Medioevo n. 257, Giugno 2018

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IL PA FA LIO E DE NZ LN A IB AL LO

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

www.medioevo.it

Il tesoro di Aroldo Dente Azzurro

PERUGIA CITTÀ FRA CIELO E TERRA

20 GIUGNO 451

La battaglia dei Campi Catalaunici

PISA

DOSSIER

La spada, il miglior amico del cavaliere

€ 5,90

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Il Trionfo della Morte restaurato

IN EDICOLA IL 2 GIUGNO 2018

DENTE AZZURRO CAMPI CATALAUNICI IL TRIONFO DELLA MORTE NIBALLO DI FAENZA PERUGIA DOSSIER LA SPADA

SCOPERTE

Mens. Anno 22 numero 257 Giugno 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 257 GIUGNO 2018

EDIO VO M E



SOMMARIO

Giugno 2018 ANTEPRIMA

62

IL PROVERBIO DEL MESE Mettere i puntini sulle i

Per amor di precisione

RESTAURI La seconda vita di un castello e del suo borgo Un maestro agli esordi APPUNTAMENTI Medioevo Oggi Storie di frontiera Una gran festa, portata dal... mare in burrasca Omaggio al capitano L’Agenda del Mese

5

54

6 16 10 12 18 19 22

STORIE SCOPERTE Germania Ecco il tesoro del re! di Federico Canaccini

28

LUOGHI

BATTAGLIE

Campi Catalaunici 28

Gli ultimi fuochi

di Federico Canaccini

GUERRA D’ASSEDIO/4 La fine di un’era di Flavio Russo

40

74

COSTUME E SOCIETÀ RESTAURI Pisa Quando la Morte si fa bella di Stefano Mammini

TRADIZIONI Faenza Tutti contro Annibale di Michele Orlando

40

52

62

UMBRIA Perugia, una città fra cielo e terra

di Umberto Maiorca, con contributi di Tommaso di Carpegna Falconieri 102 e Caterina Fioravanti

CALEIDOSCOPIO LIBRI Tessere romane

110

MUSICA Da una corte all’altra

112

Dossier

La spada IL MIGLIOR AMICO DEL CAVALIERE 81 di Domenico Sebastiani


IL

PA FA LIO E DE NZ LN A IB AL LO

MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE

www.medioevo.it

Il tesoro di Aroldo Dente Azzurro

PERUGIA CITTÀ FRA CIELO E TERRA

20 GIUGNO 451

La battaglia dei Campi Catalaunici

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Il Trionfo della Morte restaurato La spada, il miglior amico del cavaliere

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IN EDICOLA IL 2 GIUGNO 2018

DENTE AZZURRO CAMPI CATALAUNICI IL TRIONFO DELLA MORTE NIBALLO DI FAENZA PERUGIA DOSSIER LA SPADA

SCOPERTE

Mens. Anno 22 numero 257 Giugno 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 257 GIUGNO 2018

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Tommaso di Carpegna Falconieri è presidente della Scuola di Lettere, Arti, Filosofia dell’Università degli studi di Urbino. Riccardo Facchini è dottore di ricerca in storia della civiltà europea presso l’Università Europea di Roma. Caterina Fioravanti è dottoranda di ricerca in storia dell’arte presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Umberto Maiorca è giornalista e autore di saggi storici. Michele Orlando è professore di letteratura italiana presso l’Istituto Oriani di Faenza. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Daniela Querci è dottore di ricerca in petrografia applicata ai beni culturali e organizzatrice del Festival del Medioevo. Stefania Romani è giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Domenico Sebastiani è cultore di tradizioni e leggende medievali. Tiziano Zaccaria è giornalista.

25/05/18 16:28

MEDIOEVO

Illustrazioni e immagini: Cortesia Comune di Perugia-Assessorato alla Cultura: copertina (e pp. 102/103) e pp. 104 (alto), 106-109 – DeA Picture Library: pp. 4, 94/95; Galleria Garisenda: p. 78 (alto); N. Grifoni: p. 82 (sinistra); M. Holford: p. 83 – Cortesia Fondazione Castello di Padernello (Brescia): pp. 6-8 – Cortesia degli autori: pp. 10-11, 18-19, 63, 67 (centro), 70 (basso), 74-75, 79 (alto e centro), 112113 – Doc. red.: pp. 12-13, 30 (alto), 32/33 (alto), 34, 35 (alto), 38, 47 (alto), 70 (alto), 72 (alto), 86 (basso), 91 (basso), 105 (destra) – Cortesia Ufficio Stampa: p. 16 – ANSA-DPA: pp. 28/29, 29, 30 (e particolare a p. 31) – Mondadori Portfolio: p. 92; Leemage: pp. 31, 43 (alto), 64 (alto, a sinistra), 84; AKG Images: pp. 37, 39, 40/41, 44/45, 46, 48-49, 76, 86 (alto), 88 (alto), 94; Album: pp. 82 (destra), 87, 90, 93, 98/99; Archivio Magliani/Mauro Magliani & Barbara Piovan: p. 85 (alto); AGE: p. 89 – Bridgeman Images: pp. 32, 32/33 (alto), 42/43, 88 (basso), 91 (alto) – Shutterstock: pp. 35 (basso), 36, 64/65, 68 (destra), 70/71, 103, 105 (sinistra) – Stefano Mammini: pp. 52, 56 (basso), 57, 58 (alto), 60 (basso), 60/61 (alto e basso) – Cortesia Opera della Primaziale Pisana, Pisa: pp. 52/53, 54-55, 58 (basso), 59, 60 (alto) – Francesco Bondi: pp. 62, 66, 67 (alto, sinistra e destra, e basso, sinistra e destra) – Franco Poletti: pp. 64 (alto, a destra), 72 (basso), 72/73 – Archivi Alinari, Firenze: p. 65 – Marka: Funkystock: p. 68 (sinistra) – Alamy Stock Photo: pp. 69, 75 – Flavio Russo: pp. 78/79 (basso) – Da: L’épée. Usages, mythes et symboles (catalogo della mostra), Parigi 2011: pp. 81, 85 (basso), 96-97, 99, 100-101 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 28, 42, 45, 47, 104.

Anno XXII, n. 257 - giugno 2018 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano In copertina Perugia, Palazzo dei Priori, Cappella dei Priori. Particolare del ciclo con Storie di San Ludovico e Sant’Ercolano, dipinto da Benedetto Bonfigli. 1455-1479.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Nel prossimo numero 28 luglio 1488

saper vedere

La vittoria di Saint-Aubin

Sant’Angelo in Formis

protagonisti

dossier

Francesco Petrarca in Terra Santa

La concezione del tempo nell’età di Mezzo


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Per amor di precisione

M

ettere i puntini sulle i è un’espressione ancora molto in uso. Significa essere scrupolosi, puntualizzare in modo preciso, se non addirittura pignolo. La sua origine è legata alla storia della scrittura e in particolare di quella medievale. Rispetto all’età romana, nel Medioevo furono introdotti molti segni diacritici precedentemente sconosciuti. Essi servivano ad agevolare la lettura e fornivano indicazioni sulle pause da tenere, su eventuali domande o esclamazioni. Oltre ai segni di interpunzione, la scrittura, soprattutto in epoca carolingia, assunse una maggiore chiarezza e leggibilità, se si pensa che, in epoca romana, la scriptio era continua, cioè senza spazi fra una parola e l’altra. Al tempo delle università, nei secoli d’oro dell’età comunale, i copisti medievali introdussero nuovi segni per agevolare gli studenti che affollavano gli studia, cimentandosi ora in teologia a Parigi, ora in diritto a Bologna o nei numerosi atenei fondati in tutta Europa. La littera textualis, nota anche come Gotica, fu il carattere per eccellenza dei libri di studio e presentava molti segni tra loro facilmente confondibili. Le «gambe» della m o della n, potevano infatti essere scambiate per altrettante lettere i e talvolta una parola poteva essere letta in modi diversi, dando esiti magari disastrosi o comunque mettendo in difficoltà il lettore nell’interpretazione di un passo. Non a caso proprio «per un punto Martino perse la cappa»… di abate! I copisti ebbero cosí l’idea di aggiungere piccoli segni sulle sole «gambe» corrispondenti ad altrettante -i. Per distinguere le -i dalle altre lettere, si iniziarono dunque ad aggiungere piccole linee diagonali, che solo con il tempo divennero punti veri e propri. Nel corso del XIII secolo la -i era sormontata dal trattino diacritico anche se isolata, e solo nel secolo seguente, in luogo della lineetta, comparvero i proverbiali puntini. Quando poi la littera textualis fu soppiantata dapprima dalla grafia Umanistica e poi dalla cosiddetta Antiqua – che si caratterizzavano entrambe per armonia, leggibilità e perspicuità – i puntini sarebbero risultati perfettamente inutili, se non che erano ormai d’uso comune. Ma «mettere i puntini sulle i», a questo punto della storia, iniziò probabilmente a significare essere punti…gliosi! Pagina miniata di un’edizione de Il quadriregio, poema epico-didascalico di Federico Frezzi. XV sec. Bologna, Biblioteca Universitaria. Si può in questo caso notare l’uso del puntino sopra la lettera i.


ANTE PRIMA Borgo San Giacomo (Brescia). Una veduta aerea del castello di Padernello. XIV sec.

La seconda vita di un castello e del suo borgo 6

giugno

MEDIOEVO


RESTAURI • Il recupero

del castello di Padernello, nel Bresciano, ha posto le premesse per la rinascita del sito, che si sta affermando come un polo di grande vivacità, con una ricca e variegata proposta culturale, ricreativa e gastronomica

N

ella Bassa Bresciana, a Borgo San Giacomo, il castello di Padernello, fondato alla fine del Trecento, è stato oggetto dal 2006 di una campagna di restauro che ne ha permesso la riapertura: accompagnati dalle guide, si possono visitare il mastio originale, le sale del primo Quattrocento e il resto della struttura, all’interno della quale è ben leggibile l’impianto primitivo. Alla fine dello scorso anno, la fortezza, che fa da cornice a laboratori, mostre, appuntamenti di Slow Food, è stata presentata alla Camera dei Deputati come esempio virtuoso di «generatività sociale», perché le iniziative che fanno capo alla Fondazione Castello di Padernello stanno incidendo sul territorio e sulla comunità.

Dal vescovo alla Serenissima Sorto attorno alla torre di avvistamento del 1391, il maniero è circondato da un fossato che si attraversa grazie al ponte levatoio, rimasto inalterato come l’intera parte settentrionale, dove gli ambienti hanno l’originaria copertura a crociera. Risalgono al primo nucleo, piú contenuto e a un solo piano, anche le logge interne e quelle del cortile, con le colonne tozze, spesso sormontate dall’aquila, stemma del casato Martinengo. I fondatori, conti bresciani fedeli

MEDIOEVO

giugno

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ANTE PRIMA e mercatini della terra, che hanno come comune denominatore il legame con il territorio. Crediamo infatti sia importante riutilizzare l’antica struttura, facendola rivivere, e per questo organizziamo manifestazioni per 220 giorni all’anno». I visitatori possono scegliere fra attività didattiche, quali lo studio dell’araldica e la realizzazione di stemmi sbalzati su foglio di rame, il riciclo creativo di oggetti d’uso quotidiano e Sulle orme degli amanuensi, per cimentarsi nell’alfabeto del passato con pergamene e stilo. Sono in calendario anche I colori e i personaggi del Pitocchetto e l’iter che va dal campo alla tavola: partendo al vescovo, sono poi diventati condottieri al servizio della Serenissima e hanno lasciato un’eredità importante sia a Brescia che in provincia. Abitato dalla stessa famiglia per secoli, il forte viene trasformato, nel corso del Settecento, in una villa signorile, che la leggenda vuole attirasse su di sé i fulmini di tutta la zona. Dopo decenni di incuria, nel 2005, il complesso – abbandonato negli anni Sessanta, nonostante l’inserimento, agli inizi del Novecento, fra gli edifici di interesse nazionale, a opera del Ministero della Pubblica Istruzione – viene acquistato dal Comune di Borgo San Giacomo, per un milione e mezzo di euro, grazie a un’operazione pubblico-privata.

Recupero e promozione Nell’anno successivo parte una fitta serie di interventi, promossa dalla Fondazione, che ha lo scopo di «gestire recuperare e promuovere il castello e il borgo», come racconta il presidente Domenico Pedroni. I lavori, costati complessivamente 3,5 milioni di euro, sono stati serrati: il primo restauro ha toccato l’area settentrionale, attorno al ponte levatoio, dove erano crollati il tetto del salone da ballo e della cucina

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In alto castello di Padernello (Brescia). Una delle sale cinquecentesche restaurate. A destra la conoscenza, attraverso la vendita, dei prodotti tipici del territorio bresciano è fra le attività organizzate a Padernello. storica; poi è stata la volta delle sale cinquecentesche, affrescate nel XIX secolo, danneggiate dall’umidità, mentre fra il 2008 e il 2009 sono stati rifatti il pavimento del cortile, con materiale di recupero, e le facciate interne che si aprono proprio sul cortile. Operazioni successive hanno riguardato il soffitto ligneo con formelle della Sala rossa, fra le piú maestose, la cappella di famiglia e il primo piano del lato sud-occidentale, che sarà adibito a biblioteca di filosofia. Pedroni sottolinea come «dopo ogni tranche, nei locali recuperati siano state avviate attività diverse, quali serate di teatro, mostre

dalla conoscenza di farro e cereali coltivati nella pianura bresciana, il laboratorio comprende la visita a un mulino ad acqua, che funziona come nel Quattrocento, per concludersi con l’impasto e la cottura del pane. «Per il 2018», spiega Pedroni, «l’obiettivo è spingersi verso il borgo di 76 abitanti, per ricreare un centro di artigiani, che riprendano la tradizione guardando anche al nuovo, in botteghe e scuole, dove possano essere sviluppate anche attività di formazione». Per il calendario delle iniziative: www.castellodipadernello.it Stefania Romani giugno

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

EDIOEVO MOGGI

T T

orna a Benevento l’ormai tradizionale appuntamento con i Longobardi. La rievocazione storica della Contesa di Sant’Eliano, giunta alla settima edizione, è in programma dal 2 al 10 giugno e, come lo scorso anno, si svolge nella suggestiva area archeologica dei Santi Quaranta, sita appena al di fuori dalla cinta muraria tardo-antica e longobarda, ma parte integrante della città romana. Oltre una settimana di incontri, conferenze e appuntamenti permette di rivivere uno dei piú gloriosi capitoli della storia cittadina, quella longobarda appunto. Organizzato dall’Associazione Culturale Benevento Longobarda tramite crowdfunding e sponsor, e senza finanziamenti pubblici, l’evento trae spunto da un fatto storico: nel 763, su ordine del duca di Benevento Arechi II, il gastaldo Gualtari si recò a Costantinopoli per ricevere dalle mani dell’imperatore dei Romani le reliquie di sant’Eliano, uno dei Santi Quaranta Martiri di Sebaste. Una volta traslate a Benevento, le reliquie furono contese dalle fare cittadine, ognuna delle quali voleva godere del privilegio esclusivo della loro custodia, che le avrebbe garantito prosperità e benessere.

In gara per custodire le reliquie La Contesa di Sant’Eliano ruota quindi attorno alla sfida tra le quattro fare in prove di destrezza, forza, abilità e coraggio (le fare, presso i Longobardi, erano i corpi di spedizione in cui si divideva il popolo in armi durante le migrazioni, n.d.r.): chi vince avrà il diritto di custodire le reliquie per un anno. Oltre alle gare, sono in programma vari eventi rievocativi e di approfondimento finalizzati alla riscoperta e valorizzazione della civiltà materiale dei Longobardi beneventani, che governarono la città e gran parte del Mezzogiorno a partire dal 570 (data in cui la storiografia assegna loro la fondazione del ducato da parte di Zottone) fino al 1077, quando il territorio venne conquistato dai Normanni. La dominazione longobarda ha lasciato ampie tracce, oltre che nelle usanze e nei costumi, anche nel patrimonio artistico e monumentale di Benevento: la testimonianza piú importante è la chiesa di S. Sofia, eretta da Arechi II negli anni 760-762 (vedi «Medioevo» n. 233, giugno 2016) e iscritta dal 2011 nella lista del Patrimonio UNESCO come parte del sito seriale «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)». Particolare rilevanza assume il convegno «Il Ducato

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longobardo di Benevento: aspetti amministrativi e politico-militari», che si svolge nelle mattinate di lunedí 4 e martedí 5 giugno (ore 9,00-13,00), presso la chiesa del Ss. Salvatore e che vede l’intervento di vari studiosi e specialisti della materia. Per il programma aggiornato e completo, che prevede anche visite guidate, spettacoli, concerti, cortei storici e altri incontri di approfondimento, è possibile consultare il sito www.beneventolongobarda.it Rispetto agli anni passati, l’edizione 2018 della Contesa presenta però un’ulteriore novità. Sarà infatti seguita, il 22, 23 e 24 giugno, da un altro interessante evento, curato anch’esso dall’Associazione Benevento Longobarda: si tratta di «Baduario e i Longobardi», la rievocazione storica della battaglia campale combattuta nel 576 tra i Bizantini e gli stessi Longobardi, alle origini della fondazione del Ducato. La manifestazione si terrà a Camposauro (Benevento), presso Piano Melaino, e prende anch’essa spunto da un evento storico accertato. Nel 576, sotto le pressanti richieste dei Romani, l’imperatore bizantino Giustino II inviò infatti in Italia suo genero Baduario, a capo di un esercito, per arrestare la conquista longobarda della Penisola, iniziata nel 568 quando Alboino varcò le Alpi Giulie. Già impegnati in lunghe guerre in Oriente contro i Persiani, i Bizantini – che già avevano lasciato buona parte dell’Italia sguarnita dopo la fine della guerra greco-gotica – non poterono inviare un grosso esercito, e per questo motivo la missione di Baduario appave da subito un’impresa impossibile. Le truppe bizantine entrarono in Italia molto probabilmente dalle Puglie, e presumibilmente risalirono la Penisola lungo quel che restava delle vecchie strade giugno

MEDIOEVO


Sulle due pagine immagini delle ricostruzioni realizzate in occasione delle passate edizioni della Contesa di Sant’Eliano di Benevento, la cui settima edizione è in programma dal 2 al 10 giugno.

romane (da Brindisi a Benevento, per giungere fino a Roma, correva l’Appia), ma ben presto incontrarono gli eserciti longobardi: lo scontro, inevitabile, avvenne sugli Appennini, in una località imprecisata, e fu decisivo per le sorti future dell’Italia meridionale.

Un’estate nel segno della storia Piano Melaino, la località che ospita l’evento, si trova a 900 m circa sul livello del mare all’interno del Parco Regionale del Taburno/Camposauro, nella provincia di Benevento, e rappresenta uno scenario molto suggestivo. La rievocazione rientra in un progetto di valorizzazione del Parco molto piú ampio, intitolato «Il Risveglio della Dormiente», che viene portato avanti dal Settore Foreste della Regione Campania e all’Ente

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Parco del Taburno/Camposauro, e che si protrarrà per l’intera estate. A Piano Melaino verrà dunque allestito un duplice accampamento storico, costituito da tende, focolari e varie strutture all’interno dei quali i rievocatori di Benevento Longobarda, insieme ad altri gruppi storici – tra i quali Fortebraccio Veregrense, Numerous Kyntanon, Reenactment Society e Ordine del Lupo –, organizzeranno momenti di living history per narrare al pubblico gli usi e i costumi dei guerrieri longobardi e bizantini, unitamente a laboratori di combattimento medievale con spada e scudo, e campo di tiro con l’arco storico, finalizzati a far conoscere la quotidianità della civiltà militare dei due popoli contendenti. Momento fondamentale (e altamente spettacolare) della manifestazione sarà però la rievocazione della battaglia campale vera e propria, combattuta tra i Longobardi e i Bizantini di Baduario: la sconfitta dei secondi consentirà ai Longobardi di conquistare l’Italia meridionale e di imprimere una svolta decisiva alla storia e all’identità del Mezzogiorno. La battaglia si svolgerà nelle giornate di sabato 23 e domenica 24 giugno, mentre venerdí 22 sarà una giornata introduttiva all’intera manifestazione. Per accompagnare i visitatori dal Rifugio (zona parcheggio) al Piano Melaino saranno organizzate alcune «staffette storiche», costituite dagli stessi rievocatori, i quali leggeranno dei bandi o saranno protagonisti di momenti drammatizzati che serviranno a far introdurre agli spettatori il contesto storico entro cui avvenne la battaglia del 576. Info e programma:www.beneventolongobarda.it; e.mail: info@beneventolongobarda.it Elena Percivaldi

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ANTE PRIMA

Storie di frontiera

APPUNTAMENTI • Gradara e Urbino

ospitano la quinta edizione del convegno «Il Medioevo fra noi», grazie al quale si potrà spaziare dal mondo bizantino al... Far West

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giugno

MEDIOEVO


A

ll’entrata del paese, un cartello definisce orgogliosamente «Capitale del Medioevo» un borgo cinto di mura che guarda il Mare Adriatico, un’imponente rocca difesa dal ponte levatoio: siamo a Gradara in provincia di Pesaro e Urbino, dove tutto respira il Medioevo. Ma se Gradara è di sicura origine medievale, molto di quello che vediamo risale solo a cent’anni fa. Come la camera di Paolo e Francesca, nella quale, secondo la tradizione, si sarebbero consumati l’immenso amore e l’efferato delitto cantati da Dante Alighieri. Gli arredi, infatti, non sono medievali, bensí riproducono la scena della tragedia Francesca da Rimini di Gabriele D’Annunzio, interpretata dalla grande Eleonora Duse, di cui il proprietario della rocca era perdutamente innamorato.

Una passione senza tempo Gradara, dunque, non è soltanto il Medioevo, ma, molto di piú, è «il sogno» del Medioevo, il suo riverbero, il simbolo della passione per quell’età che continuiamo a sentire come intimamente nostra. Per questa ragione, la cittadina marchigiana è stata scelta come il luogo ideale per organizzare il convegno «Il Medioevo fra noi», in cui ci si confronta sul «medievalismo», cioè sulla ricezione

MEDIOEVO

giugno

Sulle due pagine Gradara (Pesaro e Urbino). Una veduta della rocca, con, in primo piano, la torre che si innalza accanto all’ingresso. Il possente edificio sorse nel XII sec. e fu in seguito ampliato dalla famiglia Malatesta, che ricevette in feudo il borgo marchigiano nel 1283, da Bonifacio VIII. In basso il Palazzo Ducale di Urbino, che, insieme alla Rocca di Gradara, ospita il convegno «Il Medioevo fra noi», in programma dal 7 al 9 giugno.

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ANTE PRIMA I tre giorni del convegno Medioevo fra Noi – V edizione Urbino e Gradara – 7-9 giugno 2018 Programma 7 giugno, 15,30 Urbino, Palazzo Ducale, Sala del Giardino d’Inverno Presiede Umberto Longo Indirizzi di saluto Peter Aufreiter (direttore della Galleria Nazionale e del Polo Museale delle Marche) Vilberto Stocchi (rettore dell’Università di Urbino) Massimo Miglio (presidente dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo) Maria Elisa Micheli (direttore del Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Urbino) Tommaso di Carpegna Falconieri (Università di Urbino), Percorsi di frontiera: introduzione all’incontro Maria Giuseppina Muzzarelli (Università di Bologna), Tra medicina e magia: quando è il genere a segnare il confine Alison L. Perchuk (California State University, Channel Islands), California medievale: cartoline dall’orlo del mondo Franco Cardini (Istituto Storico Italiano per il Medioevo), Per farla finita col Santo Graal 8 giugno, 9,30 Urbino, palazzo Albani, aula Clemente XI Presiede Francesca Roversi Monaco Marina Montesano (Università di Messina), L’oscuro medioevo delle streghe Paolo Cova (Università di Bologna), Le testimonianze artistiche medievali della Rocchetta Mattei: tra mito, riutilizzo e falsificazione Davide Iacono (Sapienza Università di Roma) e Riccardo Facchini (Università Europea, Roma) presentano il libro Medievalismi italiani (secoli XIX-XXI), Gangemi, Roma 2018 8 giugno, 16,00 Rocca di Gradara Presiede Tommaso di Carpegna Falconieri Indirizzo di saluto Isabella Di Cicco (direttore della Rocca demaniale di Gradara) Salvatore Ritrovato (Università di Urbino), Un «Milione» di viaggi. La strana fortuna di un libro che abolì le frontiere Daniela Rando (Università di Pavia), Marco Polo e il

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colonnello Henry Yule (1871). Una traduzione di successo sulla frontiera degli studi coloniali Geraldine Leardi (MIBACT, Galleria Borghese), Frontiere come metodo. Esperienze di ricerca sul bizantinismo 9 giugno, 10,00 Rocca di Gradara Presiede Maria Claudia Caldari Daniele Sacco (Università di Urbino), Archeologia cognitiva e archeologia sperimentale: mente e braccio della ricerca Martina Corona (Sapienza Università di Roma), Maleficent: il nuovo confine tra immaginario e mercato Federico Fioravanti (Festival del Medioevo, Gubbio) e Giuseppe Maria Bianchi (Associazione «Italia medievale») conversano sul tema Aspettando il Festival Francesca Roversi Monaco (Università di Bologna), Umberto Longo (Sapienza Università di Roma), Conclusioni giugno

MEDIOEVO


e la reinvenzione dell’età di Mezzo nel mondo di oggi. La formula funziona, perché mette in contatto gli studiosi affermati con i giovani ricercatori, con gli operatori nei vari settori culturali che hanno a che fare con il Medioevo e naturalmente con il pubblico, che negli anni ha mostrato di gradire molto l’iniziativa. La quinta edizione si tiene a Urbino e a Gradara, dal 7 al 9 giugno 2018. Il tema di quest’anno è particolarmente coinvolgente e

attuale, poiché riguarda i «Percorsi di frontiera», cioè i luoghi al limitare aperti allo scambio, le contaminazioni, l’indefinitezza.

Immaginari e prospettive Questa metafora descrive un tema declinabile in molti modi: per esempio gli immaginari dell’Oriente e dell’Occidente, del Meridione e del Settentrione, la prospettiva dell’altro, i confini tra le discipline, le periodizzazioni, il rapporto ambiguo tra analisi e narrazione,

quello tra ricostruzione scientifica e rievocazione… Tra gli ospiti attesi vi sono diversi giovani ricercatori, nomi illustri della medievistica come Maria Giuseppina Muzzarelli e Franco Cardini, nonché Federico Fioravanti, che presenterà alcune anticipazioni sul prossimo Festival del Medioevo (Gubbio, 26-30 settembre 2018) e la studiosa californiana Alison Perchuk, che parlerà del Medioevo all’estrema frontiera… del Far West. Tommaso di Carpegna Falconieri

Quando diciamo «medievalismo» I

l rapporto dell’uomo contemporaneo con il Medioevo è ambiguo. Da un lato, la robusta persistenza di stereotipi che affondano le loro radici nella temperie culturale dell’Illuminismo e del Positivismo condiziona ancora il giudizio di coloro che, piú o meno consapevolmente, utilizzano l’accezione «medievale» per definire qualsiasi fenomeno o evento riconducibile a un’epoca di oscurità e barbarie. Dall’altro, invece, sulla scia degli intellettuali romantici, non pochi vedono nell’età di Mezzo una sorta di idealizzato periodo aureo della civiltà occidentale. Questo continuo oscillare tra estremi cosí distanti ha prodotto negli ultimi due secoli numerosi frutti, spesso diversi tra loro. Tali approcci, che potremmo forse impropriamente definire «ideologizzati», hanno infatti ispirato, per esempio, le opere dei piú grandi storici e intellettuali che si sono cimentati con il Medioevo «ufficiale» – da Gibbon a Novalis, da Voltaire a Chateaubriand, fino alla storiografia nazionalista della prima metà del Novecento –, ma anche la nascita di una ingente quantità di produzioni artistiche di vario genere – pensiamo alla pittura, alla drammaturgia e, in tempi piú recenti, al cinema, alla televisione e ai videogiochi – che, al Medioevo delle fonti, hanno preferito quello percepito, sognato, immaginato e rappresentato.

Un fenomeno multiforme L’insieme dei due fenomeni, unitamente al bisogno, soprattutto nella cultura occidentale, di ricreare e rivivere continuamente il Medioevo attraverso palii, rievocazioni e fiere, forma ciò che in ambito accademico si definisce «medievalismo», termine con il quale si intendono la ricezione, l’utilizzo e la rappresentazione postmedievale del Medioevo. Un fenomeno che si declina in molteplici forme, apparentemente diverse tra loro, e che influenza

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giugno

ancora oggi in modo profondo le società occidentali, dall’arte alla politica, dalla cultura di massa alla religione. In Italia, lo studio del medievalismo – da alcuni anni fiorente in ambito anglosassone – stenta però a trovare una sua esatta collocazione, forse soprattutto a causa della mancanza di organicità dei (non pochi, a dire il vero) lavori sul tema, anche a opera di insigni studiosi. La natura necessariamente transdisciplinare di questo approccio ha sicuramente concorso alla formazione di alcuni pregiudizi, tra cui la percezione della disciplina come nebulosa e di difficile definizione, a metà tra giornalismo, Cultural Studies e semplice curiosità. Un vuoto che da alcuni anni sta cercando di colmare un gruppo, composto da studiosi affermati e giovani ricercatori, che si riunisce annualmente nella splendida cornice della rocca medievale e neomedievale di Gradara per discutere e confrontarsi su come il Medioevo continui a informare l’immaginario, e soprattutto l’agire, contemporaneo. Il convegno «Il Medioevo fra Noi», giunto alla sua quinta edizione, si svolge quest’anno dal 7 al 9 giugno, e vanta tra gli organizzatori il Polo Museale delle Marche, l’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, l’Università di Urbino, l’Alma Mater di Bologna e la «Sapienza» di Roma. Per l’occasione sarà presentato il primo volume italiano – Medievalismi Italiani (Secoli XIX-XXI), Gangemi Editore, 2018 – frutto del lavoro di diversi autori e dedicato allo studio dell’impatto avuto dall’idea di Medioevo su alcuni processi socio-culturali. Obiettivo dei curatori è quello di offrire al lettore, come sottolineato nella premessa, l’immagine di un Medioevo «polifonico, dinamico e aperto alle diverse sollecitazioni interpretative che giungono dalla contemporaneità». Riccardo Facchini

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ANTE PRIMA

Un maestro agli esordi RESTAURI • Il Museo dell’Opera del

Duomo di Firenze accoglie la Madonna di San Giorgio alla Costa, opera giovanile di Giotto, recuperata dopo le travagliate vicissitudini di cui è stata vittima

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a Madonna di San Giorgio alla Costa di Giotto, in tempera e oro su tavola, ha trovato una nuova e «lussuosa» casa, che la ospiterà a tempo indeterminato: il Museo dell’Opera del Duomo di Firenze ha infatti deciso di accogliere una delle piú notevoli espressioni giovanili dell’artista toscano, collocandola nella Sala del Paradiso, nel «belvedere» prospiciente la ricostruita facciata arnolfiana. Realizzato tra il 1288 e il 1295, e identificato come la tavola menzionata sia da Lorenzo Ghiberti che da Giorgio Vasari creata per la chiesa di S. Giorgio alla Costa, in Oltrano, il dipinto venne manomesso nel Settecento, per adattarlo agli arredi della chiesa. Nel secolo scorso, poi fu trasferito al Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte, a pochi passi dal Ponte Vecchio, dove, nel 1993, fu danneggiato nell’attentato di via dei Georgofili, accanto agli Uffizi, che, lo ricordiamo, oltre a colpire pesantemente il patrimonio artistico fiorentino, causò la morte di cinque persone. La lesione, provocata da una scheggia, è tuttora visibile nella veste dell’angelo a sinistra della Madonna, perché proprio i restauratori dell’Opificio delle Pietre Dure hanno scelto di lasciare quel marchio, segno di vulnerabilità.

