Medioevo n. 255, Aprile 2018

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CA TO R A LO RIN CO M LO AG O RI NO

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

www.medioevo.it

UN DOCUMENTO

INEDITO

RACCONTA IL FLAGELLO DELLA MORTE NERA

OSCULUM INFAME Storie di un bacio osceno

MOSTRE

Carlo Magno va alla guerra

SPECIALE

ALLA SCOPERTA DELLA CITTÀ DEI PAPI

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VITERBO

€ 5,90 IN EDICOLA IL 3 APRILE 2018

CARLO MAGNO VA ALLA GUERRA OSCULUM INFAME IL DOCUMENTO DELLA PESTE GUERRA D’ASSEDIO/2 DOSSIER VITERBO

PESTE 1348

Mens. Anno 22 numero 255 Aprile 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 255 APRILE 2018

EDIO VO M E



SOMMARIO

Aprile 2018 ANTEPRIMA PROVERBI «Voi suonerete le vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane»

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MOSTRE Piacenza, crocevia d’Europa Da Amatrice ad Ascoli

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RESTAURI Una caccia mitica per il re di Germania APPUNTAMENTI Il sogno di Fortunato Omaggio ai Re L’Agenda del Mese

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CALEIDOSCOPIO

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LIBRI Lucca, capitale dell’arte serica Lo scaffale

106 110

MUSICA Arie di festa

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Dossier

QUANDO VITERBO DIVENNE LA CITTÀ DEI PAPI 73 30

STORIE La peste del 1348 Il notaio della morte nera

di Corrado Occhipinti Confalonieri 54

di Flavio Russo

di Domenico Sebastiani

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MOSTRE Torino Un romanzo tutto a colori

GUERRA D’ASSEDIO/2 Piú della spada poté il contagio

COSTUME E SOCIETÀ OSCULUM INFAME Certe equivoche effusioni

STORIE di Térence Le Deschault de Mondredon

30

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di Carlo Casi, con la collaborazione di Alessandro Barelli, Luciano Frazzoni e Germana Vatta


MEDIOEVO Anno XXII, n. 255 - aprile 2018 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Andreas M. Steiner Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Redazione: Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Barelli è presidente dell’Associazione Culturale Historia, Viterbo. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesco Colotta è giornalista. Luciano Frazzoni è direttore del Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller» di Farnese. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Térence Le Deschault de Mondredon è storico dell’arte medievale. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Corrado Occhipinti Confalonieri è cultore di materie storiche. Chiara Parente è giornalista. Stefania Romani è giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Domenico Sebastiani è cultore di tradizioni e leggende medievali. Germana Vatta è archeologa. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Illustrazioni e immagini: Massimo Tomasini: copertina e pp. 101-103 – Mondadori Portfolio: pp. 46/47; AGE: p. 5 (sinistra); Leemage: pp. 5 (destra), 44/45, 50/51, 52, 54/55, 58; AKG Images: pp. 58/59, 84 (basso, a sinistra), 98/99; Album: pp. 66/67, 83 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 6-10, 30-40 – Cortesia Soprintendenza ABAP per le province di Catanzaro, Cosenza e Crotone: Francesco Mannella: pp. 12, 13 (centro e basso), 14 – Württembergische Landesbibliothek, Stoccarda: p. 13 (alto) – RaBoe/ Wikipedia: p. 16 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 16 (centro), 17, 68-69, 76, 80, 85 (basso, a destra), 86, 89, 90, 92, 92/93, 93 (alto), 94, 95, 96 (alto), 98, 100, 104-105 – Doc. red.: pp. 16 (basso), 47-49, 53, 60/61 – DeA Picture Library: pp. 82/83; G. Dagli Orti: p. 55; M. Seemuller: p. 56; W. Buss: pp. 56/57; S. Vannini: pp. 73, 77, 78/79, 96 (centro), 97 (sinistra); Biblioteca Ambrosiana: p. 79; Icas94: pp. 94/95 (basso) – Shutterstock: pp. 62-65, 70 (basso), 74/75, 81, 84/85, 84/85 (basso, al centro), 85 (basso, a sinistra), 88/89, 91, 93 (basso), 94/95 (alto), 97 (destra) – Flavio Russo: p. 67 – Getty Images: MOLA: p. 70 (alto) – Tipografia Ragone, Viterbo: pianta alle pp. 86/87 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 57, 60, 75. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l.

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In copertina particolare di un piatto decorato con un busto di donna. 1579. Viterbo, Museo della Ceramica della Tuscia.

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Nel prossimo numero protagonisti

Opicino de Canistris

costume e società

Essere schiavi nel Medioevo

dossier

Quanto siamo barbari? Eredità di un’«invasione»


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

«Voi suonerete le vostre trombe, e noi suoneremo le nostre campane»

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uesta celebre frase, che oggi utilizziamo – in modo sia serio che scherzoso – per replicare a una minaccia, promettendo di rispondere per le rime, fu pronunciata per la prima volta in occasione della discesa in Italia di Carlo VIII, nel 1494. Nato ad Amboise (1470), Carlo fu tenuto sotto stretta sorveglianza dal padre, Luigi XI, per paura di avvelenamento, sequestro o malattia. Uscito dalla tutela della sorella Anna e di suo marito, Pietro di Borbone, decise di scendere in Italia, reclamando il regno di Napoli, su cui vantava diritti quale erede degli Angiò. Dopo aver allestito un’armata di 30 000 uomini, superò le Alpi e, senza incontrare resistenza, entrò in Italia. Circostanza che indusse Niccolò Machiavelli a parlare di «una

guerra fatta col gesso» da parte dei signori italiani, volendo cosí intendere che l’unica fatica compiuta dai Francesi era consistita nel segnare con una croce le porte delle case in cui alloggiarono i loro comandanti. Francesco Guicciardini, ambasciatore fiorentino e luogotenente delle truppe papali ai tempi del Sacco di Roma, descrisse la discesa di Carlo VIII nella sua Storia d’Italia. A Firenze il re di Francia trovò una fiera opposizione, causata dalle sue pretese eccessive. Uno dei quattro fiorentini inviati per trattare era Pier Capponi, il quale, pochi mesi prima, si era recato Oltralpe in qualità di ambasciatore. Guicciardini ci spiega dunque l’origine del proverbio: «Essendo un dí egli [Pier Capponi] e i compagni suoi alla

In alto Ingresso di Carlo VIII a Firenze, olio su tavola di Francesco Granacci. 1515-17. Firenze, Gallerie degli Uffizi. A sinistra statua di Pier Capponi, condottiero e politico fiorentino, nel Loggiato delle Gallerie degli Uffizi a Firenze.

immoderati, i quali per ultimo per la parte sua si proponevano, egli con gesti impetuosi, tolta di mano quella scrittura, la stracciò innanzi agli occhi del re, soggiungendo con voce concitata: “Poiché si domandano cose sí disoneste, voi sonerete le vostre trombe, e noi soneremo le nostre campane” volendo espressamente inferire che le differenze si deciderebbono con l’armi. E col medesimo impeto andandogli dietro i compagni, si partí subito dalla camera». Dopo l’incoronazione a Napoli, Carlo incontrò l’opposizione della Lega di Venezia e riuscí ad aprirsi una via di fuga nel corso della battaglia di Fornovo. Non fu però un re fortunato, perché, dopo essere riuscito a evitare gli intrighi di corte e di cadere in battaglia, l’8 aprile 1498 morí banalmente, dopo aver battuto la fronte contro l’architrave di una porta.

presenza del re, e leggendosi da uno secretario regio i capitoli


ANTE PRIMA

Piacenza, crocevia d’Europa

MOSTRE • Il capoluogo

riporta il proprio Duomo al centro dell’attenzione, grazie a una ricca esposizione e a nuovi percorsi di visita

In questa pagina Piacenza. Due immagini dell’interno del Duomo, intitolato a santa Maria Assunta e la cui cupola venne affrescata dal Guercino.

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razie alle iniziative che accompagnano la mostra «I misteri della cattedrale. Meraviglie nel labirinto del sapere», il Duomo di Piacenza torna a essere il fulcro della vita cittadina: il museo del luogo di culto riapre infatti con un nuovo allestimento e un percorso inedito porta alla cupola del Guercino, intrecciandosi con la rassegna che, fino al prossimo 7 luglio, ripropone codici miniati medievali, come il Libro del Maestro e il Salterio di Angilberga. «Volevamo valorizzare il patrimonio librario piacentino, che rappresenta un unicum a livello europeo, esponendo atti pergamenacei e volumi custoditi nell’Archivio

Storico Capitolare e di S. Antonino, nell’Archivio Storico Diocesano, ma anche in altre istituzioni, quali la Biblioteca Braidense, l’Ambrosiana di Milano e l’Archivio di Stato di Parma, che hanno prestato delle opere per l’occasione», spiega Manuel Ferrari, direttore dei Beni culturali della Diocesi di Piacenza Bobbio. «Siamo partiti dalla volontà di raccontare una stagione straordinaria di Piacenza, che in età medievale era un crocevia culturale e un nodo di passaggio fra l’Europa centrale e il Mediterraneo, in cui si incrociano assi viari e direttrici fluviali. L’idea è quella di far conoscere questa stagione attraverso testi prodotti sia in città aprile

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Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae

sia a Bobbio, che, con lo scriptorium del monastero di S. Colombano, era secondo solo a Montecassino».

All’ascolto degli antifonari La mostra si articola in sezioni tematiche, che ripercorrono la vita civile, politica e del clero. Il percorso muove dall’Archivio Storico Capitolare, mai aperto prima, destinato all’approfondimento musicale, in cui ascoltare con vari iPad brani tratti dagli antifonari. Poi tocca alle sagrestie superiori, con una quarantina di pezzi, prodotti fra il IX e il XV secolo, che illustrano la storia civile e religiosa del territorio. La visita prosegue quindi con gli spazi dedicati al Libro del Maestro:

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aprile

In questa pagina alcuni fogli, riccamente miniati, del Libro del Maestro, noto anche come Codice 65. XII sec. Piacenza, Archivio Storico Capitolare. L’opera è una summa del sapere medievale: riporta indicazioni sul costume e sulla liturgia, è indicativo dell’arte e della musica dei secoli successivi all’anno Mille e comprende informazioni sulla sacra rappresentazione.

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ANTE PRIMA

Miniature realizzate per un corale da Giorgio da Muzano raffiguranti la Natività (a sinistra) e santo Stefano. 1492. Piacenza, Museo di S. Antonino. nella prima sala buia i visitatori seguono il racconto scientifico sull’opera, mentre nella successiva assistono alla proiezione in 3D di un video che funziona, dice Ferrari, «come una sorta di macchina del tempo, riportando al periodo del codice e ai suoi contenuti. La proiezione si chiude su un punto che segna l’accesso a uno scrigno, la sala espositiva del volume». In quest’area è stato ricostruito anche uno scriptorium, con un monaco al lavoro, nel quale seguire la nascita dei volumi, dalla pergamena alla rilegatura alla scrittura. L’iter della rassegna temporanea si sovrappone a quello di visita della cattedrale. Da queste sale i visitatori salgono infatti alla cupola, passando per i matronei e il sottotetto del transetto meridionale: una volta in alto, dal tamburo possono ammirare il ciclo affrescato dal Guercino, composto dai sei scomparti con le immagini dei profeti Aggeo,

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Osea, Zaccaria, Ezechiele, Michea, Geremia, e dalle lunette, in cui si alternano episodi dell’infanzia di Gesú a otto Sibille. Scendendo, si entra quindi in uno spazio con le strutture «avanzate» dalle ristrutturazioni di fine Ottocento. Un’altra tappa tocca l’interno del campanile, finito nel 1333, con la possente impalcatura lignea, dalla quale si accede alla stanza segreta, che custodisce l’ingranaggio dell’antico orologio posto sulla facciata della cattedrale.

DOVE E QUANDO

«I misteri della Cattedrale. Meraviglie nel labirinto del sapere» Piacenza, Cattedrale e Kronos-Museo della Cattedrale fino al 7 luglio (dal 7 aprile) Orario ma-me-gio, 9,00-20,00; ve-sa, 9,00-23,00; do, 9,00-20,00; chiuso il lunedí Info tel. 331 4606435 oppure 0523 308329; e-mail: cattedralepiacenza@gmail.com; www.cattedralepiacenza.it

Precetti per l’anno liturgico Fra i pezzi da segnalare, figura sicuramente il Libro del Maestro, detto anche Codice 65, dalla numerazione ottocentesca, che classificava le opere librarie in ordine di grandezza. Il Magister a cui si riferisce il testo è il canonico deputato alla cura delle liturgie. Il libro, una summa del sapere medievale, come racconta Ferrari «contiene indicazioni relative all’intero anno liturgico, oltre a una parte corposa sull’astronomia, sull’astrologia, su usi e costumi legati al cambio delle stagioni, con consigli su come era bene curarsi, su

cosa fare. Iniziata nel 1120, quando parte la costruzione della cattedrale, la stesura del codice, che viene scritto nell’arco di quarant’anni, si inserisce nell’ottica di un progetto in cui la Chiesa piacentina rivendica la propria autonomia da quelle di Ravenna e di Milano». Altri gioielli sono il Codice purpureo di Angilberga, che la regina donò al monastero di S. Sisto, e il Registrum magnum, che raccoglie atti notarili di epoca romanica, in una carrellata sulla vita cittadina del tempo. Stefania Romani aprile

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ANTE PRIMA

Da Amatrice ad Ascoli MOSTRE • Un progetto mirato a diffondere la conoscenza del patrimonio artistico

marchigiano offre l’occasione per riscoprire Cola dell’Amatrice, versatile pittore, architetto e scultore, che visse nell’Ascolano una delle fasi piú feconde della sua carriera, inserendosi a pieno titolo tra i piú brillanti ingegni del tempo

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scoli Piceno ospita la mostra «Cola dell’Amatrice da Pinturicchio a Raffaello», terza delle manifestazioni previste dal progetto«Mostrare le Marche», che mira a far conoscere il patrimonio artistico del territorio e promuovere la riscoperta di artisti che, con le loro opere, hanno contribuito alla formazione dell’offerta culturale della regione. L’esposizione offre l’occasione di riscoprire l’arte e celebrare i quarant’anni di permanenza di Nicola Filotesio, pittore, architetto e scultore, detto Cola dell’Amatrice (1480 circa-dopo il 1547), nella città di Ascoli Piceno. Giunto in questi luoghi nel 1508 per eseguire il Polittico delle Piagge, Cola trova ad Ascoli la sua seconda casa. Viene dunque ricostruito il percorso artistico di Cola dell’Amatrice, dalla sua formazione alla sua affermazione come artista del Rinascimento italiano. Le opere affrontano inizialmente, attraverso raffronti visivi, gli studi di Cola, per poi concentrarsi sulla sua attività nell’Ascolano. Sono cosí esposte all’interno della mostra, oltre alle opere dell’artista amatriciano, dipinti di maestri a lui coevi e dei quali studiò la lezione, tra i quali Raffaello, il Pinturicchio, il Perugino e Antoniazzo Romano. Inoltre, per permettere una maggiore comprensione del modus operandi di Cola e dei suoi studi, grazie alla Biblioteca Comunale di Fermo, si possono osservare i fogli del suo taccuino, nel quale spiccano gli schizzi, realizzati nella Stanza

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San Pietro, particolare del Trittico di Appignano del Tronto, tempera su tavola di Cola dell’Amatrice. 1500-1549. Ascoli Piceno, Pinacoteca Civica. L’opera viene assegnata al periodo giovanile dell’artista, che si presume l’abbia dipinta prima del Polittico delle Piagge. della Segnatura, degli affreschi di Raffaello. Nel percorso espositivo si possono vedere, fra le altre, la Pala di San Vittore, l’Istituzione dell’Eucarestia, nonché la Morte della Vergine, tornata eccezionalmente ad Ascoli grazie al prestito accordato dai Musei Capitolini.

Restauri e nuove acquisizioni In vista della mostra, le tavole di Cola dell’Amatrice, presenti nei Musei Civici di Ascoli Piceno, sono state oggetto di una ricognizione diagnostica che ha permesso di individuarne l’autografia e di rilevare le trasformazioni realizzate dall’artista in corso d’opera. In ultimo è anche sottolineata l’attenzione di Cola dell’Amatrice verso la scultura. Molte tavole provengono dai centri appenninici segnati dal recente terremoto, da quelle località comprese fra Lazio, Abruzzo, Marche e Umbria, che nel Rinascimento furono teatro di un’insospettabile fioritura artistica. Il percorso espositivo si snoda in diversi luoghi, tutti legati alla presenza dell’artista, all’interno della città di Ascoli Piceno, dalla Pinacoteca Civica al complesso monumentale di S. Francesco che ospita la sezione dedicata

DOVE E QUANDO

«Cola dell’Amatrice da Pinturicchio a Raffaello» Ascoli Piceno, Pinacoteca Civica e Sala Cola d’Amatrice fino al 15 luglio Orario Pinacoteca: ma-do e lunedí festivi e prefestivi, 10,00-19,00; Sala Cola: ma-do e lunedí festivi e prefestivi, 11,00-13,00 e 15,00-19,00 Info tel. 0736 298213 alla grafica, mentre nel refettorio del convento dell’Annunziata, oggi sede della Facoltà di Scienze dell’Architettura dell’Università degli Studi di Camerino, è possibile ammirare l’affresco di Cola raffigurante la Salita al Calvario. (red.) aprile

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ANTE PRIMA

Una caccia mitica per il re di Germania

RESTAURI • Nel 1242,

uno splendido sarcofago dell’età imperiale romana fu voluto da Federico II come sepolcro per Enrico VII, suo figlio primogenito. La preziosa arca è stata recentemente oggetto di un intervento di restauro che ha definitivamente confermato la sua «doppia vita»

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l 10 febbraio 1242 a Martirano, in Calabria, cadendo in un dirupo nel quale s’era con ogni probabilità volontariamente gettato, moriva Enrico VII di Hohenstaufen, figlio primogenito di Federico II di Svevia. Per via dei duri contrasti insorti, l’allora trentunenne re di Germania era stato fatto arrestare dal padre stesso, il quale, tuttavia, non volle negargli una degna sepoltura e

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dispose perciò che fosse inumato nel Duomo di Cosenza. Seguendo una prassi diffusa, per le spoglie del sovrano fu riutilizzata una pregiata arca d’epoca romana.

Un sepolcro insigne Da allora, la tradizione ha individuato il manufatto nel sarcofago che effettivamente si conserva nel Duomo di Cosenza

e del quale si è recentemente concluso il restauro. Un intervento che ha permesso la rilettura del reperto, cosí da coglierne aspetti e problematiche di cui nel tempo si è molto discusso. Il sarcofago, in marmo greco, probabilmente proconnesio, mostra una lunghezza di 2,15 m per una larghezza e altezza di 0,70. Il retro, oggi poggiato al muro della navata laterale destra aprile

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della chiesa, è sbozzato a scalpello, sicché è probabile che anche nella collocazione originaria fosse appoggiato a una parete. Rinvenuto interrato presso un pilastro della navata nel 1934, in occasione di una campagna di restauri del Duomo, doveva in origine essere ben visibile nella chiesa, ricostruita dopo il terremoto che la distrusse nel 1184 e inaugurata nel gennaio 1222 alla presenza di Federico II. «Ciascun lato corto del sarcofago – spiega Mario Pagano, Soprintendente Archeologo di Cosenza – è decorato con un elegante grifone, animale legato al culto di Apollo che richiamava l’apoteosi dell’imperatore, e quindi dell’eroe, in questo caso Meleagro, a cui il defunto si assimilava. La fronte del sarcofago è infatti occupata dalla narrazione del mito dell’uccisione

A destra miniatura raffigurante Enrico VII di Hohenstaufen, dalla raccolta nota come Weingartner Stifterbüchlein. 1510 circa. Stoccarda, Württembergische Landesbibliothek. Nella pagina accanto, sotto il titolo la fronte del sarcofago romano riutilizzato per dare sepoltura a Enrico VII. II sec. d.C. Cosenza, Duomo.

del cinghiale calidonio da parte dell’eroe Meleagro e dei suoi compagni di caccia. Al centro della rappresentazione è raffigurato l’eroe che uccide con la lancia il cinghiale, rintanato in un nascondiglio, verso il quale convergono, da entrambi i lati, gli altri partecipanti alla mitica caccia. A sinistra è rappresentata la porta della città di Calidone, forse anche allusiva alle porte dell’Ade.

In questa pagina e nella pagina accanto, al centro vari particolari del rilievo che orna la fronte del sarcofago e che ha per soggetto la caccia dell’eroe Meleagro al cinghiale calidonio.

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ANTE PRIMA Uno dei grifoni scolpiti sui lati corti del sarcofago di Enrico VII. Cosenza, Duomo.

Davanti a essa è il padre dell’eroe, il re di Calidone Oineo, col bastone di comando, preceduto da un portatore di scure. A destra del cinghiale giace al suolo un personaggio nudo, probabilmente Anceo, ucciso dallo stesso animale. La datazione è assicurata, oltre che dallo stile, dalla testa del secondo personaggio da destra, il quale, forse non a caso, reca la scure, che richiama il ritratto di Caracalla, grande appassionato di caccia, oltre che della vita militare. Il volto dell’eroe, l’unico fortemente caratterizzato, presenta il ritratto di un uomo calvo, col naso aquilino, evidentemente il defunto morto prematuramente. La derivazione dal teatro di tutta la scena raffigurata è ben evidente, tanto che alcuni dei personaggi sembrano quasi portare sottili maschere, mentre sappiamo che la rappresentazione del mito di Meleagro sulla fronte dei sarcofagi è già diffusa in Italia nel II secolo d.C. La passione per il teatro conobbe

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un rinnovato sviluppo proprio in età severiana. In tutto l’impero, e in particolare in Italia, vengono restaurati, ampliati e riccamente decorati gli antichi teatri. Nulla di sicuro si può dire, purtroppo, sulla provenienza del sarcofago».

Riuso selezionato «L’epoca di Federico II conosce un riuso selezionato, oltre che una raffinata imitazione, delle sculture antiche, e sappiamo, per esempio, che i sarcofagi di porfido dei sepolcri imperiali della cattedrale di Palermo furono trasportati con navi da Roma. L’importazione di marmo proconnesio in Italia comincia già nel II secolo, e in questo marmo è realizzato l’arco di Traiano di Ancona. Lo stile corsivo del sarcofago fa pensare a una sua lavorazione in Italia. L’ubicazione a Cosenza, la perfetta conservazione, e la mancanza di danni e rilavorazioni, potrebbero essere indizio di una

provenienza e di un’officina locali, tanto piú che in Calabria è documentata l’estrazione e la lavorazione di marmo e granito». Al momento del ritrovamento, nel 1934, nel sarcofago si conservavano resti scheletrici, studiati nel 1998 da Gino Fornaciari, dell’Università di Pisa. Dalle analisi è risultato che il sarcofago conteneva un unico scheletro, in parziale connessione anatomica, incompleto e frammentato, di un individuo adulto di sesso maschile, vigoroso, deceduto fra i 30 e i 34 anni di età. Si trattava di un individuo robusto, alto 1,72 m, ma che presentava tracce di numerose ernie a livello del rachide dorso-lombare, espressione evidente di traumi e/o di sovraccarichi ponderali nel periodo dell’adolescenza, verosimilmente per la pratica dell’equitazione, e da forti attacchi muscolari. La rotula sinistra si presentava asimmetrica, per la presenza di un abnorme sviluppo dell’apice inferiore. Si tratta di un importante trauma del ginocchio occorso in età giovanile, che comportò la frattura dell’apice rotuleo, e riparatasi poi in deformità, tale da compromettere seriamente l’andatura del soggetto. Il dato è risultato in accordo con una delle poche caratteristiche fisiche note di Enrico VII, a cui era stato attribuito il soprannome di «sciancato». I resti erano avvolti in un drappo rettangolare lungo oltre 3 m, sopra il quale erano appoggiati una corona, uno scettro e un globo, tre oggetti che richiamano con forte immediatezza le immagini del re di Germania contenute nel resoconto illustrato in 73 miniature del suo viaggio in Italia, commissionato dopo il 1330 dal fratello Baldovino, arcivescovo di Treviri, e ora conservato a Coblenza nel Landeshauptarchiv. Giampiero Galasso aprile

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ANTE PRIMA

Il sogno di Fortunato

APPUNTAMENTI • Sebbene il terremoto del 2017 abbia imposto la chiusura

del santuario a lei dedicato, la Madonna della Libera di Pratola Peligna sarà anche quest’anno protagonista della festa che si tiene nella prima domenica di maggio

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ella cultura cristiana maggio è il mese dedicato alla Madonna. E il culto mariano è molto sentito in Abruzzo; in particolare, il paese di Pratola Peligna, in provincia dell’Aquila, celebra annualmente una festa religiosa assai sentita e radicata, di cui è protagonista la Madonna della Libera. La tradizione trae origine dal leggendario rinvenimento di un quadro raffigurante la Vergine in atto di proteggere con il suo manto un gruppo di devoti, fra cui papa Celestino V. A trovarlo, agli inizi del 1500, sarebbe stato un uomo di nome Fortunato, malato di peste, che si era rifugiato fra i ruderi di un’antica chiesetta campestre, nella

In alto una veduta di Pratola Peligna (L’Aquila). Al centro e in basso due immagini della festa in onore della Madonna della Libera.

borgata Torre, alle falde del monte Cerrano, per attendere in un luogo sacro la propria morte. Vuole la leggenda che, dopo essersi addormentato, Fortunato avesse visto in sogno una signora, vestita

di rosso e con un manto celeste, che si presentò come «Liberatrice», assicurando l’immunità dalla peste per lui e per tutto il popolo di Pratola Peligna. Al risveglio, il pover’uomo intravide tra le macerie il dipinto della Vergine. Alla notizia, la gente accorse sul posto per raccogliersi in preghiera, decidendo poi di portare l’immagine in paese con un carro trainato da buoi.

Nel luogo «scelto» dai buoi Ma subito si accese una disputa con i vicini di Sulmona, che volevano per sé il dipinto, visto che il luogo si trovava al confine fra i due Comuni. Si decise allora di risolvere la contesa lasciando ai buoi la scelta del luogo verso il quale dirigersi. I buoi presero la strada per Pratola, fermandosi nel posto in cui in seguito fu costruito il santuario nel quale il dipinto (che misura 106 x 170 cm) viene tuttora custodito, all’interno della cappella

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Omaggio ai Re L

a Corea del Sud è oggi un Paese all’avanguardia, i cui cittadini, però, non abbandonano tradizioni e cultura del proprio passato. Fra gli avveniristici grattacieli della capitale, Seoul, si trova il santuario di Jongmyo, un antico edificio dedicato alla commemorazione dei re e delle regine della dinastia Joseon (1392-1910), nonché luogo sacro per il confucianesimo, inserito fra i Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO. Il tempio fu costruito nel 1394 per ordine di re Taejo, il primo della dinastia Joseon; venne innalzato contemporaneamente al nuovo palazzo reale Kyongbokkung. Si voleva che il santuario di Jongmyo divenisse il piú importante sito religioso della Corea, perciò alla sua architettura fu accordata la stessa attenzione riservata ai palazzi reali. Il complesso venne espanso durante il regno dei sovrani successivi. Nel 1592 gli invasori giapponesi lo incendiarono, ma venne prontamente ricostruito nel 1601: la seconda edificazione è quella giunta ai giorni nostri.

Patrimonio immateriale dell’Umanità Ancora oggi, ogni prima domenica di maggio (quest’anno il 6), nel santuario si svolge l’antica cerimonia del Jongmyo Daeje, ovvero l’Omaggio ai Re, riconosciuta anch’essa dall’UNESCO quale Patrimonio culturale intangibile dell’Umanità. Si tratta di una rappresentazione di grande effetto: gli abiti originali e il suono degli strumenti musicali tradizionali danno l’impressione di rivivere nella Corea del Medioevo. I riti odierni non prevedono piú il sacrificio di una mucca o di un maiale per ingraziarsi le divinità del Cielo e della Terra, tuttavia gli officianti continuano a rivolgersi a quelle silenziose presenze per chiedere pace e prosperità. Agli dèi e agli spiriti degli antenati vengono offerti 63 tipi di cibi e vino. Ad accompagnare le cerimonie sono la musica di corte Jerye-ak e la danza Ilmu, arti antiche che aggiungono solennità e si accordano alla bellezza architettonica del santuario. I riti dello Jongmyo Daeje hanno origine nel Medioevo, realizzata nel 1540 e restaurata quarant’anni piú tardi. La Madonna della Libera è da allora oggetto di una venerazione particolare, che culmina nella festa paesana che si tiene ogni anno la prima domenica di maggio, quest’anno il 6. In mattinata si svolge un corteo con la banda musicale e si celebra una

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al tempo in cui la dinastia Joseon attribuiva loro una grande importanza, allo scopo di rafforzare il legame con gli antenati e invocarne l’aiuto per la buona conservazione della nazione coreana. Le cerimonie attuali sono organizzate ed eseguite dai discendenti dell’antica famiglia imperiale, con l’assistenza di altre organizzazioni culturali. Il ruolo del re viene interpretato da un anziano membro della famiglia, di solito il principe ereditario, che tecnicamente avrebbe eseguito gli stessi riti se la Corea fosse ancora una monarchia. T. Z.

