Medioevo n. 252, Gennaio 2018

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

www.medioevo.it

GENNAIO 1477

MANTOVA

Dal fango alla gloria

CAMPANIA

Nella grotta dell’Arcangelo

COSTUME E SOCIETÀ Quando il medico era una donna

LONGOBARDI

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BATTAGLIA DI NANCY MANTOVA S. MICHELE ALLE GROTTELLE DOSSIER I LONGOBARDI NELL'ITALIA MERIDIONALE

Carlo il Temerario e la sconfitta di Nancy

Mens. Anno 22 numero 252 Gennaio 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 252 GENNAIO 2018

EDIO VO M E



SOMMARIO

Gennaio 2018 ANTEPRIMA PROVERBI L’asino di Buridano

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MOSTRE Il monito silenzioso di un patrimonio ferito L’acqua, la luna e la nascita della geologia Sublime candore

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RESTAURI Il pavone torna a fare la ruota

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APPUNTAMENTI Un cero verde per Vittore Al ladro, al ladro! L’Agenda del Mese

18 19 22

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STORIE

MEDIOEVO NASCOSTO

BATTAGLIE Nancy Borgogna, addio...

Nella grotta dell’Arcangelo

di Federico Canaccini

Campania

di Marco Ambrogi 30

30

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CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Quasi un eroe dei due mondi 102

CARTOLINE Il simbolo di una nazione

106

LIBRI Lo scaffale

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MUSICA Intervalli all’inglese

112

Dossier

I LONGOBARDI NEL MERIDIONE Un itinerario alla loro riscoperta di Federico Marazzi

COSTUME E SOCIETÀ DONNE MEDICO Trotula e le altre di Maria Paola Zanoboni

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LUOGHI MANTOVA Mantova: il fango e la gloria di Furio Cappelli

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MEDIOEVO Anno XXII, n. 252 - gennaio 2018 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Redazione: Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: p. 57; Leemage: copertina (e pp. 32/33), 42, 104 (basso); AKG Images: pp. 30/31, 33, 104 (alto); The Art Archive: p. 53; AGE: p. 58 (alto); Electa: pp. 58/59; Electa/Bruno Balestrini: pp. 64/65 – Doc. red.: pp. 5, 19 (sinistra), 37, 38, 41, 44-45, 58 (basso), 62, 65, 78, 90, 103, 105 – Cortesia Furio Cappelli: pp. 6 (alto), 7 (alto) – Cortesia Ufficio Stampa mostra: Paolo Rosselli: p. 6 (basso); Enrico Ferri: pp. 7 (centro e basso), 8, 9 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 10-17, 69, 70 (alto), 71, 73, 77 (centro, a sinistra), 81 (basso), 83, 87 (basso), 91 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 18, 75, 76 (basso), 77 (alto e centro, a destra), 79, 80, 81 (alto), 82, 85, 86/87, 87 (alto e centro), 88-89, 91 (basso) – Discasto: p. 19 (destra) – Bridgeman Images: pp. 34, 35, 38/39, 40, 52/53 – DeA Picture Library: p. 46; G. Dagli Orti: pp. 36, 102 – Archivi Alinari, Firenze: Dist. RMN-Grand Palais/Image BnF: p. 43 – Shutterstock: pp. 50-51, 55, 56, 60/61, 74/75, 84/85 – Marka: Buyenlarge/UIG: pp. 54/55; Giovanni Mereghetti: pp. 60, 63; 4x5Coll/Mauro Maglia: p. 66 – Cortesia Marco Ambrogi: pianta a p. 99; Martina Casella: pp. 92, 100/101; Tazio Ambrogi: pp. 92/93, 94, 95, 96-97, 98, 99 (alto e basso), 100, 101 – © Wawel Royal Castle, Cracovia: pp. Wojciech Gorgolewski: p. 106; Anna Stankiewicz: pp. 107 (alto), 109 (basso), 110; Stanisław Michta: pp. 107 (basso), 108 (basso); Regionalma Pracownia Digitalizacji Małopolski Instytut Kultury, projekt Wirtualne Muzea Małopolski Plus: p. 108 (sinistra); Darius Błazewski: pp. 108/109, 109 (alto) – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 34-35, 70, 72, 76, 94.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Hanno collaborato a questo numero: Marco Ambrogi è Direttore del Museo Diocesano di Teggiano (Salerno). Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Federico Marazzi è professore associato di archeologia cristiana e medievale presso l’Università degli Studi «Suor Orsola Benincasa» di Napoli. Ojcumiła Sieradzka è funzionario presso il Museo Wawel di Cracovia. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Editore: MyWay Media S.r.l. Direttore generale: Andrea Ferdeghini Coordinatore editoriale: Alessandra Villa

Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9,00/18,00] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

In copertina Ritratto di Carlo il Temerario, Duca di Borgogna, olio su tela di Peter Paul Rubens. 1618. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

Pubblicità: Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Direzione, sede legale e operativa: Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369

Nel prossimo numero letteratura

Il Medioevo latino

saper vedere

L’abbazia di San Gallo

immaginario

Il mistero dello specchio

dossier

I viaggi di Marco Polo


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

L’asino di Buridano

«F

are come l’asino di Buridano» significa essere indeciso tra due cose, titubare talmente tanto da non saper scegliere. Ma chi era Buridano e che cosa mai faceva il suo proverbiale asino? Giovanni Buridano è un personaggio storico, nato a Béthune, in Artois, verso il 1290. Fu un filosofo, maestro a Parigi nella facoltà delle Arti e rettore della Sorbona dal 1328 al 1340. Fu uno tra i maggiori esponenti del nuovo indirizzo filosofico avviato da Guglielmo di Ockham; compose un manuale di logica (Summulae de dialectica) e due trattati piú specifici (Sophismata e Consequentiae). Privilegiò le cause efficienti rispetto a qualsiasi causa finale: a Buridano si deve l’ipotesi che Dio, al momento della creazione, avesse impresso un impetus a ogni sfera celeste. Dal momento che il moto celeste non incontra alcuna resistenza, le sfere continuerebbero dunque a muoversi solo grazie a quell’impetus iniziale. Cosí facendo, Buridano preannunciava il principio d’inerzia della meccanica moderna, includendo i moti cosmici in un unico sistema di leggi meccaniche. Commentando infine l’Etica di Aristotele, difese la scelta dell’essere umano contro ogni determinismo. E a questo argomento si lega il suo proverbiale asino. Sarebbe infatti attribuito a Giovanni Buridano l’apologo dell’asino che, dinnanzi a due mucchi di fieno uguali, è incapace di scegliere quale «aggredire» per primo e, alla fine, muore di fame. Esso sta a significare che l’animale, a differenza dell’uomo, è privo della capacità di autodeterminazione

propria della volontà e perciò la scelta dipende dallo stimolo esterno, in questo caso dai mucchi di fieno che, essendo uguali, paralizzano il povero somaro (non a caso sarà stato scelto questo animale?) destinato cosí a morir di fame.

In alto una figurina Liebig dedicata all’apologo dell’asino di Buridano, che, secondo la tradizione, sarebbe stato proposto dall’omonimo filosofo.


ANTE PRIMA

Il silenzioso monito di un patrimonio ferito MOSTRE • Il Museo Nazionale Romano ospita una selezione di opere coinvolte

dal sisma che nel 2016 ha colpito il Centro Italia. Un segnale che esprime la volontà di ripartire, anche attraverso la conoscenza di tesori tutt’altro che minori

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iú di un anno è trascorso dalla tragica notte del 24 agosto 2016, quando una potente scossa di terremoto, senza alcuna avvisaglia, colpí due storiche cittadine dell’alto Lazio, Amatrice e Accumoli (Rieti). Fu l’inizio di una lunga sequenza di eventi sismici, che coinvolse quattro regioni in una vasta area dell’Appennino centrale, tra i Monti Sibillini e i Monti della Laga (vedi «Medioevo» n. 241, febbraio 2017). E tutti i centri maggiormente interessati, a partire proprio da Amatrice e da Accumoli, compongono un paesaggio insediativo spesso poco conosciuto, articolato in un pullulare di frazioni e di paesi pedemontani. Si tratta di un territorio periferico, in larga parte gravemente spopolato nell’arco degli ultimi sessant’anni, e in cui

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In alto Veduta di Amatrice, litografia di Edward Lear. 1844. Qui sopra un’immagine di Amatrice, all’indomani delle scosse di terremoto che hanno colpito la cittadina. gennaio

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numerosi fattori hanno favorito una cattiva gestione del patrimonio edilizio e storico-artistico. La catastrofe naturale ha cosí accelerato un lungo processo di degrado, determinando una situazione difficile da districare, ma anche illuminando terribilmente una realtà che da troppo tempo esigeva attenzione e strategia.

Segnali di speranza I ritardi nella messa in sicurezza degli edifici e nella gestione generale del post-emergenza non lasciano ancora spazio a una prospettiva di lungo periodo, ma il lavoro solerte degli operatori nel campo dei beni culturali offre i primi segnali di riscatto e di speranza. Una mostra dal titolo assai eloquente al riguardo, Rinascite, è in corso presso il Museo Nazionale Romano, nella sede delle

In alto plastico della chiesa amatriciana di S. Francesco. Qui sopra Madonna in trono col Bambino, dalla lunetta del portale centrale di S. Francesco. XV sec. A sinistra Madonna del latte, scultura in terracotta policroma attribuita a Silvestro dell’Aquila, da Grisciano (Accumoli). Inizi del XVI sec.

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Terme di Diocleziano, e presenta una selezione di 34 opere d’arte tra le migliaia salvate dal sisma di Amatrice e di Accumoli. Lavori di alto magistero, cosí come talune commoventi testimonianze di puro valore devozionale, si trovano nel cuore dell’Urbe a evocare la religiosità e la cultura di svariate comunità montane, che vivevano in condizioni non facili, ma che possedevano tenacia, energia e senso di radicamento.

Realtà aperte e ricettive Proprio le testimonianze che si possono ammirare rendono evidente il fatto che non si trattasse di popolazioni isolate o richiuse in un orizzonte di breve respiro. I paesi dell’alta valle del Tronto erano realtà aperte e ricettive, capaci di attrarre artisti di varia provenienza fino a creare, sia pure per un breve periodo (XV-XVI secolo), una vera «scuola» locale, con pittori d’ingegno dallo stile eclettico e al tempo stesso originale. La maggior parte delle opere deriva dal prezioso Museo civico «Nicola Filotesio» di Amatrice. È il caso della stupenda Madonna

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ANTE PRIMA Qui accanto reliquiario, da S. Maria della Filetta. 1472. Amatrice, Museo Civico.

In alto Giuseppe Rosi, Sacra Famiglia, da Preta, S. Maria del Popolo. XVIII sec. Amatrice, Museo Civico. A destra gli Angeli che affiancavano la Madonna col Bambino sul portale della chiesa di S. Francesco (vedi foto a p. 7).

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Madonna in trono con Bambino, anta centrale di tabernacolo, da S. Maria a Cossito. XIII sec. Amatrice, Museo Civico.

di Cossito, all’inizio del percorso espositivo. Uscita indenne dal terremoto, questa tavola duecentesca aveva alle spalle una travagliata vicenda di trafugamento all’estero e di avventuroso recupero (1964-67: vedi «Medioevo» n. 205, febbraio 2014). Era già stata ospitata a Roma nel 2011, a Castel S. Angelo, per una mostra dedicata appunto ai beni artistici italiani messi in salvo sin dagli anni della seconda guerra mondiale.

L’omaggio degli Angeli Di fianco si può ammirare da vicino il bellissimo complesso scultoreo di S. Francesco di Amatrice, dove la Madonna in trono col Bambino è omaggiata da due Angeli (inizi del XV secolo). La delicatezza del rilievo è esaltata da una vivace policromia, emersa grazie a un restauro che si è concluso a ridosso del sisma. Le statue erano collocate sulla

DOVE E QUANDO

«Rinascite. Opere d’arte salvate dal sisma di Amatrice e Accumoli» Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano fino all’11 febbraio Orario tutti i giorni, 9,00-19,30; chiuso il lunedí Catalogo Electa Info tel. 06 39967700; www.coopculture.it, www.electa.it

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lunetta del portale principale e sono state messe in salvo lo scorso febbraio, quasi cinque mesi dopo il terremoto, con l’edificio ormai ridotto in rovina. Tra le oreficerie esposte, si evidenzia la raffinata «microarchitettura» del reliquiario della Madonna di Filetta, opera dell’ascolano Pietro Vannini (1472). Inoltrandoci nel pieno Rinascimento, si rimane sbigottiti di fronte alla frammentaria Madonna del latte di Grisciano (Accumoli), scultura in terracotta policroma attribuita a Silvestro dell’Aquila (inizi del XVI secolo). I crolli hanno danneggiato l’opera, e le hanno soprattutto strappato la figura di Gesú. Priva com’è del Bambino, la Madonna rivolge allo spettatore uno sguardo che sembra attonito, come se, con il seno inutilmente scoperto, chiedesse attenzione per la perdita dolorosa del pargolo che stava allattando. Colpisce per la vibrante drammaticità il crocifisso cinquecentesco di Preta (Amatrice), con un espressionismo che si ricollega direttamente alla tradizione della scultura transalpina. Fra i pregevoli dipinti di età moderna si possono infine segnalare due Sacre famiglie di epoche diverse, ma accomunate da una particolare delicatezza di toni che si lega bene all’indole tenace e gentile delle comunità coinvolte. L’una, cinquecentesca, è del pittore-architetto Nicola Filotesio, noto come Cola dell’Amatrice (dedicatario del Museo Civico, fu un poliedrico artefice formatosi tra Roma e l’Abruzzo, e richiesto in tutte le quattro regioni interessate dal «cratere» dei recenti sismi); l’altra, settecentesca, è dell’artista neoclassico Giuseppe Rosi, molto attivo in svariati centri del Lazio e nella stessa Roma. Furio Cappelli

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ANTE PRIMA

L’acqua, la luna e la nascita della geologia MOSTRE • Già esposto quand’era noto come

Codice Hammer, torna a Firenze il prezioso manoscritto in cui Leonardo riuní osservazioni di grande interesse scientifico. In un allestimento che permette di «sfogliarne» le pagine

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l Codice Leicester di Leonardo da Vinci torna a Firenze – dov’era stato già presentato nel 1982, quand’era ancora noto come Codice Hammer – come anteprima delle celebrazioni leonardiane che si svolgeranno in tutto il mondo nel 2019, in occasione dei 500 anni della morte di una delle figure-icona della storia dell’umanità. Il prezioso documento giunge in città grazie a Bill Gates, il fondatore di Microsoft che ne è diventato proprietario nel 1994, dopo averlo acquistato dal

DOVE E QUANDO

«Il Codice Leicester di Leonardo da Vinci. L’acqua microscopio della Natura» Firenze, Gli Uffizi, Aula Magliabechiana fino al 20 gennaio 2019 Orario ma-do, 8,15-18,50; chiuso tutti i lunedí, 1° gennaio, 1° maggio e 25 dicembre Info www.uffizi.it In alto e in basso due dei 72 fogli che compongono il Codice Leicester di Leonardo da Vinci. Raccoglie notazioni di idraulica, idrodinamica e sul comportamento della Luna. miliardario Armand Hammer. L’esposizione del Codice consente di vedere una delle opere piú importanti del maestro con le conoscenze e le sensibilità che oggi abbiamo maturato verso i temi dell’acqua e dell’ambiente che sono il filo rosso che lega le 72 pagine del manoscritto. L’opera è fitta di geniali annotazioni e di straordinari disegni, che Leonardo vergò tra il 1504 e il 1508, anni

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per lui di intensa attività artistica e scientifica. Era infatti il periodo nel quale effettuava gli studi di anatomia nell’Ospedale di Santa Maria Nuova, cercava di far volare l’uomo, era impegnato nell’impresa, poi non condotta a termine, della pittura murale raffigurante la Battaglia di Anghiari a Palazzo Vecchio e studiava soluzioni avveniristiche per rendere l’Arno navigabile.

Pagine fitte di testi e disegni Lo scrigno prezioso del Codice Leicester custodisce pagine fitte di testi innovativi e di disegni di mirabile qualità che testimoniano l’originalità e la profondità visionaria delle indagini di Leonardo sull’elemento acqua. Mai prima di gennaio

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Altre pagine del Codice Leicester, attualmente esposto a Firenze. Grazie al sussidio multimediale denominato Codescope, i visitatori possono «sfogliare» le pagine che compongono l’opera.

allora l’acqua e i suoi movimenti, le «zuffe» tra le correnti, la natura dei vortici e i loro processi di formazione, erano stati fatti oggetto di analisi cosí penetranti. Leonardo fissa per primo nelle pagine del Codice Leicester princípi di idraulica e di idrodinamica che verranno codificati solo secoli piú tardi. Fondandosi su riflessioni originali e geniali esperimenti, egli fornisce inoltre un’interpretazione corretta della cosiddetta luce cinerea della Luna, cioè del particolare fenomeno che interessa la Luna durante la prima e l’ultima fase, quando presenta solo un sottile spicchio illuminato; propone una serie di ipotesi innovative sulla storia della Terra, sulla formazione dei rilievi, delle depressioni e degli specchi d’acqua, sulle cause delle maree, sulle origini delle sorgenti e sulla presenza di fossili marini sulla cima delle montagne. Il complesso degli studi contenuti nel Codice segna la nascita della geologia come disciplina scientifica, liberandola dai pregiudizi e

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dai miti che la caratterizzavano al suo tempo. I 72 fogli del Codice sono stati collocati nell’Aula Magliabechiana degli Uffizi. Grazie a un innovativo sussidio multimediale, il Codescope, il visitatore può sfogliare i singoli fogli sugli schermi digitali, accedere alla trascrizione dei testi, e ricevere molteplici informazioni sui temi trattati.

Una stagione magica Al Codice fanno da contorno anche alcuni spettacolari disegni originali di Leonardo, prestati da istituzioni italiane e straniere, realizzati in quegli stessi anni, una stagione davvero «magica» della storia di Firenze, che vide la contemporanea presenza nel perimetro delle proprie mura di grandissimi personaggi

delle lettere, delle arti e delle scienze. Non a caso, Benvenuto Cellini definí quell’eccezionale stagione fiorentina «La Scuola del Mondo». Le applicazioni multimediali realizzate dal Museo Galileo sono anche consultabili sui siti web degli Uffizi e del Museo Galileo stesso. (red.)

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ANTE PRIMA

Sublime candore MOSTRE • Eseguita da Luca Della Robbia per la chiesa pistoiese di S. Giovanni

Fuorcivitas, la magnifica Visitazione è esposta nella stessa Pistoia, in S. Leone. Un’occasione da non mancare, per ammirare una delle testimonianze piú significative di quella che Vasari definí «arte nuova, utile e bellissima»

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uca Della Robbia (1399 o 14001482) aveva già al suo attivo numerosi incarichi, quando, nel 1445, la famiglia Fioravanti gli commissionò il gruppo in terracotta invetriata bianca che raffigura la Visitazione, per la chiesa di S. Giovanni Fuorcivitas a Pistoia. Fino al prossimo 7 gennaio, l’opera è esposta in S. Leone, pregevole edificio religioso in stile barocco, affrescato dal fiorentino Vincenzo Meucci e dalla sua bottega, nella seconda metà del Settecento. Recentemente restaurato e riaperto al pubblico, il luogo sacro è stato scelto per ospitare temporaneamente la Visitazione robbiana, dopo il suo rientro dalle mostre al Museum of Fine Arts di Boston e alla National Gallery di Washington, con l’intento di creare un connubio inedito tra teatralità e forme classiche per esaltare la raffinatezza delle differenti espressioni artistiche. Posizionata nella penombra, davanti all’altar maggiore, la scultura è composta da due figure di grandi dimensioni, su due piedistalli separati, originariamente ornate da dorature a freddo su vesti e capelli, che si toccano delicatamente, nel loro dolce incontro. Luca usa uno schema triangolare per introdurci all’intenso dialogo spirituale dei personaggi protagonisti della classica iconografia, qui resa con tratti essenziali, ma naturalistici, dal ritmo leggero e pausato, mediato dalla tradizione classica. Santa Elisabetta è genuflessa e

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implorante davanti alla Vergine, che l’invita affettuosamente a rialzarsi, mentre le braccia si allacciano e gli sguardi delle due donne si incrociano. Si tratta di uno dei primi esempi realizzati con l’invetriatura a tutto tondo, qui recuperata nel suo splendore, grazie agli ultimi interventi conservativi.

Una tecnica antica Proprio Luca, capostipite della bottega di famiglia, riuscí a portare la ceramica, relegata al rango di arte minore, al livello della pittura e della scultura, durante il Rinascimento, «riscoprendo» e perfezionando questa tecnica antica, con cui si invetriavano stoviglie, vasi, piastrelle e oggetti ceramici di uso domestico, e avviando una produzione di grande successo, diffusasi nelle principali corti europee. L’artista applicò alla scultura in terracotta una copertura in smalto formato da una miscela di piombo, stagno, silice, un elemento alcalino che, preparato e cotto in forno unitamente alla terra, formava una pellicola dura e lucida che «non la potesse offendere né acqua né vento», come riporta Giorgio Vasari, che la definí «un’arte nuova, utile e bellissima»; economicamente vantaggiose e rapide da eseguire, queste opere possedevano anche estrema resistenza alle intemperie e impermeabilità, che ne permettono ancora oggi la perfetta conservazione all’aperto, mentre la loro compattezza le rendeva facilmente trasportabili.

Sebbene il bianco e il blu siano un marchio di fabbrica delle cosiddette «robbiane», il trattamento cromatico dipendeva dall’aggiunta di ossidi metallici che davano una diversa colorazione. Con la seconda cottura, a temperatura leggermente inferiore, lo smalto subiva un processo di vetrificazione e si fissava stabilmente al supporto. Ed è proprio il bianco dello smalto che, riflettendo la luce, riesce a evidenziare il volume dei dettagli, regalandoci naturalezza anatomica, carica di candida luce: elementi elaborati con un linguaggio vigoroso ed equilibrato dallo scultore fiorentino nella rappresentazione della Visitazione, pervenendo a un alto livello di esecuzione. I Della Robbia furono impegnati in numerose committenze pubbliche, riuscendo a convincere i contemporanei di essere i detentori di una formula segreta, gelosamente custodita per impedire che i rivali venissero a conoscenza del loro metodo. Abili maestri artigiani, con creatività, fantasia e studio, furono capaci di trasformare la terra in opere d’arte. Mila Lavorini DOVE E QUANDO

Esposizione straordinaria della Visitazione di Luca Della Robbia Pistoia, chiesa di S. Leone fino al 7 gennaio Orario tutti i giorni, 10,00-17,00 Info www.diocesipistoia.it gennaio

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Visitazione, gruppo in terracotta invetriata di Luca Della Robbia. 1445 circa.

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ANTE PRIMA

Il pavone torna a fare la ruota RESTAURI • La policromia del mosaico

che ornava S. Reparata, l’antica chiesa cattedrale di Firenze, è stata risanata. E il suggestivo simbolo della Resurrezione torna a far bella mostra di sé 14

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razie a un attento restauro, torna visibile nella sua bellezza originale, una testimonianza straordinaria dell’antica Florentia: il pavimento in mosaico policromo di epoca paleocristiana della chiesa di S. Reparata, oggi nel Duomo di Firenze. Nel pavimento, spiccano la magnifica figura di un pavone – simbolo cristiano della Resurrezione – e un’epigrafe con i nomi dei 14 donatori dei mosaici, divisi in base al numero di piedi romani finanziati. Il lavoro, protrattosi per un anno e mezzo, è stato eseguito dai restauratori dell’Opera di Santa Maria del Fiore, e ha interessato tutto il pavimento musivo dell’area archeologica, di 100 mq circa, decorato a figure geometriche con esagoni, losanghe e nodi di Salomone. Si tratta del pavimento della prima chiesa di S. Reparata, che vide la luce ai primi decenni del V secolo d.C. (52 m di lunghezza per 25 di larghezza presunti), divisa al suo interno in tre navate separate da due file di quattordici colonne.

Maestranze africane Al centro della navata principale, si trovava l’emblema del pavone. Sulla stessa asse, piú in direzione dell’originale facciata (che guardava il Battistero ed era avanzata di 7-8 m rispetto a Nella pagina accanto Firenze, S. Reparata. Il mosaico policromo raffigurante il pavone a restauro ultimato (in alto) e prima dell’intervento. In questa pagina alcune fasi dell’intervento di restauro e, a sinistra, un particolare del mosaico.

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quella della Cattedrale) la lunga epigrafe con i nomi dei donatori. Il pavimento venne realizzato da maestranze africane, con le quali la Firenze del tempo aveva stretti rapporti culturali ed economici. Il pavimento musivo presentava vari fenomeni di degrado dovuti sia al passare del tempo – distacco e sfaldamento delle tessere, lacune di varie dimensioni, depositi di sporco –, sia a restauri precedenti. In particolare, a questi ultimi sono riconducibili le numerose integrazioni con cemento, dannose per gli stessi mosaici, che sono state sostituite

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ANTE PRIMA A sinistra un altro particolare delle decorazioni del mosaico di S. Reparata. Qui sotto la porzione del mosaico che riporta i nomi dei 14 donatori. In basso un nodo di Salomone, motivo ornamentale ricorrente nel mosaico.

Nel 2014 è stato realizzato il nuovo percorso espositivo ad andamento cronologico, che va dai resti di epoca romana, preesistenti alla costruzione della chiesa, alla sua fondazione in epoca paleocristiana, alle fasi altomedievale e romanica. Secondo alcune tradizioni medievali, la fondazione della chiesa di S. Reparata è da far risalire alla vittoria sulle orde barbariche di Radagaiso, sconfitte nel 405 d.C. nei dintorni di Firenze nel giorno dedicato alla santa. Una serie convergente di dati consente di circoscrivere ai primi

da malta, il piú simile possibile a quella originale, poi incisa e ritoccata cromaticamente. Le nuove integrazioni, riconoscibili e facilmente rimovibili, hanno cosí restituito leggibilità ai decori del pavimento.

Un palinsesto cittadino L’area archeologica della chiesa di S. Reparata nel Duomo di Firenze è un’importante testimonianza dell’antica Florentia, dove i visitatori possono vedere non soltanto la storia della Cattedrale, ma la vita della città di Firenze dal I secolo d.C. al XIV. L’area venne aperta al pubblico nel 1974, dopo una campagna di scavi durata quasi dieci anni. decenni del V secolo d.C. la fase costruttiva della chiesa piú antica. Dell’edificio di questa epoca si conservano parti del pavimento in mosaico e parti del muro settentrionale e di quello meridionale.

Riusi e rimaneggiamenti Tra l’VIII e l’XI secolo d.C. la chiesa mantenne le proporzioni precedenti anche se furono realizzate numerose modifiche concentrate soprattutto nell’area presbiteriale. A questo periodo risale il pavimento in cotto con frammenti marmorei e lapidei di riutilizzo, steso a circa 20 cm sopra quello musivo, di cui sono visibili delle parti. L’ultima

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fase, quella romanica, conobbe le maggiori trasformazioni della chiesa. L’edificio fu rialzato, sette pilastri per lato divisero le tre navate, una cappella settentrionale speculare a quella altomedievale diede vita a una pianta a transetto. La chiesa venne decorata con affreschi e continuò a essere un luogo di sepoltura privilegiato fino al 1379, anno in cui fu abbattuta per far posto alla nuova Cattedrale. Numerose le tombe presenti in S. Reparata, tra cui quella di Filippo Brunelleschi, mentre non ci sono tracce di quelle di Giotto, Arnolfo

di Cambio, Andrea Pisano, che secondo la tradizione dovevano essere qui sepolti. Il restauro descritto in queste pagine è stato eseguito nell’ambito degli interventi promossi dall’Opera di Santa Maria del Fiore, in sinergia con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, per

migliorare la fruizione dei monumenti del Duomo di Firenze, di cui la chiesa di S. Reparata fa parte. (red.)

