Medioevo n. 260, Settembre 2018

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CRINCHI OC ESTA IAT E

MEDIOEVO n. 260 SETTEMBRE 2018

SU LL E

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

www.medioevo.it

Mens. Anno 22 numero 260 Settembre 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

25 SETTEMBRE 1066

La disfatta dei Vichinghi COSTUME E SOCIETÀ

Il mercato immobiliare

L’INCHIESTA

Il crepuscolo della Crociata

GUBBIO

L’arte al tempo di Giotto

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€ 5,90

CREPUSCOLO DELLA CROCIATA GUBBIO STAMFORD BRIDGE MERCATO IMMOBILIARE DOSSIER FRANCESCANI IN TERRA SANTA

FRANCESCANI IN TERRA SANTA

IN EDICOLA IL 1° SETTEMBRE 2018



SOMMARIO

Settembre 2018 ANTEPRIMA

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IL PROVERBIO DEL MESE Fare la cresta

Storie di galli e di uve

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RESTAURI Un capolavoro «divino» per la pia confraternita Il sublime ottagono di un grande innovatore

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ITINERARI Nel triangolo delle meraviglie ARCHEOLOGIA Il re che amava la carne APPUNTAMENTI Quella felice alleanza matrimoniale Storie in bianco e nero L’Agenda del Mese

19 9 17

22 23 26

STORIE

di Stefano Mammini

CALEIDOSCOPIO 44

BATTAGLIE

Stamford Bridge

Tramonto vichingo

di Federico Canaccini

L’INCHIESTA Le crociate I giorni dell’abbandono incontro con Antonio Musarra, a cura di Marco Di Branco

MOSTRE Gubbio Magnifici quegli anni

52

52

LIBRI Lo scaffale

Dossier

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32

32

COSTUME E SOCIETÀ MERCATO IMMOBILIARE Dimmi dove abiti e ti dirò chi sei...

di Maria Paola Zanoboni

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LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Basilicata

Nei feudi dei Sanseverino di Marco Ambrogi

102

FRANCESCANI IN TERRA SANTA Una storia lunga 800 anni 73 testi di Sergio Ferdinandi, Christian Grasso, Filippo Sedda, Giuseppe Ligato e Giuseppe Buffon


MEDIOEVO Anno XXII, n. 260 - settembre 2018 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Marco Ambrogi è Direttore dei Musei della Diocesi di TeggianoPolicastro. Franco Bruni è musicologo. Fra Giuseppe Buffon è ordinario di storia della Chiesa moderna e contemporanea presso la Pontificia Università Antonianum, Roma. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Marco Di Branco è assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Padova. Sergio Ferdinandi è archeologo medievista. Federico Fioravanti è giornalista e ideatore del Festival del Medioevo. Christian Grasso è membro dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Giuseppe Ligato è storico delle crociate. Tommaso Mammini è laureato in storia contemporanea presso «Sapienza» Università di Roma. Antonio Musarra è assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Firenze. Chiara Parente è giornalista. Stefania Romani è giornalista. Filippo Sedda è ricercatore presso la Scuola superiore di studi medievali e francescani della Pontificia Università Antonianum, Roma. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: p. 64 (basso); Album: copertina (e p. 79) e pp. 96/97; AKG Images: pp. 5, 64 (alto), 66-67, 73, 89, 91, 97; Leemage: pp. 62/63, 65, 74 (alto) – Cortesia Opificio delle Pietre Dure, Firenze: pp. 6 (destra), 7 (basso), 8; Giuseppe Zicarelli: pp. 6 (sinistra), 7 (alto e centro) – Cortesia Associazione Un Volo sopra la Vallassina: Andrea Brambilla: pp. 9-11 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 17. 19-21, 44, 47, 48-49, 50 – Cortesia degli autori: pp. 22-23, 33 – Doc. red.: pp. 34-41, 46/47, 50/51, 54-55, 58, 74/75, 75 (basso), 76, 78, 80-81, 85, 88, 90, 92-95, 100/101, 102 (basso) – Stefano Mammini: pp. 44/45, 51 – Bridgeman Images: pp. 52/53 – Alamy Stock Photo: p. 57 – Shutterstock: pp. 58/59, 60/61, 68-69, 82/83, 84/85 – Foto Scala, Firenze: su concessione MiBAC: p. 70 – Duby Tal/ Albatross Aerial Photography: pp. 86/87 – The American Colony and Eric Matson Collection, Todd Bolen: pp. 98, 99 (alto) – Marco Ambrogi: pp. 100101, 102 (alto), 103, 104-109 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 56, 57, 77, 102 – Cippigraphix: cartina a p. 81.

Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano In copertina Guillaume de Clermont difende Tolemaide. 1291, olio su tela di Dominique Papety. 1845. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Nel prossimo numero protagonisti

Jan Zizka, un generale contro l’impero

l’arte delle antiche chiese/1

Da Casale Monferrato a Vercelli

dossier

La nascita della Svizzera


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Storie di galli e di uve

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i sono modi di dire che, sebbene molto utilizzati, possono suonare incomprensibili, perché alcuni termini si sono modificati nel corso del tempo e hanno cosí trasformato e magari perduto il significato originario. È proprio il caso di «fare la cresta», un’espressione che, all’apparenza, sembrerebbe richiamare la cresta di un gallo. Tuttavia, un conto è «alzare la cresta», cioè insuperbire – proprio «come

galli tronfi, con la cresta levata, pettoruti», come scrisse Giovanni Boccaccio (Dec. 7, 3) –, altra cosa è «fare la cresta». In questo caso il gallo non c’entra nulla, poiché «fare la cresta» significa sostanzialmente rubare, facendo risultare agli altri un prezzo superiore rispetto a quello effettivamente pagato, cosí da intascare disonestamente la differenza. Ma, allora, a che cosa si riferisce la cresta in questione? Questo modo di dire, in realtà, è una deformazione della locuzione «fare l’agresto», aggettivo oggi desueto e che significa aspro, acerbo, non maturo, agro (da cui appunto agresto). Come sostantivo, invece, «agresto» indica propriamente l’uva ancora non completamente maturata, che il padrone poteva lasciare ai contadini, i quali la raccoglievano per farne un succo aspro, una sorta di aceto, da adoperare come condimento. In Francia era ed è ancora chiamato «vertjus», cioè «succo verde», ma il termine «agro» compare in «vinaigre», vocabolo che tuttora designa l’aceto. I contadini però, nel «fare l’agresto», cioè nel corso della raccolta di questa uva ancora mezza acerba, non si lasciavano scappare l’occasione di raccogliere anche qualche grappolo di uva buona: ed è per questo che la locuzione acquisí nel tempo il significato di «rubare», presentando per un valore

qualcosa che ne ha un altro, per giunta maggiore. Nelle corti dell’Italia bassomedievale, l’agresto divenne molto popolare ed era alla base di salse, ma anche di bevande, quali il succo d’uva con miele e agresto, che si riteneva avere anche proprietà terapeutiche. L’uva, raccolta semiacerba, veniva lavorata con un processo assai delicato: era fatta appassire per circa tre settimane e poi pestata. A questo punto, la sorta di mosto che ne risultava veniva fatta bollire fino a provocarne l’addensamento, riducendo quasi di un terzo il liquido e trasformandolo dunque in una specie di sciroppo. Venivano poi aggiunte le immancabili spezie: dragoncello, cannella, cipolla e aglio. Infine si univano l’aceto e il miele, che conferivano al tutto l’inconfondibile sapore agrodolce, tanto apprezzato nel Basso Medioevo. Tuttavia, la fortuna dell’agresto declinò verso il Rinascimento, in seguito a una generale rivoluzione del gusto, quando alle corti si iniziò a preferire l’aceto balsamico, sino ad allora in realtà relegato ai consumi popolari. In particolare, furono gli Estensi a favorire la produzione dell’aceto balsamico, che oggi è quasi una bandiera della gastronomia dei territori di Modena e Reggio Emilia.

Miniatura raffigurante la preparazione dell’agresto, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.


ANTE PRIMA

Un capolavoro «divino» per la pia confraternita RESTAURI • A Firenze,

ha recuperato le cromie originarie il magnifico Crocifisso realizzato dal Beato Angelico per la Compagnia di San Niccolò del Ceppo

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ra’ Giovanni da Fiesole, meglio noto come Beato Angelico, nacque Guido di Pietro a Vicchio di Mugello, nel 1395, proprio durante l’epoca di transizione dal tardogotico al Rinascimento e si affermò come uno dei piú significativi artisti di mediazione tra le due correnti. Fu un artista capace di coniugare la sacralità dei temi rappresentati con le innovazioni introdotte da Masaccio, permettendo un’assimilazione graduale del linguaggio che proprio allora stava prendendo piede. Aggiornato al nuovo formalismo rinascimentale, il

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Nella pagina accanto, in alto il Crocifisso dipinto dal Beato Angelico per la Compagnia di San Niccolò del Ceppo, con i vari elementi ricollocati nella posizione originaria. 1430 circa. Nella pagina accanto, in basso la tavola raffigurante san Niccolò inginocchiato ai piedi del Golgota, dopo il restauro. monaco «non fece mai Crucifisso che non si bagnasse le gote di lagrime», come ci riportano le fonti, che lo descrivono come uomo umile e modesto che non metteva mano ai pennelli senza prima aver pregato, tanto da meritarsi il soprannome di «pictor angelicus», da cui deriva la denominazione con cui è oggi noto.

L’uomo al centro dell’attenzione Intima religiosità e cromía brillante si fondono in una figurazione devota e puristica, scevra da ogni forma di mondanizzazione, seppur con l’uomo al centro dell’attenzione, comunque sempre in forma leggera,

In alto il Cristo crocifisso e il Golgota, dopo il restauro. A destra la tavola che ritrae san Francesco. La foto evidenzia lo stacco fra le parti originarie del dipinto e l’inserto realizzato agli inizi del Novecento, dopo l’asportazione del busto del santo, oggi custodito presso il Philadelphia Museum of Art.

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ANTE PRIMA

Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae

In alto l’Oratorio della Compagnia di San Niccolò del Ceppo. A destra la tavoletta votiva attribuita alla bottega di Jacopo da Empoli (1551-1640) nella quale si vede il Crocifisso del Ceppo prima delle manomissioni subite nel XVII sec., ritrovata nel doppio fondo di un armadio dell’archivio della Compagnia. lontana da qualsivoglia drammatizzazione. Convinto che le sue opere, pervase da serenità e umiltà, fossero ispirate dalla volontà divina, il Beato Angelico non le ritoccava mai, per abitudine, regalandoci racconti pittorici che sono espressione di un contenuto ed elegante naturalismo.

Le offerte nella fessura di un albero Famoso per il ciclo di affreschi conservato a Firenze nel Museo di San Marco, databile agli anni Quaranta del Quattrocento, il frate domenicano aveva realizzato un altro capolavoro un decennio prima, adesso nuovamente fruibile dopo il restauro eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure. Si tratta di un dipinto, su tavola sagomata, che presenta Cristo crocifisso tra i santi Niccolò e Francesco, inginocchiati ai piedi del Golgota, appartenente alla trecentesca Compagnia di San Niccolò di Bari, detta «del Ceppo» per l’uso di mettere le offerte attraverso una fessura in un «ceppo» di albero cavo, nella cui sagrestia era esposto. Formata da un nucleo di fanciulli che si riunivano di giorno, e uno di adulti che facevano pratiche penitenziali di notte, la confraternita metteva in pratica tutte e sette le opere di Misericordia; nel 1417, si trasferí da Oltrarno nella parrocchia di S. Jacopo tra i Fossi.

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Risalgono al 1564 le prime notizie dell’opera – mancante del busto di san Francesco, i cui frammenti si trovano al Philadelphia Museum of Art e qui sostituito da una copia –, ma attribuito all’Angelico solo molto tempo dopo, agli inizi del Novecento. Nel corso del tempo ha subito vari interventi, che ne hanno alterato l’immagine originale – adesso parzialmente recuperata – nella quale sono leggibili richiami masacceschi nelle figure dei santi e nell’anatomia di Cristo. Grazie anche all’aiuto di un tavoletta ex voto della bottega di Jacopo da Empoli ritrovata nel doppio fondo di un armadio dell’archivio della Compagnia – che raffigura il manufatto prima dell’intervento di riduzione nel XVII secolo –, è stato possibile recuperare il corretto rapporto delle proporzioni tra gli elementi rappresentati, oltre alla struttura dell’altare maggiore su cui era collocato all’epoca. Ricostruite alcune parti con inserimenti in legno, sono state conservate le lacune trattate «a neutro» nelle aree non ricostruibili, mentre si è provveduto al reintegro di altre porzioni con la tecnica a tratteggio della «selezione cromatica», realizzata con colori puri giustapposti. Mila Lavorini settembre

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Nel triangolo delle meraviglie ITINERARI • La penisola che ha ai suoi vertici Como,

Bellagio e Lecco è un autentico scrigno di tesori. Che documentano l’importante passato medievale di queste terre bagnate dal lago di manzoniana memoria

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on l’iniziativa «Barni. Un paese in posa», il borgo comasco è diventato una galleria a cielo aperto: decine di fotografie in bianco e nero, di grandi dimensioni, che riprendono persone del luogo, sono collocate lungo le vie, sui muri a ciottoli, accanto ai voltoni dell’abitato. La mostra permanente, nata da un’idea di Giulia Caminada, offre l’opportunità di riscoprire antichi mestieri, tradizioni contadine, costumi caratteristici del Triangolo Lariano, il territorio compreso fra i due rami del Lario, il Lago di Como, che ha i vertici a Bellagio (Como), Lecco e Como. In questo lembo di Lombardia, stretto fra i rilievi montuosi delle Prealpi e punteggiato nella parte meridionale da sei laghi di dimensioni ridotte, scorre in senso longitudinale la Vallassina, che nasconde meraviglie romaniche poco note.

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L’itinerario lungo la valle solcata dal tratto iniziale del fiume Lambro, con centri di origine celtica che nel Medioevo rientrano nella sfera di influenza dell’arcivescovo di Milano, può partire proprio da Barni (Como), con la chiesa dei Ss Pietro e Paolo.

La donazione di Federico Collocata nell’area cimiteriale, appena fuori dal paese, la struttura conta la torre campanaria romanica, a pianta quadrata, alleggerita da una sequenza di monofore e due ordini di bifore. L’origine del luogo di culto è legata a Federico I, che donò l’area di Barni ai Benedettini di S. Pietro al Monte di Civate. Risale alla prima fase della chiesetta, rimaneggiata fra il XV e il XVI secolo, anche il presbiterio, arricchito dagli affreschi menzionati nel resoconto della visita effettuata da san Carlo Borromeo nel 1570: nell’abside semicircolare

In alto il castello a ricetto di Barni (Como), che, in caso di attacco, poteva offrire ricovero a persone e bestiame. Qui sopra resti della cinta muraria medievale di Rezzago (Como).

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ANTE PRIMA A sinistra Lasnigo (Como). La chiesa di S. Alessandro, la cui prima attestazione risale al XIII sec. Nella pagina accanto Rezzago (Como). La chiesa dei Ss. Cosma e Damiano, costruita su una piú antica fabbrica di epoca paleocristiana. In basso Barni (Como). La chiesa dei Ss. Pietro e Paolo, che oggi si presenta in forme quattrocinquecentesche, ma la cui fondazione è di epoca medievale.

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è dipinta una Crocifissione fra Santi, presumibilmente quattrocentesca, mentre nella calotta campeggia Dio Padre benedicente fra gli angeli, che si sovrappone a un precedente Cristo in mandorla. A nord del paese c’è un’altra testimonianza medievale, il castello, ora di proprietà privata, a strapiombo sul Lambro e su un paesaggio mozzafiato. Del maniero a ricetto, cioè pensato per accogliere persone e bestiame in caso di attacco, si sono conservati il mastio e un’altra torre sul lato occidentale della cerchia muraria, che segnava l’accesso alla valle. Procedendo lungo la Vallassina verso sud, s’incontra Lasnigo (Como), dove merita una tappa la chiesa di S. Alessandro, menzionata per la prima volta nel XIII secolo, nel Liber notitiae Sanctorum Mediolani di Goffredo da Bussero. Eretta sulla sommità di un colle, l’architettura in pietra a vista, come nella tradizione comasca, ha una facciata

a capanna e un’imponente torre con cinque ordini, aperta, dal basso verso l’alto, da feritoie, monofore e bifore. L’interno a navata unica, con copertura a capriate, presenta due campate separate da un arco ogivale.

All’ombra del Monte Palanzone È invece di origine altomedievale la chiesa di S. Valeria e S. Vitale di Caglio, a Sormano (Como), centro all’ombra del Monte Palanzone, amato dal divisionista Giovanni Segantini per i suoi panorami. Citato nello stesso testo di Goffredo da Bussero, il luogo di culto nasce a una sola aula, per assumere l’attuale pianta a croce con l’aggiunta successiva dei due bracci laterali. In pietra a vista, con l’ingresso primitivo, oggi murato, dal lato verso la montagna, ha una torre piú tarda, voluta da san Carlo Borromeo. All’interno va visto un affresco del 1371, la Madonna del Latte, salvata dal degrado in occasione dei restauri del 1899. Maria, coronata e assisa in trono, è ripresa frontalmente, ha un incarnato molto chiaro ed è colta nel gesto di allattare Gesú. Accanto a lei santa Valeria con i figli, i gemelli Gervasio e Protaso,

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«infagottati» e sorretti dalla madre in maniera speculare. Procedendo lungo la valle vale una sosta la chiesa dei Ss. Cosma e Damiano a Rezzago (Como), costruita su un’architettura paleocristiana e dedicata ai due medici martirizzati nel IV secolo, ai quali furono attribuite guarigioni miracolose. Anche qui ha un ruolo importante la torre, con feritoie nei due piani piú bassi e bifore nei quattro superiori. In muratura in pietra a vista, la facciata con il portale sormontato da una lunetta tradisce la suddivisione degli spazi all’interno, articolato in due campate di dimensioni diverse. Sempre a Rezzago si trovano i resti del castello, ovvero le fondazioni della cerchia muraria, che in alcuni punti riemerge in alzato, e la torre a pianta quadrata, che è oggetto di restauri. Le bugnature dei conci fanno ascrivere l’origine dell’impianto a un periodo compreso fra l’XI e il XIII secolo. Per gli appuntamenti a Barni: www.culturabarni.it. Per info anche sugli altri centri: www.triangololariano.it Stefania Romani

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ANTE PRIMA

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

E il duca si parò nel Campo Rotaliano... T

orna a Mezzolombardo (Trento) l’appuntamento con «A.D. 577-I Longobardi nel Campo Rotaliano», quest’anno giunto alla seconda edizione. L’evento storico-rievocativo, in programma il 5-6 ottobre 2018, trae spunto dalla battaglia combattuta nell’anno 577 tra i Franchi e i Longobardi la cui memoria è tramandata dal massimo storico della gens Langobardorum, Paolo Diacono. Il grande cronista racconta nella sua Historia Langobardorum (libro III, 9) che «in quei giorni [nel 577] arrivarono i Franchi e il castrum Anagnis, che è posto sopra

collaboratrice di «Medioevo», con la partecipazione dei marchigiani Fortebraccio Veregrense e degli emiliani Bandum Freae, due tra i migliori gruppi di rievocazione storica altomedievale attivi in Italia. Come già lo scorso anno, l’evento offre l’occasione di narrare usi e costumi dei Longobardi, nonché di approfondirne la presenza in Trentino, documentata dalle fonti e dal ritrovamento di importanti necropoli, come quella di Civezzano. L’inaugurazione si terrà venerdí 5 ottobre, alle 20,00, presso il Parco Dallabrida, in pieno centro cittadino.

Trento al confine d’Italia, si consegnò loro. Per questa ragione, il conte dei Longobardi di Lagare, chiamato Ragilone, si recò sul posto e depredò Anagnis. Ma mentre tornava con il bottino, fu ucciso con molti dei suoi dal duca dei Franchi Chramnichis, che gli si parò contro nel Campo Rotaliano. Lo stesso Chramnichis, non molto tempo dopo, venne a Trento e la devastò. Ma il duca di Trento Evin lo inseguí e lo uccise con i suoi compagni nella località detta Salorno, riprendendo tutta la preda che quello aveva fatto. E cacciati i Franchi, recuperò il territorio di Trento».

In questa pagina uno dei momenti clou della manifestazione «A.D. 577-I Longobardi nel Campo Rotaliano», in programma a Mezzolombardo (Trento) il 5 e 6 ottobre prossimi: la simulazione delle tecniche di combattimento in uso presso i Longobardi, con repliche fedeli delle armi e dell’equipaggiamento utilizzati.

Una presenza importante La manifestazione storico-rievocativa è organizzata dalla Pro Loco di Mezzolombardo e dall’Associazione Castelli del Trentino in collaborazione con Perceval Archeostoria e fa parte del format «Alla scoperta dei Longobardi», curato dalla medievista Elena Percivaldi,

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Qui sarà allestito un ampio campo storico che proporrà, durante l’intera giornata di sabato, una serie di attività che consentiranno al vasto pubblico di avvicinarsi ai diversi aspetti della vita quotidiana dei Longobardi e del loro tempo. In particolare, i rievocatori proporranno un percorso didattico dedicato all’alimentazione e alla farmacopea rivolto sia ai bambini che agli adulti; sarà inoltre possibile assistere a dimostrazioni di armi e spettacoli di combattimento e alla suggestiva ricostruzione di riti quali il giuramento dello scramasax, settembre

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

che segnava per i giovani longobardi il passaggio Errata all’età corrige In questa pagina nei due giorni di «A.D. 577-I Longobardi adulta attraverso il diritto-dovere di portarecon le armi, e riferimento al nel Campo Rotaliano», ampio spazio è riservato anche alla l’ordalia (o giudizio di Dio), per mezzo dellaDossier quale siL’umanista documentazione delle attività produttive e artigianali, dall’arte dirimevano le controversie giudiziarie. della panificazione ai segreti della costruzione delle armi e alle che andò alle Grande spazio sarà riservato ai piú piccoli, che potranno tecniche di metallurgia. crociate (vedi cimentarsi in attività di laboratorio e giochi,«Medioevo» dall’arte n. 220, aprile 2015) desideriamo ispiratiinalla tradizione medievale e locale nel punto della panificazione all’approvvigionamento precisare delle che la medaglia bronzo riprodotta a provviste, dai segreti della costruzione dellep. armi allebasso) ritrae ristoro allestito Novello del Parco.(alLa cena sarà introdotta 93 (in Malatesta tecniche di metallurgia e di estrazione dei metalli. da brevi spiegazioni e sui secolo Domenico Malatesta, 1418-1465)sull’alimentazione signore costumi conviviali altomedievale, e verrà Nel pomeriggio si terrà un incontro di approfondimento di Cesena, e non Sigismondo Malatesta,dell’epoca come storico e culturale aperto al pubblico, con laindicato in didascalia. accompagnata brani dicon musica altomedievale Dell’errore ci da scusiamo partecipazione di Elena Percivaldi e di Manuel dal gruppo l’autore dell’articoloeseguita e con i nostri lettori. «Winileod». Come lo scorso anno, Fauliri, autore della tesi «L’arrivo dei Longobardi in «Medioevo» è media partner dell’iniziativa. Italia. Migrazione o invasione nel recente dibattito Il programma completo è disponibile sul sito: storiografico», discussa all’Università degli Studi di www.ad577.wordpress.com. Info: tel. 349 6892619; e-mail:associazionecastelli@libero.it Padova. La giornata si chiuderà degustando piatti




ANTE PRIMA

Quando le donne presero le armi S

i narra che, nell’anno 1449, Vigevano, minacciata dai militari sforzeschi, non volesse arrendersi tanto facilmente. Chiusi nel ricetto del Castello, gli abitanti difesero strenuamente il borgo dall’assedio, tanto che le donne presero le armi e, indossando mezze armature, sostituirono gli uomini stremati. La leggenda vuole che il successo della difesa femminile delle mura del borgo raggiungesse Francesco Sforza in persona, il quale, commosso da tanto coraggio, decise di non occupare con la forza Vigevano, bensí di trattare la resa, affidando la cura del borgo alla moglie Bianca Maria confermando ai Vigevanesi tutti quei privilegi commerciali di cui godevano fin dai tempi della dominazione viscontea. Anticamente identificata da alcuni come «Vicus Veneris», venne presto soprannominata «Vicus Virginis» per la profonda venerazione dei Vigevanesi nei confronti della Vergine Maria, a cui dedicarono una quindicina di chiese. Tale devozione per il sacro fu infervorata da frate Matteo dell’Ordine dei Domenicani, che alla metà del XIV secolo giunse a Vigevano e vi rimase fino alla sua morte, sopraggiunta il 5 ottobre 1470. Durante il suo soggiorno presso il convento di S. Pietro Martire compí miracolose guarigioni e conversioni, tanto da conquistare il cuore del popolo vigevanese, che lo venerò presto come «beato», proclamazione ufficializzata dalla Chiesa nel 1482.

Due immagini del Palio di Vigevano, in programma nella città lombarda dal 12 al 14 ottobre prossimi.

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

Dodici contrade per dodici parrocchie Nel 1981 nacque in suo onore il Palio delle Contrade, che ancor oggi vede gareggiare dodici contrade, abbinate alle dodici parrocchie cittadine. Accanto ai personaggi del Corteo Ducale, raffiguranti le antiche famiglie nobili del borgo vigevanese (recuperate attraverso una fedele ricerca storica effettuata dall’Associazione Sforzinda), oggi si possono ammirare i popolani, riuniti nelle differenti corporazioni, che animano il borgo medievale ricreato nel cortile del Castello Sforzesco. Il Palio è stato arricchito in questi ultimi anni dalla creazione di alcuni gruppi storici: Il Biancofiore, gruppo di danza rinascimentale, Aurora Noctis, gruppo di giocoleria, Musici e Alfieri dell’Onda Sforzesca, gruppo di tamburi e sbandieratori. L’evento di quest’anno è in programma da venerdí 12 a domenica 14 ottobre. A dare il via alla manifestazione, venerdí 12 sera, sarà la fiaccolata delle contrade da Piazza

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Ducale verso la chiesa di S. Pietro Martire, per deporre un cero ai piedi dell’urna che custodisce le spoglie del Beato Matteo. Sabato 13, dalle 16,00 fino a notte, e domenica 14 ottobre il Castello Sforzesco di Vigevano si trasformerà nel magnifico borgo rinascimentale dei tempi d’oro: si potrà assistere allo svolgersi dei giochi per la conquista dell’ambito cencio e passeggiare fra dame, cavalieri, popolani e armigeri. Piú di 500 figuranti comporranno il grande corteo che sfilerà nel pomeriggio di domenica. Banchetti allestiti dalle contrade offriranno, entrambi i giorni, gustose pietanze dell’epoca e rappresentazioni degli antichi mestieri, fra spettacoli e animazioni di strada, con sbandieratori, musici, danzatori e giocolieri. Info: www.paliodivigevano.it Facebook: Il Palio Di Vigevano settembre

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Il re che amava la carne ARCHEOLOGIA • La ricognizione

sui resti di uno dei piú celebri sovrani longobardi, Liutprando, ha svelato particolari inediti sulla sua figura. Ma anche la presenza di un «intruso» nella tomba...

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o studio paleopatologico dei personaggi storici costituisce sempre un evento eccezionale e la divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa si è specializzata in questo tipo di ricerche, anche su intere famiglie dinastiche, come gli Aragonesi di Napoli e i Medici di Firenze. Questa volta il team della divisione, guidato da Valentina Giuffra e con la supervisione di Gino Fornaciari, si è recato a Pavia, nella basilica di S. Pietro in Ciel D’Oro, dove è custodita la tomba di Liutprando (690-744), re dei Longobardi, in un loculo ricavato in un pilastro. Oltre ai resti del sovrano, la ricognizione ha rivelato anche un mistero: nel loculo nel quale riposa Liutprando sono state infatti ritrovate le ossa di un secondo individuo, che potrebbe forse essere il padre Ansprando, ma una conferma in tal senso potrà venire solo dalle analisi molecolari.

Tracce di un’antica ferita «Lo studio dello scheletro del sovrano ha comportato non poche difficoltà – spiega Gino Fornaciari –, poiché le ossa sono molto frammentate e tuttavia è stato possibile verificare che la tibia sinistra era affetta da una grave infezione, un’osteomielite, probabilmente esito di una ferita». «Lo studio paleonutrizionale basato sugli isotopi stabili del carbonio e

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dell’azoto ha accertato che la dieta del re era basata sul consumo di proteine terrestri, come era facile aspettarsi nel caso di personaggi di rango aristocratico, che mangiavano soprattutto carne – aggiunge Valentina Giuffra –; ulteriori analisi sono in corso per ricostruire quanto piú possibile lo stile di vita e lo stato di salute del sovrano». Liutprando, succeduto al padre Ansprando che aveva aiutato a riconquistare il trono, portò il regno longobardo al suo apogeo. Fu legislatore, mecenate, valoroso guerriero e abile politico. Sotto di lui furono emanati 155 capitoli, che integrarono l’Editto di Rotari,

In alto la tomba di Liutprando nella basilica di S. Pietro in Ciel D’Oro, a Pavia. Qui sopra specialisti della Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa al lavoro sui resti scheletrici di Liutprando. la principale raccolta scritta delle leggi longobarde; favorí, inoltre, la maggiore integrazione sociale tra la parte longobarda e romana del regno. Si fece promotore dello sviluppo delle arti, tanto che proprio in questo periodo l’arte longobarda raggiunse il suo apice. Quanto alla politica interna, intraprese una decisa opera di rafforzamento del regno, che riuscí a ingrandire con nuovi territori. (red.)

