Medioevo n. 253, Febbraio 2018

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MEDIOEVO n. 253 FEBBRAIO 2018

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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FALCONE

MALTA AL TEMPO DI FEDERICO II

Mens. Anno 22 numero 253 Febbraio 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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Il mistero dello specchio

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Il latino: una lingua per l’Europa

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L’abbazia di San Gallo www.medioevo.it

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MEDIOEVO RIVELATO MALTA SPECCHIO S. GALLO DOSSIER LATINO: LINGUA PER L’EUROPA

EMILIA-ROMAGNA

IN EDICOLA IL 3 FEBBRAIO 2018

www.medioevo.it



SOMMARIO

Febbraio 2018 ANTEPRIMA PROVERBI Verità lapalissiane ARCHEOLOGIA Quel «piccolo terreno» in contrada S. Pietro

COSTUME E SOCIETÀ 5

IMMAGINARIO Lo specchio

Misteriosi riflessi

di Lorenzo Lorenzi 8

RECUPERI Un’attesa lunga, ma non vana

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MOSTRE Il fruscio della storia

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Dossier

UNA LINGUA PER L’EUROPA 85 di Paolo Garbini

ITINERARI L’eremita che guidava i marinai 18 APPUNTAMENTI Assalto al castello Falò per l’Apostolo L’Agenda del Mese

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STORIE ARCHEOLOGIA Emilia-Romagna

Un «altro» Medioevo

testi di Sauro Gelichi, Cinzia Cavallari, Luigi Malnati e Massimo Medica 36

36 CALEIDOSCOPIO LUOGHI SAN GALLO Un cantone in piena Regola di Roberto Roveda

STORIE Malta All’ombra della grande isola di Andreas M. Steiner

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LIBRI Storie abbaglianti

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MUSICA Omaggio alla Corona

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EU RO PA

LA T PE IN R O L’

LIN GU A

MEDIOEVO n. 253 FEBBRAIO 2018

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

SOTTO IL SEGNO DEL

FALCONE

MALTA AL TEMPO DI FEDERICO II

Mens. Anno 22 numero 253 Febbraio 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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MEDIOEVO RIVELATO MALTA SPECCHIO S. GALLO DOSSIER LATINO: LINGUA PER L’EUROPA

EMILIA-ROMAGNA

Venezia. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Lorenzo Lorenzi è storico dell’arte. Luigi Malnati è soprintendente Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Massimo Medica è direttore dei Musei Civici d’Arte Antica-Istituzione Bologna Musei. Chiara Parente è giornalista. Roberto Roveda è storico del Medioevo e giornalista. Tiziano Zaccaria è giornalista.

IN EDICOLA IL 3 FEBBRAIO 2018

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MEDIOEVO Anno XXII, n. 253 - febbraio 2018 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Redazione: Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Cinzia Cavallari è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Francesco Colotta è giornalista. Renata Curina è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Valentina Di Stefano è assistente tecnico presso la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Paolo Garbini è professore di letteratura latina medievale presso «Sapienza» Università di Roma. Sauro Gelichi è professore ordinario di archeologia medievale all’Università Ca’ Foscari di

Illustrazioni e immagini: Daniel Cilia: copertina e pp. 50-63 – DeA Picture Library: p. 5; G. Nimatallah: p. 65; Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 71; S. Vannini: pp. 78/79, 82 – Cortesia Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara: Roberto Macrí: pp. 8 (alto e basso), 9 (alto,a destra, e basso), 10 (basso), 10/11, 11; Cooperativa Archeologia: p. 8 (centro), 9 (alto, a sinistra), 10 (alto) – Cortesia Comune di Zuglio: p. 12 – Cortesia Ufficio Stampa mostra: pp. 14-17, 36-40, 41 (basso), 42-49– Cortesia Ludovica Mazzi: pp. 18. 20 – Cortesia IAT Portovenere: pp. 18/19, 19 – Shutterstock: pp. 20/21, 104 – Cortesia degli autori: pp. 22-23 – Mondadori Portfolio: AKG Images: p. 64; Leemage: pp. 67, 85, 86/87, 89, 93, 96; Album: pp. 68, 70, 94-95; Electa: p. 69; Electa/Sergio Anelli: p. 86 – Doc. red.: pp. 66, 74, 76-77, 79, 80-81, 88, 92, 99, 100-103, 105, 106-107 – Getty Images: Thomas J. Abercrombie: pp. 72/73; Imagno: p. 75 – Giorgio Albertini: disegno alle pp. 90/91 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 41.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l.

Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9,00/18,00] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

In copertina la cittadella di Rabat (Vittoriosa) a Gozo.

Direttore generale: Andrea Ferdeghini Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Pubblicità: Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Direzione, sede legale e operativa: Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI)

Nel prossimo numero storie

Il vino e l’Islam, un rapporto controverso

grandi famiglie

Gli Orsini dossier

letteratura

Il De Amore di Andrea Cappellano

Riccardo Cuor di Leone


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Verità lapalissiane

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i dice «lapalissiana» una verità talmente evidente che è quasi ridicolo star lí a spiegarla. Questo modo di dire nacque dai versi canticchiati dai soldati francesi dopo la battaglia di Pavia, combattuta il 24 febbraio del 1525 tra l’esercito di Francesco I, re di Francia, e quello del marchese di Pescara, al servizio dell’imperatore Carlo V. Il capitano francese Jacques de Chabannes, signore de

La Palice (o La Palisse), cadde in battaglia, combattendo valorosamente contro i lanzichenecchi e gli imperiali, e meritò d’essere ricordato per il coraggio mostrato a Pavia. Nato nel 1470, già a 16 anni aveva guadagnato «gli speroni» combattendo in Bretagna. Si distinse per valore nella battaglia di Fornovo, al seguito di Carlo VIII. Prese poi parte all’assedio di Genova e alla battaglia di Ravenna dove, dopo la morte del capitano Gaston de Foix, assunse il comando e, nonostante fosse stato ferito, riuscí a riportare le truppe sane e salve in Francia, meritando il titolo di maresciallo. In veste di Gran Maestro della Casa Reale, assegnatogli per volere dello stesso Francesco I, partecipò alla conferenza di Calais, respingendo il conestabile di Borbone. Nel 1525 tornò nuovamente in Italia per combattere dinnanzi a Pavia la sua ultima e fatale battaglia. L’esercito imperiale disponeva di circa 18 000 uomini, contro i 20 000 di Francesco I, anche se non si conosce esattamente il numero di quelli che furono realmente schierati nel parco di Mirabello. Ecco dunque i versi che l’hanno reso famoso: «Monsieur de La Palisse est mort, mort devant Pavie Un quart d’heur avant sa mort, il était encor en vie» («Il signor de La Palisse è morto,morto davanti a Pavia. Un quarto d’ora prima di morire, era ancora in vita»). La poesiola, in realtà, non aveva alcun fine satirico, e voleva piuttosto sottolineare che monsieur de La Palisse aveva combattuto sino alla morte. Ma l’ingenuità della seconda parte della strofa, ispirò, due secoli piú tardi, il letterato francese Bernard de La Monnoye (1641-1728), il quale compose una canzoncina comica che ebbe un certo successo e che diede origine alla leggenda che voleva il signore de La Palisse un ingenuo, attribuendo il significato, ancora oggi in uso, di verità ovvia, lampante e inequivocabile. Nel testo di La Monnoye, infatti, il povero monsieur de La Palisse era un sempliciotto, che affermava di bagnarsi sotto la pioggia oppure di tacere quando stava in silenzio. Caro dunque gli costò essersi battuto con valore davanti alle mura di Pavia. Jacques de Chabannes, signore de La Palice (o La Palisse), comandante militare e nobile francese, in una incisione seicentesca.


ANTE PRIMA

Quel «piccolo terreno» in contrada S. Pietro...

Bracciale in pietre dure recuperato negli scavi del cimitero ebraico medievale scoperto a Bologna, nel quadrante sud-orientale della città.

ARCHEOLOGIA • Indagini condotte nel centro di Bologna in vista della costruzione

di un complesso residenziale hanno portato a una scoperta di straordinaria importanza: è infatti tornato alla luce il cimitero ebraico medievale della città, la cui esistenza era finora attestata soltanto dai documenti d’archivio

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n intervento di archeologia preventiva condotto nel centro storico di Bologna ha fatto luce su una delle pagine piú controverse della storia del capoluogo nel Medioevo. Lo scavo – che ha interessato, tra il 2012 e il 2014, un’area del quadrante sud-orientale della città compresa tra le vie Orfeo, de’ Buttieri, Borgolocchi e Santo Stefano – ha portato alla scoperta della piú vasta area cimiteriale medievale mai indagata in città,

In alto Bologna, via Orfeo. Alcune delle fosse di sepoltura del cimitero ebraico medievale. A sinistra uno degli anelli restituiti dallo scavo delle tombe.

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testimone di eventi che hanno radicalmente mutato la vita di una parte della popolazione bolognese tra il XIV e il XVI secolo. Il cimitero si colloca nei pressi del monastero di S. Pietro Martire e la prima interpretazione assegnata alle sepolture era proprio in relazione al complesso cristiano. La gestione dei tempi del cantiere archeologico ha imposto di approfondire le ricerche storiche e febbraio

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In alto un anello con castone, uno dei numerosi oggetti di ornamento personale di pregio rinvenuti all’interno delle tombe. In alto un’altra immagine del cimitero scoperto in via Orfeo: le indagini hanno permesso di individuare 400 sepolture. In basso un anello a fascia. archivistiche in una fase successiva alla conclusione delle indagini sul campo. Tuttavia, sin dalle prime osservazioni sulla distribuzione delle sepolture, l’attribuzione del sepolcreto al solo contesto monastico di S. Pietro Martire è apparsa meno certa di quanto finora creduto. Le ricerche d’archivio hanno condotto alla raccolta di documenti preziosi per individuare e ricostruire la storia dell’area in cui il cimitero venne impiantato. Nelle fonti archivistiche, l’area oggetto dello studio è indicata come «Orto degli Ebrei» e, nella tradizione storiografica cittadina, in via Orfeo è appunto collocato l’antico cimitero

degli Ebrei. L’approfondimento delle ricerche ha consolidato questa ipotesi e la Soprintendenza ha avviato, insieme all’Università di Bologna, una proficua collaborazione con la Comunità Ebraica di Bologna, ricavando preziose informazioni sulle tradizioni religiose ebraiche e confrontandole con i dati di scavo.

La prima attestazione Il primo documento in cui è possibile identificare il terreno del sepolcreto è conservato presso l’Archivio di Stato di Bologna, all’interno dei riassunti degli atti notarili del 1393, in cui si legge: «Elie ebreo deUrbeveteri habitatori in civitate Bononie acquista una petia terre ortive, arborate et vidate duarum tornaturiarum (…) in contracta sancti Petri Martiris». Il terreno venne concesso da Elia ai suoi correligionari, per istituirvi

l’area cimiteriale dedicata agli Ebrei residenti a Bologna, una delle componenti piú operative e culturalmente attive della locale cittadinanza in età medievale. L’area conserva la funzione funeraria fino alla metà del XVI secolo, quando il papato emana una serie di pesanti restrizioni a danno della popolazione di religione ebraica, a cominciare dalla sottrazione di un terreno detto «Il cimitero degli Ebrei», che, nel 1541, un breve di Paolo III assegna alle suore di S. Pietro Martire. Le condizioni di vita degli Ebrei bolognesi furono ulteriormente aggravate dalla bolla di papa Paolo IV Cum nimis absurdum, emanata nel 1555 e che, tra le varie prescrizioni, impose l’obbligo di portare un distintivo giallo, il divieto di possesso di beni immobili e istituirà i ghetti. Il piú crudele degli interventi dei

Errata corrige con riferimento alla notizia L’acqua, la luna e la nascita della geologia (vedi «Medioevo» n. 252, gennaio 2017) desideriamo precisare che l’eposizione del Codice Leicester è in programma a Firenze, presso le Gallerie degli Uffizi, a partire dal prossimo 29 ottobre. Dell’errata informazione fornita ci scusiamo con gli interessati e con i nostri lettori.

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ANTE PRIMA I drammatici effetti di questo provvedimento pontificio sono stati portati alla luce dallo scavo archeologico, che ha restituito circa 400 tombe a inumazione, delle quali oltre 150 mostrano segni evidenti di manomissioni volontarie esercitate per profanarne la sacralità. Le indagini hanno documentato la totale assenza di tracce delle lapidi e dei segnacoli che, secondo la tradizione religiosa ebraica, dovevano riportare il nome del defunto e definire lo spazio di rispetto tra le tombe.

Un’organizzazione rigorosa

In alto ancora una veduta dell’area di scavo, che evidenzia la regolarità dell’allineamento delle fosse di sepoltura, aventi tutte un orientamento est-ovest. In basso e nella pagina accanto altre immagini di alcuni dei monili recuperati nelle tombe del cimitero ebraico.

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pontefici romani contro gli Ebrei italiani si ebbe pochi anni piú tardi, con il breve di Pio V Hebraeorum gens del 1569, che sancí l’espulsione di tutti gli Ebrei dalle terre dello Stato Pontificio, a esclusione di Roma e Ancona. Diretta conseguenza del documento, è un altro breve, emanato da Pio V il 28 novembre del 1569, che interviene esplicitamente su Bologna e stabilisce che l’area del cimitero ebraico venga donata alle suore della vicina chiesa di S. Pietro Martire, accordando altresí alle monache la facoltà «di disseppellire e far trasportare, dove a loro piaccia, i cadaveri, le ossa e gli avanzi dei morti: di demolire o trasmutare in altra forma i sepolcri costruiti dagli ebrei, anche per persone viventi: di togliere affatto, oppure raschiare e cancellare le iscrizioni ed altre memorie scolpite nel marmo».

Nel complesso, il cimitero di via Orfeo presenta un’organizzazione planimetrica molto rigorosa: le sepolture risultano ordinate in file parallele e le fosse sono orientate est-ovest, con il capo del defunto rivolto a occidente; molte deposizioni presentavano oggetti di ornamento personale in oro, argento, bronzo, pietre dure e ambra, realizzati con una notevole qualità tecnica, con incisioni e decorazioni a rilievo, difficilmente riscontrabili in contesti cimiteriali coevi. I resti umani recuperati nelle fosse di sepoltura sono attualmente in fase di studio da parte del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, coordinato da Maria Giovanna Belcastro, che sta conducendo esami approfonditi, avvalendosi di un approccio integrato tra analisi morfologiche, microbiologiche,

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molecolari e tomografiche, al fine di ricostruire lo stato di salute e nutrizionale degli individui, eventuali specializzazioni nelle attività lavorative, aspetti relativi ai riti funerari e la provenienza geografica legata a possibili spostamenti da altre aree.

Un tentativo di destorificazione

dell’enorme mole di dati che se ne sta ricavando sarà fondamentale per la ricostruzione della storia della comunità ebraica bolognese e del suo ruolo nella società contemporanea. È un caso unico in Europa, forse, non solo per la mole degli elementi informativi, poiché rappresenta

Nelle ricerche è stato integrato anche lo studio di antropologia culturale, condotto da Valentina Rizzo, che ha come scopo ultimo la costruzione del processo di restituzione dei resti umani alla Comunità Ebraica, cosí da garantire la loro sepoltura secondo il rito ebraico, e la ricostruzione di uno scenario storico e culturale di un periodo compreso tra il XIV e il XVI secolo. Oltre all’analisi del cimitero come campo di sepoltura, in cui il legame tra individui/gruppi e spazio passa anche attraverso il corpo seppellito, il sepolcreto di via Orfeo è portatore di un significato simbolico. La manomissione delle sepolture e la loro dissacrazione si collocano come tentativo di destorificazione, che consiste nell’espulsione del gruppo ebraico a cui il cimitero era appartenuto e nella distruzione di tutti i riferimenti culturali di quella comunità. Il cimitero ebraico medievale di Bologna è il piú grande attualmente indagato in Italia, secondo in Europa solo a quello di York, e l’approfondimento dello studio

ma, consapevole delle incidenze culturali e sociali dell’intervento, è fondato su un approccio interdisciplinare, con l’integrazione delle metodologie archeologiche, storiche, antropologiche e demo-etnoantropologiche. Il cimitero di via Orfeo è dunque il punto di partenza di un progetto piú ampio, che ha come obiettivo principale la diffusione della conoscenza e la valorizzazione del patrimonio culturale ebraico di Bologna, che, attraverso una lettura diacronica, contribuisca al processo di costruzione di una memoria cittadina attiva e partecipata. Renata Curina e Valentina Di Stefano

uno straordinario campo di collaborazione tra discipline scientifiche, istituzioni pubbliche, università, ricercatori indipendenti e istituzioni religiose.

Approccio interdisciplinare Il progetto di ricerca sul cimitero, coordinato dalla Soprintendenza di Bologna, non si è limitato all’applicazione dei corretti strumenti della ricerca archeologica,

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Lo scavo del cimitero ebraico medievale di via Orfeo è stato diretto dalla Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara ed eseguito da Cooperativa Archeologia. L’indagine è stata svolta in relazione alla costruzione di un nuovo complesso residenziale, in un sito che il Piano Strutturale del Comune di Bologna individua come «area ad alta potenzialità archeologica» e per il quale sono previste indagini preliminari ed eventuali scavi in profondità in accordo con la Soprintendenza per ogni intervento nel sottosuolo.

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ANTE PRIMA

Un’attesa lunga, ma non vana RECUPERI • A oltre trent’anni dal loro trafugamento, le

statue lignee realizzate da Domenico da Tolmezzo per la pieve di S. Pietro a Zuglio sono state ritrovate. E hanno cosí fatto ritorno nella cittadina friulana, dove sono attualmente esposte nel locale Museo Archeologico

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ra il 1981 quando la Carnia, nella notte tra il 14 e il 15 novembre, veniva spogliata di uno dei suoi monumenti piú significativi. Dalla pieve di S. Pietro a Zuglio (Udine) vennero asportate tutte le statue e alcuni elementi decorativi minori del grande polittico ligneo commissionato nel 1481 a Domenico Mioni, detto Domenico da Tolmezzo, e collocato poco piú tardi nell’abside dell’altare maggiore. Un episodio gravissimo, avvenuto dopo altre pesanti manomissioni, che, nell’estate del 2016, ha avuto una svolta importante grazie alle attività investigative del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. A seguito del controllo sistematico sul mercato dell’arte, nazionale e internazionale, il Comando TPC ha intercettato in una galleria antiquaria di Torino cinque dei Santi Apostoli destinati a ornare le nicchie del corpo centrale dell’altare. Un recupero straordinario per il patrimonio nazionale, che racchiude in sé tutta una serie di significati e che riconsegna alla Carnia un tassello della propria storia.

In alto un momento della restituzione delle statue lignee trafugate nel 1981 dalla pieve di S. Pietro a Zuglio (Udine). In basso le statue recuperate, facenti parte di un polittico realizzato da Domenico da Tolmezzo fra il 1481 e il 1484. Sono cosí rientrate a Zuglio, dopo 36 anni, le preziose statue in legno intagliato, dorato, policromo raffiguranti i santi Andrea, Paolo e Giacomo Maggiore, che affiancavano la figura assiale di san Pietro nel registro inferiore e i santi Matteo e Tommaso che alloggiavano nel registro superiore, perfettamente rifinite da incarnati rosacei, fisionomie delineate in nero e capigliature tinte, con le tuniche dorate vivacizzate da risvolti azzurri e rosa acceso. Le statue sono state collocate nella sezione del Museo Archeologico già dedicata alla pieve, dove sono valorizzati resti di decorazione architettonica che provano l’esistenza di piú momenti decorativi per l’edificio di culto a partire dal VI fino almeno al IX secolo. (red.)

DOVE E QUANDO

Civico Museo Archeologico Iulium Carnicum Zuglio (Udine) Orario ott-feb: ve, 9,00-12,00; do, 9,00-12,00 e 15,00-18,00; mar-mag: ve-sa, 9,00-12,00 e 15,00-18,00; giu-set: me-gio, 9,00-12,00; ve-do, 9,00-12,00 e 15,00-18,00 Info tel 0433 92562; e-mail: museo.zuglio@libero.it; www.comune.zuglio.ud.it

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ANTE PRIMA

Il fruscio della storia MOSTRE • Nel XIV secolo,

Firenze si affermò a livello internazionale come una delle capitali del tessile. Un successo che ha ispirato l’affascinante rassegna allestita nelle sale della Galleria dell’Accademia

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n epoca tardo-medievale, la Toscana rivestiva un ruolo di ampia rilevanza nel settore tessile, a livello europeo. Lana, seta e cotone venivano impiegati nella realizzazione di una vasta gamma di tessuti, complessivamente di qualità medio-alta, destinati a rifornire una mercatura anche di lungo raggio. Tale preminenza era dovuta anche alla posizione di molti centri urbani della regione, posti lungo le principali vie di comunicazione terrestri e collegati a scali marittimi sul Tirreno, determinanti per gli scambi di grande distanza e per l’approvvigionamento delle materie prime. Nei secoli XIV e XV l’attività piú diffusa era quella laniera, organizzata nella cosiddetta «manifattura disseminata», con capitale Firenze, una città che, ancor prima del decollo di una rete commerciale interamente locale, aveva avuto nei membri dell’Arte

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di Calimala – la corporazione che riuniva i maggiori operatori del mercato internazionale –, eccellenti imprenditori tessili, con l’acquisto dei panni franceschi in area fiamminga e francese, il loro successivo trattamento e la loro esportazione. Dalle botteghe fiorentine uscivano

decine di migliaia di pezze, una rilevante porzione delle quali era costituita dai pregiatissimi «panni di San Martino», che conquistarono il favore di una vasta clientela italiana e straniera, attenta anche allo sviluppo della manifattura serica, iniziata in quel periodo. Questa febbraio

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Nella pagina accanto due immagini dell’allestimento della mostra «Tessuto e ricchezza a Firenze nel Trecento», realizzata presso la Galleria dell’Accademia.

A sinistra veste infantile in lana, dalla Groenlandia. Metà del XIV sec. Copenaghen, Nationalmuseet. Qui sotto dalmatica confezionata con cinque diversi lampassi in seta e oro membranaceo. Prima metà del XIV sec. Stralsund, Stralsund Museum. In basso Il Battesimo di Cristo, tempera su tavola di Giovanni Baronzio. 1330-1335. Washington D.C., National Gallery of Art.

produzione incrementò l’uso della grana e del cremisi, i coloranti dai quali si ottenevano le tonalità di rosso piú prestigiose e che trovavano nell’allume il loro fissante piú efficace.

Moda e società Proprio per mostrare l’influenza sui costumi della società e in campo artistico derivata da questo comparto, la Galleria dell’Accademia di Firenze ha organizzato la rassegna «Tessuto e ricchezza a Firenze nel Trecento», visitabile fino al prossimo 18 marzo. L’eccellenza raggiunta nella lavorazione dei tessuti, pur dovendo affrontare i costi molto elevati

DOVE E QUANDO

«Tessuto e ricchezza a Firenze nel Trecento. Lana, seta, pittura» Firenze, Galleria dell’Accademia fino al 18 marzo Orario ma-do, 8,15-18,50; chiuso il lunedí Info Firenze Musei: tel. 055 290383; e-mail: firenzemusei@operalaboratori.com; www.galleriaaccademiafirenze.beniculturali.it

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ANTE PRIMA A sinistra San Martino in trono, tempera su tavola di Lorenzo di Bicci. 1380-1390. Firenze, Galleria dell’Accademia. Qui accanto un’altra immagine dell’allestimento della mostra. Nella pagina accanto, in alto Madonna col Bambino in trono, tempera su tavola del Maestro della Maddalena e di un pittore fiorentino della fine del Duecento. 1290 circa. Firenze, chiesa di S. Remigio. Nella pagina accanto, in basso Croce dipinta, tempera su tavola di artista fiorentino. 1285-1290. Firenze, Galleria dell’Accademia.

delle materie prime e dei pigmenti, fece di Firenze una delle città piú ricche del mondo, nonostante le pestilenze, i conflitti interni ed esterni o le crisi finanziarie. Fu un fenomeno staordinario, che permise la realizzazione di imponenti opere pubbliche e religiose come testimoniano la cattedrale di S. Maria del Fiore o il Palazzo della Signoria, emblemi del potere politico ed economico detenuto dalle corporazioni settoriali, generosi committenti d’arte.

Da Firenze alla Groenlandia Lusso e raffinatezza erano le parole d’ordine in ambito tessile, fonte d’ispirazione per artigiani e pittori che seppero «tradurre» le trame delle sontuose stoffe su tavole, affreschi o su opere tessute e dipinte, documentate in mostra da pezzi prestigiosi, come un raro vestitino in lana prestato dal Museo Nazionale di Copenaghen, confezionato verso la metà del XIV secolo per una bambina, recuperato dagli studiosi in Groenlandia; realizzato inserendo nel taglio diritto e semplice triangoli di tessuto che gli conferiscono la

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forma svasata, il reperto infantile esemplifica l’affermarsi del moderno concetto di «moda» con invenzioni e soluzioni che influenzeranno, successivamente, il portamento e i movimenti del corpo.

Divieti e stratagemmi Nel 1343 il Comune di Firenze produsse la cosiddetta Prammatica delle vesti delle donne fiorentine, che inasprí le leggi suntuarie. Di conseguenza, le cittadine abbienti furono costrette a inviare gli abiti che rientravano nelle tipologie proibite a quattro commissioni comunali le quali provvidero a descriverli accuratamente redigendo ognuna un inventario. Ne sono sopravvissuti tre che svelano i guardaroba di circa 2400 fiorentine (nubili e maritate), con oltre 6000 abiti accuratamente descritti nel tipo, nei tessuti, nei colori e nei disegni, oltre a un lungo elenco di gioielli femminili, nonché a esempi significativi della vanità maschile. Un mondo splendido e sfarzoso che riusciva a eludere i divieti, aumentando addirittura la

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pompa, grazie all’estro di ingegnosi «stilisti», creatori di modelli con grandi spacchi laterali che svelavano preziosissime sottovesti in seta, ornate con oro o pellicce di vaio. Tra le diverse cerchie prese in esame dal percorso espositivo, impostato cronologicamente, troviamo un frammento di tessuto con fenici e foglie di vite, dal Museo del Tessuto di Prato, un piviale proveniente dal Museo Nazionale del Bargello, che testimonia la stupefacente fastosità raggiunta dal capoluogo toscano nel campo della seta e dei velluti, mentre il Crocifisso del tardo Duecento appartenente alla Galleria dell’Accademia, recentemente restaurato, dal ricercato motivo decorativo del tabellone centrale, attesta la ricchezza di antiche stoffe islamiche. Grandi artisti furono incaricati di intrecciare struttura figurativa a ornamentazione, avvolgendo le figure in morbidi drappi dalla fine trama, cosí da suggerirne l’elaborata materialità, come lo Starnina nella sua Incoronazione della Vergine. Mila Lavorini

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ANTE PRIMA

L’eremita che guidava i marinai

ITINERARI • L’isola del Tino, nel golfo di La Spezia, accolse nel VI secolo il monaco

Venerio, che qui visse sino alla fine dei suoi giorni. Piú tardi, in suo onore, sorse il monastero di cui si possono oggi visitare i resti, vegliati dalla mole del faro

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no stretto braccio di mare separa l’isola del Tino (127 000 mq e quasi 2 km di perimetro), compresa nel Parco naturale regionale di Porto Venere, dalle isole Palmaria e Tinetto, con le quali forma l’unico arcipelago ligure. In quest’estremo lembo spezzino, dal 1997 Patrimonio dell’Umanità UNESCO insieme alle Cinque Terre, tutto è avvolto da una lussureggiante vegetazione, con pini d’Aleppo, lecci, lentischi, cisti, mirti, ginestre. Qui, nell’Ottocento, è stato costruito un grande faro marittimo. E qui, nel VI secolo, decise di abitare il monaco eremita Venerio (560 circa-630), dal 1961 eletto protettore dei fanalisti d’Italia, ossia di coloro i quali sono addetti al funzionamento e alla manutenzione dei fanali nelle navi e nei porti. Un’antica leggenda narra infatti che il santo, patrono del golfo di La Spezia, al calare del sole accendesse fuochi

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In alto e nella pagina accanto, in alto isola del Tino (La Spezia). Due immagini dei resti dell’abbazia di S. Venerio. Secondo la tradizione il complesso monastico venne fondato nel 1054, da un religioso di nome Pietro. In basso, sulle due pagine un’altra veduta dell’isola, dominata dal faro costruito nella prima metà dell’Ottocento. sull’isolotto, guidando i marinai nella giusta direzione. Durante il VII secolo, nel punto in cui fu ritrovata la sua tomba venne costruita una chiesetta. Poi, secondo la tradizione, nel 1054, il prete Pietro vicino al piccolo santuario fondò il monastero benedettino di S. Venerio del Tino.

Benefattori e donatori Ritenuta una grande protagonista della storia ligure oltremarina, l’abbazia ebbe tra i suoi primi benefattori gli Obertenghi.

Tra il 1050 e il 1060, la nobile casata donò al cenobio beni nel Tino, nel Tinetto, nella Palmaria, sulla costa occidentale del golfo da Portovenere fino al Varignano, nella regione piú interna, lungo la bassa valle della Magra, e nelle corti di Ceula e Moneglia. Nel 1062 papa Alessandro II pose il monastero sotto la propria protezione, confermandogli il possesso di alcune proprietà. Nel frattempo, affluirono donazioni dai signori di Vezzano e Trebiano e si ampliarono i possedimenti vicino ad Arcola, Trebiano, Tellaro, ad Ameglia intorno all’Avenza, a Carrara e a Castel Aghinolfi. Nel 1133 la Repubblica di Genova, sostenitrice di papa Innocenzo II contro l’antipapa Anacleto II, fu premiata con la concessione di S. Venerio del Tino, che, insieme a Bobbio e Brugnato, le consentí di rafforzare l’infiltrazione nel

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ANTE PRIMA Piacentino e nella Lunigiana, mentre l’aggiunta di tre diocesi corse (due già esistenti, Nebbio e Mariana, e la terza, Accia, fondata per l’occasione) indebolí la presenza pisana in Corsica. Nell’ultimo ventennio del Mille, il monastero si era ormai costituito un ampio patrimonio sull’isola francese, con chiese in Balagna e nel Rostino, donate anche da signori dell’Alta Corsica, come i Pinaschi. Nel 1120 tra Pisa e Genova si scatenò un lungo scontro per il controllo delle isole e di quel braccio del Mar Tirreno. Nel 1140 i consoli genovesi esentarono i monaci e gli abitanti del Tino dal versare i tributi ordinari ai castellani di Portovenere e, vent’anni

In alto e in basso sulle due pagine ancora due vedute dell’isola del Tino, di cui Pisa e Genova, nei primi decenni del XII sec., si contesero il controllo.

