentamento, ma anche la sua vita. info www.bergamoscienza.it; pagina Facebook: BergamoScienza

APPUNTAMENTI • 38° Palio dei Cantú Martinengo (Bergamo) 20-21 ottobre info tel. 338 2526790; e-mail: colleonimartinengo@tiscali. it; pagina Facebook: Gruppo B. Colleoni - Martinengo orna l’appuntamento con una rassegna che vede crescere, anno dopo anno, l’affluenza del pubblico. La manifestazione del sabato, denominata «Marendí del Palio e «Medioevo in Castello» prevede, con inizio dalle 20,00, la possibilità di cenare (acquistando il piatto commemorativo della serata) passeggiando sotto gli antichi porticati, dove si possono ritirare le prelibatezze offerte dai commercianti. Nella stessa serata, si può scoprire, accompagnati da giullari e cantastorie, il «Medioevo in castello», una parte del centro storico per l’occasione allestita storicamente. Nella giornata di domenica, il «Palio dei Cantú» prevede, sin dal mattino, l’occupazione del centro storico da parte degli armigeri con i loro accampamenti, nei quali poter scoprire aneddoti legati al Medioevo. In tarda mattinata si potrà assistere ai loro combattimenti e all’estrazione a sorte degli asini per la competizione del pomeriggio. Alle 14,30 ha inizio la sfilata medievale, aperta dagli sbandieratori e dal «gruppo danze» del Gruppo Folcloristico Bartolomeo Colleoni, alla quale fanno seguito le sfilate storiche, dove i 5 Cantú in lotta tra di loro, offriranno al pubblico uno spettacolo fatto di circa 400 figuranti in abiti medievali. Al termine delle sfilate si disputa la corsa degli asinelli, con 10 quadrupedi che dovranno percorrere il percorso previsto nel centro storico.

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battaglie casilino OTTOBRE 554

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di Federico Canaccini

bizantino

Sul fiume Volturno, nei pressi di Casilino, l’antico porto di Capua, si combatté una delle ultime battaglie che insanguinarono l’Italia nei vent’anni della guerra greco-gotica. Uno scontro cruento, che vide le truppe di Narsete sbaragliare l’esercito franco-alamanno di Butilino

In alto Capua (Caserta). Il ponte sul Volturno che permette il passaggio della via Appia e si trova nell’area in cui un tempo sorgeva il porto fluviale di Casilinum. A sinistra elmo di fattura bizantina. VI-VII sec. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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entre la parte occidentale dell’impero romano venne travolta dalle popolazioni germaniche che diedero successivamente vita a nuove istituzioni politiche note come «Regni romano-barbarici», la parte orientale, con capitale Costantinopoli, ebbe un destino ben diverso. I Romaioi, come si chiamavano (cioè «Romani», in greco) erano i veri eredi dell’impero e, nonostante le trasformazioni, le invasioni e veri e propri rovesci politici, difesero la pars orientis mantenendo viva la memoria della romanità sino alla metà del XV secolo, quando, nel 1453, anche Costantinopoli cadde sotto i colpi delle bombarde di Maometto II. Ma come fu possibile questo successo? La composi-

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zione dell’esercito bizantino differiva da quello romano in primo luogo per il ruolo preminente della cavalleria rispetto alla fanteria, elemento di punta nella tradizione militare romana. Probabilmente tale cambiamento tattico fu dovuto anche alla vicinanza con l’antico nemico di Roma, i Parti e poi i Persiani, che facevano dell’uso della cavalleria, sia leggera che pesante, la loro principale – se non esclusiva – arma offensiva. Già nel disastro di Carre (53 a.C.) Licinio Crasso aveva sperimentato l’inadeguatezza delle truppe terrestri di fronte alle cariche della cavalleria partica. L’imperatore Traiano, che all’inizio del II secolo d.C. progettava ulteriori campagne contro i Parti, introdusse nuovi corpi

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battaglie casilino Normanni Danesi

S coti

Sassoni

A nglosa ssoni

Bre toni

Slavi

Colonia

Turingi B avari

Tournai

OCEANO

Soissons

Parigi

Re gno

ATLANTICO

Reims

Orlèans

Nantes

de i Fra nchi

Ginevra

Aquileia Verona

Milano

Torino

Pavia

Arles

Pamplona Palencia

Baschi

Urgel

Saragozza

Re gno de i Visigoti

Rimini

Re gno de gli Ostrogoti Roma

Barcellona Tarragona

Toledo

Sirmium

Ravenna

Tolosa

S ve vi

Lisbona

Salisburgo

Burgundi Vienne

Braga

Ratisbona

Strasburgo

Lione

Lugo

Metz

Durazzo Napoli

Mar Tirreno

Valencia

Cordoba Cartagena

Cadice Ceuta

Cesarea

speciali a cavallo, i cosiddetti clibanarii o cataphracti, che combinavano, come i loro avversari, l’uso dell’arco e della lancia con l’uso della cavalcatura. Con la piú tarda introduzione della staffa, il catafratto divenne un vero e proprio lanciere, poiché, anziché lanciare il giavellotto dalla propria sella, poteva finalmente caricare a fondo impugnando la propria lancia e colpendo il nemico, senza il rischio di essere sbalzato dalla cavalcatura grazie a una delle invenzioni che piú rivoluzionarono il modo di fare la guerra nel Medioevo. Nel VI secolo gran parte dell’Occidente romano era

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Mar Mediterraneo Re gno de i Va nda li

Cartagine

ormai passato in mano a popolazioni germaniche: la Spagna era sotto il controllo dei Visigoti, dei Vandali e degli Suebi, la Gallia era dominata dai Burgundi e dai Franchi, i Vandali controllavano la provincia d’Africa e l’Italia era da alcuni decenni sotto un re ostrogoto.

Le mire di Giustiniano

Nel 527, però, alla morte improvvisa dell’imperatore Giustino, ascese al trono suo nipote Giustiniano, il quale ebbe come priorità, in politica estera, la riconquista della pars occidentis dell’impero. Dopo alcune operazioni ottobre

MEDIOEVO


A sinistra l’assetto geopolitico dell’Europa al tempo del regno di Teodorico (493-526). In basso Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Mosaico raffigurante l’imperatore Giustiniano I in tarda età: si tratta della probabile rielaborazione di un ritratto del re ostrogoto Teodorico. VI sec.

Balti

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Costantinopoli

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d ’Orie nte Larissa

contro i Bulgari, che giunsero a depredare i villaggi attorno alla capitale, Giustiniano si impegnò nella guerra vandalica, tesa al recupero della ricca provincia d’Africa (533-4). Una volta occupata Cartagine e catturato l’ultimo re vandalo, Gelimero, l’imperatore volse la propria attenzione verso la penisola italiana, iniziando la ventennale guerra gotica. Il generale Belisario, già distintosi a Costantinopoli per aver debellato la rivolta della Nika (532), riportò rapidi successi, ma, nel 548, fu richiamato in patria, forse a causa del troppo successo riportato. L’imperatore inviò dunque un nuovo condottiero,

MEDIOEVO

ottobre

l’eunuco Narsete (vedi box alle pp. 36/37), il quale ottenne una brillante vittoria contro i Goti di Totila presso Tagina (l’odierna Gualdo Tadino, Perugia) nel 552. A battaglia conclusa, i Goti avevano perso oltre 6000 uomini, molti altri erano stati catturati e il re Totila, gravemente ferito, era morto pochi giorni piú tardi. Narsete mosse le proprie truppe all’inseguimento dei Goti fuggiaschi giungendo sino a Roma e proseguendo fino a sud di Napoli, dove ingaggiò un nuovo aspro combattimento ai piedi del Vesuvio, uccidendo il loro nuovo (e ultimo) re, Teia. I Goti erano sconfitti e l’Italia liberata, ma nel

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battaglie casilino 554 Narsete si trovò a dover fronteggiare un’armata di 30 000 uomini circa provenienti dal Settentrione della Penisola. Prima di morire, Teia, aveva infatti richiesto aiuto al re franco Teudobaldo, in un estremo tentativo di contrastare i Bizantini. L’esercito franco era comandato da due duchi alamanni, Leutari e Butilino, i quali, nel giugno del 554, avevano attraversato il Po. Dopo aver sconfitto a Parma le truppe bizantine, Butilino proseguí verso sud con 15 000 uomini circa. Nel corso della marcia, i soldati germanici, non abituati alla calura italica, iniziarono a patire sete e malattie. Giunsero poco lontano da Capua (oggi in provincia di Caserta) verso il mese di ottobre: ad attenderli c’era uno dei piú esperti generali bizantini. Narsete aveva organizzato le proprie milizie, disponendo di un esercito di 18 000 uomini circa e, partendo da Roma, si era diretto verso l’area in cui sorgeva Casilinum, l’antico porto fluviale di Capua sul Volturno, dove Butilino aveva piazzato i propri accampamenti. Come aveva già sperimentato a Tagina, appena due anni prima, fece smontare diverse centinaia di cavalieri pesanti, per rinforzare le fila della propria fanteria pesante, sistemando questi reparti appiedati su tre linee al centro dello schieramento. Ai fianchi, invece, dispose due ali di cataphracti, ponendosi a capo dell’ala destra. Gli alleati eruli, infine, furono messi come riserva alle spalle di tutto quanto lo schieramento.

Una tattica rudimentale

I Franchi e gli Alamanni, invece, si disposero a cuneo, cosí come forse tutti i popoli barbarici affrontavano le battaglie: la loro strategia consisteva infatti nel lanciarsi contro l’avversario con tutta la forza concentrata in un unico impeto, in modo da spezzare al primo urto lo schieramento nemico. I Franchi, e cosí gli altri popoli germanici, combatterono adottando questa rudimentale tattica, dal VI all’VIII secolo: la fanteria era l’elemento predominante e veniva disposto in squadroni, piuttosto disordinatamente, di forma quadrata o come colonne allungate. Le loro armature erano di cuoio, anche se alcuni potevano indossare una cotta di maglia,

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Nella pagina accanto cartina dei principali movimenti delle truppe nelle due fasi in cui può dividersi la guerra greco-gotica. In basso monete del re ostrogoto Totila con immagini della Vittoria alata che regge la croce e un globo sormontato dalla croce. 541-552. Abbazia di Montecassino, Museo dell’Abbazia.

e si difendevano con uno scudo di forma ovale o rotonda. Le armi in dotazione erano spade a due lame, o ricurve, come il sax o lo scramasax (vedi box alle pp. 36/37), l’ascia da tiro, detta francisca, e poi una lancia con punta barbuta, chiamata angone, le cui estremità erano letali. Il letterato bizantino Agazia (536 circa-582 circa) spiega che l’angone poteva essere utilizzato sia come un giavellotto da tiro, sia in un mortale corpo a corpo ravvicinato. E lo storiografo greco Procopio di Cesarea (attivo nel VI secolo), invece, ci informa della prassi di lanciare le francische all’unisono, all’approssimarsi del nemico, a un dato segnale convenuto. Le truppe di cavalleria leggera erano quasi inutilizzate dai Franchi. La battaglia iniziò dunque con la carica in massa dei Franchi contro il centro bizantino. I soldati alamanni e franchi lasciarono il proprio accampamento protetto da un ponte e da carriaggi disposti a mo’ di difesa: essi confidavano nel tradimento degli Eruli ed erano certi della vittoria. L’attacco fu portato con una ferocia inusitata e le prime due linee di fanteria bizantina non ressero l’urto, nonostante la presenza dei cavalieri pesanti fatti smontare e sistemati qui da Narsete in previsione di un simile attacco. Una volta spezzate le prime due linee nemiche, i Franchi ingaggiarono battaglia con la terza e ultima schiera di fanteria, con l’obiettivo di spezzarne il centro. A questo punto, però, l’esperto condottiero bizantino ordinò alle due ali di catafratti di serrare i ranghi e chiudersi a tenaglia sulla massa di barbari. Intrappolati su tre lati i Franchi si riordinarono, creando nuovamente una schiera a quadrato e continuando a impegnare la fanteria pesante di Narsete. Ciò che però sorprendeva i Franchi era che i catafratti bizantini non (segue a p. 37) ottobre

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danubio

536

Regno degli Ostrogoti NNaarsresetes

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551 55 5 551

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Campagne ne delle le e truppe pe biz bi bizantine zaanti tine tin (prima fase faase della guerra guerraa greco-gotica) gre gr g eco-g o-gotica) o-g

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Nuove ccampagne ampagne ne bizantine e (secondaa fase della el a guerra ella gue ue erra greco-gotica) g greco greco-gotic goticca) Battaglie principali 552

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MEDIOEVO

ottobre

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battaglie casilino Un sistema quasi feudale Dopo i fulminei, ma effimeri successi di Giustiniano, l’impero bizantino andò incontro a continui periodi di crisi, subendo ripetuti attacchi da parte di vecchi e nuovi nemici: Slavi, Bulgari, Persiani e Arabi. Costanzo II (641-668 d.C.), riformò parzialmente l’esercito bizantino, essendo ormai impossibile mantenere truppe regolari come nei secoli precedenti. La nuova organizzazione in temi prevedeva che ciascun distretto, chiamato appunto tema, fornisse truppe sotto il comando di un generale o strategos. Oltre che a rimpiazzare l’antica struttura militare, i temi servirono anche a formare una nuova base per la struttura sociale dell’impero bizantino, introducendo cosí, anche in Oriente, una sorta di antesignano del «feudalesimo». I soldati legati a un particolare tema erano infatti anche proprietari di lotti di terreno in quell’area, un vincolo che recuperava in realtà un sistema già sperimentato nel tardo impero. E cosí, da mera ripartizione militare, il tema si trasformò ben presto in una vera e propria unità di tipo socio-economica del mondo bizantino. Ricostruzione dell’equipaggiamento dei buccellarii dell’esercito bizantino. Pagati direttamente dai propri generali, ne costituivano una sorta di guardia personale.

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ottobre

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LE GUARNIGIONI MILITARI OSTROGOTE NELLA PENISOLA ITALIANA Tridentum Trid Tr id den entu um Comum C Co omu m m Mediolanum d Ticinum (P (Pavia) Dertona D De rtona (Tortona) (To (T Tortoonaa)

Tarvisium T Ta rvisium ((Treviso) Treviso) o) Verona

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Urviventus Ur U v veenttus vi us (Orvieto) (Or (O Orrvieeto t )

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Città fortificate con guarnigioni ostrogote durante la guerra ostrogoto-bizantina (secondo Procopio) Fortezze Sedi di comites goti Capitali

Panormus PPa normus normu

SSyracusae Sy yra racu cusae cusa cu saae

L’organizzazione dell’esercito bizantino A partire dal VII secolo, l’unità militare di base dell’esercito bizantino fu il bandum. Esso era costituito da circa 400 uomini, comandati da un tribuno o un conte. Le bande erano ugualmente suddivise in reparti di cavalleria e fanteria: la cavalleria aveva una predominanza di

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reparti pesanti. La fanteria era costituita da fanti leggeri muniti di arco o di lancia che accompagnavano la vera e propria fanteria pesante. L’unione di piú bande, con un massimo di otto, costituiva una turma (2000- 3200 uomini). Due o tre turme formavano un tema (4000-9600 uomini).

E tre o quattro temi, costituivano un regolare esercito imperiale, i cui effettivi ammontavano a circa 25 000-30 000 uomini. In totale, è probabile che l’imperatore di Bisanzio potesse contare su un complessivo numero di 150 000 uomini armati, dislocati nei vari territori dell’impero.

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battaglie casilino Narsete

Glorie e rovesci dell’eunuco generale Narsete, il condottiero bizantino che sbaragliò i Goti, iniziò la propria carriera come eunuco di corte. Nato in Armenia, divenne gran ciambellano dell’imperatore Giustiniano, il quale, nel 538, lo inviò in Italia per coadiuvare il generale Belisario, già impegnato contro gli Ostrogoti. Tra i due, però, sorsero ben presto frizioni e Giustiniano richiamò a

lo scramasax

Un’arma polivalente Fra le armi che componevano l’equipaggiamento tipico delle popolazioni germaniche, un ruolo di preminenza aveva il gruppo dei sax, tra cui primeggiava lo scramasax, termine etimologicamente composto da scrama (produttore di ferite) e sax (lama da guerra). La sua prima attestazione appare nella Historia Francorum, composta da Gregorio di Tours, vescovo vissuto in Gallia nel VI secolo. Lo scramasax poteva essere di tipologie varie: si andava infatti da un formato piccolo (tra i 30-40 cm), sino a quello piú vicino alla spada che ad altro (85-100 cm). Fu arma tipica dei Sassoni che la portavano in un fodero, appesa alla cinta dal lato sinistro,

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Costantinopoli Narsete. Nonostante i successi riportati in Italia, e dopo la vittoria sui Vandali, Belisario fu destituito e, nel 551, fu Narsete a comandare la terza e ultima spedizione in Italia per chiudere la partita con gli Ostrogoti. A differenza di Belisario che, dal Mezzogiorno, dove era sbarcato, risalí la Penisola infliggendo cocenti sconfitte ai Goti, Narsete preferí entrare in Italia via terra e, giunto a Ravenna, sbaragliò nel 552 i Goti nella

accanto alla spada. Fra le varie armi in dotazione ai guerrieri barbarici, lo scramasax era certamente quello piú diffuso e veniva utilizzato anche nella vita quotidiana per i lavori domestici o per quelli agricoli. Esemplari di scramasax, però, sono stati rinvenuti anche in sepolture di combattenti alamanni, longobardi e franchi, sino alla fine del periodo merovingio, a testimoniarne il successo e la diffusione tra i popoli germanici. Solo con il prevalere della cavalleria rispetto ai gruppi appiedati, il modello lungo scomparve, mentre il piccolo scramasax si andò ad affiancare alla spada, divenendo un coltellaccio utile nei combattimenti ravvicinati.

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battaglia di Tagina, l’attuale Gualdo Tadino. Dopo l’ulteriore successo a Casilino, si diresse a Roma e restaurò la supremazia imperiale bizantina sull’intera Penisola, devastata ormai da ben vent’anni di guerre, e funestata da epidemie e carestie. Il nuovo imperatore, Giustino II, lo sollevò dall’incarico nel 565 e Narsete preferí ritirarsi a Napoli. Tre anni piú tardi, quando i Longobardi di Alboino giunsero

In alto scramasax in ferro, rame e foglia d’oro di produzione franca, dalla Borgogna. VII sec. Cleveland, Cleveland Museum of Art. Nella pagina accanto Ravenna, basilica di S. Vitale. Particolare del mosaico raffigurante l’imperatore Giustiniano I circondato dalla sua corte, tra cui si riconosce il generale Belisario (con la barba). VI sec.

in Italia, fu papa Giovanni III a chiamarlo, benché ormai anziano, a dirigere le operazioni contro i nuovi invasori. L’esarca destituito si stabilí a Roma, ma non fu bene accolto dalla popolazione dell’Urbe che indusse persino il papa, che lo aveva fatto venire, a risiedere sulla via Appia, a due miglia dalla città. Da lí il pontefice continuò a esercitare il proprio mandato, sino alla morte, che seguí di poco quella di Narsete nel 569.

caricavano al galoppo, ma si limitavano a impedire loro la fuga sui fianchi. Tuttavia, a un certo punto, Narsete ordinò ai suoi cavalieri di caricare gli archi e una enorme pioggia di dardi iniziò a travolgere i Franchi, bloccati al centro di questa letale tenaglia. Dalle retrovie gli Eruli avanzarono, respingendo indietro i Franchi, mentre un ulteriore corpo di cavalleria, nascosto preventivamente da Narsete in un fitto bosco, caricò da tergo l’esercito nemico.