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ANTE PRIMA

Il ritorno del Templare T

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

orna a Trezzano sul Naviglio (Milano) il «Treciano Medioevo Festival», rassegna della cittadina milanese interamente dedicata al Medioevo, organizzata dalla Pro Loco. Filo conduttore di questa edizione saranno i Templari: ripartiremo da dove ci eravamo fermati nell’edizione precedente, raccontando di un cavaliere dell’Ordine del Tempio, che ritornerà ai suoi possedimenti dopo anni di guerra in Terra Santa, racconteremo di un tesoro nascosto presso la corte certosina costruita nel 1130. Quest’ultima era in

origine un convento di Cistercensi e poi di Certosini, presso il quale risiedevano la segreteria dei lavori e il monaco pagatore degli addetti allo scavo della Fabbrica del Naviglio. La corte nel tempo ha ospitato anche personaggi illustri tra i quali, molto probabilmente, Leonardo da Vinci e Bernardino Luini. L’evento di apertura delle due giornate medievali, sabato 15 settembre, sarà la cena in costume – anche per i commensali –, che si svolgerà in un contesto che, grazie alle sue caratteristiche, aiuterà i partecipanti a calarsi il piú possibile nell’atmosfera. Animata da attori in abiti d’epoca, la serata sarà uno spettacolo interattivo e si snoderà lungo una trama che introdurrà i commensali agli avvenimenti che saranno al centro della rievocazione del giorno dopo. Nell’intera giornata di domenica 16 settembre si

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Immagini del primo «Treciano Medioevo Festival», la cui seconda edizione, in programma a Trezzano sul Naviglio (Milano) il 15 e 16 settembre, si svolgerà nel segno delle vicende di cui furono protagonisti i cavalieri dell’Ordine del Tempio. svolgerà una festa con sbandieratori, arcieri, danze e animazione medievale, musiche e cavalieri. Gruppi di armati e figuranti in costume daranno luogo a simulazioni di battaglie e duelli, arriveranno dalla darsena due dragoni con a bordo i Templari che attraccheranno a Treciano e seguirà la nomina del Cavaliere Oscuro; avrà quindi luogo una rappresentazione teatrale. Durante la manifestazione potremo anche ammirare il grande mercato medievale. Info: Pro Loco Trezzano sul Naviglio: Elda Ghibaudo, tel. 339 6105826; Anna Andolfo, tel. 327 9508237. settembre

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Il sublime ottagono di un grande innovatore RESTAURI • Ultimato

nel 1268, il Pulpito realizzato da Nicola Pisano per il Duomo di Siena è stato oggetto di un intervento che ha anche offerto l’opportunità di condurre nuovi e approfonditi studi su uno dei massimi capolavori dell’arte medievale

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el XIII secolo, la scultura divenne marchio fondamentale nella decorazione architettonica, «invadendo» gli edifici in un delirio di infiniti ornamenti e affrancandosi dal ruolo che fino ad allora la vedeva subordinata all’architettura stessa. Volumetria e naturalismo caratterizzarono cosí un processo evolutivo che dalla riscoperta dell’antica monumentalità sfociò poi in una maggiore libertà compositiva. Protagonista assoluto di questa innovativa stagione artistica fu Nicola Pisano, le cui opere segnarono una rottura con l’arte medievale, all’aurora del lungo cammino che porterà infine al Rinascimento.

Accenti realistici Poche e frammentarie sono le notizie biografiche sul maestro pugliese, dallo stile narrativo pregno di accenti realistici che, nel momento piú alto della sua attività, concepí un’opera fondamentale nella storia dell’arte occidentale,

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Siena, Duomo. Il Pulpito monumentale realizzato dallo scultore Nicola Pisano fra il 1265 e il 1268, con l’aiuto del figlio Giovanni e degli allievi Arnolfo di Cambio e Lapo.

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ANTE PRIMA

portata a termine il 6 novembre 1268, secondo la data riportata sull’ultima ricevuta di pagamento che ci è pervenuta.

Da Pisa a Siena

Sulle due pagine, dall’alto, in senso orario particolari dei rilievi e delle statue che ornano il Pulpito: la Natività; l’Adorazione dei Magi; Madonna con Bambino (particolare); la Crocifissione.

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realizzata nel giro di un triennio con l’aiuto del figlio Giovanni e degli allievi Arnolfo di Cambio e Lapo: è il Pulpito marmoreo commissionatogli dall’Opera del Duomo di Siena, il 29 settembre 1265, come un complesso contratto, ancora esistente, attesta. Nel documento si stabiliscono contenuti, materiali e modalità di esecuzione, che venne ufficialmente

Erano trascorsi sei anni da quando lo stesso Nicola aveva firmato un pulpito esagonale per il Battistero di Pisa, dove aveva coniugato elementi classici e gotici in un pacato ed equilibrato componimento; sarà la base che si evolverà in un piú vivace e drammatico effetto nel lavoro successivo, con chiare differenze stilistiche e strutturali, a partire dalla forma. Il pergamo senese è infatti ottagonale, supportato da nove colonne in diaspro colorato con capitelli in stile corinzio che riposano alternativamente su schiene di leoni stilofori o direttamente su basamenti. Intorno allo zoccolo della colonna centrale vi sono le personificazioni sedute della Filosofia, delle sette Arti Liberali e della Logica, mentre negli settembre

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sguanci troviamo coppie di Profeti e Evangelisti e, negli archi, figurazioni che rappresentano le Virtú, come espressione dell’intelletto umano che possono innalzare a Dio. Sono elementi decorativi che, però, ci propongono, allo stesso tempo, uno schema narrativo continuo, senza interruzioni, nei pannelli scolpiti a rilievo che illustrano la vita di Gesú, come per esempio il binomio Angelo annunciante e Madonna che precedono l’episodio della Natività, culminando nella Crocifissione e nel Giudizio Finale; quest’ultimo è suddiviso in due sezioni rappresentanti Beati e Dannati, con al centro Cristo seduto. Le scene sono affollate, con i personaggi disposti su piani sovrapposti, dai movimenti dinamici e dalla gestualità marcata, in dialogo tra di loro, secondo un ritmo piuttosto concitato, dove è scomparsa la statica solennità dell’esperimento pisano, sostituita da una realistica espressione emotiva

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come evidenziata, tra l’altro, dalla palese sofferenza della Madonna, che sviene in modo «naturale»: è un vivace brulicare di figure dai volti in tensione, caratterizzati dall’andamento mosso dei panneggi, già lontani dalla rigida linearità di un recente passato. D’altronde, i riquadri minori aggiunti nei pannelli, come la Visitazione, caricano di ulteriore drammaticità il racconto scultoreo del pulpito di Siena, nella ricerca di quella intensa forza ispiratrice, probabile sintesi di uno studio su rappresentazioni di battaglia in sarcofagi del III secolo.

Gli interventi moderni Recentemente restaurata, la maestosa struttura era stata smontata nel 1506, senza subire sostanziali danneggiamenti, a parte alcune diminuzioni avvenute in fase di rimontaggio, per essere poi collocata nella zona attuale della Cattedrale, alcuni decenni piu tardi, quando vi furono aggiunti una elegante scaletta a spirale su disegno del Riccio e un piedistallo in marmo, tuttora presente. Originariamente si trovava sotto l’esagono della cupola, nella parte destra, aveva una scala e un ponte riconducibili proprio a Nicola Pisano, oggi perduti. Complessivamente, comunque, sulle superfici marmoree, a differenza di analoghi complessi che hanno avuto «decolorazioni», sono state recuperate dorature e cromíe che davano l’illusione di movimentato naturalismo: e proprio negli angoli piú remoti degli altorilievi se ne sono trovate le piú cospicue testimonianze, salvate appunto dalla loro poco accessibile posizione. Il delicato intervento sul capolavoro duecentesco ha visto l’utilizzo sia di tecniche tradizionali che d’avanguardia, con l’intento di assicurarne la conservazione, ma anche realizzare uno studio globale e approfondito di carattere storico, architettonico e scientifico. Mila Lavorini

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ANTE PRIMA

Quella felice alleanza matrimoniale APPUNTAMENTI • L’annuncio del fidanzamento fra Giberto III da Correggio ed

Engelenda Rossi, dato a Parma nel giorno dell’Assunta del 1314, venne festeggiato con la corsa dello Scarlatto, che si disputa ancora oggi nelle vie della città

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el giorno dell’Assunta del 1314 a Parma venne festeggiato il fidanzamento tra Giberto III da Correggio, figlio di Guido, signore di Parma per acclamazione popolare, ed Engelenda Rossi, detta Maddalena, di San Secondo Parmense. Fu un fidanzamento fortunato, in seguito allietato dalla nascita di ben cinque figli: Due immagini del Palio di Parma, che ha il suo momento culminante nella corsa dello Scarlatto, una gara podistica che rievoca quella disputata nel 1314, in occasione del fidanzamento fra Giberto III da Correggio ed Engelenda Rossi.

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Giovanni, Beatrice, Donella, Vannina ed Elisabetta. La futura sposa vantava nobili origini. Il padre, Guglielmo de’ Rossi, era stato podestà di Modena, Milano, Lucca e Bologna. La madre, Donella da Carrara, faceva invece parte dell’aristocratica famiglia che governava Padova ed era figlia di una Fieschi, nobili genovesi e signori di Lavagna.

Il fidanzamento e la disfida Secondo le cronache dell’epoca, in occasione della ricorrenza dell’Assunta del 1314 non solo si annunciò il fidanzamento, ma

si disputò anche la corsa dello Scarlatto, una disfida cavalleresca alla quale presenziarono molte famiglie nobili invitate, dai Pallavicino agli Aldighieri, oltre al popolo. Il matrimonio venne invece celebrato il 1º settembre dello stesso anno, sancendo l’alleanza tra i Da Correggio e i Rossi che ostacolava le mire egemoniche delle altre famiglie nobili parmensi. Si tennero festeggiamenti per la popolazione e grandi banchetti nei palazzi dello sposo e nel Palazzo vescovile. Fu cosí che ogni 15 agosto a Parma prese piede la tradizione di disputare la corsa dello Scarlatto, che partiva

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dalla porta detta Nova e arrivava nella piazza del Comune. Oltre a questa competizione, si giostrava a cavallo con armi cortesi. Tramite il Massaro, il Comune forniva ai cavalieri le lance e un paio di lunghe calze di colore differente, affinchè potessero essere divisi in squadre per affrontarsi. Dal secolo successivo i nobili gareggiavano in una corsa dei berberi, che cessò di esistere agli inizi dell’Ottocento. Oggi, ogni anno, in un week end di metà di settembre (quest’anno il 15 e 16), il Centro Sportivo Italiano di Parma rievoca quella antica tradizione, con cortei in costumi e spettacoli medievali. Il Palio odierno si tiene nel pomeriggio della domenica ed è incentrato su una staffetta podistica fra le squadre rappresentanti le antiche porte cittadine: i verdi di porta Santa Croce, i bianchi di porta San Francesco, gli azzurri di porta Nuova, i gialli di porta San Michele e i rossi di porta San Barnaba. Partendo dalla propria sede, i figuranti delle cinque porte raggiungono il centro, dove i rispettivi gruppi di sbandieratori si esibiscono prima della partenza della corsa. Tiziano Zaccaria

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Una storia in bianco e nero

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el 1454 i nobili Rinaldo d’Angarano e Vieri da Vallonara si innamorarono entrambi della bella Lionora, figlia di Taddeo Parisio, castellano di Marostica (oggi in provincia di Vicenza). I contendenti si sfidarono in un duello armato, ma il castellano, che non intendeva perdere nessuno dei due, ordinò che lo scontro non avesse luogo e decise che Lionora sarebbe andata sposa al vincitore di una partita a scacchi, mentre lo sconfitto avrebbe comunque potuto sposare Oldrada, sorella minore. L’incontro si svolse nella piazza del paese, con pedine viventi in costumi bianchi e neri. Oggi questo curioso episodio storico viene rievocato negli anni pari, ogni seconda domenica di settembre, quest’anno il 9. In piazza Castello arriva il corteo storico composto da oltre cinquecento figuranti, con in testa Taddeo, la sua nobile corte, Lionora, i bianchi e i neri, e naturalmente i due contendenti. Durante la partita, un araldo trasmette ad alta voce, in dialetto veneto, le mosse degli sfidanti, fino allo scacco matto. In seguito Lionora e il vincitore fanno il giro della piazza seguiti da tutti i personaggi della rievocazione. La festa si conclude con la simulazione dell’incendio del castello realizzata con fuochi d’artificio. T. Z.

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ANTE PRIMA

IL DOMINIO SUL MARE La flottiglia di Cristoforo Colombo (due caravelle e una grande nave), nell’acquerello del pittore spagnolo Rafael Monleón, L’armata navale per le Indie. 1885 circa. Madrid, Museo Navale.


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mille anni del Medioevo ereditano e sviluppano la tradizione marittima sviluppata dalle grandi civiltà del mondo antico. Le innovazioni si succedono a ritmo vorticoso, per assecondare esigenze belliche, ma anche per permettere la formidabile espansione economica di cui si rendono protagoniste, soprattutto, le grandi città marinare della Penisola: Genova, Venezia e Pisa. Il Mediterraneo è solcato da navi di ogni tipo e si moltiplicano le rotte, dando vita a uno scenario nel quale non è esagerato riconoscere

una sorta di globalizzazione ante litteram. Ma la conquista dei mari è anche una storia di gente comune e di una schiera infinita di anonimi artigiani specializzati, senza i quali nessuna delle imprese compiute da ammiragli ed esploratori avrebbe mai potuto realizzarsi. Tutto questo viene raccontato nel nuovo Dossier di «Medioevo» da Antonio Musarra, grazie al quale possiamo scoprire tutti i risvolti di una vicenda davvero appassionante, quasi un’epopea, e perfino ritrovarci a bordo di una galea in viaggio verso l’Egitto…


AGENDA DEL MESE

Mostre FERRARA EBREI, UNA STORIA ITALIANA. I PRIMI MILLE ANNI Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 16 settembre

Con questa mostra, che ha segnato l’inaugurazione del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS, si illustrano le origini della presenza ebraica in Italia dai suoi albori sino al Medioevo, evidenziandone i caratteri di specificità e unicità. Il percorso espositivo, che prefigura la prima sezione del futuro Museo, presenta oggetti autentici, repliche, modelli, immagini, mappe, scenografie e dispositivi

multimediali, grazie ai quali si raccontano il primo millennio di storia dell’ebraismo italiano, il suo radicamento e la sua espansione grazie alle conversioni e agli apporti da altri territori, e il processo di formazione della sua peculiare identità. Da dove sono venuti gli Ebrei italiani? Quando? Perché? E, una volta giunti in Italia, dove hanno scelto di attestarsi? Quali rapporti hanno stabilito con le popolazioni residenti, con i poteri pubblici: prima con la

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a cura di Stefano Mammini

Roma imperiale, poi con la Chiesa, ma anche con i Longobardi, i Bizantini e i musulmani, sotto il cui dominio hanno vissuto? Quali sono stati la vita, le consuetudini, la lingua, la cultura delle comunità ebraiche d’Italia nel corso di tutto questo lungo tempo? E soprattutto: che cosa ha di particolare e di specifico l’ebraismo italiano rispetto a quello di altri luoghi della Diaspora? Le risposte a questi interrogativi sono affidate a un nuovo modo di presentare la storia in un museo: un modo che pone esplicitamente al centro le persone e non le cose, le persone attraverso le cose. Gli oltre duecento oggetti in mostra, alcuni dei quali mai esposti in una sede pubblica, sono stati selezionati soprattutto per rappresentare i contesti di cui sono testimonianza. La loro conoscenza e comprensione è affidata anche ai titoli e ai testi di sala, ai documenti e alle immagini, alle ricostruzioni e alle evocazioni di ambienti, di situazioni, di eventi, e alle parole dei curatori e degli esperti, che lungo l’itinerario si rivolgono al visitatore attraverso i video, rendendo esplicita l’interpretazione storica proposta. info www.meisweb.it FIRENZE FIRENZE E L’ISLAM. ARTE E COLLEZIONISMO DAI MEDICI AL NOVECENTO Museo Nazionale del Bargello fino al 23 settembre

Organizzata dagli Uffizi con il Museo Nazionale del Bargello, la rassegna è un’occasione di scoperta, conoscenza, scambio, dialogo e influenza tra arti di Occidente e Oriente.

Protagonista del progetto espositivo è l’arte islamica, con i suoi straordinari tappeti, i «mesci roba» e vasi «all’azzimina» ovvero ageminati (tecnica di lavorazione dei metalli per ottenere una decorazione policroma), i vetri smaltati, i cristalli di rocca, gli avori, le ceramiche a lustro: quelle in verità provenienti dall’Islam Occidentale, la Spagna; da noi chiamate majolica dall’ultimo porto di partenza, Maiorca. La mostra si articola in due sedi espositive: al Bargello viene illustrato un periodo fondamentale di ricerca, collezionismo e allestimenti museali di fine Ottocento e inizio Novecento. Agli Uffizi sono raccolte le testimonianze artistiche dei contatti fra Oriente e Occidente, le loro suggestioni (a partire dai caratteri arabi delle aureole della Vergine e di san Giuseppe nell’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano), le immagini della serie gioviana per mano di Cristofano dell’Altissimo, gli esemplari preziosi della lavorazione dei metalli,

ricercatissimi già dai tempi di Lorenzo il Magnifico, le ceramiche orientali, o quelle ispano-moresche con stemmi nobiliari fiorentini. Stoffe e grandi tappeti provenienti dall’Egitto mamelucco di fine Quattrocento o degli inizi del Cinquecento, entrati molto presto nelle collezioni mediceo-granducali, i vetri, i metalli che hanno influenzato una coeva produzione italiana, e non ultimi gli splendidi manoscritti miniati e non (fra i quali spiccano le pagine del piú antico manoscritto datato (1217) del Libro dei Re del persiano Firdusi, posseduto dalla Biblioteca Nazionale) e gli esemplari orientali, rari per datazione e provenienza, della Biblioteca Medicea Laurenziana. info www. bargellomusei. beniculturali.it; www.uffizi.it MONTEPULCIANO LEONARDO DA VINCI. ANATOMIE: MACCHINE, UOMO, NATURA Fortezza fino al 7 ottobre

Oltre che come artista eccezionale, Leonardo da Vinci (1453-1519) è stato a lungo celebrato come inventore di macchine e dispositivi meccanici straordinari, che sarebbero divenuti patrimonio comune della cultura tecnica solo alcuni secoli dopo la sua morte. Pur traendo ispirazione dal profondo processo di rinnovamento dei saperi tecnici che ebbe luogo in Italia a partire dalla fine del XIV secolo, Leonardo offrí in molti ambiti contributi di assoluta originalità e di straordinaria carica anticipatrice. La mostra mette in luce proprio uno degli aspetti piú innovativi dell’opera di Leonardo, per il quale macchine, corpo umano e natura sono governati dalle medesime leggi universali: settembre

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idea che trova espressione in una serie di magistrali disegni che segnano la nascita della moderna illustrazione scientifica. info tel. 0577 286300; www.leonardoanatomie.it

policroma del Trecento. Insieme con la Madonna allattante, molto probabilmente proveniente dalla cattedrale di Trento e ora nel Museo Diocesano Tridentino, opera del «Maestro del sorriso», la trecentesca Madonna in blu (già Madonna della rosa) è tra le pochissime testimonianze rimaste di scultura lapidea veronese del Trecento nel Trentino. Proveniente dal complesso agostiniano di S. Marco, l’opera è stata restaurata e ricondotta alle sue splendide cromie originali, su tutte la veste blu di azzurrite che ne fa un unicum nel panorama artistico nazionale. info tel. 0461/233770; e-mail: museo@castellodelbuonconsiglio. tn.it; www.buonconsiglio.it

TRENTO

COLLE DI VAL D’ELSA (SI)

MADONNA IN BLU. UNA SCULTURA VERONESE DEL TRECENTO Castello del Buonconsiglio fino al 28 ottobre

SAVIA NON FUI. DANTE E SAPÍA FRA LETTERATURA E ARTE Museo San Pietro fino al 28 ottobre

La rassegna è dedicata a una rara scultura in pietra

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È ispirata a Sapía, gentildonna senese nata Salvani, protagonista del canto XIII del Purgatorio di Dante, la nuova mostra allestita presso il Museo San Pietro. La figura emerge per la forte caratterizzazione, con tratti molto sofferti e risentiti quale interprete dell’invidia. Peccò sí tanto d’invidia da giungere all’insania. Nonostante il nome, infatti, la zia paterna di Provenzan Salvani, capo della parte ghibellina, già incontrato da Dante fra i superbi, non fu «savia» nell’augurarsi la sconfitta dei propri concittadini senesi nella

battaglia di Colle di Val d’Elsa (vv. 109-111): «Savia non fui, avvegna che Sapía / fossi chiamata, e fui delli altrui danni / piú lieta assai che di ventura mia». Il percorso espositivo presenta dunque le testimonianze di miniatori, incisori, scultori e pittori, interpreti di una figura non convenzionale che, per i

le nuove regole emanate dal Concilio di Trento in materia di apparato liturgico e di arte sacra. Un arredo in gran parte asportato durante il restauro neorinascimentale del monumento avvenuto a partire dagli anni ottanta dell’Ottocento. Il complesso architettonico con il Tempio a pianta centrale e l’adiacente Canonica, costruiti in blocchi di travertino delle vicine cave di Sant’Albino, è stato oggetto di numerosi studi, che sottolineano l’uso sapiente e armonico degli ordini, dei partiti architettonici e delle proporzioni classiche in un rapporto dialettico tra uomo, architettura e paesaggio. Alla morte del Sangallo (1534) i lavori continuarono con la costruzione della cupola tra il

caratteri di umana fragilità con cui è delineata, può considerarsi una sorta di antieroina della storia medievale senese. info tel. 0577 286300; e-mail: info@collealtamusei.it; www.collealtamusei.it MONTEPULCIANO IL TEMPIO DI SAN BIAGIO A MONTEPULCIANO DOPO ANTONIO DA SANGALLO. STORIA E RESTAURI Tempio di San Biagio fino al 4 novembre

Le celebrazioni per il V centenario dell’edificazione del Tempio di San Biagio a Montepulciano, uno dei capolavori dell’architettura rinascimentale italiana realizzato su progetto di Antonio da Sangallo il Vecchio dal 1518 al 1548, offrono l’occasione per rivisitare e riproporre l’arredo interno originale della chiesa, realizzato a partire dall’ultimo quarto del Cinquecento, con

1543 e il 1545, mentre il primo campanile fu concluso solo nel 1564 e il secondo resta ancor oggi incompiuto. info tel. 0577 286300; e-mail: info@tempiosanbiagio.it; www.tempiosanbiagio.it; GUBBIO GUBBIO AL TEMPO DI GIOTTO. TESORI D’ARTE NELLA TERRA DI ODERISI Palazzo dei Consoli, Museo Diocesano, Palazzo Ducale fino al 4 novembre

Gubbio conserva intatto il suo

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AGENDA DEL MESE MOSTRE • Armenia!

New York - The Metropolitan Museum of Art

fino al 13 gennaio 2019 (dal 22 settembre) info www.metmuseum.org

aspetto medievale: è ancora la città del tempo di Dante e di Oderisi da Gubbio, il miniatore che il sommo poeta incontra tra i superbi in Purgatorio e al quale dedica versi importanti, che sanciscono l’inizio di un’età moderna che si manifesta proprio con la poesia di Dante e l’arte di Giotto. Distribuita in tre sedi diverse, la mostra «Gubbio al tempo di Giotto. Tesori d’arte nella terra di Oderisi» restituisce l’immagine di una città di media grandezza, ma di rilievo politico e culturale nel panorama italiano a cavallo tra la fine del Duecento e i primi decenni del Trecento, esponendone il patrimonio figurativo sia civile che religioso. Dipinti su tavola, sculture, oreficerie e

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rmenia!» si annuncia come uno degli eventi di punta del Metropolitan Museum di New York per la prossima stagione. L’esposizione ripercorre la storia del popolo armeno dal momento della loro conversione al cristianesimo – agli inizi del IV secolo – fino all’epoca in cui ebbero un ruolo di primo piano nel controllo dei traffici commerciali internazionali, nel XVII secolo. Obiettivo dei curatori della rassegna è quello di sottolineare come gli Armeni abbiano sviluppato una ben definita identità nazionale nella loro madrepatria, ai piedi del Monte Ararat, e come siano stati capaci di conservare e trasformare quelle peculiarità anche quando hanno dato vita alle numerose comunità che si sono insediate in molte regioni del mondo. A tale scopo viene presentata una selezione di poco meno di 150 oggetti e opere d’arte, che comprende reliquiari, manoscritti miniati, tessuti, preziose suppellettili sacre, khachkar (le tipiche croci in pietra), modellini di chiese e libri. Materiali che, per la maggior parte, sono giunti a New York grazie ai prestiti accordati dal Ministero della Cultura

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della Repubblica d’Armenia e dalla Chiesa armena, in particolare attraverso la Santa Sede di Echmiadzin. Un contributo essenziale si deve anche al Matenadaran, la biblioteca che ha sede a Yerevan, che ha concesso al museo newyorchese alcune delle opere grazie alle quali l’istituzione viene riconosciuta come un autentico santuario dei manoscritti antichi.

manoscritti miniati delineano, anche con nuove attribuzioni, le fisionomie di grandi artisti come Guido di Oderisi, alias Maestro delle Croci francescane, Il Maestro della Croce di Gubbio, il Maestro Espressionista di Santa Chiara ovvero Palmerino di Guido, «Guiduccio Palmerucci», Mello da Gubbio e il Maestro di Figline. Il padre di Oderisi, Guido di Pietro da Gubbio, settembre

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in Umbria, Marche, Abruzzo e Lazio, dove artisti di cultura giottesca hanno lavorato tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, connessi attraverso itinerari organizzati che permettono di scoprire luoghi e opere d’arte incantevoli. Il successo, nel cuore verde d’Italia, della lezione rivoluzionaria di Giotto e dello stupefacente virtuosismo dei caposcuola senesi Pietro Lorenzetti e Simone Martini, viene oggi identificato in uno dei protagonisti della cosiddetta «Maniera Greca», da Giunta Pisano a Cimabue. Palmerino fu compagno di Giotto nel 1309 ad Assisi, e con lui dipinse le pareti di due cappelle di San Francesco, per poi tornare a Gubbio e affrescare la chiesa dei frati Minori e altri edifici della città. info www.gubbioaltempodigiotto.it

MATELICA (MACERATA) MILLEDUECENTO. CIVILTÀ FIGURATIVA TRA UMBRIA E MARCHE AL TRAMONTO DEL ROMANICO Museo Piersanti fino al 4 novembre

TREVI, MONTEFALCO, SPOLETO E SCHEGGINO (PERUGIA) CAPOLAVORI DEL TRECENTO. IL CANTIERE DI GIOTTO, SPOLETO E L’APPENNINO Montefalco, Complesso Museale di San Francesco Scheggino, Spazio Arte Valcasana Spoleto, Museo Diocesano-basilica di S.Eufemia e Rocca Albornoz-Museo Nazionale del Ducato di Spoleto Trevi, Museo di San Francesco fino al 4 novembre

Sono stati selezionati per l’occasione una settantina di dipinti a fondo oro su tavola, sculture lignee policrome e miniature, che raccontano la meraviglia ambientale dell’Appennino centrale e la civiltà storico-artistica, civile e socio-religiosa nell’Italia del primo Trecento. Nelle quattro sedi espositive è possibile vivere uno sguardo corale, emozionante, sulla trama di chiese, pievi, eremi e abbazie

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Pontefice, entrambi provenienti da Montefalco, restaurati per l’occasione; oppure lo straordinario riavvicinamento, che si compie per la prima volta dall’Ottocento, del Trittico con l’Incoronazione della Vergine del Maestro di Cesi e il Crocifisso con Christus triumphans dipinti entrambi per il monastero di S. Maria della Stella di Spoleto, oggi separati tra il Musée Marmottan Monet di Parigi e il Museo del Ducato di Spoleto. info www.capolavorideltrecento.it

vengono raccontati attraverso una costellazione di artisti, spesso anonimi, che si fecero interpreti dell’anima piú profonda e vera dell’Appennino, declinando emozioni di fede e dolcezza, dipinte con un linguaggio pittorico intenso, e un magistero tecnico sorprendente. Da segnalare, inoltre, la possibilità di ammirare i due dossali esposti nell’appartamento di rappresentanza di Sua Santità il