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piú tardi, si conclusero le vertenze tra i feudatari e il monastero per la caccia dei conigli alla Palmaria. A quel tempo il patrimonio monastico si estendeva sui colli del golfo, da Filattiera e Pontremoli fino alla Riviera di Levante, a Moneglia, Bargone, capo Manara, Santa Giulia, Sestri, Lavagna, Genova e fino oltre Massa, con beni perfino a Mombarcaro, Clavesana e Mantova.

Il declino e l’abbandono Per il cenobio la crisi sopraggiunse nella metà del XIII secolo e il suo declino fu inarrestabile. Piú volte devastato, nel 1385 venne affidato ai monaci di S. Stefano di Genova. All’inizio del Quattrocento la sua parabola si era ormai conclusa. Dimenticati nella boscaglia, i suggestivi resti della millenaria abbazia romanica, di cui rimangono ancora la facciata e i muri perimetrali della chiesa e del chiostro, ancora qualche anno fa si potevano visitare una sola volta l’anno, il 13 settembre, per la festa di san Venerio, poiché Tino è stata dichiarata zona militare e quindi interdetta agli usi civili. Dagli anni Sessanta sino al primo

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Le ricognizioni degli abati Le testimonianze piú interessanti su questo bene storico e artistico, che vale la pena venga riconosciuto e recuperato, riguardano la sua storia corsa. Le fonti dell’epoca narrano che ogni anno, tra luglio e agosto, l’abate si imbarcava per recarsi a prendere possesso corporale dei beni isolani. Quando arrivava, la Balagna era in fiore. Lo accoglieva un paesaggio ricco di vigneti, castagneti, uliveti e legni pregiati e profumati – larice, abete, pino –, che si mescolava ai campi di frumento e di orzo, agli orti, ai frutteti, ai villaggi, ai casali e ai mulini. Il monastero era a capo di un intenso movimento commerciale. Saettie e leudi (nomi di due tipi di imbarcazioni, n.d.r.) partivano dall’isola portando grano, orzo, vino, castagne, formaggi, pelli, legno pregiato e tornavano carichi di prodotti lavorati, vesti e oggetti di arredo. Nel tour di ricognizione, l’abate, quando riscuoteva i censi e riceveva gli omaggi, aveva diritto all’ospitalità, a un castrato, mezzo barile di vino, un «mezzino» di pane di frumento. Durante il soggiorno nominava i nuovi ministri con l’apposito berretto e l’anello, anche se spesso doveva dirimere le questioni nate dagli stili di vita del clero, sovente poco alfabetizzato e dedito al concubinato. decennio del Duemila, in occasione della rievocazione, si organizzava una grande processione in mare, con il trasferimento della statua del santo dalla Spezia al Tino. Inoltre, era previsto un annullo filatelico, valido per le giornate di apertura, e si visitava il museo archeologico dedicato al monumento. Alla ricorrenza religiosa partecipava

anche il vescovo, che, raggiunta l’isola, celebrava una solenne funzione liturgica e benediceva le imbarcazioni. Ora si svolge solo la benedizione delle barche vicino al molo d’approdo da parte del vescovo o del vicario della parrocchia di Cristo Re, ove è conservata la statua lignea del santo. Chiara Parente

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ANTE PRIMA

Assalto al castello APPUNTAMENTI • La cittadina di Mezzojuso,

nel Palermitano, si accinge a mettere in scena l’assedio che, agli inizi del Quattrocento, il conte di Modica pose alla locale fortezza, per entrare nelle grazie della regina Bianca di Navarra

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na maschera di cera rossa con un grande naso adunco: cosí si presenta il Mastro di Campo, protagonista di molte rappresentazioni storicocarnevalesche del Palermitano. Lo è, in particolare, a Mezzojuso, piccolo centro nell’entroterra del capoluogo siculo. Ogni anno, nell’ultima domenica di carnevale, il paese si trasforma nello scenario di una pantomima popolare che rappresenta la rivalità tra il Mastro di Campo e il re nella conquista della regina. Una rappresentazione folclorica che rievocherebbe l’assalto che, all’inizio del XV secolo, il conte di Modica diede al castello di Mezzojuso per guadagnarsi l’amore della regina Bianca di Navarra.

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A destra il Mastro di Campo, protagonista della messa in scena che si svolge ogni anno a Mezzojuso (Palermo). In basso un momento della singolare pantomima. In un’atmosfera surreale, nella piazza centrale del paese arriva il corteo reale, in abiti quattrocenteschi, con il re, la regina, i dignitari, le dame, l’artificiere, alcune guardie e i Mori.

Arrivano gli ingegneri Il gruppo esegue alcuni giri, poi sale su un palco che funge da castello e inizia una festa danzante. Mentre si balla, arrivano gli ingegneri del

Mastro di Campo, i quali, armati di cannocchiale, di un enorme compasso e di altri strumenti, misurano la distanza del castello da un punto ipotetico della piazza in cui piazzare l’artiglieria. Poi entra in scena il Mastro di Campo a cavallo, al ritmo marziale di un tamburo. Il generale indossa una maschera rossa col naso adunco e il labbro inferiore prominente, una camicia bianca con nastri colorati, pantaloni e mantello rosso. È seguito da un corteo di cui fanno parte l’ambasciatore, il capitano d’artiglieria, il barone e la baronessa su due asini, altre figure e, infine, una decina di cavalieri. Il Mastro fa il giro della piazza, si ferma di fronte al castello, scende da cavallo, si consulta con gli ingegneri e, tramite l’ambasciatore, invia una lettera di sfida al re, il quale gli risponde con sprezzo. A quel febbraio

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punto il generale afferra una piccola spada di legno e inizia una danza guerresca, ritmata da un tamburo, mentre sul castello il re passeggia nervoso e la regina è in trepidazione. L’artiglieria del Mastro di Campo fa fuoco con un cannoncino contro il castello, che risponde con altre cannonate. Per tutta la piazza è una baraonda di suoni, spari, rumori. La cavalleria scorrazza lanciando manciate di confetti tra la folla. Per due volte il Mastro di Campo sale la scala a pioli posta davanti al castello e arriva al cospetto del re, scontrandosi in un duello che però si conclude senza alcun esito.

Falò per l’apostolo

La «resurrezione» del generale

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Al terzo assalto, il generale resta ferito in fronte e, tremante, allarga le braccia e si lascia andare nel vuoto, preso al volo da un gruppo di persone che nel mentre si sono raccolte sotto il castello. Creduto morto, il Mastro di Campo, viene portato via dai suoi uomini. Ma non è morto e, guarito dalle ferite, si riporta in piazza con il suo esercito. Ricomincia allora la lotta. A un certo punto sul castello aumentano i segni di nervosismo. Il Mastro di Campo sale furtivamente la solita scala e, approfittando della confusione, con i suoi uomini circonda la corte e incatena il re. Poi, tolta la maschera, finalmente abbraccia la regina. La pantomina si chiude con un corteo per le vie principali del paese, dove il protagonista sfila assieme alla regina. Il piccolo centro di Mezzojuso è adagiato sulla boscosa montagna di Brinja (dall’albanese «costola»), a circa 600 m d’altitudine. Il paese fu costruito dagli Arabi e, nel 1510, un gruppo di profughi albanesi di etnia arbëreshë – in fuga dai Turchi, che avevano conquistato i territori dei Balcani – si stabilirono qui, portando la loro lingua, usi e tradizioni ortodosse. Tiziano Zaccaria

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gni anno, il 24 febbraio, il borgo pugliese di Deliceto unisce il profano di un antico rito pagano, legato al fuoco, alla sacralità della figura di san Mattia apostolo. Nel Foggiano, il culto per questo santo risale all’epoca della dominazione normanna, quando veniva invocato dalla popolazione a protezione delle incursioni dei Saraceni. Per ringraziare il santo dello scampato pericolo, i cittadini accendevano grandi fuochi nei vari rioni e alle celebrazioni religiose si intrecciavano riti pagani. Tanto forte divenne questa devozione, che l’apostolo fu eletto patrono del paese. E da allora Deliceto gli tributa solenni festeggiamenti annuali. Nei giorni che precedono il 24 febbraio, in vari angoli del centro storico vengono preparate grandi cataste di legna. Al tramonto del giorno di festa, le strade iniziano a illuminarsi fiocamente di piccole luci, che crescono con gradualità fino a diventare alti falò. Il programma prevede, alle 19,00, la benedizione e l’accensione dei fuochi. A seguire, nei vari rioni, vengono proposte degustazioni di prodotti gastronomici, animazioni, musica e la premiazione dei falò piú belli. A testimonianza della devozione per san Mattia, ancora oggi nella chiesa del Ss. Salvatore si ammirano un reliquiario in forma di statua del santo e un dipinto che illustra il suo martirio.

Una «vedetta» per i Longobardi Deliceto si trova nel Subappennino Dauno meridionale, tra il Tavoliere delle Puglie e l’Appennino campano, a 600 m sul livello del mare. Il suo territorio è caratterizzato da boschi di querce, macchia mediterranea, oliveti e vigneti. Le origini del borgo sembrano risalire al X secolo: durante la dominazione dei Longobardi fu «vedetta subappenninica» del ducato di Benevento. Nel XII secolo divenne suffeudo, venendo incorporato dapprima nel regno normanno, poi sotto gli Svevi e gli Angioini. Nel 1463 Ferdinando I di Aragona lo elevò a marchesato, concedendolo ad Antonio Piccolomini, nipote di papa Pio II, che vi si stabilí. Oggi il simbolo di Deliceto è l’imponente castello normanno-svevo, che domina dall’alto una profonda rupe. Il nucleo primitivo del maniero, realizzato principalmente con una funzione difensiva, risale al 1100. In origine aveva una forma triangolare; oggi è strutturato a forma di trapezio irregolare. Di proprietà comunale, da qualche anno il castello è tornato agibile dopo un lungo abbandono. T. Z.

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AGENDA DEL MESE

Mostre ROMA RINASCITE. OPERE D’ARTE SALVATE DAL SISMA DI AMATRICE E ACCUMOLI Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano fino all’11 febbraio

La mostra presenta una selezione di 34 opere d’arte tra le migliaia salvate dal sisma di Amatrice e di Accumoli. Lavori di alto magistero, cosí come talune commoventi testimonianze di puro valore devozionale, evocano la religiosità e la cultura di svariate comunità montane, che vivevano in condizioni non facili, ma che possedevano tenacia, energia e senso di radicamento. E proprio le testimonianze che si possono ammirare rendono evidente il fatto che non si trattasse di popolazioni isolate o richiuse in un orizzonte di breve respiro. I paesi dell’alta valle del Tronto erano realtà aperte e ricettive, capaci di attrarre artisti di varia provenienza fino a creare, sia

a cura di Stefano Mammini

pure per un breve periodo (XV-XVI secolo), una vera «scuola» locale, con pittori d’ingegno dallo stile eclettico e al tempo stesso originale. La maggior parte delle opere deriva dal prezioso Museo civico «Nicola Filotesio» di Amatrice. Spicca, fra tutte, la Madonna di Cossito, collocata all’inizio del percorso espositivo. Uscita indenne dal terremoto, questa tavola duecentesca ha alle spalle una travagliata vicenda di trafugamento all’estero e di avventuroso recupero (1964-67) ed era già stata ospitata a Roma nel 2011, a Castel S. Angelo, per una mostra dedicata appunto ai beni artistici italiani messi in salvo sin dagli anni della seconda guerra mondiale. info tel. 06 39967700; www.coopculture.it, www.electa.it NEW YORK MICHELANGELO, DIVINO DISEGNATORE E PROGETTISTA The Metropolitan Museum of Art fino al 12 febbraio

Il Metropolitan Museum of Art celebra la grandezza del «divino» Michelangelo Buonarroti attraverso i suoi disegni, considerati come una delle espressioni piú cristalline del suo genio. Un’opera, la sua, che riscosse l’ammirazione dei contemporanei e che ha da allora costituito un modello e una fonte di ispirazione universali. Per l’esposizione newyorchese sono stati selezionati, oltre a 150 disegni, alcuni marmi, dipinti giovanili, il modello ligneo per la volta di una cappella, nonché un ricco corpus di opere firmate da artisti dell’epoca in cui Michelangelo fu attivo, cosí da inquadrare meglio il contesto storico e culturale nel quale si dispiegò

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la sua straordinaria vicenda umana e artistica. Grazie ai prestiti concessi da piú di 50 istituzioni pubbliche e private statunitensi ed europee, sono confluiti nelle sale del Metropolitan alcuni dei piú celebri capolavori del Buonarroti, come la serie dei disegni realizzati per Tommaso de’ Cavalieri – il nobile romano che si legò a lui in un rapporto d’amicizia ultratrentennale – o il monumentale cartone preparatorio del suo ultimo affresco nei Palazzi Vaticani, la Crocifissione di san Pietro, portato a termine nel 1550 nella Cappella Paolina. info www.metmuseum.org

Raccontare il cammino dell’umanità sul pianeta Terra nel corso di una storia plurimillenaria: è questo l’obiettivo della nuova esposizione allestita in Palazzo Madama. Per raggiungerlo, sono state scelte opere provenienti dalle raccolte dello stesso Palazzo Madama e da vari musei del territorio e nazionali: dipinti, sculture, ceramiche antiche, reperti

TORINO ODISSEE. DIASPORE, INVASIONI, MIGRAZIONI, VIAGGI E PELLEGRINAGGI Palazzo Madama, Corte Medievale fino al 14 febbraio

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etnografici e archeologici, oreficerie longobarde e gote, metalli ageminati e miniature indiane, armi e armature, avori, libri antichi, strumenti scientifici e musicali, carte geografiche, vetri, argenti ebraici e tessuti. Il percorso si articola in dodici sezioni: la preistoria, i viaggi mitologici di Ulisse ed Enea, la diaspora ebraica, l’espansione dell’impero romano, le cosiddette invasioni barbariche, l’espansione islamica, le Crociate, i pellegrinaggi, le esplorazioni, le colonizzazioni, l’emigrazione europea verso le Americhe tra l’Ottocento e gli inizi del Novecento, le migrazioni contemporanee. info www.palazzomadamatorino.it ROMA ALTRO RINASCIMENTO. IL GIOVANE FILIPPO LIPPI E LA MADONNA DI TARQUINIA Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma-Palazzo Barberini fino al 18 febbraio

La rassegna celebra il centenario della riscoperta della Madonna di Tarquinia,

messa a confronto con un ristretto e selezionato numero di opere del giovane Filippo Lippi. La tavola fu infatti identificata nel 1917 dal grande storico dell’arte Pietro Toesca a S. Maria di Valverde a Tarquinia (allora Corneto). Datato 1437, il dipinto dalla sua riscoperta e attribuzione a Filippo Lippi, è stato unanimemente riconosciuto quale opera fondamentale del pittore fiorentino, perché ne documenta il passaggio dalle esperienze iniziali, all’ombra dello stile severo di Masaccio alle novità introdotte da Donatello negli anni Trenta del Quattrocento. Attraverso tale fondamentale esperienza, fra Filippo maturò uno stile personale, caratterizzato dalla linea elegante e sofisticata, dalle cromie cangianti e sensuali, una pittura ornata e gratiosa, per riprendere la definizione che ne diede l’umanista Cristoforo Landino nel 1481. info tel. 06 4824184; e-mail: Gan-aar@beniculturali.it; www.barberinicorsini.org

ROMA GIOVANNI DA RIMINI. PASSATO E PRESENTE DI UN’OPERA Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma-Palazzo Barberini fino al 18 febbraio

La mostra offre al pubblico italiano l’occasione di ammirare la preziosa tavola con le Storie di Santi realizzata da Giovanni da Rimini (notizie 1292-1315 circa) acquistata dalla National Gallery di Londra nel 2015. Giovanni da Rimini è uno dei principali e precoci esponenti della pittura

ROMA riminese del Trecento, autore di opere capitali per il rinnovamento della pittura adriatica dopo il passaggio di Giotto in città intorno al 1300, dagli affreschi del convento di S. Agostino al Crocifisso di San Francesco (Mercatello sul Metauro). L’esposizione permette di confrontare direttamente l’opera londinese con le Storie di Cristo realizzate dal medesimo artista e oggi conservate a Palazzo Barberini. Le due tavole, databili agli inizi del Trecento, sono state a lungo considerate parti di un’unica opera: sono infatti molto simili per composizione, impaginazione e stile ed erano forse legate entrambe all’importante

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convento eremitano di S. Agostino a Rimini. Se non abbiamo notizie certe sulla loro origine, sembra però che alla fine del Seicento fossero conservate insieme proprio nelle collezioni della famiglia Barberini. Da lí presero poi strade diverse: quella di Londra passò nella collezione Camuccini per essere poi acquistata da Algernon Percy, IV duca di Northumberland, e portata in Inghilterra nel 1835. Quella di Palazzo Barberini passò alla collezione Sciarra e venne infine acquistata dallo Stato italiano nel 1897. Accanto alle due tavole sono esposte anche le Storie della Passione di Cristo realizzate intorno al 1330-1335 da Giovanni Baronzio e oggi a Palazzo Barberini, a mostrare come l’influenza del piú anziano Giovanni fosse ancora ben presente anche nella successiva generazione di pittori riminesi. info tel. 06 4824184; e-mail: Gan-aar@beniculturali.it; www.barberinicorsini.org

VOGLIA D’ITALIA. IL COLLEZIONISMO INTERNAZIONALE NELLA ROMA DEL VITTORIANO Palazzo Venezia e Gallerie Sacconi al Vittoriano fino al 4 marzo

L’esposizione presenta per la prima volta in modo organico la raccolta, vasta e sorprendente, che i coniugi statunitensi George Washington Wurts ed Henriette Tower misero insieme a cavallo fra XIX e XX secolo e donarono poi allo Stato italiano, per l’esattezza al Museo di Palazzo Venezia, dove tuttora è conservata. Alla base del progetto vi è anche l’idea di restituire il contesto della raccolta Wurts, ovvero quella

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AGENDA DEL MESE

particolare forma di collezionismo che, tra Ottocento e Novecento, si legò cosí intimamente all’Italia, fino a concretizzarsi spesso nella donazione allo Stato di singole opere o di intere raccolte. La mostra illustra le dinamiche del collezionismo, soprattutto anglo-americano, e del mercato internazionale, sullo sfondo dei radicali cambiamenti vissuti in quegli anni dalla giovane nazione italiana e dalla sua nuova capitale, Roma. La costruzione del Vittoriano, iniziato nel 1885 e inaugurato nel 1911 nell’occasione dell’Esposizione che celebrava il cinquantenario dell’Unità d’Italia, diviene l’emblema che caratterizza la città all’alba del Novecento. info www.mostravogliaditalia.it

del Monte di Pietà di Padova racconta, per la prima volta, la figura complessiva e il ruolo di uno dei massimi protagonisti del mito italiano ed europeo. In un’esposizione dai caratteri originali, dove capolavori dell’arte occidentale in dialogo con testimonianze e reperti diversi consentono di scoprire un personaggio da tutti sentito nominare ma da pochi realmente conosciuto. Dalla mostra emerge l’uomo Galileo nelle molteplici sfaccettature: dallo scienziato padre del metodo sperimentale al letterato esaltato da Foscolo e Leopardi, Pirandello e Ungaretti, De Sanctis e Calvino. Dal Galileo virtuoso musicista ed esecutore al Galileo artista, tratteggiato da Erwin Panofsky quale uno dei maggiori critici d’arte del Seicento; dal Galileo imprenditore – non solo il cannocchiale ma anche il microscopio o il compasso – al Galileo della quotidianità. produzione e vendita di pillole medicinali. info www.fondazionecariparo.it FIRENZE TESSUTO E RICCHEZZA A FIRENZE NEL TRECENTO. LANA, SETA, PITTURA Galleria dell’Accademia fino al 18 marzo

PADOVA RIVOLUZIONE GALILEO. LA SCIENZA INCONTRA L’ARTE Palazzo del Monte di Pietà fino al 18 marzo

Dopo Galileo nulla fu come prima. E non solo nella ricerca astronomica e nelle scienze, ma anche nell’arte. Con lui, il cielo passa dagli astrologi agli astronomi. La mostra allestita nel Palazzo

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Poiché l’uomo, eccezionale per potenza d’intuizione e genio scientifico, lo era anche nei piccoli vizi e debolezze, quali gli studi di viticoltura e la passione per il vino dei Colli Euganei – rifiutando la «vil moneta» baratta i suoi strumenti di precisione con vino «del migliore» – o la

L’importanza dell’arte tessile a Firenze nel Trecento è il tema del nuovo progetto espositivo realizzato dalla Galleria dell’Accademia. Proprio nel Trecento, infatti, inizia a svilupparsi un nuovo fenomeno legato al lusso: la moda. La qualità della lana e in seguito della seta dei prodotti fiorentini raggiunse, nonostante i costi molto alti delle materie prime e dei coloranti, un livello di eccellenza, tale da imporsi in

Europa, a dispetto delle guerre, delle frequenti epidemie, nonché delle crisi finanziarie e dei conflitti sociali. Il percorso espositivo della mostra è cronologico e approfondisce lo sviluppo e la provenienza dei manufatti. La prima sezione illustra le cosiddette Geometrie mediterranee, che rimandano al mondo musulmano, segue il Lusso dall’Asia mongola, con i piccoli motivi vegetali e animali. Seguono le Creature alate degli ornamenti tessili di influenza cinese. Mentre le Invenzioni pittoriche, della sezione seguente, evocano con fantasia i disegni delle sete pregiate lavorate da tessitori altamente qualificati. La sezione dedicata al Lusso proibito prende spunto dal registro che dal 1343 al 1345 febbraio

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MOSTRE • Medioevo svelato. Storie dell’Emilia-Romagna attraverso l’archeologia Bologna – Museo Civico Medievale

fino al 17 giugno (dal 17 febbraio) info tel. 051 2193916 o 2193930; e-mail: museiarteantica@comune.bologna.it; www.museibologna.it/arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo

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ell’ambito delle iniziative organizzate per i 2200 anni dalla fondazione romana di Modena, Parma e Reggio Emilia, il Museo Civico Medievale di Bologna presenta una mostra di archeologia sul Medioevo emiliano-romagnolo. L’esposizione offre una panoramica del territorio regionale attraverso quasi un millennio di storia, dalla tarda antichità (IV-V secolo) al Medioevo (inizi del Trecento). L’Emilia-Romagna, infatti, fornisce una prospettiva di ricerca privilegiata per la comprensione di fenomeni complessi che investono non solo gli aspetti politici, sociali ed economici, ma la stessa identità culturale del mondo classico nella delicata fase di passaggio al Medioevo. Il percorso si articola in sei sezioni: la prima è incentrata sul tema della Trasformazione delle città, ossia sull’evoluzione dei centri di antica fondazione in rapporto ai cambiamenti socio-economici e all’organizzazione delle nuove sedi del potere (laico ed ecclesiastico); imperniata sulla Fine delle ville, la II sezione prende in esame l’insediamento rurale di tipo sparso, già tipico delle fattorie di età romana; i grandi mutamenti e, in particolare, l’ideologia funeraria del VI-VII secolo caratterizzano la III sezione, dedicata a Nuove genti, nuove culture, nuovi paesaggi; allo sfarzo di alcuni manufatti afferenti alle sepolture fanno riscontro i pochi materiali recuperati nei contesti urbani regionali – Fidenza (Parma), Rimini e Ravenna – della IV sezione dedicata a Città ed empori nell’alto Medioevo; con la V sezione, Villaggi, castelli, chiese e monasteri: la riorganizzazione del tessuto insediativo, vengono evidenziate le nuove forme d’insediamento (VIII-XIII secolo); il racconto termina ciclicamente – grazie alla VI sezione, incentrata su Dopo il Mille: la rinascita delle città, con il ritorno al tema dell’evoluzione dei centri urbani, studiati nella nuova fase di età comunale: Parma e Ferrara (di cui sono esposti oggetti di straordinario valore, perché conservati nonostante la deperibilità del materiale, il legno), Rimini e Ravenna, caratterizzate da rinnovato dinamismo e Bologna, rappresentata dalla piú antica croce viaria lapidea (anno 1143), recuperata nel 2013 sotto il portico della chiesa di S. Maria Maggiore (via Galliera).

annovera le vesti proibite elencate nella cosiddetta Prammatica delle vesti. Chiudono l’esposizione i Velluti di seta, che anticipano gli sviluppi della moda nel secolo successivo. info Firenze Musei: tel. 055 290383; e-mail: firenzemusei@operalaboratori.com; www.galleriaaccademiafirenze. beniculturali.it NAPOLI LONGOBARDI. UN POPOLO CHE CAMBIA LA STORIA Museo Archeologico Nazionale fino al 25 marzo

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Dopo l’esordio di Pavia (vedi «Medioevo» n. 248, settembre 2017), approda al Museo Archeologico Nazionale di Napoli la grande mostra sui Longobardi: un’esposizione che corona oltre 15 anni di nuove indagini archeologiche,

epigrafiche e storico-politiche su siti e necropoli altomedievali, frutto del rinnovato interesse per un periodo cruciale della storia italiana ed europea. Ne scaturisce una visione complessiva e di ampio respiro (dalla metà del VI secolo, dalla presenza gotica in Italia, alla fine del I millennio) del ruolo, dell’identità, delle strategie, della cultura e dell’eredità del popolo longobardo che, nel 568, guidato da Alboino, varca le Alpi Giulie e inizia la sua espansione sul suolo italiano:

una terra divenuta crocevia strategico tra Occidente e Oriente, un tempo cuore dell’impero romano e ora sede della cristianità, ponte tra Mediterraneo e Nord Europa. info www.mostralongobardi.it REGGIO EMILIA EGO SVM VIA. VIA AEMILIA. VIA CHRISTI Museo Diocesano, Palazzo Vescovile Estense fino al 3 aprile

Il Museo Diocesano di Reggio Emilia partecipa alle celebrazioni organizzate per i 2200 anni della via Emilia

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AGENDA DEL MESE (187 a.C.- 2017) con una mostra che, prendendo le mosse da Cristo, VIA di salvezza, documenta le piú antiche attestazioni della fede cristiana in terra reggiana, il rapporto tra paganesimo e

STEFANO ARIENTI Museo Nazionale del Bargello fino all’8 aprile

fede cattolica e la piena adesione dei Longobardi alla ortodossia romana. Nel percorso espositivo sfilano opere inedite, che provengono dallo scavo archeologico della cattedrale, analogamente al meraviglioso mosaico pavimentale del IV secolo rinvenuto al di sotto della cripta del duomo. Frutto degli scavi condotti tra il 2004 e il 2009, quest’ultimo doveva ornare una ricca residenza del III-IV secolo d.C.: delimitato da una cornice a treccia, il tappeto musivo presenta una struttura geometrica con motivi circolari simmetrici interrotti da campi quadrangolari in cui sono rappresentate coppie di personaggi; all’interno dei cerchi, bordati anche essi da una treccia policroma, vi sono riquadri animati da danzatori con cembali e danzatrici, mentre negli spazi romboidali tra gli elementi circolari sono raffigurati variopinti volatili. info tel. 0522.1757930; e-mail: beniculturali@diocesi.re.it

di Washington, approda a Firenze un capolavoro che ha lasciato l’Italia nel lontano 1898: la lunetta con la Resurrezione di Giovanni della Robbia. L’opera viene presentata nella cornice del Museo

FIRENZE DA BROOKLYN AL BARGELLO: GIOVANNI DELLA ROBBIA, LA LUNETTA ANTINORI E

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Dopo essere stato esposto, tra il 2016 e il 2017, presso il Museum of Fine Arts di Boston e la National Gallery

Nazionale del Bargello, dove si conserva la maggiore raccolta al mondo di sculture realizzate in terracotta invetriata dai Della Robbia. Commissionata probabilmente intorno al 1520 da Niccolò di Tommaso Antinori (1454-1520), che dette inizio alla fortuna imprenditoriale di questo antichissimo casato fiorentino, la lunetta è di dimensioni monumentali (174,6 x 364,5 x 33 cm) e resta oggi uno dei piú notevoli esempi della produzione di Giovanni della Robbia (1469-1529). La lunetta raffigura il Cristo risorto, con il committente Antinori in ginocchio alla sua destra e i soldati attorno al sepolcro, secondo l’iconografia

tradizionale: il tutto su un articolato sfondo di paesaggio e all’interno di una fastosa cornice di frutti e fiori popolata da piccoli animali. In parallelo, viene presentata un’opera di Stefano Arienti, artista italiano tra i piú apprezzati in ambito internazionale, dal titolo Scena fissa, con cui la scultura robbiana viene riletta e reinterpretata, dando vita a un inaspettato dialogo tra arte rinascimentale e contemporanea. info tel. 055 2388606; e-mail: mn-bar@beniculturali.it; www.bargellomusei.beniculturali.it SIENA AMBROGIO LORENZETTI Complesso museale Santa Maria della Scala fino all’8 aprile (prorogata)

Alla luce del successo fin qui ottenuto, la mostra Ambrogio

MOSTRE • Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni Ferrara – Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS

fino al 16 settembre info www.meisweb.it

C

on questa mostra, che ha segnato l’inaugurazione del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS, si illustrano le origini della presenza ebraica in Italia dai suoi albori sino al Medioevo, evidenziandone i caratteri di specificità e unicità. Il percorso espositivo che prefigura la prima sezione del futuro Museo, presentando oggetti autentici, repliche, modelli, immagini, mappe, scenografie e dispositivi multimediali, per raccontare il primo millennio di storia dell’ebraismo italiano, il suo radicamento e la sua espansione grazie alle conversioni e agli apporti da altri territori, e il processo di formazione della sua peculiare identità. Da dove sono venuti gli Ebrei italiani? Quando? Perché? E, una volta giunti in Italia, dove hanno scelto di attestarsi? Quali rapporti hanno stabilito con le popolazioni residenti, con i poteri pubblici: prima con la Roma imperiale, poi con la Chiesa, ma anche con i Longobardi, i Bizantini e i musulmani, sotto il cui dominio hanno vissuto? Quali sono stati la vita, le consuetudini, la lingua, la cultura delle comunità febbraio

MEDIOEVO


Lorenzetti al Santa Maria della Scala è stata prorogata fino al prossimo 8 aprile. L’esposizione rappresenta, in realtà, il culmine del progetto avviato nel 2015 con l’iniziativa «Dentro il restauro» e mirato a una profonda conoscenza dell’attività dell’artista, a una migliore conservazione delle sue opere e a favorirne la conoscenza presso il pubblico nazionale e straniero. Con «Dentro il restauro», sono state trasferite al Santa Maria della Scala

alcune importanti opere dell’artista che necessitavano di indagini conoscitive, di interventi conservativi e di veri e propri restauri: il ciclo di affreschi staccati della cappella di S. Galgano a Montesiepi e il polittico della chiesa di S. Pietro in Castelvecchio a Siena (nell’occasione piú correttamente ricomposto e riunito con l’originaria cimasa raffigurante il Redentore benedicente) sono stati allestiti in un cantiere di

restauro «aperto», fruibile dalla cittadinanza e dai turisti. I restauri sono proseguiti con l’apertura di altri due cantieri, il primo nella chiesa di S. Francesco, volto al recupero degli affreschi dell’antica sala capitolare dei frati francescani senesi, e l’altro nella chiesa di S. Agostino, nel cui capitolo Ambrogio Lorenzetti dipinse un ciclo di storie di Santa Caterina e gli articoli del Credo. In mostra e nel catalogo tornano cosí a vivere idealmente i cicli di affreschi del capitolo e del chiostro della chiesa francescana

senese, che tra l’altro contenevano la prima rappresentazione di una tempesta nella storia della pittura occidentale nella quale, come scrive il Ghiberti, spiccava la «grandine folta in su e’ palvesi»; il ciclo di dipinti della chiesa agostiniana senese, modello esemplare ancora agli occhi di Giorgio Vasari, quando si approntò l’armadio delle reliquie della cattedrale; quello della cappella di S. Galgano a Montesiepi, a tal punto fuori dai canoni della consolidata iconografia sacra che i

ebraiche d’Italia nel corso di tutto questo lungo tempo? E soprattutto: cosa ha di particolare e di specifico l’ebraismo italiano rispetto a quello di altri luoghi della diaspora? Le risposte a questi interrogativi sono affidate a un nuovo modo di presentare la storia in un museo: un modo che pone esplicitamente al centro le persone e non le cose, le persone attraverso le cose. Gli oltre duecento oggetti in mostra, alcuni dei quali mai esposti in una sede pubblica, sono stati selezionati soprattutto per rappresentare i contesti dei quali sono testimonianza. La loro conoscenza e comprensione è affidata anche ai titoli e ai testi di sala, ai documenti e alle immagini, alle ricostruzioni e alle evocazioni di ambienti, di situazioni, di eventi, e alle parole dei curatori e degli esperti, che lungo l’itinerario si rivolgono direttamente al visitatore attraverso dei video, rendendo esplicita l’interpretazione storica proposta.