Disegno ricostruttivo della chiesa di S. Reparata, l’antica cattedrale fiorentina. La sua prima fondazione si colloca nei primi decenni del V sec. e alla stessa epoca risale la realizzazione del mosaico con il pavone.

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ANTE PRIMA

Un cero verde per Vittore APPUNTAMENTI • La città di Marsiglia si

appresta a celebrare la Candelora. Festeggiamenti che hanno il loro culmine con la tradizionale processione della Madonna Nera A sinistra la statua della Madonna Nera dell’abbazia di S. Vittore di Marsiglia. A destra le caratteristiche navettes, biscottini a forma di barchetta.

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l 2 febbraio di ogni anno gli abitanti di Marsiglia celebrano la Candelora, la statua lignea di una Madonna Nera, oggetto di devozione popolare fin dal 1250. Secondo la leggenda, la reliquia fu trovata sulle rive del porto vecchio e venne subito eletta a protettrice della città provenzale. Oggi il prezioso cimelio è conservato in un’antica cripta, che si trova sotto l’abbazia di S. Vittore. Ed è lí, all’alba del 2 febbraio, che le celebrazioni iniziano con la benedizione dei ceri verdi, candele col colore della speranza che rappresentano l’emanazione del privilegio reale, accordato ai monaci di S. Vittore, di sigillare i loro documenti appunto con la cera verde.

La benedizione solenne Dopo la benedizione, la Candelora viene fatta risalire dalla cripta ed è portata sul sagrato della chiesa, dove l’arcivescovo benedice la città e il mare. In seguito, va in scena una processione, al termine della quale la statua viene riportata nella propria dimora. Per tradizione, i Marsigliesi

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rientrano poi nelle loro case con una candela verde e con le navettes, tipici biscottini a forma di barchetta, aromatizzati ai fiori d’arancio. I piccoli biscotti benedetti vengono venduti esclusivamente nel forno delle Navette, in rue Sainte, la vecchia panetteria dell’abbazia di S. Vittore, che durante la Candolora diventa meta dei pellegrini. L’abbazia fortificata di S. Vittore è la chiesa piú antica della città di Marsiglia. Venne costruita nel V secolo, sulle tombe dei primi martiri cittadini, fra i quali si narra vi fosse appunto san Vittore di Marsiglia – soldato romano che sarebbe stato ucciso nel 303 –, al quale fu dedicata. L’abbazia assunse importanza attorno all’anno 1000, diventando un centro d’interesse per tutta la Provenza. Uno dei suoi abati, Guillaume de Grimoard, venne eletto papa nel 1362 con il nome di Urbano V. A partire dal XV secolo per l’antico monastero iniziò un lento ma inesorabile declino. Oggi resta soltanto l’ex chiesa abbaziale, mentre il convento venne distrutto durante la Rivoluzione Francese. Tiziano Zaccaria gennaio

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Al ladro, al ladro!

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a Spagna è patria di tradizioni ancestrali uniche al mondo, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Una di queste si svolge annualmente a Piornal, un borgo di circa 1500 abitanti situato nella comunità autonoma dell’Estremadura, nelle giornate del 19 e 20 gennaio, in occasione della festa di san Sebastiano. Si tratta della festa dello Jarramplas, un curioso personaggio del folclore locale, che indossa giacca e pantaloni con nastri multicolori, una maschera conica con due grandi corni laterali e un naso molto pronunciato. Nella mattina del 19 gennaio, mentre lo Jarramplas attraversa le strade di Piornal, i giovani del luogo gli lanciano rape. Il personaggio si difende spostandosi in continuazione, e, dopo varie corse, trova riparo definitivo dentro la chiesa del paese.

Un ruolo assai ambito All’alba del 20 gennaio si ripete pressappoco la stessa sceneggiatura. Dapprima lo Jarramplas va in corteo, accompagnato dal suono di un tamburino, poi sul sagrato della chiesa viene nuovamente preso di mira a colpi di ortaggi (comunque, per evitare traumi, sotto l’abito indossa una protezione). Il protagonista della festa cerca di resistere agli assalti il piú a lungo possibile, finché è costretto ad arrendersi. Questa tradizione ha origini medievali e viene ricondotta alla figura di un ladro di bestiame ridicolizzato dai cittadini. In passato contro di lui si lanciavano patate; oggi è usanza tirargli rape, tanto che se ne consuma qualche tonnellata nei due giorni di festa. Ma vestire i panni dello Jarramplas non è umiliante. Anzi, viene visto con orgoglio dai piornalegos. Perciò i genitori prenotano questo ruolo ai loro figli, quando ancora sono piccoli, con anni di anticipo. La lista d’attesa per essere uno «Jarramplas» si aggira intorno ai vent’anni. Per esempio, attualmente è già prenotata fino al 2036. T. Z.

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ANTE PRIMA

VIAGGIO NEI CASTELLI D’EUROPA Dalle torri normanne ai bastioni rinascimentali ● Lungo il Reno e la Loira ● Fortezze moresche e castelli crociati ● Le residenze dei Visconti e degli Sforza ● Nei luoghi della leggenda: sulle tracce di Robin Hood, Macbeth, Frankenstein e Dracula… ●


IL NUOVO DOSSIER DI MEDIOEVO

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l nuovo Dossier di «Medioevo» propone un viaggio lungo e affascinante, che, dalle terre del Grande Nord, arriva a toccare gli assolati altipiani del Levante. Filo conduttore dell’itinerario è il castello, ovvero l’espressione architettonica che, nell’età di Mezzo, insieme ai luoghi della fede, fu una presenza costante e capillare. Torri e mura merlate sono presenti un po’ ovunque: arroccati su montagne e dorsi di colline, affacciati sulle acque dei fiumi e dei mari, nascosti nei

Il castello di Rabati, in Georgia. XIII sec. Il complesso comprende edifici che ne testimoniano l’identità multiculturale: all’interno delle mura vi sono infatti una chiesa ortodossa georgiana, un luogo di culto cattolico armeno, una moschea e una sinagoga.

centri cittadini oppure isolati nelle periferie. Baluardi difensivi, residenze nobiliari, sedi di governo e anche carceri, i castelli furono a piú riprese il palcoscenico di grandi eventi storici e le pietre di cui sono fatti evocano capitoli salienti della biografia delle nazioni europee, narrando di scontri e integrazioni tra popoli, ma documentano anche l’evoluzione di forme architettoniche complesse, molte delle quali sono oggi considerate patrimonio dell’umanità. Il Dossier di «Medioevo» propone dunque una rassegna vasta e puntuale, articolata per grandi aree geografiche: dalla Germania al Regno Unito, dalla Francia alla Spagna, dall’Italia ai Paesi dell’area balcanica, solo per citare alcune delle piú importanti. A ciascun castello sono dedicate altrettante schede «biografiche», che ne ripercorrono la storia e ne descrivono le peculiarità strutturali, nonché l’apparato ornamentale, fatto, in molti casi, di magnifici tesori pittorici e plastici. Com’è ormai tradizione, il testo si avvale di un ampio corredo iconografico e cartografico, grazie al quale l’itinerario alla scoperta dei castelli quasi si trasforma in un’esperienza concreta. E che vuol essere anche un invito a conoscere monumenti di straordinario interesse e fascino.


AGENDA DEL MESE

Mostre VITERBO IL TESORO DI SANTA ROSA. UN MONASTERO DI ARTE, FEDE E LUCE Monastero di S. Rosa fino al 6 gennaio

Rosa è una santa giovane, povera e rivoluzionaria i cui resti, dal XIII secolo, sono ospitati nel monastero posto nel cuore della città di Viterbo. Attorno al suo culto patronale, la Città dei Papi si stringe in una celebre festa, incentrata

a cura di Stefano Mammini

restaurati per l’occasione: la quattrocentesca Madonna del Latte, dipinta su una tegola, e un olio su tela del XVI secolo raffigurante Sant’Orsola; il bozzetto di Marco Benefial con La prova del fuoco; riproduzioni degli acquerelli secenteschi del Sabatini con la storia della santa, dipinta a metà del Quattrocento da Benozzo Gozzoli nell’antica chiesa andata distrutta; e ancora i preziosi documenti relativi alla santificazione: il manoscritto del 1457 contenente il processo di canonizzazione e le cosiddette Lettere patenti di 13 comunità limitrofe che lo sostenevano. info tel. 0761 342887; e-mail: monasterosantarosa@alice.it; www.sabap-rm-met.beniculturali.it BOLOGNA 1143: LA CROCE RITROVATA DI SANTA MARIA MAGGIORE Museo Civico Medievale fino al 7 gennaio

sulla processione della statua con la luminosa macchina di S. Rosa. La mostra si sviluppa lungo quattro aree tematiche: l’antico monastero e la sua decorazione; la vita di santa Rosa e la sua canonizzazione; le monache di S. Rosa e la vita nel monastero; la devozione popolare e gli ex voto. Si disegna cosí, intorno al chiostro, un percorso che esalta sia il valore storico artistico e etnoantropologico dei singoli pezzi, sia l’aspetto spirituale del luogo che li ospita. A partire dalla teca contenente il corpo della santa, si possono ammirare dipinti di particolare interesse storico-artistico, come quelli

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L’esposizione nasce dall’occasione di esporre per la prima volta, a seguito del restauro, questo prezioso esemplare di croce viaria. L’opera rientra nella tipologia di croci poste su colonne, che venivano collocate nei punti focali della città, a segnalare spazi sacri come chiese e

cimiteri o di particolare aggregazione come i trivi o i crocicchi e le piazze. Stando alla tradizione, tale uso si diffuse già in epoca tardoantica, ma è soprattutto a partire della nascita del Comune (1116) e con l’espansione urbanistica di Bologna del XII e XIII secolo che si venne a sviluppare tale fenomeno. Talvolta le croci venivano protette da piccole cappelle e corredate di reliquie, di altari per la preghiera, e di tutto il necessario per la celebrazione della messa. Segno distintivo e identificativo per la città, le croci segnarono lo spazio urbano fino al 1796, quando l’arrivo delle truppe napoleoniche e l’instaurazione della nuova Repubblica trasformarono la città e i suoi simboli. La croce ritrovata di S. Maria Maggiore è di notevole interesse sia perché era tra i molti esemplari andati dispersi, sia perché è possibile datarla grazie all’iscrizione 1143, presente nel braccio destro. L’opera si viene cosí a collocare tra i piú antichi modelli a noi pervenuti, come quella di poco successiva alla croce degli Apostoli e degli Evangelisti, detta anche di Piazza di Porta Ravegnana, che risale al 1159. info tel. 051 2193916 o 2193930; e-mail: museiarteantica@ comune.bologna.it; www.museibologna.it/arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte VIENNA RAFFAELLO Museo Civico Medievale fino al 7 gennaio

Grazie alla collaborazione con l’Ashmolean Museum di Oxford, l’Albertina propone una ricca rassegna sul genio urbinate, riunendo 150 dipinti

e disegni. Il nucleo portante dell’esposizione è composto da opere che appartengono alla prestigiosa raccolta viennese, alle quali fanno da contorno capolavori concessi in prestito, oltre che dall’Ashmolean, da molti dei maggiori musei internazionali. È cosí possibile documentare l’intero sviluppo della carriera artistica di Raffaello, dalle prime composizioni, ricche di spontaneità, alle ricercate realizzazioni della maturità. A testimonianza della versatilità del maestro, non mancano tracce della sua attività di architetto, ingaggiato da papi e principi, che contribuí a farne la firma piú ricercata del suo tempo. Un ingegno eccelso, del quale ancora oggi si può ammirare la straordinaria capacità di coniugare l’imitazione della natura con l’idealizzazione dei soggetti prescelti. info www.albertina.at PARIGI IL VETRO. UN MEDIOEVO DI INVENZIONI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino all’8 gennaio

Il Museo nazionale del Medioevo presenta una gennaio

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selezione di autentici capolavori dell’arte vetraria, scelti come «ambasciatori» di questa peculiare produzione. Arte di lusso, nata dalla creatività dei mastri vetrai merovingi attivi intorno al V secolo, la produzione del vetro guadagna i suoi quarti di nobiltà con l’avvento dell’architettura gotica, come testimoniano in maniera eloquente le opere provenienti dall’abbazia di Saint-Denis o dalla Sainte-Chapelle. Tuttavia, oltre che magicamente trasparente, questa materia prima si rivela eccezionalmente duttile e può anche trasformarsi in bene alla portata di tutti e trova vastissima diffusione nelle cucine e sulle tavole, finendo con il diventare una presenza fissa nelle taverne. Né mancano gli utilizzi in

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campo religioso o medico, quando la pasta viene soffiata per assumere le forme di alambicchi e fiale. E poi, sul finire del XIII secolo, si apre un’altra delle grandi strade del vetro, quella della produzione delle prime lenti per occhiali. Una vicenda dunque affascinante e variegata, che a Cluny viene ripercorsa nei suoi mille riflessi. info www.musee-moyenage.fr PRATO LEGATI DA UNA CINTOLA. L’ASSUNTA DI BERNARDO DADDI E L’IDENTITÀ DI UNA CITTÀ Museo di Palazzo Pretorio fino al 14 gennaio

Simbolo religioso e civile, fulcro delle vicende artistiche di Prato ed elemento cardine della sua identità, la Sacra Cintola pratese è protagonista

della nuova esposizione nel Museo di Palazzo Pretorio. Un tema, quello della reliquia pratese, che accende un fascio di luce intenso su un’età di grande prosperità per la città toscana, il Trecento, a partire dalle committenze ad artisti di prim’ordine, come Giovanni Pisano e Bernardo Daddi, che diedero risonanza alla devozione mariana a Prato come vero e proprio culto civico. In particolare, l’esposizione è l’occasione per tornare ad ammirare nel suo complesso la monumentale macchina dipinta da Daddi: la pala dell’Assunta, che gli fu commissionata nel 1337-1338. Nel tempo, l’opera è stata smembrata e la sua diaspora ha fatto sí che si perdesse la coscienza stessa della sua importanza. Prato può ora accoglierne i componenti entrati a far parte delle collezioni dei Musei Vaticani e del Metropolitan Museum of Art di New York. info tel. 0574 19349961; www.palazzopretorio.prato.it

PARIGI CRISTIANI D’ORIENTE. DUEMILA ANNI DI STORIA Institut du monde arabe fino al 14 gennaio

Secondo i Vangeli, teatro della predicazione di Cristo fu la Palestina e la nuova religione che da quell’esperienza prese le mosse si diffuse inizialmente fra il Mediterraneo e l’Eufrate, lungo il Nilo e sulle rive del Bosforo. Oggi, a dispetto delle vicissitudini antiche e moderne, i cristiani del Vicino

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AGENDA DEL MESE MOSTRE • Giovanni da Rimini. Passato e presente di un’opera Roma – Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma-Palazzo Barberini

fino al 18 febbraio info tel. 06 4824184; e-mail: Gan-aar@beniculturali.it; www.barberinicorsini.org

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a mostra offre al pubblico italiano l’occasione di ammirare la preziosa tavola con le Storie di Santi realizzata da Giovanni da Rimini (notizie 1292-1315 circa) acquistata dalla National Gallery di Londra nel 2015. Giovanni da Rimini è uno dei principali e precoci esponenti della pittura riminese del Trecento, autore di opere capitali per il rinnovamento della pittura adriatica dopo il passaggio di Giotto in città intorno al 1300, dagli affreschi del convento di S. Agostino al Crocifisso di San Francesco (Mercatello sul Metauro). L’esposizione permette di confrontare direttamente l’opera londinese con le Storie di Cristo realizzate dal medesimo artista e oggi conservate a Palazzo Barberini. Le due tavole, databili agli inizi del Trecento, sono state a lungo considerate parti di un’unica opera: sono infatti molto simili per composizione, impaginazione e stile ed erano forse legate entrambe all’importante convento eremitano di S. Agostino a Rimini. Se non abbiamo notizie certe sulla loro origine, sembra però che alla fine del Seicento fossero conservate insieme proprio nelle collezioni della famiglia Barberini. Da lí presero poi strade diverse: quella di Londra passò nella collezione Camuccini per essere poi acquistata da Algernon Percy, IV Duca di Northumberland, e portata in Inghilterra nel 1835. Quella di Palazzo Barberini passò alla collezione Sciarra e venne infine acquistata dallo Stato italiano nel 1897. Accanto alle due tavole sono esposte anche le Storie della Passione di Cristo realizzate intorno al 1330-1335 da Giovanni Baronzio e oggi a Palazzo Barberini, a mostrare come l’influenza del piú anziano Giovanni fosse ancora ben presente anche nella successiva generazione di pittori riminesi. e Medio Oriente non sono la presenza residua di un passato ormai lontano, ma sono parte essenziale di un mondo arabo che hanno contribuito a formare. Da queste premesse nasce il nuovo progetto espositivo dell’Institut du monde arabe, che, grazie a una selezione di oltre 300 opere – molte delle quali vengono presentate in Europa per la prima volta – ripercorre la vicenda delle comunità cristiane orientali dall’antichità ai giorni nostri, documentandone, oltre alla religione, la politica, la cultura e l’arte. Fra i numerosi capolavori presenti in mostra, possiamo ricordare i Vangeli Rabbula, un manoscritto siriano del VI

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secolo, gli affreschi di Dura Europos (III secolo) e mosaici provenienti dalle piú antiche chiese di Palestina e di Siria. info www.imarabe.org SIENA AMBROGIO LORENZETTI Complesso museale Santa Maria della Scala fino al 21 gennaio

Nonostante sia considerato uno degli artisti piú importanti dell’Europa trecentesca, Ambrogio Lorenzetti è ancora poco conosciuto al pubblico. Gli studi – spesso di livello altissimo – si sono concentrati, infatti, quasi esclusivamente sui suoi affreschi del Palazzo Pubblico di Siena, le Allegorie e gli

Effetti del Buono e del Cattivo Governo sulla città e il suo contado. Ma la densità concettuale di questo insieme di affreschi ha messo in ombra il resto delle sue opere

pittoriche. Preceduta da un’intensa attività di ricerca e dalle importanti campagne di restauro, la mostra, rappresenta dunque l’occasione per provare a ricostruire la sua imponente attività. L’iniziativa è possibile soltanto nella città di Siena, che conserva all’incirca il 70 per cento delle opere oggi conosciute del pittore. Ma l’esposizione – grazie a richieste di prestito molto mirate (sono esposte, tra le altre, opere provenienti dal Louvre, dal National Gallery, dalla Galleria degli Uffizi, dai Musei Vaticani, dallo Städel Museum di Francoforte, dalla Yale University Art Gallery) – reintegra pressoché gennaio

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interamente la vicenda artistica di Lorenzetti, facendo nuovamente convergere a Siena dipinti che in larghissima parte furono prodotti proprio per cittadini senesi e per chiese della città. info tel. 0577 286300: e-mail: ambrogiolorenzettisms@ operalaboratori.com; www.santamariadellascala.com ZURIGO L’ABBAZIA DI EINSIEDELN. 1000 ANNI DI PELLEGRINAGGIO Museo nazionale fino al 21 gennaio

L’abbazia di Einsiedeln, oggi nel cantone svizzero di Svitto, una cinquantina di chilometri a sud di Zurigo, è un’importante meta di pellegrinaggio, che, dal XIII secolo a oggi, ha accolto fedeli provenienti da ogni parte del mondo. Nel corso di una storia plurisecolare, la struttura originaria ha subito ripetuti rimaneggiamenti e cosí oggi, al posto del modesto eremo in cui visse Meinrado attorno all’860, si può ammirare la chiesa abbaziale in tutta la sua pompa barocca. Questo centro spirituale è stato investito di privilegi e ha ricevuto doni e offerte da papi, imperatori, re e semplici cittadini, uomini e donne.

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La mostra che si tiene nel nuovo edificio del Museo nazionale, frutto di una stretta collaborazione con l’abbazia, racconta i retroscena storici e politici, la venerazione di Maria e il ruolo di primo piano che il monastero riveste tuttora come meta di pellegrini. info tel. +41 (0)58 4666564; www.landesmuseum.ch

culturale nel quale di dispiegò la sua straordinaria vicenda umana e artistica. Grazie ai prestiti concessi da piú di 50 istituzioni pubbliche e private statunitensi ed europee, sono confluiti nelle sale del Metropolitan alcuni dei piú celebri capolavori del Buonarroti, come la serie dei disegni realizzati per Tommaso de’ Cavalieri – il nobile romano che si legò a lui in un rapporto d’amicizia ultratrentennale – o il monumentale cartone

TORINO GIOVANNI DA PISA. UN POLITTICO DA RICOSTRUIRE Palazzo Madama fino al 5 febbraio

La mostra è il logico corollario del progetto di restauro e valorizzazione che ha riguardato quattro tavole attribuite al pittore ligure d’inizio Quattrocento Giovanni da Pisa, originariamente appartenenti a un medesimo polittico. Presso il Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale» sono state restaurate San Leonardo e Santa Chiara, di proprietà privata ma concesse in deposito a Palazzo Madama, cosí come la Sant’Agata del Museo Civico di Pavia; la Madonna col Bambino del Museo Diocesano di Genova era stata invece restaurata presso il laboratorio genovese di Antonio Silvestri. La ricomposizione del polittico viene effettuata per la prima volta e la sua presentazione prende avvio da Palazzo Madama, da dove poi farà tappa presso i Musei Civici di Pavia e al Museo Diocesano di Genova. In seguito a questo intervento, si è aperta la possibilità di sottoporre a una nuova verifica l’ipotesi già da tempo formulata dalla critica, di una comune provenienza delle due tavole e degli altri due dipinti presentati in mostra: la Sant’Agata di Pavia e la Madonna col

Bambino di Genova. Gli studi hanno inoltre consentito di ipotizzare che a completare il polittico ci fosse una quinta tavola: un frammentario San Lorenzo di cui si ignora la attuale ubicazione. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it NEW YORK MICHELANGELO, DIVINO DISEGNATORE E PROGETTISTA The Metropolitan Museum of Art fino al 12 febbraio

Il Metropolitan Museum of Art celebra la grandezza del «divino» Michelangelo Buonarroti attraverso i suoi disegni, considerati come una delle espressioni piú cristalline del suo genio. Un’opera, la sua, che riscosse l’ammirazione dei contemporanei e che ha da allora costituito un modello e una fonte di ispirazione universali. Per l’esposizione newyorchese sono stati selezionati, oltre a 150 disegni, alcuni marmi, dipinti giovanili, il modello ligneo per la volta di una cappella, nonché un ricco corpus di opere firmate da artisti dell’epoca in cui Michelangelo fu attivo, cosí da inquadrare meglio il contesto storico e

preparatorio del suo ultimo affresco nei Palazzi Vaticani, la Crocifissione di san Pietro, portato a termine nel 1550 nella Cappella Paolina. info www.metmuseum.org TORINO ODISSEE. DIASPORE, INVASIONI, MIGRAZIONI, VIAGGI E PELLEGRINAGGI Palazzo Madama, Corte Medievale fino al 14 febbraio

Raccontare il cammino dell’umanità sul pianeta Terra nel corso di una storia plurimillenaria: è questo l’obiettivo della nuova esposizione allestita in Palazzo Madama. Per raggiungerlo, sono state scelte opere provenienti dalle raccolte dello stesso Palazzo Madama e da vari musei del territorio e nazionali: dipinti, sculture,

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AGENDA DEL MESE definizione che ne diede l’umanista Cristoforo Landino nel 1481. info tel. 06 4824184; e-mail: Gan-aar@beniculturali.it; www.barberinicorsini.org ROMA

ceramiche antiche, reperti etnografici e archeologici, oreficerie longobarde e gote, metalli ageminati e miniature indiane, armi e armature, avori, libri antichi, strumenti scientifici e musicali, carte geografiche, vetri, argenti ebraici e tessuti. Il percorso si articola in dodici sezioni: la preistoria, i viaggi mitologici di Ulisse ed Enea, la diaspora ebraica, l’espansione dell’impero romano, le cosiddette invasioni barbariche, l’espansione islamica, le Crociate, i pellegrinaggi, le esplorazioni, le colonizzazioni, l’emigrazione europea verso le Americhe tra l’Ottocento e gli inizi del Novecento, le migrazioni contemporanee. info www.palazzomadamatorino.it ROMA ALTRO RINASCIMENTO. IL GIOVANE FILIPPO LIPPI E LA MADONNA DI TARQUINIA Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma-Palazzo Barberini fino al 18 febbraio

La rassegna celebra il centenario della riscoperta della Madonna di Tarquinia, messa a confronto con un ristretto e selezionato numero di opere del giovane Filippo Lippi. La tavola fu infatti identificata nel 1917 dal grande storico dell’arte Pietro Toesca a S. Maria di Valverde a

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Tarquinia (allora Corneto). Datato 1437, il dipinto dalla sua riscoperta e attribuzione a Filippo Lippi, è stato unanimemente riconosciuto quale opera fondamentale del pittore fiorentino, perché ne documenta il passaggio dalle esperienze iniziali, all’ombra dello stile severo di Masaccio alle novità introdotte da Donatello negli anni Trenta del Quattrocento. Attraverso tale fondamentale esperienza, fra Filippo maturò uno stile personale, caratterizzato dalla linea elegante e sofisticata, dalle cromie cangianti e sensuali, una pittura ornata e gratiosa, per riprendere la

VOGLIA D’ITALIA. IL COLLEZIONISMO INTERNAZIONALE NELLA ROMA DEL VITTORIANO Palazzo Venezia e Gallerie Sacconi al Vittoriano fino al 4 marzo

L’esposizione presenta per la prima volta in modo organico la raccolta, vasta e sorprendente, che i coniugi statunitensi George Washington Wurts ed Henriette Tower misero insieme a cavallo fra XIX e XX secolo e donarono poi allo Stato italiano, per l’esattezza al Museo di Palazzo Venezia, dove tuttora è conservata. Alla base del progetto vi è anche l’idea di restituire il contesto della raccolta Wurts, ovvero quella particolare forma di collezionismo che, tra Ottocento e Novecento, si legò cosí intimamente all’Italia, fino

a concretizzarsi spesso nella donazione allo Stato di singole opere o di intere raccolte. La mostra illustra le dinamiche del collezionismo, soprattutto anglo-americano, e del mercato internazionale, sullo sfondo dei radicali cambiamenti vissuti in quegli anni dalla giovane nazione italiana e dalla sua nuova capitale, Roma. La costruzione del Vittoriano, iniziato nel 1885 e inaugurato nel 1911 nell’occasione dell’Esposizione che celebrava il cinquantenario dell’Unità d’Italia, diviene l’emblema che caratterizza la città all’alba del Novecento. info www.mostravogliaditalia.it PADOVA RIVOLUZIONE GALILEO. LA SCIENZA INCONTRA L’ARTE Palazzo del Monte di Pietà fino al 18 marzo