Ultimo appuntamento espositivo 2018 del progetto Mostrare le Marche, «Milleduecento. Civiltà figurativa tra Umbria e Marche al tramonto del Romanico» documenta come, intorno al 1200, tra Umbria e Marche, il linguaggio figurativo si sia trasformato sensibilmente, orientandosi verso un naturalismo di grande potenza plastica, e l’arte guida sia divenuta la scultura in legno policromo. A guidare il progetto espositivo è la certezza che le opere d’arte rappresentino un contributo insostituibile alla formazione di una civiltà, che a sua volta si esprime attraverso le loro forme. La civiltà di

questi territori si racconta anche attraverso la qualità del suo patrimonio, soprattutto medievale. Si parte dal Cristo trionfante, rappresentato vivo sulla croce e vittorioso sulla morte, immagine centrale e paradigmatica di una cultura che proprio esaltando questa iconografia persegue un suo rinnovamento della forma. Crocifissi monumentali e Madonne in trono col Bambino dialogano con tavole dipinte e oreficerie per ricomporre un tessuto dinamico e sorprendente. info tel 0737 84445; e-mail: museopiersantimatelica@virgilio.it PISA PISA CITTÀ DELLA CERAMICA Centro Espositivo San Michele degli Scalzi, Museo Nazionale di San Matteo, Palazzo Blu e Camera di Commercio di Pisa fino al 5 novembre

La rassegna si sviluppa in quattro sedi principali (San Michele degli Scalzi, Palazzo Blu, Camera di Commercio di Pisa, Museo Nazionale di San Matteo), con oltre 500 pezzi in mostra, eventi dedicati a tutte le fasce di età, percorsi guidati in città e nel territorio pisano alla scoperta di inediti palazzi, chiese decorate da bacini ceramici, esempi di archeologia industriale e ceramisti ancora in attività, ma anche un sito web fruibile da smartphone, con mappe personalizzabili per

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AGENDA DEL MESE costruire in autonomia il proprio itinerario di visita. La mostra invita a rileggere un intero territorio, che fu un’avanguardia nella tecnica destinata a cambiare le abitudini dell’Occidente, cominciando dalla tavola, per diventare un settore trainante per l’economia: la produzione della ceramica. info www.pisacittaceramica.it; e-mail: info@pisacittaceramica.it, jenny.delchiocca@cfs.unipi.it; prenotazioni: pisacittaceramica@ gmail.com SANSEPOLCRO PIERO DELLA FRANCESCA. LA SEDUZIONE DELLA PROSPETTIVA Museo Civico di Sansepolcro fino al 6 gennaio 2019

Il progetto espositivo si articola intorno al De prospectiva pingendi, trattato composto da Piero della Francesca intorno al 1475, e ha anche l’obiettivo di illustrare, attraverso riproduzioni di disegni, modelli prospettici, strumenti scientifici, plaquette e video, le

euclideo, studioso di Archimede, l’artista è stato anche un innovatore nel campo della pittura, poiché per lui, quest’ultima, nella matematica e nella geometria, trovava il suo sostanziale fondamento. I suoi scritti, infine, soprattutto il De prospectiva pingendi, composto in volgare per gli artisti e in latino per gli umanisti, hanno dato inizio alla grande esperienza della prospettiva rinascimentale. info tel. 199 151 121; e-mail: mostre@civita.it; www.museocivicosansepolcro.it VENEZIA PRINTING REVOLUTION 1450-1500 Biblioteca Nazionale Marciana, Sale Monumentali fino al 30 setembre Museo Correr

fino al 7 gennaio 2019

L’esposizione è il risultato di un grande progetto di ricerca europeo, il 15cBOOKTRADE, che usa i libri come fonte

editor. Attraverso una decina di sezioni, l’esposizione mette in evidenza come nel 1500 in Europa ci fossero milioni di libri, non solo per le élite, come comunemente si ritiene, ma per «tutti», con una vasta produzione per la scuola. La rivoluzione della stampa è una delle colonne portanti dell’identità europea perché si è tradotta in alfabetizzazione diffusa, promozione del sapere, formazione di un patrimonio culturale comune. In quei primi decenni (dal 1450 al 1500) la stampa coincise con la sperimentazione e l’intraprendenza. I libri a stampa furono il prodotto di una nuova collaborazione tra diversi settori della società: sapere, tecnologia e commercio. Anche la Chiesa comprese immediatamente l’enorme potenzialità dell’invenzione e ne divenne precoce promotrice. Le idee si diffusero veloci come mai prima. Ora si è in grado di tracciarne la circolazione seguendo il movimento e l’uso dei libri stessi. Info Call center 848 082 000; e-mail: info@fmcvenezia.it, biblioteca@marciana.venezia.sbn.it; www.correr.visitmuve.it, www.marciana.venezia.sbn.it LONDRA

ricerche matematiche applicate alla pittura di Piero della Francesca e la conseguente eredità lasciata ad artisti come Leonardo da Vinci, Albrecht Dürer, Daniele Barbaro e ai teorici della prospettiva almeno fino alla metà del Cinquecento. La mostra vuole inoltre mostrare al pubblico le due anime di Piero: raffinato pittore e grande matematico. Oltre a essere Maestro d’abaco, geometra

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storica: basato all’Università di Oxford, alla British Library, a Venezia, e finanziato dal Consiglio Europeo delle Ricerche, applica le tecnologie digitali alle fonti storiche, ampliando la capacità di comprendere la rivoluzione della stampa. La ricerca ha riguardato 50mila di questi libri sparsi oggi tra 360 biblioteche europee e americane con la collaborazione di oltre 130

MANTEGNA E BELLINI National Gallery, Sainsbury Wing fino al 27 gennaio 2019 (dal 1° ottobre)

La National Gallery presenta la storia di due artisti, delle loro famiglie e delle loro città; una storia, quella di Giovanni Bellini (attivo tra il 1459-1516 circa) e Andrea Mantegna (1430/1-1506), intrecciata di arte, famiglia, rivalità, matrimonio, pragmatismo e personalità. Grazie a prestiti rari ed eccezionali di dipinti, disegni e sculture, Mantegna e

Bellini offre un’occasione unica per confrontare le opere dei due maestri, che erano anche cognati: una connessione familiare dalla quale entrambi hanno tratto la forza e la lucentezza durante la loro carriera. Senza l’altro artista, non sarebbero esistiti né la carriera né lo sviluppo di entrambi e senza queste opere permeate con la loro creatività e innovazione, non sarebbe esistita l’arte rinascimentale come la conosciamo oggi, quella dei personaggi del calibro di Tiziano, Caravaggio e Veronese. Mantegna e Bellini lavorano per sette anni mantenendo uno stretto dialogo creativo; sarà questo ciò che i visitatori della mostra saranno in grado di osservare in prima persona attraverso i raggruppamenti chiave dei soggetti rappresentati da entrambi gli artisti. Ispirati dall’esempio dell’altro, entrambi sperimentano e lavorano in modi con cui non erano del tutto familiari allo scopo di affinare le loro capacità artistiche e le identità. Mentre Mantegna esemplifica l’artista intellettuale, Bellini è l’archetipo del pittore paesaggista, il primo che utilizza il mondo naturale per trasmettere emozioni. info www.nationalgallery.org.uk settembre

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panorama culturale italiano e internazionale. E tornano anche quest’anno le trilogie con alcuni ospiti affezionati della manifestazione, come lo storico Alessandro Barbero e lo studioso del mondo classico Matteo Nucci. Cosí come non mancherà la sezione per bambini e ragazzi, con i suoi numerosi laboratori, letture animate e spettacoli. info www.festivaldellamente.it MATERA PARIGI MAGICI UNICORNI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 25 febbraio 2019

L’esposizione che segna la riapertura del Museo di Cluny-Museo Nazionale del Medioevo prende le mosse dai sei arazzi che compongono il ciclo della Dama e l’unicorno, altrettanti capolavori della raccolta parigina. Eseguiti intorno al 1500, sono una prova dell’importanza attribuita alla leggendaria creatura nei secoli del Medioevo. Animale «magico» – nell’età di Mezzo era diffusa la convinzione che il suo corno fosse in grado di accertare la presenza di veleni e dunque purificare i liquidi – l’unicorno era al tempo stesso simbolo di castità e d’innocenza. Vari manoscritti miniati ricordano inoltre la tradizione secondo la quale solo giovani vergini potevano avvicinare gli unicorni. A queste testimonianze fa da corollario la documentazione della fortuna moderna del tema, di cui sono prova, per esempio, i costumi disegnati per il balletto La dama e l’unicorno di Jean Cocteau. info musee-moyenage.fr

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Appuntamenti SARZANA (LA SPEZIA) FESTIVAL DELLA MENTE XV EDIZIONE 31 agosto-2 settembre

Filo conduttore della XV edizione del festival è il concetto di comunità, che sarà indagato e approfondito con un linguaggio chiaro e accessibile a tutti, da diversi punti di vista, attraverso le parole di scienziati, filosofi, letterati, storici, artisti italiani e stranieri. Nei tre giorni della rassegna il pubblico potrà incontrare non solo nomi importanti della scienza e della letteratura ma ascoltare anche voci inedite del

VIII CONGRESSO NAZIONALE DI ARCHEOLOGIA MEDIEVALE (SAMI) Chiesa del Cristo Flagellato ed ex Ospedale di San Rocco 12-15 settembre

Le quattro giornate del congresso sono state divise in cinque sezioni, che affronteranno i seguenti temi: I. Teoria e metodi

dell’archeologia medievale; II. Insediamenti urbani e archeologia dell’architettura; III. Territorio e paesaggio; IV. Luoghi di culto e archeologia funeraria; V. Archeologia degli insediamenti rupestri; VI. Produzioni, commerci, consumi. info tel. 0835 1971400; e-mail: info.ssba@unibas.it; www.ssba.unibas.it SAVONA CONVEGNO INTERNAZIONALE DELLA CERAMICA, 51-2018 Civico Museo Archeologico e della Città, Fortezza del Priamar

L’ormai consueto appuntamento organizzato dal Centro Ligure per la Storia della Ceramica verte quest’anno sul tema: «CERAMICA 4.0: nuove esperienze e tecnologie per la comunicazione, catalogazione e musealizzazione della ceramica». info www.museoarcheosavona.it

APPUNTAMENTI • Festa del Patrono, san Giacomo Apostolo Gratteri (Palermo) 7-10 settembre info www.comune.gratteri.pa.it in dai tempi della dominazione araba, nel centro siciliano di Gratteri esisteva il culto verso l’Apostolo Giacomo. Verso il 1150 vennero donati ai Signori di Gratteri un osso del costato del santo, tutt’oggi conservato in un’argentea teca. Il santo, raffigurato in una statua in legno pregiato, rivestita d’oro e collocata su un pesante fercolo, viene portato in processione da una dozzina di giovani per le vie del paese durante la raccolta delle offerte. La festa termina con la solenne processione la sera del 9 settembre, alle due di notte, alla quale partecipano le confraternite, il clero, le autorità cittadine ed una folla di paesani. Al termine della processione, nella piazza antistante la Chiesa Madre, su un altare preparato per l’occasione avviene la benedizione con la reliquia del santo.

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l’inchiesta le crociate

I giorni dell’ abbandono incontro con Antonio Musarra, a cura di Marco Di Branco

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icca e opulenta capitale crociata, Acri cade nel 1291. L’evento segna la fine della presenza latina in Terra Santa. L’Occidente accoglie attonito la notizia, vedendo spegnersi la speranza di riconquistare Gerusalemme. L’esperienza della crociata sembra destinata a esaurirsi, ma la sua non sarà un’eclissi definitiva... Storico medievista assai prolifico, autore di saggi che spaziano dalla storia di Genova a quella degli Stati crociati, Antonio Musarra ha dedicato alle conseguenze della caduta di Acri nel 1291 un libro di grande interesse, Il crepuscolo della crociata. L’Occidente e la perdita della Terrasanta (il Mulino, Bologna 2018), nel quale ricostruisce la tragedia acritana e le principali reazioni dei contemporanei sino al volgere del nuovo secolo. Abbiamo incontrato Musarra per discutere con lui di alcuni punti-chiave del suo saggio.

C ome nasce il suo interesse per il fenomeno crociato? Mentirei a me stesso se non confessassi d’essere rimasto ammaliato, verso i quattordici anni, dalla narrazione dell’epopea crociata – penso che, in questo caso, «epopea» sia il termine giusto – fornita da Sir Steven Runciman nella sua memorabile trilogia (Storia delle crociate, pubblicata per la prima volta in Italia nel 1966, n.d.r.). Poi, però, l’incontro vero e proprio ebbe luogo nel momento in cui riuscii a procurarmi alcuni libri d’uno dei maestri della crociatistica italiana: Franco Cardini, di cui lessi prestissimo Le crociate tra il mito e la storia, seguito immediatamente dopo dal celebre Alle radici. Dopo vennero la templaristica, con Il pendolo di Foucault di Eco, gli studi di Benjamin Kedar (a cui debbo la stesura d’uno dei miei primi articoli), di Joshua Prawer, di Michele Piccirillo, di Jean Flori, di Christopher Tyerman, di Giuseppe Ligato, di Luigi Russo e di molti altri, e la tesi di laurea, discussa a Genova con Marina Montesano, incentrata sulla cosiddetta «guerra

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di San Saba»; ovvero sulla contestualizzazione del primo aspro scontro che vide coinvolte le principali città marinare del Duecento: Genova, Pisa e Venezia, deflagrato – guarda caso – in quell’Oltremare latino ch’era stato, in fondo, il frutto principale della crociata. Da allora, sono rimasto quasi sempre fedele all’argomento; benché abbia allargato di molto la mia prospettiva, inglobando tutto ciò che con la crociata pareva avere relazione. La trilogia di Runciman da lei evocata, vera e propria Bibbia della storiografia crociata, è stata pubblicata negli anni della decolonizzazione del Medio Oriente. Fu allora che il senso di colpa occidentale entrò per la prima volta nel discorso storico sulle crociate. Da quel momento, una visione ostile al fenomeno si è radicata nell’immaginario occidentale, almeno fino alla pubblicazione de Le guerre di Dio (Einaudi, Torino 2012) di Christopher Tyerman, secondo il quale è invece necessario tornare a valorizzare la dimensione religiosa e spirituale delle crociate senza appiattirle sul fenomeno puramente materiale. Che cosa significa, secondo lei? Quali furono le ragioni della crociata? Questa domanda ha guidato la stesura della mia tesi dottorale: In partibus Ultramaris. I Genovesi, la crociata e la Terrasanta, discussa a San Marino nell’estate del 2012. Il caso genovese permette, infatti, di porre al centro un problema ormai piuttosto classico: quello delle motivazioni. La partecipazione degli «Italiani» alla crociata è stata, spesso, subordinata alla considerazione della loro funzione economico-commerciale. Non a torto: le crociate agirono effettivamente da catalizzatore dei traffici occidentali verso il Levante, favorendo un piú generale movimento di uomini e merci tra le diverse sponde del Mediterraneo. Tuttavia, non è possibile esaurirne il ruolo in questa prospettiva. Baresi, Fiorentini, Genovesi, Milanesi, Pisani, Veneziani – per citare soltanto alcune tra le realtà piú vive e documentate; senza dimenticare, però, la partecipazioNella pagina accanto miniatura raffigurante la presa di Acri (1291), dal Codice Cocharelli. Prima metà del XIV sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. settembre

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ne crociata dei centri minori, testimoniata dalle molte cronache locali –, prendevano anch’essi la croce, senza per questo trascurare i propri interessi economici. La loro spinta espansionistica si accompagnò, spesso, a una forte carica ideale, tendente a sottolineare il ruolo anti-saraceno rivestito dai propri concittadini o, piú semplicemente, il favore divino nei propri confronti. Ora, raramente la storiografia si è spinta sino a riconoscere la coesistenza di motivazioni differenti, solo apparentemente divergenti. Ovviamente, nel quadro d’una società che rispondeva a canoni differenti dai nostri. Eppure, gli approfondimenti non sono mancati. Basti pensare ai molti studi dedicati a Venezia e alla quarta crociata e sull’influenza ch’essa ebbe nella costruzione dell’identità municipalistica veneziana, o al modo in cui la storiografia pisana ha guardato a episodi quali la presa di Palermo, di al-Mahdiya o delle Baleari, alle spedizioni dell’arcivescovo Daiberto alla prima crociata e dell’arcivescovo Ubaldo alla terza o, ancora, al culto di santi come Bona e Ranieri, radicati entrambi, sebbene in maniera diversa, nel culto di Gerusalemme e della Terra Santa. Oppure, allo stretto legame sottolineato dalla storiografia genovese tra l’affermazione dell’autonomia

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cittadina e la partecipazione dei Genovesi alla prima crociata, dipinti dal cronista Caffaro piú come «milites Dei» che come «mercatores». Senza dubbio, l’interesse per la crociata e per la Terra Santa mutò nel corso del tempo: la conoscenza crescente delle possibilità economiche offerte dalle terre levantine condizionò progressivamente l’approccio nei confronti dell’Oltremare crociato. Tuttavia, non è possibile effettuare generalizzazioni. Anche in periodi di crisi per la presenza latina in Terra Santa vi sarebbe stato chi avrebbe continuato a perseguire l’ideale crociato: basti pensare, per esempio, al gruppo di donne genovesi che, nel 1301, chiesero a Bonifacio VIII di potersi recare personalmente a riconquistare i Luoghi Santi, dietro le cui richieste è possibile scorgere una singolare mistione tra la sfera del religioso e quella dell’economico. Quali, dunque, le ragioni della crociata? Ragioni composite, che potrei sintetizzare ripescando la celebre definizione di Roberto Sabatino Lopez: «Iliade di baroni e Odissea di mercanti», a cui va aggiunto, però, l’accento posto da Franco Cardini sulla «peregrinatio» – sulla crociata come pellegrinaggio armato –; e, dunque, in particolare, sulla «peregrinatio» di «pauperes». settembre

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V’è poi l’aspetto «istituzionale», posto chiaramente in luce da Tyerman, che mi ha spinto recentemente a suddividere l’alveo delle motivazioni tra quelle rientranti nel concetto di «crociata-istituzione», complementare, più che contrapposto, a quello di «crociata-movimento». Intendendo con ciò quel complesso di miti e rappresentazioni strettamente legato alla pratica della «peregrinatio» e all’idea di redenzione, oltre che alla pura e semplice aventure cavalleresca, che esula dagli aspetti piú marcatamente giuridici o politici della questione. Un panorama piú complesso di quanto si pensi e proprio per questo affascinante. Verso la metà del XIII secolo la propaganda crociata si innesta nel motivo semileggendario del Prete Gianni, un mitico re-sacerdote dominatore delle terrae incognitae che si estendevano a Oriente. Può riassumerci il senso di questa operazione storico-diplomatica? A quest’altezza cronologica, la figura del Prete Gianni si è, ormai, ammantata di significati differenti rispetto a quanto tematizzato nel corso del secolo precedente. In una versione della Lettera del Prete Gianni risalente alla metà del secolo, i famigerati Gog e Magog svolgono una funzione essenziale come combattenti in favore del nome cristiano, pur mantenendosi pagani. Dietro tutto ciò si delinea il progetto, fallito, di un’alleanza franco-mongola, volta a combattere il comune nemico mamelucco. Si tratta d’un progetto accarezzato già da Luigi IX, concretizzatosi parzialmente solamente alla fine del secolo, quando ebbero luogo alcune operazioni congiunte Sulle due pagine San Giovanni d’Acri. Il Khan al-Umdan (o Khan-i-’Avamid; Caravanserraglio dei pilastri). A destra miniatura del Maestro di Fauvel raffigurante un drappello di cavalieri turchi, da un’edizione del Roman de Godefroi de Bouillon di Guglielmo di Tiro. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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contro i domini mamelucchi in Siria; mediato da una pletora di ambasciatori – perlopiú genovesi e pisani; ma tra di essi è da annoverare anche il nestoriano rabban Sauma, inviato dell’il-khan Argun –, usi a fare la spola tra la corte di Tabriz e l’Occidente. Che a tale progetto si credesse realmente è dimostrato dall’eco avuto in Occidente nel 1300, in pieno Giubileo, da una falsa notizia: quella della riconquista mongola della Terra Santa. Mancò poco perché l’Europa gridasse al miracolo: il re d’Armenia – si diceva – aveva ricevuto in dono la Città Santa; il culto latino era stato ripristinato; Ghazan – il Casanus Magnus delle fonti occidentali – s’era convertito; e i Mongoli si apprestavano a conquistare l’Egitto! Distorsioni prospettiche? Menzogne propagandate ad arte? Certo, vi credettero in molti. U no dei testimoni piú interessanti delle vicende di cui narra il suo libro è il domenicano Riccoldo da Montecroce, che venne in pellegrinaggio al Santo Sepolcro all’inizio del 1289. Può delinearcene brevemente un profilo? Certamente! Siamo di fronte a un profondo conoscitore dell’Oriente tardo-duecentesco, che visse in prima persona l’esperienza del pellegrinaggio e della missione. Originario di Monte di Croce, nel contado fiorentino, Riccoldo nacque a Firenze verso il 1243; probabilmente, nei pressi di S. Pier Maggiore, dove la famiglia risulta risiedere. Istruito nelle arti liberali, a ventiquattro anni entrò nell’Ordine dei frati predicatori presso il convento fiorentino di S. Maria Novella. Nel 1288 intraprese un lungo pellegrinaggio in Oriente, che lo porterà a conoscere a fondo gli usi e i costumi delle comunità maronita, nestoriana, giacobi-

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In alto miniatura con Riccoldo da Montecroce che incontra un gruppo di nestoriani. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra mappa del Nord-Est dell’Africa, dell’Arabia e di parte dell’India nella quale compare, seduto in trono, il Prete Gianni, dall’Atlante Vallard. 1547 circa. San Marino, California, Henry E. Huntington Library.

ta e monotelita non meno che di Mongoli e Saraceni. Giunto ad Acri – ovvero, nella capitale del regno crociato –, dopo aver visitato la Galilea ed essersi bagnato nel Giordano, mosse verso settentrione, guadagnando Laiazzo, il maggior porto del regno armeno di Cilicia; quindi, inoltrandosi lungo la carovaniera che recava a Tabriz, in territorio mongolo. Superati i monti del Tauro, si diresse a Sivas. Toccò Erzurum, nei pressi dell’Ararat, Mossul e Tikrit, fino ad arrivare a Baghdad. Qui settembre

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ebbe modo d’imparare l’arabo e di studiare il Corano, da lui confutato nel Contra legem Sarracenorum. Nulla è noto degli anni successivi, passati verosimilmente in Oriente. Alcuni passi del suo Liber peregrinationis e delle Epistole suggeriscono cha sia precipitosamente fuggito da Baghdad tra il 1295 e il 1296 per sfuggire alle persecuzioni anti-cristiane dell’il-khan mongolo Ghazan, convertitosi alla religione di Maometto. Lo ritroviamo a Firenze dal marzo del 1301, dove

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si dedica a completare le sue opere. Morirà a S. Maria Novella il 31 ottobre del 1320, come ricorda il necrologio contenuto nella Cronica del convento che ne ripercorre la vita, esaltandone l’opera missionaria e la conoscenza della lingua araba. Riccoldo è soprattutto un testimone. A Baghdad ebbe notizia della caduta di Acri, nel 1291, e dell’abbandono della Terra Santa da parte dei Latini: «Il mare di Tripoli e di Acri – ho sentito dire – fu arrossato del sangue degli uccisi, e quelli che la spada

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o la freccia dei Saraceno non recò a fine, il mare li inghiottí». Dovette trattarsi di un’esperienza traumatica. Benché il territorio in cui s’era stabilito fosse in mano mongola – Baghdad era stata conquistata nel 1258, pur rimanendo la sede del califfo –, la sensazione di stare assistendo a un evento epocale, forse irrimediabile, dovette preoccuparlo. Il dolore per le notizie provenienti dalla Siria, unito allo stupore per l’ampia diffusione della legge di Maometto, lo indussero a redigere alcune lettere accorate – lettere fittizie, s’intende: sul modello delle bibliche Lamentazioni –, indirizzate a Dio, alla Vergine, ai santi e ai propri confratelli domenicani periti nel corso del massacro di Acri. La sua è una testimonianza palpitante di quei tragici momenti. Nel suo saggio precedente (Acri 1291. La caduta degli stati crociati, il Mulino, Bologna 2017) lei ci ha racconta-

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to nei dettagli la vicenda della caduta di Acri. Qui ha scelto invece di mostrarci le conseguenze dell’evento sul piano ideologico e propagandistico. Ci può dare qualche idea di quella che lei definisce «Crociata di carta»? L’espressione – fortunatissima – è mutuata da Franco Cardini, ch’ebbe a parlare di «crociata d’inchiostro»: scritta, ma non realizzata. In effetti, la caduta di Acri diede avvio a un vero e proprio profluvio di scritti. Profezie, trattati, ricordi, lettere, appelli, accordi commerciali, relazioni di agenti segreti: un patrimonio di fonti inestimabile, mediante il quale è possibile ricostruire l’approccio della cristianità alla perdita degli ultimi territori crociati. In questo quadro, un ruolo particolare possiedono i molti trattati di carattere strategico dedicati esplicitamente al recupero di quanto perduto. Non si tratta di una letteratura omogenea. Tantomeno di opere di mera propaganda, volte a risvegliare un settembre

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante i Templari sul rogo, da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. XV sec. Londra, The British Library. In basso copia della pergamena del processo contro i Templari inviata a Clemente V. XIV sec. Roma, Archivio Segreto Vaticano.

Occidente sordo a ogni tentativo di riconquista. I trattati superstiti – una trentina –, composti tra il 1291 e gli anni Trenta del Trecento, possiedono caratteristiche proprie, provenendo dall’ingegno di personalità diverse – frati, intellettuali, medici, sovrani, prelati, combattenti… –, ciascuna dotata di motivazioni e finalità peculiari. Tutti, a ogni modo, pur comprendendo alcuni temi in qualche modo tipici della trattatistica precedente al 1291 – quali la necessità della conversione degli infedeli, il rapporto tra crociata e missione, le qualità militari e morali dei combattenti o la giustificazione, storica e teologica, delle ripetute sconfitte subite dai cristiani –, condividono la caratteristica d’assumere toni eminentemente pratici: fornendo precise descrizioni della situazione levantina; offrendo, il piú delle volte, veri e propri piani strategici. Si tratta di un patrimonio importante innanzitutto dal punto di vista politologico, giacché numerose sono le riflessioni sullo statuto che il nuovo regno riconquistato avrebbe dovuto mantenere. I particolari bellici, inoltre – ancora in gran parte da studiare –, costituiscono una miniera d’informazioni per la storia militare. Il ruolo di questa letteratura è stato spesso frainteso: da un lato, lo si è considerato soprattutto nel contesto delle crescenti difficoltà – e del non meno crescente disinteresse – a procedere a una riconquista territoriale della Terra Santa; tanto piú, alla luce dei nuovi assetti politici e commerciali del mondo euro-mediterraneo. Dall’altro, tale insieme di testi è stato visto come il prodotto di un forte desiderio di riscatto, capace, pertanto, di riaffermare quelle motivazioni «originarie» che avevano caratterizzato i primordi del movimento crociato. Ora, tali aspetti sono senz’altro presenti, ma sussistono altre chiavi di lettura, capaci di rivelare i termini di un dibattito teso, di fatto, a un ripensamento dell’idea stessa di crociata. Questo è il punto focale de Il crepuscolo della crociata. Un elemento particolarmente interessante che emerge dal suo libro è la percezione del grave squilibrio tra la propaganda crociata e la prassi. Perché, a suo parere, dopo

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la caduta di Acri (e anche in seguito) gli appelli papali, i discorsi e i libelli produssero cosí pochi fatti? I motivi dell’abbandono – di fatto; non, certo, a parole – della Terra Santa crociata sono molteplici. Possiamo dire, senza svelare troppo, che i molti soggetti che avrebbero potuto fare la differenza – il papato, i principali regni europei, le città di mare – trovarono di meglio da fare. Naturalmente, dal loro personalissimo punto di vista. La vicenda degli «Italiani» è, da questo punto di vista, paradigmatica. Non è un caso se, assieme a Templari e Ospitalieri, siano ripetutamente annoverati tra i principali responsabili della caduta. La strategia crociata inaugurata nel corso del concilio di Lione del 1274 – quella del passagium particulare, e, cioè, dell’invio nel Levante di piccole spedizioni condotte da professionisti della guerra – assegnava loro un ruolo importante, accompagnandosi all’idea d’una «guerra economica» ai danni della potenza mamelucca: una crociata generale avrebbe avuto successo solo a seguito del collasso dell’economia egiziana. Si trattava, tuttavia, di disposizioni difficili da mettere in pratica. Di fatto, regolarmente disattese. Di qui la definizione di «mali christiani», coniata per loro dal frate minore Fidenzio da Padova e la loro esclusione da qualsivoglia moto di riconquista. Eppure, non si può generalizzare. Furono, infatti, altri «Italiani» a mostrare come, ancora nel 1290, la «crociata-movimento» fosse ancora viva e vegeta. Fu, infatti, un manipolo di «crucesignati», la maggior parte dei quali – per citare un cronista bolognese – provenienti «de Lombardia, de Romagna, della Marcha d’Anchona e della Marcha Trivisana e de Toscana e de Bologna e de tuta Italia», a fornire al sultano il casus belli, dando sfogo ciecamente al proprio ardore religioso. Di nuovo: la cifra è quella della complessità. Per concludere, può dirci come cambia nel tempo il concetto di crociata? È giusto parlare di «metamorfosi della crociata»? E chi sono quelli che possiamo definire come gli «ultimi crociati»? Nel corso del Duecento, la crociata subí un processo d’istituzionalizzazione, divenendo null’altro che uno strumento nelle mani del papato per il governo del «corpus Christianorum». Sovente, si proclamarono crociate contro obiettivi assai piú vicini e, per questo, ritenuti piú urgenti della Terra Santa, presentando la

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Nella pagina accanto pagina miniata dall’Historia Anglorum di Matteo Paris, con l’itinerario percorso dai pellegrini da Londra verso Gerusalemme. 1250. Londra, British Library. A destra miniatura raffigurante il Santo Sepolcro di Gerusalemme, da un manoscritto greco degli Oracula Leonis. XVI sec. Palermo, Biblioteca Comunale.