Regina dei cieli Restituito alla fruizione collettiva, dopo una lunga «reclusione», il capolavoro raffigura la Vergine in trono con il Bambino, che tiene in mano un rotolo, alludendo alla sua natura di Verbo divino incarnatosi nel grembo di Maria, celebrata come regina dei cieli, secondo l’iconografia nota col nome di «Maestà» e legata alla diffusione del suo culto. L’ipotetico periodo di esecuzione del manufatto corrisponde agli anni di progettazione e di avvio dei lavori della Cattedrale di Firenze, intitolata a santa Maria del Fiore, da parte dell’architetto Arnolfo di Cambio, il quale elaborò un linguaggio decorativo in cui rientrano sia la forma gotica dello schienale del Madonna di San Giorgio alla Costa, tempera e oro su tavola di Giotto. 1288-1295. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

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trono che l’utilizzo di inserti musivi e di modanature di marmo rosa. D’altronde, pochi anni piú tardi, lo stesso Arnolfo realizzò una scultura nota come «Madonna dagli occhi di vetro», per la facciata del Duomo. E adesso l’accostamento spaziale delle due rappresentazioni arricchisce il severo allestimento del museo dell’Opera che contestualizza arte, religione e storia. Mila Lavorini giugno

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Una gran festa, portata dal... mare in burrasca APPUNTAMENTI •

Grottammare rievoca il fortunoso approdo di papa Alessandro III nel 1175, che fece scoprire al pontefice la straordinaria devozione che gli abitanti della cittadina marchigiana esprimevano ogni anno in occasione delle feste celebrate nel primo giorno di luglio

A

sei anni di distanza dall’ultima edizione, il centro marchigiano di Grottammare (Ascoli Piceno) torna a essere teatro della Sacra Giubilare, un grande evento popolare e religioso, la cui tradizione affonda nel Medioevo. La Sacra si celebra ogni qualvolta il 1° luglio cada di domenica, evento del calendario che si verifica con una ciclicità di sei, cinque, sei e undici anni. Tutto è legato alla rievocazione di un episodio leggendario avvenuto attorno al 1175: l’approdo di papa Alessandro III sul litorale grottammarese a causa di una terribile tempesta. Si racconta che, mentre l’imperatore Federico Barbarossa si preparava a scendere per la quarta volta in Italia, Alessandro III, capo della Lega dei Comuni lombardi, per dare forza alla coalizione si recò a Venezia per sollecitare la Serenissima a sostenere maggiormente la causa nazionale. Durante la navigazione in Adriatico,

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però, una violenta burrasca costrinse le navi del pontefice a rifugiarsi nel porto di Grottammare.

Una tradizione antica I monaci benedettini camaldolesi ne approfittarono per invitare il papa ad assistere ai festeggiamenti che la popolazione picena usava celebrare il 1° luglio a ricordo di antiche costumanze locali. Nei pressi della chiesa di S. Martino accorsero migliaia di persone per salutare Alessandro III, il quale, profondamente colpito da tanto fervore religioso, proclamò un’indulgenza plenaria in

occasione di queste celebrazioni. Il privilegio dell’indulgenza venne poi confermato nel 1803 da papa Pio VII, «nel primo giorno di luglio qualora cada di domenica, e negli otto giorni antecedenti e seguenti». Ancora oggi la solennità della Sacra Giubilare richiama migliaia di turisti e fedeli. Fra le varie iniziative civili

In alto e a destra le statue lignee della Maria Addolorata e di san Giuseppe con il Bambino che vengono fatte sfilare durante la Sacra Giubilare di Grottammare. giugno

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A destra e qui sotto due momenti della rievocazione storica che viene organizzata in occasione della Sacra Giubilare di Grottammare. In basso, a destra Mindelheim (Germania). Un figurante nei panni di Georg von Frundsberg.

da nobili, dame e cavalieri, accompagnati dai membri della corte e seguiti da popolani, artigiani, boscaioli, contadini, ricamatrici e lavandaie. La quarta scena rievoca avvenimenti del XVI secolo e si chiude con la rappresentazione della seconda bolla, che sancisce l’indulgenza, promulgata nel 1803 da papa Pio VII. Un’ultima scena, denominata la processione dei Santi, è aperta dalla rappresentazione della terza bolla, emanata da Paolo VI nel 1973. Dopo questa edizione della Sacra, occorrerà dunque attendere ben undici anni per la prossima, che si svolgerà nel 2029. Tiziano Zaccaria

Omaggio al capitano O

e religiose che si susseguono dal 24 giugno all’8 luglio, l’evento piú spettacolare è il corteo della Sacra del 1° luglio, una rappresentazione storica con oltre trecento figuranti. La prima scena rievoca il restauro del Tempio della dea Cupra compiuto dall’imperatore Adriano nel 122 d.C., con patrizi, senatori, pretoriani, centurioni e legionari. La seconda scena presenta lo sbarco di fortuna di Alessandro III, con l’emanazione della bolla medievale che sancisce il privilegio dell’indulgenza. Nella terza scena, la città in festa accoglie il papa: sfilano le rappresentanze dei quattro quartieri antichi di Grottammare, rappresentati

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gni tre anni, gli abitanti di Mindelheim (Germania) ricordano, con una imponente rievocazione storica, la grande famiglia dei Frundsberg, che, nel 1467, si impossessarono di questo borgo nel cuore della Svevia, determinandone per oltre un secolo la storia. Quest’anno la Festa dei Frundsberg si rinnova dal 29 giugno all’8 luglio. L’evento ricorda, in particolare, il «padre» dei lanzichenecchi, il capitano di ventura al servizio degli imperatori Massimiliano I e Carlo V, nato nel 1473 nel castello di Mindelheim e morto nello stesso maniero nel 1528: Georg von Frundsberg. Per dieci giorni, tutta Mindelheim si trasforma in una città medievale, tornando agli ultimi decenni del XV secolo e ai primi del XVI, quando, durante la signoria della famiglia Frundsberg, principi e cavalieri, studiosi e diplomatici, si recavano al castello sulla collina di San Giorgio. La festa si svolge nel cuore della città vecchia, tra porte e torri, dentro la cinta muraria, proponendo sfilate storiche con oltre duemila partecipanti, concerti in chiese e cappelle, una festa rinascimentale nel chiostro di S. Croce, un mercato agricolo, una strada delle arti e mestieri, una corte degli artigiani, scene di vita di accampamento, un mercato medievale, gare di tiro con la balestra e spettacoli teatrali d’epoca. T. Z.

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AGENDA DEL MESE

Mostre BOLOGNA IL NETTUNO: ARCHITETTO DELLE ACQUE. BOLOGNA, L’ACQUA PER LA CITTÀ TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO Santa Maria della Vita fino al 10 giugno

Allestita in occasione della fine dei restauri alla fontana del Nettuno, la mostra racconta per la prima volta uno dei capitoli piú affascinanti della storia della

a cura di Stefano Mammini

sorprendente. L’invenzione di Bologna città delle acque trova un significativo fondamento nei progetti del Cinquecento, realizzati proprio per sottolineare lo stretto collegamento tra città e acque. Il progetto espositivo in S.Maria della Vita illustra, attraverso l’esposizione di opere, documenti e materiali selezionati, la genesi progettuale e gli sviluppi del sistema idraulico della fontana del Nettuno, partendo dal Medioevo e dall’antichità romana fino ad arrivare agli interventi infrastrutturali rinascimentali. info www.genusbononiae.it BETTONA (PERUGIA) ESPOSIZIONE STRAORDINARIA DI DIPINTI DELLA GALLERIA NAZIONALE DELL’UMBRIA Museo della Città fino al 10 giugno

città di Bologna, quello della costruzione del sistema delle fontane pubbliche negli anni del rinnovamento del centro cittadino da parte di papa Pio IV. La fontana del Nettuno è il monumento iconico che conclude una straordinaria stagione di interventi architettonici e idraulici di grandiosa portata, che ancora oggi qualificano l’area centrale della città e i suoi spazi pubblici. L’acqua tornata a zampillare dopo i recenti lavori di restauro, è l’elemento principale della fontana. I meccanismi nascosti dietro al suo funzionamento, svelano una storia idraulica complessa e segreta, composta da un reticolo di acquedotti, canali e condotte che disegnano la città sotterranea, contribuendo a delineare un paesaggio tanto invisibile quanto

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perugina. Due opere diverse, ma al contempo strette da un legame fatto di ereditarietà e continuità artistica e poetica. L’esposizione offre una lettura integrata e approfondita dei due capolavori, in relazione anche al contesto storico-artistico delle collezioni permanenti: interessante è il confronto tra le due opere della Galleria Nazionale dell’Umbria e quelle riconducibili al medesimo ambiente peruginesco presenti nel Museo bettonese. info tel. 075 987347; e-mail: bettona@sistemamuseo.it; www.umbriaterremusei.it TOURCOING (FRANCIA) CRISTIANI D’ORIENTE. 2000 ANNI DI STORIA Musée des beaux-arts Eugène Leroy fino al 16 giugno

Il Museo di Bettona ospita due straordinarie opere provenienti dai Depositi della Galleria Nazionale dell’Umbria: la monumentale tavola della Madonna degli Alberelli di Eusebio da San Giorgio e lo scomparto raffigurante san Girolamo del Perugino, già parte del polittico smembrato di Sant’Agostino, proveniente dall’omonima chiesa

mosse si diffuse inizialmente fra il Mediterraneo e l’Eufrate, lungo il Nilo e sulle rive del Bosforo. Oggi, a dispetto delle vicissitudini antiche e moderne, i cristiani del Vicino e Medio Oriente non sono la presenza residua di un passato ormai lontano, ma sono parte essenziale di un mondo arabo che hanno contribuito a formare. Grazie a una selezione di oltre 300 opere – molte delle quali vengono presentate in Europa per la prima volta e che, a Tourcoing, includono anche manufatti eccezionalmente concessi in prestito dall’Iraq e non presenti nell’edizione parigina della mostra – viene ripercorsa la vicenda delle comunità cristiane orientali dall’antichità ai giorni nostri, documentandone, oltre alla religione, la politica, la cultura e l’arte. Fra i numerosi capolavori presenti in mostra, possiamo ricordare i Vangeli Rabbula, un manoscritto siriano del VI secolo, gli affreschi di Dura Europos (III secolo) e mosaici provenienti dalle piú antiche chiese di Palestina e di Siria. info www.muba-tourcoing.fr BOLOGNA

Dopo essere stata presentata a Parigi, all’Institut du monde arabe, approda a Tourcoing – città della Francia settentrionale, ai confini con il Belgio – la grande mostra «Cristiani d’Oriente». A ispirare il progetto espositivo è un dato storico di rilevanza indiscussa, vale a dire il fatto che, secondo i Vangeli, teatro della predicazione di Cristo fu la Palestina, e la nuova religione che da quell’esperienza prese le

MEDIOEVO SVELATO. STORIE DELL’EMILIA-ROMAGNA ATTRAVERSO L’ARCHEOLOGIA Museo Civico Medievale fino al 17 giugno

Nell’ambito delle iniziative organizzate per i 2200 anni dalla fondazione romana di Modena, Parma e Reggio Emilia, il Museo Civico Medievale di Bologna presenta una mostra di archeologia sul Medioevo emiliano-romagnolo. L’esposizione offre una panoramica del territorio regionale attraverso quasi un millennio di storia, dalla tarda antichità (IV-V secolo) al giugno

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Medioevo (inizi del Trecento). L’Emilia-Romagna, infatti, fornisce una prospettiva di ricerca privilegiata per la comprensione di fenomeni complessi che investono non solo gli aspetti politici, sociali ed economici, ma la stessa identità culturale del mondo classico nella delicata fase di passaggio al Medioevo. Il percorso si articola in sei sezioni: la prima è incentrata sul tema della Trasformazione delle città, ossia sull’evoluzione dei centri di antica fondazione in rapporto ai cambiamenti socioeconomici e all’organizzazione delle nuove sedi del potere (laico ed ecclesiastico); imperniata sulla Fine delle ville, la seconda sezione prende in esame l’insediamento rurale di tipo sparso, già tipico delle fattorie di età romana; i grandi mutamenti e, in particolare, l’ideologia funeraria del VI-VII secolo caratterizzano la terza sezione, dedicata a Nuove genti, nuove culture, nuovi paesaggi; allo sfarzo di alcuni manufatti afferenti alle sepolture fanno riscontro i pochi materiali recuperati nei contesti urbani regionali – Fidenza (Parma), Rimini e Ravenna – della quarta sezione dedicata a Città ed empori nell’alto Medioevo; con la quinta sezione, Villaggi, castelli, chiese e monasteri: la riorganizzazione del tessuto insediativo, vengono

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evidenziate le nuove forme d’insediamento (VIII-XIII secolo); il racconto termina ciclicamente – grazie alla sesta sezione, incentrata su Dopo il Mille: la rinascita delle città, con il ritorno al tema dell’evoluzione dei centri urbani, studiati nella nuova fase di età comunale: Parma e Ferrara (di cui sono esposti oggetti di straordinario valore, perché conservati nonostante la deperibilità del materiale, il legno), Rimini e Ravenna, caratterizzate da rinnovato dinamismo e Bologna, rappresentata dalla piú antica croce viaria lapidea (anno 1143), recuperata nel 2013 sotto il portico della chiesa di S. Maria Maggiore. info tel. 051 2193916 oppure 2193930; e-mail: museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it/ arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo

MILANO DÜRER E IL RINASCIMENTO TRA GERMANIA E ITALIA Palazzo Reale fino al 24 giugno

Grazie a una rappresentativa selezione di opere di Albrecht Dürer e di alcuni dei suoi piú importanti contemporanei tedeschi e italiani, la mostra documenta la fioritura del Rinascimento tedesco nel suo momento di massima apertura verso l’Europa, sia al Sud (soprattutto Italia settentrionale) sia al Nord (Paesi Bassi). Protagonisti dell’esposizione sono dunque l’artista di Norimberga, ma anche l’affascinante quadro di rapporti artistici tra nord e sud Europa tra la fine del Quattro e l’inizio del Cinquecento, il dibattito religioso e spirituale come substrato culturale delle opere di Dürer, il suo rapporto con la committenza attraverso l’analisi della ritrattistica, dei soggetti mitologici, delle pale d’altare, la sua visione della natura e dell’arte tra classicismo e anticlassicismo,

la sua figura di uomo e le sue ambizioni d’artista. Si possono ammirare circa 130 opere, principalmente del maestro del Rinascimento tedesco – fra pitture, stampe grafiche e disegni –, che nelle mani di Albrecht Dürer assumono un valore e una centralità nel processo creativo praticamente senza precedenti. La collezione è affiancata da opere di artisti tedeschi suoi contemporanei come Lucas Cranach, Albrecht Altdorfer, Hans Baldung Grien da un lato, e dall’altro di grandi pittori, disegnatori e artisti grafici italiani della Val Padana fra Milano e Venezia, come Giorgione, Andrea Mantegna, Leonardo da Vinci, Andrea Solario, Giovanni Bellini, Jacopo de’Barbari, Lorenzo Lotto. info palazzorealemilano.it; mostradurer.it; prenotazioni tel. 02 54913; www.ticket24ore.it TORINO PERFUMUM. I PROFUMI DELLA STORIA Palazzo Madama fino al 25 giugno (prorogata)

L’evoluzione e la pluralità dei significati assunti dal profumo dall’antichità greca e romana al Novecento sono documentati da oltre 200

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AGENDA DEL MESE oggetti, tra oreficerie, vetri, porcellane, affiche e trattati scientifici. Il percorso espositivo presenta un excursus storico avviato a partire dalle civiltà egizia e greco-romana che, sulla scorta di tradizioni precedenti, assegnano al profumo molteplici significati: da simbolo dell’immortalità, associato alla divinità, a strumento di igiene, cura del corpo e seduzione. Nell’Europa del primo Medioevo, sottoposta all’urto delle invasioni barbariche, sono rare le testimonianze di utilizzo di sostanze odorifere al di fuori della sfera sacra. Sopravvive tuttavia la concezione protettiva e terapeutica del profumo, come testimoniato in mostra dalla preziosa bulla con ametiste incastonate proveniente dal tesoro goto di Desana. L’uso di profumi a contatto con il corpo con funzione di protezione nei confronti di malattie è attestato piú tardi nei pommes de musc frequentemente citati negli inventari dei castelli medievali, come il rarissimo esempio quattrocentesco in argento dorato in prestito dal Museo di Sant’Agostino di Genova, che conserva ancora la noce moscata al suo interno. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it FIRENZE VOCI DI DONNE. L’UNIVERSO FEMMINILE NELLE RACCOLTE LAURENZIANE Biblioteca Medicea Laurenziana fino al 29 giugno

Una ricerca condotta su tutti i fondi manoscritti della Biblioteca Laurenziana ha permesso di individuare un cospicuo numero di testi legati

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al mondo femminile, nei quali la donna appare sia come artefice di opere, ma anche come soggetto, a diversi livelli, dell’opera presentata. Da queste «scoperte» è nata ora la mostra, che propone 66 manoscritti, presentati in sei sezioni, ognuna ordinata, al proprio interno, secondo l’ordine cronologico delle biografie. Il percorso si apre con una selezione di donne autrici di poesie, trattati, memorie, diari e anche di lettere, sia a carattere pubblico che privato. Seguono opere dedicate, a vario titolo, a donne, alcuni manoscritti commissionati da donne e un nutrito numero di codici da loro copiati. L’ultima sezione, che presenta manoscritti posseduti da donne, si chiude con tre splendidi codici acquistati da una donna proprio per essere donati alla Biblioteca. info tel. 055 2937911; e-mail: b-mela.mostre@beniculturali.it MILANO L’UOMO DIVINO. LUDOVICO LAZZARELLI E I TAROCCHI DEL MANTEGNA NELLE COLLEZIONI DELL’AMBROSIANA Veneranda Biblioteca Ambrosiana fino al 1° luglio

La rassegna propone 28 dei 31 fogli della piú antica e celebre serie a stampa

realizzata in Italia Settentrionale nella seconda metà del Quattrocento, ma anche la piú misteriosa, per ciò che attiene al possibile autore, luogo di produzione e scopo di realizzazione. I cosiddetti «Tarocchi del Mantegna» sono composti da 50 stampe incise a bulino di altissima qualità, caratterizzate da un tratto molto sottile, grande dovizia di particolari, un raffinato sistema di tratteggio incrociato per le

ombreggiature, divise in cinque serie di 10 elementi ciascuna, che raffigurano nell’insieme l’uomo come microcosmo e l’universo come macrocosmo. Accanto alle pregiate carte viene esposto il manoscritto del Crater Hermetis dell’umanista marchigiano Ludovico Lazzarelli, che utilizzò alcune sequenze dei «Tarocchi» come fonte di ispirazione per comporre un’opera poetica. info tel. 02 806921 VENEZIA BELLINI/MANTEGNA. CAPOLAVORI A CONFRONTO Fondazione Querini Stampalia fino al 1° luglio

È affascinante cercare le differenze tra le due

Presentazioni di Gesú al Tempio eccezionalmente affiancate per la mostra proposta dalla Fondazione Querini Stampalia. Due capolavori della storia universale dell’arte, l’uno di mano di Giovanni Bellini, di Andrea Mantegna il secondo. A un primo sguardo sembrano del tutto eguali, eppure si capisce che le due operespecchio hanno «personalità diversissime». Ma chi fu l’inventore della meravigliosa composizione? Bellini, veneziano, e Mantegna, padovano del contado, si conobbero certamente, dato che quest’ultimo sposò la sorellastra del primo. Ma sarebbe sbagliato – chiarisce Giovanni Carlo Federico Villa, co-curatore dell’esposizione – immaginarli l’uno accanto all’altro intenti nel dipingere questo medesimo soggetto. Certo il cartone, la cui realizzazione richiedeva un enorme virtuosismo artistico, «stregò l’uno e l’altro, ma un lasso di tempo non piccolo, una decina di anni, separa i

due capolavori». Che, sia pure a distanza, si sia trattato di una gara alla massima eccellenza, lo si evince dalla qualità assoluta delle due opere. È un caso probabilmente irripetibile quello che consente, per la prima volta nella storia giugno

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dell’arte, di ammirarle l’una a fianco dell’altra. Accanto alle due Presentazioni, in Querini sono esposte le opere coeve patrimonio del museo veneziano. E il visitatore viene poi invitato, con lo stesso biglietto a scoprire, o riscoprire, i tesori della Querini Stampalia, una casa-museo tra le piú importanti al mondo. info tel. 041 2711411; www.querinistampalia.org PIACENZA I MISTERI DELLA CATTEDRALE. MERAVIGLIE NEL LABIRINTO DEL SAPERE Kronos-Museo della Cattedrale fino al 7 luglio

A coronamento del nuovo allestimento del Museo del Duomo di Piacenza, viene presentata una mostra che riporta alla luce alcuni dei piú preziosi codici miniati medievali, come il Libro del Maestro o il Salterio di Angilberga, appartenenti al patrimonio archivistico cittadino. Il percorso si articola in cinque sezioni, la prima delle quali, nella sala dell’archivio storico capitolare, è dedicata alla musica. Si possono quindi ammirare gli antichi libri provenienti dalla Biblioteca Ambrosiana, dalla Biblioteca Braidense, dall’Archivio di Stato di Parma, dall’Archivio di Stato di

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Piacenza, dagli Archivi Capitolari della Cattedrale e di Sant’Antonino, dall’Archivio Storico Diocesano di Piacenza e Bobbio, e dalla Biblioteca Passerini Landi. Straordinari capolavori dal IX al XV secolo raccontano la storia civile e religiosa del territorio, con particolare accento su Piacenza e Bobbio con il suo scriptorium, secondo solo a Montecassino. In particolare, l’ultima sezione è interamente dedicata al Libro del Maestro, un totum liturgico che, dal XII secolo, è stato modello e tesoro per la liturgia e che costituisce una summa culturale, secondo la concezione medievale. Il Libro del Maestro è il volume piú importante e misterioso dell’archivio della Cattedrale, la cui stesura ebbe inizio al principio del XII secolo. Al suo interno conserva nozioni di astronomia e astrologia, usi e costumi della popolazione legata ai cicli lunari e al lavoro nei campi. Il codice illustra, attraverso splendide miniature e formule melodiche (dette tropi), i primi drammi teatrali liturgici medievali, rappresentati in chiese e conventi, come primi strumenti di comunicazione delle storie della Bibbia. info tel. 331 4606435 oppure 0523 308329; e-mail: cattedralepiacenza@gmail.com; www.cattedralepiacenza.it

TORINO CARLO MAGNO VA ALLA GUERRA Palazzo Madama fino al 16 luglio

Allestita nella Corte Medievale di Palazzo Madama, la mostra presenta per la prima volta in Italia il rarissimo ciclo di pitture medievali del Castello di Cruet (Val d’Isère, Francia), una testimonianza unica della pittura del Trecento in Savoia. Lunghe oltre 40 m, le pitture sono state staccate dalle pareti della dimora savoiarda nel 1985 per ragioni conservative e, dopo un restauro concluso nel 1988, sono da allora esposte presso il Musée Savoisien di Chambery. Il ciclo rappresenta episodi tratti da una celebre chanson de geste, il Girart de Vienne di Bertrand de Bar-surAube, composta nel 1180 e dedicata alle vicende di un cavaliere della corte di Carlo Magno. Raffigura pertanto scene di caccia nella foresta, battaglie, duelli, l’assedio a un castello, l’investitura feudale, la raffigurazione di un banchetto, accanto a episodi narrativi specifici di questo poema cavalleresco. Presentate in sequenza in Corte Medievale, le pitture ricostruiscono idealmente la decorazione della sala aulica del castello di Cruet grazie a uno scenografico allestimento realizzato dall’architetto Matteo Patriarca con Gabriele Iasi e Studio Vairano. Accanto a queste straordinarie pitture, la mostra presenta una

cinquantina di opere provenienti dalle collezioni di Palazzo Madama e da altre istituzioni, con pezzi mai esposti prima al pubblico. Essi arricchiscono il percorso consentendo di immaginare la vita nei castelli medievali della contea di Savoia tra 1200 e 1300. Sculture, mobili, armi, avori, oreficerie, codici miniati, ceramiche, vasellame da tavola, cofanetti preziosi, monete e sigilli documentano i tanti aspetti dell’arte di corte e della cultura materiale dell’epoca. info www.palazzomadamatorino.it FERMO IL QUATTROCENTO A FERMO Chiesa di S. Filippo fino al 2 settembre

Compresa nel progetto di valorizzazione del patrimonio culturale regionale «Mostrare le Marche», la mostra riunisce

alcuni importanti capolavori, tra cui il Polittico di Sant’Eutizio di Nicola di Ulisse da Siena, che arriva da Spoleto ed è stato appena restaurato dopo il terremoto del 2016, la Madonna in Umiltà con santa Caterina, Crocifissione, un dipinto di grande pregio di Andrea Delitio, e il Polittico di Massa Fermana di Carlo Crivelli, prima opera marchigiana dell’artista veneziano a cui la mostra dedica una notevole sezione, insieme a dipinti del fratello Vittore Crivelli. Fra gli

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AGENDA DEL MESE oggetti d’arte, come oreficerie o tessuti, vi è anche un gruppo di ceramiche, che comprendono pregevoli boccali e piatti dell’Officina «Sforzesca» di Pesaro della seconda metà del Quattrocento. info tel. 0734 217140; e-mail: fermo@sistemamuseo.it; www.sistemamuseo.it FERRARA EBREI, UNA STORIA ITALIANA. I PRIMI MILLE ANNI Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 16 settembre

Con questa mostra, che ha segnato l’inaugurazione del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della

Shoah-MEIS, si illustrano le origini della presenza ebraica in Italia dai suoi albori sino al Medioevo, evidenziandone i caratteri di specificità e unicità. Il percorso espositivo, che prefigura la prima sezione del futuro Museo, presenta oggetti autentici, repliche, modelli, immagini, mappe, scenografie e dispositivi multimediali, grazie ai quali si raccontano il primo millennio di storia dell’ebraismo italiano, il suo radicamento e

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la sua espansione grazie alle conversioni e agli apporti da altri territori, e il processo di formazione della sua peculiare identità. Da dove sono venuti gli Ebrei italiani? Quando? Perché? E, una volta giunti in Italia, dove hanno scelto di attestarsi? Quali rapporti hanno stabilito con le popolazioni residenti, con i poteri pubblici: prima con la Roma imperiale, poi con la Chiesa, ma anche con i Longobardi, i Bizantini e i musulmani, sotto il cui dominio hanno vissuto? Quali sono stati la vita, le consuetudini, la lingua, la cultura delle comunità ebraiche d’Italia nel corso di tutto questo lungo tempo? E soprattutto: che cosa ha di particolare e di specifico l’ebraismo italiano rispetto a quello di altri luoghi della diaspora? Le risposte a questi interrogativi sono affidate a un nuovo modo di presentare la storia in un museo: un modo che pone esplicitamente al centro le persone e non le cose, le persone attraverso le cose. Gli oltre duecento oggetti in mostra, alcuni dei quali mai esposti in una sede pubblica, sono stati selezionati soprattutto per rappresentare i contesti di cui sono testimonianza. La loro conoscenza e comprensione è affidata anche ai titoli e ai testi di sala, ai documenti e alle immagini, alle ricostruzioni e alle evocazioni di ambienti, di situazioni, di eventi, e alle parole dei curatori e degli esperti, che lungo l’itinerario si rivolgono al visitatore attraverso i video, rendendo esplicita l’interpretazione storica proposta. info www.meisweb.it

MOSTRE • Pisa città della ceramica Pisa - Centro Espositivo San Michele degli Scalzi, Museo Nazionale di San Matteo, Palazzo Blu e Camera di Commercio di Pisa fino al 5 novembre info www.pisacittaceramica.it; e-mail: info@pisacittaceramica.it, jenny.delchiocca@cfs.unipi.it; prenotazioni: pisacittaceramica@gmail.com

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l progetto espositivo è stato sviluppato in quattro sedi principali (San Michele degli Scalzi, Palazzo Blu, Camera di Commercio di Pisa, Museo Nazionale di San Matteo), con oltre 500 pezzi in mostra, un cartellone di eventi dedicati a tutte le fasce di età, percorsi guidati in città e nel territorio pisano alla scoperta di inediti palazzi, chiese decorate da bacini ceramici, esempi di archeologia industriale e ceramisti ancora in attività, ma anche un sito web fruibile da smartphone, con mappe personalizzabili per costruire in autonomia il proprio itinerario di visita. La mostra invita a rileggere un intero territorio, che fu un’avanguardia nella tecnica destinata a cambiare le abitudini dell’Occidente, cominciando dalla tavola, per diventare un settore trainante per l’economia: la produzione della ceramica. MONTEPULCIANO LEONARDO DA VINCI. ANATOMIE: MACCHINE, UOMO, NATURA Fortezza fino al 7 ottobre

Oltre che come artista eccezionale, Leonardo da Vinci (1453-1519) è stato a lungo celebrato come inventore di macchine e dispositivi meccanici straordinari, che sarebbero divenuti patrimonio comune della cultura tecnica solo alcuni secoli dopo la sua morte. Pur traendo ispirazione dal profondo processo di rinnovamento dei saperi tecnici che ebbe luogo in Italia

a partire dalla fine del XIV secolo, Leonardo offrí in molti ambiti contributi di assoluta originalità e di straordinaria carica anticipatrice. La mostra mette in luce proprio uno degli aspetti piú innovativi dell’opera di Leonardo, per il quale macchine, corpo umano e natura sono governati dalle medesime leggi universali: idea che trova espressione in una serie di magistrali disegni che segnano la nascita della moderna illustrazione scientifica. info tel. 0577 286300; www.leonardoanatomie.it COLLE DI VAL D’ELSA (SI) SAVIA NON FUI. DANTE E SAPÍA FRA LETTERATURA E ARTE Museo San Pietro fino al 28 ottobre