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AGENDA DEL MESE

committenti pretesero delle sostanziali modifiche poco dopo la loro conclusione. info tel. 0577 286300: e-mail: ambrogiolorenzettisms@ operalaboratori.com; www.santamariadellascala.com LORETO L’ARTE CHE SALVA. IMMAGINI DELLA PREDICAZIONE TRA QUATTROCENTO E SETTECENTO. CRIVELLI, LOTTO, GUERCINO Museo-Antico Tesoro della Santa Casa fino all’8 aprile

Primo appuntamento del ciclo di eventi «Mostrare le Marche», l’esposizione è finalizzata alla valorizzazione e alla tutela del patrimonio artistico e culturale dei luoghi colpiti dal sisma ed al rilancio dal punto di vista turistico ed economico degli stessi. «L’arte che salva» si propone di approfondire la conoscenza della produzione artistica collegata a un fenomeno che ha caratterizzato in profondità la cultura non solo europea, la predicazione. Il tema è illustrato nei suoi molteplici aspetti: dalle figure dei

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predicatori dei grandi ordini religiosi, francescani, domenicani, agostiniani e gesuiti, alle devozioni da loro promosse con le relative immagini, spesso opera di grandi artisti quali Crivelli, Lotto, Muziano, Guercino; dall’effetto della predicazione sui fedeli, attraverso il caso emblematico di santa Camilla Battista da Varano, al rapporto con altre fedi religiose e fino alla spinta missionaria mondiale dei predicatori della Compagnia di Gesú. Il percorso è illustrato attraverso una quarantina di oggetti, comprendenti dipinti, sculture, incisioni, manoscritti e volumi provenienti dalla Regione Marche, con un nucleo significativo di opere salvate dal terremoto del Centro Italia. info tel. 071 9747198 oppure 06 68193064; e-mail: museoanticotesoro@gmail. com oppure segr.artifex@gmail.com

PAVIA GIOVANNI DA PISA. UN POLITTICO DA RICOSTRUIRE Musei Civici fino al 29 aprile (dal 10 febbraio)

La mostra è il logico corollario del progetto di restauro e valorizzazione che ha riguardato quattro tavole attribuite al pittore ligure d’inizio Quattrocento Giovanni da Pisa, originariamente appartenenti a un medesimo polittico. Presso il Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale» sono state restaurate San Leonardo e Santa Chiara, di proprietà privata ma concesse in deposito a Palazzo Madama, cosí come la Sant’Agata del Museo Civico di Pavia; la Madonna col Bambino del Museo Diocesano di Genova era stata invece restaurata presso il laboratorio genovese di Antonio Silvestri.

La ricomposizione del polittico viene effettuata per la prima volta e la sua presentazione prende avvio da Palazzo Madama, da dove poi farà tappa presso i Musei Civici di Pavia e al Museo Diocesano di Genova. In seguito a questo intervento, si è aperta la possibilità di sottoporre a una nuova verifica l’ipotesi già da tempo formulata dalla critica, di una comune provenienza delle due tavole e degli altri due dipinti presentati in mostra: la Sant’Agata di Pavia e la Madonna col Bambino di Genova. Gli studi hanno inoltre consentito di ipotizzare che a completare il polittico ci fosse una quinta tavola: un frammentario San Lorenzo di cui si ignora la attuale ubicazione. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it

BERGAMO RAFFAELLO E L’ECO DEL MITO Accademia Carrara fino al 6 maggio

La mostra approfondisce l’opera e la fortuna che il genio di Urbino ha conosciuto nel tempo, modello di perfezione rincorso negli anni a lui coevi e nei secoli a venire. A Bergamo sono esposte alcune tra le piú rappresentative opere di Raffaello, dalla formazione agli esordi giovanili, dalle immagini simboliche alla consapevolezza di una nuova pittura di «grazia, studio, bellezza»; oltre a un’ampia riflessione sul capolavoro simbolo delle collezioni di Accademia Carrara, il San Sebastiano. Dipinti, sculture e testimonianze raccontano il mondo attorno a Raffaello, dalla sua formazione all’opera, fino all’ «ossessione» degli autori febbraio

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successivi per un maestro il cui fascino ha influenzato intere generazioni. Dalle opere del padre, Giovanni Santi, di Perugino, di Pintoricchio e dei piú importanti pittori del suo tempo, fino a una panoramica dedicata al contemporaneo in cui artisti come Picasso, De Chirico, Giulio Paolini e Francesco Vezzoli sono chiamati a raccontare quanto l’ispirazione di un maestro tanto straordinario si sia propagata fino ai giorni nostri. info www.lacarrara.it TORINO PERFUMUM. I PROFUMI DELLA STORIA Palazzo Madama fino al 21 maggio (dal 15 febbraio)

L’evoluzione e la pluralità dei significati assunti dal profumo dall’antichità greca e romana al Novecento vengono documentati attraverso oltre 200 oggetti, tra oreficerie, vetri, porcellane, affiche e trattati scientifici. Il percorso espositivo presenta un excursus storico avviato a partire dalle civiltà egizia e grecoromana che, sulla scorta di tradizioni precedenti, assegnano al profumo

molteplici significati: da simbolo dell’immortalità, associato alla divinità, a strumento di igiene, cura del corpo e seduzione. Nell’Europa del primo Medioevo, sottoposta all’urto delle invasioni barbariche, sono rare le testimonianze di utilizzo di sostanze odorifere al di fuori

della sfera sacra. Sopravvive tuttavia la concezione protettiva e terapeutica del profumo, come testimoniato in mostra dalla preziosa bulla con ametiste incastonate proveniente dal tesoro goto di Desana. L’uso di profumi a contatto con il corpo con funzione di protezione nei confronti di malattie è attestato piú tardi nei pommes de musc frequentemente citati negli inventari dei castelli medievali, come il rarissimo esempio quattrocentesco in argento dorato in prestito dal Museo di Sant’Agostino di Genova, che conserva ancora la noce moscata al suo interno. La civiltà islamica, che eredita e preserva il sapere del mondo antico, sviluppa e innova la cultura del profumo greca e romana, persiana e bizantina, introducendo importanti conquiste tecnologiche, come il perfezionamento dell’arte

della distillazione compiuto da Avicenna. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it MILANO DÜRER E IL RINASCIMENTO TRA GERMANIA E ITALIA Palazzo Reale fino al 24 giugno (dal 21 febbraio)

Grazie a una rappresentativa selezione di opere di Albrecht Dürer e di alcuni dei suoi piú importanti contemporanei tedeschi e italiani, la mostra documenta la fioritura del Rinascimento tedesco nel suo momento di massima apertura verso l’Europa, sia al Sud (soprattutto Italia settentrionale) sia al Nord (Paesi Bassi). Protagonisti dell’esposizione sono dunque l’artista di Norimberga, ma anche l’affascinante quadro di rapporti artistici tra nord e sud Europa tra la fine del Quattro e

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AGENDA DEL MESE l’inizio del Cinquecento, il dibattito religioso e spirituale come substrato culturale delle opere di Dürer, il suo rapporto con la committenza attraverso l’analisi della ritrattistica, dei soggetti mitologici, delle pale d’altare, la sua visione della natura e dell’arte tra classicismo e anticlassicismo, la sua figura di uomo e le sue ambizioni d’artista. Si possono ammirare circa 130 opere, principalmente del maestro del Rinascimento tedesco – fra pitture, stampe grafiche e disegni –, che nelle mani di Albrecht Dürer assumono un valore e una centralità nel

processo creativo praticamente senza precedenti. La collezione è affiancata da opere di artisti tedeschi suoi contemporanei come Lucas Cranach, Albrecht Altdorfer, Hans Baldung Grien da un lato, e dall’altro di grandi pittori, disegnatori e artisti grafici italiani della Val Padana fra Milano e Venezia, come Giorgione, Andrea Mantegna, Leonardo da Vinci, Andrea Solario, Giovanni Bellini, Jacopo de’Barbari, Lorenzo Lotto. info palazzorealemilano.it; mostradurer.it; prenotazioni tel. 02 54913; www.ticket24ore.it

Appuntamenti PERUGIA LA STORIA DEI TEMPLARI RACCONTATA A SAN BEVIGNATE Complesso monumentale di San Bevignate 16 febbraio

San Bevignate è un complesso monumentale che, per le considerevoli forme architettoniche e il valore delle testimonianze iconografiche di soggetto templare conservate al suo interno, è divenuto non soltanto elemento di attrazione per i visitatori, ma anche oggetto di proficui approfondimenti scientifici e didattici. Dal crescente interesse per il patrimonio monumentale e artistico di committenza templare è nato un nuovo ciclo di conferenze, sulla storia della militia Templi e della sua presenza a Perugia. Questo l’appuntamento proposto a chiusura del ciclo: 16 febbraio, ore 17.30: Cubiculari templari e ospedalieri al servizio del papa: i casi di fra Bonvicino, fra Tommaso e fra Giacomo da Pocapaglia (Sonia Merli,

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Archivio di Stato, Sala Conferenze e Biblioteca Comunale degli Intronati 28 febbraio

A chiusura delle celebrazioni per i 650 anni dalla morte del beato Giovanni Colombini e del riconoscimento dell’Ordine dei Gesuati da lui fondato, Siena ospita una giornata di studi che si svolge al mattino presso la Sala Conferenze dell’Archivio di Stato e si conclude con l’inaugurazione di una mostra documentaria inerente Giovanni Colombini e i Gesuati, che sarà aperta presso l’Archivio per tutto il mese di marzo. Al pomeriggio la giornata continua presso la Sala Storica della Biblioteca Comunale degli Intronati e, al termine, verrà inaugurata, nella stessa Sala, la mostra bibliografica (manoscritti, edizioni antiche, incisioni possedute dalla Biblioteca Comunale e da collezionisti privati), sempre sul beato

Colombini e l’Ordine dei Gesuati. info istituto per la valorizzazione delle abbazie storiche della toscana: tel. 338 6581170; e-mail: abbazietoscana@libero.it; www.abbazietoscana.it

FIRENZE L’ALTROVE A FIRENZE. TESTIMONIANZE FRA ARTE E SCIENZA Palazzo Pitti, Teatro del Rondò di Bacco fino al 28 marzo

Il ciclo di conferenze, pensate per quanti desiderino conoscere meglio la storia di Firenze, nasce dalla collaborazione tra le Gallerie degli Uffizi e il Museo di Storia Naturale dell’Università degli Studi di Firenze. Il ciclo è dedicato sia ai docenti delle scuole di ogni ordine e grado, che potranno farlo valere anche come corso di aggiornamento, sia al pubblico

Deputazione di storia patria per l’Umbria; introduce: Paolo Caucci von Saucken, già Università di Perugia). info tel. 075 5772416 (lu-ve, 9,00-13,00); e-mail: info. cultura@comune.perugia.it; http://turismo.comume.perugia.it SIENA «IL FUOCO SACRO DEI GESUATI»: L’EREDITÀ CULTURALE DEL COLOMBINI E DEI SUOI SEGUACI

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dei musei fiorentini. Questi i prossimi appuntamenti in programma: 14 febbraio, ore 17,00: Da Cartagine alle Piramidi. I viaggi africani di Giovanni Pagni e Alessandro Pini, due eruditi toscani del XVII (Fabrizio Paolucci, Dipartimento Antichità Classica delle Gallerie degli Uffizi). 28 febbraio, ore 17,00: Andate, predicate e... raccogliete piante: i risultati botanici di due missionari francescani in Cina alla fine dell’Ottocento (Chiara Nepi, sezione di Botanica del Museo di Storia Naturale di Firenze). 14 marzo, ore 17,00: Cosimo III e i viaggi da giovane principe per l’Europa (Ilaria della Monica, Villa I Tatti, The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies). 28 marzo, ore 17,00: Firenze e l’America: Amerigo Vespucci e l’invenzione del Nuovo Mondo (Filippo Camerota, Museo Galileo-Istituto e Museo di Storia della Scienza). info www.uffizi.it

APPUNTAMENTI • Luce sull’archeologia - Roma e il Mediterraneo Roma – Teatro Argentina

fino al 13 maggio info www.teatrodiroma.net

I

n continuità con le precedenti edizioni, gli incontri della IV edizione di «Luce Sull’Archeologia», rassegna che si svolge presso il Teatro Argentina di Roma, hanno come filo conduttore le relazioni fra Roma e il Mediterraneo. Il Mare Nostrum è un susseguirsi di mari, di paesaggi, di popoli, un crocevia antichissimo dove persone, merci, idee e diverse forme dell’estetica generarono la diffusione di civilta, culti, costumi e leggende. In ogni incontro, prima dell’intervento iniziale, ci saranno 10/15 minuti di «Anteprime dal passato»: notizie su ritrovamenti, scoperte e mostre, a Roma e non solo, a cura di Andreas M. Steiner, direttore dei mensili «Archeo» e «Medioevo». Questo il calendario degli appuntamenti in programma: domenica 4 febbraio, ore 11,00: Da mare a mare. I grandi porti dell’Italia antica (relatori: Andrea Augenti, Carlo Pavolini, Fausto Zevi). domenica 18 febbraio, ore 11,00: Roma e Annibale. Una storia in movimento (relatori: Luciano Canfora, Annalisa Lo Monaco, Claudio Strinati). domenica 8 aprile, ore 11,00:

Il lusso dall’Oriente. Commerci e bottini che fecero grande Roma (relatori: Stefano Tortorella, Lucrezia Ungaro, Alessandro Viscogliosi). domenica 15 aprile, ore 11,00: Roma verso l’Egitto. Protagonisti e vicende (relatori: Francesca Cenerini, Alessandro Pagliara, Claudio Strinati). domenica 22 aprile, ore 11,00: Popoli del Mediterraneo antico (relatori: Maamoun Abdulkarim, Massimiliano Ghilardi, Alessandro Naso). domenica 13 maggio, ore 11,00: Matera lucana tra Greci e Romani (relatori: Pietro Laureano, Massimo Osanna, Giuliano Volpe, Raffaello Giulio De Ruggiero).

ROMA VISITE GUIDATE ALL’AULA GOTICA DEL MONASTERO DEI SS. QUATTRO CORONATI fino al 30 aprile

Tornano gli appuntamenti con le visite guidate all’Aula Gotica dei Ss. Quattro Coronati, uno dei monumenti piú ricchi di storia, arte e spiritualità della Roma medievale. L’Aula era l’ambiente piú prestigioso del palazzo cardinalizio eretto da Stefano Conti: vi si svolgevano banchetti, ricevimenti e vi si amministrava la giustizia. Mirabile esempio di architettura in stile gotico, eccezionale per la città di Roma, il salone colpisce per lo straordinario ciclo pittorico che

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adorna le sue pareti, attribuito al Terzo Maestro di Anagni e a Giunta Pisano e databile alla metà del Duecento. Rimaste per secoli nascoste sotto strati di tinte successive, le meravigliose decorazioni sono tornate a risplendere grazie a un lungo restauro. Questo il calendario delle prossime visite: 6 e 7 febbraio; 10, 11 e 30 aprile. I turni di visita saranno ogni ora, dalle 9,00 fino all’ultimo turno d’ingresso delle 18,00. Le richieste di prenotazione vanno indirizzate a: archeocontesti@gmail.com info tel. 335 495248; www. aulagoticasantiquattrocoronati.it; www.associazionecontesti.org

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ANTE PRIMA

VIAGGIO NEI CASTELLI D’EUROPA Dalle torri normanne ai bastioni rinascimentali ● Lungo il Reno e la Loira ● Fortezze moresche e castelli crociati ● Le residenze dei Visconti e degli Sforza ● Nei luoghi della leggenda: sulle tracce di Robin Hood, Macbeth, Frankenstein e Dracula… ●


IL NUOVO DOSSIER DI MEDIOEVO

I

l nuovo Dossier di «Medioevo» propone un viaggio lungo e affascinante, che, dalle terre del Grande Nord, arriva a toccare gli assolati altipiani del Levante. Filo conduttore dell’itinerario è il castello, ovvero l’espressione architettonica che, nell’età di Mezzo, insieme ai luoghi della fede, fu una presenza costante e capillare. Torri e mura merlate sono presenti un po’ ovunque: arroccati su montagne e dorsi di colline, affacciati sulle acque dei fiumi e dei mari, nascosti nei

Il castello di Rabati, in Georgia. XIII sec. Il complesso comprende edifici che ne testimoniano l’identità multiculturale: all’interno delle mura vi sono infatti una chiesa ortodossa georgiana, un luogo di culto cattolico armeno, una moschea e una sinagoga.

centri cittadini oppure isolati nelle periferie. Baluardi difensivi, residenze nobiliari, sedi di governo e anche carceri, i castelli furono a piú riprese il palcoscenico di grandi eventi storici e le pietre di cui sono fatti evocano capitoli salienti della biografia delle nazioni europee, narrando di scontri e integrazioni tra popoli, ma documentano anche l’evoluzione di forme architettoniche complesse, molte delle quali sono oggi considerate patrimonio dell’umanità. Il Dossier di «Medioevo» propone dunque una rassegna vasta e puntuale, articolata per grandi aree geografiche: dalla Germania al Regno Unito, dalla Francia alla Spagna, dall’Italia ai Paesi dell’area balcanica, solo per citare alcune delle piú importanti. A ciascun castello sono dedicate altrettante schede «biografiche», che ne ripercorrono la storia e ne descrivono le peculiarità strutturali, nonché l’apparato ornamentale, fatto, in molti casi, di magnifici tesori pittorici e plastici. Com’è ormai tradizione, il testo si avvale di un ampio corredo iconografico e cartografico, grazie al quale l’itinerario alla scoperta dei castelli quasi si trasforma in un’esperienza concreta. E che vuol essere anche un invito a conoscere monumenti di straordinario interesse e fascino.


archeologia emilia-romagna

Un ÂŤaltroÂť

testi di Sauro Gelichi, Cinzia Cavallari, Luigi Malnati e Massimo Medica

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La Soprintendenza di Bologna e il Museo Civico Medievale della città felsinea ripercorrono in una ricca mostra le vicende succedutesi nell’età di Mezzo in Emilia-Romagna. Una storia, densa e articolata, ricostruita grazie alle piú recenti indagini archeologiche, che, oltre a conferme importanti, hanno restituito significativi elementi di novità. Permettendo cosí di delineare il quadro inedito di un’epoca che, anche in questa regione, fu tutt’altro che «buia»

A A

partire dagli anni Settanta del secolo scorso, l’affermarsi dell’archeologia medievale in Italia aprí nuove strade e nuove prospettive alla ricerca storica (vedi box alle pp. 44-45). Affiancare alle tradizionali fonti scritte quelle materiali aveva significato ampliare le possibilità di capire meglio il Medioevo, e di farlo attraversando tematiche e problemi in maniera del tutto nuova: dalle forme dell’insediamento alle strutture sociali, economiche e materiali delle comunità. A quarant’anni e piú di distanza, una riflessione sul contributo apportato dall’archeologia medievale è possibile, oltre che opportuna. Per farlo, è utile agire su due fronti. Il primo è quello di comprendere, in generale, quali siano stati gli orientamenti teorici e metodologici che hanno contraddistinto e indirizzato la ricerca; il secondo è verificare come questi si siano tradotti nella pratica sul campo, abbiano cioè prodotto tutela e conoscenza allo stesso tempo. Ma c’è anche un altro aspetto da considerare: l’impatto che questa «attenzione» verso un passato non troppo distante ha avuto nei confronti della collettività. In sostanza, comprendere in che misura e in che forma un’idea consolidata di Medioevo sia stata ripensata e riformulata e abbia agito – o possa agire – sulla costruzione di un valore identitario socialmente condiviso e utile. La nostra società sembra aver bisogno di Medioevo, un Medioevo che viene oramai riprodotto in ogni sagra di paese o che viene costantemente riformulato, in versioni addomesticate e accattivanti – per quanto spesso dotte – nelle varie declinazioni del giallo d’autore, della fantasy o della divulgazione di alto livello. È un Medio-

MEDIOEVO

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Nella pagina accanto missorium (piatto di uso simbolico-celebrativo) in argento, con decorazione eseguita a niello nel tondo centrale, in cui sono raffigurate scene di banchetto e della vita agiata di un possidente terriero nella tarda antichità. IV sec. Cesena, Museo Civico Archeologico. Il reperto è stato recuperato a Cesena, nel 1948, presso via G. Bono, in un deposito databile entro

la metà del VI sec. (fenomeno della tesaurizzazione, occultamento di riserve di valore in momenti di instabilità politica). In alto coppia di fibule a disco con teste di rapace disposte «a vortice», realizzate con tecnica cloisonné (cellette in oro con inserimento di granati) dalla tomba femminile 185 in località Villa Clelia, Imola. V sec. Ravenna, Deposito SABAP-BO.

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archeologia emilia-romagna

evo – giudizio scontato – spesso di maniera, attraente e misterioso quanto possono esserlo le favole, intrigante quanto può risultare un plot ambientato in un mondo lontano e fantastico, dunque diverso e inconoscibile. È anche, però, un Medioevo «casereccio», quello delle feste in costume, delle proposte culinarie improbabili per i nostri sofisticati palati, polveroso e sgualcito nella sua trasandatezza. Un Medioevo che cerca di proporre, in un realistico tentativo di immedesimazione e coinvolgimento, un’idea tutto sommato piú vicina, meno arcana del passato: nella sua semplicità e ingenuità, un Medioevo amico, un parente stravagante non poi tanto diverso da noi o, quantomeno, dai nostri nonni. In questo spazio nel quale si confrontano e si declinano idee diverse di Medioevo, il ruolo dell’archeologia

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può risultare utile, vorrei aggiungere necessario. Non soltanto perché costruisce con fonti nuove nuovi saperi, ma anche perché, attraverso un contatto con la materialità degli oggetti e la concretezza dei luoghi, ci avvicina piú direttamente a quel passato, facendocelo quasi toccare con mano. Ci introduce, cioè, in quello spazio fisico, e poi mentale, e ci aiuta a riformularlo e, se ne siamo capaci, anche a ritrasmetterlo.

Fatti e manufatti

Realizzata dal Museo Civico Medievale di Bologna e dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara, la mostra «Medioevo svelato» ha anche questo compito: raccontare, attraverfebbraio

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Attraverso il contatto con la materialità degli oggetti e la concretezza dei luoghi, l’archeologia ci avvicina piú direttamente al Medioevo, facendocelo quasi toccare con mano Sulle due pagine Bologna, Palazzo Comunale, ex Sala Borsa. Una foto dello scavo che ha portato alla luce resti di sito urbano pluristratificato (fotografia dell’inizio degli anni Novanta). A sinistra e in basso bacini architettonici in maiolica dalla facciata della chiesa di S. Giacomo Maggiore, a Bologna. XIV sec. Deposito SABAP-BO. Nel primo (a sinistra) è raffigurato Frater Simon, identificabile molto probabilmente con l’omonimo sindaco dello stesso complesso conventuale di S. Giacomo.

so i contesti (i fatti) e gli oggetti (i manufatti), quanto l’archeologia medievale sia stata in grado di elaborare compiutamente; e, nel contempo, dimostrare come questa pratica possa contribuire alla formazione di un condiviso patrimonio di conoscenze, idee e valori. Quello che si presenta a Bologna, però, non è un Medioevo generico. La mostra, infatti, intende far conoscere un Medioevo archeologico calato in una realtà specifica, quella di una regione storica quale l’EmiliaRomagna, utilizzando soprattutto i risultati delle ricerche condotte negli ultimi quarant’anni. Un Medioevo che consente di tornare su città straordinarie, come Ravenna, o luoghi di alto valore storico e simbolico, come Canossa o Nonantola; ma un Medioevo che vuo(segue a p. 43)

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archeologia emilia-romagna

Simboli di ricchezza e di potere A sinistra Spilamberto (Modena), necropoli longobarda di Ponte del Rio. Un’immagine della tomba 62 in corso di scavo. VI-VII sec.

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TESORI L’analisi delle oreficerie, associata allo studio dei contesti di rinvenimento, fornisce una prospettiva di ricerca privilegiata per la comprensione dei complessi eventi che investono non solo gli aspetti politici, sociali ed economici ma la stessa identità culturale del mondo classico nella delicata fase di passaggio al Medioevo. Particolarmente significativo, in tal Mantova

Piacenza

ni

no

Massa Lucca Pisa

Comacchio

Spilamberto

Budrio Conselice

Bologna

Serramazzoni en

Ferrara

Modena

Sassuolo

pp

Foci del Po

Secchia

Reggio nell’Emilia A

La Spezia

Rovigo

Po

Parma Taro

senso, risulta il fenomeno della tesaurizzazione (accantonamento di preziosi con fini di risparmio, bottini, ecc.), coincidente con un occultamento intenzionale di beni, nella disattesa speranza di un recupero successivo. In Emilia-Romagna sono state individuate diverse riserve di valore nascoste da proprietari che non ebbero la possibilità di rientrarne in possesso; recuperati spesso casualmente in passato, tali preziosi

Imola

Ravenna Classe

Vergato To s co- Emil ia

no

Pistoia

Forlí Cesena

sono esposti e valorizzati, insieme a scoperte recenti. Il tesoro romano-barbarico di Reggio Emilia fu intercettato casualmente l’8 ottobre 1957 entro un contenitore inusuale, una porzione del tubo in piombo di un condotto idrico, protetto da due coppe in argento (databili entro la metà del VI secolo). Questo accantonamento comprende numerosi oggetti di ornamento personale, databili dall’età romana imperiale alla metà del VI secolo, con un nucleo cronologicamente coerente di reperti ascrivibile alla fine del V secolo. Il mancato recupero di questo considerevole accumulo va evidentemente attribuito al destino dei proprietari, vittime di una situazione di forte incertezza sociale e di instabilità politico-militare, compatibile con l’affermazione del potere goto e con i conflitti successivi. Oltre a due missoria in argento (piatti interpretabili

Prato

Firenze

Molti oggetti preziosi furono nascosti in momenti di particolare instabilità, nella speranza di poterli in seguito recuperare

In alto corno potorio in vetro, dalla tomba femminile 62 della necropoli longobarda di Ponte del Rio. VI sec. Spilamberto, Deposito archeologico Spilamberto.

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archeologia emilia-romagna come donativi imperiali) recuperati a Cesena nel 1948 e al tesoro di piazza Cavour a Rimini (una pisside in bronzo, due fibule in argento, sei cucchiai in argento, uno strumento da toilette, un ago e un frammento di specchio in bronzo) rinvenuto negli anni Sessanta nel corso di lavori per la costruzione della Banca dell’Agricoltura, in mostra viene esposta la piú recente scoperta del tesoro di Classe. Questo nucleo di vasellame suntuario (una patera e sette cucchiai in argento, con tracce di doratura, databili entro gli inizi del VII secolo) è stato recuperato in una cavità, ricoperta da macerie, a Classe (Ravenna), presso un asse viario. Condotta nel 2005, l’indagine ha consentito di datare l’occultamento tra l’VIII e il IX secolo. Come per le coppe del tesoro di Reggio Emilia, la patera potrebbe avere avuto un uso liturgico o, piú prudentemente, domestico, come sembra suggerire il contesto insediativo dei due rinvenimenti; per entrambi, tuttavia, non è possibile ricostruire la funzione originaria dei manufatti (realizzati molto prima dell’occultamento intenzionale dell’ultimo proprietario).

A destra Sella plicatilis (sgabello pieghevole) in ferro decorato ad agemina, dalla tomba femminile 62 della necropoli longobarda di Ponte del Rio. VI sec. Spilamberto, Deposito archeologico Spilamberto.

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ACCESSORI PREZIOSI Un’altra categoria di oggetti che consente di allargare lo sguardo all’evoluzione che si registra tra l’età tardo-antica e l’Alto Medioevo, è costituita dalle vesti e dagli ornamenti; da sempre identificativi di rango, tali complementi, a differenza di quanto avviene oggi (in cui il discrimine è determinato dal potere d’acquisto e non dal ceto di appartenenza), sottolineano un’invalicabilità di limiti tra le diverse classi sociali. Nei vari ambienti si registra una precisa codificazione attraverso fogge, colori e ornamenti del prestigio pubblico, della professione, dell’età e di altre caratteristiche degli individui, resi immediatamente riconoscibili dalle vesti e dagli accessori indossati.

In alto fibula discoidale in lamina d’argento dorata, con paste vitree e perle di fiume incastonate nella corona, dalla tomba femminile 62 della necropoli longobarda di Ponte del Rio. Al centro è riutilizzato un cammeo di tradizione tardoantica. VI sec. Spilamberto, Deposito archeologico di Spilamberto.