«crux cismarina» quale preliminare alla «crux transmarina»; ciò che non mancò d’attirare sul papato critiche severe provenienti da una gran quantità di soggetti diversi. Ebbene: la caduta di Acri non fece altro che sopire momentaneamente le numerose critiche di cui la crociata era divenuta oggetto, contribuendo a rendere la «crux transmarina» nuovamente attuale. Anche se per breve tempo. La celebrazione del primo Giubileo della storia, nel 1300, pur rispondendo a quell’istanza penitenziale generalizzata che, in precedenza, aveva trovato nella crociata una delle proprie massime espressioni, di fatto spostò l’attenzione su Roma a discapito di Gerusalemme. La crociata dovette subire, inoltre, la forte pressione delle monarchie, tese ad appropriarsi di quella che – complice la decadenza dei poteri universali – rimaneva a tutti gli effetti un’idea potente. Se il papato aveva lentamente abbandonato l’idea d’una riconquista del Sepolcro di Cristo, traslando in Occidente la sacralità di Gerusalemme; se la trattatistica sul recupero della Terra Santa si sarebbe spinta, di fatto, sino a prospettare complicati piani d’attacco sostanzialmente irrealizzabili; se parte della società avanzava critiche nei confronti della crociata in sé – ebbene: poteva la crociata rimanere uguale a se stessa? Nel corso del concilio di Vienne (1311-1312) non sarebbe stata piú la cristianità a volgersi verso il recupero della Terra Santa, ma la monarchia – e, in particolar modo, la monarchia francese –, che abbisognava di quel progetto per convogliare su di sé varie istanze di legittimazione proprie, sino a non molto tempo addietro, della figura imperiale. Senza contare la disponibilità di enormi risorse finanziare che il «negotium crucis» – e, con esso, questioni affatto collaterali come quella templare – avrebbe assicurato. Le «nazioni adolescenti» avocavano a sé ciò che il papato esercitava già da circa un secolo: l’utilizzo della crociata come «instrumentum regni», temendo, forse, che tale strumento, che tanto potentemente richiamava a una struttura sovranazionale quale il papato, potesse sfuggire loro di mano. Ebbene, è probabile che tali istanze siano alla base di uno dei principali esiti di questa vicenda: il tentativo (riuscito) d’eliminare l’Ordine del Tempio, la cui sola esistenza richiamava a quell’universalismo sovranazionale che si desiderava sconfiggere. Con i Templari, tuttavia, si eliminava una delle anime principali della Terra Santa cristiana, presto sostituita dalla rinnovata presenza minoritica, che sfo-

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ciò, tra gli anni Trenta e Quaranta del Trecento, nella fondazione della Custodia di Terra Santa, ancora oggi viva e vegeta. Ho voluto definire Templari e Francescani con l’espressione «gli ultimi crociati», pur appartenendo a quella corrente di studiosi che insistono sulla necessità d’inglobare nel concetto di crociata, mutatis mutandis, le molte manifestazione d’età moderna. Di fatto, gli ultimi, veri «crociati» – nel senso profondo, direi quasi etimologico, di quest’espressione: segnati nel corpo dalla croce di Cristo, cosí com’era accaduto a Francesco, e recanti per vesti una croce – furono (sono!) i frati Minori, e con essi tutti quei pellegrini che avrebbero continuato a raggiungere Gerusalemme. F

Da leggere Antonio Musarra, Il crepuscolo della crociata L’Occidente e la perdita della Terrasanta, 336 pp., il Mulino, Bologna 24,00 euro ISBN 978-88-15-27495-3 www.mulino.it

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mostre gubbio

Magnifici quegli anni

di Stefano Mammini

Gubbio rievoca la straordinaria stagione vissuta nel XIV secolo, quando si abbellí delle splendide opere realizzate da una folta schiera di artisti ispirati dalla lezione di Giotto. Un progetto che vede coinvolti tre dei monumenti piú insigni della città umbra: il Palazzo dei Consoli, il Palazzo dei Canonici e il Palazzo Ducale A sinistra Madonna con il Bambino (particolare risagomato di polittico), tempera su tavola di pittore eugubino (Guiduccio Palmerucci). Prima metà del XIV sec. Gubbio, Museo Civico di Palazzo dei Consoli.

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ubbio è il settimo Comune d’Italia per estensione e in questo dato si può cogliere una delle molte eredità tangibili di un passato che ha visto la città umbra giocare a piú riprese un ruolo di primo piano nelle vicende italiane. In particolare, nei secoli del Medioevo, pur essendo compresa nei confini dello Stato Pontificio, Agobbio – nome reso immortale dalla terzina in cui Dante celebra uno degli Eugubini piú celebri, il miniatore Oderisi, del quale, paradossalmente, non si conosce a oggi alcuna opera a lui attribuibile con certezza – conservò a lungo la sua autonomia amministrativa e mantenne il controllo di un territorio molto vasto, che arrivò ad avere uno dei suoi capisaldi a Pergola, nelle odierne Marche. Una preminenza di cui la mostra «Gubbio al tempo di Giotto» offre ora il riscontro della produzione artistica, davvero rimarchevole per quantità e per qualità. L’esposizione corona un progetto avviato oltre due anni fa e che ha potuto realizzarsi grazie alla proficua collaborazione fra Amministrazione comunale, Diocesi e Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Una sinergia di cui è frutto l’organizzazione stessa della rassegna, allestita nelle sedi che ai tre enti fanno capo: il Palazzo dei Consoli, il Museo Diocesano e il Palazzo Ducale (Polo Museale dell’Umbria). Ciascun allestimento costituisce un’unità indipendente, ma è in ogni caso raccomandabile iniziare questo viaggio nell’arte trecentesca dal Palazzo dei Consoli, anche per il valore simbolico dell’edificio, che A sinistra San Mariano martire, statua in marmo con tracce di policromia di scultore umbro. Inizi del XIV sec. Gubbio, Museo Diocesano. L’opera apparteneva probabilmente alla decorazione di un monumento funebre destinato alla cattedrale di Gubbio, forse quello del presule domenicano Giovanni Bervaldi, morto nel 1313.

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mostre gubbio

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

esprime pienamente l’importanza acquisita da Gubbio nel periodo preso in esame. La costruzione della struttura, affacciata sulla Piazza Grande, venne deliberata fra il 1321 e il 1322 e i lavori furono con ogni probabilità ultimati prima della metà del secolo. Il palazzo fu voluto come sede delle principali istituzioni del Comune eugubino: il Consiglio generale del Popolo, i Consoli e il

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Gonfaloniere di Giustizia, oltre al Capitano del Popolo e al Connestabile, il funzionario posto a capo dei 24 armati incaricati della guardia del palazzo stesso.

L’inizio del viaggio

Funzioni delle quali oggi rimane la sola memoria storica, soprattutto da quando, nel 1909, il Palazzo dei Consoli è divenuto sede del Museo

Civico. Le cui collezioni permanenti meritano senz’altro un’appendice alla visita della mostra. Ad aprire il percorso sono alcuni manufatti particolarmente significativi per la storia di Gubbio, fra i quali spicca la preziosa arca vecchia di Sant’Ubaldo, una monumentale cassa lignea a capanna che venne commissionata a maestranze locali per custodire il corpo, mantenutosi settembre

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In alto miniatura raffigurante la Crocifissione, da un Messale Romano decorato dal Maestro delle Croci francescane (forse identificabile con Guido di Pietro da Gubbio). 1254. Assisi, Biblioteca del Sacro Convento. A sinistra, sulle due pagine una veduta della cittĂ di Gubbio. In basso Gruppo della Deposizione, sculture lignee policrome in pioppo nero attribuite a una bottega alto-tiberina. 1260-1270. Montone, Museo Comunale.

miracolosamente integro e incorrotto, del vescovo Ubaldo Baldassini (1084/1085-1160), figura chiave nelle vicende cittadine, soprattutto per la fiera e vittoriosa opposizione alle mire di Perugia, che intendeva risucchiare nella propria orbita gli Eugubini. Collocata nella chiesa costruita in cima al Monte di Gubbio e intitolata allo stesso Ubaldo – venerato come santo dalla Chie-

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mostre gubbio sa cattolica all’indomani della sua canonizzazione, nel 1192 –, l’arca doveva consentire di vedere le spoglie del vescovo e di qui nasce la presenza dello sportellone che si apre frontalmente. Era riccamente decorata e, nonostante i ripetuti rimaneggiamenti, si possono ancora ammirare, fra gli altri, i due dipinti che raffigurano un Cristo benedicente e un Santo diacono, attribuiti all’artista definito Maestro Espressionista di Santa Chiara, ma che può forse essere identificato con Palmerino di Guido, pittore attivo in Umbria nella prima metà del XIV secolo.

Tabernacolo reliquiario, dalla chiesa eugubina di S. Francesco. Prima metà del XIV sec. con inserti del XIII sec. Gubbio, Museo Civico di Palazzo dei Consoli.

Un’acquisizione recente

Piú avanti colpisce, nella sua essenziale intensità, il Gruppo della Deposizione originariamente collocato nella pieve di S. Gregorio, a Montone. L’opera è il frutto di un’acquisizione piuttosto recente, poiché l’appartenenza delle quattro figure superstiti alla medesima opera – Deposto, Vergine, San Giuseppe d’Arimatea e San Giovanni Evangelista – è stata accertata solo quando, negli anni Novanta del secolo scorso, fu avviato il riesame di uno degli elementi del gruppo, ritrovato casualmente nel 1977, ma poi accantonato. La Deposizione viene datata fra gli anni Sessanta e Settanta del XIII secolo e l’intervento di restauro eseguito pochi anni orsono permette oggi di cogliere appieno, oltre al sapiente modellato delle figure, le tracce della policromia originaria. Allo stesso periodo risale un’altra scultura lignea policroma, una Madonna col Bambino (mancante), che ha avuto una vicenda simile a quella del gruppo di Montone e ha sperimentato nei depositi una lunga permanenza, prima d’essere debitamente valorizzata, riconoscendola come una delle piú antiche sculture in legno dell’Umbria a oggi note. A fare da raccordo fra la sezione allestita in Palazzo dei Consoli e quella del Museo Diocesano sono alcune opere dell’artista che la

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In alto Cassa di Sant’Ubaldo, Cristo benedicente (particolare), Maestro Espressionista di Santa Chiara (Palmerino di Guido). Prima metà del XIV sec. Gubbio, Raccolta Memorie Ubaldiane. A destra Madonna con il Bambino e angeli (Pala di Agnano, particolare), tempera su tavola di Mello da Gubbio. Seconda metà del XIV sec. Gubbio, Museo Diocesano.

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mostre gubbio critica designa come Maestro della Croce di Gubbio. Oltre al grandioso Crocifisso che gli è valso la denominazione, si possono ammirare, fra gli altri, una tavola raffigurante una Madonna con Bambino e donatore, una Maestà e l’affresco con un Crocifisso con i dolenti e i santi Giacomo e Mariano, realizzato per il Refettorio dei Canonici del Duomo e oggi esposto nel Museo Diocesano. L’ignoto artista è fra quelli che piú distintamente fanno propria la lezione di Giotto e la circostanza può essere ragionevolmente spiegata con l’ipotesi che il Maestro della Croce abbia affiancato il genio toscano nella realizzazione delle Storie francescane per la Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. I nomi dei santi Giacomo e Mariano – che finirono i loro giorni in Numidia (nell’odierna Algeria), insieme ad altri martiri africani – sono anche evocati da una coppia di statue in marmo, con tracce di policromia, che li ritraggono, rispettivamente, in piedi e in ginocchio.

Assegnate a uno scultore umbro e datate agli inizi del XIV secolo, le sculture dovevano far parte di un monumento funebre, forse quello realizzato per il presule domenicano Giovanni Bervaldi.

Una nobile paternità

Poco oltre «Gubbio al tempo di Giotto» offre uno degli esiti piú importanti fra quelli scaturiti dagli studi che ne hanno accompagnato la realizzazione. Viene infatti presentato un trittico – Madonna col Bambino fra i santi Pietro e Paolo, con Cristo benedicente fra due angeli nell’ordine superiore –, che i curatori della mostra propongono di assegnare a Pietro Lorenzetti, pittore senese che fu tra i protagonisti dell’arte trecentesca, fratello dell’altrettanto celebre Ambrogio. L’opera in questione si presenta, purtroppo, in uno stato di conservazione non ottimale, ma ciò non ha impedito di condurre l’attenta ricognizione che ha portato alla nuova proposta di attribuzione. Del trittico, che appartiene

A destra il Palazzo dei Consoli di Gubbio, una delle sedi che ospitano la mostra «Gubbio al tempo di Giotto». In basso Madonna col Bambino fra i santi Pietro e Paolo, trittico di cui si propone l’attribuzione a Pietro Lorenzetti. Prima metà del XIV sec. Gubbio, Palazzo Ducale. Nella pagina accanto San Giuseppe (particolare), statua in legno policromo del Maestro dei Magi di Fabriano. Seconda metà del XIV sec. Fabriano, Museo Civico.

alle collezioni eugubine, non si conosce la provenienza, né è possibile stabilire se si sia trovato a Gubbio fin dall’origine, ma le osservazioni e i confronti di cui si dà conto nella scheda di catalogo appaiono piú che convincenti. In particolare, si ritiene che Lorenzetti l’abbia dipinto nel secondo decennio del Trecento, un periodo che fu per lui di grande e ispirata attività. Altrettanto significativa e interessante è la proposta di ricostruzione di un grande polittico attribuito all’artista convenzionalmente identificato come «Guiduccio Palmerucci». In mostra sono presenti quattro formelle, con episodi della vita di san Biagio, alle quali è però associato un montaggio fotografico, che ne mostra appunto la pertinenza a un’opera assai piú articolata. Le

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Dove e quando

«Gubbio al tempo di Giotto. Tesori d’arte nella terra di Oderisi» Gubbio, Palazzo dei Consoli, Museo Diocesano, Palazzo Ducale fino al 4 novembre Orari tutti i giorni, 10,00-19.00 Info tel. 06 32810967; www.gubbioaltempodigiotto.it Catalogo Fabrizio Fabbri Editore foto, in bianco e nero, mostrano un Santo vescovo, un Santo eremita e San Biagio, che riempivano altrettanti scomparti del polittico. I tre dipinti facevano parte della collezione austriaca del nobile polacco Lanckoronski e finirono fra le migliaia di beni confiscati dai nazisti. Da allora se ne sono perse le tracce, anche se è auspicabile che in un futuro la composizione possa recuperare almeno in parte la sua unità. Fra le opere che chiudono la rassegna, nella sezione allestita in Palazzo Ducale, ritroviamo le intense statue lignee del Maestro dei Magi di Fabriano, che già era stato possibile ammirare nella mostra «Da Giotto a Gentile», allestita nella cittadina marchigiana fra il 2014 e il 2015 (vedi «Medioevo» n. 212, settembre 2014). Si tratta di una Madonna

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col Bambino e di due versioni di San Giuseppe. Eseguite nei decenni finali del Trecento, erano state pensate come elementi di altrettanti gruppi, aventi come tema l’Adorazione dei Magi e la Natività. Come per l’apertura, affidata all’arca vecchia di Sant’Ubaldo, anche la chiusura della mostra propone un’opera che ha sempre goduto della devozione degli Eugubini: è lo spettacolare tabernacolo reliquiario proveniente dalla chiesa di S. Francesco e che, secondo uno degli studiosi che piú a fondo lo hanno studiato, potrebbe essere stato voluto da un Francescano come omaggio a un luogo, Gubbio, che aveva avuto un ruolo particolarmente significativo nella vicenda terrena dell’Assisiate. F

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battaglie stamford bridge 25 SETTEMBRE 1066

Tramonto

di Federico Canaccini

vichingo

La battaglia di Hastings segnò una svolta storica nelle sorti dell’Inghilterra. Essa fu preceduta da uno scontro non meno decisivo, combattuto due settimane prima a Stamford Bridge, presso York. E che, in questo caso, liberò definitivamente l’isola dalla presenza degli uomini venuti dal Nord

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a vittoria di Guglielmo il Conquistatore a Hastings fu dovuta, almeno in parte, a una serie di episodi militari avvenuti poche settimane prima e che determinarono, in certo qual modo, l’andamento degli eventi successivi, destinati a porre le basi per la nascita del regno d’Inghilterra sotto i Normanni. La battaglia di Stamford Bridge, olio su tela del pittore norvegese Peter Nicolai Arbo. 1870. Collezione privata.

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Nel 1066 la Normandia era un ducato del regno di Francia, fondato da Guglielmo il Bastardo, normanno d’origine e cugino del re d’Inghilterra, Edoardo il Confessore. Questi aveva ormai da tempo abbracciato l’ideale monastico della castità, rinunciando perciò ad avere eredi diretti, pur avendo sposato la figlia del conte Godwin, signore del Wessex. Nel 1051 aveva di fatto promesso la corona a Guglielmo, cugino un tempo ripudiato, ottenendo la promessa di un eventuale aiuto contro lo strapotere del suocero. Alla morte di Godwin (1053), in esilio, Edoardo il Confessore incaricò Aroldo di andare a confermare a

Guglielmo che, a tempo debito, sarebbe divenuto il suo successore al trono d’Inghilterra. Sbatacchiato dai venti della Manica, il convoglio di Aroldo approdò sulle terre del conte Guido di Ponthieu che lo catturò, imprigionandolo a Beurain. A quel punto il duca Guglielmo intervenne, intercedendo per la sorte dello sfortunato Aroldo, ancora neppure cavaliere. Guido, allora, affidò Aroldo al duca Guglielmo, con il quale si intrattenne a lungo a corte. Tra i due iniziarono intense trattative e il duca normanno promise ad Aroldo addirittura la propria figlia Aelgyve in matrimonio, stipulando cosí una

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battaglie stamford bridge Sulle due pagine particolari della tela ricamata (piú nota come «arazzo») di Bayeux. XI sec. Bayeux, Musée de la Tapisserie de Bayeux. In alto, re Aroldo (Harold) Godwinson nel palazzo di Westminster, mentre in cielo sfreccia la cometa, poi identificata con quella di Halley. Nella pagina accanto, Guglielmo (Willelm), duca di Normandia, discute con i fratellastri, Roberto, conte di Mortain, e Oddone, vescovo, poco prima dell’inizio della battaglia di Hastings.

Aroldo Godwinson

L’ultimo re anglosassone Nato intorno al 1022, lo sfortunato Aroldo è l’ultimo re degli Anglosassoni. La seconda parte del suo nome significa «figlio di Godwin», che era stato signore (earl) del Wessex, titolo che ereditò nel 1053. Qualche anno piú tardi anche l’Herefordshire ricadde sotto il suo controllo, facendo di Aroldo uno degli uomini piú influenti e potenti del regno anglosassone. Divenuto ministro del sovrano, Edoardo il Confessore, di cui era anche cognato, ne ereditò il titolo nel 1066. Ma la corona durò sul suo capo una manciata di mesi appena. Nel settembre dello stesso anno dovette scontrarsi con una invasione di Vichinghi nel

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Nord dell’isola, battendoli in due scontri a Fulford Gate e Stamford Bridge. Aroldo affrontò, sconfisse e uccise il re di Norvegia, Aroldo Hardrada III, detto «lo Spietato», che aveva invaso la Northumbria, peraltro con l’appoggio del fratello di Aroldo, Tostig. Appena poche settimane dopo però, Aroldo era costretto a schierarsi nuovamente in battaglia a Hastings per frenare un poderoso esercito, capitanato da Guglielmo il Bastardo, duca di Normandia, sbarcato a Dover pochi giorni prima. Dalla battaglia che gli fu fatale, sarebbe uscito vincitore il primo re d’Inghilterra, Guglielmo, detto il Conquistatore. settembre

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battaglie stamford bridge LE CAMPAGNE NORMANNE DI GUGLIELMO IL CONQUISTATORE

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Edimburgo

Contro gli Scozzesi (1072)

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dal 1069 al 1070

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Resistenza di Aroldo II re anglosassone (1066)

Possedimenti normanni nel 1071 Possedimenti norvegesi in Scozia Confine scozzese nell’XI sec.

dal 1066 al 1068

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«Lo Spietato» del Nord

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Hastings 14-10-1066

La Manica

alleanza che, di lí a poco, venne sperimentata sul campo. Guglielmo infatti invitò Aroldo a seguirlo in battaglia contro Conan, duca di Bretagna, che gli aveva dichiarato guerra. Furono messe sotto assedio Rennes e Dinan, finché il signore di Bretagna non si arrese, aprendo le porte della città di Dinan in cui si era asserragliato.

Giuramento solenne

Probabilmente per il valore mostrato sul campo, Guglielmo nominò cavaliere il giovane Aroldo, il quale, non prima di avergli prestato giuramento su due reliquiari, ripartí verso l’Inghilterra, per riportare a Edoardo il Confessore il risultato

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Ultima roccaforte anglosassone

della sua ambasciata. Tutto sembrava chiaro e stabilito nel modo piú consono, con tanto di giuramento e promessa di matrimonio. Ma la morte di Edoardo, occorsa il 5 gennaio del 1066, rese in realtà la successione assai confusa: l’erede piú diretto sarebbe stato Edgardo Atheling, un bambino, che, a motivo della sua tenera età, fu ovviamente scartato dall’assemblea dei nobili, la cosiddetta Witan. La loro preferenza cadde allora su Aroldo Godwinson, di origini regali piú lontane, ma che aveva dimostrato doti diplomatiche e militari e che, circostanza non irrilevante, era stato anche nominato – tra altri – dallo stesso Edoardo sul letto di morte. Tale scelta, come

Nato verso il 1015, Aroldo III Hardrada, «lo Spietato», era fratellastro di Olaf II di Norvegia, detto «il Santo». Costui aveva trascorso la fanciullezza e la giovinezza al servizio dei duchi di Normandia, e lí venne convertito al cristianesimo. Mentre Olaf diveniva re (1016), ereditando la corona da Aroldo Bellachioma, Hardrada era ancora un lattante. Olaf s’impadroní rapidamente di tutta la Norvegia, dimostrando grandi doti militari e diplomatiche, e introdusse un sistema amministrativo basato sul modello feudale normanno. Questa politica accentratrice, però, non fu gradita dall’aristocrazia vichinga, che piuttosto offrí il proprio sostegno a re Canuto di Danimarca e cosí Olaf fu costretto all’esilio. Nel 1030 Olaf tentò di recuperare il regno, ma fu sconfitto e ucciso in battaglia. Suo figlio Hardrada riparò prima a Novgorod, presso il principe Jaroslav, e poi a Costantinopoli. Frattanto in Norvegia, a Canuto di Danimarca era succeduto il figlio Sven, che fu però cacciato da Magnus I «il Buono», figlio di Olaf, tornato in Norvegia per rivendicare il regno (1035). Magnus associò al trono anche Hardrada, che ereditò la corona alla morte del nipote (1046): a lui viene attribuita la fondazione della città di Oslo. Hardrada tentò anche di recuperare il trono di Danimarca, conquistato da Magnus nel 1042, ma senza riuscirvi. Ripiegò allora sul regno d’Inghilterra, ma lo scontro a Stamford Bridge, contro l’omonimo re sassone, gli fu fatale. settembre

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Aroldo do Godwinson

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A sinistra schema della battaglia di Stamford Bridge con i movimenti delle truppe. Dopo aver superato il ponte sul fiume Derwent, gli Anglosassoni di Aroldo Godwinson ebbero la meglio sui Vichinghi guidati da Hardrada e a nulla valse l’arrivo da Riccall dei rinforzi capitanati da Øystein Orre. In basso miniatura raffigurante la battaglia di Stamford Bridge e la morte di Aroldo Hardrada, «lo Spietato», identificabile, in questa immagine, con il personaggio che impugna la lunga scure, dal manoscritto Life of St Edward the Confessor. 1250-1260. Cambridge, Cambridge University Library.


battaglie stamford bridge

La scure vichinga

Fendenti che non lasciavano scampo La scure era una delle armi tipiche dei Vichinghi. Gli Scandinavi avevano sviluppato l’uso di quest’arma da taglio, provvista di un manico molto lungo e che veniva impugnata con entrambe le mani, imprimendo cosí ai fendenti una forza tale da staccare la testa di un cavallo con un colpo solo. A oggi sono stati identificati ben undici tipi diversi di scure vichinga, anche se i piú diffusi erano essenzialmente due. Probabilmente la versione piú antica è un’evoluzione della francisca germanica: veniva chiamata skeggöx ed era un’arma da lancio. Intorno al Mille, il filo della scure fu allargato, sino a oltre 20 cm, conferendo a questa arma in acciaio la tipica forma lunata. La scure era ampiamente diffusa sia tra gli strati sociali piú bassi, sia, come è stato dimostrato da scavi archeologici, presso i ceti piú nobili, che impugnavano scuri riccamente decorate, anche con damaschinature in argento.

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In alto, a sinistra Stamford Bridge (Yorkshire, Inghilterra). Monumento commemorativo della battaglia. In alto, sulle due pagine un altro particolare della tela di Bayeux raffigurante Normanni e Anglosassoni che combattono a Hastings. XI sec. Bayeux, Musée de la Tapisserie de Bayeux.

spesso accadeva, essendo contestabile, scatenò le reazioni di piú di un pretendente deluso: in primo luogo quella di Guglielmo di Normandia, il quale si era visto addirittura promettere da Aroldo in persona, una garanzia sulla successione; e poi, anche se assai meno legittime, vi erano le pretese di Aroldo Hardrasettembre

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da, re di Norvegia (vedi box a p. 56). A questi due pretendenti si aggiunse la delusione del fratello del novello re, Tostig, signore di Northumbria, che stipulò un’alleanza col re di Norvegia, dichiarando guerra al fratello. Per l’appena insediato re d’Inghilterra, Aroldo Godwinson, il 1066 cominciava sotto una cattiva stella e, a confermare questi presagi, come si può ammirare nel famoso «arazzo» di Bayeux (la denominazione è convenzionale, in quanto il manufatto è, in realtà, una tela ricamata, n.d.r.), apparve in cielo una cometa che, nell’immaginario medievale, era foriera di mutamenti, spesso non positivi: era la Cometa

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di Halley. Re Aroldo comprese che lo attendeva una lunga e sfibrante attesa in vista di certe battaglie e fece perciò mobilitare il Fyrd, un corpo di fanteria leggera reclutata su base nobiliare. Se ne serví per l’intera estate, poi, in vista del raccolto, lo sciolse l’8 settembre, lasciando la costa meridionale inglese sguarnita. Nel frattempo, le spie di Guglielmo non avevano certo oziato...

Lo sbarco della flotta

Ma sono gli eventi delle settimane successive ad attirare la nostra attenzione, poiché esse determinarono in buona parte il successo di Guglielmo e la disfatta di Aroldo. Godwin-

son infatti, oltre che dalla Manica, temeva un attacco da Nord-Est, che puntualmente si verificò. Alla metà di settembre Aroldo Hardrada lanciò una flotta di circa 300 vascelli verso l’Inghilterra, sbarcando 9000 uomini circa una quindicina di chilometri a sud-est di York, dopo aver risalito il fiume Humber. Il loro obiettivo era la principale città del circondario e lí era in attesa Tostig con altri rinforzi. Il 20 settembre Hardrada sconfisse un esercito anglosassone di 4000 uomini circa presso Fulford Gate: York si arrese e Hardrada si stabilí a Riccall, dove aveva fatto ancorare la propria flotta. Le notizie della disfatta di Fulford

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battaglie stamford bridge Sulle due pagine l’abbazia benedettina costruita sul luogo in cui si combatté la battaglia di Hastings e intitolata a san Martino di Tours.

giunsero a Londra e Aroldo decise, non senza qualche titubanza, di mobilitare le truppe e andare incontro al nemico vichingo, tralasciando per il momento la costa meridionale e il rischio normanno. Con un’armata composta da 8000 uomini circa, Aroldo uscí dunque da Londra, puntando su York a marce forzate. Il suo esercito era composto da 2000 huscarles, di origine sassone o danese, che componevano il suo corpo di guardia, armati con terribili asce dal manico lungo, protetti da cotta di maglia, elmi conici e grandi scudi formati da assi incollate o inchiodate, rivestiti di cuoio e rinforzati da borchie di ferro o bronzo. Seguivano altri 6000 uomini membri del Fyrd, il corpo militare organizzato da nobili anglosassoni e uomini liberi, sin dai tempi delle invasioni vichinghe del IX secolo: i thegns, simili ai bondi vichinghi,

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erano proprietari terrieri di almeno 100 acri che erano obbligati a prestare servizio militare annualmente per un bimestre per poi tornare alle loro attività. Accanto ai thegns combattevano – senza distinzioni social i– i fyrdmen, lavoratori stipendiati, che sin dalla battaglia di Maldon, nel 911, avevano difeso l’Inghilterra dalle mire vichinghe.

