Medioevo n. 259, Agosto 2018

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BATTAGLIA DELLA MELORIA DONNE NEL TRECENTO UMBRIA «TERRA DI MEZZO» VALCERRINA DOSSIER IL MARMO

Mens. Anno 22 numero 259 Agosto 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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Il marmo

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MEDIOEVO n. 259 AGOSTO 2018

EDIO VO M E www.medioevo.it

MONFERRATO

Itinerari in Valcerrina

UNA «TERRA DI MEZZO» NEL CUORE

UMBRIA



SOMMARIO

Agosto 2018 ANTEPRIMA

Dossier

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IL PROVERBIO DEL MESE Mettere alla berlina

Punizioni plateali

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MUSEI Statue «parlanti» per la Serenissima A tutto Medioevo C’è un tesoro in Sagrestia...

6 14 18

ARCHEOLOGIA La lunga vita di un chiostro

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APPUNTAMENTI In dieci per il palio Giganti in corteo L’Agenda del Mese

20 21 26

STORIE BATTAGLIE Meloria Il grande gioco di Furio Cappelli

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LUOGHI

32

ITINERARI Una Terra di Mezzo nel cuore dell’Umbria testi di Arnaldo Casali e Federico Fioravanti

58

CALEIDOSCOPIO CARTOLINE Monferrato, fra le colline e il fiume

104

LIBRI Lo scaffale

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MUSICA Al di là e al di qua delle Alpi

COSTUME E SOCIETÀ IDEALE ESTETICO Bionde come il sole di Elisabetta Gnignera

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IL MARMO Una storia di fatica e di bellezza 77 di Christiane Klapisch-Zuber

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MEDIOEVO n. 259 AGOSTO 2018

MEDIOEVO

17/07/18 12:13

MEDIOEVO Anno XXII, n. 259 - agosto 2018 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Arnaldo Casali, giornalista, storico e saggista, è direttore artistico di Popoli e Religioni-Terni Film Festival. Francesco Colotta è giornalista. Federico Fioravanti è giornalista e ideatore del Festival del Medioevo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Elisabetta Gnignera è studiosa di storia del costume medievale e rinascimentale italiano. Christiane Klapisch-Zuber è storica del Medioevo e del Rinascimento. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Tommaso Mammini è laureando in storia contemporanea presso «Sapienza» Università di Roma. Chiara Parente è giornalista. Dominique Rigaux è storica del Medioevo. Stefania Romani è giornalista. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Fiorenzo Lo Grasso: copertina e pp. 58-59, 60, 61 62 (alto e centro), 63 (alto), 64 – Mondadori Portfolio: pp. 49, 52-53, 54/55, 102/103; AKG Images: pp. 5, 36/37 (alto), 103; Leemage: pp. 34/35, 56 (sinistra), 77, 82; Electa/ Arnaldo Vescovo: p. 35; Album: pp. 48, 50/51, 94/95; Electa/Mauro Ranzani: pp. 88/89; su concessione MiBAC – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 6-9, 14 (basso), 15-16, 18-19, 90-93, 108 – Cortesia Soprintendenza ABAP Marche: pp. 10-11 – Stefano Mammini: p. 14 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 20-21, 104-107, 109 – DeA Picture Library: pp. 32/33; Biblioteca Ambrosiana: pp. 42/43; A. Dagli Orti: p. 83 – Shutterstock: pp. 34, 72/73, 78/79, 86/87 – Archivi Alinari, Firenze: pp. 36/37 (basso); Folco Quilici: p. 44 – Cortesia Editori Laterza: p. 39 – Doc. red.: pp. 40-41, 54, 56 (destra), 62 (basso), 63 (basso), 65 (alto), 71, 79, 84-85, 87, 88, 96-99, 101 – Elena Volterrani: pp. 65 (basso), 66/67 – Sergio Giovannini: pp. 68-69, 70, 72, 73, 74-75 – Giorgio Albertini: disegno alle pp. 80/81 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 60, 104.

Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano In copertina veduta del borgo di Rotecastello, cioè «ruotacastello», frazione di San Venanzo (Terni).

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Nel prossimo numero storie

costume e società

Quando la Terra Santa cadde nelle mani degli «infedeli»

Il mercato immobiliare nel Medioevo

mostre

dossier

Gubbio al tempo di Giotto

La massoneria


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Punizioni plateali

M

ettere alla berlina significa esporre qualcuno al ludibrio, renderlo ridicolo in pubblico. La parola «berlina» ha origini tedesche e fa forse riferimento al termine bretling, che significa asse, tavola. La piú antica menzione dell’uso della berlina in Europa risale all’820, in piena età carolingia. Nel Medioevo, infatti, in Germania (ma non solo) si usava esporre i condannati al pubblico ludibrio, sistemandoli su un palco o su un carro, preceduti dai banditori che ne annunciavano il crimine. I disgraziati potevano essere appunto «messi alla berlina», bloccati cioè tra due assi, con il capo e le mani sporgenti. Un cartello infamante poteva segnalare la pena, ma considerato quanto poco fossero diffuse la scrittura e la lettura nei secoli a cavallo del Mille tra i ceti meno abbienti – probabilmente i piú accaniti spettatori di simili spettacoli – non si deve immaginare che fosse pratica frequente. La berlina tradizionale ospitava due condannati alla volta, ma in alcune aree ne furono realizzate versioni «extra large», come quella di Saffron Walden, nell’Essex, che poteva

accogliere fino a cinque malfattori per volta. Ma chi poteva essere «messo alla berlina»? Si trattava perlopiú di colpevoli di reati minori: bottegai o commercianti che avevano gabbato i propri clienti, quanti vendevano merci scadenti, ubriaconi, vagabondi, adulteri. Sinonimo di «berlina» è il termine «gogna» (forse dal latino coniungula, cinghia del giogo), che indica l’anello di ferro sistemato al collo dei condannati alla berlina per essere fissato al muro con una catena. Al solito la vittima, cosí immobilizzata, veniva esposta alla folla che la scherniva e umiliava. Infine vi era il «thew», riservato alle donne, una sorta di parente della gogna, diffuso nell’Inghilterra medievale. Nel 1364, per esempio, una birraia, Alice de Caustone, fu condannata «con la berlina del thew per le donne» per aver servito agli avventori boccali dal doppio fondo. Se la posizione prona e il blocco degli arti potevano arrecare al massimo scomodità, la vergogna pubblica e la reazione della gente erano la vera essenza della punizione. Benché l’esposizione durasse poche ore o al massimo qualche giorno, il malcapitato poteva infatti subire le peggiori angherie: poteva essere ricoperto di sterco, divenire bersaglio di pietre, subire lacerazioni o ustioni. Il trattamento poteva talvolta essere fatale, come accadde a un ladro spergiuro di nome John Walker, ucciso dal lancio delle pietre.

Miniatura raffigurante una donna messa alla gogna, da un’edizione manoscritta dei Coutumes de Toulouse. 1296. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


ANTE PRIMA

Statue «parlanti» per la Serenissima MUSEI • Il nuovo allestimento del Museo dell’Opera

di Palazzo Ducale, a Venezia, esalta la produzione artistica e architettonica dell’età medievale. E permette di ammirare le sculture realizzate dai fratelli Jacobello e Pierpaolo dalle Masegne per rappresentare allegoricamente la sottomissione del doge allo Stato 6

agosto

MEDIOEVO


E

ntrando in Palazzo Ducale, a Venezia, l’itinerario di visita comincia dal Museo dell’Opera, che al piano terra custodisce, dalla fine dell’Ottocento, le testimonianze dell’attività di ristrutturazione portata avanti dall’antica Fabbriceria. Questo spazio, che accoglie colonne e capitelli di epoca gotica, è stato oggetto di un nuovo allestimento, firmato dall’architetto e scenografo Pier Luigi Pizzi, sotto la direzione scientifica di Gabriella Belli, direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia. Il percorso è stato inaugurato con la rassegna che la Serenissima ha recentemente dedicato a John Ruskin, artista, scrittore e critico d’arte britannico (1819-1900), che ha studiato a lungo il patrimonio medievale della città lagunare. Nella rinnovata esposizione permanente hanno fatto il loro ingresso Virtú e Santi scolpiti dai fratelli Jacobello e Pierpaolo dalle Masegne nei primi anni del XV secolo, per il Balcone della Sala del Maggior Consiglio.

Nuova luce sul Medioevo Come ci racconta Gabriella Belli, «con la mostra su Ruskin abbiamo riacceso l’interesse per l’età di Mezzo, di cui l’intellettuale fu sostenitore, scopritore e promotore. Nelle pagine de Le Pietre di Venezia, Ruskin dedica attenzione a ciò che era rimasto intonso, sopravvivendo al sovrapporsi di stili, che nei secoli scorsi avevano la caratteristica di azzerare le espressioni artistiche precedenti». Il direttore spiega che l’esposizione è stata «il casus belli per riprendere in mano il percorso espositivo e mettere in luce la parte piú autentica di Palazzo Ducale. Il Museo dell’Opera espone infatti i pezzi che, verso la fine del XIX secolo, vennero tolti dalle facciate e ricoverati alla rinfusa nelle cantine della struttura, per essere sostituiti da copie». Negli anni Novanta del Novecento i capitelli entrarono finalmente in una

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agosto

Sulle due pagine il nuovo allestimento del Museo dell’Opera di Palazzo Ducale, a Venezia. Nella foto alla pagina accanto, in alto, si vedono due delle statue scolpite agli inizi del XV sec. da Jacobello e Pierpaolo dalle Masegne, per il Balcone della Sala del Maggior Consiglio.

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ANTE PRIMA

collezione permanente, che però, con il tempo, aveva perso in appeal. Da qui l’idea di arricchire l’area che racconta la storia medievale di Venezia, con le sculture di Virtú e Santi, legate a un incarico importante, commissionato dal doge Antonio Venier a due artisti fra i piú assidui e interessanti dell’epoca, attivi anche a Bologna, Mantova e Modena. Le opere, oggetto di un restauro recente, trovano cosí una collocazione coerente, in un dialogo serrato con altri elementi gotici. «Le nove personificazioni in marmo di Carrara, materiale di straordinaria qualità, sono fra le prime testimonianze della storia di Palazzo Ducale, a ribadire il livello delle commissioni fatte secondo un culto della bellezza che sottende l’alto valore della civiltà prerinascimentale. Un tema straordinario per Venezia, il cui carisma viene tradizionalmente identificato con il Rinascimento

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o con il Settecento. E visto che il Gotico non è stato oggetto di mostre specifiche, è indispensabile pensare, nel giro di due o tre anni, a una grande mostra su Venezia medievale», aggiunge Gabriella Belli.

Incarnare l’ordine dello Stato Il nuovo allestimento con il gruppo scultoreo rimanda cosí allo stile grandioso che connotava la parte piú antica del palazzo, ovvero la facciata meridionale, restaurata in seguito all’incendio del 1557, quando andarono distrutti i trafori che prima incorniciavano le finestre. Le statue «parlanti», commissionate da Antonio Venier, ma terminate con il successore Michele Steno, furono scolpite fra il 1400 e il 1404, con l’obiettivo di incarnare l’ordine dello Stato: il doge, circondato dalla personificazione delle virtú che dovrebbe incarnare, ovvero Temperanza, Giustizia, Speranza, agosto

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Sulle due pagine altri particolari del nuovo allestimento del Museo dell’Opera di Palazzo Ducale. Palazzo Ducale. Nel museo sono esposti gli elementi architettonici dell’edificio che, alla fine dell’Ottocento, vennero tolti dalle facciate per essere sostituiti da copie.

Fede, Fortezza, Carità, si inchina al leone di San Marco, che simboleggia lo Stato, in un complesso sovrastato dai santi Pietro e Paolo, principi degli Apostoli, e da san Marco, patrono di Venezia. Nell’impianto originario, l’intera scena allude quindi alla sottomissione del doge allo Stato, secondo un programma iconografico che precorre la Porta della Carta e l’Arco Foscari del Palazzo. Jacobello e Pierpaolo Dalle Masegne, che influenzarono anche lo stile in terraferma, fra il 1380 e il primo decennio del secolo successivo, ebbero un ruolo di rilievo in città, nella veste di scultori e nei progetti di tombe e portali. Stefania Romani DOVE E QUANDO

Museo dell’Opera Venezia, Palazzo Ducale Orario tutti i giorni, 8,30-19,00 Info tel. 041 2715911; e-mail: info@fmcvenezia.it; http://palazzoducale.visitmuve.it

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ANTE PRIMA

La lunga vita di un chiostro ARCHEOLOGIA •

Recenti scavi condotti nel chiostro dell’abbazia cistercense di S. Maria in Castagnola, presso Chiaravalle (Ancona), hanno gettato nuova luce sulla storia di questo settore del grande complesso religioso

I

nterventi di archeologia preventiva condotti nel chiostro monumentale dell’abbazia cistercense di S. Maria in Castagnola a Chiaravalle (Ancona) hanno rivelato un deposito archeologico molto ben conservato e articolato su piú fronti topografici e cronologici, mentre precedenti indagini stratigrafiche nel piazzale est e nel settore a nord-est dell’abside avevano già messo in luce resti e strutture di un’area cimiteriale medievale e postmedievale. «La nuova indagine stratigrafica – spiega Maria Raffaella Ciuccarelli, funzionario archeologo della In alto Chiaravalle (Ancona), abbazia di S. Maria in Castagnola. Basi di colonne dell’antica sala capitolare e un ossario messi in luce durante le recenti indagini. A destra uno dei numerosi reperti in vetro, in questo caso un bicchiere, restituiti dagli scavi.

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Soprintendenza ABAP delle Marche – ha condotto all’individuazione di consistenti livelli di frequentazione relativi all’età del Bronzo – generalmente ben conservati –, ma, soprattutto, inediti contesti di età medievale e post medievale. Per quanto riguarda la fase medievale lo scavo ha evidenziato importanti

indizi sulla configurazione originaria del chiostro monastico, portando alla luce frammenti dell’antico perimetro del loggiato, composto originariamente da tratti murari con contrafforti, del tutto simili a quelli tuttora visibili nell’omonima abbazia di Chiaravalle di Milano».

L’antica sala capitolare «Di notevole interesse sono i resti in situ del colonnato interno della vecchia sala capitolare, rinvenuti al di sotto del corridoio est di accesso al chiostro. Due basamenti di colonna della sala cistercense e il residuo di una successiva fase pavimentale testimoniano attività di ristrutturazione dell’ambiente e la presenza di un ossario ipogeo in mattoni. Il rinvenimento permetterà quindi la ricostruzione della planimetria della sala capitolare, oggi modificata dopo gli interventi napoleonici. agosto

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A destra Chiaravalle (Ancona). Il chiostro monumentale dell’abbazia di S. Maria in Castagnola, interessato dagli scavi. In basso frammento di un mattone vetrificato.

cantiere (mattoni “cistercensi”, frammenti di fornaci, ferri da carpenteria, coppi). I depositi antropici documentati appena al di fuori del chiostro monastico e nel piazzale est hanno inoltre restituito significativi reperti vitrei, pertinenti ai corredi potori medievali e rinascimentali, con attestazione di lampade pensili per l’illuminazione. Tra le ceramiche prevalgono boccali in maiolica arcaica, di diverse produzioni e fatture, e ceramiche comuni diffuse in area appenninica dai secoli centrali del Medioevo (paioli a cestello, brocche con beccuccio espanso)».

Ristrutturazioni e ricostruzioni A questa fase appartengono gli indizi raccolti in diverse aree dello scavo e riguardanti la costruzione/ ristrutturazione del complesso medievale (buche di ponteggio, fosse di fondazione). Tra questi, spicca una grande cavità, scavata nel banco argilloso e riempita da macerie e materiali combusti, oltre che da maioliche trecentesche e scarti di

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«Per la fase postmedievale, si configurano importanti ristrutturazioni e ricostruzioni che mutano l’aspetto e la sostanza del chiostro medievale. La sala capitolare viene smantellata per far posto al grande corridoio di collegamento tra il chiostro e la zona degli orti. Con l’occasione si costruisce un ambiente ipogeo

in mattoni (cantina, magazzino), voltato a botte, il cui accesso originario è stato ripristinato in questa occasione. In questa fase si costruisce una grande cisterna al centro del chiostro, rinvenuta in fase di crollo-dissesto, alimentata da canalette in mattoni collegati alle gronde e da condotte provenienti dai locali interni del chiostro. Di piú difficile lettura risultano invece alcuni resti strutturali e stratigrafie documentati all’esterno del chiostro, presso l’ingresso est, che suggeriscono la presenza di attività produttive di diversa natura (lavorazione del vetro, sfruttamento degli orti), legate alla vita monastica tra Rinascimento ed età napoleonica. Maioliche policrome di produzione derutese e diverse monete dalla zecca di Bologna rinvenute nello scavo testimoniano, per questa fase, traffici attivi verso il Tirreno e l’Italia settentrionale. Ulteriori ceramiche, comuni e invetriate, sono pertinenti al servizio da fuoco e da mensa (catini, scaldini, olle)». Giampiero Galasso

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ANTE PRIMA

A tutto Medioevo

MUSEI • A Trento,

il Castelvecchio, la fabbrica piú antica del Castello del Buonconsiglio, propone un nuovo e ricco allestimento, consacrato all’arte dell’età di Mezzo

I

l Castello del Buonconsiglio di Trento ha svelato il nuovo allestimento del Castelvecchio, il nucleo piú antico del complesso. Qui si possono ora ammirare, in molti casi per la prima volta, magnifici strappi di affreschi medievali, dipinti su tavola appena restaurati, manufatti in vetro e lattimo decorati, maioliche, croci astili, ostensori, reliquiari, reperti archeologici, rilievi marmorei, medaglie bronzee del Pisanello e rare sculture lapidee policrome trecentesche. Oltre ai pezzi forti delle collezioni, come il raro piatto in vetro ametista con decorazioni a smalto eseguito a Murano nel 1450/60, finora esposto solo in occasione di mostre temporanee, il nuovo percorso è frutto della ricognizione,

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In alto Trento. Veduta del Castelvecchio, il nucleo piú antico del Castello del Buonconsiglio, edificato nella prima metà del XIII sec. Qui sopra il cortile a loggiati sovrapposti del Castelvecchio. agosto

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della riscoperta e del restauro del ricco patrimonio museale. Il nuovo percorso espositivo nella parte piú antica del castello è stato inaugurato poco piú di un mese fa, a conclusione della prima tranche di lavori di un intervento che si concluderà nel 2019, con il restyling espositivo anche del Magno Palazzo e che darà un volto completamente nuovo e accattivante al Buonconsiglio.

Un viaggio nel tempo Il riallestimento segue un criterio cronologico, con la precisa scelta di contestualizzare il contenitore, ovvero gli ambienti del castello, con le proprie collezioni. Oltre la sala introduttiva alla visita, negli ambienti che ospitavano la collezione egizia trova ora posto la ricca raccolta

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archeologica, ampliata negli spazi e con alcune novità espositive. Dopo alcuni anni trascorsi nei depositi, è infatti tornato a essere visibile il magnifico e monumentale mosaico romano proveniente dal Doss Trento, assieme ad altri reperti esposti per la prima volta, fra cui reliquiari, fibule, capitelli, un prezioso sacramentario gregoriano del IX secolo e corredi sepolcrali di varie zone del territorio. Nel nuovo spazio ricavato nell’andito alla Torre Granda sono esposti, nella prosecuzione dell’itinerario che contempla stabilmente nuovi suggestivi ambienti, alcuni rilievi lapidei, come con un leone di San Marco del XIV secolo, opera di Egidio da Campione, un affresco di San Giovanni e San Matteo, proveniente dalla chiesa di S. Biagio di Mori del

Da sinistra, in senso orario la loggia creata per raccordare i vari corpi di fabbrica del Magno Palazzo e detta «del Romanino», perché affrescata da Girolamo Romanino, tra il 1531 e il 1532; un’altra immagine del cortile a loggiati sovrapposti del Castelvecchio; il refettorio del Magno Palazzo fatto realizzare dal vescovo Bernardo Cles e decorato da Marcello Fogolino intorno al 1532. XII secolo, un capitello proveniente dal Duomo attribuito alla bottega d’Arogno, del XIII secolo.

Scene sacre e profane Come detto, fra gli oggetti piú significativi dell’età medievale si possono nuovamente ammirare vari affreschi staccati, come quello con scene dell’Adorazione dei Magi,

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ANTE PRIMA dell’Ascensione e dell’Annunciazione, eseguito attorno al 1360/1370, o come il grande riquadro del mese di aprile/maggio del 1330 con il Re di Calendimaggio, proveniente dal ciclo dei mesi di casa Franzinelli, restaurato per l’occasione, o ancora l’affresco della battaglia proveniente da Castel Madruzzo, oggetto della recentissima donazione Larcher Fogazzaro, il San Giorgio e la principessa, proveniente da Terres, e la stupenda tavola della Madonna dell’Umiltà, databile alla fine del Trecento e realizzata da un pittore di ambito veneto. Un’ulteriore sala è dedicata ai

tanti oggetti, monili, e suppellettili che testimoniano la raffinatezza raggiunta dall’elegante età gotica, e che preludono all’epilogo del percorso, che si chiude con il grande ambiente dedicato all’«autunno del Medioevo», dove oggetti di oreficeria accompagnano grandi altari a portelle che testimoniano l’adozione di modelli figurativi e formali di provenienza germanica, a illustrare la composita cultura trentina. Il percorso si raccorda a questo punto con quello interno al Magno Palazzo, in una soluzione che, secondo il criterio allestitivo cronologico, prosegue con le collezioni risalenti al XVI secolo, conducendo in tal modo il visitatore a proseguire il suo viaggio nella storia e nell’arte trentina.

Una testimonianza preziosa In parallelo, il Castello del Buonconsiglio ha inauguratato la rassegna «Madonna in blu. Una scultura veronese del Trecento», dedicata a una rara scultura Madonna in blu (già Madonna della rosa), statua policroma di produzione veronese, dal soppresso convento dei padri agostiniani di S. Marco in Trento. XIV sec. Trento, Castello del Buonconsiglio.

in pietra policroma del Trecento. Insieme con la Madonna allattante, molto probabilmente proveniente dalla cattedrale di Trento e ora nel Museo Diocesano Tridentino, opera del «maestro del sorriso», la trecentesca Madonna che viene ora esposta è tra le pochissime testimonianze rimaste di scultura lapidea veronese del Trecento nel Trentino. Proveniente dal soppresso complesso agostiniano di S. Marco, la Madonna in blu (già Madonna della rosa) è stata restaurata e ricondotta alle sue splendide cromie originali, su tutte la veste blu di azzurrite che ne fa un unicum nel panorama artistico nazionale. Entro il prossimo mese di dicembre, anche la biglietteria che si trova nel bastione sarà oggetto di un restyling, con grandi pannelli scenografici, installazioni video informative, e il visitatore potrà vedere la prima opera museale, ovvero un’ iscrizione lapidea del primo quarto del Seicento con la scritta in italiano e tedesco «Qui si paga il dazio». L’attuale bookshop verrà trasformato nel nuovo punto info del museo, nel quale verranno messi a disposizione dei visitatori filmati, una ricostruzione in 3D delle fasi evolutive del maniero, cartine geografiche, postazioni multimediali con l’intento di mostrare la rete dei castelli provinciali e la loro storia. Un grande plastico interattivo della città di Trento illustrerà inoltre il nesso tra castello e tessuto urbano nel corso dei secoli. (red.) DOVE E QUANDO

«Madonna in blu. Una scultura veronese del Trecento» Trento, Castello del Buonconsiglio fino al 28 ottobre Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; chiuso il lunedí Info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it

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MEDIOEVO



ANTE PRIMA

C’è un tesoro in Sagrestia...

È

stato inaugurato il nuovo allestimento del Tesoro del Santa Maria della Scala all’interno della Sagrestia Vecchia, che ricontestualizza, nell’ambiente che piú a lungo li ha ospitati, i reliquiari, le reliquie e l’Arliquiera, dipinta dal Vecchietta, fino a oggi conservata alla Pinacoteca Nazionale di Siena delle cui collezioni fa parte. È stato cosí recuperato il rapporto storico, politico e religioso che

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lega l’intervento del Vecchietta al trasferimento in questa sede, attorno alla metà del Quattrocento, dei cimeli, valorizzando, attraverso il nuovo sistema di illuminazione, anche gli affreschi, restituendoli alla loro pienezza cromatica.

Il dono di un mercante Lorenzo di Pietro, detto il Vecchietta, impegnato fino ad allora nella realizzazione della Storia di Sorore

MUSEI • I preziosi

oggetti sacri del Santa Maria della Scala di Siena tornano a farsi ammirare nel luogo che per primo li aveva custoditi. Insieme al magnifico armadio per le reliquie dipinto dal Vecchietta

A sinistra e a destra reliquiari facenti parte del Tesoro del Santa Maria della Scala di Siena, ora esposto nella Sagrestia Vecchia del grande complesso. per il Pellegrinaio, fu chiamato a dipingere le pareti e le volte dell’ambiente e il prezioso armadio ligneo destinato a contenere le reliquie. Queste ultime erano state acquistate a Venezia il 28 maggio 1359 dal mercante Pietro agosto

MEDIOEVO


di Giunta Torregiani, che ne era venuto in possesso due anni prima circa a Costantinopoli: l’atto, documentato dall’originale rinvenuto nell’Ospedale e dalle copie seicentesche, fu stipulato in forma di donazione per non incorrere nell’accusa di simonia. Del lotto, cosí come risulta dall’elenco del documento originale di donazione, facevano parte reliquie inerenti alla Passione, alla vera Croce e alla Vergine, oltre a numerosi altri santi.

Celebrazioni solenni A esse, citato come primo oggetto nell’elenco dell’atto di donazione, si aggiungeva l’Evangeliario, dalla preziosa copertina in oro, smalti e pietre dure. Proprio per

DOVE E QUANDO

Il Tesoro di Siena nella Sagrestia Vecchia Siena, Santa Maria della Scala Orario fino al 15 ott: tutti i giorni, 10,00-19,00 (giovedí, apertura serale fino alle 22,00); chiuso martedí Info tel. 0577 286300 (attivo lu-ve, 9,00-17,00); e-mail: sienasms@operalaboratori.com; www.santamariadellascala.com In alto l’allestimento della Sagrestia Vecchia, scelta per ospitare il Tesoro del Santa Maria della Scala. A sinistra particolare dell’Arliquiera, armadio per conservare le reliquie decorato da Lorenzo di Pietro, detto il Vecchietta. 1445-1446. celebrare l’arrivo delle preziose reliquie, sembra che il governo dei Dodici istituisse, fin dal 1360, la celebrazione del capodanno nel giorno della Santissima Annunziata, il 25 marzo, e ordinasse la realizzazione di un pulpito per la loro esposizione su piazza Duomo alla venerazione cittadina. Le reliquie, in origine custodite nella Cappella del Manto, spazio preesistente e appositamente

MEDIOEVO

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modificato dalla precedente destinazione, erano chiuse in cassoni a doppia serratura. Alla metà del Quattrocento è documentato il loro trasferimento nella Sagrestia Vecchia. Qui, per volontà del rettore Giovanni Buzzichelli, Lorenzo di Pietro lavorò alla decorazione delle pareti con il ciclo iconografico incentrato sull’illustrazione degli Articoli del Credo, ma dipinse anche l’Arliquiera, l’armadio destinato a

conservare i preziosi cimeli, decorato all’interno con otto Storie della Passione di Cristo e, all’esterno, con dodici Santi e beati senesi. Grazie al nuovo intervento, lo straordinario manufatto viene ricollocato nell’ambiente per il quale era stato realizzato e dal quale dialogava con il ciclo pittorico che aveva nella figura centrale del Cristo nel soffitto il punto di sintesi e unione. (red.)