Messa. Nel pomeriggio va in scena una solenne processione per il paese, con la statuta della Madonna della Libera trasportata in mezzo a una folla di fedeli. I festeggiamenti si chiudono in serata con un concerto bandistico in piazza Garibaldi, fra le suggestive luminarie allestite per le strade del centro. Purtroppo, il

santuario è stato danneggiato dal terremoto del 2017 ed è al momento chiuso per motivi di sicurezza. Ciononostante, i Pratolani si stanno adoperando per continuare a far vivere la festa, seppure in forma contenuta e adeguata all’attuale situazione. Tiziano Zaccaria

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre

alate degli ornamenti tessili di influenza cinese. Mentre le Invenzioni pittoriche, della sezione seguente, evocano con fantasia i disegni delle sete pregiate lavorate da tessitori altamente qualificati. La sezione dedicata al Lusso proibito prende spunto dal registro che dal 1343 al 1345 annovera le vesti proibite elencate nella cosiddetta Prammatica delle vesti. Chiudono l’esposizione i Velluti di seta, che anticipano gli sviluppi della moda nel secolo successivo. info Firenze Musei: tel. 055 290383; e-mail: firenzemusei@operalaboratori.com; www.galleriaaccademiafirenze. beniculturali.it

ROMA VOGLIA D’ITALIA. IL COLLEZIONISMO INTERNAZIONALE NELLA ROMA DEL VITTORIANO Palazzo Venezia e Gallerie Sacconi al Vittoriano fino all’8 aprile

L’esposizione presenta per la prima volta in modo organico la raccolta, vasta e sorprendente, che i coniugi statunitensi George Washington Wurts ed Henriette Tower misero insieme a cavallo fra XIX e XX secolo e donarono poi allo Stato italiano, per l’esattezza al Museo di Palazzo Venezia, dove tuttora è conservata. Alla base del progetto vi è anche l’idea di restituire il contesto della raccolta Wurts, ovvero quella particolare forma di collezionismo che, tra Ottocento e Novecento, si legò cosí intimamente all’Italia, fino a concretizzarsi spesso nella donazione allo Stato di singole opere o di intere raccolte. La mostra illustra le dinamiche del collezionismo, soprattutto anglo-americano, e del mercato internazionale, sullo sfondo dei radicali cambiamenti vissuti in quegli

FIRENZE anni dalla giovane nazione italiana e dalla sua nuova capitale, Roma. La costruzione del Vittoriano, iniziato nel 1885 e inaugurato nel 1911 nell’occasione dell’Esposizione che celebrava il cinquantenario dell’Unità d’Italia, diviene l’emblema che caratterizza la città all’alba del Novecento. info www.mostravogliaditalia.it FIRENZE TESSUTO E RICCHEZZA A FIRENZE NEL TRECENTO. LANA, SETA, PITTURA Galleria dell’Accademia fino al 15 aprile (prorogata)

nonostante i costi molto alti delle materie prime e dei coloranti, un livello di eccellenza, tale da imporsi in Europa, a dispetto delle guerre, delle frequenti epidemie, nonché delle crisi finanziarie e dei conflitti sociali. Il percorso espositivo della mostra è cronologico e approfondisce lo sviluppo e la provenienza dei manufatti. La prima sezione illustra le cosiddette Geometrie mediterranee, che rimandano al mondo musulmano, segue il Lusso dall’Asia mongola, con i piccoli motivi vegetali e animali. Seguono le Creature

DA BROOKLYN AL BARGELLO: GIOVANNI DELLA ROBBIA, LA LUNETTA ANTINORI E STEFANO ARIENTI Museo Nazionale del Bargello fino all’8 aprile

Dopo essere stato esposto, tra il 2016 e il 2017, presso il Museum of Fine Arts di Boston e la National Gallery di Washington, approda a Firenze un capolavoro che ha lasciato l’Italia nel lontano 1898: la lunetta con la Resurrezione di Giovanni della Robbia. L’opera viene presentata nella cornice del Museo Nazionale del Bargello, dove si conserva la maggiore raccolta al mondo di sculture realizzate in terracotta

L’importanza dell’arte tessile a Firenze nel Trecento è il tema del nuovo progetto espositivo realizzato dalla Galleria dell’Accademia. Proprio nel Trecento, infatti, inizia a svilupparsi un nuovo fenomeno legato al lusso: la moda. La qualità della lana e in seguito della seta dei prodotti fiorentini raggiunse,

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invetriata dai Della Robbia. Commissionata probabilmente intorno al 1520 da Niccolò di Tommaso Antinori (1454-1520), che dette inizio alla fortuna imprenditoriale di questo antichissimo casato fiorentino, la lunetta è di dimensioni monumentali (174,6 x 364,5 x 33 cm) e resta oggi uno dei piú notevoli esempi della produzione di Giovanni della Robbia (1469-1529). La lunetta raffigura il Cristo risorto, con il committente Antinori in ginocchio alla sua destra e i soldati attorno al sepolcro, secondo l’iconografia tradizionale: il tutto su un articolato sfondo di paesaggio e all’interno di una fastosa cornice di frutti e fiori popolata da piccoli animali. In parallelo, viene presentata un’opera di Stefano Arienti, artista italiano tra i piú apprezzati in ambito internazionale, dal titolo Scena fissa, con cui la scultura robbiana viene riletta e reinterpretata, dando vita a un inaspettato dialogo tra arte rinascimentale e contemporanea. info tel. 055 2388606; e-mail: mn-bar@beniculturali.it; www.bargellomusei.beniculturali.it SIENA AMBROGIO LORENZETTI Complesso museale Santa Maria della Scala fino all’8 aprile

Alla luce del successo fin qui ottenuto, la mostra Ambrogio Lorenzetti al Santa Maria della Scala è stata prorogata fino al prossimo 8 aprile. L’esposizione rappresenta, in realtà, il culmine del progetto avviato nel 2015 con l’iniziativa «Dentro il restauro» e mirato a una profonda conoscenza dell’attività

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dell’artista, a una migliore conservazione delle sue opere e a favorirne la conoscenza presso il pubblico nazionale e straniero. Con «Dentro il restauro», sono state trasferite al Santa Maria della Scala alcune importanti opere dell’artista che necessitavano di indagini conoscitive, di interventi conservativi e di veri

senese, che tra l’altro contenevano la prima rappresentazione di una tempesta nella storia della pittura occidentale nella quale, come scrive il Ghiberti, spiccava la «grandine folta in su e’ palvesi»; il ciclo di dipinti della chiesa agostiniana senese, modello esemplare ancora agli occhi di Giorgio Vasari, quando si approntò l’armadio delle reliquie della cattedrale; quello della cappella di S. Galgano a Montesiepi, a tal punto fuori dai canoni della consolidata iconografia sacra che i committenti pretesero delle sostanziali modifiche poco dopo la loro conclusione. info tel. 0577 286300: e-mail: ambrogiolorenzettisms@ operalaboratori.com; www.santamariadellascala.com

ROMA LA MADONNA ESTERHÁZY DI RAFFAELLO Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma-Palazzo Barberini fino all’8 aprile

Grazie a una politica di scambi incrociati con musei italiani e stranieri, viene presentata una delle opere piú interessanti e significative della produzione raffaellesca. La Madonna Esterházy di Raffaello è una tavola in pioppo di piccole dimensioni, proveniente dal Museo Nazionale di Belle Arti ungherese, dipinta intorno al 1508, tra la fine del periodo fiorentino e l’inizio di quello romano. In quell’anno, cruciale per l’arte dell’Occidente, si aprivano i cantieri per le decorazioni del nuovo Vaticano: la volta della

e propri restauri: il ciclo di affreschi staccati della cappella di S. Galgano a Montesiepi e il polittico della chiesa di S. Pietro in Castelvecchio a Siena (nell’occasione piú correttamente ricomposto e riunito con l’originaria cimasa raffigurante il Redentore benedicente) sono stati allestiti in un cantiere di restauro «aperto». I restauri sono proseguiti con l’apertura di altri due cantieri, il primo nella chiesa di S. Francesco, volto al recupero degli affreschi dell’antica sala capitolare dei frati francescani senesi, e l’altro nella chiesa di S. Agostino, nel cui capitolo Ambrogio Lorenzetti dipinse un ciclo di storie di Santa Caterina e gli articoli del Credo. Tornano cosí a vivere idealmente i cicli di affreschi del capitolo e del chiostro della chiesa francescana

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AGENDA DEL MESE Cappella Sistina e le Stanze degli appartamenti papali. Il confronto con il disegno conservato presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi – qui rappresentato con una riproduzione di grande formato – evidenzia il momento di passaggio intellettuale dell’artista dal mondo fiorentino a quello romano. Nel disegno, infatti, il fondale presenta un partito tipicamente fiorentino fatto di colline e alberi. Si tratta di un primo stato, diverso da quello finale su tavola, dove si possono invece vedere rovine antiche di sapore romano, nelle quali si sono voluti riconoscere i resti del Tempio di Vespasiano e della Torre dei Conti nel Foro Romano. Elementi dell’antico che insomma rimandano a Roma. info tel. 06 4824184; e-mail: Gan-aar@beniculturali.it; www.barberinicorsini.org LORETO L’ARTE CHE SALVA. IMMAGINI DELLA PREDICAZIONE TRA QUATTROCENTO E SETTECENTO. CRIVELLI, LOTTO, GUERCINO Museo-Antico Tesoro della Santa Casa fino all’8 aprile

Primo appuntamento del ciclo di eventi «Mostrare le Marche», l’esposizione è finalizzata alla valorizzazione e alla tutela del patrimonio artistico e culturale dei luoghi colpiti dal sisma ed al rilancio dal punto di vista turistico ed economico degli stessi. «L’arte che salva» si propone di approfondire la conoscenza della produzione artistica collegata a un fenomeno che ha caratterizzato in profondità la cultura non solo europea, la predicazione. Il tema è illustrato nei suoi molteplici aspetti: dalle figure dei predicatori dei grandi

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SPIRA RICCARDO CUOR DI LEONE. RE, CAVALIERE, PRIGIONIERO Museo Storico del Palatinato fino al 15 aprile

La città in cui Riccardo Cuor di Leone trascorse parte della sua prigionia, «ospite» dell’imperatore Enrico VI, dopo essere stato arrestato al rientro dalla Terra Santa, dedica al grande sovrano inglese una ricca rassegna, forte di oggetti concessi in prestito da molti dei maggiori musei europei. Manoscritti, armi, sculture e reperti archeologici documentano le vicende delle grandi dinastie che furono protagoniste ordini religiosi, francescani, domenicani, agostiniani e gesuiti, alle devozioni da loro promosse con le relative immagini, spesso opera di grandi artisti quali Crivelli, Lotto, Muziano, Guercino; dall’effetto della predicazione sui fedeli, attraverso il caso emblematico di santa Camilla Battista da Varano, al rapporto con altre fedi religiose e fino alla spinta missionaria mondiale dei predicatori della Compagnia di Gesú. Il percorso è illustrato attraverso una quarantina di oggetti, comprendenti dipinti, sculture, incisioni, manoscritti e volumi provenienti dalla Regione Marche, con un nucleo significativo di opere salvate dal terremoto del Centro Italia. info tel. 071 9747198 oppure 06 68193064; e-mail: museoanticotesoro@gmail. com oppure segr.artifex@gmail.com

principali di quegli anni – i Plantageneti e i Capetingi –, cosí come delle casate che ebbero comunque un ruolo decisivo nella vicenda di Riccardo, primi fra tutti gli Hohenstaufen. Temi centrali del percorso espositivo sono inoltre la vita di corte, la letteratura, la cavalleria, la terza crociata e l’architettura militare. Un’occasione da non

perdere per verificare quanto meritata sia la fama di cui il re continua a godere. info www.museum.speyer.de ZURIGO DIO E LE IMMAGINI. QUESTIONI CONTROVERSE DELLA RIFORMA Museo nazionale fino al 15 aprile

In occasione del 500° anniversario della Riforma protestante, il Museo nazionale ripercorre l’epoca del riformatore zurighese Ulrich Zwingli (1484-1531) e analizza la disputa sulla vera fede che animò l’ancora giovane movimento protestante. La salvezza dell’anima non si compra: su questo principio Zwingli, Lutero e gli altri riformatori del XVI secolo si trovavano d’accordo. Riguardo ad altre questioni, per molti ormai incomprensibili nel XXI secolo, si accesero conflitti tra i diversi movimenti protestanti. In che forma si rende presente Dio nell’eucarestia? Qual è il momento piú indicato per il battesimo? I religiosi si possono sposare? Attorno a queste domande, che alla fine determinarono una vera e propria spaccatura all’interno del movimento protestante, ruota l’esposizione in programma al Museo nazionale. Oltre alle controversie della Riforma, la mostra si dedica anche al riformatore zurighese Ulrich Zwingli. In servizio come prete al Grossmünster di Zurigo dall’inizio del 1519, con le sue tesi del 1523 e l’impegno con cui si dedicò alla traduzione della prima Bibbia completa in lingua tedesca, egli gettò le basi della Riforma in Svizzera. Dalla aprile

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lotta a parole a quella armata il passo fu breve. La spada e l’elmo di Zwingli divennero, dopo la sua morte, dapprima trofei per i cattolici e in seguito reliquie della Riforma. info www.nationalmuseum.ch PAVIA GIOVANNI DA PISA. UN POLITTICO DA RICOSTRUIRE Musei Civici fino al 29 aprile

La mostra è il logico corollario del progetto di restauro e valorizzazione che ha riguardato quattro tavole attribuite al pittore ligure d’inizio Quattrocento Giovanni da Pisa, originariamente appartenenti a un medesimo polittico. Presso il Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale» sono state restaurate San Leonardo e Santa Chiara, di proprietà privata ma concesse in deposito a Palazzo Madama, cosí come la Sant’Agata del Museo Civico di Pavia; la

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Madonna col Bambino del Museo Diocesano di Genova era stata invece restaurata

presso il laboratorio genovese di Antonio Silvestri. La ricomposizione del polittico viene effettuata per la prima volta e la sua presentazione prende avvio da Palazzo Madama, da dove poi farà tappa presso i Musei Civici di Pavia e al Museo Diocesano di Genova. In seguito a questo intervento, si è aperta la possibilità di sottoporre a una nuova verifica l’ipotesi già da tempo formulata dalla critica, di una comune provenienza delle due tavole e degli altri due dipinti presentati in mostra: la Sant’Agata di Pavia e la Madonna col Bambino di Genova. Gli studi hanno inoltre consentito di ipotizzare che a completare il polittico ci fosse una quinta tavola: un frammentario San Lorenzo di cui si ignora la attuale ubicazione. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it

BERGAMO RAFFAELLO E L’ECO DEL MITO Accademia Carrara fino al 6 maggio

La mostra approfondisce l’opera e la fortuna che il genio di Urbino ha conosciuto nel tempo, modello di perfezione rincorso negli anni a lui coevi e nei secoli a venire. A Bergamo sono esposte alcune tra le piú rappresentative opere di Raffaello, dalla formazione agli esordi giovanili, dalle immagini simboliche alla consapevolezza di una nuova pittura di «grazia, studio, bellezza»; oltre a un’ampia riflessione sul capolavoro simbolo delle collezioni di Accademia Carrara, il San Sebastiano. Dipinti, sculture e testimonianze raccontano il mondo attorno a Raffaello, dalla sua formazione all’opera, fino all’«ossessione» degli autori successivi per un maestro il cui fascino ha influenzato intere generazioni.

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AGENDA DEL MESE Dalle opere del padre, Giovanni Santi, di Perugino, di Pintoricchio e dei piú importanti pittori del suo tempo, fino a una panoramica dedicata al contemporaneo in cui artisti come Picasso, De Chirico, Giulio Paolini e Francesco Vezzoli sono chiamati a raccontare quanto l’ispirazione di un maestro tanto straordinario si sia propagata fino ai giorni nostri. info www.lacarrara.it TORINO PERFUMUM. I PROFUMI DELLA STORIA Palazzo Madama fino al 21 maggio

L’evoluzione e la pluralità dei significati assunti dal profumo dall’antichità greca e romana al Novecento sono documentati da oltre 200 oggetti, tra oreficerie, vetri, porcellane, affiche e trattati scientifici. Il percorso espositivo presenta un excursus storico avviato a partire dalle civiltà egizia e greco-romana che, sulla scorta di tradizioni precedenti, assegnano al profumo molteplici significati: da simbolo dell’immortalità, associato alla divinità, a strumento di igiene, cura del corpo e seduzione. Nell’Europa del primo Medioevo, sottoposta all’urto delle invasioni barbariche, sono rare le testimonianze di utilizzo di sostanze odorifere al di fuori della sfera sacra. Sopravvive tuttavia la concezione protettiva e terapeutica del profumo, come testimoniato in mostra dalla preziosa bulla con ametiste incastonate proveniente dal tesoro goto di Desana. L’uso di profumi a contatto con il corpo con funzione di protezione nei confronti di malattie è attestato piú tardi

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nei pommes de musc frequentemente citati negli inventari dei castelli medievali, come il rarissimo esempio quattrocentesco in argento dorato in prestito dal Museo di Sant’Agostino di Genova, che conserva ancora la noce moscata al suo interno. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it FIRENZE SPAGNA E ITALIA IN DIALOGO NELL’EUROPA DEL CINQUECENTO Gallerie degli Uffizi, Aula Magliabechiana fino al 27 maggio

Il nuovo progetto espositivo è imperniato su fogli di straordinaria qualità, attribuiti a maestri come Alonso Berruguete, formatosi fra Firenze e Roma e uno dei primi testimoni di un linguaggio «rinascimentale» a ovest dei Pirenei, o come Romolo Cincinnato e Pompeo Leoni, due degli artisti chiamati a lavorare in Spagna nei piú prestigiosi cantieri reali, e include inoltre disegni di Francisco Pacheco, Patricio e Eugenio Cajés, Vicente Carducho, protagonisti della stagione che chiude il Cinquecento in Spagna. A partire dal Quattrocento, la

Spagna aveva iniziato il processo di unificazione che la portò a diventare una monarchia, e poi un impero a dimensione planetaria, sulla base di tradizioni artistiche complesse e diversificate: una situazione che portò anche a piú stretti legami in ambito culturale, favoriti dalle rotte commerciali che collegavano stabilmente ormai le diverse sponde del Mediterraneo. La mostra si articola in una premessa e otto sezioni e per ricollocare le singole creazioni grafiche nel loro contesto di provenienza, il percorso include anche sculture, dipinti, esempi di oreficeria e arti applicate, con l’intento di suggerire utili confronti ispirati a uno sguardo multidisciplinare, assunto come principio ordinatore. info Firenze Musei, tel. 055 290383; e-mail: firenzemusei@ operalaboratori.com; www.uffizi.it NEW YORK REGNI DORATI: LUSSO ED EREDITÀ DELLE ANTICHE AMERICHE The Metropolitan Museum of Art fino al 28 maggio

L’oro fu senza dubbio il piú potente innesco delle drammatiche vicende che fecero seguito all’incontro fra

gli esploratori e i conquistadores europei con le popolazioni dell’America centrale e meridionale. Abbagliati dalle ricchezze dei Maya e degli Aztechi, gli Occidentali si abbandonarono infatti a razzie colossali, che hanno causato la dispersione di una quantità incalcolabile di oggetti e opere d’arte. Ciononostante, anche grazie alle indagini archeologiche succedutesi negli ultimi decenni, molto si è comunque salvato ed è attingendo a questo patrimonio superstite che il Metropolitan ha potuto allestire la sua nuova rassegna. Da segnalare, a tal proposito, la presenza in mostra del Tesoro del Pescatore, un insieme di ornamenti in oro trafugati dagli Spagnoli e destinati a Carlo V, che mai giunsero a destinazione perché inabissatisi con il veliero che li trasportava, scoperto e recuperato negli anni Settanta del Novecento. info www.metmuseum.org BOLOGNA IL NETTUNO: ARCHITETTO DELLE

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stagione di interventi architettonici e idraulici di grandiosa portata, che ancora oggi qualificano l’area centrale della città e i suoi spazi pubblici. L’acqua tornata a zampillare dopo i recenti lavori di restauro, è l’elemento principale della fontana. I meccanismi nascosti dietro al suo funzionamento, svelano una storia idraulica complessa e segreta, composta da un reticolo di acquedotti, canali e condotte che disegnano la città sotterranea, contribuendo a delineare un paesaggio tanto invisibile quanto sorprendente. ACQUE. BOLOGNA, L’ACQUA PER LA CITTÀ TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO Santa Maria della Vita fino al 10 giugno

Allestita in occasione della fine dei restauri alla fontana del Nettuno, la mostra racconta per la prima volta uno dei capitoli piú

affascinanti della storia della città di Bologna, quello della costruzione del sistema delle fontane pubbliche negli anni del rinnovamento del centro cittadino da parte di papa Pio IV. La fontana del Nettuno è il monumento iconico, che conclude una straordinaria

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L’invenzione di Bologna città delle acque trova un significativo fondamento nei progetti del Cinquecento, realizzati proprio per sottolineare lo stretto collegamento tra città e acque. Il progetto espositivo in S.Maria della Vita illustra, attraverso l’esposizione di opere, documenti e materiali selezionati, la genesi progettuale e gli sviluppi del sistema idraulico della fontana del Nettuno, partendo dal Medioevo e dall’antichità romana fino ad arrivare agli interventi infrastrutturali rinascimentali. info www.genusbononiae.it

MOSTRE • Carlo Magno va alla guerra Torino – Palazzo Madama

fino al 16 luglio info www.palazzomadamatorino.it

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llestita nella Corte Medievale di Palazzo Madama, la mostra presenta per la prima volta in Italia il rarissimo ciclo di pitture medievali del Castello di Cruet (Val d’Isère, Francia), una testimonianza unica della pittura del Trecento in Savoia. Lunghe complessivamente oltre 40 metri, le pitture sono state staccate dalle pareti della dimora savoiarda nel 1985 per ragioni conservative e, dopo un restauro concluso nel 1988, sono da allora esposte presso il Musée Savoisien di Chambery. Il ciclo rappresenta episodi tratti da una celebre chanson de geste, il Girart de Vienne di Bertrand de Bar-sur-Aube, composta nel 1180 e dedicata alle vicende di un cavaliere della corte di Carlo Magno. Raffigura pertanto scene di caccia nella foresta, battaglie, duelli, l’assedio a un castello, l’investitura feudale, la raffigurazione di un banchetto, accanto a episodi narrativi specifici di questo poema cavalleresco. Presentate in sequenza in Corte Medievale, le pitture ricostruiscono idealmente la decorazione della sala aulica del castello di Cruet grazie a uno scenografico allestimento realizzato dall’architetto Matteo Patriarca con Gabriele Iasi e Studio Vairano. Accanto a queste straordinarie pitture, la mostra presenta una cinquantina di opere provenienti dalle collezioni di Palazzo Madama e da altre istituzioni, con pezzi mai esposti prima al pubblico. Essi arricchiscono il percorso consentendo di immaginare la vita nei castelli medievali della contea di Savoia tra 1200 e 1300. Sculture, mobili, armi, avori, oreficerie, codici miniati, ceramiche, vasellame da tavola, cofanetti preziosi, monete e sigilli documentano i tanti aspetti dell’arte di corte e della cultura materiale dell’epoca.

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AGENDA DEL MESE TOURCOING (FRANCIA) CRISTIANI D’ORIENTE. 2000 ANNI DI STORIA Musée des beaux-arts Eugène Leroy fino al 16 giugno

Dopo essere stata presentata a Parigi, all’Institut du monde arabe, approda a Tourcoing – città della Francia settentrionale, ai confini con il Belgio – la grande mostra «Cristiani d’Oriente». A ispirare il progetto espositivo è un dato storico di rilevanza indiscussa,

300 opere – molte delle quali vengono presentate in Europa per la prima volta e che, a Tourcoing, includono anche manufatti eccezionalmente concessi in prestito dall’Iraq e non presenti nell’edizione parigina della mostra – viene ripercorsa la vicenda delle comunità cristiane orientali dall’antichità ai giorni nostri, documentandone, oltre alla religione, la politica, la cultura e l’arte. Fra i numerosi capolavori presenti in mostra, possiamo ricordare i Vangeli Rabbula, un manoscritto siriano del VI secolo, gli affreschi di Dura Europos (III secolo) e mosaici provenienti dalle piú antiche chiese di Palestina e di Siria. info www.muba-tourcoing.fr

sezioni: la prima è incentrata sul tema della Trasformazione delle città, ossia sull’evoluzione dei centri di antica fondazione in rapporto ai cambiamenti socioeconomici e all’organizzazione delle nuove sedi del potere (laico ed ecclesiastico); imperniata sulla Fine delle ville, la seconda sezione prende in esame l’insediamento rurale di tipo sparso, già tipico delle fattorie di età romana; i grandi mutamenti e, in particolare, l’ideologia funeraria del VI-VII secolo caratterizzano la terza

MILANO DÜRER E IL RINASCIMENTO TRA GERMANIA E ITALIA Palazzo Reale fino al 24 giugno

BOLOGNA MEDIOEVO SVELATO. STORIE DELL’EMILIA-ROMAGNA ATTRAVERSO L’ARCHEOLOGIA Museo Civico Medievale fino al 17 giugno

vale a dire il fatto che, secondo i Vangeli, teatro della predicazione di Cristo fu la Palestina e la nuova religione che da quell’esperienza prese le mosse si diffuse inizialmente fra il Mediterraneo e l’Eufrate, lungo il Nilo e sulle rive del Bosforo. Oggi, a dispetto delle vicissitudini antiche e moderne, i cristiani del Vicino e Medio Oriente non sono la presenza residua di un passato ormai lontano, ma sono parte essenziale di un mondo arabo che hanno contribuito a formare. Grazie a una selezione di oltre

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Nell’ambito delle iniziative organizzate per i 2200 anni dalla fondazione romana di Modena, Parma e Reggio Emilia, il Museo Civico Medievale di Bologna presenta una mostra di archeologia sul Medioevo emiliano-romagnolo. L’esposizione offre una panoramica del territorio regionale attraverso quasi un millennio di storia, dalla tarda antichità (IV-V secolo) al Medioevo (inizi del Trecento). L’Emilia-Romagna, infatti, fornisce una prospettiva di ricerca privilegiata per la comprensione di fenomeni complessi che investono non solo gli aspetti politici, sociali ed economici, ma la stessa identità culturale del mondo classico nella delicata fase di passaggio al Medioevo. Il percorso si articola in sei

urbani, studiati nella nuova fase di età comunale: Parma e Ferrara (di cui sono esposti oggetti di straordinario valore, perché conservati nonostante la deperibilità del materiale, il legno), Rimini e Ravenna, caratterizzate da rinnovato dinamismo e Bologna, rappresentata dalla piú antica croce viaria lapidea (anno 1143), recuperata nel 2013 sotto il portico della chiesa di S. Maria Maggiore. info tel. 051 2193916 oppure 2193930; e-mail: museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it/ arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo

sezione, dedicata a Nuove genti, nuove culture, nuovi paesaggi; allo sfarzo di alcuni manufatti afferenti alle sepolture fanno riscontro i pochi materiali recuperati nei contesti urbani regionali – Fidenza (Parma), Rimini e Ravenna – della quarta sezione dedicata a Città ed empori nell’alto Medioevo; con la quinta sezione, Villaggi, castelli, chiese e monasteri: la riorganizzazione del tessuto insediativo, vengono evidenziate le nuove forme d’insediamento (VIII-XIII secolo); il racconto termina ciclicamente – grazie alla sesta sezione, incentrata su Dopo il Mille: la rinascita delle città, con il ritorno al tema dell’evoluzione dei centri

Grazie a una rappresentativa selezione di opere di Albrecht Dürer e di alcuni dei suoi piú importanti contemporanei tedeschi e italiani, la mostra documenta la fioritura del Rinascimento tedesco nel suo momento di massima apertura verso l’Europa, sia al Sud (soprattutto Italia settentrionale) sia al Nord (Paesi Bassi). Protagonisti dell’esposizione sono dunque l’artista di Norimberga, ma anche l’affascinante quadro di rapporti artistici tra nord e sud Europa tra la fine del Quattro e l’inizio del Cinquecento, il dibattito religioso e spirituale come substrato culturale delle opere di Dürer, il suo rapporto con la committenza attraverso l’analisi della ritrattistica, dei soggetti mitologici, delle pale d’altare, la sua visione della natura e dell’arte tra classicismo e anticlassicismo, la sua figura di uomo e le sue aprile

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ambizioni d’artista. Si possono ammirare circa 130 opere, principalmente del maestro del Rinascimento tedesco – fra pitture, stampe grafiche e disegni –, che nelle mani di Albrecht Dürer assumono un valore e una centralità nel processo creativo praticamente senza precedenti. La collezione è affiancata da opere di artisti tedeschi suoi contemporanei come Lucas Cranach, Albrecht Altdorfer, Hans Baldung Grien da un lato, e dall’altro di grandi pittori, disegnatori e artisti grafici italiani della Val Padana fra Milano e Venezia, come Giorgione, Andrea Mantegna, Leonardo da Vinci, Andrea Solario, Giovanni Bellini, Jacopo de’Barbari, Lorenzo Lotto. info palazzorealemilano.it; mostradurer.it; prenotazioni tel. 02 54913; www.ticket24ore.it FIRENZE VOCI DI DONNE. L’UNIVERSO FEMMINILE NELLE RACCOLTE LAURENZIANE Biblioteca Medicea Laurenziana fino al 29 giugno

Una ricerca condotta su tutti i fondi manoscritti della Biblioteca Laurenziana ha permesso di individuare un cospicuo numero di testi legati

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al mondo femminile, nei quali la donna appare sia come artefice di opere, ma anche come soggetto, a diversi livelli, dell’opera presentata. Da queste «scoperte» è nata ora la mostra, che propone 66 manoscritti, presentati in sei sezioni, ognuna ordinata, al proprio interno, secondo l’ordine cronologico delle biografie. Il percorso si apre con una selezione di donne autrici di poesie, trattati, memorie, diari e anche di lettere, sia a carattere pubblico che privato. Seguono opere dedicate, a vario titolo, a donne, alcuni manoscritti commissionati da donne e un nutrito numero di codici da loro copiati. L’ultima sezione, che presenta manoscritti posseduti da donne, si chiude con tre splendidi codici acquistati da una donna proprio per essere donati alla Biblioteca. info tel. 055 2937911; e-mail: b-mela.mostre@beniculturali.it VENEZIA BELLINI/MANTEGNA. CAPOLAVORI A CONFRONTO Fondazione Querini Stampalia fino al 1° luglio

È affascinante cercare le differenze tra le due Presentazioni di Gesú al

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AGENDA DEL MESE Tempio eccezionalmente affiancate per la mostra proposta dalla Fondazione Querini Stampalia. Due capolavori della storia universale dell’arte, l’uno di mano di Giovanni Bellini, di Andrea Mantegna il secondo. A un primo sguardo sembrano del tutto eguali, eppure si capisce che le due operespecchio hanno «personalità diversissime». Ma chi fu l’inventore della meravigliosa composizione? Bellini, veneziano, e Mantegna, padovano del contado, si conobbero certamente, dato che quest’ultimo sposò la sorellastra del primo. Ma sarebbe sbagliato – chiarisce Giovanni Carlo Federico Villa, co-curatore dell’esposizione – immaginarli l’uno accanto all’altro intenti nel dipingere questo medesimo soggetto. Certo il cartone, la cui realizzazione richiedeva un enorme virtuosismo artistico, «stregò l’uno e l’altro, ma un lasso di tempo non piccolo, una decina di anni, separa i due capolavori». Che, sia pure a distanza, si sia trattato di una gara alla massima eccellenza, lo si evince dalla qualità assoluta delle due opere. È un caso probabilmente irripetibile quello che consente, per la prima volta nella storia dell’arte, di ammirarle l’una a fianco dell’altra. Accanto alle due Presentazioni, in Querini sono esposte le opere coeve patrimonio del museo veneziano. E il visitatore viene poi invitato, con lo stesso biglietto a scoprire, o riscoprire, i tesori della Querini Stampalia, una casa-museo tra le piú importanti al mondo. info tel. 041 2711411; www.querinistampalia.org

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info tel. 331 4606435 oppure 0523 308329; e-mail: cattedralepiacenza@gmail.com; www.cattedralepiacenza.it

FERRARA EBREI, UNA STORIA ITALIANA. I PRIMI MILLE ANNI Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 16 settembre

PIACENZA I MISTERI DELLA CATTEDRALE. MERAVIGLIE NEL LABIRINTO DEL SAPERE Kronos-Museo della Cattedrale fino al 7 luglio

A coronamento del nuovo allestimento del Museo del Duomo di Piacenza, viene presentata una mostra che riporta alla luce alcuni dei piú preziosi codici miniati medievali, come il Libro del Maestro o il Salterio di Angilberga, appartenenti al patrimonio archivistico cittadino. Il percorso si articola in cinque sezioni, la prima delle quali, nella sala dell’archivio storico capitolare, è dedicata alla musica. Si possono quindi ammirare gli antichi libri provenienti dalla Biblioteca Ambrosiana, dalla Biblioteca Braidense, dall’Archivio di Stato di Parma, dall’Archivio di Stato di Piacenza, dagli Archivi Capitolari della Cattedrale e di Sant’Antonino, dall’Archivio Storico Diocesano di Piacenza e Bobbio, e dalla Biblioteca Passerini Landi. Straordinari

capolavori dal IX al XV secolo raccontano la storia civile e religiosa del territorio, con particolare accento su Piacenza e Bobbio con il suo scriptorium, secondo solo a Montecassino. In particolare, l’ultima sezione è interamente dedicata al Libro del Maestro, un totum liturgico che, dal XII secolo, è stato modello e tesoro per la liturgia e che costituisce una summa culturale, secondo la concezione medievale. Il Libro del Maestro è il volume piú importante e misterioso dell’archivio della Cattedrale, la cui stesura ebbe inizio al principio del XII secolo. Al suo interno conserva nozioni di astronomia e astrologia, usi e costumi della popolazione legata ai cicli lunari e al lavoro nei campi. Il codice illustra, attraverso splendide miniature e formule melodiche (dette tropi), i primi drammi teatrali liturgici medievali, rappresentati in chiese e conventi, come primi strumenti di comunicazione delle storie della Bibbia.