È ispirata a Sapía, gentildonna senese nata Salvani, protagonista del canto XIII del Purgatorio di Dante, la nuova mostra allestita presso il Museo San Pietro. La figura giugno

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emerge per la forte caratterizzazione, con tratti molto sofferti e risentiti quale interprete dell’invidia. Peccò sí tanto d’invidia da giungere all’insania. Nonostante il nome, infatti, la zia paterna di Provenzan Salvani, capo della parte ghibellina, già incontrato da Dante fra i superbi, non fu «savia» nell’augurarsi la sconfitta dei propri concittadini senesi nella battaglia di Colle di Val d’Elsa (vv. 109-111): «Savia non fui, avvegna che Sapía / fossi chiamata, e fui delli altrui danni / piú lieta assai che di ventura mia». Il percorso espositivo presenta dunque le testimonianze di miniatori, incisori, scultori e pittori, interpreti di una figura non convenzionale che, per i caratteri di umana fragilità con cui è delineata, può considerarsi una sorta di antieroina della storia medievale senese. info tel. 0577 286300; e-mail: info@collealtamusei.it; www.collealtamusei.it MONTEPULCIANO IL TEMPIO DI SAN BIAGIO A MONTEPULCIANO DOPO ANTONIO DA SANGALLO. STORIA E RESTAURI Tempio di San Biagio fino al 4 novembre

Le celebrazioni per il V centenario dell’edificazione del Tempio di San Biagio a Montepulciano, uno dei capolavori dell’architettura rinascimentale italiana realizzato su progetto di Antonio da Sangallo il Vecchio dal 1518 al 1548, offrono l’occasione per rivisitare e riproporre l’arredo interno originale della chiesa, realizzato a partire dall’ultimo quarto del Cinquecento, con le nuove regole emanate dal Concilio di Trento in materia di apparato liturgico e di arte

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sacra. Un arredo in gran parte asportato durante il restauro neorinascimentale del monumento avvenuto a partire dagli anni ottanta dell’Ottocento. Il complesso architettonico con il Tempio a pianta centrale e l’adiacente Canonica, costruiti in blocchi di travertino delle vicine cave di Sant’Albino, è stato oggetto di numerosi studi, che sottolineano l’uso sapiente e armonico degli ordini, dei partiti architettonici e delle proporzioni classiche in un rapporto dialettico tra uomo, architettura e paesaggio. Alla morte del Sangallo (1534) i lavori continuarono con la costruzione della cupola tra il 1543 e il 1545, mentre il primo campanile fu concluso solo nel 1564 e il secondo resta ancor oggi incompiuto. info tel. 0577 286300; e-mail: info@tempiosanbiagio.it; www.tempiosanbiagio.it; SANSEPOLCRO PIERO DELLA FRANCESCA. LA SEDUZIONE DELLA PROSPETTIVA Museo Civico di Sansepolcro fino al 6 gennaio 2019

Il progetto espositivo si articola intorno al De prospectiva pingendi, trattato composto da Piero della Francesca intorno al 1475, e ha anche l’obiettivo di illustrare, attraverso riproduzioni di disegni, modelli prospettici, strumenti scientifici, plaquette e video, le ricerche matematiche applicate alla pittura di Piero della Francesca e la conseguente eredità lasciata ad

artisti come Leonardo da Vinci, Albrecht Dürer, Daniele Barbaro e ai teorici della prospettiva almeno fino alla metà del Cinquecento. La mostra vuole inoltre mostrare al pubblico le due anime di Piero: raffinato pittore e grande matematico. Oltre a essere Maestro d’abaco, geometra euclideo, studioso di Archimede, l’artista è stato anche un innovatore nel campo della pittura, poiché per lui,

quest’ultima, nella matematica e nella geometria, trovava il suo sostanziale fondamento. I suoi scritti, infine, soprattutto il De prospectiva pingendi, composto in volgare per gli artisti e in latino per gli umanisti, hanno dato inizio alla grande esperienza della prospettiva rinascimentale. info tel. 199 151 121; e-mail: mostre@civita.it; www.museocivicosansepolcro.it

Appuntamenti BRISIGHELLA (RAVENNA) BRISIGHELLA MEDIOEVALE 1413 2-3 giugno

Il borgo del Ravennate, la sua Rocca e la sua Torre rivivono le proprie origini medievali, grazie all’evento che, in due giorni e una notte di rievocazione, saluta la costituzione della contea di «Terre Brisichellae et comitatus Vallis Hamonis». I visitatori possono dunque risalire all’indietro nel tempo, fino al 1413, anno di costituzione della contea, grazie a un ricco programma di rievocazioni, giochi per bambini, intrattenimenti e spettacoli, oltre che assaggiare i prodotti e i piatti della gastronomia locale. info Pro Loco Brisighella, tel. 0546 81166; e-mail: iat.brisighella@racine.ra.it; www.brisighella.org ROMA I COLLI DI ROMA NEL RINASCIMENTO Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Sala della Fortuna e Sala dei Sette Colli fino al 12 giugno

I paesaggi dei Sette Colli di Roma dipinti nell’omonima Sala al piano nobile della cinquecentesca villa di papa Giulio sono al centro di un ciclo di conferenze ideato e

curato da Maria Paola Guidobaldi e affidato a Filippo Coarelli. Questi i luoghi che saranno oggetto delle ultime due conferenze, con inizio alle 17,30: martedí 5 giugno: Il Quirinale; martedí 12 giugno: Il Viminale. info è obbligatoria la prenotazione, entro le ore 12,00 del giorno della conferenza, e-mail: mn-etru. comunicazione@beniculturali.it ACQUASPARTA FESTA DEL RINASCIMENTO XIX EDIZIONE 2-17 giugno

Torna l’appuntamento con due settimane di convegni, cortei, spettacoli, giostre, a cui si aggiungono le serate nelle Tre Taverne delle Contrade di Porta Vecchia, del Ghetto e di San Cristoforo. Tema centrale di questa edizione della festa è Sua Maestà il Maiale: tutto quello che ruota intorno all’utilizzo di questo straordinario animale all’interno della cultura gastronomica e non, analizzato soprattutto nel convegno in programma sabato 16 giugno, significativamente intitolato «Alla ricerca del pòrco perduto». info tel. 349 4722621; www.ilrinascimentoadacquasparta.it

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Ecco il tesoro del re! di Federico Canaccini

Aroldo Dente Azzurro, salito al trono di Danimarca negli ultimi decenni del X secolo, svolse un ruolo decisivo nella storia del Paese scandinavo. Oggi, a distanza di piú di mille anni, una sorprendente scoperta, verificatasi su un’isola del Mar Baltico, lo ha riportato agli onori della cronaca

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iene dalla Germania la notizia di una scoperta che ha trasformato in realtà il sogno di tanti ragazzi desiderosi di trovare un tesoro, proprio come Indiana Jones o, forse quasi meglio, come i memorabili Goonies! Ed è proprio un tesoro, vichingo, databile alla metà del X secolo, quello venuto alla luce sull’isola di Rügen, nel Mar Baltico, di fronte alle coste del Meclemburgo-Pomerania Occidentale. Aspetti diversi rendono la notizia particolarmente appetibile, a cominciare dalle modalità della scoperta e dallo scopritore stesso, uno studente di tredici anni che, armato del suo metal detector – e sotto lo sguardo vigile del suo mentore –, si è imbattuto in quello che, di primo acchito, sembrava un banale pezzo di alluminio. Dalla metà dello scorso gennaio infatti, Luca Malaschnitschenko, e il suo professore, René Schon, appassioIn alto un bratteato (moneta in argento, larga e sottile, con una sola impronta a rilievo da una parte e a incavo dall’altra) coniato al tempo di Aroldo Dente Azzurro e facente parte del tesoro rinvenuto sull’isola di Rügen. X sec. In basso Luca Malaschnitschenko, il ragazzo tedesco appassionato di archeologia che, con il suo metal detector, ha scoperto il tesoro.

Sulle due pagine Schaprode, isola di Rügen (Mar Baltico, Germania). Il cantiere di scavo aperto per indagare il sito in cui è venuto alla luce un tesoro di monete e monili databile al tempo del re di Danimarca Aroldo Dente Azzurro. X sec.

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scoperte germania A sinistra particolare del ritratto di Aroldo Dente Azzurro affrescato sulla sua tomba nella Cattedrale di Roskilde (Danimarca). In basso alcuni dei manufatti piú significativi fra quelli che compongono il tesoro vichingo

dell’isola di Rügen. Fra gli altri, si riconosce il pendaglio che raffigura il Mjöllnir, il martello di Thor, il dio del tuono. Nella pagina accanto Thor lotta con i giganti, olio su tela di Mårten Eskil Winge. 1872. Stoccolma, Nationalmuseum.

nati di archeologia, si erano proposti di perlustrare l’isola di Rügen, che dista appena un centinaio di chilometri da Svezia e Danimarca. A coordinare gli sforzi e la sete di conoscenza dei due archeologi dilettanti c’erano naturalmente i funzionari del Landesamt für Kultur und Denkmalpflege, Archäologie und Denkmalpflege (l’equivalente della nostra Soprintendenza) per il land Meclemburgo-Pomerania Occidentale. E quando le analisi hanno rivelato che l’anonimo pezzo di alluminio era in realtà una moneta d’argento, gli uffici dell’istituto si sono messi in moto. La notizia, però, è stata tenuta segreta per mesi, e si è dato inizio a una vera campagna di scavo, guidata da Carl Michael Schirren, il quale ne ha ora presentato i fruttuosi (e forse inaspettati) risultati. Da un’area di 400 mq, indagata stratigraficamente,

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Thor

Un martello prodigioso Tra gli oggetti del ricco corredo rinvenuto sull’isola di Rügen, spicca un pendaglio raffigurante il mitico martello di Thor, il Mjöllnir, forgiato dai nani Eitri e Brokkr. Thor (oppure Donner, come era chiamato in Germania) era il figlio di Odino e di Jorð, dea della terra. Thor era una divinità molto amata dagli Scandinavi, forse piú dello stesso Odino, per il suo carattere piú umano: da un lato era il guerriero forte e spietato, dall’altro l’uomo bonario, spensierato e a tratti comico. Thor aveva con sé sempre tre oggetti che lo rendevano praticamente invincibile: una cintura in grado di raddoppiarne la forza, il celebre martello che funzionava come un boomerang, tornando sempre nelle mani del suo padrone, protette da un magico paio di guanti in ferro, il terzo prezioso oggetto. La temibile arma rappresentava il fulmine e preannunciava

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le piogge: con il martello, infatti, Thor percuoteva il cielo, provocando il rombo del tuono. I Vichinghi devoti indossavano dunque piccoli martelli al collo, come quello di Rügen, per ingraziarsi il dio del tuono e del fulmine: non a caso, il giorno che per i Latini era dedicato a Giove (Giovedí), per le popolazioni nordiche è dedicato proprio a Thor (Thur’s day, Donner’s tag). Il dio del tuono volava in cielo grazie a un carro, trainato da due caproni neri: uno digrignava i denti, mentre l’altro li strideva. Essi probabilmente rappresentavano le nuvole cariche di pioggia che annunciavano l’approssimarsi del temporale. Ma non si trattava di due capri normali: il dio, infatti, durante le sue peregrinazioni, ciclicamente li uccideva per nutrirsi ma, conservandone con cura la pelli e le ossa, il mattino seguente li ritrovava nuovamente intenti a brucare l’erba.

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scoperte germania è emerso un vero e proprio tesoro, databile a oltre dieci secoli fa, composto da collane, centinaia di monete, e poi ancora bracciali, orpelli e monili preziosi e persino un pendaglio raffigurante il Mjöllnir, il martello frantumatore brandito da Thor, il dio del tuono della mitologia norrena (vedi box alla pagina seguente). Dall’analisi numismatica delle 600 monete rinvenute, gli archeologi hanno proposto una datazione che oscilla tra il 958 e il 986, vale a dire durante il regno di Harald Blåtand, re di Danimarca, per noi piú noto come Aroldo Dente Azzurro. Una circostanza che ci offre lo spunto per ripercorrerne le gesta.

La vita di Aroldo

La storia della Danimarca medievale è scandita dalle liste di re che la governarono. Tutto si fa risalire al primo sovrano, Hardegon, figlio di Sven, il quale, intorno al 917, sottomise parte della nazione. Tra le dinastie che si succedettero al trono, ci interessa qui quella di Canuto (Knud), figlio di Hardegon e padre di Gorm il Vecchio. Il figlio minore di quest’ultimo è appunto Aroldo, detto Dente Azzurro. A cavallo fra l’Alto e il Basso Medioevo, in Danimarca regnò piú di un Aroldo, nome diffusissimo soprattutto tra le famiglie nobili, che traeva origine dall’antico germanico Harjowalda. Come spesso accadeva nell’onomastica barbarica, quest’ultimo era composto da due termini: Jarja (esercito) e Walda (potere, comando), che dava origine a una sorta di «colui che ha potere nell’esercito». Gli avi di Aroldo erano giunti in Danimarca dall’An-

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A destra incisione raffigurante Thyra Danebod, madre di Aroldo Dente Azzurro, che dispone la costruzione del Danevirke, fortificazione di cui le veniva appunto attribuita la realizzazione. In basso Jelling (Danimarca). I tumuli speolcrali di Gorm il Vecchio e di Thyra Danebod in un’incisione seicentesca e una ripresa fotografica moderna. Nel sito si conserva anche la pietra su cui, in caratteri runici, compare una dedica di Aroldo Dente Azzurro al padre e alla madre.

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glia orientale, agli inizi del X secolo: suo nonno, il già citato Canuto, spodestò il re in carica, Sigtrygg Gnupasson, per poi passare lo scettro a suo figlio, Gorm, che iniziò a regnare intorno al 934-936 e fu il primo sovrano danese della cui esistenza storica si abbiano prove certe, incise sulle pietre di Jelling (vedi box a p. 36). A dire il vero, non sappiamo molto della vita di Dente Azzurro. E quel che riportano alcuni testi, spesso contrasta con ciò che altre fonti ci raccontano. Qualche notizia si può ricavare proprio dal suo nome (piú che dal suo soprannome). Le saghe scandinave, in realtà, lo citano perlopiú come Aroldo Gormson, cioè «Figlio di

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Gorm». Spesso viene invece detto Aroldo «il Buono» e su questo epiteto alcuni studiosi, come Palle Lauring, hanno creduto di intravvedere qualcosa di piú del ruolo di unificatore dell’area in nome della fede cristiana. Il termine originale per l’italiano «Buono», infatti, potrebbe essere legato al vocabolo nordico «Gode», un titolo riservato a figure con responsabilità religiose, quando ancora imperversavano i culti pagani. In ogni caso, il soprannome Dente Azzurro appare per la prima volta nella Cronaca di Roskilde, un’opera databile al XII secolo, quando il sovrano era ormai morto da tempo. Ma su questo curioso soprannome torneremo piú avanti.

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castelli ad anello

Fortificazioni a regola d’arte Una volta preso il potere, Aroldo I si preoccupò di difendere il nuovo dominio. L’area conquistata fu dunque fortificata, potenziando il Danevirke e con piazzeforti ad anello. Una di queste, a Trelleborg, poco fuori Slagelse (Danimarca), fu scoperta per caso nel 1934, quando alcuni motociclisti chiesero il permesso alle autorità di utilizzare il percorso circolare (che credevano naturale) per le loro corse: si trattava, invece, di un castello vichingo. Al termine della seconda guerra mondiale, gli scavi archeologici si estesero in altre aree e vennero alla luce altre fortezze circolari. Trelleborg, Aggersborg e Fyrkat, databili tra il 979 e il 981, sono un invincibile tridente fortificato, costruito per volontà di Dente Azzurro. I castelli ad anello del Nord si differenziano da quelli del resto d’Europa per alcune peculiarità: il cerchio che li racchiude è perfetto e il fossato che lo circonda è scavato a forma di V. In corrispondenza delle quattro porte si ergono torri coperte e terrazzate, che

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sono accompagnate da una palizzata posta in cima al terrapieno ricavato dalla fossa. Inoltre, tutto l’apparato è realizzato con una perfezione geometrica simile a quella dei Romani: le strade interne vanno dritte da porta a porta, non si nota alcun adattamento alle difformità del terreno, vi è un vero e proprio incrocio, pari a quello del cardo e del decumanus dei castra di età romana. Per ottenere un simile risultato, si devono dunque presupporre una disciplina militare e una supervisione molto ben organizzate, nonché una buona conoscenza della matematica e della geometria. Insomma, queste fortificazioni lasciano intravvedere una concentrazione di potere, capacità organizzative e conoscenze scientifiche ai tempi di Aroldo, che nulla hanno a che fare con l’idea che talvolta si ha dei Vichinghi, brutali predoni a bordo dei loro drakkar. In breve tempo, con precisione e metodicità, Aroldo dotò il proprio regno di una formidabile rete di nuove fortificazioni. giugno

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A sinistra Aggersborg (Danimarca). Veduta dall’alto della piazzaforte vichinga ad anello, la piú grande a oggi nota, costruita nella stessa epoca di quelle di Trelleborg, Fyrkat e Nonnebakken, durante il regno di Aroldo Dente Azzurro. 980-981. In basso ricostruzione di una tipica casa vichinga nel Vikingecenter di Fyrkat, in Danimarca.

Nella pagina accanto veduta aerea della piazzaforte ad anello di Trelleborg, presso Slagelse in Danimarca. È il meglio conservato fra i complessi difensivi vichinghi di questo tipo e la sua costruzione dovette avere luogo fra il 980 e il 981.

Aroldo nacque agli inizi del X secolo e venne educato dalla madre, Thyra Danebod, già convertitasi al cristianesimo e destinata ad avere un ruolo fondamentale nella politica del figlio e dunque nella storia stessa della Danimarca. Non fu dunque casuale la dedica iscritta sulla pietra runica di Jelling, in cui la donna viene celebrata come «la salvezza della Danimarca». Thyra veniva verosimilmente dall’area orientale della penisola danese, forse Sjælland o Scania. Gorm, invece, aveva dominato forse sulla Fionia e lo Jutland: è dunque possibile che, dall’unione con Thyra, sperasse di trasmettere al figlio maggiore un dominio piú vasto sulla penisola. Anche le informazioni su Thyra Danebod sono poche e spesso si confondono con la leggenda. Snorri Sturlu-

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son, la piú importante personalità letteraria del Medioevo scandinavo (1178-1241), la indica come figlia di un sovrano dello Jutland, o dell’Holstein, di nome Harald Klak. Saxo Grammaticus (1140-1210), un ecclesiastico danese che scrisse 16 libri dedicati alle Gesta Danorum, le attribuisce addirittura la fondazione del Danevirke, o Danawirk, un’imponente struttura militare, costruita per difendere lo Jutland dalle eventuali incursioni franche. Fonti archeologiche hanno mostrato che, al momento della nascita di Thyra, le fortificazioni erano in realtà già esistenti, ed è probabile che esse fossero state innalzate agli inizi dell’VIII secolo: analisi dendrocronologiche hanno infatti permesso di collocare alcuni segmenti della «muraglia danese», formata da terra e legno, all’interno di una «forbice» che va dal 737 al 968. La storia, infine, si confonde con le leggende norrene, quando si legge che una figlia di Thyra sarebbe stata rapita addirittura dal popolo dei Troll e condotta, suo malgrado, nelle terre del Nord, in un regno fanta-

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scoperte germania stico e molto lontano, posto tra i territori di Hålogaland e Bjarmaland, le province piú settentrionali delle terre norvegesi citate nelle saghe norrene. Poco altro sappiamo sul giovane Aroldo ed è comunque singolare che le fonti non lo ricordino per la bellezza, per l’eloquenza, o per la forza, caratteristiche ricorrenti nelle descrizioni idealizzate dei sovrani. Disponiamo invece di qualche notizia sui suoi congiunti. Nelle saghe scandinave, la sorella Gunhilde viene ricordata come «la piú bella fra le donne, ma di piccola statura». Il fratello maggiore, Canuto, il favorito del re Gorm, viene celebrato nella saga di Olaf Tryggvason come «l’uomo piú bello mai visto». La sua bellezza doveva essere talmente famosa da fargli meritare l’appellativo di «Dana-ast», «l’amore delle Danesi». Tryggvason, che si dilunga sulla bellezza del fratello maggiore, attribuisce invece ad Aroldo altre qualità, ereditate dal ramo materno, ma non le nomina. Secondo

la Saga di Knytlinge, né Aroldo, né suo padre erano particolarmente saggi. Dente Azzurro doveva però possedere altre doti. Il contemporaneo Widukindo lo descrive «desideroso di ascoltare, piú che di parlare»: forse era un re piccolo di statura (come la sorella), non particolarmente muscoloso, ma capace di farsi amare dai sudditi, piú che per la forza, per il saper ascoltare, comprendere e risolvere.

Erede al trono

Fattosi adulto, Aroldo proseguí l’opera di ricostruzione delle chiese cristiane cominciata dal padre, su indicazione della pia regina Thyra. Essendo rimasto l’unico pretendente, salí al trono alla morte di Gorm il Vecchio, verso il 931 o, secondo altri, vent’anni piú tardi, nel 958. Sulla morte del fratello maggiore, primo erede al trono, le fonti discordano. Saxo Grammaticus narra che Canuto sarebbe stato ucciso, durante l’assedio di Du-

Jelling

Il posto delle pietre Il paesino di Jelling, poco piú di 5000 anime, è un luogo molto famoso in Danimarca, in quanto è la culla di due grandi pietre incise con rune e che sono una sorta di certificato di nascita della nazione scandinava. Esse risalgono ai tempi di Gorm e di Aroldo, e riportano brevi testi in danese antico. Tutto il sito era circondato da un doppio recinto e da una lunga palizzata: pietre infisse nel terreno creavano una serie di percorsi obbligati, che conducevano ai due colli artificiali che si ergevano al centro dell’area protetta. La pietra di Gorm, la piú antica e la piú piccola di dimensioni (1,85 x 1,07 m), riporta il piú antico testo che un re danese abbia lasciato inciso. Esso recita come segue: «Re Gorm, fece questo monumento in memoria di sua moglie Thyra, orgoglio della Danimarca». Si tratta della prima citazione storica in cui la Danimarca viene nominata quale entità politica. La pietra di Dente Azzurro, invece, fu commissionata dal re nella seconda metà del X secolo. Ha dimensioni ben piú grandi (2,43 x 2,90 m) e

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ospita un testo piú complesso e due disegni: un animale che lotta contro un serpente e, in un altro registro, la piú antica raffigurazione di Cristo in area scandinava. Non è stato ancora stabilito se la lotta contro il serpente sia un primo stemma pre-araldico della stirpe di re Canuto, anche perché il tema della lotta contro il rettile è uno dei temi iconografici piú antichi e diffusi. Il testo poi, in antico danese, è per la prima volta redatto in senso orizzontale, anziché verticale, a differenza degli altri testi, vergati in alfabeto runico.

Nella stele si legge: «Re Aroldo ordinò che fosse fatto questo monumento in onore di Gorm, suo padre, e di Thyra, sua madre; quell’Aroldo che regnò sull’intera Danimarca e Norvegia e che convertí i Danesi al cristianesimo». Le pietre sono oggi protette da una struttura in bronzo e, nel 1994, sono state inserite dall’UNESCO fra i beni del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Un destino sicuramente piú dignitoso, rispetto ai secoli passati: la Pietra di Gorm, infatti, veniva utilizzata niente meno che come panca nella chiesa di Jelling. giugno

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Nella pagina accanto Jelling. Alcune delle pietre runiche custodite all’esterno della chiesa locale.

In basso, a destra particolare della pietra runica di Jelling sulla quale corre la dedica di Aroldo Dente Azzurro.

blino, da una freccia scagliata personalmente dal re irlandese, mentre oziava nel bosco con alcuni amici. Olaf Tryggvason, invece, racconta di una spedizione verso il Northumberland dei due fratelli, finita in tragedia per la morte di Canuto in mare, durante una nuotata rilassante. Entrambi i racconti presentano aspetti comuni: la morte sarebbe sopraggiunta durante una spedizione militare contro le isole britanniche e il primogenito di Gorm sarebbe stato ucciso da una freccia durante un momento di tregua. Aroldo Dente Azzurro assunse il potere a Jelling e iniziò a dominare anche su Sjælland e sul resto della Danimarca, forte dei possedimenti avuti dal ramo materno. Grazie all’alleanza con il norvegese Haakon Jarl, il nuovo sovrano, benché per un breve periodo, regnò anche sulla Norvegia. Stando alla Historia Norvegiae, sua sorella Gunhilde era andata in sposa a Erik, il Sanguinario, alla cui morte in battaglia, la donna (insieme ai suoi numerosi figli) trovò riparo nelle Isole Orcadi: il governo del marito, considerato l’epiteto, non era stato certo ben visto dai Norvegesi. Ma proprio da queste isole, i nipoti di Dente Azzurro tornarono in Norvegia, spartendosi con lo zio il regno, precipitato nel caos. Aroldo non si fermò qui, ma continuò la sua politica espansiva nei territori dell’Anglia orientale e della Northumbria, quest’ultima già caduta in precedenza sotto il controllo di Erik. Cosí facendo, riuscí a unificare regni e popoli diversi. Aroldo intuí la necessità di unire il territorio da lui controllato almeno dal punto di vista religioso: il Paese era infatti diviso tra zone pagane e altre di recente conversione, comprendenti un crogiuolo eterogeneo di popoli, lingue e tradizioni diverse.

un nomignolo misterioso

Storie di carie e di mirtilli... Perché mai Aroldo I di Danimarca fu soprannominato «Dente Azzurro»? La risposta non è univoca, né, tantomeno, certa. Alcuni studiosi propongono che avesse un dente cariato o comunque soggetto a una necrosi endodontica trascurata, malattia che può procurare alterazioni cromatiche. Altri affermano che forse, ammesso che Aroldo fosse di carnagione piú scura e di capigliatura castana (ma non ci sono indizi in proposito), in mezzo a orde di uomini biondi con gli occhi azzurri, il colore della

sua dentatura potesse apparire bluastro... Altri ancora suggeriscono invece che il re fosse ghiotto di mirtilli. L’ipotesi che appare piú sensata è che Aroldo, come altri guerrieri vichinghi dell’epoca, fosse solito modificare il proprio aspetto, colorandosi il volto – e forse anche i denti – per apparire piú spaventoso, con una pianta, il guado (Isatis tinctoria), della famiglia delle Brassicacee (broccoli, cavoli, ecc.), le cui foglie, se macinate, producono appunto un colore blu intenso.

Difensore del cristianesimo

La conversione a un’unica fede poteva fare da collante e creare uno sfondo comune sul quale cercare di costruire una sorta di unità politica del regno danese. L’area scandinava fu interessata dall’evangelizzazione per alcuni decenni: vi giunsero numerosi missionari, fra cui il celebre sant’Ansgario, monaco benedettino di Corbie, detto «l’Apostolo dell’Europa del Nord». Fu lui a edificare la prima chiesa della Scandinavia e poi, dopo aver ricevuto il vescovado della città di Amburgo (831) da Ludovico il Pio, venne inviato da papa Gregorio IV in ambasciata presso gli Scandinavi e gli Slavi del Nord. A lui si deve anche la conversione del re di Svezia, Olaf. Ciononostante, il suo operato non fu molto incisivo: alla sua morte (865), Rimberto ne proseguí l’opera, ma, alla fine del IX secolo, le istituzioni cristiane impiantate

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scoperte germania Tutti i soprannomi dei Vichinghi

Denti, barbe e piedi scalzi Se il soprannome di Aroldo può forse farci sorridere, doveva essere prassi piú che frequente tra i Vichinghi quella di preferire nomignoli a volte buffi e originali ai nomi imposti dai genitori. Aroldo, lo abbiamo visto, si meritò l’epiteto di Dente Azzurro, ma non andò meglio ad altri re di Danimarca. Verso la fine del IX secolo dovette regnare Sigfrido Serpente nell’Occhio, seguito da Olaf Lo Sfacciato, figlio del tragicomico Ivar Senz’Ossa, fratello di Sigfrido. In Norvegia, tra Nella pagina accanto replica di una pietra runica nel Museo Vichingo di Hedeby, località dello Jutland oggi in Germania.

il IX e il X secolo, la situazione non migliora: annoveriamo infatti Aroldo Bellachioma, Erik Ascia Insanguinata e Aroldo Pelle Grigia. Ricordiamo poi Sven Tveskæg, re di Danimarca, Inghilterra e Norvegia, il cui nome significa Barbaforcuta. Fu il primo a ricevere il battesimo di rito cattolico e regnò per un ventennio a cavallo dell’anno Mille (986-1014), dando vita, per un breve periodo, a un dominio danese del Mare del Nord. Tra i vari sovrani norvegesi anche

Magnus Barfot (1073-1103) merita la nostra attenzione. Il suo soprannome, barfot o berrføtt, significa infatti Scalzo o Gambe nude ed è considerato connesso al suo modo di vestire in stile gaelico, lasciando la parte inferiore delle gambe scoperta: stiamo parlando dell’antesignano del kilt, il tradizionale abito scozzese. Secondo un’altra teoria, invece, re Magnus assunse questo soprannome poiché aveva l’abitudine di camminare a piedi nudi.