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ANTE PRIMA

In dieci per il palio APPUNTAMENTI • Montagnana, la splendida «città murata»

del Veneto, si appresta a mettere in scena la rievocazione degli eventi che la videro contesa fra Padova e Verona

A

lla metà del XIII secolo, il tiranno Ezzelino III, vicario di Federico II di Svevia, riuscí a estendere il proprio dominio dal feudo di Onara (vicino a Bassano) a tutto il Veneto, parte dell’Emilia e della Lombardia. La sua morte, avvenuta a Soncino d’Adda per cancrena nel 1259, fu accolta con gioia dalle popolazioni locali, che entrarono però in disaccordo quando si trattò di dividersi i possedimenti ezzeliani. In particolare, il territorio di Montagnana si trovò al centro delle contese tra Verona e Padova, rispettivamente governate dagli Scaligeri e dai Da Carrara. Il 3 agosto 1337 l’esercito di Marsilio Da Carrara sconfisse definitivamente le truppe

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di Mastino Della Scala, guidate da Guidoriccio da Fogliano e cosí Montagnana e gli altri paesi limitrofi passarono sotto Padova.

La sfida tra i Comuni Oggi, annualmente, i dieci Comuni di Casale di Scodosia, Castelbaldo, Masi, Megliadino San Fidenzio, Megliadino San Vitale, Merlara, Montagnana, Saletto, Santa Margherita d’Adige e Urbana rievocano questi eventi storici, sfidandosi nel Palio dei Dieci Comuni, che si corre nel vallo di Rocca degli Alberi ogni prima domenica di settembre, quest’anno il 2. Ogni Comune si presenta con un corteo storico composto

da nobili, dame, notabili, altre figure istituzionali, tamburini e sbandieratori. Su un tracciato lungo 700 m, che ricorda il Circo Massimo di Roma, composto da due lunghi rettilinei delimitati da due secche curve a «U», si corrono due semifinali fra cinque cavalieri ciascuna. I primi due classificati di ogni semifinale, piú il miglior terzo, disputano la finale, preceduta da una corsa a piedi dei dieci gonfalonieri. Semifinali e finale si svolgono su tre giri di campo. Fa da corollario la Tenzone della Sculdascia, nella quale i dieci Comuni si sfidano nelle prove di tiro con l’arco, tiro alla fune e braccio di ferro. La rievocazione si chiude in serata agosto

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Giganti in corteo A

Sulle due pagine una veduta della magnifica cinta muraria che racchiude la città di Montagnana (Padova). In alto la gara che si corre in occasione del Palio dei 10 Comuni.

th, cittadina belga nella provincia vallone dell’Hainaut, celebra annualmente la tradizionale festa della Ducasse. Ogni quarto week end di agosto, quest’anno il 25 e 26, migliaia di persone partecipano a questo rito popolare, caratterizzato dalla presenza di giganti processionali. La festa si svolge in onore del patrono cittadino, Julien de Brioude, onorato il 28 agosto. Risale al 1399 la prima menzione di una processione che partiva dalla chiesetta di S. Giuliano, nel borgo detto della «vecchia Ath». Verso la metà del secolo successivo nel corteo religioso comparvero le prime figure del Vecchio e del Nuovo Testamento. La processione era allora finanziata dal Comune, dalla parrocchia e dalle confraternite locali. Dal XVI secolo il carattere religioso si ridusse fortemente, attenuandosi a favore del folklore. E dopo la Rivoluzione francese, diventò sostanzialmente una processione laica.

Figure religiose e mitologiche

con la simulazione dell’incendio della Rocca degli Alberi, a ricordo del fuoco che Ezzelino appiccò alla cittadina nel 1242. Montagnana è nota come «città murata», per le sue imponenti fortificazioni. Le mura attuali risalgono in larga parte al Trecento, quando i Carraresi le fecero ampliare e rafforzare per difendersi degli Scaligeri. La città fortificata è racchiusa in un quadrilatero di 600 x 300 m. Le mura sono alte 7-8 m; le 24 torri perimetrali raggiungono un’altezza di 17-19 m. Nel Medioevo, attorno alla cinta muraria correva un fossato e l’accesso alla città era controllato da due porte. Tiziano Zaccaria

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Risale al Quattrocento la tradizione dei «giganti» nei cortei religiosi, nei carnevali e nelle feste in generale, nel Belgio e nel Nord della Francia. Oggi il contesto politico, economico e culturale è cambiato, ma i giganti sono sopravvissuti laddove la tradizione si è saldamente radicata. Essi rappresentano perlopiú figure religiose e mitologiche, come Davide, Golia, Ercole e Sansone. L’attuale Ducasse inizia il sabato mattina, quando per le vie cittadine sfilano alcuni giganti capeggiati da Golia, il re della festa, che accompagna all’altare della chiesa di S. Giuliano la sua fidanzata per sposarla. Nel pomeriggio va in scena il leggendario combattimento tra Golia e Davide. Domenica la festa raggiunge il culmine, con il corteo folcloristico di tutti i giganti cittadini, accompagnati da carri addobbati e gruppi musicali. La Ducasse di Ath è inserita nel Patrimonio culturale immateriale dell’Umanità dell’UNESCO. T. Z.

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ANTE PRIMA

Un sogno medievale D

al 23 al 26 agosto Finalborgo, l’antico Burgum Finarii, torna a ospitare il «Viaggio nel Medioevo», manifestazione organizzata dal Centro Storico del Finale in collaborazione con i Portoghesi della Companhia de Teatro Viv’Arte e che vede esibirsi nel Borgo centinaia di «artisti medievali» provenienti da tutta Europa. Dopo aver ricevuto premi e riconoscimenti anche in ambito internazionale, la rassegna può fregiarsi quest’anno del logo «2018 Anno Europeo del Patrimonio Culturale #EuropeForCulture», concesso dal Ministero dei Beni Culturali. Un giusto riconoscimento, che gratifica gli oltre cento volontari dell’attiva Associazione storica finalese per il lavoro svolto e consacra la manifestazione fra i principali eventi medievali dell’intera regione. Artisti di strada, attori, mangiafuoco, giocolieri, musici, danzatori, sbandieratori, ammaestratori di rapaci, cavalieri, arcieri, spadaccini, osti e locandieri. Professionisti del settore provenienti da diverse località d’Europa si incontrano nell’antico Borgo per contendersi le piazze e le vie.

La moneta del marchesato

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

Ogni angolo del Borgo è animato e colorato da bandiere, festoni e insegne medievali. Combattimenti tra mercenari irruenti o duelli cortesi dei cavalieri di ventura. Attraversando le porte di Finalborgo si avrà la sensazione di varcare le porte del tempo ed essere immersi in un sogno medievale. In tutto il paese rifioriscono antiche botteghe dove i commercianti e gli artigiani, cogliendo lo spirito della festa medievale, accettano il finarino,

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Dall’alto in basso immagini del «Viaggio nel Medioevo», l’ormai tradizionale appuntamento che, nel mese di agosto, anima le vie e le piazze di Finalborgo (Savona). la moneta del marchesato del Finale. Centinaia di personaggi si avvicendano per le vie di Finalborgo popolate di avventori in costume, con strade e piazze animate da dame, cavalieri e popolani, concerti di musica celtica-medievale, tornei a cavallo, torture e storia dal vivo in modo da riprodurre il XV secolo, epoca nella quale il marchesato del Finale, feudo della prestigiosa famiglia dei del Carretto, visse il suo periodo di maggior fulgore. Non mancheranno gli antichi mestieri, i giochi medievali e l’impeccabile e attesissima cena medievale alla «Locanda dei Cavalieri» nella splendida cornice dei Chiostri di Santa Caterina. Info Associazione Centro Storico del Finale – Piazza Santa Caterina 11 – 17024 Finale Ligure (SV); tel./fax 019 690112 oppure 347 0828855; e-mail: info@centrostoricofinale.it; www.centrostoricofinale.it agosto

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre

FERMO

RANCATE (MENDRISIO, SVIZZERA)

IL QUATTROCENTO A FERMO Chiesa di S. Filippo fino al 2 settembre

IL CAVALLO: 4000 ANNI DI STORIA. COLLEZIONE GIANNELLI Pinacoteca cantonale Giovanni Züst fino al 19 agosto

L’uomo e il cavallo hanno cominciato a «conoscersi» già in epoca preistorica e, nel tempo, quel rapporto si caricò anche di forti valori simbolici. La Pinacoteca Giovanni Züst di Rancate (Mendrisio, Svizzera) si concentra su uno degli

aspetti tecnici legati all’utilizzo del cavallo da parte dell’uomo, quello dei morsi, grazie a una selezione di esemplari appartenenti alla Collezione Giannelli, una delle piú importanti al mondo nel settore. Il percorso espositivo spazia da manufatti riferibili ai nomadi delle steppe asiatiche (che furono i primi ad addomesticare il cavallo) a oggetti riferibili alle piú importanti civiltà dell’Occidente – Etruschi, Greci, Romani –, per poi attraversare il Medioevo e il Rinascimento, fino a giungere ai giorni nostri. Della selezione fanno parte anche speroni e staffe, nonché dipinti, incisioni, libri antichi e perfino un cavallo a dondolo di epoca settecentesca. info www.ti.ch/zuest

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Compresa nel progetto di valorizzazione del patrimonio culturale regionale «Mostrare le Marche», la mostra riunisce alcuni importanti capolavori, tra cui il Polittico di Sant’Eutizio di Nicola di Ulisse da Siena, che arriva da Spoleto ed è stato appena restaurato dopo il terremoto del 2016, la Madonna in Umiltà con santa Caterina, Crocifissione, un dipinto di grande pregio di Andrea Delitio, e il Polittico di Massa Fermana di Carlo Crivelli, prima opera marchigiana dell’artista veneziano a cui la mostra dedica una notevole sezione, insieme a dipinti del fratello Vittore Crivelli. Fra gli oggetti d’arte, come oreficerie o tessuti, vi è anche un gruppo di ceramiche, che comprendono pregevoli boccali e piatti dell’Officina

«Sforzesca» di Pesaro della seconda metà del Quattrocento. info tel. 0734 217140; e-mail: fermo@sistemamuseo.it; www.sistemamuseo.it FERRARA EBREI, UNA STORIA ITALIANA. I PRIMI MILLE ANNI Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 16 settembre

Con questa mostra, che ha segnato l’inaugurazione del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della

Shoah-MEIS, si illustrano le origini della presenza ebraica in Italia dai suoi albori sino al Medioevo, evidenziandone i caratteri di specificità e unicità. Il percorso espositivo, che prefigura la prima sezione del futuro Museo, presenta oggetti autentici, repliche, modelli, immagini, mappe, scenografie e dispositivi multimediali, grazie ai quali si raccontano il primo millennio di storia dell’ebraismo italiano, il suo radicamento e la sua espansione grazie alle conversioni e agli apporti da altri territori, e il processo di formazione della sua peculiare identità. Da dove sono venuti gli Ebrei italiani? Quando? Perché? E, una volta giunti in Italia, dove hanno scelto di attestarsi? Quali rapporti hanno stabilito con le popolazioni residenti, con i poteri pubblici: prima con la Roma imperiale, poi con la

Chiesa, ma anche con i Longobardi, i Bizantini e i musulmani, sotto il cui dominio hanno vissuto? Quali sono stati la vita, le consuetudini, la lingua, la cultura delle comunità ebraiche d’Italia nel corso di tutto questo lungo tempo? E soprattutto: che cosa ha di particolare e di specifico l’ebraismo italiano rispetto a quello di altri luoghi della diaspora? Le risposte a questi interrogativi sono affidate a un nuovo modo di presentare la storia in un museo: un modo che pone esplicitamente al centro le persone e non le cose, le persone attraverso le cose. Gli oltre duecento oggetti in mostra, alcuni dei quali mai esposti in una sede pubblica, sono stati selezionati soprattutto per rappresentare i contesti di cui sono testimonianza. La loro conoscenza e agosto

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comprensione è affidata anche ai titoli e ai testi di sala, ai documenti e alle immagini, alle ricostruzioni e alle evocazioni di ambienti, di situazioni, di eventi, e alle parole dei curatori e degli esperti, che lungo l’itinerario si rivolgono al visitatore attraverso i video, rendendo esplicita l’interpretazione storica proposta. info www.meisweb.it FIRENZE FIRENZE E L’ISLAM. ARTE E COLLEZIONISMO DAI MEDICI AL NOVECENTO Museo Nazionale del Bargello fino al 23 settembre

Organizzata dagli Uffizi con il Museo Nazionale del Bargello, la rassegna è un’occasione di scoperta, conoscenza, scambio, dialogo e influenza tra arti di Occidente e Oriente. Protagonista del progetto espositivo è l’arte islamica,

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con i suoi straordinari tappeti, i “mesci roba” e vasi “all’azzimina” ovvero ageminati (tecnica di lavorazione dei metalli per ottenere una decorazione policroma), i vetri smaltati, i cristalli di rocca, gli avori, le ceramiche a lustro: quelle in verità provenienti dall’Islam Occidentale, la Spagna; da noi chiamate majolica dall’ultimo porto di partenza, Maiorca. La mostra si articola in due sedi espositive: al Bargello viene illustrato un periodo fondamentale di ricerca, collezionismo e allestimenti museali di fine Ottocento e inizio Novecento. Agli Uffizi sono raccolte le testimonianze artistiche dei contatti fra Oriente e Occidente le loro suggestioni (a partire dai caratteri arabi delle aureole della Vergine e di san Giuseppe nell’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano), le immagini della serie gioviana per mano di Cristofano dell’Altissimo, gli esemplari preziosi della lavorazione dei metalli, ricercatissimi già dai tempi di Lorenzo il Magnifico, le ceramiche orientali, o quelle ispano-moresche con stemmi nobiliari fiorentini. Stoffe e grandi tappeti provenienti dall’Egitto mamelucco di fine Quattrocento o degli inizi del Cinquecento, entrati molto presto nelle collezioni mediceo-granducali, i vetri, i metalli che hanno influenzato una coeva produzione italiana, e non ultimi gli splendidi manoscritti miniati e non (fra i quali spiccano le pagine del piú antico manoscritto datato (1217) del Libro dei Re del

persiano Firdusi, posseduto dalla Biblioteca Nazionale) e gli esemplari orientali, rari per datazione e provenienza, della Biblioteca Medicea Laurenziana. info www. bargellomusei. beniculturali.it; www.uffizi.it MONTEPULCIANO LEONARDO DA VINCI. ANATOMIE: MACCHINE, UOMO, NATURA Fortezza fino al 7 ottobre

Oltre che come artista eccezionale, Leonardo da Vinci (1453-1519) è stato a lungo celebrato come inventore di macchine e dispositivi meccanici straordinari, che sarebbero divenuti patrimonio comune della cultura tecnica solo alcuni secoli dopo la sua morte. Pur traendo ispirazione dal profondo processo di rinnovamento dei saperi tecnici che ebbe luogo in Italia a partire dalla fine del XIV secolo, Leonardo offrí in molti ambiti contributi di assoluta originalità e di straordinaria

carica anticipatrice. La mostra mette in luce proprio uno degli aspetti piú innovativi dell’opera di Leonardo, per il quale macchine, corpo umano e natura sono governati dalle medesime leggi universali: idea che trova espressione in una serie di magistrali disegni che segnano la nascita della moderna illustrazione scientifica. info tel. 0577 286300; www.leonardoanatomie.it

COLLE DI VAL D’ELSA (SI) SAVIA NON FUI. DANTE E SAPÍA FRA LETTERATURA E ARTE Museo San Pietro fino al 28 ottobre

È ispirata a Sapía, gentildonna senese nata Salvani, protagonista del canto XIII del Purgatorio di Dante, la nuova mostra allestita presso il Museo San Pietro. La figura emerge per la forte caratterizzazione, con tratti molto sofferti e risentiti quale interprete dell’invidia. Peccò sí tanto d’invidia da giungere all’insania. Nonostante il

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AGENDA DEL MESE

nome, infatti, la zia paterna di Provenzan Salvani, capo della parte ghibellina, già incontrato da Dante fra i superbi, non fu «savia» nell’augurarsi la sconfitta dei propri concittadini senesi nella battaglia di Colle di Val d’Elsa (vv. 109-111): «Savia non fui, avvegna che Sapía / fossi chiamata, e fui delli altrui danni / piú lieta assai che di ventura mia». Il percorso espositivo presenta dunque le testimonianze di miniatori, incisori, scultori e

pittori, interpreti di una figura non convenzionale che, per i caratteri di umana fragilità con cui è delineata, può considerarsi una sorta di antieroina della storia medievale senese. info tel. 0577 286300; e-mail: info@collealtamusei.it; www.collealtamusei.it

MONTEPULCIANO IL TEMPIO DI SAN BIAGIO A MONTEPULCIANO DOPO ANTONIO DA SANGALLO. STORIA E RESTAURI Tempio di San Biagio fino al 4 novembre

Le celebrazioni per il V centenario dell’edificazione del Tempio di San Biagio a

Montepulciano, uno dei capolavori dell’architettura rinascimentale italiana realizzato su progetto di Antonio da Sangallo il Vecchio dal 1518 al 1548, offrono l’occasione per rivisitare e riproporre l’arredo interno originale della chiesa, realizzato a partire dall’ultimo quarto del Cinquecento, con le nuove regole emanate dal Concilio di Trento in materia di apparato liturgico e di arte sacra. Un arredo in gran parte asportato durante il restauro neorinascimentale del monumento avvenuto a partire dagli anni ottanta dell’Ottocento. Il complesso architettonico con il Tempio a pianta centrale e l’adiacente Canonica, costruiti in blocchi di travertino delle vicine cave di Sant’Albino, è stato oggetto di numerosi studi, che sottolineano l’uso sapiente

MOSTRE • Milleduecento. Civiltà figurativa tra Umbria e Marche al tramonto del Matelica - Museo Piersanti

fino al 4 novembre info tel 0737 84445; e-mail museopiersantimatelica@virgilio.it

U

ltimo appuntamento espositivo 2018 del progetto Mostrare le Marche, «Milleduecento. Civiltà figurativa tra Umbria e Marche al tramonto del Romanico» documenta come, intorno al 1200, tra Umbria e Marche, il linguaggio figurativo si sia

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trasformato sensibilmente, orientandosi verso un naturalismo di grande potenza plastica, e l’arte guida sia divenuta la scultura in legno policromo. A guidare il progetto espositivo è la certezza che le opere d’arte rappresentino un contributo insostituibile alla formazione di una civiltà, che a sua volta si esprime attraverso le loro forme. La civiltà di questi territori si racconta anche attraverso la qualità del suo patrimonio, soprattutto medievale. Si parte dal Cristo trionfante, rappresentato vivo sulla croce e vittorioso sulla morte, immagine centrale e paradigmatica di una cultura che proprio esaltando questa iconografia persegue un suo rinnovamento della forma. Crocifissi monumentali e Madonne in trono col Bambino dialogano con tavole dipinte e oreficerie per ricomporre un tessuto dinamico e sorprendente. agosto

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e armonico degli ordini, dei partiti architettonici e delle proporzioni classiche in un rapporto dialettico tra uomo, architettura e paesaggio. Alla morte del Sangallo (1534) i lavori continuarono con la costruzione della cupola tra il 1543 e il 1545, mentre il primo campanile fu concluso solo nel 1564 e il secondo resta ancor oggi incompiuto. info tel. 0577 286300; e-mail: info@tempiosanbiagio.it; www.tempiosanbiagio.it; GUBBIO GUBBIO AL TEMPO DI GIOTTO. TESORI D’ARTE NELLA TERRA DI ODERISI Palazzo dei Consoli, Museo Diocesano, Palazzo Ducale fino al 4 novembre

Gubbio conserva intatto il suo aspetto medievale: è ancora la città del tempo di Dante e di Oderisi da Gubbio, il miniatore che il sommo poeta incontra tra i superbi in Purgatorio e al quale dedica versi importanti,

Romanico

che sanciscono l’inizio di un’età moderna che si manifesta proprio con la poesia di Dante e l’arte di Giotto. Distribuita in tre sedi diverse, la mostra «Gubbio al tempo di Giotto. Tesori d’arte nella terra di Oderisi» restituisce l’immagine di una città di media grandezza, ma di rilievo politico e culturale nel panorama italiano a cavallo tra la fine del Duecento e i primi decenni del Trecento, esponendone il patrimonio

figurativo sia civile che religioso. Dipinti su tavola, sculture, oreficerie e manoscritti miniati delineano, anche con nuove attribuzioni, le fisionomie di grandi artisti come Guido di Oderisi, alias Maestro delle Croci francescane, Il Maestro della Croce di Gubbio, il Maestro Espressionista di Santa Chiara ovvero Palmerino di Guido, “Guiduccio Palmerucci”, Mello da Gubbio e il Maestro di Figline. Il padre di Oderisi, Guido di Pietro da Gubbio, viene oggi identificato in uno dei protagonisti della cosiddetta “Maniera Greca”, da Giunta Pisano a Cimabue. Palmerino fu compagno di Giotto nel 1309 ad Assisi, e con lui dipinse le pareti di due cappelle di San Francesco, per poi tornare a Gubbio e affrescare la chiesa dei frati Minori e altri edifici della città. info www.gubbioaltempodigiotto.it TREVI, MONTEFALCO, SPOLETO E SCHEGGINO (PERUGIA) CAPOLAVORI DEL TRECENTO. IL CANTIERE DI GIOTTO, SPOLETO E L’APPENNINO Montefalco, Complesso Museale di San Francesco Scheggino, Spazio Arte Valcasana Spoleto, Museo Diocesano-basilica di S.Eufemia e Rocca Albornoz-Museo Nazionale del Ducato di Spoleto Trevi, Museo di San Francesco fino al 4 novembre

Sono stati selezionati per l’occasione una settantina di dipinti a fondo oro su tavola, sculture lignee policrome e miniature, che raccontano la meraviglia ambientale dell’Appennino centrale e la civiltà storico-artistica, civile e socio-religiosa nell’Italia del primo Trecento. Nelle quattro sedi espositive è possibile vivere uno sguardo corale, emozionante, sulla trama di

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chiese, pievi, eremi e abbazie in Umbria, Marche, Abruzzo e Lazio, dove artisti di cultura giottesca hanno lavorato tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, connessi attraverso itinerari organizzati che permettono di scoprire luoghi e opere d’arte incantevoli. Il successo, nel cuore verde d’Italia, della lezione rivoluzionaria di Giotto e dello stupefacente virtuosismo dei caposcuola senesi Pietro Lorenzetti e Simone Martini, vengono raccontati attraverso una costellazione di artisti, spesso anonimi, che si fecero interpreti dell’anima piú profonda e vera dell’Appennino, declinando emozioni di fede e dolcezza, dipinte con un linguaggio pittorico intenso, e un magistero tecnico sorprendente. Da segnalare, inoltre, la possibilità di ammirare i due dossali esposti nell’appartamento di rappresentanza di Sua Santità

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AGENDA DEL MESE il Pontefice, entrambi provenienti da Montefalco, restaurati per l’occasione; oppure lo straordinario riavvicinamento, che si compie per la prima volta dall’Ottocento, del Trittico con l’Incoronazione della Vergine del Maestro di Cesi e il Crocifisso con Christus triumphans dipinti entrambi per il monastero di S. Maria della Stella di Spoleto, oggi separati tra il Musée Marmottan Monet di Parigi e il Museo del Ducato di Spoleto. info www.capolavorideltrecento.it PISA PISA CITTÀ DELLA CERAMICA Centro Espositivo San Michele degli Scalzi, Museo Nazionale di San Matteo, Palazzo Blu e Camera di Commercio di Pisa fino al 5 novembre

La rassegna si sviluppa in quattro sedi principali (San Michele degli Scalzi, Palazzo Blu, Camera di Commercio di Pisa, Museo Nazionale di San Matteo), con oltre 500 pezzi in mostra, eventi dedicati a tutte le fasce di età, percorsi guidati in città e nel territorio pisano alla scoperta di inediti palazzi, chiese decorate da bacini ceramici, esempi di archeologia industriale e ceramisti ancora in attività, ma anche un sito web fruibile da smartphone, con mappe personalizzabili per costruire in autonomia il proprio itinerario

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di visita. La mostra invita a rileggere un intero territorio, che fu un’avanguardia nella tecnica destinata a cambiare le abitudini dell’Occidente, cominciando dalla tavola, per diventare un settore trainante per l’economia: la produzione della ceramica. info www.pisacittaceramica.it; e-mail: info@pisacittaceramica.it, jenny.delchiocca@cfs.unipi.it; prenotazioni: pisacittaceramica@ gmail.com SANSEPOLCRO PIERO DELLA FRANCESCA. LA SEDUZIONE DELLA PROSPETTIVA Museo Civico di Sansepolcro fino al 6 gennaio 2019

Il progetto espositivo si articola intorno al De prospectiva pingendi, trattato composto da Piero della Francesca intorno al 1475, e ha anche l’obiettivo di illustrare, attraverso riproduzioni di disegni, modelli prospettici, strumenti scientifici, plaquette e video, le ricerche matematiche applicate alla pittura di Piero della Francesca e la conseguente eredità lasciata ad artisti come Leonardo da Vinci, Albrecht Dürer, Daniele Barbaro e ai teorici della prospettiva almeno fino alla metà del Cinquecento. La

mostra vuole inoltre mostrare al pubblico le due anime di Piero: raffinato pittore e grande matematico. Oltre a essere Maestro d’abaco, geometra euclideo, studioso di Archimede, l’artista è stato anche un innovatore nel campo della pittura, poiché per lui, quest’ultima, nella matematica e nella geometria, trovava il suo sostanziale fondamento. I suoi scritti, infine, soprattutto il De prospectiva pingendi, composto in volgare per gli artisti e in latino per gli umanisti, hanno dato inizio alla grande esperienza della prospettiva rinascimentale. info tel. 199 151 121; e-mail: mostre@civita.it; www.museocivicosansepolcro.it

1500, essi sono una prova dell’importanza attribuita alla leggendaria creatura nei secoli del Medioevo. Animale

PARIGI MAGICI UNICORNI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 25 febbraio 2019

L’esposizione che segna la riapertura del Museo di Cluny-Museo Nazionale del Medioevo prende le mosse dai sei magnifici arazzi che compongono il ciclo della Dama e l’unicorno, altrettanti capolavori della raccolta parigina. Eseguiti intorno al agosto

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«magico» – nell’età di Mezzo era diffusa la convinzione che il suo corno fosse in grado di accertare la presenza di veleni e dunque purificare i liquidi – l’unicorno era al tempo stesso simbolo di castità e d’innocenza. Vari manoscritti miniati ricordano inoltre la tradizione secondo la quale solo giovani vergini potevano avvicinare gli unicorni. A queste testimonianze fa da corollario la documentazione della fortuna moderna del tema, di cui sono prova, per esempio, creazioni di Gustave Moreau o Le Corbusier, oppure i costumi disegnati per il balletto La dama e l’unicorno di Jean Cocteau. info musee-moyenage.fr

Appuntamenti

RISPESCIA (GROSSETO) FESTAMBIENTE XXX EDIZIONE Centro di Educazione Ambientale «Il Girasole» 10-19 agosto

Ricco è il programma della XXX edizione di Festambiente: dieci giorni di concerti, cinema, laboratori, spettacoli e percorsi per bambini e ragazzi, dibattiti, mostra mercato, numerosi punti ristoro con piatti tradizionali e biologici, nonché degustazioni di prodotti tipici provenienti da tutta Italia. Nel corso dell’estate sono inoltre in programma appuntamenti incentrati sulle tematiche e sui settori principali del Festival, diffusi in luoghi rappresentativi della costa maremmana. info www.festambiente.it SARZANA (LA SPEZIA) FESTIVAL DELLA MENTE

rassegna il pubblico potrà incontrare non solo nomi importanti della scienza e della letteratura ma ascoltare anche voci inedite del panorama culturale italiano e internazionale. E tornano anche quest’anno le trilogie con alcuni ospiti affezionati

della manifestazione, come lo storico Alessandro Barbero e lo studioso del mondo classico Matteo Nucci. Cosí come non mancherà la sezione per bambini e ragazzi, con i suoi numerosi laboratori, letture animate e spettacoli. info www.festivaldellamente.it

APPUNTAMENTI • Palio dei Normanni Piazza Armerina (Enna) 13 agosto info www.comune.piazzaarmerina.en.it/ el 1060 i Normanni capitanati dal conte Ruggero d’Altavilla conquistarono la Sicilia, strappandola al dominio degli Arabi. La Chiesa romana la vide come una guerra santa di liberazione, perciò papa Niccolò II donò a Ruggero un drappo con l’effigie della Madonna col Bambino, oggetto di culto che a sua volta il conte lasciò a Piazza Armerina. Questo episodio storico viene rievocato ogni anno il 13 agosto, in occasione dei festeggiamenti per Maria Santissima delle Vittorie, patrona della cittadina in provincia di Enna. In mattinata il gran magistrato porta una lampada accesa in cattedrale, depositandola ai piedi del Vessillo della Madonna delle Vittorie. Nel pomeriggio, cavalieri, nobili e dame dei quattro quartieri storici di Piazza Armerina – Monte, Casalotto, Canali e Castellina – sfilano in corteo lungo le strette vie del centro fino a raggiungere il piano della Cattedrale, dove rendono omaggio a Ruggero e alle sue truppe. Il giorno seguente, al campo sportivo Sant’Ippolito i cavalieri dei quartieri danno vita al Palio dei Normanni, sfidandosi in prove di abilità e destrezza.