Lo scontro si trasforma in una strage

I Franchi mantennero la formazione, sapendo bene che, se si fossero sparpagliati, sarebbero stati un facile bersaglio per le lance e le spade mortali dei catafratti, e lentamente iniziarono a ritirarsi, tornando sulle posizioni che avevano occupato all’inizio delle ostilità. Nel ritirarsi, lo schieramento franco perse però coesione e si ritrovò alla mercé della cavalleria pesante bizantina che, a quel punto, ricevette l’ordine di caricare a fondo. Fu una carneficina: stando ad Agazia – il quale naturalmente esagera – i Bizantini persero solo otto uomini; dei 15 000 Franchi, invece, appena cinque sarebbero sopravvissuti. Narsete aveva riportato una splendida vittoria, confermando la propria capacità tattica e dimostrando la superiorità militare bizantina, ormai basata sulla cooperazione tra truppe appiedate e cavalleria. F

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personaggio jan zizka

Quel contadino che si fece eroe di Federico Canaccini

Sul finire del Trecento, Jan Zizka fu protagonista della storia delle terre di Boemia e Moravia. Di umili origini, si impose come uomo d’armi, e, sospinto dagli ideali del predicatore Jan Hus, si batté vittoriosamente prima contro l’Ordine Teutonico e poi con Sigismondo, re d’Ungheria

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celte difficili e all’apparenza infelici possono dare una svolta inaspettata al corso della vita di un uomo: è quanto accadde a un contadino boemo che si trasformò in un leader carismatico e addirittura in eroe nazionale. Nel 1380 il ventenne Jan, detto Zizka, (cioè «l’orbo», per aver perso un occhio in una lite da ragazzo), vendette il proprio terreno nel Trocnov, in Boemia, poiché non era piú in grado di soddisfare le richieste di Enrico di Rosenberg, il piú importante nobile boemo, di origini germaniche, con il quale aveva contratto piú di un debito. Il giovane abbandonò cosí la vita contadina per dedicarsi a un’attività in cui doveva eccellere già da prima: la caccia. Zizka fu assunto quale cacciatore reale da Venceslao IV e si trovò a contatto con la nobiltà boema e cèca, allacciando buoni rapporti. Nel 1395, però, questa sua nuova attività fu bruscamente interrotta, poiché tra il sovrano e i nobili sorsero contrasti profondi, al punto che Enrico di Rosenberg incarcerò il re, che mirava ad accentrare i poteri, minando le autonomie della vecchia feudalità. Ne nacquero due fazioni, che opposero i potenti dell’area boemo-ungherese: da un lato, a Rosenberg si unirono il re d’Ungheria, Sigismondo, e il margravio di Moravia, Jost; dall’altro Venceslao ebbe l’appoggio del duca di Gorlitz, suo fratello, e della no-

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Vitkov (Praga, Repubblica Ceca). Particolare del colossale ritratto equestre di Jan Zizka compreso nel monumento in onore dei legionari cecoslovacchi, realizzato fra il 1928 e il 1938. ottobre

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biltà minore, timorosa dello strapotere di Rosenberg. La divisione lacerò il Paese che divenne teatro di lotte tra gruppi armati reclutati tanto in Boemia che in Moravia, quanto nel regno cèco. E, nell’occasione, Zizka diede prova della sua fedeltà a Venceslao, mettendo in piedi una compagnia militare privata, con cui organizzò raid contro le terre dei Rosenberg, in Boemia meridionale. Nonostante una tregua, le bande proseguirono la lotta, approfittando del malcontento che era stato sobillato dai nobili e che era ormai difficile placare. La presenza di questi gruppi paramilitari si era fatta

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personaggio jan zizka Jan Hus, dall’ambone al rogo Nato a Husinec, nella Boemia meridionale, probabilmente nel 1369, Jan Hus fu professore dell’Università di Praga e predicatore della cosiddetta Cappella di Betlemme. Continuando l’opera

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riformatrice di Milic di Kromeriz e di Matteo di Janov, Hus si ispirò soprattutto alle teorie dell’inglese John Wycliffe. Le autorità ecclesiastiche tedesche intensificarono le accuse contro di lui, soprattutto dopo il 1409 quando, nella generale riorganizzazione universitaria in chiave nazionale cèca, il controllo germanico venne sempre piú scalzato. Nel 1412, Hus dovette abbandonare Praga, per via dei contrasti con il re, soprattutto in merito ai commerci e alle indulgenze. Da allora riscosse un enorme successo come predicatore itinerante tra i contadini cèchi. In quegli anni elaborò una teoria, espressa anche nel suo De Ecclesia, che mirava a migliorare la società esistente, in cui vigesse maggiore armonia tra i poveri e i ricchi, tra i sudditi e i sovrani. Nel 1414, accettò con imprudenza l’invito a essere ascoltato presso il Concilio di Costanza: fu subito arrestato e accusato di eresia. La condanna a morte, eseguita mediante il rogo, il 6 luglio 1415, scatenò un’ondata di proteste nelle terre cèche, favorendo la diffusione del movimento riformista.

ottobre

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A sinistra miniatura raffigurante il re d’Ungheira Sigismondo al Concilio di Costanza, dalla Spiezer Chronik di Diebold Schilling. 1484-85. Berna, Burgerbibliothek. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Jan Hus che brucia sul rogo, da un’edizione de La vie de l’empereur Sigismond di Eberhard Windeck. 1450 circa. Collezione privata.

endemica e il sovrano dovette indirizzare queste bande verso un obiettivo esterno: i Cavalieri Teutonici. Lasciata la Terra Santa, l’Ordine militare aveva trasferito la propria base sul Baltico, conquistando Prussia, Livonia ed Estonia, anche su invito della cattolica Polonia. Un assetto che perdurò sino ai primi del XV secolo quando salí sul trono polacco il granduca di Lituania, Jagello. Lo scontro sarebbe stato inevitabile e la rivolta della Samogizia del 1409, peraltro ancora pagana, fu il casus belli: la Polonia e la Lituania appoggiarono la ribellione, inducendo il Gran Maestro a dichiarare guerra in nome dell’ortodossia.

Un dileggio mal riposto

In Boemia da anni serpeggiava l’odio nei confronti delle famiglie tedesche, spesso detentrici del controllo economico, e la possibilità di combattere a fianco dei Polacchi contro i Teutonici, fu per loro una buona occasione. Tra coloro che aderirono alla campagna, Zizka, messosi alla testa di una banda di mercenari esperti in guerriglia, combatté sotto i vessilli del governatore della Lituania, Witold. Nonostante le sferzanti battute del Gran Maestro Ulrich von Jungingen, che definiva «gli uomini di Witold, piú abili a combattere col cucchiaio che con la spada», sulla piana di Tannenberg, il 15 luglio 1410, il verdetto

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fu inequivocabile: la sconfitta dell’Ordine rappresentò un punto di non ritorno per il dominio germanico nel Baltico. Dopo la battaglia, seguí una campagna di riconquista e Zizka fu incaricato di difendere il castello polacco di Radzin dall’assedio teutonico: la resistenza e la vittoria ottenuta gli garantirono quella fama che probabilmente non aveva ottenuto a Tannenberg. Lo scontro con i Teutonici permise all’ormai cinquantenne Jan Zizka di arricchire la sua esperienza tattica, apprendendo le tecniche militari dei Polacchi, che erano soliti posizionare i propri balestrieri e artiglieri dietro fortificazioni improvvisate, composte da carri legati fra loro. Tale strategia, che Zizka aveva assai di rado utilizzato finché era rimasto al servizio del re, divenne tipica del suo modo di combattere. Nel 1414 Jan acquistò una casa nel quartiere benestante di Praga, la Città Nuova, vicino alla corte regia. Il sovrano lo aveva assunto come ufficiale del corpo di guardia di palazzo e questa mansione gli diede la possibilità di accompagnare spesso la regina alla cosiddetta Cappella di Betlemme, dove era solito predicare Jan Hus (vedi box alla pagina precedente). Dall’ambone, Hus predicò senza soluzione di continuità, dal 1402 al 1414, dinnanzi a centinaia persone, denunciando la corruzione papale, richiamando tutti alla morigeratezza, al fine di

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personaggio jan zizka Nella pagina accanto miniatura raffigurante uno scontro fra cattolici e ussiti, da La vie de l’empereur Sigismond. 1450 circa. Collezione privata. In basso incisione ottocentesca raffigurante Jan Zizka che guida i suoi uomini nella vittoriosa battaglia combattuta sotto le mura di Praga contro le truppe di Sigismondo.

ristabilire la moralità cosí semplicemente delineata nel Vangelo. Erano gli anni in cui tre papi si contendevano il soglio di Pietro e le critiche alla gestione della Chiesa erano piú che legittime. Ciononostante, l’arcivescovo Zbynek, sostenitore del papa, scomunicò Hus, il quale proseguí però la sua predicazione in Boemia meridionale, accattivandosi le simpatie dei piú umili e anche di Zizka, che trovò ora una motivazione religiosa per sfogare il rancore serbato sin dalla gioventú contro i grandi nobili germanici «cioè i nemici naturali dei Boemi», come furono definiti da un cronista taborita; come Jan, molti Cèchi aderirono a queste idee che coincisero con una fase di acceso nazionalismo anti-germanico.

Il tradimento scatena la protesta

Nel 1415, Jan Hus, che avrebbe dovuto essere protetto da un salvacondotto di Sigismondo, finí al rogo al Concilio di Costanza. Il mancato rispetto dell’accordo stipulato dal re, vicino alla nobiltà tedesca, non fece che inasprire gli animi e 452 nobili cèchi sottoscrissero un documento che palesava la loro indignazione per l’uccisione di Hus e del suo discepolo, Girolamo da Praga, e che garantiva la predicazione ussita sui loro territori. L’università di Praga incoraggiò la protesta anticonciliare favorendo il rito eucaristico «sub utraque specie», come richiesto da Hus: il vino, sino ad allora, era infatti prerogativa solo clericale. Ce n’era quanto bastava per scatenare una sommossa. I rivoltosi chie-

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tabor

Carri armati ante litteram I Tabor, detti Wagenburg dai Tedeschi, furono impiegati come fortezza mobile. Si trattava di un quadrato fatto di carri, uniti con catene di ferro, facile da realizzare e praticamente invulnerabile alla cavalleria nemica. Il nome deriverebbe dalla fortezza ussita di Tábor, il cui nome farebbe riferimento al biblico monte Tabor. Ogni carro portava un equipaggio di circa 20 soldati: 7 balestrieri, 2 schioppettieri, 7 picchieri, 2 portatori di scudo e 2 guidatori. Una volta disposta la cavalleria al centro del quadrato, si dava inizio alla fase difensiva, per poi passare al contrattacco. Durante la fase difensiva si colpiva il nemico con l’artiglieria, piccoli «fucili», in céco houfnice, da cui forse discenderebbe il termine obice, e altre armi da fuoco, chiamate in ceco píštala, da cui probabilmente la parola italiana pistola. Quando il nemico si avvicinava al Wagenburg, balestrieri e artiglieri dovevano uscir fuori per colpire con maggior precisione, lanciando anche pietre, una volta terminate le munizioni. L’obiettivo era quello di sfiancare gli eserciti nemici, dotati di cavalieri ben corazzati: gli ussiti, azzoppando o ferendo i cavalli, costringevano i cavalieri a smontare rendendoli cosí un facile bersaglio. Quando la cavalleria pesante era neutralizzata, iniziava la seconda parte della battaglia: fanti armati di spade, mazzafrusti e picche uscivano per attaccare l’ormai debole nemico, sostenuti dalla cavalleria sino ad allora riparata all’interno del Wagenburg. devano che tutti i privilegi della Boemia venissero ristabiliti e garantiti: l’elettività della monarchia, l’autonomia dall’impero, l’esclusione degli stranieri dalle cariche pubbliche. Inoltre, da un punto di vista religioso, chiedevano che le superiori cariche ecclesiastiche tornassero eleggibili, che i preti fossero soggetti alla giurisdizione laica, che la chiesa boema rinunciasse ai suoi beni temporali, i quali sarebbero tornati ai vari signori delle contrade in cui si trovavano. Temendo per la propria autorità, Venceslao fece chiudere le chiese ussite, ma la protesta assunse i toni del fanatismo religioso e gli esuli si radunarono attorno alle comunità dei taboriti (i piú estremisti e intransigenti degli ussiti, che presero nome dalla città di Tábor nella Boemia meridionale, n.d.r.), i quali basavano la loro dottrina esclusivamente sugli insegnamenti biblici, tralasciando qualsiasi altro rito. Mentre tutto ciò travolgeva la Boemia, Zizka – che nel 1415 aveva combattuto anche ad Azincourt contro i Francesi – fu chiamato da Jan Zelivsky, un ex monaco messosi a capo della folla, ottobre

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personaggio jan zizka Pippo Spano

Una vita sui campi di battaglia Il nome Pippo Spano, spesso frainteso, è in realtà il soprannome del condottiero fiorentino Filippo Buondelmonti degli Scolari, detto anche Pippo di Ozora (1369-1426). Il mercenario toscano lavorò per Sigismondo, il quale lo creò conte di Timisoara: la carica di conte, in lingua originale, era Ispàn, da cui il soprannome che campeggia anche nel ritratto di Andrea del Castagno facente parte del ciclo dei Ritratti di uomini illustri, oggi agli Uffizi di Firenze, in cui si legge Philippus Hispanus. Nessun legame con la Spagna, quindi, per il condottiero fiorentino, che invece combatté in Italia contro Carlo di Durazzo e in Serbia contro i Turchi. In Italia, sempre al soldo di Sigismondo, si scontrò con Venezia, strappandole Udine, e facendo scorrerie sino a Verona, Trieste e in Dalmazia. Fermato da Carlo Malatesta al Tagliamento, lo Spano dovette ripiegare su Feltre e Belluno. Per Sigismondo fu anche ambasciatore presso il papa, suo rappresentante al Concilio di Costanza e governatore generale dell’Ungheria, dove svolse proficue attività bancarie, oltre a scontrarsi con gli eserciti ussiti di Zizka. il quale aveva compreso l’inevitabilità della guerra. Il condottiero, ormai ussita, si uní alla rivolta nel 1419, quando ancora era a capo della sicurezza regia. Il clima era quello del profetismo religioso del XV secolo e Zizka non credeva certo di tradire il re: combattere a fianco degli ussiti significava per lui obbedire alla volontà di Dio, convinto che anche Venceslao, che peraltro aveva manifestato qualche simpatia per il movimento, avrebbe abbracciato la causa. Quando però la folla intransigente, dopo aver assalito il Palazzo di Praga, defenestrò i Consiglieri (22 luglio 1419), il re si convinse che l’unico modo per trattare con gli ussiti era la guerra e trovò in suo fratello Sigismondo, eletto dai Tedeschi re di Boemia, l’unico alleato. Venceslao non resse gli eventi traumatici e morí poco dopo, lasciando come erede naturale proprio il fratello, odiato dagli ussiti anche perché fondatore dell’Ordine del Drago, un corpo crociato d’élite, creato col fine di debellare gli eretici. Nel clima di profetismo del tempo, quel Drago fu assimilato dagli ussiti alla Bestia dell’Apocalisse, e vi riconobbero lo stesso Sigismondo, vero obiettivo della

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A destra La morte di Jan Zizka da Trocnov, olio su tela di Karel Javurek. XIX sec. Praga, Galleria della Città di Praga.

In alto particolare del ritratto di Pippo Spano dipinto da Andrea del Castagno. 1448-51. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

rivolta ormai divenuta nazionalistica, sociale e religiosa. Retta dalla moglie di Venceslao, di simpatia ussita, Praga era divisa in due: le guarnigioni tedesche controllavano la città, mentre agli intransigenti taboriti era vietato l’accesso. Ai primi tafferugli seguí una vittoria ussita, con a capo Zizka, il quale sgominò i mercenari tedeschi evitando, al contempo, di far cadere Praga in mano ai taboriti piú esagitati.

Attrezzi trasformati in armi

Forte di questo successo, Jan, sebbene avesse origini borghesi, riuscí a coinvolgere gran parte della nobiltà della Boemia occidentale, mentre la parte orientale rimase fedele a Roma: Kutna Hora, una comunità di minatori, perlopiú di origine tedesca, divenne il centro dell’opposizione cattolica piú estremista. Jan organizzò militarmente la città di Tábor dove, nel 1420, costituí il proprio esercito ussita con il quale compí diverse razzie, riuscendo a ottenere viveri, armi e cavalli per i propri guerrieri perlopiú disarmati. Oltre a queste scorribande, a Tábor furono convertiti in armi anche strumenti agricoli, come ottobre

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il mazzafrusto usato per la trebbiatura del grano che, rinforzato da chiodi, catene o borchie, divenne uno dei simboli della rivolta ussita; anche i carri furono trasformati in macchine da guerra, i cosiddetti Wagenburg, i temibili carri da guerra taboriti (vedi box a p. 42). Nel 1420, dopo che papa Martino V bandí la prima crociata contro gli ussiti, Sigismondo mobilitò un esercito col fine di uccidere gli eretici, confiscando i loro beni: un saccheggio e un’occupazione mascherati da crociata. Tra il 1420 e il 1427, furono ben quattro le crociate bandite inutilmente contro i seguaci di Hus. I primi successi per Sigismondo arrivarono grazie ad alcune minime concessioni religiose alle quali però Cenek di Wartenberg, guardiano del castello di Hradcany, cedette immediatamente: la strada per Praga era aperta e Sigismondo, pur avendo firmato un trattato con la città, ne pretese la resa incondizionata. Fu questo il momento di Jan Zizka, il quale venne accolto con giubilo dalla popolazione praghese; la stessa simpatia non fu dimostrata ai taboriti, il cui puritanesimo non era apprezzato dalla agiata classe dei mercanti praghesi.

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L’esercito di Sigismondo, composto da 80 000 uomini circa – tra cui molti Boemi, Germanici e Ungheresi – era comandato da Pippo Spano, famoso per la sua brutalità (vedi box alla pagina precedente). La battaglia, combattuta sotto le mura di Praga, il 14 luglio del 1420, fu particolarmente cruenta: i fanatici taboriti, al grido di «Dio è il nostro Signore» e dopo aver intonato il canto salmodiale «Coloro che sono i combattenti di Dio», respinsero con forza la cavalleria di Sigismondo, il quale, pur avendo perduto solo poche centinaia di uomini, impressionato da tanta ferocia, si guardò bene dal proseguire l’attacco alla collina di Vitkov, da allora chiamata Zizkov, e celebrata come la prima grande vittoria ussita. L’assedio di Praga e la sua distruzione erano scongiurati, giacché anche i cattolici e i nobili boemi non volevano trovarsi a vivere l’indomani in un cumulo di macerie: la prima crociata ussita era terminata. L’anno seguente Jan Zizka rivolse le sue scorrerie contro Ulrich von Rosenberg e poi si portò nello Pzlen, una regione al confine con la Baviera e il Palatinato, dove migliaia di Boemi si trovarono coinvolti in massacri

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personaggio jan zizka commessi da entrambe le parti in causa. Nel frattempo Jan, divenuto il capo del movimento, decise di assumere il nome di battaglia di «Jan Zizka del Calice», alludendo alla richiesta ussita della comunione sotto le due specie, e anche il suo stemma passò dal Granchio di famiglia al Calice taborita. Durante la campagna contro il castello di Bor, una freccia colpí il condottiero nell’occhio destro, l’unico ancora sano, causandogli un’infezione che lo avrebbe condotto alla cecità. Dopo che i sovrani di Lituania e Polonia rifiutarono la corona offerta loro dagli ussiti, Sigismondo, irritato da tali proposte – che scavalcavano la sua legittima pretesa al trono –, nominò lo Spano comandante di un grande esercito che puntò sul castello di Kutna Hora, dove Zizka organizzò la resistenza: 10 000 soldati ussiti attendevano dietro ai Wagenburg la carica di cavalleria nemica. Nonostante i ripetuti assalti, i cavalieri ungheresi non riuscirono a spezzare la linea di carri e, a fine giornata, sembrava che gli ussiti avessero conseguito un’ulteriore vittoria. Ma lo Spano non aveva riposto tutte la sue speranze nella sola cavalleria: sapendo che in città, a maggioranza germanica, era stata lasciata solamente una piccola guarnigione, aggirate le difese di Zizka, si fece aprire le porte dai Tedeschi, dando inizio a un’orribile carneficina di taboriti e conquistando Kutna Hora. Sigismondo aveva cosí conseguito un grande obiettivo: Jan ora si trovava circondato dalle forze nemiche, peraltro con pochi rifornimenti. L’unica mossa che il condottiero cèco poteva tentare era quella di sfondare le linee nemiche. Con una mossa tanto azzardata, quanto inaspettata, Zizka riuscí a superare il blocco ungherese con i carri da guerra.

Rievocazione di una battaglia combattuta da Jan Zizka, con un figurante, al centro, che impersona il condottiero boemo.

La disfatta di Sigismondo

Appena riorganizzato l’esercito, Jan tentò la riconquista, marciando su Kutna Hora pochi mesi piú tardi. Pippo Spano, che era stato lasciato da Sigismondo a presidiare la città, valutando la forza dei taboriti, decise di abbandonarla alle fiamme, cosí da non lasciare né risorse, né ricovero alle truppe ussite. Ma Zizka riuscí a domare l’incendio e proseguí inseguendo l’esercito di Sigismondo; lo Spano sconsigliò di impegnare battaglia, ma il sovrano si impose con ostinazione, ordinando alle truppe, peraltro demoralizzate, di disporsi per combattere. All’avanzata dei taboriti l’esercito di Sigismondo si scompose, trasformando quella che era una ritirata, in una orribile rotta. Molti cavalieri ungheresi morirono nel goffo tentativo di attraversare i fiumi ghiacciati che cedevano sotto il peso delle loro cavalcature e armature pesanti, regalando un ennesimo successo all’ormai anziano condottiero cèco. La vittoria di Kutna Hora procurò a Zizka il riconoscimento ufficiale di comandante supremo di tutte le truppe ussite. In questa veste, anche alla luce di nuovi

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dissidi interni agli stessi ussiti, Zizka, nel 1423, diede vita a un nuovo movimento, detto degli orebiti, dal nome del monte Oreb, per il quale dettò anche un codice in cui si fondevano elementi religiosi e militari: per esempio, prima di ogni azione militare, tutti avevano l’obbligo di recitare una preghiera in lingua cèca, e il bottino doveva essere spartito in parti uguali, pena la morte. In realtà, la presenza in città di orebiti e taboriti irritava profondamente la nobiltà di Praga che, nel 1423, sfidò il proprio stesso comandante nella piana di Hradec: «Arca contro arca», scrisse un cronista del tempo. Zizka sconfisse l’esercito praghese e si dice che abbia ucciso personalmente il sacerdote che guidava le truppe ottobre

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nemiche. A seguito di questo episodio militare scoppiò una vera guerra civile che culminò, l’anno seguente, nella battaglia di Malesov, durante la quale il condottiero cèco riportò una grande vittoria uccidendo centinaia di praghesi e ottenendo un enorme bottino di armi e rifornimenti. Solo un armistizio impedí lo scontro diretto con Praga, che strinse una nuova alleanza con Zizka per sottomettere la Moravia: sarebbe stata l’ultima campagna dell’oramai anziano condottiero. Infatti, durante l’assedio del castello di Pribyslav, Zizka si ammalò. Dalle fonti non è possibile comprendere che tipo di malattia avesse contratto, ma nel giro di pochi giorni morí: alcuni cronisti parlano di peste. Prima

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di morire avrebbe incitato i suoi «a combattere per l’amore di Dio e a difendere con accanimento e con fedeltà la Verità, in modo da guadagnarsi l’eterno riposo». Gli ussiti perdevano la loro guida e da allora mutarono il loro nome in «Orfani», sventolando lo stendardo con Zizka a cavallo, con in mano la sua famosa mazza a forma di pugno chiuso. Enea Silvio Piccolomini narra che il corpo di Zizka sarebbe stato trafugato dalla tomba per assecondare un suo desiderio: egli, infatti, avrebbe voluto che il suo cadavere fosse scuoiato e della sua pelle si facesse un tamburo che per sempre avrebbe accompagnato i suoi uomini in battaglia cosí che, anche dopo la morte, «la sua voce» spronasse l’esercito ussita alla vittoria. F

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costume e società l’università

In principio fu lo Studium di Carla Frova

L’istituzione universitaria, per come la conosciamo oggi, ha origine nel Medioevo. Risale, infatti, agli anni immediatamente successivi al Mille, quando si fece strada la volontà di strutturare la diffusione del sapere. Nacquero cosí i primi atenei – come quelli di Bologna e Parigi –, che in breve tempo, pur conservando un carattere elitario, acquisirono un ruolo decisivo nello sviluppo di tutta la società 50

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per noi difficile immaginare una società culturalmente progredita che non abbia un sistema universitario. Eppure ci sono state grandi civiltà letterarie che non hanno conosciuto l’università: pensiamo alla Grecia antica, a Roma imperiale, o anche all’Islam del periodo aureo, fiorente di scuole superiori che però si possono paragonare alle nostre università soltanto in modo molto approssimativo. L’università è stata «inventata» nell’Occidente latino durante i secoli centrali ottobre

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del Medioevo, e in età moderna si è affermata in tutti i continenti come una tipica e peculiare istituzione della cultura occidentale. Nell’Alto Medioevo il sapere era concepito come un complesso unitario, articolato in sette discipline: le sette arti liberali. Le miniature dei manoscritti scolastici rappresentano spesso il sistema del sapere con l’immagine di un albero, dal cui tronco possente si dipartono sette rami, uno per ciascuna arte: grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, astronomia, musica. Per ritenersi dotto, un uomo avrebbe dovuto essere padrone di tutte quante le discipline, anche se nella realtà, di quei pochissimi che potevano accedere all’istruzione superiore, quasi nessuno riusciva a completare effettivamente l’intero curriculum. Una profonda ristrutturazione di questo schema ebbe luogo a partire dal Mille. Uomini nuovi si in-

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serivano nel territorio della letteratura, e la società nel suo complesso avvertiva nuove esigenze culturali. Nelle scuole universitarie, i maestri cominciarono a disegnare un nuovo e piú complesso edificio del sapere. Furono soprattutto i filosofi ad assumersi il compito della riflessione teorica sull’organizzazione delle discipline.