Dopo Galileo nulla fu come prima. E non solo nella ricerca astronomica e nelle scienze, ma anche nell’arte. Con lui, il cielo passa dagli astrologi agli astronomi. La mostra allestita nel Palazzo del Monte di Pietà di Padova racconta, per la prima volta, la figura complessiva e il ruolo di uno dei massimi protagonisti del mito italiano ed europeo. In un’esposizione dai caratteri originali, dove capolavori dell’arte occidentale in dialogo con testimonianze e reperti diversi consentono di scoprire gennaio

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un personaggio da tutti sentito nominare ma da pochi realmente conosciuto. Dalla mostra emerge l’uomo Galileo nelle molteplici sfaccettature: dallo scienziato padre del metodo sperimentale al letterato esaltato da Foscolo e Leopardi, Pirandello e Ungaretti, De Sanctis e Calvino. Dal Galileo virtuoso musicista ed esecutore al

Galileo artista, tratteggiato da Erwin Panofsky quale uno dei maggiori critici d’arte del Seicento; dal Galileo imprenditore – non solo il cannocchiale ma anche il microscopio o il compasso – al Galileo della quotidianità. Poiché l’uomo, eccezionale per potenza d’intuizione e genio scientifico, lo era anche nei piccoli vizi e debolezze, quali gli studi di viticoltura e la passione per il vino dei Colli Euganei – rifiutando la «vil moneta» baratta i suoi strumenti di precisione con vino «del migliore» – o la produzione e vendita di pillole medicinali. info www. fondazionecariparo.it

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FIRENZE TESSUTO E RICCHEZZA A FIRENZE NEL TRECENTO. LANA, SETA, PITTURA Galleria dell’Accademia fino al 18 marzo

L’importanza dell’arte tessile a Firenze nel Trecento è il tema del nuovo progetto espositivo realizzato dalla Galleria dell’Accademia. Proprio nel Trecento, infatti, inizia a svilupparsi un nuovo fenomeno legato al lusso: la moda. La qualità della lana e in seguito della seta dei prodotti fiorentini raggiunse, nonostante i costi molto alti delle materie prime e dei coloranti, un livello di eccellenza, tale da imporsi in Europa, a dispetto delle guerre, delle frequenti epidemie, nonché delle crisi finanziarie e dei conflitti sociali. Il percorso espositivo della mostra è cronologico e approfondisce lo sviluppo e la provenienza dei manufatti. La prima sezione illustra le cosiddette Geometrie mediterranee che rimandano al mondo musulmano, segue il Lusso dall’Asia mongola con i piccoli motivi vegetali e animali. Seguono le Creature alate degli ornamenti tessili di influenza cinese. Mentre le Invenzioni pittoriche, della sezione seguente, evocano con fantasia i disegni delle sete pregiate lavorate da tessitori altamente qualificati. La sezione dedicata al Lusso proibito prende spunto dal registro che dal 1343 al 1345 annovera le vesti proibite

elencate nella cosiddetta Prammatica delle vesti. Chiudono l’esposizione i Velluti di seta che anticipano gli sviluppi della moda nel secolo successivo. info Firenze Musei: tel. 055 290383; e-mail: firenzemusei@operalaboratori.com; www.galleriaaccademiafirenze. beniculturali.it NAPOLI LONGOBARDI. UN POPOLO CHE CAMBIA LA STORIA Museo Archeologico Nazionale fino al 25 marzo

Dopo l’esordio di Pavia (vedi «Medioevo» n. 248, settembre 2017), approda al Museo Archeologico Nazionale di Napoli la grande mostra sui Longobardi: un’esposizione che corona oltre 15 anni di nuove indagini archeologiche, epigrafiche e storico-politiche su siti e necropoli altomedievali, frutto del rinnovato interesse per un periodo cruciale della storia italiana ed europea. Ne scaturisce una visione complessiva e di ampio respiro (dalla metà del VI secolo, dalla presenza gotica in Italia, alla fine del I millennio) del ruolo, dell’identità, delle strategie, della cultura e dell’eredità del popolo longobardo che, nel 568, guidato da Alboino, varca le Alpi Giulie e inizia la sua espansione sul suolo italiano: una terra divenuta crocevia strategico tra Occidente e Oriente, un tempo cuore dell’impero romano e ora sede della cristianità, ponte tra Mediterraneo e Nord Europa. info www.mostralongobardi.it FIRENZE DA BROOKLYN AL BARGELLO: GIOVANNI DELLA ROBBIA, LA LUNETTA ANTINORI E STEFANO ARIENTI

Museo Nazionale del Bargello

fino all’8 aprile

Dopo essere stato esposto, tra il 2016 e il 2017, presso il Museum of Fine Arts di Boston e la National Gallery di Washington, approda a Firenze un capolavoro che ha lasciato l’Italia nel lontano 1898: la lunetta con la Resurrezione di Giovanni della Robbia. L’opera viene presentata nella cornice del Museo Nazionale del Bargello, dove si conserva la maggiore raccolta al mondo di sculture realizzate in terracotta invetriata dai Della Robbia. Commissionata probabilmente intorno al 1520 da Niccolò di Tommaso Antinori (1454-1520), che dette inizio alla fortuna imprenditoriale di questo antichissimo casato fiorentino, la lunetta è di dimensioni monumentali (174,6 x 364,5 x 33 cm) e resta oggi uno dei piú notevoli esempi della produzione di Giovanni della Robbia (1469-1529). La lunetta raffigura il Cristo risorto, con il committente Antinori in ginocchio alla sua destra e i soldati attorno al sepolcro, secondo l’iconografia tradizionale: il tutto su un articolato sfondo di paesaggio e all’interno di una fastosa cornice di frutti e fiori popolata da piccoli animali. In parallelo, viene presentata un’opera di Stefano Arienti, artista italiano tra i piú apprezzati in ambito internazionale, dal titolo Scena fissa, con cui la scultura robbiana viene riletta e reinterpretata, dando vita a un inaspettato dialogo tra arte rinascimentale e contemporanea. info tel. 055 2388606; e-mail: mn-bar@beniculturali.it; www.bargellomusei.beniculturali.it

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AGENDA DEL MESE LORETO L’ARTE CHE SALVA. IMMAGINI DELLA PREDICAZIONE TRA QUATTROCENTO E SETTECENTO. CRIVELLI, LOTTO, GUERCINO Museo-Antico Tesoro della Santa Casa fino all’8 aprile

Primo appuntamento del ciclo di eventi «Mostrare le Marche», l’esposizione è finalizzata alla valorizzazione e alla tutela del patrimonio artistico e culturale dei luoghi colpiti dal sisma ed al rilancio dal punto di vista turistico ed economico degli stessi. «L’arte che salva» si propone di approfondire la conoscenza della produzione artistica collegata a un fenomeno che ha caratterizzato in profondità la cultura non solo europea, la

emblematico di santa Camilla Battista da Varano, al rapporto con altre fedi religiose e fino alla spinta missionaria mondiale dei predicatori della Compagnia di Gesú. Il percorso è illustrato attraverso una quarantina di oggetti, comprendenti dipinti, sculture, incisioni, manoscritti e volumi provenienti dalla Regione Marche, con un nucleo significativo di opere salvate dal terremoto del Centro Italia. info tel. 071 9747198 oppure 06 68193064; e-mail: museoanticotesoro@gmail. com oppure segr.artifex@gmail.com

BERGAMO RAFFAELLO E L’ECO DEL MITO Accademia Carrara fino al 6 maggio (dal 27 gennaio)

predicazione. Il tema è illustrato nei suoi molteplici aspetti: dalle figure dei predicatori dei grandi ordini religiosi, francescani, domenicani, agostiniani e gesuiti, alle devozioni da loro promosse con le relative immagini, spesso opera di grandi artisti quali Crivelli, Lotto, Muziano, Guercino; dall’effetto della predicazione sui fedeli, attraverso il caso

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La mostra approfondisce l’opera e la fortuna che il genio di Urbino ha conosciuto nel tempo, modello di perfezione rincorso negli anni a lui coevi e nei secoli a venire. A Bergamo sono esposte alcune tra le piú rappresentative opere di Raffaello, dalla formazione agli esordi giovanili, dalle immagini simboliche alla consapevolezza di una nuova pittura di «grazia, studio, bellezza»; oltre a un’ampia riflessione sul capolavoro simbolo delle collezioni di Accademia Carrara, il San

Sebastiano. Dipinti, sculture e testimonianze raccontano il mondo attorno a Raffaello, dalla sua formazione all’opera, fino all’ «ossessione» degli autori successivi per un maestro il cui fascino ha influenzato intere generazioni. Dalle opere del padre, Giovanni Santi, di Perugino, di Pintoricchio e dei piú importanti pittori del suo tempo, fino a una panoramica dedicata al contemporaneo in cui artisti come Picasso, De Chirico, Giulio Paolini e Francesco Vezzoli sono chiamati a raccontare quanto l’ispirazione di un maestro tanto straordinario si sia propagata fino ai giorni nostri. info www.lacarrara.it

Appuntamenti PERUGIA LA STORIA DEI TEMPLARI RACCONTATA A SAN BEVIGNATE Complesso monumentale di San Bevignate fino al 16 febbraio

San Bevignate è un complesso monumentale che, per le considerevoli forme architettoniche e il valore delle testimonianze iconografiche di soggetto templare conservate al suo interno, è divenuto non soltanto elemento di attrazione per i visitatori, ma anche oggetto di proficui approfondimenti scientifici e didattici. Dal crescente interesse per il patrimonio monumentale e artistico di committenza templare è nato un nuovo ciclo di conferenze, sulla storia della militia Templi e della sua presenza a Perugia. Questi i prossimi appuntamenti: 26 gennaio, ore 18,00: Il vescovo e il santo: Napoleone Comitoli e il culto

di san Bevignate (ca. 1600) (Pascale Rihouet, Rhode Island School of Design, Providence, USA; introduce: Laura Teza, Università di Perugia); 16 febbraio, ore 17.30: Cubiculari templari e ospedalieri al servizio del papa: i casi di fra Bonvicino, fra Tommaso e fra Giacomo da Pocapaglia (Sonia Merli, Deputazione di storia patria per l’Umbria; introduce: Paolo Caucci von Saucken, già Università di Perugia). info tel. 075 5772416 (lu-ve, 9,00-13,00); e-mail: info. cultura@comune.perugia.it; http://turismo.comume.perugia.it FIRENZE L’ALTROVE A FIRENZE. TESTIMONIANZE FRA ARTE E SCIENZA Palazzo Pitti, Teatro del Rondò di Bacco fino al 28 marzo

Il ciclo di conferenze, pensate per quanti desiderino conoscere meglio la storia di Firenze, nasce dalla collaborazione tra le Gallerie degli Uffizi e il Museo di Storia Naturale dell’Università degli Studi di Firenze. Il ciclo è dedicato sia ai docenti delle scuole di ogni ordine e grado, che potranno farlo valere gennaio

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anche come corso di aggiornamento, sia al pubblico dei musei fiorentini. Questi i prossimi appuntamenti in programma: 10 gennaio, ore 17,00: Rocce, fossili e foto da mondi lontani: le spedizioni di Giotto Dainelli ripercorribili nelle collezioni del Museo di Paleontologia dell’Università di Firenze (Elisabetta Cioppi, sezione di Geologia e Paleontologia del Museo di Storia Naturale di Firenze). 24 gennaio, ore 17,00: L’Oriente di Galileo Chini: fascino nuovo per un mondo antico (Silvestra Bietoletti, storica dell’arte). 14 febbraio, ore 17,00: Da Cartagine alle Piramidi. I viaggi africani di Giovanni Pagni e Alessandro Pini, due eruditi toscani del XVII (Fabrizio Paolucci, Dipartimento Antichità Classica delle Gallerie degli Uffizi). 28 febbraio, ore 17,00: Andate, predicate e... raccogliete piante: i risultati botanici di due missionari francescani in Cina alla fine dell’Ottocento (Chiara Nepi, sezione di Botanica del Museo di Storia Naturale di Firenze). 14 marzo, ore 17,00: Cosimo III e i viaggi da giovane principe per l’Europa (Ilaria della Monica, Villa I Tatti, The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies). 28 marzo, ore 17,00: Firenze e l’America: Amerigo Vespucci e l’invenzione del Nuovo Mondo (Filippo Camerota, Museo Galileo-Istituto e Museo di Storia della Scienza). info www.uffizi.it ROMA VISITE GUIDATE ALL’AULA GOTICA DEL MONASTERO DEI SS. QUATTRO CORONATI fino al 30 aprile

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gennaio

APPUNTAMENTI • Luce sull’archeologia - Roma e il Mediterraneo Roma – Teatro Argentina

fino al 13 maggio info www.teatrodiroma.net

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rende il via, al Teatro Argentina, la IV edizione di Luce Sull’Archeologia. In continuità con le precedenti edizioni, gli incontri del 2018 hanno come filo conduttore le relazioni fra Roma e il Mediterraneo. Il Mare Nostrum è un susseguirsi di mari, di paesaggi, di popoli, un crocevia antichissimo dove persone, merci, idee e diverse forme dell’estetica generarono la diffusione di civilta, culti, costumi e leggende. In ogni incontro, prima dell’intervento iniziale, ci saranno 10/15 minuti di «Anteprime dal passato»: notizie su ritrovamenti, scoperte e mostre, a Roma e non solo, a cura di Andreas M. Steiner, direttore dei mensili «Archeo» e «Medioevo». Questo il calendario degli appuntamenti in programma: domenica 14 gennaio, ore 11,00: Il viaggio di Enea. Le origini troiane: un mito per l’impero (relatori: Andrea Giardina, Domenico Palombi, Claudio Strinati). domenica 4 febbraio, ore 11,00: Da mare a mare. I grandi porti dell’Italia antica (relatori: Andrea Augenti, Carlo Pavolini, Fausto Zevi). domenica 18 febbraio, ore 11,00: Roma e Annibale. Una storia in movimento

Tornano gli appuntamenti con le visite guidate all’Aula Gotica dei Ss. Quattro Coronati, uno dei monumenti piú ricchi di storia, arte e spiritualità della Roma medievale. L’Aula era l’ambiente piú prestigioso del palazzo cardinalizio eretto da Stefano Conti: vi si svolgevano banchetti, ricevimenti e vi si amministrava la giustizia. Mirabile esempio di

(relatori: Luciano Canfora, Annalisa Lo Monaco, Claudio Strinati). domenica 8 aprile, ore 11,00: Il lusso dall’Oriente. Commerci e bottini che fecero grande Roma (relatori: Stefano Tortorella, Lucrezia Ungaro, Alessandro Viscogliosi). domenica 15 aprile, ore 11,00: Roma verso l’Egitto. Protagonisti e vicende (relatori: Francesca Cenerini, Alessandro Pagliara, Claudio Strinati). domenica 22 aprile, ore 11,00: Popoli del Mediterraneo antico (relatori: Maamoun Abdulkarim, Massimiliano Ghilardi, Alessandro Naso). domenica 13 maggio, ore 11,00: Matera lucana tra Greci e Romani (relatori: Pietro Laureano, Massimo Osanna, Giuliano Volpe, Raffaello Giulio De Ruggiero).

architettura in stile gotico, eccezionale per la città di Roma, il salone colpisce per lo straordinario ciclo pittorico che adorna le sue pareti, attribuito al Terzo Maestro di Anagni e a Giunta Pisano e databile alla metà del Duecento. Rimaste per secoli nascoste sotto strati di tinte successive, le meravigliose decorazioni sono tornate a risplendere grazie a un lungo restauro.

Questo il calendario delle prossime visite: 9 e 10 gennaio; 6 e 7 febbraio; 10, 11 e 30 aprile. I turni di visita saranno ogni ora, dalle 9,00 fino all’ultimo turno d’ingresso delle 18,00. Le richieste di prenotazione vanno indirizzate a: archeocontesti@gmail.com info tel. 335 495248; www. aulagoticasantiquattrocoronati.it; www.associazionecontesti.org

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battaglie nancy

5 gennaio 1477

Borgogna,

di Federico Canaccini

addio...

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gennaio

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Alla metà del XV secolo, Carlo il Temerario cerca di trarre profitto dall’incerta situazione determinatasi dopo la Guerra dei Cent’anni, per dare vita a uno Stato borgognone. Sulle prime, l’ambizioso disegno sembra destinato al successo. Ma i sogni di gloria svaniscono presto, fino al tragico epilogo che si consuma a Nancy, dove le sue truppe vengono pesantemente battute e il duca stesso trova la morte

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La battaglia di Nancy (Morte di Carlo il Temerario), olio su tela di Eugène Delacroix. 1831. Nancy, Musée des Beaux-Arts.

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battaglie nancy

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ià solo a pronunciarne il nome, Carlo il Temerario, l’ultimo duca di Borgogna suscita un timore reverenziale: tra mille difficoltà – ed effettivamente con grande temerarietà –, tentò infatti di perseguire il sogno di costituire un grande Stato borgognone, incuneandosi tra la Francia, l’impero, la Confederazione Svizzera e le Fiandre. Approfittando della debolezza del regno transalpino – appena uscito dalla sfibrante Guerra dei Cent’anni – e delle difficoltà dell’imperatore nel controllare i nobili della valle del Reno, il duca sviluppò un progetto ambizioso, che prevedeva l’unificazione, sotto la propria corona, di un territorio che andava dalle coste dei Paesi Bassi sino alle Alpi svizzere. Per conseguire tale obiettivo, Carlo preparò con cura la propria armata, adeguandosi alle innovazioni che, nel corso di tutto il XV secolo, avevano trasformato gli eserciti d’Europa: già dal Trecento, infatti, sui campi di battaglia, i corpi di fanteria si erano dimostrati capaci di sconfiggere la cavalleria pesante erede dell’epoca feudale. I successi riportati nelle Fiandre, a Courtrai (1302), in Scozia, a Bannockburn (1314), in Francia, a Crecy (1346) e Poitiers (1356), e poi, ripetutamente, in Svizzera avevano fornito altrettante conferme al riguardo.

Novità inquietanti

A questo si aggiunga la crescente importanza delle armi da tiro, non solo archi lunghi e balestre, ma, soprattutto, le recentissime armi da fuoco, che incutevano terrore da lontano già solo per il loro nuovo, inedito e terribile rombo. Infine, in risposta alla rinascita della fanteria, la cavalleria si andò adeguando di conseguenza, dando vita a corpi specializzati ora in balestrieri montati, ora in cavalleria leggera, ora in corpi piú pesantemente corazzati, creando un vero e proprio assorti-

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Carlo il Temerario

Una supremazia effimera Il duca di Borgogna, nato nel 1433, era figlio di Filippo III, detto il Buono, e di Isabella di Portogallo. A differenza del padre, Carlo era contrario alla politica di accordo con la Francia e, anzi, capitanò la cosiddetta Lega del Bene Pubblico (1465), creata con l’obiettivo di rovesciare il re Luigi XI, che aveva costretto il Borgognone a cedergli alcune città della Somme. Dopo aver ottenuto dal re i territori della Piccardia e del Guines, tentò, una volta succeduto al padre, di annettere altri territori, con il fine di creare un vero e proprio regno a est della Francia: il suo dominio, infatti, già si estendeva sui Paesi Bassi e la Borgogna. Nonostante i colpi di mano di Carlo, non a caso soprannominato «il Temerario», il re di Francia oppose una fiera resistenza. gennaio

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In alto La battaglia di Morat, dipinto di Ferdinand Hodler. Ginevra, Musée d’Art et d’Histoire. A sinistra Ritratto di Carlo il Temerario, Duca di Borgogna, olio su tela di Peter Paul Rubens. 1618. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

mento multiforme di opzioni alle quali attingere per formare eserciti sempre piú variegati e che richiedevano una perizia sempre maggiore nello schieramento e nell’utilizzo dei vari plotoni. Forte di queste conoscenze, il duca di Borgogna decide di dare inizio alla propria campagna militare, attaccando i territori a Nord dei suoi domini: con una serie di operazioni poco dispendiose e di rapido successo – una vera e propria «guerra lampo» medievale –, Carlo il Temerario sottomette la Lorena, le Fiandre e

Il Borgognone giunse a imprigionare il sovrano, obbligandolo a rinunciare alla giurisdizione sui propri territori. Cosí, nel giro di cinque anni, il duca di Borgogna arrivò a controllare l’Alsazia, la Lorena e la Gheldria. Nella fase finale tentò di mettere in piedi un’ampia alleanza contro il re di Francia, coinvolgendo addirittura Massimiliano d’Asburgo (al quale aveva dato in sposa sua figlia) e il re d’Inghilterra, Edoardo IV (di cui aveva sposato la sorella Margherita di York). In realtà, la coalizione non andò a buon fine, soprattutto per la debolezza del re inglese, che strinse un patto col re di Francia, dichiarandosi neutrale. Rimasto isolato, dopo aver perso anche gli appoggi del duca di Bretagna e del signore di Berry, Carlo il Temerario provò comunque a perseguire il sogno di uno Stato borgognone. Fu però frenato dai cantoni svizzeri, che lo sconfissero ripetutamente a Grandson e Morat nel 1476. L’anno successivo, a 44 anni, venne infine battuto e ucciso a Nancy, mentre tentava di riprendere la città strappatagli dal duca di Lorena, Renato II.

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la costa tra Calais e la foce del Reno, garantendo un ampio sbocco al mare al proprio dominio. Nel 1465, infatti, vince a Montlhérey, nel 1466 vince a Liegi e l’anno dopo a Brustem: la sua ascesa sembra, in quel momento, incontenibile.

La resistenza dei cantoni

La seconda fase di espansione riguardava l’assoggettamento delle terre a sud-est della Borgogna, le cosiddette «Waldstätten», cioè le piccole cittadine delle foreste svizzere unificatesi in Confederazione sin dal 1291. I cantoni elvetici avevano resistito strenuamente per tutto il XIV secolo, combattendo – e vincendo – ora contro gli Asburgo ora contro altri pretendenti. Nel 1315, infatti, a Morgarten sconfissero le milizie del duca Leopoldo, e nel 1386 gli Austriaci furono fermati a Sempach, allontanando le loro pretese dagli alpeggi montani. La Svizzera iniziava a essere una realtà, ma un capitolo doveva essere ancora scritto prima che essa vedesse realizzata, in maniera definitiva, la propria autonomia e indipendenza dall’impero. La campagna intrapresa dal

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battaglie nancy duca di Borgogna iniziò nel 1475: nel frattempo, gli Svizzeri avevano stretto un’alleanza con Strasburgo e altre città della valle del Reno, insofferenti alle pretese borgognone. Dopo alcuni scontri non troppo significativi, nel 1476 Carlo mosse in modo deciso in territorio elvetico, per tentare di dare una svolta alla campagna, ma il 2 marzo, nei pressi di Grandson, sottomessa appena un mese prima, il suo esercito venne attirato in un’imboscata e il Temerario subí gravi perdite: morirono 300 Borgognoni e 400 pezzi di artiglieria caddero nelle mani del nemico. Il duca riorganizzò le proprie truppe e, una volta raggiunte le rive del Murtensee, il 9 giugno pose l’assedio alla città di Morat, difesa Qui sotto Saint-Nicolas-de-Port, basilica di S. Nicola. Renato II di Lorena raffigurato in un particolare di una vetrata.

Le forze in campo e i loro movimenti Malzéville

Malzéville NANCY

NANCY

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Tomblaine

Laxou

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Villers

Foresta di Saurupt

Foresta di Saurupt

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Jarville

Jarville

Vandoeuvre

Vandoeuvre Houdemont

Laneuveville Heillecourt

Laneuveville

Heillecourt

Houdemont Truppe di Carlo il Temerario

Avanzata delle truppe di Renato di Lorena

1. Carlo il Temerario Truppe di Carlo il Temerario 2. Jacques Galleotto 3. Josse de Lalaing 1. Carlo il Temerario 4. Artiglierie

Grosso delle truppe Vautrin Avanzata delle Wisse truppe di Renato di Lorena

Grosso delle truppe Vautrin Wisse

2. Jacques Galleotto 3. Josse de Lalaing In alto la disposizione 4. Artiglierie

delle forze in campo a Nancy: in rosso le truppe di Carlo il Temerario e in azzurro e grigio quelle capitanate da Renato di Lorena. N

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Meurthe Carlo il Temerario

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Qui sopra la prima fase della battaglia: Carlo il Temerario, duca di Borgogna, schiera la sua piccola armata in posizione difensiva, a ridosso di un piccolo corso d’acqua a sud di Nancy (1); pone il suo fianco sinistro al riparo della Meurthe e il destro di una fitta boscaglia. Il grosso delle truppe svizzere e la retroguardia si avvicinano ai Borgognoni (2), attirando l’attenzione di Carlo, mentre l’avanguardia avanza indisturbata fra gli alberi, sulla sinistra (3).

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da un contingente di 500 soldati di Berna e da centinaia di cannoni presi a Grandson: se questa avesse capitolato, Carlo si sarebbe finalmente aperto la strada per Berna. Ma il 22 giugno di quello stesso anno, l’esercito del Temerario – già fiaccato dall’artiglieria nemica – venne nuovamente sconfitto dagli Svittesi, i quali, senza i sofismi delle milizie avversarie, massacrarono l’organizzatissimo, ma stavolta inefficiente, esercito borgognone: oltre la metà degli effettivi del duca – il cui totale ammontava a 20 000 uomini circa – rimase sul campo, fatto a pezzi dagli squadroni di migliaia di alabardieri svizzeri o affogato dal peso delle corazze, nel lago poco distante. Oltre a ciò il duca perse tutti i pezzi di artiglieria e tutte le macchine d’assedio rimaste attorno alle mura della cittadina di Morat. Falliva cosí anche il secondo tentativo di Carlo il Temerario di sottomettere i territori alpini.

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In alto la seconda fase della battaglia di Nancy. l’improvvisa apparizione di un quadrato di Svizzeri dal bosco (1) sorprende i Borgognoni. Incapace di riorganizzarsi per resistere all’assalto, il fianco destro comincia a indietreggiare (2). Al contempo, il grosso delle truppe elvetiche si lancia contro il centro dell’armata di Carlo (3) e in breve soverchia un gran numero di Borgognoni (4). In basso l’epilogo della battaglia di Nancy: sopraffatta dagli attacchi portati contemporaneamente su due fronti (1) e ritrovandosi in condizioni di netta inferiorità numerica, l’armata borgognona viene sbaragliata (2). Lo stesso Carlo il Temerario viene colpito da un alabardiere svizzero nella strage che va consumandosi (3).

La Lorena in rivolta

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Qui sopra la croce di Lorena raffigurata in una miniatura da un manoscritto francese. XV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Institut de France.