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XV EDIZIONE 31 agosto-2 settembre

Filo conduttore della XV edizione del festival è il concetto di comunità, che sarà indagato e approfondito con un linguaggio chiaro e accessibile a tutti, da diversi punti di vista, attraverso le parole di scienziati, filosofi, letterati, storici, artisti italiani e stranieri. Nei tre giorni della

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battaglie meloria 6 AGOSTO 1284

Il grande

gioco di Furio Cappelli

Uno dei piú celebri scontri navali della storia, la battaglia della Meloria, non fu un fatto d’arme isolato. Come racconta Antonio Musarra in un recente volume, nelle acque al largo di Livorno si ebbe il culmine della lotta in cui sia Pisa che Genova miravano a imporre la propria egemonia politica ed economica 32

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Sulle due pagine miniatura raffigurante la battaglia della Meloria, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

I I

l 6 agosto 1284, il giorno in cui si combatté la battaglia della Meloria, era una domenica, ed era ancor piú giorno di festa a Pisa perché ricorreva la celebrazione di san Sisto (il pontefice Sisto II, 257-258). Tuttora, nei pressi di piazza dei Cavalieri, si può ammirare la chiesa romanica di S. Sisto in Cor-

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tevecchia, la cui costruzione fu avviata nel 1087 con i proventi di una fortunata spedizione militare condotta ai danni di Mahdia (Tunisia), quando la città era la capitale dell’emirato degli Ziridi. Si trattò di una vera e propria crociata ante litteram, nel corso della quale, sotto la solenne benedizione di papa Vittore

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battaglie meloria Le glorie di Pisa

Storie di vittorie e di saccheggi Lunga è la storia delle avventure militari dei Pisani nel Mediterraneo. Le epigrafi commemorative sulla facciata del duomo di S. Maria Assunta raccontano che, nel 1006, al largo di Messina, era stata riportata una vittoria schiacciante contro quegli stessi musulmani che avevano in precedenza assediato e saccheggiato Pisa. Poi, nel 1015-16, grazie all’aiuto dei Genovesi (ma questo l’epigrafe non lo dice), venne inflitta una dura lezione a Mugetto (Al Mudjahid), il sovrano musulmano che, insediato nelle isole Baleari, teneva sotto controllo la Sardegna. Fra le prede di tante imprese, un’iscrizione ricorda la regina di Maiorca, probabile moglie di Mugetto, che morí a Pisa ed ebbe il privilegio della sepoltura in cattedrale. E nel 1034 i Pisani giunsero ad attaccare un importante centro

portuale della costa nordafricana, la città algerina di Bona (Annaba). Si giunse cosí all’agosto 1064, quando – pochi mesi dopo la posa della prima pietra della stessa chiesa – una spedizione diretta al porto di Palermo, ancora in mano ai musulmani, consentí di riportare in patria un ingente bottino, che venne largamente utilizzato proprio per il cantiere della solenne cattedrale toscana.

III (1086-87) – che aveva concesso ai combattenti lo stendardo di S. Pietro –, i Pisani guidarono un attacco in grande stile, che vide anche l’apporto di Genova e della stessa Roma, oltreché di Amalfi, Gaeta e Salerno. E non mancò il determinante sostegno della po-

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A sinistra Pisa, Duomo. Una delle epigrafi, collocata sotto la tomba di Buscheto, nella quale si cantano le gesta di Pisa.

tente marchesa Matilde di Canossa. Il 6 agosto 1087 fu proprio il giorno della vittoria. La stessa chiesa di S. Sisto divenne la prima sede della magistratura comunale di Pisa, e rimase a svolgere un ruolo di sacrario delle glorie cittadine. agosto

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Era destino, quindi, che il giorno consacrato al santo papa propiziasse una nuova vittoria. I Pisani ne dovevano essere convinti, tanto piú che alla vigilia della festa, mentre si avvicinavano sempre piú minacciose le galee genovesi, l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini impartí la solenne benedizione alla flotta che doveva contrastare il nemico. Alcuni segni lasciavano però presagire la sventura: questa volta il Cielo non si sarebbe schierato dalla parte dei Pisani. Si narra infatti che, mentre veniva issato lo stendardo sulla galea del podestà Alberto Morosini da Venezia, cadde in terra la croce protettiva che campeggiava su questo emblema della cittadinanza.

In alto Pisa, Camposanto Monumentale. Rilievo raffigurante il porto della città toscana. XIII sec. In basso Pisa. La chiesa di S. Sisto in Cortevecchia, la cui costruzione venne intrapresa nel 1087, all’indomani della conquista della città tunisina di Mahdia.

Sotto lo sguardo dell’Onnipotente

Stando al cronista francescano Salimbene de Adam, lo scontro tra Pisa e Genova era d’altro canto annunciato da presagi che poterono vedersi distintamente sulla volta celeste. Quasi ricalcando un passo biblico («Dal cielo le stelle diedero battaglia…»), Salimbene riferisce infatti che, in una località del contado di Parma (città di cui era oriundo), alcune donne intente alla lavorazione del lino videro distintamente due grandi stelle che si davano battaglia, scontrandosi ripetutamente. Stava quindi per consumarsi un evento di grande risonanza, e incombeva sul teatro delle operazioni lo sguardo dell’Onnipotente. Il principale narratore della battaglia, il genovese Iacopo Doria (1233 circa-ante 1305), attribuisce pro-

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prio alla volontà divina il felice esito dello scontro. La battaglia della Meloria, in sostanza, non sarebbe stato altro che un atto di giustizia dispensato direttamente dal Cielo per punire la protervia e l’atteggiamento offensivo dei Pisani.

Le gesta dei Doria

Su questa impostazione pesava naturalmente l’appartenenza di Iacopo alla schiera dei vincitori. L’annalista, d’altronde, proveniva da una delle casate piú in vista della città ligure e vantava una schiera di fratelli che ebbero in quello scenario un ruolo importante nell’amministrazione pubblica e nell’esperienza militare: in particolare, Oberto (ante 1230-1306) fu capitano del popolo, e Lamba (1250 circa-1321) fu l’ammiraglio che riportò la vittoria di Curzola sui Veneziani (1298). Tuttora sulla facciata della chiesa genovese di S. Matteo – vero e proprio mausoleo dei Doria – non solo si evidenzia la tomba stessa di Lamba, ma si sviluppa una estesa teoria di epigrafi celebrative che ricordano le gesta dei familiari piú illustri. Il predetto Oberto, che guidò alla Meloria la prima schiera delle galee genovesi, si assume tutti gli onori della vittoria (anche se ben piú determinante fu l’opera dell’ammiraglio Benedetto Zaccaria). L’epigrafe ricorda inoltre con la dovuta enfasi come lo stendardo strappato al nemico venisse esposto proprio nella chiesa di S. Matteo.

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Sulle due pagine Pisa, Torre Pendente. Rilievo raffigurante due navi tipicamente medievali e un faro. 1173 circa. A sinistra Moneglia (Genova). Rilievo raffigurante san Giorgio e Corrado Doria. Quest’ultimo, nel 1290, capeggiò la spedizione che si concluse con la distruzione di Porto Pisano e durante la quale le catene che ne sbarravano gli imbocchi furono spezzate e portate via come trofei.

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battaglie meloria Il riferimento alla provvidenza divina, in ogni caso, travalica la logica degli schieramenti e aiuta a vedere una volta di piú quella compenetrazione profonda tipicamente medievale tra la sfera religiosa e la dimensione della vita pubblica e privata in ogni sua sfaccettatura. Non solo. Lascia capire in che modo si percepí l’importanza dell’evento. Una battaglia annunciata da prodigi celesti, e dove la flotta dei vinti, al momento della partenza, subisce la caduta della croce che sormonta uno degli stendardi, non è, evidentemente, uno scontro qualsiasi. È un evento di grande impatto, e non soltanto per i numeri degli armamenti, delle vittime e dei prigionieri (impressionante, in particolare, per quest’ultima voce di bilancio, la deportazione a Genova di oltre 10 000 Pisani).

Un confronto inevitabile

Come evidenzia Antonio Musarra nella sua nuova ricostruzione della battaglia, la dinamica dei fatti è tanto piú significativa quanto piú si inserisce all’interno di un quadro di vasto respiro. E, in una prospettiva euromediterranea, l’evento trova la sua ragion d’essere all’interno di questo quadro. Le trame dell’economia e della politica consentono di capire come lo scontro si fosse maturato, e l’entità stessa della battaglia è l’indice degli interessi in gioco. Per questo motivo l’autore pone come premessa necessaria la ricostruzione della vasta tela di interessi in cui i due contendenti si trovarono ad agire, finendo poi per dare luogo a un confronto militare inevitabile. Chi non ha avuto modo di approfondire le proprie cognizioni sulle repubbliche marinare o sulle cittàrepubblica dell’Italia medievale (cosí come vengono solitamente definite), rimane sicuramente coinvolto e magari sorpreso da un protagonismo su larga scala che si percepisce ben prima dell’età moderna. Genova e Pisa si qualificano come città-stato solidamente inserite in una trama internazionale, e la loro contrapposizione va ben al di là di una semplice questione di rivalità tra centri urbani ricchi e influenti. La storia delle città del Medioevo italiano è letteralmente intessuta da scontri di fazioni e da eventi militari di vario peso, ma, nel caso della Meloria, i protagonisti hanno un’entità e un carattere ben particolari. La lotta tra Pisa e Genova rientra in uno scenario che oggi definiremmo internazionale o intercontinentale, dal momento che la loro attività economica e, di riflesso, la loro identità civica, sociale e culturale, erano strettamente interconnesse alla situazione geopolitica dell’intero bacino mediterraneo, dalla Penisola iberica e dal Maghreb fino a Bisanzio e alla Terra Santa, comprese le formidabili propaggini di una presenza e di una attività che, nel caso di Genova, si spinse anche oltre lo stretto di Gibilterra, lungo la costa atlantica, e sulle coste del Mar Nero, dove la città ligure impiantò l’importante colonia di Caffa.

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Alla base di tutto era necessario che l’attività commerciale, ma anche lo stesso rifornimento di generi di prima necessità, si potessero svolgere nel modo piú efficiente e sicuro possibile, e la presenza ingombrante di un antagonista nel medesimo specchio del Tirreno doveva necessariamente far nascere non solo una situazione di concorrenza, ma anche un clima di aperta ostilità. I «pesi» delle rispettive realtà erano tali che questo clima doveva portare a tutta una serie di situazioni di guerra marittima di alto profilo, sia dal punto di vista tecnico che organizzativo. Al momento di descrivere tutti i fatti che fecero seguito alla battaglia, Musarra si concentra sui reiterati tentativi di assestare a Pisa il colpo definitivo, e intitola cosí il capitolo con un palese riferimento alle guerre puniche: Pisa delenda est. Effettivamente sembra riemergere un clima epico, che trova un adeguato corrispettivo solo nel passato piú remoto, quando Roma si contrappose appunto a Cartagine. D’altro canto è stato piú volte sottolineato come le piú compiute espressioni di cittàstato del Medioevo italiano avessero fatto riemergere un senso di gloria e di primato che traeva linfa dalla memoria degli antichi. Per concentrarci proprio sulle città portuali che furono protagoniste della Meloria, basterà evidenziare il senso di appropriazione e di reinvenzione della Romanitas che il duomo di Pisa sfoggia in ogni suo dettaglio, oltreché nell’ispirazione generale della sua struttura, senza pensare al fatto che Genova si riteneva fondata da un mitico re italico, Ianus, la cui figura domina dall’alto la navata centrale del rispettivo duomo, sotto le sembianze del Giano bifronte del mondo classico.

Uno sbocco ben presidiato

La battaglia che si svolse presso le secche della Meloria, proprio di fronte a Porto Pisano – lo sbocco sul mare della città toscana, solidamente presidiato –, finisce cosí per assumere una valenza particolare. Vi sono protagonisti ben riconoscibili da ambo le parti, direttamente o indirettamente coinvolti o connessi, e c’è poi la massa di quanti dettero man forte a tutte le operazioni di allestimento, navigazione e combattimento, sia a distanza che corpo a corpo. Musarra analizza nel dettaglio gli eroi e i gruppi dei naviganti che sono in scena, ma il suo punto di partenza è costituito proprio dalle due città antagoniste. Città che dominano la scena, con la loro individualità e il loro protagonismo. La battaglia, d’altronde, vide un forte coinvolgimento economico, organizzativo e, per cosí dire, emotivo dell’intera cittadinanza su entrambi i fronti, annullando d’incanto i contrasti interni, sia di gruppo che individuali. Di conseguenza, lo scontro tra forze che si erano compattate intorno agli stendardi orgogliosamente inalberati lascia emergere il senso di un’individualità civica davvero impressionante. Pisa e Genova si agosto

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A tutta pagina le operazioni navali culminate con la battaglia della Meloria, il 6 agosto del 1284. Qui sotto La battaglia della Meloria, olio su tela di Giovanni David. 1783. Genova, Palazzo Ducale.

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battaglie meloria le conseguenze della sconfitta

La supremazia perduta Il colpo subíto alla Meloria fu particolarmente traumatico per Pisa. Le ostilità seguite alla battaglia culminarono simbolicamente nella predazione delle catene che chiudevano gli imbocchi di Porto Pisano, in seguito ai fatti del 1285 o del 1290. Esse finirono per ornare come trofei vari luoghi di spicco della nemica ligure, per poi essere restituite a Pisa nel 1860, nel segno della concordia garantita dall’Unità d’Italia. Oltre che sul piano economico e demografico, i postumi della Meloria si registrarono proprio sul piano dell’autocoscienza civica, persa ormai la possibilità di far valere la propria

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supremazia. La città, a ogni modo, si riprese, e quando l’imperatore Arrigo VII (1312-13) scese in Italia, facendo rinascere in molti animi la speranza in un pacificatore della convulsa situazione della Penisola, le stesse Pisa e Genova furono accomunate dagli onori che vennero riservati al sovrano. Nella città ligure fu sepolta la moglie di Arrigo, Margherita di Brabante, eternata dal capolavoro scultoreo di Giovanni Pisano. Nella città di origine dell’artista, invece, ebbe il suo sepolcro monumentale l’imperatore in persona, a opera dell’allievo Tino di

Camaino. I prigionieri ebbero modo di essere compartecipi della realtà di Genova, dando man forte all’attività cancelleresca e letteraria. Rustichello da Pisa, co-autore del Milione, era membro della corporazione dei carcerati. Come è noto, conobbe Marco Polo dopo che questi fu a sua volta tratto prigioniero alla Curzola (1298). E grazie alla sua conoscenza della lingua dei trovieri e della letteratura cavalleresca, durante la detenzione Rustichello realizzò pure una Compilazione dedicata alle gesta di re Artú.

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In alto alcune delle statue che in orgine facevano parte del monumento funebre realizzato da Tino di Camaino per l’imperatore Arrigo VII (e già collocato nel Duomo). 1315. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.

A sinistra Giovanni Pisano, il gruppo scultoreo della elevatio animae, dal perduto monumento funebre a Margherita di Brabante. 1313-1314. Genova, Museo di Sant’Agostino.

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confrontano come grandi potenze marittime, e questo stesso sforzo di competizione già da secoli aveva favorito un avanzamento organizzativo, tecnologico e culturale. Era necessario difendere adeguatamente i propri spazi, e occorreva perciò affinare le proprie conoscenze e rafforzare i propri armamenti. Pisa era stata l’apripista nel maturare questo senso di protagonismo militare. I marinai pisani erano provetti nella guerra di corsa, nella capacità cioè di saper ingaggiare degli inseguimenti in mare aperto. Ma forse la città toscana dovette subire la sconfitta, non solo per gli inevitabili ingranaggi del destino, ma anche per aver applicato un concetto di guerra marittima che appariva ormai superato. Le sue navi spiccavano per la presenza di armati pesantemente corazzati, con un considerevole apporto di arcieri che erano assai strategici nelle prime fasi degli scontri. Genova, d’altro canto, aveva puntato su un’organizzazione piú celere ed efficace, finanche studiando un modello di nave piú leggera. C’è d’altro canto una relazione innegabile tra l’intensificarsi delle operazioni belliche e l’impiantarsi del suo arsenale. Gli sviluppi delle conoscenze sul piano cartografico avevano poi evidenti conseguenze utili allorquando occorreva mettere le forze in campo. I Genovesi, poi, capirono

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battaglie meloria La battaglia navale della Meloria tra Genova e Pisa, 1284, incisione tratta dall’opera Medio Evo (1892) di Francesco Bertolini, con illustrazioni di Lodovico Pogliaghi. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

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ben presto che certe consuetudini della guerra terrestre, come l’uso dell’armatura pesante, potevano costituire un impaccio, e preferirono semmai introdurre un buon numero di balestrieri, cosí da rendere l’impatto iniziale ben piú massiccio e determinante. Le situazioni sul campo erano molteplici e sfaccettate. Alla base dell’ostilità tra Pisa e Genova, come si è accennato, c’era innanzitutto la necessità di mantenere una leadership sulle rotte del Mar Tirreno, e questo comportava il controllo di una serie di snodi strate-

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gici. Era il caso delle due grandi isole (la Corsica e la Sardegna) e dell’importante terminal dei porti siciliani del Regno. Ma la logica della concorrenza coinvolgeva anche Bisanzio e la Terra Santa, e metteva inevitabilmente in gioco l’onnipresente Venezia. Le scelte di campo dovevano tenere conto degli interessi economici in ballo, anche a livello di «oligopoli» di famiglie influenti, e le vicissitudini della politica su un livello di grande scacchiere avevano immediate ripercussioni in ambito cittadino. Basti pensare alla lotta

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battaglie meloria La settecentesca Torre della Meloria, al largo delle acque di Livorno.

tra il papato e l’impero all’epoca di Federico II (122050). Pisa, alleata dello Svevo, aveva allestito una flotta che, nei pressi dell’isola del Giglio, sferrò un attacco a un convoglio posto sotto la protezione genovese, con un carico di prelati diretti a Roma, per ragionare con papa Gregorio IX (1227-41) sull’ennesima scomunica da comminare al sovrano (3 maggio 1241). I Pisani, in tal modo, catturarono e consegnarono all’imperatore un legato papale, due cardinali e un gruppo di vescovi. A giudizio di molti commentatori, questa azione fu il «crimine» che la città toscana dovette espiare con la sconfitta della Meloria. La «guerra di San Saba» (1256-58), d’altro canto, costituita da una serie di conflitti combattuti in Terra

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Santa tra Pisa e Genova, viene considerata l’evento che pose le premesse proprio alla battaglia di cui il Tirreno fu teatro. Seguendo il dipanarsi dei conflitti e delle alleanze, insomma, si comprende come la Meloria fosse la risultante di un Great Game, secondo un’espressione che Musarra riprende dall’opera dello scrittore inglese Arthur Conolly (1807-1842), ufficiale nonché membro dei servizi segreti della Corona britannica.

Interessi individuali e collettivi

Adattata alla convulsa e articolata realtà sociopolitica del Mediterraneo tardo-duecentesco, la nozione del «grande gioco» non vale affatto a definire, in senso moderno, una strategia di lungo corso messa in atto agosto

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con precisi obiettivi da una potenza marittima che cala «dall’alto», imponendo le sue direttive in uno spazio ampio e frastagliato. Nel Great Game del Mediterraneo una simile volontà non ha ragion d’essere, ma ogni protagonista è compartecipe di un «gioco» complesso e appassionante, in cui si intrecciano in modo inestricabile interessi individuali e interessi collettivi di ogni genere, a ogni livello e su piú fronti, cosicché ogni realtà mercantile, piccola o grande che sia, nel difendere e allargare il proprio raggio d’azione, si confronta inevitabilmente con eventi e dinamiche di ampia risonanza. E, nel caso della Meloria, proprio due città portuali esprimono un evento politico e militare la cui valenza non si esaurisce in un contesto interregionale o tirrenico. Genova, la vincitrice, «resisterà» nello scenario europeo anche in piena età moderna, quando il protagonismo del Mediterraneo si ridimensiona in modo esponenziale. E, senza l’evento della Meloria, la città ligure avrebbe senz’altro avuto una minore capacità di impatto anche nei secoli a seguire.