In Emilia-Romagna la lettura di tali fenomeni si concretizza nell’ideologia funeraria del V-VII secolo. La mostra offre infatti l’occasione di ammirare contesti di età gota (l’inedita necropoli di Bentivoglio-Interporto-Bologna, indagata nel 2016) e di rivedere, dopo lungo tempo, reperti preziosi recuperati negli anni Settanta del secolo scorso. La tomba femminile 185 di Imola (Bologna), località Villa Clelia (fine del V secolo), parte di una necropoli databile dal IV secolo all’Alto Medioevo, pur alterata in antico, conserva gran parte dei materiali: una coppia di fibule monetali, una coppia di fibule a disco con decorazione cloisonné, un anello a triplo castone, quattro pendenti in pasta vitrea e una sfera con foro passante in cristallo di rocca, oltre ai resti di un filo d’oro ricamato su di un velo. In tale parure sembrano coesistere elementi mediterranei, goti e merovingi, tipici della moda della prima fase di età gota nella Penisola, in cui fibule e ornamenti, tradizionalmente collocati all’altezza delle spalle, vengono indossati sotto la cintura, come pendenti, analogamente alla tradizione merovingia. Piú articolata e complessa appare, invece, la situazione dell’epoca successiva, quando fanno la comparsa, anche in questa regione, i Longobardi. A differenza febbraio

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dal mondo romano, in cui il cursus honorum indicava inequivocabilmente l’identità e soprattutto la carriera pubblica dell’individuo, in età longobarda il decesso dell’individuo veniva considerata un momento di potenziale crisi per il gruppo parentale. I rituali di morte sembrano in tal senso strettamente connessi con i modi di trasmissione del potere e della rilevanza sociale nella comunità dei vivi; di conseguenza, gli elementi del corredo funebre potrebbero essere stati scelti di volta in volta per ostentare prestigio sociale negoziato localmente da parte di quelle popolazioni che nel corso del VI e del VII secolo acquisiscono una supremazia politica all’interno del territorio di riferimento. Il momento della sepoltura di un defunto riccamente abbigliato si configura come l’occasione in cui la collettività può vedere il congiunto con tutti i simboli di status che il suo gruppo parentale gli attribuisce per legittimare la supremazia attribuita alla famiglia e ai discendenti in vita. Particolarmente significativi appaiono due corredi, del sepolcreto individuato nel 2003 presso la cava di Ponte del Rio a Spilamberto (MO), databile tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo. Mentre la tomba 37 risulta la piú completa in relazione al costume da combattimento maschile, la tomba 62 è caratterizzata da chiari elementi distintivi dell’elevato rango di un subadulto di sesso femminile. Tra i materiali si segnalano, oltre a un corno potorio in vetro, una fibula circolare (in lamina d’argento dorata con cammeo centrale) e uno sgabello pieghevole (sella plicatilis) in ferro ageminato in ottone, elementi che, insieme all’ubicazione della tomba (nucleo funerario piú antico, presso il margine occidentale del sepolcreto) e alla vicinanza della sepoltura rituale di un cavallo acefalo, connotano la defunta come appartenente al gruppo germanico dominante. Cinzia Cavallari

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In basso boccale in maiolica con raffigurazione di sirena, dal pozzo di S. Croce a Ravenna. XIII sec. Ravenna, Deposito SABAP-RA.

le anche scandagliare le pieghe del quotidiano, la vita delle comunità, gli spazi dell’economia, le forme di aggregazione sociale, i rapporti di potere, attraverso l’esemplificazione di luoghi poco noti, spesso inediti per un largo pubblico.

Il percorso espositivo

Per raccontare queste vicende, l’esposizione si articola in sei sezioni, che rappresentano momenti altrettanto significativi della storia dell’insediamento – rurale e urbano – di questa regione, ma illustrano anche la storia delle società che qui vissero e operarono: dunque una scansione cronologica tradizionale letta attraverso i fatti salienti che l’hanno caratterizzata. Cosí alcuni temi (le città, le strutture ecclesiastiche, i comportamen-

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archeologia emilia-romagna Ricerca e tutela

La «scoperta» dell’archeologia medievale Nel 1974, quando Giovanni Spadolini, una delle figure di maggior spicco della cultura liberaldemocratica del Dopoguerra, diede vita al Ministero per i Beni Culturali e l’Ambiente, voleva realizzare un Ministero diverso dagli altri, eminentemente tecnico. Per questo motivo, cinque anni piú tardi, quando vennero banditi i concorsi per un consistente numero di funzionari archeologi, per la prima volta si svolsero separatamente per specializzazioni; vi furono quindi commissioni separate per archeologi pre-protostorici, classici, medievisti, numismatici. Le soprintendenze archeologiche, che fino ad allora avevano vissuto con un numero ridotto di funzionari, dal 1980 furono in grado di mettere in campo strategie di tutela molto piú efficaci e autonome, anche per la contemporanea assunzione di personale tecnico e amministrativo, attrezzando laboratori di restauro e di documentazione. Un ruolo molto importante svolsero in questa nuova politica d’intervento delle soprintendenze i funzionari archeologi medievisti; fino ad allora, anche per le carenze di personale, le soprintendenze erano attente soprattutto ai livelli archeologici di età romana e protostorica, in particolare nelle aree urbane, mentre l’archeologia medievale era limitata ad attività di ricerca in località individuate specificamente come di particolare rilievo per il periodo post-classico e affidata a istituti universitari. Una particolare attenzione era forse riservata agli interventi di scavo riferibili ai complessi ecclesiastici, nell’ambito di quella che veniva definita come archeologia paleocristiana, e allo scavo delle necropoli «barbariche», perché spesso

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fornite di corredi funerari, anche preziosi, e quindi considerate di interesse particolarmente rilevante, in un’ottica di carattere patrimoniale e storico-artistico, quale ancora oggi si rispecchia nel Codice dei Beni Culturali del 2004. Il nuovo ingresso di archeologi specialisti ha comportato una nuova attenzione non solo ai contesti medievali del territorio, dagli insediamenti rurali ai castelli, ma soprattutto nell’ambito urbano. Si potrebbe forse dire che l’archeologia urbana e l’archeologia medievale hanno vissuto stagioni parallele, o meglio ancora, che l’acquisizione a pieno titolo della tutela anche dei depositi archeologici post-classici, spesso, fino agli anni Ottanta, lasciati a una blanda supervisione delle Soprintendenze ai Monumenti, come si diceva allora, ovviamente attente soprattutto ai resti materiali degli edifici, ha consentito uno sviluppo della tutela dei depositi archeologici urbani nella loro integrità. Nelle soprintendenze archeologiche si è fatta strada la consapevolezza che, al di là del valore estetico o patrimoniale dei ritrovamenti «di rilevante interesse», contasse soprattutto il contesto storico dei ritrovamenti e la possibilità di ricostruire tramite scavi accurati e condotti con metodo stratigrafico non soltanto le testimonianze materiali, ma anche le vicende storiche, urbanistiche e socio-economiche di una comunità, integrando per il periodo medievale, o meglio post-classico, le fonti scritte e documentarie. È stato cosí superato anche e soprattutto grazie all’archeologia medievale il concetto di «ritrovamento fortuito» strettamente legato al dettato del Codice. Cosa di «fortuito» ci potrebbe mai essere, infatti, nello scavare all’interno di una

città, quando ciascun centro urbano è di solito il risultato di una continua opera di demolizione, accrescimento e ricostruzione degli edifici, delle strade e dei monumenti? Da queste considerazioni si è sviluppata anche in Italia l’archeologia preventiva, recepita a livello normativo dal 2005, che ha dato una spinta fondamentale all’affermarsi dell’archeologia professionale. I risultati conseguiti nel periodo 1980-2010 sono dovuti soprattutto all’impegno delle soprintendenze archeologiche, cioè all’esistenza di strutture specificamente dedicate a questo settore della tutela, che hanno garantito un controllo del territorio, grazie alla definizione e alla promozione di strumenti urbanistici anche a livello locale, come le carte di potenzialità archeologica a livello urbano e territoriale, in cui anche la tutela dei contesti medievali è stata valorizzata. C’è da sperare – ma non posso negare che l’esperienza diretta


come Soprintendente all’Archeologia, Belle Arti e Paesaggio mi porta a un notevole pessimismo – che le soprintendenze uniche, nonostante il peso preponderante che i compiti di tutela monumentale e paesaggistica comportano, sappiano proseguire sulla linea finora intrapresa dalle soprintendenze all’archeologia e promossa dall’allora Direzione Generale all’Antichità. Il che comporterebbe una visione strategica ampia e complessiva del patrimonio archeologico, non tanto di quello visibile e fuori terra (aree archeologiche e monumenti), ma di quello «invisibile», perché conservato nel sottosuolo. Per conservarlo, occorre operare scelte e tali scelte non possono prescindere dalla conoscenza di tutti i periodi storici attraverso saperi specialistici. I primi segnali, con la soppressione dei concorsi per archeologi delle diverse discipline, non sono incoraggianti. Luigi Malnati

Sulle due pagine patera (contenitore a forma di bassa scodella) e sette cucchiai in argento, dal podere Chiavichetta, impianto portuale tardo-antico presso Classe (Ravenna). VII sec. Ravenna, Deposito SABAP-RA. A destra fibula a croce in oro con terminazioni «a cipolla» (Zwiebelknopffibel) a decorazione traforata nella staffa, con motivi vegetali, zoomorfi e una croce. V sec. Reggio Emilia, Musei Civici. Parte di un tesoro recuperato nel 1957, il reperto appartiene a una tipologia talvolta interpretabile come donativo imperiale, che costituiva un’insegna esclusiva dei dignitari di rango elevato (alti funzionari della compagine statale e militare, compresi i principi goti).

ti sociali, la vita materiale, l’alimentazione, i rapporti di potere, ecc.) appaiono trasversali, comparendo in piú sezioni e ritornando riproposti in vari luoghi. La storia delle città, per esempio, si ritrova in tre sezioni: la prima, quella che racconta le vicende che videro il collasso e la trasformazione dell’urbanesimo antico; la quarta, quella che affronta il problema delle nuove città, lette attraverso il caso di un grande emporio altomedievale sorto dal nulla, cioè Comacchio; infine, la sesta e ultima, dove, in una sorta di circolarità, il tema torna riproposto sulle città della «rinascenza» medievale, quelle dei Comuni. La storia degli insediamenti rurali è raccontata in due sezioni: la seconda, nella quale si affronta il collasso del sistema agrario antico, visto attraverso le vicende che interessarono l’organismo cardine di quel sistema, e cioè la villa/fattoria; la quinta, dove lo sguardo si posa sulle strutture che sostituirono il tessuto connettivo della compagine rurale durante l’Alto Medioevo, restituendogli slancio e coerenza: le aziende agrarie (le curtes), i villaggi, i monasteri. Infine, la storia sociale, religiosa e cultu(segue a p. 48)

In basso matrice bivalve ricavata da laterizi di epoca romana per la realizzazione di orecchini, dal livellamento del fossato perimetrale in loc. Crocetta, Sant’Agata Bolognese (BO). IX-X sec. S. Giovanni in Persiceto, Museo Archeologico Ambientale.

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archeologia emilia-romagna la croce di s. maria maggiore

Sotto il portico della basilica La consuetudine di erigere croci monumentali, comunemente definite viarie o stazionali, fu particolarmente diffusa nei territori legati all’antico esarcato, da Ravenna a Bologna. Tale fenomeno si rifaceva alla tradizione piú antica, «pagana ancor prima che cristiana» (Negretti), di erigere nei trivi e nelle strade antiche immagini di culto, che avevano una funzione strettamente apotropaica perpetuata anche in seguito in epoca cristiana. Ne sono prova, a Bologna, le quattro croci poste alla sommità di colonne che un tempo, secondo la tradizione medievale, erano state innalzate a ridosso degli angoli della città tardoantica – meglio conosciuta come città retratta –, perché molto ridotta rispetto all’abitato romano. Lo scopo principale di tali croci era infatti quello di affidare alla protezione divina la città indifesa, che soltanto dal V secolo venne dotata di una propria cinta muraria. Fu comunque in età comunale che tale fenomeno ebbe la sua massima diffusione, soprattutto grazie all’espansione cittadina, al ripopolamento dell’antica civitas desrtructa e all’insediamento di nuovi e importanti poli religiosi. In questo periodo vennero infatti erette numerose croci lungo i trivi viari della città, con l’intento non solo di segnalare spazi sacri, ma anche quelli di particolare aggregazione sociale, a iniziare dalla piazza dei mercati. Lo conferma, per esempio, la croce dei Santi Apostoli ed Evangelisti, datata 1159, che un tempo sappiamo sorgeva nella piazza di Porta Ravegnana, dove si teneva un mercato. Una funzione che possiamo immaginare non molto diversa da quella che dovette avere anche la croce in pietra calcarea

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di Aurisina recentemente rinvenuta (2013) nel corso dei lavori compiuti nel portico antistante la basilica di S. Maria Maggiore. Il ritrovamento costituisce un fatto eccezionale, non soltanto perché il manufatto rappresenta una delle rare testimonianze della locale produzione scultorea di età medievale, ma anche perché reca la significativa data del 1143, che la pone – a fianco della menzionata croce del 1159 eseguita da Pietro di Alberico – tra le piú antiche del genere a noi pervenute. Con la croce di Pietro, quella di S. Maria Maggiore condivide infatti il riferimento ai modelli di Nicholaus, di cui restituisce una versione piú semplificata e la cui lettura risulta tuttavia in parte compromessa dal lacunoso stato di conservazione con cui ci è giunta. Ovviamente ciò potrebbe interpretarsi adducendo una diversa perizia dell’artefice, qui indotto, come sovente accade nella produzione locale, a impoverire i piú alti modelli, reinterpretandoli con uno stile fortemente arcaizzante. È quanto si ravvisa, per esempio, nella croce del trivio di via Barberie, oggi al Museo Civico Medievale, che con la nostra condivide alcuni elementi, a iniziare dal modellato assai contenuto del corpo, alla resa sottile del panneggio del perizoma o dai sottili grafismi con cui vengono sottolineate le fisionomie del volto. A livello esecutivo, la croce di S. Maria Maggiore, da poco restaurata (Giovanni Giannelli, Nonfarmale 2017), evidenzia una diversa perizia tecnica, come ben documenta l’uso sapiente del trapano, soprattutto nella resa delle lunghe foglie che connotano il sorprendente retro del manufatto.

Qui il lapicida ha modo di dispiegare, con efficacia ed eleganza, una fitta trama ornamentale, fatta di tralci d’acanto, intervallati da fiori e da elementi vitinei, mediati, si direbbe, da modelli antichi o tardo-antichi, reinterpretati con una inusitata verve esecutiva, che trova riscontro anche nella coeva miniatura. Non è escluso che la nostra croce possa identificarsi con un esemplare marmoreo che la Cronaca Villa ricorda al centro di via Galliera. È comunque vero che in questa zona della città le antiche fonti ricordano numerose altre

croci viarie, le cui collocazioni nell’area vicina alla chiesa, potevano nel tempo essere mutate, soprattutto a seguito delle «trasformazioni urbanistiche che nel periodo del massimo sviluppo del comune medievale tra il XII e il XIII secolo furono sicuramente turbinose» (Buitoni). In mancanza di altri e piú probanti indizi, sembra quindi lecito attenersi alla notizia della presenza di una colonna lapidea «sopra la quale si ergeva una croce anch’essa di pietra», che, in occasione della visita pastorale Ludovisi del 1629, viene ricordata sotto il portico di S. Maria Maggiore, dove in effetti, come si è detto, è stata ritrovata. Massimo Medica

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Qui accanto la faccia posteriore della croce di S. Maria Maggiore. 1143. Bologna, basilica di S. Maria Maggiore.

A sinistra la fronte della croce di S. Maria Maggiore. 1143. Bologna, basilica di S. Maria Maggiore.

La scoperta della croce bolognese di S. Maria Maggiore si è subito rivelata di estremo interesse, poiché l’opera costituisce, a oggi, una delle rare testimonianze della locale produzione scultorea di età medievale 47


archeologia emilia-romagna rale compare in filigrana un po’ in tutte le sezioni, ma nello specifico nella terza, dove il passaggio tra antichità e Medioevo è trattato attraverso l’impatto generato dall’arrivo di nuove genti (Goti, Longobardi). E lo fa guardando alle testimonianze materiali che, piú di altre, segnano, anche simbolicamente, la transizione, cioè la ritualità funeraria, con il ritorno e l’accentuazione talvolta eccentrica della sepoltura abbigliata e con corredo. E potremmo continuare, fino al momento con il quale abbiamo deciso di concludere, in maniera convenzionale – come del resto convenzionale è il concetto stesso di Medioevo –: la Peste Nera, verso la metà del Trecento, una grande pandemia che sconvolse l’Occidente e che segnò, anche simbolicamente, un significativo momento di passaggio sociale ed economico, una fase di non ritorno. La mostra racconta queste storie attraverso due percorsi. Il primo identifica una serie di casi di studio, cioè contesti meglio conosciuti di altri – perché meglio indagati –, nei quali l’archeologia ha saputo transitare dalla mera descrizione antiquaria alla narrazione storica. Questi siti

e questi luoghi vengono approfonditamente analizzati nel catalogo che accompagna l’esposizione: qui essi trovano quello spazio di illustrazione che la brevità e la concisione del messaggio museale non sempre è in grado di sviluppare e offrire appieno.

La parola ai reperti

Il secondo percorso delega agli oggetti, alla loro capacità evocativa – ma anche illustrativa – il ruolo di far transitare il visitatore in quel mondo e di farglielo apprezzare e percepire in tutto il suo splendore e l’ordinario del quotidiano: dai gioielli nascosti durante i periodi di instabilità (i piatti di Cesena, il tesoro di Reggio Emilia) agli utensili in legno di una normale casa medievale (Parma e Ferrara); dagli oggetti di rappresentanza (la sella plicatilis di

In alto pentola in pietra ollare e catino coperchio in ceramica grezza, da piazza Garibaldi, scavi della Cassa di Risparmio, Parma. XI-XII sec. Parma, Deposito del Complesso Monumentale della Pilotta.

Qui sopra bicchieri in legno, da piazza Garibaldi, scavi della Cassa di Risparmio, Parma. XI-XII sec. Parma, Deposito del Complesso Monumentale della Pilotta.

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In basso particolare della lampada in vetro, recuperata nell’imbarcazione rinvenuta nel parco archeologico di Teoderico. V sec. Ravenna, Deposito SABAP-RA.

una tomba di Spilamberto) ai resti materiali delle attività artigianali: la splendida matrice per cammei di vetro policromo da Comacchio accostata, per la prima volta, alla capsella di Cividale, nella quale è incastonato un cammeo dello stesso tipo. E non è un Medioevo di maniera quello che si è tentato di rappresentare, né un Medioevo accomodante; ma uno spazio in cui le comunità si sono confrontate e scontrate, ricco di contraddizioni come lo sono tutte le epoche del nostro passato, creativo e, al contempo, involuto, sperimentale e al pari conservatore. Un Medioevo, in sostanza, che vorremmo finalmente uscisse dagli stereotipi dell’oscurità o della semplicità nel quale è stato ed è ancora molto spesso confinato.

Dove e quando «Medioevo svelato. Storie dell’EmiliaRomagna attraverso l’archeologia» Bologna, Museo Civico Medievale fino al 17 giugno (dal 17 febbraio) Orario ma-ve, 9,0018,30; sa, do e festivi, 10,00-18,30; chiuso

lunedí feriali, 1° maggio Info tel. 051 2193916 oppure 2193930; e-mail: museiarteantica@ comune.bologna.it; www.museibologna.it/ arteantica Facebook: Musei Civici d’Arte Antica Twitter: @MuseiCiviciBolo Catalogo Ante Quem Editore

Il futuro del passato

Una mostra essenzialmente archeologica non può che augurarsi che si raggiungano due principali risultati: il primo che dimostri come l’uso di questo strumento produca conoscenza; il secondo che sia stata in grado di tradurre questa conoscenza in qualcosa di socialmente spendibile, facendo sí che chi la visita, ne tragga insegnamento e godimento. Chi è abituato ad associare l’archeologia alle antiche civiltà, forse resterà sorpreso di come, in questo caso, essa sia stata accostata a periodi piú vicini a noi, che siamo abituati a frequentare e conoscere attraverso altri documenti storici. Convincere che esiste un Medioevo archeologico, e che questo ha una sua utilità, è dunque un ulteriore importante obbiettivo di questa esposizione. Riuscirci significa avere alleati nella sua protezione e nella sua salvaguardia. In un periodo dove si riscontra un generale allentamento di interesse e di attenzione da parte della società civile verso il proprio passato – ampliando sempre di piú la forbice tra l’eccezionale, degno di essere visto e apprezzato, e il quotidiano, di cui si pensa di poter fare a meno –, allargare l’attenzione archeologica al Medioevo significa anche rafforzare la nostra idea di patrimonio. Il futuro del Medioevo, e della sua archeologia, dunque, passano attraverso questa consapevolezza e, questa mostra, nel suo piccolo, vuole contribuire a formarla e consolidarla. Sauro Gelichi

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All’ombra della grande isola

di Andreas M. Steiner, fotografie di Daniel Cilia

Con l’avvento di Federico di Hohenstaufen sul trono di Sicilia, l’arcipelago maltese diventa preda degli interessi di nuovi protagonisti nello scacchiere mediterraneo: sotto lo sguardo del re, «conti» e corsari mettono in atto la drastica trasformazione dell’identità demografica – e religiosa – delle isole


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immagine riprodotta in queste pagine è stata scattata alle 7,30 di mattina del 25 dicembre scorso – il giorno di Natale – nell’isola di Gozo, la seconda per grandezza dell’arcipelago maltese, dal nostro collaboratore Daniel Cilia. Sulla sinistra, si intravede la gozitana collina di Tal-Merzuq, sovrastata da una croce, e, sullo sfondo, al di là di quello che appare niente di piú che uno stretto di mare, una lunga striscia di costa dominata dalla sagoma maestosa di una montagna. La costa è quella sud-orientale della Sicilia – dei Monti Iblei, per la precisione –, la montagna non è altro che l’Etna, con il suo eterno pennacchio di fumo, a ricordarci la sua vera, sempre vigile, identità.

Un’immagine rara – solo nelle giornate particolarmente limpide, infatti, la costa siciliana, distante una novantina di chilometri, è visibile –, ma anche emblematica: sembra volerci suggerire che il piccolo arcipelago altro non è che un’appendice, un fazzoletto di terra destinato a essere vassallo della piú grande isola del Mediterraneo.

Rapporti millenari

Un’immagine, in verità, ingannevole. Certo, i rapporti con l’isola madre ci furono, e sin dalla piú remota preistoria. Nel corso dei millenni, però, le isole maltesi hanno sempre dato luogo a fenomeni e tipologie culturali del tutto «personali», talvolta unici. Si pensi, soltanto, alle

architetture megalitiche dell’arcipelago (i celebri «templi» di Malta) e della relativa produzione scultorea preistorica, realizzata per un periodo che va dalla metà del III a quella del II millennio a.C. e che non ha paragoni in nessun’altra parte del Mediterraneo. Ma vi sono anche diversi aspetti contemporanei, molto particolari, che caratterizzano la moderna società maltese. Sebbene chi oggi visiti l’arcipelago potrà riconoscere talune affinità con la Sicilia (e con l’Italia meridionale, in genere), incontrerà anche un gran numero di elementi nuovi, difficilmente ascrivibili a contesti culturali noti. Innanzitutto quello della lingua: a Malta si parlano l’inglese e anche l’italiano (che La costa sud-orientale della Sicilia, vista da Gozo, la seconda isola, in ordine di grandezza, dell’arcipelago maltese. È ben riconoscibile la sagoma dell’Etna, sormontato da un pennacchio di fumo.


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In questa pagina foto satellitare della Sicilia e dell’arcipelago maltese con, in evidenza, la rotta intrapresa, nel 1091, dalla flotta del conte Ruggero d’Altavilla, alla conquista di Malta. Nella pagina accanto Il vittorioso conte Ruggero rende la libertà agli schiavi cristiani, olio su tela di Alessio Erardi. XVIII sec. Mdina, Cattedrale Metropolitana, sacrestia.

delle isole era la lingua ufficiale fino al 1934), ma, soprattutto, il maltese è il solo idioma semitico autoctono parlato in Europa e anche l’unica lingua semitica scritta con l’alfabeto latino. Un secondo aspetto, anch’esso costitutivo dell’odierna fisionomia maltese, è quello religioso. Oggi, infatti, Malta è un Paese a maggioranza cattolica e l’influenza della Chiesa in tutti gli aspetti della vita quotidiana è molto forte: ne sono

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riprova le numerosissime chiese, perlopiú di ispirazione rinascimentale e barocca, che costellano le isole. In un precedente contributo, dedicato alla fine del dominio arabo e all’avvento di quello normanno (vedi «Medioevo» n. 240, gennaio 2017), abbiamo potuto evidenziare come la nuova conquista sia stata letta, a partire dalla storiografia sei-settecentesca, come l’atto fondativo di un ritorno all’«originario» credo cristiano.

Un’ipotesi rifiutata – lo ricordiamo – dallo studioso maltese Godfrey Wettinger (1930-2015), secondo il quale non vi sarebbero prove della presenza continuativa di una comunità cristiana durante il periodo della dominazione araba (870-1091); una comunità che, grazie all’avvento del conte Ruggero d’Altavilla (nel 1091) e alla successiva riconquista da parte di Ruggero II (nel 1127), avrebbe vissuto, per mano normanna, una febbraio

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storie malta La lingua maltese

Un enigma ancora irrisolto Derivato dall’arabo maghrebino, sul piano della sintassi e della fonologia il maltese rivela particolarità che lo distinguono dall’arabo e ne fanno una lingua autonoma. Sin dall’età medievale, il lessico maltese è stato influenzato dall’italiano e, a partire dall’occupazione britannica, anche dall’inglese. Assai discussa, inoltre, è la questione circa le origini da attribuire alle supposte radici fenicie di alcune parole del lessico maltese: si tratta di sopravvivenze di un’originaria lingua diffusa in età punica (e di cui non si sono conservate altre tracce) o non nascono, piuttosto, da un comune denominatore semitico, condiviso dal punico-cananeo, dall’antico aramaico e dall’arabo? Potrebbe sembrare una disquisizione puramente linguistica, ma non è cosí. Riguarda, infatti, la genesi stessa della fisionomia storico-culturale (potremmo dire «identità», se il termine non fosse troppo abusato e compromesso) propria dell’arcipelago maltese. Una genesi, però, la cui storiografia si è scontrata – come

Un atto notarile del 1164 cita il «cotone maltese» fra i prodotti piú apprezzati e scambiati nei porti dell’arcipelago Le isole dei «figli di Agar» Il documento riprodotto qui sopra è la copia trecentesca, oggi conservata presso la Biblioteca Nazionale di Madrid, di un poema scritto nel XII sec. da un esule greco a Malta. Il testo narra della spedizione, capeggiata da Ruggero II e dal suo ammiraglio Giorgio d’Antiochia, alla conquista di Melitogaudos (verosimilmente una crasi dei due nomi greci per Malta e Gozo). Il componimento descrive le isole come abitate «dai figli di Agar» e ne narra l’espulsione da parte del re normanno. L’autore racconta come, dopo la vittoria sui musulmani, un gruppo di «píi abitanti» cristiani accorse a salutare i liberatori.

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sua liberazione e rinascita. Anzi, le isole – come ricordano alcuni autorevoli testimoni del tempo – erano ancora abitate integralmente dai «Saraceni» (secondo l’espressione di Burcardo di Strasburgo, inviato di Federico Barbarossa presso la corte di Saladino e che a Malta fece sosta nel 1175).

Il ruolo della pirateria

L’arcipelago, con i suoi abitanti musulmani e un nutrito stuolo di coloni cristiani, iniziò, piuttosto, una nuova fase della propria storia, segnata dal conflitto tra il regno normanno e i potentati berberi degli Ziridi e degli Almoravidi, stanziati sulla costa settentrionale dell’Africa. Un ruolo non secondario svolse,

in questo contesto, la pirateria: lo storico maltese Charles Dalli ricorda, a questo proposito, il sequestro, avvenuto nel porto di Malta intorno all’anno 1184, di una nave tunisina a opera di un capitano pisano, il quale razziò l’intero carico e gettò in mare l’equipaggio. Con i suoi porti naturali, l’arcipelago rappresentava un comodo approdo intermedio per le scorrerie dei Pisani e dei Genovesi nel Mediterraneo centrale. A Malta, le navi potevano sostare, fare rifornimento di viveri e scambiare mercanzie con i locali: ne è testimonianza un atto notarile genovese, datato al 1164, in cui si menziona il «cotone maltese» (Dalli). Forse le isole non risentirono direttamente dei violenti contrasti febbraio

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abbiamo già ricordato – con una difficoltà di non poco conto: la quasi totale assenza, per i primi secoli del Medioevo, di documenti epigrafici o di altre testimonianze dirette. Un dato che ha reso ancora piú «oscuro» un periodo della storia maltese già di per sé compromesso dal continuo avvicendarsi di dominatori stranieri. In un primo contributo (vedi «Medioevo» n. 223, agosto 2015) abbiamo ripercorso un evento che, ai fini del nostro discorso, assume rilevanza fondamentale: quello della conquista araba dell’870 e dei due secoli successivi di dominazione musulmana nell’arcipelago. È verosimile che l’origine dell’odierna lingua maltese sia da ricercare proprio in quel periodo: non esistono, infatti, documenti che comprovino la presenza di una lingua semitica antecedente (il «Punico», un termine che, in passato, veniva usato per descrivere quella maltese, si veda il settecentesco trattato Della lingua punica presentemente usata da Maltesi di Giovanni Pietro Francesco Agius de Soldanis). scoppiati, nella stessa Sicilia, tra la comunità cristiana e quella musulmana, sfociati in vere e proprie persecuzioni antiarabe, da una parte, e nella formazione di un esercito di miliziani musulmani, in grado di sfidare il governo di Palermo, dall’altra. Certamente, però, l’arcipelago non poté assistere indenne agli epocali cambiamenti che nella grande isola si verificarono alla fine del XII secolo. La prematura morte di Guglielmo II (1189) segnò l’inizio della fine del regno normanno. Il terzo re di Sicilia non aveva eredi diretti e il trono passò al cugino illegittimo, Tancredi.