Nei mesi seguenti, deluso dall’esito della campagna svizzera, il duca ebbe come obiettivo principale quello di mantenere uniti i suoi domini settentrionali (Fiandre, Brabante e Lussemburgo) a quelli meridionali (Borgogna e Franca-Contea). Nel luglio del 1476, però, anche la Lorena, sottomessa nell’autunno del 1475, gli si era ribellata: guidava la rivolta Renato di Lorena, tornato dall’esilio e probabilmente incoraggiato dal successo svizzero di Morat. Il mese seguente molti Borgognoni erano stati espulsi dalla Lorena e il duca, non senza difficoltà, ricompose il proprio esercito con milizie provenienti in parte dal Lussemburgo e in parte dalla Franca-Contea. Dopo una rapida e sommaria riconquista dei territori, Carlo il Temerario iniziò il 22 ottobre l’interminabile assedio di Nancy. Il suo nemico, Renato di Lorena, che inutilmente si era opposto all’avanzata delle truppe borgognone,

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battaglie nancy A sinistra la battaglia di Nancy in una miniatura da un’edizione dei Mémoires de Philippe de Commynes. XVI sec. Nantes, Musée Thomas-Dobree. Nella pagina accanto il musicista e compositore Giovanni Pacini (1796-1867).

arte della guerra

Armi nuove, tattiche vecchie Nel XIII secolo apparve in Italia e nelle Fiandre un’arma destinata ad avere un ruolo decisivo: la «picca», detta «gialda» nel Nord Italia. Si trattava di un’arma inastata su un giavellotto di legno, con varie fogge, da romboidali a piramidali. La picca era un’arma di vecchia data, essendo stata introdotta da Filippo di Macedonia (382-336 a.C). Il sovrano macedone apportò alcune innovazioni fondamentali al proprio esercito, tra cui la composizione della famosa «falange macedone», costituita da una serie di picchieri, disposti su piú file, perlopiú statici. Nel Quattrocento, gli Svizzeri, a distanza di secoli, innovarono quella disposizione, elaborando una tattica che da statica diveniva offensiva: migliaia di uomini cosí armati, stretti gli uni agli altri, in quadrati compatti che avanzano contro l’avversario. Moderne ricostruzioni indicano che un corpo di 10 000 picchieri, se caricato dal nemico, poteva rinchiudersi a riccio coprendo una superficie quadrata con un lato di appena 60 m. Accanto alla picca vi era l’alabarda, il cui nome tedesco significa «ascia in asta» (da halm e barte): l’alabarda andò incontro a una interessante evoluzione, che rispondeva a quella delle armature. Si passò quindi da una lama larga con una punta ricurva, a una piú tarda con una cuspide piú solida, atta a sfondare elmi e corazze.

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richiese aiuto alle città renane e alla Confederazione Elvetica, che gli forní ben 6000 soldati. Alla fine di dicembre, il signore lorenese puntò verso Nancy per portare aiuti alla guarnigione stretta d’assedio da circa due mesi. Se gli assediati all’interno delle mura pativano la fame, non andava certo meglio agli assedianti, decimati dal freddo, dalla mancanza di provviste, dal morale ormai fiaccato e dalle continue e inevitabili diserzioni che avevano drasticamente ridotto gli effettivi delle truppe. Alla fine dell’anno, Nicolas de Montfort, conte di Campobasso, abbandonò il duca di Borgogna per passare all’avversario, lamentandosi di non ricevere la paga da mesi: era il colpo di grazia. Ridotto in modo significativo l’esercito degli assedianti, e invece rincuorate gennaio

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Riletture

Una vicenda molto liberamente rivisitata Nel 1835, alla Fenice di Venezia, debuttò il Carlo di Borgogna, un melodramma di Giovanni Pacini, su libretto di Gaetano Rossi. L’opera è un pastiche delle vicende biografiche di Carlo il Temerario e della storia dell’indipendenza svizzera. Nel libretto operistico, infatti, Carlo, dopo aver sottomesso la città di Liegi, si invaghisce di una delle fanciulle che lo accolgono in città (Estella, la figlia del mentore di Carlo, Arnoldo). In realtà, il Temerario ha già promesso al re d’Inghilterra di sposarne la figlia, Leonora, anche se il suo cuore batte per Estella. A questi problemi amorosi si sommano, in modo piuttosto artificioso, le vicende in Svizzera, dove sono giunti i Borgognoni invasori. Dopo varie schermaglie e intrecci amorosi, il povero Carlo morirà niente meno che per mano del suo mentore (che difende l’onore della figlia), mentre gli Svizzeri rovesceranno enormi massi sugli invasori, facendoli morire in un precipizio, ammiccando alla disfatta subíta a Morgarten nel 1315 dagli Austriaci piú che non a quelle patite da Carlo a Morat o a Nancy. le truppe del duca di Lorena, di lí si consumò lo scontro finale. Il 4 gennaio, infatti, il duca di Lorena concentrò le proprie truppe a sud-est di Nancy, presso Saint-Nicolas-de-Port, inducendo il nemico all’attacco. Carlo il Temerario, uomo imbevuto di ideali cavallereschi, decise di dare battaglia, nonostante il proprio esercito contasse oramai, poco piú di alcune migliaia di soldati. Sotto una copiosa nevicata e contro tutti gli auspici, il duca dispose le sue truppe lungo il fosso di Jarville, che correva perpendicolare alla strada che da Nancy conduceva a Saint-Nicolas-de-Port: il Temerario sistemò i proprio uomini in modo da bloccare un passaggio obbligato per le truppe del Lorenese, che voleva ricongiungersi alla città di Nancy. L’ala sinistra era protetta dal fiume Meurthe, al centro si pose

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Carlo il Temerario in persona, mentre il fianco destro era protetto dalla foresta di Saurupt; tra i vari plotoni, in linea avanzata, fece infine sistemare l’artiglieria.

Carlo in trappola

I Lorenesi e gli Svizzeri, con un esercito di 20 000 uomini circa, avanzarono da sud, divisi in tre squadroni: due nella piana prospiciente il nemico, un terzo nascosto nei boschi. Nel frattempo, il duca di Lorena aveva inviato al ponte di Bouxières il conte di Campobasso, con l’obiettivo di bloccare la strada al nemico alle sue spalle, in caso di ritirata: il Temerario era ormai in trappola! Mentre le truppe svizzere avanzano verso l’esercito del Temerario, lo squadrone nascosto nelle boscaglie, attacca improvvisamente l’ala destra, che, disorientata e pesante-

mente impegnata, si dà alla fuga. Contemporaneamente, il quadrato principale delle milizie svizzere, composto da migliaia di alabardieri, si scaglia con una ferocia mai vista contro il centro dell’esercito nemico e contro il duca stesso, il quale, a questo punto, viene attaccato anche sul fianco destro, oramai scoperto. I Borgognoni vengono rapidamente sopraffatti, sia per la mossa a sorpresa, sia per il sovrannumero degli avversari che trasformano la battaglia in una carneficina: 7000 Borgognoni vengono uccisi e Carlo il Temerario, nella furia della mischia, viene colpito al volto da un alabardiere svizzero, il cui fendente gli spacca il cranio. Il suo corpo fu ritrovato, alcuni giorni dopo, nella neve e nel ghiaccio di Nancy, semidivorato dai lupi e devastato dal colpo mortale di alabarda.

Fine di un sogno

Con la morte di Carlo il Temerario, si spegneva anche il progetto di uno Stato borgognone indipendente in un’Europa sempre piú orientata verso gli Stati nazionali e in cui la Borgogna pagò il prezzo piú alto. A seguito del matrimonio fra Massimiliano I di Asburgo e Maria, la figlia del Temerario, le Fiandre e i Paesi Bassi passarono sotto il dominio asburgico; le altre regioni del ducato borgognone invece, dopo un breve conflitto tra il re di Francia – che fra l’altro non riconosceva la successione di Maria – e l’impero asburgico, furono incamerate dalla Corona francese. Solo in età moderna, però, la questione borgognona trovò un assetto definitivo: nel 1546 Carlo V rinunciò infatti ai suoi diritti sulla Borgogna e, solo nel 1678, la Franca Contea, grazie alla pace siglata a Nimega, venne riunita al Regno di Francia. La Borgogna, definita «culla del primo autentico movimento rinascimentale d’Europa» dal grande storico francese Jacques Le Goff, era definitivamente tramontata. F

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costume e società donne medico

Trotula e le altre di Maria Paola Zanoboni

Per le donne del Medioevo che intendevano dedicarsi alla medicina, il percorso era irto di ostacoli, il piú ostico dei quali era costituito dalla diffidenza dei colleghi e, soprattutto, delle corporazioni, che non tolleravano l’esercizio abusivo della professione. Difficoltà che, tuttavia, non scoraggiarono molte valide professioniste, che seppero farsi benvolere e apprezzare

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’attività terapeutica femminile ha origini remote, tanto che già nella Salerno del XII secolo la presenza di donne nella professione medica era rilevante. Molte di loro furono autrici di compilazioni terapeutiche di interesse scientifico che non riguardavano esclusivamente i problemi femminili. Il nome piú noto è quello di Trotula, un personaggio leggendario, che, secondo la tradizione, visse nel XII secolo e fu medico e moglie di un celebre archiatra salernitano. Gli studi piú recenti hanno però chiarito che sulla presunta identità e sulla vita di Trotula, di fatto, non

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A sinistra miniatura forse raffigurante Trotula, la donna medico che la tradizione indica attiva a Salerno alla fine del XII sec. XIV sec. Londra, Wellcome Library.

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si sa nulla. A quel nome viene oggi assegnata una serie di scritti medici, raggruppabili sotto tre tipologie: la sintomatologia delle malattie femminili (Liber de sinthomatibus mulierum); la loro cura (De curis mulierum); la cosmetica (De ornatu mulierum). Di queste opere, soltanto la seconda sarebbe attribuibile a una Trotula – vissuta a Salerno alla fine del XII secolo –, ma che fu solo una delle tante «Trotule» e una delle molte donne medico presenti nella città campana. In questi trattati viene attentamente preso in considerazione ogni aspetto della vita femminile: la ma-

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lattia, la maternità, il parto, la puericoltura, e la complessione fisica, che assume un ruolo determinante. Nell’opera specificamente dedicata alla cosmesi, il De Ornatu, venivano impartiti consigli sulle tecniche indispensabili a esaltare la bellezza o a mascherare i difetti con unguenti, balsami, profumi e tinture ricavati dal mondo vegetale.

Una parità solo teorica

Le donne medico curavano anche gli uomini e sono documentate (almeno a partire dal XIII secolo) in tutte le possibili specialità (fisico, chirurgo, barbiere, speziale, ocu-

Miniatura raffigurante pazienti e monache infermiere nell’ospedale dell’Hotel Dieu a Parigi, da Le Livre de Vie Active de l’Hotel Dieu di Jean Henry. 1482 circa. Parigi, Musée de l’Assistance Publique, Hôpitaux de Paris.

lista). Fra il XIII e il XV secolo era teoricamente concesso loro l’accesso ufficiale alla professione, ma rare erano quelle che godevano di un riconoscimento ufficiale, o erano iscritte alla corporazione. Tra le poche eccezioni, vi è il Regno di Napoli, dove, tra il 1273 e il 1410, sono testimoniate 24 donne chirurgo, 13 delle quali avevano ottenuto licenza

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ufficiale alla pratica della professione per curare altre donne. Non si limitavano comunque alle patologie femminili, ma eseguivano interventi di ogni tipo. A Firenze gli elenchi trecenteschi e quattrocenteschi degli iscritti all’Arte dei Medici e Speziali annoveravano un buon numero di elementi femminili: alcune erano ebree, altre figlie o vedove a loro volta di medici, e quindi a conoscenza di molti segreti dell’attività, gelosamente custoditi. Frequenti sono gli elogi a queste donne, uffiNella pagina accanto miniatura raffigurante santa Radegonda che sottopone ad abluzioni una donna idropica, da un manoscritto della Vita di santa Radegonda. XI sec. Poitiers, Médiathèque François Mitterrand. In basso miniatura raffigurante la somministrazione di una pozione di more contro i mestrui dolorosi, dall’edizione dell’Herbarius complex raccolta nel Codex Vindobonensis 93. Inizi del XIII sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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cialmente encomiate dai maggiorenti cittadini per le loro buone cure, e autorizzate a esercitare, medicando «bolle velenose» e carbonchi, fratture e slogature, e curando la cataratta agli occhi. Sempre a Firenze, alcune riuscivano persino ad aprire da sole uno studio.

Ossa da «acconciare»

Nel Quattrocento, a Pistoia, è attestato il caso di una «medica» che curò la ferita al capo a un frate olivetano, compensata con un onorario di 6 lire e 9 soldi. A Siena, presso l’Ospedale di Monna Agnese, fra il 1432 e il 1441, lavoravano almeno 3 donne medico, una delle quali deputata esplicitamente ad «acconciare le ossa», mentre delle altre sappiamo soltanto che curavano genericamente, applicando impiastri, medicando dita, o preparando rimedi vari e dispensando farmaci. La maggior parte delle donne medico, in ogni caso, esercitava il mestiere senza autorizzazione. Ra-

rissime furono quelle a cui venne riconosciuta una dignità professionale: a Venezia, nel Trecento, tre di loro esercitavano autorizzate da una licenza ufficiale rilasciata dalla magistratura preposta alla sanità, e una era specializzata nella cura della gotta e delle malattie degli occhi. Ancora nella città lagunare, alla metà del Cinquecento, Marieta Colochi († 1568) – moglie di un importante medico specializzato nella cura delle ferite – lavorò per vent’anni accanto al marito, con la qualifica di «medica salariata», presso l’ufficio della sanità veneziano. Alcuni anni dopo la scomparsa del consorte, quando fece domanda per subentrargli nell’incarico, la sua istanza venne però respinta: l’accesso a un ruolo importante nella struttura burocratica della magistratura cittadina deputata alla sanità le veniva cioè precluso. Ciononostante, il governo della Serenissima non esitò in seguito (1576) ad acquistare dal genero di Marieta i rimedi «segreti»

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per la cura delle ferite che i coniugi avevano elaborato e sperimentato per due decenni. Dei proventi della vendita si avvantaggiò tutta la famiglia: il genero ebbe uno stipendio e la figlia di Marieta ottenne un incarico come medico. Nel XIV secolo, in Sicilia, alcune professioniste ebree esercitavano pur non avendo seguito un regolare corso di studi. Anche Oltralpe l’attività delle donne medico era spesso riconosciuta apertamente e apprezzata, pur in assenza di un riconoscimento istituzionale. Emblematica, in proposito, è la vicenda della tedesca Jacoba Felicié, processata nel 1322 dalla facoltà di medicina di Parigi per aver esercitato abusivamente

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la professione. Dalle numerose testimonianze emerge che i pazienti (uomini e donne) si rivolgevano a lei come extrema ratio, dopo aver consultato un buon numero di fisici che non erano stati in grado di guarirli, o peggio, avevano pronunciato diagnosi infauste e senza speranza.

La fiducia dei pazienti

Le terapie adottate da Jacoba non erano diverse da quelle utilizzate dai medici del collegio, con la differenza che seguiva costantemente e assiduamente i pazienti, instaurando con loro un rapporto di comprensione e fiducia, in cui il contratto con lei stipulato (a volte, ma non sempre, retribuito a esito

In alto miniatura raffigurante quattro donne che si prendono cura di un neonato. Inizi del XIII sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la raccolta di essenze vegetali per la preparazione di un balsamo, da un’edizione del Livre des simples médecines. XVI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

raggiunto) diveniva una speranza, un desiderio comune di guarigione, percepito dall’ammalato come partecipazione profonda alle sue sofferenze. E questo appunto emerge dalle testimonianze prodotte a suo favore, sei su sette delle quali avevano avuto un esito felice. gennaio

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A differenza dei fisici ufficiali, che facevano della loro posizione un elemento di potere, il rapporto con Jacoba si basava sull’autorità generata dalla fiducia che i pazienti nutrivano in lei, una fiducia che riusciva a conquistarsi spontaneamente, con una partecipazione emotiva molto piú efficace degli artificiosi e freddi metodi per ottenerla suggeriti dalla filosofia scolastica. La fama di Jacoba si diffondeva attraverso reti informali di relazioni, a partire dalla taverna il cui oste era guarito grazie alle sue cure. Ciononostante, il collegio medico sentenziò che se qualcuno aveva riacquistato la salute si era trattato di un caso, e ribadí il divieto di esercitare la professione per chiunque non fosse stato approvato dalla facoltà di medicina, minacciando Jacoba di una forte ammenda, unita alla scomunica se avesse continuato a svolgere l’attività. Il problema non era dunque il fatto che si trattasse di una donna, ma che vi fosse qualcuno che esercitava senza aver seguito il regolare corso di studi, e senza l’approvazione del collegio medico.

quelli dei barbieri di Rouen (1407) erano rivolti a uomini e donne. A Reims una vicenda singolare mette in luce il ruolo femminile nelle arti mediche e l’atteggiamento delle corporazioni e dell’autorità pubblica in proposito: nel 1462, un maestro barbiere di 70 anni, avendo deciso di farsi eremita, divorziò dalla moglie col beneplacito delle autorità ecclesiastiche, ma volle lasciarle la possibilità di esercitare il mestiere, come era normalmente conces-

Maestri e maestre

Oltre a questa vicenda documentata in modo eccezionalmente puntuale, le tracce di donne che svolgevano attività terapeutiche si colgono in vario modo nelle città francesi. A Marsiglia, nel 1326, una professionista ebrea si assunse l’incarico di insegnare «artem medicine et phisice» a un giovane apprendista maschio. I registri fiscali parigini elencano un buon numero di donne-barbiere tra la fine del Duecento e i primi decenni del Trecento, mentre gli statuti dell’Arte (1465) della medesima città menzionavano la presenza di «maestri e maestre», e

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so alle vedove. Con un regolare atto notarile, le fece perciò dono, non solo della bottega e degli utensili, ma anche del diritto di esercitare legalmente la professione. Ne nacque una lite con la corporazione, secondo la quale tale prerogativa non si poteva donare: la donna non era vedova, perciò non aveva la facoltà di esercitare. Allo stesso modo si espressero le magistrature parigine alle quali la poveretta aveva fatto

ricorso. Infine re Luigi XI, a cui si era rivolta in ultima istanza, le concesse la grazia, ma mettendo bene in chiaro che la corporazione si era lamentata giustamente, e che nessuno poteva arrogarsi il diritto di svolgere l’attività senza l’autorizzazione dell’Arte.

Restrizioni e divieti

Ancora una volta, dunque, la questione non verteva sul fatto che le donne esercitassero o meno il mestiere, né si mettevano in dubbio le loro competenze. Si voleva piuttosto evitare che chi lo praticava sfuggisse al controllo corporativo, e che l’Arte perdesse le proprie prerogative giurisdizionali. Non a caso, gli statuti dei barbieri-chirurghi di Reims, di pochi anni posteriori alla vicenda (1473), esordivano proclamando il divieto assoluto di svolgere la professione senza l’esame e l’autorizzazione del paratico; proibivano poi tassativamente ai maestri di donare l’attività a chicchessia. Un episodio analogo a quello di Reims si verificò nel 1551 a Lione, ma questa volta la donna chiese il permesso di esercitare come chirurgo, versò le tasse dovute, e ottenne subito l’autorizzazione. Nella stessa Lione, gli statuti cittadini del 1558 consentirono alle vedove dei chirurghi di proseguire l’attività dei mariti con l’ausilio di un abile aiutante, mentre l’ospedale della città collocò a piú riprese donne nei posti chiave dell’istituzione: nel 1538, quando il barbiere del nosocomio morí, fu concesso a sua figlia di continuarne l’attività finché non se ne fosse trovato un altro adatto a ricoprire l’incarico. E quando morí il maestro chirurgo, la sua vedova gli su-

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costume e società donne medico Malattie professionali

Vederci bene per lavorare di fino

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu Nel suoeatur trattato sulle malattie rehendebis tendamusam dei lavoratori, il medico modenese consent, perspiti Ramazzini (1633-1714) offre un quadro assai Bernardino conseque nis anche retrospettivo, delle patologie che potevano colpire coloro interessante, maxim eaquis che svolgevano lavori di precisione, e in molti casi si trattava di donne, fatto che earuntia cones coincide con la spiccata specializzazione delle donne medico, fin dal Medioevo, nelle apienda. patologie oculari. Ramazzini osservava che «oltre ai disturbi prodotti dalla vita sedentaria, questi

lavoratori hanno come rischio specifico la miopia», causata proprio dalla loro attività, in quanto «seduti tutto il giorno a lavorare oggetti minutissimi, debbono vedere e discernere con precisione cose piccolissime, è necessario che con uno sguardo attento tengano gli occhi fissi, in una tensione quasi continua; in seguito, sebbene abbiano gli occhi mobili per natura, il che, come abbiamo detto, giova molto a distinguere gli oggetti tanto lontani che vicini, tuttavia per quanto sforzo e per la tensione costante del tono muscolare, i nervi si viziano, e la retina, rimasta a lungo nella stessa posizione, vi rimane anche dopo il lavoro, e non riesce piú a muoversi con facilità per vedere chiaramente le cose lontane. Per questo motivo, tali lavoratori sono quasi sempre accompagnati da quel tipo di debolezza agli occhi che chiamiamo miopia». E la patologia, sempre a causa della loro attività, poteva aggravarsi: «A ciò si aggiunga che, mentre gli occhi stanno continuamente intenti al lavoro e immobili, gli umori si addensano, e insieme alla fluidità riducono la loro acutezza e cosí, a poco a poco, aumenta la miopia di questi operai e, sebbene dalla natura abbiano avuto occhi molto buoni, diventano miopi e di vista incerta. I lavoratori di oggetti minuti, dunque, ricavano una simile disgrazia da un mestiere e da lavori cosí eleganti e di tanta utilità, come sono soprattutto gli orologi, e contraggono una tale debolezza di vista che diventano ciechi prima della vecchiaia». Tra questi lavoratori dovevano esserci in gran numero appunto le donne, e proprio di una infilatrice di perle il medico modenese riporta il caso concreto: «Ho conosciuto in questa città una donna ebrea, di eccezionale bravura nell’infilare perle, e le sapeva disporre in tale ordine e al posto giusto, che non ci si accorgeva se qualche perla aveva difetti o magagne; da questo lavoro si procurò un guadagno non indifferente, ma giunta ai quarant’anni dovette abbandonarlo non trovando aiuto in nessun tipo di occhiali». Profondamente partecipe della tragicità di queste situazioni a livello personale e sociale, Ramazzini, pur consapevole dell’impossibilità di porvi rimedio, cercava tuttavia di dare alle disgraziate creature qualche consiglio per cercare di prevenire se non l’insorgere, almeno l’aggravarsi del male: «Io non saprei dire con quali rimedi si possono soccorrere questi lavoratori nella loro disgrazia; infatti non è facile persuaderli a lasciare quel mestiere da cui ricavano guadagno e cibo, e il medico non ha un rimedio con cui restituire agli occhi, quando il male è già avanzato, il vigore e la mobilità perduti (…). Tuttavia sarebbe utile, oltre l’uso degli occhiali, che questi operai non stessero sempre applicati al lavoro con la testa bassa, ma che di quando in quando togliessero le mani dal banco e volgessero gli occhi altrove, rubando qualche ora al loro lavoro, per distrarli e ricrearli guardando anche altri oggetti. Infatti, non si crederà mai abbastanza quanto giovi, a conservare intatta e sana la mobilità delle membrane degli occhi e la fluidità naturale degli umori, guardare vari e differenti oggetti da vicino, da lontano, in linea diretta, obliqua, e in qualsiasi altro modo; cosí infatti si conservano le capacità naturali dell’occhio, perché la pupilla ora si restringe, ora si dilata e l’umore cristallino, secondo i casi, ora si accosta alla pupilla, ora se ne allontana quando si guardano gli oggetti da lontano o da vicino. Altrimenti capita all’occhio la stessa cosa che succede agli altri organi: quando vengono trattenuti a lungo nella stessa posizione s’irrigidiscono e diventano incapaci di muoversi come prima».

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In alto, a sinistra occhiali in osso. XV sec. Middelburg, Stichting Cultureel Erfgoed Zeeland.

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bentrò, curando i malati dell’ospedale per piú di vent’anni. Nel settore farmaceutico, invece, non sembra che in Francia le donne avessero grandi possibilità. Dovevano ricoprire un certo ruolo soltanto in pochi centri urbani: a Lione il maestro speziale di una delle prin-

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cipali istituzioni assistenziali cittadine, l’Aumòne Générale, dichiarò nel suo testamento (1564) di aver istruito adeguatamente la moglie in modo che potesse succedergli nell’importante incarico. A Marsiglia, nel 1384, una donna gestiva una bottega di speziale assumendo

Sulle due pagine Ferrara, Palazzo Schifanoia, Salone dei Mesi. Donne intente a lavori di tessitura, particolare dell’allegoria del mese di Marzo nel Trionfo di Minerva, affrescato da Francesco del Cossa. 1470 circa.

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costume e società donne medico Miniatura tratta da un’edizione manoscritta in latino delle opere di Ippocrate. XIII sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

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salariati e apprendisti che avrebbe istruito personalmente. Nelle altre città francesi veniva consentito, come di consueto, alle vedove di continuare l’attività dei mariti, ma esclusivamente mediante un impiegato affidabile, esperto nell’arte ed esaminato e approvato dalla corporazione (Parigi 1484, Rouen 1502, Bordeaux). Talora si palesava apertamente la volontà di escludere le donne dai saperi farmaceutici, o si sottolineava la loro presunta incapacità nel settore. Gli statuti degli speziali di Amiens (1576), per esempio, consentivano alle mogli e alle vedove dei maestri di partecipare al banchetto corporativo, ma imponevano loro di andarsene quando, dopo pranzo, il candidato avrebbe dimostrato le proprie competenze riconoscendo le erbe raccolte in giardino. Gli statuti parigini del 1514 sottolineavano che le vedove non erano assolutamente autorizzate a tenere apprendisti, perché esse stesse non erano esperte nell’attività. Si trattava probabilmente di tentativi di tenerle lontane da cognizioni per le quali avevano uno spiccato interesse, percepito forse come potenzialmente pericoloso: in realtà, infatti, le arti farmaceutiche venivano abbondantemente praticate un po’ dovunque dalle donne di ogni ceto e condizione sociale. Nel Cinquecento, molte nobili tedesche dotate di non trascurabili cognizioni scientifiche, per esempio, si guadagnarono un’ottima reputazione in ambito locale o regionale come farmaciste altamente specializzate, in grado di procurarsi facilmente prodotti esotici e di difficile reperimento, grazie ai legami familiari che le mettevano in contatto con reti mercantili di ogni tipo. Confezionavano personalmente i medicinali, che poi donavano alle amiche in difficoltà, o elargivano in beneficienza ai poveri, in singolare contrasto con l’attività svolta nella stessa epoca dai monasteri fem-

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minili italiani, che invece avevano fatto della vendita dei rimedi medicamentosi uno dei cespiti con cui riuscivano a mantenersi. Di una posizione di particolare rilievo in campo terapeutico godevano le donne spagnole, che, accanto ai consueti compiti di assistenza alle partorienti, erano spesso in grado di entrare in contatto (grazie al marito o a qualche parente) con saperi medici piú vasti, sebbene il divieto di accesso alle università impedisse loro di esercitare legittimamente l’attività. Talvolta, però, quando il personale sanitario mancava e la congiuntura lo richiedeva, potevano persino ottenere un riconoscimento ufficiale: cosí avvenne nel 1492 quando il Consiglio municipale di Malaga concesse a una donna di esercitare come medico e chirurgo, e a un’altra, per la provata esperienza acquisita da due validi maestri, di svolgere ufficialmente l’incarico di ortopedico.