Le dinamiche dell’evento

Raccontare una battaglia come evento in sé significa presentare situazioni, tattiche e manovre, con il corredo dei dati numerici che rendono conto dell’entità delle forze in campo, per poi stilare il bilancio dei morti, dei feriti e dei prigionieri. Musarra, in questo senso, non trascura certo la narrazione in senso «classico» di quanto avvenne il 6 agosto 1284 al largo della Meloria, ma rende al tempo stesso edotti che una battaglia del genere è la risultante di un ampio complesso di dinamiche che percorrono in lungo e in largo il teatro della storia. L’evento militare diviene cosí un osservatorio privilegiato che consente di entrare nel complesso quadro dell’economia, della società e della cultura. Ogni atto che si consuma nel corso del combattimento è frutto di una lunga e ramificata vicenda, che non si conclude certo con la resa dei vinti. La battaglia, poi, impone una concentrazione di forze e di risorse che lascia il segno anche in chi non è direttamente coinvolto. Come si è visto all’inizio, viene vissuta da tutti come un momento dirompente che cambia il corso delle cose, complice la volontà stessa di Dio. E, a ben vedere, non importa se l’entità del fatto d’arme sia davvero eclatante, e se i suoi effetti siano vistosi. Quando Victor Hugo, nei Miserabili, dette forma alla sua narrazione della battaglia di Waterloo, ebbe buon gioco nel raccontare lo scontro sotto la duplice

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luce della realtà e del sogno, evocando un «mutamento di fronte dell’Universo». Il medievalista Georges Duby (1919-1996), che di quella narrazione si dichiarava entusiasta, a suo modo ha tenuto conto di questa impostazione, quando, nel 1973, si è accinto a narrare la battaglia di Bouvines (anch’essa svoltasi di domenica, in Fiandra, il 27 luglio 1214). In quel caso si trattò di un fatto le cui implicazioni furono assai deludenti rispetto alle premesse, vista soprattutto l’importanza dei protagonisti in scena, primo fra tutti il re Filippo Augusto di Francia, il trionfatore. Ma il racconto che ne fu tramandato travalica la dimensione della realtà, investendo in pieno l’ambito della rappresentazione epica. Se un cronista come Guglielmo il Bretone

Da leggere Antonio Musarra, 1284. La battaglia della Meloria, 240 pp. Laterza, Roma-Bari 20,00 euro ISBN 978-88-581-3068-1 www.laterza.it

fornisce un resoconto dell’evento attenendosi al modello dell’Eneide, Bouvines è tanto piú importante come fucina della memoria che come evento storico in sé. Il modo in cui la battaglia viene tramandata è piú prezioso del fatto di riferimento, illuminando con forza le mentalità, la cultura e gli orizzonti della cavalleria medievale. Musarra, per la Meloria, si può affidare a un cronista come Iacopo Doria, molto attento ai fatti e poco incline alla retorica, anche se inevitabilmente condizionato dalla propria «genovesità». Con un simile perno narrativo, la ricostruzione dei fatti si concentra inevitabilmente sugli interessi in gioco e sulla realtà materiale dello scontro, con le sue preziose implicazioni di scienza, di tecnica e di strategia militare. Il protagonista finisce per essere l’ammiraglio genovese Benedetto Zaccaria, apripista di quegli esperti della nautica e dell’arte bellica che avrebbero fatto la storia, forte di una «articolata esperienza di pirata, corsaro e mercante». Inserita in un ampio quadro geopolitico e immersa nel vivo della realtà materiale del tempo, la battaglia della Meloria lascia cosí poco spazio all’epica e diviene una pagina palpitante di storia pura, concreta e appassionante, che ha la stessa verità e la stessa evidenza di quei sacchi di cipolle con cui furono scambiati i prigionieri pisani catturati a Tavolara, durante uno degli scontri iniziali. F

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Bionde come il sole di Elisabetta Gnignera

Qual era l’ideale femminile nel Trecento? La risposta, oltreché nelle immagini, va ricercata nelle rime dei poeti e nelle ricette cosmetiche tramandate dai trattati

In alto miniatura raffigurante l’incontro fra Dante e Beatrice, da un’edizione della Divina Commedia. XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

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Nella pagina accanto il volto della Iustitia, particolare dell’Allegoria del Buon Governo, affresco di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. Siena, Palazzo Pubblico. agosto

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ra i piú eterei della storia in quanto a immaginario, il XIV secolo propugna un ideale estetico femminile «angelicato», pienamente in linea con i codici di quella civilità cortese e cavalleresca che dapprima conquistò la Francia con i trovatori (XI-XIV secolo), e poi l’Italia con i poeti del dolce stil novo (12801310). Quest’ultimo fu un movimento poetico che trovava nella rima dantesca «Donne ch’avete intelletto d’amore» della Vita nuova, una sua forma compiuta, secondo quanto afferma il poeta stesso nella Divina Commedia per bocca del rimatore lucchese Bonaggiunta Orbicciani nel canto XXIV del Purgatorio. Seguiamo dunque Dante quando, nella già citata Vita nuova, descrive la bellezza della «donna sua» con avvedute metafore: «Dice di lei Amor: “Cosa mortale come esser pò sí adorna e sí pura?” Poi la reguarda, e fra se stesso giura che Dio ne ‘ntenda di far cosa nova. Color di perle ha quasi, in forma quale convene a donna aver, non for misura: ella è quanto de ben pò far natura; per essemplo di lei bieltà si prova. De li occhi suoi, come ch’ella li mova, escono spirti d’amore inflammati, che feron li occhi a qual che allor la guati, e passan sí che ‘l cor ciascun retrova: voi le vedete Amor pinto nel viso, là ‘ve non pote alcun mirarla fiso» (Vita nuova, vv. 43-56) Nelle parole del poeta la donna è perciò ornata, ma al contempo pura, perché esente da vanità o dissolutezza, candida nell’aspetto (color di perle) e femminile nelle forme, ma snella e non procace (in forma quale convene a donna aver, non for misura), i cui occhi sono vivaci e amorevoli. Questi pochi versi tracciano l’identikit della donna ideale, a cui altri poeti aggiunsero nel tempo dettagli che confluirono in un vero e proprio canone estetico, concorrendo alla definizione di quella che oggi chiameremmo un’«icona» del tempo: la «donna-angelo», un modello al quale si adeguarono nella realtà dei fatti le donne in carne e ossa, che presero l’abitudine di fasciare

Babilonia, la grande prostituta sulle acque, particolare di uno degli arazzi del ciclo dell’Apocalisse di Angers, commissionato dal duca Luigi I d’Angiò a Nicolas Bataille (il quale lo affidò probabilmente all’arazziere Robert Poinçon), su cartoni di Hennequin di Bruges. 1373-1382. Angers, Castello, Musée de la Tapisserie de l’Apocalypse.

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Sulle due pagine il volto della Securitas e una scena di danza, particolari degli Effetti del Buongoverno in città e in campagna, affresco di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. Siena, Palazzo Pubblico. Entrambe le pitture sono una vivida testimonianza delle mode e delle acconciature piú in voga nel XIV sec.

i seni in bande di lino e di modificare i connotati fisici attraverso cosmesi e toilette. Qualche decennio piú tardi Francesco Petrarca descrisse cosí la sua Laura – assurta a topos della donna ideale – nel cosiddetto Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta), una raccolta di oltre trecento liriche. Nel sonetto Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, composto tra il 1339 e il 1347, l’autore rievoca, a distanza di anni, il primo incontro con la giovane donna, avvenuto nella chiesa di S. Chiara ad Avignone, quando si innamorò di lei, colpito dalla sua folgorante bellezza: «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi che ‘n mille dolci nodi gli avolgea, e ‘l vago lume oltra misura ardea di quei begli occhi, ch’or ne son sí scarsi».

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I capelli d’oro vanno dunque di pari passo agli occhi vivi, quasi mai descritti dai poeti nel loro colore reale, che preferiscono esaltarne la loro qualità intrinseca di «specchio dei moti dell’anima» e li definiscono perciò di aspetto «vago o vario», da intendersi non tanto come colore (talvolta interpretato erroneamente come azzurro), quanto come riferimento alle nuance dell’occhio che ne determinano la bellezza, e allo «splendore e vivezza» dello sguardo, evocando una mobilità che è signum di intelligenza non ancora stigmatizzata da predicatori e trattatisti quattrocenteschi quale proverbiale indizio dell’incostanza femminile.

Gote rosse come rose

Nel Trecento le gote si vogliono rosse come rose e i denti bianchi come perle, e i pochi trattati medievali superstiti di medicina che comprendano anche parti dedicate alla cosmetica attestano il gran daffare che l’adeguamento a tale ideale comportava per le donne di ogni ceto sociale, al fine di soddisfare le aspettative (di ordine estetico) dei loro contemporanei. Accanto a ricette cosmetiche costose, a base di ingredienti diffi-

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costume e società In basso miniatura che forse raffigura Trotula, la donna medico che la tradizione vuole avesse operato a Salerno alla fine del XII sec. XIV sec. Londra, Wellcome Library.

cilmente reperibili, troviamo prescrizioni che procuravano effetti analoghi, ma erano in compenso facilmente realizzabili, risultando di conseguenza accessibili anche a donne di bassa estrazione sociale. Iniziando dalla testa o, come dicono gli antichi, «a capite usque ad pedes», nel Trecento i capelli si vogliono biondi e crespi. Una predilezione all’origine della quale c’è la mai sopita fascinazione che il biondo ha sempre esercitato, per l’allusione alla luce solare e, per traslato, all’oro e dunque all’idea di divino: si tratta di quella «estetica della claritas» bene illustrata da Umberto Eco nella Storia della bellezza, in cui «la materia è l’ultimo stadio (degradato) di una discesa per “emanazione” di un Uno inattingibile e supremo. Per cui non si può attribuire quella luce che risplende sulla materia che al riflesso dell’Uno da cui essa emana. Dio si identifica dunque con lo splendore di una sorta di corrente luminosa che percorre tutto l’universo». Appare quindi del tutto naturale che i popoli mediorientali, cosí come i Greci e i Romani, geneticamente distanti da connotati fisici che prevedano una capigliatura dorata, ambissero, in alcuni periodi della loro storia piú che in altri, a possedere questa «ideale perfezione di luce» nelle chiome, appannaggio non soltanto femminile ma anche maschile, come dimostra parte della produzione poetica ebraica e islamica oltreché greca. Apollo e Dioniso, Aurora e Cerere, Odisseo e Teseo, solo per citarne alcuni, sono stati descritti dagli antichi poeti come flavus o flava, ossia biondi, e il filosofo greco Platone vide negli uomini provvisti del colore biondo di capelli, un segno del favore divino.

Le prigioniere dettano le mode

Quando Giulio Cesare rientrò a Roma portando con sé le bionde prigioniere della Gallia (52 a.C.), seppure disprezzate come «pictae» (dipinte), esse rappresentarono per le brune donne di Roma un nuovo modello di seduzione, da imitare decolorandosi i capelli con pomate provenienti dalla Gallia stessa e composte perlopiú da sego e cenere (le piú efficaci erano a base di cenere di faggio e sego ricavato dal grasso naturale di capra) oppure indossando parrucche di capelli biondi appartenuti a donne transalpine, che Ovidio stesso consiglia a colei che, a causa dell’uso frequente di dannose tinture, aveva perduto i propri. Altrove lo stesso Ovidio descrive infatti la donna romana del tutto asservita all’uso di parrucche: «Eccola, incede con la testa folta di capelli comprati: ha fatto suoi, per quelli che non ha, quelli d’un’altra. Né si vergogna di

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Il volto della Concordia, particolare dell’Allegoria del Buon Governo, affresco di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. Siena, Palazzo Pubblico. Anche in questo caso si possono apprezzare la bionda capigliatura e le ricche vesti della donna.

comprarli in luogo ben noto a tutti: ognuno può vederli venduti al Foro sotto gli occhi d’Ercole, o sotto il coro delle Muse vergini» (Ars Amandi III, 249-255). Molti secoli piú tardi, secondo gli studi di Giovanni Pozzi – il quale si è soffermato sui due canoni «breve» e «lungo» della bellezza, osservati rispettivamente nella poesia lirica e nella narrativa del Trecento –, la claritas si sdoppia nelle categorie del colore e dello splendore del canone breve, dove si descrive soltanto il viso e al massimo un dettaglio adiacente, quale la mano, il collo o il seno, evidenziando solo le qualità visive e mai quelle tattili, delle singole parti; viceversa il canone lungo accoglierà la descrizione di tutte le parti del corpo, privilegiando forma e proporzione di quelle descritte. Nel primo si distinse Petrarca, in un secolo in cui, il Trecento, sulla scia di quella luminosa estetica della claritas ormai tracciata, il biondo è di fatto un «must» a cui si aggiunge l’ambita caratteristica di capelli folti e crespi (ossia mossi al limite del riccio). Il Règime du corps, uno dei primi trattati sanitari medievali e il primo nella lingua romanza francese, composto intorno al 1256 dal medico italiano Aldobrandino da Siena, vissuto in Francia nella seconda metà del XIII secolo, prescrive a tal fine: «Se voi volete i chapelli inbiondire e farli belli e gialli (nel senso di splendenti e biondi, n.d.a.), sí prendete fiori di ginestre e fiori di glais taballine (l’erba nota come farfara o torfilaggine) e li bolite i· rano (nel ranno, ossia acqua bollita con cenere e poi filtrata) e colate, e poi vi ne lavate il chapo. Ancora prendete orpimento e fatene polvere, e mescolate con olio d’uliva, e ungnietene i chapelli, perciò che lli fa divenire crespi e spessi» (dal volgarizzamento fiorentino del testo del 1310, curato, tra gli altri, dal notaio fiorentino Zucchero Bencivenni).

Simbolo di lussuria e di peccato

Tuttavia, se nella realtà dei fatti, lunghi e copiosi capelli biondi erano una caratteristica molto ambíta dalle donne, ufficialmente la Chiesa associava tale attributo alla lussuria e al peccato. «Si vedrà Fra Guittone [Guittone d’Arezzo] bandire le chiome, bionde o brune che siano, poiché troppo vicine all’immagine medusea e dunque alla lussuria», scrive Alessandra Paola Macinante. Non a caso, le acconciature trecentesche si caratterizzano per la presenza di bionde chiome ordinatamente intrecciate come si vede nell’Allegoria ed Effetti del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena (1338-1339), in cui Iustitia, Pax e Fortitudo – ma anche alcune delle giovani intente alla gioiosa danza circolare, una carola o forse una ridda –

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costume e società A destra miniatura raffigurante Maria Vergine come Mulier amicta sole, dai Rothschild Canticles Fine del XIII-inizi del XIV sec. New Haven, Beinecke Library.

A sinistra fiori di croco, pianta affine allo zafferano, da cui si potevano ricavare sostanze coloranti per le labbra.

sfoggiano bionde capigliature attorte intorno al volto oppure cadenzate da grandi trecce. Sempre nell’intento di perseguire un ordine «moralizzante» della società, predicatori e moralisti osteggiarono belletti e tinture per capelli, poiché il loro utilizzo comportava la volontà di alterare la realtà e l’ordine delle cose. Sulla scia del De habitu virginum di Cipriano e alludendo a un passo sull’obbligo del velo della I Lettera ai Corinzi dell’apostolo Paolo, il francescano Gilbert de Tournai († 1284) cosí apostrofa idealmente le donne: «Perché ti vanti dei tuoi capelli che ti sono stati dati come segno

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di vergogna e di pudore? Il ladro non deve andare superbo del patibolo, cioè del segno dell’impiccagione (…) Se sei bella, perché copri con l’unguento la bellezza del volto?». Ma spesso tale bellezza era ottenuta con caparbia costanza, rendendo piú bianca la pelle del viso con trattamenti a base degli ingredienti piú disparati, quali quelli enumerati in alcune delle ricette per «imbianchare» il viso contenute nel trattatello francese del già citato Aldobrandino da Siena: «Prendete alume, farina d’orzo o di vena, e cociete in aqua, e vi ne lavate il visagio la sera quando andate a dormire, e la matina vi lavate di colatura di cruscha di grano; e questo vale a inbianchare il visagio. Ancora prendete farina di fave, e radici di fiori d’alixi, ciò è lillio, cholla di pescie di chatuna oncia una, e fatene polvere; ma ssia la colla distrutta e stenperata in aqua, e lla detta polvere sia mescolata e incorporata apresso, sí che divegna a maniera d’inghuento, e ungnietene il viso la sera, e la mattina lavarllo con aqua chalda. Ancora, per fare il viso bianco e tutte ordure levarne, prendete fiori di fave e fatene aqua a maniera d’aqua rosata, e lavatevine il viso».

Antiche tecniche di depilazione

Quanto alle sopracciglia, secondo un altro Francescano, Francesco Eiximenis, il quale tratta dei belletti delle donne nel suo Llibre de les dones (1387-1392), potevano essere dipinte addirittura in quattordici colori diversi. Poiché si ambiva ad averle sottili, le sopracciglia venivano ridotte con la depilazione, effettuata di preferenza con pinze, rasoio o paste abrasive e adesive in Occidente, e con unguenti depilatori e cere nel Medio Oriente, da dove, in seguito alle prime crociate, sembra fossero importate tali pratiche in uso presso gli harem e note come «Rusma turcorum»: nome generico usato per riferirsi a depilatori a base di calce viva e orpimento. Varie tecniche di depilazione sono infatti illustrate nell’Ornement de Dames (Ornatus mulierum), un testo anglo-normanno del XIII secolo, che costituisce la piú antica raccolta di ricette di bellezza in volgare oitanico. L’opera è stata redatta da un praticante anonimo, le cui fonti dichiarate sono Trotula de Ruggiero, nota come Troctula Salernitana – medichessa dell’XI secolo che operò nell’ambito della scuola salernitana (vedi «Medioevo» n. 252, gennaio 2018) – e una certa Sarrasina di Messina, ma sono citate anche autorità dell’arte medica quali Galeno, Ippocrate e il traduttore Costantino l’Africano. Tra le varie ricette depilatorie degne di menzione, citiamo l’unguento detto silotro, dal latino «psilotrum», termine che sta per «depilatorio», desunto dalla traduzione latina di Avicenna: «Le donne di Salerno fanno un unguento che esse chiamano “silotro” per mezzo del quale fanno scomparire i peli e i capelli o qualunque cosa. Prendono una mezza scodella di calce viva, ben secca, ben pulita e la pongono a setaccio in un panno o sacco. Mettono questa calce in un recipiente di acqua bollente e rimestano la miscela. Quando vogliono sapere se è a cottura, vi pongono l’ala di un uccello e, se

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Da leggere Rossella Baldini, Zucchero Bencivenni, «La santà del corpo». Volgarizzamento del Regime du corps di Aldobrandino da Siena (a. 1310) nella copia coeva di Lapo di Neri Corsini (Laur. Pl. LXXIII.47), «Studi di lessicografia italiana», XV (1998); pp. 21-300 Umberto Eco (a cura di), Storia della bellezza, Bompiani, Milano 2004; pp.102-113 Michelle A. Laughran, Oltre la pelle. I cosmetici e il loro uso, in Carlo Marco Belfanti e Fabio Giusberti (a cura di), Storia d’Italia, Annali 19, Einaudi, Torino 2003; pp. 42-82 Anna Paola Macinante, «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi». Metamorfosi delle chiome femminili tra Petrarca e Tasso, «Quaderni di Filologia e Critica», XXIII, Salerno Editrice, Roma 2011 Francesco Petrarca, Canzoniere, a cura di Paola Vecchi Galli, Rizzoli, Milano 2012 Giovanni Pozzi, Temi, topoi, stereotipi, in Alberto Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana, vol. III/1 Le forme del testo. Teoria e poesia, Einaudi, Torino 1984; pp. 391-436

le piume si staccano dall’ala, allora è pronta. Poi la cospargono con le loro mani, ben calda, sui peli e la fanno asciugare. Potete fare altrettanto ma fate attenzione a non lasciare troppo posare l’unguento, perché scorticherebbe la pelle». Modernissima appare invece un’altra ricetta depilatoria inclusa nello stesso testo, che consiste nel prendere cinque parti di colofonia, ossia del residuo solido (noto anche come pece greca) della distillazione delle resine di varie conifere – tra cui pini, abeti e larici – e una parte di cera. Sciolta in una pentola di terracotta e poi sparsa su una tela di lino, la miscela veniva applicata sui peli non appena il calore raggiungeva una soglia sopportabile, e tirata via come avviene per le odierne cerette a caldo. Infine, per completare l’opera, si cercava di ottenere un volto «suavissimo et pianissimo», ossia liscio e fresco come una rosa, provvedendo a rendere rosse le gote. Si poteva migliorare la complessione e fare «buono colore» attraverso bevande e cibi salutari, come consiglia ancora Aldobrandino da Siena: «Ancora ci à altre cose che fano il sangue venire al quoio della charne, sí come sono cipolle, porri, agli, pepe, rafano, pome di paradiso; e l’isapo [lat. hyssopus officinalis] si puote usare in questo modo: tolli isapo drame ij [dracma= unità di peso greca corrispondente a 43 gr circa] e una meza drama di zafferano, e distenperate nel vino, e bevetello, perciò che questo beveragio, usandolo, fa buono colore venire». Inoltre, si adoperavano cosmetici ed espedienti che procurassero un colorito analogo a quello prodotto dagli odierni phard o blush. Se alcune donne facoltose usavano il costoso zafferano per far risaltare labbra e guance, quelle meno abbienti si accontentavano di un rosso terroso piú abbordabile. F

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Una Terra di Mezzo nel cuore dell’Umbria testi di Arnaldo Casali e Federico Fioravanti

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Castelli piantati come sentinelle lungo il confine occidentale dell’antico «corridoio bizantino», il varco che, nello smembrato impero romano d’Occidente, univa la Roma dei papi all’esarcato di Ravenna. Su queste colline, tra il Medioevo e il Rinascimento, si consumarono infiniti conflitti tra i potentati locali, legati alle città egemoni di Orvieto, Siena, Todi e Perugia

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Sulle due pagine immagini del borgo di Rotecastello, cioè «ruota-castello». Il borgo prende nome dalla struttura fortificata a forma di ruota, di cui è ancora oggi visibile la torre principale.

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ette come i colli di Roma, come le meraviglie del mondo, come i giorni della settimana: Rotecastello, San Vito in Monte, Pornello, Ripalvella, Poggio Aquilone, Civitella dei Conti e Collelungo. Sono i castelli che fanno da corona a San Venanzo (Terni): custodi di una memoria che affonda le sue radici nella notte dei tempi, capace di richiamare culti antichi, cospirazioni, miracoli, e persino fantasmi e tesori nascosti. L’infinità di reperti archeologici distribuiti lungo il percorso testimonia la presenza degli Etruschi prima e dei Romani poi. Le fortificazioni iniziano invece a essere realizzate al tempo delle invasioni barbariche. Cambieranno piú volte padrone, sempre al centro delle guerre di confine fra i Comuni di Orvieto, Perugia e Todi. Poco fuori l’abitato di San Venanzo sorgeva l’Ospedaletto, antico ricovero per pellegrini sorto nel Medioevo sul tracciato dell’antica strada etrusca e che diede poi il nome a un agglomerato di poche case.

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itinerari umbria

Deruta

Piegaro

SR20

Mercatello Casalina

SS317

Montegabbione

POGGIO AQUILONE SAN VITO IN MONTE

SS71

Collazzone

CIVITELLA DEI CONTI PORNELLO

ROTECASTELLO SAN VENANZO

PARRANO

E45

RIPALVELLA Ficulle MARCHE Pietralunga Montone Gubbio

Tevere

Arezzo TOSCANA E35

Tolentino Gualdo Tadino

Lago Trasimeno

Perugia

Deruta

San Venanzo Todi Orvieto Lago di Bolsena

SS371 Fabriano

Assisi

Spello Foligno Campello sul Clitunno

Acquasparta

ra

Ne Spoleto

PARCO FLUVIALE DEL TEVERE

Norcia Cascia

SS448

Ferentillo Cascata Amelia E35 Terni delle Marmore Narni Orte Rieti Viterbo

Lago di Vico

Orvieto

LAZIO

COLLELUNGO Porano

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Todi

Nocera Umbra

E35

Montenero

A sinistra uno scorcio di San Vito Monte, l’agglomerato di valle del borgo di San Vito. A destra Poggio Aquilone, l’abitato al quale, nel 1312, l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo concesse il privilegio di inserire nello stemma cittadino l’aquila nera incoronata sopra uno scudo d’oro.

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A destra veduta di Pornello, il cui nome è attestato nelle cronache almeno a partire dal 1137. Qui sotto Civitella dei Conti, villa fortificata nel Trecento che passò piú volte di mano, fino a divenire proprietà dei conti di Marsciano, dai quali prese nome.

Tre chilometri a sud ovest dal capoluogo appare Rotecastello, ovvero «ruota-castello». Prende il nome dalla struttura fortificata a forma di ruota, di cui è tuttora visibile la torre principale: si dice fosse la prigione e anche il luogo delle esecuzioni dei condannati, che venivano fatti salire fino in cima e poi lanciati verso un fondo armato di pali acuminati. Rimasto sempre legato a Orvieto – che gli concesse gli statuti nel 1502 –, il borgo celebra ancora oggi il suo glorioso passato con la manifestazione «Agosto in Medioevo» (vedi box a p. 64).

Il buen retiro dell’arcivescovo

Ben piú tormentata è la storia di San Vito, castello edificato, distrutto e ricostruito piú volte nei corso dei secoli, il cui nome attuale deriva dalla leggenda secondo la quale nel borgo avrebbe soggiornato il santo siciliano Vito. Oggi il paese è diviso in due agglomerati di case: uno a valle – San Vito in Monte – e uno in alto, San Vito Castello: una terrazza a 620 m di altezza, dalla quale si gode un panorama che permette di precipitare lo sguardo sui territori di cinque regioni: dall’altopiano alfino all’Amiata, dal Monte Nerone ai Sibillini e dal Gran Sasso ai Vulsini, passando per il massiccio del Terminillo. La località è famosa per le acque ferruginose della sorgente dell’Acquaforte, utilizzate anche da personaggi illustri come papa Leone XIII, che quando era arcivescovo di Perugia veniva qui a «ritemprare nell’aria e nell’acqua la sua vita». Ormai quasi del tutto abbandonato, il castello di Pornello è citato dalle cronache sin dal 1137 e deve il suo nome al fatto che il luogo in cui sorge era ricco di pruni. Possedimento dei Bulgarelli, nel 1317 venne assegnato in perpetuo alla Chiesa orvietana. Nel 1380 fu teatro di una battaglia che diede origine a una suggestiva leggenda: Berardo Monaldeschi aveva assalito e saccheggiato Orvieto e stava dirigendosi verso Perugia, quando – proprio nei pressi del castello – era stato sorpreso dalle milizie del conte Ugolino di Montemarte.

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itinerari umbria Qui accanto e in basso, a sinistra la torre campanaria e la facciata del santuario della Madonna della Luce a Collelungo. In basso, nel box l’area di San Venanzo, circa 265 000 anni fa: 1. anello di tufi di Pian di Celle; 2. cono eccentrico di Celli; 3. maar di San Venanzo con il piccolo lago; 4. colata lavica di venanzite.

Il paese della venanzite

Tracce di antichi vulcani Tre antichi vulcani spenti, alti appena 30 m e dal diametro di mezzo chilometro, sono racchiusi in un fazzoletto di terra lungo meno di

2000 m. Hanno smesso di essere attivi 265 000 anni fa: il maar (termine di origine tedesca che designa cavità imbutiformi, spesso riempite d’acqua,

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Del tesoro trasportato non si ebbe piú alcuna notizia: secondo la fantasia popolare si trova ancora nascosto da qualche parte, nei dintorni del borgo. Arrampicato a 295 m sulla sommità di una collina di marmo e calcare che domina il corso del torrente Fersinone, il minuscolo Poggio Aquilone è oggi occupato da appena 78 abitanti. In un primo tempo si chiamava semplicemente Poggio, ma nel 1312 Arrigo VII di Lussemburgo, alleato di Todi, dopo aver saccheggiato Marsciano, dimorò per qualche giorno nel Palazzo del Castello e concesse alla città il privilegio di poter inserire nello stemma l’aquila nera incoronata sopra uno scudo

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che formano un piccolo lago) di San Venanzo e i due crateri di Pian di Celle e Podere Celli. Nell’VIII secolo, sui bordi del maar, si sviluppò l’abitato di San Venanzo. Dal 1290 diventò proprietà esclusiva dei Monaldeschi, la potente famiglia orvietana di parte guelfa, acerrima nemica dei Filippeschi («Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, / Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura, / color già tristi, e questi con sospetti!», Divina Commedia, Purgatorio, VI). Dell’antico castello rimangono solo alcuni ruderi inglobati in quella che è oggi la sede del municipio. Tutta l’area intorno al paese è di grande interesse geologico. L’attività vulcanica è stata

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alimentata da zone molto profonde della Terra. Salito a oltre 100 km/h attraverso condotti simili

a imbuti, il magma ha formato una roccia tanto particolare da meritare un nome proprio: venanzite.

In alto una veduta di San Venanzo. In basso particolare dell’allestimento del Parco Museo Vulcanologico di San Venanzo.