Agonia di un regno

Intanto, il figlio e successore di Federico Barbarossa, il futuro imperatore Enrico VI di Svevia, rivendicava il trono del regno, grazie anche al suo matrimonio con la normanna Costanza d’Altavilla. Un anno dopo la morte di Guglielmo un altro episodio contribuí a indebolire il già agonizzante regno normanno: nel 1190 erano passati per Messina gli

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In alto frontespizio del trattato Della lingua punica, del canonico maltese Giovanni Pietro Francesco Agius de Soldanis. 1750. In basso recto e verso di un dinaro aureo di epoca fatimide, coniato a Malta nel 1079/1080.

eserciti del re di Francia, Filippo II, e del re d’Inghilterra, Riccardo Cuor di Leone, intenti a raggiungere la Terra Santa (nel corso di quella che verrà chiamata la III Crociata). Un dissidio di famiglia tra quest’ultimo e Tancredi (il quale aveva fatto rinchiudere nella fortezza della Zisa la sorella di Riccardo,

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storie malta I LUOGHI DEL MEDIOEVO MALTESE 6

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Come si può osservare, i toponimi indicati derivano dai termini arabi marsa («porto», «approdo») e qala («rocca», «fortezza»): 1. Marsa; 2. Marsamxett; 3. Marsaxlokk; 4. Marsascala; 5. Marsa ta’ Hal Saflieni; 6. Marsalforn; 7. Marsa x-Xlendi; A. Qala (villaggio gozitano); B. Ras il-Qala; C. Cala ta’ Mgarr (Gozo); D. Qala ta’ Michal; E. Qala tal-Mistra; F. il-Qala Hill (Mgarr); G. il-Qala tal-Imgarr; H. Qalet Marku; I. il-Qala ta’ Bahar A B ic-Caghaq; J. Budaqq tal-Qala; K. Qala ta’ San Go (Birzebbuga); L. Kalafrana; M. Mgarr ix-Xini (o Qala).

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A sinistra veduta delle saline di Xwejni (Gozo). Il sale era uno dei prodotti piú diffusi nei mercati del Mediterraneo in età medievale.

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Giovanna, vedova di Guglielmo II) sfociò nel sacco di Messina da parte delle truppe inglesi. Tra i notabili che riuscirono a scampare alla morte vi fu l’ammiraglio Margarito di Brindisi, comandante della flotta siciliana durante il regno di Guglielmo II e il primo a ricevere la titolarità della contea di Malta, nel 1192, da parte dello stesso Tancredi. Ma la fortuna dell’ammiraglio e conte di Malta non durò a lungo. Trancredi morí nel febbraio del 1194 e, nel giorno di Natale dello stesso anno, sul trono salí Enrico di Svevia. Margarito, insieme a molti altri notabili siciliani, finí per essere deportato in Germania. Enrico VI di Hohenstaufen ascese al trono che fu di Ruggero II nel 1194, ma, dopo meno di tre anni, morí. Nel 1198, all’età di appena quattro anni, gli successe il

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figlio Federico, nato a Jesi il giorno seguente all’incoronamento del padre a Palermo. Nel 1220, verrà egli stesso incoronato imperatore. Quali furono gli effetti di quello straordinario cinquantennio dominato dalla figura di Federico II, lo Stupor Mundi, sul piccolo arcipelago a sud della Sicilia?

L’isola dei pirati

Tra gli esiti principali vi fu, sicuramente, la crescente integrazione dell’arcipelago, come anche della Sicilia stessa, all’interno della koiné della cristianità latina. Un processo segnato da vari accadimenti, intensificatisi verso la fine del regno (Federico muore nel 1250) e oltre. Al compimento di questo processo l’arcipelago sarà qualcosa di molto diverso da una insignificante, periferica appendice del regno di Sicilia, abitata da una popolazione di sudditi-contadini di fede musulmana. Vediamo chi furono i protagonisti di quegli anni, quali gli eventi piú significativi e, soprattutto, quali sono le fonti (rare,

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ma meno che per i secoli precedenti) che ci informano su quei cinque decenni decisivi. Il periodo federiciano è stato definitivo, per quanto riguarda le isole maltesi, come quello dei «conti genovesi» di Malta (l’arcipelago rappresentava uno scalo importantissimo per i mercanti della città ligure, sulle rotte della Terra Santa e dell’Egitto). La creazione della contea di Malta risale, verosimilmente, allo stesso Tancredi, che l’aveva istituita per il già menzionato ammiraglio Margarito di Brindisi. Durante il regno svevo, questo titolo – che riuniva quello di comandante della flotta e di conte dell’isola – venne attribuito ai Genovesi, e, precisamente, a quella schiera di corsari che avevano affiancato gli Hohenstaufen nella conquista della Sicilia. Fu Enrico VI a nominare «conte di Malta» il successore di Margarito, tale Guglielmo Grasso, pirata di lunga data e nemico giurato delle potenze di Pisa e di Venezia. Il nome di Guglielmo Grasso compare in un documento, rilasciato dalla cancelleria di Costanza d’Altavilla e di suo figlio Federico, datato al novembre del 1198, e dal quale si evincono informazioni importanti circa la composizione religiosa e la scelta di parte politica della popolazione delle isole: il documento, infatti, si rivolge agli abitanti di Malta e Gozo, sia cristiani sia musulmani (tam Christiani quam Sarraceni), assicurando la loro 4 permanenza all’interno del regno siciliano. Nel documento, la regnante e suo figlio esprimono la loro gratitudine ai Maltesi per essersi ribellati contro lo stesso Guglielmo. Dopo la morte di Enrico VI, il Genovese era infatti caduto in disgrazia e venne privato della contea di Malta e Gozo. Nel 1203, però, assunse la successione del titolo il genero di

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storie malta Il documento redatto in latino e in arabo, con il quale, nel novembre del 1198, l’imperatrice Costanza d’Altavilla si rivolge agli abitanti di Malta e di Gozo, sia cristiani sia musulmani (tam Christiani quam Saraceni), assicurando la loro permanenza all’interno del regno di Sicilia.

Agli inizi del Duecento, uno dei protagonisti della storia di Malta fu Enrico il Pescatore, genero di Guglielmo Grasso Guglielmo Grasso, tale Arrigo – o Enrico –, detto «il Pescatore», alle cui scorribande mediterranee il grande biografo di Federico II, lo storico David Abulafia, ha dedicato una dettagliata ricostruzione. Enrico ricevette in feudo l’isola di Malta dalla Corona di Sicilia verosimilmente già nel primo decennio del XIII secolo e la

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sua carriera, all’ombra del giovane Federico, fu fulminante. Malta divenne la base di partenza per i suoi attacchi contro il nemico pisano (nell’agosto del 1204, Siracusa – sede di una importante base commerciale pisana – venne conquistata dai pirati genovesi) e per spedizioni nel Mediterraneo

orientale, dominato dai Veneziani. Nonostante il fallito tentativo di acquisire al potere genovese anche l’isola di Creta, la fortuna del Pescatore continuò anche quando Federico raggiunse la maggiore età, assumendo la guida del regno a pieni mani: nel 1212, il re concesse al Pescatore di battere moneta a Malta, di cui, curiosamente, non sembra sia a oggi pervenuto alcun esemplare (Dalli). Nel 1218, anno in cui fu stipulata la pace tra le due repubbliche marinare di Genova e Venezia, il Pescatore venne inviafebbraio

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In alto veduta di Genova in età tardo-medievale, dal Supplementum Chronicarum di Foresti da Bergamo, Venezia, 1486.

I CONTI GENOVESI DI MALTA Conte Guglielmo Grasso

to alla corte sveva in Germania, al fine di perorare la causa genovese. Il corsaro ne uscí vincitore – come riferisce Abulafia – forte del titolo di ammiraglio della flotta siciliana. Ma veniamo agli avvenimenti piú significativi e drammatici che interessarono il Mediterraneo centrale nei decenni successivi. Nonostante la nota e conclamata apertura di Federico II verso il mondo arabo e una certa tolleranza politica nei confronti dei musulmani di alcuni possedimenti del regno, tra cui quello di Pantelleria, ben diverso fu il suo atteggiamento scelto per risolvere il problema dei ribelli

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Romana

Conte Enrico «il Pescatore»

Conte Nicoloso

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Conte Andrea

Lukina

Guglielmo

Roberto

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Conte Guglielmo Raimondo Moncada

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storie malta

musulmani di Sicilia. Il programma messo in atto dal re, finalizzato alla completa eliminazione dei musulmani dalla Sicilia, è stato equiparato alle moderne politiche di «pulizia etnica» (Dalli): nel 1224 vi fu la prima deportazione della popolazione araba dall’isola (le stime vanno dalle 15 000 alle 20 000 unità) nella pugliese Lucera, divenuta cosí una «colonia» islamica. Il processo messo in atto continuò, poi, sino alla fine del regno di

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Federico: la Sicilia divenne, cosí, un regno interamente cristiano, anche attraverso la messa in atto di politiche di ricolonizzazione dell’isola da parte di popolazioni latino-cristiane fatte venire dall’Italia continentale. Tra gli episodi piú significativi, a questo proposito, vi è quello che vide protagonisti (e vittime) gli abitanti ribelli della città abruzzese di Celano: nel 1223, il potente contado guidato dal conte Tommaso, reo di essersi rifiutato di passare sotto

la corona sveva, venne sconfitto da Federico II e l’intera popolazione deportata in Sicilia e... a Malta.

Da Malta a Lucera

Già, che cosa era accaduto, durante questi anni turbolenti, nel piccolo arcipelago? Dal 1198, le isole erano entrate a far parte del dominio reale, una circostanza quanto mai sfavorevole per la popolazione islamica. E cosí come un numero di prigionieri celanesi venne fatto sbarcafebbraio

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re nelle isole maltesi – con la fattiva collaborazione del conte di Malta, Enrico il Pescatore –, la popolazione araba fu deportata. Alcuni musulmani maltesi furono portati a Lucera (come emerge dalla principale fonte documentaria sulla colonia musulmana, il Codice diplomatico dei Saraceni di Lucera). La cacciata dei musulmani verrà cosí commentata dal grande storico arabo, Ibn Khaldun (1332-1406): «Il tiranno di Sicilia assediò i musul-

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A sinistra veduta aerea di Rabat, la cittadella di Gozo, oggi nota come Victoria. Le imponenti mura in primo piano risalgono all’epoca medievale. In alto il forte Sant’Angelo, al centro del porto di Valletta. In epoca medievale era

la principale fortificazione portuale (il castrum maris) dell’isola, nonché la sede dei Conti di Malta. In basso ancora il forte Sant’Angelo, in un disegno del pittore, incisore e poeta olandese Willem Schellinks (1627-1678).

mani nella loro fortezza sulla collina, li circondò e li costrinse di scendere dal loro castello e li inviò oltre gli stretti per insediarsi a Lucera (…) poi passò a Malta e cacciò i musulmani che vi vivevano (…) il tiranno dominò la Sicilia e le isole vicine e vi abolí la legge dell’Islam». Resta il fatto – come ha sottolineato Charles Dalli – che, ancora decenni dopo l’istituzione della colonia musulmana di Lucera, le isole maltesi (come anche la vicina Pantelleria) possedevano ancora

una nutrita popolazione musulmana, contrariamente a quanto si era verificato in tutto il resto del regno. Inoltre, è assai improbabile che Federico II fosse passato personalmente – come sembra suggerire Ibn Khaldun – per l’isola di Malta a sovrintendere alle deportazioni (un evento da collocare tra il 1223 e il 1224). Possiamo chiederci, dunque, se lo Stupor Mundi abbia mai messo piede nell’arcipelago… Certo è che le isole dovettero rap-

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storie malta Una pagina del De Arte Venandi com Avibus (Sull’arte di cacciare con gli uccelli), il trattato di Federico II di Svevia sull’attività venatoria. 1265 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Il re è raffigurato in alto, con i suoi falconi; in basso compare invece il figlio Manfredi.

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Da leggere Charles Dalli, Malta: The Medieval Millennium, Midsea, Malta 2006 Anthony Luttrell, The Making of Christian Malta: From the

Il rapporto di Giliberto Abbate

Un resoconto prezioso Tra i rarissimi documenti sulla storia di Malta al tempo di Federico II figura il rapporto ufficiale su Malta e Gozo, redatto intorno al 1241 dall’allora governatore di Malta, Giliberto Abbate. Il contenuto dell’articolato resoconto sopravvive, in realtà, in una copia tardo-medievale – gli Excerpta Massiliensia – della risposta ufficiale inviata dallo stesso Federico al suo governatore. Fortunatamente, la lettera di risposta riporta, secondo la consuetudine delle pratiche di cancelleria dell’epoca, ampi stralci dello stesso documento originario stilato da Giliberto. Il rapporto illumina il quadro della società maltese in un momento cruciale del processo di cristianizzazione, e ne rivela la struttura sociale ed etnicoreligiosa, composta da musulmani, ebrei e cristiani.

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Early Middle Ages to 1530, Ashgate, Farnham 2002 David Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Einaudi, Torino 2006

In alto Mdina. Un falconiere con un esemplare di falco pellegrino mediterraneo (Falco Peregrinus Brookei) posato sul guanto, durante una rappresentazione dedicata ai falconieri maltesi di Federico II.

presentare fonte di primaria importanza per alimentare una delle grandi passioni del re, quella della caccia con il falcone. Scrive David Abulafia che, per l’autore del De arte venandi cum avibus, niente aveva piú fascino «della caccia col falcone», che egli cercava «nelle isole tra la Sicilia e l’Africa, come Pantelleria e Lampedusa e in particolare su Malta». Da uno dei rari documenti dell’epoca risulta, inoltre, che nel mese di maggio del 1240, il governatore dell’isola, tale Paolino de Malta, venne informato dell’arrivo nell’arcipelago di diciotto falconieri reali, accompagnati da ventidue assistenti e trentanove cavalli, intenti a una spedizione di caccia della durata di due mesi.

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immaginario lo specchio

Misteriosi riflessi di Lorenzo Lorenzi

Messo a punto come indispensabile accessorio da toletta, lo specchio si è caricato, nel corso del tempo, di molteplici funzioni e significati, da quelli religiosi a quelli filosofici. Una polivalenza ampiamente testimoniata in campo artistico e letterario, grazie alla quale possiamo tracciare una vera e propria storia parallela di questo «magico» strumento

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a tematica della seduzione potrebbe apparire estranea alla sensibilità medievale fondata sull’amore divino espresso nella preghiera e nel sacrificio quotidiano: emblemi della tensione provata dal fedele in direzione della verità. Come ogni altra epoca, anche il Medioevo è percorso in maniera serrata da forti richiami laici all’amore di sé e alla contemplazione della bellezza, annidati in singolari immagini a corredo dell’apparato decorativo di edifici laici e religiosi richiamanti il vizio della vanagloria (vanitas), che tutto involve nello scorrere effimero del tempo. Uno di questi è l’effigie della sirena, il relativo oggettivo di Eva tentatrice, sovente ritratta nuda e bicaudata, che mostra spavalda il suo sesso, protagonista lussuriosa

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dei bassorilievi in importanti cattedrali romaniche tra l’XI e il XIII secolo; piú complesse sono invece le miniature in cui tale mostro marino esprime il vizio della superbia e della cupidità. Le sirene medievali compaiono nel Fisiologo (opera composta nel II secolo d.C. da un ignoto autore alessandrino) e nel Liber monstrorum de diversis generibus (anteriore al Mille): entrambi i testi sintetizzano il mito omerico e alcune leggende scritte da Fedro, presentando sirene formate da corpo di uccello o serpente marino – nella parte inferiore –, busto di giovane donna – in quella superiore – con seni prominenti e bocca semiaperta, dalla quale sale il canto ammaliatore. Presenti a gruppi di tre, brandiscono strumenti di seduzione, come una mela e uno strumento a corde (per sedurre altro febbraio

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Nella pagina accanto specchio in argento della principessa Sithathoriunet, con impugnatura in forma di germoglio di papiro, decorata con il doppio volto della dea-vacca Hator. XII dinastia (1994-1797 a.C.). Il Cairo, Museo Egizio. A destra La Prudenza, tempera su tavola di Pietro del Pollaiolo. 1470 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi.


immaginario lo specchio Specchi e virtú

Prudenza e perfezione

da sé), uno specchio e un pettine allo scopo di blandire se stesse: il primo costituiva un medium di predizione, il secondo poteva afferire alla dimensione del sortilegio, poiché capace di scatenare forti maree nel momento in cui è impiegato per lisciare le lunghe chiome.

Il trionfo dell’amore

Nello specchio trionfa l’amore per il proprio ego, il desiderio di una perfezione estetica che deforma il destino dell’anima creata per giungere al divino, obliando la propria esistenza. La sirena che si specchia richiama pratiche iniziatiche relative al mistero della nascita e della morte; il legame con l’acqua riflessa attiene della fluidità e all’intensità del pensiero, all’instabilità e al diIn alto miniatura raffigurante due sirene suonatrici, dal Salterio della regina Maria. 1310-1320. Londra, The British Library. A destra miniatura raffigurante una sirena che regge un pettine in una mano e uno specchio nell’altra, dal Bestiario di Copenaghen. XV sec. Copenaghen, Kongelige Bibliotek.

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sordine del divenire, perché a esso ci si riferiva per sottolineare l’incostanza femminile, rispetto al principio igneo-solare rappresentato dal maschile; se l’acqua riflette il cielo in un rapporto di verità e illusione, lo specchio nella forma a disco convesso si connette alla luna, espressione dei desideri reconditi e profondi al pari delle cavità marine: «Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò appieno» (San Paolo, I Corinzi, XIII, II, 12). In una miniatura del Bestiario di Copenaghen (Kongelige Bibliotek) una sirena-pesce stringe con una mano uno specchio circolare perché intenta a rimirarsi, nell’altra un pettine: sono emblemi della vanaglo-

Lo specchio come doppio di ciò che in esso si specchia assume significati simbolici ambivalenti e non sempre è espressione del male; può costituire l’attributo allegorico della virtú cardinale della Prudenza, cosí come può esprimere l’emanazione fenomenica del divino: nel dettato biblico, l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, per cui il volto di ogni uomo è il riflesso della divinità. Cristo stesso è uomo-icona del Padre. Leonardo sottolinea la perfezione dello specchio per la riproduzione della realtà, modello a cui ogni pittore tende e di cui l’autoritratto è l’emblema: esso è tanto piú convincente quanto piú fedele al vero; è il mezzo in cui la riproduzione non appare inficiata da fallacia. «Quando tu vuoi vedere se la tua pittura tutta insieme ha conformità con la cosa ritratta di naturale, abbi uno specchio, e favvi dentro specchiare la cosa viva, e paragona la cosa specchiata con la tua pittura, e considera bene ria, ciò che è destinato a svanire col tempo, inganno dell’eternità. Le Sirene suonatrici in una miniatura tratta dal Salterio della Regina Maria (foto in alto) galleggiano a pelo d’acqua intente ad ammaliare i naviganti: una suona la lira, l’altra squilla la tromba e tiene in mano uno specchio per riflettere le luccicanti onde marine: si nota in questi atteggiamenti la volontà di abbagliare la vista e l’udito di chiunque le incontri. La cultura medievale mostra un atteggiamento ambivalente nei confronti delle superfici a specchio febbraio

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se il subietto dell’una e dell’altra similitudine abbiano conformità insieme» (Trattato sulla Pittura). In psicologia, se Freud vede il doppio dell’io nello specchio come piacere del ritrovamento, Jacques Lacan afferma la funzione strutturante e «ortopedica», che consente all’infante di dare forma al corpo frammentato e poi di ricomporlo entro un percorso di costruzione, che prevede dapprima l’illusione di una entità altra e poi il riconoscimento della medesima che vi si specchia, come successe a Narciso. Riconoscendo in un secondo momento la sua effigie, egli ne riconobbe l’evanescenza, cioè la morte nel senso della vita transeunte: pertanto l’oggetto che riflette assolve alla funzione pedagogica di accettazione del destino della fine. Nel Ritratto di Dorian Gray, il quadro è lo specchio dell’anima di Dorian ed è proprio l’effigie pittorica a mutare e a rendere visibile la verità sulla vita del protagonista, che non esiterà a uccidere l’autore del ritratto allo scopo di spezzare l’incantesimo del vero restituito. A destra Prudenza, olio su tavola di Giovanni Bellini. 1490. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

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immaginario lo specchio e del concetto di immagine riflessa: la preghiera e il pensiero di Cristo sono essi stessi speculum, riflessione e tensione per l’assoluto, le pale d’altare contrassegnate dal fondo in oro sono il simbolo della presenza divina, poiché nell’oro si riflettono la beatitudine, la dimensione dell’eternità e il progetto di elevazione ai misteri trinitari da parte dell’osservatore. L’effetto fisico dei raggi obliqui del sole che illuminavano lo strato dorato accendeva di luce le pale d’altare, che apparivano specchi purissimi d’immensità. L’Allegoria della Prudenza, una della quattro virtú cardinali, presenta una giovane donna accompagnata da un serpente e uno specchio, di cui il primo richiama la circospezione e la lungimiranza (Matteo 10,16), il secondo la conoscenza e l’esame di sé; famosa è la tavola della Prudenza maestosa in trono (foto a p. 65), commissionata nel 1469 a Piero del Pollaiolo dal Tribunale della Mercanzia di Firenze. Nella Prudenza di Giovanni Bellini (foto a p. 67), lo specchio è invece il protagonista della raffigurazione venendo additato dalla fanciulla nuda alla stregua di monile ambiguo, strumento che favorisce un esame di sé e del comportamento virtuoso come anche anche oggetto insidioso di vacuità.

Il poeta innamorato

Sull’aspetto positivo dello specchio nella dimensione laica citiamo Jacopo da Lentini (1210-1260 circa), appartenente alla scuola poetica siciliana, il quale affronta il tema dell’immagine riflessa sostitutiva della donna amata in carne e ossa; nel componimento Meravigliosamente, il poeta, infiammato d’amore, immagina di dipingere un ritratto, quale specchio fedele della bellezza da contemplare interiormente

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in assenza di lei; ciò a dimostrare come eros e speculum siano indissolubilmente uniti: «Avendo gran disio, / dipinsi una pintura, / bella, voi simigliante, / e quando voi non vio, / guardo ‘n quella figura, / e par ch’eo v’aggia avante: / come quello che crede / salvarsi per sua fede, / ancor non veggia inante». Le lastre riflettenti erano conosciute in età medievale grazie alla filosofia di Aristotele, il quale, nei suoi studi sulla camera oscura,

tese, lo specchio è associato al mito di Narciso e compare in maniera importante nel poema allegorico Roman de la Rose (XIII secolo), scritto da Guillaume de Lorris e Jean de Meun, in una modalità piuttosto affine al mito ovidiano. Nella prima parte dell’opera non viene menzionato il fatto che Narciso si riconosce nello specchio d’acqua, mentre è presente il concetto della passione per un’immagine maschile tout court, e questo fatto risulta piuttosto importante, poiché nel Duecento e nel Trecento non vi era molta tolleranza nei confronti dell’omosessualità.

Citazioni e richiami

asseriva che era possibile proiettare l’immagine del sole in un luogo buio attraverso un piccolo foro apparendo lo specchio di esso; nei Problèmata (libro XV, 6) scrive che «i raggi del sole che passano per un’apertura quadrata formando comunque un’immagine circolare la cui grandezza aumenta con l’aumentare della distanza dal foro». E poiché sulla superficie dello specchio si concentrava la stessa quantità di luce e ombra, tale fenomeno era associato alla complementarietà delle due dimensioni, il giorno e la notte, l’esterno e l’interno. Nell’ambito della letteratura cor-

In ambito italiano, la lirica d’amore del Duecento è intrisa di citazioni e richiami al mito suddetto: il sonetto di Chiaro Davanzati, intitolato Come Narcissi in sua spera mirando – incentrato sulla tematica dell’amore irrazionale che avvince sino all’incoscienza –, trova un’effervescente novità nella proposizione del binomio vita-dolore/morte-serenità; con la morte finisce qualsiasi dolore, come successe al bellissimo giovane, che smise cosí di struggersi d’amore cadendo nello specchio d’acqua (vedi box a p. 69). Nell’Inferno di Dante il paragone con Narciso si presenta nel canto XXX in cui si descrive la bolgia (decima) dei falsari la cui pena è l’idropsia; i protagonisti sono Adamo e Sinone, il primo un falsario di monete arrestato a Firenze e condannato al rogo nel 1281, il secondo l’ingannatore dei Troiani, colui che si fece catturare prigioniero per convincerli, contro il volere di Laocoonte, a introdurre entro le mura il cavallo. La scena presenta lo scontro fra i due personaggi e, se Adamo ricorda a Sinone lo spergiuro del cavallo di cui tutto il mondo è a conoscenza, il secondo risponde ramfebbraio

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Nella pagina accanto particolare dello scomparto destro del trittico del Giardino delle delizie, olio su tavola di Hyeronimus Bosch. 1480-1490 circa. Madrid, Museo del Prado.

In basso Narciso, olio su tela del Caravaggio (al secolo Michelangelo Merisi). 1597-1599. Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica, Palazzo Barberini.

mentandogli la sete che lo sconvolge e paradossalmente la mole d’acqua che gli rigonfia la pancia tanto da farlo assomigliante a una grossa sfera; nella diatriba, Adamo afferma che la bocca di Sinone è infuocata dalla febbre e che non esiterebbe un istante ad adorare qualche goccia d’acqua come fece Narciso: «Cosí si squarcia / la bocca tua per tuo mal come suole; / ché s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia, / tu hai l’arsura e ‘l capo che ti duole, / e per leccar lo specchio di Narcisso, / non vorresti a ‘nvitar molte parole». Nella tradizione popolare francese è presente un motto medievale che recita: «Le miroir est le vray cul du Diable», lo specchio come ano del diavolo, cioè la parte del corpo meno virtuosa e priva di valore, dunque porre lo specchio innanzi al volto equivaleva a comunicare col demonio. Questo concetto è stato rappresentato da Hiermonymus Bosch nella tavola del Trittico del Giardino

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La vanità punita La storia di Narciso (figlio di Cefiso e Liriope) è contenuta nelle Metamorfosi (III, 420 e segg.) di Ovidio e narra le vicende di un giovane tanto bello da suscitare sentimenti amorosi di ragazzi e ragazze, soprattutto della ninfa Eco, la quale si vide rifiutata con insensibile vanità; fu allora che si nascose nei boschi, struggendosi d’amore e deperendo nel corpo fino scomparire, lasciando viva solo la voce. Gli dèi vollero punire Narciso, incaricando Nemesi, dea della vendetta, di attuare la giusta punizione, che si manifestò quando il giovane si chinò per bere a una fonte; egli vide l’immagine di un bellissimo fanciullo e fu rapito da ardente passione. Fissava per tutto il giorno quell’immagine e immergeva nell’acqua braccia e mani per poterlo accarezzare; tale amore gli fece dimenticare di nutrirsi, sino a che, sfinito, scivolò dentro lo specchio d’acqua morendo affogato, non prima di aver capito che quell’immagine era semplicemente il suo volto. Secondo interpretazioni recenti, nel mito emergerebbe il significato intransitivo dell’amore, che rimane chiuso e quasi ingabbiato nel personaggio che viene sedotto e omaggiato proprio per sua bellezza. Non c’è passaggio da una entità all’altra, non c’è movimentazione di sguardi e blandizie. Nel mito di Narciso, la pura identità si identifica in un’alterità, complice lo specchio d’acqua, che diviene irraggiungibile. Il giovane nello specchio vede altro da sé e se ne innamora e per questo viene condotto a una morte prematura subito dopo il riconoscimento. Dunque il binomio riconoscimento-morte è dato dal fatto che il protagonista si riconosce solo come riflesso, cioè come dimensione ontologicamente difettiva; inoltre l’amore che egli prova per ciò che vede altro non è che un amore per il riflesso e amore del riflesso, cioè di un evanescente nulla verso cui il personaggio sprofonda.

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immaginario lo specchio Le origini

Dalla cosmesi all’arte militare Nella civiltà egiziana, dall’Antico al Nuovo Regno, gli specchi erano suppellettili d’uso comune presso il ceto aristocratico e sacerdotale, tuttavia assolvevano anche a una importante funzione religiosa e funeraria: venivano infatti offerti alle divinità Mut e Hathor e il loro significato atteneva alla generazione della vita. La fattura era circolare e il materiale preferito era il bronzo (sono giunti a noi specchi realizzati con lastre d’argento e di rame), sorretto da lungo manico decorato con le fattezze di una divinità. Creazione leggendaria di Efesto per i Greci, lo specchio ustorio realizzato da Archimede è un’invenzione utilizzata per accendere il fuoco; la tradizione riferisce che, dalla costa, lo scienziato avrebbe incendiato le navi nemiche, non ancora giunte in porto, allo scopo di difendere Siracusa. Negli Arcanesi di Aristofane, si narra di Lamaco, che vede in una lastra di bronzo oleato, Le Tre età e la Morte, olio su tavola di Hans Baldung, detto Grien. 1509-1510. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

delle delizie, nel cui scomparto destro, raffigurante l’Inferno musicale, osserviamo una dannata nuda e in stato di incoscienza avente un rospo sul petto mentre un demone dalle zampe palmate è intento a torturarla; questa figura fissa uno specchio nero convesso legato alle terga di un demone inginocchiato (vedi foto a p. 68). È probabile che si tratti di una strega, poiché il rospo è simbo-

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lo di pratiche magiche: si riteneva infatti che le ghiandole dell’animale secernessero un veleno che solo le streghe sapevano trasformare in potente pozione. Alla fine del Quattrocento, in ambito fiammingo, si discuteva sul potere magico degli specchi, aventi la capacità di rievocare i defunti, predire il futuro e il destino degli uomini. Proprio su questo aspetto,

condannato come vano e superbo dalle autorità ecclesiastiche, insiste ancora Bosch, del quale citiamo un’altra opera su tavola, I sette peccati capitali (1500-25 Madrid, Museo del Prado), formata da sette riquadri entro un cerchio iridato con al centro la figura di Cristo risorto. Lo specchio è protagonista della scena della superbia, sorretto da un diavolo che lo porge a una figura femminile ritratta di spalle, la quale, compiaciuta, vi si specchia; nella stessa opera, in uno dei quattro medaglioni d’angolo raffigurante una scena febbraio

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Archimede in atto di incendiare le navi romane del console Marcello con lo specchio ustorio, olio su tela attribuito a Cherubino Cornienti. 1855 circa. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

divenuta specchio, un vegliardo che sarà perseguitato per viltà. Democrito ammira l’effetto abbagliante dello specchio per meglio concentrarsi e speculare, e Socrate raccomandava ai suoi discepoli di utilizzare lo specchio per meglio riflettere in seno alle azioni compiute (Apuleio, Apologia, XV). Nel III secolo a.C., Euclide, nella Catottrica, spiega che il calore emesso da specchi concavi direzionati verso il sole erano in grado di provocare infernale, un demone mostruoso stringe uno specchio che rivolge innanzi a una peccatrice seduta con un rospo a coprire il suo sesso.