La schiava lebbrosa

Quanta autorevolezza fosse attribuita persino dall’autorità pubblica alle competenze terapeutiche femminili viene chiaramente rivelato dagli atti processuali quattrocenteschi di Valencia, dove non era raro che levatrici o altre donne fossero chiamate a testimoniare in qualità di esperte nelle arti mediche. Nel 1440 la diagnosi proposta in tribunale da una di loro, moglie di un panettiere, costrinse il collegio medico a riesaminare il caso di una schiava circassa che si temeva soffrisse di lebbra. Ciononostante, la natura spesso informale dei loro interventi, rendeva difficile per queste curatrici, pur esperte e apprezzate, riuscire a farsi retribuire. Un chiaro esempio è quello delle levatrici valenzane il cui intervento era indispensabile e molto richiesto, ma, data la sua urgenza e imprevedibilità, veniva in genere percepito come dovere caritatevole o di amicizia e buon vicinato, piuttosto che

come attività retribuita. Spesso, perciò, queste donne non riuscivano a ottenere quanto era stato loro informalmente promesso. In sintesi, non sembra che da parte delle autorità pubbliche o dei collegi professionali sussistesse una particolare preclusione nei confronti delle donne dedite ad attività terapeutiche. Quello che era assolutamente proibito, per ovvie ragioni di tutela della salute pubblica, era l’esercizio della professione al di fuori della giurisdizione e del controllo corporativo, e senza averne ricevuto il beneplacito dimostrando una formazione adeguata. Anche in questo settore, però, l’attività femminile tendeva spesso a sfuggire a ogni controllo, sorretta dall’autorità informale conferitale dai molti pazienti di entrambi i sessi, i quali, entrando in contatto attraverso reti di relazioni, con donne medico di provata esperienza e fama, anche se prive di un riconoscimento ufficiale, preferivano rivolgersi a loro piuttosto che ai fisici, chirurghi, barbieri e speziali approvati dai rispettivi collegi e corporazioni. Persino le ostetriche, la cui attività era universalmente ammessa in modo informale, non ebbero mai e in alcun luogo velleità di costituire proprie organizzazioni professionali. Verso la metà del Quattrocento, quando si cominciò a chiedere loro la licenza per poter esercitare (la prima a Regensburg nel 1452), non si trattò di una loro aspirazione a un riconoscimento professionale, ma piuttosto di un obbligo imposto dall’esterno, dalle autorità municipali od ecclesiastiche che intendevano porne sotto controllo la moralità (piú che le competenze). F

Da leggere Maria Paola Zanoboni, Donne al

lavoro nell’Italia e nell’Europa medievali (secoli XIII-XV), Jouvence, Milano 2016

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luoghi mantova

Mantova:

di Furio Cappelli

il fango e la gloria Nobile città natale del poeta Virgilio, Mantova è nata e vive sul Mincio: il grande fiume ha avuto un ruolo decisivo nel favorirne la prosperità, ma fu anche fonte di non pochi dispiaceri per i Gonzaga. Che, per rimediare, si rivolsero ai migliori ingegni dell’epoca, e, oltre a provvidenziali interventi di bonifica, dotarono il capoluogo lombardo di magnifici monumenti civili e religiosi

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irgilio mantovano cantò Enea troiano; Enea senese dette lustro e ricchezza alla patria di Virgilio». Nella sua autobiografia (i Commentarii), papa Pio II (1458-1464), al secolo Enea Silvio Piccolomini, evidenzia cosí la decisione di stabilire a Mantova quel concilio che gli stava tanto a cuore, per indurre le potenze europee a muovere guerra contro il sultano Maometto II. Era il 1459, e sei anni prima Costantinopoli era stata conquistata dalle truppe ottomane. Per sua stessa ammissione, Piccolomini, in realtà, non avrebbe fatto altro che raccogliere quelle parole in onore del papa e di Mantova: si sarebbe trattato di un «vaticinio», di una profezia formulata in un libro «antichissimo», nella sezione dedicata al futuro papa Pio II. E, pur offrendo risalto a quei concetti, frutto di una sapienza tanto remota quanto lungimirante, il pontefice si affretta a sottolineare che la scelta della città lom-

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e spietato, e il concilio stabilito nella patria del grande barda era soprattutto favorita dalla sua conformazione poeta doveva essere il primo passo per la riconquista e dalla sua felice collocazione geografica. Mantova era della città. infatti una città ampia e confortevole, situata in un’area Prima di giungere a Mantova, dove era pronto ad molto fertile. Era egregiamente servita dal fiume Minaccoglierlo il marchese Ludovico II Gonzaga, Pio cio, navigabile dal Lago di Garda fino alle II fu ospite a Ferrara alla corte dell’«infido» sue foci sul Po, il che permetteva di riBorso d’Este. Al momento della partenza, il fornire la città con estrema comodità MANTOVA duca estense mise a disposizione del ponteda qualsiasi punto. Mantova si trofice una barca per risalire il Po. In prossimità vava poi a una distanza ragionevole del territorio mantovano, gli venne incontro dai Paesi d’Oltralpe, e questo sarebbe la barca inviata dal Gonzaga per l’ultimo stato senz’altro apprezzato dagli intratto del percorso fluviale. La flottiglia viati che dovevano giungere dalla Frandel duca trasportava il pontefice, cia o dalla Germania. mentre la flottiglia del marchese L’omaggio al «pio» Enea era ben desiderosa di riceverlo La strategia dell’organizzazione era a bordo: «I trombettieri dell’una dunque tenuta in gran conto, ma la e dell’altra parte riempivano di motivazione simbolica della scelta, un meraviglioso clamore le valli espressa attraverso la presunta «ancircostanti. I vessilli si muovevatichissima profezia», figura comunque no al vento a guisa di una selva. come il motivo principale di ispirazione per Gli abitanti del luogo stavano seduti l’animo del papa umanista. Quel brano dimostra sulle due rive, invocando la benediziocome Enea avesse scelto di chiamarsi Pio, una volta ne papale, e rispondevano alla benedizione salito al soglio di Pietro, proprio in omaggio al «pio» gridando: “Evviva!”». Enea, l’eroe del poema virgiliano. Nell’onore del papato, Mantova. La città vista dal Lago di Mezzo, formato dalle acque insomma, egli investí il senso della virtus degli antichi, del Mincio. Si riconoscono alcuni dei monumenti principali: da e, sotto la mitra, si apprestava a rivestire i panni dell’edestra, il ponte di S. Giorgio, il castello di S. Giorgio (Palazzo roe classico. In fondo, la crociata che aveva bandito miDucale), il campanile della basilica palatina di S. Barbara, la rava a riconquistare l’Ellade perduta: Costantinopoli cupola della chiesa di S. Andrea, la torre degli Zuccaro. era la nuova Troia, espugnata da un nemico «eretico»

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Giunto a Revere, il papa soggiorna nell’ammirevole «palazzo reale» progettato da Luca Fancelli proprio su incarico del marchese di Mantova. La città rinascimentale deve ancora esprimersi, e lo stesso palazzo di Revere era ancora in corso d’opera (sarà terminato nel 1478), ma grazie alla magnificenza di quanto è stato già edificato, Pio II ha modo di apprezzare il desiderio di grandezza e l’ispirazione del Gonzaga. Lasciato il Po e iniziata la risalita del Mincio, una tappa emozionante è poi l’approdo di Pietole (nell’attuale Comune di Virgilio), dove il papa giunge il 26 maggio. Nel territorio sorge infatti «una collinetta considerata sacra», dove la tradizione colloca la casa del divinus Publio Virgilio Marone. Come ricorda Dante (Purgatorio, XVIII, 82-83), la celebrità del luogo natale del poeta era tale che nel Medioevo Pietole era piú nota della stessa Mantova. Dopo aver pernottato in una tenuta, il papa procede verso le porte della città. Oltrepassato il borgo

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di Cerese (Virgilio), la strada che conduce a Mantova mostrava fino a poco tempo prima un pessimo biglietto da visita. Per superare una derivazione del lago di Paiolo, oggi bonificato, occorreva passare su un ponte levatoio sormontato da una torre, e quest’ultima si era vistosamente inclinata. Poiché non era concepibile che agli occhi del papa si presentasse un simile spettacolo, il marchese Gonzaga si era subito attivato per rimediare. Richiese infatti un’urgente consulenza dell’abilissimo Aristotele Fioravanti di Bologna, previa l’autorizzazione del duca di Milano Francesco Sforza, alla cui corte l’ingegnere prestava allora servizio in pianta stabile.

L’uomo «che move le torre»

Il maestro Aristotele, come lo stesso Gonzaga scrive in una lettera al duca del 2 febbraio 1459, è colui «che move le torre», è celebre per le sue imprese di traslazioni e di raddrizzamenti di torri, ed è dunque la persona giusta gennaio

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Sulle due pagine La Cacciata dei Bonacolsi, olio su tela di Domenico Morone. 1494. Mantova, Castello di S. Giorgio. A destra Siena, Duomo, Libreria Piccolomini. Pio II convoca il concilio di Mantova, affresco di Bernardino Betti detto Pinturicchio. 1454-1513

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per risolvere la situazione. Non è possibile mantenere la torre nello stato pendente in cui si trova. Sarebbe quanto meno inopportuno e darebbe una strana sensazione all’illustre ospite: «Dovendola lassar cosí pendente non staria bene e pararia una strana cosa». L’ingegnere è già presente sul posto il 14 febbraio, e il 20 marzo, dopo non poche difficoltà, la torre viene raddrizzata con pieno successo. Quando si appresta a entrare in città, la mattina del 27 maggio, Pio II può cosí attraversare il ponte di Cerese senza causare alcun imbarazzo al Gonzaga. Bianca, duchessa di Milano, moglie di Francesco Sforza, e Barbara, marchesa di Mantova, moglie di Ludovico II, attendono il pontefice su un palco che è stato allestito di fronte alla cattedrale di S. Pietro, in piazza

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Sordello. Sullo sfondo, occorre naturalmente immaginare una facciata ben diversa dall’attuale. Nell’ampia tela del 1494 che rievoca la Cacciata dei Bonacolsi (la potente famiglia signorile messa fuori gioco proprio dai Gonzaga), l’assetto della scena riflette la piazza cosí come il pittore Domenico Morone la conosceva.

Ornati e statue di fattura finissima

Possiamo cosí vedere l’elegante fronte della chiesa realizzato nei primi anni del Quattrocento dai fratelli Jacobo e Pierpaolo Dalle Masegne, con un coronamento mistilineo, una gloria di edicole e un elaborato portale centrale: una profusione di ornati e di statue di finissima fattura, perfettamente in linea con il gusto veneziano. Oggi come gennaio

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La regimazione delle acque

L’ingegno di Alberto Il successo di Mantova è legato anche e soprattutto ai ponti e alle opere che permisero di irreggimentare il corso delle acque, creando bacini e canali di scolmatura, e sfruttando i flussi per produrre energia motrice. L’epigrafe monumentale del 1190 che si conserva nel Museo della Città, già a Porta Mulina, è a tal riguardo illuminante. Scolpita su marmo bianco di Verona, su testo dello scriba Raimondo, celebra l’ampia schiera di realizzazioni messe a punto dal Comune su direzione dell’ingegnere Alberto Pitentino, la cui attività è attestata anche a Bergamo negli anni successivi. Alberto costruí in particolare il Ponte-diga dei Mulini (distrutto nel 1944), grazie al quale, sbarrando il lago Superiore, si poté regolare l’afflusso dell’acqua nel lago di Mezzo e nel lago Inferiore, ottenendo poi l’energia per il funzionamento dei 12 mulini che davano il nome alla struttura. In seguito il ponte fu decorato dalle statue degli apostoli (oggi al Museo della Città), poiché ciascun mulino era intitolato a uno di loro. Alberto realizzò inoltre il Ponte di S. Giorgio, tra il lago di Mezzo e il lago Inferiore, e il canale del Rio, che segnava il nuovo limite meridionale della città. Due versi raccomandano di preservare quanto si è fatto, perché su queste opere si fonda la ricchezza della città.

In basso Mantova, i porticati delle Pescherie cinquecentesche, gettati su un tratto del canale Rio. Si notano, inoltre, l’isolato campanile di S. Domenico (XV sec.) e, in primo piano, il porticato del Nuovo Macello.

A sinistra carta storica della città di Mantova.

allora campeggiava sul fondo il robusto campanile duecentesco, mentre sulla destra sfila il complesso del Palazzo ducale, laddove il dipinto è tuttora conservato. Il corteo di papa Pio II si muoveva dall’estremo sud della città alla piazza della cattedrale, attraversando la piazza delle Erbe. Alla testa si trovava un gruppo di inservienti e di curiali. Seguivano 12 cavalli senza cavaliere, «adorni di freni e selle dorati». Tre cavalieri armati montavano «palafreni in gran bardatura» e reggevano tre vessilli, recanti rispettivamente la croce di Cristo, le chiavi di san Pietro e l’insegna dei Piccolomini (cinque lune). Dopo un baldacchino seguivano i sacerdoti della città con le sacre immagini in mano. Comparivano poi gli inviati dei re e dei principi, gli

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luoghi mantova CRONOLOGIA 781 Carlo Magno si reca per la prima volta a Mantova. A Parma il sovrano redige una disposizione sugli scambi commerciali tra Comacchio e la stessa Mantova. 804, estate Risultano presenti a Mantova i sacri vasi contenenti il sangue di Cristo. 804, Natale Papa Leone III celebra la festa alla corte di Carlo Magno, a Quiercy, dopo aver visionato a Mantova la reliquia del sangue di Cristo, su richiesta dello stesso sovrano. 1012 Il marchese Bonifacio di Canossa insedia la sua corte a Mantova. 1037 Fondazione del monastero di S. Andrea a opera del vescovo Eliseo. 1046 Nascita di Matilde di Canossa a Mantova. 1049 Grazie alle indicazioni di un cieco guidato dalla fede in Dio, si riscoprono i sacri vasi del sangue di Cristo, che sarebbero stati precedentemente sepolti. 1052, Bonifacio di Canossa viene ucciso a 6 maggio tradimento durante una battuta di caccia. 1053 I Mantovani si ribellano contro l’egemonia di papa Leone IX. 1076, Matilde succede alla madre Beatrice alla 18 aprile guida della marca dei Canossa. 1080 Anselmo da Baggio, già vescovo di Lucca, grande sostenitore della riforma della Chiesa, trova rifugio a Mantova presso la corte dei Canossa. 1083 Matilde dota di alcuni beni la piccola chiesa di S. Michele presso il complesso episcopale di Mantova. Nello stesso edificio era sepolto il padre Bonifacio. 1086 Risulta attestata la chiesa di S. Paolo, oggi scomparsa, di fianco alla cattedrale di S. Pietro. Le due chiese, dedicate agli

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Apostoli di Roma, formavano cosí una «cattedrale doppia». 1091, aprile Mantova si ribella ai Canossa. 1114, Rientro di Matilde a Mantova. ottobre 1115, Morte di Matilde. 24 luglio 1151 Prima attestazione della chiesa rotonda di S. Lorenzo. Risulta pertinente al vicino monastero di S. Andrea. 1190 Iscrizione di Porta Mulina, oggi al Museo della Città, che ricorda i grandi lavori di ingegneria svolti su incarico del comune da Alberto Pitentino. 1257 Mantova conia un grosso d’argento con l’immagine di Virgilio in cattedra. 1395 ca. Il capitano del popolo Francesco I Gonzaga avvia la costruzione del Castello di S. Giorgio. 1397 Secondo una tradizione diffusa in ambito umanistico, il condottiero Carlo Malatesta avrebbe disposto la rimozione e la distruzione di un monumento eretto in onore di Virgilio in Piazza delle Erbe. 1433 Gian Francesco Gonzaga ottiene il titolo di marchese di Mantova dall’imperatore Sigismondo di Lussemburgo (1433-1437). 1444 Alla morte del padre Gian Francesco, il marchesato passa nelle mani di Ludovico II. 1459, L’ingegnere Aristotele Fioravanti 14 febbraio raddrizza la torre del ponte di 20 marzo Cerese, a sud di Mantova, in previsione della venuta di papa Pio II. 1459, Solenne entrata di papa 27 maggio Pio II a Mantova. Si dà cosí avvio al concilio

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In questa pagina la facciata rinascimentale della chiesa di S. Sebastiano, progettata da Leon Battista Alberti. 1460. Nella pagina accanto piazza Sordello. Sullo sfondo, la cattedrale di S. Pietro, sulla destra, il Palazzo del Capitano (XIV sec.), compreso nella Corte vecchia del Palazzo Ducale.

voluto dal pontefice per organizzare la «riconquista» di Costantinopoli. 1460, Leon Battista Alberti risulta coinvolto nel 27 febbraio progetto della chiesa di S. Sebastiano e nel piano di rinnovamento di piazza delle Erbe. 1460, Con i lavori di lastricatura delle strade, 5 settembre si assiste all’avvio dei grandi piani di rinnovamento di Mantova. La data propizia per l’inizio dell’impresa è stabilita dall’astrologo Bartolomeo Manfredi. 1470 Si realizza la Torre dell’Orologio in piazza delle Erbe, su progetto di Luca Fancelli. 1472 Inizia il rifacimento della chiesa di S. Andrea, su progetto dell’Alberti. 1474 Andrea Mantegna conclude la Camera picta (la Camera degli Sposi) presso il Castello di S. Giorgio, residenza di Ludovico II. 1499 Per volere di Isabella d’Este-Gonzaga, Mantegna elabora il progetto di un monumento in onore di Virgilio, da collocare in piazza delle Erbe.

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alti prelati e i funzionari apostolici. In groppa a un cavallo bianco, affiancato da schiere di candele, si ergeva il tabernacolo d’oro dell’Eucarestia sormontato da un baldacchino di seta. Ecco poi comparire Galeazzo Sforza, il figlio del duca di Milano, di fianco a Ludovico II Gonzaga. E dopo i cardinali, finalmente, il papa, recato a spalla «su un alto trono, con le vesti pontificali splendenti e la mitra scintillante di gemme preziose». E, a seguire, cubiculari (addetti alla camera da letto), guardie del corpo, vescovi, notai, abati, oltre a una «gran turba» di prelati. Da Porta Cerese alla cattedrale, «tutte le strade erano coperte di tappeti». Ogni facciata era decorata da fiori e da drappi, e da ogni finestra si affacciavano donne e bambini festanti. Grande era la calca delle persone, anche nei vicoli piú stretti, e c’era gente persino sui tetti. «Non si udiva altro che il grido della folla acclamante: “Viva il sommo pontefice Pio!”». Alla fine del percorso, Ludovico smonta da cavallo e offre al papa le chiavi della città. Se oggi Mantova si presenta sotto forma di una penisola fluviale, con la lunga ansa del Mincio che forma i tre laghi Superiore, di Mezzo e Inferiore, lo scomparso lago di Paiolo, sul lato meridionale, faceva sí che l’acqua contornasse la città da ogni parte. Mantova era a tutti gli effetti un’isola, collegata esclusivamente dai ponti e dalle imbarcazioni.

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luoghi mantova Questo rapporto simbiotico con l’acqua – che tanto facilmente suggerisce un parallelo con Venezia – rappresenta naturalmente un punto di forza nella vicenda storica della città. Infatti, grazie all’ampiezza del suo invaso e al suo andamento tutt’altro che impetuoso, il Mincio costituiva una preziosa via di comunicazione, tale da trasformare Mantova in un nodale scalo commerciale già nell’Alto Medioevo. La sua immagine di fiume grande e placido (anche se reso instabile da correnti insidiose), con una vegetazione tipicamente palustre sulle rive, era la stessa già fissata da Virgilio nelle Georgiche: «Dove il vasto Mincio va errando in curve pigre e vela le rive di molle canna» (III, 14-15). L’acqua rappresentava poi un’efficace difesa naturale, tanto che, sui lati rivolti verso il fiume, la città antica era sprovvista di mura. Questo aspetto è reso efficacemente da Dante Alighieri, quando, per bocca di Virgilio, racconta la «vera» storia della città. Dopo la morte di Manto, l’indovina oriunda di Tebe che qui trovò rifugio, gli uomini che si trovavano tutt’intorno, sparsi qua e là, decisero di insediarsi in quel luogo «ch’era forte / per lo pantan ch’avea da tutte le parti» (Inferno, XX, 89-90). Essi dettero alla città il nome di Mantova in memoria di quella prima abitante, ma non fu lei a fondarla, come la tradizione riferisce. Di qui il famoso monito del Virgilio dantesco «la verità nulla menzogna frodi». Evidentemente, nel ritrarre il «suo» Virgilio, il poeta fiorentino toglie ogni ombra di sortilegio da Virgilio stesso (spesso tacciato come mago) e dalle origini della città.

Echi delle origini etrusche

D’altra parte, il papa umanista Pio II non intende smentire la viva voce del poeta classico, e si allinea a quanto si legge nell’Eneide, arricchendo il dato mitologico con una buona conoscenza dell’Italia preromana: Mantova fu una «splendida» colonia etrusca fondata da Ocno/ Bianoro, figlio di Manto e del re Tiberino. E le indagini archeologiche condotte nell’area della città antica consentono effettivamente di riconoscere un insediamento etrusco risalente al V secolo a.C. Già allora l’approdo fluviale della futura Mantova doveva porsi in una rete assai vivace di rapporti commerciali, ma solo nel Medioevo si registrò la rapida ascesa economica e demografica che è alla base dei trionfi della Mantova rinascimentale. Papa Pio II si sofferma sull’ampiezza di Mantova e sulla bellezza di molte sue costruzioni, ma rileva che le condizioni di vita non sono facili, visto che la città è letteralmente impantanata nell’acqua, con particolari fastidi in caso di piogge abbondanti o, al contrario, di siccità. Quando il Mincio si immette nella laguna, «trova una lama», come dice Dante (Inferno, XX, 79-81), trova quindi un’area bassa, incassata, in cui si spande a formare una palude («nella qual si distende e la ’mpaluda»), e d’estate spesso l’acqua scarseggia: «e suol di state talor esser grama».

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In queste pagine alcune immagini della basilica di S. Andrea, il cui rifacimento fu progettato da Leon Battista Alberti nel 1472. In alto, il portale maggiore; qui sopra, uno scorcio esterno del fianco sinistro all’altezza del transetto; sulle due pagine, uno scorcio dell’interno, nella zona della crociera.


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Un caposaldo prezioso All’epoca della prodigiosa apparizione, S. Andrea si trovava fuori le mura. La città era ancora chiusa nel perimetro del vecchio insediamento, in un’area di appena 9 ettari che aveva il suo fulcro nell’attuale piazza Sordello. Ma c’erano già evidenti segni di un promettente sviluppo commerciale, e lo stesso Carlo Magno aveva visto in Mantova un prezioso caposaldo del Regno. Era stato presente in città in due occasioni, nel 781 e nel 787, e la prima volta emanò proprio lí un importante capitolare, ossia un complesso di norme legislative sull’amministrazione della giustizia e la gestione delle elemosine.

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Ed erano già in corso proficui rapporti con Comacchio e con Venezia, a orientare l’attività del porto verso l’Adriatico. Nel 781, a Parma, proprio Carlo Magno redige una disposizione sugli scambi tra Mantova e Comacchio, con particolare riguardo al commercio del sale. Nell’862, si ha notizia della presenza nello scalo lombardo di mercanti veneziani mentre acquistano pepe e cannella. Accordi di lunga data, anche se attestati solo nel XIII secolo, porteranno poi gli operatori veneziani e mantovani a stabilire un regolare interscambio «saltando» lo scalo di Ferrara.

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Nella pagina accanto l’interno della chiesa (detta rotonda) di S. Lorenzo. XII sec. Sulle due pagine una veduta panoramica estesa di piazza delle Erbe. Da destra si possono distinguere: la chiesa di S. Lorenzo, la Torre dell’Orologio (progettata da Luca Fancelli) e il Palazzo della Ragione.

Di conseguenza, come osserva il papa, «gli abitanti sono purtroppo molestati d’estate dalla polvere e d’inverno dal fango». A peggiorare la situazione, molte strade non erano pavimentate, e il papa in persona manifestò al Gonzaga che una simile situazione non si addiceva a una città cosí importante. Nonostante le misure e le attenzioni adottate, il marchese dovette cosí subire rilievi che lo colpirono nel vivo del proprio orgoglio. Il fatto che la «sentenza» fosse stata pronunciata proprio dal pontefice, rendeva la circostanza ancora piú succosa e pungente in bocca alle immancabili malelingue. Fu cosí che, per un certo periodo, Mantova fu spesso e volentieri rappresentata come una città immersa nel fango. In una lettera inviata il 30 dicembre 1460, il letterato mantovano Carlo Brognolo riferisce al Gonzaga che l’ambasciatore pontificio Domenego del Duca, durante la permanenza del papa in città, aveva apprezzato la famiglia regnante e Mantova stessa, per poi asserire ironicamente che «dal fango in fora» (a parte quindi il fango che la ricopre) non c’è altra terra al mondo degna di tanto onore. Gli effetti di simili battute sferzanti furono immediati. Il marchese si attivò subito con un vasto piano di pavimentazione delle strade, e si preoccupò di tenere costantemente informato il papa sull’andamento

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luoghi mantova dei lavori e sui progetti sempre piú ambiziosi con cui intendeva rimodellare il volto della città. Dopo avere avuto un’udienza a Roma con il papa, il cancelliere di corte Bartolomeo Bonato scrive al marchese in data 11 febbraio 1461, e riferisce che Pio II è entusiasta delle imprese mantovane. Dal momento che il Gonzaga «sentea che li faceano biasemo del fango» – avendo cioè sentito diverse osservazioni negative sullo stato delle strade –, volle provvedere con un ampio lavoro di selciatura, completo di marciapiedi e di sistemi di drenaggio dell’acqua piovana. In questo modo, qualora il pontefice fosse tornato («quando accadesse che unaltra volta ge havesse a venir»), non avrebbe trovato alcun ostacolo. Ma il Gonzaga ha fatto ben di piú. Si è affidato al geniale Leon Battista Alberti, che ha elaborato progetti volti a trasformare la città in una capitale del Rinascimento. Come risulta da una lettera dell’Alberti stesso datata 27 febbraio 1460, il marchese gli ha infatti commissionato, oltre alla chiesa di S. Sebastiano, l’irrealizzato piano per la riconfigurazione di piazza delle Erbe, che doveva anche contemplare un nuovo monumento a Virgilio e il rifacimento della chiesa romanica di S. Lorenzo. Il papa si complimentò per queste imprese, in particolare proprio per il S. Lorenzo: come riferisce Bonato, «molto gli piacque et dissemi el marchese fa bene et serà una bella opera et molto degna se la fornisse. Sera una delle belle citta de Italia: de megliore crediamo ge ne sia poche». Un parere davvero lusinghiero, peraltro fornito da una persona colta e competente: non dimentichiamo infatti che il papa è l’ideatore di Pienza, la «città perfetta».