Con questa mostra, che ha segnato l’inaugurazione del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS, si illustrano le origini della presenza ebraica in Italia dai suoi albori sino al Medioevo, evidenziandone i caratteri di specificità e unicità. Il percorso espositivo, che prefigura la prima sezione del futuro Museo, presenta oggetti autentici, repliche, modelli, immagini, mappe, scenografie e dispositivi multimediali, grazie ai quali si raccontano il primo millennio di storia dell’ebraismo italiano, il suo radicamento e la sua espansione grazie alle conversioni e agli apporti da altri territori, e il processo di formazione della sua peculiare identità. Da dove sono venuti gli Ebrei italiani? Quando? Perché? E, una volta giunti in Italia, dove hanno scelto di attestarsi? Quali rapporti hanno stabilito con le popolazioni residenti, con i poteri pubblici: prima con la Roma imperiale, poi con la Chiesa, ma anche con i Longobardi, i Bizantini e i musulmani, sotto il cui dominio hanno vissuto? Quali sono stati la vita, le consuetudini, la lingua, la cultura delle comunità ebraiche d’Italia nel corso di tutto questo lungo tempo? E soprattutto: che cosa ha di particolare e di specifico l’ebraismo italiano rispetto a aprile

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quello di altri luoghi della diaspora? Le risposte a questi interrogativi sono affidate a un nuovo modo di presentare la storia in un museo: un modo che pone esplicitamente al centro le persone e non le cose, le persone attraverso le cose. Gli oltre duecento oggetti in mostra, alcuni dei quali mai esposti in una sede pubblica, sono stati selezionati soprattutto per rappresentare i contesti di cui sono testimonianza. La loro conoscenza e comprensione è affidata anche ai titoli e ai testi di sala, ai documenti e alle immagini, alle ricostruzioni e alle evocazioni di ambienti, di situazioni, di eventi, e alle parole dei curatori e degli esperti, che lungo l’itinerario si rivolgono al visitatore attraverso i video, rendendo esplicita l’interpretazione storica proposta. info www.meisweb.it

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Appuntamenti ROMA VISITE GUIDATE ALL’AULA GOTICA DEL MONASTERO DEI SS. QUATTRO CORONATI fino al 30 aprile

Tornano gli appuntamenti con le visite guidate all’Aula Gotica dei Ss. Quattro Coronati, uno dei monumenti piú ricchi di storia, arte e spiritualità della Roma medievale.

L’Aula era l’ambiente piú prestigioso del palazzo cardinalizio eretto da Stefano Conti: vi si svolgevano banchetti, ricevimenti e vi si amministrava la giustizia. Mirabile esempio di architettura in stile gotico, eccezionale per la città di Roma, il salone colpisce per lo straordinario ciclo pittorico che adorna le sue pareti, attribuito al Terzo Maestro di Anagni e a Giunta Pisano e databile alla metà del Duecento. Rimaste per secoli nascoste sotto strati di tinte successive, le meravigliose decorazioni sono tornate a risplendere grazie a un lungo restauro. Questo il calendario delle prossime visite: 10, 11 e 30 aprile. I turni di visita saranno ogni ora, dalle 9,00 fino all’ultimo turno d’ingresso delle 18,00. Le richieste di prenotazione vanno indirizzate a: archeocontesti@gmail.com info tel. 335 495248; www. aulagoticasantiquattrocoronati.it; www.associazionecontesti.org ROMA LUCE SULL’ARCHEOLOGIA. ROMA E IL MEDITERRANEO Teatro Argentina fino al 13 maggio

In continuità con le precedenti edizioni, gli incontri della IV edizione di «Luce

Sull’Archeologia», rassegna che si svolge presso il Teatro Argentina di Roma, hanno come filo conduttore le relazioni fra Roma e il Mediterraneo. Il Mare Nostrum è un susseguirsi di mari, di paesaggi, di popoli, un crocevia antichissimo dove persone, merci, idee e diverse forme dell’estetica generarono la diffusione di civiltà, culti, costumi e leggende. In ogni incontro, prima dell’intervento iniziale, ci saranno 10/15 minuti di «Anteprime dal passato»: notizie su ritrovamenti, scoperte e mostre, a Roma e non solo, a cura di Andreas M. Steiner, direttore dei mensili «Archeo» e «Medioevo». Questo il calendario degli appuntamenti in programma: domenica 8 aprile, ore 11,00: Il lusso dall’Oriente. Commerci e bottini che fecero grande Roma (relatori: Stefano Tortorella, Lucrezia Ungaro, Alessandro Viscogliosi). domenica 15 aprile, ore 11,00: Roma verso l’Egitto. Protagonisti e vicende (relatori: Francesca Cenerini, Alessandro Pagliara, Claudio Strinati). domenica 22 aprile, ore 11,00: Popoli del Mediterraneo antico (relatori: Maamoun Abdulkarim, Massimiliano Ghilardi, Alessandro Naso). domenica 13 maggio, ore 11,00: Matera lucana tra Greci e Romani (relatori: Pietro Laureano, Massimo Osanna, Giuliano Volpe, Raffaello Giulio De Ruggiero). info www.teatrodiroma.net

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ANTE PRIMA

INTRODUZIONE

ALL’ARTE MEDIEVALE MILLE ANNI DI CAPOLAVORI

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ome scrive Chiara Frugoni nella Presentazione, fra i meriti del Dossier di «Medioevo» di Furio Cappelli ora in edicola c’è quello di essere «un valido aiuto per smentire i numerosi pregiudizi che ancora circondano il Medioevo: per esempio, che il Medioevo sia l’epoca dei “secoli bui”, o quelli sui terrori dell’anno Mille, sempre risorgenti e applicati anche oggi a svariati contesti». Ma questa nuova opera, oltre a inserirsi nel solco di una rilettura condotta ormai da tempo, ha il merito di offrire, in tutta la loro potenza e vivacità, un panorama ampio e sistematico delle straordinarie espressioni artistiche che scandirono i dieci secoli dell’età di Mezzo. Affreschi, dipinti su tavola, sculture e la variegata gamma dei manufatti che tradizionalmente vengono assegnati al novero delle arti cosiddette «minori» – ma che, a ben vedere, lo sono soltanto di nome – costituiscono la prova migliore del fervore creativo che, all’indomani del crollo dell’impero romano, non venne certo meno, ma

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In alto Roma, basilica di S. Prassede. Veduta dei mosaici dell’arco trionfale e del catino absidale. 817-824. Nella pagina accanto Madonna del latte, tempera e oro su tavola di Ambrogio Lorenzetti. 1324. Siena, Oratorio della Compagnia di San Bernardino. scelse nuovi linguaggi. Il viaggio alla scoperta di questo universo ricco e multiforme tocca tutte le testimonianze piú significative: dagli sfolgoranti mosaici di Ravenna ai mirabili equilibri delle sculture di Giovanni Pisano, dalle ricercate decorazioni dei reliquiari smaltati ai grandi dipinti su tavola che divennero una presenza costante e irrinunciabile nelle chiese. Un mondo animato da attori di cui è stata ricostruita nel dettaglio la vicenda biografica, ma anche da un esercito di artisti dei quali difficilmente si potrà scoprire il nome. Un mondo, comunque, di ingegni mirabili, senza i quali le successive elaborazioni del Rinascimento non avrebbero mai potuto vedere la luce. aprile

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IL NUOVO DOSSIER DI MEDIOEVO


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Un romanzo tutto a colori di Térence Le Deschault de Mondredon

Le regole – infrante – dell’amor cortese, una bellissima vedova «dagli occhi verdi e la pelle bianca come la neve», un protagonista d’eccezione: Carlo Magno. Ecco gli ingredienti di un racconto straordinario, riportato in un prezioso ciclo pittorico trecentesco, oggi esposto nella Corte Medievale di Palazzo Madama, a Torino

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e il colore sembra aver invaso il nostro quotidiano attraverso una profusione di immagini, in particolare pubblicitarie e televisive, i nostri interni, all’opposto, si sono spogliati a poco a poco di tutte le policromie. In questo senso, il Medioevo è stato molto piú esuberante di quanto non siamo noi oggi. Almeno era cosí nel caso delle dimore piú ricche, quelle dell’aristocrazia, di alcuni membri del clero e di commercianti benestanti: abitazioni ove le pareti erano sovente di colori brillanti, ottenuti, quando i mezzi lo permettevano, grazie a pigmenti sovente molto costosi. Nella grande sala del castello di Cruet, che affaccia sulla Val d’Isère, i signori di Verdon, vassalli del conte di Savoia, scelsero di far dipingere, nei primi anni del XIV secolo, alcune scene tratte da un romanzo cavalleresco conosciuto con il nome di

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Roman de Girart de Vienne. Questo romanzo, scritto verso il 1180 da Bertrand de Bar-sur-Aube come precisa nel testo egli stesso, racconta la storia del conflitto tra l’imperatore carolingio Carlo Magno e il suo vassallo Girart, figlio di Garin.

Un capolavoro fragile

Il fregio si estendeva sulle quattro pareti della sala di ricevimento, ossia su quasi 44 m di lunghezza. Nascosto sotto la calce per molti anni, è stato riscoperto nel 1985 in uno stato di conservazione sufficientemente buono al punto che è ancora leggibile per il 75% delle scene rappresentate. Le pitture furono donate dall’attuale proprietario del castello al Département de la Savoie e depositate nel 1988, prima di essere restaurate, e poi esposte in modo permanente al Musée Savoisien di Chambéry. Da un punto

In alto particolare di un pettine in avorio con scene galanti. 1360-1380 circa. Torino, Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica (veduta d’insieme a p. 38). Nella pagina accanto spada, con fodero, detta «di San Maurizio», dall’abbazia di Saint-Maurice d’Agaune nel Vallese (Svizzera). Acciaio, ferro, legno e tessuto (spada); legno, pergamena e ferro (fodero). Manifattura europea, prima metà del XIII sec. Torino, Armeria Reale.

di vista tecnico non si tratta di affreschi, ma di pitture murali, ciò significa che i pigmenti non sono stati applicati su intonaco di calce ancora fresco, ma su una superficie asciutta con l’aiuto di un legante di origine organica. Di conseguenza la pellicola pittorica è molto piú fragile di quanto non sarebbe se si fosse trattato di un affresco. I pigmenti utilizzati sono a base di piombo, di (segue a p. 37)

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mostre torino LE STORIE DIPINTE Ecco, in queste pagine, il ciclo con le Storie dal Girart de Vienne, attribuito a un pittore savoiardo, che si ipotizza le abbia realizzate fra il 1300 e il 1315 (forse nel 1307?). Si tratta di pitture murali, stese su intonaco asciutto, che decoravano il salone di ricevimento del castello de la Rive (o Verdon-Dessous), a Cruet (Isère, Francia). Scoperti nel 1985, i dipinti sono stati staccati e oggi montati su dodici pannelli in resina con telaio d’alluminio, conservati presso il Musée Savoisien di Chambéry.

1. CARLO MAGNO A CACCIA NELLA FORESTA CON ALCUNI VASSALLI Nel poema Girart de Vienne, prima di questo episodio, vengono presentati i protagonisti della vicenda. Girart e i suoi tre fratelli sono figli del prode Garin de Monglane, un signore con terre in Guascogna, nella Francia sud-occidentale. Questi è ridotto in povertà perché spogliato dall’emiro saraceno Sinagon di tutti i suoi beni: castelli, cavalli, armi. La storia ha inizio quando i quattro fratelli decidono di abbandonare la casa paterna per cercare fortuna in terre lontane: Mile si dirige in Italia, dove diverrà duca di Puglia e di Sicilia; Hernaut a Biaulende, in Francia; mentre Renier e Girart s’incamminano a nord, diretti alla corte di Carlo Magno, di cui vogliono divenire cavalieri. L’imperatore investirà Renier del feudo di Ginevra, mentre Girart, troppo giovane, verrà invitato a restare al servizio di Carlo come scudiero: dovrà accompagnarlo a caccia, nei tornei e sul campo di battaglia, occuparsi dei suoi cavalli e delle sue armi, servirlo a tavola.

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2. UN MESSAGGERO ANNUNCIA A CARLO LA MORTE DEL DUCA DI BORGOGNA

Sulla sinistra prosegue la scena di caccia: si intravedono un cervo e un cane che aggredisce un cinghiale. Il corno che suona il messaggero per annunciare la sua presenza è un olifante in avorio. Il testo narra che Carlo Magno, appena ricevuta questa notizia, decide di manifestare la sua riconoscenza nei confronti del fedele Girart offrendogli la mano della duchessa rimasta vedova, affinché divenga cosí signore di Borgogna. Risponde quindi al messaggero che incontrerà la dama a Sens la sera del giorno di san Giovanni.

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3. CERIMONIA DI INVESTITURA DI GIRART

A sinistra è raffigurato Girart, a cavallo e con cappello a punta, in viaggio verso Sens, dove avrà luogo l’investitura. A destra è raffigurata l’investitura di Girart: cioè la sua

nomina a cavaliere, atto necessario affinché egli possa poi assumere il titolo di duca di Borgogna. L’imperatore (solo in parte visibile) poggia la mano destra sulla testa di Girart, che è inginocchiato davanti a lui. Si tratta della cerimonia dell’adoubement, evento centrale nella società cavalleresca. Il guanto che si intravede in mano a Girart rimanda invece a un altro tipo di cerimonia, quella dell’omaggio vassallatico (in cui il guanto, come simbolo di potenza, è consegnato dal signore al suo vassallo nel momento dell’investitura di un feudo). Il pittore ha cioè fuso insieme elementi delle due principali cerimonie della società feudale dell’epoca.

4. GIRART INCONTRA LA DUCHESSA DI BORGOGNA E RIFIUTA DI SPOSARLA

Prima di questo incontro, il testo del Girart de Vienne narra di quello tra la duchessa e Carlo Magno: questi, che aveva voluto vederla per comunicarle di averle trovato uno sposo «cortois et avenant, fier et hardi», rimane colpito dalla sua bellezza: «les euz ot verz (...) la face plus blenche que n’est noif sor gelée» («gli occhi sono verdi e il viso piú bianco della neve sopra il ghiaccio»). Si pente quindi di averla promessa a Girart e spera di poterla sposare egli stesso. Poco tempo dopo la duchessa incontra Girart, che la colpisce molto favorevolmente: ella gli fa quindi delle avances e dichiara di volerlo sposare. Ma il giovane si sente offeso da questo comportamento, che non rispetta i codici dell’amor cortese, secondo cui doveva essere il cavaliere, e non la dama, a fare una tal richiesta. Respinge quindi la duchessa e giura davanti a Dio di non prenderla mai come sposa (giuramento espresso dalla mano sollevata in alto e con il palmo rivolto in avanti). Il testo specifica che la duchessa mai era stata cosí umiliata.

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5. PRIMA NOTTE DI NOZZE DI CARLO MAGNO E DELLA NUOVA REGINA Il testo del Girart de Vienne narra come la duchessa, offesa per il rifiuto di Girart, abbia quindi deciso di sposare Carlo Magno. Al termine della cerimonia nuziale i cortigiani chiedono all’imperatore di risarcire il fedele Girart, cui era stato promesso il ducato di Borgogna e che ora meriterebbe un nuovo feudo. Carlo acconsente e gli assegna la ricca città di Vienne, nel Delfinato, con il territorio circostante. Per questa ragione Girart sceglie il momento del «coucher royal» per ringraziare il sovrano: «il s’agenoille, por sa gembe embracier». Ma la regina, come mossa dal diavolo («si com deables la voloit engingnier»), approfitta di questo gesto e dell’oscurità per far scivolare il proprio piede tra le mani di Girart, il quale vi depone il suo bacio, senza rendersi conto dello spregio della sovrana.

6. ALCUNI PERSONAGGI ASSISTONO A UN COMBATTIMENTO TRA DUE CAVALIERI (AYMERI CONTRO I BRIGANTI?)

Si tratta forse di un episodio descritto ai versi 1711-1751 del poema, che nell’ordine della narrazione dovrebbe trovarsi piú avanti. Aymeri – figlio di Hernaut de Biaulande e nipote di Girart – giunge alla corte dello zio che lo nomina suo cavaliere. Successivamente il giovane, accompagnato da due scudieri, parte per recarsi alla corte di Carlo Magno: si tratterebbe di un gruppo di personaggi a cavallo raffigurati sulla sinistra. Tuttavia, lungo la strada, tra Parigi e Saint-Denis, essi incontrano una banda di briganti che da tempo infestava i paraggi della capitale: Aymeri li sgomina (duello rappresentato a destra) e li cattura.

7. GIRART SOSTA ALL’ABBAZIA DI CLUNY E POI RAGGIUNGE VIENNE

Lungo il viaggio verso Vienne – dove si dirige per prendere possesso del suo feudo – Girart si ferma una notte nell’abbazia di Cluny: a sinistra lo vediamo mentre incontra l’abate, che aveva conosciuto quindici anni prima quando aveva percorso la stessa strada, ma in senso inverso, per raggiungere Reims e la corte di Carlo Magno. L’abate non lo riconosce, ma Girart, in segno di riconoscenza per l’aiuto che avevano ricevuto lui e il fratello Renier in quell’occasione, dona al monastero monete d’argento e panni in seta ricamata. A destra è raffigurato l’arrivo di Girart a Vienne, accolto festosamente dagli abitanti della città.

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8. GIRART E I SUOI FRATELLI DAVANTI A CARLO MAGNO

L’artista ha invertito di posizione questa scena e la successiva, che nel racconto del Girart de Vienne ha luogo precedentemente. Dopo i fatti avvenuti a Saint-Denis (per i quali si veda il pannello successivo), Girart e i suoi fratelli (Mile, Hernaut de Biaulande e Renier), venuti a conoscenza tramite Aymeri del gesto della regina, riuniscono un grosso esercito per muovere guerra all’imperatore e vendicare cosí Girart dell’offesa subita. Prima del combattimento però, come consigliato dall’anziano padre Garin, chiedono udienza all’imperatore (la figura coronata a destra, di cui è sopravvissuta solo la testa) e gli illustrano le ragioni della loro collera.

Il ciclo di Cruet si basa su una delle molte versioni del romanzo, tramandate sia in forma di manoscritto, sia oralmente

9. BANCHETTO A CORTE: AYMERI, NIPOTE DI GIRART, TENTA DI ASSASSINARE LA SPOSA DI CARLO MAGNO

Aymeri giunge infine alla corte di Carlo Magno, dove desidera completare la propria educazione cavalleresca; qui, a causa del suo comportamento valoroso contro i pericolosi ladri combattuti alle porte di Parigi, viene invitato a un banchetto a Saint-Denis, a cui non partecipa l’imperatore, ma soltanto l’imperatrice con diversi cortigiani. Quest’ultima, venuta a sapere l’identità del cavaliere, gli rivela il suo segreto, al fine di rendere pubblico l’affronto rivolto a Girart e completare la sua vendetta. Aymeri, pieno d’ira, tenta di colpirla con un coltello, ma ella riesce a schivare il colpo.

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mostre torino 10. CARLO MAGNO E LE SUE TRUPPE ASSEDIANO LA CITTÀ DI VIENNE

I quattro fratelli avevano chiesto all’imperatore di infliggere una grave penitenza alla regina, oppure di ceder loro la Borgogna o nuovi feudi per riparare l’offesa subita da Girart, richieste respinte da Carlo. Il quale, per parte sua, lamenta di non aver mai ricevuto dal suo vassallo, cui ha donato Vienne e il relativo «donjon», alcun segno di riconoscenza nei cinque anni passati dal’infeudamento. La conseguenza è l’inizio delle ostilità tra l’imperatore e Girart, la cui città viene assediata dalle truppe di Carlo Magno per sette lunghi anni. Il bue rappresentato in primo piano allude alle razzie nelle campagne vicino a Vienne compiute dall’esercito del sovrano, che distrugge campi e vigneti e uccide il bestiame («les vignes gastent, (…) et bués et vaches»).

11. IL COMBATTIMENTO FINALE: DUELLO GIUDIZIARIO TRA ROLAND E OLIVIER

Per porre fine alla guerra tra Girart e Carlo Magno, i rispettivi nipoti – Roland per l’imperatore e Olivier, figlio di Renier di Ginevra -, entrambi valorosi condottieri, decidono di affrontarsi in un duello giudiziario: secondo le regole di questo combattimento, Dio avrebbe deciso il vincitore e quindi assegnato la vittoria definitiva a uno dei due schieramenti. Sono i due cavalieri ritratti due volte a destra e a sinistra della scena: il loro valore è tale che nessuno dei due riesce a prevalere sull’altro e il combattimento si trascina. La chanson de geste narra che Dio, rattristato nel vedere due simili campioni odiarsi tanto – quando avrebbero dovuto invece combattere insieme contro gli infedeli –, interviene con un miracolo, facendo apparire una nube tra i due cavalieri per accecarli e separarli (è la nube rosso cupo vicino alle loro teste). Dalla nuvola comparirà poi un angelo, qui non raffigurato, a spiegare il volere di Dio e incitare Roland e Olivier a recarsi in Spagna per sconfiggere «la gent mescreue», cioè i miscredenti. L’intervento divino segna cosí la fine della guerra e la pace tra Carlo Magno e Girart.

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12. L’ACCAMPAMENTO DI CARLO MAGNO

Sono raffigurate le tende dell’accampamento di Carlo Magno, ciascuna contrassegnata da uno scudo con le insegne araldiche del proprietario. Anche in questo caso il pittore fa riferimento a un passo precedente del Girart de Vienne (verso 2588), in cui si fa cenno alle tende a padiglione dell’esercito dell’imperatore sotto le mura di Vienne. Si riconoscono gli stemmi del conte di Savoia (bandato d’oro e d’azzurro, ai bordi di rosso) e del duca di Borgogna.

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Miniatura raffigurante Artú che insegue Rion, re d’Irlanda, da un’edizione del Roman de Merlin di Robert de Boron illustrata dalla bottega del Maître d’Alexandre. 1290-1300. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria.

minerali (ocra, azzurrite) e di carbone. Quanto allo stile adottato dal pittore, coincide con il cosiddetto «Gotico lineare», un linguaggio in cui figure e oggetti sono circondati da una spessa linea nera di contorno, mentre i colori sono stesi in campiture piatte. Non tutto il Roman de Girart de Vienne è rappresentato nel ciclo dipinto di Cruet. Gli episodi scelti riguardano la seconda parte del racconto, lasciando da parte tutta l’infanzia e l’educazione dell’eroe e di suo fratello alla corte di Carlo Magno. La narrazione inizia allorché Girart appartiene già alla cerchia ristretta dei familiari dell’imperatore e nel momento in cui quest’ultimo cerca di ricompensarlo per i suoi buoni e leali servizi. L’occasione gli viene data dalla morte del duca di Borgogna che gli è annunciata da un messaggero nel corso di una partita di caccia. Il testo narra che Carlo Magno, ricevuta questa notizia, decide di manifestare la sua riconoscenza nei confronti di Girart offrendogli la mano della vedova del duca affinché divenga cosí signore di Borgogna. Prima però deve nominarlo cavaliere nel corso di una cerimonia di investitura, che è evocata poco piú avanti, allorché l’imperatore – appena visibile a causa di una grossa lacuna – poggia la mano sulla testa di Girart inginocchiato davanti a lui. Nella scena successiva si vede Girart frontale, con una dama alla sua destra e senza dubbio Carlo Magno alla sua sinistra. Ma dato che la rappresentazione frontale delle figure è piuttosto rara nell’arte medievale, l’artista in questo modo ci fa capire che si tratta di un momento molto importante

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del racconto. In effetti, non appena Girart incontra la duchessa di Borgogna per la prima volta, quest’ultima, trovandolo di suo gradimento, non esita a fargli delle avances, cosa che viene assai malvista dal nostro eroe, poiché secondo il codice dell’amor cortese medievale, era l’uomo a dover fare il primo passo. Di conseguenza Girart, sentendosi offeso dal comportamento della nobildonna, dichiara che non la sposerà.