Allontanare la morte

Nel 1510, Hans Baldung Grien dipinge Le Tre età e la Morte (foto alla pagina precedente), protagoniste una bambina avvolta in un velo, una donna anziana e la morte, con in mano una clessidra del tempo che scorre; esse fanno da cornice a una donna giovane, nuda, posta in primo piano, che si guarda in uno specchio ovale dietro al quale è poggiata la mano della donna anziana. Interessante è il gesto espressivo di quest’ultima che mima la volontà di

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alte fiamme, mentre con una coppa aurea, usata alla stregua di superficie riflettente, sarebbero stati accesi i giochi olimpici. Al di là dei racconti leggendari sull’utilizzo della lastra a specchio, l’intuizione di Archimede ha costituito la base per gli odierni forni a energia solare. Una corposa tradizione presenta lo specchio come fonte inesauribile di incantamenti: la luce del Faro di Alessandria riflessa nel mare era cosí intensa che poteva allontanamento della morte. L’immagine della giovane rappresenta il «carpe diem», il presente vissuto nella gioia dell’effimera giovinezza, che inesorabilmente declinerà nella vecchiaia ritratta alla sua destra con espressione contratta, forse a esprimere un sentimento del rimpianto

in lontananza essere scambiata per la luna. Alcuni racconti citano che il faro era dotato di uno specchio apicale, che convogliava le luci provenienti dal mare su un secondo specchio concavo, posto all’interno della struttura, cosí da ingigantire ogni immagine riflessa. Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, XXXIV, 7) afferma che il Colosso di Rodi aveva il petto ornato da uno specchio grandissimo allo scopo di riconoscere le navi che lasciavano l’Egitto. delle cose perdute; l’immagine dello scheletro potrebbe invece alludere alla saggezza che interpreta il tempo come precipitazione inesorabile verso la morte corporale dalla quale, come già affermava san Francesco nel Cantico delle creature (1224 circa) «nullu homo vivente pò skappare». F

Da leggere Jurgis Baltrusaitis, Il Medioevo fantastico, Adelphi, Milano 1993 Marlies Cremer, La presenza di Narciso nella letteratura francese e italiana del Medioevo, tesi di laurea, 2009 (disponibile on line) Jacques Le Goff, La civiltà

dell’Occidente medievale, Einaudi, Torino 1981 Michel Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Einaudi, Torino 2012 Gabrio Pieranti (a cura di), I bestiari medievali, Atlas (disponibile on line)

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Un cantone in piena Regola di Roberto Roveda

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Partito dall’isola natia sul finire del VI secolo, il monaco irlandese Gallo viaggiò per l’Europa per portare il suo messaggio evangelizzatore, fino a stabilirsi in Svizzera, in un eremo nel quale trascorse i suoi ultimi anni di vita. Il suo sepolcro divenne presto meta di pellegrinaggio e cosí i suoi seguaci decisero di fondare in suo nome una piú vasta abbazia, che sorse poco lontano e si affermò come uno dei piú importanti complessi monastici della regione. Carico di storia, quel luogo è oggi uno dei monumenti piú insigni della Confederazione e, con la sua ricca biblioteca, testimonia della preziosa attività culturale svolta dai monaci Abbazia di S. Gallo, Svizzera. Una veduta della biblioteca (Stiftsbibliothek), che si presenta oggi nelle forme conferite al complesso monastico alla metà del Settecento, ma la cui creazione è assai piú antica: lo scriptorium da cui deriva fu infatti realizzato nella seconda metà dell’VIII sec.

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alla cima dei campanili gemelli della cattedrale di S. Gallo lo sguardo spazia oltre i tetti del complesso abbaziale, supera le case dell’omonima cittadina nel Nord della Svizzera, fino a raggiungere le cascate che agitano il fiume Steinach. Poi va ancora oltre le acque increspate dal vento del lago di Costanza, da un lato, e dall’altro le vette innevate del gruppo dell’Alpstein, abbracciando i fitti boschi e i verdi prati ai confine tra Confederazione elvetica e Germania. Nel corso dei secoli, però, il potere dell’abate dell’abbazia di S. Gallo arrivò molto piú lontano di quanto oggi lo sguardo possa spingersi, oltre i fiumi e le montagne, fino all’Austria e alla Germania meridionale. Un potere tanto grande che affondava le sue radici nella leggenda di un umile monaco irlandese del VI secolo: san Gallo appunto.

Una vita per la predicazione

Intorno al 590 il giovane monaco Gallo abbandonò le rassicuranti mura del monastero di Bangor, nell’Irlanda del Nord, per seguire il proprio maestro Colombano e altri undici discepoli in un lungo e periglioso viaggio di predicazione e missione nel cuore del continente europeo. Nelle terre tedesche e in quelle tra le montagne che oggi fanno parte della Svizzera il paganesimo era ancora molto diffuso e c’era molto (segue a p. 78)

La leggenda di san Gallo

In principio fu un orso Lo stemma del Cantone di San Gallo non riporta il profilo del santo monaco o un libro miniato, né la sagoma dell’elegante facciata della chiesa abbaziale come ci si potrebbe aspettare, ma raffigura un orso. L’orso è anche l’attributo iconografico che caratterizza il santo monaco irlandese: non il bastone pastorale, non il libro della predicazione, bensí un grosso orso accovacciato mansueto ai suoi piedi. Narra infatti la leggenda che quando san Gallo stabilí il suo eremo presso le cascate della Steinach, una notte si trovò a dover fronteggiare un grosso orso sbucato all’improvviso dalla folta vegetazione. Per nulla intimidito il monaco parlò all’animale con voce ferma, intimandogli di portare altra legna per il fuoco del bivacco, che si stava spegnendo. Fattosi immediatamente mansueto, l’orso ubbidí, depositando un grosso ceppo tra le braci e il santo ricambiò il favore dando all’animale un tozzo di pane. Stabilita quest’alleanza l’orso se ne andò senza mai piú tornare, a conferma che il luogo scelto da san Gallo per il suo eremo era sicuro e gradito al Signore.

A destra particolare della coperta posteriore dell’Evangelium longum, scolpita a bassorilievo dal monaco Tuotilo di S. Gallo. Avorio. X sec. Abbazia di S. Gallo, Stiftsbibliothek. La scena raffigura la leggenda di san Gallo e l’orso. Nella pagina accanto particolare di un dipinto raffigurante l’abbazia di S. Gallo prima dei rifacimenti occorsi tra il 1755 e il 1766.

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Il monastero «perfetto» Restituzione grafica della Pianta di San Gallo, con l’indicazione di alcuni degli ambienti piú importanti e delle loro funzioni: 1. Tomba del santo (sotto l’altare maggiore). 2. Scriptorium (al piano terra) e biblioteca (al piano superiore). 3. Sagrestia (al piano terra) e sala dei paramenti (al piano superiore). 4. Chiostro dei monaci.

5. Alloggi per i monaci in visita. 6. Alloggio del precettore. 7. Alloggio del Padre guardiano. 8. Cellarium e lardarium. 9. Ostello per i pellegrini. 10. Sala riscaldata (al piano terra) e dormitorium (al piano superiore). 11. Refettorio (al piano terra) e guardaroba per gli abiti e la biancheria (al piano superiore). 12. Cimitero e frutteto.

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13. «Giardino dei semplici». 14. Stanza per i salassi. 15. Alloggio dell’abate. 16. Scuola. 17. Alloggi per gli ospiti. 18. Ricoveri per ovini e bovini. 19. Cucina. 20. Panetteria e birreria. 21. Granaio. 22. Alloggi dei novizi e dei malati. In alto abbazia di S. Gallo, Svizzera. La facciata della cattedrale intitolata all’omonimo santo, nata come chiesa abbaziale del monastero medievale. L’edificio si presenta oggi nelle forme assunte in seguito alla ricostruzione settecentesca. Nella pagina accanto particolare del recto del Codex Sangallensis 1092, meglio noto come Pianta di San Gallo. IX sec. Abbazia di S. Gallo, Stiftsbibliothek.

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lavoro per i monaci evangelizzatori. Dopo anni di pellegrinazioni, coronati da numerose conversioni, ma anche inaspriti da privazioni e persecuzioni, la comitiva di monaci arrivò ad Arbon, nei pressi del lago di Costanza – il Lacus Brigantinus nella toponomastica

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dell’epoca – e qui Gallo si ammalò gravemente, tanto da non poter proseguire oltre, ed essere costretto ad abbandonare i compagni. L’infermità dovuta alla malattia fu aggravata dalla disapprovazione di Colombano, convinto che il difebbraio

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Alcune immagini dell’Evangelium longum, le cui coperte furono scolpite dal monaco Tuotilo di S. Gallo su due lastre di avorio, provenienti dall’abbazia di S. Albano a Magonza. X sec. Abbazia di S. Gallo, Stiftsbibliothek.

una dura privazione per il monaco, ma, per rispetto del maestro, si attenne al divieto per molti anni, fino a che una visione celeste non gli portò la notizia della morte di Colombano per la cui anima celebrò una messa in suffragio. Al messaggero divino, ne seguí uno in carne e ossa: un monaco proveniente dal monastero di Bobbio giunse ad Arbon per consegnare a Gallo il bastone pastorale e la nomina a priore, simbolo del perdono di Colombano. Finalmente in pace, Gallo si rimise in cammino, risalí il fiume Steinach fino alle sue insormontabili cascate e lí, con alcuni seguaci, si stabilí in un eremo dove visse seguendo una regola che coniugava elementi della tradizione irlandese con gli insegnamenti colombaniani e norme benedettine. Qui Gallo trascorse lunghi anni, in preghiera e contemplazione, e morí mentre svolgeva la sua missione di predicazione che mai aveva abbandonato: si accasciò davanti ai numerosi fedeli giunti ad ascoltare il suo sermone il 16 ottobre del 640. E ancora oggi san Gallo viene festeggiato in quella data.

Dall’eremo al principato

Gallo fu sepolto in modo semplice, consono alla vita povera e umile che aveva condotto, ma il suo sepolcro divenne fin da subito meta di pellegrinaggio per i fedeli che vi cercavano rifugio dalle difficoltà dell’epoca – erano da poco terminate le invasioni barbariche e tutta l’Europa era a soqquadro – e consolazione dalle sofferenze. Nel 719, qualche decennio dopo la morte di Gallo, Otmaro guidò la comunità che viveva presso le cascate della Steinach alla fondazione di un monastero vero e proprio, di cui assunse la responsabilità di abate, e adottò la Regola benedettina. Fin dalla nascita, il cenobio poté contare su appoggi importanti sia sul territorio, con il sostegno di

scepolo si fosse lasciato vincere dalla pigrizia: a Gallo fu preclusa la possibilità di dire messa e di predicare per aver infranto il voto di obbedienza con il quale s’era impegnato alla peregrinatio pro Domine. Questa proibizione fu

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La santa bibliofila Se ancora oggi possiamo ammirare e consultare il patrimonio della biblioteca dell’abbazia di S. Gallo, il merito è, soprattutto, di Wiborada: la prima donna ufficialmente canonizzata dalla Chiesa nel 1047, per volontà di papa Clemente II. Wiborada era una monaca, che viveva come reclusa presso il monastero sangallese. Conduceva un’esistenza pia di preghiere e digiuni e il Signore le fece dono di alcune visioni che le

permisero di mettere in guardia l’abate Engilberto da un grande pericolo che stava per abbattersi sul cenobio benedettino. Profetizzò il saccheggio dell’abbazia da parte degli Ungari e sollecitò l’abate a mettere in salvo i monaci e la preziosa biblioteca. Nel 926 la profezia si avverò e un’orda di barbari invasori si abbatté sul monastero. I libri e il tesoro dell’abbazia erano in salvo nell’isola di Reichenau, sul lago di Costanza, mentre i monaci avevano trovato rifugio sui monti e nei boschi circostanti. Tuttavia, Wiborada non aveva voluto tradire il voto di clausura e affrontò i nemici armata solo della sua fede, accettando il martirio per mano dei saccheggiatori. A sinistra miniatura del Codex Sangallensis 586, con la piú antica raffigurazione di santa Wiborada. 1430-1436 circa. Abbazia di S. Gallo, Stiftsbibliothek.

Waltram, signore fondiario e tribuno di Arbon, sia alla corte merovingia dei Franchi, grazie all’interesse di Carlo Martello, il maestro di palazzo destinato a diventare famoso per aver fermato l’avanzata degli Arabi a Poitiers, nel 732. La comunità crebbe in fretta e sotto l’egida del primo abate vissero oltre cinquanta monaci che alternavano alla preghiera l’attività all’ospizio per i poveri e al lebbrosario costruiti presso il monastero.

Benvoluta dai potenti

In alto miniatura raffigurante il martirio di santa Wiborada, dal Codex Sangallensis 602. 1451-1460 circa. Abbazia di S. Gallo, Stiftsbibliothek.

L’abbazia continuò a prosperare negli anni, ampliando i propri possedimenti e la propria influenza, sempre grazie al favore dei potenti: gli abati che si susseguirono al comando venivano chiamati a ricoprire funzioni di prestigio nell’organizzazione imperiale; re e imperatori soggiornavano presso il monastero benedettino durante i loro viaggi e ricambiavano l’ospitalità con importanti favori. Nell’818 l’imperatore Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, concesse al monastero sangallese l’immunità e, un ventennio

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li il magnifico Salterio di Wolfcoz, realizzato tra l’820 e l’830, e l’Evangelium longum, miniato e decorato per l’imperatore Carlo Magno. A poco piú di un secolo dalla sua fondazione, la biblioteca sangallese vantava una collezione di oltre 400 volumi, per un patrimonio complessivo di piú di 600 opere di varia natura: testi sacri e di preghiera, ma anche libri dedicati alla poesia, all’astronomia, alla medicina e all’architettura, come la famosa «Pianta di San Gallo», una pergamena raffigurante la configurazione precisa e dettagliata del monastero ideale secondo la concezione dell’età carolingia (vedi alle pp. 76-77). Un vero e proprio tesoro nel cuore dell’Europa altomedievale, un tesoro che i monaci difesero a costo della vita durante l’invasione degli Ungari del 926: il monastero venne saccheggiato e dato alle fiamme, ma la biblioteca fu messa in salvo. Come una fenice, dopo un transitorio periodo di crisi, l’abbazia rinacque dalle proprie ceneri e tornò a crescere e prosperare.

I primi ampliamenti

piú tardi, re Ludovico il Germanico assicurò la libera elezione dell’abate, cancellando gli obblighi verso il vescovo di Costanza. Nell’854 la comunità monastica assurse poi al rango di abbazia imperiale. In quegli stessi anni venne avviata la costruzione di una nuova basilica a tre navate dedicata a san Gallo. La rapida ascesa e il potere sempre maggiore che il monastero andò acquisendo nei primi secoli dalla sua fondazione non furono frutto esclusivamente di un’oculata strategia politico-economica, ma si fondarono anche su una vivace vita culturale. Questa si sviluppò intorno allo scriptorium avviato nella seconda metà dell’VIII secolo e alla scuola conventuale nella quale non venivano istruiti solo i monaci della comunità, ma anche numerosi membri dell’élite laica ed ecclesiastica, che, con il crescere del prestigio dell’abbazia, provenivano sia dal territorio locale, sia da aree piú lontane. Dalle sapienti mani dei monaci scrivani e copisti attivi presso lo scrittorio nacquero capolavori ancora oggi conservati presso la biblioteca dell’abbazia, qua-

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Chissà se i monaci amanuensi, intenti a copiare un antico testo o a stendere con mano leggera e precisa il minio, il nerofumo o l’orpimento (pigmento di colore giallo, ricavato dall’omonimo minerale, n.d.r.) sulla pagina da decorare, erano infastiditi dal martellare vigoroso di carpentieri e scalpellini all’opera nei numerosi cantieri che via via vennero inaugurati per ampliare l’abbazia di S. Gallo a partire dalla seconda metà del X secolo. Pittori, intagliatori e maestri vetrai vennero chiamati a decorare la chiesa abbaziale e, accanto alla basilica principale, sorsero numerose cappelle, mentre il complesso monastico e le case attigue vennero racchiuse da un’alta cinta muraria, fortificata con ben tredici torri. La comunità monastica voluta da san Gallo era quindi in costante crescita, diventava sempre piú potente e, come accadeva all’epoca, l’abbazia era anche un grande centro di potere, immerso nella vita politica del tempo. Gli abati di S. Gallo non dimenticarono mai quanto la prosperità dell’abbazia fosse debitrice del sostegno imperiale e, nel corso delle lotte per le investiture – che alla metà dell’XI secolo videro l’imperatore Enrico IV scontrarsi con papa Gregorio VII – e nel conflitto tra papato e impero che si trascinò per oltre due secoli, scelsero sempre di sostenere e mantenersi sotto l’ala protettrice dell’aquila imperiale. Nel XIII secolo l’abbazia e la città omonima divennero un principato indipendente, sul quale gli abati regnarono vantando il titolo di principe del Sacro Romano Impero. In pieno Medioevo l’abbazia era quindi diventata un centro di potere politico piú che un luogo di preghiera e di ascesa spirituale, e questo alimentò piaghe come la corruzione e la libertà nei costumi dei monaci. Inoltre l’onerosa macchina amministrativa, politi-

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Nella pagina accanto pagina miniata di un sacramentario raffigurante le Marie al Sepolcro. XI sec. Abbazia di S. Gallo, Stiftsbibliothek. La presenza delle tre donne è attestata da tutti e quattro i Vangeli canonici, ma con alcune differenze tra le diverse redazioni. Dall’insieme dei dati, esse vengono comunque identificate con Maria, madre di Gesú, Maria Maddalena, detta anche Maria di Magdala, e Maria di Cleofa.

ca ed economica in cui nel frattempo S. Gallo si era trasformata richiedeva risorse sempre piú ingenti e la difficoltà a reperirle – anche a causa della contrazione del patrimonio fondiario dovuta alla strategia di alienazione, da parte degli imperatori, di beni a favore della nobiltà laica per garantirsene la fedeltà – favorí il lento declino del monastero benedettino. Una crisi che coinvolse anche lo scriptorium, che, alla soglia del XIII secolo, interruppe la propria attività.

Nuova vita tra le antiche mura

Tuttavia, il monastero di S. Gallo non era destinato a languire e a spegnersi per l’inedia spirituale e culturale in cui stava sprofondando. Agli inizi del Quattrocento, dopo le traversie del secolo precedente – culminate nel trasferimento della sede papale ad Avignone –, iniziarono a spirare nuovi venti riformatori un po’ in tutta la Chiesa. Solo dopo la metà del secolo, però, si poté assistere a una vera e propria svolta per l’abbazia di S. Gallo. Motore del cambiamento fu l’abate Ulrich Rösch (1426-1491), il quale, nei quasi trent’anni trascorsi alla guida del monastero (dal 1463), riuscí a riportarlo agli antichi splendori, riconducendolo sulla retta via di una rigida vita di clausura, illuminata da una grande vitalità culturale, che ruotava intorno alla scuola conventuale e alla biblioteca, che venne riorganizzata e ulteriormente arricchita con nuove opere, tra cui i primi incunaboli usciti dalle neonate stamperie. L’abbazia stessa ebbe poi una propria stamperia a partire dalla metà del XVI secolo. L’attività riformatrice portò una vera e propria sferzata di energia. Tuttavia, la strategia dell’abate Ulrich Rösch per ripristinare il prestigio dell’abbazia sangallese si spinse forse fin troppo oltre, rischiando di decretarne addirittura la fine: convinto che il potere del monastero non potesse essere limitato dal potere secolare della cittadina di San Gallo – con cui era entrato in conflitto per ragioni economiche e fondiarie – Rösch decise di trasferire l’intero cenobio a Rorschach, dove sorgeva un’abbazia da lui stesso fondata. L’abate aveva dalla sua il consenso del papa e dell’imperatore, ma non quello della gente di San Gallo, dell’Appenzello e del Rheintal, che insorse e, armi in pugno, sventò il piano di trasferimento. Da allora nessuno piú propose di sciogliere il matrimonio che univa il monastero di S. Gallo al suo territorio storico e ancora oggi, dopo

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incendi, saccheggi, restauri, ampliamenti, rimaneggiamenti e soppressioni l’abbazia è ancora al suo posto, lungo la Steinach, e lí possiamo ammirarla.

Il tempo si è fermato

All’abbazia di S. Gallo, in un certo senso, il tempo si è fermato al maggio del 1805, quando, a seguito delle campagne napoleoniche, fu decretata la fine del principato abbaziale e sancita la soppressione del monastero. Negli anni successivi la chiesa abbaziale venne elevata a cattedrale e molti degli edifici ripresero vita grazie alle istituzioni religiose e culturali, ma i monaci non tornarono mai piú ad abitare le antiche mura, riconosciute Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 1983. Chi oggi si rechi a S. Gallo alla ricerca del glorioso passato medievale dell’abbazia deve avere la pazienza di andare oltre l’apparenza: l’attuale chiesa e la biblioteca, infatti, sono frutto di un radicale rifacimento, operato tra il 1755 e il 1766. La chiesa abbaziale del IX secolo venne abbattuta per fare spazio al progetto di Gabriel Loser, Johann Caspar Bagnato e Peter Thumb, i quali realizzarono una basilica barocca con doppio campanile e un corpo centrale a cupola, riccamente decorata con un coro ligneo, affreschi e stucchi rococò. Tuttavia, nel lapidarium presso la cattedrale, si possono ancora ammirare alcuni elementi sopravvissuti della chiesa e degli edifici monastici originali, gioielli della scultura di epoca carolingia. Oggi come nel Medioevo, il vero tesoro di S. Gallo è la Stiftsbibliothek, la biblioteca. Caratterizzata da una magnifica sala barocca, racchiude in sé oltre milleduecento anni di storia, con un patrimonio eccezionale di oltre 160 000 volumi, tra manoscritti, incunaboli e opere a stampa. I manoscritti qui gelosamente conservati sono piú di 2200, tra i quali un corpus di circa 500 esemplari di manoscritti carolingi-ottoniani dall’VIII fino all’XI secolo, come il Codex Abrogans: opera dell’VIII secolo attribuita ad Arbeo di Frisinga – vescovo e uomo di lettere austriaco dell’epoca – e considerata uno dei piú antichi testi in lingua tedesca giunti fino a noi. Umberto Eco, che per la straordinaria biblioteca immaginata per Il nome della Rosa si ispirò proprio alla Stiftsbibliothek di S. Gallo, cosí scriveva nel suo celebre romanzo: «Il bene di un libro sta nell’essere letto. Un libro è fatto di segni che parlano di altri segni, i quali a loro volta parlano delle cose. Senza un occhio che lo legga, un libro reca segni che non producono concetti, e quindi è muto. Questa biblioteca è nata forse per salvare i libri che contiene, ma ora vive per seppellirli». Al contrario, la Stiftsbibliothek sangallese mantiene vivo l’amore per la cultura che le ha dato vita oltre dodici secoli fa e anzi le consente di entrare nel futuro con il progetto di digitalizzazione dei suoi codici, che viene portato sistematicamente avanti da circa dieci anni a questa parte.

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MEDIO EVO Dossier

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VIAGGIO NEI CASTELLI D’EUROPA

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● Dalle torri normanne ai bastioni rinascimentali ● Lungo il Reno e la Loira Fortezze moresche e castelli crociati ● Le residenze dei Visconti e degli Sforza ● Nei luoghi della leggenda: sulle tracce di Robin Hood, Macbeth, Frankenstein e Dracula…

N°24 Gennaio 2018 Rivista Bimestrale

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VIAGGIO NEI CASTELLI D’EUROPA

29/11/17 18:28

Affermare che il castello sia il piú diffuso e tangibile simbolo del Medioevo non è esagerato: strutture fortificate piú o meno possenti sono presenti in ogni angolo d’Europa e non solo, testimoni delle mille vicende di cui furono teatro. E, soprattutto, il castello non fu solo un’espressione architettonica, ma anche il segno, chiaro e forte, del potere. Per questo furono spesso durissime le lotte combattute per acquisirne il controllo, e l’età di Mezzo è costellata di episodi nei quali gli assedi assunsero contorni leggendari. Il nuovo Dossier di «Medioevo» prende dunque le mosse dalle gesta di re e cavalieri, ma anche di molti ignoti e tenaci combattenti, per portarci alla scoperta di un patrimonio straordinariamente ricco e variegato.

ORA IN EDICOLA


di Paolo Garbini

UNA LINGUA PER L’

EUROPA

Quella che stiamo vivendo viene spesso etichettata come l’epoca della globalizzazione, anche se, sul piano culturale, si tratta spesso di una suggestione piú che di un fenomeno reale. Nel Medioevo, invece, si verificò qualcosa di assai piú durevole e radicato, grazie alla lingua latina: l’idioma ricevuto in eredità dall’impero romano accomunò, infatti, un’area vastissima, che coincideva con l’intero Vecchio Continente. E della sua diffusione è oggi testimonianza un ricco patrimonio letterario Severino Boezio attorniato dalle Muse, con, sulla destra, la Fortuna, rappresentata cieca e con due teste, che gira la ruota con le quattro condizioni umane, secondo una concezione elaborata daI filosofo latino nel De consolatione philosophiae, qui illustrata da una miniatura realizzata per un’edizione manoscritta dell’opera prodotta in Olanda. 1492. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


Dossier Il testo che presentiamo come Dossier di questo mese è stato pubblicato per la prima volta nel n. 27 di «Medioevo», dell’aprile 1999. La scelta di proporlo nuovamente all’attenzione dei lettori è stata dettata dalla convinzione che, alla luce dei piú recenti avvenimenti di politica internazionale, esso abbia riacquistato una sorprendente attualità e possa offrire piú di uno spunto di riflessione di fronte ai ripetuti proclami di quanti si oppongono all’unità del nostro Continente.

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n’amnesia totale ha sottratto all’orizzonte dell’uomo contemporaneo non solo la conoscenza, ma persino la nozione di un giacimento letterario preziosissimo e inesauribile: la letteratura latina medievale, un fenomeno che – per durata, estensione e portata – non ha avuto eguali nella storia della cultura dell’Occidente.

Sulle due pagine Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore. Particolare della decorazione ad affresco della copertura, opera di Giotto, raffigurante san Gregorio Magno nello scriptorium. 1290-1295. L’opera è andata in larga parte perduta a causa del terremoto che ha colpito anche Assisi nel 1997.

A sinistra una pagina da un manoscritto contenente i Dialoghi di san Gregorio Magno. VIII-IX sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

Gli agenti patogeni di questa corrosione epidemica della memoria sono antichi e ben radicati, come sanno esserlo i pregiudizi. Innanzitutto, il modello dei classici, vincente a partire dall’Umanesimo, per cui solo la cultura greca e quella latina sono state ritenute all’altezza di esemplificare i perpetui valori dell’Umanità e dunque privilegiate nell’insegnamento scolastico. Quindi il pregiudizio romantico che, esaltando l’originalità dell’espressione artistica, ha relegato tra le anticaglie prive di lucentezza una letteratura che si presenta in buona parte anonima e apparentemente sprovvista del concetto di autore. Per finire, il tribunale idealistico, che ha frettolosamente tacciato di non-poesia tutte le scritture (didascaliche, retoriche, teologiche) estranee all’effusione lirica. Questi fattori, travasati nei programmi febbraio

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scolastici, ci hanno fatto dimenticare quell’immensa biblioteca di testi scritti in latino durante il Medioevo, dunque – convenzionalmente – per circa mille anni. In ambito culturale possiamo infatti fissare l’inizio del Medioevo al VI secolo, quando cioè sono entrati ormai in gioco tutti quei fattori grazie ai quali può parlarsi di cultura medievale: è il tempo della Ravenna di Teodorico, di Boezio e di Cassiodoro, è l’età di Gregorio Magno e di san Benedetto. Per segnare la fine del Medioevo, occorrono invece due traguardi; se ragioniamo in termini di cultura europea, si può parlare di Medioevo fino all’epoca della Riforma, dunque fino all’inizio del Cinquecento, con Erasmo e Lutero; se circoscriviamo la nostra attenzione alla cultura italiana, il Medioevo si fa terminare con Dante fra Due e Trecento, quando cioè ap-

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paiono evidenti le prime manifestazioni dell’Umanesimo: i padovani Lovato Lovati e Albertino Mussato e poi il loro fulgido continuatore, Francesco Petrarca, che conquistò il primato culturale in tutta Europa grazie alle sue opere in latino prima che con quelle in italiano.