Guerrieri senza cavalli

I Fyrd erano distinti in due corpi, uno specializzato (Select Fyrd), l’altro senza un armamento da battaglia o una vera formazione militare e reclutato tra i lavoratori, posto sempre nelle retrovie (General Fyrd). Tutti e tre questi gruppi – huscarles, thegns e fyrdmen – combattevano appiedati e utilizzavano i cavalli solo per spostamenti strategici: sinora infatti non sono state trovate prove certe dell’uso di cavalcature in battaglie presso gli Anglosassoni prima del fatale anno 1066. Nonostante la lentezza delle truppe del General Fyrd, che trasportavano anche i carriaggi, le truppe

di Aroldo, montate a cavallo, coprirono la distanza che separava Londra da York in appena cinque giorni, fermandosi a Tadcaster, una quindicina di chilometri a sud di York, per sfruttare l’effetto sorpresa contro il nemico. E di fatto, marciando di notte, all’alba del 25 settembre apparvero a Stamford Bridge, dove Tostig e Hardrada attendevano solo gli ambasciatori. La comparsa dell’armata anglosassone colse Hardrada alla sprovvista e cosí il suo esercito, completamente impreparato ad affrontare una battaglia campale. Oltre un terzo delle truppe vichinghe, era stato lasciato a Riccall, e molti degli uomini in attesa a Stamford Bridge non avevano né elmo né armatura. Come un fulmine partí un messaggero per richiedere rinforzi dalla cittadina di Riccall che però distava una quarantina di chilometri. Hardrada fu costretto a improvvisare una strategia e, mentre faceva passare il ponte sul fiume Derwent, lasciò un drappello di soldati con lo scopo di rallentare l’avanzata del

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nemico, dandogli cosí il tempo di organizzare le fila. La retroguardia vichinga combatté valorosamente, ma fu ben presto travolta dalle truppe di Aroldo, che avanzarono superando il ponte, mentre Hardrada organizzava le proprie milizie creando una linea di soldati protetti da scudi, sulla cresta di un saliente prospiciente una piana erbosa, teatro della imminente battaglia. Superato il ponte, Aroldo organizzò le proprie truppe su una lunga linea e poi ordinò di avanzare risalendo il leggero crinale. I Vichinghi di Hardrada si chiusero inizialmente dietro i loro scudi, rintuzzando gli attacchi degli Anglosassoni. Poi, ingannato da una finta ritirata degli uomini di Aroldo, lo stesso Hardrada ruppe i ranghi e caricò coi suoi huscarles, con un contrattacco inaspettato ma anche azzardato. A questo punto gli arcieri anglosassoni iniziarono a bersagliare di dardi il nemico e una freccia lacerò la gola del sovrano norvegese, facendo precipitare parzialmente nel panico i Vichin-

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ghi. Sotto un’incessante pioggia di frecce, e sotto i colpi delle spade anglosassoni, i suoi huscarles non lo abbandonarono, ma, recuperato il cadavere, lo seppellirono direttamente sul campo, continuando a combattere.

La disfatta

La battaglia volgeva al termine, quando da Riccall giunsero gli ormai inutili rinforzi. Con l’approssimarsi delle tenebre, i Vichinghi sopravvissuti furono ricacciati dagli Anglosassoni, rimontati ora a cavallo, verso Riccall, dove tentarono di rimbarcarsi. Molti, impacciati nei movimenti, e tormentati dal nemico, morirono affogati o furono finiti da gruppi sparsi di huscarles anglosassoni inebriati dalla vittoria. Delle 300 navi attraccate una settimana prima a Riccall, solo 24 riuscirono a tornare in Norvegia. Con questa brillante vittoria, Aroldo pose fine alle invasioni dei Vichinghi sulle coste d’Inghilterra. L’esercito anglosassone, stanco della marcia e dopo aver subito

comunque alcune perdite, rientrò a York il 1° ottobre per festeggiare la vittoria. Ma nel corso dei festeggiamenti giunse da Londra un trafelato messaggero con notizie sconcertanti dal Sud: il 28 settembre era sbarcata a Pevensey un’armata composta da ben 11 000 cavalieri normanni, guidata da Guglielmo il Bastardo, giunto a reclamare il trono che Aroldo gli aveva promesso. Il re d’Inghilterra non si lasciò intimidire e, raccolte le truppe, ripercorse a ritroso rapidamente la via intrapresa pochi giorni prima, puntando verso Londra: l’obiettivo era impedire le razzie alle quali i Normanni avevano già cominciato ad abbandonarsi nel Sud-Est dell’isola. In cinque giorni il suo esercito giunse a Londra dove Aroldo fece rifocillare i soldati col proposito, nel frattempo, di convocare la General Fryd. Il sovrano fu però distolto da questo proposito dalle razzie di Guglielmo: mosse dunque verso Hastings con le sue truppe là dove lo attendeva impaziente il rivale, e dove si sarebbe compiuto il suo destino. F

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Dimmi dove abiti e ti dirò chi sei... di Maria Paola Zanoboni

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Nel Medioevo, in maniera non dissimile dai nostri giorni, l’architettura e l’urbanistica delle abitazioni rappresentavano una vera cartina di tornasole della composizione sociale delle comunità cittadine. Ma come funzionavano le dinamiche del mercato immobiliare? E come si configurava, tra l’età di Mezzo e il Rinascimento, l’immagine della città ideale?

Il paesaggio urbano senese con una casa in costruzione, particolare degli Effetti del Buongoverno in città e in campagna, affresco di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. Siena, Palazzo Pubblico.

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costume e società

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in dall’epoca medievale e rinascimentale il dare o il prendere in affitto un immobile poteva costituire una scelta politica, economica o sociale, a seconda delle circostanze. Indice di ascesa sociale poteva essere, per esempio, il passaggio progressivo, di locazione in locazione, dalle zone periferiche a quelle centrali della città, mentre dava garanzia di stabilità della residenza l’essere pigionante di un luogo pio o di enti pubblici che stipulavano contratti a termine molto piú lungo rispetto a quelli stipulati dai privati. A sua volta, la stabilità della residenza in una determinata città garantiva agli immigrati i privilegi di cui godevano i nativi del luogo. In altri casi l’acquisto di un alloggio si configurava come una scelta soprattutto politica, poiché affermava l’appartenenza di una famiglia a un determinato quartiere. A Siena, dove ancor oggi l’orgoglio di far parte di una determinata contrada è fortissimo, i maggiorenti di ciascuna di esse cercarono di costituire un patrimonio immobiliare il piú possibile concentrato intorno alla sede della contrada stessa, da affittare a persone con cui preesistessero dei legami, cosí da imprimere un’impronta anche fisica allo spazio urbano con cui si identificavano. Dal punto di vista economico la scelta di un’abitazione in una determinata zona poteva consentire l’instaurarsi di una serie di contatti indispensabili allo svolgiIn alto la città di Venezia in una mappa del navigatore e cartografo turco Piri Reis. 1525. Istanbul, Biblioteca Universitaria. A sinistra un altro particolare della città di Siena, con varie tipologie di edifici, nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti Effetti del Buongoverno in città e in campagna. 1338-1339. Siena, Palazzo Pubblico. Nella pagina accanto la città di Firenze in una replica della quattrocentesca Pianta della Catena.

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piú o meno legale) sete, fili d’oro, trame. Ciononostante, proprio i tessitori, a Venezia come nelle altre città italiane, godevano della fama di inquilini insolventi, in quanto assai spesso indebitati con i mercanti che procuravano loro le commissioni.

Una forma di investimento

mento di un’attività: i tessitori veneziani, per esempio, erano disposti a sborsare canoni d’affitto piú alti pur di abitare nel sestiere di Cannaregio, che trovandosi, tra l’altro, nelle immediate vicinanze delle sedi diplomatiche straniere – immuni dal pagamento delle gabelle –, si configurava come un’area della città esente da imposizioni fiscali. Nel Seicento e nel Settecento i tessitori veneziani consideravano ormai la zona loro roccaforte, tanto da occupare le strade, dando vita a veri e propri tumulti, ogniqualvolta gli ispettori dei mercanti osavano affacciarsi al quartiere da loro controllato. Riuscivano cosí a commerciare senza alcun controllo (e in modo

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L’acquisto di un immobile e la sua successiva locazione potevano rappresentare una forma di investimento, soprattutto nei periodi di espansione del mercato immobiliare. A Siena e a Livorno la loro redditività costituiva una forte spinta all’investimento, anche perché la grande diversificazione interna al mercato delle abitazioni (da singole stanze ad appartamenti, botteghe o interi palazzi), consentiva di modulare l’offerta in maniera particolareggiata, con una durata variabile delle locazioni che rifletteva la tipologia degli alloggi. In altri casi, per venire incontro alle necessità dei ceti piú umili, si accettava la corresponsione dell’affitto in prestazioni lavorative: l’ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova, per esempio, dava in locazione i propri immobili a dipendenti e fornitori in cambio della prestazione di servizi, e altrettanto facevano le contrade senesi con le loro proprietà. In questo modo, soprattutto in periodi di scarsità di manodopera e di aumento dei salari (come quello successivo alla pestilenza del 1348), i grandi enti assistenziali, che avevano sempre bisogno di una gran quantità di servizi e che settembre

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In questa pagina ritratto di Jakob Fugger il Ricco, fondatore del quartiere popolare che porta il nome della sua famiglia ad Augusta, in Germania, replica di un originale di Albrecht Dßrer. XVI sec. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie. Nella pagina accanto, in alto incisione cinquecentesca raffigurante il Fuggerei di Augusta. Nella pagina accanto, in basso la cucina di una casa del Fuggerei ricostruita nel Fuggereimuseum di Augusta, inaugurato nel 1957.

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A sinistra una delle strade del Fuggerei di Augusta, con le case disposte «a schiera».

In basso l’interno di una casa del quartiere Fuggerei ancora oggi abitata.

possedevano cospicui patrimoni immobiliari, riuscivano a pareggiare i conti senza subire emorragie di contanti per il pagamento degli stipendi. Talora venivano realizzate appositamente abitazioni da affittare a importi molto bassi per i meno abbienti: nel 1521 il celebre banchiere Jakob Fugger il Ricco (1459-1525) destinò una somma notevole alla costruzione ad Augusta di un quartiere (ancora oggi esistente e funzionante) per le famiglie bisognose: si tratta del piú antico complesso unitario di edilizia popolare costruito in Germania. Gli alloggi vennero assegnati dietro corresponsione di un canone simbolico, e mantenuti, ampliati e migliorati nel corso del tempo grazie alla disponibilità economica fornita dal considerevole patrimonio (campi, boschi, terreni vari), lasciato da Fugger.

Considerazioni antropometriche

La tipologia delle costruzioni, sul modello delle attuali «villette a schiera», richiama molti quartieri costruiti nel XX secolo, ed è forse questo uno dei motivi della sua fortuna. Considerazioni soprattutto antropometriche, rivolte a soddisfare le esigenze dei futuri inquilini, guidavano il disegno del progettista: alloggi non grandi (dai 30 ai 60 mq), ma dotati di ambienti sufficientemente spaziosi per poter ospitare telai o altri eventuali strumenti di lavoro. Alle abitazioni al piano terreno era annesso un piccolo giardino. Vennero persino adottati accorgimenti specifici e costosi, come la struttura portante interamente in mattoni, per scongiurare il pericolo degli incendi che cosí spesso devastavano le città

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costume e società la casa secondo il filarete

Per una città ideale Il Trattato di Architettura del Filarete (al secolo Antonio Averlino), scritto tra il 1458 e il 1464, dedicato a Francesco Sforza e a Piero figlio di Cosimo de’ Medici e ispirato in molti punti all’opera contemporanea di Leon Battista Alberti, descrive una città ideale, «Sforzinda», raffigurazione fantasiosa di Milano e frutto dell’idealizzazione di un’esperienza effettivamente vissuta. L’opera consiste in una dissertazione dialogata sui «modi di edificare», i tipi di edifici, le proporzioni e le misure; si sofferma a lungo anche sull’organizzazione del cantiere, sui materiali da costruzione e sul loro trasporto. La città viene presentata dall’architetto toscano come «un’opera d’arte», perfetta, non suscettibile di cambiamenti, ferma nel Pianta di «Sforzinda», la città ideale immaginata dal Filarete, da un’edizione del suo Trattato di Architettura. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.

medievali e rinascimentali, in cui il legno rappresentava uno dei principali materiali da costruzione. Ancora nell’ottica di una politica assistenziale, le corporazioni cittadine (l’Arte dei tessitori serici di Venezia, per esempio, a partire dall’inizio del Cinquecento), facevano talora costruire case da affittare ai propri aderenti bisognosi, anche se un’operazione immobiliare di questo tipo, per il suo costo, era piuttosto rara. L’assegnazione degli alloggi veniva deliberata dai vertici dell’Arte dei tessitori serici veneziani o dall’assemblea dei capomastri, a confratelli indigenti di età superiore ai 60 anni, o piú giovani ma completamente

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inabili al lavoro. La casa era data in godimento per tutta la vita e a titolo gratuito, per cui risultava assai difficile all’Arte sostenere le spese di manutenzione e di restauro. La rissosità degli inquilini rendeva poi la gestione ancora piú onerosa e problematica, sicché nel Settecento la grave crisi finanziaria della corporazione costrinse i tessitori a sbarazzarsi degli alloggi destinati ai piú poveri. Ancora piú delle corporazioni di mestiere, gli enti assistenziali noti come «confraternite» – espressione in genere degli interessi politico-economici dei maggiorenti – controllavano spesso il tessuto cittadino, grazie al gran numero di proprietà ricevute come lasciti, facendo aperta concorrenza alla grande proprietà privata nel controllo dello spazio urbano. Le due principali confraternite di Roma si trovarono proprietarie, tra la fine del Trecento e il primo Cinquecento, di almeno un centinaio di unità immobiliari, che affittavano, a seconsettembre

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tempo: scopo del trattato era infatti quello di migliorare l’architettura, anziché la realtà sociale urbana dell’epoca. Da qui l’esaltazione del progetto, del disegno «forma sensibile dell’idea, fondamento e via d’ogni arte che per mano si faccia», e soprattutto del disegno in scala di cui l’Averlino fu uno dei primi utilizzatori; da qui la polemica con gli architetti medievali, incapaci di concepire a priori un’opera compiuta, ma in grado soltanto di «mettere una pietra in calcina e imbrattarla di malta». Ciononostante, la città del Filarete rispondeva alle preoccupazioni fondamentali che caratterizzavano la problematica urbana del Rinascimento: igiene pubblica, sicurezza e pace sociale, difesa da attacchi esterni: proponeva

perciò uno schema urbanistico e architettonico dettagliato, anche se fantasioso, fornendo ampie indicazioni sulla pianta generale, sulle mura fortificate, sulla distribuzione delle piazze centrali e periferiche, sulle diverse tipologie edilizie, sull’organizzazione del cantiere e sul reperimento dei materiali da costruzione. La tipologia edilizia del Filarete è dominata da una concezione gerarchica che si riflette anche sul piano architettonico: i modelli abitativi variano a seconda del ceto sociale a cui sono destinati, con diversi gradi di sontuosità: al vertice la casa del signore, poi quella del nobile, quindi quella del mercante, infine quella dell’artigiano, mentre al «povero uomo» doveva bastare avere un tetto

da della tipologia e dell’ubicazione, sia agli ambasciatori e agli alti rappresentanti della gerarchia ecclesiastica, sia agli artigiani e ai professionisti immigrati, chiamati a prestare la loro opera nella costruzione e nella manutenzione degli edifici dell’Urbe. La rendita proveniente da questi beni veniva riutilizzata per l’esercizio di attività assistenziali e ospedaliere.

Clausole rigorose

A Firenze, il già citato ospedale di Santa Maria Nuova era sin dalla fine del Duecento uno dei maggiori proprietari immobiliari cittadini. Affittava edifici d’ogni tipo e dimensione, suddivisi in unità abitative di estensione variabile (da 1, a 3 o 4 stanze), alcune delle quali frazionate continuamente, al punto da rendere impossibile determinarne l’effettivo occupante. Lo stesso stabile poteva essere ceduto per intero, oppure suddiviso in unità piú piccole. Erano affitti a breve termine (da 6 mesi a 5 anni), oppure con scadenze lunghissime (livelli perpetui), con contratti registrati davanti al notaio e minuziosamente regolamentati: l’inquilino si impegnava, in particolare, a non subaffittare il bene, né parte di esso, senza specifico consenso del locatore. In caso di morosità protratta, l’ospedale interveniva facendo incarcerare gli inadempienti e sequestrando suppellettili e strumenti di lavoro. La scarcerazione avveniva previo versamento di

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sulla testa, senza pretese di altro tipo. La sua casa sarebbe stata costituita da un solo vano, di 35/50 mq, con una disposizione qualsiasi, purché economica e ben ripartita, date le dimensioni modeste dell’alloggio. Nobili e mercanti avrebbero invece occupato palazzi interi, dotati di piano terreno, primo piano e solaio, con superfici di 2700/3200 mq per piano, e forniti di cortili, stalle, orti, logge, porticati, fienili, e, nel caso dei mercanti, anche di ampi magazzini. In entrambe le tipologie abitative era previsto, al primo piano, un grande salone di 150/250 mq. Molto piú «modesta» la casa dell’artigiano, formata da un solo vano di circa 540 mq, al quale erano annessi una bottega con un magazzino di circa 35 mq.

un anticipo o la presentazione di un pegno, con successivo pagamento a rate del canone non versato. Il passaggio di un alloggio da un affittuario a un altro veniva promosso attraverso il passaparola tra coloro che esercitavano lo stesso mestiere, o tra i membri della stessa famiglia. Ad alcuni tra i migliori medici dell’ospedale veniva concessa gratuitamente la casa, integrazione notevole dello stipendio (pari al 30% circa). F

Da leggere Antonio Averlino detto il Filarete, Trattato di architettura, a cura di Anna Maria Finoli e Liliana Grassi, Edizioni il Polifilo, Milano 1972 Emilio Montessori, Il quartiere Fuggerei ad Augsburg, in «Parametro», n. 167, luglio/agosto 1988; pp.70-74 Eleonora Saita, Case e mercato immobiliare a Milano in età visconteo-sforzesca (secoli XIV-XV), Milano, CUEMCooperativa Universitaria Editrice Milanese, 1997 Filippo Benfante e Aurora Savelli (a cura di), Proprietari e inquilini, in «Quaderni Storici», n. 113, agosto 2003; pp. 345-362 Silvia Dionisi, Proprietà immobiliare e rendita urbana nella Roma del primo Rinascimento, in «Schifanoia», n. 26-27 (2004); pp. 139-146

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presenta

IL DOMINIO SUL MARE L’atteggiamento dell’uomo nei confronti del mare è sempre stato caratterizzato da un duplice sentimento: la paura dell’ignoto e il desiderio di scoprire cosa ci fosse al di là dell’orizzonte. Come racconta Antonio Musarra nel nuovo Dossier di «Medioevo», l’età di Mezzo non fa eccezione e nei suoi dieci secoli la storia della marineria si è dipanata lungo gli stessi binari. In ogni caso, la volontà di conoscenza e, occorre dirlo, di arricchimento hanno avuto la meglio, ponendo le basi per uno sviluppo formidabile. La marineria medievale fa proprie le conoscenze del passato, ma le arricchisce e sperimenta con successo nuovi tipi di imbarcazioni, che vengono dotate di strumenti di navigazione sempre piú affidabili. Parallelamente, nascono vere e proprie città del mare, nelle quali, oltre ai porti, si sviluppano cantieri di dimensioni mai viste prima. Una autentica rivoluzione, raccontata in ogni suo aspetto, con il tradizionale supporto di un corredo iconografico ricco e originale.

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testi di Sergio Ferdinandi, Christian Grasso, Filippo Sedda, Giuseppe Ligato e Giuseppe Buffon

Gerusalemme. Un gruppo di frati francescani ritratti in una fotografia degli inizi del Novecento.

FRANCESCANI IN TERRA SANTA

Una storia lunga 800 anni

La presenza dei custodes terrae sanctae nei luoghi della vita terrena di Gesú risale al 1217. Secondo una tradizione consolidata, infatti, i primi frati arrivarono nel porto crociato di Acri guidati da Elia di Cortona. Due anni piú tardi, nel 1219, sarà lo stesso san Francesco a recarsi nel Levante come pellegrino e missionario. Sono gli anni della quinta Crociata…


Dossier LA TERRA SANTA ALL’ARRIVO DEI FRATI MINORI di Sergio Ferdinandi

L L’

arrivo dei francescani in Terra Santa si colloca negli anni 1215-1217. Dopo un primo pellegrinaggio di frate Egidio, nell’autunno del 1217, insieme ad alcuni compagni, sbarcava a San Giovanni d’Acri frate Elia, primo ministro dell’appena istituita provincia Terrae Sanctae, nominato su indicazione di Francesco nel Capitolo generale celebrato a Santa Maria della Porziuncola il 14 maggio 1217. In quei mesi San Giovanni d’Acri, assurta a capitale del Regno latino di Gerusalemme, era probabilmente il porto piú trafficato del mondo, un vero e proprio crocevia di genti. Contingenti armati e pellegrini in provenienza soprattutto da Brindisi e Messina, sbarcavano in continuazione per prendere parte alla quinta Crociata proclamata da Innocenzo III. La città, sede delle istituzioni laiche ed ecclesiastiche, era sovraffollata e fuori dalle mura gli acquartieramenti dei crociati di varie nazionalità si estendevano a perdita d’occhio fino a Haifa distante alcuni chilometri. Tra gli innumerevoli pellegrini e i numerosissimi ecclesiastici che arrivarono in quelle settimane, Giacomo di Vitry fornisce il quadro di una città dai costumi fortemente corrotti mentre, con riferimento al territorio circostante, si esprime in questi termini: «Per timore dei saraceni non ho ancora visitato i Luoghi Santi; in qualche maniera mi trovavo nella situazione di un uomo che non ha ancora bevuto, pur avendo acqua fino al mento». Situazione complessa condivisa anche da frate Elia e dai suoi compagni.

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Qui accanto particolare di un affresco nella lunetta della chiesa inferiore raffigurante Innocenzo III. XIII sec. Subiaco (Roma), monastero di S. BenedettoSacro Speco. In basso ritratto di Saladino, olio su tavola di Cristofano dell’Altissimo. 1552-68. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Ma come si era arrivati a bandire la quinta Crociata che avrebbe rappresentato l’ultimo tentativo della Chiesa romana di organizzare una grande spedizione per la liberazione dei Luoghi Santi?

Un imperativo per la cristianità

Per cercare di comprendere il contesto geopolitico trovato in Oriente da frate Elia e l’opera di san Francesco a Damietta è necessario fare un passo indietro, agli inizi del XIII secolo: l’imperativo per la cristianità occidentale rimaneva la riconquista di Gerusalemme presa da Salah al-Din (Saladino) il 2 ottobre 1187, alcune settimane dopo la catastrofe di Karn Hattin (i Corni di Hattin), che aveva comportato la distruzione pressoché integrale del potenziale militare crociato con l’immensa perdita della Vera Croce e la caduta della quasi totalità delle piazzeforti del Regno.

A destra miniatura raffigurante la perdita della Santa Croce durante la riconquista di Gerusalemme da parte di Saladino nel 1187, da Le Miroir Historial di Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé.


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Dossier È l’epoca della terza Crociata (1189-1192) proclamata il 29 ottobre 1187 da Gregorio VIII con la bolla Audita tremendi, che nonostante le aspettative e pur garantendo la continuità della presenza franca nel Levante, non riuscí a ristabilire i confini del Regno entro i limiti precedenti. Con il Trattato di Giaffa stipulato tra Riccardo I e Salah al-Din, i crociati riacquistano il possesso di quasi tutta la stretta striscia litoranea compresa tra Giaffa e Tiro, cui si aggiunse Cipro sottratta all’Impero bizantino e affidata alla dinastia Lusignano. Si tratta di una fascia ampia mediamente una ventina di

chilometri ed estesa, lungo l’asse nord-sud, circa centocinquanta. Piú a nord sopravvivono le enclave della Contea di Tripoli e del Principato di Antiochia che conservavano le rispettive capitali e diverse piazzeforti, prevalentemente costiere. Il disastro di Hattin aveva avuto sensibili ripercussioni su ambiti molto vasti; limitandoci a pochissime considerazioni, basti segnalare le perdite territoriali sul piano istituzionale dove la monarchia si vide nella necessità di concedere in misura crescente i cosiddetti fiefs de besant, ovvero prevalentemente rendite a valere soprattutto sui proventi dei

traffici commerciali delle città portuali il cui giro d’affari era cresciuto esponenzialmente nel primo quarto del XIII secolo. Notevolmente ridotta anche la produzione agricola e l’allevamento, nonché gli straordinari introiti derivanti dal pellegrinaggio ai Luoghi Santi cristiani e ai luoghi del pellegrinaggio musulmano verso La Mecca e Medina, che i Franchi controllavano in parte dalle piazzeforti dell’Oltregiordano. Con riferimento agli anni 11921217, lo storico Joshua Prawer coniò per i Latini d’Oriente, noti anche come poulains/pullani, il termine «Generazione dell’attesa» laddove essi furono spettatori passivi di ben tre crociate: quella dell’imperatore Enrico VI (1195-1196), la Quarta (1204) e quella contro gli Albigesi (1209-1229). In questi anni piú che dall’Occidente la sopravvivenza del ReA sinistra una veduta dei Corni di Hattin, le due cime prospicienti il lago di Tiberiade, presso le quali, il 4 luglio 1187, si svolse l’omonima battaglia che vide le truppe islamiche comandate da Saladino avere la meglio sull’esercito crociato.

LE DATE DA RICORDARE 1096-1099 I crociata in Siria-Palestina. Vi partecipano quattro eserciti: Goffredo di Buglione comanda i Lotaringi; Roberto, duca di Normandia, e Roberto, conte di Fiandra, conducono i cavalieri della Francia settentrionale; Raimondo, marchese di Provenza, guida i cavalieri della Francia meridionale; Boemondo d’Altavilla è alla testa dei Normanni venuti dall’Italia meridionale. 1098, giugno I crociati conquistano Antiochia, della quale si appropria Boemondo d’Altavilla. 1099, 10 luglio El Cid Campeador muore a Valencia. 1099, 15 luglio I crociati conquistano Gerusalemme. 1100 Baldovino di Boulogne diviene il primo sovrano del regno «franco» di Gerusalemme. 1102 Gli Almoravidi occupano Valencia.

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1128 Concilio di Troyes: la Fraternitas dei pauperes milites Templi salomonici trasformata in militia (Ordine religioso-cavalleresco). 1145-1146 Papa Eugenio III emana, in due redazioni (1° dicembre 1145 e 1° marzo 1146), la Quantum praedecessores, prima bolla pontificia che regoli il movimento crociato. 1147, ottobre I crociati prendono Almeria e poi Lisbona. 1148-1152 II crociata in Siria-Palestina. Vi confluiscono la crociata tedesca, guidata da Corrado III, e quella francese, al seguito di Luigi VII e della moglie Eleonora d’Aquitania. 1157 Gli Almohadi riconquistano Almeria. 1177, Le truppe cristiane guidate da Baldovino 25 novembre IV di Gerusalemme sconfiggono settembre

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MARE DEL NORD

Crociate contro i Catari Crociate contro i Valdesi

Königsberg

Parigi Tours

Verdun

Würtzburg

Metz Vézelay Chambéry

Lione

Genova

Tolosa Madrid

Cracovia

Buda

Quinta crociata

Seconda crociata

Sesta crociata

Terza crociata

Settima crociata

Quarta crociata

Ottava crociata

Messina

Siracusa

MA

RM

Tripoli

ED

ITE

RR

AN

EO

l’armata di Saladino nella battaglia di Montgisard. 1187 Vittoria saracena a Hattin; Saladino conquista Gerusalemme. Papa Gregorio VIII promulga l’enciclica Audita tremendi. 1187-1192 III crociata. Vi partecipano l’imperatore tedesco Federico I Barbarossa, il re di Francia Filippo Augusto e il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. 1195, 19 luglio Gli Almohadi battono i Castigliani ad Alarcos. 1202-1204 IV crociata, detta «dei baroni», riuniti sotto il comando del marchese Bonifacio di Monferrato; si conclude con la conquista di Costantinopoli e la fondazione dell’impero latino. 1209 Innocenzo III bandisce la crociata contro gli eretici catari detti «Albigesi». 1210 Predicazione di una nuova crociata nella Penisola iberica, causata dalla conquista almohade di Salvatierra. 1212 «Crociata dei fanciulli» (o «degli innocenti»). 1212, 17 luglio Le truppe cristiane franco-ispanoportoghesi riportano una grande vittoria nella battaglia di Las Navas de Tolosa. 1217-1221 V crociata, organizzata da Andrea II

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Sofia

Trebisonda

Costantinopoli Nicea Cesarea Pergamo Konya Edessa Sardi Atene Tarso Aleppo Antalya Antiochia Rodi Nicosia Candia Tripoli Damasco Acri Gerusalemme Damietta Alessandria

Durazzo

Brindisi

Palermo

Prima crociata

MAR NERO

Spalato

Napoli

Tunisi

Belgrado

Zara

Roma

Algeri

Pest

Venezia

Aigues Marsiglia Pisa Morte

Granada

Kiev

Ratisbona Vienna

Lisbona

Reconquista spagnola

Londra

OCEANO ATLANTICO

Il Cairo

re d’Ungheria e da Leopoldo VI duca d’Austria. Incontro tra Francesco d’Assisi e al-Malik al-Kamil, sultano d’Egitto. 1228-1229 VI crociata (di Federico II); Gerusalemme è recuperata grazie a un accordo con il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. 1229-1231 Crociata aragonese contro le Baleari. 1232-1253 Crociata aragonese contro l’emirato di Valencia. 1244 Rogo degli ultimi difensori catari di Montségur; le milizie nomadi kwarizmiane occupano Gerusalemme. 1248-1254 VII crociata (prima crociata di Luigi IX): spedizione in Egitto del re di Francia. 1258 I Mongoli conquistano Baghdad; fine del califfato abbaside. 1267 Completata la conquista cristiana del Portogallo. 1270 VIII crociata (seconda crociata di Luigi IX, che muore durante l’assedio di Tunisi). 1291 Caduta di Acri. 1300 Giubileo proclamato da Bonifacio VIII.