Firenze, S. Maria Novella, Cappellone degli Spagnoli. Il registro inferiore del Trionfo di San Tommaso d’Aquino, affresco di Andrea di Bonaiuto. 1365-1367. Quattordici stalli decorati incorniciano altrettante figure femminili: le prime sette a sinistra rappresentano le Scienze sacre, mentre le altre sono le Arti liberali; ai piedi di ogni figura siede un personaggio distintosi nella disciplina corrispondente.

Sulle orme di Aristotele

opere del grande filosofo greco sono un elemento decisivo per lo sviluppo della filosofia e della scienza. La nuova concezione della cultura resta profondamente unitaria e si apre al tempo stesso alle specializzazioni. Lo Studium è uno, ma si articola nelle diverse facolta: arti, medicina, diritto, teologia. Una sede universitaria deve offrire insegnamenti in tutte le discipline, anche se perlopiú i diversi centri legano la loro fama a particolari gruppi di insegnamenti. Gli studenti accorrono a Parigi per la fama dei suoi maestri

Lo studio delle sette arti liberali, come si svolgeva nell’Alto Medioevo, è ora semplicemente una preparazione agli studi superiori, il cui contenuto è articolato, secondo lo schema della divisione della filosofia, in discipline che si occupano della natura, discipline morali e discipline che riguardano le realtà soprannaturali (metafisica). Questa rivoluzione si compie nel segno della filosofia aristotelica: tradotte dal greco in arabo e poi dall’arabo in latino, a partire dal Duecento le

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di arti e di teologia, a Bologna per frequentare le scuole di diritto, Il programma di un corso universitario è costituito da un elenco di testi. Ogni disciplina (teologia, filosofia, diritto, ecc.) coincide con i libri degli scrittori che l’hanno trattata in maniera autorevole, e i maestri hanno il compito di trasmetterne ai giovani il contenuto senza alterazioni di sorta. Conte-

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nuti e metodi di insegnamento erano in teoria uguali in tutte le sedi (e non a torto si è insistito molto sulla funzione svolta dall’università nella creazione di una cultura europea unitaria); di fatto, potevano esserci variazioni anche di rilievo. Disparità si notano soprattutto nelle facoltà di arti: mentre in alcuni centri, o in alcuni periodi, ci si limitava a studiare i vecchi autori

in uso nelle scuole di arti liberali preuniversitarie, a Oxford o a Parigi, nel corso del Duecento, si leggevano tutte le opere di Aristotele. In quel periodo Aristotele era utilizzato anche da molti teologi: pur se la facoltà di teologia aveva come testi di base la Bibbia e le Sentenze di un maestro del XII secolo, Pietro Lombardo. Il curriculum della facoltà di medicina ottobre

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I primi intellettuali della storia

Parigi, capitale della ragione Nel corso del Duecento l’Università di Parigi vive una vicenda straordinaria, destinata a influenzare profondamente tutta la storia della cultura occidentale. Grazie alle traduzioni in latino, i maestri vengono in contatto con le opere di filosofia naturale, morale, metafisica di Aristotele, fino ad allora sconosciute, e con quelle dei suoi commentatori arabi, Avicenna e Averroè. Già dal 1230 circa i primi testi aristotelici entrano nella facoltà di teologia, dove, a partire dalla metà del secolo, vedranno la luce le grandiose sintesi fra cultura cristiana e pensiero greco classico del francescano Bonaventura e del domenicano Tommaso d’Aquino. In quel periodo i maestri della facoltà di arti, strutturalmente meno legati alla Chiesa e capaci di grande audacia intellettuale, leggono Aristotele con la guida Miniatura raffigurante una lezione all’Università di Bologna, da un’edizione dell’Etica nicomachea di Aristotele. Berlino, Staatliche Museen.

comprendeva autori classici, come Ippocrate e Galeno, e trattati di autori arabi in traduzione latina, in primo luogo il Canone di Avicenna. I libri giuridici che nel VI secolo l’imperatore Giustiniano aveva riunito nel Corpus iuris civilis erano alla base dell’insegnamento del diritto civile, mentre il diritto canonico si studiava sulle raccolte di norme ecclesiastiche messe insieme apposi-

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del piú «materialista» dei suoi commentatori, Averroè. Rifiutandosi di lavorare nel senso della conciliazione, essi giungono a distinguere le verità che si conoscono con la fede da quelle che in piena autonomia si raggiungono, nell’ordine della natura, con la ragione. E proprio per questo supremo esercizio della ragione il filosofo sembra realizzare il massimo della grandezza, della libertà e della virtú concesse a un uomo. I filosofi parigini sono uomini «magnanimi», come essi dicono di sé; sono i primi intellettuali coscienti della loro funzione sociale, secondo alcuni storici; sono anzitutto, per i teologi piú tradizionalisti, l’incarnazione di un orgoglio diabolico. Nel 1270 e nel 1277 le tesi degli averroisti sono condannate dal vescovo di Parigi, anche su suggerimento del papa, e i maestri che le sostengono vengono espulsi dall’università.

tamente o emanate dai pontefici (Decreto e Decretali). Fondato saldamente sulla tradizione degli autori, il sapere tramandato dall’università medievale può sembrare a prima vista statico e ripetitivo. Non è cosi. Innanzitutto, i programmi non si mantengono invariati nel tempo, ma si aprono ad accogliere, accanto ai testi classici, trattati e altra produzione scolastica di maestri moderni, che diventano anch’essi «autori». E, soprattutto, il contenuto dei libri non viene tramandato come cosa morta: al contrario, è ogni volta sottoposto all’incessante lavoro di interpretazione dei maestri: un’opera di dottrina e di sottigliezza, di fantasia e di audacia che, nell’assoluto rispetto del testo classico, lo rende capace di rispondere al bisogni e agli interessi della modernità.

Un sapere libresco

La scienza medievale è tutta fondata sui libri (l’osservazione della natura ricopre uno spazio margi-

nale, e sotto questo aspetto la rivoluzione scientifica della prima età moderna inaugura veramente un nuovo mondo): ma non si può definire libresca in senso spregiativo. Il libro non può fare a meno della mediazione del maestro, vive attraverso la sua voce. Nei due momenti fondamentali della didattica universitaria, la lezione e la disputa, gli studenti apprendono attraverso l’ascolto. Nella lezione, il maestro legge, appunto, il testo, prima di commentarlo; nella disputa, il testo deve ormai essere ben presente alla memoria di coloro che intervengono, affinché essi possano fondare sulla sua autorità le loro argomentazioni. Se per lo studio individuale gli studenti hanno un grande bisogno della pagina scritta (e perciò quella di cui parliamo è un’età di straordinaria espansione della produzione libraria), le aule universitarie restano in larga misura luoghi dell’oralità. Il pontefice Onorio III, nella lettera con la quale nel 1219 assi-

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costume e società l’università La pecia: una risorsa preziosa La rivoluzione culturale che ha contraddistinto il tardo Medioevo, e che ha trovato nella formazione delle università il suo momento di massima elaborazione, ha naturalmente coinvolto gli strumenti pratici del sapere, dunque i libri. Nasce infatti un libro nuovo, innanzitutto nella sua struttura materiale, che deve rispondere alle nuove esigenze degli studenti universitari. Il libro tipico dell’età altomedievale era di norma un codice prodotto nello scriptorium di un monastero. Il libro era destinato sostanzialmente a rimanere all’interno del monastero stesso, e ne costituiva anzi parte dei beni materiali, del thesaurus: al piú veniva donato a qualche eminente personaggio. Utilizzato per una lettura collettiva e non individuale, fatta ad alta voce – che avveniva nel refettorio o nel chiostro –, presentava i fogli scritti il piú delle volte a piena pagina, con ampi spazi fra una riga e l’altra, in una scrittura che al suo interno non distingueva regolarmente le singole parole, e con una decorazione limitata alle pagine e alle lettere iniziali. Il libro universitario, che della produzione libraria tardo-medievale risulta certo l’esempio piú tipizzato e significativo, risponde a modalità di fattura e a esigenze di fruizione tutt’affatto diverse. Copiato negli atélier di scrittura laici, che si sviluppano nei centri urbani, è opera della mano di un copista di professione, il quale, con un vero e proprio contratto di scrittura, riceve l’incarico della trascrizione. Il libro diventa insomma un bene materiale destinato alla vendita e utilizzato, per lo studio individuale, dagli studenti, che su di esso seguono le lezioni dei loro maestri. Al suo interno il codice universitario presenta una pagina scritta a due colonne, con ampi margini destinati a ricevere le glosse, dunque i commenti al testo. Testo all’interno del quale le singole parole sono regolarmente divise le une dalle altre, e che viene scandito da un sistema decorativo che accanto a miniature e lettere iniziali, contempla anche i titoli in rosso – le rubricae – e i segni di paragrafo, in modo da mettere in evidenza le parti in cui si articola il discorso. Al di là della nuova struttura formale, è tuttavia un altro elemento a caratterizzare la produzione libraria universitaria: si tratta del sistema della pecia. Per fare fronte alle continue richieste di libri di testo, e contemporaneamente per vigilare sull’autenticità e correttezza formale dei testi, in molte università europee, innanzitutto a Bologna e a Parigi, sin dai primi decenni del Duecento, si elabora un articolato e funzionale sistema di moltiplicazione dei libri. Di tutti i libri di testo utilizzati si crea una copia

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ufficiale, chiamata exemplar. Questi exemplaria sono scritti in fascicoli sciolti, tutti della medesima lunghezza, fascicoli che si chiamano appunto peciae. A occuparsi di conservare questi exemplaria, e soprattutto a dare in affitto di volta in volta le peciae, erano gli stationarii, sorta di librai che operavano numerosi presso le università. Una commissione di petiarii, eletti fra i professori, verifica all’inizio dell’anno accademico la correttezza testuale di questi exemplaria e ne fissa il prezzo di locazione. Di questi exemplaria si redige una lista ufficiale, che riporta questa tariffa, e che dev’essere affissa nella bottega dello stationarius. Il vantaggio di questo sistema è evidente: i copisti professionisti, come naturalmente i singoli studenti, potevano affittare di volta in volta la pecia loro necessaria per trascriverne il testo. Inoltre, in questo modo, era possibile che a copiare uno stesso testo fossero intente piú persone, tante quanti erano i fascicoli in cui era diviso il manoscritto. Questo meccanismo, tuttavia, poteva frequentemente incepparsi, provocando «incidenti» nel lavoro di trascrizione, dei quali ritroviamo le tracce proprio nei manoscritti nei cui margini compare, spesso in lettere assai minute, talora erase o parzialmente rifilate, l’indicazione della fine o dell’inizio di una pecia, con il numero che la individuava. Poteva però capitare che il copista, finita la trascrizione di una pecia, non trovasse nella bottega dello stationarius quella successiva, in quanto già data in locazione a qualcun altro. Egli poteva allora lasciare in bianco un certo numero di fogli e passare a trascrivere la pecia ancora successiva. Ma, una volta ottenuta la pecia mancante, poteva accorgersi che lo spazio lasciato in bianco era troppo, o troppo poco: ecco allora che nel manoscritto si trova una colonna rimasta bianca, oppure che il testo viene copiato anche nei margini e viene scritto in lettere di piccolissimo modulo. Indipendentemente dagli inevitabili incidenti e accidenti, il sistema della pecia è stato capace di rispondere alle esigenze dei lettori di avere a disposizione in tempi brevi tutti i libri loro utili, e a quelle delle università di gestire e controllare la diffusione dei testi, e dunque dei messaggi culturali da trasmettere. Nicoletta Giovè Marchioli

A destra formella a rilievo raffigurante tre studenti con i propri libri. XIV sec. Bologna, Museo Civico Medievale.


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In alto pagina di un trattato di matematica con vignette raffiguranti una lezione. XVI sec. Padova, Biblioteca Universitaria. A sinistra miniatura raffigurante una lezione di anatomia presso la facoltà di medicina dell’Università di Montpellier, dal Chirurgia Magna di Guy de Chauliac. 1363. Montpellier, Musée Atger.

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curava la sua protezione agli universitari parigini, paragonava con ammirazione le loro scuole al «giardino chiuso» di cui parla la Bibbia nel libro del Cantico dei Cantici: uno spazio lussureggiante di vegetazione e irrigato da acque perenni, separato dall’esterno da un muro invalicabile. Che cosa c’era, in realtà, oltre quel muro o, fuor di metafora, quali rapporti intercorsero nel Medioevo fra la cultura universitaria e le altre culture? Si tratta, in primo luogo, di un problema di linguaggi. L’università parla ovunque in latino, e rimarrà fedele a questa «lingua dei filosofi» ancora oltre la fine del Medioevo. I ceti intellettuali trovano nel latino un potente strumento di comunicazione scientifica, che cancella le barriere costituite dalle lingue nazionali; e l’universalità del linguaggio è un

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elemento non secondario dell’ideologia dell’università come istituzione cosmopolita. Tuttavia, rispetto alla società nel suo complesso la scelta del latino è una scelta di separatezza. Nei secoli in cui si sviluppa l’università, non solo la gente, nella vita di tutti i giorni, comunica da tempo in volgare, ma scrittori aperti alla sperimentatione usano con sempre maggior consapevolezza i nuovi linguaggi nella creazione letteraria. Nei primi tempi i rapporti tra la scuola e il mondo della letteratura in volgare sono assai vivaci. Perso-

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naggi che si muovono a metà fra i due ambienti svolgono un’intensa attività di mediazione: pensiamo a Brunetto Latini, venerato da Dante come maestro: nel suo Trésor, pubblicato in francese e poi in italiano, egli condensa molto dell’insegnamento che viene impartito a Parigi nella facoltà delle arti. Analoghi «volgarizzamenti» sono numerosissimi, e interessano molti settori del sapere scolastico. In seguito, i letterati che fanno la scelta del volgare si avvieranno su una strada di sempre maggiore au-

In alto lastra tombale del lettore di diritto civile Pietro Canonici, morto nel 1502. Bologna, Museo Civico Medievale. L’opera è decorata sulla fronte con la tradizionale immagine della lezione, con il dottore, assiso in cattedra, affiancato dai due gruppi di studenti. Nella pagina accanto lastra sepolcrale in pietra d’Istria del lettore bolognese Bonifacio Galluzzi, morto nel 1346, probabilmente realizzata dal lapicida Bettino da Bologna. Bologna, Museo Civico Medievale.

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Le raccomandazioni di Boncompagno da Signa

La scuola ideale? Verde, silenziosa e con ampie finestre Le università e le scuole medievali non sono rimaste in piedi, ma ci è rimasto il progetto di un edificio ideale sognato da un fantasioso professore di retorica all’Università di Bologna: Boncompagno da Signa. Nella sua Rhetorica novissima (1235), un testo fondamentale per gli studenti di retorica, nel capitolo dedicato all’importanza di imparare a memoria, Boncompagno vagheggia un luogo costruito a misura proprio per l’esercizio della memoria, e cioè per lo studio. Boncompagno non vide mai realizzata la sua scuola eppure, da queste sue poche righe di consigli affiorano, come da una nebbia, certi particolari delle scuole che tutti noi abbiamo frequentato... «Un edificio scolastico deve essere costruito in un luogo aperto, dove ci sia aria pura. Deve essere lontano dai luoghi frequentati dalle donne, dai clamori della piazza, dallo strepito dei cavalli, dai canali, dai cani che abbaiano, dai rumori nocivi, dal cigolio e dal cattivo odore. La larghezza e la lunghezza dell’edificio devono avere le stesse dimensioni. Circa le finestre devono essere né piú né meno di quante ne occorrono per una corretta illuminazione. È bene che l’alloggio stia al piano superiore. Il soffitto non deve essere né troppo alto né incombere sul pavimento, perché in entrambi i casi le capacità della memoria diminuiscono. La scuola va pulita dalla polvere e da qualsiasi

sporcizia. Va tenuta sgombra da immagini e pitture a meno che non siano particolarmente efficaci per l’esercizio della memoria nelle varie materie studiate dai ragazzi. Tutte le pareti vanno dipinte esclusivamente di verde, ci deve essere un solo ingresso e le scale non devono essere faticose da salire. Il professore sieda piú in alto degli studenti, a un’altezza tale che possa controllare chi entra. Si dispongano due o tre finestre attraverso le quali di tanto in tanto, specialmente quando è bel tempo, il professore possa guardare fuori e ammirare gli alberi, gli orti e i giardini: la vista delle cose gradevoli rafforza la memoria. Bisogna disporre i posti degli studenti in ordine, cosí si possono ricordare i loro nomi, e anche in modo che tutti riescano a vedere il viso del professore. Gli studenti nobili e di rango elevato siano messi a sedere nei posti migliori. Tutti quelli di una stessa provincia o di una stessa nazione siedano insieme, ma nel rispetto dell’onore che si deve tributare a ciascuno secondo le cariche, la nobiltà e i meriti personali. Non si cambi mai l’ordine dei posti e nessuno osi prendere il posto di un altro, ma ciascuno si tenga quello che gli è stato assegnato. Io non ho mai avuto una scuola cosí e non credo che da qualche parte ne esista una simile. Ma forse, un giorno, questi consigli saranno utili ai posteri». Paolo Garbini

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costume e società l’università Epilogo solenne Didascalia Nelle università medievali la cerimonia durante la quale aliquatur adi odis l’allievo, terminati gli studi, riceveva il titolo di dottore que vero ent qui solennità straordinaria. Le nostre sedute di aveva una doloreium conectu laurea non ne danno neppure una pallida idea, se non, forse, in rehendebis eatur alcune università antiche e gelose delle proprie tradizioni: le piú tendamusam prestigiose università inglesi, per esempio. consent, perspitiche aspira ad addottorarsi in diritto civile a Lo studente conseque Bolognanis(parliamo dell’epoca sulla quale siamo meglio maxim eaquis cioè dalla seconda metà del Duecento in documentati, earuntia cones all’esame finale dopo almeno otto anni di studi poi) giunge apienda. specializzati. Al termine di questa lunga fatica mette egli

stesso in moto il meccanismo dell’esame, cercandosi un docente che gli faccia da «presentatore»: il colloquio che ha con lui può essere già una prima difficile prova, e non per nulla è chiamato tentamen (tentativo). Ma il momento piú arduo è il successivo: davanti al corpo dei dottori riunito collegialmente il candidato deve commentare il passo di un libro di testo e rispondere alle domande e alle obiezioni degli astanti: questo esame è chiamato «privato», o anche, significativamente, «rigoroso» o «tremendo». Al termine, se approvato, lo studente viene «licenziato» in diritto. Ma soltanto dopo la terza fase, l’esame pubblico, o laurea, potrà fregiarsi del titolo di dottore: quest’ultimo esame è molto costoso, e non pochi devono rinunciarvi, contentandosi della licenza. E infatti, se l’esame privato è una grande manifestazione di scienza, di audacia dialettica e di abilità oratoria, la cerimonia della laurea è fatta per celebrare, insieme con la scienza, il potere e il denaro che le professioni legali garantiranno al neodottore, alla sua famiglia e al suo gruppo sociale. Di questo si parla nelle varie orazioni pronunciate di fronte a un vasto pubblico nel corso della cerimonia; a questo alludono simbolicamente gli oggetti e le azioni che compongono il rito. Nel caso dei giuristi bolognesi, la laurea viene conferita da un’autorità ecclesiastica, l’arcidiacono, che consegna al candidato l’anello, la toga e il berretto dottorale. In altre discipline, tra le insegne dottorali troviamo il libro e il guanto; e la cerimonia si conclude spesso con l’abbraccio e il bacio al neodottore.