A destra piastra in oro con il battesimo di Aroldo Dente Azzurro da parte del monaco Poppo. XI sec. Copenaghen, Museo Nazionale.

attualità di un epiteto

«Patrono» della comunicazione Ad Aroldo «Dente Azzurro», Harald Blåtand (Harold Bluetooth in inglese) si deve il nome dello standard Bluetooth, da noi tutti ormai utilizzato per mettere in comunicazione telefoni cellulari, computer e tablet. Ma perché, mille anni dopo l’epopea vichinga, la società Ericsson decise di battezzare cosí questo sistema? Siamo alla metà degli anni Novanta e le maggiori aziende di informatica cercano un’alternativa alla comunicazione seriale su cavo, utilizzando una tecnologia wireless a corta distanza. Tra tutte, ad avere l’intuizione è appunto la Ericsson, che mette a disposizione una tecnologia che da allora è in uso su ogni sistema. Questo nuovo standard multimediale aveva bisogno di un nome, e anche qui non mancò l’originalità: sembra che l’idea sia venuta nel 1996 a Jim Kardach, ingegnere della Intel, il quale, in fase di studio e di sviluppo, stava leggendo The Long Ships di Frans Gunnar Bengtsson, un romanzo storico sugli uomini del Nord. Fra i personaggi del libro compare proprio il

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re Aroldo, cioè il nostro «Dente Azzurro». L’ingegnere ne propose il soprannome facendo riferimento alla sua particolare abilità diplomatica, che gli aveva permesso di unire diversi popoli scandinavi, introducendo nell’area nordica la religione cristiana. Gli esperti di marketing giugno

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tramandato dalle fonti, era un abile oratore, provvisto di buone doti diplomatiche, oltre che uno stratega: riuscí infatti a riunificare tutti sotto il suo regno grazie all’imposizione del cristianesimo, facendo leva sul sentimento religioso, ma anche sull’azione di ricostruzione di chiese che, in precedenza, lui e suo padre avevano saccheggiato e distrutto. La sua opera unificatrice segnò in modo radicale la storia di tre Paesi: Svezia, Norvegia e soprattutto Danimarca. E non è escluso che in questo operato abbiano avuto un ruolo anche le mogli di Aroldo: Gyrithe e Tove, «colei che fece grande la città di Kuml», come recita un’altra pietra runica. Iniziato da Gorm e proseguito da Aroldo, il processo di conversione durò circa 25 anni: nel 960 la Danimarca si presentava ormai all’Europa come un Paese cristiano. Per completare il suo progetto politico-religioso, Dente Azzurro accettò di ricevere il battesimo, ma riuscí a ritardare l’evento sino al 970, consolidando nel frattempo la fede del proprio popolo. da Ansgario, declinarono rapidamente. La conversione aveva in realtà toccato solo pochi mercanti vichinghi senza attecchire in profondità: la strada per una cristianizzazione della Danimarca era ancora lunga. Ad adoperarsi in tal senso fu proprio Dente Azzurro. Con ogni probabilità, Aroldo, a dispetto di quanto

devono avere allora ritenuto che, oltre a suonare bene, fosse un nome adatto per un protocollo il cui scopo era quello di mettere in comunicazione dispositivi diversi e appoggiarono la proposta. Ma la Ericsson doveva proporre anche un’icona, un simbolo con il quale identificare questa nuova tecnologia. E cosí, rimanendo in tema vichingo, fu proposto (ed è quello che tutti noi conosciamo), un monogramma che unisce le rune nordiche Hagall e Berkanan, che corrispondono ai moderni grafemi della H e della B, le iniziali di Harald Blåtand. L’unione delle due rune allude, infine, in modo piú che efficace, all’idea che è alla base del sistema: mettere insieme e far comunicare milioni di dispositivi, costruiti da decine di aziende diverse in giro per il mondo. L’accordo che negli anni Novanta ha condotto a una compatibilità fra prodotti diversi fu una grande idea: per una volta, anziché attendere il prevalere di un prodotto sugli altri, con un ovvio periodo di incomunicabilità non facilmente prevedibile, si preferí adottare una tecnologia comune.

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giugno

Gli ultimi anni

Secondo alcune fonti Aroldo trascorse gli ultimi anni di vita combattendo contro un proprio figlio, Sven Barbaforcuta (Sven Tveskæg), forse avuto da una contadina, tal Aesa, «di grande statura e piuttosto mascolina». Sembra infatti che questi lo avesse deposto, costringendolo a riparare presso gli Slavi, dove poco dopo morí. Nell’XI secolo, Adamo di Brema descrive gli ultimi giorni di vita di Dente Azzurro: «In questa guerra, che è peggio di una guerra civile, Aroldo e i suoi subirono molte perdite. Lo stesso re fu colpito gravemente e fuggí dal campo di battaglia», riparando nella leggendaria città di Jomsborg, che raggiunse con una barca. Pochi giorni dopo il re cristiano, accolto con grandi onori dagli Slavi – pur pagani –, spirò a causa delle gravi ferite: sul suo epitaffio si legge che «dopo il giorno di Natale, mentre scriviamo, nell’anno 980 [Aroldo] meritò di scalare i gradini del polo». Attorno alla sua tomba, posta in una chiesa da lui fatta edificare e dedicata alla Santissima Trinità, iniziarono a prodursi prodigi e miracoli, in particolare guarigioni di non vedenti. Nel 1634 Giovanni Adolfo Cupreo, negli Annales Episcoporum Slevicinensium, ne ricordava la commemorazione il 1° novembre, data dell’eventuale martirio. Cesare Baronio, infatti, ritenne la sua morte in battaglia pari a quella di un martire, ucciso dal figlio pagano, Barbaforcuta, in difesa della giusta fede cattolica. Ma i Bollandisti, un gruppo di eruditi dedito alla compilazione degli Acta Sanctorum, attivo dal XVII secolo, pur riconfermando la data, si astennero dall’attribuirgli i titoli di santo e persino di martire. Dente Azzurro dovette dunque trascorrere i suoi ultimi anni lontano dalla Danimarca e ciò potrebbe spiegare perché la scoperta del suo tesoro sia avvenuta sull’isola di Rügen, in Germania, e non nel Paese scandinavo. F

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battaglie campi catalaunici 20 GIUGNO 451

Gli ultimi

fuochi

di Federico Canaccini

La piana dei Campi Catalaunici, nei pressi dell’odierna Troyes, in Francia, fu teatro di una delle ultime grandi vittorie romane. A farne le spese fu l’uomo che, in quegli anni, seminò terrore e sgomento in tutto l’Occidente: Attila, il capo degli Unni capace di portare le sue truppe fin sotto le mura della stessa Roma

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el corso del V secolo d.C., sotto le continue pressioni di popoli germanici, la geografia politica dell’Occidente romano iniziò a trasformarsi rapidamente: ma già alla metà del IV secolo le pressioni di Franchi, Alemanni e Sassoni sulla frontiera del Reno avevano costretto gli imperatori Giuliano l’Apostata e Gioviano a scendere in campo e affrontare in battaglie campali gli eserciti di orde di tribú barbariche. Ciononostante, le autorità romane non poterono impedire che gruppi di Franchi si insediassero in modo stabile a sud delle foci del Reno, in un’area chiamata Toxandria (l’odierno Brabante olandese). E, agli inizi del V secolo, la provincia di Britannia fu la prima a essere abbandonata al proprio destino. Dal 413 d.C. i Visigoti avevano sciamato per i Balcani, raggiungendo poi l’Italia per insediarsi stabilmente nella Gallia sud-occidentale, dopo aver stipulato un trattato con il patrizio Costantino, che riconobbe loro l’altisonante titolo di hospi-

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Attila, seguito dalle sue orde barbariche, schiaccia l’Italia e le arti, olio e cera su intonaco di Eugène Delacroix. 1838-1847. Parigi. Palais Bourbon. Nel 452 le truppe del «flagello di Dio» giunsero fino alle porte di Roma, dopo le scorrerie nel resto dell’Italia settentrionale.

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battaglie campi catalaunici MARE DEL NORD

GLI UNNI E ATTILA

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Territorio direttamente sottoposto ad Attila Confine dell’impero romano sotto Diocleziano (284-305)

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Divisione dell’impero da parte di Teodosio (395)

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IMPERO D’ORIENTE T

tes. Negli stessi anni, intere regioni della penisola iberica erano oramai passate sotto il controllo di Alani, dei Vandali Asdingi e Silingi e degli Suebi. Nelle attuali regioni dell’Alsazia e del Palatinato si erano stabiliti folti gruppi di Alamanni.

Eserciti a confronto

In un clima fatto di paure, insicurezze e trasformazioni violente, nel giugno del 451 d.C., poco lontano dall’odierna Troyes, in Francia, due enormi eserciti si diedero battaglia. L’uno era composto da una coalizione di Romani e Germani, al comando del generale Ezio (vedi box a p. 47); l’altro era formato principalmente dalle orde unne, guidate dal leggendario Attila (vedi box alla pagina accanto). Lo scontro, passato alla storia come battaglia dei Campi Catalaunici, viene da sempre visto come uno de-

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Nella pagina accanto, in alto ritratto di Attila, olio su tela di artista anonimo. XVII sec. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

gli spartiacque tra il mondo antico e il mondo medievale: Ezio, infatti, è stato a lungo considerato l’ultimo generale in grado di allestire un «esercito romano» e frenare l’onda travolgente degli Unni, i «piú barbari dei barbari»: il cronista Giordane, un goto romanizzato attivo nel VI secolo (vedi box a p. 46), quando deve descriverli, parla di «animali selvaggi, bestie a due zampe, semi-uomini che mangiano i loro vecchi, bevono il sangue e si nutrono della carne scaldata sotto le selle dei loro cavalli». Prima di lui, nel IV secolo, già Ammiano Marcellino, cronista ro-


Attila

Fu vero «flagello»? Poche e spesso mitiche sono le informazioni sul sovrano che governò sugli Unni dal 433 al 453, creando un vasto impero sorto grazie alla unificazione di varie tribú. Attila, il cui nome significa «piccolo padre», apparteneva a una importante famiglia delle tribú nomadi degli Unni che, già dalla fine del IV secolo, avevano raggiunto il Danubio. Il suo predecessore, nonché suo zio, re Rua, riceveva annualmente un considerevole tributo pagato dall’impero d’Occidente. Nel 433 Attila ereditò la corona assieme al fratello Bleda, del quale si sbarazzò nel 445, rimanendo unico khan degli Unni e avanzando verso l’Illiria, saccheggiando e devastando le province comprese tra il Mar Nero e il Mediterraneo. Le truppe del «flagello di Dio», epiteto con cui fu presto identificato, giunsero sino alle mura di Costantinopoli, ma non conoscendo le tecniche ossidionali, non riuscirono

a conquistarla. Dopo aver imposto un tributo annuo a Teodosio, Attila sottomise truppe di Ostrogoti e, alleatosi con Genserico re dei Vandali, invase la Gallia nel 451, attraversando il Reno all’altezza dell’attuale Coblenza. A questo punto si scontrò con Ezio e venne sconfitto, dovendo riparare sin oltre il Reno. L’anno seguente riprese le scorrerie in Occidente, giungendo a devastare Aquileia, Verona, Vicenza, Bergamo e spingendosi fino alle porte di Roma, dove papa Leone I lo convinse a una tregua, probabilmente dietro pagamento di un lauto tributo. Il khan si ritirò dall’Italia, e riattraversò le Alpi, anche per il timore di trovarsi alle spalle l’esercito dell’imperatore Marciano. Nel 453 era in Pannonia, da cui si preparava per una nuova offensiva, quando morí. Il suo impero si disgregò rapidamente per le lotte di successione. che scoppiarono tra i suoi numerosi figli.

Miniatura raffigurante Attila e la sua corte, da La guerra d’ Attila di Nicola da Casola. XIV sec. Modena, Biblioteca Estense.


battaglie campi catalaunici mano, li aveva definiti come «i piú temibili fra tutti i guerrieri», sottolineandone l’abilità in battaglia. A ben guardare, però, le due armate che si fronteggiavano nelle pianure della Champagne, erano tutt’altro che distinguibili. Se si escludono i buccellarii che componevano la guardia personale del condottiero Ezio (milizie private che prendono nome da bucellum, pane, poiché chi li assoldava provvedeva anche al loro vitto, n.d.r.), unici eredi dell’antica tradizione imperiale, e che sventolavano le bandiere col chi-rho (il cristogramma), i due eserciti erano entrambi composti da contingenti tribali, ciascuno sotto il personale comando del suo capo, armati secondo le usanze

del popolo di origine e addestrati a combattere secondo modalità proprie. Se le schiere di Attila comprendevano, oltre ai suoi Unni, i Gepidi di Ardarico, gli Ostrogoti di Valamiro e Teodomiro e alcuni gruppi di Franchi, Sarmati e Turcilingi, Ezio, oltre ai succitati buccellarii, era attorniato dagli Alani di Sangibano, dai Visigoti di Teodorico I e da numerosi gruppi di Franchi, Svevi e di molti altri piccoli gruppi barbarici che di usi romani avevano ben poco.

In cerca di un equilibrio

Già ad Adrianopoli, nel 378 d.C., i Romani avevano affrontato una coalizione che comprendeva Unni, Alani, Ostrogoti e Visigoti e la battaglia che si combatté presso Troyes

non aveva certo l’obiettivo di salvare l’impero romano, ormai già sgretolatosi sotto i ripetuti colpi germanici e la creazione di nuove realtà politiche. Per la storiografia romantica, in quel giugno del 451 la barbarie sarebbe stata finalmente arrestata da Roma, ma se consideriamo le composizioni degli eserciti poc’anzi elencati, si tratta di una lettura oggi non piú sostenibile. La battaglia dei Campi Catalaunici puntava innanzitutto a creare un equilibrio tra Roma e le varie tribú barbare ormai insediatesi entro gli antichi confini imperiali al di qua del Reno, e, in particolare, nel territorio delle province di Germania, Belgica, Lugdunese, Aquitania e Narbonese, da tempo ampiamente interessate

Xilografia di Felix Philippoteaux raffigurante il vescovo di Troyes, Lupo, che convince Attila a risparmiare la città e a ritirarsi, dall’Historie populaire de la France di Charles Lahure. 1866.


ATTILA IN GALLIA 451 D.C. Reno

città saccheggiata

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città minacciata

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Cambrai Amiens Beauvais Parigi

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dalla presenza di gruppi di Germani di varia provenienza. L’eventuale successo degli Unni avrebbe ulteriormente complicato il difficile mosaico che Ezio e la corte di Ravenna tentava invece di comporre. Attila, infatti, fu il primo khan unno a rivolgere le proprie attenzioni alla parte occidentale dell’impero, dopo aver ottenuto pagamenti dalla pars Orientis. Una volta attraversato il Reno, si diresse verso la città di Aurelianum (l’odierna Orléans) che fu posta malamente sotto assedio: il fallimento era probabile per la totale inesperienza di tecniche ossidionali da parte della coalizione unno-ostrogota. Dopo le prime incursioni del III secolo, al pari delle altre città

Romani, Visigoti e loro alleati

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Unni e loro alleati

l’immaginario collettivo

Al «servizio» di Cristo? «Attila» e «unno» sono oramai divenuti, nell’uso quotidiano, sinonimo di violento, barbaro, distruttore. Il khan divenne ben presto protagonista di leggende e miti: compare infatti in vari poemi medievali, come il Waltharius, il Nibelungenlied e l’Edda, sotto il nome di Etzel. Ora viene descritto come saggio e mite, ora invece come crudele, violento, il «flagello di Dio». Su questa terrifica definizione, però, le opinioni divergono: oltre alla ovvia interpretazione del devastatore del mondo cristiano, vi è quella secondo la quale il «flagellum» sarebbe lo staffile, cioè lo strumento con cui venivano puniti i cristiani per le loro mancanze e le loro divisioni. Attila, dunque, sarebbe uno strumento divino per riportare i cristiani sulla retta via: del resto, secondo una leggenda dell’epoca, Cristo in persona avrebbe promesso ad Attila corone e allori, nel caso in cui avesse deciso di non attaccare la Città Eterna. Fu certamente per questo motivo che il condottiero ungherese Mattia Corvino, alla metà del XV secolo, impegnato in Ungheria a respingere le truppe ottomane, dopo la caduta di Costantinopoli, fu orgoglioso di fregiarsi del titolo di «Secondo Attila», associando definitivamente all’Ungheria il khan e le gesta del popolo unno.

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battaglie campi catalaunici

Cosí parlò Giordane

Tutti volevano combattere Lo storico Giordane, vissuto un secolo dopo gli eventi, scrisse verso il 550 un riassunto della perduta Storia dei Goti di Cassiodoro e i Getica, servendosi di un manoscritto appartenente alla famiglia del grande erudito romano. Cosí scrive sugli anni dei Campi Catalaunici: «Il desiderio di combattere si impadronisce di tutti: ormai ci si augura di avere gli Unni per nemici. Teodorico muove pertanto alla testa d’una innumerevole moltitudine di Visigoti conducendo con sé, partecipi delle fatiche della campagna, i due figli piú grandi, Torismondo e Teodorico, mentre gli altri quattro, cioè Friderico, Turico, Rotmero e Immerito, rimangono in patria. (…) Da parte romana poi, la preveggente attività del patrizio Ezio, su cui allora poggiava l’Impero romano

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d’Occidente, fu tale da permettergli di marciare contro quella feroce e innumere turba di nemici con forze non inferiori, riunite da ogni parte. Infatti i Romani potevano contare su contingenti di Franchi, di Sarmati, di Armoricani, di Liziani, di Burgundi, di Sassoni, di Ripuari, di Ibrioni, un tempo soldati dell’Impero, ma ora richiamati solo come ausiliari, e su truppe di altre stirpi celtiche o germaniche. Il concentramento ebbe luogo ai Campi Catalaunici, detti anche Maurici che si estendono per cento leghe in lunghezza e settanta in larghezza: angolo di mondo, divenuto arena d’innumerevoli genti. I due eserciti si fronteggiarono, entrambi al massimo della tensione: rinunciando a ogni sotterfugio, la battaglia fu campale».

Incisione di Matthäus Merian che raffigura la morte di Teodorico I, re dei Visigoti, nella battaglia dei Campi Catalaunici, dall’Historische Chronica di Johann Ludwig Gottfried. 1630.

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ezio flavio

Una presenza ingombrante Nato in Mesia, l’attuale Bulgaria, alla fine del IV secolo, da un magister militum, Ezio venne consegnato come ostaggio da Onorio al re dei Visigoti, Alarico I. In quella circostanza, ebbe modo di conoscere gli usi di alcuni popoli barbarici, tra cui gli Unni. Alla morte di Onorio, il suo successore, l’usurpatore Giovanni, richiese l’aiuto di Ezio e di truppe unne. Ma quando il giovane condottiero tornò, trovò un panorama molto diverso: l’imperatore d’Oriente, Teodosio II, aveva infatti rovesciato l’usurpatore, imponendo come reggente di suo figlio, la sorella, Galla Placidia. Forte delle truppe unne che lo accompagnavano, Ezio ottenne il titolo di generale della Gallia e sconfisse ripetutamente i Franchi e i Visigoti. Dopo questi successi, nel 425, Galla Placidia lo nominò patricius e magister utriusque militiae, titoli che ne fecero il personaggio piú potente dell’Occidente romano. In tale veste, Ezio tentò di imporre nuovamente l’autorità imperiale in Occidente, sia con campagne contro i popoli germanici, sia con trattati e atti diplomatici, volti ad assicurare l’equilibrio fra i vari popoli barbari, e fra questi ultimi e i Romani. Nel 437, sconfisse i Burgundi sul Reno e, nel 451, presso i Campi Catalaunici, batté i suoi vecchi alleati, gli Unni di Attila. Già dalla morte di Galla Placidia (437), però, l’imperatore Valentiniano III, probabilmente preoccupato e spaventato

dal potere e dal prestigio accumulati, iniziò a tramare contro Ezio e, dopo il suo insuccesso con gli Unni (452-3), che giunsero sino alle porte di Roma, lo fece uccidere su istigazione del funzionario di palazzo, Petronio Massimo, nel corso di un’udienza sul Palatino. Ezio Flavio in un’incisione conservata presso la Biblioteca Nazionale Austriaca di Vienna. Inizialmente ostaggio dei Visigoti, Ezio, dopo numerose vittorie contro Franchi e Visigoti, acquistò importanza e titoli sotto Galla Placidia. Sconfisse Attila ai Campi Catalaunici.

Gepidi e Germani

BATTAGLIA DEI CAMPI CATALAUNICI

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Alani e Germani

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Visigoti

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dell’impero, anche Aurelianum, difesa dagli Alani di re Sangibano, era stata munita di bastioni e merlature all’avanguardia. Cosicché, alle notizie che di lí provenivano, Ezio fece muovere il proprio variopinto esercito, col fine di indurre Attila a una battaglia in campo aperto, un tipo di confronto poco amato dagli Unni che, secondo le tradizioni mongoliche, prediligevano una tattica basata sugli agguati e la guerriglia. Il capo unno effettivamente rinunciò all’assedio, e si diresse verso nord, attraversando la Senna, tallonato dalle truppe di Ezio. I primi a pagare la maggiore esperienza militare del nemico furono gli alleati Gepidi, lasciati da Attila come retroguardia sulla Senna, che vennero annientati di notte da un’azione fulminea delle truppe di Ezio. I so-

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battaglie campi catalaunici

pravvissuti, al comando di Ardarico, raggiunsero il grosso dell’esercito, che si preparava oramai allo scontro. Attila schierò le proprie truppe, che ammontavano a 30-40 000 uomini circa, tra la Mosa e la Marna: al centro si pose egli stesso, con i suoi Unni, mentre a destra dispose gli Ostrogoti di Valamiro e, a sinistra, i Gepidi di Ardarico. Di fronte a queste schiere, Ezio dispose le proprie truppe, portandosi all’ala destra, con la sua guardia del corpo, con i Franchi e i Burgundi. Al centro fece schierare i poco

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affidabili Alani di Sangibano, controllabili dalle due ali, comandate da Ezio in persona, e da Teodorico con i suoi Visigoti. Nascosti su di un colle boscoso, alla destra dell’intero schieramento, Ezio fece infine nascondere un ulteriore drappello di Franchi e di arcieri goti.

Una tattica rudimentale

La battaglia ebbe inizio, come consuetudine per gli Unni, con una serie di rapide cariche di cavalleria lanciate contro il centro dell’esercito nemico, e seguite da scariche di frec-

ce scagliate dagli arcieri a dorso dei loro piccoli, ma rapidi cavalli delle steppe. Gli Unni, come tutti i popoli barbarici, usavano una tattica piuttosto rudimentale: la loro strategia era infatti quella di disporsi a cuneo e di lanciarsi all’assalto dell’avversario cosí da spezzarne al primo urto lo schieramento. Se però la prima carica incontrava una resistenza piú che decisa, il loro ripiegamento era confuso e disordinato, facile obiettivo dei piú disciplinati romani. Sangibano e i suoi Alani, dopo il primo terribile urto, vacillarono ma, giugno

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In alto facsimile di una miniatura raffigurante le cicogne che, volando via dalle mura, avrebbero indotto Attila a prendere Aquileia e l’incontro del re unno con papa Leone. A sinistra incisione raffigurante Attila dopo la battaglia dei Campi Catalaunici.

contrariamente ai sospetti di Ezio, tennero le posizioni e reagirono, ingaggiando un terribile corpo a corpo. Attila mosse allora all’attacco, coinvolgendo il centro e l’ala destra degli Ostrogoti, che andò a cozzare contro le truppe visigote di Teodorico. Nonostante la morte del re visigoto, suo figlio, Torismondo, riuscí a mantenere il controllo delle fila, ricacciando la cavalleria nemica, per poi ripiegare verso il centro, in sostegno di Sangibano e dello stesso Ezio. Il centro dell’esercito unno si trovava ora in una posizione molto

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pericolosa poiché il fianco destro era ormai scoperto, a causa della disfatta degli Ostrogoti di Valamiro, e l’ala sinistra dei Gepidi veniva rintuzzata dagli Alani, che avevano ricevuto ora il rinforzo dei Franchi e dei buccellarii di Ezio. Attila rischiava cosí una manovra di accerchiamento e, vedendo approssimarsi le truppe di cavalieri ostrogoti, oramai vittoriosi su Valamiro, preferí ritirarsi, portandosi nell’accampamento protetto dagli arcieri. Ezio mandò i suoi all’inseguimento degli Ostrogoti, respingendoli verso sud, e rinunciando ad assediare gli Unni, asserragliatisi nell’accampamento. Attila però, ormai sconfitto, si vide costretto a rinunciare al proprio progetto di invasione e sottomissione della Gallia.

Nuovi scenari

In Occidente, la vittoria della coalizione guidata da Ezio favorí la creazione di tre territori sotto il controllo di Visigoti, Franchi e Alani, che spesso diedero vita a conflitti intestini. Dopo un secolo, il panorama era fortemente mutato. Gli Alani ottennero la Lusitania e la zona costiera della regione cartaginese: alla morte del loro sovrano Attaco, sconfitto dai

Visigoti, passarono sotto il controllo del re vandalo Gunderico, del quale seguirono i successi in Nord Africa. I Visigoti sottomisero la provincia iberica e crearono un solido regno con capitale Tolosa, che comprendeva l’Aquitania e la Settimania. Nella prima metà del VI secolo, furono però i Franchi a strappare ai Visigoti tutti i territori della ex provincia gallica (fuorché la Settimania), dando vita al regno franco, compreso oltre i Pirenei e il Reno, destinato ad avere un peso decisivo nella storia medievale e dell’Europa in generale. Nonostante l’insuccesso, il khan unno, per parte sua, si ripresentò sulla scena europea l’anno seguente. Ezio, questa volta, non riuscí a intercettare il contingente barbarico, e per Attila si aprirono le porte dell’Italia, nuovo obiettivo delle sue razzie. Caddero sotto i suoi colpi gloriose città romane, come Aquileia che, dopo la traumatica esperienza, non sarebbero piú tornate all’antico splendore. Gli abitanti della città friulana furono o passati a fil di spada, oppure ridotti in schiavitú e portati nelle lontane terre pannoniche. Chi riuscí a sfuggire trovò riparo nelle isole della laguna prospiciente: la futura Venezia. F

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restauri pisa

Quando la Morte si fa di Stefano Mammini

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Sulle due pagine veduta d’insieme, dopo il restauro, del Trionfo della Morte, affresco realizzato da Buonamico Buffalmacco per il Camposanto di Pisa. 1336-1341. In basso particolare dell’affresco raffigurante la Morte.

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Una delle piú potenti espressioni della pittura trecentesca, il Trionfo della Morte di Buonamico Buffalmacco, torna in questi giorni nel Camposanto di Pisa, là dove l’artista l’aveva dipinto. È la felice conclusione di una vicenda di restauro pluridecennale, che assicura finalmente un futuro duraturo a un’opera che, nella seconda guerra mondiale, rischiò d’essere distrutta per sempre

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scorrere le foto che documentano i disastrosi effetti dello spezzone incendiario che nel 1944 colpí il Camposanto di Pisa, sembra impossibile che il Trionfo della Morte di Buonamico Buffalmacco possa oggi essere ammirato nelle condizioni alle quali l’ha riportato il ventennale intervento di restauro che si è appena concluso. In quel luglio di oltre settant’anni fa, infatti, le fiamme avvolsero il tetto del monumento pisano, causando, in particolare, lo scioglimento del piombo impiegato nelle coperture, che cominciò a colare sulle pitture. A guerra finita, quando si poté finalmente intervenire, si decise di procedere al distacco degli affreschi, per poi restaurarli. Ma i mezzi e le metodologie allora disponibili erano destinati a rivelarsi non risolutivi e quella prima operazione, di fatto, si trasformò nell’inizio di una vicenda che soltanto adesso ha raggiunto una soluzione capace di garantire la conservazione dei dipinti.

Il Trionfo della Morte appartiene al ciclo che Buffalmacco – pittore fiorentino attivo nella prima metà del XIV secolo (vedi box a p. 59) – realizzò fra il 1336 e il 1341 e che comprende anche le Storie dei Santi Padri e il Giudizio Universale con l’Inferno. La grandiosa composizione si trova all’estremità orientale del braccio meridionale del Camposanto e fa parte del ricchissimo apparato decorativo dell’edificio, al quale lavorarono alcuni fra i piú insigni maestri del XIV e XV secolo, come Francesco Traini, Taddeo Gaddi, Spinello Aretino e Benozzo Gozzoli (vedi box alle pp. 56-57).

Come un museo

Un tripudio di forme e colori voluto come contorno delle illustri sepolture che via via trovarono posto all’interno del monumento. Una combinazione a cui, soprattutto noi moderni, dobbiamo la difficoltà di percepire questo luogo straordinario come un sepolcreto: superato l’ingresso, il Camposanto appare ai

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restauri pisa

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Nella pagina accanto, in alto due eloquenti immagini delle condizioni in cui il Camposanto di Pisa versava all’indomani dell’incendio, innescato dallo spezzone di una granata, scoppiato il 27 luglio del 1944.

nostri occhi come un museo dell’arte plastica e pittorica, per di piú racchiuso in un’architettura elegante e lineare al tempo stesso, capace di regalare, grazie al suo sviluppo longitudinale, fughe e prospettive affascinanti. Il Trionfo di Buffalmacco – che viene ricollocato nella sua posizione

originaria in questi giorni – si presenta come un racconto scandito in piú scene, ciascuna delle quali si rivela intrisa di signifcati simbolici e allegorici attentamente studiati. La prima occupa la parte sinistra dell’affresco ed è senza dubbio quella di maggior impatto: ne è protagonista un gruppo di giovani uomini e donne, vestiti con abiti eleganti e ricercati, impegnato in una battuta di caccia. In sella ai loro cavalli, si imbattono in tre bare scoperchiate, al cui interno vi sono altrettanti cadaveri, in differente stato di decomposizione: il primo, che si im-

magina deceduto da poco, presenta il ventre ancora gonfio per gli effetti del decesso; il cadavere del secondo ha invece perso gran parte della sua consistenza: il terzo, infine, è ormai ridotto al solo scheletro. La visione sgomenta, atterrisce e suscita il ribrezzo dei giovani, contagiandone anche le cavalcature: in particolare, il cavallo dell’uomo che si copre la bocca e il naso per il fetore, è ritratto in una posa analoga, con il collo proteso, le froge spalancate e il morso digrignato, in una smorfia di disgusto quasi umano piú che animale. Come detto, gli abiti e gli accessori suggeriscono l’elevato lignaggio del gruppo e la rappresentazione deve intendersi come un’allusione al fatto che la morte non risparmia nessuno e che dunque, quando il momento verrà, anche i ricchi e i nobili non potranno sottrarsi al proprio destino. Dal punto di vista estetico, vale la pena sottolineare la cura con cui Buonamico ha reso i dettagli della scena, come nel caso dei tessuti con cui risultano cuciti i vestiti o della foggia dei diversi capi, che rispecchia le mode allora piú in voga.

Particolari inediti

In questa scena si è peraltro registrata una delle nuove acquisizioni scaturite dall’intervento di restauro appena terminato, ovvero quella degli scorpioni sul corpo di uno dei tre defunti. La loro presenza è stata rivelata dalla ripulitura ed era rimasta a lungo sconosciuta, tanto che non compare nella documentazione d’archivio dell’affresco. La presenza dei piccoli animali rinforza verosimilmente la connotazione mortifeNella pagina accanto, in basso e qui a sinistra particolare, prima e dopo il restauro, della scena raffigurante un gruppo di eleganti giovani impegnati in una battuta di caccia. Si noti la cura nella resa dei dettagli, e in particolare degli abiti e degli accessori, che indicano l’elevato lignaggio dei protagonisti.