Offese reciproche

La duchessa di Borgogna, sentendosi a sua volta tremendamente offesa dal rifiuto di Girart, decide di vendicarsi. Dapprima cede alle avances di Carlo Magno e si sposa con il sovrano, quindi attende la sera delle nozze per trovare finalmente l’occasione di vendicarsi con un atto umiliante per Girart e che sarà all’origine del conflitto tra l’imperatore e il suo vassallo. Dopo i festeggiamenti, la cui rappresentazione è in gran parte scomparsa, gli sposi si ritirano nella loro camera. Numerosi cortigiani assistono al «coucher royal» e appro-

fittano di questo momento per far capire a Carlo Magno che ha rotto il suo giuramento di donare la Borgogna a Girart e che sarebbe bene riscattare la sua condotta sleale offrendo una compensazione al suo vassallo ingannato. L’imperatore acconsente allora a concedergli la città di Vienne e le terre circostanti. Di fronte a questa testimonianza di generosità, i cortigiani insistono con Girart perché ringrazi il suo signore. Riconoscente, senza esitare, egli si getta ai piedi del letto per baciare la gamba del suo benefattore e siglare cosí l’alleanza. È il momento che la nuova regina sceglie, con il favore dell’oscurità, per far scivolare il suo piede tra le mani di Girart che vi depone il suo bacio, senza rendersi conto dello spregio della regina. Il pittore di Cruet ha rappresentato l’imperatore e la sua sposa allungati nel letto, circondati dai cortigiani, mentre Girart, inginocchiato, tiene tra le mani il piede della perfida donna e avvicina il suo viso per baciarla. Il romanzo prosegue raccontan-

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mostre torino La mostra

A quel tempo si viveva cosí Didascalia La mostra «Carlo Magno va alla guerra» non aliquatur adi odis si limita a offrire l’occasione di vedere per la que vero ent qui in Italia le pitture del castello di Cruet prima volta doloreium conectu (Val d’Isère, Francia). Il ciclo è infatti inserito in un percorso rehendebis articolato,eatur che ricostruisce la vita nei castelli medievali tendamusam della contea savoiarda tra 1200 e 1300. Ecco dunque gli consent, perspiti argomenti che fanno da contorno al ciclo pittorico di Cruet, conseque nis in altrettante sezioni della mostra. sviluppati maxim eaquis I committenti Dal 1285 al 1323 Amedeo V regge la earuntia conteacones di Savoia, che allora comprendeva anche la Bresse, apienda. il Vaud (nell’attuale Svizzera), la Valle d’Aosta e la valle di

Susa fino a Rivoli. La signoria sul Piemonte spetta invece al nipote Filippo d’Acaia. Amedeo, Filippo e le loro spose – tutti ritratti nei sigilli in esposizione – sono i principali committenti del periodo considerato in mostra: a loro si devono la costruzione e l’ingrandimento di castelli, la realizzazione di cicli decorativi profani, l’acquisto di raffinati codici miniati, avori e oreficerie. La guerra, i tornei e la caccia Secondo le regole delle istituzioni feudali, il vassallo ottiene dal signore la concessione di una terra (il feudo) e gli deve in cambio

assistenza militare. L’equipaggiamento, a sue spese, comprendeva nel XIII secolo: l’usbergo o cotta di maglia, che riveste il corpo dalla testa alle ginocchia, l’elmo e lo scudo. Tra le armi offensive: la spada, la lancia, l’arco e la balestra. Le stesse armi, raramente con punte e tagli smussati, vengono indossate nei tornei. Interni gotici Le opere evocano l’arredo di castelli e caseforti. Nei castelli il pavimento può essere in terra battuta, legno, terracotta decorata o pietra; le pareti presentano decori a motivi geometrici, tappezzerie o, piú raramente, cicli narrativi dipinti. Scarso il mobilio, sempre in legno, mentre per l’illuminazione si usano torce resinose, candele di sego e lampade a olio, e gli ambienti si riscaldano grazie a camini e stufe. Poemi e romanzi cavallereschi Tra Due e Trecento le letture privilegiate nelle corti sono i poemi del ciclo carolingio, le chansons de geste, come il Girart de Vienne, e i romanzi, in versi o in prosa. Spese di corte I primi conti di Savoia a batter moneta con il proprio nome sono Pietro I, Umberto II e Amedeo III, tra XI e XII secolo: la zecca allora è a Susa. Nuove officine

Pettine in avorio intagliato, dipinto e dorato con scene galanti. Manifattura dell’Italia settentrionale, 1360-1380 circa. Torino, Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica.

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doci come Girart sia andato a prender possesso del nuovo feudo di Vienne, passando durante il viaggio dall’abbazia di Cluny, in Borgogna. La rappresentazione di un personaggio vestito con abito di monaco potrebbe alludere a questo fatto e la presenza di uno schieramento di truppe nella città fortificata con la porta aperta, potrebbe alludere alla presa di possesso del feudo di Vienne da parte di Girart. Riguardo alla regina, è certo che, benché vendicatasi di Girart, ella non possa assaporare totalmente la propria vittoria perché l’umiliazione è nota solo a lei. Per questo decide di renderne partecipe il giovane e focoso Aymeri, nipote di Girart, venuto alla corte di Carlo Magno per completare la sua educazione di cavaliere, come suo zio aveva fatto prima di lui. L’occasione è quella di un banchetto, nel corso del quale la regina si trova seduta vicino Aymeri; ella gli rivela aprile

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monetali sono poi aperte a Saint-Maurice-d’Agaune (Vallese) e a Chambéry. Oggetti preziosi e giochi Nei castelli sono presenti molti oggetti preziosi. Alcuni sono conservati nelle camere da letto del signore e dei suoi familiari, mentre il vasellame da tavola – in oro, argento e madreperla, talvolta con decori a smalto – è custosito sotto chiave e viene tirato fuori all’occorrenza quando si organizza un banchetto importante. La tavola del principe Le stoviglie d’uso quotidiano sono in peltro, stagno e ceramica: queste ultime impiegate in particolare per conservare e presentare i cibi e per contenere le bevande. Il vasellame in oro e argento si utilizza solo in occasioni solenni. La devozione privata Dall’inizio del XIII secolo compaiono sculture sacre, soprattutto Madonne in trono col Bambino, di dimensioni ridotte: in legno scolpito, avorio o oreficeria, realizzate dagli stessi artisti impegnati nella statuaria monumentale. I santi cavalieri Tra XII e XIV secolo godono di grande favore i cosiddetti santi cavalieri: antichi condottieri romani, convertitisi al cristianesimo e perciò martirizzati. Erano considerati il perfetto modello di cavaliere cristiano, come Maurizio e gli altri soldati della Legione Tebea. quindi il suo segreto al fine di rendere pubblico il proprio affronto. Il giovane viene colto da una collera terribile e cerca immediatamente di uccidere la regina. Prende un coltello dalla tavola e lo lancia violentemente in direzione della sovrana. Per fortuna manca il bersaglio e l’arma va a conficcarsi in uno dei pilastri in legno della sala. I cortigiani intervengono prontamente e fanno uscire Aymeri dalla sala. Una volta cacciato dalla corte, Aymeri torna presso suo zio per metterlo a parte della confessione della regina. Tutto il clan familiare si riunisce e decide di andare a protestare presso Carlo Magno e chiedere un risarcimento morale. Girart, i suoi fratelli e il loro padre si recano dunque alla corte e si intrattengono con il sovrano che rifiuta di accondiscendere alle loro richieste. Un’inversione ci costringe a tornare alla scena precedente per riconoscere Girart e i suoi fra-

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Sigillo equestre di Amedeo V, conte di Savoia, raffigurato come un cavaliere. Cera rossa, rotondo, pendente tramite cordone in seta rosso. 1314. Torino, Archivio di Stato. Fu apposto su un trattato di pace tra Amedeo e Giovanni II, delfino di Vienne.

telli a colloquio con l’imperatore, di cui si scorge appena la sommità della testa coronata.

La città assediata

Il rifiuto di lavare l’affronto subito è all’origine della disputa che sorgerà tra Carlo Magno e il suo vassallo. L’imperatore decide di porre Vienne sotto assedio e incomincia cosí una guerra che durerà piú anni. Questo conflitto occupa una larga parte del racconto di Bertrand de Bar-sur-Aube, mentre è ridotto a sole due scene nel ciclo di Cruet. La prima rappresenta l’assedio di una città fortificata. Considerando che è impossibile dipingere tutte le vicende della guerra condotta da Carlo Magno, che si riassumono in colpi di scena senza grande importanza per il senso generale del racconto, il pittore si è limitato a rappresentare il nocciolo della contesa: la città assediata. Il secondo episodio, perfettamente descritto nel romanzo, fa

intervenire l’esercito dell’imperatore che saccheggia le terre e ruba il bestiame, mettendo in fuga gli abitanti della regione. La rappresentazione dei bovini trascinati dai soldati davanti a una città deserta è cosí insolita da far capire che si tratta proprio del passo letterario in questione. La guerra tra Girart e Carlo Magno avrebbe potuto essere eterna se i loro rispettivi nipoti non si fossero offerti di regolare il conflitto con un duello giudiziario. Questa pratica consiste nello scegliere un rappresentante da ciascuno schieramento e nell’organizzare un combattimento singolo il cui esito determina da quale parte stia la ragione agli occhi di Dio. È allora che entrano in scena due cavalieri di grande prestigio, destinati a un avvenire glorioso e un’amicizia incrollabile: Roland, nipote di Carlo Magno e Olivier, nipote di Girart. Sono gli eroi scelti dai due schieramenti per servire da campioni davanti al giudi-

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mostre torino zio divino. Il pittore di Cruet ha diviso il combattimento in due momenti. All’inizio si vedono i due cavalieri che si affrontano con la spada. Il romanzo ci dice che il loro valore è tale che nessuno dei due riesce a prevalere e che l’assalto si trascina. In seconda battuta viene messo in rilievo l’esito inaspettato del duello. In effetti Bertrand de Bar-sur-Aube narra come Dio si rat-

tristi nel vedere i suoi due migliori cavalieri odiarsi tanto, mentre le loro immense qualità dovrebbero piuttosto renderli amici. Interviene dunque con un miracolo, facendo apparire una nube tra i due cavalieri per accecarli e separarli. Invia inoltre un messaggero angelico incaricato di proibire loro di continuare il combattimento e di spronarli a dare prova delle loro abilità guerriere contro gli infedeli che hanno invaso la Spagna: assicurandosi in questo modo la salvezza della loro anima. Se l’angelo non è rappresentato nel ciclo di Cruet, al contrario la nuvola, di un rosso cupo è ben visibile tra i due uomini. Il gesto di tendere la spada con il pomo in avanti significa la fine del combattimento e la pace stabilita tra i due cavalieri.

Scudi e insegne araldiche

L’ultima scena del ciclo mostra l’accampamento di Carlo Magno costituito da una moltitudine di tende (o ripari di legno), ornati di scudi con insegne araldiche varie. Scudi

Base di candeliere in ottone fuso e cesellato. Manifattura della Bassa Sassonia o della regione mosana, metà del XIII sec. Torino, Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica.

che servivano per indicare i singoli proprietari delle tende nell’accampamento medievale. Da un punto di vista stilistico le pitture del castello della Rive a Cruet sono da avvicinare alle miniature della stessa epoca e in particolare alle illustrazioni del cosiddetto collaboratore del Maître de la Vie de sainte Benoîte d’Origny, che decorò un manoscritto poi confluito nella biblioteca dei conti di Savoia (oggi a Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria); un artista il cui stile viene fatto dipendere, negli studi di Simonetta Castronovo, sia dalle opere di Maître Honoré che da quelle del Maître du Méliacin. La Chanson de Huon de Bordeaux contenuta nel manoscritto torinese L. II. 14 (noto come Vengeance de Jésus-Christ par Vespasien), e le cui miniature sono riconducibili a questo miniatore, presenta alcune somiglianze sorprendenti con il ciclo di Cruet. Cosí, nel foglio 325, il viso di Huon ricorda in modo stupefacente quello di uno dei due soldati collocati in primo piano nella città assediata del ciclo di Cruet. E anche il modo particolare di raffigurare i tetti, coperti da grosse scaglie per rappresentare le tegole, si ritrova ugualmente nelle due opere. Il manoscritto di Torino è datato con sicurezza 1311 e questo conferma una cronologia delle pitture murali tra il 1300 e il 1315 circa. F Il testo dell’articolo è tratto dal catalogo della mostra «Carlo Magno va alla guerra», in corso a Torino, e appare per gentile concessione dell’editore.

Dove e quando «Carlo Magno va alla guerra» Torino, Palazzo Madama, Corte Medievale fino al 16 luglio Orario lu-do, 10,00-18,00; chiuso il martedí Info www.palazzomadamatorino.it Catalogo Libreria Geografica

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costume e società

Certe

di Domenico Sebastiani

equivoche

effusioni

Osculum infame, vale a dire il bacio dato nelle parti basse: attribuito a chi veniva sospettato di stregoneria o anche d’eresia, l’osceno gesto – al di là delle sue implicazioni sessuali – veniva considerato, innanzitutto, come una prova schiacciante della contiguità con il demonio

N «N

ella Chiesa Cattolica in segno di obbedienza e riverenza spirituale e temporale i sudditi baciano la mano ai loro superiori e signori spirituali e temporali, e al Papa baciano il piede in segno di assoluta e totale obbedienza e riverenza, e a Dio sulla bocca, in segno di amore, come lo chiede la sposa nei Cantari, e in Chiesa si mostra nella pace. Dunque al demonio, che è tiranno e signore che dei suoi sudditi si fa burla e scherzo, non rimane che lo bacino nella parte e posto piú disonesto del corpo». Cosí, intorno al 1529, Martin de Casteñega – teologo francescano chiamato in Navarra per problemi di stregoneria – si esprimeva a proposito di una pratica che appare costante nello stereotipo del sabba: il bacio osceno e spudorato che i seguaci di Satana riservavano in segno di omaggio al loro signore. Osculum infame, baiser au cul, kiss of shame che dir si voglia, con esso si intende l’atto di baciare la regione

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posteriore, alla fine dell’osso sacro. Tale pratica, le cui prime attestazioni risalgono all’inizio del XII secolo e si protraggono fino al XVII, ha solo secondariamente un aspetto erotico – se con questo si vuole richiamare il sodalizio che si instaurava tra la strega e il demonio durante il sabba – e rappresenta fondamentalmente una figura metaforico-simbolica, connessa a un gesto che esprime la degradante sottomissione di colui che lo presta nei confronti di chi lo riceve. In base ai principi della parodia e dell’inversione carnevalesca che caratterizzano la società medievale, l’osculum, dal campo dello stregonesco e del diabolico, si diffonde nella letteratura e nelle rappresentazioni iconografiche. Risulta quindi presente nei testi – come romanzi, chansons de geste, fabliaux e novelle – che avevano finalità denigratorie e ridicolizzanti, cosí come in miniature, xilografie e irriverenti drôlerie.


Incisione raffigurante una strega che bacia le terga di Satana durante un rituale malefico, dal

Compendium maleficarum di Francesco Maria Guazzo. 1608. Collezione privata.


costume e società

Per inquadrare correttamente l’osculum infame, occorre esaminare a grandi linee ciò che rappresenta il bacio nel Medioevo. Partendo dall’ambivalente simbolismo della bocca nell’universo cristiano (mezzo di costruzione ed elevazione – basti pensare che Dio dà la vita all’uomo con il suo soffio divino e che parla per mezzo della bocca dei profeti –, ma nello stesso tempo anche elemento di degradazione e abbassamento), il bacio, nell’età di Mezzo, ha sempre una connotazione rituale. Viene di solito apposto per confermare l’efficacia simbolica

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di un atto e ha un forte valore giuridico o religioso, tanto che appartiene solitamente alla pratica dei contratti. Lo studioso Émile Chénon, nel 1923, riteneva che l’osculum medievale venisse usato per confermare una convenzione tra due persone, per rinunciare a diritti legittimi, o anche quale segno di investitura.

Sacro e profano

In tempi piú recenti, lo storico Franco Cardini ha ipotizzato un collegamento tra osculum infame e osculum pacis liturgico, da un lato, e omaggio vassallatico, dall’altro

(l’osculum infame sarebbe parodia e profanazione del primo, e trasposizione dell’altro in termini di servitú tra la strega/stregone e il demonio). Durante la messa cristiana, al momento dell’Eucarestia, si usava infatti baciarsi sulla bocca per ricordare il sacramento che simboleggia al massimo grado l’amore di Cristo per gli uomini, sostituito a partire dal XIII secolo dal «bacio della pace» tra i fedeli. Nell’omaggio vassallatico, invece, il bacio suggella il ristabilimento della concordia tra le parti ovvero attesta l’intesa e la fedeltà reciproca aprile

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Sulle due pagine Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore. Particolare della Morte di san Francesco, ventunesima scena del ciclo delle Storie francescane, affrescato da Giotto, in cui un confratello bacia il piede del santo defunto. 1290-1295 circa. A destra particolare di una miniatura da un manoscritto francese che illustra la leggenda del monaco Teofilo di Adana, raffigurante il bacio sulla bocca con il diavolo. 1327. L’Aia, Koninklijke Bibliotheek.

tra le stesse. Del resto, non risulta indifferente neppure la zona del corpo sulla quale viene dato: il bacio sulla bocca implica un rapporto egalitario tra due soggetti che si pongono sullo stesso piano; quello sulle mani, per esempio, indica una minore intimità tra gli individui; quello sui piedi, infine, esprime un atto di profonda umiltà. Se si passa al campo dell’infernale e del demoniaco, anche il Diavolo esige un atto di omaggio, che suggella l’accordo con i suoi seguaci e sottoposti. Ma l’osculum, in questo caso simbolo di estrema sotto-

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missione, viene dato nel posto piú infimo e osceno che vi sia, ossia il deretano, assumendo valore antirituale e anti-sacrale. Talvolta, nei resoconti dell’epoca, il signore degli inferi appare sotto forma di animale – capro o gatto – per cui i partecipanti alle riunioni stregonesche baciano l’animale sotto la coda, raccontando che ivi si nasconde una sorta di faccia e baciarla costituisce un grandissimo onore. Un precedente interessante, sebbene non del tutto coincidente con l’osculum infame, si trova nella leggenda di san Teofilo di Adana – scritta originariamente in greco e tradotta in latino a partire dal IX secolo –, che ebbe vasto successo nel Medioevo latino e romanzo. La storia narra di un vicedomino che, caduto in disgrazia presso il vescovo, chiede aiuto a un ebreo esperto di arti magiche, affinché possa firmare un patto con il Diavolo, vendere la propria anima e in cambio riconquistare il proprio prestigio. Chiara Frugoni ha segnalato come nelle redazioni modificate del testo siano presenti espressioni che ricordano l’omaggio feudale e che evidenziano come nei rituali demoniaci si ritrovino affinità con la condizione tra vassallo e raccomandato. Infatti, mentre nella versione originale greca il Diavolo bacia sulla bocca Teofilo per sancire il nuovo rapporto signore-servitore, nelle redazioni latine successive – con un ribaltamento della situazione – il Diavolo pretende che Teofilo gli baci i piedi come atto di umiltà. Il bacio di parti non nobili, come i piedi, si ritrova del resto anche nelle cerimonie e nei riti cristiani di

iniziazione e d’ingresso in comunità gerarchizzate (si può pensare alla Regola di san Benedetto), ma talvolta è presente pure nel sabba: l’adepto deve baciare il piede sinistro del Diavolo, al posto o come premessa dell’osculum infame.

Contro gli eretici

Analizzando i testi e documenti che attestano il bacio spudorato, si nota che la pratica blasfema rimase inizialmente nell’ambito delle accuse mosse a movimenti ereticali. Si può citare, per esempio, la bolla Vox in Rama stilata da Gregorio IX (1233), nella quale il pontefice mette al bando talune pratiche che Corrado di Magdeburgo aveva rilevato tra gruppi di eretici nella zona del Reno e della Turingia. Nel documento si descrive a lungo il rituale, che divenne successivamente un leit motiv del sabba stregonesco: gli adepti prima rendono omaggio a un rospo, poi baciano sul posteriore un individuo (evidentemente Lucifero), per poi abbandonarsi alla lussuria piú sfrenata. È interessante notare, come attesta lo scrittore cristiano Marco Minucio nell’Octavius (II secolo d.C.), che i Romani accusarono di pratiche simili – tra cui cannibalismo, infanticidio, rapporti sessuali ricomprendenti adorazione dei genitali durante le riunioni – le prime comunità cristiane. L’oscenità sessuale fu dunque un’arma che dapprima i pagani adoperarono contro i cristiani; successivamente i cristiani se ne appropriarono per scagliarsi contro gli eretici e contro la stregoneria. L’inglese Walter Map, nel De Nugis curialium (1180), raccontava

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costume e società I Templari sul banco degli accusati

Cavalieri dissoluti? Quando decise di sciogliere l’Ordine del Tempio, fattosi troppo ingombrante e potente, il re di Francia Filippo IV il Bello aveva bisogno di dimostrare che i cavalieri si erano posti al di fuori dell’ortodossia cristiana. Per questo, tra i capi di imputazione contenuti nell’ordine di arresto del 14 settembre 1307, furono inserite pratiche eretiche e sacrileghe. Le stesse furono poi ribadite nella bolla Faciens misericordiam del 1308 e corrispondono, grosso modo, anche alle confessioni degli stessi Templari durante il processo, rilasciate spontaneamente o estorte sotto tortura. I reati contestati erano fondamentalmente quattro: rinnegamento della fede cristiana mediante triplice sputo sulla croce, adorazione di una testa maschile, baci indecenti e pratiche sodomitiche. Tali pratiche «diaboliche» venivano ascritte in un momento ben preciso, ossia durante la cerimonia di ingresso del cavaliere nell’Ordine. Dai documenti ufficiali, infatti, sembra che l’adepto dovesse spogliarsi di tutte le sue vesti e farsi baciare, dal Templare che lo accoglieva, prima «sulla parte finale della schiena, sotto la cintola delle braghe, poi sull’ombelico ed infine in bocca». Successivamente veniva avvertito che se uno dei confratelli avesse voluto congiungersi a lui sessualmente, l’adepto avrebbe dovuto sopportarlo, perché previsto dagli statuti dell’Ordine. In base alle confessioni, sembra che durante le apparizioni di una misteriosa

testa si materializzasse un enorme gatto nero, che veniva riverito dai presenti, mediante inchino e bacio sotto la coda (l’allusione è chiara, la testa e il gatto nero erano le personificazioni del Diavolo stesso). A parte le naturali deformazioni e condizionamenti delle testimonianze, molto si è discusso sulle accuse rivolte ai Templari, e ci si è chiesti se fossero solo fantasie costruite allo scopo di spazzar via l’Ordine. A oggi, sembra che qualcosa di vero ci fosse, ma le spiegazioni, soprattutto in relazione al bacio nella zona anale, sono state le piú varie: goliardica cerimonia di iniziazione, influssi di riti orientali dell’età classica appresi dai Templari durante i viaggi in Medio Oriente, equivoco dovuto alla maniera di pregare appresa dai costumi arabi, con le ginocchia e la fronte a terra in stretta vicinanza reciproca, ovvero richiami alla dottrina cabalistica secondo la quale l’osso sacro si pone all’inizio del ciclo della reincarnazione. La verità va probabilmente ricercata altrove, cioè nella necessità di sottoporre i novizi a un experimentum, a una prova molto severa per appurarne l’indole e la predisposizione a far parte dell’Ordine, come previsto anche dal rigido codice etico e disciplinare scritto da san Bernardo. Chi voleva farsi Templare, infatti, doveva dimostrare non solo di voler abbandonare lo status di uomo libero per diventare «servo e schiavo dell’Ordine», ma mostrarsi pronto a un’obbedienza militare assoluta e a sopportare anche l’insopportabile, soprattutto se fosse caduto nelle mani del nemico.

per esempio di come durante le riunioni dei gruppi ereticali francesi denominati Paterini apparisse un grande gatto nero, al quale i partecipanti rendevano omaggio baciandolo nelle parti del corpo piú adatte a soddisfare il loro desiderio di umiliazione (zampe, genitali e sotto la coda). Iniziava quindi un’orgia all’interno della casa chiamata sinagoga. Cominciò cosí a prendere piede l’idea che Miniatura raffigurante un Templare che bacia le terga di un essere ibrido, che ha per metà le fattezze di un chierico, da un’edizione del poema di Jacques de Longuyon Les Vœux du Paon. 1350 circa. New York, Pierpont Morgan Library.

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il Diavolo si presentasse alle orge notturne sotto forma di animale, generalmente un gatto, come testimonia anche Alano di Lilla: nel trattato De fide catholica contra haereticos sui temporis (1179-1202), spiegava che la denominazione di «catari» derivava dal latino cattus, gatto, perché sotto forma di tale animale il demonio appariva loro per ottenere il bacio sotto la coda. Con un procedimento di «attrazione», qualsiasi gruppo o setta in odore di eresia cominciò a essere accusato di comportamenti osceni, e di praticare l’osculum infame: è sufficiente pensare al caso dei Templari, fatti arrestare in massa nel aprile

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1307 da Filippo IV il Bello, e tacciati di scambiarsi baci spudorati (vedi box alla pagina precedente). Poco a poco, la figura dell’osculum si spostò verso quella del sabba stregonesco che l’apparato inquisitorio andava costruendo. Papa Innocenzo VII, con la bolla Summis desiderantes affectibus (1484), attribuí ai domenicani Kramer e Sprenger ampi poteri inquisitori per reprimere il delitto di stregoneria nelle regioni tedesche, dando di fatto l’avvio alle famigerate persecuzioni. Il tutto fu codificato dagli stessi religiosi nel Malleus Malleficarum (1487), manuale a uso degli inquisitori, seguito poi dal trattato Demonolatreiae di Nicholas Remy (1595) e, piú tardi ancora, dal Compendium Maleficarum del frate milanese Francesco Maria Guazzo (1608). Tutte queste opere cristallizzarono il cerimoniale del sabba: esso iniziava con le streghe che si inginocchiavano al Diavolo e gli rinnovavano la loro fedeltà abiurando la fede cristiana, poi lo baciavano sul piede sinistro, sui genitali e sull’ano. Tali descrizioni ebbero ricadute evidenti nelle confessioni rilasciate durante i processi intentati a carico delle accusate o degli accusati di stregoneria, come nel caso dei benandanti friulani (XVII secolo), fenomeno approfonditamente studiato dallo storico Carlo Ginzburg (vedi box a p. 51).

A destra Polittico dell’Agnello Mistico o Polittico di Gand olio su tavola di Jan e Hubert van Eyck. 1426-1432. Gand, Cattedrale di S. Bavone. In basso un gruppo di valdesi adora il diavolo sotto forma di capro durante una messa nera, sul fondo una scena di sabba. Riproduzione ottocentesca di una miniatura del 1460 circa, tratta dal Sermo contra sectam Valdensium, di Johannes Tinctoris.

Ribaltamento di valori

Studiosi quali la filologa romanza Sonia Maura Barillari hanno sottilineato come si possano intravedere legami tra i rituali sfrenati e orgiastici, che animavano i raduni sabbatici, e l’atmosfera trasgressiva e il clima frenetico che animavano le feste carnevalesche. In entrambe le situazioni risulterebbe evidente la dimensione parodica, rappresentata dal ribaltamento dei valori comuni. Cosí come la festa medievale riproduce «un anti-mondo dove l’irruzione, temporanea e controllata,

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costume e società Sabba delle streghe, olio su tavola di Frans Francken II. 1607. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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dell’irrazionale, del caotico, diventa a un tempo garanzia e parodia dell’equilibrio sociale e naturale», in modo affine anche nel sabba si ritroverebbero valori rovesciati, ove con l’osculum infame viene mostrata una parte del corpo oscena e impudica, e la si bacia con un rituale

non privato ma pubblico. Viene infatti messo in luce come il sabba si presenti come un rituale di inversione della messa e, nello specifico, dell’Eucarestia. Quale esempio, la scena dell’omaggio al diavolo-caprone raffigurata nei manoscritti del trattato di Johannes Tinctor,

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Tractatus contra sectum valdensium (1460), è da considerarsi una rappresentazione antitetica de L’Agnello Mistico, opera dei fratelli Van Eyck (1432), in cui viene celebrato il miracolo eucaristico. C’è però di piú: il sabba non opera una semplice parodia, co-

me alcune rappresentazioni del Carnevale, perché l’osculum infame costituisce un vero e proprio antisacramento. Per cui se il Carnevale e altre manifestazioni affini, quali lo charivari, possono godere di un ribaltamento di valori che, in ogni caso, rimangono fenomeni

controllati all’interno della società feudale di cui non contestano le fondamenta, il sabba si pone al di fuori della società stessa, in modo non solo parodico, ma diabolico, e perciò non tollerabile dalle classi dominanti. Come ha scritto la medievista Pantalea Mazzitel-

la persecuzione dei benandanti

Cronaca di un sabba Durante i processi per stregoneria intentati in Friuli tra Cinque e Seicento a carico dei benandanti, ricorre l’omaggio al Diavolo sotto forma di osculum infame. È interessante notare l’evoluzione delle deposizioni del contadino Michele Soppe il quale, sottoposto a processo nel 1642, si dichiara in un primo tempo totalmente estraneo alle accuse che gli vengono mosse, ma, alla fine, confessa quello che gli inquisitori desideravano sentirsi dire. In una prima deposizione descrive i sabba delle streghe, dove si recava per combatterle e ottenere cosí un’annata di raccolti abbondanti: «Nella congregatione si balia e si mangia, cioè pare si balli e si mangi; le streghe nella congregatione vanno tutte (...) a basciare il culo al diavolo, e doppo il diavolo gli dà autorità di far del male, cioè far le malie, di far consumar le creature, di far venire le tempeste (...) cosí bisogna che lo faccino, altrimenti nell’altra congregatione rendono conto al diavolo di quel male che hanno fatto, e se hanno mancato di far male, il diavolo gli dà delle battiture con le scorie, che sono legni con le sferze». Soppe tenta poi di separare l’attività benefica dei benandanti da quella malefica delle streghe. Queste ultime infatti, nel sabba, si recano dal Diavolo e vanno «ad una ad una a basciargli il culo; ma non i stregoni, i quali vanno con le streghe, anche non ci vanno i

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benandanti, i quali vanno separati dalle streghe. (...) Le streghe et i benandanti vanno al ballo con il diavolo, però le streghe solo fanno le malie, non i benandanti; (...) Le streghe basciano il culo al diavolo nel ballo, e parlano assai col diavolo, ma i benandanti non basciano il culo al diavolo e gli parlano poco». Alla fine, sotto le pressioni del tribunale, il contadino crolla e ammette di aver omaggiato il demonio con l’osculum infame: «Il modo fu questo: il diavolo mi domandò se io gli volevo donare l’anima mia, che in contracambio mi havrebbe fatte tutte quelle gratie che io havessi volute; et alla richiesta del diavolo io risposi che gli donavo l’anima mia, come in effetto della mia volontà gle la promisi (...) Di piú, richiesto dal diavolo io due volte ho rinegato Giesú Christo e la sua santa fede; ogni volta che sono andato al ballo delle streghe ho basciato il culo al diavolo come facevano tutte le streghe e gl’altri stregoni, e fatte tutte le altre cose che facevano l’altri». «Di piú ho adorato il diavolo tutte quelle volte che l’adoravano gl’altri, cioè nel ballo un giovedí si et uno no, o veramente per dui sí e dui no. Tutti quanti c’inginocchiavamo verso il diavolo in forma d’asino, il quale ci voltava il culo, e noi adoravamo il culo e la coda del diavolo, e durava l’adoratione con le mani gionti un quarto d’ora incirca». Michele Soppe morí in carcere a Udine il 20 novembre 1650, prima della conclusione del processo.