Confini sterminati

Mille anni di testi, dunque, per di piú scritti in un’area che oltrepassa di molto i confini, che pure erano sterminati, dell’impero romano – dal Portogallo alla Polonia, dalla Scozia alla Sicilia – in tutta quella che oggi è la nostra Europa. Per dieci secoli è esistita una letteratura in latino: nessuna letteratura è mai durata tanto nel tempo come espressione di uno spazio del mondo cosí ampio. Chi ha voluto fare un calcolo approssimativo di questa produzione si è trovato un totale

che genera sgomento: oltre 18 000 testi. Sono davvero tanti, se si pensa che i testi della letteratura latina classica sono circa cinquecento: pochi scaffali (o se si preferisce un solo CD-Rom) contro una intera biblioteca (o una piccola pila di CD). Tuttavia, se il confronto con la letteratura latina classica risulta vincente sotto il profilo della quantità di testi, è d’altra parte perdente dal punto di vista delle nostre conoscenze. Della letteratura latina classica, infatti, moltissimo è andato perduto, ma, in compenso, sappiamo quasi tutto su ciò che è rimasto: a partire dal Quattrocento e fino a oggi, gli studi sulla letteratura latina classica non hanno conosciuto interruzioni. Per questo disponiamo di un’anagrafe completa di autori e opere, e possiamo giovarci quasi per ciascun testo di numerose edizioni, traduzioni, commenti. Tutto il ma-

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Dossier

Miniatura raffigurante due monaci amanuensi che presentano al vescovo un manoscritto completato, da un messale romano. XIII sec. Cava de’ Tirreni, Archivio dell’abbazia.

teriale classico è stato, per di piú, varie volte e variamente rielaborato da una abbondante tradizione di storie letterarie. Della letteratura latina medie-

vale (o letteratura mediolatina) si è invece conservato moltissimo, ma proprio per questo, oltre che per i pregiudizi che abbiamo evocato prima, se ne conosce ben poco. L’attrezzatura del mediolatinista è infatti ancora approssimativa, anche se molto si è fatto e si sta facendo, proprio in Italia (da segnalare le iniziative del Centro italiano per lo studio dell’Alto Medioevo di Spoleto, CISAM, e della Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino, SISMEL, e della Fondazione Ezio Franceschini di Firenze: punti di riferimento per la medievistica mondiale). Ma molti testi, anche fondamentali, sono tuttora inediti oppure sopravvivono in edizioni antiche; scarseggiano le storie letterarie e i vocabolari. Nonostante queste e altre difficoltà, la letteratura latina medievale merita di essere conosciuta e amata, e non solo dagli studenti universitari che si interessano di Medioevo o storia letteraria, ma da ogni persona di cultura. Anticipiamo un motivo generalissimo. L’Europa dei nostri giorni cerca di rafforzare il senso di comunanza tra le diverse componenti del Vecchio Continente, ma sembra faticare a riconoscere una sua identità fondata su una memo-

Opere seminali

I magnifici cinque Ogni epoca sacrifica all’altare di quei libri in cui riconosce se stessa. Il Medioevo ebbe naturalmente un edificio sacro, la Bibbia (conosciuta nella versione latina di san Girolamo), al cui riparo troviamo tuttavia alcuni testi dei secoli VI-VII che furono altrettanto fondanti per la cultura medievale. Letti, meditati, trascritti infinite volte, entrano tutti in uno scaffale ma hanno generato intere biblioteche. Quattro furono

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scritti nell’Italia dei Goti di Teodorico e dei Longobardi, uno nell’aurea Spagna dei Visigoti. Ricordiamoli. La Consolatio philosophiae di Boezio (480 circa524 circa), testo davvero di confine: tra la vita e la morte del suo autore (accusato di avere tramato contro Teodorico, Boezio la scrisse nel carcere in attesa dell’esecuzione), tra la prosa e la poesia (è un prosimetro), tra la disperazione e la speranza, tra l’Antico e il Medioevo. febbraio

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l’enciclopedismo

Un sapere sconfinato

Miniatura raffigurante il cielo, il sole, la luna e i segni dello Zodiaco da un’edizione del De Universo di Rabano Mauro. IX sec. Montecassino, Archivio dell’abbazia.

ria condivisa da tutti. Ed è proprio nell’oblio di sé che l’identità rischia di appannarsi. In questa situazione, la conoscenza – il ricordo – della cultura mediolatina può fornire strumenti culturali utili per riuscire nel tentativo. La letteratura latina

medievale è infatti l’espressione di una unità – nella diversità – che un tempo c’è stata: l’unità linguistica e culturale che ha tenuto compatto per secoli un continente sul quale si avvicendavano o anche coesistevano particolarismi (nazionali,

Le Institutiones, con cui Cassiodoro (490 circa580 circa) sancí l’esistenza di due culture – le divinae litterae e le saeculares litterae – articolando le seconde in sette arti liberali e in due incroci: il trivio (grammatica, retorica, dialettica) e il quadrivio (aritmetica, musica, geometria, astronomia). I Dialogi di Gregorio Magno (560 circa-604), quattro libri in cui il papa, altrove raffinato commentatore biblico, trova le vette dell’espressione nel raccontare con il sermo humilis, lo stile cioè adatto a un pubblico di incolti e per questo adottato dagli scrittori cristiani, le storie dei santi italici: nel secondo libro, con intuizione geniale, il papa costruisce e

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L’enciclopedismo medievale produsse numerose opere. Fu la periodica ricapitolazione di un sapere sentito come sconfinato, un’esigenza mai spenta di dare ordine all’universo: nel IX secolo troneggia l’enciclopedia del carolingio Rabano Mauro, il De universo seu de rerum naturis; in seguito un settore specialistico dell’enciclopedismo fu quello dei vocabolari, quali l’Elementarium doctrinae rudimentum del lombardo Papia (XI secolo), le Derivationes di Osberno di Glouchester (XII secolo), il Liber derivationum di Uguccione da Pisa (XII secolo), il Catholicon di Giovanni Balbi; alla «rinascita» del XII secolo risalgono il Didascalicon di Ugo di San Vittore e il De philosophia mundi di Guglielmo di Conches; del Duecento sono le enciclopedie di Vincenzo di Beauvais, lo Speculum Maius (suddiviso in tre parti: Historiale, Naturale, Doctrinale, a cui presto fu aggiunta una quarta, Morale, non di Vincenzo) e i vari trattati di Alberto Magno (De vegetalis et plantis, De meteoris, De mineralibus, ecc.); chiudono l’erudizione enciclopedica medievale le opere di Ruggero Bacone (1210-1294 circa) Opus maius, Opus minus, Opus tertium e i numerosissimi trattati (piú di duecentocinquanta in latino e in catalano) di Raimondo Lullo (1235-1316). regionali, cittadini) e aspirazioni universali (la Chiesa e l’impero). Disparatissimi per qualità, dislocati dovunque nell’Europa delle foreste, migliaia di uomini hanno consegnato certezze, terrori, aspi(segue a p. 92)

consegna all’Occidente il mito di san Benedetto († 547), la cui Regola, che trovò la massima diffusione solo a partire dall’VIII secolo, riuní in un’unica ispirazione religiosa gli infiniti monasteri dislocati in tutta l’Europa. Le Etymologiae di Isidoro (570 circa-636), vescovo di Siviglia, che, in venti libri, raccolse e trasmise ai secoli a venire tutto quello che riuscí eroicamente a sapere sul mondo antico, ordinando uno sterminato materiale secondo lemmi di cui forní anche fantasiose etimologie, oggi senza senso se le leggiamo con la scienza della linguistica, ma talvolta illuminanti se le leggiamo con la disponibilità della letteratura.

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Dossier Uno scriptorium monastico nel XII secolo

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Lo scriptorium del monastero era situato in genere vicino alla biblioteca, ma poteva contenere esso stesso gli armaria (qui riprodotti sulla parete di fondo), dove venivano conservati i codici. All’interno dello scriptorium, molti erano i ruoli: la copiatura spettava ai calligrafi, la decorazione ai miniaturisti e agli alluminatori, mentre i legatori provvedevano al completamento dell’opera. I copisti (1) che nell’Alto Medioevo lavoravano tenendo la pergamena sulle ginocchia, successivamente iniziarono a utilizzare tavoli d’appoggio, a volte con il piano inclinato (2); il manoscritto da copiare era poggiato su un leggío (3) fissato a un supporto articolato. Tra gli utensili del copista, il calamaio, alcune penne di grosso volatile (in genere d’oca, ma anche di corvo o d’aquila), uno stilo con la punta di piombo, un righello, pietre pomici per cancellare, un coltello. Il miniaturista (4) iniziava tracciando con uno stilo i contorni del disegno, che poi ripassava con l’inchiostro; la miniatura poteva essere alluminata applicando una sottile lamina d’oro sul fondo trattato con un collante. Ai novizi (5) spettavano in genere lavori di preparazione, come lisciare i fogli di pergamena per rimuovere le imperfezioni e tracciare le linee parallele che avrebbero guidato la mano del copista. Nella scena a destra (6), un fabbricante di pergamena consegna i fogli al monaco responsabile dello scriptorium. Prima di poter essere utilizzata, la pelle (di montone o vitello, ma anche, per le opere piú pregiate, di capretto o vitello neonati o abortiti, da cui si otteneva il cosiddetto «velino») doveva subire un bagno di calce, una successiva raschiatura, per eliminare i peli e i residui di carne, e infine una sbiancatura con gesso o talco.

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Dossier Poesia carolingia

Che la luna sia pegno dell’amore Sino a non tanto tempo fa sarebbe risultato davvero difficile unire al sostantivo poesia l’aggettivo carolingia. Certo, era ben nota la versificazione carolingia, ma non se ne riusciva a intendere il valore poetico. Scavi critici raffinati, coadiuvati anche da traduzioni all’altezza, hanno invece svelato una insospettata vitalità e capacità poetica, applicata per giunta a temi numerosi e diversi: la poesia, la scuola, la cultura, l’amicizia, il simbolo e l’enigma, la Bibbia, Dio. Fitto è il drappello dei poeti della corte di Carlo Magno e dei suoi successori: Paolo Diacono, Alcuino di York, Teodulfo di Orléans, Valafrido Strabone, Gotescalco di Orbais, Sedulio Scoto... per citare i maggiori, ma l’elenco è ben piú ricco. Si legga, nella traduzione di Francesco Stella, la lirica forse piú bella del Medioevo latino, scritta da Valafrido Strabone per un amico. Splendido esempio di quella poesia dell’assenza che ebbe in Petrarca il suo massimo cantore, i versi di Valafrido sembrano scritti sotto lo stesso chiarore lunare che secoli dopo illuminò i fogli di Giacomo Leopardi: «Quando la luce pura / brilla di luna in cielo / tu mettiti all’aperto / e guarda bene / spettacolo stupendo, / come la luna splende / fuoco di torcia puro / e col bagliore suo riesce a abbracciare / due amici con il corpo già lontani / ma stretti dall’affetto della mente. / Se il volto tuo non può guardare il volto / di quello che ti ama, almeno a noi / la luna resti pegno dell’amore. / Questi versetti ti mandò fedele / amico, e se dalla tua parte è ferma / di fedeltà ben la catena / ti prego, sii felice / nei secoli dei secoli». In alto miniatura raffigurante l’evangelista Luca, dall’Evangeliario di Godescaco (detto anche «di Carlo Magno»). 781-783. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra miniata raffigurante l’abate Viviano e i canonici di St. Martin di Tours che fanno dono della Bibbia a Carlo il Calvo, dalla Prima Bibbia di Carlo il Calvo. 845-846. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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razioni, ossessioni a testi scritti in latino. Questo è il bello per chi entra nella letteratura latina medievale: con il dominio di una sola lingua, il mediolatino, si possono percorrere a piacimento mille anni e un intero continente, eppure anche negli angoli piú remoti del tempo e dello spazio si coglie sempre qualcosa di familiare. Perché quel passato, il Medioevo, è il nostro ieri e i testi mediolatini sono la madeleine di proustiana memoria per riviverlo.

I tre assi

Questo punto merita una precisazione, perché ci si potrebbe chiedere per quale motivo l’identità culturale europea non si possa far risalire all’epoca dell’impero romano, dato che anche allora esisteva una unità linguistica in aggiunta, oltretutto, a quella politica. La risposta a questa domanda consente di precisare di quali materiali sia costituita la letteratura latina medievale. Il Medioevo latino bisogna immaginarlo tridimensionale, definito cioè da tre assi. Prima del Medioevo, gli assi erano solo due: quello classico e quello cristiano. Queste due coordinate disegnavano il paesaggio – raffinato, ma febbraio

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Miniatura raffigurante il giurista e notaio Pietro da Anzola mentre commenta un testo giuridico durante una lezione all’Università di Bologna, dal manoscritto Liber iurium et privilegiorum notariorum Bononiae. 1474-1482. Bologna, Museo Civico Medievale.

Sussidiari di successo Nelle classi corrispondenti alle nostre scuole medie, gli studenti medievali, dopo avere imparato a leggere sul Salterio, dovettero affrontare, per secoli e in tutta Europa, la lettura di alcuni libri scolastici adottati dai maestri per il loro alto valore pedagogico. I piú diffusi sono chiamati Auctores octo, con un titolo che ricevettero quando furono raccolti e stampati a partire dalla metà del Quattrocento. Queste le otto opere: i Disticha Catonis, l’Ecloga di Teodulo, il Facetus in esametri, la Chartula, il Tobias di Matteo di Vendôme, il Doctrinale (o Liber parabolarum) di Alano di Lilla, l’Esopus nella redazione nota sotto il nome di Waltherius Anglicus o dell’Anonymus Neveleti, il Floretus. Tra i libri di testo piú diffusi al di fuori di questa raccolta, merita una menzione la Vita scolastica di Bonvesin da la Riva (1250 circa-1313/15). Sorta di catechismi, galatei per ragazzi, manualetti di buon comportamento per ogni occasione, questi edificanti sussidiari medievali, nonostante gli anatemi di numerosi umanisti – tra i quali Petrarca e Leon Battista Alberti –, conobbero un successo strepitoso e furono stampati innumerevoli volte fino a tutto il Cinquecento.

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Dossier anche estenuato – della cultura latino-cristiana tardo-antica, sviluppatasi a partire dall’editto con cui Costantino, nel 313, aveva innalzato il cristianesimo a religione di Stato. Ma quando, nel V secolo, i Germani irruppero nei confini dell’impero, in quel paesaggio ormai pacificato piombò dal Nord una cultura extra-classica, extracristiana, non scritta, ma ricchissima di tradizioni folcloriche. Sembrò un meteorite, ma in realtà era un fossile, recante impressi miti, storie, immagini e personaggi di duemila anni prima. Era un fossile, certo, eppure era carico di futuro, perché dal suo impatto nacque un’epoca nuova.

Un invito alla lettura

Questa novità trovò forma nella letteratura mediolatina, che è il luogo in cui si sintetizzarono le culture classica, cristiana, germanica e celtica. Intrecciando gli elementi dell’Antico, della Sacra Scrittura e dell’oralità, la letteratura latina medievale racconta dunque la storia di quei giorni in cui c’eravamo tutti noi che oggi ci chiamiamo Europei. Da quanto si è detto finora

A destra miniatura raffigurante Ildegarda di Bingen che riceve una visione alla presenza del monaco Volmar e della monaca Richardis e redige le sue opere, dall’edizione del Liber Divinorum Operum contenuta nel Codice lucchese 1942. XIII sec. Lucca, Biblioteca Statale. In basso due pagine miniate dal libro della Genesi tratte dalla cosiddetta Bibbia di Farfa o di Ripoll. XI sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

si può comprendere che non è possibile abbreviare nel poco spazio a nostra disposizione un’intera letteratura millenaria. Qui si daranno alcune coordinate e qualche suggestione, che valgono come semplice invito alla lettura. Nel Medioevo si scrive diversamente da come si parla: i Germani arrivati nel V secolo parlano le loro lingue; tra il 600 e l’800 prendono forma e autonomia di sistema linguistico i diversi volgari romanzi, eppure tutti scrivono in latino e continuano a scrivere per secoli in latino, anche dopo che le lingue volgari cominciano a colorarsi d’inchiostro sulle pagine dei manoscritti (nel IX secolo in Francia, nel X in Italia). Certo il latino era la lin-

gua della Chiesa e dell’amministrazione nonché della cultura dell’impero, ma, oltre a queste garanzie di efficacia, la tradizione consolidata e il prestigio monumentale del latino assicuravano anche una dilatazione dell’esperienza al di là della limitatezza tribale o regionale; al barbaro, o al romano imbarbarito, la parola amor spalancava verità impensate: è l’amore di Didone, è l’amore di Dio, è l’amore di tutte le generazioni che lo hanno preceduto, è l’amore che dovunque sia scritto e letto viene inteso. Il latino medievale non è dunque una lingua materna, perché si

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Una scoperta recente

Donne di lettere Solo in anni recenti si è avviata l’esplorazione del mondo della letteratura medievale femminile, che conta moltissime e significative testimonianze sia in latino che nei volgari. Oltre al rinomato caso di Eloisa, tra le scrittrici in latino figure incisive sono Dhuoda (IX secolo), che scrisse un accorato manuale di educazione per il figlio; Rosvita, badessa di Gandersheim (X secolo), autrice di opere agiografiche e storiche in versi e soprattutto di sei drammi che emulano quelli di Terenzio, ma di ispirazione cristiana; Trotula (XI secolo), ginecologa alla famosa scuola di medicina di Salerno (vedi «Medioevo» n. 252, gennaio 2017); Ildegarda di Bingen (XII secolo), poliedrica scrittrice di etica, medicina, mistica, cosmologia.

impara a scuola, ma è pur sempre una lingua paterna. Contrariamente a quanto potrebbe credersi, il latino medievale non è la mera prosecuzione del latino classico: questa prosecuzione è infatti rappresentata dalle lingue romanze, che sono l’esito oggi irriconoscibile del latino parlato. Il latino medievale, soprattutto nell’Alto Medioevo, ha dovuto invece continuamente rinnovarsi proprio per non diventare un volgare e cosí, grazie alla sua creatività grammaticale, sintattica e soprattutto terminologica, si è differenziato anche dal latino classico. La vivezza del latino medie-

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vale è tutta in questa lotta secolare con il passato dei classici e con il presente dei volgari che ha preceduto, alimentato e accompagnato.

Il «problema della fine»

Libero dall’assillo del «mito delle origini», il mediolatinista deve tuttavia fare i suoi conti con il «problema della fine». Ed è curioso che questa fine non l’abbiano decretata i volgari, ma il latino stesso, nel momento in cui l’Umanesimo, recuperando e idolatrando il canone linguistico dei classici, cancellò per sempre ottocento anni di creatività. E cosí, per ciò che riguarda la lingua

letteraria, quello che sembrò ai suoi celebranti un battesimo fu invece un funerale. Mille anni di mutevolissima geografia politica hanno condizionato i luoghi della produzione letteraria. Impensabile impaginare qui anche solo le principali vicende; proviamo allora a immaginare una storia che procede per respiri. Quando tutto in Europa rovinò e l’impero fu scompaginato, venne meno naturalmente anche la coesione del sistema scolastico. Il cambio della classe politica e l’egemonia spirituale cristiana ebbero come conseguenza che i residui della cultura classica furono trasmessi dagli ambienti ecclesiastici. La scuola non morí, ma si trasformò: venne affidata all’iniziativa delle sedi episcopali e dei monasteri, nei quali si copiavano i testi classici e su quelli si insegnava

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Dossier lettere d’amore

Tutti al tavolo del dettatore Sulla estensione della letteratura a un largo pubblico di fruitori a partire dal XII secolo, leggiamo quanto scrive Boncompagno da Signa, fra i piú rinomati professori di retorica a Bologna tra XII e XIII secolo, nella sua Rota Veneris, un curioso trattato di epistolografia d’amore. Secondo Boncompagno, si possono rivolgere ai dettatori (cioè ai compositori di lettere) tutte le categorie degli amanti, e cioè laici e chierici. I laici si suddividono in cavalieri e fanti; i cavalieri in re, duchi, principi, marchesi, conti, signori e valvassori; i fanti a loro volta in cittadini, abitanti dei villaggi, contadini, liberi e servi. I chierici si suddividono in prelati e sottoposti. A questi Boncompagno aggiunge poi le donne, di ogni condizione sociale, laiche e religiose. Tutti costoro insomma possono scrivere o farsi scrivere lettere d’amore. Il composito mondo tardo-medievale si riunisce al tavolo dell’amore e su quel tavolo ci sono fogli, penne e inchiostro: i protagonisti narranti e il pubblico del Decamerone nascono qui.

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In basso particolare di una miniatura dal Codex Manesse, manoscritto realizzato per un ricco committente zurighese, raffigurante il poeta Meinloch Von Sevelingen che corteggia una giovane fanclulla. XIV sec. Heidelberg, Biblioteca Universitaria.

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il latino, perché il clero e i monaci fossero in grado di leggere la Bibbia e i Padri; la «forma» era nei classici, la «verità» nella Bibbia. È vero che tra il VI e il VII secolo centri attivi di cultura in Occidente erano ancora città come Ravenna, Pavia e Roma – cioè le tre capitali dei Bizantini, dei Longobardi e dei cristiani –, ma furono le sedi episcopali e soprattutto le fondazioni monastiche, che nel tempo punteggiarono fittamente l’Europa, a rendersi depositarie del sapere: Montecassino, Novalesa, Bobbio, Farfa, Pomposa, San Vincenzo al Volturno, Lindisfarne, Kells, Bangor, Tours, San Gallo, Luxeuil, Reichenau, Treviri, Metz sono solo alcuni nodi di una rete culturale, oltreché spirituale, che dispiegandosi ha coperto tutte le terre del Medioevo occidentale. Nei secoli alti la cultura medievale si presenta dunque frammentata, nonostante i rapporti tra i singoli centri fossero vivi e malgrado i valori unitari espressi dalla religione. Fino all’VIII secolo si verifica e si assesta un particolarismo politico e culturale dovuto alle diverse attitudini dei popoli germanici, che si sono distribuiti e impossessati della geografia imperiale, e alle diverse modalità della loro integrazione. Gli antichi orizzonti si chiudono, gli interessi e le competenze si restringono. Non si può ancora parlare di letterature nazionali, però è vero che corrono differenze peculiari nella produzione latina di Irlandesi, Merovingi, o Visigoti.

Corazze come preghiere

Un caso esemplare in proposito è dato da alcuni generi letterari latini prodotti da autori di origine irlandese o inglese, come le loriche (= corazze, cioè preghiere in versi per proteggersi dai colpi del Male), i racconti di viaggio, le visioni, che nei secoli altomedievali risultano strettamente accomunati alla letteratura irlandese volgare, da cui

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quella mediolatina mutua atteggiamenti poetici, come, per esempio, la capacità di contemplare la natura: le due letterature andrebbero lette come pentagrammi sovrapposti di un’unica partitura. Alla fine dell’VIII secolo, al movimento centrifugo fa seguito e si oppone il grandioso progetto di unità politica voluto da Carlo Magno: la creazione del regnum Europae. Uno degli strumenti allestiti da Carlo Magno e dal suo consigliere Alcuino di York per raggiungere tale scopo fu l’unificazione – e il rinnovamento – del sapere. Si danno direttive sull’insegnamento che valgono per tutto il nuovo impero. Carlo Magno, illuminatissimo analfabeta, convoca gli intellettuali e i letterati piú rinomati d’Europa: oltre allo stesso Alcuino, Paolo Diacono, Pietro da Pisa, Paolino d’Aquileia, Dungal, Ambrogio Autperto, Teodulfo di Orléans...

Il rilancio della corte

Con la sua corte regia, stanziale ad Aquisgrana ma anche itinerante, Carlo Magno si ispira ai fasti di Costantinopoli e rilancia la corte come luogo di fervida e raffinatissima produzione culturale: grammatica, poesia, teologia sono pensate e scritte dagli stessi uomini nel giro di poche sale. Dopo la sua morte, nell’814, la spinta unitaria si estingue drammaticamente in politica con la spartizione dell’impero, ma sopravvive nella struttura scolastica: la cultura latina è indispensabile per garantire l’omogeneità della formazione degli ecclesiastici, anche nei nuovi territori orientali annessi all’impero e al cristianesimo da Carlo Magno. La corte si affievolisce come fattore di aggregazione e diffusione culturale, ma i monasteri rimangono efficacissimi centri di cultura nei quali si affrontano questioni teologiche, si medita, si scrive, si copiano codici di classici, si allestiscono biblioteche. Il Medioevo costruí piú di una

biblioteca universale, come lo era stata, nell’antichità, quella di Alessandria d’Egitto; ma non tutte, come quella, sono andate distrutte: a San Gallo, per esempio, in Svizzera, vive ancora la biblioteca che vide la luce in epoca carolingia (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 72-83). Per circa altri duecento anni ancora la letteratura potrà definirsi monastica: scritta nella solitudine silenziosa dei chiostri eppure cosí spesso affollata e frastornata da diavoli tentatori, dalle spine della claustrofobia, dalle lusinghe della curiosità, dall’ansia di cercare un Dio che non si trova e di trovare se stessi in una storia che non a tutti concede riparo, soprattutto dopo il crollo delle certezze carolingie. Ma il tempo continua a respirare e con lui si dilata lo spazio, e cosí nel XII secolo, a seguito di progressivi e complessi mutamenti nell’organizzazione sociale ed economica, il Medioevo finisce di essere solo monastico e diviene anche cittadino. La struttura scolastica ecclesiastica – monastica ed episcopale – non scompare, ma il sapere conosce un propulsore nuovo e cosí potente da funzionare ancora oggi: l’università. In quest’epoca la cultura si svincola dai chiostri dei monasteri e si diffonde nelle mura urbane.

I grandi atenei

A loro volta, sedi universitarie come Parigi, rinomata per la teologia, Bologna per il diritto, Montpellier per la medicina e con loro tante altre città si profilano, dilatandolo, nel paesaggio della letteratura mediolatina, che si anima di nuove Babilonie e nuove Ateni, lascito e rendita per il futuro: con la sua riva sinistra della Senna, dalla Montagna di Sainte-Geneviève dove insegnava Abelardo fino ai caffè di Saint-Germain dove soggiornava Sartre, Parigi non ha smesso di essere la capitale culturale dell’Occidente. E sempre nel XII secolo fioriscono – in forma di corti – nuovi spazi,

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Dossier come quello dei Plantageneti (regno d’Inghilterra e Normandia) o come quello dei Normanni dell’Italia del Sud. Specialmente le università, dove si insegna retorica come materia propedeutica allo studio del diritto, contribuiscono in quest’epoca e in misura decisiva anche alla diffusione della letteratura e alla sua laicizzazione. È vero che gli studenti universitari erano clerici, ossia erano sottoposti alla tonsura (il primo e non vincolante gradino della carriera ecclesiastica) per poter accedere agli studi, ma le loro carriere professionali si sarebbero svolte perlopiú nel mondo. Vero è anche, e questo importa, che a chi studiava retorica si apriva un universo fino a quel momento inedito e interdetto.

L’arte del comporre

Le aule bolognesi nelle quali si insegnava l’ars dictandi (arte del comporre) sono state infatti il luogo dove per la prima volta il Medioevo ha conosciuto la scrittura per quello che essa è ancora per noi: un fatto d’arte, una tecnica espressiva da studiare nel suo funzionamento, senza preoccupazioni etiche o religiose. L’ars dictandi, insomma, fu la prima di quelle scuole di scrittura oggi tanto diffuse, e fu una scuola molto frequentata. Anche se gli studenti universitari del XII secolo costituivano pur sempre una élite ristretta rispetto alla popolazione, tuttavia furono pur sempre numerose e folte le schiere di notai, funzionari pubblici, uomini di diritto usciti dalle scuole universitarie e in grado di scrivere con cognizione. Nel XII secolo nacque e si propagò una nuova generazione di lettori e scrittori non piú legati alla dimensione religiosa. Ma proprio in quelle università che videro tanto rigoglio culturale, tra Due e Trecento, il sapere prese forma soprattutto di astrattissime e aristoteliche discussioni. Cosí, una generazione di agguerriti giuristi formatisi in

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Opicino de Canistris

Disegnare il mondo Medioevo e immagini. Un caso singolarissimo è quello di Opicino de Canistris, chierico inquieto, ossessionato dal peccato, vissuto nella prima metà del Trecento. Teologo, trattatista politico, storico e descrittore della sua città, Pavia, e anche disegnatore. Ci ha lasciato infatti una singolarissima autobiografia illustrata, consistente in una vasta serie di disegni simbolici tra i quali la Chiesa, Cristo, gli Evangelisti, lo Zodiaco, animali, ma, soprattutto, quattro autoritratti che lo raffigurano a diverse età: a dieci, venti, trenta, quaranta anni. Su ognuno degli autoritratti, sul petto, un medaglione raffigura una carta geografica in cui l’Europa è rappresentata come la figura piegata di un uomo, chino su una donna, l’Africa; il Mediterraneo sembra un terribile e grottesco diavolo: Adamo ed Eva, il peccato, il diavolo a forma di mare, l’autore al centro del mondo e il mondo al centro dell’autore, l’uomo a forma di mondo e il mondo a forma di uomo... Ricordate quelle righe di Borges?: «Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli, di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto». quelle università e però infastiditi dalle secche della cultura contemporanea, volle ritornare all’antico e nacque l’Umanesimo: per accondiscendere al padre, Petrarca si recò a studiare diritto a Bologna, ma non trovò quello che cercava davvero e, una volta abbandonati gli studi, si costruí da solo i libri per conoscere quel mondo antico che desiderava. Corti – ecclesiastiche e laiche – e città – italiane ed europee – accolsero Petrarca e le sue prospettive inedite e divennero nel tempo i luoghi di un mondo rinnovato. Si è detto della quantità sterminata di testi latini prodotti nei secoli del Medioevo. Eppure quel continente di testi non è che un’isoletta nel mare dell’oralità, per riprendere una felice immagine dello storico russo Aron Jakovlevic Gurevic. Ma di cosa è fatto questo mare vocale che arriva incessante sulle coste delle pagine scritte? È il brusio senza fine dei parlanti che raccontano vite di santi miracolosi, storie di popoli scesi dal Nord, diari di viaggi orientali, avventure di

Nella pagina accanto mappa con raffigurazioni allegoriche dell’Europa e del Mediterraneo di Opicino de Canistris, che fu scrivano alla Penitenzieria Apostolica in Avignone. XIV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

pellegrini, confessioni in piazza di peccati quotidiani e inauditi, spiegazioni ai greggi di fedeli illetterati della Bibbia e della sua verità. Tutto questo e altro giunge sulla pagina, e di questo si materia la letteratura latina medievale. Pur nella sua aerea fuggevolezza, l’oralità è insomma la fonte che alimenta questa letteratura, piú di quanto non abbiano fatto i classici.

Dotta, popolare e orale

In una sintesi della cultura mediolatina, Massimo Oldoni ha offerto una sistemazione critica che è una chiave che gira bene nella serratura di questo mondo multiforme. In questa prospettiva la letteratura mediolatina vive della dinamica fra tre culture: dotta, popolare e orale. La cultura dotta è quella di alto febbraio

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Dossier A sinistra particolare di una miniatura da un manoscritto che ritrae Cassiodoro, ministro di Teodorico, letterato e senatore romano. 1176 circa. Leida, Universitetbibliothek In basso a sinistra particolare di una miniatura dal Codex Buranus (Carmina Burana) raffigurante la ruota della Fortuna. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek.

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profilo, e si riscontra nelle arti del trivio e del quadrivio, nella teologia piú speculativa, nell’esegesi biblica, nella letteratura piú ispirata a quella classica. La cultura popolare è quella ravvisabile non in opere di «basso» livello (chi scrive in latino è sempre un litteratus), ma in opere riferite a un livello «basso» di società: come negli scritti di Liutprando di Cremona (X secolo), come nei Carmina Burana (XII-XIII secolo) oppure in opere teologiche di divulgazione quale è l’Elucidarium di Onorio di Autun (XI-XII secolo). Per cultura orale, infine, si intende quell’immenso patrimonio di cultura non scritta, quei «testi mentali» – prodotti dall’esperienza e raccontati – che pure, come si è già detto, pervengono a una redazione scritta: la narrativa mitologica e storiografica, la poesia epica, le omelie, le relazioni di viaggio, l’agiografia. In

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le storie dei germani

Raccontare il passato degli uomini del Nord Sconfinati nell’impero romano e giunti di fronte al passato maestoso e rovinato di quella civiltà, i popoli germanici sentirono presto l’esigenza di situarsi a loro volta non solo nello spazio, ma anche nel tempo latino-cristiano. Nacquero cosí le storie etniche, scritte in latino per risalire a una sorta di fratellanza antica con la civiltà latino-cristiana. Con queste opere i Germani entrarono nella storia: l’Historia Gothorum di Cassiodoro (VI secolo), perduta ma riassunta da Giordane nel De originibus actibusque Gothorum (VI secolo); l’Historia Francorum di Gregorio di Tours (VI secolo) proseguita dallo Pseudo-Fredegario (VII secolo); l’Historia Gothorum, Vandalorum, Sueborum di Isidoro di Siviglia (VII secolo); l’Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda il Venerabile (VII-VIII secolo); l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono (VIII secolo), continuata

da Erchemperto con l’Ystoriola Langobardorum Beneventum degentium (IX secolo). Il filone prosegue con le storie dei nuovi uomini scesi dal Nord: l’Historia Saxonum di Widukindo di Corvey (X secolo); l’Historia Primorum Nortmanniae Ducum di Dudone di Saint-Quentin (XI secolo); i Gesta Normannorum Ducum di Guglielmo di Jumièges (XI secolo); l’Historia Nortmannorum di Amato di Montecassino (XI-XII secolo), giuntaci in un volgarizzamento francese; l’Historia regum Anglorum e i Gesta pontificum Anglorum di Guglielmo di Malmesbury (XII secolo); i Gesta Danorum di Sassone Grammatico (XII-XIII secolo). Tutte queste storie sono preziosissime non solo e non tanto per ricostruire le vicende delle etnie nordiche, quanto per comprendere con quali occhi e motivazioni qualcuno, dal suo presente, guardò il passato del suo popolo.