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In questa pagina incisioni ottocentesche raffiguranti i sigilli delle Università di Oxford (in alto) e Cambridge. Nella pagina accanto stampa cinquecentesca raffigurante una seduta di laurea presso l’Università di Parigi. Parigi, Bibliothèque des Arts décoratifs.

tonomia, quando non di aperta contestazione della cultura delle università. Il solco tra i due mondi è destinato a crescere. Resta aperto il tradizionale canale di comunicazione tra scuola e culture illetterate: quello che si realizza nella pastorale religiosa. I predicatori si applicano a tradurre in un linguaggio accessibile al popolo le dottrine che hanno studiato all’uottobre

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Lessico universitario

Maestri, dottori oppure signori Una realtà nuova ha bisogno di parole nuove. L’istituzione universitaria si è formata un lessico proprio, che, dal latino medievale, è poi passato nelle lingue moderne. Raramente si tratta di parole inventate di sana pianta; perlopiú termini già in uso, tratti dal linguaggio delle scuole non universitarie oppure dalla vita di tutti i giorni, cambiano significato e si specializzano, diventando termini tipicamente universitari, molti dei quali sono in uso ancora oggi, a dimostrazione di quanto l’odierna università sia legata alle sue radici medievali: la realtà che sta dietro a quelle parole antiche e sempre uguali, però, può essere ed è profondamente diversa. Il termine «università» delle lingue europee moderne fa riferimento sia ai contenuti dell’insegnamento superiore, sia alla sua organizzazione, oggetti per i quali il Medioevo usava due termini distinti: Studium e universitas. Nel latino medievale, universitas indicava qualsiasi insieme di persone organizzate per raggiungere scopi determinati; con l’affermarsi delle università venne a designare per antonomasia la corporazione (formata da studenti o da maestri, a seconda delle sedi) che aveva autorità sull’insegnamento impartito nelle scuole e sulle persone che le frequentavano. Con Studium si indicavano il contenuto dell’attività didattica e di ricerca, il complesso delle discipline, i metodi. Anche nelle università medievali si parlava, per designare le diverse aree disciplinari, di «facoltà» (facultates). I docenti erano chiamati «maestri» (magistri), oppure «dottori» (doctores): a Parigi si usava abitualmente il primo terntine, a Bologna il secondo, dove «maestro» designa un docente di rango inferiore. I maestri di diritto bolognesi erano chiamati anche «signori» (domini), una parola del vocabolario feudale molto indicativa dell’autorità che niversità: le numerosissime raccolte di prediche in volgare giunte fino a noi testimoniano del loro sforzo. La cultura universitaria si apre verso l’esterno non solo per dare, ma anche per ricevere. Non possiamo dimenticare che la maggior parte delle traduzioni dal greco e dall’arabo – che hanno consegnato ai maestri universitari testi fondamentali per tutte le discipline – non sono state eseguite all’interno delle

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era loro riconosciuta. È giunto fino a noi il termine «bidello» (bedellus): questo personaggio nelle università medievali era importantissimo, dal momento che poteva addirittura essere incaricato di controllare che i professori adempissero regolarmente ai loro doveri didattici.

università, ma nelle corti o in altri centri culturali, dove mecenati laici o ecclesiastici mettevano a disposizione gli ingenti mezzi finanziari che occorrevano per realizzare imprese del genere. In questa fase il rapporto fra gli ambienti di corte e quelli di scuola è stato vitale. Si è trattato perlopiú di un rapporto indiretto, ma non sempre. Manfredi, il figlio di Federico II, inviò ai maestri parigini alcune traduzioni di te-

sti filosofici fatte eseguire presso la corte siciliana, e le accompagnò con una lettera, nella quale esprimeva tutta la soddisfazione per il contributo che un «laico» poteva cosí dare alla cultura dei «chierici». Frequentare gli studi universitari, e concluderli con successo, richiede molta fatica e spese ingenti: che cosa spinge gli studenti e le loro famiglie a un investimento tanto impegnativo?

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Miniatura raffigurante una lezione universitaria, da un’edizione della Novela super Sexto di Jean André. XIV sec. Cambrai, Bibliothèque municipale.

Le motivazioni cambiano nel tempo. Amore disinteressato per la scienza, grande curiosità intellettuale, gusto per l’avventura animavano probabilmente gli universitari entusiasti e liberi delle origini, tra il XII e il XIII secolo (ma già per quel periodo l’immagine non sarà un po’ troppo semplificata?). In seguito emergeranno con chiarezza le motivazioni pratiche: i guadagni e il successo sociale garantiti dalla conoscenza del diritto, della medicina e anche della teologia. Dal punto di vista della sua funzione sociale, l’università del Trecento è molto diversa da quella delle origini; e maestri e allievi sanno bene che l’addestramento alle professioni è uno scopo fondamentale della loro attività.

Un bene esclusivo

E, tuttavia, l’università non rinuncerà mai a presentarsi come depositaria di un progetto culturale complessivo e «disinteressato». Questa sembra essere la sua ambizione originaria e mai abbandonata: contenere in sé e trasmettere nel tempo l’intero deposito del sapere. Un’ambizione che ha un forte significato ideologico: e, non a caso, l’università guarda spesso al Medioevo come alla propria età dell’oro, anche dopo che l’idea di un sapere unitario e circoscrivibile è definitivamente tramontata. Il progetto di università che si delinea nel Medioevo contiene al suo interno un vivissimo motivo di tensione. La scienza è di per sé un bene a cui tutti possono e debbono aspirare. Scrive Dante in apertura del Convivio, citando la Metafisica di Aristotele: «Sí come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere». Ma i saperi orientati alle professioni sono molto elitari, e tendono a esserlo sempre piú con l’irrigidirsi della società nel corso del Medioevo. Anche questa contraddizione appare come un dato di lunga durata, con il quale è costretta a fare i conti qualsiasi iniziativa di riforma universitaria. F

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AL DI LÀ E AL DI QUA DELLA CATTEDRA di Antonio Ivan Pini

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ei decenni successivi all’anno Mille una ventata d’aria nuova sembra percorrere l’Europa occidentale. A esserne rapidamente contagiati sono soprattutto i giovani intellettuali del tempo, per la quasi totalità «clerici», cioè ecclesiastici. A loro non basta piú il consolidato bagaglio di conoscenze che si veicolano ormai da secoli nella serenità dei chiostri monastici. C’è ansia esistenziale di cose nuove, c’è ansia di svecchiamento del vecchio sapere, c’è ansia di confronto. Ma, per vincere questa inquietudine, per soddisfare questa «sete di sapere», è necessario uscire dal proprio guscio, mettersi in strada e, fattisi «pellegrini per amore della scienza», recarsi là dove corre voce che si trovino maestri «innovatori» che hanno avviato un dibattito culturale per ridefinire la visione dell’uomo, della fede, del diritto e del potere, alla luce di un nuovo metodo rivoluzionario, che si basa sulla logica e allena a distinguere la verità dall’errore. I nuovi santuari del sapere, però, non si trovano piú nelle sonnolente campagne, ma nelle operose città, non piú nei Pagine miniate con scene di vita studentesca facenti parte di una raccolta di registri del Collège de Hubant (o dell’Ave Maria), fondato nel 1327 a Parigi da Jean de Hubant, consigliere del re di Francia. 1346-1541. Parigi, Centre Historique des Archives Nationales. L’istituto accoglieva sei studenti, probabilmente destinati al canonicato.

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monasteri, ma presso le scuole cattedrali e persino in anonime case private. È soprattutto verso Parigi che s’indirizzano quei clerici vagantes ben presto definiti anche col nome dispregiativo di «goliardi» dal nome del gigante Golia, ritenuto un essere diabolico e infernale che proprio non vanno a genio ai benpensanti

del tempo, i quali ne paventano la minaccia al monopolio culturale della Chiesa e all’ordine sociale. Scrive a tal proposito, caustico, un monaco francese del XII secolo (quando ai clerici ecclesiastici già s’erano aggiunti non pochi laici): «Sono avvezzi a vagabondare per il mondo e a far visita a tutte le città, finché il ottobre

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ma soprattutto per apprendere le «scienze lucrative» del diritto e della medicina. Soprattutto del diritto, perché chi conosce il diritto, come scriveva nel XII secolo il letterato inglese Nigellio Wireker «può suscitare le liti e guadagnare, e poi comporre le liti e guadagnare, e poi rinfocolare le liti e guadagnare ancora». Ma, a parte la brillante professione forense, tante altre erano le prospettive di carriera e di promozione sociale, sia nel campo delle strutture civili, sia in quello delle strutture ecclesiastiche, per chi avesse studiato diritto a Bologna (ma dal XIII secolo anche a Padova, Napoli, e cosí via), cosí da far diventare proverbiale il detto «Bologna “la grassa” ingrassa».

Costi proibitivi

molto sapere non li fa diventare matti; perché essi ricorrono a Parigi per le arti liberali, a Orléans per i classici, a Salerno per la medicina, a Toledo per la magia, ma da nessuna parte per le buone maniere e per i principi morali!». Come si può constatare, il monaco francese non accenna affatto a Bologna, dove peraltro ai suoi

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tempi già furoreggiavano le scuole di diritto civile e canonico, diritti «universali» di cui si era riscoperta l’importanza non solo pratica e applicativa, ma soprattutto concettuale e formativa. E in effetti a Bologna gli studenti pare accorressero non per pura irrequietezza culturale o per disinteressato amore del sapere,

Tuttavia, prima di poter «ingrassare», lo studente medievale doveva affrontare non poche difficoltà e disagi. Il primo ostacolo era di natura finanziaria. Essendo altissimo il costo del mantenimento e degli studi che si protraevano per lunghi anni in città lontane dalla propria residenza, e quello dei libri addirittura proibitivo, per lo studente di famiglia modesta le possibilità di accedere agli studi universitari erano ridottissime, a meno che non fosse entrato in qualche ordine religioso e non avesse potuto godere di qualche prebenda. Alcuni studenti «poveri» si adattavano spesso a fare gli accompagnatori e i servitori a loro connazionali «ricchi», ma perlopiú lo studente privo di mezzi che si ritrova nei documenti non è un giovane nato povero, bensí divenuto tale per i piú diversi motivi: disgrazie, eccessi di spese, perdite al gioco, e cosí via. Messa insieme una somma di denaro sufficiente per almeno un anno di studi, spesso con l’aiuto di parenti che sapevano quanto sarebbe stato poi utile per tutti avere un «dottore» in famiglia, allo studente non restava che mettersi in viaggio per raggiungere una città universitaria, comunque lontana da casa,

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costume e società l’università Consigli agli studenti

Studiosi sí, ma senza esagerare! Anche nel Medioevo esistevano, se non proprio le «Guide dello studente», manualetti contenenti consigli destinati ai rudes, cioè a chi si accingeva a intraprendere gli studi superiori. Ne erano perlopiú autori i maestri di ars dictandi (l’arte dello scrivere bene) che predisponevano manuali contenenti modelli di lettere a cui ispirarsi per le piú diverse occasioni. Un modello di lettera che non mancava mai era, per esempio, quella dello studente che scrive a casa per sollecitare l’invio di soldi. Per il grammatico Boncompagno da Signa, tre sono le doti che connotano il buon studente: l’ingegno naturale o facilità nell’apprendere, la tenacia nello studio e una buona memoria. Per Giovanni di Garlandia e Bonvesin de la Riva le «chiavi della sapienza» sono in tutto cinque: temere Dio, onorare il maestro, leggere senza mai stancarsi, porre domande su ciò che non si sa e meditare a fondo su ciò che si è appreso dal maestro. Per Bene da Lucca, le «chiavi della sapienza» sono invece sette e fanno perno, piú che sulle doti naturali, su un rigoroso metodo di vita: rimuovere gli impegni inutili, affrontare lo studio con umiltà, studiare con applicazione, optare per una povertà non angusta, recarsi a studiare «in terra aliena», meditare a lungo e in silenzio, raccogliersi in un ambiente tranquillo. Per tutti, comunque, perché si riteneva che gli studi sarebbero stati proficui solo se fatti «in terra aliena», lontani cioè dai propri parenti e dalle proprie tradizioni. La partenza era già di per sé un fatto traumatico, un’iniziazione, ma molti pericoli poteva compor-

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Miniatura raffigurante studenti che giurano sul Vangelo, dagli Statuta (o Codice) della Natio Germanica. 1497-1516. Bologna, Museo Europeo degli Studenti.

occorre affrontare lo studio non come fosse un peso (gravamen), ma un piacere (solatium) o, al piú, una dolce fatica (dulcis labor). Non sappiamo quanto questi bei consigli fossero in effetti seguiti dagli studenti del tempo, ma sappiamo che anche i professori del tempo si rendevano conto che i loro consigli, se presi troppo alla lettera, potevano essere piú perniciosi che utili. Se ne fa interprete lo stesso Boncompagno da Signa, che ci propone questa lettera accorata inviata dal padre a un figlio «secchione»: «Mi dicono che, contro ogni consuetudine, ti alzi da letto prima del suono della campana per studiare, che sei il primo a entrare a scuola e l’ultimo a uscirne. E dopo, ritornato a casa, ripeti per tutto il giorno ciò che hai appreso a lezione. Pensi continuamente anche mentre mangi, e anche nel sonno sogni discorsi e ripeti le lezioni, muovendo la lingua anche mentre dormi (...) Ma dovresti anche considerare

che ogni cosa troppo gonfia è facile a scoppiare e che occorre saper discernere tra il troppo e il troppo poco. La natura li condanna entrambi e pretende moderazione. Molti, infatti, per eccesso di studio, incorrono in malattie incurabili, per le quali alcuni muoiono e altri, disperse le loro essenze umorali, si consumano giorno dopo giorno, il che è ancora peggio. Altri poi diventano pazzi e trascorrono la loro vita nel riso o nel pianto. Altri si rovinano il nervo ottico da cui passano i raggi visivi e diventano ciechi. Ti supplico, dunque, o figlio, di trovare il giusto mezzo nello studio perché non vorrei che poi qualcuno mi dicesse “Ho saputo che tuo figlio è ritornato cinto dal serto della scienza” e io fossi costretto a rispondere “In verità è diventato dottore, ma per eccesso di studio è morto”; oppure “è ammalato senza speranza”; oppure “ha perso la vista”; oppure “sí, ma ora è impazzito!”».

tare anche il viaggio, che spesso durava settimane intere, su strade perlopiú impervie e infestate dai briganti. «Mentre stavo attraversando le Alpi – scriveva uno studente al padre – alcuni ladroni di strada mi hanno rubato denaro, libri, vestiti e ca-

Nella pagina accanto miniatura raffigurante il custos (custode, titolo che poteva designare il rettore di atenei o altre istituzioni) del New College di Oxford circondato dagli allievi, secondo frontespizio del Chaundler Manuscript. 1461-65. Oxford, New College. ottobre

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In alto miniatura raffigurante un miracolo della Vergine, da un’edizione delle Cantigas de Santa Maria di Alfonso X, detto il Saggio. XIII sec. El Escorial (Madrid), Biblioteca di S. Lorenzo. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un malato che vomita, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

vallo e mi hanno lasciato nudo, ferito, disperato e solo. Ho puntato su questo monastero dove resterò sino a quando non mi direte per lettera cosa devo fare». Rispondeva il genitore: «Non so proprio cosa consigliarti. Se ti dico di proseguire, con quale coraggio potrai entrare a Bologna, farti incontro ai tuoi colleghi, frequentare le scuole, dato che sei nudo e non puoi contare su amici (...) Ma se ti dico di non proseguire, rientrato a ca-

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sa non avrai piú coraggio di presentarti davanti a quelli a cui hai chiesto denari per farti partire. La cosa, comunque la si giri, è sempre a tuo danno, motivo per cui scegli senz’altro tu se preferisci piú in patria o piú a scuola patire disonore».

La ricerca dell’alloggio

Giunto nella sede universitaria, lo studente doveva procurarsi un alloggio. Esistevano, al riguardo, diverse soluzioni. C’erano le pensioni annesse a canoniche e monasteri o, piú frequentemente, condotte da albergatores di professione. Non di rado essi stessi forestieri e connazionali della maggior parte degli studenti ospitati. C’era anche la pensione nella casa del professore presso il quale si sarebbe studiato. E c’era infine, come soluzione piú diffusa, la camera singola o doppia da dividere con un altro studente, con un famiglio in comune addetto a far spesa, cucina e a tenere un po’ d’ordine. Data l’inveterata abitudine degli affittacamere a speculare sugli

affitti, i giovani, una volta riuniti in proprie associazioni (universitates scholarium), riuscirono a ottenere dalle autorità municipali la creazione di commissioni miste incaricate di fissare un «equo canone» per gli alloggi destinati agli studenti. Dapprima per i soli studenti «poveri», ma poi anche per quelli a pagamento, sorsero i collegi universitari che, se ebbero buona diffusione in Francia e in Inghilterra, non trovarono in Italia che uno sviluppo tardo e molto limitato. Oltre ai costi primari dell’alloggio, del vitto e dell’abbigliamento – e su questi ultimi lo studente era sempre propenso a lasciarsi un po’ andare –, vi erano le spese per il riscaldamento, per l’illuminazione e per la frequenza scolastica. Qui l’esborso di denaro era un vero e proprio stillicidio. C’erano da pagare innanzitutto il salario al professore (le cosiddette collectae), e poi l’affitto dell’aula e del banco (quelli in prima fila costavano molto di piú degli altri), le mance obbligatorie al bidello «generale» e ai bidelli «particolari», le tasse d’iscrizione alla natio e all’universitas, le tasse per gli esami preparatori e finali e, soprattutto, l’acquisto dei libri: una merce a quei tempi costosissima (un libro di diritto in pergamena poteva costare allora quanto il complesso di tutte le altre spese indispensabili per mantenersi un intero anno in città) ma del tutto indispensabile, poiché, come ammoniva il maestro di grammatica Bernardo da Bologna, «cosí come un soldato non può affrontare il nemico senza l’aiuto delle armi, cosí lo studente non può fare il suo mestiere senza l’aiuto dei libri». Spese del tutto spropositate erano poi quelle che richiedeva la laurea «pubblica» (il cosiddetto conventus), che comportava regali a tutti i professori, ricche mance ai bidelli, banchetti e sfilate. Si stimava che tale cerimonia potesse costare l’equivalente di quattro-cinque anni

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costume e società l’università vita studentesca

Giovani, liberi e poco morigerati La concentrazione di una massa di giovani maschi, perlopiú ricchi e disinibiti, nelle città sedi universitarie rendeva queste ultime centri fiorenti per la prostituzione. Ciò dava ovviamente scandalo ai benpensanti e ricca materia espositiva ai predicatori. Il domenicano Giacomo di Vitry († 1240) descriveva la Parigi dei suoi tempi come «una capra scabbiosa pronta a infettare gli studenti che vi giungano da ogni parte» dato che «la semplice fornicazione non la si giudica per nulla un peccato e dovunque, pubblicamente, vicine ai loro lupanari le meretrici attirano quasi con la violenza gli studenti che passano per le vie e per le piazze della città, e se ve ne sono alcuni che si rifiutano di entrare, esse a voce alta li chiamano, dietro le spalle, sodomiti». Va però aggiunto che sulla questione del meretricio vi era molta tolleranza a quel tempo anche da parte della Chiesa. Quello che occorreva evitare era di coinvolgere le donne «oneste» e soprattutto rifuggire quel «prurito omosessuale» (fermentum sodomiticum) che veniva reputato uno dei nove vizi capitali propri dello studente (assieme alla «fornicazione manifesta», «golosità immoderata», «ubriachezza», «gioco d’azzardo», «spreco di danaro, «avarizia», «incostanza» e «attitudine al furto»). Per il grammatico bolognese Boncompagno da Signa, interprete in ciò della tipica misoginia medievale, lo studente, proprio in nome dell’amore per la scienza, doveva evitare anche l’amore per la donna «la cui malafede ha scosso la sapienza di Salomone, spezzato la forza di Sansone, e sa rammollire con le sue dolci parole e i suoi gesti vezzosi l’animo degli sprovveduti». Quanto alle prostitute, consiglia sempre Boncompagno, occorre essere sbrigativi («deponi in lei come in una latrina») e pronti a voltare loro le spalle dopo aver soddisfatto le proprie voglie. Di prostitute del resto traboccavano le taverne, i bagni pubblici, e dal Trecento in poi anche certi quartierini loro riservati detti postriboli o bordelli, organizzati perlopiú dalle autorità municipali. Il Comune di Siena motivava l’apertura di uno di questi postriboli nel 1422 chiamando in causa proprio gli studenti a rischio di sodomia, poiché «gli scolari, com’è noto, sono giovani e non possono, bollendole el sangue, avere quella continentia, che se fussero in piú matura età».

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di permanenza all’università, motivo per cui la maggior parte degli studenti che portavano a termine gli studi (non meno di 5 anni per gli studenti di medicina e di 7-8 per quelli di diritto) si accontentava della laurea «privata» (la cosiddetta licentia), che consentiva comunque ogni tipo di carriera, tranne quella universitaria. La vita dello studente medievale non si limitava ovviamente alla frequentazione delle lezioni (che non gli conveniva certo disertare, visto che pagava il professore di tasca propria!) e allo studio. Le buo-

Capolettera raffigurante un uomo e una donna che fanno il bagno e, sotto di loro, una creatura ibrida, da un’edizione del Régime du corps di Aldobrandino da Siena. 1285 circa. Londra, British Library.

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ne risorse finanziarie, unite all’età giovane e inquieta e alla totale mancanza di controlli, familiari e non, rendevano gli studenti particolarmente portati ai divertimenti piú o meno leciti. Epicentro di tutti gli svaghi (anche del semplice gioco degli scacchi, a quei tempi molto in voga) era la taverna, luogo dove si poteva mangiare e bere in compagnia, chiacchierare, cantare, giocare ai dadi o ad altri giochi d’azzardo.