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costume e società lo, «il sabba è forse piú un’alternativa radicale ed eversiva rispetto al Carnevale, piuttosto che una sua semplice estremizzazione: l’osceno mostrato non è semplice inversione del pudore nascosto, ma diventa il gesto ritualizzato in un’anti-sacralizzazione che supera la dimensione parodica». Diavolo e deretano presentano una stretta connessione, perché è il concetto stesso di «basso corporeo» a essere intimamente associato al diabolico. «La divinità infernale – per usare ancora una volta le parole di Mazzitello – è associata al posteriore perché egli rappresenta l’esatta inversione di tutto ciò che è considerato alto e nobile, rappresentato topograficamente dal viso». Visto comunque il carattere parodico e di rovesciamento del sabba infernale, è comprensibile che, come già accennato, il baiser au cul si ritrovi in tutta una serie di testi letterari come romanzi, chansons de geste, fabliaux e novelle con finalità ridicolizzanti, oltre che in molte rappresentazioni iconografiche, comprese quelle contenute nei manuali a uso degli inquisitori.

Perifrasi colorite

Il bacio possiede infatti il carattere di punizione derisoria. Si può pensare a tal proposito alle molte perifrasi adoperate per rendere l’osculum in funzione umoristica e ingiuriosa. Già i Romani usavano le locuzioni lingere culum o lambere nates, i popoli germanici invece preferivano «baciami dove mi siedo» oppure «mi può baciare dove non ho il naso» – cosí come i Francesi – e giochi di parole venivano ottenuti scomponendo la parola osculum in os e culum. Nei testi poetici e letterari l’im-

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Frontespizio di un’edizione del Malleus Maleficarum. 1519. Barcellona, Biblioteca pubblica episcopale.

magine dell’osculum infame viene ripresa, in chiave parodica, nelle sue varie valenze, ossia omaggio feudale, osculum pacis, bacio di umiliazione e riverenza nonché quale prova da superare. Ne attingono a piene mani, per esempio, la canzone di gesta Aiol, ove il bacio sul posteriore viene rivolto a Maometto, che da profeta si trasforma nel Medioevo in personaggio inviso alla religione cristiana. Oppure gli stessi Canterbury Tales, nel noto Racconto del Mugnaio (vedi box in questa pagina), in cui ritroviamo una delle prime parafrasi con la quale veniva indicato il bacio nel posteriore, ossia «occhio di dietro», per designare l’ano che «riporta direttamente alla sostituzione del volto con il posteriore, attraverso quella inversione dell’alto con il basso cara alla tradizione parodica, carnevalesca (e diabolica) medievale». Incontriamo anche uomini, come nel cosiddetto Affaire Cornilh

Il Racconto del Mugnaio

Chi la fa, l’aspetti... Contenuto nei Racconti di Canterbuy di Geoffrey Chaucer, il Racconto del Mugnaio descrive, appunto per bocca di un mugnaio ubriaco, di nome Robin, l’inganno con cui Alison, moglie di un legnaiolo geloso, e il suo amante Niccola, riescono a passare una notte d’amore a casa di lei, convincendo il marito a restare dentro una botte sollevata sul soffitto, per il timore dell’arrivo di un diluvio universale. Alla trama principale si aggiunge quella del chierico del paese, Assalone, da sempre uno spasimante non ricambiato di Alison. Giusto quella sera il chierico decide di andare alla finestra della donna per ottenere da lei almeno un bacio. Per prendersi gioco di lui e liberarsene una volta per tutte, Alison finge di essere d’accordo, ma invece di offrire le proprie labbra allo spasimante, sporge all’infuori le natiche, che Assalone bacia, pieno di passione, fino a quando non s’accorge di essere stato beffato. Resosi conto dell’inganno subito, Assalone decide di vendicarsi: la vittima sarà lo stesso amante Niccola, il quale, volendo beffare il chierico con le stesse modalità che aveva usato Alison, verrà invece colpito in mezzo aprile

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(XII-XIII secolo), che invece di soffiare il corno per dar il via alla festa di corte – per esempio nell’Erec et Enide di Chrétien de Troyes – soffiano nel «corno» della loro amata, con una sorta di bacio iniziatico che permetterà loro di diventare amanti della propria donna. Una situazione, questa, che si ricollega all’idea di soffio cara al filone della pneumatologia medievale che esalta il concetto di anima materiale e corporea, che esce dal luogo piú Illustrazione di Jacob Hogg per il Racconto del Mugnaio dai Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer, che raffigura Niccola, il legnaiolo e il mugnaio Robin. XVIII sec. San Francisco, Fine Arts Museums of San Francisco.

basso del corpo in quanto in quel luogo trova sede e alimento. Nell’opera Audigier, vera e propria anti-canzone di gesta in cui si assiste a una sistematica inversione dell’epica cavalleresca, l’omonimo protagonista si vede costretto a baciare il ripugnante deretano della vecchia megera Grinberge, una sorta di prova in cui l’eroe deve dimostrare di saper vincere il disgusto, un umiliante rito di passaggio che dovrà subire per essere ammesso nella società cavalleresca adulta.

Il «fiero bacio»

A proposito di questo bacio, la studiosa Lazzerini scrive infatti che «capovolgimento insieme della pax cristiana e dell’hommage feudale,

questo gesto destinato a divenire l’emblema dell’affiliazione diabolica nella liturgia rovesciata del Sabba racchiude in sé, al pari del Fier baiser cui devono assoggettarsi tanti protagonisti di testi letterari o di fiabe, espliciti contrassegni iniziatici». Il Fier baiser è il cosiddetto «fiero bacio», tematica presente in molta letteratura medievale, che vede un bacio disgustoso e paralizzante come prova da superare da parte dell’eroe di turno per conquistare la sua identità o una dimensione superiore: caso esemplare è il Bel Inconnu di Renaut de Beaujeu (1165-1230), in cui il Bel Cavaliere Sconosciuto, per conquistare la sposa e il regno, deve baciare un terrificante serpente, allo stesso modo in cui i neofiti delle riunioni sabbatiche dovevano baciare sulla bocca un orribile rospo. F

Da leggere

alle natiche da un ferro ardente che Assalone si era procurato. Il chierico, comunque, beffato e umiliato dal fatto di aver baciato per inganno le natiche di Alison, e quindi deriso e denigrato, cercherà di pulirsi la bocca in tutti i modi, quasi a voler lavare l’onta subita.

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Pantalea Mazzitello, Il bacio spudorato. Storia dell’osculum infame, Medusa, Milano 2015 Kristoffer Nyrop, Storia del bacio, Donzelli, Roma 1995 Jean-Michel Sallmann, Le streghe amanti di Satana, Electa/ Gallimard Torino 1995 Jean-Claude Schmitt, Il gesto nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1990 Chiara Frugoni, La sottomissione di Teofilo al diavolo: A proposito di raccomandati e vassalli, in Non lasciar vivere la malefica: Le streghe nei trattati e nei processi (secoli XIV-XVII), Firenze University Press, Firenze 2008; pp. 129-154 Sonia Maura Barillari, Streghe, sciamani, clowns: appunti in margine a Storia Notturna di Ginzburg, «Immagine riflessa», I, 1992; pp. 135-158. Andrea Nicolotti, L’interrogatorio dei Templari imprigionati a Carcassonne, «Studi Medievali» 2011, II; pp. 697-730

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storie la peste del 1348

Il notaio della

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morte nera

di Corrado Occhipinti Confalonieri

La peste del 1348 è uno degli eventi che drammaticamente segnarono la storia europea, con ripercussioni profonde in tutti i campi della vita sociale ed economica. A lungo ignorata, una delle piú vivide e puntuali testimonianze sul terribile flagello è la cronaca redatta dal notaio piacentino Gabriele de Mussis

Sulle due pagine La peste di Firenze dal Boccaccio descritta, acquaforte di Luigi Sabatelli. XIX sec. Brescia, Palazzo Martinengo da Barco, Musei Civici di Arte e Storia. In alto Venezia, Palazzo Ducale. Particolare di un capitello gotico raffigurante un notaio. XV sec.

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L’

Ystoria de morbo sive Mortalitate quae fuit Anno Domini MCCCXLVIII del notaio piacentino Gabriele de Mussis (1280-1356) rappresenta un tanto prezioso quanto poco conosciuto documento sulla terribile epidemia di peste del 1348. A 670 anni da quei tragici eventi, offriamo dunque al suo autore la possibilità di riprendere la parola. Dopo alcuni passaggi iniziali, nei quali riporta le idee allora dominanti sull’influenza degli astri nelle vicende umane, de Mussis fornisce le origini geografiche del fenomeno: «Nell’anno del signore 1346, in quella parte del mondo che aveva generato Tartari e Saraceni, si abbatté un morbo incomprensibile e una morte repentina. Cosí da regioni lontanissime, indefinite provincie, magnifici regni, città, borghi e

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storie la peste del 1348 luoghi, in breve tempo la malattia colpí una copiosa moltitudine di uomini, li morse con una morte orrenda e in breve tempo i loro abitanti scomparvero». Fra il 1279 e il 1350, la peste era endemica nelle regioni ai confini con l’Himalaya e con l’intensificarsi verso nord degli spostamenti delle carovane, la via della seta fra Cina e Siria contribuí al diffondersi dell’epidemia in Russia, Asia Centrale, Iran e Iraq. I roditori selvatici che vivevano nelle steppe euroasiatiche vennero in contatto con i portatori delle nuove malattie, fra cui la peste, e le loro tane, umide e calde, furono il luogo ideale per la sopravvivenza del bacillo. Le pesanti variazioni climatiche del regime monsonico falcidiarono i roditori. Per sopravvivere, le loro pulci, vettori del bacillo della yersinia pestis, furono costrette ad attaccare gli esseri umani e gli animali utilizzati per i trasporti, come cavalli e cammelli. Il morbo venne cosí trasportato sulle rotte commerciali che attraversavano l’impero mongolo e, nel 1338, raggiunse le popolazioni nei pressi del lago Ysykköl, nell’odierno Kirghizistan, tappa obbligata dell’antica via commerciale. Da qui, dilagò a macchia d’olio per le steppe russe, fino a raggiungere la Crimea, dove il khan Gani Bek poneva sotto assedio Caffa (oggi Feodosia).

re la loro superbia. I Tartari morirono, segnati nelle articolazioni e sull’inguine dal sangue coagulato, per le conseguenze di una febbre purulenta. Sconvolti da tante perdite e indeboliti dal morbo, del tutto attoniti, i Tartari senza speranza di guarigione e consapevoli di morire, decisero di lanciare con le loro catapulte i cadaveri nella città di Caffa, affinché l’insopportabile miasma ammazzasse tutti. Cosí gli accerchiati cristiani, rendendosi conto che non potevano né scansare né fuggire da quella montagna di cadaveri, ne gettarono in mare il piú possibile. Il fetore crebbe cosí tanto che ben presto tutta l’aria e tutta l’acqua venne infettata da quella corrotta putrefazione». Anche se dall’accuratezza della descrizione potrebbe sembrare che il notaio fosse testimone oculare di quanto accaduto a Caffa, in realtà non si trovava sul posto, anzi non si mosse mai da Piacenza: lo dimostrano i suoi atti, rogati ininterrottamente dal 1300 al 1356. Doveva perciò avere raccolto queste informazioni dai suoi amici mercanti che ci erano stati e questo conferma come la città emiliana fosse un vi-

In alto Feodosia, Crimea (Ucraina). I resti della fortezza genovese di Caffa. XIV sec. In basso miniatura raffigurante soldati mongoli che assediano una fortezza, da un manoscritto persiano con la Storia delle tribú turche e della dinastia di Gengis Khan di Rashid al-Din. XIV sec. Nella pagina accanto cartina che mostra le fasi dell’avanzata della peste nel continente europeo nel XIV sec.

Inutile ogni rimedio

De Mussis racconta cosa successe nei pressi di questa località, situata sulle rive del Mar Nero: «Oh mio Dio! Guarda come le razze pagane dei Tartari confluenti da ogni dove, circondata la città di Caffa, assediarono per tre anni i Cristiani. Qui, protetti dallo smisurato esercito ostile, appena poterono avere tregua è lecito manifestassero intrinsecamente una tenue speranza quando vennero in loro soccorso navi cariche di viveri. Ed ecco che i Tartari invasori si ammalarono, fu colpito tutto l’esercito, ogni giorno ne morivano a migliaia, inutile ogni rimedio e ogni cura dei medici. Essi videro le frecce volare nel cielo, colpirli e schiaccia-

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Il flagello in Oriente

L’avidità del sultano Per quantificare il disastro che colpí le popolazioni orientali, de Mussis racconta questo episodio: «Dalla sola città di Babilonia, dove aveva il comando, il Sultano [Malek al Nasser Sarag] sottomise molti nemici. Ma nel 1348, in tre mesi, il morbo uccise 480 000 persone. Questo risultò dal suo registro dove annotava i nomi dei morti, per ognuno dei quali percepiva un bisante d’oro quando venivano sepolti. Taccio su Damasco e sulle altre città che vi appartengono quando emerse l’infinito numero dei defunti. Ma in regioni orientali, cosí vaste che a stento in tre anni si possono attraversare a cavallo, con una popolazione di diecimila persone per ogni abitante dell’ovest, tanta era la moltitudine che viveva lí, credendoci isolati ci riportarono di innumerevoli persone morte a causa del morbo».

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Mar Mediterraneo

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storie la peste del 1348

In alto miniatura raffigurante la morte che strangola una vittima della peste. XIV sec. Praga, Biblioteca dell’Università. Sulle due pagine particolare di una miniatura raffigurante la sepoltura delle vittime della peste a Tournai, dal manoscritto Annales de filles di Muisit. 1352. Bruxelles, Koninklijke Bibliotheek.

vace centro di scambi commerciali. Il dettaglio dei cadaveri catapultati su Caffa rimane comunque l’aspetto piú sorprendente del brano: siamo infatti in presenza di una guerra batteriologica ante litteram (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 66-70). All’epoca, infatti, non si sapeva che era inutile allontanarsi dai ca-

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daveri: nella sua variante bubbonica, i vettori della malattia erano le punture delle pulci che pullulavano sui corpi delle vittime, oltre ai morsi dei topi infetti penetrati nella città.

Un giudizio divino

Ma leggiamo dove si diffonde la peste: «Uno su mille dei soldati del derelitto esercito si apprestò a fuggire e cosí la malattia contagiò tutto: terre, luoghi e uomini (...) Il morbo pestifero colpí dappertutto: dai popoli orientali, alle terre di mezzo, a quelle a settentrione. Prima l’aspra freccia del morbo insinuava nei corpi il tremore, quasi tutti si indebolivano e poi crollavano morti. Quanto grande e di quale na-

tura fu l’universale mortalità: Cinesi, Indiani, Persiani, Medi, Curdi, Armeni, Cilici, Georgiani, Mesopotami, Nubiani, Etiopi, Turchi, Egiziani, Arabi, Saraceni, Greci. Fu colpito del tutto l’Oriente, gremito dalle urla, dai pianti e dai rantoli. Morirono insieme con amarezza, dal sopraddetto millesimo fino al 1348, sospettando in questo l’estremo giudizio divino». Grazie a quel lungo elenco di popoli, de Mussis rende con efficacia il dilagare dell’epidemia, senza dimenticare che per lui, come per tutti gli altri commentatori dell’epoca, il motivo della peste era l’ira divina per le ingiustizie e i peccati commessi dagli uomini. Le galee aprile

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degli Occidentali salparono in direzione dell’Europa e «cosí il morbo velenoso arrivò dalla preziosa terra di Caffa, scendendo da qualche nave governata da pochi marinai infetti. Alcuni sbarcarono a Genova, altri a Venezia, altri in varie parti dei territori cristiani». A parlare sono i superstiti della traversata: «Noi, genovesi e veneziani, siamo obbligati a rivelare il giudizio divino: “Aimé, approdate le flotte nelle nostre città, facemmo ritorno alle nostre case. E poiché una grave infermità ci aveva raggiunti, di 1000 naviganti solo 10 sopravvivevano. Parenti e amici ci vennero incontro per accoglierci. Noi portavamo i dardi della morte. Senza

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volerlo, durante i baci e gli abbracci, nelle parole che uscivano dalla nostra bocca, trasfondevamo il veleno. Tornando in famiglia, subito li avvelenavamo. Nello spazio di tre giorni, i nostri cari soggiacevano al colpo della morte”».

Origine sconosciuta

All’epoca, si ignorava che le pulci fossero le portatrici della peste, quindi non si conosceva l’origine bubbonica del contagio tuttavia, da quanto riportato dal notaio, era stata intuita la variante polmonare della malattia, ovvero l’infezione tramite le vie respiratorie. La proporzione indicata di 1/10

di sopravvissuti sta a indicare la ferocia del morbo ma non deve essere interpretata come un dato statistico. L’epidemia colpí in modo diverso da città a città, con una percentuale di mortalità che variò dal 33% all’80%. A Messina, primo approdo delle navi, ci fu una vera e propria strage, tanto che per molto tempo si disse: nun mi parlari ca si missinisi. A Genova e a Venezia invece «di genovesi ne rimase in vita solo uno su sette mentre di veneziani, in base a una domanda fatta sul numero dei defunti, ne morirono settanta su cento». Tra le categorie sociali piú a rischio c’erano quelle che venivano a contatto con i malati: a Venezia «su

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Milioni di abitanti

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In alto il calo demografico causato dalle epidemie di peste della seconda metà del XIV sec. nei principali Paesi europei. A destra miniatura tratta da un’edizione francese del Decamerone di Giovanni Boccaccio, raffigurante i dieci personaggi

rifugiati fuori delle mura di Firenze intenti a raccontare storie. Dentro la città, intanto, imperversa l’epidemia di peste, rappresentata dal pittore nel particolare della sepoltura degli appestati. XV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

ventiquattro eccellenti medici, ne morirono venti in pochissimo tempo» e tra chi amministrava i sacramenti «il religioso piacentino fra Bertolino Coxadocha dell’ordine dei minori (…) con piú di ventitré dei suoi, di cui nove in un solo giorno (…) e oltre sessanta prelati e rettori della chiesa cittadina e del distretto». Si interrompe dappertutto qualsiasi parvenza di vita politica e amministrativa: «Città, fortificazioni, campi, selve, strade, corsi d’acqua vennero circondati dai briganti. Questi sono spiriti maligni, sommi torturatori del giudice supremo, genitori di infiniti supplizi per tutti». La violenza del morbo viene efficacemente descritta dal notaio nell’episodio dei militi ladri: «Quando un esercito si accampò nelle vicinanze di Genova, quattro soldati

lasciarono i compagni d’arme con l’intenzione di depredare persone e luoghi. Si diressero da Rivarolo verso il litorale, dove il morbo aveva già ucciso tutti. Individuarono un’abitazione ed entrati, notarono un letto con sopra una coperta di lana. L’afferrarono, la portarono via e fecero ritorno presso l’esercito. La notte successiva, i quattro compari si coricarono sotto la coperta. Ma la mattina seguente, vennero trovati morti. Dacché il terrore invase tutti i commilitoni, questi lasciarono da parte le cose e i vestiti dei defunti, nessuno ne volle usufruire e neppure toccarle con le mani». La resistenza delle pulci senza un ospite è stata stimata in otto giorni. Un’ipotesi potrebbe essere che la coperta a cui fa riferimento il nostro ne fosse permeata e i parassiti avessero contagiato i militari.

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storie la peste del 1348 da piacenza a breslavia

Il lungo cammino del manoscritto Per quasi cinque secoli, della Storia del morbo di Gabriele de Mussis non si è saputo nulla e della sua esistenza si apprese grazie ad alcuni studiosi di medicina tedeschi. Nel 1841, August Wilhelm Henschel pubblicò il testo all’interno della sua opera Document zur Geschichte des schwarzen Todes; Heinrich Haeser lo ripubblicò nel 1859 e nel 1865 in Archiv für die gesammte Medicin II, Document zur Geschichte des schwarzen Todes. Henschel e Haeser avevano rintracciato lo scritto a Breslavia, dove il secondo insegnava. Grazie alla citazione del resoconto di de Mussis sugli Annali delle epidemie in Italia da parte di Alfonso Corradi, lo storico piacentino Gaetano Tononi nel 1884 lo trascrisse sul Giornale Linguistico di archeologia, storia e letteratura e lo tradusse sulla Strenna piacentina. Il documento originale è redatto in un latino colmo di barbarismi e piuttosto impreciso nella forma, perché de Mussis utilizza anche termini piú simili all’italiano e alcune espressioni in dialetto piacentino. Attualmente è ancora conservato nella città polacca, presso la biblioteca universitaria ed è scampato a devastanti incendi e a due guerre mondiali. Rimane un mistero come vi sia finito. Dal capoluogo ligure il morbo dilagò verso il Nord Europa. Solo Milano scampò al contagio, perché le autorità cittadine fecero murare vivi alcuni malati con la loro famiglia e chiusero le porte della città. A questo punto della sua Ystoria, il notaio piacentino diventa testimone diretto di quello che accade. Precisa subito che non intende scrivere contro, ma per i suoi concittadini, a memoria nei secoli avvenire di quanto accaduto. Racconta allora che alcuni mercanti genovesi, alla ricerca di un luogo salubre, varcarono l’Appennino e si diressero a Bobbio, dove avevano degli affari. Oltre alle merci, con loro viaggiava la peste e «il disastro colpí di morte repentina tutti gli abitanti. Ne rimasero in vita pochissimi. Ma nell’estate di quell’anno (1348), un altro genovese colpito dal morbo transitò sul territorio piacentino. Poiché si sentiva debole, chiese ospitalità a Fulco della Croce, a cui lo legava un’ottima amicizia. Non appena si mise a letto, il genovese morí. E dopo di lui spirò immediatamente anche Fulco, la sua famiglia e molti suoi vicini. E cosí, in breve tempo, il morbo con il suo effluvio entrò a Piacenza». Il coinvolgimento emotivo dell’autore, a questo punto, diventa quasi palpabile: «Non so da dove co-

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minciare. Dappertutto si levavano singhiozzi e lamenti. Nei giorni successivi, si vedevano portare in giro croci, ostie consacrate e seppellire innumerevoli cadaveri. Tanta fu la conseguente mortalità, che a stento gli uomini prendevano fiato. I superstiti preparavano le sepolture e facevano fosse ovunque, anche sotto i portici o nelle piazze, dove mai si era pensato. Accadeva frequentemente che parenti e amici, moglie e marito, il padre col figlio e la madre con la figlia venissero seppelliti insieme». Tutti i cronisti parlano di fosse comuni, ma nessuno cita il dettaglio di sepolture sotto i portici e nelle piazze, delle quali a Piacenza potrebbero ancora conservarsi dei resti.

Due vite in un colpo solo

Per riprendere lucidità, de Mussis racconta che «un certo Oberto de’ Sasso, colpito dalla malattia, volle fare testamento presso la chiesa dei frati minori e convocò sessanta persone fra notaio, testimoni, parenti e religiosi. In breve tempo morirono tutti (…) Molti nobili. Un’infinità di giovani. Vennero meno, in breve tempo, innumerevoli donne soprattutto gravide». Quest’ultima osservazione, molto interessante, permette a de Mussis di notare che la morte delle donne incinte comportava la fine di due vite in un sol colpo.

Piacenza. Il loggiato sottostante il Palazzo Comunale detto il «Gotico». 1282.

Il notaio alterna poi momenti nei quali accetta l’ira divina per le iniquità degli uomini ad altri in cui sottolinea l’assoluto bisogno di pentimento per i peccati commessi. Esorta però anche le persone a superare il terrore del contagio, sperando di suscitare nel lettore un sentimento di ripulsa quando descrive l’insensibilità di chi è ancora sano e non ha pietà per parenti e amici sventurati: «Il sofferente giaceva da solo nella sua casa, nessuno si avvicinava. In lacrime, i piú cari amici si nascondevano. Il medico non visitava. Il sacerdote sconvolto amministrava timidamente i sacramenti. Ecco la flebile voce di un infermo che chiedeva aiuto: “Amici, pietà, pietà per me che sono toccato dalla mano di Dio”. Un malato piangeva: “O padre che mi eviti, non è la tua una stirpe ingrata”. E un altro: “O aprile

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madre, tu dove sei che eri pia con me e ora mi eviti crudelmente. Tu che mi hai dato il tuo latte e mi portasti nove mesi nel tuo utero”. E poi un altro ancora: “O figli, vi ho educato al sudore del lavoro, perché fuggite?”». «Al contrario, uomini e donne che vivevano tranquilli, che come noi condividevano le dolcezze del matrimonio, ora sono separati con dolore. E quando il sofferente era in preda agli spasmi della morte, cosí invocava pietosamente: “Venite miei prossimi e miei vicini, ecco, porgete dell’acqua all’assetato. Io sono vivo. Non temete. Forse è possibile che io viva. Toccatemi. Dovreste toccarmi. Toccate questo mio corpuscolo”. Allora qualcuno, ricordando la pietà dei dotti, accendeva una candela sulla parete prima di fuggire. Ma quando il malato esalava l’ultimo

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respiro, tutti si rifiutavano di toccarlo e spesso erano la madre con il figlio, il marito con la moglie, che lo avvolgevano nel panno e lo ponevano nella cassa».

Angoscia collettiva

Per descrivere il senso di angoscia e di decadenza dei costumi che dominava le persone, de Mussis riporta alcuni dettagli che rendono bene lo stato d’animo dei sopravvissuti: «Non c’era preghiera, né tromba, né campana, né veniva celebrata alcuna messa solenne. Non erano invitati parenti e amici. I ricchi e i nobili venivano sepolti da persone vili e abbiette, mosse solo dal denaro e neppure i terrorizzati familiari presenziavano ai funerali. Dopo una breve funzione, di giorno e di notte a seconda della necessità, i cadaveri venivano portati al sepolcro. Nella casa

dei defunti nessuno aveva il coraggio di entrare e nessuno toccava le cose dei morti. In questo modo, a uno a uno, morirono nel loro giaciglio». Nella parte in cui tratta dei sintomi della malattia e dei modi per curarla, il notaio supera se stesso. Per gli storici delle epidemie, le sue descrizioni sono da mettere prima di quelle dei medici contemporanei Guidone da Cauliaco e Dionisio Colle: «I vivi di entrambi i sessi, sani e non spaventati dal pericolo della morte, erano vessati nelle carni da piú di tre asprissimi colpi. D’improvviso, sentivano una strana, fredda rigidità nei loro corpi e venivano colpiti da dolori cosí lancinanti che erano paragonati alle frecce pungenti degli arcieri. Poi li coglieva un sinistro attacco: si formavano delle cotenne durissime, sempre piú grosse. In alcuni fra

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Piacenza. Ancora uno scorcio del Palazzo Comunale, visto dall’esterno. 1282.

le giunture delle braccia, sulle ascelle; ad altri sull’inguine, fra il corpo e le cosce. Quando i bubboni diventavano piú duri, provocavano ai malati un grande bruciore, venivano colpiti da una putrida febbre acutissima e da un grave mal di

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testa; quando questa calamità si intensificava, le enfiature di alcuni rilasciavano un odore terrificante. Altri sputavano sangue dalla bocca. Altri ancora si gonfiavano dove era sorto l’umore corrotto, fra le terga, sul torace, sull’inguine. Alcuni cadevano in uno stato di sedazione da cui non si risvegliavano. Ecco che gli infermi erano minacciati dalle bolle del

Signore: cosí tutti soggiacevano al pericolo della morte. Alcuni morivano il primo giorno del contagio, altri il giorno seguente, la maggior parte dal terzo al quinto giorno. Non c’era rimedio quando i malati vomitavano sangue, raramente si salvavano quando erano colpiti dal gonfiore e dal fetore, ma se la febbre scendeva, alcuni si potevano salvare». aprile

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feriore, esteriormente apparivano molli, il paziente poteva liberarsene se subito gli veniva praticata una flebotomia nella parte in alto del braccio e in basso, all’altezza del tendine del piede. Alcune volte, attraverso la maturazione, l’incisione e l’evacuazione del liquido, i pazienti erano graziati dalla guarigione; dopo si utilizzava la malvina o l’impiastro di malvavischio. Se perdurava febbre forte, tutti i sofferenti morivano». Da questo passaggio, si comprende come i tre modi di mutazione dell’epidemia fossero la bubbonica, la polmonare e la setticemica (quella del sangue), e come quest’ultima fosse probabilmente accompagnata dallo stato d’incoscienza. Non c’era insomma un solo modo di manifestarsi della peste uguale per tutti.