In basso particolare del cosiddetto arazzo di Bayeux, una tela ricamata, costituita da diverse pezze, che riassume gli avvenimenti della conquista normanna dell’Inghilterra nel 1066. XI sec. Bayeux, Centre Guillaume-le-Conquérant.

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Dossier A sinistra Amleto e Orazio al cimitero, olio su tela di Eugène Delacroix. 1839. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto un frammento di manoscritto del libro IV dei Gesta Danorum di Sassone Grammatico. XIII sec. Copenaghen, Kongelike Bibliotek.

amleto

Il debutto di un affabulatore inquietante Nei Gesta Danorum di Sassone Grammatico (XIIXIII secolo) si affaccia per la prima volta alla ribalta della letteratura il personaggio di Amleto. Ed è già l’Amleto manipolatore di parole: simulatore di follia, come Tristano e poi il fool di Shakespeare, può rivelare sinistramente le verità piú atroci senza essere censurato e riesce a ingannare i suoi nemici incapaci di andare al di là del senso letterale delle parole. Valga come sintesi questo brano (III, VI, 6, traduzione di Maria Adele Cipolla): «Vedendo ciò, Amleto, perché un suo fare troppo accorto non destasse sospetti nello zio, simulando di essere stupido, finse un’inguaribile tara della mente e con questa astuzia poté camuffare la propria intelligenza e insieme

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salvarsi la vita. Ogni giorno prendeva posto accanto al focolare della madre, come fosse tutto stordito dal dolore per il suo lutto, si gettava a terra e si ricopriva il corpo di un’indecente sporcizia; il colorito reso sordido, la faccia impiastrata di sudiciume erano l’immagine stessa di una grottesca follia. Ogni sua parola era delirio (...) Talvolta, sedendo davanti al camino, e raschiando pazientemente i tizzoni, fabbricava uncini di legno e li lasciava indurire al fuoco (...) Se gli si chiedeva che cosa facesse, rispondeva di star preparando le frecce acuminate per vendicare il padre. La risposta era oggetto di grande scherno, poiché tutti diprezzavano l’inutilità di quella risibile opera. Eppure, un giorno, l’opera sarebbe servita ad attuare il suo piano». febbraio

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pratica, la parte piú cospicua della letteratura latina medievale. Il passaggio dall’oralità alla scrittura implica il meccanismo della traduzione: l’esperienza viene elaborata nella lingua madre – il volgare – e quindi convertita in latino. Perciò si può affermare che una gran parte della letteratura latina medievale è un testo a fronte di un originale soltanto pensato. Di questa presenza dell’oralità «prima» della scrittura, la storiografia conserva esempi chiarissimi. In Italia, tra l’VIII e il XII secolo, c’è una nitida linea storiografica in cui la tradizione orale dei Longobardi, cioè il denso patrimonio delle storie tramandate nel corso delle generazioni, si allaccia all’aneddotica monastica: Paolo Diacono, Erchemperto, Leone Marsicano, Pietro Diacono, Romualdo Salernitano, Riccardo da Sangermano.

derare riservate esclusivamente alla cultura popolare le tradizioni orali. Il Medioevo è l’esito di incontri di volta in volta faticosi, riusciti, falliti, solo sperati: tra il modello dell’antico, l’esperienza e l’ideologia della fede cristiana, la tenacia nostalgica delle fedi etniche, la voluminosissima memoria dei popoli germanici, l’esigenza di trovare una collocazione nel presente e nella storia da parte di coloro che arrivarono nuovi nel tempo cristiano, quel tempo che aveva un senso nel sempre, quasi mai però nell’oggi. La letteratura

Voglia d’autobiografia

Tra i secoli X e XI, s’incontra una storiografia tutta motivata da urgenze autobiografiche, per cui scrittori come Liutprando di Cremona, Raterio di Verona, Richero di Reims, Otlone di Sant’Emmeram, Adamo di Brema, servendosi di poche fonti scritte e invece di molte esperienze vissute, riescono a dirci tutto il loro malessere. Nel XII secolo, opere storiografiche come quelle di Guglielmo di Malmesbury (De gestis regum Anglorum, De gestis pontificum Anglorum) e di Orderico Vitale (Historia ecclesiastica) sono ricchissimi repertori narrativi. Separate per comodità di classificazione, le tre culture in realtà coesistono, si intersecano, sono prodotte negli stessi ambienti, sono insomma tre aspetti della stessa cultura. Come sarebbe errato credere che nella cultura dotta si debbano rinvenire solo rimandi alla cultura scritta, cosí si sbaglierebbe a consi-

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l’Europa. Sia pure nella diversità delle prospettive di questi e altri autori, un dato è oggi certo: la letteratura latina medievale non può essere piú considerata una succursale – tardiva, ripetitiva, confessionale – di quella classica né un ponte di servizio tra quella classica e quelle romanze. A questa affermata autonomia va aggiunta un’altra conquista. Le posizioni piú meditate nel lavoro di interpretazione del Medioevo letterario a opera di studiosi delle letterature romanze, quali soprattuto Paul Zumthor e Hans Robert Jauss, hanno favorito e diffuso una sensibilità rinnovata nei confronti della letteratura medievale, con un recupero di aspetti tradizionalmente trascurati, recupero che vale naturalmente anche per la letteratura mediolatina. Cosí, una letteratura finora ritenuta espressione di un sistema culturale del tutto diverso dal nostro e quindi impervia, si è fatta piú vicina all’odierno sentire.

Variazioni ed enigmi

mediolatina traccia nelle grandi e minime linee tutto questo quadro complesso, in cui trovarono lentamente forma i caratteri di base delle culture moderna e contemporanea. Un’acquisizione critica recente è il riconoscimento della piena autonomia della letteratura mediolatina come oggetto di valutazione estetica. In questo senso vanno ricordati studi come quelli dell’iniziatore della critica letteraria mediolatina in Italia, Gustavo Vinay, di Massimo Oldoni, di Francesco Stella per l’Italia; di Walter Berschin, Peter Dronke, Aaron Jakovlevic Gurevic, Peter von Moos, Peter Godman per

Tra le categorie estetiche medievali e quelle contemporanee si riscontra un curioso gioco di oscillazione tra il Medesimo e l’Altro, tra la somiglianza e la diversità, dove tuttavia la comprensione non è piú interdetta. Per esempio, a noi che in misura sempre crescente comprendiamo e indaghiamo l’intertestualità, cioè il complesso reticolato di richiami che lega diversi testi tra loro, non sembra piú estranea una letteratura basata soprattutto sulla variazione di un tema. Similmente, l’enigma racchiuso in tante immagini medievali (scritte o miniate) ci sembra precursore di quel simbolismo cosí diffuso nel gusto contemporaneo. E ancora, la centralità medievale della performance vocalica e corporea del testo risulta ben comprensibile a un pub-

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Dossier adamo di brema

Un esploratore dell’animo umano I Gesta Hammaburgensis ecclesiae pontificum (Gesta dei vescovi della città di Amburgo), scritti da Adamo di Brema tra 1073 e 1075-76 e dedicati all’arcivescovo di Amburgo Liemaro, sono un capolavoro che dilata il perimetro del genere letterario dei gesta episcoporum, inaugurato trecento anni prima da Paolo Diacono con un’opera dedicata alla storia dei vescovi di Metz, e anzi misura le zone piú felici al di fuori dei suoi confini.

Strutturata in quattro libri, organicamente collegati, l’opera deve la sua fama specialmente al terzo e al quarto libro, e cioè, rispettivamente, alla biografia di Adalberto, arcivescovo di Amburgo-Brema e protagonista della vita politica europea, e alla descrizione del mondo nordico. Duplice l’apprezzabile originalità di Adamo: il tentativo di descrivere nel suo divenire la contraddittoria psicologia di Adalberto, uomo dotato di grandi

virtú morali e insieme di ambizione smodata; l’apertura alla geografia e all’etnologia dell’estremo Nord, ricavate in parte dalla tradizione dotta, ma soprattutto da resoconti di viaggiatori. Viaggiatore invece Adamo non fu mai e mai vide i gelati paesaggi scandinavi, eppure i suoi Gesta testimoniano tutta la novità delle scoperte dei suoi viaggi mentali: all’interno dell’animo di un uomo che egli conobbe e al di là delle terre che egli conosceva. Amburgo, Trostbrücke. Un primo piano della statua di sant’Oscar di Brema, arcivescovo di Amburgo-Brema, fondatore della cattedrale di Amburgo.

blico, quale noi siamo, avvezzo ai mass media: immaginiamo bene la coinvolgente teatralità delle pubbliche prodezze di improvvisazione di Ugo il Primate, uno dei piú grandi poeti latini del XII secolo, oppure delle esecuzioni poetico-musicali dei trovatori. Ma riprendiamo dall’autonomia. È vero che molti generi letterari mediolatini derivano da quelli classici, tuttavia la letteratura mediolatina è cosí doviziosa di contegni mentali, tensioni espressive, invenzioni linguistiche che non c’erano prima e non ci saranno dopo, da trovare il suo senso all’interno di se stessa. Qualche considerazione sui generi letterari ci aiuterà a comprendere meglio. A che cosa serve indagare una letteratura dal punto di vista dei generi? A trasformare un caos di libri nell’ordine di una biblioteca dotata di scaffalature, sezioni e cataloghi; a rendere insomma intellegibile il disordine della storia.

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Il Dialogus di Cesario di Heisterbach

L’universo in settecentocinquanta novelle Educato alla scuola episcopale di Colonia, Cesario di Heisterbach (1180 circa-1240 circa) divenne monaco cistercense e visse per il resto della sua vita nel monastero di Heisterbach. La sua opera piú importante è il Dialogus miraculorum, una maestosa raccolta di racconti di natura edificante. Si tratta di settecentocinquanta brevi novelle, catalogate in dodici sezioni: Della conversione, Della contrizione, Della confessione, Della tentazione, Dei demoni, Della semplicità, Di Santa Maria, Di varie visioni, Del sacramento del corpo e del sangue di Cristo, Dei miracoli, Dei moribondi, Della ricompensa dell’aldilà. L’ordine di queste sezioni, oltre che a un filo semantico, è dovuto alla mistica dei numeri: cosí, per esempio, le Nel nostro caso, la ricognizione per generi è reclamata dalla stessa cultura letteraria del Medioevo latino, in confronto continuo, anche sofferto, con i modelli dei classici, e comunque disponibile a perpetuarne i generi. Ma nel Medioevo le forme antiche si riempiono di contenuti nuovi, prima cristiani e poi anche non latini, e cosí i generi classici subiscono una distorsione e diventano altro dal loro punto di partenza. La biografia di tipo svetoniano, per esempio, si muta in agiografia, la quale in aggiunta si appropria persino delle favole esopiche, sostituendo i tradizionali protagonisti con santi famosi.

Cercando Virgilio...

Un altro caso significativo di alterazione è costituito dall’epica. È vero che solo con molte difficoltà è possibile articolare una definizione del genere epico. Sia nell’antichità che nel Medioevo, però, storicamente,

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tentazioni sono al quarto posto, perché quattro è numero della stabilità, unica e tetragona arma per resistere alle lusinghe del maligno. L’intento edificante e la struttura dialogica riconducono l’opera di Cesario nel sicuro alveo della tradizione agiografica (si pensi ai Dialogi di Gregorio Magno e, nell’XI secolo, ai Dialogi de miraculis sancti Benedicti dell’abate Desiderio da Montecassino), ma è sorprendentemente nuova la curiosità con cui Cesario esce risolutamente dal recinto del monastero per percorrere tutte le strade del mondo medievale, fino ad addentrarsi in incantate atmosfere fiabesche. Nelle sue scene, ambientate soprattutto in Germania, ma

anche in Francia, in Italia e in Oriente, si incontrano re, cavalieri e crociati, papi, vescovi e parroci, contadini, borghesi, artigiani, usurai, donne e bambini, pagani ed eretici. Il Dialogus di Cesario, capolavoro indiscusso della narrativa mediolatina, pone il racconto al centro di un universo abitato non solo dai monaci, ma da un pubblico di cavalieri e di borghesi, quel pubblico cioè che leggeva già i romanzi cortesi e che in seguito avrebbe letto un’altra raccolta di novelle, anch’esse incorniciate in un dialogo, il Decameron.

Capolettera miniato che mostra Cesario di Heisterbach novizio al cospetto di san Benedetto. 1350 circa. Düsseldorf, Universitätsund Landesbibliothek Düsseldorf.

è vero che si impose non tanto un astratto concetto di epos, quanto un modello: l’Eneide di Virgilio. Tutti nel Medioevo hanno letto e citato Virgilio, eppure nessuno è riuscito a riprodurre in pieno il meccanismo compositivo virgiliano. È come se il Medioevo avesse sempre cercato Virgilio senza mai trovarlo davvero. Dal modello dell’epica virgiliana sono comunque derivati numerosissimi testi, iscrivibili in cinque gruppi: l’epica e la Bibbia; l’epica e la storia contemporanea (tra i tanti poemi meritano una menzione quello in lode di Carlo Magno, Ka-

rolus Magnus et Leo papa, 801 circa; i Bella Parisiacae Urbis di Abbone di Saint-Germain, IX secolo, che raccontano l’assedio posto dai Normanni a Parigi nell’885-886; il Carmen de Hastingae proelio di Guido di Amiens, XI secolo, che racconta la famosissima battaglia di Hastings con cui nel 1066 i Normanni conquistarono l’Inghilterra); l’epica e la storia del mondo (si pensi al Waltharius, probabilmente del X secolo,

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Dossier caso unico di epica di argomento tradizionale germanico in lingua latina); l’epica satirica e gli animali (l’Ecbasis cuiusdam captivi, XI secolo; l’Ysengrimus, 1148-49; lo Speculum stultorum di Nigello di Canterbury, 1180 circa); la nuova mitologia epica del XII secolo (la Cosmographia di Bernardo Silvestre, l’Anticlaudianus di Alano di Lilla, l’Architrenius di Giovanni di Hauville). Nel caso dell’epica, ma è cosí anche per il teatro, la poesia d’amore, la retorica, la storiografia, gli schemi originali e gli elementi costitutivi del genere letterario di provenienza sono talmente alterati che spesso un’opera mediolatina non può essere classificata. Spesso nella letteratura latina medievale un testo è altro da quello che sembra. In questo senso nemmeno le piú panoramiche e comprensive categorie di epica, lirica, grammatica riescono a fare ordine in quella smisurata produzione letteraria. In questa deformazione enMiniatura raffigurante l’arrivo di Enea a Cartagine, dal codice detto Virgilio vaticano. V sec. d.C. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

tra in gioco anche la quasi assoluta mancanza di libertà ideologica, che aveva comunque un rovescio positivo: costringeva a ricercare l’efficacia, e anche l’originalità, nell’assoluta libertà formale.

Le parole non scritte

Tuttavia, per esprimersi, molti scrittori non si contentarono di poter disporre a piacimento di schemi e strutture e cosí nascosero qualcosa di sé, piú sottilmente, in certi punti nevralgici del testo, ai confini tra la parola scritta e i margini bianchi del non detto. Le maglie fitte della (auto)censura medievale ci costringono oggi a utilizzare il microscopio, eppure si riescono ancora a leggere le parole non scritte, ma quanto mai presenti, i palinsesti dell’anima, i messaggi nella bottiglia di chi ha cercato almeno una liberazione postuma. La perlustrazione per generi è dunque preliminare, ma non basta, occorre attraversare la superficie di ogni singolo testo e indagare nelle sue trasparenze. Questa situazione non deve indurre a occuparsi d’altro, di letterature piú esplorate e quindi piú tranquillizzanti. Al contrario, è una garanzia di sorpreDidascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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se, un invito alla meraviglia. Prendiamo, ancora una volta, la storiografia. Uno degli errori (o delle occasioni mancate) quando ci si occupa di storiografia mediolatina è quello di cercare solo dati, date, notizie, fatti, considerando queste opere come fonti a cui attingere per ricostruire qualcosa o tutto del Medioevo. Perché ogni testo, in letteratura, ha due aperture: una, verso l’esterno, manifesta le fonti scritte o orali, le motivazioni esplicite; l’altra, verso l’interno, schiude le fonti dell’animo dell’autore, le sue motivazioni segrete. Due casi, di epoche diverse e diseguale qualità, tra i moltissimi che affollano il genere storiografico. Secolo X: Liutprando – vissuto alla corte di Ugo di Provenza, di Berengario II, poi di Ottone I – poi vescovo di Cremona, piú volte ambasciatore a Costantinopoli, morto intorno al 972, ha scritto tre opere storiografiche: l’Antapodosis (storia d’Europa dall’888 ai suoi tempi, 960 circa); il Liber de rebus gestis Othonis Magni imperatoris (storia delle imprese di Ottone I in Italia tra il 961 e il 964); la Relatio de legatione Constantinopolitana (resoconto di una missione svolta

Dall’Antapodosis di Liutprando

Il servo letterato... Come esempio delle capacità di Liutprando di Cremona, valga questa riuscitissima scena dell’Antapodosis (IV, 12), davvero teatrale nell’allestimento scenografico, nella presenza muta ma protagonistica del corpo di Villa – moglie di Bosone, fratello di re Ugo di Provenza (X secolo) – al centro della scena, nella dinamica degli sguardi, nella battuta scurrile del servo, greve sí, ma capace di citare Terenzio..: «Suo marito Bosone aveva una cintura d’oro di straordinaria lunghezza e larghezza, rilucente del fulgore di molte gemme preziose. Catturato Bosone, il re fece cercare accuratamente la cintura piú di tutti i suoi tesori (...) Pur avendo scrutato diligentemente dappertutto, i messaggeri non trovarono la cintura e ritornarono da Ugo portando altre cose. Allora il re disse: “Ritornate e febbraio

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nel 968 a Costantinopoli). Ebbene, questi scritti sono un capolavoro di narrativa e possono essere legittimamente letti come romanzi.

«Pan per focaccia»

Eccezionale, in particolare, è l’Antapodosis, opera intitolata con un grecismo che può tradursi «pan per focaccia» e concepita da Liutprando per vendicarsi di Berengario II e insieme per sdebitarsi verso tutti coloro che invece lo hanno aiutato. In quest’opera Liutprando avvince e incanta i lettori con un’originalissima e lucida capacità espressiva, mescolando risentimento personale e gusto per aneddoti piccanti, dialoghi drammatici e siparietti divertenti, prosa e poesia, esclamazioni raccolte per strada e citazioni raffinatissime di classici (in particolare dell’amato commediografo Terenzio). Lo sguardo come dominio di un mondo dissennato, la scrittura come rappresaglia. Dopo, però, l’inchiostro da acido trasmuta in balsamo e i Gesta si fanno espressione di ordine, sia politico che autobiografico. Protagonista sul set imperiale, in questa opera Liutprando si vede organico a un

sistema ed è capace, come scrittore che guarda alla storia, di vincere le lusinghe dell’assurdo. Ma nella Relatio, spedito ancora a Costantinopoli, Liutprando si rimette desolato alla macchina da presa e inquadra subito i perturbanti interni della casa dell’imperatore Niceforo, dove ospite malvisse quattro mesi, per spalancarci le porte del suo antico e ritornato disagio psicologico. Saltiamo al XIII secolo, alla Cronica di Salimbene de Adam. Scritta

buttate all’aria tutta la sua bardatura, anche il cuscino su cui siede quando cavalca. E se neppure lí riuscirete a trovare la cintura, spogliatela di tutte le sue vesti, perché non possa nasconderla addosso; so bene infatti quanto sia astuta e avida”. Quelli ritornarono e siccome non trovarono nulla (...) obbedendo agli ordini del re, tolsero alla donna tutti i suoi vestiti. Per non guardare quell’azione cosí vergognosa e inaudita, tutti quei galantuomini girarono gli occhi dall’altra parte, ma un servo diede una sbirciata e vide pendere una cinghia purpurea dai glutei, l’afferrò sfacciatamente e sconciamente la tirò e cosí, appresso alla cinghia, dalla parte piú intima del corpo, uscí fuori la cintura. Non solo irrispettoso, ma reso ancora piú allegro proprio da quella azione turpe, il servo esclamò: “Ah, ah, ah! Che soldato bravo in ostetricia! È nato un figlio rosso di pelo alla padrona: voglia il cielo che sopravviva! [Terenzio, Andria, 486-87]. Oh me fortunato, anzi piú felice di tutti, se mia moglie mi partorisse almeno due figli cosí...”».

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In alto particolare di una miniatura dal codice detto Virgilio romano, raffigurante un ritratto di Virgilio. V sec. d.C. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

tra 1282 e 1288 (ma è mutila alla fine), l’opera illustra la storia d’Italia dal 1168 al 1288. Questa l’intenzione, ma quale è il risultato? Dotato anch’egli di eccezionale verve narrativa, Salimbene, nella Cronica, intreccia l’annalistica locale con la storia dell’Ordine francescano, con la cronaca del mondo, con inserti autobiografici. Nonostante la cadenzata struttura annalistica, il movimento è quello di una vertigine rapinosa. Associazioni di idee, capacità mirabile di vedere le cose, divagazioni, amore per il dettaglio, curiosità, compiacimento per gli episodi arguti o salaci, tutto concorre a restituirci un affresco disordinato, ma brillantissimo del Duecento e insieme una sorta di enciclopedia autobiografica. Un diario di bordo, il tempo ritrovato di una vita piú che un libro di storia, la storia come autoritratto. Fermarsi ai dati è insomma raccogliere sassi senza avvedersi che sotto uno strato di poca terra brilla la pepita aurea di una intuizione o giace il fossile solcato da un personalissimo dolore. Le opere della letteratura latina medievale ci chiedono di essere interrogate. Sta a noi prestare loro il nostro corpo perché quelle parole in cerca di vita possano raccontarci i loro segreti e ricevere i nostri.

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Storie abbaglianti LIBRI • A Ravenna si conserva un patrimonio musivo

unico al mondo: un corpus di immagini il cui valore estetico non può essere disgiunto dai messaggi affidati a quelle magnifiche composizioni

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ome scrive l’autrice nel Prologo, il sottotitolo del volume ha un valore fortemente programmatico: il suo studio, infatti, ha inteso «inquadrare i mosaici di Ravenna nell’ambito dell’iconografia e dell’iconologia paleocristiana interrogandoci sul significato dei singoli elementi di cui è composta ogni immagine oltre che sul contesto e sulla funzione liturgica dell’ambiente in cui essa si colloca». Al di là di questa dichiarazione d’intenti, l’immagine e il significato sono anche gli elementi che con maggior forza catturano l’attenzione

di chiunque si confronti con il patrimonio musivo ravennate. Le grandi composizioni che ornano i monumenti della città romagnola possiedono infatti una potenza visiva formidabile e, al tempo stesso, anche all’osservatore piú superficiale difficilmente può sfuggire la sensazione che quelle figure ieratiche e le scene di cui sono protagoniste non siano meri elementi d’ornamento. Dopo averne chiarito le coordinate, il viaggio si dispiega attraverso i singoli A sinistra Ravenna. La basilica di S. Vitale, consacrata nel 547, durante il vescovato di Massimiano. Nella pagina accanto Ravenna, S. Apollinare in Classe. Particolare del mosaico che riveste la calotta dell’abside, nel quale compare il santo titolare della basilica. VI sec.

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Jutta Dresken-Weiland Mosaici di Ravenna Immagine e significato Jaca Book, Milano, 320 pp., ill. col. e b/n 95,00 euro ISBN 978-88-16-60513-8 www.jacabook.it complessi e prende le mosse dal mausoleo di Galla Placidia, la figlia dell’imperatore Teodosio il Grande.

Ma forse non era un mausoleo... L’edificio si presenta oggi isolato, ma in origine cosí non era, essendo annesso alla chiesa di S. Croce, oggi scomparsa. E, soprattutto, a dispetto dell’intitolazione con cui è noto, il monumento non ospita le spoglie di Galla – che venne sepolta a Roma – e, come suggerisce Dresken-Weiland, potrebbe non febbraio

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avere avuto la funzione che gli viene tradizionalmente assegnata: l’ipotesi – e qui si torna al filo conduttore dell’opera – nasce proprio dall’analisi dei mosaici, poiché nessuna delle rappresentazioni ha un significato che rimandi in maniera esplicita all’uso funerario. Al di là delle interpretazioni funzionali, il mausoleo di Galla Placidia colpisce soprattutto per il vivido e profondo colore blu che fa da sfondo alle

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diverse figure e per l’equilibrio formale delle varie composizioni, tra le quali spicca il Buon Pastore che sovrasta la porta d’ingresso.

Una scelta inconsueta Si passa quindi al battistero della Cattedrale, detto «di Orso», perché fondato dall’omonimo vescovo. L’edificio è stato oggetto di ripetuti rimaneggiamenti, che hanno in parte alterato il suo assetto iniziale

e causato la scomparsa di alcune delle sue decorazioni originarie. Ciononostante è considerato come uno dei monumenti piú importanti dell’arte paleocristiana, sia per gli eccezionali mosaici, sia per gli stucchi che – con una scelta inconsueta – fanno loro da contraltare. Le composizioni musive che piú strettamente si legano alla funzione battesimale del complesso sono oggi perdute, febbraio

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A sinistra S. Apollinare Nuovo. Gesú davanti a Pilato. VI sec. Nella pagina accanto S. Apollinare in Classe. Cristo trionfante. VI sec. In basso l’interno del mausoleo di Galla Placidia, la cui costruzione viene assegnata alla stessa figlia dell’imperatore Teodosio il Grande, che, tuttavia, non venne sepolta qui, bensí a Roma. ma se ne conoscono i soggetti grazie alle iscrizioni che le corredavano: dovevano comprendere, fra le altre, la lavanda dei piedi, la guarigione del paralitico e, forse, Cristo che cammina sulle acque. Si conserva invece, in tutta la sua magnificenza, il mosaico che riveste la cupola e nel quale il battesimo di Cristo, scelto come scena principale, è attorniato dalle figure degli apostoli. Nei capitoli successivi, dopo il battistero degli Ariani, si succedono i monumenti piú celebri – S. Apollinare Nuovo, S. Vitale e S. Apollinare in Classe – e qui, anche per merito dell’ottimo corredo iconografico, lo splendore dei mosaici ravennati si coglie al meglio. Anche perché la dimensione libresca di questo excursus offre visioni ravvicinate e di dettaglio altrimenti impossibili. In una ideale galleria, sfilano i protagonisti delle Sacre Scritture, ma anche i detentori del potere temporale e la folta schiera dei ministri del culto. Una folla, quest’ultima, oggi silenziosa, ma che fu l’artefice di quei fasti che Ravenna celebrò anche con migliaia e migliaia di tessere di pietre multicolori. Stefano Mammini

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Omaggio alla Corona MUSICA • Il Binchois

Consort rievoca i fasti del regno d’Inghilterra, negli anni della vittoria riportata ad Azincourt e dell’incoronazione di Enrico VI a Parigi

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l 25 ottobre del 1475, alla guida di 6000 uomini, Enrico V d’Inghilterra sferrava un duro attacco alla Corona francese in quello che costituisce uno degli episodi piú celebri della Guerra dei Cent’anni: la battaglia di Azincourt. A questo evento bellico, e, piú in generale, alla gloriosa fase attraversata dalla storia inglese tra la fine del XIV e il XV secolo è dedicata un’antologia con brani affidati al celebre gruppo The Binchois Consort, che al repertorio tardo-medievale inglese ha legato il suo nome con pregevoli incisioni.

Curata è la regia musicale che sottende a questa scelta antologica, volta a illustrare la storia inglese con brani – anonimi e non – che celebrano, in maniera piú o meno diretta, la potenza di re Enrico V e dei suoi successori.

Sia gloria al re Organizzata tematicamente, l’antologia apre con tre brani che esaltano la sovranità inglese e tra i quali primeggia il Sub Arturo plebs di Johannes Alanus. Eseguito con molta probabilità dalla Royal

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Music for the 100 Years’ War The Binchois Consort Direttore: Andrew Kirkman Hyperion (CDA68170), 1 CD www.hyperion-records.co.uk Chapel di Enrico V, questo mottetto isoritmico di Alanus, composto nei primi anni del XV secolo e celebre per la sua complessità di scrittura, è dedicato alla figura di un leggendario re di nome Arturo, personificazione dello stesso Enrico V, che tutti i musicisti – citati puntualmente nel testo – sono invitati a glorificare. In questa prima sezione fanno anche capolino i compositori Forest e John Dunstable, attivi entrambi nella prima metà del Quattrocento,

con due mottetti legati alle esigenze liturgiche della Royal Chapel. Alle figure di san Tommaso Becket e del re dell’Anglia orientale, e poi santo, Edmondo (IX secolo) sono dedicate le due sezioni successive, nelle quali brani di Leonel Power e Forest, oltre a composizioni anonime, commemorano i due santi, particolarmente venerati in Inghilterra; si tratta di mottetti politestuali, basati su melodie in canto fermo legati alla festa di san Tommaso. Nel caso di Edmondo, due dei tre brani sono basati sull’antifona Ave rex gentis anglorum, che, musicalmente, riprende l’antica monodia dell’Ave Regina caelorum.

Doppia incoronazione All’incoronazione di Enrico VI, celebrata a Westminster nel 1429 e poi a Parigi nel 1431, ci riportano altri cinque ascolti, che vedono il ritorno di Dunstable, con movimenti tratti dalla sua Missa da Gaudiorum Premia, che con molta probabilità accompagnò la cerimonia; a questo evento si ricollegano il Veni Sancte Spiritus di Dunstable – brano che

MEDIOEVO

febbraio

veniva solitamente eseguito in simili occasioni – e l’anonima antifona Ecco Mitto Angelum, una monodia che risente fortemente dell’influenza del canto monodico liturgico. A conclusione di questa silloge non potevano mancare due brani, entrambi anonimi: la litania Kyrie/ Domini miserere/Ab inimicis nostri, che veniva eseguita in tempi di guerra come appello al Signore contro i nemici, e il celeberrimo Agincourt Carol, il cui stile, vicino a quello della «ballata», esprime la gioia del popolo inglese per la disfatta patita ad Azincourt dai Francesi per mano delle truppe di Enrico V. L’esecuzione del Binchois Consort, magistralmente diretto da Andrew Kirkman, è affidata a un ensemble di sole voci maschili. Tale organico permette di ottenere una particolare fusione vocale, arricchita dallo spessore interpretativo del direttoremusicologo Andrew Kirkman. Lodevoli, inoltre, i passaggi solistici, cosí come la grande precisione nell’esecuzione dei complessi mottetti isoritmici. Franco Bruni

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