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restauri pisa il camposanto 1

«Appartato e chiuso» Il Camposanto, la piú singolare delle quattro architetture della piazza del Duomo (le altre, lo ricordiamo, sono la Cattedrale, il Battistero e la Torre Pendente) è stata anche l’ultima, in ordine di tempo, a essere costruita. Il cimitero monumentale coperto fu fondato nel 1277, come ricorda l’iscrizione che si trova presso il portale orientale, quando l’arcivescovo Federico Visconti dispose che i sarcofagi di epoca romana, reimpiegati come sepoltura dai Pisani illustri fin dall’Alto Medioevo, venissero rimossi dall’area della piazza del Duomo per essere spostati in luogo «appartato e chiuso». Si avviò cosí la creazione del Camposanto di Pisa. Ne fu incaricato l’architetto Giovanni, che Vasari ha erroneamente identificato con Giovanni Pisano, mentre si trattava di Giovanni di Simone, artefice dello Spedale Nuovo, oggi Museo delle Sinopie. Giovanni di Simone diresse i lavori della parte inferiore di facciata e la sequenza di arcate piene è quasi una citazione del linguaggio già introdotto da Buscheto nella Cattedrale. Vent’anni piú tardi, Giovanni Pisano intervenne effettivamente in Camposanto e sotto la sua direzione si completò il paramento murario esterno «dagli archi in su». Non solo: dopo di lui fu quasi certamente uno dei suoi

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In alto pianta schematica del complesso monumentale che va sotto il nome di Piazza dei Miracoli: 1. Camposanto; 2. Battistero; 3. Cattedrale; 4. Torre Pendente. In basso veduta della corte interna del Camposanto, che permette di apprezzarne le sobrie eleganti geometrie.

migliori allievi, Lupo di Francesco, a ultimare la facciata realizzando, a coronamento del portale d’ingresso, il tabernacolo che raccoglie il gruppo con Madonna col Bambino, angeli, santi e committente. Il gruppo è l’unico elemento plastico che entra in contrasto con l’austerità del lungo prospetto marmoreo, anticipando con eleganza la ricca decorazione dello spazio interno. Il Camposanto è concepito come una chiesa a tre navate, orientata a Est secondo le norme liturgiche, con un lato corto leggermente rialzato

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a simulare l’area presbiteriale. Ugualmente si presenta come un chiostro dalle ampie gallerie, che circondano uno spazio centrale dov’erano raccolti molti dei sarcofagi antichi reimpiegati come sepolture. L’architettura fu terminata nel corso del Quattrocento, quando si realizzarono le quadrifore, quel diaframma che come un ricamo di pietra separa l’interno coperto dall’esterno a cielo aperto. Oggi il visitatore che percorre i corridoi di questo maestoso edificio si trova a calpestare le lastre tombali che nei secoli si sono aggiunte a segnalare i sepolcri di Pisani illustri, soprattutto docenti dell’Ateneo o comunque esponenti delle classi piú agiate: notai, orefici, medici e speziali, ma anche maniscalchi e fabbri. Lunghe file di sarcofagi scandiscono il perimetro delle gallerie, offrendo una straordinaria panoramica di scultura antica, mentre a partire dal XVI secolo le pareti e i corridoi si popolarono di monumenti funebri sempre piú imponenti nelle dimensioni secondo il gusto dell’epoca. Rinnovamenti e aggiunte che forse sono all’origine della vocazione museale del Camposanto. Agli inizi dell’Ottocento il suo primo «conservatore», Carlo Lasinio (1759-1838), continuò a considerarlo il luogo di elezione per la raccolta non piú soltanto di sculture, ma anche di dipinti provenienti dai monumenti della piazza e da chiese e conventi cittadini. Per questa mescolanza di stili ed epoche, oltre che per il suo particolare fascino, il cimitero godette di un’eccezionale fortuna, divenendo meta privilegiata di viaggiatori europei e non solo. (red.)

In alto una delle figure di scorpione, venute alla luce grazie al recente restauro, dipinte da Buffalmacco su uno dei cadaveri che i giovani incontrano nel corso della loro battuta di caccia.

La serenità delle giovani in conversazione sembra voler almeno in parte stemperare i toni tragici della composizione ra del dipinto, stante la capacità di questi aracnidi di infliggere punture velenose con il proprio pungiglione. Nel settore centrale, il Trionfo assume contorni ancor piú tetri e al tempo stesso grotteschi, poiché vediamo alcuni storpi e mendicanti che chiedono sia posta fine alla loro esistenza terrena, come già è avvenuto agli uomini e alle donne – laici e religiosi – che giacciono davanti a loro. Su tutti, volteggia-

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no demoni alati che contendono agli angeli le anime dei trapassati. Ma, soprattutto, spicca la grande rappresentazione della Morte, alla quale Buffalmacco assegna i connotati tipici della sua iconografia, presentandola come una donna anziana, dallo sguardo torvo, che imbraccia una grande falce. Sulla destra, infine, immerse nel verde rigoglioso di un magnifico giardino, alcune giovani donne so-

no riunite in una serena conversazione, che sembra svolgersi lontano dai crudi eventi delle scene vicine, di cui le ragazze appaiono ignare o forse addirittura incuranti e che viene allietata dalle suonatrici che compaiono all’estrema destra. Qui, ancor piú che nella rappresentazione della battuta di caccia, si rileva la cura con cui l’artista ha voluto definire ogni particolare della composizione, regalando all’osservatore una vera e propria rassegna tessile, nella quale si succedono stoffe riccamente decorate e che ricadono con morbidi panneggi sui corpi delle ragazze. L’atmosfera risulta, nel suo insieme, quasi incantata, in un efficace contrasto con il resto dell’affresco.

Il lavoro dei monaci

Di non minore interesse è anche la porzione che occupa il quadrante superiore sinistro del Trionfo, nel quale si vedono vari monaci, assorti nella lettura e nella meditazione, ma anche, in un caso, nella mungitura di una cerbiatta. In questo caso, si tratta verosimilmente di un

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restauri pisa A sinistra il muso del cavallo di uno dei giovani cacciatori, spaventato dall’incontro con le bare in cui giacciono tre cadaveri.

riferimento agli obblighi lavorativi che le Regole monastiche spesso prevedevano, nel segno dell’ora et labora di benedettina memoria. E qui sarebbe stato particolarmente interessante poter leggere quel che era stato inserito sul foglio che il primo dei monaci spiega davanti al gruppo dei cacciatori: in questo caso, però, nemmeno il nuovo restauro ha potuto recuperare il disegno originario, fattosi illeggibile anche nel cartiglio retto dagli storpi che invocano la morte. È tuttavia verosimile credere che Buffalmacco avesse scelto testi o massime con cui rafforzare il senso del memento mori che l’intera rappresentazione esprime. Nonostante queste lacune, il bilancio dell’intera operazione è piú che positivo, non soltanto per il recupero del Trionfo della Morte, ma anche per l’adozione di soluzioni che A destra e nella pagina accanto particolare, prima e dopo il restauro, della scena raffigurante un gruppo di giovani donne, in un giardino, impegnate in una serena conversazione, allietata dalla musica prodotta da una suonatrice di salterio e da una suonatrice di viella.

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Buonamico Buffalmacco

Quel pittore che amava gli scherzi Attivo nella prima metà del Trecento, Buonamico Buffalmacco ha a lungo goduto di una fama letteraria almeno pari, se non superiore, a quella artistica. Il suo nome, infatti, ricorre negli scritti di vari autori – fra cui Boccaccio e Vasari –, ma, soprattutto, vive come fantasioso ideatore di scherzi: nel Decameron assume questi panni in compagnia di un altro noto artista giocherellone, il pittore Bruno, e, nel Trecentonovelle di Franco Sacchetti, è il protagonista assoluto di svariate burle. Nella stessa opera, però, Buonamico viene anche ricordato come uno dei piú grandi pittori fiorentini, ma questa e altre citazioni si sono rivelate a lungo insufficienti ad accreditarne i meriti e le opere presso la critica. Basti pensare che proprio i grandi affreschi realizzati per il Camposanto di Pisa, fino al 1974, venivano assegnati a un artista definito Maestro del Trionfo della Morte, e solo la proposta avanzata in quell’anno da Lorenzo Bellosi ha portato invece ad attribuirne la paternità a Buffalmacco. Decisiva in proposito, al di là delle considerazioni stilistiche, si è rivelata, fra le altre, la testimonianza di un altro grande

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artista di poco posteriore, Lorenzo Ghiberti, il quale scrisse che il pittore fiorentino «fece in Pisa moltissimi lavorij. Dipinse in Campo Santo a Pisa moltissime istorie». Un’affermazione corroborata dalla descrizione in versi delle pitture del Camposanto pisano scritta alla fine del Quattrocento da Michelangelo di Cristofano da Volterra, il quale riferisce che gli affreschi dipinti da Buffalmacco erano da ammirare tra quelli che ancora vi si potevano vedere prima dell’ultima guerra sulla parete est (dalla Crocifissione all’Ascensione) e sulla parete sud (dal Trionfo della Morte alle Storie di Giobbe). Fra le altre, vengono oggi riconosciute come opere di Buonamico Buffalmacco gli affreschi della cappella di S. Jacopo, nella Badia a Settimo, presso Firenze, un affresco frammentario raffigurante la Madonna con il Bambino e santi nel Duomo di Arezzo e due figure di santi che sono le sole superstiti di un ciclo con «istorie del testamento vecchio e molte istorie di Vergini», citato ancora una volta da Lorenzo Ghiberti, nella chiesa pisana di S. Paolo a Ripa d’Arno. (red.)

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restauri pisa

In alto due falconieri che fanno parte del gruppo impegnato nella battuta di caccia. A destra gli storpi e i mendicanti che invocano la Morte affinché prenda anche loro, come già ha fatto per i laici e i religiosi che giacciono nei pressi (vedi foto nella pagina accanto, in alto).

si avviano a fare scuola e a costituire precedenti preziosi per futuri interventi. Basti pensare per esempio all’utilizzo dei batteri per la rimozione della colla utilizzata in occasione dello strappo delle pitture. Si è trattato, fin dall’inizio, di una delle sfide piú difficili che l’équipe di restauro – guidata da Gianluigi Colalucci e Carlo Giantomassi, sotto la supervisione di Antonio Pao-

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lucci – ha dovuto affrontare, poiché sarebbe stato impossibile procedere con la rimozione meccanica, senza danneggiare il pigmento.

Batteri contro la colla

La soluzione è stata messa a punto dal microbiologo Giancarlo Ranalli, dell’Università del Molise, il quale ha individuato un batterio «mangiatore», capace appunto di fagoci-

A destra un monaco munge una cerbiatta, a ricordare come i religiosi dovessero dedicarsi anche ad attività lavorative, che dovevano conciliarsi con la preghiera e la meditazione. giugno

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A sinistra uomini e donne defunti, le cui anime sono destinate a essere prese dai demoni, ai quali cercano però di contenderle gli angeli (non visibili in questo particolare). Ancora una volta si può rilevare la cura nella resa dei dettagli, in particolare per quel che concerne l’abbigliamento dei personaggi.

tare il materiale organico. Si è così proceduto ad applicare sul dipinto, per cicli di tre giorni, questi micorganismi, che, dopo aver mangiato la colla, esaurivano il proprio ciclo vitale, permettendo quindi di intervenire sulla pellicola pittorica. A risolvere invece il problema della condensa che si sarebbe ripetutamente formata sull’affresco – ricordiamo che le opere, essendo collocate sotto i portici del Camposanto, si trovano di fatto all’aperto – è stato un team formato dall’ingegner Roberto Innocenti, da Paolo Mandrioli del CNR e dall’ingegner Giuseppe Bentivoglio, dell’Opera della Primaziale Pisana. La soluzione consiste nell’aver approntato un supporto del dipinto che si avvale di un sistema di retro riscaldamento: una rete di sensori, totalmente automatizzati, rileva ogni 10 minuti la temperatura e il grado di umidità e, quando sopraggiungono situazioni che possono dar luogo alla formazione della rugiada, la temperatura della superficie pittorica viene riscaldata, facendola salire di 2/3 gradi e mantenendola quindi asciutta. C’è di nuovo il calore, dunque, nella storia del Trionfo della Morte: ma questa volta, dal crepitio delle fiamme che quasi lo distrussero, si è passati al sottile ronzio degli apparati destinati a governare un tepore dolce e protettivo. F

Dove e quando Camposanto Pisa, piazza del Duomo 23 Info e orari il Camposanto e i monumenti della Piazza dei Miracoli (Torre Pendente, Cattedrale, Battistero, Museo dell’Opera del Duomo e Museo delle Sinopie) sono aperti tutti i giorni, con orari differenziati nel corso dell’anno: per il dettaglio, si può consultare il sito web dell’Opera della Primaziale Pisana: www.opapisa.it

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Tutti contro Annibale di Michele Orlando

Faenza. Un cavaliere in armatura sfila nel Corteo Storico del Palio del Niballo. Nella pagina accanto coppa maiolicata con raffigurazione di Annibale; sul cartiglio si legge ÂŤAniballoÂť. Bottega faentina, 1545-1550. Arezzo, Museo di arte medievale e moderna della Confraternita dei Laici.

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Faenza si accinge a celebrare il tradizionale Palio del Niballo. La festa e, in particolare, la gara che ne costituisce il momento culminante rinnovano tradizioni antiche e ampiamente documentate da fonti archivistiche e letterarie: un ritorno all’epoca dei Manfredi, ma anche l’evocazione di uno dei nemici storici della città romagnola

I I

l 28 giugno 1959, giorno della vigilia del patrono di Faenza, san Pietro apostolo, viene istituita nella città romagnola la prima edizione in età moderna del Palio del Niballo, celebrato ogni anno nella quarta domenica di giugno. Le cronache faentine ci informano, in realtà, dell’esistenza, lungo il corso dei secoli, di feste di segno cavalleresco o ludico-militare nella tipologia di giostre, corse del palio o semplici corse di cavalli berberi. Oggi come ieri, la giostra faentina esprime la sintesi di una cultura che riscopre la propria identità collettiva in una permanenza folklorica del passato e coinvolge lo spazio urbano: nella varia composizione del tessuto sociale e del gruppo dirigente, tra associazioni popolari, corporazioni o Arti, famiglie nobili e aristocrazia e loro consorterie, essa irrobustisce la tenuta complessiva della ripartizione in quattro quartieri o rioni, ereditati dall’impianto urbanistico della Faventia romana. Malgrado la frammentarietà della documentazione risalente all’età medievale, allo stato attuale degli studi è possibile stabilire con buona attendibilità il profilo genetico della festa del palio a Faenza. Sembrano acclarate le ascendenze all’imma-

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ginario cavalleresco medievale: un tipo di manifestazione, cioè, che tradisce una certa affinità con la cultura cortese franco-provenzale e borgognona stratificata a piú livelli nella società padana, soprattutto di ambito bolognese e ferrarese senza escludere l’area ravennate e faentina, per la presenza di feudi, piccoli principati, corti rurali.

Gli ideali cavallereschi

Si tratta, insomma, di spazi culturali e politici particolarmente sensibili al fascino degli ideali cavallereschi, ben conosciuti dalla cultura italiana settentrionale attraverso la mediazione borgognona, e che, nelle nuove esperienze comunali, rivitalizzano le virtú civili della pace, della forza, della prudenza, della magnanimità, della temperanza, della giustizia accanto a quelle teologali. Inoltre, c’è da aggiungere che il mito delle origini e quello della riscoperta piú recente non possono non tener conto delle tradizioni comunali, quando certe manifestazioni sono sintomatiche di un preciso programma ideologico e di un vero e proprio orgoglio urbano ostentato nella spettacolarità diffusa, ben viva nella cultura italiana del tardo Medioevo e dello stesso Rinascimento.

Quanto a Faenza, la consuetudine popolare, molto frequente e visibile nello spettro degli spettacoli pubblici o dei giochi cavallereschi, è da ricondursi alla notizia cronachistica piú antica per questo genere di manifestazioni, che risale al gennaio 1164, allorché l’imperatore Federico I Barbarossa, ospite dei nobili Enrico e Guido Manfredi, ordinò una quintana per appurare la destrezza dei Faentini in battaglia, impegnati con armi di legno – secondo le disposizioni vigenti nello Stato della Chiesa di Innocenzo II, il quale, nel Concilio di Clermont del 1130 (e piú tardi con il Concilio Laterano II del 1139 e con il Laterano III del 1179) mette al bando «detestabili fiere e mercati, detti volgarmente tornei, in cui i cavalieri sono soliti riunirsi per esibire la loro forza e la loro impetuosa temerarietà» –, in un orto detto Broylo, che il cronista e medico Giovanni Battista Borsieri, sulla scorta del Muratori, individua nell’attuale via Baroncini, cinto da un muro, vicino al quale e a ridosso dei contigui fabbricati della famiglia Manfredi, futuri signori della città, venivano coltivati «prata vel plantae fructiferae». Seguono, negli anni, altri simili ludi cavallereschi, ma da intender-

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tradizioni faenza

In alto, a sinistra bassorilievo su pietra con figura maschile che viene identificata con Federico Barbarossa. XII sec. Milano, Museo del Castello Sforzesco. In alto, a destra Faenza. Figuranti in costume storico durante un momento del Palio del Niballo.

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Sulle due pagine una veduta della ridente campagna che abbraccia il borgo di Brisighella, poco distante da Faenza. Sulle sommità dei colli si riconoscono, a sinistra, la torre detta «dell’Orologio» (XIX sec.) e, a destra, la rocca manfrediana (XIV sec.).

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si piuttosto come effettivi esercizi militari, dal momento che Faenza, sostenendo il partito imperiale, viene coinvolta nello scontro fra Barbarossa ed Enrico suo figlio, i loro partigiani «et omnes Lombardos» e invia suoi rappresentanti alla Lega Lombarda a siglare la pace di Costanza nel giugno 1183. Sono frequenti, inoltre, le manifestazioni spettacolari di carattere piú squisitamente religioso, come quelle legate all’Assunta o ad altri santi venerati nella città, quali il vescovo e martire Savino (III secolo), il dia-

cono Terenzio (VII-VIII secolo), il cardinale e dottore della Chiesa Pier Damiani (1007-1072) e la badessa benedettina vallombrosana Umiltà (1226-1310), oppure le celebrazioni patronali di san Pietro, figuranti i rapporti complessi tra nuovo potere laico e potere episcopale, tra città dominante e città dominata.

Alla presenza del papa

Sin dal Medioevo tali celebrazioni rivestono un certo rilievo nello spazio urbano faentino e nello stesso contado lungo la Val di Lamone (già compreso nel «comitatus, fortia et districtus Faventiae»), se bisogna dar credito a un frammento lapideo sul versante orientale esterno della odierna cattedrale manfrediana, che ricorda la solennità di san Pietro celebrata nel 1184 alla presenza di Papa Lucio III, con la concessione dell’indulgenza plenaria annuale per dodici gior-

ni a ogni pellegrino penitente nella «plebs Sancte Petri». Pratiche religiose ma dal forte sapore politico, che richiamano periodicamente quelle di matrice cavalleresca: queste solennità si concludono di solito con corse di cavalli e del palio, astiludi o giostre all’incontro o d’incontro, il qual genere di spettacoli in Italia si immagina essere sopraggiunto con Enea, detti perciò ludi troiani, diffusamente attestati nei territori emiliano-romagnoli, fino al Riminese e al Cesenate, tra Medioevo ed età moderna. Nel corso del Duecento, la famiglia dei Manfredi, di stirpe germanica, non è ancora nell’orbita turbinosa della gestione del potere, ma si mostra già orientata a coagularsi in quelle élite politiche ed economiche che di fatto controllano tutti i settori della vita cittadina. All’indomani della morte dell’imperatore Federico II (1250), lacerata da conflitti di natura politica, essa si ostina nelle furenti rivalità familiari, che diven-

A sinistra piatto in ceramica di Andrea della Robbia. 1477 circa. Faenza, Cattedrale.

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tradizioni faenza Il Niballo oggi

Un binomio inscindibile I veri protagonisti della giostra faentina sono il cavallo e il cavaliere che, in un galoppo serrato, provano di sapersi destreggiare e di eccellere in una forma particolare di ludus equestre, attirando una sempre maggiore folla di spettatori. Per correre il Palio il cavaliere si allena tutto l’anno e con lui il fido destriero che lo accompagnerà nella gara. Particolarmente importante è la scelta dell’abbinamento cavaliere-cavallo: il cavallo ideale per il Palio deve essere veloce, resistente, docile. Se un cavallo è irrequieto, farà fatica a entrare negli stalli di partenza, innervosirà anche il cavaliere e durante tutta la gara sarà da guidare, cosa che va a discapito della precisione richiesta per colpire il bersaglio sul Niballo. Il rettilineo finale del percorso di gara è brevissimo e il cavallo lo percorre in una manciata di secondi. Partendo da appositi stalli appaiati e percorrendo al galoppo veloce una pista a ferro di cavallo della lunghezza di circa 150 m, la sfida consiste nel colpire con la punta della lancia da parte dei contendenti un bersaglio, posto all’estremità dei bracci del Niballo, simulacro che rappresenta un moro. Caratteristica del Niballo sono poi le otto tornate di gara che richiedono nervi saldi e anche una buona dose di resistenza. tano presto anche rivalità politiche sovraregionali, da una parte per le attenzioni del papa sulla Romagna e dall’altra per le accorte posizioni guelfe dei Manfredi sul Faentino e nel Val di Lamone – che abbraccia la maggior parte del contado fino ai fianchi appenninici toscani – in contrasto con gli Accarisi, inquadrati invece nella guida della parte ghibellina di Faenza. La distribuzione

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L’alta complessità della giostra e la forte competizione da sempre in atto fra i cinque rioni hanno portato la scuola equestre faentina a luminosi livelli in Italia. Le scuderie rionali sono attive tutti i giorni dell’anno e si preparano presso il «Centro Civico Rioni», moderna struttura messa a disposizione dall’amministrazione comunale. Per i cavalieri vale la regola che i giostranti devono essere Faentini di residenza, e che ogni cavallo giostrante deve appartenere al rione per il quale gareggia: è una disposizione originale, che differenzia quello di Faenza dagli altri palii d’Italia, e che ha determinato negli anni un grande investimento dei rioni sulla formazione dei loro cavalieri, fino a costituire una scuola locale di giostranti delle quintane, che da anni urbana di tipo rionale è quindi condizionata dalla presenza di una fazione guelfa nei rioni di porta Ponte e porta Ravegnana e di una fazione ghibellina nei rioni di porta Imolese e porta Montanara, producendo cosí contrasti che si coagulano intorno a famiglie aristocratiche. Dal 1313 i Manfredi confermano l’opera di ricomposizione sociale con la nomina di Francesco (1260-

conquistano vittorie e riconoscimenti in diverse giostre d’Italia. Attorno alla competizione di giugno si sono sviluppate altre manifestazioni che caratterizzano la vita della città romagnola in altre occasioni lungo tutto l’anno. L’inizio del mese del Palio è sancito dalla Donazione dei ceri, il secondo sabato di maggio, mentre la conclusione delle rievocazioni del Niballo si svolge con una grande festa la notte del 5 gennaio, in occasione della Nott de Bisò, che dal 1964 si ripete con il rogo dell’anno vecchio in Piazza del Popolo, simboleggiato dal grande fantoccio saraceno. I cinque rioni allestiscono il proprio stand gastronomico per offrire ai tanti ospiti piatti caldi e vin brûlé – il bisò appunto – da bere nei tradizionali gotti in ceramica. 1343), fondatore della Signoria, a guida del popolo di Faenza: una città che non ancora riesce a tranquillizzare, in pieno Trecento, le tensioni intestine al ceto dirigente, ma che ben si caratterizza per la sua collaudata presenza di compagnie armate attorno alle quali tutto il territorio romagnolo va strutturando la vita civica. La capacità della consorteria giugno

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Nella pagina accanto un momento della cerimonia della Donazione dei Ceri nella Cattedrale di Faenza. In questa pagina i cavalieri dei diversi rioni, durante il Palio. Dall’alto, in senso orario: il Rione Rosso, il Rione Durbecco, il Rione Giallo e il Rione Verde.

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A sinistra la pianta di Faenza nella distribuzione rionale tratta da Colonia Esperide Faentina di Ermolao Albrizzi, dipinto su carta. 1762. Faenza, Biblioteca Comunale Manfrediana.

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A sinistra lapide in ceramica smaltata opera di un laboratorio faentino, raffigurante la Vergine col Bambino. XVI sec. Parigi, Museo del Louvre. In alto Faenza. Veduta esterna della cattedrale, costruita per volere del vescovo Federico Manfredi fra il 1474 e il 1520, su progetto dell’architetto fiorentino Giuliano da Maiano. Nella pagina accanto piatto in ceramica smaltata raffigurante san Pietro, da Ravenna. 1500-1520 circa. Los Angeles, Getty Center.

manfrediana di agire ai vertici e incidere in ogni settore della politica cittadina e di tutta la Val di Lamone è possibile anche grazie all’ampio consenso che riceve dal ceto medio-alto, a cui non dispiace una certa rappresentatività nella gestione della cosa pubblica. E proprio per attestare quella capacità di concentramento politico, ideologico, finanziario – oltre che per garantire anche un diffuso consenso cittadino –, i Manfredi, signori di Faenza, per mano di un esponente illustre come Gian Galeazzo I, figlio di Astorgio I, danno vita a un intelligente riassetto del diritto pubblico cittadino, nella consapevolezza

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che, attraverso il monumentale ordinamento statutario del 1410-14, si possa intervenire efficacemente in ogni campo della vita sociale e per garantire il pieno controllo degli organi statuali e l’aggregazione delle famiglie e dei ceti popolari intorno al signore. Le riforme statutarie di Gian Galeazzo permettono altresí il rinnovamento suntuario e cerimoniale delle principali feste della città, emblema delle forme di ostentazione dell’élite cittadina. Le feste cavalleresche e ludico-militari insieme ai cerimoniali civici, le stesse feste dei patroni, rappresentano o auto-rappresentano il potere e le gerarchie sociali.

Documenti conservati nella sezione faentina dell’Archivio di Stato di Ravenna, cronache cittadine e atti notarili fanno presumere una serie di simmetrie – anche su scala piú ampia, che include l’area marchigiana, romagnola e toscana – tra certi modi di rappresentazione del potere e dei gruppi al vertice della gerarchia sociale a esso intimamente collegati e le piú disparate forme di spettacolarità popolare. Simmetrie che in ambito popolare insistono, per esempio, sulla matrice religiosa e liturgica della festa del beato Nevolone Eremita († 27 luglio 1280), un laico che esercitava il mestiere di calzolaio, dal 1331 rivendigiugno

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cato come protettore dalla «sodalitas sutorum», dai ciabattini di Faenza, e confermato al culto da papa Pio VII solo il 4 giugno 1817. Nevolone veniva venerato con una sfida fra imprecisati rioni, allo stesso modo di quanto riferisce, molto piú tardi, lo storico municipale Giulio Cesare Tonduzzi, nelle Historie di Faenza, a proposito di una processione nel mese di maggio fuori del Borgo Durbecco, in località Santa Lucia delle Spianate, che culmina in una feroce disputa tra gli abitanti dei quartieri cittadini per il possesso di un gonfalone sul quale campeggia la raffigurazione di un drago. Non mancano le feste liturgiche mariane, come quella del 15 agosto per l’Assunta, che accendono gli animi con le corse dei cavalli berberi premiate solitamente con un raffinato panno verde del valore di 45 bolognini il braccio, documentate tra l’altro in un’epistola del 28 marzo 1483 di Galeotto Manfredi a Lorenzo de’ Medici, in occasione delle quali si chiedono 25 braccia di raso scarlatto («brazza XXV raxo carmisino») per confezionare il drappo da consegnare al vincitore.

Gli stessi Statuti di Faenza, riformati e approvati nel 1527 da papa Clemente VII, indicano nella prima rubrica riservata alle offerte della comunità in occasione delle celebrazioni degli apostoli Pietro e Paolo che «i Signori Anziani dagli introiti delle gabelle della comunità faentina possano prelevare il prezzo di un palio, purché non eccedente 25 lire bolognesi per ogni palio; che debba essere corso con cavalli e corridori, non meno con cavalle e barberi, tutti devono correre il giorno festivo dopo il vespro, dopo il terzo suono dato dalla

Il Palio di San Pietro

Al principe degli apostoli è invece dedicata la cattedrale di Faenza, espressione dell’architettura rinascimentale in Romagna, costruzione iniziata nel 1474 su progetto di Giuliano da Maiano e conclusa non prima del 1515, la cui consacrazione al culto dell’apostolo Pietro avvenne nel 1581. Già protettore della città, Pietro è il santo del Palio di Faenza, nel senso che intorno alla solennità del santo si collocano i momenti piú raffinati delle forme di ostentazione della classe dirigente con la loro fortissima valenza spettacolare.

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campana della torre comunale siano pronti ad andare al luogo stabilito, destinato alla corsa dai Signori Anziani, in questo luogo siano allineati da un milite del Signor Podestà, al quale debbano rivolgersi su ciò, qualora ci siano discordie, siano sorteggiati i posti, e dato il segnale della corsa partano, sia assegnato e consegnato il palio al primo corridore arrivato» (Magnifcae Civitatis Faventiae Ordinamenta novissime recognita et reformata, 1527, lib. VII, Rub. I, p. LXIII). L’archetipo del palio faentino non corrisponde al cosiddetto torneamentum o astiludium per aggiudi-

carsi il palium o bravium, ma il piú delle volte è una corsa di soli cavalli berberi che tradisce un rapporto con la tradizione oltreappenninica, in modo particolare tosco-laziale, delle gare equestri e delle feste popolari di città come Roma, Firenze o Pistoia, che non prevede necessariamente la partecipazione di fantini. Nel 1593 «per parte della Comunità di Faenza [viene] supplicato Mons. Alessandro Glorieri Commissario et Visitatore Apostolico nella Provincia di Romagna l’anno 1594 a dignarsi di concedere, che secondo la disposizione de’ Statuti della Città di Faenza, potesse la Comunità nel giorno della solennità di S. Pietro Capo delli Apostoli et Titulo di questa Chiesa Cattedrale, far correre da barberi cavalli un Palio, li fu concesso come si vede per suo rescritto con la data di Faenza sotto li 14 maggio di detto anno» (Archivio di Stato di Ravenna, Sezione di Faenza, Magistratura del Castello di Russi, Quaderno terzo per il novo campione di Faenza, racc. II, ins. I). L’orizzonte festivo dei santi faentini – sottolineato dagli atti di obbedienza e allo stesso tempo di oblationes, omaggi alla Madonna (Assunzione, Annunciazione) e ai santi piú popolari (Martino, Terenzio, Nevolone) in ordinato corteo di autorità comunali insieme alle Corporazioni delle Arti, Anziani, consiglieri comunali e consoli delle Arti tramite l’offerta di ceri, fiori e palii – si accosta a quello delle festività nuziali, come il caso dell’unione (9 agosto 1471) tra la figlia del signore di Camerino, Costanza Varano, e Carlo Manfredi. Né mancano piú profane associazioni con il carnevale, con «torniamento di giostra all’inquintana, promettendo al vincitore in segno di gloria riconoscimento di premio» (Arch. di St. Ravenna, Sez. Faenza, Atti Municipali, vol. XX, fol. 175, 3 gennaio 1602): una giostra, cioè, che prevede nella pubblica

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tradizioni faenza

piazza un bersaglio mobile conformato sull’immagine di un soldato islamico abbigliato in fattezze orientali, dal quale si desume il nome di giostra al Saracino o al Moro, voluta annualmente a Faenza «per invitar la Gioventú ad essere assai presta nelli attrezzi cavalliereschi al quale effetto nel corso del Carnevale facia piantare su la publica piazza il Saracino, contro questo entro uno steccato tenuto da legnami (...) longo una carrera di cavalli, dinanzi (...) livree con lanze maiuscole (...) et ferro

nella testa del medesimo Saracino (...) zorarono di portare, non (...) guerresche, forte la lanza (...) et in Bataglia di combatere ancora in servitio de’ Principi et di questa patria contra gli inimici di quella» (Arch. di St. Ravenna, Sez. Faenza, Magistratura del Castello di Russi, Quaderno terzo per il novo campione di Faenza, racc. II, ins. I). Nella Faenza post-manfrediana e papalina, dopo le brevi parentesi dei governi di Cesare Borgia (15011503) e dei Veneziani (1503-1509),

In alto Annibale a cavallo, capo dell’esercito, miniatura dal Romuleon, attribuito a Benvenuto da Imola e tradotto da Jean Mielot. 1480. Londra, British Library.