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itinerari umbria appuntamenti

«Agosto in Medioevo» a Rotecastello Tutto è iniziato dal ritrovamento degli statuti originali del 1502, quando Rotecastello era sotto il dominio di Orvieto. Da 22 anni, nella piccola fortezza medievale del XIII secolo, adagiata sulla sommità di un colle a poche centinaia di metri da San Venanzo, si tiene «Agosto in Medioevo», la rievocazione organizzata dall’associazione «Amici di Rotecastello». Un corteo storico, musiche, danze e spettacoli animano il minuscolo borgo. Gli abiti sono realizzati a mano dalle sarte del paese, impegnate tutto l’anno nella ricerca storica dei modelli originali. Quest’anno si comincia il 10 agosto, con una rappresentazione ispirata al Decameron curata da Gabriele Busti. Il 12 agosto segna il clou della festa, con una cena benedettina e il corteo storico. Al suono di tamburi e chiarine, sfilano piú di 100 figuranti: popolani, mercanti, massari, camerlenghi, guardie e viari insieme al podestà, in una fedele rappresentazione della vita quotidiana della fine del XV secolo. d’oro, aggiungendo cosí la seconda parte al nome del borgo. Nel 1422 il castello ottenne gli Statuti da Ranuccio il Vecchio, umanista e uomo d’armi al servizio di Venezia. La moglie Todeschina, figlia del Gattamelata, lo amministrò per conto del marito lontano.

L’Arcangelo «esorcista»

Proprio di fronte a Poggio Aquilone si affaccia Civitella dei Conti, villa fortificata nel XIV secolo, della quale è oggi possibile ammirare il torrione, le mura perimetrali, la chiesetta e le carceri sotterranee. Recenti scavi archeologici hanno riportato alla luce testimonianze dell’età del Ferro e di epoca etrusca e si suppone che nell’area fosse esistito un tempio pagano, ipotesi incoraggiata dalla presenza di una chiesa dedicata a san Michele Arcangelo, che svolgeva in qualche modo il ruolo di «esorcista» nei luoghi degli antichi culti. «Civitella della Montagna» – questo il nome originale – era passata attraverso molte mani prima di diventare proprietà dei conti di Marsciano, da cui assunse il nuovo nome. Per secoli è stata contesa tra Perugia e Orvieto ed è oggi una proprietà privata. Eretto anch’esso sui resti di una villa romana, il

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In basso Rotecastello. La chiesa di S. Michele Arcangelo, di cui si ignora la data di costruzione, ma che risulta in attività almeno a partire dal XVI sec.

castello di Collelungo ospita uno dei principali centri religiosi del territorio: la chiesa parrocchiale è infatti il santuario della Madonna della Luce, sorto intorno a un affresco del XIII secolo attribuito a Pietro di Nicola di Orvieto, rimasto nascosto per secoli, nella vecchia chiesa, da uno strato di intonaco che cadde il 24 aprile 1827 durante il rientro di una processione: un evento giudicato miracoloso tanto da attirare, da allora, ammalati, pellegrini e curiosi. Tra i suoi devoti piú illustri anche papa Paolo VI, che nel secondo dopoguerra fu ospite a Collelungo della famiglia dei conti Righetti-Faina. Il castello ospita anche una cantina rinomata sin dall’Ottocento, che utilizza i sotterranei per l’affinamento dei vini: qui le botti stazionano nelle gallerie lunghe ben 150 m in un suggestivo percorso tra archi e passaggi segreti, utilizzato anche da Imperia di Montemarte, moglie del signore di Collelungo Corrado Monaldeschi, per allontanarsi di notte dal palazzo e incontrarsi con l’amante. Quando venne scoperta, la sventurata fu uccisa dal marito. E da allora diventò, secondo la leggenda, un fantasma che tuttora si aggira a cavallo tra i boschi nelle notti ventose, invocando il nome del perduto amore. Arnaldo Casali agosto

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LA LEGGENDA NERA DI

ORTENSIA BAGLIONI N

el corso della sua lunga e tormentata vita, Ortensia Baglioni rimase vedova per tre volte e diede l’ultimo saluto a quattro figli. È ricordata come la «Lucrezia Borgia di Parrano», ma, per una volta, il paragone si rivela ingeneroso per la piú celebre Lucrezia, vittima di una fama pessima, ma comunque immeritata. Ortensia, invece, con tre mariti e due figli assassinati è senza dubbio la donna piú scaltra, letale e spregiudicata della storia a cavallo tra Medioevo e Rinascimento. D’altra parte, era nata e cresciuta fra cospirazioni e intrighi di palazzo, lei: figlia del conte Antonio Baglioni e di Beatrice Farnese, Ortensia era nipote sia della bellissima Giulia Farnese, amante di papa Alessandro VI Borgia che di suo fratello Alessandro Farnese, il futuro papa Paolo III. Proprio lo zio cardinale la diede in sposa, nel 1531, a Sforza Marescotti, un soldato rampollo di un’antica e gloriosa famiglia bolognese. Dall’unione nacquero Alfonso e Beatrice; appena sette anni dopo il matrimonio, però, Sforza fu assassinato dai suoi vassalli. Vedo-

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va tutt’altro che inconsolabile (e anzi – si mormora – mandante del delitto) l’anno successivo Ortensia sposò Girolamo di Pier Giovanni di Marsciano, al quale diede due figli: Marcantonio e Girolamo. Sei anni piú tardi, anche il secondo marito venne ucciso da un piatto di maccheroni avvelenati, servitogli dall’amorevole consorte.

Il terzo matrimonio

Il 7 maggio 1549 Ortensia convolò a terze nozze con il conte Ranuccio Baglioni, ma a condizione che lo sposo le assegnasse i feudi di Parrano e Pornello. Anche con Ranuccio Ortensia concepí due figlie, Elena e Lavinia. Ma poi si liberò del consorte: come già era accaduto con Sforza, infatti, il 18 settembre 1553 il conte venne ucciso in un agguato tesogli dai Vignanellesi, esasperati dalle continue vessazioni del loro padrone, ma anche in questo caso, si dice, istigati dalla signora. Nel frattempo era scomparso Paolo III Farnese, al quale successe il cardinale Giovanni Maria Ciocchi Del Monte, salito al soglio di Pietro con il nome di Giulio III. Il nuovo

In alto lo stemma Marescotti-Farnese. In basso veduta del borgo di Parrano, che fu uno dei feudi di Ortensia Baglioni.

papa era lo zio di Ascanio Della Corgna, capitano generale della fanteria e della cavalleria e cognato di Ranuccio, di cui aveva sposato la sorella Giovanna. Due giorni dopo l’omicidio, Giulio III pose le due bambine sotto la tutela di Ascanio, affidandogli anche i feudi di Vignanello e di Parrano, mentre la guardia pa-

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itinerari umbria pale arrestava Ortensia. Il tribunale pontificio ascoltò molti testimoni, tra cui il cardinale Tiberio Crispo di Orvieto, secondo il quale la donna era «onesta e una buona moglie», mentre Ranuccio venne descritto come un violento, che trattava malissimo i suoi vassalli «sichè dico meravegliarme che non prima sia stato ammazzato da quelli suditi». Il processo si concluse con l’assoluzione della donna e sulla forca finirono cinque paesani. Nel 1565 Ortensia, che aveva ripreso possesso del suo feudo, scrisse il proprio testamento, lasciando al figlio Alfonso il castello di Vignanello e a Elena e Lavinia quello di Parrano. A Girolamo, invece, lasciò un altro piatto di maccheroni avvelenati e anche Lavinia morí «atossicata» ancora giovanissima, mentre Marcantonio si spense di morte naturale. Tuttavia, su nessun decesso fu aperta un’indagine.

Contro la figlia

A impedire a Ortensia di rimettere le mani sul feudo di Parrano, era però rimasta la contessina Elena, il cui tutore era lo zio Ascanio. Determinata a manovrare la vita della figlia, appena ebbe compiuto 14 anni, la madre cominciò a cercarle un marito, ma si dovette scontrare con i ripetuti rifiuti della ragazza. Il conflitto raggiunse livelli tali che, per proteggere la contessina, il papa arrivò a farla rinchiudere in monastero e a proibirle di contrarre matrimonio senza la sua autorizzazione. Ortensia, nel frattempo, si era insediata nel castello, approfittando dell’assenza di Elena, che viveva a Perugia dagli zii, e tollerava l’invasione materna solo «per honore suo per non la cacciare via». La velenosa contessa, che non si faceva certo intimidire dall’ostilità della ragazzina, scrisse al cugino Alessandro Farnese. E spiegò di essere a Parrano proprio su invito della figlia; «Questo castello monsignor mio mi riesce molto meglio che io non pensavo: vassalli fidelissimi et amorevolissimi; solo ce manca

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uno buono patrone che tema Idio et governa le sue pecorelle iustamente». Ortensia mandava in continuazione messaggeri a Perugia, affinché convincessero la figlia a raggiungerla a Parrano, ma Elena non aveva alcuna intenzione di lasciarsi avvicinare dalla madre e, quando la vide arrivare, non le permise nemmeno di entrare nel palazzo. La donna non si arrese e, in occasione della Pasqua del 1567, tentò un nuovo approccio, mandando come ambasciatore il figlio Alfonso. Durante il pranzo, però, l’erede fece alla sorella uno strano discorso, che suonava come un sinistro avvertimento: «Se vostra Signoria morisse, signora contessa, a me mi resterebbe qualche cosa di vostro: ma se morissi io non ve resteria a voi cosa alcuna de mio; perché io ho figli». Convinta che la madre volesse eliminarla per lasciare tutto al fratello, Elena fu ancora piú decisa a non mettere piede a Parrano. Tuttavia, le mani della famigerata Ortensia riuscirono a insinuarsi fino a Pieve del Vescovo, dove la contessina stava trascorrendo un piacevole soggiorno in compagnia della zia Giovanna. È il 23 aprile, ed Elena fu abbastanza incauta da lavarsi il viso con l’acqua da toletta che la madre le aveva mandato «per rendere piú liscia la pelle». Qualche ora dopo l’applicazione dell’unguento, la ragazza si sentí male e dopo due giorni di agonia morí, all’età di sedici anni. Il corpo fu trasportato a Perugia, accompagnato «da circa cento contadini et altre genti con lumi» e seppellito nella chiesa di S. Fiorenzo a Porta Sole. Prima, però, venne richiesta un’autopsia, perché il cadavere si era gonfiato ed era diventato nero, e il papa aveva ordinato un’indagine. Il 7 maggio 1567, quando il commissario pontificio Gandolfi giunse a Parrano, Ortensia – circondata da un piccolo esercito formato da vassalli e da banditi – si rifiutò di consegnargli il feudo. Gandolfi si vide

costretto a desistere, ma, una settimana dopo, tornò, prese possesso del castello e trascinò Ortensia davanti al Governatore di Roma. Rinchiusa ancora una volta a Castel Sant’Angelo, la donna venne assolta da tutte le accuse e poté cosí rientrare in possesso del castello e degli altri beni sequestrati. E il 9 marzo 1574 donò al nipote Marcantonio di Alfonso i castelli di Vignanello, Parrano, Pornello e Mealla «per la conservazione della famiglia».

Violenze e vessazioni

Divenuti i padroni assoluti, Alfonso e Marcantonio scatenarono la loro ferocia con delitti e vessazioni ai danni delle popolazioni sottoposte, offrendo anche rifugio a banditi provenienti dal Regno di Napoli, tanto da attirarsi addosso anche un’inchiesta ordinata da papa Gregorio XIII, che culminò con uno scontro armato e l’arresto per ribellione e lesa maestà. Scarcerati tre anni dopo, padre e figlio tornarono nei propri feudi, e le nefandezze continuarono. Ortensia si sfogò con il cugino cardinale: «Quando io pensavo dopo tanti stenti et mie fatighe potermi riposare, mi trovo afflitta da un Ancora una veduta del borgo di Parrano.

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figliolo tiranno, che sempre è andato peggiorando. Et il patir mio è infinito». Intanto, nel 1574 Marcantonio aveva sposato Ottavia di Piefrancesco Orsini, conte di Bomarzo, il committente del celebre Parco dei Mostri. Ebbero sette figli, ma anche molti guai: tanto era violento e arrogante il marito, infatti, che la donna arrivò a intentargli una causa per ottenere la separazione. Alfonso morí a Roma il 25 marzo 1604, lasciando tutto il potere nelle mani del figlio, che rispettò la «tradizione» di famiglia: venne infatti assassinato in un agguato, la notte del 4 settembre 1608, da sicari che, dopo averlo finito con due colpi di archibugio, ne straziarono il corpo con un’accetta. In compenso, tra i sette figli di Marcantonio non mancò una santa: Clarice, monaca francescana canonizzata nel 1807 da Pio VII. A un’altra pargola, invece, fu imposto il nome della famigerata bisnonna: futura marchesa di Fabro, nacque appena quattro anni dopo la morte di Ortensia, che si spense serenamente – se cosí si può dire – il 12 aprile 1582. Con sette morti sulla coscienza e due processi per omicidio, ma anche con un patrimonio ricchissimo e indiviso. Arnaldo Casali

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Parrano

I novecento anni di un feudo La storia del castello di Parrano inizia ufficialmente novecento anni fa: nell’aprile del 1118, infatti, Guglielmo, vescovo di Orvieto, assegna il feudo, con il titolo di conte, a Bernardo di Bulgarello, a sua moglie Persona, e a i fratelli Gualfredo e Ugolino, in cambio del giuramento di fedeltà e dalla promessa di non cederlo ad alcuno. Il castello era invece sorto intorno al Mille per iniziativa dei vescovi di Orvieto, che avevano fatto costruire una struttura di cinque piani sui resti romani, in posizione strategica per il controllo della sottostante valle del Chiani. Discendenti da una stirpe di origine longobarda, i Bulgarelli, grazie a un’accorta politica di matrimoni, riuscirono a espandersi, creando in poco tempo un piccolo impero che comprende, oltre a Parrano, anche i castelli di Monteleone, Montegiove, Civitella dei Conti e Castel della Pieve. Nonostante i frequenti contrasti con i vescovi per i tributi di vassallaggio, durante tutto il Medioevo il feudo di Parrano conservò l’autonomia da Orvieto. E quando il castello di Montegiove finí nelle mani del condottiero Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, Antonio Bulgarelli (ma la famiglia dal 1269 prende il nome dal feudo di Marsciano) riuscí a recuperarlo, sposandone la figlia Paola Bianca Todeschina. Intanto la cugina Angelina (che nacque a Montegiove nel 1357 e morí nel 1435) aveva creato il Terzo Ordine Regolare di San Francesco. Aiutata dal promotore dell’Osservanza francescana, Paoluccio Trinci, aveva infatti fondato a Foligno una comunità aperta di donne laiche che volevano vivere nella preghiera, nella penitenza e nel servizio agli altri, senza però essere costrette alla clausura. A testimoniare il legame tra i Bulgarelli e i Francescani, c’è anche il convento della Scarzuola, che viene edificato proprio a Montegiove, sul luogo in cui – secondo la tradizione – aveva dimorato san Francesco, e che, nel Novecento, venne inglobato in una stupefacente città-teatro concepita dall’architetto Tomaso Buzzi. I frati furono autorizzati a edificare il convento a condizione che la chiesa divenisse anche il mausoleo dei conti di Marsciano, che mantennero il controllo di Parrano fino al 1518, quando Lavinia, figlia di Ranuccio, sposò Galeazzo Baglioni portandogli in dote anche il castello. Dal matrimonio nacquero Giovanna, che nel 1546 si uní con Ascanio della Corgna, e quel Ranuccio che, nel 1549, sposò Ortensia Baglioni: la donna destinata a diventare – nei decenni successivi – la protagonista assoluta delle vicende del contesissimo castello.

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MONTELEONE,

SENTINELLA DI ORVIETO

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ell’opera Historie, lo storico cinquecentesco Cipriano Manente spiega che il «castello di Montelione» venne fondato dagli Orvietani a «guardia della Val de Chiane», la fertilissima e grande pianura che per centinaia di anni fu il granaio della città sulla Rupe. Manente cita una data: 1052. Ma forse, a quell’epoca, secondo altri studiosi, sull’altura esisteva soltanto il piccolo fortilizio difensivo di Berneto, da sempre proprietà dei Bulgarelli, conti di Marsciano. Con ogni probabilità, Castrum Montis Leonis venne edificato piú tardi, insieme a una corona di altri castelli quali Montegabbione, Fabro, Salci, San Casciano e Trevinano. Tutti a protezione del crinale di incerti confini, teatro di lotte sanguinose per il possesso delle terre dell’antico ducato di Chiusi. Al di là dei limiti settentrionali di Orvieto c’erano da rintuzzare gli sconfinamenti continui del nemico senese e le insidie espansionistiche della potente Perugia. Al centro del castello venne presto costruita anche una prima chiesa. Tradizione vuole che il nome, Monte Leone, sia legato alla figura di papa Leone IX (1002-1054), testimone e insieme protagonista del grande scisma che in quegli anni si consumò tra le Chiese di Roma e Costantinopoli. Figlio dei conti di Toul, nobile famiglia dell’Alsazia, si chiamava Brunone. Era salito al soglio di Pietro a (segue a p. 72) Sulle due pagine vedute di Monteleone. Dall’alto, in senso orario: la Porta Sud; il centro storico visto dalla Torre dell’Orologio; la Porta Nord.

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itinerari umbria Consilio Dardalini, il «musaicista» maledetto

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utti, a Monteleone e dintorni, lo chiamavano Stopario. Un soprannome misterioso, almeno quanto il personaggio. Consilio Dardalini era un «maestro di vetri» o, meglio, un «musaicista». Cosí bravo da emergere per qualche decennio fra tutti i superbi artigiani che concorsero alla costruzione della facciata del Duomo di Orvieto. All’inizio, insieme ad alcuni suoi compaesani, Consilio faceva le «linguacce»: liste di paste vitree dorate o argentate, prodotte nelle fornaci di Monteleone e di Piegaro. Nell’Umbria medievale la lavorazione del vetro era iniziata alla fine del XIII secolo, grazie a un gruppo di emigranti giunti da Venezia. Nel 1292 il governo della Serenissima aveva bandito dalla città tutte le fornaci: troppo alto era il pericolo di esplosioni e incendi a ridosso delle case e cosí la maggior parte degli artigiani si era trasferita nella vicina isola di Murano. I Veneziani tentarono di proteggere i segreti dei maestri con la nascita di corporazioni organizzate e statuti, via via sempre piú severi, ma molti vetrai lasciarono la laguna, in cerca di mercati con meno concorrenza. A Piegaro e a Monteleone

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gli artigiani veneti trovarono una accoglienza calorosa e grande considerazione. Tanto che alcuni di loro si imparentarono con le famiglie piú abbienti della zona. L’arte del vetro appariva misteriosa, quasi magica. E quasi un illusionista dovette sembrare ai suoi compaesani l’intraprendente Consilio Dardalini, che a Monteleone aprí una sua fornace. Nella vicina Orvieto stava nascendo la grande fabbrica del Duomo, nella quale, per oltre tre secoli, decine di artisti impegnarono le loro migliori energie. L’immenso cantiere celebrava in modo plastico il nuovo e strategico ruolo della città nello scacchiere politico e culturale della Penisola. Nel 1310 l’architetto Lorenzo Maitani aveva iniziato a sovrintendere ai lavori e garantiva commesse sicure sia a Piegaro che a Monteleone. Una decina d’anni piú tardi (1321), anche per evitare le difficoltà legate ai trasporti dei fragili tasselli, il capomastro del Duomo decise di aprire una vetreria proprio a Orvieto, nei pressi della porta del vescovado e ne affidò la direzione a mastro Consiglio Dardalini. Sulla Rupe, insieme allo Stopario, secondo le cronache di Luigi Fumi (Il

Duomo di Orvieto e i suoi restauri, 1891) si trasferirono anche altri tre Monteleonesi: Ghino di Pietro, Cola di Pietrangelo e Nuto da Monteleone. Un quartetto di «maghi del vetro», di cui Consilio Dardalini era però il leader riconosciuto. Fumi lo descrive come un «industrioso fabbricatore», che guidava in prima persona i lavoranti nell’arte di stendere nel modo giusto le foglie d’oro e le pezze di argento battuto. Niente offuscò la sua fama. Nemmeno lo scandalo di un fattaccio di cronaca nera: una condanna infamante a seguito di un saccheggio che nel 1327 sconvolse San Casciano a Bagni, la città a sud del Monte Cetona, spesso contesa tra i Senesi e gli Orvietani. Le cronache dell’epoca glissano sui particolari, ma Consilio dovette certamente distinguersi nelle rapine. E fu tra i violenti e i facinorosi che si accanirono contro i civili. L’assalto non aveva niente di militare e non era stato autorizzato dal governo orvietano. All’imbarazzo seguí presto la voglia di una punizione esemplare, vista anche la notorietà del personaggio. Dardalini, il bravissimo artigiano che di giorno frequentava gli angeli dipinti sulla facciata del Duomo e la notte inseguiva i suoi demoni venne imprigionato e processato. La condanna fece scalpore: fu cacciato dalla fabbrica del Duomo e bandito da Orvieto. Ma il castigo durò solo pochi mesi: senza l’artista «maledetto» di Monteleone, i lavori sugli splendidi mosaici intorno al rosone del Duomo si erano fermati. Né Tino d’Assisi, né Angioletto da Gubbio, né Meuzzo Sanese e nemmeno Lello da Perugia riuscivano ad assicurare la stessa qualità di Consilio. Lorenzo Maitani comprese che Dardalini era indispensabile e allora, sostenuto dai suoi collaboratori, chiese ai governanti di Orvieto che venisse riabilitato in nome della bellezza delle sue creazioni. Perché «per la sua assenza, veniva danno all’Opera, non trovandosi agosto

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chi potesse meglio di lui lavorare il musaico per la facciata». La Signoria dei Sette, l’organo dei supremi magistrati, per la gloria di Orvieto, seguí la ragion di Stato e riaprí il processo. Il verdetto cambiò: con 31 voti favorevoli, Consilio il «musaicista» fu assolto. Nelle sue Notizie istoriche di Città della Pieve, stampate a Perugia nel 1830, Giuseppe Bolletti ricorda nei particolari il clamoroso episodio. E specifica che due emissari del governo orvietano furono inviati al castello di Monteleone per richiamare Dardalini al suo prezioso lavoro. I messi condirono la buona notizia con un atto impregnato di cinismo amministrativo: Stopario poteva tornare al suo lavoro, libero da tutte le accuse, ma doveva tagliare di un terzo la sua «solita paga». Consilio manifestò pentimento per la sua condotta infamante e acconsentí subito all’invito, «in devozione di Maria Santissima». I registi della fabbrica dell’Opera del Duomo documentano che Dardalini fu pagato per le sue preziose forniture di vetri anche nel 1335, 1338 e nel 1339. Il suo nome riemerge tra i documenti circa un ventennio dopo: nel 1358, collaborò con il pittore Ugolino di Prete Ilario per la costruzione di una vetrata nella cappella del Ss. Corporale. E l’anno successivo, insieme a Andrea di Cione, detto l’Orcagna, e suo fratello, selezionò le tessere piú belle per i mosaici che sulla splendida facciata del Duomo servirono a raffigurare la Natività della Vergine. L’ultima sua fornitura documentata «di vetri colorati e dorati» risale alla fine del 1363 e proprio in quell’anno di Consilio si persero le tracce: forse si ritirò e tornò a Monteleone, forse morí poco dopo. Del resto, doveva essere abbastanza vecchio, se si pensa che erano passati piú di quarant’anni dall’apertura della sua prima vetreria a Orvieto. Il tempo e le intemperie hanno cancellato i mosaici fissati sulla facciata del Duomo. L’opera di Consilio

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Nella pagina accanto Orvieto, Palazzo Comunale, Sala del Consiglio. Particolare della decorazione ottocentesca raffigurante Monteleone. A destra e in basso Orvieto, Duomo. Confronto tra la replica ottocentesca del mosaico raffigurante la Natività di Maria e l’originale dell’opera (realizzata da Consilio Dardalini su cartone di Ugolino di Prete Ilario), oggi conservato presso il Victoria and Albert Museum di Londra.

Dardalini e altri celebri artisti come Giovanni Bonini, l’Orcagna, Ugolino d’Ilario, Giovanni Leonardelli e David del Ghirlandaio è andata perduta. Via via, nei secoli, le tessere originali sono state sostituite, in modo comunque mirabile. Nel 1790, quinto centenario del Duomo, alcuni mosaici originali furono staccati e offerti in omaggio a papa Pio VI. Solo uno non è andato disperso: è proprio il quadro della Natività della Vergine di Ugolino di Prete Ilario su cui si esercitò anche l’arte paziente di Consilio Dardalini. Dal 1891 è conservato al Victoria and Albert Museum di Londra, insieme alla memoria del musaicista maledetto di Monteleone d’Orvieto. Federico Fioravanti

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itinerari umbria A sinistra. stemma araldico del Comune di Monteleone sulla Torre dell’Orologio. 1888. Nella pagina accanto pianta del centro storico di Monteleone, dal Catasto gregoriano. 1820. Roma, Archivio di Stato. Sulle due pagine una veduta di Moneteleone.

Worms, nel 1048, per volere di Enrico III, che era anche un suo parente stretto. Il vescovo accettò l’ordine imperiale, ma seguí anche un saggio consiglio del monaco Ildebrando (il futuro Gregorio VII). E dichiarò in modo solenne che non avrebbe ritenuta valida la sua elezione senza il consenso unanime del clero e del popolo di Roma. Scelse quindi di arrivare a piedi nella Città Eterna, vestito come un umile pellegrino.

Un’altura facilmente difendibile

Nel febbraio dell’anno 1049 sostò nel luogo dove, di lí a poco, sarebbe sorta Monteleone: un castello, arroccato su un’altura difficile da conquistare e da cui si poteva controllare un ampio territorio dal Monte Arale alla Val di Chiana, fino ai Cimini e, verso occidente, alla montagna di Cetona e al monte Amiata. Nei decenni successivi piú di trenta famiglie di origine orvietana si trasferirono all’interno di quella fortezza naturale.

La Rimpatriata

A colpi di spada e poi di... forchetta Una storia d’amore che si rinnova da 53 anni. Ogni agosto, a Monteleone torna La Rimpatriata, organizzata dalla Pro Loco a beneficio dei residenti, dei turisti e di chi torna al paese natale dopo un anno intero passato in città. La disfida per il dominio sul «Castrum Montis Leonis» si celebra il 16 agosto e comincia con il tradizionale corteo storico. La sfilata trae spunto dalla divisione che nel Trecento segnò la vita di Monteleone fra i seguaci di due casate: i conti di Montemarte, guelfi e molto legati ai Monaldeschi di

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Orvieto, e i Bulgarelli, conti di Marsciano e Parrano e fieri ghibellini. Seguono i combattimenti medievali, che impegnano ancora i colori delle famiglie rivali. Il clou della rievocazione è però l’agreste Corsa del Carro, nella quale si cimentano i campioni dei quattro antichi rioni del paese: Torrione, Porta, Borgo e San Rocco. La lotta finisce poi a tavola, davanti a un piatto di «umbrichelli», una pasta fresca e rustica, fatta a mano, imprecisa e grossolana, insaporita dal sugo tradizionale del territorio orvietano.