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Dossier A sinistra Acri. Le mura di fortificazione. Nella pagina accanto Guglielmo di Clermont difende le mura di Tolemaide. 1291, olio su tela di Dominique Papety, 1845. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Tolemaide è un altro nome per San Giovanni d’Acri, nota anche come Acri o Akko.

gno di Gerusalemme fu assicurata soprattutto dalla temporanea disgregazione dell’Impero ayyubide seguito alla scomparsa di Salah al-Din il 3 marzo 1193. Le lotte che si innescarono in ambito musulmano per la successione al grande sultano tra i figli e famigliari si conclusero solamente nel 1200 con l’affermazione del fratello al-Malik al-’Adil, che ricostruí a suo vantaggio l’unità dei domini ayyubidi. Enrico di Champagne, Amalrico II e Giovanni di Brienne, che si succedettero tra il 1192 e il 1227 alla guida del Regno, legittimati sotto il profilo dinastico dall’unione con l’ereditiera Isabella di Gerusalemme, compresero ben presto come occorresse gestire le relazioni con i musulmani attraverso un modus vivendi, evitando, in attesa dell’arrivo di effettivi rinforzi dall’Occidente, ogni possibile elemento di frizione. Per i monarchi gerosolimitani non meno impegnativa era peraltro la gestione interna, dove la monarchia appariva sempre piú debole nei confronti dell’alta nobiltà, del clero, degli Ordini militari e della crescente forza commerciale delle potenze marinare italiche. A ciò si sommava, in alcuni periodi, anche la rivalità con

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Cipro elevata da Enrico VI a regno autonomo nel 1197. In questo contesto di instabilità interna caratterizzante entrambi gli schieramenti, salvo qualche limitata fase di belligeranza, si succedettero diverse tregue che portarono a contenute modificazioni territoriali rispetto a quanto concordato nel Trattato di Giaffa. Si tratta di un periodo caratterizzato da profondi mutamenti per gli Stati latini d’Oriente, in particolare per questo secondo Regno, che durerà fino alla caduta di San Giovanni d’Acri nel 1291. A partire dagli inizi del XIII secolo si assiste a una vera e propria corsa al miglioramento tecnico dell’architettura militare conseguente anche ai progressi della poliorcetica. Il concetto di difesa muta radicalmente verso una piú articolata difesa passiva concentrata soprattutto sul controllo degli assi di collegamento con l’area costiera.

Castelli per i cavalieri

A fronte della sostanziale fragilità della monarchia, saranno gli Ordini militari, Templari, Ospedalieri e, dal 1197, i Teutonici, che assumeranno il ruolo di principali committenti delle

fortezze. Le armate ayyubidi si accanirono con particolare fanatismo contro i monumenti dell’architettura religiosa realizzati nel corso del XII secolo sui luoghi delle memorie bibliche con straordinaria prolificità attraverso l’impiego dei canoni dell’arte romanica (solo nel Regno di Gerusalemme sono state catalogate ben 400 chiese edificate o restaurate a fundamentis). Laddove possibile l’azione di ricostruzione, si assisterà all’introduzione dell’arte gotica coniugata a caratteri propri della tradizione architettonica orientale. Mentre l’Europa era pervasa da una rinascita religiosa e da una profonda tensione messianica che avrebbe portato alla fondazione degli Ordini mendicanti, nonché al formarsi di movimenti eretici e correnti mistico-apocalittiche, nell’agosto 1198 Innocenzo III, da pochi mesi innalzato al soglio pontificio, lanciava l’appello per la quarta Crociata. Fatta eccezione per poche truppe sbarcate in Palestina, questa crociata venne dirottata dai Veneziani su Costantinopoli, che per la prima volta venne conquistata e saccheggiata. Cadeva per mano degli stessi cristiani il baluardo che per secoli aveva bloccato l’espansettembre

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Dossier sione musulmana verso l’Europa. Il bottino della conquista fu colossale e distribuito in tutto l’Occidente. La creazione dell’Impero latino di Costantinopoli, aprendo un nuovo fronte per la cristianità, rappresentò un notevole danno per la Terra Santa dirottando ingenti risorse finanziarie e umane verso i Balcani e l’Egeo. Fortunatamente in Palestina una serie di trattati intervenuti tra al-’Adil e i crociati garantirono una certa stabilità. La grave minaccia che l’arrivo della quarta Crociata aveva fatto gravare sull’Oriente musulmano e il pericolo di ulteriori spedizioni oc-

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cidentali avevano indotto al-’Adil a stipulare nel settembre 1204 una tregua della durata di sei anni che offriva ampi vantaggi ai latini sia sotto il profilo territoriale che del pellegrinaggio, in particolare con la riapertura dei viaggi devozionali a Gerusalemme e a Nazaret.

Una fortezza sul Tabor

Al-’Adil approfittò della tregua per varare un articolato programma di fortificazioni a protezione dei domini damasceni, in particolare lungo la frontiera con i Franchi. L’intervento piú straordinario è rappresentato dalla costruzione, a partire dal

Qui accanto i resti della fortezza di Kerak, costruita nei primi decenni del XII sec. lungo la via che da Damasco portava in Egitto e alla Mecca. Sulle due pagine e nella pagina accanto i resti del castello di Belvoir, situato a sud del Mar di Galilea, in posizione dominante sulla valle del Giordano.

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Sultanato di Rum

Contea di Edessa (1098-1146)

Piccola Armenia (1138-1375)

Edessa

Adana Antiochia

Atabeg di Mosul

Aleppo

Principato Regno di Antiochia di Aleppo

Eufrate

(1098-1268)

Regno di Cipro (1192-1489)

Or

Famagosta

Contea di Tripoli (1102-1146)

Nicosia

on

te

Palmira Krak dei Cavalieri Homs

Tripoli Beirut Tiro Montfort

Damasco

Le Chastellet o

Acri Chastel Pélerin Cesarea Giaffa Ascalona

Damietta

Beaufort

Giordan

Mar Mediterraneo

Belvoir

Amman Gerusalemme

Regno di Kerak Gerusalemme (1099-1187)

Califfato fatimide di Egitto (968-1171)

Golfo di Suez

DESERTO DI SIRIA

Ajlun

Gaza

El Mansûra Il Cairo

Regno di Damasco

Stati latini d’Oriente Regno di Gerusalemme Contea di Tripoli

Shawbak Petra

SINAI

‘Aqaba

Mar Rosso

Principato di Antiochia Contea di Edessa Principali fortezze crociate Principali fortezze musulmane

Qui sopra carta che illustra gli Stati latini d’Oriente. I principati latini, nati dopo le conquiste della prima Crociata (1096-1099), furono presto costretti a fronteggiare la controffensiva islamica.

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Dossier 22 maggio 1211, di una imponente fortezza sul Monte Tabor. Sul monte, identificato a partire dal II secolo d.C. come il luogo dell’episodio della Trasfigurazione di Gesú Cristo (Mt 17,1-8; Mc 9,2-8; Lc 9,28-36), erano attestate, forse già a partire dall’età costantiniana e fino al 1187, edifici cultuali e monastici. La nuova fortezza, oltre a fornire una straordinaria base operativa situata proprio a ridosso della frontiera franca, assicurava agli ayyubidi il dominio della viabilità della valle di Esdrelon e piú in generale della rete viaria della Galilea controllando inoltre, seppur a distanza, il traffico crociato della baia di San Giovanni d’Acri. Quanto diffusa fosse la minaccia rappresentata dalla nuova fabbrica del Tabor traspare dalla produzione epistolare di Innocenzo III che si rivolse in questi termini ai principi della cristianità: «Certo questi stessi saraceni stanno costruendo a confusione del nome cristiano una fortezza sul Tabor (...) Essi sperano che grazie a questa fortezza potranno impossessarsi di Acri,

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che è nel vicinato, per poi impadronirsi senza ostacolo del resto della Terra Santa, quasi destituita di forze e sussidi».

L’appello di Innocenzo

Dopo il fallimento della quarta Crociata, Innocenzo III non rimase indifferente alle attese dei Latini d’Oriente e il 13 aprile 1213 annunciò la convocazione di un concilio ecumenico, il IV Lateranense e l’allestimento di una nuova crociata. I maggiori predicatori della Chiesa vennero inviati in tutta Europa per rappresentare il valore spirituale della crociata. Per non ripetere gli errori commessi nelle spedizioni degli anni 1188-1204, le modalità di organizzazione furono puntualmente definite nel corso del Concilio apertosi l’11 novembre 1215 nel palazzo del Laterano, mentre la partenza dell’armata crociata viene fissata al primo giugno 1217. Nello stesso anno del Concilio, il 25 luglio ad Aquisgrana il giovane imperatore Federico II prendeva la croce pur raggiungendo la Terra Santa solamente nel 1229. Le fonti forniscono scarne infor-

mazioni sulle prime iniziative intraprese da frate Elia e dai suoi confratelli, tuttavia la già limitata libertà di movimento al di fuori delle basi franche dovette peggiorare sensibilmente nella primavera del 1218, quando iniziarono le prime operazioni militari ascrivibili alla quinta Crociata, che tuttavia si limitarono ad alcune offensive in territorio nemico dove i musulmani, in inferiorità numerica, non ingaggiavano combattimento limitandosi a fare terra bruciata. Il primo attacco venne diretto nella valle del Giordano, verso Bethsan; il secondo prese di mira la fortezza ayyubide del Tabor; il terzo infine venne indirizzato verso la piazzaforte di Beaufort e la valle del Litani. Il sostanziale insuccesso di queste azioni, in particolare quella contro il Tabor, indusse i crociati dapprima a ripristinare le difese di Cesarea e Castellum Peregrinorum, quindi, nella primavera del 1218, ad accogliere la proposta di Giovanni di Brienne di riprendere il vecchio progetto di attaccare il Cai-

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ro, la «Babilonia» dei crociati, centro del potere degli Ayyubidi. Sul fronte musulmano, nonostante la vittoriosa resistenza del Tabor, al-’Adil poco prima di morire ordinò la demolizione della fortezza congiuntamente a quella di altre piazzeforti dell’area per evitare di concedere ulteriori punti di appoggio ai Franchi. Oltre alle fortificazioni del Monte Tabor, furono smantellate anche quelle di Qal’at Hunin, Baniyas, Tibnin, Safed e Belvoir. In fondo, il primo obbiettivo della crociata era stato raggiunto: il Tabor non rappresentava piú una minaccia per la cristianità. Qualche mese dopo, ebbe particolare eco la decisione di abbattere la cinta muraria e le torri di Gerusalemme. Solamente la Torre di David venne preservata da questa campagna di demolizione. Mentre il governo ayyubide applicava la strategia della terra bruciata, alla fine di maggio 1218 le marinerie occidentali, in particolare quelle italiche che da decenni dominavano il Mediterraneo, cominciarono a sbarcare le trup-

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pe crociate nei pressi di Damietta. Dopo aver faticosamente conquistato la possente torre della catena che difendeva l’ingresso del Nilo, i crociati iniziavano il lungo assedio di Damietta, «chiave dell’Egitto» (maggio 1218-novembre 1219).

Effetti catastrofici

La caduta di Damietta ebbe effetti catastrofici sul mondo islamico già permeato da fattori escatologici e minacciato da oriente dalle prime avanguardie mongole. In evidente difficoltà militare gli Ayyubidi aprirono la via al negoziato. In cambio di Damietta e della messa in sicurezza del delta del Nilo, al-Kamil manifestò a piú riprese la disponibilità alla retrocessione della Terra Santa entro i limiti precedenti alle conquiste di Salah al-Din, fatta eccezione per l’Oltregiordano con le fortezze di Kerak e Shawbak, per le quali si proponeva comunque il pagamento di un tributo. L’occasione di concludere favorevolmente il negoziato non poté essere colta a causa dei gravi dissensi in-

Israele, Galilea. La valle di Jezreel con il Monte Tabor sullo sfondo.

terni e dell’intransigenza del legato pontificio Pelagio, convinto di poter assestare un colpo decisivo all’Islam con l’arrivo di ulteriori rinforzi da occidente, in particolare di Federico II, che le profezie vaticinavano come il «Conquistatore di Damasco», e da oriente, dal Regno cristiano di Georgia e dagli eserciti condotti dal leggendario Prete Gianni. È nell’estate del 1219, durante il terribile assedio di Damietta, che si colloca l’arrivo di Francesco di Assisi e l’incontro con il sultano al-Malik al-Kamil. Dopo il drammatico fallimento militare della quinta Crociata, lo straordinario successo di Francesco nelle «terre dei non cristiani», che riesce a creare un solido nesso tra l’azione missionaria e il concetto di crociata, prodromico alla successiva presenza dei Frati Minori in Terra Santa, resta certamente tra i risultati piú significativi e durevoli dei due secoli di storia delle spedizioni cristiane d’Oltremare.

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GIACOMO DI VITRY UNO SGUARDO A ORIENTE di Christian Grasso

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n profondo sentimento di smarrimento aveva colto Giacomo di Vitry allorquando, sul finire del 1216, entrò per la prima volta a San Giovanni d’Acri. Questo colto ecclesiastico, formatosi all’università di Parigi, davvero non si aspettava di doversi confrontare con una città tanto complessa qual era Acri. Una città che, seppure sotto il dominio dei crociati che l’avevano eletta a propria capitale in Terra Santa dopo la riconquista islamica di Gerusalemme (1187), ospitava comunità molto diverse per fede, costumi e tradizioni. Giacomo di Vitry era però motivato a dare seguito alla missione che gli aveva personalmente affidato papa Onorio III prima della sua partenza verso Oriente, e cioè agire in qualità di nuovo vescovo di Acri come pastore di anime e come predicatore. Giacomo di Vitry era stato scelto dal papa per tale missione perché erano da tutti riconosciute le sue capacità persuasive e la sua determinazione a sperimentare nuove modalità

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nell’annuncio evangelico. Ma come fare in un contesto cosí singolare come quello della Terra Santa? Questa era la sfida che attendeva Giacomo di Vitry. La sua prima risposta fu di mettere per iscritto le proprie impressioni sulla realtà orientale informandone per lettera Onorio III e i suoi colleghi teologi dell’università parigina. L’epistolario di Giacomo di Vitry si rivela cosí come una testimonianza storica di particolare significato. È, infatti, attraverso gli occhi e le parole di questo prelato, destinato a divenire nel 1229 cardinale, che gli storici possono oggi ricostruire il complesso contesto dell’epoca e intuire le implicazioni e conseguenze che la sua missione ha avuto, specie nei rapporti tra il mondo occidentale e quello orientale.

La predicazione

Una lettera si rivela in tal senso particolarmente importante. Giacomo la redasse durante la primavera del 1217, pochi mesi dopo essere sbarcato ad Acri dopo un lungo e tormentato viaggio via mare iniziato a Genova. Da questo testo traspare

l’impegno dell’autore nell’attività di predicazione. È predicando che il nuovo vescovo di Acri prende contatto non soltanto con i fedeli di rito latino, come crociati e mercanti italiani, ma anche con i cristiani di rito orientale. Il primo contatto è talmente forte da indurre Giacomo di Vitry a intraprendere subito un lungo tour di predicazione durante il quale matura una piú chiara consapevolezza delle differenze, non soltanto religiose, che caratterizzano i cristiani in Siria e in Palestina. Avvalendosi dell’aiuto di interpreti che conoscono il greco, il latino e l’arabo, il vescovo predicatore si rivolge alle diverse comunità locali, delle volte organizzando veri e propri meeting in spazi pubblici durante i quali invita ad aderire alla retta fede di cui la Chiesa latina è depositaria. Ciò gli offre la possibilità di intuire le differenze tra cristiani giacobiti e nestoriani (di cui ha modo di evidenziare le rispettive peculiarità dogmatiche) e poi tra maroniti e armeni (con i quali le consonanze gli sembrano essere piú evidenti). Nello stesso tempo, inizia una piú audace opera di predicaziosettembre

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ne lungo i confini che separano i domini crociati da quelli musulmani. Ed è proprio questa esperienza a far maturare in lui la convinzione che sia in prospettiva possibile, approfittando delle divisioni interne al mondo islamico, convertire i musulmani. Giacomo di Vitry evidenzia nella sua lettera questa possibilità e invita i suoi corrispondenti occidentali a considerare la necessità di rivolgere con maggiore decisione il proprio sguardo verso Oriente. Un Oriente magari all’apparenza difficile da comprendere ma dietro il quale si nasconde un mondo da scoprire e da evangelizzare. Sconfiggere l’eterno avversario islamico e porre le premesse per una vasta opera di conversione sono i temi centrali dell’epistola del vescovo di Acri che vi insiste perché intuisce che questi temi possono essere funzionali alla promozione di quella grande spedizione militare,

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Acri (Israele). Uno scorcio della cinta muraria medievale che fortificava la cittadina, un tempo roccaforte degli Ospitalieri.

Medaglia commemorativa in bronzo con l’effigie di Giacomo de Vitry. 1515.

la cosiddetta quinta Crociata, che il papato stava proprio allora sostenendo con un dispiego senza precedenti di risorse e di energie. Ciò spiega perché tra i corrispondenti di Giacomo di Vitry vi sia Onorio III. Questo pontefice, che una fortunata ma infondata tradizione storiografica ha presentato come un personaggio di modesto spessore, è stato in realtà protagonista del rinnovamento nel governo della Chiesa fondato sulla valorizzazione della predicazione e sul sostegno garantito a chi ambiva a dedicarvisi in modo speciale. Uno dei suoi primi atti dopo l’elezione papale, avvenuta il 18 luglio del 1216, era stata per l’appunto la consacrazione episcopale di Giacomo di Vitry. Onorio III aveva partecipato come cardinale al IV concilio Lateranense presieduto nel 1215 dal suo predecessore Innocenzo III. Da questa assise, che a ragione si può considerare come il piú

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Dossier Sulle due pagine Acri (Israele). Ancora una veduta, a volo d’uccello, delle fortificazioni che racchiudono l’antico centro storico della città.

importante concilio della Chiesa medievale, Onorio III aveva ereditato una convinzione, e cioè che la riforma ecclesiastica doveva necessariamente essere legata al progetto di liberazione della Terra Santa dalla presenza islamica. Riforma della Chiesa e recupero della Terra Santa divennero perciò da allora i due princípi ispiratori nella politica

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del papato. E ciò si tradusse prima di tutto nell’organizzazione della quinta Crociata ai cui preparativi Onorio III si dedicò fin dai primi mesi del suo pontificato.

Le lettere del papa

I primi contingenti crociati cominciarono ad arrivare ad Acri già nel corso del 1217 accolti dal vescovo Giacomo di Vitry. E subito iniziarono le discussioni tra i comandanti militari su quale strategia adottare. Onorio III, grazie ai suoi corrispondenti, riuscí a far sentire la propria

voce, convalidando le decisioni che venivano prese e diffondendole poi in Occidente tramite proprie lettere. In una di queste, redatta il 24 novembre 1217, il papa annunciò che, come riferitogli dai fidati cavalieri templari, i crociati avevano deciso di indirizzare l’attacco sul centro nevralgico dell’Islam, e cioè il sultanato d’Egitto. Era colpendo i musulmani nel cuore del proprio potere politico ed economico che si poteva poi liberare Gerusalemme. Onorio III invitava allora clero e fedeli in Occidente a unirsi in preghiera e a

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promuovere celebrazioni penitenziali al fine di ottenere il perdono e il favore divino e raggiungere la vittoria finale. In tal modo, il papa riprendeva uno dei piú consolidati temi della predicazione crociata, che si era sviluppata sulla base dell’idea che il dominio islamico sulla Città Santa fosse una conseguenza dei peccati dei cristiani. Di qui la necessità di una preventiva conversione ed espiazione ritenuti come pregiudiziali al successo della spedizione militare. Gli stessi crociati, del resto, avevano inaugurato la loro impresa

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il 3 novembre 1217 con una grande processione penitenziale ad Acri. Combattenti e prelati si erano cosí ritrovati dietro la reliquia della Vera Croce e avevano dato inizio al cammino che li avrebbe portati ad assediare la città egiziana di Damietta.

Una diversa sensibilità religiosa

Questo è, dunque, il contesto nel quale matura a partire del 1217 la quinta Crociata. Una spedizione attorno alla quale si è di fatto definita la politica orientale della Sede

Apostolica, e ciò almeno fino al suo fallimentare epilogo, sanzionato nel 1221 da un umiliante rientro a casa di tutti i partecipanti. Tuttavia è proprio durante la quinta Crociata che matura, almeno da parte cristiana, una diversa sensibilità religiosa e un nuovo, per quanto per certi aspetti ancora contraddittorio, modo di rapportarsi all’Oriente islamico. La quinta Crociata, inaugurata con la processione di Acri del 1217, è stata, infatti, un’impresa dal carattere piuttosto singolare. Certamente azione militare ma an-

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Dossier che esperienza caratterizzata da un forte afflato religioso-penitenziale e da un deciso protagonismo della gerarchia ecclesiastica. È sempre Giacomo di Vitry, che seguí le truppe a Damietta, a farsi testimone nelle sue lettere del ruolo ricoperto anche durante le operazioni militari dai delegati papali, e in particolare dal cardinale spagnolo Pelagio d’Albano. Questo prelato, che fu tra i piú influenti membri del collegio cardinalizio dell’epoca, mise i propri talenti oratori e organizzativi a disposizione della crociata nel tentativo non soltanto di controllarne gli sviluppi ma anche di indirizzarne e modellarne le aspettative in senso marcatamente religioso. Ai suoi occhi la crociata era un pellegrinaggio in armi e come tale andava vissuto.

A destra altare portatile in marmo e rame dorato di Giacomo di Vitry. Prima metà del XIII sec. Namur, Musée provincial des arts anciens du Namurois. In basso mitra in pergamena e seta. Prima metà del XIII sec. Namur, Musée provincial des arts anciens du Namurois.

Nuovi messaggi ed esperienze

ne e di elaborazione di nuovi messaggi ed esperienze. Ciò che allora a partire dall’anno 1217 inizia non è nient’altro che quel lungo processo di «invenzione della missione» da parte dell’Occidente latino. Una missione che veniva allora pensata in stretta relazione con la crociata. Il rinnovato slancio missionario della cristianità dell’epoca nasce e si sviluppa

Aspirazioni missionarie, attese escatologiche, desiderio di vittoria militare si fondevano cosí in un singolare insieme all’apparenza poco coerente ma in realtà foriero di ulteriori sviluppi. La Damietta dei crociati diveniva in tale contesto un luogo, per cosí dire, di sperimentazio-

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proprio sulla base di questo rapporto tra crociata e missione. Non è, in fondo, casuale che a Damietta sia giunto nel pieno della quinta Crociata un pellegrino come Francesco d’Assisi (1219). E non è ancora casuale che Francesco, prima dell’incontro con il sultano al-Malik al-Kamil, abbia ritenuto opportuno chiedere al cardinale Pelagio d’Albano il permesso di andare a predicare ai musulmani. E non è, infine, casuale che Francesco godesse del sostegno proprio di Onorio III che nel 1223 approvò la regola di vita del nuovo Ordine dei Frati Minori. Tutti questi episodi acquistano il loro pieno significato storico se inseriti nel contesto di quella spedizione inaugurata nel 1217 e di cui Giacomo di Vitry intuí da subito il carattere eccezionale. Qualcosa di nuovo stava allora nascendo. Chi, come il vescovo di Acri, aveva familiarità con la pratica della predicazione, ne ebbe subito certezza. Da allora la diffusione del verbum Domini avrebbe superato una nuova tappa, ritornando da Occidente verso Oriente, suo antico luogo d’origine. settembre

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IL VIAGGIO «SILENZIOSO» DI ELIA DI CORTONA di Filippo Sedda

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a provincia di Oltremare e la sua fondazione sono indissolubilmente legate alla persona e al viaggio di frate Elia di Cortona o di Assisi (1180-1253): egli ne fu, infatti, il primo Ministro su incarico diretto dello stesso Francesco. La figura del frate assisano è stata per secoli avvolta da una coltre di negatività e pregiudizi quale conseguenza di una damnatio memoriae che i cronisti francescani e una certa storiografia hanno nei secoli riversato su di lui e che solo recentemente si è rimessa in discussione. L’onta che ha inficiato e condizionato la parabola biografica di frate Elia fu certo la sua deposizione da Ministro generale, nel 1239, e la sua conseguente adesione allo scomunicato imperatore Federico II in lotta con il pontefice Gregorio IX. L’immagine che di lui si è andata costruendo ha inesorabilmente celato il ruolo fondamentale per l’Ordine minoritico a livello di governance. È stato facile trasferire la sua dissidenza e scomunica in atto di condanna di tutto il suo operato, facendone una sorta di capro espiatorio della storia di decadenza della fraternità minoritica. Il dato storico della caduta in disgrazia di frate Elia ha quindi offuscato l’intero suo operato, come Ministro generale (1232-1239), cosí come quello da vicario di Francesco (1221-1226), cancellando quasi del tutto il suo ruolo di Ministro della provincia ultramarina. L’unica testimonianza su questo ufficio si trova nella Cronaca di Giordano da Giano, conclusa nel 1262 e dedicata ai primi quarant’anni di storia della provincia germanica. Cosí scrive Giordano nel paragrafo 9: «Frate Elia invece fu nominato, dal beato Francesco, Ministro provinciale delle terre d’oltremare. Per la sua predicazione un chierico, di nome Cesario, fu ricevuto all’Ordine. Questo Cesario, un tedesco nato a Spira e suddiacono, era stato discepolo in teologia del maestro Corrado da Spira, predicatore della crociata e piú tardi vescovo di Hildesheim. Quand’era ancora un secolare, fu grande predicatore e imitatore dell’evangelica perfezione. Poiché nella sua città alcune matrone si recavano in abito umile alla sua predicazione, dopo aver lasciato ogni abbigliamento, i mariti di queste lo vollero trascinare al rogo come eretico. Ma fu strappato dalle fiamme a opera del maestro Corrado e se ne ritornò a Parigi. Piú tardi, attraversato il mare in occasione del solenne passaggio, si convertí all’Ordine per la predicazione di frate Elia, come si è già detto, e divenne uomo di grande dottrina e di esempio». Si potrebbe parlare quasi di una «notizia rubata». Infatti, frate Giordano mirava principalmente a fornire informazioni su frate Cesario da Spira, che ebbe un ruolo fondamentale per la diffusione della missione minoritica in Germania, di cui egli si occupava nella sua Cronaca. Cesario, ancora

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Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore. Sant’Antonio da Padova e frate Elia da Cortona al cospetto di papa Gregorio IX, affresco di Cesare Sermei facente parte del ciclo della Vita di sant’Antonio da Padova. 1609-10.

suddiacono, a seguito di un’incomprensione, dovette lasciare la sua città natale di Spira con l’aiuto del suo maestro parigino Corrado e rifugiarsi prima a Parigi e quindi, a seguito della crociata, in Palestina. Fu qui che grazie alla predicazione di frate Elia decise di aderire alla nascente fraternità dei Minori. Tutte le altre cronache giunte fino a noi sostanzialmente dipendono da questa primitiva attestazione. IL PRIMO SUPERIORE IN TERRA SANTA Risulta dunque che frate Elia a partire dal 1217 fosse il primo Ministro delle terre d’Oltremare, unica provincia che abbracciava tutto l’Oriente mediterraneo, come ancora informa il paragrafo 7 della Cronaca di Giordano da Giano quando, riferendo dei primi cinque martiri del Marocco, testimonia «con sicurezza» che frate Elia con i suoi compagni furono inviati nelle terre d’Oltremare nel capitolo del 1217. L’importanza di tale assise è testimoniata anche dalle fonti agiografiche di san Francesco: per esempio, nella Leggenda dei tre compagni al paragrafo 62 si legge: «Trascorsi undici anni dall’inizio della loro Religione, essendo i frati cresciuti in numero e in meriti, furono eletti dei ministri e inviati assieme a gruppi di frati in quasi tutte le parti del mondo, dove si coltiva e si osserva la fede cattolica». In quella medesima occasione, lo stesso Francesco decise

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Nella pagina accanto miniatura con i martiri francescani per la conversione del mondo. XVI sec. Perugia, Biblioteca Capitolare. A sinistra reliquie recanti il sigillo di Elia da Cortona. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore.

di partire alla volta della Francia, come narra il paragrafo 108 della Compilazione di Assisi: «Al tempo di quel capitolo, celebrato nello stesso luogo, nel quale i frati per la prima volta furono inviati in alcune terre d’oltremare (...) il beato Francesco, rimasto con alcuni frati, disse loro: “Fratelli carissimi, bisogna che io sia modello ed esempio a tutti i frati. Se dunque ho mandato loro in regioni lontane a sopportare travagli e umiliazioni, fame e altre innumerevoli avversità, è giusto, e a me sembra cosa buona, che vada io pure in qualche lontana provincia, affinché i fratelli sappiano affrontare piú pazientemente necessità e tribolazioni, quando sentono che io sopporto le stesse traversie”». Di fatto Francesco non arrivò in Francia, poiché giunto a Firenze fu distolto dal suo intento dal cardinale Ugo di Ostia. Tuttavia nel 1219 il santo decise di recarsi lui stesso nella provincia ultramarina. Sul viaggio di Francesco in Oriente in occasione della quinta Crociata, che lo vide protagonista di un incontro con il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil presso Damietta, già molto si è scritto, ma è utile almeno rammentare come Tommaso da Celano ribadisca che lo scopo del santo e di alcuni suoi compagni nell’attraversare il mare fosse quello del martirio. Il primo agiografo ci informa, infatti, che già in passato (ovvero nel 1212) Francesco aveva provato a salpare per la Siria: «Nel sesto anno dalla sua conversione, ardendo del desiderio del sacro martirio, decise di recarsi in Siria a predicare la fede e la penitenza ai saraceni e agli altri infedeli. Salí su una nave per quella regione, ma, per il soffiare dei venti contrari, si trovò con gli altri naviganti nelle parti della Schiavonia». UN’ESPERIENZA DECISIVA Il viaggio in Oriente fu fondamentale per Francesco, come traspare anche da alcune decisioni prese nella stesura della prima e poi della seconda Regola, ovvero quella bollata da Onorio III il 29 novembre 1223. Non mi pare un caso che già nella Regola non bollata Francesco preveda un capitolo – il XVI, che nella Regola bollata diviene il XII – dedicato alla predicazione tra i Saraceni e gli altri infedeli.