Un piano articolato

Se il progetto del S. Sebastiano si inseriva ai limiti della «città nuova», cosí come erano stati definiti dall’ultimo ampliamento dell’area urbana (1401), gli altri impegni dell’Alberti erano dunque concentrati nel fulcro della città comunale, laddove prospettano il Palazzo del Podestà e il Palazzo della Ragione, in una situazione urbanistica che non aveva conosciuto modifiche di rilievo dopo il XIII secolo. I piani dell’architetto-urbanista coinvolgevano in quest’ambito sia la predetta «rotonda» di S. Lorenzo, attestata nel XII secolo, sia la ben piú ampia chiesa monastica di S. Andrea, che affianca lo scenario della piazza, situandosi con la sua imponente facciata sullo stesso asse della piccola chiesa romanica. Tra questi progetti albertiani, solo la ri-

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Il monumento a Virgilio

Le immagini del divinus Ludovico II desiderava erigere una statua in onore di Virgilio già nel 1460, su sollecitazione dell’umanista Bartolomeo Sacchi (detto il Platina, 1421-1481). La motivazione dell’opera non era, forse, la sola necessità di celebrare degnamente il poeta. Occorreva rimediare a un grave misfatto, ricordato con sdegno da alcuni letterati dell’epoca, a partire da Coluccio Salutati (1331-1406). Una statua del Mantovano eretta nel mezzo della piazza, oppure apposta sulla facciata del Palazzo della Ragione, fu abbattuta, fatta a pezzi e gettata nel Mincio nel 1397 da Carlo Malatesta (1368-1429), alleato degli stessi Gonzaga. A quanto pare, da zelante uomo d’armi a servizio del pontefice, Carlo volle cosí redarguire i Mantovani per l’uso di incoronare con una ghirlanda l’immagine del poeta «pagano», nella ricorrenza

A sinistra Virgilio in cattedra, statua marmorea dal Palazzo della Ragione. XII-XIII sec. Mantova, Museo della Città. Nella pagina accanto Piazza Broletto, Palazzo del Potestà. La statua marmorea Virgilio in cattedra, posta sull’esterno del palazzo. XIV sec.

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della sua nascita. Ma se di questo monumento nulla si può dire, la figura di Virgilio, cosí come il Medioevo la concepiva, era presente nel vivo della realtà comunale di Mantova in almeno due raffigurazioni superstiti, evidenziando un legame con l’antico ben radicato prima ancora dell’arrivo dei grandi ingegni del Rinascimento. C’è il Virgilio del primo Trecento oggi in mostra all’esterno del Palazzo del Podestà, nel lato rivolto verso piazza Broletto, ma c’è, soprattutto, il prototipo, ossia il Virgilio del Museo della Città (fine del XII-inizi del XIII secolo), che era in origine situato all’interno del Palazzo della Ragione. Virgilio era chiamato in causa come autorità suprema in materia di giustizia, a tal punto che gli atti di una certa importanza dovevano essere sottoscritti proprio di fronte a lui, «ad sculpturam Vergilii». La splendida interpretazione dell’uomo togato intento a scrivere con uno sguardo concentrato, seduto in cattedra, trova eco nella monetazione mantovana del DueTrecento come immagine-simbolo della città. Nel 1257, in particolare, quando si coniò un’imitazione del grosso veneziano d’argento, la sua figura venne a sostituire il Cristo in gloria della moneta-modello. costruzione di S. Andrea fu attuata, e si poté affrontarla soltanto nel 1472, all’indomani della scomparsa dell’abate Nuvoloni, un uomo dal temperamento irriducibile che si batté ostinatamente contro questa iniziativa, suscitando facili malumori nel Gonzaga (in una lettera non esita a definirlo «mentecapto»). E S. Andrea costituiva un obiettivo fondamentale nel rinnovamento della città, poiché era un edificio di remote origini e di grande valore simbolico. Come ricorda papa Pio II, e come attestano scrupolosamente gli Annales Regni Francorum (una compilazione storica ufficiale redatta presso la corte carolingia), proprio a Mantova, infatti, nell’estate 804, risultarono presenti come per incanto alcuni sacri vasi contenenti il sangue di Cristo, e la chiesa di S. Andrea già a quell’epoca dovette essere chiamata a custodirli. La notizia della preziosissima reliquia giunse all’attenzione di Carlo Magno, il quale chiese a papa Leone III in persona di recarsi in città per stabilire l’attendibilità del prodigio. Il pontefice effettuò la ricognizione e, a quanto pare, non ebbe nulla da eccepire. D’altro canto l’imperatore stesso, molto attento al culto delle reliquie, doveva essere assai interessato a suggellare degnamente un tale tesoro, nel cuore del Regno italico, in modo da magnificare il suo ruolo di sovrano eletto dal Signore. Il papa, in sostanza, doveva limitarsi a dare alla reliquia mantovana il crisma della massima ufficialità. Quel che è certo, Leone proseguí il suo viaggio oltralpe, e volle celebrare al cospetto di Carlo sia il Natale che l’Epifania, rispettivamente a Quiercy e ad Aquisgrana.

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Frattanto, il culto della prodigiosa reliquia del sangue di Cristo non lascia segni evidenti finché Mantova non diviene un centro di spicco nello «Stato» dei Canossa. Il marchese Bonifacio (985 circa-1052), padre della celebre Matilde, aveva istituito in città una propria corte. E la reliquia torna alla ribalta proprio quando il potere dei Canossa si afferma a Mantova. Nel 1049 risulta infatti «riscoperta» scavando una buca profonda nel terreno, grazie alle indicazioni del pio Adelberto, «cieco dalla nascita per volontà di Dio». Accanto alla chiesa di S. Andrea, che custodisce il sacro tesoro, si era già organizzato un monastero, posto sotto il controllo del vescovo. Intorno alla metà dell’XI secolo la stessa cattedrale di S. Pietro viene ampiamente ricostruita. Per giunta, prima del 1086, di fianco a S. Pietro sorge la perduta chiesa di S. Paolo, a formare una «cattedrale doppia». Tra le due cattedrali era poi situata la cappella di S. Michele, dove fu sepolto il marchese Bonifacio.

Sul modello del Santo Sepolcro

L’iniziativa della «rotonda» di S. Lorenzo è stata attribuita alla figlia Matilde, quella «donna gloriosa», come la definisce papa Pio II, che «fu un tempo signora di questa città». D’altro canto, lo studioso Paolo Piva ritiene che l’edificio sia una delle imitazioni del Santo Sepolcro che si diffusero sensibilmente in Europa dopo la conquista di Gerusalemme (1099). Alla famosa Anastasis (Resurrezione), la chiesa edificata sul Calvario, rimandano d’altronde la duplice struttura concentrica (un cilindro

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luoghi mantova Sulle due pagine Mantova, Castello di S. Giorgio. Particolare degli affreschi della Camera degli Sposi (parete nord) di Andrea Mantegna. 1474. Si distinguono i ritratti di Ludovico II Gonzaga, raffigurato seduto su un raffinato trono, e degli altri componenti della famiglia. Nella pagina accanto Morte della Vergine, tempera e oro su tavola di Andrea Mantegna. 1462 circa. Madrid, Museo del Prado. L’ampia finestra che fa da sfondo al dipinto si apre su un realistico scorcio paesaggistico della laguna di Mantova in cui è riconoscibile il ponte S. Giorgio.

esterno e un cilindro interno coronato dalla cupola) e la presenza di un doppio corridoio anulare su due piani sovrapposti. Persino il numero delle colonne perimetrali (10 su ciascun piano) può alludere ai 20 sostegni che si contano al pianterreno della chiesa gerosolimitana. Inoltre, come nel caso di S. Stefano a Bologna – dove la «copia» del Santo Sepolcro rientra in un complesso monastico originariamente fuori le mura –, la rotonda di Mantova era sicuramente connessa al vicino monastero di S. Andrea, da cui risulta infatti dipendere nel piú antico documento superstite (1151). D’altronde, il fatto che in S. Andrea si conservi la reliquia del sangue di Cristo, poteva facilmente ispirare una «copia» della chiesa edificata sulla sua tomba, per celebrare degnamente i riti quaresimali.

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Un’ulteriore chiave di lettura proposta di recente dallo storico dell’arte Arturo Calzona rimette in gioco il ruolo di Matilde, nel quadro del fervore edilizio e religioso che si verificò a Mantova negli anni 1050-1080. La riscoperta della reliquia del sangue di Cristo doveva aver dato alla città la coscienza di essere divenuta una «nuova Roma», un luogo prodigioso in cui si rinnovavano i tempi gloriosi dei primordi del cristianesimo. L’agiografo che narra il miracoloso rinvenimento, probabilmente un monaco di S. Andrea, non esita ad affermare che papa Leone IX (1048-1054), di fronte alle notizie dei tanti prodigi scaturiti dalla reliquia, s’ingelosí, tanto che i cittadini dovettero ricorrere alle armi per impedirgli la sottrazione di quel tesoro. Si tratta di una ricostruzione fantasiosa, ma che rende bene il fervore di quel periodo. C’è sicuramente gennaio

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Le pitture della Camera degli Sposi erano concepite per impressionare ospiti e ambasciatori un rapporto tra il rinnovamento del complesso episcopale, la riscoperta della reliquia e il sorgere di S. Lorenzo. La cattedrale doppia è intitolata agli apostoli Pietro e Paolo, come le due basiliche martiriali piú importanti dell’Urbe. Allo stesso protomartire san Lorenzo era dedicata la grande basilica romana sul Verano, e nella liturgia quaresimale, sin dal VI secolo, il papa officiava la messa, in tre domeniche consecutive, in S. Lorenzo, in S. Paolo e in S. Pietro, in modo da assicurarsi la protezione dei maggiori patroni dell’Urbe.

Desiderio di autocelebrazione

I due poli religiosi delle attuali piazza Sordello e piazza delle Erbe potevano cosí rientrare all’interno della logica celebrativa della «nuova Roma», secondo una vo-

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lontà che si concretizzava gradualmente con l’apporto del vescovo, dei Canossa e dei Mantovani, già avviati a fondare il proprio Comune. Legata a Matilde o meno, la chiesa di S. Lorenzo sarebbe poi entrata nello scenario determinato proprio dalla residenza comunale. La chiesa è «riemersa» nello spazio di piazza delle Erbe dopo il radicale restauro integrativo del 1906: le sue strutture superstiti erano state inglobate già nel XVII secolo in un fitto complesso di abitazioni, alle soglie del ghetto. Scoperchiata (tutta la cupola attuale è di restauro), l’area interna della chiesa faceva da cortile alle case che si erano accalcate tutt’intorno. Sul lato della piazza, gli edifici addossati formavano una fronte porticata, con numerosi esercizi commerciali. In sostanza, la rotonda di S. Lorenzo era completamente scomparsa.

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luoghi mantova Mantova, Castello di S. Giorgio. Ancora un particolare degli affreschi della Camera degli Sposi (parete ovest), raffigurante l’incontro tra Ludovico II Gonzaga e il figlio Francesco, creato cardinale da Pio II. Sullo sfondo si distingue una veduta immaginaria di Roma.

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L’effetto della sua riapparizione è quasi «metafisico». Molto vivace è il contrappunto con l’adiacente Torre dell’Orologio, eretta su progetto di Luca Fancelli (1470). Essa chiude il prospetto del Palazzo della Ragione assorbendone la scala esterna di collegamento al primo piano, e segna, nel cuore della piazza, l’avvento della Mantova rinascimentale. Nel quadrante, si notano i segni zodiacali realizzati in lamina di rame, e si intravedono i resti dei 12 tondi ad affresco che recavano le immagini di altrettanti sapienti dell’antichità, identificati dalle iscrizioni in bei caratteri capitali che correvano tutt’intorno. L’astrologo Bartolomeo Manfredi, che curò la realizzazione del complesso meccanismo dell’orologio, aveva in precedenza fissato al giorno 5 settembre 1460 la data di inizio dei lavori di lastricatura delle strade, primo passo per la realizzazione dei piani di Ludovico II. Quel giorno, naturalmente, era stato scrupolosamente prescelto per le sue positive congiunzioni astrali. Come si è visto, Leon Battista Alberti intendeva ricostruire la rotonda di S. Lorenzo raccordandola a una piazza porticata tipicamente rinascimentale, ma i suoi intenti rimasero sulla carta. I portici attuali, estesi all’adiacente Piazza Broletto, erano già stati realizzati all’epoca di Gianfrancesco Gonzaga (1395-1444). Andrea Mantegna, su desiderio di Isabella d’Este-Gonzaga, raccolse nel 1499 l’idea del monumento a Virgilio, come risulta anche da un suo disegno, ma quella statua solenne non fu mai eseguita. Stabilitosi a Mantova come artista di corte dei Gonzaga, Mantegna aveva esordito in città con la pala della Morte della Vergine, oggi conservata al Museo del Prado di Madrid. Sul fondo della scena, un’ampia finestra si affaccia sulla laguna della città lombarda. L’opera era destinata alla scomparsa cappella signorile del Castello di S. Giorgio, e il paesaggio raffigurato nella pala era lo stesso che si ammirava dalle finestre esposte sul Mincio. Intrapreso intorno al 1395 su iniziativa di Francesco I, l’elegante e compatto maniero divenne sede della corte di Ludovico II, quando Andrea Mantegna fece approdo a Mantova. Nella Corte Vecchia, l’autunno del

Medioevo si era espresso con i raffinati dipinti cortesi del Pisanello, mentre l’umanesimo del Petrarca aveva ispirato affreschi perduti con una serie di ritratti degli imperatori romani. Negli ambienti del castello, Mantegna ha modo di superare simili esperienze con un recupero consapevole della classicità, esprimendo in pieno il desiderio di eternità del marchese Ludovico.

Una solennità avvolgente

La celebre Camera degli Sposi, in origine nota semplicemente come Camera picta, ci consegna cosí il ritratto del Gonzaga e dei suoi familiari con la stessa immediatezza con cui Pio II rievoca il suo arrivo trionfale a Mantova. Il dato reale è trasfigurato in un senso avvolgente di solennità. L’eleganza tattile dei drappi e dei tappeti, come quello che si stende sotto l’amatissimo cane Rubino, crea un connubio tra l’evidenza tangibile delle cose e la purezza di una visione, intrisa di solennità antica, come nei ritratti a medaglia degli imperatori. Siamo ben convinti che Ludovico sia un «uomo insigne nell’arte militare e nelle lettere», degno allievo del grande maestro Vittorino da Feltre. Possiamo notare quanto suo figlio Francesco fosse giovane, pur sfoggiando l’abito cardinalizio che proprio Pio II gli poté assicurare. Di certo, a vederlo in una posa cosí altera, incorniciato in una veduta di Roma da lontano, non possiamo dubitare che, a dispetto dell’età, fosse all’altezza del ruolo: «non aveva ancora vent’anni, ma era dotato di un aspetto che dimostrava un’età di gran lunga maggiore e aveva modi severi e saggi da vecchio». Quelle scene erano concepite per impressionare ospiti e ambasciatori. L’effetto di meraviglia era rafforzato quando l’orgoglioso marchese convocava i suoi familiari e li metteva cosí a confronto con i loro ritratti. Tutti rimanevano esterrefatti di fronte alla verità della pittura mantegnesca. Al semplice apparire della figlia maggiore Barbara, gli ambasciatori venuti da Milano nel 1470 erano convinti di aver conosciuto «una bella e gentile madona». E per effetto di quella verità, l’oculo sommitale aperto sul cielo attraeva i signori di Mantova nella gloria eterna. F

Da leggere Arturo Calzona, La rotonda e il

palatium di Matilde, Università di Parma, Parma 1991 Paolo Golinelli, Città e culto dei santi nel Medioevo italiano, CLUEB, Bologna 1996; pp. 49-66 Stefano Benetti, Gian Maria Erbesato, Chiara Pisani (a cura di), Mantova, il Museo della Città, Skira, Milano 2005 Filippo Trevisani (a cura di), Andrea

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Mantegna e i Gonzaga. Rinascimento nel Castello di San Giorgio, Electa, Milano 2006 Arturo Calzona (a cura di), Matilde e il tesoro dei Canossa, tra castelli, monasteri e città, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2008 Renata Salvarani, Liana Castelfranchi (a cura di), Matilde di Canossa, il papato, l’impero. Storia, arte, cultura

alle origini del romanico, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2008 Enea Silvio Piccolomini (Papa Pio II), I Commentarii, a cura di Luigi Totaro, Adelphi, Milano 2008 Stefano L’Occaso, Palazzo Ducale, Mantova, Electa, Milano 2009 Roberto Cassanelli, Paolo Piva (a cura di), Lombardia romanica, Jaca Book, Milano 2011; pp. 268-273

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di Federico Marazzi

I LONGOBARDI NEL MERIDIONE

Un itinerario alla loro riscoperta Il popolo «dalle lunghe barbe» ha scritto un capitolo decisivo nella storia del Sud della Penisola. Una vicenda che ebbe come protagonista principale il ducato di Benevento, capace, con Arechi II, di tenere testa perfino a Carlo Magno. Ma che seppe anche farsi promotore di importanti realizzazioni artistiche e architettoniche, alla cui conoscenza fa ora da irrinunciabile corollario la grande mostra inaugurata nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli Epigrafe funeraria di Gregorius tribunus, della moglie Cali e del figlio, da Napoli. Prima metà del X sec. Napoli, Museo dell’Opera di San Lorenzo.


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C C

inquecento anni di storia sparsi in cinque regioni: questo, in una battuta, è il patrimonio che il presente eredita dal passato in cui i Longobardi furono i padroni del Meridione italiano. In mezzo millennio molti eventi si susseguirono e i Longobardi dell’anno Mille erano ben diversi dal popolo che, insieme a buona parte del resto d’Italia, alla fine del VI secolo si era impadronito prima della città di Benevento e poi, via via, di tutti i territori appenninici del Meridione. Oltre ai Longobardi e ai loro Stati del Sud italiano, in quei cinque secoli era cambiato radicalmente anche lo scenario geopolitico dell’Europa e del Mediterraneo. Intorno al 570, quando compaiono le prime notizie relative alla presenza di un nucleo di Longobardi che ha acquisito il controllo di Benevento, l’Impero romano era finito da meno di un secolo e da pochi anni l’Italia era stata faticosamente riconquistata dai Romani d’Oriente, quelli che noi chiamiamo «Bizantini». Il Mediterraneo era ancora un «lago romano» e terre come il Maghreb, l’Egitto e la Siria erano regioni cristiane, pienamente sotto il controllo degli imperatori di Bisanzio.

DUCATO DI SPOLETO

Nel Mille molta acqua era passata sotto i ponti della storia. Il regno longobardo, con capitale Pavia – di cui Benevento costituiva un ducato dipendente, seppur largamente autonomo – era scomparso duecento anni prima, soggiogato dai Franchi al tempo di Carlo Magno; e lo stesso impero da questi edificato aveva già fatto a tempo a polverizzarsi, ricostituendosi solo nella seconda metà del X secolo, sotto le insegne dei duchi di Sassonia. Nel frattempo, tutta la sponda meridionale e orientale del Mar Mediterraneo era caduta in mano araba e le popolazioni che vi abitavano si erano in schiacciante maggioranza convertite all’Islam, determinando la scomparsa pressoché totale del cristianesimo da regioni come quelle in cui avevano operato Padri della Chiesa quali Tertulliano, Cipriano di Cartagine e sant’Agostino. Dopo alcuni secoli di ripiegamento, l’impero romano d’Oriente aveva ripreso l’iniziativa contro gli Slavi nei Balcani e gli Arabi in Siria, recuperando le isole di Cipro e di Creta e mantenendo avamposti importanti nel Sud italiano. Infine, i papi avevano lentamente affermato la propria

Ortona Pavia

MARE

Ravenna DUCATO

DUCATO ROMANO

Larino

Siponto Lucera

Bojano

Venafro

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Roma

DUCATO Benevento DI Napoli BENEVENTO

Canne

Alvignano Capua Cimitile

DI SPOLETO ADRIATICO Spoleto

Bari

BENEVENTO Prata di Principato Ultra

Salerno Ogliara

Potenza

Territori longobardi Territori bizantini Capitale del regno longobardo

Palermo

Reggio

Olevano sul Tusciano

MARE TIRRENO

IL DUCATO DI BENEVENTO

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Velia

Buxentum

DUCATO DI CALABRIA

MARE IONIO

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A destra miniatura raffigurante Arechi II, duca e poi principe longobardo di Benevento, dal Codex Legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni, Abbazia della Ss. Trinità. Nella pagina accanto, in alto fibula in argento dorato e pietre almandine, dalla necropoli di San Giovanni a Cella. 600 circa. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.

A sinistra orecchino aureo «a tamburo» o «a disco» con decorazione cloisonné e pendente cruciforme. VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

sovranità temporale su Roma, mentre nel Centro-Nord della Penisola, sulle macerie della dissoluzione dell’impero franco, andavano formandosi miriadi di signorie locali che rendevano il territorio un mosaico di poteri in conflitto fra loro. Solo una cosa non era mutata attraverso un lasso di tempo cosí lungo: la vocazione del Sud italiano a trovarsi in una posizione di crocevia fra mondi diversi, molto attingendo da questa condizione, ma anche molto soffrendone. Anzi, nel corso dei secoli, questa sua caratteristica si era accentuata, soprattutto a partire da quando, alla fine dell’VIII secolo, Carlo Magno aveva rinunciato alla conquista del ducato longobardo di Benevento. Quest’ultimo venne lasciato in una sorta di «limbo» geopolitico, in uno spazio sospeso fra i due imperi di Aquisgrana e di Bisanzio e, durante il IX secolo, esposto in prima linea ai tenta-

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Didascalia aliquatur adi odis E RICONQUISTE queCONQUISTE vero ent qui DEI LONGOBARDI doloreium conectu rehendebisConquiste eatur iniziali (568-590) tendamusam consent, perspiti Conquiste del VII secolo (con data) (Agilulfo 590-616; Rotari 636-652; conseque nis Grimoaldo 662-671) maxim eaquis earuntia cones Territori contesi fra Longobardi apienda. e Bizantini Conquiste al tempo di Liutprando (712-744)

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603

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Conquiste al tempo di Astolfo (749-756)

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Firenze

Dominio bizantino nel 774

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Ducato di Spoleto

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Ancona Fermo 640 circa

Spoleto

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650 circa

Roma

Ducato romano

662

Bari

Benevento Napoli Salerno

Ducato di Benevento

Potenza

645 circa

Cagliari

Lecce

Cosenza

Palermo

Agrigento

Reggio Calabria

Siracusa

L’assetto geopolitico della Penisola italiana nei due secoli in cui fu quasi interamente controllata dai Longobardi, che conquistarono anche la Pentapoli (la provincia comprendente le città di Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona), strappandola ai Bizantini.

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LE DATE DA RICORDARE 568-574 Provenienti dai Balcani e guidati dal re Alboino, i Longobardi entrano in Italia e prendono Vicenza, Treviso, Milano, Verona, Pavia. Sotto il suo successore, Clefi, eliminano la classe dirigente senatoria e si impadroniscono di ampie ricchezze fondiarie. 579-590 Per dieci anni senza re, i Longobardi vengono guidati dai duchi. Intanto, la conquista della Penisola fa progressi: si segnalano duchi longobardi a Spoleto e a Benevento. 590-626 Vengono prese Padova, Monselice, Cremona e Mantova; i Bizantini riconoscono lo status quo. Con Agilulfo e sua moglie Teodolinda, la monarchia longobarda assume una fisionomia cattolica. 626-653 Regno di Rotari e conquista della Liguria e del Veneto orientale (Oderzo). Editto di Rotari (643). 653-712 Abolizione dell’arianesimo (653) e fine dello scisma dei «Tre Capitoli» (698): con i re della cosiddetta «dinastia bavarese» la fisionomia cattolica della monarchia longobarda si consolida e la fusione con la popolazione romanica è pressoché completata. Con Grimoaldo, i ducati di Spoleto e Benevento In basso anello in oro con castone a tamburo. VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

tivi degli Arabi di conquistare, dopo la Sicilia, anche le regioni continentali dell’Italia. Questa storia tormentata ha lasciato il suo segno nelle regioni del Meridione, che, in una misura che ha pochi eguali in tutto il Mediterraneo, recano i segni di questi passaggi di dominazioni e delle culture di cui ciascuna di esse era espressione. Anche la storia interna del Sud longobardo fu caratterizzata nel corso del tempo da cambiamenti profondi. Dopo una fase di espansione territoriale a spese dei territori bizantini, il ducato di Benevento – principato dal 774 – si assestò su una dimensione che comprendeva tutto il Meridione continentale, a eccezione del Salento, della Calabria centro-meridionale, dell’area costiera di Napoli e della Penisola Sorrentina. L’unità del principato beneventano si dissolse però alla metà del IX secolo, in seguito a una guerra che contrappose due diversi candidati al trono e che si concluse con la scissione di Salerno dall’antica capitale e la formazione di un secondo principato. Nel tardo IX secolo si ebbe poi il progressivo for-

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sono ricondotti sotto l’autorità del re. 744-757 Con Ratchis e Astolfo, si apre il periodo «friulano» della monarchia longobarda: è conquistata Ravenna; Roma è sottoposta a tributo. Leggi di Astolfo (750) per la mobilitazione contro la minaccia franca. Vittoria dei Franchi guidati dal re Pipino (754 e 756); cessione delle ultime conquiste longobarde ai papi, alleati dei Franchi. 757-774 L’ultimo re longobardo indipendente, Desiderio, cerca di riprendere una politica aggressiva, approfittando delle difficoltà interne dei Franchi. Ma, nonostante la sua alleanza con i Bavari e con lo stesso Carlo Magno, figlio di Pipino, quando Carlo, scomparso il fratello Carlomanno, rimane unico re dei Franchi e non esita a invadere il regno longobardo, Desiderio viene sconfitto. Carlo Magno si impadronisce del regno, assumendo egli stesso il titolo di rex Langobardorum. Il regno longobardo continuerà la sua storia all’interno della dominazione franca che, di lí a poco, diventerà un impero. marsi di un terzo polo rappresentato dalla città di Capua, che, nel secolo successivo, assunse anche il controllo di Benevento, per poi perderlo di nuovo poco prima del Mille. Infine, è da ricordare che le due grandi abbazie di Montecassino e di San Vincenzo al Volturno costituivano a loro volta altrettante enclave imperiali in territorio beneventano, poiché, a partire dal 787, furono sottoposte direttamente alla protezione della corona franca. Durante la seconda metà dell’XI secolo, la Longobardia meridionale cedette in pochi decenni all’urto dei Normanni. Essi, operando inizialmente come mercenari al servizio dei Longobardi e insediandosi nelle aree piú marginali dei loro territori, ne erosero progressivamente lo spazio vitale, serrandoli infine nelle loro capitali rimaste senza piú regno. Ma le due o tre generazioni di artisti vissuti al tempo dell’avvicendamento al potere fra Longobardi e Normanni – e che produssero alcune delle piú pregiate opere d’arte del Meridione medievale – sono da ascrivere in toto all’una o all’altra delle due dominazioni? In molti casi, anche se commissionate dai nuovi dominatori, esse appartengono ancora all’humus culturale dell’età prenormanna e quindi possono essere legittimamente ascritte al lascito che essa ha consegnato al presente.

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ALLA RISCOPERTA DI UN PASSATO PROFONDO

I

cinquecento anni di dominazione longobarda nell’Italia del Sud hanno lasciato tracce molto diversificate. Dei primi centocinquant’anni non rimane quasi nulla, anche perché per buona parte di questo periodo – almeno per i primi cento anni – i Longobardi non avevano ancora ufficialmente abbracciato la fede cattolica e il loro coinvolgimento nella costruzione di chiese e monasteri fu quindi pressoché nullo. Dei primi edifici che essi fondarono tra la fine del VII secolo e la metà dell’VIII sopravvive ben poco, mentre i secoli a venire riservano maggiori opportunità di conoscenza di un patrimonio che, pur nella sua frammentarietà, ci appare davvero dotato di un fascino incredibile. Per la sua scoperta si deve partire dalle città che furono anche capitali: Benevento, Capua e Salerno. Tre città eredi in varia misura di un passato romano, che, nel caso di Benevento, fu di particolare rile-

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In alto Benevento, Port’Arsa. Si tratta dell’unica porta superstite, oltre all’arco di Traiano (ribattezzato Porta Aurea), della cinta muraria di epoca longobarda. Qui sopra Benevento. La Torre della Catena in una foto scattata agli inizi del Novecento. Nella pagina accanto Benevento. L’arco trionfale in onore dell’imperatore Traiano. Il monumento fu innalzato, per volere del Senato di Roma, tra il 114 e il 120 d.C.