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itinerari umbria A destra ex voto rappresentante il miracolo del Santissimo Crocefisso che ebbe luogo a Monteleone: nella scena si riconosce la parte settentrionale del paese. 1647. Monteleone, Museo Parrocchiale. Nella pagina accanto trattato di pace di Monteleone, 11 luglio 1497, copia dell’atto notarile. Monteleone, Archivio storico comunale. In basso stemma araldico del Comune di Monteleone sulla facciata della Chiesa del Ss.mo Crocefisso. 1637.

Il primo documento ufficiale nel quale venga citato il nome di Monteleone è però un editto dell’imperatore Federico II, emanato a Foligno e datato 3 gennaio 1243, in cui vengono fissati i nuovi confini di Castel de la Pieve, città fedelissima dell’erede degli Hohenstaufen. Piú tardi, il castello compare tra i «pivieri» del Comune di Orvieto, le circoscrizioni territoriali governate da un visconte (vicecomes), nominato dalla città dominante e, di norma, cittadino orvietano, che restava in carica per

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sei mesi. Verso la fine del Trecento con il termine di piviere si identificò tutto il territorio intorno al castrum. E di Orvieto Monteleone accompagnò la storia anche nei secoli successivi, tra alterne e sanguinose vicende. Del castello originario oggi rimangono la porta di accesso al paese, alla base della Torre Mozza e l’antico Torrione con le sue poderose mura di difesa. Il pozzo medievale, i caratteristici vicoli e le altre costruzioni sorgono tutte all’interno del vecchio borgo, dove spicca il Teatro comunale dei agosto

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Rustici, un piccolo gioiello architettonico, edificato nel 1732 in quello che una volta era il granaio dell’antico palazzo pubblico. La seicentesca chiesa del Santissimo Crocifisso conserva un bell’altare barocco. E, nella chiesa dei Ss. Apostoli Pietro e Paolo, spicca una tavola raffigurante la Madonna con Bambino e i Santi Pietro e Paolo, sovrastata da una Pietà di scuola del Perugino. Nella cripta si conservano i resti di san Teodoro Martire.

Città dei laterizi

Fuori, tutto intorno, tra i vicoli, i balconi e le terrazze che si affacciano sulla Val di Chiana, il colore rossastro degli edifici ricorda che per secoli una delle attività principali del borgo e del territorio circostante è stata la produ-

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zione di mattoni. Laterizi fabbricati nelle fornaci locali rimaste attive fino agli Anni Cinquanta del Novecento delle quali resta solo qualche rara immagine fotografica. I mattoni donano un tono caldo e pieno di armonia anche alla imponente Torre dell’Orologio, costruita alla fine dell’Ottocento su disegno dell’architetto Filidio Lemmi, che mostra lo stemma comunale che già compariva alla fine del Quattrocento sui sigilli di ceralacca dei primi documenti d’archivio: un «leone rampante su tre colli, con corona signorile in capo, circondato da due rami di ulivo e quercia». F Alla stesura dei testi hanno collaborato Giancarlo Busti, Livia Di Schino e Sergio Giovannini.

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di Christiane Klapisch-Zuber, con un contributo di Mila Lavorini

IL MARMO

Una storia di fatica e di bellezza

Lo sfruttamento delle cave di Carrara, nelle Alpi Apuane, ebbe inizio forse già nell’età del Ferro e fu sistematico e intenso anche nel Medioevo. Attorno alla bianca pietra, ricercata da scultori e architetti, ruotava un vero e proprio mondo, con regole e consuetudini tramandate di generazione in generazione. E che vide spesso affacciarsi sulle balze rocciose artisti insigni, primo fra tutti Michelangelo Buonarroti Miniatura raffigurante il taglio di un blocco del marmo, dal De universo di Rabano Mauro. 1023. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.


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e tecniche di estrazione medievale, che ci sono note grazie alle descrizioni dei viaggiatori, ai libri contabili delle Fabbriche, ai notai locali e ai resti archeologici, sono caratterizzate dalla continuità con i metodi antichi. Ciò solleva, evidentemente, alcuni problemi: tale continuità, infatti, è riscontrabile anche a Carrara dove, nel periodo compreso tra la fine dell’impero romano e il XII secolo, l’attività estrattiva cessa, e bisogna quindi presupporre una qualche trasmissione del sapere e dei gesti. Una buona cava nell’antichità e nel Medioevo non rispondeva alle stesse caratteristiche di una cava attuale. Oggi l’uso del filo elicoidale, unito all’impiego di esplosivi, utilizzati dalla fine del XVI secolo, libera grandi masse in banchi omogenei. I cavatori medievali erano invece costretti a sfruttare le irregolarità naturali della pietra – i «peli» – che formavano piani di discontinuità nella massa rocciosa. La situazione piú favorevole al lavoro del cavato-

re era quella offerta da una roccia attraversata su tre piani ortogonali da queste litoclasi. La sua abilità consisteva proprio nel riconoscere e utilizzare i diversi «peli» al fine di liberare blocchi privi di difetti. Necessità che si rendeva ancora piú pressante quando si ricercava il bianco statuario, che, in Occidente, era reperibile unicamente a Carrara o tra le antiche rovine.

A sinistra Carrara. Veduta aerea delle cave di marmo, scavate nel fianco dei rilievi montuosi delle Alpi Apuane. In basso Pietrasanta (Lucca), piazza del

Duomo. La scuola d’arte, particolare di uno dei rilievi marmorei opera di Vincenzo Santini, che ornano il monumento a Leopoldo II di Lorena. 1822.

Moltiplicare la forza

Ma di quali utensili disponeva il cavatore? Di fatto, un semplice gioco di picconi e leve consentiva di moltiplicare la forza umana. Tutta l’estrazione si svolgeva a cielo aperto (vedi il disegno ricostruttivo alle pp. 8081). La parete veniva generalmente attaccata dall’alto, nel punto in cui affiorava un filone. Talvolta i cavatori scavavano al di sotto di un blocco, in modo che l’aggetto che veniva cosí a crearsi ne provocasse, a causa del peso, il naturale distacco dalla roccia. Il piú delle volte, però, lavoravano ad altezze vertigi-

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Il lavoro nelle cave 1. Il taglio del blocco di marmo era praticato conficcando a colpi di mazza dei grossi cunei nella ÂŤtagliataÂť. 2. Per il taglio del blocco in parete, i

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cavatori lavoravano assicurati a una corda e sostenuti solo da una tavoletta di legno. 3. Lizzatura del blocco lungo il pendio. La lizza, manovrata mediante funi avvolte

a colonnine di legno o pietra infisse nel terreno, era fatta scivolare su travi di legno. 4. Prima fase di lavorazione e sbozzatura del blocco di marmo. agosto

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nose, legati a una corda, con i piedi su una tavoletta appoggiata a due rampini. Nel 1567, a Serravezza, nei pressi di Pietrasanta, l’architetto, scultore e scrittore d’arte Vincenzo Danti (1530-1576) li vide cosí, disposti in cordata, a sessanta braccia dal suolo. Era necessario vigilare sulla loro incolumità, proibendo, per esempio, il passaggio delle capre piú in alto sulla montagna, che avrebbe potuto provocare una pericolosa caduta di pietre. Scelta la roccia, si praticava una «tagliata» di 15-20 cm di profondità sui lati che dovevano essere staccati dal banco, definendoli in rapporto ai «peli» naturali accuratamente recensiti. Nelle montagne di Carrara sono state rinvenute, in epoche diverse, numerose tracce di «tagliate» antiche o di epoca medievale. Nell’incisione cosí delineata si praticavano poi alcuni fori, nei quali gli operai conficcavano i cunei a grandi colpi di «mazza», un pesante martello a testa quadrata.

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Il momento piú critico

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5. Il trasporto si effettuava (in realtà ben piú lontano dalla cava di quanto lo spazio ridotto del disegno permetta di mostrare) per mezzo di carri tirati da buoi. Il peso

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del marmo che una coppia di buoi poteva tirare definiva la «carrata», la misura di circa 850 kg nella quale venivano stimati i blocchi al momento della consegna.

Il blocco cosí staccato veniva quindi spinto con l’aiuto dei «pali» – leve lunghe un metro e mezzo – e andava a cadere sul pendio formato dai materiali di scarto ai piedi della parete. Questo era il momento della verità: l’operazione (l’abbrivium degli antichi) metteva alla prova i difetti nascosti del blocco, ma a rischio di mandarlo in frantumi. Di norma, in virtú del suo peso, il blocco scivolava da solo sulla scarpata di pietrame, il «ravaneto», che, malgrado la forte inclinazione, veniva sistemato in un pendio il piú regolare possibile. Il ravaneto era parte essenziale di una buona cava. A Carrara le concessioni o le vendite di cave erano sempre accompagnate da quella del ravaneto, a meno che non fosse previsto l’uso di un ravaneto comune. I blocchi subivano una prima fase di lavorazione sul piazzale della cava. Per consegnarli alle misure

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I ferri del mestiere

Ferri propri e un bel berretto rosso Il cavatore non doveva solamente saper scalzare e manipolare la pietra, ma anche lavorarla. Alla fine del XV secolo, a Carrara, la sua attrezzatura prevedeva una doppia serie di strumenti, gli uni caratteristici del lavoro nella cava, gli altri comuni a quelli dei tagliapietre. Ritroviamo l’elenco di questi oggetti negli inventari delle cave e nei contratti di apprendistato: nella capanna di tre cavatori, affittata a Carrara nel 1475, sono presenti una «mazza» di ferro pesante 22 libbre, un «piccone» di 7 libbre e mezza, un «martelletto» di 6 libbre, una «squadra» di 6 libbre e mezza, 14 libbre di «mollette», dieci cunei di 60 libbre e mezza, una «zappa» di 6 libbre, un «palo» di 43 libbre, una «seghetta» di 7 libbre. L’attenzione con la quale gli strumenti destinati al lavoro nella cava sono stati pesati dimostra che, all’epoca, questa attrezzatura, per quanto possa sembrare rudimentale, valeva molto: il prezzo del ferro non lavorato equivaleva alla paga di tre mesi di un operaio. L’equipaggiamento del giovane al termine del suo apprendistato era modesto: intorno al 1500, dopo tre anni passati accanto al suo maestro, a un apprendista cavatore venivano promessi un «mazzuolo» e dieci «ferri per lavorare i marmi», oltre a un vestito nuovo e a un bel berretto rosso; nel 1515, il giovane lavorante di uno scultore bergamasco che abitava a Napoli, doveva ricevere, dopo tre anni e mezzo di apprendistato, venti «ferri», una squadra, un «mazzolo» e un mantello di buon tessuto napoletano. In alto Girona (Spagna), cattedrale di S. Maria. Particolare di uno dei bassorilievi del chiostro, raffigurante la lavorazione del marmo. XII sec.

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richieste dal cliente, il cavatore li alleggeriva con il piccone a due punte, che serviva anche ad aprire la roccia. Questo primo lavoro di sgrossamento non eliminava, però, una ganga di protezione che rendeva il blocco ancora superiore alle dimensioni date dal committente. Poteva dunque seguire una sgrossatura piú precisa al «martelletto» o alla «martellina», la cui testa, quadrata o appuntita, permetteva una picchiettatura molto fina.

Tagliati sul posto

La «sbozzatura» veniva ultimata con lo scalpello, a testa piatta, o con la «subbia», un punteruolo su cui il marmorario picchiava con il «mazzuolo» (una mazzetta che a Carrara ha dato il suo nome a una famiglia di marmisti, da cui ebbero origine numerosi scultori emigrati in Sicilia e nell’Italia del Sud all’inizio del XVI secolo). I marmi erano ancora tagliati sul posto con una «seghetta» senza denti montata su un manico o con l’ausilio di grandi seghe, montate in un telaio di legno e maagosto

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novrate da due uomini. Mentre nel XV secolo erano già numerose le segherie di legname che sfruttavano la spinta dell’acqua, non sembra che, nelle cave di marmo delle Alpi o degli Appennini, venisse sfruttata la forza idraulica per azionare le seghe (vedi box in questa pagina). D’altro canto, le prime funzionano grazie al movimento verticale delle lame, mentre la segatura del marmo impone la trasformazione di questo movimento da verticale a orizzontale: infatti, solo le lame orizzontali non dentate, congiunte all’azione abrasiva della sabbia e a quella refrigerante dell’acqua gettata nella scanalatura, permettono di attaccare il marmo e contemporaneamente levigarlo. Fin dal XV secolo, e ancor piú nel XVI, ingegneri e architetti idearono progetti di macchine, ma pochi ne furono realizzati, e limitatamente a cantieri molto grandi e alla lavorazione delle pietre dure. A Carrara bisognerà attendere la seconda metà del XVIII secolo per veder crescere il numero di queste macchine, in risposta a una crescente domanda di marmi da decorazione.

Sfruttando le pendenze

Dalle cave, i marmi dovevano essere portati al mare o alle rive di un corso d’acqua, che ne avrebbero poi consentito il trasporto a buon mercato. Fin dove il pendio era sufficiente, il blocco, già sbozzato, montato su una sorta di slitta – la «lizza» – e trattenuto da corde legate a grossi pali, scivolava sui «parati» che una squadra di uomini gli disponeva davanti man mano che questo avanzava. La «lizzatura», attestata alla fine del Medioevo nelle cave dell’Istria, della Lombardia e della Toscana, è un procedimento noto fin dall’antichità e che continuò a essere impiegato fino agli anni Trenta del Novecento. Quando non si poteva piú sfruttare il pendio, i blocchi venivano caricati su carri e i buoi continuavano il trasporto. Ed è proprio il peso di

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tecnologia

Con l’aiuto dell’acqua

Nel 1457 l’ingegnere veronese Giovanni di Cristofano, detto Verona, rivolge una richiesta al Comune di Firenze: «Perché è innamorato della gloriosa et magnifica città di Firenze dove le cose grandi sono extimate, arebbe vaghezza venire ad dimostrare et fare notitia del suo ingenio et della sua peritia et arte». Chiede quindi il permesso e il monopolio per un periodo di venticinque anni, della costruzione di «hedifici a secho, e’ quali saranno atti a seghare marmi, pietre e legname, et pestare et macinare et qualunche altre cose (...) Et tale hedificio è cosa nuova et non è usitata». Nel primo terzo del XVI secolo, Benvenuto della Volpaia disegna macchine per segare il porfido che possono essere mosse dalla forza degli uomini, degli animali o dell’acqua. I granduchi marmo che una coppia di buoi poteva tirare che definiva la «carrata», la misura di circa 850 kg nella quale venivano stimati i blocchi al momento della consegna. V Christiane Klapisch-Zuber

di Toscana incoraggiano in seguito le ricerche. Verso il 1565 Bernardo Puccini progetta alcune macchine idrauliche, seguito, verso il 1580, dal francese Jacques Besson e copiato dal lombardo Agostino Ramelli, che propongono a loro volta alcuni congegni destinati a tagliare o a levigare i marmi. Nel XVI secolo, nei cantieri del Portogallo, dell’Escorial o di Firenze, si incontrano alcune di queste macchine capaci di segare e lucidare marmo, diaspri o porfidi. La prima testimonianza di una loro installazione presso le cave di marmo data, però, all’inizio del secolo seguente: Vincenzo Scamozzi descrive allora, nel ducato di Milano, le segherie idrauliche sulle pendici delle Alpi che «grazie alla forza delle pale fatte girare dall’acqua, segano il marmo in lastre di grande larghezza». In alto modello ricostruttivo di una sega idraulica ideata da Leonardo da Vinci, basato su un disegno contenuto nel Codice Atlantico. XVI sec. Vinci, Museo Ideale Leonardo da Vinci.

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DALLE CAVE AGLI ALTARI di Christiane Klapisch-Zuber

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rima del XIV secolo si sa poco sui lavoratori del marmo. I notai genovesi della fine del XII secolo e dell’inizio del XIII hanno conservato il ricordo di alcuni marmorarii di Carrara venuti a vendere o a consegnare blocchi o colonnette ai mercanti del porto ligure. Questi marmisti mettono in apprendistato giovani carraresi presso alcuni maestri lombardi, tagliatori di pietre a Genova (magistri Antelami). Questi rari documenti non permettono di conoscere come fosse organizzato il lavoro nelle cave, dove, dalla fine del XII secolo, nel caso di Carrara, l’estrazione era sottoposta ai diritti sovrani (iura regalia) dei vescovi-conti di Luni. Nel 1273 uno di loro riafferma i suoi diritti, sostenendo di aver «recuperato i maestri del marmo che non corrispondevano quasi piú nulla al vescovo» e «istituito una dogana del marmo». Ignoriamo, però, chi fossero questi maestri marmisti: stranieri venuti ad acquistare materia prima o produttori locali? I libri contabili delle Fabbriche dei grandi cantieri religiosi gettano luce sull’organizzazione del lavoro nel XIV secolo. Le Fabbriche di Pisa, Orvieto, talvolta Siena e soprattutto Firenze si procuravano allora il bianco statuario e i marmi decorativi nelle Alpi Apuane, particolarmente a Carrara, e in cave piú vicine alle loro città. Si delineano Michelangelo fanciullo, scultura in marmo di Emilio Zocchi. 1861. Firenze, Palazzo Pitti. L’artista ha immaginato Buonarroti alle prese con il ritratto di un vecchio fauno realizzato quand’era ancora ragazzo.

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Ruoli e qualifiche

Una progressiva separazione La diversificazione delle qualifiche nelle professioni del marmo si riscontra nelle designazioni dell’arte che l’apprendista vuole acquisire. A Carrara, su una cinquantina di contratti stipulati tra il 1474 e il 1550, 7 riguardano la scultura del marmo, 15 il semplice taglio, 25 l’arte del cavatore. A partire dalla fine del XV secolo, le professioni del legno e della pietra si separano un po’ ovunque in Italia e, all’interno della seconda categoria, gli scultori e i tagliatori di pietre si separano dai muratori. Verso il 1500 gli scultori coabitano ancora con i cavatori nell’«Arte del marmo» carrarese. Alla tappa successiva gli scultori, che aspiravano allo Statuto d’arte liberale, rivendicheranno la loro indipendenza dai semplici «tagliapietre» o «lapicidi». cosí diversi tipi di organizzazione, che si ritrovano altrove in Italia, laddove cantieri importanti (Milano, Pavia, Venezia) non si accontentano di pietre ordinarie o delle cave piú vicine.

In questa pagina due particolari della Grande Torre di Babele di Pieter Bruegel il Vecchio, con scene di lavorazione del marmo. 1563. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

Pagati alla giornata

A Pisa, per esempio, la maggior parte dei marmi usati per la costruzione e la decorazione dei monumenti della Piazza dei Miracoli è estratta dalle cave vicine alla città, e a lavorarvi sono gli operai dell’Opera del Duomo, pagati alla giornata. Ma gli amministratori della Fabbrica di Pisa mandano anche artisti o «capomaestri» ad acquistare blocchi di bianco statuario nelle Apuane. La maggior parte di essi viaggia sola ed è probabile che trovi sul posto la mano d’opera necessaria all’estrazione e al trasporto. Eppure, nell’ultimo quarto del secolo, si vedono alcuni «capomaestri» della Fabbrica pisana installarsi per alcuni mesi nelle cave di Carrara o di Pietrasanta e dirigere il lavoro della squadra di operai specializzati che hanno portato con sé dal cantiere pisano. Al loro ritorno sono rimborsati delle spese sostenute e degli anticipi versati per pagare il salario degli operai e il trasporto; ma sono anche retribuiti per le loro giornate di lavoro e risarciti per la trasferta: quali che siano le loro responsabi-

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lità, rimangono fondamentalmente salariati dell’Opera del Duomo. Il lavoro pagato al pezzo si sviluppa alla fine del XIV secolo e sembra legato all’affermazione e alla qualificazione professionale delle maestranze locali. A Pietrasanta, fin dagli anni Ottanta del XIV secolo, i responsabili pisani potevano contare su cavatori del posto spesso formatisi sui loro stessi cantieri. Senza spostarsi personalmente, potevano trasmettere loro le misure dei blocchi, il cui prezzo era stato fissato in anticipo. Nella seconda metà del secolo, l’Opera del Duomo di Firenze, che deve tener conto delle difficoltà del trasporto dalle Apuane, prima per

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mare e poi lungo l’Arno, ricorre a un terzo sistema, l’allocatio o «condotta». Alcuni tagliapietre accettano, per un prezzo forfettario, di andare a estrarre o di far estrarre a Carrara, sgrossare e far arrivare a Firenze in un tempo prestabilito quantità di marmo spesso impressionanti. Questi «conduttori di marmi bianchi di Carrara» si installano per mesi o anni nelle Apuane con alcuni colleghi venuti da Firenze. Fino alla metà del XV secolo, gli appaltatori fiorentini svolgono cosí il ruolo di impresari responsabili, cercando i prezzi piú convenienti per l’estrazione e il trasporto e controllando, in pratica, tutto il processo di produzione. Tuttavia, la ricerca del bianco statuario

spinge ancora molti scultori ad andare fino a Carrara per scegliere personalmente il loro materiale.

Le prime corporazioni

Nelle cave della Lunigiana la domanda esterna, soprattutto fiorentina, ebbe un effetto formativo e il contatto con gli artisti venuti da fuori accrebbe le competenze della manodopera locale che prese a organizzarsi e a riservarsi progressivamente l’accesso alle cave. A Carrara, dopo il 1450, si intuisce l’esistenza di una corporazione di cavatori e di marmorari che, nell’ultimo quarto del XV secolo, conta una quarantina di membri. Questi ultimi discendevano dai tagliapietre lombardi, inseagosto

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A sinistra Carrara (Massa-Carrara). Uno scorcio del percorso di visita del Museo del Marmo di Carrara. A destra facsimile di una miniatura francese raffigurante operai del marmo al lavoro nel cantiere di una chiesa.

che investe la propria forza lavoro nella società riceve, alla sua cessazione, un affitto dedotto dai guadagni comuni.

Rigide gerarchie

diatisi sulle Alpi Apuane nel primo terzo del secolo, o dagli ausiliari che gli appaltatori fiorentini avevano reclutato sul posto per la manutenzione e il trasporto dei blocchi. Questi magistri marmorum locali affittano dal loro nuovo signore, il marchese di Massa, le antiche cave del vescovo, o ne aprono altre, piú lontane, nella montagna. Essi formano intorno a una cava, per un periodo di tempo limitato – spesso legato a una richiesta particolare –, società di sfruttamento fondamentalmente egualitarie, dove ciascuno è tenuto a fornire una stessa parte di capitale, attrezzi e lavoro, partecipando in uguale misura alle spese e ai guadagni. Il titolare della cava

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A partire dalla fine del XV secolo, alcuni contratti d’affitto dimostrano, tuttavia, che il ristretto mondo dei marmorari è ben gerarchizzato. La maggior parte di questi contratti è stipulata tra un possessore di cava, generalmente un maestro marmorario, e alcuni cavatori che s’impegnano a consegnargli tutta la produzione sul piazzale delle cava, a un prezzo stabilito. Il marmorario negozia con gli artisti, finisce di preparare i marmi alla cava o in bottega, si occupa del trasporto fino al mare, tratta con i proprietari delle imbarcazioni noleggiate e paga i suoi affittuari. È in grado di associarsi a membri della stessa corporazione, al suo stesso livello, in società di commercio. Rispetto ai cavatori propriamente detti, appare chiaramente in una posizione preminente. Mentre l’Arte dei cavatori e dei tagliatori di pietra rinnova il suo personale facendo appello ad apprendisti provenienti dal

mondo rurale e formati in due soli anni, da questa cerchia piú ristretta di marmorarii escono gli scultori e i decoratori, formati in sei anni. Per il loro apprendistato questi ultimi seguono volentieri un maestro all’estero; stabiliti in uno dei grandi centri di consumo del marmo, da Genova alla Sicilia, fungeranno, dopo il 1500, da intermediari commerciali. Alla fine del XV secolo le caratteristiche della «società» del marmo sono largamente determinate dall’irregolarità degli ordini e dai pericoli legati all’estrazione. La domanda fluttua a seconda della situazione politica dei Paesi interessati o attraversati; questa mancanza di continuità costringe produttori e commercianti ad associarsi solo per brevi periodi per lo sfruttamento di determinati filoni di marmo, che possono del resto esaurirsi prima del previsto. Il lavoro dipende in larga parte dall’ordinazione ed esige, per un periodo di breve durata, la concentrazione di mezzi tecnici e di uomini, cavatori o tagliapietre, che dovranno scegliere, estrarre e sbozzare i blocchi alle misure del cliente. Le esigenze del trasporto sono ancora piú vincolanti della singola com-

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Dossier michelangelo a carrara

Un rapporto privilegiato Michelangelo si recò piú volte a Carrara dove, nel 1515, prese in affitto una casa. Apprezzava l’abilità dei suoi cavatori e tagliapietre, capaci di «addomesticare» la montagna, e la confrontava volentieri all’imperizia di quelli importati con tanta difficoltà da Firenze dalle cave concorrenti di Serravezza, giudicati incapaci di tagliare una semplice scheggia di marmo. Non sembra che lo scultore abbia lavorato all’estrazione, ma si recava nelle cave a scegliere i blocchi che voleva far estrarre: nel 1516-1517 lavoravano per lui una quindicina di cavatori. Come molti altri artisti, sgrossava personalmente le sue «bozze». Nel 1519 anche lo spagnolo Bartolomeo Ordoñez si stabilí a Carrara, dove alcuni Fiorentini e Lombardi lo aiutavano a lavorare i marmi forniti da sette cave. Michelangelo sembra essere stato il solo a stabilire una «buona compagnia» con un cavatore per aprire «una sua cava antica» di cui intendeva riservarsi la produzione. Ma nel 1518 la Fabbrica fiorentina lo incaricò dell’estrazione e del trasporto dei marmi di Serravezza, vicino a Pietrasanta, e lo scultore interruppe burrascosamente i suoi rapporti con la gente di Carrara. Tuttavia, l’anno seguente era di ritorno e concludeva un contratto con tre Carraresi che facevano riconoscere la loro duplice competenza di «maestri cavatori e sbozzatori di marmi».

A destra Michelangelo, scultura in marmo di Antonio Novelli. XVII sec. Firenze, Casa Buonarroti. Sulle due pagine Milano, Duomo. Il trasporto dei marmi per via d’acqua, particolare di uno dei bassorilievi in bronzo di Giovanni Minguzzi raffiguranti la storia del Duomo. 1965.