Il dolore di un padre

La taverna come abituale punto d’incontro, ma anche come luogo di risse frequenti, è una costante del costume studentesco, cosí come lo sono la biscazzeria (cioè il luogo deputato dalle autorita al gioco d’azzardo), i bagni pubblici o i veri e propri bordelli. Contro la frequentazione troppo assidua di questi luoghi d’incontro e di svago tuonavano i predicatori, ma si preoccupavano non poco anche i familiari. «Mi ha profondamente ferito di dolore – scrive un padre affranto – il sapere dalla voce pubblica, che poi molti mi hanno purtroppo confermato, che tu, abbandonati gli studi letterari dai quali ci attendevamo soddisfazioni e onori, passi turpemente le notti e i giorni nei postriboli con le meretrici» (vedi box alla pagina precedente). Ma è soprattutto contro il gioco d’azzardo, considerato il vizio potenzialmente piú costoso e tale da ridurre in poco tempo alla miseria i piú sprovveduti, che tuonano i genitori. In un modello di lettera in volgare della fine del Duecento si vede un padre, un certo Martino da Genova, scrivere al figlio studente a Bologna: «Lo mio core molto addolora la tua grande mattezza, la quale tu usi lassando quello lo quale tu doveresti fare nello studio, che fermamente hoe inteso che tu non ti diletti in altro che in giuoco di dadi, luoghi disonesti spesse fiate visitando, pella quale cosa, se di cotali opere non ti sostieni e non ti darai fortemente allo studio, come tu se’ tenuto, sappiti privato d’ogni

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mio benefizio e d’ogni mia grazia, sappiendo che per tue lettere fittizie non mi potrai ingannare». Ma oltre che negli svaghi, l’elemento studentesco si lasciava spesso coinvolgere in risse, tafferugli, violenze, quando non arrivava addirittura a bravate da caserma, a ratti di ragazze, a stupri fatti in branco, suscitando la comprensibile e violenta reazione della popolazione. Cosí avvenne a Oxford nel 1209, cosa che procurò la chiusura dello Studio per cinque anni; cosí avvenne a Parigi nel 1229 e a Bologna nel 1321. Ma poteva accadere che a restare ferito o ucciso fosse uno studente, il che provocava frequentemente l’esodo di tutti gli allievi dalla città, con danni economici enormi per tutta l’economia cittadina. Nei primi tempi lo studente, in quanto forestiero, si era trovato giuridicamente ben poco tutelato nei confronti dei cittadini e ciò lo aveva portato talvolta a farsi socio di confraternite locali che gli potessero assicurare un minimo di aiuto in caso di bisogno. Ma poi, tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, fattosi ormai il numero degli studenti molto consistente, questi finirono col costituire associazioni proprie, dette nationes, alle quali accedevano tutti i giovani provenienti dalla stessa regione geografica. Qualche decennio piú tardi, dalla federazione generale delle nationes si costituirono le universitates (da cui l’attuale termine di «università» per un’istituzione che nel Medioevo era chiamata «Studio»). A Bologna esse furono inizialmente due: l’universitas ultramontanorum, che raggruppava gli allievi provenienti dalle regioni oltre le Alpi, e l’universitas citramontanorum, a cui accedevano gli studenti italiani. Della prima facevano parte tredici «nazioni» (Francesi, Provenzali, Piccardi, Borgognoni, Pittaviensi, Turonensi e Cenomensi, Normanni, Inglesi, Catalani, Spagnoli, Polacchi, Ungheresi e Tede-

schi); della seconda tre (Lombardi, Toscani e Romani). Un’auspicata associazione generale non decollò mai, causa le marcate differenze strutturali tra i due gruppi di studenti: mediamente piú anziani e in maggioranza ecclesiastici gli «ultramontani», piú giovani e in maggioranza laici i «citramontani». Nella seconda metà del Duecento prese anzi vita una terza «università», quell’universitas artistarum, che raggruppava tutti i giovani non giuristi, e cioè i filosofi, i letterati e i medici.

Dalle parole ai fatti

Sempre compatti nel difendere i loro privilegi nei confronti delle autorità locali – tanto che qualche storico moderno ha potuto addirittura parlare di un «potere studentesco» che avrebbe caratterizzato l’università medievale –, gli studenti erano poi altrettanto pronti a scontrarsi fra di loro, passando di frequente de verbis ad verbera, cioè dalle parole ai fatti. A tal proposito, Giacomo di Vitry cosí li descrive in una pagina che ben riassume l’ambiente universitario medievale: «Litigavano e si azzuffavano non soltanto a causa delle diverse discipline che studiavano e per qualche tema di discussione; ma anche le differenze tra le varie nazionalità erano causa tra loro di dissensi, di odi, di virulenti rancori, e si lasciavano andare con impudenza a ogni sorta di affronti e di insulti reciproci. Affermavano che gli Inglesi erano ubriaconi e avevano la coda; che i Francesi erano altezzosi, effeminati e agghindati come le donne. Dicevano che i Tedeschi erano feroci e bestiali nei loro banchetti, i Normanni vanesii e spacconi, quelli del Poitou traditori e avventurieri sempre. I Borgognoni erano considerati stupidi e volgari. I Bretoni avevano fama di incostanti e volubili. I Lombardi erano definiti avari, viziosi e volgari; i Romani sediziosi, turbolenti e calunniatori; i Fiamminghi incostanti, golosi, cedevoli come il burro e indolenti. E dopo simili insulti, dalle parole venivano spesso ai fatti». F

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gli animali nel medioevo

Gli amici di

Adamo

di Furio Cappelli

Grifoni, centauri, leoni ed esseri mostruosi: qual è il vero significato delle inquietanti immagini che affollano chiese e chiostri del Medioevo romanico? Lo rivela una nuovissima indagine condotta dalla studiosa Chiara Frugoni e che presentiamo in anteprima ai nostri lettori

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«C

M

he cosa stanno a fare [nei chiostri] le immonde scimmie?». Questa è una delle molte domande retoriche che si dispiegano a raffica in uno dei piú famosi brani di letteratura del Medioevo: Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), nella sua Apologia, si rivolge con toni accesi e spietati all’abate Guglielmo di Saint-Thierry, mettendo alla berlina lo sfarzo e l’imponenza di Cluny. Nella sua veste di asceta e di mistico, dedito alla contemplazione piú pura dei contenuti della fede, Bernardo vede con orrore quella lunga galleria di figure che prendono corpo nei capitelli istoriati dei chiostri. L’orrore non deriva tanto dalla mostruosità di molte di quelle creature raffigurate. Anzi, Bernardo ammette senza mezzi termini che è proprio quella vistosa e compiaciuta profusione di strane immagini ad attrarre e a sedurre lo sguardo. Ed è questo il problema. A parte il dispendio di denaro per sculture di nessuna utilità, ogni monaco che si trova a passare in quei chiostri viene distratto dalla seducente bellezza di quelle forme. Trascorre troppo tempo ad ammirare i capitelli istoriati, finendo cosí vittima di una tentazione che distoglie di continuo dalla lettura, dalla meditazione e dalla preghiera. Le parole di Bernardo sono state lungamente analizzate. Da un lato si è visto che il suo atteggiamento è tipico di tutti i religiosi che si scagliavano contro la vanagloria. Alcuni di loro hanno espresso parole di sconcerto persino per la musica

In alto L’unicorno purifica le acque avvelenate del fiume, illustrazione dal manoscritto Secrets d’histoire universelle. 1480-1485. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto L’unicorno in grembo a una dama, illustrazione da Le livre des simples médecines di Platearius. Fine del XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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sacra, troppo dilettevole per i miseri sensi terreni. D’altro canto, è stato osservato che, sia pure in chiave negativa, emerge da quelle parole una consapevolezza del valore estetico della figura.

Quasi come un capriccio

C’è un senso di bellezza che si trasmette con una potente immediatezza, e sembra quasi che un grande complesso di immagini – come quello dei chiostri romanici di tradizione cluniacense – non obbedisse ad alcuna regola. Se prendiamo alla lettera le parole di Bernardo, sembrerebbe che quei mostri semiumani, quegli animali reali o immaginari variamente combinati, siano stati messi in scena senza alcuna logica e senza alcun significato. Si direbbe che tutto fosse affidato al capriccio degli scultori. Questi ultimi, insomma, avrebbero agito con la stessa

disinvoltura con cui il decoratore di una chiesa barocca punteggiava gli altari e i soffitti delle chiese con i volti graziosi degli angeli. Tuttavia, ammesso che cosí fosse, un conto è decorare un soffitto con un tripudio di soavi testoline angeliche, un conto è stipare una ridda di grifoni, centauri, leoni e mostri vari negli elementi di spicco della costruzione. Finiamo cosí per formulare la stessa domanda di Bernardo, ma con uno spirito e con uno scopo ben diversi: perché, nel Medioevo romanico, tanti animali reali e immaginari e tanti esseri mostruosi prendevano spazio negli edifici sacri? Non si tratta solo di capitelli istoriati, ma anche di enormi complessi figurativi, che potevano estendersi su tutto il pavimento di una chiesa, come ancora oggi si vede nel duomo pugliese di Otranto (1163-65). Le stesse presenze bestiali e mo-

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gli animali nel medioevo A sinistra dittico in avorio con bassorilievi. Sulla sinistra, Adamo impone il nome agli animali e, sulla destra, Ammaestramenti e miracoli di san Paolo. Fine del IV o inizi del V sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Sulle due pagine Dio unisce le mani di Adamo ed Eva, particolare di una miniatura dal manoscritto contenente I sei giorni della creazione (ms. Français 11, f. 3v.). Parigi, Bibliothèque nationale de France.

struose pullulavano nelle miniature, sia come elemento decorativo sui margini, sia come elemento narrativo o simbolico nelle scene rappresentate a tutta pagina. Esistevano anche stoffe istoriate destinate a essere messe in mostra sugli altari, con visioni cosmologiche popolate da animali di ogni genere, come è nel caso del Tappeto della Creazione (inizi del XII secolo), conservato nella cattedrale di Girona (Spagna). Molto è stato naturalmente scritto sull’argomento, e si possono reperire dizionari generali o trattazioni analitiche su determinate figure o gruppi di figure. A oggi, però, mancava un’opera che offrisse una chiave di lettura di ampio respiro. L’ultimo libro di Chiara Frugoni, Uomini e anima-

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li nel Medioevo. Storie feroci e fantastiche, risponde in pieno a questa esigenza. Il tema degli animali e dei mostri nelle chiese non è però il solo a essere affrontato in questo vasto racconto riccamente illustrato. Come evidenzia il titolo, l’argomento specifico rientra in una trattazione storica che abbraccia ogni aspetto del rapporto tra gli uomini e gli animali, anche sul piano della realtà quotidiana.

E nulla fu piú come prima

E poiché ogni cosa era immersa a quell’epoca nella visuale della Bibbia, l’autrice parte proprio dal Genesi, il primo libro dell’Antico Testamento che narra, tra l’altro, la creazione del mondo e il peccato originale, o meglio: la disobbedienza di Adamo

ed Eva, dal momento che nel racconto manca la nozione di un crimine ricaduto su tutta l’umanità, e che solo il sacrificio di Cristo avrebbe potuto sanare. Questa chiave di lettura dell’episodio, già adottata da sant’Agostino, stabilisce un momento della storia universale in cui si compie un cambiamento irreversibile. Non solo l’uomo è condannato alla fatica. Dapprima, infatti, gli animali erano al suo servizio, e Adamo, come una sorta di vicario del Creatore, aveva dato il nome a ciascuno di essi. Tutti si erano presentati docilmente al suo cospetto, compresi leoni e serpenti. Anzi, sembra che all’origine i serpenti non strisciassero in quel loro modo subdolo e minaccioso. Camminavano, secondo un sermoottobre

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Gli animali erano in origine al servizio dell’uomo e ciascuno di essi aveva ricevuto un nome

In alto particolare del Tappeto ricamato della Creazione. Inizi del XII sec. Girona (Spagna), Tesoro della Cattedrale.

ne ricondotto in modo inattendibile a san Basilio di Cesarea, dottore della Chiesa (330-379). Pare inoltre che tutti gli animali parlassero, altrimenti Adamo non avrebbe potuto dialogare con loro. Quale fosse la lingua adottata è stato un argomento lungamente dibattuto. Era certo, comunque, che la scena dovesse essere intrisa di un’armonia soave, tanto che l’iconografia cristiana la elabora sulla scorta dell’immagine «pagana» di Orfeo, che rende docili tutti gli animali grazie al suono della sua cetra. Poi giunge la fatale disobbedienza, e da quel momento il male penetra nella realtà. Gli animali stessi non sono piú sottomessi in massa all’uomo. Perdono d’incanto la parola, si disumanizzano, secondo una versione apocrifa dell’Antico Testamento,

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elaborata in Etiopia tra il V e il VI secolo d.C. Molti di loro si trasformano in un pericolo costante.

Un’assenza significativa

È per esempio significativo che nelle scene in cui Adamo attribuisce i nomi manchino sempre al suo cospetto lupi, orsi e cinghiali. Essi, non a caso, erano percepiti in tutta l’Europa cristiana come una minaccia incombente, a tal punto che doveva sembrare inimmaginabile che potessero presentarsi in modo docile e pacifico persino nel Paradiso terrestre. Era invece piú facile immaginare un leone mansueto, e meglio ancora un tranquillo unicorno, proprio perché lontani dall’esperienza quotidiana del fedele. Nella Bibbia un ruolo preponderante e ambivalente è proprio

giocato dal leone, che non è solo la bestia feroce che si aggira famelica nei deserti, ma è anche il re degli animali, venendo cosí investito di nobili significati. Nell’Antico Testamento, Giacobbe si rivolge a suo figlio Giuda come se fosse un leone, cacciatore di prede, a tal punto che in una miniatura di età carolingia Giuda è proprio impersonato da un ruggente felino. Ma la Bibbia è popolata anche da quella particolare fauna malefica che noi definiamo immaginaria – in particolare unicorni, draghi e basilischi – ed è grazie alla sua autorità che questi esseri hanno trovato larga accoglienza nelle chiese. A questo punto emerge una questione centrale. Qual era il confine tra il reale e il fantastico? L’illustratore che dava corpo a questi esseri,

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gli animali nel medioevo

Arles, S. Trofimo. La lunetta del portale principale, su cui campeggia la Maiestas Domini: Cristo in una mandorla circondato dai simboli degli evangelisti. XII sec.

ripetendo e variando antichissime norme iconografiche, era convinto davvero che in qualche parte del mondo fosse possibile incontrarli? Molto probabilmente il problema non si poneva, proprio perché la di-

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stinzione, che per noi è fondamentale, tra ciò che è verificabile e ciò che è solo immaginato (tra fiction e realtà, diremmo oggi), non aveva alcun senso. Tutto ciò che era tramandato da un testo sacro o da un autorevole autore classico, fatti salvi alcuni episodi o particolari, veniva accettato senza remore. Questo non significa che mancasse del tutto una capacità di critica e di verifica sperimentale:

semplicemente non c’era ancora la mentalità per esercitarla in modo convinto, assoluto e sistematico. Difatti, sebbene in modo assai timido o in forme che possono indurci a sorridere, la distinzione tra favola e realtà era presente, e ogni tanto qualche vecchia bubbola veniva sfatata. Giovanni Villani (1280 circa-1348), storico e mercante con i piedi ben piantati per terra, ha moottobre

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A sinistra fotoriproduzione della mappa mundi di Ebstorf, disegnata per l’omonima abbazia tedesca agli inizi del XIII o nel XIV sec. La grandiosa opera (3,5 m di diametro) è andata perduta nel corso della seconda guerra mondiale.

A destra Il mondo in attesa del Giudizio universale, miniatura da un manoscritto. Seconda metà del XIII sec. Londra, British Library.

do di assistere al parto di una leonessa proprio nella sua Firenze: il re degli animali era spesso mostrato in gabbia come una meraviglia nelle principali città e corti europee. Ebbene, grazie a questa esperienza diretta, lo storico può smentire la convinzione, ripetuta per secoli, secondo la quale i cuccioli del leone verrebbero al mondo senza vita, per poi animarsi grazie all’alito paterno.

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gli animali nel medioevo A sinistra La discesa in mare di Alessandro Magno, illustrazione tratta da un manoscritto, contenente il Roman d’Alexandre. 1290 circa. Berlino, Staatliche Museen. Sulle due pagine il grifone in bronzo che in origine coronava il timpano del Duomo di Pisa. XI sec. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.

Nel Medioevo non si nutriva alcun dubbio sull’esistenza di formiche grosse come cani, serpenti con una pietra preziosa incastonata nella testa e giganti vari 78

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D’altro canto, nel 1304, sempre a Firenze, il predicatore domenicano Giordano da Pisa, riferendosi al catalogo delle creature fantastiche presenti nel Romanzo di Alessandro – una narrazione ispirata alla figura del conquistatore macedone, popolarissima nel Medioevo – tiene a precisare che molte delle cose narrate sono del tutto veritiere, altre un po’ meno, senza specificare

in che modo si potesse compiere questa distinzione, tenendo poi conto del fatto che egli non aveva mai messo piede in Asia. Tra le cose indiscutibili, comunque, appaiono guardiani di tesori sotto forma di formiche grosse come cani, serpenti con una pietra preziosa incastonata nella testa e giganti vari.

Le visioni del mondo

A questo punto, per comprendere una mentalità che può sembrarci paradossale o ingenuamente credulona, dobbiamo collocare questi animali «immaginari» in uno spazio geografico «concreto». Il nuovo libro di Chiara Frugoni ci viene in aiuto proprio perché si impernia sulle rappresentazioni del mondo che il Medioevo elaborava, le mappae mundi. Si concentra, in particolare, sul prodigioso mappamondo di Ebstorf (Bassa Sassonia, inizi del XIII o XIV secolo), una vasta rappresentazione su pergamena, di carattere al tempo stesso letterario e figurato, che è andata purtroppo perduta nel 1943, ma che è stata fortunatamente tramandata da una riproduzione fotografica di alta qualità. Ebbene, l’autrice la analizza dettagliatamente, con un esercizio di filologia in cui scienza e narrazione si trovano unite nel sacro vincolo della curiosità intellettuale e del divertimento. In questo modo ogni genere di lettore ha modo di accedere a un capitolo assai complesso e intrigante della mentalità medievale. Alla base di tutto c’è la cultura enciclopedica tramandata dal mondo antico e impersonata in particolare da Isidoro di Siviglia (560 circa-636), che l’estensore della mappa cita di continuo. Quando si passa alla resa cartografica, il pianeta appare come un mondo in larga parte misterioso e sconosciuto. La forma sferica è indiscussa, ma l’altra faccia del mondo è raffigurata in modo riassuntivo con un serrato catalogo di esseri semiumani mostruosi, con le inversioni, le varianti

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e le combinazioni anatomiche che sono inevitabili tra chi vive agli antipodi, nel mondo opposto a quello che si estende sui tre continenti: Europa, Africa e Asia. E se in Europa si riconoscono bene città e santuari illustri, l’Africa e l’Asia in particolare pullulano di esseri e di uomini leggendari. Esattamente come i leoni e gli elefanti, anche il bonaco ha un luogo di appartenenza. Si tratta di una specie di bisonte dell’Asia Minore che si difende con una pioggia di escrementi ustionanti. E tutto rientra nell’ordine divino delle cose, poiché la testa, le mani e i piedi del Cristo benedicente fanno capolino lungo il bordo della mappa, in corrispondenza dei punti cardinali. Un originale aggancio alla grandiosa lunetta scolpita del portale di Sainte-Marie-Madeleine a Vézelay (Borgogna, 1130) permette poi all’autrice di collegare la conoscenza geografica all’essenza stessa dell’edificio sacro. Grazie alla particolare impaginazione dell’opera, in cui Cristo in trono affida agli Apostoli la predicazione della fede nel mondo, si può infatti evidenziare un nesso prezioso tra l’opera dello scultore e la consueta rappresentazione tripartita del mondo medievale, un disco o un globo suddiviso in modo geometrico per raffigurare i tre contenuti conosciuti.

Un disegno salvifico

Si vede bene, allora, che le popolazioni che sono all’oscuro della Rivelazione di Cristo, con costumi e forme che possono indurre alla paura, sono comunque inserite nel disegno della salvezza, fanno parte del nostro mondo e un giorno conosceranno anch’esse la luce della verità. Se questi uomini selvaggi si profilano in svariati capitelli istoriati, è proprio per ricordare che la salvezza eterna non è preclusa ad alcuno. Dal canto loro, gli animali leggendari ricordano proprio l’esistenza di terre remote piene di in-

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gli animali nel medioevo sidie, ma che rientrano comunque nell’architettura del creato. Rappresentare queste creature è un modo di conquistarle, riportando l’intero mondo nell’ottica della provvidenza divina. E se molti di quei mostri erano a guardia di tesori, un temibile grifone di arte islamica poteva essere innalzato sulla cattedrale di Pisa proprio per proteggere la comunità dei fedeli da ogni avversità. Ma, in definitiva, a che cosa serviva una mappa come quella di Ebstorf? A nulla, diremmo oggi, ma il fatto che una carta analoga, a Hereford (Inghilterra, 1283 circa), venisse esposta su un altare ci fa capire come essa fosse parte integrante dell’apparato di un edificio sacro, e che di quell’edificio condividesse la cultura, l’ispirazione e la ragion d’essere. Quella mappa è sommamente utile, esattamente quanto una chiesa. Non serve a viaggiare su un itinerario terreno, serve a raggiungere la salvezza eterna. E, in ogni caso, non dimentichiamo che molte delle nozioni leggendarie travasate in quella mappa erano già ben presenti nel mondo classico. Secondo l’estensore della mappa di Ebstorf, la prima rappresentazione cartografica del mondo fu disposta da Cesare in persona, e ciò dicendo, egli presupponeva che fosse in tutto simile a quella che egli stesso aveva realizzato. Proprio la deferenza medievale nei confronti dell’autorità degli antichi, insieme a un’effettiva conoscenza geografica ancora frammentaria, aveva comportato la persistenza di certi miti e di certe raffigurazioni leggendarie. D’altronde, la Tabula Peutingeriana – una carta itineraria che può dirsi antenata delle carte geografiche, nota grazie a una versione del XIII secolo, ma basata su un’edizione del V secolo – man mano che lo sguardo si inoltra nelle zone meno conosciute dell’Africa e dell’Asia, annovera puntigliosamente i luoghi in cui si possono incontrare creature che

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oggi diremmo leggendarie, ma che già in epoca antica erano presentate come veritiere, i cinocefali per esempio (uomini con testa canina), e annovera il luogo in cui nascono tutti gli scorpioni, che poi da lí si diffondono ovunque. Sant’Agostino ricorda poi che a Cartagine, nella piazza adiacente allo scalo marittimo, c’era un complesso mosaico pavimentale, antico o tardo-antico, dove il mondo piú remoto era raffigurato sotto forma di una rassegna di strane creature: monocoli, ermafroditi, pigmei, cinocefali e via dicendo.