Cure inefficaci

«Circa il fetore emanato dall’infermo, ho appreso che l’assunzione della tiriaca avesse espulso il veleno introdotto e si evitasse cosí il caso mortale. Se i bubboni si gonfiavano, si presentavano duri e non scoppiavano, era segno di morte, allora il veleno passava alle vene del cuore e soffocava l’infermo. Ma se nella parte superiore del corpo, oppure in quella in-

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Le cure erano ancora quelle della tradizione galenica, basate sull’equilibrio dei liquidi, per questo i salassi servivano per liberare il malato dal sangue corrotto e permettere il rigenerarsi di quello sano. Un grave errore medico era costituito dall’incidere i bubboni di cui parla de Mussis, perché, in questo modo, venivano tagliate le ghiandole linfatiche. L’utilizzo della tiriaca, considerata nel Medioevo la panacea per tutti i mali, era del tutto inutile. Si trattava di un medicinale a base di pelle di vipera femmina non gravida, essiccata e unita a un composto di varie erbe mediche. La malvina è invece una pianta erbacea usata come antinfiammatorio, mentre l’erba perenne chiamata malvavischio ha proprietà emollienti ed espettoranti, ma non aveva alcuna efficacia per giungere alla guarigione. Tutti i cronisti erano concordi su di un punto: lo sputo di sangue era segno di una fine imminente. Poiché ogni cura risultava inutile, salvo rarissime e casuali eccezioni, non rimaneva che votarsi ai santi, e per questo motivo la relazione del notaio si conclude cosí: «Era tempo di amarezza e di dolore e

la speranza era nelle mani del Signore. Una persona percepí come monito una santa visione. Cosicché, per tre giorni di seguito, individui di entrambi i sessi si riunirono in piccolo numero nelle singole chiese, nelle parrocchie delle città, dei castelli e dei villaggi. Ascoltarono la messa e implorarono, inginocchiati con una candela fra le mani, la devotissima beata Anastasia di liberarli dalla peste, lei celebrata solennemente all’alba della natività dell’Altissimo. Alcuni presentavano i voti ai beati martiri del Signore. Altri si convertivano umilmente ad altri santi perché potessero evitare il morbo malvagio. Come narrano le storie dei suddetti martiri, infatti, era opinione di molti che, in nome di Gesú Cristo, questi colpiti a morte potessero difendere la salute contro le frecce del morbo». «Infine, nel 1350 il santissimo papa Clemente (VI), nel concistoro della sede apostolica, decise l’indulgenza generale dalle pene e dalle colpe per la durata di un anno, attraverso la penitenza e la confessione. Per questo motivo, un’infinita moltitudine di gente di ambo i sessi andò in pellegrinaggio a Roma a visitare con la massima devozione e riverenza la basilica dei beati apostoli Pietro e Paolo e di san Giovanni. Orsú, miei cari leviamo pertanto le nostre mani al cielo: non siamo come vipere o ancora piú crudeli. Imploriamo Dio nostro piú misericordioso la misericordia per tutti». «Qui termino la mia esposizione, medico celeste cura le nostre ferite sia dell’anima che del corpo tu che sei lodato, benedetto e glorioso nei secoli dei secoli. Amen». La citazione del Giubileo del 1350 fa intendere che de Mussis avesse terminato la sua relazione dopo quella data. Non intendeva dimenticare, come invece avrebbe fatto la maggior parte della gente. La sua doveva quindi essere un’esposizione a lungo sofferta, segno che quella terribile esperienza, che nessuno ricordava simile a memoria d’uomo, doveva averlo colpito in modo piú indelebile dell’inchiostro che usava per i suoi atti, ancora oggi leggibili nell’Archivio di Stato di Piacenza. F

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Piú della spada poté il di Flavio Russo

contagio

Per garantirsi la vittoria durante gli assedi, fin dall’antichità furono messe a punto armi non convenzionali, tra cui autentici «ordigni» chimici e biologici. E proprio a questi ultimi va ricondotta anche la spaventosa pestilenza che, tra il 1347 e il 1352, fece strage della popolazione europea

In alto ricostruzione grafica in sezione del tipico sviluppo di una galleria da mina, in questo caso tracciata anche al di sotto di un fossato di cinta. Nella pagina accanto i resti della cinta muraria di Dura Europos, nell’odierna Siria.

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N N

egli innumerevoli assedi condotti nei secoli del Medioevo, tra gli espedienti escogitati per espugnare un abitato, furono adottate procedure che solo in epoca recentissima sono tornate a far parte degli armamentari piú disumani e atroci, il cui possesso viene da tutti ufficialmente negato, ma da nessuno sicuramente dismesso: gli aggressivi chimici e biologici. Le rispettive denominazioni, tratte dalla chimica e dalla biologia, sembrerebbero di primo acchito certificarne l’attualità, ma la realtà ancora una volta contraddice tale deduzione. Armi chimiche, infatti, sono quelle che, sfruttando le proprietà tossiche di varie sostanze, uccidono, feriscono o, semplicemente, soffocano il nemico e, in quanto tali, furono usate sin dalla preistoria. Analogamente, armi biologiche sono quelle che propagano tra i nemici contaminazione e contagio di malatie mortali o invalidanti e, al pari delle precedenti, trovarono impiego dalla notte dei tempi. I primi raccoglitori di miele che, per impossessarsene affumicarono gli alveari per scacciarne le api, possono infatti essere ritenuti gli inventori della guerra chimica! E allo stesso modo, chi per primo gettò una carogna o un cadavere in una polla d’acqua per contaminarla, inaugurò la guerra biologica! L’ambito ottimale per l’impiego degli aggressivi chimici fu quello difensivo, poiché essi si attagliavano perfettamente all’interdizione di luoghi angusti e scarsamente aerati, quali le gallerie da mina scavate per far crollare le sovrastanti mura, bruciandone i sottostanti puntelli. Dai densi fumi asfissianti ai piú elaborati tossici, il repertorio ossidionale medievale, quand’anche poco noto, fu talmente ampio da coinvolgere persino Leonardo da Vinci, il quale propose a Ludovico il Moro, per la guerra contro Ferrara, un miscuglio composto di

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gesso, solfuro d’arsenico e verderame, tutti finemente triturati, da lanciare sulle navi nemiche, dove avrebbero ucciso chiunque l’avesse respirato. Per contro, l’ambito ottimale per gli aggressivi biologici, che il piú delle volte consistevano nel lancio di cadaveri di appestati all’interno delle mura assediate, fu quello offensivo, richiedendo agli esecutori solo una sperimentata immunità. Sebbene non si abbiano certezze in merito a una diversa sensibilità al contagio della peste tra gli abitanti dell’impero romano e i barbari che risiedevano al di fuori dei suoi confini, molteplici indizi suggeriscono una minore vulnerabilità dei secondi, forse esito di una particolare proteina. Scriveva, significativamente, Paolo Diacono a proposito della pandemia che imperversò tra il 569 e il 570: «Questo flagello infuriò solo sui Latini in Italia, risparmiando il territorio degli Alamanni e dei Bavari» (Historia L. II, 4).

Vanterie da scavatori

Scavare cunicoli costituisce una delle attività umane ancestrali, condivisa da molte altre specie animali, vuoi per procacciarsi il cibo, vuoi per evitare di divenirlo, vuoi, infine, per sfuggire ai rigori del clima. Non a caso, cuniculus è il nome latino del coniglio! Ma quando una fortificazione di provata robustezza non era impiantata sulla roccia, il ricorso alle mine diveniva la soluzione per antonomasia per averne ragione. Dette anche talpe o talponi, le mine finirono per formare vere dinastie di specialisti, chiamati nel Medioevo talpari, i quali si vantavano, quando sopravvivevano al loro micidiale lavoro, di aver vinto le quattro radici empedoclee: l’acqua, che poteva sommergere il cunicolo annegandoli; il fuoco, innescato dalle lanterne o appiccato dai difensori; la terra, che, in ogni istante, poteva seppellirli franando; e, aprile

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soprattutto, l’aria, sempre scarsa e spesso letale perché saturata con esalazioni tossiche immesse dai difensori. E proprio nello scontro tra mine e contromine s’impose la guerra chimica, le cui menzioni certe e confermate dall’archeologia rimontano all’età classica. Nel III secolo d.C., per esempio, durante il feroce assedio di Dura Europos, città fondata da Seleuco I nel IV secolo a.C., conquistata da Traiano nel 115 d.C., poi ancora nel 165 dai generali di Lucio Vero e persa definitivamente nel 256, espugnata dai Persiani, venne senza dubbio sferrato un attacco chimico. Un episodio che può considerarsi del tutto analogo ai tanti altri similari, ma misconosciuti, che dovettero avere luogo dal XII secolo in poi. I ruderi delle mura di Dura Europos conservano traccia degli effetti delle mine, oltre ai sottostanti cunicoli: in particolare, quello visibile presso la torre n. 19 per provocarne il crollo, e intersecato a ridosso della stessa da una contromina, scavata da difensori romani. In corrispondenza dell’intersezione sono stati rinvenuti i resti di 19 legionari romani e di un minatore persiano. Privi di segni di ferite, gli scheletri accreditano la morte per soffocamento da gas letali, sprigionati verosimilmente dalla combustione in appositi bracieri di bitume con cristalli di zolfo, di cui sono state riscontrate tracce significative. I micidiali fumi che avvolsero i Romani e l’incauto Persiano saturarono in pochi istanti la galleria, aspirati dal tiraggio provocato dalle diverse quote di scavo: non appena inalati, si trasformarono in acido solforico nei polmoni, uccidendo i malcapitati. Piú di recente, in Cina, l’impiego di armi chimiche nel Medioevo è stato provato dal rinvenimento di alcuni reperti, grazie ai quali sono state individuate tracce di composti dell’arsenico, attribuibili alle cosiddette «nebbie cacciatrici di uomini», che possiamo considerare co-

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In queste pagine Dura Europos (Siria). Da sinistra: una sezione delle mura difensive, fatte crollare da una mina; l’interno di una galleria da mina in cui si vedono i puntelli di legno destinati a

sorreggere la volta prima di essere bruciati per provocarne il crollo, insieme con le mura sovrastanti; ancora un’immagine di una delle gallerie da mina scavata sotto le mura della città.

me nubi tossiche e asfissianti ante litteram. Piú semplice, ma non meno atroce, fu l’impiego della calce viva – per noi ossido di calcio, CaO –, finemente triturata e sparsa con appositi mantici a mano: appena la polvere entrava in contatto con i corpi sudati degli assedianti, li ustionava terribilmente, penetrando anche sotto le cotte di ferro e le corazze. Nello stesso arco storico trovarono largo impiego nella guerra chimica anche alcuni sali di arsenico: in un documento dell’Archivio di Stato di Venezia, per esempio, compare la notizia della proposta fatta il 30 maggio 1482 dal veneziano Alvise, di utilizzare, nell’assedio di Ficarolo (Ferrara), palle di bombarda che, esplodendo, liberavano fumi tossici all’arsenico.

Il trabucco: semplice e micidiale

Il lancio di cadaveri di appestati in decomposizione costituí una prassi abietta in uso sin dall’età classica, sebbene all’epoca, mancando macchine da lancio in grado di effettuarla, i tiri si limitassero solo a parti di cadaveri, come tali facilmente isolabili. La situazione mutò drasticamente nel Medioevo, dopo l’invenzione e la diffusione del trabucco, la piú potente macchina a gravità. Concettualmente elementare, il trabucco, detto anche trabocco o mangano, era in origine azionato dal tiro contemporaneo di una squadra composta da numerosi serventi, presto sostituita da un poderoso contrappeso,

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guerra d’assedio/2 A sinistra Londra. Una fossa comune di appestati, scoperta nell’area di East Smithfield. XIV sec. In basso un esemplare di pulce dell’uomo (Pulex irritans), insetto parassita, lungo 2 mm circa, cosmopolita, che può trasmettere la peste bubbonica.

soluzione che nei modelli piú evoluti e potenti, lo rendeva capace di scagliare la carogna di un cavallo a un centinaio di metri di distanza. Utilizzando la forza di gravità come energia propulsiva e un’ingegnosa fionda a tre catene di vincolo – di cui due inamovibili e una sganciabile intorno ai 40° – il trabucco era in grado di far piombare i suoi proietti sui bersagli con un angolo di ricaduta prossimo alla verticale. Tenendo conto che il suo tiro, vistosamente parabolico, attingeva ordinate superiori ai 50 m, poteva scavalcare qualsiasi cerchia urbica, e poiché nelle case medievali situate dentro la cerchia le coperture risultavano di scarsa resistenza, dovendo sopportare solo pioggia o neve, l’esito di tali impatti apparve subito terrifico. Oltre a innescare un immediato contagio, l’abbattersi di cadaveri nelle strade e nelle stesse case contribuiva al collasso psicologico della resistenza. Il martellamento, infatti, si protraeva ininterrottamente per giorni e, soprattutto, per notti, suscitando nella popolazione un orrore irrefrenabile, che finiva con il privare i difensori dell’indispensabile riposo e della necessaria determinazione. Si può dunque affermare che il trabucco abbia dato il via a quella antesignana guerra biologica che si estrinsecò pienamente a partire dal XIV secolo, nel corso dell’ennesima offensiva dell’Orda d’oro. Com’era loro costume, i Mongoli si avvalevano di artiglieri mercenari cinesi e turchi, i quali, oltre al servizio tecnico, fornivano efficaci trabucchi, di cui sapevano sfruttare al meglio le potenzialità. Forse per abbreviare gli assedi, forse per

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renderli superflui seminando il terrore, il lancio di cadaveri di appestati da evento sporadico divenne quasi sistematico, toccando l’acme nel 1345-46, contro la sventurata, e portatrice di sventura, colonia genovese di Caffa, oggi Feodosia, in Crimea. Durante il suo investimento, un’epidemia di peste si diffuse tra gli assedianti, decimandoli. Stando all’Ystoria de morbo sive Mortalitate quae fuit Anno Dni MCCCXLVIII del notaio piacentino Gabriele de Mussis (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 54-65), giunta la primavera del 1347, i Tartari, viste le gravi perdite subite, ritennero di non essere piú in grado di aver ragione della resistenza dei Genovesi e, prima di ritirarsi «legarono i cadaveri sui trabucchi e li lanciarono all’interno della città, perché tutti morissero di quella peste insopportabile. I cadaveri lanciati si spargevano ovunque e i cristiani non avevano modo né di liberarsene né fuggire». Nei giorni seguenti i mercanti genovesi, allontanandosi con le loro navi, diffusero il contagio in tutti i porti del Mediterraneo. Nel settembre, infatti, la peste comparve a Costantinopoli e in Grecia, poi in Egitto e a Cipro. Nel frattempo, le navi genovesi erano giunte a Messina: a bordo oltre ai pochi superstiti, un gran numero di moribondi. In appena tre settimane l’intera isola fu contagiata, seguita dalla Calabria e poi da Marsiglia, dove le navi restarono in rada, con equipaggi composti ormai di soli cadaveri. Allucinante fu il bilancio complessivo della «morte nera», che infuriò dal 1347 al 1352: l’intera popolazione europea si ridusse di un terzo, con oltre 25 000 000 di vittime! F (2 – continua) aprile

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di Carlo Casi, con la collaborazione di Alessandro Barelli, Luciano Frazzoni e Germana Vatta

Quando Viterbo divenne la città dei papi Nel corso del Medioevo il capoluogo della Tuscia visse una fase di notevole fioritura, alla quale contribuirono sia le attività produttive e commerciali, sia i riflessi della decisione – assunta nel 1257 da papa Alessandro IV – di eleggerla a sede della Curia vescovile. Una scelta alla quale si legano la costruzione del monumento simbolo della città e lo svolgimento del piú lungo conclave della storia La concessione del vessillo papale al Comune di Viterbo dipinta da Baldassarre Croce (1588, Sala Regia del Palazzo Comunale, Viterbo). Da quel momento in poi il vessillo e l’insegna comunale vennero affiancati, fino a diventare parte integrante dello stemma del Comune. Fu il rettore del Patrimonio, Bernardo di Coucy, a impegnarsi in tale gesto, dopo che i Viterbesi erano accorsi in suo aiuto durante un assedio alla Rocca di Montefiascone, dove egli risiedeva.


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iterbo, città dai due volti: inferno e paradiso; ambita da papi e antipapi, perennemente in contrapposizione tra bianco e nero, in alchemica sequenza. Da sempre, la religiosità ha rappresentato un vero e proprio fil rouge nella sua storia, dall’etrusca Surrina all’odierno culto per santa Rosa ben rappresentato dalla maestosa Macchina (vedi box alle pp. 96-97). Qui ogni pietra trasuda di umida sacralità e diffonde l’odore acre degli effluvi termali. E chissà se «i piú religiosi degli uomini» (come lo storico latino Tito Livio descrive gli Etruschi) non si siano fatti condizionare proprio dai fumi delle calde acque sorgive, riconoscendo in loro un segno del dio Suri – in etrusco Sur = «il Nero», Suri = «quello del Nero» o «quello che è nel Nero», intendendo con Nero l’Ade –, e scegliendo di

insediarsi lí vicino. Che fosse quella la motivazione non possiamo saperlo, ma sono invece un dato certo le tracce di frequentazione scoperte sia sul Colle di San Lorenzo (o del Duomo), sia sul pianoro compreso tra il fosso dell’Urcionio e il fosso del Riello, appena a ovest della cinta muraria medievale.

Ponti e terme

Sicuramente, entrambi i piccoli centri furono abitati sino all’età imperiale romana e tutta l’area circostante l’attuale Viterbo è costellata da numerose presenze monumentali, a partire dalla via Cassia. Quest’ultima fu realizzata nel II secolo a.C. per collegare Roma con l’Etruria interna, e alla consolare sono riferibili i due ponti ancora visibili, quello di San Nicolao – situato al cinquantesimo miglio e costruito,

come recita l’iscrizione dedicatoria, da Claudio e poi restaurato sotto Vespasiano – e il Camillario. Ai lati della Cassia sorgevano i monumenti piú importanti del periodo, i grandi complessi termali che sfruttavano l’ingente ricchezza delle acque calde affioranti quasi ovunque, ancora oggi molto utilizzate a fini terapeutici: le terme del Naviso, della Colonnella, del Sassogrosso, delle Zitelle, del Prato, della Busseta, del Masso, del Bullicame, degli Almadiani, delle Zitelle, degli Ebrei, di S. Maria in Selce, del Bagnaccio, di Bacucco e in proprietà Carletti. Alcune di queste dovevano essere pubbliche, come le Aquae Passeris – da riconoscere probabilmente nel Bagnaccio –, mentre per altre è nota la natura privata, come quelle della Villa Calvisiana, per la quale un’epi-

Viterbo, il Palazzo dei Papi. Quando nel 1257 papa Alessandro IV dispose il trasferimento della Curia papale da Roma, fu compito di un esponente di una nobile famiglia viterbese, Raniero Gatti, ampliare la già presente sede della Curia vescovile.

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si trasformarono in vere e proprie cave di materiale da costruzione della nascente città di Viterbo. Il nuovo centro si sviluppò intorno a un nucleo principale, ancora da riconoscersi nel già citato Colle di San Lorenzo. Qui un cronista locale del XIII secolo riporta una tradizione che vedeva la presenza di un tempio dedicato a Ercole, sulle cui rovine sarebbe stata edificata proprio la chiesa di S. Lorenzo. E da qui dovrebbe essere passato papa Zaccaria I, nel 741-2, insieme ad alcuni messi del re longobardo Liutprando che per andare da Bomarzo a Bieda (oggi Blera), scelsero la via piú breve, come riportato dal Liber Pontificalis: «Per fines Longobardorum Tuscie (…) id est per castro Bitervo». In precedenza, i Bizantini avevano perso il controllo della città, che, nel 607 – insieme a Ferento, Vetral-

Lago di Bolsena

Viterbo

Rieti

Tev ere

grafe narra la costruzione, alla fine del I secolo d.C., di un apposito acquedotto da parte del proprietario, tal Mummio Nigro Valerio Vegeto. L’impianto termale piú famoso è però quello del Bacucco, sulla strada che porta da Viterbo a Tuscania, studiato e disegnato anche da Giuliano da Sangallo e da Michelangelo. Gli scavi che vi furono condotti nel 1835 dal marchese Alessandro Especo e da Giulio Zelli Pazzaglia portarono al ritrovamento, oltre ad altre strutture murarie, di ben undici busti in marmo risalenti al II secolo d.C., oggi conservati al Museo del Louvre di Parigi. Le terme viterbesi continuarono a essere frequentate sicuramente fino alla tarda antichità, mentre è verosimile ipotizzare un loro netto declino, sino al completo abbandono, all’inizio del Medioevo, quando

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la, Norchia, Tarquinia, Tuscania e Castro –, era passata sotto il dominio longobardo, in seguito all’atto stipulato tra l’esarca Smaragdos e il re Agilulfo. Un nuovo capovolgimento di fronte si ebbe quando Desiderio, divenuto re dei Longobardi nel 756, reagí alla proclamazione di papa Adriano I (1° febbraio del 772) dichiarandogli guerra e arrivando

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Dossier A destra veduta di Viterbo dall’alto. In basso il leone con la palma, attuale simbolo di Viterbo. Secondo la tradizione è riconducibile al simbolo di Ercole, fondatore mitico della città, a cui si aggiunse la palma come emblema dei vicini sconfitti in epoca medievale.

Nella pagina accanto affresco di Baldassarre Croce (1588, Sala Regia del Palazzo Comunale, Viterbo) raffigurante i quattro castelli (Fano, Arbano, Vetulonia e Longula) che, secondo Annio da Viterbo, vennero riuniti per decreto di re Desiderio nel 773, formando la città di Viterbo.

perfino a progettare l’assedio di Roma, per effettuare il quale fece rinforzare, nel 773, le fortificazioni del castello di Viterbo. Inutilmente, perché, l’anno successivo, Carlo Magno, re dei Franchi – che aveva sposato la figlia di Desiderio, Ermengarda, e poi l’aveva ripudiata –, scese in Italia per accorrere in aiuto del papa. Assediò Desiderio a Pavia nel 774 e lo confinò in un monastero, dove morí. Viterbo fu cosí ricondotta nell’orbita della Chiesa, insieme ad altri luoghi della Tuscia longobarda, come venne confermato successivamente nel 962 dall’imperatore Ottone I.

La crescita economica

La strategica posizione sulla via Francigena e lo sviluppo delle attività agricole favorirono, già dall’VIII secolo, la notevole crescita della città. Lo confermano sia un documento dell’abbazia di Farfa (808) riguardante alcune opere di fortificazione, sia il privilegio emanato nell’852 da Leone IV, ma, soprattutto, la nascita di almeno quattro agglomerati urbani: il Castello di Sonsa, il Vico Foffiano, il Vico Quinzano e il Vico Squarano. Questi villaggi, insieme

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A sinistra in quest’altro particolare degli affreschi di Baldassarre Croce (1588, Sala Regia del Palazzo Comunale, Viterbo), Celestino III consacra il primo vescovo di Viterbo nel 1192, eleggendo la città a sede vescovile. In basso le sorgenti del Bullicame in una tavola pubblicata il 3 agosto 1850 da L’album, giornale letterario e di belle arti, a corredo di un articolo sui bagni di Viterbo. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

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ad altri successivi, sorsero intorno a umili pievi, centri polarizzatori per le popolazioni sparse nel territorio. Col tempo, tali centri si allargarono fino ad avvicinarsi e rendere possibile la loro chiusura entro un’unica cinta muraria, la cui costruzione iniziò nel 1095, in concomitanza con la dichiarazione di Comune indipendente, attestata in un’epigrafe a Porta Sonsa : «Mi chiamo Sonsa, porta di Viterbo la splendida, grande il mio nome, eterni i miei privilegi. Chiunque sia gravato da condizione servile, se mio cittadino si faccia, sia considerato un uomo libero. Il sommo imperatore Enrico mi concesse questo privilegio nell’anno 1095». Forse proprio questi piccoli centri ispirarono nel Quattrocento lo studioso domenicano Annio da Viterbo, quando s’inventò un decreto che sarebbe stato emanato nel 773 da re Desiderio e con il quale si ordinava la riunione di quattro castelli, Fano, Arbano, Vetulonia e Longula per formare la città di Viterbo. Da allora, le iniziali dei nomi dei quattro castelli, F.A.V.L., furono inserite nei settori del globo che fungeva da base di appoggio per il leone dello stemma cittadino.

Nel XII secolo la concessione dell’autonomia comunale da parte di Enrico IV diede un notevole impulso allo sviluppo della città, che si allargò per far fronte alla importante crescita demografica, dovuta, in parte, anche alle conquiste effettuate a danno dei castelli vicini, come quello di Ferento, distrutto nel 1172. A seguito di ciò lo stemma cittadino si arricchí della palma, emblema degli sconfitti, che andò cosí ad aggiungersi al leone, simbolo del mitico fondatore, Ercole.

Una libertà effimera

Tuttavia, l’indipendenza di Viterbo fu di breve durata e aveva di fatto già cessato di esistere nel 1164, quando la città venne assoggettata da Federico Barbarossa, il quale, nel 1167, la volle al suo fianco nell’assalto di Roma. Nello stesso periodo la città della Tuscia ospitò gli antipapi creati da Federico, Pasquale III e Calisto III, che seguirono le sorti dell’imperatore fino a quando non venne sconfitto in Lombardia. Nel 1180-81 il Barbarossa si riappacificò con papa Alessandro e Viterbo tornò sotto il controllo pontificio e, di lí a poco, nel

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Dossier 1192, per iniziativa di Celestino III, venne eletta sede vescovile. Se l’impero l’aveva già scelta come sede antagonista a Roma, il papato elevò Viterbo al ruolo di residenza seconda solo al caput mundi. Già nel XII secolo, la città aveva ospitato, seppur per brevi periodi, alcuni titolari della cattedra di Pietro, quali Eugenio III, Adriano IV e Alessandro III, ma solo nel 1207, dopo la disastrosa operazione di Vitorchiano del 1200 (la cittadina, che si trova una decina chilometri a nord-est del capoluogo, era entrata in guerra con Viterbo a causa di una disputa sulla spartizione dei beni razziati durante la distruzione di Ferento, n.d.r.), fu definitivamente consacrata da Innocenzo III come sede pontificia.

Famiglie in lotta

Nella prima metà del XIII secolo Viterbo risentí comunque della situazione determinata dall’inasprirsi delle contrapposizioni tra Federico II e la Chiesa – retta in quel periodo da Innocenzo III, Gregorio IX e Innocenzo IV –, che acuí gli odi fra guelfi e ghibellini. Questi ultimi sfociarono nella rivalità tra le due potenti famiglie viterbesi, i Gatti e i Tignosi, poste a capo delle due fazioni. I Gatti, provenienti dalla Bretagna, erano schierati con il papato ed ebbero una parte notevole nella storia locale, perché, fattisi potenti e ricchi, ebbero spesso in mano le sorti della città. Li contrastavano i Tignosi, ghibellini, di origine alemanna e fedeli all’impero. Con i Gatti si schierarono gli Alessandri, i Mazzatosta e altre minori famiglie; coi Tignosi, i Cocco, i Monaldeschi e altri, cosicché la città risultò spaccata a metà. In quegli anni cosí travagliati, però, emerse prepotentemente la figura del cardinale Raniero Capocci, forse uno dei pochi che riuscí a tener testa allo stesso Federico II. Infatti, nel 1243, quando la situazione viterbese precipitò e la fazione

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ghibellina capitanata dai Tignosi fu costretta ad arroccarsi sul colle del Duomo in attesa dell’arrivo delle truppe imperiali, Capocci – che aveva assunto il comando dei guelfi –, riuscí dapprima a resistere all’assedio federiciano e, successivamente, a espugnare la roccaforte ghibellina. Solo nel 1252, la bolla promulgata da Innocenzo IV, oltre a sancire definitivamente gli statuti comunali insieme ad altri privilegi, consentí ai fuoriusciti ghibellini di rientrare in città, pacificando cosí le precedenti tensioni politico-sociali. La ricaduta positiva si può leggere nella crescita economica che caratterizzò tutta la seconda metà del XIII secolo, quando la città si arricchí di grandi opere edilizie di chiaro influsso gotico, che rispecchiavano il suo sviluppo in campo religioso, civile e militare. La stabilità garantita dalla famiglia Gatti portò infatti Viterbo ad assumere quella fisionomia di città medievale che nemmeno i pesanti interventi d’epoca fascista e i bombardamenti sono riusciti a scalfire piú di tanto e che ancora oggi è in grado di regalare al visitatore un’ambientazione unica. Sicuramente anche il consolidarsi del ruolo di sede papale aiutò la crescita politica ed economica della città: basti pensare che qui si tenne il primo conclave della storia della Chiesa. Alla morte di Clemente IV, avvenuta il 29 settembre del 1268, i diciassette cardinali si riunirono per eleggere il successore all’interno del Palazzo dei Papi, ma le rivalità familiari, associate a quelle politiche, causarono, sin dall’inizio, una situazione di stallo, che si protrasse per circa tre anni. L’impasse finí con l’esasperare la popolazione viterbese che, stanca di sopportare la pressione cardinalizia, si affidò a Raniero Gatti, affinché venisse a capo della questione: questi dapprima chiuse a chiave (da qui la parola conclave: clausi cum clave) nella grande sala gli alti prelati, dopodiché diminuí i viveri messi a lo-

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ro disposizione e, da ultimo, arrivò a scoperchiare il tetto del palazzo. Cosí, dopo ben 1006 giorni, venne finalmente eletto papa, il 1° settembre 1271, Tedaldo Visconti, con il nome di Gregorio X. Dieci anni piú tardi, però, nel 1281, salí al soglio pontificio il francese Simon de Brion, che assunse il nome di

In alto l’antica Porta Sonza o Sonsa, che prese nome dall’adiacente fosso omonimo, ora chiamato Urcionio. L’iscrizione che la sovrasta è stata restaurata di recente. Nella pagina accanto una delle tombe medievali venute alla luce in occasione dei lavori per l’apertura del Museo Colle del Duomo.

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Sulle due pagine miniatura raffigurante il conclave di Viterbo, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. I diciassette cardinali che si ritrovarono nel Palazzo dei Papi, dopo la morte di Alessandro IV, furono protagonisti del primo e del piú lungo conclave della storia. L’elezione di Gregorio X richiese infatti ben 1006 giorni.

In alto Gregorio X (al secolo Tedaldo Visconti), il papa eletto al termine del lungo conclave viterbese, nel settembre del 1271.