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messa. Il semplice trasferimento dei marmi dalla cava al mare opera rapidamente una selezione tra i produttori: un piccolo gruppo di maestri proprietari di buoi e grossi carri per il trasporto del marmo, o in grado di assumere il costo del trasporto, subito prevale sulla massa dei cavatori relegati sulle loro montagne.

Per via d’acqua

Le difficoltà della spedizione impongono dure costrizioni: data l’impossibilità di far viaggiare su strada un materiale cosí pesante e ingombrante, s’impone ovunque il trasporto per via d’acqua. La vicinanza del mare ha fatto la fortuna del marmo delle Alpi Apuane o della pietra dell’Istria. I Milanesi, invece, sfruttavano un canale per far arrivare dalle Alpi i marmi destinati al loro duomo, mentre il marmo carrarese, risalendo la costa adriatica e il Po, arrivava a Pavia dopo un lungo viaggio sull’acqua. A Carrara le spese del trasporto spettavano al cliente ma, per il meccanismo dei pagamenti, il

Le carrate

Bianco, «ben piano» e «ben sgrossato» Nel 1389, Giovanni di Francesco, tagliapietre fiorentino, firma un contratto con l’Opera del Duomo per l’estrazione e la consegna sul cantiere, nei due anni che seguiranno, di 300 «carrate» (circa 240 tonnellate) di marmo bianco di Carrara «ben piano, ben sgrossato, ben quadro e ben saldo» e rispettando le misure agosto

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che riceverà dall’Opera; a queste «tavole, tavolette, cornici, collonelli e archetti» di taglia media dovrà aggiungere, ogni anno, due blocchi di dimensioni maggiori e tre grossi blocchi per statue, pesanti ciascuno all’incirca due tonnellate. Il documento specifica inoltre che il «conduttore» riceverà 6 fiorini d’oro netti per «carrata» (1800 fiorini in totale), escluse le spese di trasporto, gabelle e altre, che dovrà anticipare. Avrà 25 fiorini subito, poi i pagamenti dell’Opera si scaglioneranno di tre mesi in tre mesi, a seconda delle consegne del materiale, fino al saldo finale.

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marmorario rimaneva implicato fino alla consegna. Vediamo come. Verso la fine del XV secolo, il cavatore carrarese che aveva ricevuto un anticipo al momento dell’ordinazione promette al marinaio incaricato del trasporto un nolo pagabile all’arrivo da un suo rappresentante o dal cliente, ma ne riceve un «mutuo» – anch’esso restituibile quando i marmi giungeranno a destinazione – che, unito all’anticipo ricevuto, lo ripaga di fatto del proprio lavoro. Questo mutuo lo garantisce contro gli errori o la disonestà del trasportatore, il quale, diventato provvisoriamente proprietario dei suoi marmi, potrebbe rivenderli per conto proprio. In questo caso il

marmorario perderebbe gli interessi sul suo prestito che, per il gioco degli scambi monetari, gli sarà invece rimborsato all’arrivo dal cliente e che diventa una garanzia per lui e un premio d’assicurazione per il marinaio. Queste forme rudimentali di pagamento a distanza e di assicurazione marittima, riscontrabili fino alla metà del XVI secolo, rispondono evidentemente alla mancanza di capitale di quanti erano implicati negli scambi. E ben riflettono le strutture ancora artigianali prevalenti nella produzione e nel commercio del marmo, un materiale pesante che il valore aggiunto e il peso simbolico trasformano in un prodotto di lusso. V

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Una sfida ambiziosa

Il CARMI-Museo Carrara e Michelangelo Come si legge nelle pagine di questo Dossier, le cronache riportano che, nel Cinquecento, il marmo di Carrara era spedito in Francia, Inghilterra, Spagna e Portogallo e che artigiani per la lavorazione della preziosa pietra erano presenti alle principali corti europee, inclusa quella di Caterina II a San Pietroburgo. E tra i personaggi che

frequentarono le Alpi Apuane con l’intento di trovare i blocchi migliori per la creazione di opere scultoree, il piú eminente è indubbiamente Michelangelo il quale, incurante delle difficoltà e dei pericoli che si dovevano affrontare, visitava spesso quell’impervia regione. Una volta scelti personalmente i pezzi di puro e luminoso bianco, ritenuti

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piú adatti per le opere progettate, l’artista marcava ognuno di essi con tre cerchi intrecciati, simbolo delle tre arti: apposta la sua «firma», nessuno avrebbe osato avvicinarsi a quel materiale. Insomma, le visite alle cave erano un momento fondamentale nell’iter preparatorio del maestro fiorentino, convinto che la scultura si fa «per via di levare» e non «per via di porre» come la pittura. Adesso Carrara rende omaggio al profondo e continuo rapporto tra Michelangelo e l’area carrarese, con il nuovo complesso museale CARMI, allestito nell’ottocentesca Villa Fabbricotti e articolato su tre livelli, che ci introduce alla conoscenza di una icona, riferimento universale per qualsiasi valutazione sullo sviluppo della cultura figurativa e architettonica europea degli ultimi cinque secoli. La mostra permanente, ospitata al piano nobile, con testimonianze e prestiti concessi da vari enti, è incentrata proprio sullo stretto legame tra il «Divino» e il territorio, nato con il primo viaggio nel 1497, fino alla brusca interruzione con il trasferimento forzato a Seravezza voluto da papa Leone X, il quale, nel 1513, aveva imposto ai Malaspina di vendere alla famiglia Medici le cave di Pietrasanta e Serra che, da

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Sulle due pagine l’allestimento di una sala del CARMI-Museo Carrara e Michelangelo, in cui viene presentato un ologramma del David. Nella pagina accanto La venditrice di fiammiferi, opera di autore anonimo esposta nella mostra dedicata ai gessi dello studio Lazzerini. XIX-XX sec. In basso la facciata di Villa Fabbricotti, sede del CARMI.

Dove e quando CARMI-Museo Carrara e Michelangelo Carrara, via Sorgnano 42 Orario fino al 30 settembre: ma-do, 11,00-20 00 (giovedí apertura serale fino alle 23,00); chiuso il lunedí Info tel. 0585 641487 o 641297; e-mail: infocultura@ comune.carrara.ms.it

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Dossier quel momento in poi, diventarono di esclusivo uso di Firenze. Michelangelo non aveva gradito il cambiamento e, per molti mesi, impegnò le proprie energie cercando di «domesticare i monti e ammaestrare gli uomini». Il percorso espositivo si sviluppa attraverso sei sale tematiche, con riproduzioni, ologrammi come il David, foto, video e documenti storici che evidenziano la sua «genetica» predilezione per il marmo apuano, la cui polvere gli scorreva nelle vene al posto del sangue, come lo stesso scultore asseriva. Troviamo ben due Mosè riprodotti in scala 1:1, uno in resina, usato sul set cinematografico de Il Peccato, e l’altro in marmo, realizzato dall’Accademia di Belle Arti di Carrara, oltre a contributi di Giacomo Manzú, Carlo Ludovico Ragghianti, Luigi Moretti e Michelangelo Antonioni, che sottolineano la portata dell’eredità In questa pagina due immagini della mostra temporanea dedicata ai gessi dello studio Lazzerini.

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artistica e culturale del Buonarroti e la profonda attenzione che la critica d’arte piú raffinata e innovativa gli ha riservato. Di pregevole fattura sono le riproduzioni di Rothko, Le Corbusier, Arata Isozaki e Robert Venturi, accanto alle gigantografie della Pietà Vaticana e della Pietà di Jean Fabre che accolgono il visitatore nel pianerottolo intermedio, ai lati dello scalone. Il piano terra rialzato, sede di mostre temporanee, accoglie una sezione di approfondimento sulla storia della villa e della famiglia Fabbricotti e due esposizioni intitolate: «I gessi dello studio Lazzerini. La storia di una collezione nella gipsoteca della scuola del marmo», e «Carrara 1800-1850. Maestri Studenti in viaggio verso Roma. I tesori della Gipsoteca della Accademia di Belle Arti di Carrara»: una selezione di opere che intende proporre uno spaccato storico, entrando nella quotidianità del lavoro delle botteghe e dei laboratori di Carrara, ma anche la grande attenzione che l’Istituto accademico ha rivolto all’arte scultorea, conservando modelli, corredati da iscrizioni, incise nel gesso, agosto

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che ne identificano l’autore, la data di esecuzione e spesso chiarificano se si tratti del primo, del secondo o del terzo saggio di studio. Completa la rassegna il livello seminterrato, dove si trovano due sale dedicate alle produzioni cinematografiche che nel 2017 hanno celebrato il legame tra Michelangelo e la città di Carrara: il già citato Peccato di Andrej Konchalovsky, che ha cercato

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attori e figuranti proprio fra la gente del luogo, con «la cava nel volto», e Michelangelo-Infinito di Emanuele Imbucci, che espone gli attrezzi da lavoro che il genio toscano fabbricava da sé e che sono stati disegnati, progettati e realizzati artigianalmente perché avessero un aspetto autenticamente grezzo, insieme a bozzetti e disegni che hanno contribuito in modo sostanziale a conferire la

In alto riproduzione di un elemento architettonico e incisioni che raffigurano il prospetto e il cortile di Palazzo Farnese, a Roma, di cui Michelangelo diresse i lavori di costruzione dopo la morte di Antonio da Sangallo il Giovane. In basso ancora una sala del CARMI.

massima accuratezza filologica al lavoro di ricostruzione storica del film. È ambiziosa la sfida carrarese di proporre una galleria dedicata al sublime Michelangelo, senza alcun manufatto originale del virtuale titolare che, arrogante e presuntuoso, sarebbe stato probabilmente felice di accettare. Risulta impossibile qualsiasi incasellamento concettuale o spirituale nella sua caleidoscopica personalità, e altrettanto limitativo definirlo artisticamente nella sua suggestiva dicotomia. Di certo, come scrisse Giorgio Vasari, la fama dei suoi capolavori «mentre che dura il mondo, viverà sempre gloriosissima per le bocche de gli uomini e per le penne degli scrittori, mal grado della invidia et al dispetto della morte». Mila Lavorini

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QUANDO LA PIETRA SI FA LUCE di Dominique Rigaux

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ianco o colorato, il marmo è sempre stato il materiale prediletto dagli scultori, uno dei piú usati fin dall’antichità. Il suo impiego, forse piú di altri, è contrassegnato dal peso della tradizione e dalla continuità delle formule. Agli artisti medievali, gli edifici antichi e le opere scultoree che li decorano non offrono solamente uno straordinario repertorio di modelli e di forme – in particolare, i capitelli sono spesso copie di opere antiche –, ma costituiscono veri e propri giacimenti di materia prima. Le sculture romaniche che ritroviamo nel Mezzogiorno della Francia, sia che si tratti di quelle della basilica di Saint-Sernin, a Tolosa, la cui origine è conosciuta fin dall’inizio del secolo, o della facciata di Saint-Trophime, ad Arles, forniscono molteplici esempi di arte del reimpiego. Ma è naturalmente nella Penisola, dove le antiche vestigia sono onnipresenti, che l’arte di fare cose nuove con le antiche emerge in maniera piú evidente. Molti sono i templi sfruttati come cave: colonne, capitelli, iscrizioni antiche costituivano altrettanti pezzi pronti per essere smembrati e nuovamente utilizzati. Questa pratica non manca di lasciare consistenti tracce sulla realizzazione stessa del lavoro, poiché la natura dei blocchi disponibili condiziona le fasi della costruzione e, talvolta, persino l’effetto finale, com’è provato dalla presenza di basi di differenti altezze nel terzo chiostro di S. Scolastica, a Subiaco. D’altro canto, l’utilizzazione di materiali di reimpiego da parte dei marmorari si inscrive in una lunga tradizione, che si perpetua di generazione in generazione.

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Roma, basilica di S. Clemente. Veduta della navata centrale con la schola cantorum, interamente realizzata in marmo. Da notare, presso l’ambone sinistro, il candelabro tortile per il cero pasquale. XII sec.

La maggior parte del mobilio liturgico di epoca medievale, realizzato in marmo, proviene per esempio da lastre di reimpiego. È il caso dei monumentali candelabri scolpiti, ancora oggi visibili in alcune chiese di Roma, o del celebre «candelabro del cero pasquale» (fine del XIII secolo) nel duomo di Gaeta; suppellettili religiose che, in origine, non erano altro che grosse colonne tagliate. Anche le decorazioni a forma discoidale utilizzate per i pavimenti delle basiliche romane provengono da colonne tagliate, per cosí dire, a fette.

Virtuosi delle tessere

I marmorari, attivi come scultori o mosaicisti a Roma e nel Lazio, fra l’inizio del XII e la fine del XIII secolo, realizzano nelle loro botteghe specializzate tanto chiostri che campanili, pezzi di mobilio liturgico ma anche monumenti funerari, pavimenti come pure mosaici murali. Questi artisti – da lungo tempo repertoriati grazie alle numerosissime iscrizioni pervenuteci, che forniscono spesso le date di esecuzione delle loro opere – sono conosciuti con la generica denominazione di Maestri Cosmati, dal nome di una delle principali famiglie del mestiere, quella dei Cosma. A questo nome resta legato un decoro geometrico minuzioso, fatto di tessere multicolori, nel quale ai minuscoli cubi di marmo se ne alternaagosto

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Dossier le botteghe cosmatesche

Produzioni seriali Alcune tra le realizzazioni piú prestigiose delle botteghe cosmatesche, i chiostri romani, sono frutto della fabbricazione in serie. Dopo un serio studio condotto sul campo, con l’ausilio di piante e bozzetti, il chiostro veniva preparato nella bottega, dove i differenti elementi – in genere realizzati con marmo di reimpiego – erano tagliati in maniera quasi industriale. Poi venivano spediti da Roma in pezzi staccati, pronti per il montaggio. Ci si assicurava che il capo della bottega si impegnasse a sorvegliare il trasporto dei marmi già tagliati e che non prendesse altre ordinazioni, affinché potesse recarsi di persona sul luogo per dirigere il montaggio. È quanto fece, nel 1232, il marmorario Pietro di Maria per il chiostro di Sassovivo a Foligno, in Umbria. Il chiostro dell’abbazia benedettina di S. Scolastica, a Subiaco, fu eseguito nel laboratorio romano del marmorario Cosma e dei suoi figli Luca e Jacopo per l’abate Lando (1227-1243), come ricorda un’iscrizione tuttora visibile nel lato ovest del terzo chiostro. Anche in questo caso le pietre furono pretagliate e spedite da Roma pronte per essere montate. È la scoperta di contrassegni per l’assemblaggio differenti da quelli lasciati dai tagliatori di pietra che ha permesso di apprezzare l’importanza di questo procedimento. Sembra che la pratica fosse largamente adottata in ambito romano nel corso della prima metà del XIII secolo, ma alcuni relitti trovati in mare testimoniano del resto che questa tecnica per la costruzione di monumenti era diffusissima già dall’antichità in tutto il bacino mediterraneo.


In alto Subiaco, monastero di S. Scolastica. Il chiostro cosmatesco. XIII sec. A sinistra Firenze, chiesa di Orsanmichele. Particolare della predella del tabernacolo dell’arte dei Maestri di Pietra e Legname, di Nanni di Banco, raffigurante la lavorazione del marmo. XV sec.

no altri in pasta di vetro cangianti o dorati e in pietre dure. Le opere di questi artisti, tra le quali si annovera la decorazione di numerose chiese romane, da S. Clemente, a S. Maria in Trastevere, a S. Maria in Cosmedin, hanno sempre goduto di un grande prestigio.

L’equilibrio dei chiostri

Non si può parlare del repertorio dei Maestri Cosmati, cosí come della loro tecnica, senza ricordare le tradizioni bizantine e orientali, mentre d’altra parte il loro gusto per un cromatismo intensamente luminoso, ma scisso in migliaia di particelle

di colore, rinnova l’equilibrio fra la struttura e la decorazione che caratterizza i chiostri romani della prima metà del XIII secolo. Alla fine del Duecento e nel corso del secolo seguente, è ancora il colore dei marmi ad avere un posto dominante nelle grandi cattedrali dell’Italia centrale. A Siena o a Orvieto, larghe bande alternate di marmo bianco e nero caratterizzano sia l’esterno che l’interno degli edifici sacri, ne scandiscono i volumi, riequilibrano le altezze e creano una dinamica unica di chiaroscuro. Nella navata del duomo di Siena, l’impressionante altezza dei pilastri è attenuata, in effetti, da questa decorazione orizzontale, che crea una scenografia in prospettiva a differenti livelli. Il contrasto di toni è particolarmente sfruttato nell’arte funeraria, in cui austere lastre di marmo nero servono spesso di supporto alla figura scolpita

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Dossier uno degli esempi francesi piú riusciti dell’utilizzazione di marmi di differenti colori. In questa immagine della religiosa in piedi, l’associazione di marmi neri e bianchi serve a rendere i dettagli dell’abito dell’Ordine a cui Maria di Borbone apparteneva. Il gioco di colori e la bella levigatezza del marmo nero esaltano la densa caduta verticale delle pieghe dell’abito monacale.

Alabastro...

In alto Pisa, Battistero di S. Giovanni. Tarsia marmorea del fonte battesimale ottagonale di Guido Bigarelli da Como. 1246. Sulle due pagine abbazia di Chaise-Dieu. La pietra tombale di Clemente VI. 1349-1351.

Un buon numero di pale d’altare scolpite nel XIV secolo, sia francesi che inglesi – oggi smembrate –, presentano scene della vita di Cristo finemente intagliate in sottili lastre di marmo bianco o di alabastro – materiali spesso confusi nella terminologia medievale – su fondo nero, sull’esempio delle quattro scene della Passione proveniente dalla Sainte-Chapelle del Palazzo Reale di Parigi, oggi conservate al Louvre. A queste variazioni bicolori gli artisti italiani preferiscono le incrostazioni policrome, che fanno del colore sulla pietra un vero processo espressivo, di cui la Cantoria del Duomo di Firenze, realizzata da Donatello tra il 1433 e il 1439 e

del giacente, o a preziose architetture di marmo bianco, come attestano le tombe principesche della fine del XIII secolo. Testimonianza notevole benché frammentaria in tal senso è la tomba a baldacchino di papa Clemente VI ( 1352), nell’abbazia benedettina della Chaise-Dieu – villaggio della Francia sud-orientale, nel dipartimento della Haute-Loire –, che fu realizzata prima della morte del pontefice, fra il 1349 e il 1351, dalla bottega di Pierre Boye, forse ad Avignone. Anche la rara effigie funeraria in posizione eretta di Maria di Borbone, cognata del re Carlo V e priora del monastero delle domenicane di Poissy dal 1380 al 1401, rappresenta

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oggi conservata nel Museo dell’Opera del Duomo, offre uno degli esempi piú felici. Grazie all’uso sapiente di questa policromia il marmo si fa luce, assume profondità, diventa quadro, come mostra anche lo stupefacente pavimento della cattedrale di Siena. Se la scultura gioca con la pittura, all’inverso, nel XV secolo, il grado di perfezione raggiunto dalle tecniche pittoriche, unito a un uso esperto dell’arte del trompe-l’oeil, consente di simulare con successo il marmo. Si assiste allora allo sviluppo di una vera iconografia del marmo nella pittura religiosa, arte che ebbe in Giotto uno dei primi grandi maestri e che trova piena espressione a Firenze nell’Ultima Cena affrescata da Andrea del Castagno (1447), nel refettorio del convento di S. Apollonia. A partire da Giotto, nella pittura italiana, tanto toscana che veneziana, non si contano i pavimenti di marmo multicolore che si dispiegano ai piedi della Vergine col Bambino. Oltre a manifestare il virtuosismo dell’artista, che giunge talvolta alla prodezza tecnica nella resa di questi marmi policromi – venati o

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zebrati, ocellati o pomellati, occhiati o marezzati, picchiettati e in tante altre varietà – queste opere propongono piú spesso un simbolismo estremamente concentrato. Cosí, per esempio, la rappresentazione di un pavimento in marmo, materiale prestigioso e splendente, appare come il modo migliore per esprimere la gloria della Vergine.

...e «marmi finti»

Ma è piuttosto la prefigurazione della tomba di Cristo che il marmo vuole significare. Cosí, nel transetto sud della Chiesa Inferiore di Assisi, dipinto a fresco da Pietro Lorenzetti (1317), le scene che illustrano la sepoltura e la resurrezione del Cristo mostrano in due riprese il sepolcro decorato con un motivo a compartimenti di «marmi finti». Un secolo piú tardi, nelle scene della vita di san Giovanni Battista, nel battistero di Castiglione Olona (1435), Masolino da Panicale utilizza esplicitamente la compartimentazione dei «marmi finti» nella parte bassa dell’affresco come un primo piano della tomba del santo – vista da lontano, in alto –, il cui seppellimento è circonfuso

In alto lastra tombale di Lorenzo Acciaiuoli nella Certosa di Firenze.

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da un senso di evidente prefigurazione della sepoltura del Cristo. Benché percettibile con minore immediatezza, anche il significato dei marmi finti della Madonna delle Ombre – dipinta (tra il 1438 e il 1450) da fra’ Giovanni da Fiesole, noto come il Beato Angelico, nel corridoio orientale del convento di S. Marco, a Firenze – va nello stesso senso. La Vergine col Bambino in trono, attorniata da santi, poggia fittiziamente su uno zoccolo costituito da quattro pannelli di marmo finto, le cui incrostazioni colorate evocano la varietà dei marmi italiani. Questa

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disposizione frontale dei quattro pannelli di falsi marmi, accuratamente incorniciati da modanature, basta a indurre nell’osservatore l’associazione visiva con la tomba di Cristo, tanto questo modello di rappresentazione ha potuto essere pregnante in tutta la pittura italiana dopo la Maestà dipinta da Duccio di Buoninsegna per il Duomo di Siena.

Forza allegorica

I soli marmi ricorrenti nelle Annunciazioni dei secoli XIV e XV, in particolare nelle opere del Beato Angelico – che si pensi all’Annun-

ciazione oggi nel Museo Diocesano di Cortona, o a quella del Prado, a Madrid – vanno talvolta visti come luoghi dotati essi stessi di forza allegorica, luoghi-segno, in grado, come il vetro o il cristallo, di raffigurare – nel senso pieno del termine – la verginità mariana, in un dato contesto. Cosí basta constatare come, nell’organizzazione stessa delle opere pittoriche, il marmo colorato funzioni come un elemento dialettico, un luogo di scambio e di mediazione. La rappresentazione dei marmi colorati nella pittura del Trecento e del Quattrocento ha agosto

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La Pietra dell’Unzione

Il messaggio dei colori Nell’Ultima Cena di Andrea del Castagno, sei grandi pannelli di marmo finto si spiegano frontalmente alle spalle del Cristo e degli Apostoli. Uno di essi si distingue per la violenza delle tre tonalità di colore che vi dominano: il rosso, il nero e il bianco che si affrontano straziando la superficie. Si tratta, con precisione, del pannello sul quale si concentrano le teste dei tre protagonisti del pasto, Gesú, Giuda e Pietro. Un reticolo vermiglio orlato di bianco vi disegna un vasto meandro. Ora, nell’iconografia della Passione, nel Quattrocento, una pietra venata di rosso fa in genere allusione alla Pietra dell’Unzione, una delle reliquie piú venerate dalla cristianità. Questa pietra – cosí chiamata perché vi sarebbe stato adagiato il corpo di Cristo, una volta disceso dalla croce, per aspergerlo di profumi prima di avvolgerlo nel lenzuolo – sarebbe stata conservata a Gerusalemme fino al XII secolo. Essa viene in seguito menzionata a Costantinopoli, ma le sue tracce si perdono dopo la quarta crociata (1204). Forse la pietra fu rubata in occasione del sacco a cui fu sottoposta la città e trasportata in Occidente? Quello che è certo è che, a Gerusalemme, fu sostituita con una copia, elemento fondamentale della topografia sacra del Santo Sepolcro, descritto da tutti i pellegrini. Secondo la tradizione bizantina, la pietra sarebbe stata arrossata dal sangue del Cristo, che defluiva dalla piaga sul costato. Cosí il pannello di marmo che evoca il sangue sulla pietra introduce nella rappresentazione dell’Ultima Cena l’annuncio della Passione, sottolineando nel contempo il simbolismo eucaristico. In alto Firenze, convento di S. Apollonia, Refettorio. Ultima Cena, affresco di Andrea del Castagno. 1445-1450 circa. A destra la Cantoria realizzata da Donatello per il Duomo di Firenze. XV sec. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

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In alto Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore. Seppellimento di Cristo, affresco di Pietro Lorenzetti. 1310-1319 circa. A sinistra Madonna delle Ombre, affresco e tempera del Beato Angelico. 1440-1450. Firenze, Museo di S. Marco.

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lo scopo di suggerire il legame che esiste tra la maternità divina e il lutto per il Cristo morto. Ciò appare chiaramente nella pala di Bosco ai Frati, oggi conservato presso il Museo di S. Marco a Firenze, dipinta a tempera verso il 1450 dal Beato Angelico. Le sontuose lastre multicolori disposte ai piedi del podio sul quale si trova la Vergine con il Bambino, nel pannello centrale dell’opera, fanno infatti eco a quelle che ornano la tomba del Cristo, nella Pietà dipinta sul pannello centrale della predella. E il gioco stesso di corrispondenze visive collega i simboli. All’altezza degli occhi dello spettatore, evocando l’altare, esso stesso immagine del sepolcro di Cristo, la «piú luminosa delle materie opache» adempie cosí pienamente al suo ruolo di figura Christi, proponendosi come una superficie di contemplazione.

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Fra le colline e il fiume CARTOLINE • La Valcerrina si snoda fra dolci rilievi e le acque del tratto

piemontese del Po. Un territorio che conserva tracce vivide del suo passato medievale, sia nelle architetture civili e religiose, sia nel paesaggio rurale

C

ompresa tra le province di Alessandria, Asti e Torino, la Valcerrina si trova nel cuore del Piemonte vitivinicolo, è in continuità con il primo Urban Mab (Man and Biosphere) d’Italia, costituito dalla Riserva di Biosfera delle aree protette del Parco del Po e della Collina Torinese. Padrone assoluto di questo lembo del Basso Monferrato è il paesaggio, con le sue scoscese colline, da cui si gode una spettacolare vista sulle risaie e sui boschi selvaggi ai bordi del Grande

sia

Se

Biella

Novara

Vercelli Torino Carmagnola

Asti

Milano Casale Monferrato Alessandria

Bra Cuneo

Mondoví

Fiume. Strade di cresta e «di costa», fiancheggiate da un’ondulata distesa di vigne, disegnano una fitta rete di percorsi panoramici e rimandano alla geografia medievale. Oggi come un tempo collegano paesi abbarbicati sulla cime dei poggi, isolate chiesette con l’alto campanile che svetta sui campi circostanti e minuscoli centri fortificati, probabili eredi di villaggi d’epoca romana sviluppatisi nei punti piú elevati per motivi di sicurezza. Porta della Valcerrina per chi proviene da Casale Monferrato è Serralunga di Crea, di cui già da lontano si riconosce il verde colle del Parco Naturale del Sacro Monte con il Santuario della Beata Vergine, che nel 2003 l’UNESCO ha dichiarto Patrimonio dell’Umanità.