A destra particolare del frontespizio del Magnificae civitatis Faventie ordinamenta, raffigurante i santi protettori della città di Faenza. 1527. Nella pagina accanto Faenza. Una veduta di Piazza del Popolo. Sulla sinistra, Palazzo Manfredi, sulla destra, il Palazzo del Podestà.

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il «Saracino era un fantoccio con abiti saracineschi piantato a bersaglio. Aveva testa di legno nuda, faccia nera, labbra rosse ed occhi lucenti. Il collo era imperniato sul tronco, e perciò girevole. I cavalieri a tutta corsa, uno dopo l’altro, gli passavano rasente con la lancia non in resta ma in mano, e il colpo di maggiore bravura era quello di fare stella, cioè di colpire il Saracino in mezzo alla fronte, poiché tutti miravano alla faccia» (Francesco Consolini, Cronaca contemporanea di Brisighella dall’anno 1850 all’anno 1883, 1884). Incidono certo i filtri culturali e storici – anche se in relazione agli Ottomani desiderosi del dominio del Mediterraneo – che già dalla seconda metà del Quattrocento riatti-

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vano la propaganda antiannibalica, contro il nemico di Roma devastatore di Faenza nel 208 a.C. nel teatro bellico padano.

L’interesse per l’Oriente

Fioriscono cosí studi e interessi per il mondo culturale bizantino, di cui gli Ottomani si sentono quasi gli eredi, ma sono gli eventi storici a incrementare in Italia e in Europa la smania di notizie sulla civiltà ottomana. Lo attesta l’abbondante produzione storiografica, per tutto il Cinquecento e oltre, sulle cose de’ Turchi, sulla loro vita e sui loro costumi. Si pensi ad Andrea Cambini (Libro della origine de’ Turchi e imperio delli Ottomani, Firenze 1528), Pao-

lo Giovio (Commentario de le cose de’ Turchi, Roma 1531), Giovan Antonio Menavino (Trattato de’ costumi e vita de’ Turchi, Firenze 1548), Teodoro Spandugino (Delle istorie e origine de’ principi de’ Turchi, ordine della corte, loro rito e costumi, Lucca 1550), Francesco Sansovino (Istoria universale dell’origine ed imperio dei Turchi, Venezia 1560) e Lazzaro Soranzo (L’Ottomanno, Ferrara 1598). Il conflitto tra mondo musulmano e cristianità si fa notare in tutta la sua drammaticità anche in area adriatica. Le ferite per le razzie dei Saraceni sono vive nella memoria popolare ma vengono cicatrizzate dalla vittoria di Lepanto del 1571. La giostra faentina, corsa fino

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tradizioni faenza l’edizione 2018

Gli appuntamenti Ecco i principali appuntamenti previsti per l’edizione 2018 del Palio di Faenza: Sabato 9 giugno Corteo Storico (partenza da piazza del Popolo, ore 20,30) e Torneo Bigorda d’Oro (Stadio B. Neri, ore 21,00). Sabato 16 giugno Torneo alfieri sbandieranti e musici (piazza del Popolo, ore 20,30). Domenica 17 giugno Gara a coppie e giuramento dei cavalieri (piazza del Popolo, ore 21,00). 17-24 giugno Settimana del Palio. Presso le cinque sedi rionali vengono organizzate serate dedicate al divertimento, alla gastronomia, alla socializzazione attraverso manifestazioni di coinvolgimento e di interesse per tutta la città.

Domenica 24 giugno Niballo-Palio di Faenza. Corteo Storico (piazza del Popolo, ore 16,00); partenza del Corteo Storico (ore 17,00); ingresso del Corteo Storico al Campo della Giostra (Stadio B. Neri, ore 18,00); Inizio Giostra del Niballo (ore 19,00). Sul Sagrato del Duomo, alle ore 21,30, il Vescovo di Faenza consegna il Palio al rione vincitore. Info www.paliodifaenza.it

In queste pagine alcuni momenti della manifestazione. In alto, i cavalieri dei rioni Rosso e Giallo si apprestano a colpire il Moro durante la Giostra; qui sopra, musici in processione durante il Corteo Storico; a destra, un alfiere del Rione Rosso con la sua bandiera.

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al 1796 e, dopo l’interruzione con l’autorità di Napoleone in Romagna, documentata almeno fino al 1862, è oggi ricordata con il nome di Niballo, che richiama alla mente il generale punico Annibale. Un’identificazione attestata, tra l’altro, dalla straordinaria coppa maiolicata, confezionata in una bottega faentina tra gli anni 15451550, conservata oggi nel Museo di arte medievale e moderna di Arezzo della Confraternita dei Laici, con numero di inventario 14783. Vi è ritratto Annibale, con la dicitura nel cartiglio «ANIBALLO». La forma «ANIBALLO» è frequentissima dal Quattrocento in poi grazie alla diffusione in area padana della letteratura epico-cavalleresca, praticamente dal Morgante di Luigi Pulci in avanti. Val la pena evidenziare che Annibale non è ritratto nelle fattezze

del Moro, ma come un soldato, probabilmente calcando la circolazione letteraria che ebbe sin dalla seconda metà del Trecento nell’opera anonima latina di storia romana Romuleon, attribuita a Benvenuto da Imola. Un’opera grandiosa, di largo successo europeo, sul modello dell’Eneide di Virgilio, che in diversi esemplari manoscritti riporta una curiosa illustrazione del vincitore delle superbe legioni di Roma preceduto da un alfiere, in sella alla testa del suo esercito, in fattezze tipicamente belliche. Altre fonti di ispirazioni potrebbero essere state i volgarizzamenti di Tito Livio o ancora i profili del mito del condottiero che in età umanistica vengono tratteggiati nella galleria degli uomini illustri petrarcheschi, nei volgarizzamenti di Valerio Massimo, fino al Machiavelli, o nelle contaminazioni tra le arti, che nel corso del Cinquecento esaltano quelle applicate e decorative, in modo particolare nella ceramica.

Valore simbolico

Il palio era – e resta ancora oggi – il premio consegnato al vincitore dal podestà, su pronuncia del Consiglio degli Anziani, in segno di riconoscimento e non ha tanto un valore venale quanto simbolico: un drappo in tessuto, di colore rosso scarlatto per ricordare il martirio di Pietro, insieme a una porchetta e a un gallo con spezie non rendevano ricco il cavaliere vincitore. Contavano però la fama, la risonanza e la visibilità del cavaliere, il quale rappresenta in qualche modo il milieu culturale e politico della città e dei suoi signori, dei suoi antichi codici cavallereschi confluiti nell’ibridismo storico e mitico del repertorio di gesti propri del cavaliere e del cerimoniale da osservare. Al cavaliere sono riconosciute la destrezza, la precisione nel colpire il bersaglio moresco, la capacità di gestire con equilibrio i propri istinti fisici, disciplinando finanche i

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suoi portamenti, secondo un motivo profondamente umanistico che valorizza bellezza, virtú e nobiltà quale consonanza perfetta attuata nella vita politica, che ovviamente funziona tanto nella valutazione estetica quanto in quella etica. Elemento distintivo del Niballo è la corsa, la velocità progressiva verso «quel segno o bersaglio, nel quale il cavaliere, venendo con impeto, nel correre con l’armi, s’aggiusta» (Alessandro Massari Malatesta, Compendio dell’heroica arte di Cavalleria, 1600). Molta dell’iconografia che illustra questo esercizio evidenzia la tensione che vibra nel cavaliere in un tutt’uno variegato di colori e nell’impeto agonistico, con il suo cavallo, l’arma, il costume e il paramento. F

Da leggere Giuseppe Dalmonte, Gli antenati illustri del Niballo Palio di Faenza, Casanova, Faenza 2009 Tiziano Zaccaria, Niballo, Palio di Faenza, Carta bianca, Faenza 2009 Duccio Balestracci, La festa in armi, Laterza, Roma-Bari 2001 Paola Ventrone (a cura di), «Le temps revient, ‘l tempo si rinuova»: feste e spettacoli nella Firenze di Lorenzo il Magnifico (catalogo della mostra, Firenze, 8 aprile-30 giugno 1992), Silvana, Casalecchio di Reno 1992 Civiltà del torneo: (sec. XII-XVII); giostre e tornei tra medioevo ed età moderna (Atti del VII Convegno di studio, Narni, 14-15-16 ottobre 1988), Centro Studi Storici di Narni, Narni 1990 Faenza nell’età dei Manfredi, Faenza Editrice, Faenza 1990 Primo Solaroli, Niballo il Palio di Faenza, Lega, Faenza 1970 Piero Zama, I Manfredi, Faenza, Lega, 1954 Antonio Messeri, Achille Calzi, Faenza nella storia e nell’arte, Faenza, 1909

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La fine di un’era di Flavio Russo

Punto d’arrivo di una lunga serie di sperimentazioni, il bastione «a punta di lancia» rese pressoché inespugnabili fortezze e castelli, garantendo una resistenza straordinaria e agevolando grandemente l’operato dei difensori 74

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n diverse aggressioni, il rimedio che può debellarle è ricavabile dalle stesse azioni offensive, come avviene, per esempio, con i vaccini, o come già avvenne negli assedi sul finire del Quattrocento, quando le distruzioni prodotte dalle artiglierie suggerirono la loro neutralizzazione. Gli ingegneri militari piú attenti, sempre presenti nel corso dei cannoneggiamenti, dovevano infatti aver osservato che, ridotte a un cumulo di macerie le fortificazioni, il prosieguo dei tiri non riusciva a giugno

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In alto una sezione restaurata delle mura di Costantinopoli. A sinistra chiesa dell’Annunciazione di Moldovita (Bucovina, Romania). L’assedio di Costantinopoli del 1453 in uno degli affreschi eseguiti dal pittore Toma di Suceava nel 1537.

spianarle, poiché le palle affondavano in quella soffice coltre che s’era venuta a creare. Da ingombro, il mucchio di detriti si era dunque trasformato in un aggere insensibile a qualsiasi volume di fuoco, per nutrito che fosse. Le prime avvisaglie di tale manifestazione si colgono già nell’assedio di Costantinopoli del 1453, e vengono inconsapevolmente descritte dal vescovo Leonardo con queste parole: «Le bombarde (…) non erano in grado di offendere i nemici, che si riparavano dietro le macerie». In quella fugace osservazione si coglie il primo criterio della nuova fortificazione: un ostacolo incoerente e basso del tutto immune ai colpi delle artiglierie. Nel corso dello stesso assedio si trova anche un piú esplicito riferimento alla difesa soffice: il 18 aprile del 1453, minacciando un paio di

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bombarde una ristretta sezione delle mura della città, vi si accatastò davanti, nel corso della notte, un enorme cumulo di balle di lana. Pur avendo scarso successo, l’espediente ebbe una discreta risonanza tanto che Michelangelo lo ripropose durante l’assedio di Firenze del 1529, proteggendo il campanile di S. Miniato con piú di 18 000 balle di lana. Ma a quell’epoca il ricorso alle terrapienature delle fronti esposte al tiro nemico, cioè della difesa ad assorbimento d’urto, era ormai un dato acquisito nelle fortificazioni.

Assorbire l’urto

Si trattava, in sostanza, di un radicale ribaltamento concettuale: non si ricorreva piú a un estradosso compatto e durissimo, come fino ad allora s’era fatto, ma si apprestava al suo posto un morbido argine di terra lievemente compattata, per consentire l’innocuo scaricarsi dell’energia cinetica residua dei proietti. Per usare una definizione moderna, il criterio informatore andrebbe ragionevolmente etichettato come ostacolo ad «assorbimento d’urto». A ottimizzare l’idea, rendendola suscettibile di applicazioni efficaci, contribuiva, logicamente, un ampio corollario di articolazioni accessorie – ciascuna delle quali di per sé non inedita –, dettate e consentite dalle stesse armi da fuoco. Tra queste, per esempio, il ricorso all’appoggio reciproco delle sezioni di cerchia e l’abbassamento dei grossi pezzi ostativi in apposite casamatte, poste alla quota del fondo del fossato per consentirgli un fiancheggiamento radente ad altezza d’uomo: sparare a mitraglia, con la rosata che ne derivava, consentiva di crivellare di colpi chiunque vi fosse incappato in un raggio di un centinaio di metri! Le rivoluzionarie novità della trace italienne, che allo

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guerra d’assedio/4 capaci di assicurare difesa e protezione soltanto grazie alla loro inviolabilità passiva! Circa il secondo caposaldo – l’eliminazione degli angoli morti e defilati –, soltanto l’esperienza diretta poteva suggerire impianti planimetrici in grado di sopprimerli. L’invenzione di un perimetro accortamente articolato in modo da battere tutta la superficie esterna di una fortificazione avvalendosi delle armi da fuoco, ovvero di adottare in maniera esaustiva il tiro fiancheggiante e radente, costituí per quasi tutto il Quattrocento l’ambizioso sogno di innumerevoli tecnici. Una soluzione che peraltro si faceva di giorno in giorno piú urgente, dal momento che la permanenza anche di piccoli settori defilati, con il diffondersi delle mine esplosive, iniziava a farsi estremamente temibile. Forse casualmente sul terreno, forse dopo esasperanti studi sui grafici, i piú accorti tecnici, volendo precisare i limiti degli aborriti settori finirono per ricavarne gli esatti contorni geometrici.

Il bastione

spirare del Medioevo s’impose restituendo alla difesa la sua valenza originaria, furono in sostanza due: la terrapienatura delle forticazioni, in particolare delle sue superfici esposte al fuoco nemico, e l’eliminazione di ogni angolo morto o settore defilato a esse antistante. Per la prima, ogni fortificazione, per tornare a resistere ai tiri delle artiglierie, si sarebbe dovuta trasformare in una sorta di argine anulare di materiale incoerente, a bassissima compattazione. Incredibilmente, almeno sotto tale profilo, la preistorica fortificazione degli aggeri di terra di riporto, ricavata dallo scavo dei fossati e ammassata sui loro cigli interni, sarebbe risultata ideale nonostante gli oltre trenta secoli di evoluzione tecnologica intercorsa. Un paradosso che, nella lunghissima storia della fortificazione, non è stato il primo, né l’ultimo: basti pensare, per esempio, ai rifugi antiatomici, del tutto simili a profonde caverne sotterranee, piú o meno artificiali,

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Finalmente, negli ultimi anni del secolo, quasi certamente a opera di Antonio (1453/1455-1534) e Giuliano da Sangallo (1443/1445-1516), si intuí che quei curiosi triangoli, che sfidavano l’intelligenza di tanti ingegneri, erano in pratica la soluzione del problema. Sarebbe bastato erigere i torrioni angolari non piú secondo una pianta arbitraria – circolare, ottagonale, quadrata, pentagonale, ecc. –, come fino ad allora si era fatto, bensí a «punta di lancia», a «cuneo», ovvero farla coincidere esattamente con quella traccia per veder sparire qualsiasi angolo morto, qualsiasi settore defilato. Il bastione assunse questa espressione inconfondibile proprio sul finire del Quattrocento e l’assunse in Italia a Nettuno (cittadina costiera del Lazio, non lontana da Anzio, a sud di Roma, n.d.r.) nel forte che fu uno dei primi esempi della trace italienne. In quel dinamico scorcio storico, infatti, Antonio da Sangallo il Vecchio ricevette l’incarico professionale da Alessandro VI, un compito al quale si dedicò con solerzia inusitata, tanto che, in pochi mesi, riuscí a fornire i grafici dell’opera. Tanta solerzia porta a credere che il Sangallo da tempo ragionasse su come uscire dallo stallo concettuale rappresentato dalla transizione e in particolare come eliminare una volta per tutte i settori defilati presenti in ogni fortificazione. Alla fine assumendo per generatrici le traiettorie stesse dei tiri dei pezzi bassi, venne a capo della vicenda. In altre parole, partendo da un forte quadrato di 40 m di lato, con ai vertici quattro In alto ritratto di Giuliano da Sangallo, olio su tavola di Piero di Cosimo. 1482-1485. Amsterdam, Rijksmuseum. Nella pagina accanto il forte di Nettuno (Roma), costruito tra il 1501 e il 1503 da Antonio da Sangallo, su progetto di Giuliano Giamberti. giugno

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torrioni di 13 m di diametro, e conducendo le traiettorie del tiro del fiancheggiamento in modo da farle risultare tangenti ai torrioni stessi, ricavò le dimensioni e la configurazione dei corpi cuneiformi che occupavano con la loro massa l’intero settore defilato, e che perciò l’avrebbero definitivamente eliminato. Intorno alla fortificazione, ogni punto del terreno, a partire dalle mura per finire al limite della gittata balistica, risultava cosí battibile, in particolare con il micidiale tiro incrociato dinanzi alle cortine.

Un’innovazione rivoluzionaria

Nacque cosí, e venne subito applicato – non senza le critiche di quanti non comprendevano quella rivoluzionaria innovazione – il criterio informatore del bastione moderno, la cui adozione portò in pochi anni al fronte bastionato, l’impianto difensivo che consentiva il fiancheggiamento totale di qualsiasi fortificazione, a patto, ovviamente, che questa fosse insediata su di un’area pianeggiante, poiché, in caso contrario, si sarebbe inevitabilmente tornati al tiro ficcante, non potendosi dirigere le traiettorie balistiche radenti il terreno. Il bastione risultava facilmente realizzabile, poiché era sufficiente apprestare due lunghe pareti convergenti: se poi fra di esse fosse stata ammassata la terra tratta dallo scavo dei fossati, ne sarebbe scaturita una struttura ideale per la difesa e invulnerabile per l’offesa. Poiché la quantità di terra richiesta per il rempimento era notevole, si dovettero allargare a dismisura i fossati, contribuendo cosí a mantenere a maggiore distanza eventuali assedianti. Quel primo forte bastionato consiste in un edificio a

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pianta quadrata, con quattro bastioni angolari: la lunghezza misurata tra i salienti dei bastioni raggiunge i 55 m, mentre la larghezza non eccede i 50: minima, pertanto, è la differenza tra le fronti. A loro volta, le cortine interposte si attestano intorno alla trentina di metri. L’altezza dal fondo del fosso risulta di 10 m circa per la sezione scarpata e di circa 5 per quella verticale sovrastante: tra le due, il cordone a profilo torico. In diverse tratte lo spessore supera i 5 m. Il fronte a mare racchiude una sorta di maschio quadrato, di circa 12 m di larghezza: uno dei suoi lati fuoriesce di pochissimo dal filo della cortina, consentendo l’alloggiamento della porta d’accesso nell’interasse con il bastione. Preceduta da un lungo ponte su quattro campate, di cui l’ultima levatoia, una seconda porta, la principale, si apriva in asse con la prima, ma sul fronte a terra. All’interno, una vasta piazza d’armi, alta sul fossato 5 m circa, con una superficie complessiva di quasi 600 mq, circondata lungo l’intero perimetro da una teoria di alloggiamenti strutturati su di un unico piano. Lungo i lati maggiori, due rampe di scale conducono alla piazza di copertura, protetta da un robusto parapetto continuo, leggermente aggettante sulle cortine mediante una fitta teoria di gattoni, in origine dotato di alquante cannoniere in seguito murate. Dentro ogni bastione vi era una casamatta pentagonale, che comunicava con l’esterno tramite due troniere fra loro ortogonali. Va ricordato che le loro bocche essendo state nascoste dietro una rientranza, od orecchione o gola, ricavata presso l’innesto del bastione, non rivelavano la loro presenza agli incauti assalitori, se non quando fossero ormai inquadrati dalla

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mitraglia, meritandosi perciò il nome di troniere traditore. Da quei giorni, centinaia di forti, simili a quello di Nettuno, si eressero nei successivi tre secoli, punteggiando ben quattro continenti! Come si può facilmente intuire, terrapienare ed eliminare gli angoli morti avrebbe di sicuro consentito di rendere qualsiasi fortificazione estremamente resistente, forse addirittura indistruttibile alle offese delle coeve artiglierie. Ma tale esito straordinario non avrebbe significato automaticamente l’inespugnabilità della stessa, poiché nessun assedio si limitò mai al mero cannoneggiamento. Un arcaico investimento, per esempio, condotto con le rudimentali scale d’assalto, mancando il fuoco di interdizione prodotto dai bassi pezzi casamattati, l’avrebbe espugnata in poche ore. Conseguita perciò una discreta invulnerabilità passiva, fu necessario che venisse fornita alla fortificazione anche una potenzialità attiva, avvalendosi delle stesse evolute artiglierie. Anzi, essendo la difesa di un forte un’azione statica che non implicava alcuno spostamento dei cannoni – meno che mai lunghi trasferimenti sul terreno –, si poterono proficuamente impiegare pezzi piú potenti di quelli d’assedio. Per molti versi era la medesima situazione vigente alle spalle dell’armamento navale, dove, muovendosi le navi, ma restando fermi i cannoni, la massa dei secondi non era costretta in estremi insuperabili. Tale libertà permise di utilizzare, fino

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In alto pianta della cittadina laziale di Nettuno, incisione realizzata per l’opera di Pietro e Francesco Bertelli Theatro delle città d’Italia con nova aggiunta, pubblicata a Padova nel 1629.

CASTELLO A 4 TORRI SETTORE DEFILATO

TRAIETTORIE BALISTICHE

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L’EVOLUZIONE FINALE

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La pianta e la sezione qui accanto mostrano una versione matura del forte bastionato: 1. Fianco del bastione; 2. Cortina; 3. Gola del bastione; 4. Faccia del bastione; 5. Linee di difesa; 6. Capitale del bastione; 7. Spalto; 8. Strada coperta; 9. Controscarpa; 10. Fossato; 11. Gora o cunetta; 12. Scarpa; 13. Cammino di ronda; 14. Muro esterno; 15. Parapetto; 16. Banchetta; 17. Camminata; 18. Muro interno; 19. Spalto; 20. Tanaglia; 21. Mezzaluna; 22. Opera a corno; 23. Fossato; 24. Bastione con fianchi arrotondati e orecchioni; 25. Rivellino; 26. Bastione a fianchi rettilinei e senza orecchioni; 27. Doppia tanaglia; 28. Piazzole; 29. Strada coperta; 30. Controguardia; 31. Cortina; 32. Tanaglia; 33. Doppia tanaglia 34. Opera a corona; 35. Rivestimento esterno.

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FORTE BASTIONATO

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A destra pianta del forte di Nettuno conservata in un manoscritto dell’Archivio Chigi. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. A sinistra e nella pagina accanto, in basso rappresentazione grafica schematica dell’evoluzione dal castello turrito al forte bastionato.

all’ultimo conflitto, calibri e lunghezze dell’anima giganteschi rispetto ai terrestri. Di piú, schierandosi lungo i parapetti come lungo le murate, i relativi affusti iniziarono a ostentare connotazioni simili. L’applicazione di entrambi i criteri ricordati in un’unica fortificazione non si fece attendere: in pochi decenni debuttarono cosí le fortificazioni bastionate e terrapienate, contro le quali le artiglierie d’assedio quasi nulla potevano e dalle cui batterie, invece, venivano efficacemente colpite. F (4 – fine)

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di Domenico Sebastiani

Arma che l’uomo cominciò a impugnare fin dagli albori della storia, la spada andò progressivamente caricandosi di valori simbolici che vanno ben oltre i confini dell’arte della guerra. Inseparabile compagna del cavaliere medievale, divenne anche la protagonista delle grandi saghe letterarie Particolare di una vetrata raffigurante un cavaliere che uccide un re, dalla Sainte-Chapelle. Parigi, 1243-1248. Parigi, Musée national du Moyen Âge.

LA SPADA

Il miglior amico del cavaliere


Dossier

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h Durendal, valente, cosí sventurata foste! // Ora che muoio, non posso piú avere cura di voi (...) Non v’abbia uomo vile, giacché // v’ha finora tenuto un cosí buon guerriero // che mai vi sarà l’uguale in Francia, la santa (...) Oh Durendal, come sei chiara e tersa // Come splendi e fiammeggi sotto il sole! (...) Per questa spada ho dolore e pena: // preferisco morire piuttosto che vederla cadere in mano ai pagani (...) Oh Durendal, come sei bella e santa! // Non è giusto che dei pagani vi adoprino: // dai cristiani dovete esser servita. // Non vi abbia uomo che commetta codardia!». Leggendo questi versi della Chanson de Roland, si potrebbe pensare all’inno d’amore che un ca-

Qui accanto l’impugnatura di una spada damascata vichinga. VIII sec., Stoccolma, Museo di Storia Svedese.

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A destra una spada celtica, I sec. a.C. New York, Metropolitan Museum of Art. La lama è realizzata in ferro, mentre l’elsa, con la sua particolare forma antropomorfa, cosí come il fodero, sono in lega di rame.

Wieland

Quel fabbro misterioso Sembra che i Celti producessero armi in ferro puro già nel V secolo a.C., precedendo anche i Germani nella fabbricazione delle spade lunghe. Il valore attribuito dalla società celtica agli artigiani è testimoniato dal fatto che la divinità maggiore fosse Lug, dio polifunzionale che incorporava anche le tecniche e i mestieri. Accanto a lui, la mitologia irlandese annovera Goibniu, fabbro e guaritore. Non minore importanza godeva la figura del fabbro presso la società germanica. Con riferimento all’arte della metallurgia, occorre dire che nel Medioevo le fucine erano spesso poste nei pressi delle selve, vista la disponibilità che esse offrivano in termini di legname e carbone. Ma l’ubicazione silvestre della fucina ha anche implicazioni culturali, poiché il bosco, come ha osservato lo storico Paolo Galloni, «rappresenta anche una sorta di potenziale porta verso l’alterità. Frequentata quotidianamente da boscaioli, ma anche rifugio di banditi, di animali feroci e forze oscure ostili agli uomini, la foresta è un territorio tendenzialmente di passaggio. La narrativa cavalleresca e popolare lo sanno bene, è nel fitto della boscaglia che passa l’invisibile confine che separa questo mondo dai regni fatati dietro i quali si celano le immagini del regno dei defunti». Il fabbro partecipa quindi di una natura ambigua e liminare: da un lato ammirato per la sua capacità di dominare il ferro e il fuoco, dall’altro temuto quale figura sinistra e demoniaca. Sia nel mondo celtico che in quello norreno il sacro artigiano è insieme fabbro, orafo, mago giugno

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In questa pagina veduta d’insieme e particolare del Cofanetto Franks. Inizi dell’VIII sec. Londra, British Museum. Realizzato in osso di balena, il prezioso manufatto raffigura, nel dettaglio riprodotto qui accanto, Wieland, il mitico fabbro germanico, all’opera nella sua fucina.

e incantatore. Ciò si ritrova nella storia di Wieland, il mitico fabbro germanico. Il carme norreno a lui intitolato, la Völundarkviða, descrive Wieland-Völund come prigioniero del re Nidhudh in un’isoletta, dove vive da solo incatenato e fabbrica gioielli. Per ordine del re gli vengono recisi i tendini, per cui è affetto da zoppia come tanti altri fabbri mitici, Efesto in testa. Wieland si vendicherà seducendo Bodhvild, la figlia del re, prima di fuggire librandosi magicamente in volo. Oltre a possedere la capacità di volare, egli conosce un incantesimo del sonno e, in un poema del XIV secolo, una radice che rende invisibile chi la porta con sé. Altre versioni lo descrivono invece come figlio di un gigante, allievo nell’arte della metallurgia prima del fabbro Mímir (maestro anche di Sigfrido) e poi alcuni nani. La sua capacità di realizzare armi e spade prodigiose è attestata da un brano tratto dalla Thidrekssaga:

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incaricato dal re di costruirgli una spada, Wieland si mette all’opera e, non soddisfatto del risultato, con una lima riduce in trucioli la spada e mescola il tutto con della farina. Con il miscuglio ottenuto nutre alcuni uccelli – probabilmente oche –, mette gli escrementi nella fucina e fonde una nuova spada, piú piccola della precedente. L’operazione viene ripetuta tre volte, fino a ottenere la meravigliosa Mimung. Tale

procedimento potrebbe avere una sua veridicità e non essere solo frutto di fantasia, in quanto produttivo di un tipo di acciaio che, arricchito di fosfati e di nitrati derivanti dagli escrementi degli uccelli, risultava piú duro dell’acciaio normale. Risultati simili potevano essere ottenuti scegliendo liquidi particolari, come l’urina di capra, per la tempra della lama, ovvero arricchendo il materiale ferroso con piccole quantità di fosforo.

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A sinistra Madonna con Bambino tra San Paolo e San Giorgio, olio su tavola di Giovanni Bellini. 1490-1500. Venezia, Gallerie dell’Accademia. Si può notare come san Paolo, a sinistra, impugni l’elsa della sua spada.

valiere rivolge per la sua donna; si tratta, invece, di Rolando, fedele paladino di Carlo Magno, il quale, in punto di morte, non ha parole che per la sua spada, Durendal (o Durlindana). In effetti, come vedremo piú avanti, tra il cavaliere medievale e la sua spada si costituisce un legame alquanto singolare. Ma per comprendere il valore simbolico di un’arma che ha accompagnato la storia dell’uomo per millenni occorrono alcuni antefatti.