Viaggi interiori

Il passo in avanti compiuto in questo genere di conoscenze, da parte del mondo medievale, non sta ovviamente nella verifica sperimentale, nella conoscenza oggettiva della realtà, quanto piuttosto nella capacità di interiorizzare queste nozioni, componendole in una nuova geografia dell’anima. In questa ottica la mappa di Ebstorf, cosí come una qualsiasi cattedrale, vale proprio co-

Otranto, cattedrale. Il leone quadricorpore e l’accoppiamento della vipera, particolare delle figurazioni del pavimento mamoreo. 1163-1165.

me viatico di un percorso interiore. E in fondo, come ci insegna Italo Calvino nelle sue Città invisibili, ogni viaggio, poco importa se reale o fantastico, è essenzialmente un percorso all’interno di noi stessi. Ovunque andiamo vediamo ciò che siamo. Chiara Frugoni ci fa percepire con chiarezza la musicalità di un mondo che attraverso le arti figurative e lo stesso canto liturgico, come pure attraverso le sue conoscenze letterarie, è guidato da un’idea di purezza e di redenzione. E ogni volta che in questo scenario riemerge l’antico, inevitabilmente si trasforma. Il chiostro romanico da cui siamo partiti riporta in vita le strutture porticate delle domus nobiliari, ma lo schema è immerso nella concezione biblica del mondo, e quel luogo viene perciò chiamato paradisus, proprio perché è uno spazio salvifico imperniato ottobre

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Miniatura raffigurante la morte del re di Francia Filippo IV, detto il Bello, da un’edizione manoscritta del De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio,

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tradotto in francese da Laurent de Premierfait con il titolo: Des cas des ruynes des nobles hommes et femmes. 1479-1480. Londra, British Library.

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gli animali nel medioevo

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Un ricordo di Jacques Le Goff

In cima a una pila di libri Attingendo ai propri ricordi personali, il giornalista Bernardo Valli ha di recente rievocato (L’Espresso, 2 agosto 2018) il celebre medievalista Jacques Le Goff (1924-2014). Durante un incontro avuto con lo storico francese nella sua casa di Parigi, il nome di Chiara Frugoni emerse in modo significativo, spiccando sulla mole magmatica dei libri che affollavano la scena. «I libri erano tanti. C’erano quelli allineati negli scaffali alle sue spalle, molti erano ammucchiati un po’ dappertutto: sul pavimento, su tavolini traballanti, su seggiole zoppe, su sgabelli in bilico, sul davanzale della finestra. La stanza in cui lavorava Jacques Le Goff era piccola, una cella, e appariva ancora piú minuta quando la massiccia mole dello storico troneggiava al centro, piú inchiodata che seduta Nella pagina accanto Francesco conclude il patto con il lupo di Gubbio, particolare di uno dei pannelli della Pala di Sansepolcro, tempera su tavola del Sassetta (al secolo Giovanni di Consolo da Cortona). 1437-1444. Londra, National Gallery.

su un pozzo che allude a un’acqua sacra purificatrice. L’evangelista Giovanni (5, 1) ricorda la mirabile vasca terapeutica di Bethesda, circondata da portici sui quattro lati, esattamente come un chiostro romanico. Ed è superfluo a questo punto rilevare come i capitelli istoriati che impreziosivano un tale complesso dovevano essere predisposti secondo un piano piú o meno elaborato, senza essere affidati in modo assoluto all’arbitrio e al capriccio degli scultori. Come gli storici dell’arte sanno bene, c’è un momento di svolta in cui questo tipo di approccio fantastico cessa quasi d’incanto. Si insinua una nuova consapevolezza, che si esprime già nelle prime cattedrali gotiche o nella Commedia di Dante. Il mondo medievale compie

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alla scrivania anch’essa ingombra di libri. Bastava che allungasse il braccio per raggiungere il volume che gli interessava. Le Goff dominava quel disordine. Sebbene semiparalizzato sembrava essere a suo agio in quel mare di carta in burrasca. Durante l’ultima visita notai che il libro di Chiara Frugoni (Storia di Chiara e Francesco) era tra quelli piú raggiungibili da Le Goff. Accortosi della mia attenzione per quel testo italiano ben in vista, posato in cima a una pila di libri, mi disse che quell’opera si distingueva nettamente tra quelle dedicate ai Santi di Assisi. Per lui, tra gli storici viventi del Medio Evo, Chiara Frugoni era tra i migliori. Aveva una predilezione per lei. Le Goff era asciutto, severo nei giudizi, sollecitato da una collera dietro la quale si nascondeva a stento una forte generosità».

una sorta di accelerazione e allarga i propri orizzonti. L’attività sempre piú capillare dei mercanti aiuta a smitizzare le conoscenze delle terre extraeuropee, e l’immaginario mostruoso si restringe alle raffigurazioni infernali, senza avere piú alcuna pretesa di raccontare formidabili verità sulle terre remote dell’Asia.

Una storia a lieto fine

In un famoso racconto dei Fioretti, san Francesco vede nel lupo di Gubbio un animale affamato, non un demonio o un malfattore che merita di finire impiccato. La sua storia a lieto fine, con l’accordo stipulato tra la «belva» e i cittadini impauriti, chiude in modo suggestivo il libro della Frugoni, e mostra una sensibilità del tutto nuova nei riguardi di un animale che era sempre percepito come una terribile minaccia. D’altro canto, come avverte l’autrice, si tratta anche di un approccio coraggioso, isolato e irripetibile. Proprio per questo la storia del lupo è assai presente tra le gesta memorabili del Santo, ed è rievocata con particolare attenzione da numerosi pittori.

Non andò altrettanto bene a un altro animale «assassino», l’elefantessa Big Mary. Rea di avere ucciso il proprio incauto accompagnatore, venne solennemente impiccata nel Tennessee (USA). Venne giustiziata, esattamente come avveniva spesso nel Medioevo a carico degli animali malvagi. L’orribile spettacolo, messo in scena davanti a un pubblico affascinato, si consumò nel 1916. Poco piú di cento anni fa. Forse il pensiero di san Francesco, su questo e su tanti altri fronti, attende ancora di essere ascoltato. F

Da leggere Chiara Frugoni Uomini e animali nel Medioevo. Storie feroci e fantastiche, Il Mulino, Bologna, 360 pp., 250 ill. col. a tutta pagina 40,00 euro ISBN 978-88-15-27968-2 www.mulino.it

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di Roberto Roveda e Fabrizio Panzera

Altdorf (Cantone di Uri, Svizzera). Il monumento realizzato da Richard Kissling in onore di Guglielmo Tell, leggendario eroe dell’indipendenza. 1895.

Nascita di una nazione La Confederazione elvetica prese forma tra il XIII e il XIV secolo per la volontà di comunità rurali e città di liberarsi dal dominio dei signori feudali, in particolare gli Asburgo. Un atto di rivolta che rappresentò una vera rivoluzione nel mondo feudale europeo


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ra il 1000 e il 1300, i territori destinati a costituire la moderna Svizzera si trovarono inseriti in quell’insieme di rapporti che ha preso il nome di feudalità, un sistema sociale nato dalla disintegrazione del potere carolingio. Esso consisteva nel delegare le responsabilità secondo una gerarchia che dal piú potente (il sovrano) scendeva verso i suoi sottoposti (i vassalli), mantenendo, nel limite del possibile, stretti rapporti personali di fedeltà. Tale sistema consacrò la frammentazione dei possedimenti territoriali in un groviglio di legami personali e obbligazioni materiali, che raramente portarono, salvo che ai gradini inferiori, a unità geografiche vere e proprie (vedi box a p. 89). Dal punto di vista politico, nei secoli centrali del Medioevo il territorio della Svizzera attuale si trovava comunque al centro dell’impero germanico: la fascia a ovest dei fiumi Aar e Reuss era compresa nel secondo regno di Borgogna, quella a est nel ducato di Svevia, il Sud delle Alpi nel regno d’Italia. Alla morte di re Rodolfo III (1032), la Borgogna fu annessa all’impero: l’imperatore Corrado II, della dinastia dei Salici,

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venne incoronato re di Borgogna a Payerne (1033). Da allora, l’intero territorio della Svizzera posto a nord delle Alpi appartenne al regno di Germania. Malgrado la sua posizione centrale, la regione ebbe tuttavia un’importanza solo marginale per gli imperatori tedeschi, come attestano per esempio gli itinerari delle spedizioni della corte imperiale.

Grandi dinastie feudali

Allo stesso tempo, pur appartenendo all’impero, lo spazio svizzero era gestito da grandi dinastie feudali, le quali, a loro volta, venivano riconosciute da una molteplicità di vassalli detentori di feudi. Tali signori potevano essere sia laici, sia ecclesiastici (vescovi oppure abati di monasteri o abbazie). Emersero cosí gli Hohenstaufen (che annoverarono piú di un imperatore) e gli Zähringen, che si spartirono il ducato di Svevia. Quest’ultimo acquistò importanza soprattutto nella prospettiva del controllo dei passi alpini. Dai duchi di Svevia dipesero una serie di feudatari, come i conti di Savoia, che aspiravano al controllo delle Alpi occidentali, ma dovettero confrontarsi con i conti-vescovi di

Sion e di Losanna. Nel 1218, l’estinzione degli Zähringen, per un certo periodo molto potenti sull’Altipiano svizzero, lasciò il campo libero ad altre famiglie emergenti, come i Kyburg (che controllavano la regione di Zurigo) e gli Asburgo, i quali dal loro castello in Argovia si espansero verso le regioni centrali delle Alpi e mirarono al ducato di Svevia. D’altra parte, le comunità locali s’assicurarono spesso, in sovrapposizione con l’ordine feudale, ampie prerogative nella gestione quotidiana delle proprie risorse, accontentandosi i signori di trarne delle rendite. Le dinastie feudali marcavano d’altro canto la loro presenza ed espansione per mezzo di castelli costruiti in pietra. Infine, tra il 1100 e il 1350 si assistette inoltre a un’ondata di fondazioni di città (rinascita di centri preesistenti o creazione di nuove città), che portarono a determinare in modo duraturo le maglie del tessuto urbano. Le vicende storiche che portarono alla nascita della Svizzera sono però legate non solo ai suoi assetti politico-istituzionali e sociali, ma anche alla peculiare geografia del territorio. Da sempre, infatti, la

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Svizzera è un mondo alpino, che ha visto succedersi periodi di apertura e di chiusura. Cosí dopo la fine dell’impero romano, verso l’800, ai tempi di Carlo Magno, le Alpi apparivano estremamente frammentate e pressoché chiuse su se stesse. Si sarebbero aperte progressivamente e in modo sensibile a partire dall’XI secolo per giungere a integrarsi ai grandi insiemi europei, raggiungendo una sorta di periodo d’oro tra il XIII e il XIV secolo. Infatti, solo verso il 1200 le vallate poste nel cuore delle Alpi, a lungo dimenticate, entrarono per la prima volta nella storia. È quella che gli storici chiamano appunto «l’apertura delle Alpi», legata in parte a miglioramenti delle condizioni climatiche: tra l’VIII e il XIV secolo l’Europa conobbe in effetti una fase di clima piú temperato. Nello stesso tempo si modificò l’intera strutturazione del territorio. Da un lato, il popolamento rurale tese a raggrupparsi per formare villaggi e in gruppi di fattorie. Dall’altro, l’espansione del cristianesimo trasformò il paesaggio, e non solo attraverso la presenza di edifici religiosi. Alcune città s’im-

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posero d’altra parte sul territorio grazie alle loro funzioni di centri vescovili. La diffusione dei conventi diede un impulso notevole alla colonizzazione rurale e ai dissodamenti, anche in regioni rimaste fino ad allora ai margini della trasformazione del paesaggio.

Il ruolo dei monasteri

Nelle epoche precedenti il tardo Medioevo, le strutture di potere piú stabili dell’area alpina furono i vescovadi di Coira e di Sion; entrambi erano soggetti fin dal VI secolo al regno franco, che però impose le sue pretese di dominio solo gradualmente. Furono inoltre i monasteri a rendere possibile l’inserimento dell’area alpina nella rete politica ed economica circostante. Il piú antico monastero alpino, quello di Saint-Maurice, nel basso Vallese, venne fondato nei primi decenni del VI secolo come convento privato dei re burgundi, e costituí un centro intellettuale anche per il regno di Borgogna. Nel quadro della politica di espansione carolingia rientrano le principali fondazioni di conventi in ambito retico (Pfäfers, Disentis,

Sulle due pagine Engelberg (Untervaldo). Veduta panoramica delle Alpi svizzere.

Müstair); specie quello di Disentis fu favorito, anche in seguito, dalla politica degli Ottoni e degli Hohenstaufen, interessati a una Chiesa imperiale e ai valichi alpini. Nelle Alpi centrali una vera e propria rete di abbazie e capitoli sostenne la penetrazione del potere signorile: Säckingen (Glarona), Schänis (Glarona e Svitto), Einsiedeln (Svitto), Fraumünster di Zurigo e Wettingen (Uri), LucernaMurbach, Beromünster, Muri ed Engelberg (Untervaldo), Interlaken (alto bacino dell’Aar) e il capitolo del duomo di Milano (valli di Blenio e Leventina, comprese la valle Bedretto e la Riviera). Dal XII secolo le valli alpine vennero d’altra parte coinvolte nella formazione delle signorie altonobiliari. Dal Lemano i conti di Savoia penetrarono nel basso Vallese ed entrarono in conflitto permanente con il vescovo di Sion; a partire dall’Altopiano si ebbero interventi di colonizzazione da parte dei conti von Lenzburg (Glarona, Svitto, Obvaldo, Leventina e valle di Ble-

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La Svizzera germanica dell’Alto Medioevo

Nella pagina accanto Müstair (cantone dei Grigioni), chiesa del monastero di S. Giovanni. Scorcio della zona absidale: in primo piano, la statua di Carlo Magno, realizzata all’indomani della canonizzazione dell’imperatore da parte dell’antipapa Pasquale III, nel 1165.

Nel VI secolo i territori dell’odierna Svizzera (con l’eccezione del Canton Ticino) erano sotto la dominazione dei Franchi, che erano riusciti a unificare l’Europa. Questo Regnum francorum raggiunse il proprio apogeo con Carlo Magno, dapprima re dei Franchi poi imperatore d’Occidente. Nell’843, il trattato di Verdun rappresentò una tappa fondamentale nel processo di differenziazione delle «nazioni» e in tale processo le regioni svizzere furono sempre piú coinvolte nella sfera d’influenza germanica. In effetti il trattato di Verdun plasmò tre grandi insiemi: il primo, germanico sulla riva destra del Reno, denominato regno della Francia orientale; il secondo, occidentale sulla riva sinistra della Mosa e del Rodano, chiamato regno della Francia occidentale; il terzo, intermedio e piuttosto instabile, la Lotaringia (dal nome di Lotario, nipote di Carlo Magno), che dai Paesi Bassi giungeva sino all’Italia. Dalla Lotaringia derivò poi il secondo regno di Borgogna, che nella sua massima espansione si estese da Basilea a Marsiglia. Nel X secolo dal regno della Francia orientale ebbe origine il Sacro Romano Impero. Nel 962 Ottone, re di Germania, si fece conferire a Roma la corona imperiale da papa Giovanni XII, rivendicando cosí – in concorrenza con l’imperatore bizantino, che risiedeva a Costantinopoli – il retaggio dell’antico impero romano. Attorno all’anno Mille il Sacro Romano Impero comprendeva sostanzialmente gli odierni territori di Germania, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Svizzera, gran parte dell’attuale Francia orientale (Provenza, Savoia, Borgogna, Alsazia, Lorena), Italia settentrionale e centrale, Austria e Repubblica Ceca; piú tardi vi si aggiunsero zone oggi appartenenti alla Polonia (Slesia, Pomerania).

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Reno

Basilea

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Lago di Ginevra

nio) e di espansione territoriale da parte dei duchi von Zähringen (Oberland bernese). Accanto a queste case dinastiche, altre famiglie dell’alta nobiltà si affermarono come proprietari fondiari o come avogadri di istituzioni ecclesiastiche (vedi box a p. 92). Prima della seconda metà del XIII secolo le signorie e i diritti di avogadria piú importanti fra il Reno superiore e lo spartiacque alpino finirono agli Asburgo, i quali non riuscirono però a imporre la loro signoria territoriale nelle valli alpine. Le comunità di Uri e Svitto fecero infatti valere l’immediatezza imperiale che avevano ottenuto sotto gli

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Dossier In basso la città di Einsiedeln in una tavola della Topographia Germaniae di Martin Zeiler, illustrata da Matthäus Meriam il Vecchio. XVII sec.

Hohenstaufen; del medesimo statuto giuridico beneficiava, da tempi piú recenti, anche Untervaldo. Nel XIII e XIV secolo il concetto di immediatezza imperiale implicava unicamente un grado di autonomia piú o meno ampio. La libertà inerente ai privilegi implicava però anche la necessità di assicurarsi da sé la propria protezione, considerata la lontananza fisica del sovrano e le ridottissime probabilità di un suo intervento difensivo. Anche per

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questo motivo, come in altre parti dell’impero, in Svizzera si stabilirono alleanze, peraltro senza effetti giuridici nelle relazioni tra i singoli alleati e l’imperatore. Ben piú importanti erano invece gli effetti delle alleanze sul piano politico. I loro contraenti risultavano piú forti verso l’esterno, soprattutto nei confronti degli Asburgo, divenuti nel tardo Medioevo la piú potente dinastia della regione e detentori della corona imperiale in piú periodi (dal 1273 al 1291 con Rodolfo I, dal 1298 al 1308 con Alberto I, dal 1438/39 con Alberto II e successori). In quel periodo il miglioramento del clima consentí un’estensione

dell’allevamento grazie alla conquista di vasti spazi di pascoli al di sopra del limite delle foreste. E ciò contribuisce a spiegare l’importanza del ruolo che quelle vallate si sarebbero accinte a svolgere. L’agricoltura della regione alpina svizzera, fino al Basso Medioevo essenzialmente un’economia di sussistenza, fece registrare una svolta – nelle Alpi della Svizzera occidentale e centrale intorno al 1300, in quelle della Svizzera orientale un po’ piú tardi – contraddistinta dall’instaurazione di rapporti di scambio con le regio-

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ni circostanti e in modo particolare con le città lombarde. Le valli nordalpine concentrarono la produzione sull’allevamento, fornendo alle città bestiame da riproduzione o da macello, cavalli e latticini in cambio di sale e di cereali. Non furono piú solo i monasteri (Einsiedeln, Engelberg, Disentis) ad animare la vita economica in queste regioni dalle condizioni naturali difficili. A quel momento vi furono anche località che acquisirono lo statuto di vere e proprie città, come Lucerna e Zugo (nel XII secolo). Tuttavia, per accrescere i traffici e far rendere l’allevamento, diventava importante assicurare l’accesso

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al grande mercato lombardo e alle sue numerose città. Questa funzione fu svolta dal passo del Gottardo. Nell’Alto Medioevo le vallate della regione dipendevano, come si è visto, dal ducato di Svevia, che assieme al regno di Borgogna e alla contea di Savoia (che diventò un vero Stato alpino con Pietro I, 1203-1268) possono essere considerati «Stati dei passi», mirando la loro politica a mantenere i passi alpini facilmente praticabili su entrambi i versanti.

Le rotte transalpine

In quel periodo i flussi transalpini seguivano due assi principali: a ovest i passi del Gran San Bernardo, del Sempione e del Moncenisio (la via piú diretta tra l’Europa del Nord-Ovest e l’Italia settentrionale); a est un insieme di colli situati nelle valli retiche (Spluga, Septimer, Julier) che permetteva di passare dalla Lombardia alla regione del lago di Costanza e costituiva un’alternativa al Brennero. Fino al XIII secolo la regione del San Gottardo, priva di un passaggio sicuro, restò invece una zona marginale e partecipò solo passivamente alle trasformazioni in atto, determinate da iniziative estranee. Mentre il superamento del versante meridionale non presentò mai particolari difficoltà, sul versante settentrionale le profonde gole della Schöllenen costituirono fino al XII secolo un ostacolo insormontabile, che poteva essere solo faticosamente aggirato. Poiché la piú antica descrizione di un viaggio attraverso il Gottardo porta la data del 1234, e i primi statuti di una compagnia di addetti ai trasporti delle merci (somieri di Osco) risalgono al 1237, la Schöllenen fu probabilmente resa transitabile attorno al 1200. Un ruolo chiave nell’apertura di questa nuova via è attribuito ai Walser, giunti nel XII secolo nella valle d’Orsera attraverso il Furka: furono probabilmente

le notevoli capacità tecniche da loro acquisite nella realizzazione di condutture idriche, strade e ponti in Vallese a permettere la costruzione del ponte gocciolante (solo dal XVI secolo noto come ponte del Diavolo) sulle gole della Schöllenen e della Twärrenbrücke. Il passo del San Gottardo venne quindi aperto alla circolazione tra il 1215 e il 1230: si tratta di una data paragonabile per importanza – come sostiene lo storico Jean-François Bergier – all’apertura della via marittima di Gibilterra, che sarebbe avvenuta meno di un secolo piú tardi. Il nuovo passaggio mise infatti a disposizione un percorso diretto tra Milano (che ha sempre giocato un ruolo fondamentale nella storia della Confederazione) e l’altopiano svizzero; una percorso che, per di piú, consentiva di sfruttare i passaggi lacustri che si addentrano in profondità all’interno delle valli alpine, il lago Maggiore a sud e quello dei Quattro Cantoni a nord.