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Martino IV e che, memore dell’offensivo comportamento assunto in occasione del primo conclave, colpí Viterbo con la scomunica e, in segno di umiliazione, la condannò ad abbattere buona parte delle sue mura. Negli anni che seguirono, la parziale riconciliazione voluta da Bonifacio VIII nel 1296 e il netto incremento di pellegrini dovuto alla via Francigena non furono sufficienti per riportare la città agli antichi splendori. Per Viterbo ebbe inizio un lento declino, certamente decretato dalla fine delle committenze pontificie e acuito, nel XIV secolo, dal trasferimento ad Avignone della sede papale e dall’assedio della città, condotto personalmente da Bonifacio IX nel 1396. V Carlo Casi

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Sulle due pagine la cattedrale di S. Lorenzo e, sulla destra, il Palazzo dei Papi. In basso, da sinistra: particolare di un trittico su cuoio raffigurante Cristo, la Vergine e san Giovanni (chiesa di S. Maria Nuova; 1); la chiesa di S. Sisto (2); la fontana della loggia nel Palazzo dei Papi (3); la chiesa di S. Andrea (4).

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Dossier CITTÀ DI VITERBO 1. Porta Romana 2. Chiesa della Visitazione 3. S. Sisto 4. S. Andrea 5. S. Pellegrino 6. Palazzo Gatti 7. Fontana Grande 8. S. Maria della Pace 9. Fontana di Pianoscarano 10. Palazzo degli Alessandri 11. Sodalizio Facchini di Santa Rosa 12. Ponte di Paradosso 13. S. Carlo 14. Monastero di S. Bernardino 15. Casa Poscia

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16. Fontana Piazza Dante 17. Chiesa del Gonfalone 18. S. Maria Nuova 19. S. Ignazio 20. Palazzo Mazzatosta 21. S. Giovanni in Zoccoli 22. S. Maria Carbonara 23. F ontana di S. Tommaso o della Morte 24. Fontana del Gesú

25. Torre del Borgognone 26. S. Angelo in Spatha 27. S. Maria in Poggio 28. Palazzo Farnese 29. Chiesa del Gesú 30. Palazzo Chigi 31. Palazzo dei Priori 32. Palazzo del Podestà 33. Fontana di Santo Stefano 34. S. Maria del Suffragio

35. Casa di Santa Rosa 36. Basilica di S. Rosa 37. Casa di Valentino della Pagnotta 38. Cattedrale di S. Lorenzo 39. Palazzo dei Papi 40. S. Egidio 41. S. Marco 42. S. Giovanni Battista degli Almadiani

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43. Teatro Comunale dell’Unione 44. M onumento al Paracadutista 45. Tempietto S. Maria della Peste 46. Porta di Valle 47. Porta Faul 48. S. Giovanni Decollato 49. S. Francesco alla Rocca

50. Porta Murata 51. Chiesa della Ss. Trinità 52. Chiostro della Ss. Trinità 53. Fontana di S. Faustino 54. S. Faustino 55. F ontana di S. Pietro alla Rocca 56. Rocca Albornoz e Museo Nazionale 57. Porta Fiorentina

A destra la torre del Palazzo degli Alessandri, in piazza S. Pellegrino. In basso il quartiere di S. Pellegrino visto da un vicolo di Pianoscarano.

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mmaginando di vedere la città con gli occhi di un pellegrino che l’abbia attraversata nel Quattrocento nel suo viaggio verso Roma, vi proponiamo in queste pagine un itinerario alla scoperta della Viterbo medievale. Un tuffo all’indietro nel tempo di seicento anni, per rivivere l’età del massimo splendore viterbese. Le case, alle quali si accedeva sovente tramite un cortile interno chiamato richiastro, erano costruite in blocchi di peperino, a volte poggianti direttamente sul tufo di base, spesso scavato per realizzare il piano terra. Molto usati erano la scala esterna, detta «profferlo», che ricorda la struttura tipica delle case rurali dalla quale probabilmente prende spunto, insieme ai ponti sovrastanti la vie che assolvevano al compito di unire i due fabbricati, ma anche a quello di rinforzo statico. Altre case erano munite di balcone, mentre numerose dovevano essere le torri che, sorte a guardia della casa o a difesa dei borghi, divennero poi l’emblema della potenza raggiunta dalle grandi famiglie. Nonostante molte siano state abbattute nel corso delle vicende della storia cittadina o siano crollate a causa di eventi naturali, come il terremoto del 1349, le 40 torri rimaste rappresentano uno degli elementi architettonici che ancora caratterizzano Viterbo dal punto di vista urbanistico. Nell’odierna piazza del Gesú – già piazza S. Silvestro – svetta la Torre del Borgognone, che pren-

58. Porta Bove 59. Porta del Carmine 60. Porta Fiorita 61. Porta S. Pietro e Palazzo Donna Olimpia 62. S. Pietro 63. S. Maria delle Fortezze 64. Porta Vallia 65. Convento di S. Maria in Gradi 66. S. Maria della Verità 67. Museo civico 68. Porta della Verità 69. Porta S. Simeone 70. Porta S. Marco

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Dossier de nome non solo dalla casata, ma anche dal «piede», visto che alla sua base viene riportata la lunghezza di quello di messer Angelo Borgognone, utilizzata per molti anni come misura lineare dal Comune. E poi, ancora, quella residua delle sei originarie di Palazzo Gatti, quella di Malta, sopra le case dette degli Almadiani, legata probabilmente a una prigione, quella di Rolando, oggi inglobata nelle costruzioni vicine all’antica Porta Sonza. Ancora ben visibili sono invece

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la Torre di Messer Braimando, sul colle di San Lorenzo, l’unica rimasta in piedi dopo la distruzione del castrum avvenuta nel 1244, e quella legata al palazzo della famiglia guelfa degli Alessandri, già citata in uno Statuto comunale del 1251. Oltre ai palazzi Gatti, costruito per volere di Raniero nel 1266, e Alessandri, edificato in piazza S. Pellegrino nella prima metà del Duecento, quello contemporaneo dei Mazzatosta sviluppa nuovi motivi

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Sulle due pagine un tratto di via S. Pellegrino, da cui prende nome il piú importante quartiere medievale di Viterbo. Lungo la strada si affacciano le case un tempo abitate dai nobili e dalla loro servitú, collegate tra loro da passaggi interni e cavalcavia.

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A destra la torre del Branca (o della Galliana), eretta nella parte sud-occidentale della cinta muraria cittadina. In basso una casa nel quartiere di Pianoscarano, alla quale si accedeva salendo per la scala esterna, detta «profferlo».

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Dossier TORRE DEL BORGOGNONE

Sezione, pianta e veduta prospettica della torre del Borgognone. È detta anche «del Piede», poiché sulla sua base vi era appunto l’impronta del piede di un certo messer Angelo Borgognone, che serví da parametro per le misure lineari del Comune di Viterbo.

decorativi, come le trecce e i nastri, rimandando a uno stile sicuramente piú classicheggiante, mentre quello dei Tignosi – oggi conosciuto come Palazzo Farnese –, ancora della seconda metà del XIII secolo, mette nettamente in risalto il contrasto tra lo stile gotico delle bifore del primo piano e quello romanico delle finestre con arco a tutto sesto del secondo.

L’evoluzione del profferlo

L’edificio conosciuto come Palazzo Poscia, forse di proprietà dei Di Vico – ai quali doveva appartenere anche il visibile stemma deturpato –, probabilmente trecentesco, denota invece un’evoluzione del profferlo, che copre la bottega sottostante, su cui è inserito un arco pensile. Ancora al Duecento appartiene, probabilmente, il Palazzetto di Valentino della Pagnotta, forse l’esempio meglio conservato di edilizia privata medievale di Viterbo, che presenta un portico di due archi a tutto sesto, che ne ingentilisce le forme anche se richiama stilisticamente il gusto gotico del vicino Palazzo dei Papi. Come ricordato dall’iscrizione posta sull’ingresso, quest’ultimo, oggi sede del Vescovado, venne ultimato nel 1266 mentre era capitano del popolo Raniero Gat-

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Nella pagina accanto, in basso uno scorcio del Palazzo degli Alessandri, in Piazza S. Pellegrino. A destra la fontana che sorge al centro di piazza del Gesú, detta anche di S. Silvestro. Sorge al posto di una piú antica, e si ha notizia di un suo rifacimento già dal 1450. Nel 1923 è stata interamente ricostruita. Alle sue spalle è la torre del Borgognone.

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A sinistra Palazzo Poscia, nel quale si osserva un’evoluzione del profferlo, che va a coprire la bottega sottostante. In alto Palazzo Gatti, costruito nel 1266 per volere di Raniero, personaggio che ebbe un ruolo di primo piano nella storia cittadina, ricoprendo per tre volte la carica di capitano del popolo. Nella pagina accanto, in alto Palazzo Pagnotta, forse l’esempio meglio conservato di edilizia privata medievale. Nella pagina accanto, in basso la fontana di S. Tommaso, dalla caratteristica forma a fuso. Detta anche «della Morte» (dal nome della piazza in cui sorge) risale al XIII sec. ed è tra le piú antiche della città.

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ti, il quale fece realizzare anche la grande sala delle udienze, la stessa che ospitò il primo e piú lungo conclave della storia. Qui trovò la morte, nel maggio 1277, il medico ed erudito portoghese Pietro Ispano, salito al soglio pontificio nel settembre 1266 con il nome di Giovanni XXI, a seguito di un crollo strutturale che lo investí in pieno. La sua tomba si trova tuttora nella navata laterale della vicina Cattedrale. Il Palazzo dei Papi è di gran lunga il monumento piú famoso di Viterbo, di cui è divenuto il simbolo, con gli inconfondibili ed eleganti archetti intrecciati della loggia che caratterizzano la facciata. Nel 2014 è stata peraltro riaperta la splendida e affrescata sala Gualterio. Nel XIII secolo diviene elemento qualificante del paesaggio urbano la tipica fontana «a fuso», costituita da una vasca, circolare o poligonale, con al centro un elemento verticale che sorregge una o due coppe, e spesso impreziosita da protomi leonine dalle quali fuoriesce l’acqua. Esempi pregevoli di questa tipologia sono la Fontana Grande, la Fontana di S. Tommaso (detta «della Morte») e quelle di S. Giovanni in Zoccoli, di S. Maria in Poggio, di S. Faustino e di Pianoscarano. (segue a p. 97)

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Dossier PALAZZO DEI PAPI A destra la loggia gotica del Palazzo dei Papi, costruito in occasione del trasferimento della sede della Curia pontificia voluto da papa Alessandro IV. I lavori iniziarono nel 1257 sotto il capitano del popolo Raniero Gatti e si conclusero nel 1266. In basso luogo del primo sepolcro di vari papi, con resti del monumento a Giovanni XXI.

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In alto lastra con lo stemma della città di Viterbo, raffigurante il leone coronato passante verso sinistra sovrapposto a una palma. Viterbo, Palazzo dei Papi. Sulle due pagine il Palazzo dei Papi in una litografia ottocentesca.

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Dossier Rosa da Viterbo

A sinistra il corpo mummificato di santa Rosa, esposto nella chiesa di S. Maria delle Rose. In basso un momento del trasporto della Macchina di Santa Rosa per le vie cittadine.

Da tutti venerata

Triste è la storia di Rosa, figlia di Giovanni e Caterina modesti contadini di Santa Maria in Poggio, che morí giovane e malata il 6 marzo del 1251. Durante la sua breve vita, era nata solo 18 anni prima, seppe comunque farsi apprezzare dai Viterbesi per la sua grande devozione cristiana, ottenendo il rispetto anche dalle famiglie ghibelline che in quel momento governavano la città. In precedenza, il suo predicare era stato invece mal compreso dalla fazione legata all’imperatore e fu perciò costretta ad abbandonare Viterbo, anche se per brevissimo tempo, e a rifugiarsi a Soriano nel Cimino, da dove rientrò solo dopo la morte di Federico II, avvenuta circa dieci giorni piú tardi, il 13 dicembre 1250. Il freddo patito durante i viaggi causò probabilmente il riacutizzarsi della sua malattia, forse la tubercolosi, di cui morí nemmeno tre mesi dopo. La sfortunata ragazza soffriva anche di una malformazione congenita, la sindrome di Cantarell, caratterizzata dalla mancanza dello sterno, una patologia che normalmente conduce a morti premature. Venne seppellita in

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una fossa in nuda terra, dalla quale fu riesumata il 4 settembre del 1258. Il suo corpo fu quindi traslato nella chiesa di S. Maria delle Rose, che è oggi il principale luogo di culto della santa. La trionfale processione, alla quale prese verosimilmente parte anche Alessandro IV, viene rievocata ogni anno, la sera del 3 settembre, e vede il trasporto della «Macchina di Santa Rosa», che consiste in una torre illuminata, alta 30 m circa, tanto da

innalzare la statua della santa sopra i tetti di Viterbo. La Macchina, pesante 50 quintali circa, viene trasportata con difficoltà per piú di un chilometro da un centinaio di robusti «facchini» lungo le strette vie del centro. Ma perché ben due papi, Innocenzo IV e Alessandro IV, scelsero la giovanetta quale simbolo della lotta della Chiesa contro l’impero? In quegli anni, anche a Viterbo, dilagava l’eresia catara, aiutata nel suo diffondersi dalla forte aprile

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pressione federiciana esercitata sulla città. Questa miscela esplosiva non poteva essere piú tollerata dalla Chiesa, che cercò di porvi rimedio eleggendo Rosa a modello per tutti i Viterbesi, facendone l’eroina della guerra contro il tentativo di egemonia dell’imperatore. Inoltre, cosí facendo, la Chiesa, scardinò facilmente l’esaltante esperienza di Viterbo come libero Comune e riportò la città sotto l’egida del potere papale. Carlo Casi

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In alto la facciata della chiesa di S. Sisto. A sinistra un’immagine della Macchina di Santa Rosa durante il trasporto. La Macchina consiste in una struttura verticale simile a una guglia, che la sera del 3 settembre di ogni anno attraversa la città portata a spalla da circa 100 uomini. Il percorso, lungo 1200 m, inizia dalla chiesa di S. Sisto e arriva fino al santuario di S. Rosa. La sua altezza è di 30 m circa e il suo peso di circa 5 tonnellate.

Ma l’anima della Viterbo medievale è riconoscibile soprattutto nelle sue chiese. Spesso grandi e splendide a volte piccole e nascoste, ma da sempre gelose custodi della fiera identità cittadina. E cosí la Cattedrale, dedicata a san Lorenzo, è stata muta testimone delle vicende locali almeno dal XII secolo, quando venne eretta su una preesistente pieve, citata già nell’anno 802 a proposito di una «Ecclesia Sanctii Laurentii in castro Viterbii». La presenza dei papi nel vicino palazzo, dalla metà del Duecento, ne aumentò l’importanza, facendola diventare teatro di eventi famosi. Vi furono infatti eletti numerosi pontefici: Urbano IV, Clemente IV, Gregorio X, Adriano V, Giovanni XXI, Niccolò III e Martino IV e gli antipapi Vittore IV, Pasquale III e Calisto III e vi vennero celebrati diversi concistori.

La benedizione dei facchini

Una delle chiese piú antiche di Viterbo è S. Sisto, sorta nell’area che alcuni documenti longobardi chiamano Vico Quinzano, nei pressi di Porta Romana. La struttura originaria si percepisce ancora nella parte bassa costituita dalle tre navate, il colonnato, le due cappelle di fondo, la cripta nascosta sotto la scala e gli archi all’estremità della navata principale, sorretti da colonnine a quattro elementi. L’importante ampliamento del XII secolo risulta invece evidente già dalla ripida scala di raccordo realizzata per superare il dislivello con la nuova porzione sviluppata sino alle mura, nelle quali venne ricavata l’abside. In questa chiesa, la sera del 3 settembre, i «facchini» di Santa Rosa ricevono la benedizione e dal piazzale esterno parte la processione della Macchina. Anche la chiesa di S. Maria Nuova è fra le piú antiche della città e assunse nei secoli un’importanza particolare per la popolazione, in quanto luogo prediletto dal

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In alto e a sinistra particolare degli affreschi della cripta e l’interno della cripta della chiesa di S.Andrea a Pianoscarano. XIII sec.

Comune per le riunioni pubbliche. A pianta basilicale, con una navata maggiore composta da un colonnato che separa le navate minori, rimanda al piú puro stile romanico-lombardo. Posto nella zona retrostante all’abside e caratterizzato da una forma piuttosto irregolare, il piccolo chiostro deve essere messo in stretto rapporto con la costruzione della chiesa e del complesso canonicale, avvenuta non prima della fine dell’XI secolo. La chiesa di S. Francesco sorse sull’area del Castello di Sonza, in un terreno donato da Gregorio IX ai Francescani, che ne avviarono la costruzione nel 1237. La pianta è a croce latina, senza abside e, in origine, con un unico altare. All’interno vi sono sepolti i papi Clemente IV

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A sinistra uno scorcio del chiostro della chiesa di S. Maria Nuova.

e Adriano V. Unica già nel nome che deriva dalle ciotole smaltate che dovevano abbellire in origine la lunetta del portale principale, la chiesa di S. Giovanni in Zoccoli è una chiara testimonianza dell’arte romanica a Viterbo. Fu realizzata tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, ma le fonti riferiscono già nell’823 di una ecclesia S. Ioannis donata alla Badia del Monte Amiata, di cui però non resta alcuna traccia. Sulla facciata, che poggia su due arcate realizzate per motivi di stabilità, campeggia l’unico rosone circolare conservatosi negli edifici religiosi di Viterbo, ai cui lati sono presenti i simboli degli Evangelisti. Erroneamente identificata da alcuni studiosi con S. Andrea «in Campo», menzionata nell’852 nella bolla di

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Leone IV tra le chiese di pertinenza della diocesi di Tuscania e invece da riconoscere in quella andata distrutta nei pressi di Porta Romana nel 1271, S. Andrea a Pianoscarano è citata per la prima volta tra le chiese minori della città nel 1236. Presenta la pianta triabsidata ed è articolata all’interno in un’unica navata, con il presbiterio rialzato da una grande scalinata. La facciata ha un timpano triangolare sul quale poggia un campanile a vela. La cripta, al contrario, rimanda all’architettura gotico-cistercense del XIII secolo, come prova l’elaborato sistema di volte a crociera sorrette da colonnine con capitelli finemente decorati. Carlo Casi

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IL CIRCUITO DEI MUSEI

Città ricca di storia, Viterbo, mette a disposizione del visitatore un’interessante offerta museale. Allestito nella trecentesca Rocca Albornoz, il Museo Nazionale Etrusco ospita un’importante collezione, formatasi grazie a scavi condotti principalmente in alcuni insediamenti prossimi alla città. Cosí è per il centro palaziale di Acquarossa, indagato insieme a quello di San Giovenale dall’Istituto Svedese di Studi Classici, che pone l’accento sulle strutture abitative etrusche, rendendo bene l’idea delle case nelle quali abitava l’antico popolo, qui egregiamente ricostruite. Anche ad altri centri del Viterbese – Castel d’Asso, Norchia, Musarna e Ferento – sono dedicati i necessari spazi museali, mentre un’intera sala accoglie una delle piú interessanti scoperte avvenute in Etruria nel secolo scorso: la biga di Castro. Da non mancare è la visita del Museo Civico, le cui raccolte si formarono, già sul finire del Quattrocento, grazie all’erudito Giovanni Nanni, meglio noto come Annio da Viterbo. Nel tempo, altre collezioni – Rossi Dainelli, Capponi, Falcioni e Anselmi – hanno arricchito il patrimonio del museo, che presenta uno spaccato della storia viterbese ripartita in tre sezioni principali: archeologia, Medioevo, età moderna. Vero punto Qui accanto statua marmorea di Euterpe, musa della poesia lirica, dal teatro di Ferento. I sec. a.C. Viterbo, Museo Nazionale Etrusco.

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

di forza del Museo Civico è la pinacoteca, al primo piano, tra le cui opere spiccano la Deposizione (1515) e la Flagellazione di Cristo (1517) di Sebastiano del Piombo. Il seicentesco Palazzo Brugiotti ospita invece il Museo della Ceramica della Tuscia. Qui la produzione della ceramica medievale, non solo viterbese, ma di tutto l’Alto Lazio, viene documentata dalle prime forme acrome, a biscotto, sino a quelle ottocentesche. I reperti esposti (380) provengono perlopiú dagli scavi dei cosiddetti «butti», veri e propri depositi, spesso ricavati nel bancone roccioso, di testimonianze della vita quotidiana medievale e rinascimentale (vedi box alle pp. 102-103).

In alto uno scorcio del loggiato che si affaccia sul cortile interno della Rocca Albornoz, sede del Museo Nazionale Etrusco.

A sinistra busto di Benedetto XI. Viterbo, Museo Colle del Duomo.

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Piatto decorato con un busto di donna con i capelli raccolti in un copricapo annodato e dall’abbigliamento aristocratico; nel cartiglio, la scritta «LIONIA B(ella). Acquapendente, 1579. Viterbo, Museo della Ceramica della Tuscia.

Aperto in via permanente nel 2005, il Museo Colle del Duomo si articola in tre sezioni: quella archeologica ripercorre la storia della prima area abitata di Viterbo, anche visitando una porzione dello scavo condotto in occasione della realizzazione del museo; nella sezione storico-artistica fanno bella mostra di sé pregiate opere pittoriche realizzate a partire dal XIII secolo; infine, nella sezione denominata Tesoro dei papi, sono riuniti preziosi oggetti di arte sacra, spesso appartenuti proprio ai pontefici che hanno visitato la città. Il museo è inserito all’interno di un percorso che comprende la cattedrale di S. Lorenzo e il Palazzo dei Papi. Carlo Casi

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DOVE E QUANDO Museo Nazionale Etrusco Rocca Albornoz Piazza della Rocca, 21/b Orario tutti i giorni, 8,3019,30; chiuso il lunedí Info tel. 0761 325929 Museo Civico Piazza Francesco Crispi, 2 Orario 01/04-21/10: tutti i giorni, 9,00-19,00; lu chiuso; 01/11-31/03: tutti i giorni, 9,00-18,00; lu chiuso Info tel. 0761 348275/6; e-mail: museocivico2@ comune.viterbo.it Museo della ceramica della Tuscia Via Cavour, 67 Orario aprile-giugno e settembre: gio-do,

10,00-13,00 e 15,30-18,30; lug-ago: ve-do, 10,00-13,00 e 15,30-18,30; ott-mar: ve-do, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; Info tel. 0761 223674; e-mail: mctuscia@gmail.com Museo Colle del Duomo Piazza San Lorenzo, 8 Orario ultima domenica di marzo-01/11: tutti i giorni, 10,00-19,00; lu chiuso; agosto: tutti i giorni, 10,00-20,00; lu chiuso; 2 novembre-ultimo sabato di marzo: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; lu chiuso Info tel. 338 1336529; www.archeoares.it Qui accanto piatto da parata decorato con la rappresentazione della dea Venere. Deruta (Viterbo a quella maniera?), fine del XV sec. Viterbo, Museo della Ceramica della Tuscia. A sinistra piattellotagliere con busto di giovane di profilo, con copricapo a calotta e lunghi capelli. Deruta (?), prima metà del XVI sec. Viterbo, Museo della Ceramica della Tuscia. Qui accanto catino in ceramica ingubbiata e graffita con trigramma di san Bernardino IHS e motivi vegetali. Alto Lazio (Viterbo?), Seconda metà del XV sec. Viterbo, Museo della Ceramica della Tuscia.

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LE CERAMICHE VITERBESI

Dossier I numerosi «butti» (profonde cavità ricavate nel banco tufaceo utilizzate come fosse granarie e, dal Medioevo, come immondezzai) scavati nel centro storico di Viterbo hanno restituito una quantità considerevole di ceramiche, che hanno permesso di ricostruire la storia di questa produzione cittadina, e che sono oggi in gran parte visibili nel Museo della Ceramica della Tuscia in Palazzo Brugiotti. Tra il XII e gli inizi del XIII secolo, le prime produzioni attestate consistevano in semplici manufatti privi di rivestimento o ricoperti da una vetrina verde, utilizzati come contenitori per l’acqua e il vino. Tra questi, la forma tipica viterbese è la cosiddetta «panata», una brocca di forma globulare con un beccuccio e due manici, utilizzata anche per «ammollare» il pane secco (che costituiva la base, insieme alle verdure, della zuppa nota come «acqua cotta»). Nella prima metà del XIII secolo, a Viterbo e nell’Alto Lazio si sviluppò quindi una produzione, definita «ceramica laziale», costituita da boccali, ciotole, tazze e piccole brocche («truffette»), decorate con semplici motivi geometrici e vegetali e con figure di uccelli, in bruno manganese e verde ramina (ottenuto cioè con l’ossido di rame), ricoperti da una vetrina trasparente che rende brillante la superficie. A determinare una svolta decisiva, nel 1240, fu però la designazione da parte di Federico II di Viterbo, fra tutte le città ghibelline dell’Alto Lazio, come sede dove svolgere una fiera della durata di quindici giorni, come avveniva già dal 1234 in altre città del suo impero, quali Reggio Calabria, Cosenza, Bari, Taranto, Capua e Sulmona. Ne derivò la notevole crescita degli scambi commerciali e dell’economia della Tuscia, che vide aumentare la circolazione di merci e maestranze specializzate. Tra il 1223 e il 1225, infatti, l’imperatore aveva deportato cinquantamila artigiani saraceni, tra cui molti ceramisti, dalla Sicilia a Lucera, in Puglia, dove si era sviluppata una notevole produzione ceramica, che utilizzava le avanzate tecniche elaborate dagli Arabi, tra cui quella della maiolica (il rivestimento del corpo del vaso ottenuto con lo smalto stannifero), ancora sconosciuta nell’Italia centro-settentrionale. Verosimilmente grazie alla fiera, giunsero a Viterbo prodotti e maestranze saracene dal Meridione, che fecero conoscere la tecnica della maiolica. La produzione ceramica viterbese e di altri centri umbrolaziali, come Tuscania e Orvieto, visse una nuova fase. Con l’introduzione del rivestimento a smalto, la ceramica laziale conobbe a Viterbo un notevole impulso, con manufatti di qualità molto apprezzati e diffusi anche in altre

Didascalia località dell’Italia centrale e a Roma. In questa fase, che va adi odisalmeno fino alla metà dalla seconda metàaliquatur del XIII secolo vero ent qui di quello successivo,que le botteghe producono ceramiche doloreium aventi la stessa forma, rivestiteconectu sia da vetrina piombifera che da smalto, con rehendebis decorazionieatur in bruno e verde, talvolta tendamusam associati al giallo ferraccia. Con l’avvento degli Angioini, consent,destinato perspiti ad avere ampia compare anche un motivo conseque nis diffusione nella ceramica viterbese, il giglio angioino (che maxim eaquis fu poi anche il simbolo della famiglia Farnese). earuntia conesla ceramica laziale Dalla metà del XIV secolo, apienda. viene soppiantata dalla «maiolica arcaica»: scompare il rivestimento a vetrina, si amplia il repertorio delle forme, soprattutto per quanto riguarda quelle aperte – piatti, scodelle, catini e ciotole –, rivestite da uno smalto piú denso e brillante rispetto a quello


della ceramica laziale, di colore grigio-perla. Anche la forma del boccale si evolve, presentando forma piú slanciata, mentre il becco non è piú staccato dal corpo, ma costituisce un tutt’uno con esso. Tale produzione, che in questa fase recepisce influssi dall’area toscana (Firenze, Siena) e umbra (Assisi, Todi, Orvieto), e non piú dal Meridione, conobbe una notevole diffusione in tutto il Lazio settentrionale, fino alla metà del XV secolo. Rispetto alla fase precedente, i motivi decorativi si ampliano, comprendendo figure di animali (uccelli, pesci, leoni, cervi), simboli araldici con gli stemmi di famiglie nobili, confraternite e ospedali e, dalla seconda metà del XIV secolo, iconografie religiose – l’Agnus Dei, i simboli della Passione –, destinate a ceramiche di uso conventuale, e figure umane, soprattutto femminili, rappresentate di tre quarti oppure di profilo. Di influenza orvietana è inoltre il motivo «a retino» in bruno, e l’uso, soprattutto sui boccali, di elementi applicati a rilievo (motivi a pigne e testine umane). Un’ulteriore evoluzione si registra infine nella prima metà del XV secolo, quando vengono introdotti nella decorazione anche il blu cobalto e il giallo antimonio. Tra il 1425 e il 1450, probabilmente a imitazione delle produzioni toscane di Firenze e Siena e romagnole di Faenza, nasce a Viterbo la «zaffera a rilievo», ottenuta con il blu cobalto molto intenso e spesso, affiancata da prodotti, in questo caso tipici delle officine viterbesi, che, invece del blu, utilizzano il verde a rilievo (famiglia verde a rilievo). Le decorazioni comprendono animali, spesso fantastici (felini con la testa umana, grifoni), simboli araldici, lettere gotiche e volti umani di profilo, inseriti tra foglie di quercia e serti di bacche; molto diffuso è il cristogramma di san Bernardino, IHS (Iesus Hominum Salvator). Tale produzione, pregevole e raffinata, ebbe però breve durata, a causa degli alti costi e delle difficoltà tecniche di realizzazione. Altro tipo di ceramica probabilmente prodotto a Viterbo nella prima metà del XV secolo è l’«ingubbiata e graffita», di

derivazione dall’area padana, in cui la decorazione viene incisa a crudo, e poi rivestita da vetrina trasparente. La produzione sembra subire un arresto o comunque una brusca diminuzione nella seconda metà del Quattrocento, quando le pestilenze del 1448 e del 1462 quasi dimezzarono la popolazione cittadina, decimando anche i ceramisti. L’arte dei vascellari (denominazione con la quale venivano indicati i vasai, n.d.r.) è comunque ancora presente agli inizi del XVI secolo, risultando tra le corporazioni cittadine nello statuto del 1513. In questo periodo, la produzione denota una evoluzione verso espressioni artistiche tipicamente rinascimentali; si possono citare due boccali con ritratti maschile e femminile, una ciotola con ritratto di papa Callisto III Borgia (1455-1458), e soprattutto i pavimenti in maiolica della cappella Mazzatosta nella chiesa di S. Maria della Verità (1475 circa) con volti di dame e gentiluomini e animali circondati da foglie In alto ciotola in maiolica sul cui fondo, entro un tondo, è «gotiche», e quello del tempietto di S. Maria della Peste, ritratto papa Callisto III (Alonso Borgia), con piviale e camauro. opera di Paolo Niccolai del 1494. Produzione viterbese, metà del XV sec. Viterbo, Museo della Nel XVI secolo la produzione ceramica a Viterbo sembra Ceramica della Tuscia. cessare del tutto, a vantaggio di altre località dell’Alto Nella pagina accanto boccale in maiolica con busto maschile Lazio, come Acquapendente e Bagnoregio, e, soprattutto, di profilo, con copricapo alla capitanesca con risvolto, tra motivi dei centri umbri come Deruta e Orvieto, con i quali gli vegetali. Produzione viterbese, seconda metà del XVI sec. Viterbo, artigiani viterbesi non saranno piú in grado di competere. Museo della Ceramica della Tuscia. Luciano Frazzoni

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SARCOFAGO DELLA BELLA GALIANA

Dossier A sinistra particolare del sarcofago «della Bella Galiana», un’arca romana reimpiegata in un monumento funebre medievale. III sec. d.C. Nella pagina accanto la replica del sarcofago murata nella facciata di S. Angelo in Spatha, in piazza del Plebiscito.