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L’esperienza in Oriente consentí inoltre a Francesco di farsi accompagnare nel suo rientro in Italia e ad Assisi da tre persone – il ministro frate Elia, frate Pietro Cattani e frate Cesario da Spira – che avrebbero svolto una funzione di primo piano per l’organizzazione istituzionale del suo ordine. In effetti, già il fatto che questi frati fossero stati inviati in quella regione lontana, seppure carica di significati per il cuore del Poverello di Assisi, manifesta la stima e la fiducia che egli nutriva per questi fratelli. Non si dimentichi poi che Tommaso da Celano, nella cosiddetta Vita ritrovata, definisce frate Elia come colui che Francesco «aveva eletto come madre per sé e faceva da padre degli altri frati», lessico che, secondo l’intenzione del santo, vuole indicare nella maternità non solo il segno dell’affetto ma quello del governo: come vicario, Elia governa Francesco, nel senso che si prende cura di lui. Per lo stesso motivo frate Elia è beneficiato dal privilegio di scambiare la sua tonaca con quella di Francesco proprio «per il particolare amore che aveva il Santo verso di lui». Quello di frate Elia fu dunque un viaggio silenzioso, un silenzio che anche le fonti storiche non ci consentono di restituire, un viaggio che per certi versi possiamo solo immaginare. Ma un viaggio certamente fruttuoso, che attraverso la predicazione penitenziale – perché Elia non era un chierico – fu capace di convincere il chierico Cesario da Spira a unirsi all’ideale evangelico di Francesco. Un viaggio breve, durato appena tre anni, dopo il quale frate Elia è pronto a essere gettato in prima fila nello schieramento dell’Ordine, per conseguire gli ideali dell’amico assisano, anche dopo la sua morte. Frate Elia divenne un punto di riferimento anche per santa Chiara: nella sua II lettera ad Agnese di Praga, la esorta a dare ascolto solo a lui, incarnando pienamente quanto gli attribuí nella Vita di san Francesco Giuliano da Spira: «Fu eletto come madre e ancora vivente lo fece pastore del suo gregge», prima nelle terre d’Oltremare, poi al suo fianco come vicario e, infine, come Ministro di una fraternità ormai divenuta Ordine.

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Dossier UN UOMO DISARMATO ALLA QUINTA CROCIATA di Giuseppe Ligato

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o sfondo del viaggio di Francesco in Egitto è la coeva quinta Crociata (1219-1220). Le fonti principali, assai diverse tra loro, sono le biografie scritte da Tommaso da Celano e san Bonaventura, i ricordi di frate Illuminato accompagnatore del santo in Oriente, Giordano da Giano, Paolino da Venezia e altre opere francescane, Giacomo di Vitry vescovo di Acri, alcune cronache francesi (Estoire d’Eracles e Chronique d’Ernoul), il poeta anglonormanno Enrico di Avranches e una vaga testimonianza araba. Su un aspetto concordano tutti gli autori: con la propria combinazione di mansuetudine e determinazione, coraggio personale e rifiuto dell’intransigenza Francesco impressionò il sultano d’Egitto alKamil, che non si fece convertire ma lo trattò con riguardo e, dopo la comune constatazione del carattere ancora prematuro di un dialogo interreligioso, gli offrí un buon pranzo quasi a compensazione per i lussuosi doni che aveva invano presentato al Poverello. Nel 1221, nella prima stesura della Regola dell’Ordine, Francesco raccomandò ai frati di recarsi fra i musulmani scegliendo fra una sottomessa testimonianza della propria fede, e una predicazione pubblica e tesa alla ricerca del martirio: le due opzioni venivano lasciate alla scelta del frate, certamente dopo una riflessione di Francesco sulla propria esperienza orientale da lui affrontata, almeno all’inizio, per trovare il martirio. Egli teneva conto della situazione generale, che non escludeva affatto un atteggiamento intransigente anche nella testimonianza disarmata; quindi è

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inutile cercare nelle sue parole e nei suoi atti una condanna della crociata in nome della pace universale, condanna che non poteva formulare in quanto egli sempre insistette sull’obbedienza alla Chiesa romana di quell’epoca, piú che mai favorevole al bellum sacrum.

Sogni di gloria

I crociati erano comunemente equiparati ai martiri dalla religiosità popolare (piú cauta su ciò la Chiesa ufficiale); Francesco voleva forse guadagnarsi il paradiso insieme a loro, ancorché disarmato, e magari anche con il pensiero rivolto ai propri primi esperimenti di cavaliere, lettore mai pentito di chanson de geste carolinge e romanzi arturiani, testi all’origine di un sogno giovanile di gloria guerriera da realizzare al servizio di Gualtiero di Brienne, crociato che papa Innocenzo III aveva dirottato sulle guerre d’Italia. In Egitto Francesco si sentiva poi in ansia per la sorte dei crociati spagnoli, la cui sconfitta lo addolorò per l’affetto che lo legava a loro piú che per un suo sogno pacifista. Come che sia, Francesco e Illuminato furono strapazzati dalle sentinelle egiziane che li accolsero alle porte dell’accampamento nemico, ma i due riuscirono a farsi ricevere dal sultano sebbene il cardinal legato Pelagio li avesse autorizzati di malavoglia a lasciare il campo cristiano di Damietta, sul delta del Nilo, respingendo qualsiasi propria responProva del fuoco (o San Francesco davanti al sultano), nel ciclo delle Storie di San Francesco affrescato da Domenico Ghirlandaio nella Cappella Sassetti in S. Trinita a Firenze. 1482-1485. settembre

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Dossier Martirio dei Francescani a Ceuta, formella dall’armadio della sacrestia di S. Croce, dipinta da Taddeo Gaddi. 1335-1340. Firenze, Gallerie dell’Accademia.

sabilità nel loro non improbabile «scannamento» in quanto infedeli; effettivamente alcuni cortigiani musulmani avrebbero invitato al-Kamil a far decapitare senz’altro indugio i due strani infedeli, ma invano; né al sultano può essere attribuito il famigerato editto che prometteva un premio a chiunque avesse portato alla sua corte una testa di cristiano. Eccoci cosí nella tenda del sultano d’Egitto. Costui avrebbe realmente messo alla prova Francesco sfidandolo a camminare sulle croci

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Alcuni di questi riferimenti paiono aneddoti riconducibili agli usi del tempo, corroborati da oltre un secolo di crociate: infatti, provocazioni come quella dell’offesa alla croce richiamano quelle che i Templari avrebbero simulato per preparare le reclute invitate – certamente con meno cortesia – a offendere il simbolo del cristianesimo in caso di cattura. Un’altra replica alla provocazione dei tappeti, quella secondo cui le croci calpestate da Francesco riproducevano quelle dei due ladroni e non quella di Cristo, appare piú che altro un bon mot, una trovata edificante di quelle che la sterminata aneddotica dell’Ordine iniziò presto a produrre. Inoltre, la risposta di Francesco alla domanda sulla legittimità giuridica della «guerra santa» cristiana, difesa da Francesco in nome del principio evangelico dell’eliminazione di ciò che crea scandalo, pare riprendere un dibattito analogo tenutosi oltre un secolo prima durante l’assedio crociato di Cesarea. ricamate su tappeti per indurlo a disprezzare i segni della sua fede? Lo avrebbe poi sfidato a legittimare le crociate, apparente violazione del messaggio evangelico (però! un sultano che conosceva il Vangelo...)? Infine, una volta colpito dalle parole di Francesco gli avrebbe davvero chiesto di pregare per lui e fargli conoscere la vera fede, abbracciata da al-Kamil non subito per cautela politica, bensí anni dopo in articulo mortis ma sempre grazie a quell’incontro del 1219?

La prova del fuoco

Anche la sfida francescana al sultano, sfida costituita da una «prova del fuoco» come alternativa al dibattito per verificare in maniera estrema il valore delle due religioni, sarebbe stata una violazione del divieto di sfidare Dio, sebbene la fonte tramandi anche la scena di alcuni dottori della fede islamica cautamente sottrattisi alla prova suprema nel corso di una disputa dottrinaria di cui non sappiamo settembre

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quasi nulla. Su di essa, a dire il vero, si diffonde il dotto poeta Enrico di Avranches, attento però alla creazione di un’immagine apologetica ed epica del Santo (pure quando ambienta in un combattimento fra crociati ed Egiziani il suo passaggio nel campo islamico, raggiunto invece durante una tregua). In realtà, concesso il dovuto alla tradizione della letteratura controversistica ricalcata sulle vite dei primi martiri cristiani, secondo san Bonaventura il confronto tra le due fedi si tenne in un clima di rispetto se non addirittura di simpatia destata nel sultano dai due frati.

Il dibattito con i saggi

Al-Kamil, poi, viene descritto come segretamente disposto a farsi battezzare, ma leggende di criptocristianesimo circolarono abbastanza presto anche a proposito di suo zio Saladino al quale somigliava tanto da essere chiamato pure dai nemici cristiani optimus princeps secondo la sua religione. Piú probabile un dibattito fra il Santo e i saggi dell’Islam, conclusosi senza alcuna conversione ma esemplare per la sua civiltà (previo rifiuto da parte di alKamil di far decapitare i due visitatori); mentre va rigettato il tentativo moderno di cercare nella discussione il seme di un’improbabile convergenza delle due fedi. Non meno utopistica la speranza di una conversione generale di tutto l’Oriente, utopia che nei primi decenni del Duecento si coniugava con le voci di un imminente scontro finale tra le forze del Bene e quelle dell’Anticristo (una deformazione delle voci che erano iniziate a circolare a proposito di Gengis Khan che si avvicinava da est in quegli stessi anni). Piú incerta la concessione di un lasciapassare che avrebbe consentito a Francesco di predicare liberamente e di visitare i Luoghi Santi: il papa aveva vietato di effettuare pellegrinaggi in una Gerusalemme da oltre trent’anni tornata all’Islam, ma il

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permesso attribuito ad al-Kamil dopo avere ascoltato Francesco «con la massima attenzione» avrebbe esonerato il Poverello dalla tassa imposta ai pellegrini, un imbarazzante finanziamento del sultanato; cosí dicono autori come Angelo Clareno, ma forse Francesco non avrebbe potuto accettare un privilegio (del resto, una volta ottenuto dal papa l’unico permesso che gli interessava, ossia quello di dare vita al proprio movimento, raccomandò di non chiedere alcunché alla stessa Chiesa). Al-Kamil, inoltre, poteva pensare che la predicazione di quel cristiano cosí diverso da molti altri potesse scompigliare il suo regno, sebbene forse tale effetto sia stato ridimensionato dalla critica storica: in realtà, le conversioni al cristianesimo furono sempre poca cosa nell’Oriente dei crociati, e boicottate dalle stesse istituzioni

Miniatura raffigurante l’ingresso dei crociati guidati da Luigi IX di Francia a Damietta, nel 1249, da Le Miroir Historial di Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé.

crociate che non avrebbero potuto ridurre allo stato servile uomini fattisi loro correligionari. Cosa rimane di queste informazioni che generazioni di studiosi hanno passato ai raggi X, non sempre senza forzature? Francesco tornò in Occidente con un’idea nuova di martirio: meno teso alla ricerca della morte per mano «infedele» e piú pronto al sacrificio quotidiano di sé, per continuare la propria testimonianza non esclusivamente legata al versamento del sangue. L’imposizione delle stimmate sulle sue carni avrebbe sancito un’imitazione di Cristo raggiunta senza esporsi alle armi terrene.

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Dossier UNA STORIA LUNGA OTTOCENTO ANNI di Giuseppe Buffon

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i imprima il sigillo della salvezza sulla fronte di tutte le genti, affinché, radunate nella Gerusalemme escatologica per l’assemblea di tutti i popoli, siano trovate pronte per l’ora del ritorno di Cristo»: squilla la tromba del pontefice predicatore, Innocenzo III, che durante il concilio Lateranense IV (1215), con il sermone sul tau (l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico rappresentante il compimento dell’intera parola rivelata di Dio, n.d.r.)chiama alla mobilitazione generale. Lo slancio missionario della Chiesa primitiva, inviata al mondo intero dall’impetuoso e tuonante Spirito di Pentecoste, si rinnova proprio grazie alle novae religiones, quegli ordini mendican-

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ti che fanno della missione la loro principale vocazione. Domenico si rivolge ai Catari della Linguadoca, Francesco parte per la Terra Santa e, rischiando la vita per testimoniare al sultano al-Kamil la propria fede, passa le linee crociate degli eserciti occidentali della quinta Crociata, impegnati nell’assedio di Damietta (1218-19). Sicuramente, Francesco è il primo santo dell’Occidente cristiano a cercare contatti con il mondo musulmano. La sua iniziativa, non ispirata da scopi politici ed economici, come la missione diplomatica dell’imperatore Federico, è dettata esclusivamente da aspirazioni evangeliche e, quindi, missionarie. Egli intende imitare

i martiri della Chiesa primitiva, la cui apologia della fede ha lo scopo di preparare il martirio, mentre l’eventuale conversione è decisione successiva al gesto del dare la vita. Non è piú la persuasività della predicazione a convertire, bensí il segno del dono estremo. Il passaggio di Francesco nel campo di al-Kamil impressiona nel 1225 Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme, il quale presente alla stessa canonizzazione di Francesco, definito dall’amico Gregorio IX (1227-41) pugilatores Christi, non cessa di sostenere gli insediamenti francescani a Costantinopoli, in diverse località greche e sulle coste albanesi. L’episodio dell’incontro di Francesco con il sultano al-Kamil settembre

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Sulle due pagine Pellegrini davanti a Gerusalemme, olio su tela di Nikanor Grigoryevich Chernetsov. 1831. Simferopol, Regional Art Museum. A sinistra miniatura raffigurante san Francesco che aiuta altri tre monaci a entrare nella Gerusalemme celeste, da Les Trois Pèlerinages di Gilllaume de Diguilleville. XIV sec. Parigi, Bibliothèque Sainte-Geneviève.

(1219) viene interpretato, da cronisti e agiografi francescani degli anni 1330-1340, quale atto fondativo dei diritti di custodia dei Luoghi Santi assegnati ai francescani e, come tale, esso viene esibito ideologicamente anche in seguito allorquando, per esempio, durante il regime di Mourad IV, il patriarca greco Teofane pretese l’espulsione dei francescani, sulla base di privilegi che sosteneva fossero stati conferiti alla Chiesa greca addirittura dallo stesso Maometto. A differenza delle costruzioni ideologiche, le fonti storiche attestano l’istituzione della provincia di Siria già nel Capitolo della Porziuncola del 1217. Presenze francescane vengono infatti registrate successivamente in località fortificate e protette dai crociati: Damietta, Antiochia, San Giovanni d’Acri e Cipro. Con Federico II, re di Gerusalemme, i fratres si insediarono anche a Gerusalemme, a Betlemme, a Nazaret e in altri luoghi, tradizionalmente cari alla devozione cristiana occidentale. Soltanto nel 1260,

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tuttavia, appare la denominazione specifica di «provincia francescana di Terrasanta», corrispondente a un’estensione territoriale che, dalla Palestina, si prolunga, a nord, fino alla Siria; a sud, fino all’Egitto, e a ovest, fino all’isola di Cipro. Dopo la caduta di Gaza (1244), mentre i Latini venivano scacciati dalla Palestina, i francescani, benché pressati da notevoli difficoltà, riescono a mantenere alcune posizioni; alla caduta di San Giovanni d’Acri (maggio 1291), però, ultimo baluardo della resistenza crociata, pure gli ultimi frati minori dovettero lasciare la Terra Santa.

Al Santo Sepolcro

Per vedere il loro ritorno, si deve attendere fino al 1327, quando, con il supporto politico di Giacomo d’Aragona, si stabiliscono presso il Santo Sepolcro. Nel 1333 i Frati Minori si assicurano una presenza stabile, grazie all’appoggio politico dei reali di Napoli, Roberto d’Angiò e Sancia di Maiorca, i quali, concludendo a loro favore un trat-

tato con il sultano mamelucco Al Nasèr Mohammad, ottengono l’ufficializzazione della presenza francescana in Terra Santa. I religiosi fissano, quindi, la propria dimora sull’area del Monte Sion, accanto al Cenacolo (acquistato dai sovrani citati e da essi donato in proprietà ai francescani); in seguito, si stabiliscono presso la basilica del Santo Sepolcro, quindi a Betlemme, accanto alla chiesa della Natività, e, infine, a Gerusalemme, nei pressi della Tomba della Vergine. Nel 1342, essi ottengono da papa Clemente VI il beneplacito dell’autorità ecclesiastica (bolle Gratias agimus e Nuper carissime), che già conferisce loro una sorta di riconoscimento giuridico. L’autorizzazione, riconosciuta al Guardiano del Monte Sion, superiore dell’omonimo convento, a ricevere sotto la propria «obbedienza» religiosi provenienti da tutto l’Ordine, conferisce alla fraternità francescana di Terra Santa una particolarità giuridica unica, rispetto alle altre entità dell’Ordine. Grazie a questo

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In alto Nazareth (Galilea, Israele). La chiesa ortodossa dell’Arcangelo Gabriele, edificata sopra i resti di un santuario crociato, in una foto degli inizi del Novecento. In basso veduta aerea della città di Nazareth, con lo sfondo del Monte Tabor.

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provvedimento, la nuova missione francescana si avvantaggia del carattere specifico d’internazionalità. L’erezione di altri conventi (nella valle di Giosafat, 1363; a Betlemme, 1365) e l’acquisizione di nuovi santuari (l’edicola della Tomba della Vergine, 1363; la cosiddetta Grotta del Latte, 1365; la Grotta del Getsemani, 1392) permettono all’organismo levantino di costituirsi, in breve tempo, quale realtà affatto tipica, denominata Custodia di Terra Santa. Nel 1414, il Capitolo generale dei francescani, visto il carattere particolare che la Custodia andava assumendo, stabilisce di dotarla di una maggiore autonomia, anche tramite un incremento di personale. In seguito, sempre dalle autorità dell’Ordine, viene deliberato che la nomina del Custode assuma il prestigio proprio degli atti emessi dal Capitolo generale (tale prassi, a partire dal 1430, rimane in vigore per tre secoli, sino a quando furono lo stesso Ministro generale e il suo Consiglio a provvedere alla suddetta nomina, come accade tuttora). Anche i papi assegnano al Custode di Terra Santa diversi privilegi quali, in particolare, le prerogative precedentemente esercitate dal patriarca latino: la facoltà, cioè, di celebrare i pontificali, l’autorizzazione a conferire il sacramento della confermazione, la potestà di investire i Cavalieri dell’antico Ordine del Santo Sepolcro e perfino il compito di nominare i capitani delle navi battenti bandiera di Terra Santa. La presenza francescana in Terra Santa durante il regime ottomano risente fortemente delle fluttuazioni della politica europea nei confronti della Sublime Porta. Solimano il Magnifico, facendo rifiorire Gerusalemme con il restauro di numerosi monumenti (Duomo della Roccia, moschea di Al-Aqsa, acquedotto, antico mercato) e il rilancio della produzione del sapone e di altre attività commerciali, favorisce un incremento demografico della città, che vede triplicarsi il numero settembre

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A destra scorcio panoramico del paesaggio rurale a sud-ovest della città di Betlemme, in una foto dei primi del Novecento. In basso frontespizio di un’edizione settecentesca del Viaggio da Venetia al Santo Sepolcro, et al monte Sinai, un racconto del viaggio in Terra Santa attribuito al frate francescano Noé Bianchi. XVIII sec.

di abitanti (da 5 mila a 15 mila), e un notevole aumento dell’affluenza di pellegrini, che fanno registrare il doppio delle presenze rispetto al periodo precedente. In questa stessa fase, però, la Custodia di Terra Santa, quale soggetto non musulmano, è sottoposta allo statuto giuridico dei dhimmi, che in cambio del diritto di culto all’interno degli edifici, dispone molteplici divieti (portare armi, cavalcare in città, fare manifestazioni pubbliche e proselitismo) e impone, in particolare, il pagamento di imposte, quale simbolo della sottomissione all’Islam.

Nascono i Commissariati

In seguito ai contrasti con le potenze europee, specie con quella degli Asburgo, Solimano cerca di ridurre la presenza cattolica in Oriente, come attestano le espulsioni dei francescani dal santuario della tomba di Davide (1524) e dalla chiesa del Monte Sion o Cenacolo (inutilmente rivendicata da Francesco I; 1528). La Francia sostiene l’inserimento di missionari gesuiti e cappuccini e si impegna a difendere lo status quo dei Luoghi Santi, ottenendo

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dalla Sublime Porta dei firmani a garanzia dei diritti dei francescani sui santuari (1639; 1666; 1690). Le iniziative francesi vengono però insidiate dai Greci (1637; 1757), che ricorrono alle autorità ottomane, anche tramite l’appoggio della Russia (1774), diventata loro protettrice proprio mentre la stagione dei Lumi raffredda lo zelo missionario della diplomazia francese. L’aura di romanticismo, con cui viene mistificata la rappresentazione della Terra Santa diffusa in Occidente durante il XIX secolo, attira su di essa l’attenzione delle politiche nazionali, in contesa per la spartizione del «grande malato» ottomano, come dimostra la controversia intorno al santuario della Natività a Betlemme, preambolo alla guerra di Crimea. La Custodia, data la posizione acquisita sul piano non solo religioso ma anche politico-diplomatico, viene inoltre autorizzata a stabilire relazioni con le varie corti europee (Venezia, Francia, Spagna, Austria, tanto per citare le maggiori), con il tramite di strutture chiamate Commissariati di Terra Santa,

che potremmo definire una sorta di «rappresentanze» politico-diplomatiche presso gli Stati nazionali e i loro governi. Essi, per esempio, svolgono l’incarico di raccogliere fondi a vantaggio dei Luoghi Santi, nonché di sensibilizzare i fedeli nei confronti delle varie necessità e dei compiti

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Dossier spettanti alla Custodia di Terra Santa, non solamente in ambito religioso, ma anche socio-politico. Inoltre, i religiosi designati a svolgere l’incarico di Commissario di Terra Santa beneficiano della facoltà di esercitare una certa pressione morale sui governi, allo scopo di ottenerne l’appoggio diplomatico e politico nelle eventuali controversie locali con la controparte ortodossa, a motivo di dissidi concernenti l’amministrazione dei santuari (è la cosiddetta

«questione dei Luoghi Santi», giunta fin sui tavoli della pace di Versailles – 1919 – e tuttora irrisolta).

«Reporter» in Terra Santa

I pellegrinaggi costituiscono una pratica transculturale, la cui storia, tuttavia, imbocca un nuovo tornante proprio con l’edificazione delle basiliche costantiniane, che attirano in Terra Santa fedeli desiderosi di compiere un itinerario ascetico, rapportabile alla pratica della Imitatio Christi.

Durante l’epoca moderna, la pratica penitenziale del pellegrinaggio gerosolimitano riprende in misura piú ridotta, rispetto all’antichità, grazie all’intervento di Venezia, che ottiene la cessazione dell’interdetto e assicura appoggio politico ai francescani. Lungo il corso del tempo, anche i luoghi di imbarco sono soggetti a un certo mutamento: nel XII secolo si parte da Bari, nel XIII da Marsiglia, mentre durante tutta l’epoca mamelucca, da Venezia. Il viaggio,

Veduta di Gerusalemme, ripresa dalla Valle di Giosafat, dipinto di Louis Auguste de Forbin. 1825. Parigi, Musée du Louvre.

Pellegrini a Gerusalemme

La devotio moderna lungo la Via Dolorosa Per la visita a Gerusalemme, i francescani propongono ben undici itinerari, dei quali il piú noto, nonché il piú suggestivo, è la Via Dolorosa. Un altro percorso prevede invece la visita ai santuari della valle di Giosafat: dal Getsemani alla tomba della Vergine, al giardino degli Ulivi, al monte dell’Ascensione. Le pratiche devozionali previste sono molteplici e possono svolgersi in gruppo oppure singolarmente. La devotio moderna spinge a compiere gesti di pietà tangibile, quali il bacio delle pietre, il calpestare e l’appoggiare le mani sui luoghi già teatro del passaggio di Cristo. Molti raccolgono pietre, altri le collezionano, quasi tutti incidono croci sulle superfici murarie dei santuari e talvolta sugli arredi in legno ivi disposti. I piú dotati affidano i propri ricordi a diari e itinerari di viaggio. Dalla prima metà del XIX secolo si registra una notevole ripresa del pellegrinaggio in Terra Santa, raggiungendo il milione di visitatori. Pellegrino si ritenne anche il generale Allenby, il quale, entrando a Gerusalemme nel 1917, trovò del tutto naturale proclamare il ristabilimento del dominio dei crociati, dopo un intervallo di 730 anni.

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a bordo di galee dotate di spazi che non consentono distinzioni sociali, dura dalle quattro alle sei settimane e prevede scali a Corfú, Modon, Creta, Rodi, Cipro, con approdo finale a Giaffa. In Palestina, i pellegrini vengono accolti a Rama o Ramleh, a Lidda e a Gerusalemme. Nel corso del XIX secolo, la mobilitazione dei pellegrini viene assai facilitata da un notevole miglioramento dei mezzi di trasporto. Il tragitto Napoli-Porto Said, a bordo dei

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nuovi piroscafi, diventa assai agevole e veloce: quella distanza può essere coperta nel giro di cinque o sei giorni. I pellegrinaggi sono composti da devoti di confessione anglicana, luterana, battista e, naturalmente, cattolica, rivelandosi tutti ispirati da un analogo desiderio, sia pure religioso, di «conquista». V I testi di questo Dossier, tratti dal volume Francescani i Terra Santa, sono pubblicati per gentile concessione delle Edizioni Terra Santa.

Da leggere Giuseppe Caffulli (a cura di), Francescani in Terra Santa. Una storia lunga 800 anni, Edizioni Terra Santa, Milano, 142 pp. 10,00 euro ISBN 978-88-6240-526-3 www.edizioniterrasanta.it

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Nei feudi Marsico Nuovo, in Basilicata, si erge fiera a guardia della Val d’Agri. Un borgo da scoprire, il cui ricco patrimonio racconta dei suoi di Marco Ambrogi trascorsi di sede di contea e di diocesi, tra le piú importanti del territorio lucano, nonché luogo prediletto da una stirpe nobilissima Sulle due pagine una suggestiva veduta di Marsico Nuovo (Potenza), dall’ex monastero delle Benedettine di S. Tommaso. A sinistra bassorilievo di età longobarda murato sul fianco esterno della chiesa di S. Gianuario.