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Dossier Madonna delle Grazie

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Duomo Piazza Orsini S. Bartolomeo

A sinistra pianta di Benevento, con i principali luoghi e monumenti citati nel testo.

S. Sofia

Chiesa del Salvatore

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Villa Comunale

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I duchi di Benevento 571-590? Zottone Arechi I 591-641 Aione I 641-642 Radoaldo 642-647 Grimoaldo I 647-662 662/663-687 Romualdo I Grimoaldo II 687-687 Gisulfo I 689-706 Romualdo II 706-731 Gisulfo II 731-732 Audelais 732 Gregorio 732-739 Godescalco 739-742 Gisulfo II 742-751 Liutprando 751-758 Arechi II 758-774 vanza, mentre meno illustre sembra essere stato quello di Salerno. La Capua medievale sorse infine sul sito dello scalo fluviale di Casilinum, dove le vie Appia e Casilina si riunivano al momento di attraversare il Volturno, a pochi chilometri di distanza dalla Capua Vetus, che era stata una della maggiori città dell’Italia antica, ma che era progressivamente decaduta nel corso dell’Alto Medioevo.

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Benevento serba un patrimonio di età longobarda eccezionale. Il monumento di maggior dimensione è la cinta muraria fatta ricostruire da Arechi II (758-787), che, riprendendo solo in parte quella di età romana, ampliava l’area protetta dalle mura, notevolmente ridotta in età tardo-antica. L’arco di Traiano, attraverso il quale la via Appia entrava in città da est, fu inglobato nel nuovo circuito e divenne noto

come la Porta Aurea della città. Immediatamente al di fuori, si trova la chiesa di S. Ilario a Port’Aurea, recentemente restaurata, che molti datano tra la fine del VII e la prima metà dell’VIII secolo, ma che, secondo altri, è da collocare in epoca piú tarda, alla prima metà dell’XI secolo. È un edificio a navata unica, divisa in due campate, ciascuna delle quali sormontata da un corpo cupolato, per cui si sono voluti trovare gennaio

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confronti di area orientale, ma che propone in realtà forti somiglianze architettoniche con un’altra chiesetta pugliese (il cosiddetto Tempietto di Seppannibale, nel territorio di Fasano, Brindisi), che viene datata fra l’VIII e il IX secolo ed è caratterizzata dalla sopravvivenza al suo interno di un importante ciclo pittorico.

Un’acquisizione recente

Proprio a proposito di sopravvivenze pittoriche, tornando a Benevento, non si può mancare di citare il recente ritrovamento di una cripta databile al IX secolo – quella di S. Marco dei Sabariani –, dove è sopravvissuto per buona parte un ciclo di affreschi, che è però in attesa di restauro. Anche un’altra chiesa, situata nella parte alta della città, quella dedicata al Salvatore, reca tracce importanti di età altomedievale, fra cui una tomba affrescata all’interno con croci e un’iscrizione che la ricorda come la sepoltura del prete Auderisio. Un tipo di sepoltura, questo, molto ben attestato in Italia settentrionale, ma che nel Meridione ha sino a oggi trovato confronti solo nell’abbazia di S. Vincenzo al Volturno. A poca distanza dalla chiesa del Salvatore sorge il vero capolavoro dell’architettura e dell’arte longobarda di Benevento. È la chiesa di S. Sofia, annessa all’omonimo monastero, fatta costruire dal principe Arechi II, con un’evidente richiamo nell’intitolazione all’omonima grande chiesa voluta a Costantinopoli dall’imperatore Giustiniano. È oggetto di discussione se questo edificio, oltre che essere parte del complesso monastico attiguo, avesse servito anche come chiesa palatina, dato che in questa stessa parte della città si localizza tradizionalmente l’area della residenza ducale e poi principesca longobarda.

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In alto Benevento. La chiesa del Salvatore. Qui sopra Benevento. Particolare degli affreschi scoperti nella cripta della chiesa di S. Marco dei Sabariani. IX sec. A sinistra orecchino aureo a cestello. VI-VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La chiesa è a pianta centrale, con un perimetro stellato, sulla cui conformazione originaria sussistono però divergenze che i restauri non hanno aiutato a chiarire. Lo spazio interno è delimitato da un doppio giro di sostegni. Il primo, di dieci elementi, è costituito da pilastri in opera mista di pietra e mattoni, tranne che nel caso della coppia situata di fronte all’ingresso, dove troviamo una coppia di colonne in granito di età romana sormontate da capitelli corinzi; elementi, questi ultimi, utilizzati anche per i sei so-

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A destra Benevento. La facciata di S. Sofia. La chiesa, fondata da Gisulfo II e ultimata da Arechi II nel 762, fonde elementi longobardi e bizantini. Nella pagina accanto Benevento, S. Sofia. Particolare dell’affresco con l’Annuncio a Zaccaria. VIII sec. In basso Benevento. Uno scorcio dell’interno della chiesa di S. Sofia.

stegni del giro piú interno. Le quattro coppie di sostegni poste sull’asse dell’ingresso conferiscono alla pianta circolare un’assialità visiva che la collega direttamente con l’estremo opposto, dove si trova un’abside, fiancheggiata da due piú piccole e meno profonde. Proprio nella zona absidale sopravvivono i resti della sontuosa decorazione pittorica dell’interno dell’edificio, con soggetti tratti dal Vecchio e dal Nuovo Testamento, illustrati da figure caratterizzate da una resa di solenne classicismo e di dimensioni imponenti. Negli edifici monastici retrostanti la chiesa, che includono uno spettacolare chiostro di età romanica, è ospitato il Museo del Sannio, nel quale sono custoditi vari oggetti di età longobarda, fra cui i pochi reperti recuperati da scavi non sistematici delle necropoli sorte nel suburbio della città, nelle quali trovarono posto anche sepolture di individui certamente appartenenti ai gruppi di Longobardi stanziatisi in

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città a partire dal 570 circa. Ma nel Museo non mancano anche importanti pezzi di scultura altomedievale provenienti da diverse chiese cittadine, molti dei quali esposti nel chiostro di S. Sofia, già di per sé un capolavoro di architettura e scultura di età romanica.

Origini tardo-antiche

L’altro grande polo religioso della città, la Cattedrale, è stato oggetto di indagini archeologiche approfondite negli anni recenti, che hanno permesso di riportare alla luce buona parte delle strutture antecedenti l’attuale cattedrale romanica (ampiamente ricostruita dopo i bombardamenti dell’ultima guerra). Le origini dell’edificio rimontano all’età tardo-antica, ma i suoi spazi furono intensamente utilizzati sin dalla prima fase della conquista longobarda, come testimoniano i reperti rinvenuti in alcune sepolture collocate nell’atrio. In questa stessa area, fra l’VIII e il IX secolo, furono anche deposti i corpi di alcuni importan-

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Dossier tissimi attori della scena politica beneventana, quali i principi Sico (817-832) e Radelchi (839-851), la moglie di quest’ultimo, la principessa Caretruda, e il vescovo David, che resse la cattedra fra il 781/782 e il 796. A eccezione di quella di David, murata nella facciata della chiesa attuale, le altre preziose epigrafi che ricordano i tre personaggi principeschi sono attualmente custodite nel Museo Diocesano della città. Probabilmente proprio fra il tempo di David e quello di Sico, la cattedrale avrebbe ricevuto una serie di trasformazioni, fra cui la costruzione di una nuova cripta (molto simile a quella di S. Marco dei Sabariani), decorata con affreschi che ritraggono episodi della vita di san Barbato, il vescovo che, poco dopo la metà del VII secolo, avrebbe riportato in funzione la diocesi beneventana.

Nuove fondazioni LOCALITÀ PONTE (BENEVENTO) La chiesa di S. Anastasia, correntemente datata all’VIII sec. ALVIGNANO La chiesa di S. Maria in Compulteria, la cui realizzazione si colloca fra l’inizio del VI e l’inizio dell’VIII sec.

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La rinascita cristiana di Benevento irradiò rapidamente il territorio circostante di nuove fondazioni ecclesiastiche. Delle molte note attraverso le fonti documentarie, pochissime sono quelle che serbano ancora oggi in tutto o in parte l’aspetto risalente a questa lontana fase storica. Fra queste, non lontano dal capoluogo, in località Ponte, troviamo la chiesa di S. Anastasia, che viene attualmente datata nel corso dell’VIII secolo, anche se non è impossibile una sua maggiore antichità. È un edificio a navata unica, con il presbiterio leggermente sopraelevato e muratura mista in pietra e mattoni, recante in piú punti decori a forma di croce e di palmette. Successivamente, addossato alla facciata, fu eretto un campanile, che alcuni datano al XIV secolo, ma che piú probabilmente è da collocare tra la fine del X e la prima metà dell’XI secolo. Non lontano da Ponte, nelle campagne di Alvignano (siamo già in provincia di Caserta), si trova un’altra chiesa – quella di S. Maria gennaio

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ALIFE Una delle porte che si aprono nelle mura della città. La cinta è di origine antica, ma è stata ampiamente rimaneggiata nel corso dell’Alto Medioevo.

In basso anello con castone. VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

di Compulteria –, la cui datazione varia fra l’inizio del VI e l’inizio dell’VIII secolo e che rappresenta un caso rarissimo, a sud di Roma, di sopravvivenza di una chiesa a tre navate che riprende modelli e proporzioni degli edifici di culto di età paleocristiana. Anche in questo caso, probabilmente intorno al Mille, la chiesa venne dotata di una poderosa torre (campanaria?), addossata alla facciata. A poca distanza da Alvignano si incontra la città romana di Alife, le cui mura – d’impianto antico – furono ampiamente rimaneggiate nell’Alto Medioevo e costituiscono, con le loro porte, uno dei casi piú spettacolari di palinsesti di strutture continuamente riadattate per l’assolvimento delle proprie funzioni difensive. Tornando nei dintorni di Bene-

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vento, ma in direzione di Avellino, troviamo uno dei complessi cristiani piú singolari della Campania, la chiesa dell’Annunziata di Prata di Principato Ultra. Si tratta di un edificio di culto parzialmente costruito scavando una rupe di tufo nella quale fu ricavata anche un’area cimiteriale, probabilmente risalente all’età tardo-antica. Lo spazio della chiesa, a nave unica, fu sistemato costruendo nell’area presbiteriale un arco poggiante su colonne, che immette in un presbiterio concluso da un’abside traforata da arcatelle, alle spalle della quale s’intravvede una serie di ambienti scavati nella roccia, accessibili passando al lato del presbiterio stes-

so. La conca dell’abside è decorata da affreschi, fra i quali si distingue, in posizione centrale, una Madonna orante fra figure di santi. Il complesso dell’Annunziata è stato variamente datato fra l’VIII e il IX secolo, con un’attuale propensione per la cronologia piú tarda. Sul valico che scavalca il massiccio del monte Terminio, mettendo in comunicazione l’Irpinia con la valle del

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Dossier PRATA DI PRINCIPATO ULTRA La conca dell’abside della chiesa dell’Annunziata, nella quale si conserva un affresco raffigurante la Madonna orante fra santi.

Sele, verso Salerno, si trovano i resti imponenti di una enorme fortificazione – la Civita di Ogliara –, che è stata interpretata come un complesso fortificato eretto dai Longobardi di Benevento per presidiare la via di accesso verso Salerno. Dopo un primo tentativo di datazione al VII secolo, il sito è stato forse piú appropriatamente datato al X, anche se manca a tutt’oggi un’opinione concorde in merito. Si tratta comunque di uno dei piú scenografici apparati militari esistenti in Campania sicuramente attribuibili all’Alto Medioevo.

La seconda capitale

OGLIARA. I resti della Civita, una poderosa struttura fortificata che si pensa fosse stata eretta dai Longobardi per presidiare la via di accesso a Salerno. L’edificio risale verosimilmente al X sec.

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Salerno, la seconda capitale della Longobardia meridionale, è dominata dalla mole del castello che il principe Arechi II fece costruire per difendere la città, riadattando un fortilizio bizantino del VI secolo. Il luogo offre lo spettacolo di una vista incomparabile sia sulla città sottostante, sia sulla Costiera Amalfitana e verso le montagne del Cilento. Nel cuore del centro storico troviamo la Cattedrale, fatta costruire sul finire dell’XI secolo, per volere del normanno Roberto il Guiscardo, dal vescovo Alfano, un longobardo che fu un tipico rappresentante – insieme al suo contemporaneo Desiderio, abate di Montecassino – di quella generazione che traghettò il Meridione dai Longobardi ai Normanni. L’edificio può essere quindi annoverato fra i monumenti appartenenti all’eredità artistica longobarda, sebbene venga abitualmente considerato espressione della fertile stagione del romanico campano, che annovera – fra gli altri – edifici come le cattedrali di Sessa Aurunca, di Carinola, di Sant’Agata dei Goti, di gennaio

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Capua e di Gaeta, oltre alla nuova chiesa abbaziale di Montecassino, voluta dal ricordato abate Desiderio, oggi completamente trasformata, ma che è considerata la capostipite di questa splendida serie di chiese. Il vero «tesoro longobardo» della città di Salerno è però il complesso di S. Pietro a Corte. Oggetto di scavi sistematici per diversi anni, questo sito ha rivelato una lunga fase di utilizzo che parte dall’età romana, per culminare nell’ultimo quarto dell’VIII secolo, quando esso fu inglobato nel nuovo palazzo principesco fatto costruire da Arechi II, il quale promosse la città a seconda capitale dello Stato beneventano. In quest’area, in particolare, il principe fece edificare un’aula riccamente decorata con pavimenti in marmi policromi e con un’iscrizione monumentale composta da Paolo Diacono, che è stata alternativamente interpretata come cappella palatina o come aula per ricevimento degli ospiti di riguardo. Altri avanzi delle strutture del palazzo sono visibili nel medesimo isolato a cui appartiene San Pietro a Corte, che originariamente affacciava sul mare. Di origini longobarde è anche la chiesa di S. Andrea de Lama. Nel sottosuolo, a 6 m circa di profondità, gli scavi archeologici hanno riconosciuto la presenza dell’edificio altomedievale, probabilmente una piccola aula di culto con tre absidi, dove si leggono ancora tracce importanti di pitture di soggetto sacro.

In alto orecchino aureo a cestello. VI-VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso cofanetto reliquiario in osso. VI-VII sec. Susa, Museo Diocesano d’Arte Sacra.

In alto pendente aureo piramidale. V-VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Qui accanto pendente in oro deceorato. VI-VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, Collezione Borgia.

Le chiese nella roccia

A sud di Salerno, sulle pendici del monte Raione, che sovrasta da nord la piana del Sele, si trova il santuario rupestre di S. Michele a Olevano sul Tusciano. Qui, all’interno di una grande cavità naturale, fra il IX e il X secolo furono erette alcune chiese, per rendere piú organizzata e monumentale un’area di culto (segue a p. 86)

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SALERNO In alto l’atrio della Cattedrale, innalzata alla fine dell’XI sec. dal vescovo Alfano. A sinistra Il castello detto «di Arechi», duca e poi principe di Benevento, che lo fece erigere su una precedente fortificazione bizantina.

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Dossier frequentata probabilmente già dal VII secolo. La fatica tuttora necessaria per raggiungere questo luogo impervio è ampiamente ricompensata dalla meraviglia dello spettacolo che esso offre ai visitatori. Dirigendosi di nuovo verso nord, è d’obbligo una sosta a Cimitile. Questo eccezionale complesso cristiano di origine tardoantica e legato alla memoria di san Felice e di Paolino da Nola, conserva anche tracce importanti della sua vita in età altomedievale. Esse sono rappresentate soprattutto dal sacello dei Ss. Martiri, ricostruito nel X secolo dal vescovo di Nola, insieme alla adiacente cappella di S. Calionio. Al suo interno si con-

servano importanti resti di pitture e dell’arredo architettonico, mentre altri pezzi scultorei di altissimo pregio, risalenti sempre allo stesso periodo sono conservati nell’Antiquarium del sito.

Sulle rive del Volturno

Il nostro percorso incontra ora Capua, la città fondata nell’856 sulle rive del Volturno per rimpiazzare la Capua Vetus di età romana e che, nel X secolo, divenne la capitale di uno Stato che includeva anche Benevento. Il centro storico serba una densità di monumenti risalente al periodo compreso fra il X e l’XI secolo che è veramente unica in Italia. Oltre alla grandiosa

Didascalia Cattedrale, che risale ai decenni aliquatur adi odis immediatamente successivi alla que vero ent qui conquista normanna – avvenuta doloreium nel 1062 conectu –, è di particolare rilievo il rehendebis eaturtre chiese ad curtem, la gruppo delle tendamusam cui posizione delimita, grosso moconsent, perspiti do, quella che doveva essere la diconseque nis del palazzo principesco, slocazione maxim eaquis oggi scomparso. Si tratta di S. Salearuntia vatore,cones S. Michele e S. Giovanni apienda. «a Corte», datate tutte e tre al X

secolo. Sono edifici di non grandi dimensioni, che in due casi (S. Michele e S. Giovanni) si presentano ad unica navata e nel terzo (S. Salvatore), propone invece una pianta a tre navate, ma con unica abside. Altri episodi architettonici riferibili a questo periodo storico sono


In basso, sulle due pagine l’interno del santuario rupestre di S. Michele a Olevano sul Tusciano. In basso, a destra fibbia di cintura gota in argento dorato e niellato, almandini, vetro bianco e verde, da Torre del Mangano. Fine del V sec. Pavia, Musei Civici.

OLEVANO SUL TUSCIANO Particolare degli affreschi che si conservano all’interno del santuario rupestre di S. Michele. CIMITILE Particolare di uno degli affreschi che si conservano nel complesso basilicale paleocristiano, che comprende sette edifici, il piú importante dei quali è quello intitolato a san Felice.

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Dossier CAPUA

In alto la chiesa di S. Angelo de Audoaldis, fondata presumibilmente nell’VIII sec. In basso la cripta della chiesa di S. Michele «a Corte». X sec.

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In alto la facciata della chiesa di S. Michele «a Corte». A sinistra uno scorcio dell’interno della chiesa di S. Giovanni «a Corte».

le chiese di S. Benedetto, appartenente all’abbazia di Montecassino e oggi leggibile (nonostante gli interventi dell’epoca barocca) nella sua fase dell’XI secolo, dei Ss. Rufo e Carponio e di S. Marcello Maggiore. Nel quadrante sud-occidentale della città si conserva invece la chiesa di S. Angelo de Audoaldis, un edificio sottoposto di recente a lavori di restauro che aveva inizialmente una planimetria a navata unica e abside trilobata: una soluzione assai rara, che ha fatto ipotizzare un’origine della chiesa all’VIII secolo. Attualmente, essa si presenta a tre navate e unica abside in seguito a interventi di trasformazione avvenuti a metà dell’XI secolo. Poco lontano si eleva la mole del Castello delle Pietre, un’imponente fortezza, che viene abitualmente datata al momento della conquista normanna della città, ma che potrebbe aver rimpiazzato un impianto risalente a età longobarda. Non va infine dimenticato che nel locale Museo Campano si conserva una collezione di reperti di età longobarda (sculture, epigrafi, arredi architettonici) di grande importanza, anche se l’esposizione dei pezzi è stata purtroppo parzialmente decurtata in occasione del recente riallestimento della struttura.

Scene testamentarie

Qui sopra veduta della chiesa di S. Salvatore «a Corte».

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A poca distanza dalla città si trova l’abbazia di Sant’Angelo in Formis, di cui sopravvive la chiesa ricostruita nel terzo quarto dell’XI secolo per volere dell’abate Desiderio di Montecassino. A pianta basilicale con tre navate e altrettante absidi, questa chiesa è celebre soprattutto per lo spettacolare ciclo di affreschi che si conserva su quasi tutte le superfici delle pareti, proponendo storie dell’Antico e del Nuovo Testamento. Si ritiene che i maestri che hanno lavorato in questa chiesa fossero stati gli stessi che avevano operato poco prima nel cantiere della grande basilica cassinese fatta riedifica-

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Nella pagina accanto Sant’Angelo in Formis (Caserta), basilica di S. Michele Arcangelo. L’abate Desiderio offre la chiesa a Cristo, particolare degli affreschi dell’abside. Seconda metà dell’XI sec. In basso Ventaroli (Carinola). La chiesa di S. Maria di Foro Claudio.

re dallo stesso Desiderio, ritratto a grandezza quasi naturale nell’abside, nell’atto di offrire a Cristo il modello della chiesa. Risalendo verso nord, ai piedi del massiccio del monte Massico, il percorso si chiude presso la chiesa di S. Maria di Foro Claudio, nella frazione Ventaroli del comune di Carinola. Edificata nel sito della città romana di Forum Claudii, la chiesa – che fu certamente oggetto di rifacimenti sino allo scorcio finale dell’XI secolo – ha avuto però origini piú antiche. Nella facciata attuale si leggono infatti le tracce di una sequenza di archi che delimitavano un nartece – poi chiuso – pertinente a un edificio basilicale piú grande e con una sola abside, la cui origine è stata variamente collocata in età tardo-antica o alla fine dell’VIII secolo. La chiesa odierna conserva ancora nell’abside principale una spet-

La mostra al MANN

Il popolo «che cambia la storia» Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli raccoglie il testimone della mostra «Longobardi. Un popolo che cambia la storia», che ha debuttato con successo al Castello visconteo di Pavia (vedi «Medioevo» n. 248, settembre 2017). L’esposizione corona oltre 15 anni di nuove indagini archeologiche, epigrafiche e storico-politiche su siti e necropoli altomedievali, frutto del rinnovato interesse per un periodo cruciale della storia italiana ed europea. Ne scaturisce una visione complessiva e di ampio respiro (dalla metà del VI secolo, dalla presenza gotica in Italia, alla fine del I millennio) del ruolo, dell’identità, delle strategie, della cultura e dell’eredità del popolo longobardo. La mostra sarà aperta fino al 25 marzo, con il seguente orario: tutti i giorni (tranne il martedí), 9,00-19,30; info: www.mostralongobardi.it tacolare decorazione pittorica, che presenta molte affinità stilistiche con quella di S. Angelo in Formis. Il percorso fra le tracce dell’età longobarda sopravvissute in Campania comprenderebbe molti altri siti e monumenti, fra cui, per esempio, le molte chiese rupestri – spesso con importanti tracce di pitture – distribuite quasi su tutto il territorio regionale. Ma i luoghi e i musei di cui qui si è parlato sono quelli che forse possono rappresentare al meglio la ricchezza di un patrimonio ancora troppo poco conosciuto, che tuttavia merita senza dubbio un viaggio in Campania a completamento della visita alla mostra sui Longobardi attualmente in corso al Museo Archeologico di Napoli (vedi box in questa pagina). V

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Nella grotta dell’Arcangelo di Marco Ambrogi

L’eremo di S. Michele alle Grottelle, presso Padula, è uno dei luoghi spirituali piú affascinanti della provincia salernitana. Memore di culti pagani, di esperienze eremitiche e d’una mistica devozione all’Arcangelo e a san Giacomo di Compostela, il santuario affonda le sue radici nel culto del dio Attis, signore delle forze sotterranee

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ra i luoghi di culto piú straordinari e caratteristici del Vallo di Diano e della Lucania storica, figura certamente il poco noto complesso rupestre di S. Michele alle Grottelle, collocato in prossimità dell’area archeologica di Cosilinum (nel territorio dell’odierno Comune di Padula, in provincia di Salerno), in un ambito paesaggistico suggestivo e ricco di significati storico-antropologici. Chi giunge dalla vallata, incontra il santuario a mezza costa di una ripida parete rocciosa, sul cui altopiano, al di sopra della grotta, sorgeva l’antica città lucano-romana cosilinate. Oltre l’ingresso, il recinto sacro esterno o «luogo di preparazione» (una sorta di témenos), accoglie i pellegrini; sul lato sinistro, una rientranza della roccia ospita un ciclo di pitture medievali, preludio al fascino della misteriosa caverna, scandita in due ambienti: l’atrio, che custodisce la tomba di Bernardino Brancaccio del 1538; e lo speco del tempio, la cui evidente sacralità è esaltata dall’altare di S. Michele Arcangelo. Dietro di esso la concavità naturale dell’antro si identifica in una conformazione ad abside con scanni in muratura, al cui centro si erge l’edicola di S. Giacomo Apostolo, che richiama (come nella vicina chiesa di S. Nicola de Donnis) l’aspetto delle aule cultuali di matrice bizantina.

A destra una veduta dell’eremo con l’ingresso al recinto sacro esterno. In basso Padula (Salerno), eremo di S. Michele alle Grottelle. Angelo annunciante della Natività raffigurato in un particolare dei dipinti murali sulla parete rocciosa del recinto sacro esterno. XIV sec.

Un’antica divinità della Frigia

Il collegamento storico e antropologico tra Cosilinum e la caverna collocata ai suoi piedi rimanda alle forme devozionali del mondo classico, in cui la grotta e la vicina sorgente d’acqua ne esaltavano la funzione simbolica e cultuale; l’antro di Attis – divinità d’origine frigia il cui culto si diffuse dapprima in Grecia poi in Italia, a Roma

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medioevo nascosto campania MOLISE LAZIO

PUGLIA

Roccamonfina Benevento

Teano Caserta

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Napoli

Avellino

Procida Golfo di Ischia Napoli Sorrento Capri

Salerno Amalfi

BASILICATA Eboli

Padula Mar Tirreno Palinuro Golfo di Policastro

In basso la cittadina di Padula, vista dal sito archeologico di Cosilinum.

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e nelle province –, signore delle forze sotterranee, delle acque e dei terremoti evocava gli spiriti collocati a metà tra la natura mortale e la soprannaturale, cosí come le ninfe, da rendere beneauguranti. Attis e san Michele, ritratti in un’età di eterna giovinezza, incarnarono il passaggio per l’uomo dalla vita alla morte e viceversa, simbolo di resurrezione e di immortalità: il primo è figlio della «madre terra» e dio della vegetazione, che muore e risorge, in un rinnovamento continuo; l’altro è «psicopompo», accompagna cioè le anime oltre la morte, pesandone le virtú su una bilancia. Il riferimento essenziale del passaggio devozionale dal culto di Attis a quello dell’Arcangelo si colloca nel IV secolo d.C., al tempo di Costantino, e ha luogo nell’ambito del consolidamento urbanistico e religioso, bizantino, di Padula. In un senso prettamente simbolico, tre diversi luo-

l’età antica

Da Cosilinum a Padula Secondo studi recenti, la formazione dell’abitato di Padula risalirebbe alla prima fase bizantina, ossia nel V-VI secolo d.C. (in concomitanza con la nascita di Polla), su un accampamento militare, il Kastron, dalla geometria riconoscibile nella topografia cittadina nei pressi della chiesa di S. Angelo. Il castro fu fortificato e adattato alle esigenze militari, nel periodo di permanenza dei Saraceni nel nostro territorio, i quali, oltre a distruggere la città romana cosilinate, abitarono l’antico accampamento bizantino, il Cassero (Casr, la rocca o nucleo urbano munito). La chiesetta scomparsa di S. Nicola dei Greci, l’altra di S. Maria della Civita e la piú nota S. Nicola de Donnis segnano i toponimi religiosi dell’esperienza culturale bizantina di Padula, alla quale si lega l’eremo delle Grottelle.