I compagni del cavaliere

Ad avviso di Franco Cardini, nell’indagare la «preistoria» del cavaliere medievale, occorre considerare quelli che lo storico definisce i due arcani compagni di vita del cavaliere stesso: da un lato il cavallo,

dall’altro, appunto, la spada. Se la piú antica regione della metallurgia sembra essere stata la Persia del Nord-Est, con diffusione della lavorazione del ferro attorno al XII secolo a.C. nelle regioni circostanti, in Europa la prima attestazione di tale tecnica risalirebbe attorno all’VIII secolo a.C., nelle zone abitate dai Celti. In particolare, si ritiene che i Celti fossero in grado di produrre lame di ferro puro e omogeneo fin dall’epoca di La Tène I (V secolo a.C.), per poi passare, nel periodo gallo-romano, all’acciaio temprato. In stretta contiguità geografica e culturale con i

Nella pagina accanto icona in lamine d’argento dorato sbalzate con smalti cloisonné, perle e pietre preziose raffigurante l’Arcangelo Michele con il suo attributo iconografico ricorrente: la spada. Produzione costantinopolitana, fine dell’XI-inizi del XII sec. Venezia, Museo di San Marco. A destra e in basso la spada detta di «San Giorgio» con il suo fodero, realizzati con lega di ferro, argento dorato, cuoio, legno e smalti. Colonia, prima metà del XIV sec. Colonia, Museum Schnütgen.

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Celti, anche i Germani appresero l’arte di forgiare armi e in particolare un tipo di spada lunga, eccezionalmente apprezzata sia per la sua efficienza che per la sua bellezza, ossia la spada damascata. In seguito, nell’Alto Medioevo, in un periodo che in generale comportò una generale involuzione, il settore della metallurgia raggiunse livelli di altissima raffinatezza. La spada non divenne solo l’arma archetipica e perfetta da un punto di vista simbolico, ma si presentò come un oggetto indubbiamente molto bello e costoso, frutto dell’opera quasi magica dei fabbri (vedi box alle pp. 82-83). Al corto gladio romano, arma adatta per la fanteria e gli scontri di massa, si andò sostituendo la spada lunga da fendenti, un’arma per pochi – anche per i suoi alti costi – adatta a colpire dall’alto verso il basso e da potersi usare anche stando a cavallo. Tuttavia, nel Medioevo la spada non è da considerarsi solo un’arma fondamentale dal punto di vista tecnico, ma anche come un oggetto attorno al quale si coagulano significati simbolici, attentamente evidenziati, tra gli altri, dagli studi di Carlo Donà, filologo e docente di letterature comparate. Essa, infatti, si pone come l’arma per eccellenza, atta a offendere e difendere, la sola che possa configurarsi quale arma strettamente privata, da portare sempre con sé,

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Dossier sia all’esterno che all’interno, sia a piedi che a cavallo. Tali sue caratteristiche, accanto alla versatilità, hanno facilitato la nascita di un legame molto forte tra l’arma stessa e chi la usava, un legame che non è esagerato definire affettivo.

Al fianco dei cantori

Il guerriero, infatti, difficilmente si separava dalla sua spada, come testimoniano fonti scritte e iconografiche: Paolo Diacono (720-799) racconta che Alboino dormiva con la spada accanto al capo; Ludovico il Pio (778-840) viene descritto come molto sobrio nel vestire, ma non disposto a separarsi dalla sua spada scintillante; il monaco Notkero il Balbo ci riferisce che Pipino andava a fare il bagno in mutande e con la spada. Ma anche le splendide miniature del Codice Manesse (1300 circa) mostrano i Minnesänger tedeschi che compongono i loro canti con la spada al fianco. Cavaliere e spada sono quindi nell’età di Mezzo un tutt’uno, e la

marchi di fabbrica e falsi di lusso

Lame firmate Nell’Alto Medioevo, le botteghe artigiane dei fabbri provvedevano a imprimere sulle lame il proprio marchio di fabbrica. Mentre in alcuni casi conosciamo solo singoli esemplari di spade firmate (Leutfrith, Pulfbrii, Creolt, Ulen), in altri i nomi niellati nel metallo si ripetono in un numero di pezzi molto elevato, cosa che fa supporre una specie di produzione su larga scala, quasi a livello industriale. Sono state rinvenute infatti circa 35 lame Ingelrii, e piú di 160 lame Ulfberth (in un periodo compreso tra l’VIII e l’XI secolo). Alcuni studiosi hanno fatto notare come le spade Ulfberth non siano tutte dello stesso pregio e livello: alcune sono spade normali, con materiale ferroso, forse proveniente dal Nord Europa. Altre, invece, forgiate con acciaio prodotto al crogiolo, proveniente con tutta probabilità dall’Afghanistan o dall’Iran, sono caratterizzate da un tasso di carbonio triplo rispetto alle prime, e possiedono lame assolutamente eccezionali. Ciò proverebbe, perciò, che già allora, in relazione al commercio in Europa di tali spade famose Ulfberth, circolassero molti esemplari del tutto simili agli originali, ma che erano in realtà «copie», con un fenomeno analogo a quello delle moderne contraffazioni.

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In alto e nella pagina accanto miniature tratte dal Codice Manesse. 1300-1340. Heidelberg, Biblioteca Universitaria. I protagonisti delle scene, il conte di Rietenburg e il conte Albrecht, compaiono con le proprie spade. In basso una spada con marchio Ulfberth, da Schwedt, Brandeburgo. X-XI sec. Berlino, Neues Museum.

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Dossier Excalibur

«La migliore mai esistita»

L’affondamento di Excalibur nelle acque del lago suggella l’esistenza terrena di Artú

L’etimologia di Excalibur, la mitica spada di re Artú, è controversa: alcuni studiosi la ricollegano al latino calibs < chalybs «acciaio» (dal greco chalyps), da cui deriverebbero il nome di Caliburnus utilizzato da Goffredo di Monmouth (1100-1155) nell’Historia Regum Britanniae. Altri, invece, ricordando che nel romanzo gallese Culhwch ac Olwen Artú menziona la sua spada Caledfwlch (da calet, «forte, duro», e bwlch, «taglio, filo»), ritengono che si ispiri alla spada Caladbolg presente nella mitologia irlandese, in particolare nel poema Tàin Bó Cúailnge (XII secolo). In ogni caso, le varianti attestate di Excalibur sono assai numerose: Calabrun, Calabrum, Calibourne, Callibourc, Calliborc, Calibourch, Escaliborc, Escalibor. La prima menzione non gallese di Excalibur figura nella predetta Historia di Goffredo, ove viene spiegato che si tratta di un’arma oltremondana, proveniente da Avalon. Di solito è la spada di Artú e solo nel Vulgate Merlin il re la dona al giovane Galvano.

In alto miniatura raffigurante la morte di Orlando a Roncisvalle, da un’edizione delle Grandes Chroniques de France illustrata da Jean Fouquet. 1455-1460. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra miniatura raffigurante Artú che estrae la spada dall’incudine, da un’edizione dell’Histoire de Merlin. Prima metà del XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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La spada possiede doti straordinarie: Chrétien de Troyes (1135-1190) la definisce «la migliore spada mai esistita, che taglia il ferro come fosse legno», la lama porta alcune iscrizioni e, quando viene sfoderata per la prima volta, con il suo splendore acceca i nemici. Se usata da Galvano, essa diviene piú leggera e maneggevole a mezzogiorno, in concomitanza con le potenziate doti «solari» del cavaliere. La celebre spada nella roccia che viene estratta dal giovane Artú non dovrebbe essere in realtà Excalibur, ma una spada diversa; infatti il Merlin di Robert de Boron (fine del XII-inizi del XIII secolo) non dice nulla al proposito, ma l’idea si diffonde a partire dalla Continuazione vulgata del Merlin. Secondo Philippe Walter, tale tema mitico sarebbe comune alla tradizione indoeuropea, dal momento che casi simili ricorrono sia nelle saghe scandinave, sia nella letteratura iranica, fatto che attesterebbe una comune matrice di base della prova della spada come una qualificazione reale. Nella maggioranza dei testi arturiani, invece, Excalibur viene donata ad Artú dalla Dama del Lago, dopo che l’arma estratta dalla roccia si è spezzata nello scontro con Pellinor di Listinois: la spada gli viene offerta, grazie alla mediazione di Merlino, da una mano emersa da un lago, a patto che Artú la restituisca alla fine della sua avventura terrena. In Morte Arthure (1400 circa), si accenna al fatto che Artú avesse due spade; la seconda era Clarent, rubata dal malvagio Mordred, che con essa sferrò al re il colpo mortale. La storia della spada si conclude con il suo inabissamento nelle acque o, meglio, con la restituzione alla Dama del Lago nel momento in cui Artú è prossimo alla morte terrena. La spada regale di Artú gettata nel lago significherebbe, a livello simbolico, la dissoluzione integrale della sovranità e il crollo del mondo arturiano; infatti nella Mort le roi Artu, dopo la battaglia di Salesbières (Salisbury), Artú, gravemente ferito, ordina al fedele coppiere Girflet di gettare la propria spada in un lago. Al che Girflet (Bedivere in Thomas Malory) cerca di ingannare Artú mentendogli piú volte; il sovrano, però, conoscendo il segreto della spada, intuisce l’inganno, riformula il suo ordine e comprende che finalmente è stato adempiuto quando viene a sapere che una mano femminile è fuoriuscita dalle acque, ha brandito la spada per poi trascinarla sul fondo. Finalmente il re capisce che la sua ora è giunta e può imbarcarsi insieme a Morgana verso l’isola di Avalon. Sulla base delle opere dello storico Georges Dumézil sulla mitologia degli Osseti del Caucaso, Joel Grisward ha ricollegato questo motivo alle vicende dell’eroe caucasico Batradz. Anch’egli, pressoché immortale, dopo aver vendicato l’uccisione del padre, accetta di morire, ma prima deve avere la certezza che la sua spada venga gettata in mare.

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Rocamadour, Francia. Il frammento della spada ritenuta la mitica Durlindana, impugnata da Orlando nelle sue innumerevoli imprese.

spada non diviene solo una sorta di protesi della propria fisicità, ma anche una fedele compagna di vita.

Come una divinità

Presso i popoli nordici – Celti e Germani –, ma anche presso quelli delle steppe, la spada è sempre stata circondata da un’aura di sacralità e dotata di un valore magico-religioso. Si pensa che presso i Germani, in tempi molto antichi, si venerasse un Dio-spada, Týr-Tiwaz, equivalente all’altra divinità che Sciti e Alani riverivano nella forma di una semplice spada nuda conficcata nel terreno, alla quale era usanza sacrificare cavalli e armenti – secondo quanto riferisce Erodoto –, ma molto probabilmente anche uomini. Sulla spada piantata a terra fino all’elsa, inoltre, si prestavano solenni giuramenti, come testimoniano i racconti dell’Edda e le fonti giuridiche germaniche. Tale sacralità posseduta presso i popoli pagani non si perse con l’avvento del cristianesimo, dal quale il valore «religioso» della spada trasse nuova linfa: l’evangelista Matteo (Mt. 10, 34) aveva infatti detto che

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Cristo era venuto non a portare la pace, ma la spada, e i testi dell’Apocalisse ritraevano lo stesso con una lama in bocca. Questo può spiegare il perché della inserzione di reliquie nell’elsa delle spade medievali: il mito vuole che Durendal contenesse un dente di san Pietro, sangue di san Basilio, capelli di san Dionigi e un po’ della veste della Vergine, mentre Joyeuse – la Gioiosa, la spada di Carlo Magno – recasse nell’elsa addirittura la punta della lancia che aveva trafitto il costato di Cristo. Si deve peraltro supporre che la sacralizzazione della spada con le reliquie non fosse solo una fantasia letteraria: Guglielmo di Mal-

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mesbury (1080-1143) narra di una spada donata ad Aethelstan da Ugo, re dei Franchi, che nell’elsa conteneva un grosso chiodo di ferro, usato nel supplizio del corpo del Salvatore. Cardini suppone che tale usanza fosse anche una sorta di esperimento dotato di componenti magiche, che avrebbe moltiplicato la forza dell’arma e l’invulnerabilità di chi la portava, rendendola simile a quelle della mitologia germanica, cosí come è lecito domandarsi se la configurazione a croce della spada non avesse ugualmente finalità apotropaiche. Osserva Donà che dal IX secolo, grazie alla modifica dell’elsa – tra-

In alto miniatura raffigurante la restituzione di Excalibur alla Dama del Lago da parte di uno dei cavalieri (Girflet o Bedivere, secondo le versioni) del morente Artú, da un’edizione de La Mort le Roi Artus. 1316 circa. Londra, British Library. La scena evoca il significato allegorico dell’episodio, da intendersi come la fine del mondo arturiano.

sformatasi da corta e curva in lunga e rettilinea (perfettamente ortogonale all’impugnatura) – e quindi con l’assunzione della forma a croce, la spada medievale diventa un’arma «santa», a servizio della nova militia, come testimoniato dalle lodi di Raimondo Lullo nel Libro giugno

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tyrfingr

Bellissima e maledetta La Saga di Hervör (metà del XIII secolo) è incentrata sulla storia di Tyrfingr, una delle piú famose e nefaste spade del mondo norreno. Forgiata dal nano Dvalin per il re Sigrlami, essa risulta una spada dalle straordinarie caratteristiche, è bellissima e fende il ferro come fosse tessuto, ma è anche un’arma maledetta, come lo stesso fabbro nano dice al re, preannunciandogli la morte per mano del figlio Svafrlami. Un passo della saga descrive queste potenti e terribili caratteristiche dell’arma: «Quando la sguainava riluceva, quasi fosse un raggio di sole. Chi la possedesse era costretto a uccidere qualcuno e sempre doveva essere immersa in sangue caldo. Né essere vivente, uomo o animale che fosse, era destinato a vedere la luce del giorno seguente, se colpito da quella spada, grande o piccola che risultasse la ferita. Mai avrebbe mancato il bersaglio, o avrebbe potuto essere sviata prima che, portato a termine il colpo, toccasse il suolo: chi l’impugnasse in battaglia avrebbe ottenuto la vittoria, con quella menando fendenti». La spada infausta si tramanderà di generazione in generazione, spargendo sangue e omicidi tra i suoi successivi proprietari. In alto la Fata Morgana con Excalibur in un’illustrazione realizzata da Dora Curtis per le Stories from King Arthur and His Round Table di Beatrice Clay. 1905. A destra Svafrlami, figlio del re Sigrlami, mentre impugna la Tyrfingr.

dell’Ordine della Cavalleria del 1257 («al cavaliere si dà la spada, che nella sua forma è simile alla croce, per significare che come N. S. Gesu Cristo vinse, sulla croce, la morte, nella quale eravamo incorsi per il peccato di nostro padre Adamo, e cosí il cavaliere dovrà, con la spada, sterminare i nemici della Croce. E poiché la spada ha due tagli, e la Cavalleria è fatta per mantenere la giustizia, che consiste nel dare a ciascuno il suo, per questo la spada vuol dire che, per mezzo di essa, il cavaliere deve mantenere la Cavalleria e la giustizia»). Del resto la spada è anche attributo iconografico dei santi Michele e Giorgio. Con la spada in forma crucis, quindi, il Medioevo occidentale

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Dossier A destra Carlo Magno in un ritratto eseguito da Albrecht Dürer. 1512 circa. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum. Nella pagina accanto Hylestad (Norvegia). Particolare del rilievo del portale ligneo della chiesa locale con Sigurðr-Sigfrido che, con la spada Gramr, uccide il drago Fáfnir. XII sec.

Altre spade mitologiche

non trova la sua arma tecnicamente migliore, ma sicuramente l’arma archetipica perfetta dal punto di vista simbolico. La scimitarra, infatti, spada curvilinea e piú efficiente della rettilinea, nonché quella a un solo taglio (ossia falciforme), sono avvolte da un’aura fosca, perché rappresentano simbolicamente le spade degli infedeli.

Simbolo di regalità

La spada come simbolo regale ha radici molto antiche. Già nell’antica Roma il gladium dei legionari (che poi si trasformò in daga e spatha) diventa nel IV secolo simbolo del potere e lo ius gladii rappresenta la possibilità di comminare la pena di morte – quindi è simbolo di auctoritas o di giustizia. Le vere radici dell’accostamento tra spada e potere regale vanno ricondotte alle genti barbariche, ai popoli delle steppe e ai Germani, che ereditano la mitologia sacrale degli Sciti, presso i quali l’arma era oggetto di un culto cruento. Ne è testimonianza, tra l’altro, la leggenda della spada di Attila: essa vuole che allorché un pastore ritrovò accidentalmente una spada e la portò al re unno, questi affermasse che aveva ritrovato la spada di Marte sempre sacra presso gli Sciti, e lo considerò un presagio del fatto che sarebbe diventato un monarca universale. Come ha evidenziato il medievista Jean Flori, le piú antiche menzioni di consegna solenne della spada sono legate ai rituali di incoronazione dei re franchi d’Occidente. La ragione è dovuta al fatto che nella (segue a p. 96)

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Armi prodigiose La mitologia celtica e norrena annoverano molte spade dalle proprietà magiche. Cominciando dalla prima, troviamo Claíomh Solais, ossia «Spada della luce», arma presente in numerosi racconti popolari gaelici irlandesi e scozzesi. Nel ciclo irlandese, in particolare, Claíomh Solais è uno dei quattro tesori che i Túatha Dé Danann portarono in Irlanda, assieme alla Lancia di Lúg, al Calderone del Dagda e alla Pietra del Destino (Lia Fáil). Essa fu realizzata nella città settentrionale di Findias (o Gorias) da un potente fili (poeta) e mago di nome Uiscas e, nel Lebor Gabála Érenn (il Libro delle invasioni), si racconta che la spada fu portata in Irlanda dal re Nuada dalla Mano d’Argento, capo dei Túatha Dé Danann e re d’Irlanda, il quale guidò il suo popolo nella grande battaglia di Cath Maige Tuired contro i Fir Bolg, che all’epoca governavano l’Irlanda. Nella tradizione gallese è presente Dyrnwyn («Bianca Elsa»), spada magica di Rhydderch Hael, uno dei Tre Generosi Uomini dell’Isola di Britannia

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menzionati nelle Triadi Gallesi. Quando veniva sguainata, la lama era avvolta da una fiamma dal duplice potere: se in mano a un valoroso, il fuoco lo avrebbe aiutato nelle sue imprese, mentre ove fosse impugnata da un malvagio, il fuoco si sarebbe ritorto contro di lui. Passando alla mitologia norrena, importante è la spada Gramr, «irata» o «ostile», che l’eroe Sigurðr, alla fine del suo apprendistato, riceve in dono dal nano Regin; dotata di poteri magici, è la medesima arma con cui Sigfrido poi uccide il drago Fáfnir. Dáinsleif, spada del re Högne, possedeva proprietà magiche che le derivavano dall’essere stata per un periodo di tempo nel mondo dei morti: in particolare, aveva il potere di uccidere un uomo ogni volta che veniva sguainata, non falliva mai il colpo e le ferite da essa procurate si rivelavano inguaribili. La spada Skofnung non deve mai essere colpita dai raggi di sole sull’impugnatura e le ferite da essa provocate

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possono guarire solo se strofinate con una pietra magica che la accompagna; inoltre, non deve mai essere estratta in presenza di una donna. Hrunting e Nægling sono infine le spade usate da Beowulf – nell’omonimo poema epico anglosassone – nella lotta contro la Madre del mostro Grendel e contro un terribile drago.

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In alto un altro particolare del portale di Hylestad raffigurante il fabbro Regin che forgia la spada di Sigfrido. XII sec. Nella pagina accanto una versione moderna dell’uccisione del drago Fáfnir da parte di Sigfrido. Londra, British Museum.


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Dossier Miniatura raffigurante la consacrazione: l’unzione del re e il rito della spada. Inizi del XIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

incoronazione. Le fonti ci dicono che, quando nell’844 papa Sergio incoronò re di Lombardia Ludovico II, figlio di Lotario, lo fece cingendogli una spada «regale», prima attestazione in assoluto della presenza dell’arma nei rituali di incoronazione. Da quel momento il gesto si trasformò in una prassi, in quanto la trasmissione della spada divenne di fatto trasmissione del potere.

L’investitura

società occidentale, merovingia e carolingia, frutto della commistione del precedente tessuto romano con la nuova mentalità dei conquistatori germanici, la guerra costituisce un valore fondamentale, le armi hanno un valore sacro e ogni re non può che essere un guerriero. Con la romanizzazione, le monarchie barbariche si addolciscono progressivamente per opera della Chiesa, che non riesce però a eliminare i loro fondamenti guerrieri, ma si limita a cristianizzare i rituali,

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che da «magici e pagani» divengono «magico cristiani», come appunto quello della spada. Arma che è simbolo, presso i Germani, del potere armato dal diritto divino, dell’autorità, della violenza guerriera a carattere sacrale. Ciò spiega perché, a partire dall’VIII secolo, ma con forme rituali note solo a partire dal X, la consegna della spada – insieme allo scettro, alla corona e ad altri simboli del potere regale –, accompagnata da preghiere e benedizioni, diventa fondamentale nei rituali di

Con il tempo si assiste allo slittamento verso il basso della consegna delle armi e della spada – estensione dal sovrano a duchi, conti o, addirittura, signori e castellani che esercitano in nome del re funzioni pubbliche – fino ad arrivare a rituali simili anche per l’ingresso di individui nella militia, un avvenimento che era in precedenza caratterizzato dalla semplice consegna delle armi e della spada come strumento di lavoro. La vestizione cavalleresca, peraltro, ci è nota soprattutto in base alle descrizioni letterarie contenute nelle epopee, e appare come tale idealizzata, in ogni caso anche nella realtà – il rituale piú antico di vestizione cavalleresca risale alla fine del XII secolo e fu composto nell’Italia meridionale, regione governata da principi normanni – e mostra lo sforzo della Chiesa di instillare nella cavalleria i propri valori. Ma come si entrava in possesso di una spada nel Medioevo? Se nella realtà un cavaliere medievale, per avere una spada, poteva recarsi da un armaiolo e acquistarla, nell’immaginario e in letteratura ciò non avviene mai. In questi casi, infatti, la spada non si acquisisce con il denaro, ma si eredita, si sottrae al nemico dopo averlo sconfitto, si conquista in un’impresa oppure si riceve in dono. A ben pensare, come giugno

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afferma Donà, la spada medievale si ottiene sempre con il superamento di una prova (il cavaliere che la ottiene deve dimostrare di esserne all’altezza), e lo stesso dono – esplicito o implicito – è in realtà una prova mascherata. Basti pensare al noto tema dell’estrazione della spada dalla roccia, che in forma leggermente diversa si ritrova anche in un brano della Völsunga saga, ove un vecchio anziano e orbo – in realtà Odino in persona – entra in una sala in cui si stavano svolgendo delle nozze e conficca una spada in un ceppo esclamando: «Colui che riuscirà a estrarre questa spada dal ceppo, costui l’avrà in dono da me. E abbia per certo che mai potrà impugnare spada migliore di questa qui». Chi la meriterà sarà Sigmundr. Vi sono casi, invece, in cui il cavaliere cerca di tenere d’autorità la

Particolare dell’impugnatura e del fodero della spada sacra dei re di Francia, la «Joyeuse» o «spada di Carlo Magno». L’oggetto risulta dall’assemblaggio di pezzi prodotti in epoche differenti: pomo, X-XI sec.; guardia crociata, XII sec.; elsa, XIII e XIX sec. Parigi, Museo del Louvre.

spada, e non perché ne è degno o dopo il superamento della prova. In simili circostanze la sciagura si riverserà su di lui: ne è un esempio, nell’Huth Merlin, la storia di Balin, il quale trattiene una spada magica che, acquistata malamente, si trasformerà nelle sue mani in uno strumento malefico, tale da seminare lutti e rovine, fino a uccidere il proprio gemello Balan.

Un essere animato

A conferma di quanto la spada fosse importante nel Medioevo, essa non viene considerata un oggetto, ma qualcosa di vivo, e costituisce una parte di chi la possiede. La lingua del Medioevo usa il termine «spada» quasi come metafora e doppio dell’uomo; pertanto, come doppio oggettuale dell’uomo – che è dotato di nome, anima e personalità – l’arma possiede facoltà che pertengono all’anima: nei poemi essa ha intelletto, memoria, volontà e parola. Appare significativo, a tal proposito, il fatto che le spade antiche, soprat-

tutto quelle celtiche, avessero else antropomorfiche, tali da renderle analoghe agli uomini. Nella mitologia numerose spade parlano o cantano, come la celtica spada di Manannan figlio di Lir, Freagartach, «colei che risponde», ma che conferisce pure a chi la impugna il potere sopra il vento e, se puntata verso qualcuno, fa sí che egli risponda in modo veritiero a qualsiasi domanda. Nondimeno, anche molti cavalieri parlano e si affidano alla propria spada, sia nella finzione che nella realtà. Senza trascurare il fatto che una sorta di linguaggio della spada è rappresentato dalle scritte, spesso oscure e misteriose, che compaiono sulle lame delle spade anteriori al XIII secolo. Dal folklore emerge inoltre il mitema della spada gemella: alcuni personaggi nascono con la spada, ovvero hanno la vita legata a quella di una spada, perché possono essere uccisi solo da quella stessa arma, ovvero muoiono quando la stessa si spezza. In quanto esseri animati e vivi, le spade mitiche hanno un loro destino, felice o funesto, e soprattutto una loro personalità, in quanto possono essere fedeli o meno, cosí come cattive e crudeli che esigono un tributo di sangue, come accade nella mitologia norrena con la spada Tyrfingr (vedi box a p. 91).

L’attributo che forse piú degli altri dimostra che le spade siano considerate esseri animati – e non semplici cose – è il possedere quasi sempre un nome, onore che nel Medioevo è riservato

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Miniatura raffigurante la cerimonia di investitura di un cavaliere da parte del re, da un’edizione del poema Tristano e Isotta. XV sec. Chantilly, Castello.

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anche al cavallo, fedele e inseparabile compagno del cavaliere: cosí abbiamo spade che si chiamano Caladbolg, Dyrnwyn, Claíom Solais nel mondo celtico, Durendal o Joyeuse nel ciclo carolingio, Excalibur e Cla-

rent in quello arturiano, Colada o Tizona nell’epopea del Cid e cosí via. Nel campo dell’immaginario la spada, sia per la forma che per l’utilizzo, è un chiaro simbolo fallico: la sua forma è allungata, viegiugno

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ne usata solo dagli uomini, ha una funzione penetrante, il fodero che la protegge si chiama «vagina» e in latino il termine gladius è sinonimo di «pene». In effetti, sia in latino che nelle lingue germaniche e celtiche i termini che indicano la spada sono quasi sempre maschili o al massimo neutri (gladius, mucro, ensis, il gotico hairus, i norreni sverð e swaerth, l’antico sassone maki, l’irlandese claíomh, il gallese cleddyf e cosí via). Ma spatha, derivata dal greco e poi diffusasi in tutta l’area delle lingue romanze, è un termine femminile e ciò comporta importanti ricadute a livello simbolico. Il legame profondo tra il cavaliere e la sua arma si erotizza e la spada tende a trasformarsi in una donna, una signora, addirittura un’amata. La femminilizzazione della spada ha come conseguenza letterariamente rilevante il fatto che il cavaliere nasca al mondo nel momento in cui la spada lo sceglie, allo stesso modo in cui la dama sceglie il suo amante. Un esempio molto chiaro si ha nel corso della Chanson d’Aspremont, quando Carlo Magno combatte contro il pagano Aumont, il quale sta avendo la meglio nello scontro grazie alla sua meravigliosa spada Durendal. Interviene però il prode Rolando, il quale dapprima assesta un colpo di lancia al nemico, quindi sferra un altro colpo sul In basso spada di un conestabile con il suo fodero. L’insieme è realizzato con ferro, legno, cuoio, stoffa e ottone. Produzione francese, 1480 circa. Parigi, Musée de l’Armée.

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braccio, per poi finirlo. Poco prima di spirare, il pagano si augura che la spada possa finire nelle mani di un cavaliere coraggioso come Rolando: in effetti l’arma vola via dal suo vecchio signore morente e sceglie il suo nuovo proprietario. Tale motivo si declina in una miriade di varianti, come il tema della prova della spada (l’arturiana spada nella roccia), ovvero di agenti sovrannaturali che conferiscono all’eroe lo strumento (la fata che fornisce al suo protetto un’arma eccezionale), ovvero ancora l’impossessarsi dell’arma dopo il compimento di un’impresa straordinaria (l’uccisione di un drago o di un gigante). È importante sottolineare che, in ogni caso, tra il cavaliere e l’arma si instaura quasi un matrimonio, e che spesso la spada è legata a un personaggio femminile che ama il detentore stesso, si pensi alla Dama del Lago per Excalibur. Una volta unito alla spada della sua vita, il cavaliere medievale letterario diventa un tutt’uno con lei, si trasforma letteralmente nella spada che porta, e non se ne distacca mai, sia nella vita mondana che oltremondana.

Morte rituale

L’identificazione del ceto dominante con l’élite guerriera, a cavallo e armato di spada, era radicata in Europa fin dalle culture preistoriche e protostoriche. Alcuni interessanti ritrovamenti archeologici dell’età del Bronzo, consistenti in spade, pugnali, lance come offerte votive o per contesti funerari, provano la presenza di questo ceto guerriero

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Dossier A sinistra particolare di un vetro con sovrapposizioni in oro, argento e piombo raffigurante santa Odile e santa Lucia, che viene martirizzata: una spada le trafigge la gola affinché taccia per sempre. Produzione tedesca, 1520 circa. Parigi, Musée national du Moyen Âge. Nella pagina accanto arazzo sull’arte della forgiatura: sulla destra, è raffigurato Tubalcain, ricordato nel Libro della Genesi come «padre di quanti lavorano il rame e il ferro». Inizi del XVI sec. Parigi, Musée national du Moyen Âge.

anche in diverse zone dell’Italia settentrionale fin dal XVI secolo a.C.; rilevante risulta il tema della consacrazione della spada, della sua frammentazione o defunzionalizzazione rituale. Nel caso di guerrieri la cui forza e il cui coraggio erano noti a tutti coloro che li conoscevano, le loro armi venivano deposte accanto al defunto e, molto spesso, defunzionalizzate, il che significava tributare al guerriero morto il massimo onore e rispetto, in quanto la spada completamente piegata diventava asso-

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lutamente inservibile e non poteva piú essere utilizzata da altri. Infatti il cercare di raddrizzarla significava spezzarla e, anche nel caso in cui si fosse proceduto con estrema cura, riscaldandola per esempio con il fuoco per evitare di romperla, sarebbe stato comunque impossibile riuscire a ottenere la sua perfetta equilibratura originaria, per renderla di nuovo funzionale. Altro modo per far sí che nessun altro guerriero potesse brandire nuovamente la spada appartenuta a un eroe era quello di gettarla

nelle acque profonde di un lago o di un fiume oppure depositarla sulle sommità dei monti, in luoghi ritenuti sacri, inviolabili e inaccessibili. Se passiamo all’età di Mezzo, ritroviamo esempi celebri del topos letterario della consacrazione della spada da parte del cavaliere morente. Un primo caso è quello, legato al ciclo carolingio, che si ritrova nella Canzone di Orlando: il paladino, ferito a morte a Roncisvalle, temendo che gli venga sottratta Durendal e vedendo che non potrà resistere a lungo, tenta inutilmente di digiugno

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Da leggere

struggere la sua arma scagliandola contro tre massi. Le pietre però si sbriciolano, visto che l’arma è infrangibile in quanto consacrata; giunto in punto di morte, Orlando compie un ultimo disperato gesto di protezione, nascondendo con il suo corpo Durendal oltre che il corno Olifante. Carlo, giunto sul campo di battaglia, riconosce il paladino non dall’aspetto né dall’armatura, ma dagli esiti del tentativo di frammentazione rituale della spada del paladino morente, al fine di preservare in eterno la purezza dell’arma. Nel ciclo bretone, invece, in particolare nella Morte d’Arthur tramandata da Sir Thomas Malory, Artú, dopo essere stato ferito a morte dal figlio Mordred – angosciato per le sorti della sua Excalibur – affida la spada al fido Bedivere, con il compito di gettarla nelle acque del lago. Alla fine, dietro le insistenze del sovrano, il cavaliere scaglia l’arma nell’acqua e un braccio, emerso

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dalle profondità del lago, afferra l’arma, la brandisce tre volte e poi sparisce per sempre. In questa maniera la magica Excalibur sarebbe stata custodita in eterno senza alcuna possibilità di cadere nelle mani di un malvagio, pertanto Artú può compiere l’ultimo viaggio verso l’isola di Avalon.