Tra i monumenti di Viterbo si distingue per fama il sarcofago della Bella Galiana, fanciulla viterbese vissuta nel XII secolo. Vuole la leggenda che la sua bellezza avesse provocato, suo malgrado e al pari di Elena di Troia, la guerra tra Viterbesi e un barone romano. Si tratta di un personaggio di nobile stirpe realmente vissuto, moglie di un notabile locale, che ebbe un ruolo decisivo, come mediatrice, nella pace raggiunta tra Viterbesi e Romani nel 1147, dopo l’assedio in cui i secondi avevano invano stretto la città (1146-1147). Per questo motivo, la sua morte, nel 1158, non addolorò solo i suoi concittadini, ma anche i Romani e la Tuscia tutta. La figura della Bella Galiana fu ben presto avvolta da un’aura leggendaria, che nel tempo ha dato origine a diverse versioni della sua storia. La prima parte della leggenda si ricollega al mito di fondazione di Viterbo a opera di profughi troiani, condotti da Enea. Ogni anno, il giorno di Pasqua, si perpetuava il sacrificio di una giovane vergine viterbese tratta a sorte e data in pasto a una scrofa bianca presso il fiume Paradosso, a memoria degli onori riservati dai Troiani a quella consacrata a Elena. Anche Galiana fu sorteggiata, ma l’orribile pasto fu interrotto dall’arrivo di un leone, che azzannò e trascinò nel vicino bosco la scrofa, liberando la città dal mostruoso e funesto tributo. Riconoscenti, i Viterbesi vollero che sul masso dove fu legata ed esposta Galiana fosse scolpito l’episodio, a ricordo della vicenda. La seconda parte narra di un barone romano che si innamorò di lei, ma, non avendo avuto il consenso alle nozze, assediò Viterbo per rapirla. Non riuscendovi, il barone, ferito, chiese con l’inganno che gli fosse concesso di vedere la fanciulla prima di morire. Affacciatasi dalla torre delle mura, Galiana venne colpita a morte da un soldato romano. Il suo corpo fu quindi sepolto in un sarcofago ricavato proprio dal masso istoriato dove era stata legata per il sacrificio.

La leggenda prese verosimilmente spunto proprio dalla raffigurazione del sarcofago romano riutilizzato per la sua sepoltura. La fronte del sarcofago, databile tra il 270 e il 280 d.C., è infatti ornata da una scena di caccia in cui il defunto, a cavallo, fronteggia con la lancia un cinghiale trafitto, contemporaneamente azzannato da un leone. Sotto il cavaliere, circondato da due cani, è un battitore con scudo, gettato a terra dal cinghiale. Alle spalle del cavaliere assistono all’impresa i Dioscuri, Castore e Polluce. Un secondo cavaliere, con la testa volta a guardare dietro l’assalto, si dirige al galoppo verso un cervo assalito da un felino con il braccio destro sollevato in segno di incitamento. Lo precede un cacciatore armato di arco, che affronta un orso, il quale ha, a sua volta, ucciso uno dei due gnu rappresentati in prossimità del margine destro della cassa. Tra i personaggi che animano la scena sono raffigurate le salme degli animali abbattuti (orso e cervo). Il paesaggio silvestre è reso dai rami di alberi che fuoriescono al di sopra delle figure. Ignota è la provenienza del sarcofago anche se si può verosimilmente supporre che sia stato razziato e portato a Viterbo insieme ad altre spoglie antiche ritenute di pregio, dopo la conquista di Ferento nel 1172, distrutta definitivamente dai Viterbesi nel 1251. Tuttavia, non si può escludere che il pezzo fosse conservato in qualche monumento funerario romano vicino alla città, l’antica Sorrina nova, come quello che diede origine nel XIII secolo al toponimo Musilegio o Musileo. Pur nella corruzione della forma, quest’ultimo è infatti riconducibile alla parola mausoleum, ricordato dalle fonti duecentesche e localizzabile nell’area extraurbana, tra l’Arcione e i Cappuccini di S. Paolo. Il sarcofago – che secondo una ricostruzione storica poco attendibile di Annio da Viterbo avrebbe custodito le spoglie di Valerio Agricola Urbano, il sesto praetor Etruriae –, probabilmente non fu aprile

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utilizzato subito come sepolcro, bensí, come spesso accade per questo tipo di manufatti, venne posto nel XIII secolo nella piazza del Comune, davanti alla chiesa di S. Angelo, a mo’ di vasca o abbeveratoio per i cavalli. La «svalutazione» del pregevole monumento funerario, commissionato per accogliere le spoglie di un defunto senz’altro abbiente, forse avvenne già a Ferento, dove fu probabilmente utilizzato come vasca per tintura, per tessuti o altri manufatti. Questo tipo di riutilizzo spiegherebbe le tracce di pigmento rosso rinvenute all’interno della cassa. Con il Rinascimento, anche il sarcofago della Bella Galiana venne ritenuto idoneo alla ricostruzione concettuale, tramite la ricerca e il recupero di antichità, della prestigiosa storia di Viterbo, quale antico centro della Tuscia preromana, in contrapposizione a Roma, contribuendo con la sua raffigurazione ad avvalorare la leggenda della scrofa bianca. In documenti stilati nel 1477 e nel 1480 il sepolcro viene citato «apud sepulturam pili marmorei domine Galliane» e «in platea Communis, apud ecclesiam S. Angeli et prope sepulcrum Galiane». Nel 1560, sotto Pio IV, si provvide a ricostruire la facciata anteriore della chiesa, crollata nel 1549 insieme al campanile; il sarcofago dovette allora avere una sistemazione provvisoria, visto che nel 1589 si ha notizia del pagamento «per la manifattura della sepoltura della Galliana», identificabile verosimilmente con gli interventi monumentali tuttora esistenti: i pilastri di sostegno alla cassa, l’edicola goticheggiante che incornicia le epigrafi. La terminologia usata nella prima iscrizione ha fatto ipotizzare che non sia coeva alla Bella Galiana, ma che sia stata realizzata in epoca rinascimentale, mentre la seconda, in esametri, non è l’epigrafe originale, visto che ne esiste un’altra versione riportata dai cronisti frate Francesco d’Andrea e Anzillotto Viterbese. Il sarcofago attualmente visibile in piazza del Plebiscito è una copia. Nel 1988 l’originale venne infatti smurato, per sottrarlo alla rovina dovuta all’azione degli agenti atmosferici e all’inquinamento; dopo un accurato intervento di restauro, nel 1994 è entrato a far parte della collezione del Museo Civico di Viterbo, dove si può oggi ammirarlo. Germana Vatta

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Lucca, capitale dell’arte serica LIBRI • Fra il XIII e il XIV secolo, il

capoluogo toscano divenne il principale polo manifatturiero della seta. Attraverso creazioni originali e riletture di modelli di matrice orientale, i tessitori lucchesi seppero imporre i propri prodotti su tutti i principali mercati italiani ed europei, contribuendo in maniera determinante alla fioritura economica della città. Una stagione d’oro, ora raccontata in un’opera che si segnala per la ricchezza e la qualità dell’apparato iconografico

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a collaborazione interdisciplinare tra storia dell’arte, storia culturale e storia economico-sociale costituisce il principio animatore di questo splendido volume, che – corredato da riproduzioni di altissima qualità – offre un affresco a tutto tondo della manifattura serica nella città che fu tra le prime in Italia a impiantarla (XIII-XIV secolo), raggiungendo uno standard qualitativo di livello eccelso, in grado di competere con le stoffe orientali. Durante il Trecento, attraverso la migrazione dei suoi mercanti e artigiani, Lucca esportò in molte località della Penisola (Venezia innanzitutto), le conoscenze tecniche necessarie alla nascita di nuovi poli manifatturieri. In questa città, come nella maggior parte dei centri urbani della Penisola, le stoffe preziose giocavano nel tardo Medioevo un ruolo fondamentale nella vita sociale e nell’orizzonte culturale dei contemporanei. Un ruolo che oggi viene spesso sottovalutato a causa della rarità dei reperti esistenti, nonché per la tendenza ad analizzare i manufatti tessili decontestualizzandoli dal piú vasto orizzonte culturale, sociale e simbolico al quale erano legati. Per ricavare un quadro a tutto tondo e collocare i tessuti nella corretta prospettiva, è invece indispensabile coniugare i frammenti superstiti, le fonti iconografiche

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Ignazio Del Punta, Maria Ludovica Rosati Lucca una città di seta. Produzione, commercio e diffusione dei tessuti lucchesi nel tardo Medioevo Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca, 336 pp., ill. col. 45,00 euro ISBN 978-88-6550-576-2 www.pacinifazzi.it raffiguranti l’utilizzazione dei tessuti in scene sacre, celebrative, o di vita quotidiana, e l’analisi dei documenti che ne attestano i modi e le tecniche di produzione e l’organizzazione manifatturiera e commerciale.

Drappi intessuti con fili d’oro Il volume offre dunque un panorama ricchissimo della multiforme produzione tessile lucchese, dai tessuti leggeri ai preziosi drappi intessuti con fili d’oro, realizzati a partire dalla fine del Duecento, ricostruendo aprile

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Madonna e Bambino con Angeli e Santi, nota come Piccola Maestà, tempera su legno di Ambrogio Lorenzetti. 1340. Siena, Pinacoteca Nazionale. Nell’abbigliamento dei vari personaggi, in particolare l’angelo sulla destra e il Bambino, il pittore riproduce tessuti di seta del tipo di quelli prodotti dalle manifatture lucchesi.

dettagliatamente le fasi produttive e commerciali dell’attività, e le famiglie di mercanti e artigiani in essa coinvolte. Viene inoltre messa in evidenza la profonda e determinante influenza esercitata dalle stoffe importate dall’Oriente (i panni tartarici), modelli fondamentali e fonte di ispirazione per le maestranze lucchesi, che ne imitarono le svariate e complesse tipologie. Tra la fine del Duecento e i primi decenni del Trecento, proprio l’intensificarsi dell’importazione di sete dall’Asia stimolò a Lucca la sperimentazione di nuove soluzioni

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tecniche e stilistiche, consentendo agli artigiani locali di sviluppare inedite e preziose tipologie tessili, da esportare in Italia e in Europa. Nonostante i contrasti politici e l’esilio di una parte della sua classe dirigente, la città potè cosí continuare a prosperare, confermandosi come centro mercantile e bancario di importanza primaria. Un altro dei temi indagati è il ruolo delle stoffe preziose nella cultura e nella società dell’epoca: come i tessuti lucchesi fossero utilizzati, percepiti e accolti, dopo che erano stati immessi sul mercato, trasformandosi in

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CALEIDO SCOPIO lussuosi beni di consumo. La seta non rappresentava soltanto un bene di lusso, ma costituiva un vero e proprio motore economico e, contemporaneamente, un’importante testimonianza culturale e un’«arte guida», capace di generare un preciso senso estetico.

Un mondo complesso Il volume si divide in due parti: la prima volta all’analisi dei manufatti, mentre nella seconda i documenti d’archivio (quelli notarili soprattutto) sono stati utilizzati per ricostruire il complesso mondo della manifattura serica lucchese, analizzando l’approvvigionamento delle materie prime, l’organizzazione produttiva e le figure professionali in essa coinvolte (tra cui, a vari livelli, anche molte donne), i rapporti della città con l’esterno, sia per quel che concerne i flussi migratori di artigiani specializzati, sia per quanto riguarda i circuiti commerciali. L’arrivo a Lucca, tra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento, di consistenti partite di seta cinese, che veniva poi lavorata e tinta con la preziosa grana (un colorante estratto dalla cocciniglia); la presenza nella città di un gran numero di mercanti, banchieri e artigiani «forestieri» provenienti da tutta l’Italia centro-settentrionale, nonché di numerosi tessitori specializzati veneziani (i porporai); il processo di delocalizzazione nel contado, già alla fine del Duecento, della tessitura delle stoffe leggere, affidate a donne proprietarie dei telai, costituiscono sicuramente alcuni tra i principali risultati emersi dall’analisi documentaria. Quanto all’esame dei tessuti, il repertorio iconografico che ne emerge denuncia la loro profonda matrice orientale, fatta di un mondo animale multiforme e in perenne movimento, e di un universo vegetale profondamente rinnovato rispetto a quello tradizionale europeo. Lepri, pantere, ghepardi, pappagalli, leoni,

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Frammento di tessuto in mezzaseta, seta e lino, con pantere rampanti, proveniente da uno scrigno della chiesa di S. Elisabetta a Marburgo. Produzione lucchese, XII-XIII sec. Marburgo, Universitäts-Museum. grifoni, in corsa o ad ali spiegate, accucciati o appollaiati, infervorati dal combattimento o lanciati in torsioni strabilianti; un mondo vegetale fatto di fiori di loto e di una varietà infinita di peonie dai petali mossi dal vento, foglioline e racemi spiraliformi, animate dal folgorante effetto tridimensionale dei filati metallici, sono soltanto alcuni dei temi iconografici raffigurati nei panni «tartarici» due- trecenteschi, che tanta influenza ebbero sui tessuti lucchesi al punto da determinare una vera e propria «rivoluzione tessile». All’inizio del Trecento le imitazioni lucchesi erano cosí perfette da rendere necessario specificare la località di provenienza dei manufatti. Le straordinarie immagini che corredano il volume documentano ampiamente questa eccezionale varietà di forme e colori, riunendo i pochi reperti che si sono conservati, oggi dispersi in vari musei europei. Un apparato iconografico che viene ripreso ed esaminato in tutti i suoi particolari nelle schede in appendice, ciascuna delle quali dedicata a uno specifico manufatto, di cui vengono indicati la datazione, il luogo di conservazione, i particolari tecnici e stilistici. Una seconda appendice dà invece conto delle tipologie tecniche e decorative che emergono dall’analisi dei documenti. Raramente accade di trovare un’opera cosí completa, sia dal punto di vista storico-documentario, sia da quello artistico e dell’analisi dei manufatti. Maria Paola Zanoboni aprile

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Lo scaffale Chiara Frugoni Le conseguenze di una citazione fuori posto

Edizioni Biblioteca Francescana, Milano, 138 pp., ill. col.

18,00 euro ISBN: 978-88-7962-286-8 www.bibliotecafrancescana.it

Questo agile e denso volume di Chiara Frugoni, in linea con l’ampia analisi di Quale Francesco? (Einaudi, 2015), mostra come i grandi apparati pittorici del Medioevo non fossero affatto destinati, in prima battuta, agli analfabeti o agli incolti. Rispondevano alle esigenze di personaggi colti e autorevoli, e veicolavano messaggi volti a rafforzare, o a costruire ex novo, una precisa visione della realtà. Nel caso dei celebri dipinti delle Storie francescane nella Basilica Superiore di S. Francesco ad Assisi, in larga parte attribuiti a Giotto e alla sua bottega, è sempre piú evidente che il ciclo sia stato commissionato e pianificato da papa Niccolò IV (1288-1292), primo francescano a salire sul soglio di Pietro. E un’attenta analisi iconografica, incrociata con la

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disamina delle fonti letterarie e documentarie, rivela dettagli e rispondenze di sorprendente alchimia, in perfetto accordo con quel determinato momento storico. Solo un frate o comunque un letterato poteva accorgersi che, nel riquadro dedicato all’incontro con papa Innocenzo III (1198-1216), svoltosi a Roma nel 1208-09, il pontefice sorregge una pergamena sulla quale è riportato un passo della Regola dei Francescani. La scena ritrae un momento solenne, e si assiste quindi all’approvazione

pontificia di quel documento. Ma in questo modo, consapevolmente, si proietta nel passato quel che è avvenuto in realtà in tempi piú recenti, poiché quel testo venne approvato,

ossia bollato, dal successore, papa Onorio III (1216-1226), il 29 novembre 1223. Come mai si adottò questa ardita soluzione narrativa? Chiara Frugoni evidenzia come la Regola fosse il fulcro di tutta una serie di questioni spinose. Raccontare che papa Innocenzo avesse già approvato il documento, permetteva di eludere una norma imposta dal Concilio lateranense del 1215, in base alla quale si vietava in modo tassativo l’elaborazione di nuove regole. In piú, si creava un legame significativo tra l’Approvazione della Regola e il Sogno di Innocenzo III, in cui san Francesco, mostrandosi come eroe e nuova pietra angolare della Chiesa, sostiene saldamente la cattedrale romana di S. Giovanni in Laterano. La tormentata storia della costituzione formale dell’ordine dei frati Minori, con una sempre piú forte contrapposizione tra Francesco e l’ala moderata dei suoi seguaci, veniva cosí sublimata. Un’allusione quasi impalpabile a quei dissidi si può leggere

semmai nel riquadro dell’Estasi di San Francesco, dove un gruppo di frati assiste con trepidazione alla levitazione del santo, mentre Cristo compare in cielo. Ripercorrendo e approfondendo un’ipotesi dello studioso Paul Sabatier (1858-1928), l’autrice evidenzia un legame della scena con il racconto del romitaggio dell’Assisiate a Fonte Colombo (Rieti), laddove poté elaborare proprio la Regola bollata, con le parole che gli forniva Cristo in persona. Nell’ispirazione originaria il racconto sottolineava l’autorità indiscutibile di Francesco in quanto direttamente ispirato da Cristo. Nell’ottica papale dei dipinti di Assisi, Francesco rispondeva all’autorità pontificia, sin dall’epoca di Innocenzo III, e Cristo, all’epoca di Onorio III, aveva a sua volta confermato e suggellato l’opera del nuovo apostolo della Chiesa, sia ispirando la Regola definitiva, sia «bollandola» in modo cruento e celestiale, imprimendo le Stimmate sul corpo vivo del santo (1224). Furio Cappelli

AA.VV. Il Mediterraneo al tempo di al-Idrisi Relazioni tra Nord e Sud, Oriente e Occidente Edizioni di Storia e Studi sociali, Ragusa, 192 pp., ill. b/n

16,00 euro ISBN 978-8899168-24-7 www.edizionidistoria.com

Attivo nella prima metà del XII secolo, il geografo arabo al-Idrisi fu testimone di un’epoca densa di

avvenimenti politici e di sviluppi culturali assai significativi. Tanto che l’opera che lo ha reso celebre, il Kitab Rugiar (Libro di Ruggero) si inserisce in una produzione ricca e vasta, di cui furono artefici pensatori, scienziati e letterati del mondo islamico e di quello occidentale. Un fermento che si può cogliere attraverso i contributi riuniti in questo volume, che si caratterizzano appunto per la varietà degli aprile

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ambiti esaminati. Si va dunque da considerazioni sull’evolversi del pensiero filosofico, con le sue implicazioni di natura teologica, ad analisi di specifici prodotti della cultura materiale, come nel caso dell’archeologia navale o della realizzazione dei qanat, i canali di tradizione vicino-orientale che ebbero grande diffusione nel mondo arabo-normanno, assicurando l’irrigazione dei terreni coltivati. Né mancano approfondimenti piú strettamente legati alla disciplina coltivata da al-Idrisi, la geografia, che fa comunque da filo conduttore principale della raccolta, in cui vi è anche spazio per una riflessione sul valore simbolico del regno di Ruggero II, che dello studioso arabo può essere considerato il mecenate. Stefano Mammini Ernst Kitzinger Alle origini dell’arte bizantina Correnti stilistiche nel mondo mediterraneo dal III al VII secolo a cura di Maria Andaloro e

Paolo Cesaretti Jaca Book, Milano, 292 pp., ill. b/n

38,00 euro ISBN 978-88-16-41450-1 www.jacabook.it

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A poco piú di quarant’anni dalla prima pubblicazione assoluta e quasi trenta dalla prima edizione italiana, viene riproposta in versione paperback un’opera seminale nel campo degli studi storico-artistici, quel Byzantine Art in the Making con cui Ernst

Kitzinger si propose di «tracciare un ampio quadro degli sviluppi stilistici con l’ausilio di una scelta di monumenti artistici». Una dichiarazione d’intenti che chiudeva l’Introduzione al saggio, ribadendo il suo non essere un manuale, né «un’opera di consultazione o riferimento». Ed è probabilmente questa la ragione per cui la lettura del libro risulta ancora oggi di straordinario interesse. Il grande studioso d’origine tedesca – era nato nel 1912 a Monaco di Baviera –

sviluppa il suo viaggio nella produzione artistica compresa fra III e VII secolo in sette capitoli, che già nei titoli lasciano intuire la particolarità del suo approccio: che le varie trattazioni siano ricondotte sotto termini come «crisi», «sintesi» o «polarizzazione» è infatti il riflesso di una visione per problemi, che offre al lettore un quadro attento innanzitutto al contesto in cui le diverse esperienze ebbero modo di maturare. Cogliendo, attraverso le opere d’arte, la particolare complessità del momento storico compreso tra il crollo dell’impero romano, l’avvento dell’Islam e la formazione dell’impero germanico. S. M. Paolo Rosso La scuola nel Medioevo Secoli VI-XV Carocci editore, Roma, 312 pp.

21,00 euro ISBN 978-88-430-9006-8 www.carocci.it

La cultura fu la protagonista indiscussa del Medioevo, un’epoca, com’è ormai da tempo accettato, tutt’altro che «buia». Ma quale è il percorso che porta

alla formazione di una cultura? La scuola. Nasce cosí questo volume di Paolo Rosso, professore di storia medievale all’Università di Torino. L’intento è quello di ripensare la storia antichissima di questa istituzione, attraverso le materie, i maestri, i luoghi, e analizzando anche le ragioni dell’insegnamento; vale a dire le motivazioni che spingevano i docenti a insegnare e i discenti ad apprendere. Nel trattare di scuola all’interno di un periodo cosí ampio, viene ripercorsa, nei suoi caratteri fondamentali, l’evoluzione del fenomeno. Si può cosí osservare il passaggio da una crisi dell’insegnamento, dovuta allo sfaldamento dell’impero romano, alla ripresa in età carolingia, sostenuta dalle istituzioni ecclesiastiche e capace di creare nuovi luoghi e nuove figure scolastiche. Contemporaneamente, il volume segue anche il percorso dei magistri e la loro rilevanza sociale. Né viene tralasciato, nel ripercorrere lo sviluppo della scuola, il rinnovamento

culturale di cui essa si fa portatrice, cosí come non lo sono i cambiamenti economici e sociali. Alla maggiore richiesta di alfabetizzazione corrispose la creazione di scuole laiche o conventuali che, insieme alla formazione dei centri urbani, acuita dallo sviluppo comunale, ebbe un ruolo decisivo nella relativizzazione dell’importanza dei monasteri alle sole zone rurali. Rosso si

sofferma anche su uno dei piú grandi lasciti del Medioevo, le università. Istituzioni che, secondo l’autore, seguono l’evoluzione naturale di un sistema scolastico urbano nel quale si registravano la sempre maggiore specializzazione della docenza e la crescente tendenza degli studenti a radunarsi e associarsi sotto un magister. Tommaso Mammini

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Arie di festa MUSICA • Due pregevoli antologie evocano

le gioiose atmosfere delle grandi corti europee. Con intrecci di suoni spesso pensati come accompagnamento delle danze

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l linguaggio coreografico ha da sempre connotato sia l’espressione musicale popolare, sia quella aulica di corte. Nel contesto della corte quattrocentesca, la musica strumentale, e in particolare quella legata all’arte coreutica, ha potuto svilupparsi traendo linfa vitale dalla cultura popolare, e divenendo, al contempo, una delle espressioni piú tipiche della «festa» di corte. Emblematiche, in tal senso, sono le numerose testimonianze che ci riportano alle corti italiane degli Estensi, dei Montefeltro, dei Gonzaga, degli Aragonesi, solo per citare qualche esempio. A quest’ultima è dedicato un album di musiche per danza composte appunto per Napoli, città in cui Alfonso V d’Aragona si stabilí nel 1443, trasformandola in uno dei centri di potere politico e culturale piú significativi della Penisola.

Sulla scia del maestro Domenico L’itinerario proposto dalla Capella dei Ministrers, guidata da Carles Magraner, ci conduce attraverso ascolti che rendono in maniera esaustiva l’idea della musica per danza, un’arte che, grazie all’opera del trattatista Domenico da Piacenza (1390-1470), maestro alla corte estense, raggiunse una piena legittimità nel corso del Quattrocento. La scelta dei brani cade su alcuni dei generi coreutici piú tipici dell’epoca:

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la bassadanza, la piva, la folia. Accanto a brani comunemente denominati «balli», che incarnano spesso l’origine popolaresca – come il saltarello –, ve ne sono altri dal tono piú solenne, come le bassedanze, in ritmo ternario, o le altedanze, come quella che ascoltiamo in un raro esempio pervenutoci di Francisco de la Torre. Oltre a quest’ultimo e al succitato Domenico da Piacenza, gli ascolti si soffermano anche su Juan Ambosio Dalza, con la sua Calata a la spagnola, Guglielmo Ebreo da Pesaro, che fu allievo di Domenico, accanto ad altri brani anonimi. Il gruppo della Capella dei Ministrers è qui rappresentato da un variopinto campionario di strumenti: l’exaquier (spinetta), la chitarra rinascimentale, la vihuela, i flauti, i sackbut (antesignani del trombone), la chirimia (appartenente alla

famiglia dell’oboe) e le percussioni, elemento ritmico immancabile nella musica per danza. Una sapiente regia sottende alla scelta dei colori strumentali, combinati con estrosa inventiva, in un’alternanza tra movimenti pacatamente solenni e altri piú gioiosi.

Al tempo dei Tudor Spostandoci in avanti di qualche decennio – tra la fine del XV e la prima metà del secolo successivo – e, geograficamente, nel Nord Europa, la proposta del gruppo Tasto Solo si avventura nel repertorio strumentale del primo Rinascimento che conobbe una grande fioritura in Inghilterra, sotto il regno dei Tudor, a partire dal 1485. Soprattutto grazie a Enrico VIII, infatti, la corte si arricchí di numerosi musicisti, con aprile

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Quattrocento Música y danza de la Corona de Aragón en Nápoles Capella de Ministrers Carles Magraner CdM 1742, 1 CD www.capelladeministrers.es Early Modern English Music: 1500-1550 Tasto Solo Guillermo Perez, David Catalunya, Angélique Mauillon Passacaille 1028, 1 CD www.passacaille.be un consistente incremento degli strumenti a tastiera a cui il disco è dedicato. Frutto di anni di ricerca dedicati all’organetto – ampiamente diffuso in tutta l’epoca medievale ma caduto nell’oblio a partire dal XVI secolo –, il gruppo Tasto Solo rende giustizia allo strumento, accompagnato nell’antologia da clavicembalo e arpa, in un repertorio che alterna vari generi. Si va dalle chansons di corte arrangiate in versione strumentale, com’era prassi dell’epoca, ai consorts strumentali, altro genere tipico della musica inglese, e a composizioni su bassi ostinati (ground-bass), basate su incisi melodici affidati al basso e ripetuti con variazioni nelle voci acute di cui My lady careys dompe e Hornepype di Hugh Aston (1485-1558) costituiscono esempi celeberrimi. Molti sono i brani anonimi proposti, ma non mancano i nomi eccellenti, tra cui lo stesso Enrico VIII, del quale ascoltiamo The time of youth e il Consort XVI, accanto a partiture di Thomas Preston (1537-1598), Robert Cooper (1474-1535) e ancora di Aston.

Tesori d’archivio Le musiche sono perlopiú tratte dal celebre Manoscritto di Enrico VIII (British Library, Add. 31992), che include il repertorio profano vocale e strumentale in uso nella sua corte,

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insieme a un altro manoscritto, il Royal Appendix 59, che conserva il repertorio tastieristico inglese della prima metà del Cinquecento. I componenti dell’ensemble Tasto Solo, qui rappresentati dal trio composto da Guillermo Pérez (organetto e direttore), David Catalunya (clavicembalo), e Angélique Mauillon (arpa rinascimentale), sono grandi talenti,

da anni impegnati nel riproporre il repertorio del tardo Medioevo e del primo Rinascimento. In questa incisione si apprezzano in particolar modo l’approccio interpretativo, basato su un grande senso del fraseggio, e le gradevolissime combinazioni strumentali, capaci di rendere al meglio il gusto musicale della corte di Enrico VIII. Franco Bruni

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