Un ruolo da ripensare

Ricerche e studi piú recenti hanno relativizzato l’importanza del passo. Tra il 1493 e il 1503 (il solo arco di tempo per cui esistono dati sicuri) le merci trasportate in un anno attraverso il San Gottardo raggiungevano in media le 170 tonnellate (circa 1200 some; questi dati non comprendono però gli scambi tra la Svizzera centrale e la Lombardia), mentre quelle che transitavano per il Brennero (molto piú basso del San Gottardo) corrispondevano a circa 4500 tonnellate. Da quel momento il San Gottardo svolse comunque un ruolo importante per lo sviluppo economico di Milano, delle terre ticinesi, della Svizzera centrale e dell’Altopiano, di Basilea, dei territori lungo il Reno e delle regioni sud-occidentali della Germania, ma durante il Medioevo e l’epoca moderna non assunse ancora un peso dominante (segue a p. 95)

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Dossier A sinistra Zurigo. Il complesso del Fraumünster. XIII sec. Il campanile dalla caratteristica copertura appuntita, è la torre campanaria settentrionale, sopravvissuta alla meridionale, che le era simmetrica. A destra l’abbazia di Murbach (Alsazia, Francia).

I diritti di avogadria

Abbazie e capitoli fanno gola alla nobiltà Nel diritto feudale l’avogadro (dal latino advocatus) era un laico a cui spettava il compito di difendere gli interessi temporali di un’abbazia o di un capitolo. Nel Basso Medioevo appoggiandosi alla carica di avogadro che competeva loro, i signori territoriali rivendicavano il diritto di proteggere e sorvegliare conventi o capitoli ecclesiastici. Ciò consentiva ai signori di intervenire nella gestione economica delle istituzioni protette, di controllarne la giurisdizione e di rappresentare le istituzioni stesse verso l’esterno e in tribunale, ricevendo in compenso determinati introiti. A rendere l’avogadria ecclesiastica di particolare attrattiva per i nobili era la possibilità di controllare appunto l’economia di ricche istituzioni ecclesiastiche e di influire sulle loro vicende interne, per esempio nell’elezione dell’abate. I conventi cercavano in piú modi di tutelarsi da interventi nobiliari: fissando per contratto i proventi annuali dell’avogadro e la quota delle multe giudiziarie o delle confische che gli andava attribuita, oppure esigendo promesse di protezione, la rinuncia all’appropriazione indebita, la restituzione del maltolto o, nel caso di avogadrie imperiali, il diritto di partecipazione alla relativa concessione: dal 1286, per esempio, la città di Berna esercitò in nome

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del re la protezione imperiale sull’abbazia di Trub. Anche gli imperatori cercarono di limitare le competenze avogadrili della nobiltà, ma si scontrarono con le resistenze di quest’ultima. Nel tardo Medioevo, alcuni signori territoriali riuscirono anzi a far valere pretese sull’avogadria ecclesiastica: nel XIV secolo gli Asburgo, per esempio, integrarono l’abbazia di Wettingen nella loro signoria territoriale, pur lasciandola formalmente priva di avogadro. In tal modo l’avogadria ecclesiastica si rivelò uno strumento efficace per creare una sorta di protettorato generale: serviva a imporre la sovranità sui balivi locali, il controllo secolare (per esempio di Zurigo sul convento di Kappel, 1413) e l’amministrazione coatta (per esempio di Berna sul capitolo di S. Vincenzo, 1490). Talvolta i signori territoriali, appoggiandosi all’avogadria ecclesiastica, aggiravano anche le esenzioni di cui godevano le fondazioni ecclesiastiche: nelle signorie di capitoli e conventi riscuotevano tributi, accoglievano borghesi esterni e in certi casi procedevano a leve militari. Durante la Riforma, la secolarizzazione delle istituzioni interessate fu agevolata dal possesso dell’avogadria ecclesiastica; quest’ultima perse importanza nel XVI secolo, con il consolidarsi della signoria territoriale.


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Schöllenen (Cantone di Uri), passo del San Gottardo. La gola in cui scorre il fiume Reuss, superata da due cosiddetti ponti del diavolo. Questi furono realizzati nel 1830 (l’inferiore, piú stretto) e negli anni Cinquanta del XX sec. (il superiore, attualmente utilizzato per il traffico automobilistico) e sopravvivono al primo ponte del diavolo, di epoca medievale crollato nel 1888 per una piena del fiume.

nel commercio totale tra l’Italia e l’Europa del Nord. Nel XIII secolo il territorio dell’odierna Svizzera comprendeva, nell’ambito del Sacro Romano Impero, quattro importanti aree di alleanze relativamente indipendenti l’una dall’altra, in cui, per compensare la debolezza o assenza del potere regio, venivano stretti numerosi accordi, in genere a breve termine, tra entità variabili, con lo scopo di mantenere la pace e di garantire un mutuo soccorso militare contro nobili locali o entità territoriali potenti quali la Savoia, la Borgogna, gli Asburgo, Milano.

Città e leghe

A ovest la Confederazione burgunda, sotto la guida di una città imperiale (Berna), documenta le ampie possibilità di sviluppo di simili accordi: i suoi membri finirono infatti con il diventare baliaggi dello Stato territoriale bernese (Oberhasli, convento di Interlaken, città di Burgdorf e Payerne), cantoni confederati (Soletta, Friburgo) o Paesi alleati (città di Bienne, contea di Neuchâtel). Basilea, altra città imperiale, si orientava soprattutto verso nord, mentre a est Zurigo, Sciaffusa e San Gallo si rivolgevano all’area del lago di Costanza; membri dei due gruppi di città si ritrovano anche in varie Leghe cittadine ad ampio raggio (Lega renana, 1254; Lega sveva, 1376/85; Lega delle città alsaziane, 1379). Lungo la strada del passo del Gottardo si formò la Confederazione rurale delle comunità di valle

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In alto Ludovico IV di Baviera sconfigge Federico III von Habsburg nella battaglia di Mühldorf, olio su tela di Hans Werl. 1608. Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen. A sinistra copia di un rilievo trecentesco raffigurante Ludovico IV il Bàvaro. Magonza, Landesmuseum Mainz.

– oggi dette «cantoni primitivi» o cantoni forestali (Waldstätte), ossia i cantoni di Uri, Svitto e Untervaldo sul cui territorio si alternavano pascoli, prati, campi e aree boschive –, che appare senz’altro confrontabile a leghe simili formatesi nel Vorarlberg, nei Grigioni e nel Delfinato (a Briançon). Questi ultimi dovettero essere rimasti sorpresi dall’improvviso interesse che si trovavano a suscitare. E si mostrarono sia poco disposti a rinunciare a secoli di autonomia sia a sopportare i piccoli signori feudali dipendenti dalle grandi dinastie. Se proprio dovevano dipendere da qualcuno, preferirono dipendere da chi era piú lontano, cioè dall’imperatore. Per questo motivo la valle di Uri acquistò nel 1231 l’immediatezza imperiale, e altrettanto fecero la comunità di Svitto nel 1240, nel 1309 le vallate di Untervaldo. Si trattava di privilegi di regola accordati alle città (Berna e Zurigo ne beneficiano dal 1218); rarissime fu-

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rono le comunità rurali che ne poterono godere. Accordando questo privilegio, l’imperatore assumeva la protezione delle vallate, ma ne confidava l’esecuzione a degli intermediari. A Uri furono i conti d’Asburgo a ricoprire questo ruolo, inviando dei balivi e approfittando della situazione per riscuotere dei pedaggi. Finché questa dinastia fu lacerata da conflitti di famiglia e finché l’imperatore si trovò impegnato nella lotta con il papa, il rafforzamento della struttura feudale non si rivelò troppo difficile da sopportare. Ma le cose parvero destinate a cambiare quando Rodolfo d’Asburgo – ponendo fine al grande interregno che durava dal 1245 – divenne nel 1273 re di Germania e riscattò i diritti di Untervaldo e Svitto, acquisí il controllo di Lucerna e installò un pedaggio sulla strada del San Gottardo. Le comunità di valle non poterono piú permettersi di occuparsi solo della gestione collettiva delle proprie questioni economiche, ma si videro costrette a farsi carico dei problemi inerenti la propria sicurezza. Piú i signori feudali cercavano di stringere la presa, piú le comunità locali si sforzavano di garantirsi l’autonomia amministrativa e giudiziaria.

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In questo frangente si inseriscono le vicende del patto del 1291 (al quale, a partire dall’Ottocento, venne fatta risalire l’origine della Confederazione), la saga di alcuni eroi leggendari – come Gugliemo Tell –, quella di una rivolta dei tre cantoni primitivi con relativa distruzione di rocche signorili e del loro giuramento di alleanza (vedi box alle pp. 98-99). Il patto fra Uri, Svitto e Nidvaldo, forse risalente al periodo 1240-90 – ma documentato solo dall’agosto 1291 –, intendeva in realtà assicurare la pace esterna con l’aiuto armato reciproco e quella interna fra i tre membri con la procedura di arbitrato.

Tempi poco sicuri

Per comprendere il senso del documento (probabilmente redatto piú tardi, e quindi ante-datato) occorre considerare che si riferisce alla morte dell’imperatore Rodolfo: la scomparsa di un’autorità legittima, garante dei privilegi di autonomia, comportava per le vallate la prospettiva di tempi difficili. Il testo evoca infatti «l’insicurezza dei tempi», e in questi casi le comunità erano portate a sottoscrivere «paci territoriali». Le comunità si assicuravano inoltre dei diritti di sovranità e stabilivano

dei regolamenti per l’uso delle armi e il ricorso alla violenza. È quanto afferma, rinnovando un documento precedente, il patto del 1291, che è redatto in latino e porta i sigilli (testimonianza di autonomia) delle tre comunità. Il testo non sembra avere contenuti rivoluzionari, né prefigurare una sollevazione contro gli Asburgo. Questa interpretazione verrà a posteriori, quando comincerà a formarsi una coscienza nazionale svizzera. Le tre comunità sembrano aver ripreso un modello o un esempio largamente diffuso nell’impero germanico, senza avervi dato alcun significato politico. Nel giugno del 1309 re Enrico VII di Lussemburgo confermò ai tre Paesi forestali l’immediatezza imperiale (era la condizione di persone e istituzioni – città libere, conventi, villaggi – che dipendevano direttamente dall’imperatore), ma l’atto non venne riconosciuto dagli Asburgo, che non volevano perdere i loro diritti dinastici su quei territori svizzeri. Da allora i rapporti tra Asburgo e i Cantoni primitivi forestali (in particolare Svitto) si deteriorarono. Anche la caccia agli assassini di Alberto I d’Austria (ucciso nel 1308 (segue a p. 101)

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Il mito di Guglielmo Tell e il giuramento del «terreno dissodato» Le gesta di Guglielmo Tell fanno parte dei racconti leggendari relativi alla fondazione della Confederazione, trasmessi in forma scritta, che ebbero inizio nel XV secolo e si svilupparono a partire da tradizioni locali e da temi narrativi di origine straniera. La saga del tiratore Guglielmo Tell, quella di una rivolta dei tre cantoni primitivi con conseguente distruzione di rocche signorili e del loro giuramento di alleanza figurano tra i piú importanti miti della Svizzera primitiva. Essi sono narrati per la prima volta nel Libro bianco di Sarnen (un cartulario del 1470) e nel Tellenlied (1477 circa). La versione prevalente per vari secoli si deve ad Aegidius Tschudi (il cui Chronicon Helveticum fu però pubblicato solo nel 1734-36), il quale collocò gli eventi tra il 1301 e il 1307, datando il giuramento del Rütli (in tedesco il «terreno dissodato», l’insieme di prati nel bosco che domina il lago di Uri; vedi anche il box a p. 103) al mercoledí precedente il giorno di San Martino (8 novembre) del 1307 e l’assalto alle rocche al Capodanno del 1308, stabilendo in tal modo un legame temporale, rimasto indiscusso fino al XIX

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In alto xilografia ottocentesca raffigurante il giuramento del Rütli, che recenti ricerche hanno permesso di datare al 1291. Nella pagina accanto l’episodio che esaltò la straordinaria mira di Guglielmo Tell, dalla Cosmographie universelle di Sebastian Münster. 1565. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

secolo, con il regicidio di Alberto I d’Asburgo (imperatore dal 1298 al 1308), personaggio odiato e considerato avido e tirannico. Tschudi giustificò la costituzione dello Stato confederale come un atto di resistenza contro la tirannia, a tutela della minacciata pace territoriale e per ricostituire l’antica libertà dell’Elvezia. La redazione scritta, a partire dalle diverse tradizioni, di una storia coerente e logica della nascita della Confederazione derivava dall’esigenza di rafforzare il sentimento di appartenenza a una comunità del sistema confederale, fondato su alleanze elastiche e minacciato da conflitti interni. Nello stesso tempo, essa permise ai gruppi dirigenti di difendersi dalla polemica avviata dall’impero, e in particolare da esponenti asburgici ottobre

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(per esempio Felix Hemmerli, attorno al 1450), che contestavano la legittimità della Confederazione. Accusati di aver conquistato l’indipendenza rovesciando l’ordine cristiano della società per ceti e grazie all’annientamento della nobiltà, i Confederati, schierati su posizioni antiaustriache, poterono giustificare la resistenza dei «pii e nobili contadini» come legittima difesa contro il dispotismo dei nobili, in particolare dei balivi asburgici, che non ottemperavano piú ai loro doveri legati al loro stato, e cioè la protezione dei sudditi e la tutela della pace territoriale. La contrapposizione ideologica tra nobiltà e ceto contadino emerge in questo senso con estrema chiarezza. Nessuna ricerca storiografica ha peraltro saputo stabilire in maniera convincente una corrispondenza diretta tra gli episodi delle leggende e i fatti concreti registrati intorno al 1300. La loro importanza è piuttosto legata alla

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storia delle mentalità; da questo profilo, il loro ruolo è stato centrale nella creazione dei modelli ispiratori, forti e ampiamente diffusi, di un’ideologia dello Stato federale. Le cronache cominciarono a essere messe in ombra nel 1760, con la pubblicazione del patto, redatto in latino, del 1291 – da tempo dimenticato –, e con la scoperta delle radici nordiche della leggenda di Tell. Tuttavia la scoperta di quel documento autentico permise anche di riproporre la plausibilità di tutto il racconto, consentendo di sostituire il 1291 al 1307, d’inserirvi tutto l’insieme di fatti leggendari e di fissare la data del giuramento al 1° d’agosto. Nel corso del XIX secolo fu cosí possibile attribuire un’origine alla storia della Svizzera, che poté essere solennemente celebrata nel 1891, in occasione del seicentesimo anniversario, e fissare con il 1° d’agosto, una data per la festa nazionale.

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante la battaglia di Morgarten, dalla Spiezer Chronik di Diebold Schilling. 1484-85. Berna, Burgerbibliothek. A destra particolare di un trittico di Hans Part raffigurante il duca d’Austria Alberto III che dona due castelli al fratello Leopoldo III. 1489-1492. Klosterneuburg, Museo abbaziale.

nei pressi di Königsfelden in Argovia) nella Svizzera centrale fu all’origine di tensioni. Nel 1314-15 la disputa per il trono tra Ludovico il Bavaro e suo cugino Federico il Bello inasprí ulteriormente la situazione nella Svizzera centrale. Nel 1314 Ludovico il Bavaro divenne re di Germania in una doppia elezione che lo oppose a suo cugino, poi sconfitto a Mühldorf nel 1322. Schieratisi a sostegno di re Ludovico, i Paesi forestali vennero colpiti dal bando imperiale decretato da Federico, della cui attuazione gli Asburgo incaricarono il duca Leopoldo. Nel 1315, a Morgarten (una montagna sul confine tra Svitto e Zugo), quest’ultimo tentò invano di ottenere con la forza il riconoscimento di Federico come re. Gli Svittesi attaccarono l’esercito di Leopoldo in marcia nella zona di Schornen, all’estremità superiore del lago di Ägeri, costringendolo alla fuga dopo un breve ma cruento corpo a corpo. Secondo la visione tradizionale l’episodio del Morgarten fu la prima battaglia per l’indipendenza combattuta dalla Confederazione e un momento decisivo per le sorti della giovane Lega. In tempi piú recenti la storiografia ha ridimensionato la portata degli eventi, ma, in ogni caso, il 15 novembre 1315 non segnò né la fine dei contrasti in Svevia e nella Sviz-

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zera centrale, né un indebolimento decisivo degli Asburgo-Austria. Dopo la battaglia, in particolare gli Svittesi ebbero interesse a consolidare i legami già esistenti con Uri e Untervaldo. Il 9 dicembre 1315 a Brunnen i rappresentanti dei tre Paesi forestali rinnovarono la loro alleanza. Il patto redatto (questa volta in tedesco) risultò di respiro piú ampio, comprendendo una politica comune di difesa e di alleanze verso l’esterno.

Un’alleanza inedita

Grande importanza, nei decenni seguenti, ebbe l’inconsueta alleanza a tempo indeterminato e con pari diritti fra cantoni rurali e città dell’Altopiano: nel 1332 i cittadini di Lu-

cerna (città soggetta agli Asburgo), che premevano per il potere con cospirazioni e modifiche istituzionali, cercarono anch’essi l’appoggio militare dei cantoni rurali, e altrettanto fecero nel 1351 quelli di Zurigo (città imperiale), rafforzando in tal modo il sistema corporativo che si era imposto dopo la cacciata dei nobili (1336). Grazie alle alleanze forzate con Zugo (1352, 1365) e Glarona (1352, 1393), la Confederazione acquisí una compattezza territoriale. Il vincolo con la Confederazione burgunda venne raggiunto attraverso l’alleanza perpetua del 1353 con la città imperiale di Berna, in base ad accordi di reciproco aiuto militare (ma a tempo determinato) già stipulati fra Berna e i

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La Confederazione nei secoli

Il patto solenne degli uomini delle valli LA PRIMA UNIONE Il «giuramento del Rütli» del 1291 è considerato l’atto di fondazione della Confederazione elvetica, che in un primo momento comprendeva Svitto, Untervaldo e Uri. L’autenticità del documento è stata recentemente confermata. Ecco il testo del primo paragrafo del patto: «Nel nome del Signore, cosí sia. È opera onorevole e utile confermare, nelle debite forme, i patti della sicurezza e della pace. Sia noto dunque a tutti, che gli uomini della valle di Uri, la comunità della Valle di Svitto e quella degli uomini di Untervaldo, considerando la malizia dei tempi e allo scopo di meglio difendere e integralmente conservare sé e i loro beni hanno fatto leale promessa di prestarsi A sinistra miniatura raffigurante la battaglia di Sempach, dalla Berner Chronik del cronista Diebold Schilling il Vecchio. 1480 circa. Berna, Burgerbibliothek.

reciproco aiuto, consiglio e appoggio a salvaguardia cosí delle persone come delle cose, dentro le loro valli e fuori, con tutti i mezzi in loro potere, con tutte le loro forze, contro tutti coloro e contro ciascuno di coloro che a essi o a uno di essi facesse violenza, molestia o ingiuria con il proposito di nuocere alle persone o alle cose. Ciascuna delle comunità promette di accorrere in aiuto all’altra, ogni volta che sia necessario, e di respingere, a proprie spese, secondo le circostanze, le aggressioni ostili e di vendicare le ingiurie sofferte».

I CANTONI OGGI L’attuale Confederazione riunisce ben 26 cantoni, tutti dotati di una propria costituzione e di autonomia legislativa, ma soggetti al controllo del Consiglio Federale: Zurigo, Berna, Lucerna, Svitto, Uri, Obwalden, Nidwalden, Glarona, Zug, Friburgo, Soletta, Basilea città, Basilea campagna, Sciaffusa, Appenzello esterno, Appenzello interno, San Gallo, Grigioni, Argovia, Turgovia, Ticino, Vaud, Vallese, Neuchâtel, Ginevra, Giura.