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dei Sanseverino di Marco Ambrogi

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opra tre colline d’ineguale altezza siede Marsico-Nuovo (anticamente Abellinum Marsicum) non picciola città vescovile della Lucania. Essa domina una estesa pianura cinta di vaghe collinette sovrastate da alti monti che gli uni sugli altri s’aggruppano, e che fan parte degli Appennini. Molti ruscelli, dopo aver irrigata quella valle deliziosa, metton foce nell’Acri (l’Aciris degli antichi) che in mezzo a essa serpeggia. L’origine di Abellinum Marsicum è dubbia; ma ben potrà credersi col Cluverio (nome con il quale è noto l’umanista e geografo tedesco tedesco Philipp Cluver, 1580-1623, n.d.r.) averla edificata gli Abellinati, cognome che presero i Marsi, quando uniti ai Sanniti, lasciarono il patrio suolo e

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vennero ad abitare quella parte dell’Enotria che poscia Lucania fu detta». La suggestiva e bucolica descrizione della rivista illustrata Poliorama Pittoresco del 30 marzo 1844 esemplifica egregiamente le caratteristiche del borgo e del territorio di Marsico Nuovo (oggi in provincia di Potenza), esaltandone le virtú paesaggistiche e storiche, nelle quali ancora oggi si rispecchia l’illustre passato di una delle città piú importanti del Mezzogiorno, nonché prestigiosa sede episcopale (vedi box a p. 107). Il primo nucleo abitato sorse in età longobarda, in un luogo prossimo alla statio romana della località San Giovanni, collocata lungo la via Herculea, tra Venusia e Grumentum. La Civitas era protetta da una cinta

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muraria con undici torri e quattro porte: San Nicola, Sant’Angelo, Sant’Andrea e Santa Croce. Rimanevano fuori dal circuito la chiesa cattedrale di S. Michele Arcangelo e l’abbazia di S. Stefano, edificata dai Benedettini di Venosa già nell’VIII secolo.

Un carro per i sacri resti

Uno degli abati del ricco cenobio, assieme al vescovo Grimaldo, alla metà del X secolo (Acta Sanctorum), accorse presso il bosco dell’Arioso di Potenza a recuperare il corpo del martire san Gianuario, vescovo di Cartagine del III secolo e martirizzato da Leonzio, da un tronco d’albero, per portarne le spoglie, con un carro trainato da due giovenchi, nella chiesa di S. Michele, ove rimasero fino al 1826, per poi essere traslate nella cattedrale di S. Giorgio. Sul punto piú elevato della Civita sorgeva un fortilizio, perno del sistema difensivo, indebolito dalle orde saracene che, nell’853, distrussero la città romana di Grumentum, sede episcopale. L’eredità fu raccolta da Marsico, che per secoli ebbe titolo di diocesi «marsicenses et grumentinae», fino all’aggregazione, nel 1818 a quella di Potenza. In realtà, alcuni documenti attestano la presenza di vescovi in città già nel VI secolo, suffraganei della

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metropolia salernitana, a partire dall’episcopato di Gisulfo I (1089-1095), mentre la contea, subordinata al principato di Salerno, ebbe in Guaimaro I, figlio del conte di Conza, uno dei piú importanti feudatari longobardi, che nel 973 fortificò nuovamente le mura marsicensi. Il periodo normanno in Lucania siglò da un lato la forte rilatinizzazione delle contrade, con le donazioni dei Guarna ai monaci benedettini di Venosa e di Cava dei Tirreni, dall’altro un riassetto fiscale ed economico della Valle dell’Agri e del contiguo Vallo di Diano. Cinta da mura, la civitas marsicense venne circondata da un territorio di pertinenza con cinque difese: pascoli e boschi che il signore concedeva alla comunità per legnatico, ghiandatico e per pascolare gli armenti. Ogni difesa era presidiata da un casale, una sorta di villaggio rurale, mentre alle falde della collina del primo castello sorgeva il parco della «Cervara» (dal latino cerbaNella pagina accanto e in alto veduta d’insieme e particolare del magnifico portale della chiesa di S. Gianuario, attribuito al Magister Melchiorre. Seconda metà del XIII sec. A sinistra Madonna con Bambino, statua in legno policromo. Chiesa di S. Michele. XIV sec. settembre

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medioevo nascosto basilicata Angelo Clareno e l’eremo di S. Maria dell’Aspro

L’ultima dimora dell’eremita taumaturgo Tra i Sanseverino di Marsico che si distinsero per la loro magnanimità nei confronti di Ordini religiosi ed edifici ecclesiastici, vanno segnalati Ruggero II, viceré di Gerusalemme e conquistatore di Acri, che finanziò la ricostruzione della chiesa di S. Maria Maggiore a Diano e donò la reliquia della «Terra mixta cum Sanguine Cristi» alla città di Saponara, portata dalla Terra Santa nel 1284; Enrico, che offrí il castello di Marsico ai Minori; e Tommaso II, che fondò la certosa di S. Lorenzo a Padula, garantendo ospitalità alla comunità dei Clareni del noto Angelo, in S. Maria dell’Aspro, nella vicina Marsico Vetere. Fu la regina Giovanna II nel 1334 ad assegnare, tramite Isabella Del Balzo, moglie di Tommaso III, la protezione ad Angelo Clareno, all’interno del feudo di Marsico, dopo le vicende persecutorie di cui il Francescano era stato vittima. Al legame della città con personaggi vissuti sul filo dell’eresia, si può

ricondurre anche la presenza, nel 1210, del vescovo Anselmo, che una tradizione storica individua quale coadiutore, con Gioacchino da Fiore, delle profezie sui pontefici. Dopo una vita di ostinata opposizione all’autorità ecclesiastica, Pietro da Fossombrone (nome di Angelo), ormai settantenne, fuggí da Subiaco, col fedele amico Nicola di Calabria e si ritirò in Basilicata, prima nei pressi di San Michele di Marsico e poi nel vicino eremo di S. Maria dell’Aspro, dove morí il 15 giugno 1337. Già altri Spirituali avevano trovato terreno fertile nella predicazione territoriale: a Potenza, in S. Francesco, e a Carbone, non lontano da Marsico (la «Madonna dei Fraticelli»); la stessa figura eccentrica e originale di Giovanni da Caramola (inizi del Trecento), uno Spirituale vissuto all’ombra del monastero cistercense del Sagittario a Chiaromonte, è un riferimento importante. Due immagini della chiesa dell’eremo di S. Maria dell’Aspro. dove Angelo Clareno visse gli ultimi anni di vita.

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Frate Filippo di Maiorca, al quale Angelo Clareno scrisse lettere da Subiaco e da Marsico, fu autore di un Trattatello dei miracoli, nel quale si dava conto di quelli attribuiti allo Spirituale negli anni di soggiorno in Basilicata e subito dopo la morte. Il potere sui demoni, il dono della profezia, l’insistenza dei fedeli, spinsero Angelo a lasciare traccia della sua santità a Grumento, Chiaromonte, Satriano, Montemurro, Viggiano, con un’intensa attività di taumaturgo. Dell’eremo di S. Maria dell’Aspro sopravvivono oggi consistenti ruderi, che testimoniano l’importanza di un cenobio, un tempo ampiamente noto nell’area lucana, proprio perché vi si conservavano le spoglie dell’eremita marchigiano, occultate in una tomba senza nome, per ragioni di opportunità. settembre

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rya), la riserva di caccia del feudatario, con la presenza di cervi e animali selvatici. Le chiese extra muros di S. Michele Arcangelo e di S. Stefano, oggi nota come S. Gianuario (che la leggenda vuole fosse sorta sui resti del tempio di Serapide), testimoniano lo splendore di Marsico. Il tempio micaelico, anticamente a tre navate e orientato a est rispetto all’assetto odierno, ospita il Museo di Arte Sacra, che custodisce testimonianze scultoree e pittoriche medievali e moderne, tra cui un affresco dell’Ultima Cena della metà del XVI secolo, proveniente dal convento minoritico, e una statua di Madonna – trecentesca –, scolpita in chiave dichiaratamente gotica, ma di marca senese, con ascendenze culturali d’Oltralpe, di recente esposta a Firenze, nella mostra «Maternità divine. Sculture lignee della Basilicata dal Medioevo al Settecento».

Alla maniera bizantina

Uno stupendo portale litico del magister Melchiorre (noto come «da Montalbano»), degli anni Settanta del XIII secolo si colloca sull’area un tempo occupata dalla conca absidale, che ha restituito una preziosa Deesis del XIII secolo, che al Cristo, alla Madonna e San Giovanni Battista, associa l’Agnello Mistico, gli Apostoli (si riconoscono Tommaso e Filippo) e un Battesimo nel Giordano. Gli affreschi, dai volti con occhi rotondi e pupilla dilatata, sembrano un diretto prodotto della cultura di Bisanzio, ravvisabile nelle vesti e nelle stoffe orientali. La chiesa è ubicata

dispute episcopali

In due per una diocesi Dopo secoli di duplice persistenza episcopale e a seguito della nomina del primo vescovo ufficiale di Marsico, Gisulfo (1089-1095) fissò la sede della diocesi nella città sede di contea, pur mantenendo anche l’appellativo di vescovo di Grumento e avviando una serie di contrasti con la città di Saponara, che reclamava i diritti di primaziale dell’antica diocesi paleocristiana. Alcune concessioni sull’autonomia del clero locale non bastarono alla cittadina erede di Grumentum a placare i dissapori, avviando una contesa che si trascinò per secoli. In realtà, l’antica sede altomedievale di Saponara (odierna Grumento Nova), si era originata alla fine del X secolo e divenuta autonoma per legittima discendenza. Giovanni I di Marsico (1095-1098) dovette lasciare all’arciprete mitriato Latino de Teodora di Saponara la giurisdizione civile e criminale sulla città, mentre sulla controversa questione intervenne persino Romualdo Guarna, arcivescovo di Salerno, pacificando le due parti. La contesa ebbe termine solamente nell’Ottocento, con l’accorpamento di Marsico e del suo territorio alla diocesi di Potenza.

A destra una veduta della cattedrale di S. Giorgio, la cui torre campanaria venne eretta nel 1293.

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medioevo nascosto basilicata A sinistra la Porta della Luna (o di Sant’Angelo), che si apriva lungo il versante

settentrionale della cinta muraria altomedievale di Marsico Nuovo.

Demolito alla fine del XVI secolo, il monastero presentava fabbriche munite di foresteria, refettorio, cucine, cantine e chiostro e si estendeva su un lato dell’attuale chiesa; sul suo fianco è murata una lastra di età longobarda con la raffigurazione di un santo, dalla difficile iconografia. Notevole è il portale in pietra (probabilmente ricomposto con elementi di un protiro) della fine del XIII secolo, attribuito al magister Melchiorre e ornato da arcaici rilievi di santi e vescovi e da magnifici capitelli dalla ricca e complessa iconografia zoomorfa. Sparsi sul prospetto e sulla torre campanaria, vi sono frammenti di rilievi e sculture in pietra di età romana e medievale, tra cui un mezzobusto trecentesco di san Gianuario; all’interno è conservata una lastra di architrave con i simboli del Tetramorfo, ascrivibile all’XI secolo.

Un esercito per il re

nei pressi della porta «della Luna» o di Sant’Angelo, che immetteva, da nord, nella cinta muraria altomedievale. L’abbaziale benedettina di S. Stefano, esistente già nell’VIII secolo, fu restaurata nel 1071, al tempo dell’abate Radone e col favore del conte Rainald Malconvenant: lo prova una lapide murata alla base della torre campanaria, un parallelepipedo alleggerito dall’inserimento di quattro colonnine angolari di spoglio. L’interno, a tre navate e dalle semplici forme, restaurato nel 1172 e ricostruito nel 1591 sull’impianto medievale, conserva quattro colonne tortili di reimpiego con capitelli, forse provenienti da Grumentum, che sorreggono la cantoria di ingresso. L’impianto planimetrico sembra ricalcare la planimetria benedettina cassinese, con terminazione delle navate in absidi (scomparse) e in modo analogo alla tipologia rinvenuta al di sotto del presbiterio della cattedrale di S. Giorgio.

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A poca distanza dal colle della Civita, sede del primo castello di Marsico, si erge la cattedrale di S. Maria e S. Giorgio, che, nonostante i numerosi restauri e rifacimenti avvenuti nel corso dei secoli, conserva preziose testimonianze medievali, tra cui la torre campanaria dalla regolare stereotomia, eretta nel 1293, per volere del vescovo Giovanni De Vetere e del conte Tommaso II Sanseverino, a opera del Magister Silvester, come recita un’epigrafe murata sul primo ordine. Recenti restauri hanno messo in luce, al di sotto del presbiterio, le tre antiche absidi della prima chiesa, che risale al 1131 (una perduta lapide ne indicava i lavori), consacrata dal vescovo Enrico ed eretta da Goffredo Guarna, la cui famiglia successe nel feudo ai Malaconvenienza di Acerenza. Singolare è la vicenda di Goffredo, che riuscí a costituire un feudo di tutto rispetto, comprendente, oltre le valli dell’Agri e di Diano, Lauria e numerosi borghi del Cilento, con l’obbligo di fornire al re 125 milites e 220 servientes, un vero e proprio esercito personale. S. Giorgio, la cui attuale abside calca, probabilmente, il sito di una delle torri longobarde delle mura, fu per secoli la sede dei vescovi di Marsico, che tra i nomi illustri annovera membri dei Medici di Firenze, Guarna di Salerno, Pallavicino di Genova e Caracciolo. Al centro dell’abside campeggia una Madonna con Bambino, in legno policromo, degli inizi del XVI secolo e attribuita a Giovanni da Nola. Nella sagrestia, ma proveniente dalla scomparsa cappella di S. Antonio, è custodita un’interessante Crocifissione del XIV secolo, dallo stile oderisiano, sovrastante una raffigurazione di un religioso defunto; similitudini stilistiche all’affresco strappato, rimandano alla Crocifissione del Museo Diocesano di Teggiano (Salerno). settembre

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Il conte Guglielmo Guarna avviò la costruzione della Rocchetta, sulla collina del Fiego, o di San Giovanni, la quarta della città, ma poco distante, che ospiterà i signori di Marsico a partire dal 1180, sostituendo il castello longobardo sulla cima della Civita, distrutto nel 1142. La Rocchetta controllava l’antica via Herculea, nel tratto che dalla Valle dell’Agri si inerpica verso la città, perno di un villaggio rurale capace di fornire al re, nel 1167, due milites.

Dai feudatari ai frati

I feudatari lasciarono l’antica sede, alla fine del Duecento, ai Minori Conventuali, grazie a Enrico Sanseverino. La comunità di frati stanziatasi in città tempo prima fu una delle prime della Lucania; l’ex chiesa presenta ancora navata unica a «fienile» e coro quadrangolare, analogamente alla coeva S. Francesco di

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Particolari della Deesis affrescata nella chiesa di S. Michele Arcangelo, che mostra tratti di chiara ispirazione bizantina, come gli occhi

rotondi e dalle pupille dilatate o la foggia orientale delle stoffe. XIII sec. A sinistra, il ritratto della Vergine; a destra, il volto di un Apostolo.

Teggiano. Del convento medievale rimane l’ala meridionale, con la presenza di un bel portale degli inizi del Cinquecento, opera di Francesco da Sicignano, attivo nel vicino Vallo di Diano e nel Cilento. Stringenti legami di carattere storico e artistico legano Marsico alla vicina Diano (oggi Teggiano), tra cui l’operato del magister Melchiorre (notevole l’ambone della cattedrale teggianese) e di Francesco da Sicignano. Anticamente, nel convento dei Minori, e oggi nel locale Museo di Arte Sacra, è un affresco strappato della metà del Cinquecento, attribuito a Giovanni Todisco (attratto

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medioevo nascosto basilicata

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Nella pagina accanto il campanile della chiesa benedettina di S. Tommaso di Canterbury. In basso particolare della mensola del portale del convento di S. Francesco, opera di Francesco da Sicignano. Inizi del XVI sec.

dai modi di Simone da Firenze e Andrea Sabatini), raffigurante un’Ultima Cena, con curiosi particolari di una tavola imbandita con prodotti locali. Fu ancora il normanno Guglielmo Guarna a commissionare nel 1179 la costruzione del monastero di S. Tommaso di Canterbury, ad rajas, sulla terza collina di Marsico, affidandolo a Giovenale, abate di una delle prime comunità di frati agostiniani del Mezzogiorno. Il sito occupa l’area del secondo castello, dopo la Civita, con la persistenza di una torre medievale, mantenutasi intatta nel corso dei secoli. Il feudatario assegnò 15 villani di Marsico al monastero e concesse al priore di allocare nel villaggio del casale 65 uomini con le rispettive famiglie, donando un mulino sul fiume Agri, terreni e una foresta per legnatico. Nel 1195, il cenobio di S. Tommaso Becket, consacrato dal vescovo marsicense Giovanni IV, fu dichiarato da papa Celestino III immediatamente soggetto alla Santa Sede, ma con l’obbligo annuale di corrispondere, al vescovo di Marsico, una libbra di cera in occasione della festività di san Giorgio, quale censo simbolico.

Un «lattodotto» per i formaggi

Nel 1280, Ruggero Sanseverino, nel fondare un convento a Padula, vi trasferí gli Agostiniani di Marsico, per lasciarne il monastero alle Benedettine, al capo del quale si ritroverà, qualche anno dopo, Agnese d’Aquino, nipote di san Tommaso. La chiesa oggi nota come Madonna del Carmine, è stata ricostruita dopo il periodo medievale, riducendone l’estensione, ma mantenendo inalterati i livelli terranei e ipogeici. Il complesso monastico, di notevole estensione, ha goduto nel corso dei secoli di privilegi, donazioni e fama, per esservi monacate le fanciulle delle famiglie piú ricche della Valle dell’Agri e oggi tra le fabbriche medievali si ravvisano la torre campanaria della chiesa, con elementi di reimpiego, il portale di ingresso e i sotterranei, con la presenza del cimitero delle monache. Una curiosa leggenda locale narra dell’esistenza di un lattodotto che collegava il monastero al convento dei Cappuccini e dal quale i frati

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inviavano il latte alle monache, ricevendone in cambio i gustosi formaggi preparati dalle religiose. Fino al 1857, Marsico, cittadella sacra dalle molteplici fondazioni religiose, annoverava il cenobio celestino di S. Giacomo, sorto nel 1340 e la fondazione benedettina scomparsa di S. Martino, in parte distrutta già dai Saraceni, nell’881. Oltre a ciò, nel Medioevo, risultano esistenti le chiese di S. Andrea (1338), di S. Nicola, di S. Basilio extra moenia e di S. Matteo, documentata nel 1341. Delle chiese, rimangono oggi quella di S. Marco, di cui si ricorda una campana, fusa nel 1270 nelle fonderie romane, e S. Maria de Zamparello, oggi Madonna del Ponte o di Costantinopoli, con un prezioso altare con baldacchino del XVI secolo e affreschi del Cinquecento e del Settecento. Tra le costruzioni aristocratiche spicca Palazzo Barrese, che ingloba sul prospetto di piazza Santa Croce, un’iscrizione del 1175 (narra d’un restauro al tempo dei normanni Ruggero e Guglielmo il Buono) ed è munito in due angoli da torri della cinta longobarda e contigue alla scomparsa porta urbica di Santa Croce. La cittadina marsicense conobbe un consistente sviluppo demografico e urbano anche dopo il Medioevo. Alle fondazioni ecclesiastiche vanno aggiunte ben sei parrocchie, un convento di Cappuccini e numerosi palazzi (primi fra tutti, il Palazzo Pignatelli e quello dei Navarra) sorti al Portello, tra la Civita e il Casale. Il prestigio legato alla dimora della casata dei Sanseverino si affievolí già agli inizi del Quattrocento, quando alla sede di contea i signori preferirono la roccaforte di Diano, luogo in cui avvenne il tragico epilogo dinastico, nell’assedio di Federico d’Aragona del 1497. F

Da leggere AA. VV., Monasteri italo greci e benedettini in Basilicata, Soprintendenza B.A.A. della Basilicata, 2 voll., Matera 1996 AA.VV., Itinerari del Sacro in Terra lucana. La Basilicata verso il Giubileo, Consiglio Regionale della Basilicata, Potenza 1999, anno XXIV n. 2, 92. Carlo Palestina, L’arcidiocesi di Potenza Muro Marsico, S.T.E.S., Potenza 2001 Giuseppe Pasquariello, Marsico antica e medievale, Unitre, Università delle Tre Età, Lavello (Pz) 2004

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Sulamith Brodbeck, Manuela De Giorgi, Marina Falla Castelfranchi, Catherine JolivetLévy, Marie Patricia Raynaud (a cura di) San Filippo di Fragalà. Monastero greco della Sicilia normanna Storia, architettura e decorazione pittorica

École française de Rome e Mario Adda Editore, RomaBari, 255 pp., ill. b/n e col.

70,00 euro ISBN 978-2-7283-1292-4 www.publications.efrome.it www.addaeditore.it/

Arroccato a 730 m di altezza sul monte Castro, all’interno del Parco dei Monti Nebrodi (Messina) nei pressi del villaggio di Frazzanò, il complesso medievale di S. Filippo di Fragalà costituisce una straordinaria testimonianza architettonica, nonché uno degli esempi meglio documentati sulla storia di un cenobio siculo-greco d’epoca normanna. Fondamentali per la storia del complesso sono, infatti, i tre testamenti dall’igumeno Gregorio (1097-8 e 1105), la carta di fondazione del conte Ruggero I d’Altavilla (1090) e, piú recenti, gli inventari e i numerosi resoconti delle visite pastorali che hanno permesso

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di ricostruirne la vita e di seguire le trasformazioni subite nel corso dei secoli. Curato da cinque esperte dell’arte medievale e preceduto nel 2008 da una monografia di Shara Pirrotti incentrata sulla storia del monastero e sul suo ruolo nell’ambito del monachesimo siciliano, il volume si propone come ideale completamento del

lavoro della Pirrotti stessa, incentrandosi in particolar modo sulla storia «fisica» del monumento. Da ciò, l’esigenza di coinvolgere storici dell’arte e archeologi che, attraverso studi e ricognizioni, hanno offerto, da prospettive diverse, il proprio contributo alla storia architettonico-artistica del convento. Nella parte introduttiva del volume si succedono i contributi sulla storia del monastero (Jean-

Marie Martin), sulla storia della biblioteca conventuale (Vera von Falkenhausen), sulle vicende piú recenti del monastero (Antonello Pettinagno) e sulla fortuna storiografica del monumento (Giulia Arcidiacono). La sezione centrale – sicuramente la piú interessante e innovativa dell’opera – è invece dedicata all’analisi approfondita dell’architettura e, in particolare, del ricco programma pittorico (purtroppo giunto a noi in precarie condizioni) in cui gli studi di MariePatricia Raynaud, Carla Maria Amici, Mario Re, Manuela De Giorgi, Marina Falla Castelfranchi e, ovviamente, delle due curatrici del volume, fanno luce sul contesto artistico tra l’XI e il XII secolo, chiarendo le relazioni artistiche, cultuali e culturali tra la Sicilia, la cultura bizantina e l’Occidente. L’ultima sezione propone infine due studi di sintesi sulla storia del monumento visto nel contesto dell’edilizia monastica italo-greca, e sul programma agiografico, che rivela puntuali interferenze tra tradizione bizantina

e siculo-greca. Due appendici si soffermano sul tema dell’agiografia greca nella Sicilia bizantina (Augusta Acconcia Longo) e sulla figura di san Filippo d’Agira (Cesare Pasini). L’approccio multidisciplinare che ha visto lo sforzo congiunto di medievisti, storici dell’arte, archeologi, epigrafisti, frutto di una proficua collaborazione francoitaliana, si è avvalso del fondamentale contributo dell’Università del Salento e del laboratorio di ricerca francese Religions et sociétés dans le monde méditerranéen (Labex RESMED), grazie ai quali è stata possibile la realizzazione delle campagne di scavo del 2010 e 2012 e di questo volume. Franco Bruni Chris Wickham L’Europa nel Medioevo

Carocci Editore, Roma, 444 pp., ill. col.

34,00 euro ISBN 978-88-430-8996-3 www.carocci.it

Un nuovo sguardo sul Medioevo, titolo scelto per il primo capitolo di questa Europa nel Medioevo di Chris Wickham, rende subito

chiaro l’intento di uno dei piú importanti medievisti del nostro tempo. Se molto è stato detto e scritto sui circa mille anni di quest’epoca, allora la necessità di una nuova pubblicazione risiede proprio nello sguardo, nel taglio diverso da dare all’età di Mezzo. Lo sguardo di chi non cerca nel Medioevo solamente spiegazioni di una storia piú recente, rendendolo un mero strumento, ma che coglie l’importanza in sé delle vicende, dei personaggi e dei luoghi. Ogni capitolo non è scandito da una definizione temporale, quanto da uno o piú avvenimenti ritenuti fondamentali dall’autore, rimarcando l’importanza dei principali momenti di cambiamento. Momenti, questi, fondamentali anche nello scandire l’inizio e la fine di un’epoca che, essendo finalmente, tanto da Wickham settembre

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quanto dall’odierna tradizione storiografica, rivalutata in un’ottica positiva, rischiava di perdere una precisa collocazione temporale quanto piú necessaria. Attraverso le tematiche principali – quali politica, economia e cultura – il volume invita il lettore a uno studio approfondito, facilitato tanto dal linguaggio scorrevole e preciso quanto dall’ampio apparato di note e di bibliografia. Il lavoro di Wickham è impostato in maniera tale da inserirsi nell’ambito della manualistica, ma instillando, tanto negli addetti ai lavori, quanto negli appassionati del Medioevo, un nuovo modo di vedere la storia. Tommaso Mammini

avrebbe certamente un gran daffare. Il volume è infatti dedicato alla storia di Titivillus, figura demoniaca alla quale si attribuiva la capacità di distrarre gli amanuensi dal loro paziente lavoro, facendo sí che le loro opere si macchiassero di refusi piú o meno gravi. Come spiega González Montañés nell’Introduzione, questa definizione del ruolo del demone è in realtà frutto di una creazione moderna,

Julio Ignacio González Montañés Titivillus Il demone dei refusi

traduttore Roberto Russo,

che si può far risalire Graphe.it edizioni, Perugia, alla seconda metà 68 pp., ill. b/n del XIX secolo. Tutte 6,00 euro le rappresentazioni ISBN 978-88-9372-043-4 artistiche a oggi note e www.graphe.it le citazioni contenute In un’epoca in cui ci in opere letterarie di Martínpiú Codax, varia natura evocano si Ondas. affida sempre Cantigas de Amigo spesso (e talvolta infatti Titivillus come Vivabiancaluna Hamon ciecamente…) ai Biffi, Pierre creatura che aveva Arcana ortografici (A390), 1 CD altre prerogative, correttori www.outhere-music.com automatici, il come per esempio protagonista di questo quella di essere un delizioso saggio grammatico e uno

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scrittore. E certamente, alla ricostruzione della sua identità non ha giovato la confusione ingenerata dall’esistenza di almeno una decina di varianti del suo nome, da Tytinillus a Tibini... Inquadrate dunque le coordinate essenziali, ha inizio il vero e proprio viaggio alla scoperta di questo curioso demone, di cui l’autore ripercorre la fortuna letteraria e artistica, scegliendo come epilogo della sua trattazione l’analisi delle testimonianze riconducibili all’Italia. Segue una divertente e variegata appendice iconografica, che ci mostra un Titivillus sempre all’opera, perlopiú con fare beffardo, mentre annota sulle sue pergamene errori, peccati e altre manchevolezze. Stefano Mammini Maria Alessandra Bilotta (a cura di) Medieval Europe in Motion

Officina di Studi Medievali, Palermo, 441 pp., ill. b/n

28,00 euro ISBN 978-88-6485-106-8 www.officinastudimedievali.it

Opera di taglio specialistico, il volume raccoglie gli interventi presentati in occasione dell’omonimo convegno

credere – non fu d’ostacolo un sistema di trasporti e comunicazioni ancora lontano dalla velocità e dall’immediatezza contemporanee. S. M. Erberto Petoia Storia segreta del Medioevo

internazionale, svoltosi a Lisbona nel 2013. I venticinque contributi confluiti nell’opera analizzano in chiave multidisciplinare le dinamiche della circolazione di stili e correnti artistiche nell’Europa medievale. Un fenomeno che, naturalmente, si tradusse anche negli spostamenti di persone e comunità, che costituiscono il filo conduttore parallelo dell’opera. La maggior parte dei temi scelti si riferisce all’ambito ispanoportoghese, ma non mancano altre realtà geografiche – quali l’Irlanda o la Francia – e analisi di tipo «trasversale», come nel caso delle riflessioni di Ludovico Geymonat sui taccuini e i disegni di viaggio del XIII secolo. Nell’insieme, emerge un quadro caratterizzato da una notevole mobilità, alla quale – a dispetto di quel che si potrebbe

Newton Compton Editori, Roma, 384 pp., ill. b/n

12,90 euro ISBN 978-88-227-1378-0 www.newtoncompton.com

Autore ben noto ai lettori di «Medioevo», Erberto Petoia propone

una riflessione su una serie di vicende emblematiche del percorso compiuto dalla società medievale sulla strada della cristianizzazione. Un percorso spesso doloroso e piú volte contrassegnato dall’esplosione, tragica e violenta, dei contrasti fra visioni ancestrali del mondo e il nuovo modello di vita propugnato dalla dottrina di Cristo. S. M.

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