Vero amore del guerriero

Come ha evidenziato la studiosa Laura Parisini, le corrispondenze tra le attestazioni letterarie e i culti eroici in Europa durante l’età del Bronzo appaiono sorprendenti e dimostrano che «molto prima dei re di Britannia e molto prima delle gesta di Orlando, tanti altri nobili guerrieri, consapevoli dell’avvicinarsi della fine, si erano preoccupati di purificare e consacrare per sempre le spade, simbolo del proprio valore e del proprio rango». Tuttavia, in molti casi le spade finivano anche nelle tombe del

Franco Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, La Nuova Italia, Firenze 1981 Carlo Donà, La spada del re, in Metafora medievale (a cura di Carlo Donà, Marco Infurna, Francesco Zambon), Carocci, Roma 2011; pp. 94-120 Carlo Donà, Il vero amore del guerriero, in I Prestigi della guerra. Ideologie, sensibilità e pratiche guerriere nelle rappresentazioni letterarie, «L’immagine Riflessa» N.S. XXI, 2012; pp. 141-170 Carlo Donà, La Spada nella Roccia e altre spade del destino, in Filologia e Letteratura: studi offerti a Carmelo Zilli, Cacucci Editore, Bari 2014; pp. 63-80 Carlo Donà, L’anima della spada, in «Homo interior». Presenze dell’anima nelle letterature del Medioevo, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2017; pp. 187-224 Livio Bessi, La spada occidentale. Combattimento, arte sacra, iniziazione, Castelvecchi, Roma 2005 Jean Flori, La cavalleria medievale, Il Mulino, Bologna 2002 Paolo Galloni, Il sacro artefice. Mitologie degli artigiani medievali, Laterza, Roma-Bari 1998 Laura Parisini, Il culto del guerriero e della spada: testimonianze di élite e aristocrazie militari nel Modenese tra Preistoria, Antichità e Medioevo, «Atti e Memorie. Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi», s. XI, 37 (2015); pp. 249-263

proprio padrone, per compiere insieme l’ultimo viaggio oltremondano, inseparabili in vita cosí come nella morte. È da ritenersi pertanto un’assoluta verità quanto Donà ha sintetizzato nel titolo di un suo magistrale saggio: la spada rappresentò realmente nell’Età di Mezzo «il vero amore del guerriero». V

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Perugia, cittĂ tra cielo e terra fra Umberto Maiorca

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luoghi perugia In occasione di «Perugia 1416», ecco una proposta di itinerario alla scoperta del capoluogo umbro, dall’alto delle sue torri alle profondità dei suoi pozzi

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a storia di Perugia si svela agli occhi di chi sa guardare. Con le sue settanta torri medievali, la città «turrena» si offre a cittadini e turisti: basta volgere lo sguardo verso il cielo e scrutare nelle pieghe degli antichi palazzi. Molte costruzioni sono ormai scomparse. Altre, ancora ben visibili, si stagliano fra i tetti dell’acropoli. Altre ancora sono state inglobate in strutture rinascimentali o seicentesche. Sono i segni di pietra dell’età d’oro della città. Nel XIII secolo Perugia rifiorisce: le mura etrusche, danneggiate dal tempo e dalle guerre, vengono restaurate e la cinta muraria si allarga in modo progressivo. I nobili e i ricchi trasformano le proprie abitazioni e le dotano di torri. Strutture imponenti, simbolo plastico del potere, gli alti edifici garantiscono la sicurezza cittadina nei turbolenti agoni politici dell’età di Mezzo oppure ospitano i depositi di armi e si trasformano nelle casseforti di pietra delle ricchezze delle grandi famiglie. Molte torri sono crollate. E dopo i numerosi terremoti o le infinite guerre intestine, non sono piú state ricostruite. Altre sono scomparse, inghiottite dall’imponente costruzione della Rocca Paolina, edificata dopo la Guerra del Sale del 1540, l’insurrezione popolare contro pa-

In alto Perugia, la chiesa di S. Ercolano. A sinistra Perugia, Palazzo dei Priori (oggi sede della Galleria Nazionale dell’Umbria), Cappella dei Priori. L’assedio di Totila, particolare del ciclo con Storie di San Ludovico e Sant’Ercolano, dipinto da benedetto Bonfigli fra il 1455 e il 1479. La scena è ambientata davanti a una monumentale veduta delle mura etrusche tra Porta Marzia e S. Ercolano.

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pa Paolo III che segnò il definitivo assoggettamento della città alla dominazione pontificia. Se quella degli Sciri, con i suoi 46 m di altezza, è la piú conosciuta delle torri perugine, altrettanto si può dire del Cassero di Porta Sant’Angelo, una delle porte cittadine incorporate nelle mure etrusche intorno al 1300, come margine difensivo del confine settentrionale della città medievale.

I condannati in gabbia

Sul corso principale, intitolato a Pietro Vannucci, detto Il Perugino, svetta invece la torre campanaria di Palazzo dei Priori, dall’impianto goticheggiante, costruita sul torrione di Benvenuto di Cola sul finire del XIV secolo. Nella parte in ombra del Palazzo Comunale emerge ancora la torre di Madonna Dialdana (o Madonna Septendana, vedova di Zigliuccio di Benvenuto Oddoni) la cui abitazione venne inglobata nell’edificio pubblico, in quella via della Gabbia che prende il nome dalla cella in cui si chiudevano i rei, per poi esporli al pub-

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luoghi perugia

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Torre degli Sciri

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In alto il medievale pozzo del Castellano. A sinistra pianta del centro di Perugia con l’indicazione dei monumenti piú importanti. Nella pagina accanto, a sinistra la torre degli Sciri. Nella pagina accanto, a destra Gonfalone della Giustizia, tempera e olio su tela di Pietro Vannucci detto il Perugino. 1501. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. In secondo piano, alle spalle dei santi Bernardino e Francesco, si vede il profilo di Perugia, caratterizzato dalle numerose torri.

LOSOF I I FI DE

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A

Perugia, città verticale. Da scalare anche con lo sguardo. Basta tenere il naso all’insú per scoprire balconi, terrazze e ballatoi. Come in via Bontempi, dove un balcone è circondato da una balaustra in pietra che reca lo stemma del Capitolo della cattedrale di S. Lorenzo: segno tangibile

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Le proprietà della Chiesa

S. Michele Arcangelo

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blico ludibrio e a una atroce morte per inedia. Poco lontano è ancora ben visibile la Torre dei Donati, una delle poche non distrutte per fare spazio alla Rocca Paolina, proprio sopra la Porta della Mandorla. Solo la parte inferiore dell’edificio, però, è originale, tutto il resto è stato ristrutturato nell’Ottocento. In via del Bufalo, l’angolo di una casa-torre poggia su una colonna in travertino. Nei pressi di via Oberdan, si imbocca via Floramonti, che prende il nome dalla nobile famiglia che qui abitò fino al XVII secolo e che ha lasciato una torre molto ben conservata anche se confusa tra i palazzi che la circondano. I resti di altri svettanti edifici, si possono scorgere in via Danzetta e in via della Torricella. Piú di ogni altra costruzione, colpisce però lo sguardo la chiesa di S. Ercolano, costruita tra il 1297 e il 1326 a ridosso delle mura etrusche. L’imponente costruzione ottagonale somiglia a una struttura militare piú che a un edificio religioso: una chiesa-torre, tra le poche rimaste in Europa, con le bianche mura esterne e la tipica struttura gotica trecentesca. Lungo la vicina via Regale, emerge il campanile quadrato con finestroni, alto 60 m, della basilica di S. Domenico, realizzato da Gasperino di Antonio a partire dal 1464. E poco oltre, tra i tetti di borgo XX Giugno, con i suoi 61,45 m di altezza, svetta l’aguzzo campanile poligonale del complesso benedettino di S. Pietro, costruito nel 1463 su disegno di Bernardo Rossellino, nell’area dove già nel VI secolo sorgeva l’antica cattedrale.

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che l’immobile rientrava tra le tante proprietà della Chiesa. Nell’antica piazza del Sopramuro, si può ancora ammirare l’elegante balcone del palazzo del Capitano del popolo, ora sede della Corte d’appello di Perugia. Sopra l’Arco dei Priori una trifora porta luce nell’ufficio del presidente del consiglio comunale di Perugia. Gli archi delle porte antiche si sono trasformati in veri giardini pensili: quello dei Gigli, in fondo a via Bontempi mostra una finestrella da cui pendono i fiori; l’Arco della Mandorla, in piazza Mariotti, è rigoglioso in primavera; sull’arco degli Sciri ondeggiano al vento piante e ombrelloni e lo stesso accade piú

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sotto, a Porta Trasimena. Anche Porta Cornea, arco di Sant’Ercolano, è arricchita da piante e fiori. Dopo il 1540, l’architetto del papa, Antonio da Sangallo il Giovane, salvò dalla distruzione la Porta Marzia: smontandolo pietra per pietra, spostò infatti questo meraviglioso monumento di età etrusca dalla sua posizione originale e lo ricollocò 4 m piú avanti, a fare da cornice trionfale allo stemma del papa Farnese. In piazza Grande, ora IV Novembre, la Fontana Maggiore, simbolo della città, è racchiusa tra due preziosi balconi pubblici: da un lato la scalinata e la balaustra della Vaccara, dall’altra le cosiddette Logge di

Braccio, volute dal condottiero dopo la conquista della città nel 1416. Perugia turrita, ma anche sotterranea. La città è ricchissima di pozzi, costruiti per dissetare l’acropoli. Quelli privati, all’interno dei chiostri dei conventi o degli antichi palazzi, sono centinaia. In piazza Biordo Michelotti, nel palazzo Veracchi Crispolti è ancora visibile il pozzo dove fu gettato il corpo del famoso condottiero, signore di Perugia, trucidato il 10 marzo 1398 dai sicari guidati da Francesco Guidalotti, abate di S. Pietro. Decine e decine anche i pozzi pubblici che ancora campeggiano nelle piazze e nelle vie cittadine, tutti caratterizzati dal grifo

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luoghi perugia «Perugia 1416»

La passione per la storia Aspro condottiero e prode combattente, il nobile capitano Braccio da Montone sconfigge le truppe del Comune di Perugia, caricando con la cavalleria pesante, e poi entra trionfalmente in città, sfilando per il corso cittadino senza armi né scorta. È il 12 luglio 1416. Braccio porta con sé i nobili esiliati dal governo popolare e inaugura una politica di potenza, giungendo a impadronirsi di buona parte di Umbria e Marche e a dominare, per due mesi, persino Roma. Ostacolato dal papa coi suoi condottieri, vince su tutti e finisce col governare terre anche in Campania e in Abruzzo. Ma la sua fortuna cessa all’improvviso e, come una stella cometa, Braccio scompare nel giugno 1424, ferito a morte in battaglia, sotto le mura de L’Aquila. Perugia ne conserva la memoria per alcuni interventi urbanistici e monumenti, come la Loggia di Braccio. Dal 2016 si è impiantata una memoria nuova di zecca: la presa del potere di Braccio ha ispirato una rievocazione storica, «Perugia 1416», alla quale è chiamata a partecipare l’intera città, suddivisa nei cinque rioni che prendono ciascuno il nome da una porta. Ed ecco i cortei storici, le dame e i cavalieri, le chiarine e le balestre, i mercati degli antichi mestieri, gli sbandieratori e gli artisti di strada, le gare di destrezza e abilità per aggiudicarsi un palio. La manifestazione mira a restituire senso di appartenenza e consapevolezza civica a una città che ne soffre la mancanza, usando come mezzi la storia, il patrimonio, il gioco e la fantasia. Dubbi ve n’erano, e non pochi, perché Perugia, avvicinando i 200 000 abitanti ed essendo dunque una città di media grandezza, è un aggregato sociale complesso nel quale creare unità usando questi mezzi può risultare impossibile: altri elementi, come le squadre sportive, catalizzano in questi casi l’appartenenza. Ma sembra invece che la cosa funzioni, e che i Perugini stiano rispondendo con passione. Assai interessanti sono i risvolti e le interpretazioni politiche dati a questa iniziativa. Novelli guelfi e ghibellini si sono battuti duramente, ora lodando, ora esecrando «Perugia 1416». È stato detto che finalmente era arrivata una ventata di novità, o invece che festeggiare Braccio a Perugia era come se in Italia si festeggiasse Caporetto. A ben pensarci, queste liti non rappresentano un limite né un elemento negativo, bensí un valore aggiunto: vuol dire che la storia, compresa quella medievale, entra ancora nel dibattito pubblico.

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Il corteo storico che sfila in occasione di «Perugia 1416», che quest’anno è in programma dall’8 al 10 giugno.

Gli animi si infiammano nella memoria del passato: benissimo, è giusto cosí. Ma permettetemi, come studioso di medievalismo oltre che di Medioevo, di essere disincantato. I simboli tratti dalla storia – soprattutto quella medievale – sono sempre polisemici: poter dire cose diametralmente opposte, cioè essere facilmente strumentalizzati, è una loro caratteristica. I Templari piacciono sia ai massoni che ai cattolici tradizionalisti. Robin Hood può essere un leale suddito che attende il ritorno del re legittimo, oppure il democratico ladro che toglie ai ricchi per dare ai poveri. Giovanna d’Arco è una donna contadina capopopolo, oppure una santa guerriera che esalta la sacralità del potere regio. E Tolkien… quando racconto agli Inglesi o agli Americani che il Signore degli Anelli in Italia è stato un’icona neofascista, mi guardano increduli. E Braccio? Braccio è come gli altri simboli. Può essere presentato come il campione della pace sociale, perché è noto che usò governare sopra le parti non servendosi delle fazioni. Può anche essere proposto come un signore formalmente rispettoso delle istituzioni (come del resto era tipico di allora: oggi gli storici pensano ai regimi signorili in continuazione, non in rottura rispetto a quelli comunali). Ma Braccio è anche il campione degli aristocratici contro i popolari, è un uomo che ha sconfitto la città e che si serve crudelmente della guerra come instrumentum regni. Insomma siamo alle solite: Braccio è insieme bianco e nero. O, meglio, non è nessuno dei due colori: siamo noi che lo disegniamo cosí. Tommaso di Carpegna Falconieri giugno

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rampante, a imperitura memoria del Comune medievale. Tra quelli meglio conservati, ne va segnalato uno in piazza Giordano Bruno, profondo 18,90 m e di sicuro anteriore al 1245, anche se nella vera, la balaustra di protezione chiusa attorno al foro, è incisa la data del 1452; reca un Grifo rampante, la conchiglia dei pellegrini di san Giacomo (piú avanti c’era un ospedale jacopeo) e il monogramma di Cristo in greco. Poco lontano, un pozzo del XV secolo riporta in una lapide, in parte murata in un palazzo, una graticola, simbolo del Capitolo Laurenziano. Serviva a rifornire il vicino ospedale per pellegrini.

Una presenza diffusa

A S. Ercolano, addossato al muraglione di contenimento, ci sono i resti della cavità (solo la vera e le lapidi laterali) che segnava l’andamento che doveva aver l’antico scalzo etrusco fino alla Porta Marzia. E dentro la Rocca Paolina si può ancora ammirare un pozzo di origine romana, proprio in corrispondenza della casa di Gentile Baglioni. Un manufatto medievale si trova in un cortile privato al numero civico 33 di via Bartolo. In via del Bufalo, invece, resta una vera rialzata e incastonata nel muro. Un altro pozzo si trova nel cortile interno

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In alto il pozzo della Sapienza Vecchia. In basso gli affreschi nella chiesa di S. Bevignate, edificata tra il 1256 e il 1262. Le pitture costituiscono una documentazione ricca e dettagliata sulla storia dei Templari.

di Palazzo dei Priori, una delle piú compiute espressioni architettoniche della civiltà medievale italiana, sede del Comune di Perugia, della Galleria Nazionale dell’Umbria e delle due maggiori corporazioni medievali cittadine: il Nobile Collegio della Mercanzia e il Nobile Collegio del Cambio. In via della Nespola, una piccola traversa della centrale via Ulisse Rocchi, all’interno di una galleria d’arte, un intero palazzo si avvita intorno a un pozzo profondissimo. Un’altra cavità, visibile ai turisti e ai Perugini, si trova invece nel chiostro del duomo di S. Lorenzo, incassata nel muro di destra, dietro l’abside: è anteriore al 1345, scende per una profondità di 37 m e raccoglie almeno 10 m di acqua. Un grande pozzo con puteale dodecagonale, ispirato alla Fontana Maggiore, si può ammirare nel bel chiostro del Collegio del-

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luoghi perugia la cappella dei priori

Una città sospesa Arrivati ai piedi della città, ecco ergersi altera e protetta dalle sue mura l’acropoli di Perugia. L’apparente e immobile fierezza invita il viaggiatore a espugnare il fitto dedalo di vicoli. Vige una sola, imperiosa, condizione: salire con lentezza. Approfittare del dono inusitato del tempo per ascendere le vie di pietra, che come dita di una mano imponente si aggrappano salde alle alture su cui si adagia la città. Nel cuore di quel palmo vibra il nervo che univa il colle del Sole al colle Landone, l’antica Platea Magna, dove nacque l’attuale corso Vannucci. Qui si eleva, possente, il Palazzo dei Priori, sigillo posto a imperituro ricordo del potere comunale e scrigno di tesori custoditi nella Galleria Nazionale dell’Umbria, che quest’anno celebra il centenario della sua inaugurazione. L’occasione è quanto mai favorevole per veleggiare a ritroso nel tempo e rivivere le tappe piú significative della storia civica e artistica della città. Il percorso museale condurrà il viaggiatore anche nella Cappella dei Priori, luogo innalzato a tempio della memoria con gli affreschi commissionati a Benedetto Bonfigli per celebrare i fasti della magistratura comunale. Il pittore perugino fu impegnato nella vasta campagna decorativa della cappella per circa venticinque anni, dal 1455 al 1479. Il programma iconografico prevedeva di omaggiare i santi Ludovico da Tolosa ed Ercolano, con storie tratte dalle rispettive leggende agiografiche. Da un lato, il principe angioino che scelse di vestire l’abito francescano, caro alla committenza soprattutto per motivi politici in virtú dei buoni rapporti tra la casata francese e il Comune. Dall’altro Ercolano, defensor civitatis sino alla morte contro l’esercito dei Goti di re Totila, che giunsero fin sotto le mura di Perugia per poi conquistarla nel 547. Il viaggiatore non faticherà a riconoscere tra le scene che

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animano le pareti della cappella un profilo urbano familiare, lo stesso da lui esplorato durante la lenta ascesa che lo ha condotto fin lí. Una città antica, sospesa sopra gli scranni lignei dei Priori, eppure ancora viva e riconoscibile seguendo il dipanarsi delle scene. È la città favolosa che fa da sfondo al Miracolo di San Ludovico ambientato a Messina, forse troppo lontana e straniera per Bonfigli, che allora cercò di restituirla attingendo alle sue conoscenze di città reale. È dunque facile riconoscere il campanile di S. Pietro, cosí giugno

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com’era prima degli interventi rosselliniani, poi la grande vetrata absidale di S. Domenico e le torri che popolavano allora il colle Landone. La stessa veduta, ancora piú fedele, è visibile nella Prima traslazione del corpo di Sant’Ercolano, dove si snoda l’effettivo percorso che dall’odierno borgo XX Giugno conduce fino al cuore dell’acropoli. Di nuovo, la città reale viene riprodotta puntualmente nell’episodio della Presa di Perugia, in cui rifulge la pelle delle mura fortificate che tentarono di proteggere strenuamente i cives dall’assedio nemico. Una fitta selva di torri e palazzi rivela al viaggiatore come si presentava la Perugia del Quattrocento, prima di scomparire definitivamente nel drastico progetto farnesiano di costruzione della Rocca Paolina. Volgendo lo sguardo, la grande parete sud della cappella fa quindi spazio al solenne corteo che accompagna il feretro di Ercolano nella scena della Seconda traslazione, in cui Bonfigli celebra il racconto sacro in quello che doveva essere l’episodio piú importante

dell’intero ciclo. La città si dispiega ora in tutta la sua magnificenza, partendo dall’ormai scomparsa chiesa di S. Stefano in Castellare fino al sagrato della Cattedrale, con al centro l’imponente mole del Palazzo Pubblico. Con tutta probabilità il sontuoso progetto della Cappella dei Priori è una delle testimonianze figurative urbane piú avanzate dell’epoca. È la trama di una memoria abilmente intessuta da Bonfigli, che riuscí a fondere la reale fisionomia della città con la sua identità civica in quello che lo storico dell’arte Bruno Toscano ha definito come «il piú importante ciclo del primo Rinascimento in Umbria», anche se la folgorante ascesa del conterraneo Perugino presto ne avrebbe oscurato la fama. Resta ora al viaggiatore il compito di conservarne il ricordo, laddove la città sospesa continuerà a fluttuare. Caterina Fioravanti

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Sulle due pagine particolari del ciclo con Storie di San Ludovico e Sant’Ercolano, dipinto da benedetto Bonfigli. 1455-1479. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, Cappella dei Priori. Da sinistra: Traslazione del corpo di Sant’Ercolano e due particolari della Seconda traslazione delle reliquie di Sant’Ercolano.

la Sapienza Vecchia, l’istituzione fondata nel 1361 per accogliere gli studenti poveri che si trasferivano a Perugia per seguire i corsi di Teologia e Diritto. In fondo a via dei Priori, davanti a S. Francesco al Prato, seconda chiesa francescana della città e luogo privilegiato di sepoltura degli esponenti delle grandi famiglie perugine, spicca un pozzo cinquecentesco con il grifo rampante in rilievo. Nella centralissima piazza Piccinino i Perugini riportarono invece un serbatoio di pietra che in origine era stato costruito davanti al tempio di S. Michele arcangelo al Cassero, nei pressi di una delle cinque porte medievali della città. Fuori dalle mura, nel contado di Porta Sole, sotto la grande chiesa sconsacrata di S. Bevignate, una delle testimonianze meglio conservate al mondo dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio, i monaci guerrieri costruirono ben tre pozzi. Nel Medioevo si riteneva che da quello dietro l’altare sgorgasse un’acqua miracolosa, grazie proprio all’intervento personale dell’eremita, il «santo misterioso» che i Perugini canonizzarono a furor di popolo nel 1453. F

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CALEIDO SCOPIO

Tessere romane LIBRI • Da sempre, e a ragione, considerato

un’eccellenza italiana, l’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro presenta gli interventi compiuti su alcuni dei piú importanti mosaici medievali di Roma

C

ome scrivono le curatrici nell’Introduzione, questo ponderoso volume – di taglio specialistico – non vuole soltanto dare conto degli interventi di restauro compiuti su otto grandi complessi medievali romani fra il 1991 e il 2004, ma intende soprattutto offrire una «testimonianza del lungo, paziente, tenace, mai interrotto itinerario di ricerca e di studio compiuto, in parallelo, intorno ad essi». L’opera si pone dunque come una sorta di «manifesto» dei principi che hanno sempre animato e continuano ad animare l’attività dell’Istituto Centrale del Restauro, oggi Istituto

Superiore per la Conservazione ed il Restauro, nel solco dei percorsi tracciati prima da Cesare Brandi e poi da Giovanni Urbani.

Otto grandi monumenti I lavori presentati sono stati condotti in alcune delle piú importanti chiese romane – S. Sabina, S. Teodoro, S. Lorenzo fuori le Mura, S. Pietro in Vincoli, l’oratorio di Giovanni VII nell’antica basilica di S. Pietro, S. Cecilia, S. Clemente e S. Maria Nova – e hanno interessato opere musive realizzate fra il V e il XII secolo. Nella prima parte dell’opera si succedono quindi i capitoli che ripercorrono in maniera sistematica

In alto basilica di S. Cecilia, Roma. Mosaico raffigurante papa Pasquale I e santa Cecilia. 816-825. A sinistra basilica di S. Pietro in Vincoli, Roma. Particolare del mosaico raffigurante il volto di san Sebastiano. VII sec.

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Maria Andaloro e Carla D’Angelo Mosaici medievali a Roma attraverso il restauro dell’ICR, 1991-2004 Istituto Superiore per la Conservazione ed il RestauroGangemi Editore, Roma, 542 pp., ill. col. e b/n 60,00 euro ISBN 978-88-492-3288-2 www.gangemieditore.it gli interventi eseguiti, mentre la seconda sezione ospita una serie di contributi di carattere piú generale, comunque ispirati dalle acquisizioni scaturite nel corso dei restauri. A conferma della dichiarazione d’intenti precedentemente ricordata, emerge, in entrambe le sezioni, l’importanza assegnata dagli specialisti dell’ICR (e ora ISCR) all’approccio multidisciplinare, grazie al quale i monumenti su cui si è di volta in volta operato si fanno testimoni parlanti non soltanto di antichi saperi e tecnologie, ma anche dei contesti storici in cui è maturata la loro realizzazione. Il tutto, ed è importante sottolinearlo, corredato da un eccellente apparato iconografico, forte, oltre che della documentazione fotografica, di elaborati grafici che permettono di apprezzare ancor meglio gli interventi eseguiti. Stefano Mammini giugno

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CALEIDO SCOPIO

Da una corte all’altra

MUSICA • Compositore capace di spaziare su piú registri, Heinrich Isaac trovò

fortuna dapprima in Italia, stabilendo una proficua collaborazione con Lorenzo de’ Medici, e poi in Austria, al servizio dell’imperatore Massimiliano I d’Asburgo

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ella grande stagione polifonica franco-fiamminga della seconda metà del XV secolo, Heinrich (o anche Henricus) Isaac, meglio conosciuto come Arrigo il Tedesco (1450 circa-1517), è stata una delle figure piú significative, sia per la copiosa produzione, sia per l’eccelsa qualità delle sue composizioni. Una vita molto interessante e movimentata quella di Isaac, le cui origini biografiche sono ancora avvolte nel mistero. Occorre attendere fino al 1470 per avere le prime testimonianze musicali che lo riguardano. Negli anni Ottanta del XV secolo è attivo come compositore presso la corte di Innsbruck, per recarsi successivamente a Firenze, dove instaura con Lorenzo de’ Medici una collaborazione artistica assai prolifica, divenendo cantore e compositore alla cappella del battistero di S. Giovanni, alla cattedrale e in altre chiese fiorentine.

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Nel 1492, all’indomani della morte di Lorenzo de’ Medici e a seguito della chiusura culturale a cui va incontro Firenze con la presenza di Girolamo Savonarola, anche la carriera di Isaac subisce un contraccolpo. Trasferitosi nel 1497 al servizio dell’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, continua a recarsi saltuariamente in Italia dove, nel 1502, concorre anche all’ambíto posto vacante di maestro di cappella della corte estense di Ferrara, poi ottenuto dal grande rivale Josquin Desprèz. Lo ritroviamo ancora una volta a Firenze nel 1514, dove soggiorna fino alla morte, che lo coglie nel 1517.

Una vita per la musica Un saggio della maestria compositiva di Isaac ci viene ora offerto dalla splendida antologia biografica ideata da Jordi Savall, che ripercorre le tappe piú significative legate alla vita giugno

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del compositore. Con una collaudata regia musicale, Savall mette in scena alcune straordinarie composizioni, che illustrano al meglio la cifra di un artista che ha saputo toccare con intensità le emozioni dell’uomo, assecondando in maniera egregia l’espressività musicale al contesto per cui ogni brano è stato composto. Si passa dallo splendido lied tedesco Innsbruck, Ich muss dich lassen, che in un languido linguaggio accordale commenta la sua dipartita da Innsbruck, ai toni profondamente melanconici dei mottetti funebri scritti per la morte di Cosimo (Parce Domine) e di Lorenzo de’ Medici, il Quis dabit capiti meo aquam, uno dei lamenti funebri piú intensi e belli della storia della musica.

Una versatilità straordinaria Ai toni piú mesti fanno da contraltare brani strumentali come Palle, palle, una briosa fanfara strumentale dedicata allo stemma mediceo, o Alla battaglia, che celebra la vittoria ottenuta da Firenze

Sulle due pagine i musicisti che, sotto la direzione di Jordi Savall, hanno inciso l’antologia di musiche del fiammingo Heinrich Isaac.

contro Genova nello scontro per la conquista della fortezza di Sarzana, nel luglio del 1487; un brano di grande impatto sonoro, nel quale ricorrono alcuni stilemi guerreschi con note ripetute, salti di quinta tipici degli «allarmi» di tromba. Ritroviamo invece momenti di

Henricus Isaac Nell tempo di Lorenzo de’ Medici & Maximilian I. 1450-1519 AliaVox, AVSA 9922, 1 CD La capella Reial de Catalunya e Hespèrion XXI, direttore Jordi Savall www.alia-vox.com solenne sontuosità nel mottetto a sei voci Angeli, archangeli, composto in occasione della Dieta di Worms del 1495, o anche in Optime Divino e Sancti Spiritus, eccelsi esempi di scrittura contrappuntistica altamente espressiva. Che si tratti di mottetti solenni, di fanfare, di canti carnascialeschi – è il caso di Hora e di maggio – la vena creativa di Isaac, sia nel contesto sacro che in quello profano, riesce a catturare l’attenzione attraverso un linguaggio capace di toccare tutte le corde emotive con scelte compositive efficaci, innovative e profondamente comunicative. Jordi Savall, alla guida dei suoi gruppi, La Capella Reial de Catalunya e Hespèrion XXI, ci regala ancora una volta una interpretazione geniale e ricca di colori, grazie anche alla bravura degli interpreti vocali e strumentali. Franco Bruni

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