In alto la pergamena del patto federativo siglato nel 1291 sul Rütli. Svitto, Bundesbriefmuseum.

tre Paesi forestali dal 1323. Il patto con Berna serviva sia a delimitare le reciproche sfere di interesse nell’Oberland, sia alla difesa dagli Asburgo e dalla nobiltà regionale; quello con Zurigo comprendeva la libertà di alleanza, una chiara definizione dell’area coinvolta nel soccorso reciproco, norme piú precise sul tribunale arbitrale e la possibilità di una revisione in caso di unanimità. Dopo che, nel 1370, la cosiddetta Carta dei preti aveva disposto, fra l’altro, un’ampia esclusione dei tribunali forestieri (soprattutto ecclesiastici) e il divieto della faida, nel 1386 si verificò lo scontro militare nel conflitto tra l’Austria e la Confederazione per l’ampliamento

delle rispettive signorie territoriali nell’area tra l’Austria anteriore asburgica e le Alpi. A causa del bellicismo dei Confederati, che poggiava su di un nuovo spirito comunitario, le tensioni da tempo esistenti sfociarono in un conflitto militare aperto e in uno scontro decisivo che oppose ceti diversi: da una parte le città e le comunità di valle confederate e dall’altra la nobiltà della Germania meridionale. La vittoria dei Confederati nella battaglia presso Sempach (nel canton Lucerna) il 9 luglio 1386 – in cui per la prima volta combatterono fianco a fianco tutti e otto i primi cantoni (piú Soletta) –, indebolí gli Asburgo a tal punto da

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Da leggere Dizionario storico della Svizzera, www.hls-dhsdss.ch/i/home Emilio Raffaele Papa, Storia della Svizzera, Bompiani, Firenze 2018. Piante delle principali città e di alcuni cantoni della Confederazione, dal Civitates Orbis Terrarum di Georg Braun e Franz Hogenberg, una raccolta di mappe delle città del mondo curata dai geografi tedeschi, pubblicata in 6 volumi tra il 1572 e il 1617. Da sinistra a destra, sulle tre file: Svicia (Svitto); Sylvania (nome latinizzato dell’Untervaldo); Tugium (Zugo); Canton Glarona; Basilea; Tygurum (Zurigo); Civitas Ursina (Berna); Lucerna; Ursella (Uri); Friburgum (Friburgo); Civitas Soloturensis (Soletta); Schaphusia (Sciaffusa); Appencella (Appenzello).

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Thomas Maissen, Svizzera. Storia di una federazione, Beit, Trieste 2015 Sergio Gerotto, Svizzera, Il Mulino, Bologna 2011

comprometterne a lungo termine la posizione di potere nei territori a sud dell’alto Reno. I Confederati, numericamente inferiori e sorpresi in una posizione sfavorevole, dopo le difficoltà iniziali riuscirono ad annientare l’esercito asburgico: insieme al duca Leopoldo III perirono molti esponenti della nobiltà regionale. Per la casa d’Asburgo la disfatta ebbe gravi conseguenze, poiché disgregò la sua posizione di potere nell’Austria anteriore e segnò l’inizio della sua estromissione dai futuri territori confederati. I cavalieri e l’élite cittadina alleati con l’Austria subirono un pesante tracollo. Dopo un’ulteriore vittoria sugli Asburgo nel 1388 con la battaglia di Näfels, la convenzione di Sempach (1393) stabilí fra l’altro che nessun cantone potesse avviare guerre senza il consenso degli altri. Sul piano del diritto imperiale, le alleanze dei Confederati vennero rafforzate, rispettivamente negli anni 1360-62 e 1376-79, dalle conferme di due sovrani antiasburgici (l’imperatore Carlo IV e re Venceslao di Boemia): conferme tanto piú notevoli alla luce della Bolla d’Oro imperiale, che nel 1356 aveva proibito ogni coniuratio o confoederatio, e dello scioglimento imposto nel 1389 a tutte le leghe cittadine tedesche. A quel momento la Confederazione degli otto cantoni cominciava a essere vista anche all’esterno come struttura politica durevole e il sistema di alleanze si avviò a consolidarsi grazie a ulteriori patti e ad ammodernamenti di quelli già stipulati. V

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Porta della Lombardia CARTOLINE • Il poderoso forte di Gavi, in provincia

di Alessandria, occupa una posizione strategica cruciale e contesa, nei secoli, da tutte le maggiori potenze del territorio e non solo

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Ripetuti passaggi di mano Nei secoli XIV e XV la fortezza di Gavi e il territorio da questa controllato, incuneato tra la Repubblica di Genova, il Ducato di Milano, il Marchesato di Saluzzo, il Ducato del Monferrato e il Piemonte sabaudo, furono al centro di lotte tra Milano e Genova. Dopo alterne vicissitudini, fra cui il passaggio del maniero ai Visconti di Milano (1348-1358), ai Francesi (1397-1411), ancora ai Visconti (dal 1421) e ai Guasco di Alessandria

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La posizione strategico-militare di Gavi, ritenuta «porta della Lombardia» fu rafforzata a partire dal 1202, anno in cui l’abitato passò sotto il dominio di Genova. Infatti, dal Duecento in poi, la storia del borgo e del fortilizio s’intrecciò sempre piú con quella della Serenissima Repubblica, che muní di strutture fortificate il luogo, definendolo «antemurale di là da Giogo» contro il Ducato di Milano.

Se

no scenario collinare incantevole, regno dei vigneti da cui ha origine il Cortese di Gavi D.O.C.G., incornicia il forte di Gavi (Alessandria), vigile e imponente sentinella di pietra a presidio di un appartato angolo tra Piemonte e Liguria. Molti eventi importanti si sono succeduti in questo territorio nel corso dei secoli, a cominciare dall’epoca ligure, quando antiche popolazioni dotarono di strutture difensive lo sperone roccioso, protetto su tre lati dal corso dei torrenti Lemme e Neirone, oggi occupato dalla maestosa fortezza. Durante il II secolo a.C. ai Liguri successero i Romani, che consolidarono in importanza il sito per il controllo della via Postumia. L’arteria, decisa nel 148 a.C., fu realizzata per consentire il piú rapido e agevole percorso militare e commerciale tra il mare, la valle Scrivia e la Pianura Padana, e si fondò sul sostrato di tracciati e nuclei demici preesistenti.

Biella

Novara Milano

Vercelli Torino

Casale Monferrato

Carmagnola

Asti Bra

Cuneo

Mondoví

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Alessandria

Gavi MAR LIGURE

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Nella pagina accanto, in alto Gavi (Alessandria). Una delle torrette di guardia poste ai vertici dei bastioni del forte. In questa pagina vedute panoramiche del forte di Gavi. La prima attestazione dell’esistenza di un castello compare in un documento datato all’anno 973.

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CALEIDO SCOPIO A sinistra il fregio della Pentecoste che sormonta il portale principale della parrocchiale di S. Giacomo. XII sec. Sulle due pagine ancora un’immagine panoramica del forte di Gavi.

Echi cluniacensi e transalpini Nel nucleo medievale di Gavi la parrocchiale di S. Giacomo, testimone dell’agiatezza di questo centro mercantile minore, è ritenuta un capolavoro dell’architettura romanica in provincia di Alessandria. Fulcro della struttura religiosa appare l’alto tiburio, attorno a cui ruota e si dispone l’intero abitato. L’interno dell’edificio religioso, a tre navate con robuste colonne monolitiche poste a sostegno di arcate, che sorreggono una volta barocca, presenta una profonda abside affiancata da due absidiole minori e un presbiterio dagli evidenti richiami stilistici cluniacensi e transalpini. Bellissima è la facciata, ornata da un ricco patrimonio di altorilievi, su cui si distingue lo straordinario fregio sopra il portale, dedicato alla Pentecoste e firmato nel XII secolo dallo scultore magister Albertus. (dal 1468), nel 1528 Gavi tornò a far parte dei territori genovesi. La località divenne, sia per ragioni economiche che militari, una delle cittadine piú importanti dell’intero DOVE E QUANDO

Forte di Gavi Gavi (Alessandria), via al Forte 14 Note l’accesso al Forte è previsto con visite guidate dal personale di vigilanza in gruppi composti al massimo da 25 persone Info tel. 0143 643554; e-mail: pm-pie.gavi@beniculturali.it; http://polomusealepiemonte. beniculturali.it

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Oltregiogo, comprendente l’alta e media valle della Scrivia, la val Borbera e la valle del Lemme.

Impianto medievale È impossibile non avvertire il rapporto simbiotico creatosi in età medievale tra il forte sovrastante e il nucleo urbano, tuttora caratterizzato dall’impianto medievale della struttura del centro storico, diviso in due porzioni dalla contrada maestra. Agli inizi del XVII secolo il maschio, ereditato dal Medioevo e consistente nella parte piú alta della fortezza, chiamata anche Altoforte, era già «ridotto a la moderna», con


l’aggiunta di bastioni. Sono ancora ben visibili la rampa di accesso, le fenditure ricavate nella parete legata alla roccia affiorante e tracce dell’apparecchio lapideo medievale. Gli interventi attuati sulla cortina negli anni Venti del Seicento dal padre domenicano Vincenzo da

Fiorenzuola, furono decisivi per la connotazione morfologica e funzionale dell’architettura, che subí una notevole trasformazione, collegabile alla scelta della Repubblica di Genova di riaffermare e consolidare il ruolo di Gavi nell’Oltregiogo. Restaurato sul

finire del Novecento con il ripristino di bastioni, cannoniere e volte a prova di bomba, il forte, a cui si accede dalla «ridotta del Monte Moro», un portone d’ingresso scavato nella roccia, ospita ora mostre ed eventi culturali. Chiara Parente


CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Franco Cardini, Gloria Larini (a cura di) Lo spettro e la verità Fantasmi, apparizioni, profezie dalla «Bibbia» al «Decameron»

Storia e Linguaggi, 24, Libreriauniversitaria.it, Limena (Padova), 212 pp.

19,90 euro ISBN 9788862928656 www.libreriauniversitaria.it

Fantasmi, entità sofferenti provenienti dall’Aldilà, evocatori di spettri, profezie scandite da morti a monito dei vivi: in tutta la letteratura antica e moderna ricorrono tali personaggi, quasi sempre oscuri, legati all’altro mondo. Dalla tragedia greca alla letteratura romana, dalla Bibbia al Decamerone il tema dello spettro e dell’apparizione di esseri inferi diviene infatti un topos ben definito, largamente diffuso e apprezzato dai lettori. Il volume curato da Franco Cardini e Gloria Larini raccoglie sei importanti e avvincenti saggi sul tema dei fantasmi e del rapporto tra uomini e Aldilà negli scritti di età antica e medievale, analizzandone filologicamente la struttura letteraria e la definizione dei protagonisti.

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I temi trattati riguardano il mondo ebraico e quello persiano (Rav Joseph Levi e Andrea Piras), le tragedie con fantasmi di Eschilo ed Euripide (Monica Centanni e Gloria Larini), affronta quindi il Decamerone (Franco Cardini), per concludersi con vari esempi dell’argomento nella novellistica medievale (Marina Montesano). Questo specifico

necessaria e affascinante premessa per comprendere appieno come, tra l’Ottocento e il Novecento, i racconti indicati con il termine «gotici» diverranno un genere di vastissimo successo e che troverà i suoi piú celebri rappresentanti nel Frankenstein di Mary Shelley e nel Dracula di Bram Stoker. Francesca Ceci Valentina Costantini Carni in rivolta Macellai a Siena nel Medioevo Pacini Editore, Pisa, 280 pp., ill.

18,00 euro ISBN 978-88-6995-087-2 www.pacinieditore.it

genere letterario, già di per sé avvincente, è esaminato dagli autori con un approccio nel quale al rigore scientifico, testimoniato dalla ricca bibliografia e dagli indici tematici, si affianca una prosa scorrevole e accattivante; il volume è cosí apprezzabile dagli specialisti come da chi è semplicemente interessato all’argomento. La lettura di questa raccolta di saggi costituisce una

Da sempre circondati da una pessima fama (violenti, spietati, arricchiti col sangue), non confermata però dalle fonti medievali, ma frutto di una rielaborazione dell’età moderna, i macellai rappresentavano in realtà, in tutta Europa, un gruppo di potere col quale i governi cittadini erano costretti di continuo a confrontarsi per molteplici fattori: primo fra tutti la necessità di garantire il rifornimento annonario ai centri urbani. Distributori di carni fresche al dettaglio, ma

anche allevatori e commercianti di bestiame su larga scala, i macellai controllavano infatti la filiera della carne dai pascoli al banco di vendita. Ciò garantiva loro una posizione contrattuale di assoluta preminenza nei confronti delle autorità cittadine, consentendogli di difendere strenuamente i propri privilegi attraverso scioperi, speculazioni, frodi, rivolte armate. In tutte le principali città italiane ed europee bassomedievali i carnaioli si rendono protagonisti di decine di episodi violenti, perlopiú di matrice politica (a volte scatenati da pretesti fiscali). Trattandosi infatti di personaggi arricchitisi velocemente, e dotati di proprie forti organizzazioni professionali, tentavano ovunque la scalata al potere (a volte con successo, come a Bologna nel 1274, quando entrarono a far parte del governo popolare come braccio armato della Parte Guelfa). Per riuscire nel loro intento, talvolta (come avvenne appunto a Siena), stipulavano alleanze con un altro gruppo

potente e ambizioso: quello dei notai. Oltre al ruolo chiave nel rifornimento annonario cittadino, altri due fattori influivano sul rapporto tra macellai e ceti di governo: l’impatto ambientale dell’attività (la coincidenza tra luogo di macellazione e luogo di vendita, e l’aspetto inquinante del procedimento generavano continue proteste), e la natura armata del mestiere. I carnaioli fungevano ovunque anche da compagnie armate, sia perché asce, mazze e coltelli costituivano i loro ferri del mestiere (per cui era impossibile disarmarli), sia perché la forza dei loro vincoli corporativi, parentali e vicinali li rendevano milizie eccellenti, ma anche molto pericolose per l’ordine pubblico. A Siena in particolare (oggetto precipuo di analisi del volume), le maggiori sollevazioni ottobre

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si verificarono tra Nel corso del il 1311 e il 1356, Trecento, vere e con due principali proprie dinastie di caratteristiche: il fatto macellai imprenditori che i macellai non si andarono agirono mai da soli, allontanando sempre ma sempre alleati a piú dal lavoro uomini di legge e delle manuale, per compiere principali famiglie nobilitanti percorsi nobili cittadine; e il di ascesa sociale. fatto che si trattasse Nel 1356 uno di sempre di congiure, loro faceva parte del ordite nel cuore governo di Siena, stesso degli uffici e analogamente a dell’amministrazione Bologna, alla fine del comunale. Trecento, una potente La rivolta del 1318 famiglia di macellaiappare fondamentale notai, i Bentivoglio, per comprendere tutte assurse al governo le altre: dopo la sua della città. repressione, infatti, si Il volume analizza chiarí la sostanziale quindi le dinamiche distinzione sociale interne all’arte nei suoi e politica tra un rapporti col potere gruppo di macellai di politico, nel periodo grosso calibro – che cruciale compreso confermarono la tra gli anni Ottanta propria fedeltà ai del XIII e la metà mercanti al governo – del XIV secolo; gli e il variegato mondo spazi di rifornimento dei piccoli carnaioli/ e i meccanismi di bottegai/squartatori, approvvigionamento di condizione sociale degli animali nelle molto piú modesta, e campagne; i problemi ormai politicamente relativi ai rifornimenti, compromessi. all’igiene e all’ordine Questa sollevazione pubblico in città, nei rappresentò cioè un luoghi di macellazione discrimine irreversibile, e di vendita; per mettendo in evidenza esaminare infine, come anche famiglie sulla base del catasto legate al commercio senese del 1318, la al dettaglio e al lavoro struttura patrimoniale Ondas.potessero Martín Codax, dei principali macellai manuale Cantigas de Amigo compiere mirabili cittadini (molti dei Vivabiancaluna ascese sociali ed Biffi, Pierre qualiHamon erano al tempo Arcana (A390), 1 CD stesso anche grandi economiche, a patto di www.outhere-music.com mettere la giusta allevatori, appaltatori distanza tra se stesse di dazi, mercanti e il fronte ribelle. di cuoio, lanaioli),

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i loro orientamenti nell’investire, le loro carriere, le loro storie. Maria Paola Zanoboni Rossana Barcellona e Teresa Sardella (a cura di) Mirabilia, miracoli, magia Retorica e simboli del potere nella Tarda Antichità Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa, 274 pp., ill. col. e b/n

20,00 euro ISBN 978-88-99168-29-2 www.edizionidistoria.com

La sfera del soprannaturale ha sempre attratto l’uomo, che ha di volta in volta cercato di spiegare i fenomeni prodigiosi, molto spesso interpretandoli come altrettante manifestazioni del divino. Letture che sono state altrettanto spesso piegate alla volontà dei potenti, per giustificare la legittimità del proprio imperio e delle proprie scelte. Un universo dunque multiforme, al quale anche piú di un filosofo ha rivolto l’attenzione, suggerendo ulteriori possibili esegesi. Un insieme di fattori che ha contribuito alla sedimentazione di un patrimonio di eccezionale ricchezza, al cui

interno si muovono i contributi riuniti in questo volume, di taglio prettamente specialistico. Saggi che spaziano da considerazioni sull’Egitto dei primi cristiani alle riflessioni sui prodigia nella Roma tardo-imperiale, per arrivare sino alla simbologia alchimistica descritta in un trattato del XVII secolo, il Mutus Liber. Stefano Mammini Alessio Pascolini Il rituale funerario longobardo Cultura Tradizionale e Cultura Materiale

Daidalos, Umbertide (PG), 152 pp., ill. b/n

18,00 euro ISBN 978-88-908454-3-7

I contesti sepolcrali costituiscono uno dei campi d’indagine prediletti dall’archeologia e alla norma non sfuggono i Longobardi, le cui numerose necropoli hanno a oggi permesso, anche in Italia, di conoscere

a fondo le principali comunità del popolo di origine germanica. Tuttavia, secondo l’autore di questo volume, nella pur ricchissima letteratura esistente permangono zone d’ombra, che il suo studio ambisce almeno in parte a illuminare. L’attenzione di Pascolini si concentra in particolare sull’ultimo trentennio del VI secolo – che per la storia dei Longobardi in Italia

coincide con un momento cruciale –, sforzandosi di andare oltre le interpretazioni fin qui fornite. Il suo obiettivo primo è la definizione del rito funebre, soprattutto per quel che concerne i valori simbolici che a esso dovevano essere assegnati. Una realtà, come si può intuire, sfuggente, ma di cui viene suggerita una lettura non priva di elementi convincenti. S. M.

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Non c’è amore senza fortuna MUSICA • L’ensemble britannico The Orlando Consort

si cimenta ancora una volta, e con eccellenti risultati, con il ricco repertorio di Guillaume de Machaut. Una raccolta che conferma la versatilità e le geniali invenzioni musicali del compositore francese

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ra le figure piú interessanti e celebrate del Trecento francese, Guillaume de Machaut è stato un compositore e un letterato di prim’ordine; una prova della sua fama sono le innumerevoli fonti musicali attraverso le quali la sua opera è stata tramandata. La sua biografia, anch’essa testimoniata in maniera esemplare, lo vede percorrere quasi tutto il XIV secolo. Nato a Reims nel 1300, entrò nel 1323 a servizio del re di Boemia, Giovanni di Lussemburgo; eletto canonico nella cattedrale della sua città nel 1337, restò, dopo la morte di Giovanni, ancora legato ai

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Lussemburgo, prendendo servizio presso la figlia del defunto sovrano. Alla morte di quest’ultima, nel 1349, passò alla corte di Carlo II re di Navarra, mantenendo l’incarico sino alla fine dei suoi giorni, sopraggiunta nel 1377.

Compositore prolifico Rinomato in tutta Europa, le oltre 400 opere poetiche e musicali pervenuteci sono una formidabile dimostrazione di una vasta produzione, che ha toccato tutti i generi dell’Ars Nova: ballate – ne scrisse piú di 200 –, mottetti, rondeaux, virelais, lais, complaintes, chants royaux, a cui si

aggiunge la rinomata Messe de Notre Dame, che costituisce il primo esempio di un ciclo completo di messa polifonica ascrivibile a un solo autore. Nell’antologia Fortune’s Child, la quinta dedicata a questo compositore dal gruppo inglese The Orlando Consort, domina ancora una volta il tema dell’amore, decantato da Machaut in tutte le sue sfaccettature, quasi a ricreare un campionario psicologico delle pene e delle gioie dell’amante; il tutto vissuto in un contesto, quello dell’amore cortese, già mirabilmente sfruttato dai compositori provenzali e non solo. La citazione della Fortuna, evocata nel titolo della raccolta, vuole essere un richiamo al suo ruolo preponderante in tanta produzione poetica medievale, a cui lo stesso Machaut dedicò il suo poema liricomusicale Le remede de fortune, in cui la Speranza insegna all’amante come combattere appunto i capricci della Fortuna. L’antologia si apre con una deliziosa ballata, Gais et jolis, a tre voci, il cui soave stile melismatico si presta a decantare la gioia d’amore che l’amante prova a dispetto di ogni avversità. L’atmosfera cambia nel brano che segue, Dous amis oy mon complaint, ballata a due voci, dove è la disperazione piú buia a ispirare il lamento dell’amante.

Un’invettiva contro la cattiva sorte Con un’alternanza di atmosfere e stili, alcuni brani si soffermano anche sul crudele ruolo giocato dalla Fortuna: è il caso del mottetto politestuale Helas! pour quoy virent /Corde mesto Libera me, su testo francese e latino, nel quale, accanto al lamento di chi ha perduto ogni speranza di rivedere la sua donna, il testo latino presenta

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Machaut. Fortune’s Child Hyperion, CDA68195, 1 CD The Orlando Consort www.hyperion-records.co.uk un’invettiva contro la cattiva sorte. In altri brani, come Honte, paour, doubtance, è invece l’intento educativo a prevalere, con un invito a moderare i propri istinti davanti alla passioni d’amore. Offre un bellissimo ascolto anche un altro mottetto politestuale Hé! Mors!/ Fine Amour/Quare non sum mortuus, che tratta il tema della morte della propria amata; un brano dalla ricca testualità, che riprende il tema biblico tratto dal Libro di Giobbe. Notevole è l’interpretazione del The Orlando Consort, ensemble britannico composto da quattro voci maschili: il controtenore Matthew Venner, i tenori Mark Dobell e Angus Smith e il baritono Donald Greig. Specialiste del repertorio medievale al quale hanno dedicato decine di registrazioni di grande livello, le limpide voci del quartetto si uniscono in un equilibrato impasto sonoro che ripropone in maniera assolutamente convincente un repertorio di grande fascino, con un’interpretazione all’altezza della grande arte di Guillaume de Machaut. Franco Bruni

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