MAR LIGURE

In fuga dalle persecuzioni Secondo la tradizione popolare il tempietto fu fondato da sant’Eusebio, che qui si sarebbe rifugiato nel IV secolo, per sfuggire alle persecuzioni degli ariani. La prima notizia certa risale invece al 1152, quando il vescovo

In alto Serralunga di Crea (Alessandria), il santuario della Beata Vergine. A sinistra cartina del Piemonte con l’area in cui si estende la Valcerrina. In basso veduta di Gabiano (Alessandria). di Vercelli, Uguccione, concesse la chiesa ai monaci di Vezzolano, sostituiti nel 1478 dai Padri Serviti e, nel 1483, dai Canonici Lateranensi, che nel 1608 ottennero l’erezione della chiesa in abbazia. L’aspetto dell’edificio sacro è dovuto in buona parte ai rifacimenti, effettuati dal XV al XX secolo. Confermano l’esistenza di una fabbrica medievale – decorata da un notevole

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corredo plastico, scomparso nei rimaneggiamenti successivi –, due fregi di sottogronda scolpiti tra il Duecento e il Trecento, e tre rilievi scultorei che, murati nei due pilastri della navata centrale, prossimi al presbiterio, riportano a possibili esperimenti classicisti tentati dai Longobardi tra il VII e l’VIII secolo.

In alto e in basso Cavagnolo (Torino), abbazia di S. Fede. La facciata della chiesa abbaziale e un particolare della decorazione scultorea del portale, con un animale accovacciato che sormonta uno dei capitelli.

Alle spalle dell’altare Le due cappelle, alle spalle dell’altare maggiore, sono state probabilmente edificate in contemporanea come primo nucleo del tempio. Quella di sinistra è dedicata alla Vergine e custodisce la statua della Madonna, che la leggenda vuole portata a Crea da sant’Eusebio. Quella di destra è intitolata a santa Margherita di Antiochia e conserva una preziosa reliquia della martire, donata dal marchese Ottone II del Monferrato (morto nel 1378). Il ciclo a fresco che la orna fornisce un prezioso tassello sulla pittura della seconda metà del Quattrocento. La scelta del tema principale,

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CALEIDO SCOPIO A sinistra Mombello (Torino): Rilievo in arenaria murato all’esterno della chiesa di S. Sebastiano. Nella pagina accanto il campanile e una veduta dell’abside affrescata della chiesa di S. Maria di Pulcharada, a San Mauro Torinese. In basso, a sinistra e a destra Mombello. Resti delle strutture difensive e una veduta del borgo.

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Una grandiosa visione celeste Tra l’XI e il XII secolo, attorno al potente e florido monastero di S. Maria di Pulcharada, gravitava una realtà politica e culturale non solo locale. A confermarlo concorrono l’ampiezza, la raffinatezza, la qualità pittorica e l’eccezionale iconografia di una splendida serie di affreschi romanici, recuperata nel 2010 nell’abside della chiesa. Ritenuta una delle scoperte piú importanti degli ultimi decenni in Italia settentrionale, come ambito culturale e datazione si collega ai cicli lombardi di Civate e Acquanegra, realizzati a cavallo fra l’XI e il XII secolo. Una grandiosa visione celeste, con Cristo in trono, circondato da angeli e arcangeli e affiancato dalla Vergine e dal Battista, risplende nella conca absidale. Nell’intradosso compare l’Offerta di Abele e Caino, mentre nella parte alta del cilindro si stagliano le figure dei santi Pietro e Paolo e di quattro misteriosi personaggi aureolati, forse i Patriarchi, che reggono un globo con tre figurette a mezzo busto, personificazione delle anime. Sotto, una Crocifissione e una lacera Adorazione dei Magi sono tutto ciò che rimane di un ciclo cristologico. Quale poteva essere l’impianto iconografico generale della chiesa? Semplicemente narrativo, legato alle vicende di san Mauro, o piú intellettuale e dotto, come quello dell’abside? L’accertato uso di materiali preziosi: blu di lapislazzuli e lamina di metallo dorato applicata all’aureola in stucco di Cristo, sono indicativi della rilevanza dell’impresa, voluta da un finanziatore ricco e colto, che poteva permettersi una committenza di cosí alto livello. appunto le Storie di Santa Margherita, si collega al nome di Margherita di Savoia, che nel 1458 sposò il marchese Giovanni VII del Monferrato. Un episodio a parte, sia dal punto di vista iconografico che stilistico, è costituito dalla decorazione con i Padri della Chiesa nelle vele della volta. Curiose sono le piccole figure di eremiti inserite nel paesaggio, dove sono ambientati i Padri della Chiesa. Tra loro c’è chi prega, chi medita, chi legge, chi intreccia vimini, chi taglia un arbusto, chi cammina reggendo una bisaccia. Nel panorama pittorico del Quattrocento alcune delle attività illustrate compaiono identiche soltanto nella Cappella Caracciolo della chiesa di S. Giovanni a Carbonara, nel centro storico di

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Napoli, realizzate da Leonardo da Besozzo e da Perinetto da Benevento. Dal momento che ambedue le chiese appartengono all’ordine dei Canonici Lateranensi, le analogie tra i due cicli assumono un significato preciso. La rievocazione della vita dei primi monaci-eremiti va infatti messa in relazione alla riforma dell’Ordine, avviata agli inizi del XIV secolo dai frati dell’abbazia di S. Maria di Fregionaia, vicino a Lucca. Incentrata sul ritorno alla Regola di sant’Agostino, è nota anche come Regola Patrum, in quanto attribuita ai Padri della Chiesa.

Gusto cortese Ma c’è dell’altro. Sopra l’altare, al centro, un artista dalla consumata capacità narrativa e compositiva

ha affrescato il trittico dedicato alla Madonna col Bambino e Angeli musicanti tra i Santi Pietro e Margherita, a sinistra, e i Santi Eusebio e Paolo a destra. Ai lati del trittico, in una scena dal gusto squisitamente cortese, sono inginocchiati il committente Guglielmo VII, marchese del Monferrato (1464-1483), alcuni suoi collaboratori, la moglie Giovanna Bernarda, sposata in terze nozze nel 1474, e le figlie Giovanna e Bianca, che il marchese aveva avuto da Maria di Foix e da Elisabetta Maria. Nel rappresentare l’immagine, preoccupato di accomunare in un’unica superficie personaggi umani e divini, il geniale artefice inventa il motivo delle due aperture voltate, spalancate su un bellissimo

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CALEIDO SCOPIO Una sinergia proficua Un gruppo di imprenditori e professionisti piemontesi ha recentemente dato vita a «RiCreareCrea», un’associazione finalizzata a sostenere il restauro delle 23 Cappelle del Sacro Monte, in stretta collaborazione e con l’Ente di Gestione dei Sacri Monti e l’Ente Santuario di Crea. L’iniziativa è stata definita «importante» da Renata Lodari, Presidente dell’Ente di Gestione Sacri Monti del Piemonte, «non solo per le risorse economiche che potrà garantire, ma anche per la modalità nuova di gestione che è stata concordata. Sarà infatti l’Associazione a impiegare i fondi raccolti, gestendo direttamente gli interventi di restauro e valorizzazione. Naturalmente in diretto rapporto con i tecnici del nostro Ente di Gestione, che concorderanno gli interventi con la Soprintendenza e saranno i garanti di tutti gli interventi. In questo modo sarà possibile velocizzare l’impiego dei capitali via via raccolti dall’Associazione, garantendo comunque la qualità e la coerenza dei lavori previsti». Alla neonata associazione sono state segnalate innanzitutto le necessità di manutenzione straordinaria urgente del tetto della cappella del Paradiso, già oggetto di un intervento importante di restauro dell’apparato decorativo interno, di restauro degli affreschi e delle sculture della Nascita di Maria (cappella 5) commissionata dal duca Vincenzo Gonzaga, e di restauro completo delle cappelle 7 e 8, dello Sposalizio della Vergine e dell’Annunciazione. Secondo il progetto originario, le Cappelle del Sacro Monte dovevano essere 18, di cui si cominciarono subito a costruire quelle della Presentazione della Vergine al tempio, della Nascita di Maria e del Martirio di sant’Eusebio, finanziate rispettivamente dal fondatore, da Vincenzo di Gonzaga duca di Mantova e del Monferrato e dalla città di Vercelli. Altre se ne sono aggiunte nei secoli sino a raggiungere l’attuale numero di 23. (red.)

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In alto Serralunga di Crea. La facciata della chiesa del santuario della Beata Vergine, che oggi si presenta in forme barocche. In basso la Cappella XXIII di Crea, con l’Incoronazione di Maria.

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A sinistra il campanile romanico oggi noto come Torre di S. Quirico, unica struttura superstite dell’omonima pieve. Inizi del XII sec. nel Settecento sulle rovine di un luogo di culto piú antico, situato all’esterno della cinta fortificata. Osservandone attentamente il fianco sinistro, si notano quattro rilievi in arenaria murati nella parete. Considerati un unicum nel Monferrato, sono stati realizzati da una bottega di lapicidi pavesi agli inizi del XII secolo. Passeggiando nel grazioso abitato si vedono ancora i resti delle strutture difensive e cattura l’attenzione il palazzo marchionale, che addossato alla porta orientale di accesso al borgo, sfrutta alcune architetture preesistenti del vecchio castello come sostruzioni.

Un campanile solitario

paesaggio, in modo che la scena reale si svolga in uno spazio effettivamente calcolato, anche per quanto riguarda le proporzioni delle figure, che l’osservatore coglie come grandi al vero. L’attribuzione di quest’opera costituisce uno fra i piú intricati enigmi nella pittura settentrionale del Rinascimento. Forse l’autore è il cosiddetto Maestro di Crea o forse un maestro vetraio, data l’affinità con le vetrate della Certosa di Pavia e l’impostazione della rappresentazione sulla base di un cartone preparatorio assai dettagliato. Pochi chilometri separano Serralunga da Mombello, sin dal tardo XI secolo menzionato come locus «demaniale», cioè sottoposto direttamente al marchese del Monferrato. Ad accoglierci è la chiesa di S. Sebastiano, ricostruita

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Curva dopo curva scendiamo in valle e prendiamo la Statale n. 590, denominata «della Valcerrina», in direzione di Cavagnolo. Lungo il percorso, in prossimità del torrente Stura, incontriamo un solitario campanile romanico. Detto «Torre di S. Quirico» e datato alla fine del primo quarto del XII secolo, è quanto rimane della pieve di S. Quirico, compresa nel piviere di Castrum Turrise, censita nel 129899 col solo titolo e dal 1348 con la specificazione «de Valle sturia». Un tempo qui c’era il villaggio di Odalengo distrutto o della valle (Odolengum destructum o de rocatum, Odolengum de Valle). Un antico cimitero rosicchiato dalle alluvioni della Stura e alcuni ritrovamenti di armi e monete attestano la presenza del nucleo demico, presunto successore di un pagus romano. Giunti a Cavagnolo, una stradicciola sulla sinistra conduce all’abbazia di S. Fede, dal 1912 monumento nazionale. Immersa nel verde, la chiesa, per l’affascinante cromia ottenuta accostando conci di

arenaria ben squadrati nella parte bassa a mattoni nella parte superiore, la varietà delle soluzioni decorative impiegate in capitelli, lesene, strombi e portali, e l’insolita articolazione della cornice ad archetti, è ritenuta uno degli edifici romanici piú affascinanti del Piemonte. Probabilmente costruita nel primo decennio del XII secolo, apparteneva in origine a un priorato benedettino dipendente da SainteFoy-de-Conques. Nella facciata si leggono varie iscrizioni. Una, in caratteri capitali del XII secolo, incisa prima del completamento dello straordinario portale riccamente scolpito, ricorda la morte del sacerdote Rolandus, che dovrebbe aver avuto un ruolo importante nell’erezione dell’edificio. Tra il 1577 e il 1584 il priorato fu abbandonato e gestito in commenda. Un esuberante arredo scultoreo dalla forte connotazione archeologizzante, forse dovuta all’esistenza di un sostrato di classicismo longobardo con centro ad Asti, impreziosisce i pilastri quadrati e le semicolonne, che suddividono l’interno (21 x 10 m) in tre navate. A una decina di chilometri da Cavagnolo si erge maestoso il castello di Gabiano, uno dei manieri piú belli del Monferrato. Concesso nel XIII secolo al potente consortile dei de Gabiano, passò nel 1531 DOVE E QUANDO

Santuario della Madonna di Crea Serralunga di Crea (Alessandria), piazzale Santuario Info tel. 0142 940109; www.parcocrea.com; www.sacri-monti.com; www.sacrimonti.net Chiesa di S. Maria di Pulcherada San Mauro Torinese (Torino) Info tel. 366 2059905 o 340 8238200; e-mail: lapulchrarada@gmail.com

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CALEIDO SCOPIO all’illustre famiglia dei Montiglio. Nel Medioevo il fortilizio, protetto da cortine murarie dotate di torri, era il fulcro di un piú articolato complesso difensivo, definito villa vel receptum forte negli statuti comunali del 1422. Le sovrapposizioni neogotiche, realizzate negli anni 1908-1935, rendono oggi difficile valutare la consistenza del nucleo fortificato e il suo rapporto con le difese del borgo.

Il complesso benedettino di S. Maria di Pulcherada (= «bella rada» o «spianata») a San Mauro Torinese, è la nostra ultima tappa. Nel 991 l’abbazia, segnalata tra i beni donati da Anselmo, uno dei marchesi «aleramici», nell’atto di fondazione del monastero di S. Quintino di Spigno, versava in grave crisi. Custode delle spoglie di san Mauro, discepolo di san Benedetto,

impegnato in Gallia nella diffusione della Regola, doveva riprendere la sua assistenza a fedeli e pellegrini. «Uomini malvagi», forse truppe dei marchesi «arduinici» di Torino, nella cui marca era compresa Pulcherada, in competizione con gli Aleramici per il controllo delle arterie stradali ai piedi delle colline e fluviali lungo la Stura di Lanzo e il Po, l’avevano distrutta. Le cospicue

Lo scaffale Elisa Tosi Brandi L’arte del sarto nel Medioevo Quando la moda diventa un mestiere

Il Mulino, Bologna, 224 pp.

20,00 euro ISBN 978-88-15-25324-8 www.mulino.it

Frutto del coordinamento di molteplici attività (dalla consulenza ai clienti sulla scelta e la misura dei tessuti, alla creazione di nuovi modelli e canoni stilistici, alla gestione della bottega, dei lavoranti, nonché dei rapporti con i mercanti) e fortemente stimolato da motivazioni economiche, sociali e simboliche, il mestiere del sarto non può essere compreso senza un’analisi a tutto tondo del contesto socio-economico in cui si collocava. Un contesto particolarmente ricco di stimoli fra il XIII e il XV secolo, quando la crescita delle economie

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cittadine determinò, a sua volta, i nuovi cliché simbolici e comportamentali che diedero origine al concetto stesso di «moda», al centro del quale era la figura del sarto. Le sue competenze si svilupparono appunto in quell’epoca, per rispondere alla domanda di abiti dotati di inediti elementi formali, che, attraverso nuovi codici comunicativi rendessero socialmente riconoscibili coloro ai quali erano destinati. Dalle continue, fitte relazioni tra committenti e artigiani nascevano anche tutti gli accessori che avrebbero determinato lo stile e la «tendenza» di un determinato ambiente geografico e sociale. La «preistoria del consumismo» era insomma già pienamente affermata in quest’epoca, e i tentativi dei governi

cittadini di arginarne gli effetti con le «leggi suntuarie», non fecero che stimolare nei suoi protagonisti nuove invenzioni stilistiche, volte ad aggirare i divieti. Il sarto, ritenuto dalle leggi

suntuarie il principale responsabile del lusso delle vesti e della trasgressione alle norme, costituiva l’intermediario tra domanda e offerta, ovvero tra le richieste dei clienti e la capacità produttiva degli artigiani, oltre che l’interprete di quegli artifici in grado di aumentare il valore

degli abiti mediante l’utilizzazione di materiali preziosi, nonché colui che proponeva o definiva le novità. In questa attività, in cui si contavano ben pochi maestri autonomi, mentre la maggior parte della manodopera era destinata a rimanere subordinata, dilagava il lavoro nero esterno alla corporazione, e in modo particolare quello femminile, per vocazione destinato a rimanere nascosto per molteplici ragioni (da quelle fiscali alla maggiore autonomia lavorativa, all’interesse dei datori di lavoro stessi, che sfuggivano cosí alle norme sulle restrizioni produttive). E tra gli artefici del maggior numero di capi proibiti dalle leggi suntuarie c’erano appunto le donne. Sulla base di un ricco ventaglio di fonti (corporative, legislative, contabili, fiscali, epistolari,

archeologiche, libri di ricordi, elenchi di vesti proibite) Elisa Tosi Brandi esamina dunque questo mondo in tutte le sue interconnessioni: il sarto e la moda, e quindi le novità sartoriali, nonché i suoi rapporti col lusso, con i produttori, con i clienti (cap. I); il sarto e la corporazione (apprendistato, gerarchie professionali, organizzazione del lavoro, attività informale delle sarte; cap. II); sarti al lavoro (spazi e strumenti, attività a domicilio, tempi di lavoro e strategie finanziarie, tariffari, retribuzioni, situazione economica e prestigio sociale; cap. III); vesti e pratiche di lavoro (sarto come artefice e creatore di nuovi capi, progettazione stilistica, disegni, figurini, modelli, tecniche; cap.IV). Maria Paola Zanoboni agosto

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rendite dell’insediamento religioso, al centro di una curtis, sviluppatasi sulla strada che in età romana collegava Augusta Taurinorum (Torino) con Industria (presso Monteu da Po), l’importante città romana decaduta nel IV secolo d.C. e precocemente abbandonata, dovette attrarre l’attenzione dei laici, prima usurpatori, poi protettori interessati. Alcuni scavi hanno consentito di

Massimiliano Vitiello Teodato La caduta del regno ostrogoto d’Italia 21 Editore, Palermo, 350 pp.

23,00 euro ISBN 978-88-99470-27-2 www.21editore.it

Convinto del legame indissolubile tra filosofia e politica, Platone asseriva che il buon governo sarebbe stato tale se a reggerlo fosse stato

il filosofo. E proprio un «re filosofo» – in tempi insospettabili all’epoca del grande pensatore greco – toccò agli Ostrogoti, ma non si rivelò un successo, anzi. Teodato, inizialmente reggente insieme

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trovare i resti dell’abside di un primo edificio di culto, collocabile nel V-VII secolo, con annesso un cimitero in cui erano stati sepolti una decina di membri di una comunità monastica maschile, e una cripta, che, posta sotto al presbiterio, doveva custodire le spoglie di san Mauro, rimosse fra Quattro e Cinquecento. Con ogni probabilità i lavori di ricostruzione furono eseguiti

ad Amalasunta, non era certamente adatto al trono, eppure fu educato proprio alla filosofia platonica. Questa, in brevissima sintesi, la figura presentata da Massimiliano Vitiello. Le difficoltà strategiche del figlio di Amalafrida, sorella di Teodorico, apparvero presto palesi: eliminando Amalasunta, tentò di prendere il potere per sé. Una scelta pessima, frutto dell’inesperienza di chi, evidentemente, non era stato designato per prendere le redini del regno. Il risultato fu un conflitto con Giustiniano, che, essendogli stato offerto il pretesto per riconquistare l’Italia, scese in campo. La sconfitta fu inevitabile, cosí come la successione a Teodato di un re guerriero, Vitige, piú adatto a un periodo in cui i rapporti di forza piú che la filosofia e gli eserciti piú che i libri giocavano un ruolo

chiave. Vitiello propone uno studio sulla figura di un sovrano che non vide Historie a lui dedicate, ma le cui azioni sono ricostruibili grazie ad altre fonti. Il lavoro si articola perciò fra le descrizioni di Procopio di Cesarea e Cassiodoro su tutti, unendo un filone storico a uno epistolare, e trovando un legame e una compensazione reciproca. La difficoltà affrontata nel tracciare una biografia di un personaggio con una scarsa pluralità di fonti, ha imposto poi all’autore un duplice approccio biografico. In questo modo, nei primi capitoli del volume, il lettore può ricostruire la vita dell’«uomo» Teodato, prima del trono. Nei capitoli seguenti invece, Teodato è sovrano e la ricostruzione non può prescindere dagli eventi storici, permettendo cosí una valutazione del personaggio alla luce degli accadimenti

nell’ultimo decennio del X secolo. I restauri e le trasformazioni subite in età barocca hanno occultato con stucchi e rivestimenti il corpo longitudinale della fabbrica, mentre le parti piú antiche sono ancora visibili all’esterno della zona absidale, senza dubbio l’elemento architettonico piú interessante della struttura religiosa. Chiara Parente

del regno ostrogoto d’Italia. Tommaso Mammini Jacques Heers La città nel Medioevo

prefazione di Marco Tangheroni, Jaca Book, Milano, 560 pp.

33,00 euro ISBN 978-88-16-41459-4 www.jacabook.it

L’editore Jaca Book propone una nuova edizione de La città nel Medioevo di Jacques Heers, storico francese, da sempre dedito allo studio della storia della società nelle sue varie caratterizzazioni. Accompagnato dalla prefazione di Marco Tangheroni, il testo affronta la storia del paesaggio urbano e del suo sviluppo in epoca medievale. Senza tralasciare l’importanza del dato economico, certamente protagonista del processo di urbanizzazione, Heers si concentra sui vari e molteplici aspetti che hanno contribuito

alla nascita di queste realtà sociali. Politica, società e territorio: questi i tre grandi elementi che caratterizzano un’analisi ampia ed esaustiva. All’interno del volume non mancano riferimenti agli individui, i veri protagonisti del tessuto urbano, in un arco temporale che, dalla decadenza di Roma, porta il lettore fino alla nascita dei principati. Pubblicato per la prima volta in Italia nel 1995, il testo si rivela ancora oggi di fondamentale importanza per chiunque voglia confrontarsi con il tema urbano. T. M.

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Al di là e al di qua delle Alpi MUSICA • Un gruppo

di recente formazione, l’Ensemble Sollazzo, ci accompagna alla scoperta della ricca e variegata produzione italiana e francese del XIV secolo 112

A

ccogliamo sempre con grande interesse registrazioni dedicate al repertorio musicale del Trecento europeo, un periodo in cui la vena creativa dei compositori – segnata dalla grande varietà dei generi e degli stili – caratterizza quella che i teorici dell’epoca definirono Ars Nova; un mutamento innanzitutto di stile, che vede lo sviluppo dell’elaborazione polifonica e

il vivace andamento delle linee vocali raggiungere livelli di grande complessità e modernità.

Tono moraleggiante Nell’antologia Parle qui veut, il repertorio italiano e quello francese fanno la parte del leone, con ascolti che, piuttosto che soffermarsi sul tema dell’amore – centrale in tanta produzione lirica e musicale del periodo –, si concentrano sul tono moraleggiante dei brani selezionati e che vedono, accanto a composizioni anonime, partiture scritte da alcuni degli artisti piú interessanti del Trecento italiano e transalpino. Tra i compositori piú rappresentativi emergono le figure di Niccolò da Perugia, i fiorentini agosto

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Parle qui veut. Moralizing Songs of the Middle Ages Linn Records, CKD 529, 1 CD Interpreti: Sollazzo Ensemble, direttore: Anna Danilevskaia www.linnrecords.com movimentato della voce superiore è uno degli stilemi piú ricorrenti in questi brani e che ritroviamo anche nel secondo ascolto, Agnel son biancho di Giovanni da Firenze, nonché in Dal traditor non si può l’uom guardare di Andrea da Firenze, che ci introduce al genere della «caccia», con la sua tipica struttura imitativa a canone.

Approccio avanguardistico

Andrea, Giovanni e Paolo nonché Antonio Zacharia da Teramo, mentre fra i rappresentanti d’Oltralpe abbiamo il fiammingo Johannes Ciconia e il francese Solage. Grandissima è la varietà stilistica della raccolta, con brani in cui il comune denominatore della tematica moralizzante si sviluppa in soluzioni musicali sempre diverse. Ad aprire la rassegna è Niccolò da Perugia, con Il megli’è pur tacere, nella forma della ballata, genere principe del XIV secolo, in questa occasione realizzata in una forma «minima», caratterizzata da versi brevissimi con un andamento della voce superiore vivacissimo e di grande virtuosismo. D’altronde, il trattamento piuttosto

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Appartiene alla «caccia» anche un altro superbo esempio, Cacciando per gustar, di Antonio Zacharia da Teramo, eccelso rappresentante, insieme a Johannes Ciconia, dell’ars subtilior, ossia di quell’approccio compositivo avanguardistico che alcuni compositori arsnovistici intrapresero alla fine del XIV secolo, raggiungendo un elaboratissimo livello di complessità ritmica e notazionale. Tra gli altri titoli, ricordiamo un magnifico brano di Francesco Landini da Firenze, tra i compositori piú noti del suo tempo, del quale possiamo ascoltare Musicha son che mi dolgo piangendo, un rimpianto nei confronti della gloriosa tradizione musicale, ormai decaduta (il brano fu scritto sul finire della corrente arsnovistica trecentesca), come anche quello del celebre quanto misterioso compositore francese Solage, di cui si propone Le basile, un brano

contro la calunnia, qui comparata al veleno del basilisco. Di recentissima formazione, l’Ensemble Sollazzo nasce nel 2014 a Basilea, patria della celebre Schola Cantorum Basiliensis, presso la quale si sono formati i cinque componenti del gruppo: Anna Danilevskaia (viella e direzione), Yukie Sato e Perrine Devillers (soprani), Vivien Simon (tenore), Sophia Danilevskaia (viella) e Vincent Kibildis (arpa). Già da questa prima registrazione, il gruppo rivela una grandissima maestria nel destreggiarsi attraverso le complessità del repertorio arsnovistico che interpreta con notevole precisione ritmica, fraseggio e perfetta fusione delle voci. Contrariamente all’abuso che a volte si fa di accompagnamenti strumentali particolarmente abbondanti, atti a dare quel tocco «esotico» all’interpretazione, in questa produzione l’accompagnamento si limita esclusivamente alla viella e all’arpa: una scelta apprezzabile per la sua fedeltà alla prassi storica e un modo ottimale per arrivare al succo del discorso musicale. Franco Bruni

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