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A destra Padula (Salerno), eremo di S. Michele alle Grottelle. L’edicola con gli affreschi del ciclo oderisiano di san Giacomo di Compostella. XIV sec. Sulla sinistra, si distingue la parte retrostante dell’altare di S Michele Arcangelo.

ghi accomunati a Cosilinum e a Padula, dialogano tra di loro secondo un ben preciso allineamento geometrico e di equidistanza: S. Nicola al Torone, la chiesa di S. Sepolcro e S. Michele alle Grottelle si trovano su un’ideale traccia di collegamento, quasi a evocare geometrie celesti e allineamenti astrali, orientata in senso nord-ovest, sud-est e con prolungamento sull’abitato di Padula. Piú di una grotta della Lucania antica (spesso vi si ritrovano santuari della dea Mefite con sorgenti d’acqua) è dedicata a san Michele Arcangelo e rivela l’innesto su culti preesistenti, legati alla presenza iatrica dell’acqua. Nei culti pagani e in quelli cristiani, lo stillicidio delle grotte si carica di significativa e miracolosa essenza e viene raccolto in particolari vasche, spesso al centro di abluzioni o di rituali di immersione.

Traghettatore di anime

Le Sacre Scritture esaltano l’Arcangelo come capo dell’esercito celeste, un guerriero in lotta col maligno e con gli angeli ribelli. Compare in luoghi segnati da fenomeni naturali vulcanici, in grotte, abissi o acque sotterranee, ma sempre in rapporto con il mondo dell’ignoto, che evocava paure ancestrali. Il cristianesimo determina l’abbandono del luogo sotterraneo, quale residenza di potenze divine ctonie – atte alla rigenerazione della natura –, ma è sede di entità di diavoli e dei percorsi diretti agli Inferi. E chi, meglio di san Michele, il traghettatore delle anime, può custodirne la santità del sito? L’Arcangelo è detto anche «principe delle acque» ed è spesso associato alle fonti galattofore e a culti legati alle nascite, al latte e alle sue capacità nutritive; un aspetto terapeutico e magico-religioso, anche connesso allo stillicidio delle grotte, che si innesta nel fenomeno della venerazione delle fonti o «pocce lattaie» da parte delle donne prive di latte (analogia evidente con l’acqua biancastra dello stillicidio) o con l’immersione dei pellegrini nel liquido miracoloso della cosiddetta «culla di Sant’Angelo». I riferimenti alla pratica dell’incubatio, ossia l’uso taumaturgico e terapeutico delle vasche naturali per la raccolta delle acque in grotta, è rinvenibile anche nella vicina spelonca di Sant’Angelo, nei pressi di Sala Consilina. Un riferimento tipicamente locale sulla conformazione micaelica di alcuni siti e sulla presenza di abitati

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nei pressi accomuna i centri di Padula, Sala Consilina e Teggiano, ciascuno dei quali ha una grotta dedicata all’Arcangelo e nella tradizione etno-antropologica si evidenzia il collegamento tra l’abitato e l’antro, dal punto di vista storico e tradizionale. Il Micaelion venne consacrato dai monaci italo-greci di S. Nicola per i bisogni del culto dei coloni del monastero e dei pastori vaganti, ma anche come luogo nel quale poter meditare e attendere all’ascesi, nello spirito religioso originario del monachesimo. Gli anacoreti, che esercitarono un forte ascendente sulle locali popolazioni, celebravano e pregavano in lingua greca, le pareti delle loro chiese erano ornate da figure di santi con didascalie in greco, nonostante il contesto politico e amministrativo longobardo fosse latino. Lo stesso monastero del Torone ebbe un probabile incremento demografico, dovuto ai precetti di san Basilio, diffusi a partire dal IX e X secolo, arrivando a prosperare per alcuni secoli, dopo la sua fondazione. Ugo, signore di Avena, fece dono del monastero nicolaiano alla Badia di Cava, insieme alla fondazione di S. Simeone di Montesano e al S. Pietro di Polla; al cenobio apparteneva la dipendenza di S. Michele, che entrò nell’orbita monastica benedettina, per l’appunto nel XII secolo. In questo periodo furono realizzate «alle Grottelle» una serie di opere pittoriche rilevanti. Un affresco all’interno ritrae la Madonna con Bambino, incoronata e trasportata in volo dagli Angeli, sopra un drappo dipinto

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Viaggi devozionali

Un gemellaggio significativo Nella grotta padulese di S. Michele alle Grottelle il culto tributato a san Giacomo è associato al pellegrinaggio al santuario di Compostela, in Galizia, ma quasi accomuna altre reti di cammino, come quelle legate all’Arcangelo Michele. Sembra che nell’antro di Padula si concentrino, in forme

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con le sue fattezze, che rimanda al tradizionale volo di trasferimento delle immagini, in periodo iconoclasta, da Costantinopoli all’Occidente cristiano, secondo l’iconografia della Vergine del Buon Consiglio. I richiami stilistici propendono per un’assegnazione in similitudine con immagini mariane calabresi del XV e XVI secolo, dall’aspetto tipicamente orientale. L’esperienza monastica della badia del Torone si concluse con l’acquisizione dei feudi da parte della certosa di S. Lorenzo; poco prima, Bernardino Brancaccio, abate del monastero, venne tumulato in un’elegante tomba

realizzata in pietra locale, con iscrizione. Ricordato nel necrologio dell’Ordine certosino, il prelato viene celebrato da un epitaffio (al di sotto del clipeo col busto, in marmo di Carrara), che ne esalta lo spirito religioso e la severità dei costumi. Il ciclo d’affreschi di san Giacomo, nella grotta dell’eremo, richiama la presenza del culto dell’Apostolo, nella vicina Monte San Giacomo e la devozione nella cappella di Padula, eretta nel XII o XIII secolo, momento di maggior diffusione delle compagnie di pellegrini diretti a Santiago de Compostela. Nella pagina accanto ancora uno scorcio dell’eremo di S. Michele, in cui si può apprezzare l’edicola absidale con affrescato il ciclo oderisiano di san Giacomo di Compostela. XIV sec. A sinistra particolare di uno dei riquadri del ciclo, raffigurante pellegrini a Compostela. XIV sec.

ridimensionate, le esperienze dei pellegrinaggi diretti a S. Michele sul Gargano e a S. Giacomo di Compostella. Alle origini dei due culti potrebbero contrapporsi le differenti componenti monastiche che hanno tracciato la storia e la devozione nelle Grottelle: l’esperienza italo-greca, attraverso il culto per l’Arcangelo, e quella per san Giacomo,

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di marca benedettina. Entrambe queste matrici hanno un’unica derivazione gerarchica, identificabile con la badia di S. Nicola al Torone: nel tempo, infatti, i suoi monaci indirizzarono pellegrini e devoti all’antro delle Grottelle, quasi a voler suggellare una mistica presenza, dedicata ora all’Arcangelo, ora all’Apostolo.

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Dietro il moderno altare di S. Michele, risalta l’edicola istoriata, con al centro, racchiusa da un trilobo, l’immagine di san Giacomo (contornata da scene miniaturistiche ispirate alla sua vita): il volto, pur presentando una ieratica frontalità, è realizzato con grande finezza. Nell’archivolto del fondale sono affrescate dodici figure con iscrizioni nelle aureole, che rimandano agli Apostoli, divisi al centro da un occhio lobato con l’Agnello divino. L’impaginato dell’edicola, dipinta alla fine del XIV secolo, si mostra con scene istoriate, atte a definire in modo rapido, efficace e immediato, la vita e il culto del santo e i miracoli operati, con forti valenze cognitive nell’immaginario dei fedeli; una riproduzione sulla falsariga delle icone orientali, definita con tratti fisionomici semplificati. E il momento di unione o forse di transito dalla cultura greca a quella latina è richiamato dalla presenza nel ciclo pittorico dei due diaconi Stefano e Lorenzo, che la venerazione associa rispettivamente all’Oriente e all’Occidente cristiano.

Tesori nella roccia

Gli episodi salienti della vita di Maria

Gli affreschi esterni alla grotta riportano una sequenza di immagini dal forte valore simbolico, in cui la predominanza mariana assume un connotato di rilievo; nella scena di sinistra, si staglia l’Incoronazione di Maria, da parte di Cristo, entrambi seduti su uno scanno, definito in un fondale a tessuto, con rombi e fiori puntinati. Ai lati vi sono angeli musicanti nel registro superiore e i santi Giovanni Evangelista, sulla sinistra, e Battista, quest’ultimo rimarcato dall’iscrizione vicina dell’aureola. Di gusto aragonese, o tardo-quattrocentesca, è la parte centrale dell’Incoronazione della Vergine: gli stilemi del volto di Maria e del suo corpo rimandano a una cultura posteriore, rispetto al resto del dipinto. Sul lato sinistro della parete che ospita l’affresco dell’Incoronazione, è da notare la presenza di due figure oranti, posizionate verticalmente e con abito monastico e da pellegrino. Vi è poi la scena che ritrae il Parto della Vergine, con la presenza dell’Annunciazione e di curiosi dettagli, quali le pecore dei pastori alla grotta. La composizione sembra rimandare a un periodo cronologico compreso tra la fine del Trecento e gli inizi del secolo successivo, traendone rimandi figurativi con gli affreschi del succorpo di santa Venera nella chiesa di S. Angelo a Teggiano. Un discorso piú approfondito andrebbe fatto per le pitture che decorano la parete destra dell’antro, ossia la zona piú vicina all’altare maggiore. Si assiste qui alla decorazione, in forma di tabellone, di alcune scene sacre di ispirazione benedettina. Partendo da sinistra, viene ritratta santa Caterina d’Alessandria, con scene della vita e del martirio; si passa poi al ciclo di san Francesco d’Assisi (se ne riconosce l’episodio delle stimmate) e alla raffigurazione di san Benedetto e di altri santi. Ma il particolare inedito è la presenza di una Crocifissione, che

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In alto e nella pagina accanto, in alto, a sinistra particolari degli affreschi sulla parete rocciosa del recinto sacro esterno. XIV sec. Qui sopra, la Natività; nella pagina accanto, l’Incoronazione della Vergine. gennaio

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In alto, a destra ancora uno scorcio della grotta con l’altare di S. Michele Arcangelo e, dietro ad esso, il ciclo di san Giacomo. In basso l’atrio della grotta con il sepolcro di Bernardino Brancaccio, abate di S. Nicola al Torone. XVI sec.

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Qui sopra pianta dell’eremo di S. Michele alle Grottelle in Padula: 1. Recinto sacro esterno; 2. Parete con affreschi dell’Incoronazione della Vergine e della Natività di Gesú; 3. Atrio; tomba di Bernardino Brancaccio; 4. Sagrestia e sala del pellegrino; 5. Speco della grotta (parte sacra piú interna) con lacerti d’affresco su roccia e materiali di spoglio d’età romana; 6. Altare di S. Michele Arcangelo e stemma della certosa di S. Lorenzo; 7. Ciclo pittorico oderisiano di san Giacomo di Compostela; 8. Palinsesto di affreschi con santi benedettini.

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Cosilinum e Marcellianum

Il signore dei terremoti e la ninfa Lo stretto connubio tra il culto in grotta e le consuetudini di Cosilinum (evidenti sono le tracce delle spoliazioni), ebbe memoria in due edicole funerarie, murate nei pressi del santuario e poi trasferite nel Museo della Lucania Occidentale in certosa, e nell’epigrafe di pietra calcarea del dio Attis, oggi murata nella base del torchio gigantesco delle cantine di S. Lorenzo. Il culto al signore dei terremoti, traccia un riferimento storico e antropologico col richiamo alla sembra richiamare la cultura giottesca del Trecento, sia nell’impianto compositivo, che nella marca stilistica. Nonostante le efflorescenze saline, si nota, su un rilievo piano di stucco, la rappresentazione del Cristo in croce e dei dolenti ai lati, con l’aureola a rilievo, in evidenza. Sull’altare maggiore della grotta è custodita una statua in stucco di san Michele, che calca fedelmente un simulacro piú antico, scomparso decenni fa, il cui stile si avvicina all’immagine venerata sul Gargano e a quello della grotta omonima di Caselle in Pittari, ove in un bassorilievo dell’XI secolo, l’Arcangelo è ritratto nell’atto di uccidere il dragone. Nel 1538 S. Nicola al Torone veniva annessa alla cer-

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«grande madre», da parte dei Padulesi: al mitologico accoppiamento del dio pagano con la Magna Mater, sul monte Agdos, rimanda il significativo ritorno degli abitanti di Padula, alla distrutta «madre» Cosilinum. Al culto di Attis venne associato quello per la ninfa Leucothea, venerata nel pagus di Marcellianum, attraverso un ninfeo dedicato alle acque e poi perpetuato dalla memoria del battistero di S. Giovanni, che ancora oggi si eleva tra le polle di una sorgente viva. tosa di S. Lorenzo, divenendone esclusiva proprietà, con tutti i suoi possedimenti, compreso S. Michele alle Grottelle (una cappella dedicata all’Arcangelo è nella cella del priore in certosa). Cosí, dopo i secoli in cui fu luogo di frequentazione dei Benedettini, la grotta divenne meta eremitica dei Certosini (lo stemma CAR è stato dipinto da Michelangelo Caputo dietro l’altare maggiore del 1693), che nella regola religiosa contemplavano la solitudine e l’esperienza di vita ascetica. Uno dei motivi di frequentazione della grotta va ricercato anche nella posizione elevata, amena e salubre, adatta al ricovero dei monaci che si fossero ammalati in S. Lorenzo, a causa dell’inclemenza del clima insalubre del Vallo di Diano. gennaio

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Nella pagina accanto l’eremo di S. Michele alle Grottelle, incassato nella rupe, al di sopra della quale si ergono le rovine della città romana di Cosilinum. A sinistra e a destra Località Fonti, Padula (Salerno). Due immagini dei resti del battistero di S. Giovanni in Fonte. IV sec. A sinistra, uno scorcio dell’interno, dotato di acqua sorgiva e vasca per il battesimo; a destra, l’esterno del battistero, già Fonte di Leucothea.

Oggi il santuario di S. Michele è meta, ogni anno, di una «transumanza orante» insolita per le festività legate all’Arcangelo; nella terza domenica di giugno, con canti e processioni, i fedeli padulesi si recano all’antro, di prima mattina. La processione si svolge nei pressi delle Grottelle, portando a spalla il piccolo simulacro di stucco (la credenza popolare lo vuole in pietra, in ricordo del simulacro trafugato nell’Ottocento), proveniente dalla certosa di S. Lorenzo. Il percorso transita, al suono delle zampogne, sui luoghi di Cosilinum, allietato anche da un canto tradizionale, il cosiddetto «Rosario di San Michele». Alle Grottelle, il cui toponimo rimanda ai rifugi (le piccole grotte) dei monaci italo-greci, il tempo sembra essersi fermato e il fascino dell’antro ancora colpisce

l’immaginazione popolare con i racconti misteriosi, che narrano della presenza del diavolo, opposto al santo titolare del culto, tipico di quel sostrato di memorie popolari, quasi una continuazione di carattere antropologico delle paure ancestrali evocate dall’antica presenza del dio Attis. F

Da leggere Antonio Tortorella, Padula. Un insediamento medievale nella Lucania bizantina, Comune di Padula, Salerno 1983 AA. VV, Padula prima e durante la certosa. I luoghi, i monumenti e le vicende della sua storia,

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Associazione Amici del Cassaro, Lagonegro (PZ) 1995 Adriano Caffaro, L’eremitismo e il monachesimo nel Salernitano. Luoghi e strutture, Fondo per l’Ambiente Italiano, Salerno 1996 Marina Gargiulo, Un affresco di

pellegrinaggio nella Lucania medievale, in Compostella. Rivista del Centro Italiano di Studi Compostellani, 23 (1997), Perugia 1997; pp. 5-18 Maria Carla Gallo, La riscoperta di Cosilinum, Laveglia Editore, Salerno 2004

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CALEIDO SCOPIO

Storie, uomini e sapori

Quasi un eroe dei due mondi

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l salmone è un magnifico pesce rosato che molti tendono oggi a considerare come una creatura da scaffale di supermercato. Una fine ingloriosa per questo predatore del Nord Atlantico, al quale si può al massimo rimproverare qualche problema di... identità! Il salmone (Salmo salar) nasce infatti nelle acque fredde e dolci dei fiumi boreali e vi resta per tutta l’infanzia. Raggiunti i 2 anni, emigra al mare, per raggiungere la maturità sessuale e da dove ritorna al suo fiume natale, che sfrutta prima per riprodursi e poi per allevare la prole. Molti indizi suggeriscono che il rapporto tra uomo e salmone sia antichissimo e per nulla circoscritto

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ai soli aspetti alimentari. Per esempio, nel sito di Kudaro-3, tra il Mar Nero e le pendici del Caucaso, una grotta frequentata dall’uomo nel Paleolitico Medio (42-48 000 anni fa) ha restituito frammenti di ossa di salmoni depositati intenzionalmente.

La prima raffigurazione Dal Paleolitico scandinavo, un corno di renna, rinvenuto in una caverna abitata 20 000 anni fa, reca scolpita la prima immagine di un salmone a oggi nota, mentre altre testimonianze provano che 12 000 anni fa alcune civiltà stanziate lungo i fiumi costruivano vasche di raccolta per i Salmonidi, che

essiccavano al fuoco e dei cui resti ossei facevano strumenti. I Celti erano letteralmente ammaliati dalla sua capacità di saltare senza sforzo controcorrente, affrontando ardui ostacoli pur di deporre le uova nel luogo della sua nascita. Al pari del valoroso guerriero il salmone è ostinato, forte e coraggioso, con in piú le doti dello sciamano, a cui è dato di entrare in contatto con la rinascita e la linea ereditaria. Le saghe celtiche lo ritraggono come custode di saperi misteriosi e ancestrali, in quanto capace di sopravvivere indifferentemente nell’Oceano salato e nei fiumi dolci. Molti documenti testimoniano come già nell’Alto Medioevo il salmone gennaio

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A destra Il mercato del pesce (particolare), olio su tavola di Joachim Beuckelaer. 1568. Strasburgo, Musée des beaux-arts. Nella pagina accanto particolare di un bastone forato in corno di renna con incisioni raffiguranti cervi e salmoni, da Lorthet. Maddaleniano Superiore. Saint-Germainen-Laye, Musée d’archéologie nationale.

fosse una preda ambita nel Baltico, nel Mar di Norvegia e nel Mare del Nord e di quanto la sua pesca fosse attività comune sulla costa atlantica. A Scandinavi e Norvegesi si deve la creazione del gravad-lax, uno dei piú curiosi sistemi di conservazione per le delicate carni del salmone. In inverno, la «stagione della fame», il mare ghiacciato impediva la navigazione e la pesca mentre le proibitive condizioni atmosferiche non ammettevano alcuna forma di coltivazione o allevamento. L’unico modo per avere a disposizione le proteine animali consisteva nel far congelare il pesce all’aperto. Lo scongelamento e la cottura del pesce richiedevano tuttavia il

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fuoco e non sempre la legna era disponibile. Cosí si ricorse a una soluzione geniale: seppellire (in norvegese gravad) gli ultimi salmoni (laks) pescati in autunno nella sabbia sulla linea di alta marea, in modo che l’umidità del suolo, il sale, il freddo e la mancanza di ossigeno permettesse alle carni di fermentare senza deteriorarsi.

Un’alternativa gustosa Oggi il gravlax si può realizzare in casa, ricoprendo i filetti di salmone con pari quantità di sale e zucchero, avvolgendo il tutto in pellicola trasparente e lasciando l’involto in frigorifero per un paio di giorni, ricordandosi di scolare ogni 8-10 ore

i liquidi che fuoriescono dalle carni. Un’ottima e gustosa alternativa alla piú comune affumicatura, altro sistema arcaico di conservazione. Solo una trentina d’anni fa il salmone era considerato un pesce pregiato, quasi uno status symbol. Le quantità disponibili di salmone selvaggio si erano ridotte già all’inizio del Novecento come conseguenza delle dighe erette su molti fiumi e che impedivano ai salmoni di risalire la corrente per andare a deporre e fecondare le uova. La situazione si aggravò notevolmente negli anni Sessanta, a causa del devastante inquinamento degli stessi fiumi e il prezzo del salmone schizzò alle stelle. Poi vennero gli allevamenti in vasca

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CALEIDO SCOPIO che invasero i mercati con esemplari di mediocre qualità (un infaticabile corridore allevato a mangimi in uno spazio ristretto ha sempre carni flaccide e prive di gusto…!) e tolsero al roseo pesce quell’alone di nobiltà e esclusività che si era guadagnato sfiorando l’estinzione. Eppure, tra il Medioevo e il XVIII secolo, il salmone rappresentava una presenza costante e anche un po’ ossessiva nei fiumi di Spagna, Portogallo e soprattutto di Francia, dove era talmente a buon mercato e In basso stampa raffigurante un venditore ambulante di salmone affumicato dell’Elba. XIX sec.

In alto Natura morta con salmone, olio su tela di Francisco Goya. 1808-1812. Winterthur, Stiftung Oskar Reinhart.

comune anche sulle tavole piú umili che l’imperatore Carlo Magno, nel IX secolo, dovette vietare ai suoi vassalli di destinarlo a vitto per la servitú per piú di tre volte la settimana.

Un successo crescente Il celebre Ciclo Bretone fa del salmone un paradigma di sapienza e raziocinio, come appare evidente anche nella Leggenda del Re Pescatore di Chrétien de Troyes. L’eco di questi racconti accompagnò il Medioevo nordeuropeo, facendo entrare sempre piú questo pesce nelle tradizioni nordiche. Il primo ricettario inglese, il Forme of Cury – manoscritto del XIV secolo il cui autore si dice capo-cuoco di Re Riccardo II – riporta la ricetta della Tart de brymlent, un timballo di salmone (venduto quasi sempre sotto sale, come il baccalà) addolcito in cottura da un misto di fichi, uva passa, mele, pere e guarnito da prugne snocciolate. Il piú antico libro di cucina in lingua tedesca, il Würzburger Kochbuch, scritto nei primi decenni del Trecento, istruisce su come confezionare un altro scenografico salmone in crosta: «Togli al salmone spine e scaglie; lascialo aperto in due; trita salvia e prezzemolo; pesta zenzero pepe e anice e sala il tutto. Prepara una pasta e stendila per porgli sopra il salmone. Ricopri il pesce aperto con le erbe e avvolgi la pasta attorno al tutto dandogli l’aspetto del salmone, della

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A destra una pagina del Forme of Cury, il primo ricettario inglese. XIV sec. Manchester, The John Rylands Library. trota o del luccio. Cuocilo nel forno». Sebbene sia quasi del tutto assente nel Mediterraneo, il salmone non manca dagli antichi ricettari italiani. Maestro Martino da Como, nel suo Libro de arte coquinaria, compilato verso la metà del Quattrocento, dice: «Il salmone è gentilissimo pesce et il suo naturale è d’allessarlo, et ancora serebe bono ad ogni altro modo che lo cocissi»; poche parole e alquanto vaghe, che paiono dar ragione a chi vede quest’opera ispirata a Le Ménagier De Paris, il cui ignoto estensore, in quanto francese, aveva piú dimestichezza con i salmoni del Comasco.

I consigli del Ménagier Nel Ménagier, il salmone compare nei menú, come pastés de saumon, saumon farcis e potage au saumon, e la ricetta del salmone fresco viene presentata in questi termini: «Saumon frais soit baconné, et gardez l’eschine pour rostir; puis despeciez par dales cuites en eaue, et du vin et du sel au cuire; mengié au poivre jaunet ou à la cameline et en pasté, qui veult, pouldré d’espices; et se le saumon est salé, soit mengié au vin et à la ciboule par rouelles» («Il salmone fresco sia affumicato e gli sia lasciata la lisca se si vuol fare arrosto; quindi taglialo a trance e lessalo in acqua, con vino e sale mentre cuoce; mangialo con pepe giallo o salsa camellina, come vuoi, spolverato di spezie; e se il salmone è salato mangialo con vino e cipolla giovane affettata)». Piú esaustiva e precisa risulta l’Opera di Bartolomeo Scappi (Cap. XXXII), in cui, sul salmone, si legge: «Vien poco pesce salmone fresco in Italia, ma ne son portati assai salati grossi et piccioli. Ha la medesima statura che il corbo [ombrina] e la medesima scaglia. Son rossi di carne il verno come la trotta. La loro stagione comincia di maggio e dura tutto il luglio. Tengo per certo che tal pesce sia chiamato salmone per lo saltar che fa nell’acqua.

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Partecipa del marittimo e dell’acqua dolce come fa lo spigolo. Se ne fanno tutte le vivande che si fanno dei corbi e dei spigoli, cosí dell’interiori si fanno diversi potaggi [minestre] et si friggono come quelli dello spigolo»; e, piú oltre, (Cap. CCIX): «Piglisi il pesce salmone che è portato di Fiandra e dalli confini di Borgogna e di molti altri lochi in Italia, salato in barrili con salimora [salamoia], taglisi in pezzi e facciasi stare in molle e cuociasi come il tarantello [tonno salato] et facciasene potaggio conforme al prossimo soprascritto capitolo [ovvero con cipolle, prugne, visciole, olio, vino bianco, mosto cotto, spezie ed erbette]». Come tutti i pesci, anche il salmone approfittò dei privilegi assegnatigli dalla religione cattolica coi

precetti dell’astinenza dalle carni nei giorni «di magro». Precetti che nel Medioevo venivano severamente prescritti e – almeno formalmente – rispettati. Fu cosí che, tra Rinascimento e Barocco, i cuochi delle cucine nobiliari, delle Curie e dei palazzi papali, seppero rendere meno tristi le temperanze gastronomiche imposte, mistificando la natura stessa del salmone: lo pestavano nel mortaio facendone una crema che mantecavano con un passato di luccio e guarnivano col latte di mandorla, cosí da mettere davanti ai loro insigni padroni pancette di maiale cristianamente bugiarde. Sergio G. Grasso

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CALEIDO SCOPIO

Simbolo di una nazione CARTOLINE • Nella

mostra permanente «Il Wawel Scomparso», nel cuore del castello reale di Cracovia, si uniscono il valore scientifico della ricerca sull’edificio e la straordinaria atmosfera di un percorso suggestivo e ricco di storia 106

I

l panorama di Cracovia, antica capitale della Polonia e città reale, è dominato dal colle del Wawel, con il suo imponente castello e la sontuosa cattedrale reale. Per secoli sede del potere temporale e spirituale, il Wawel, ha acquistato per i Polacchi una valenza ancora maggiore: quella di simbolo storico della grandezza della Polonia e dell’identità nazionale. L’edificio religioso adempie tuttora alla funzione di chiesa cattedrale di una delle principali diocesi nazionali polacche. La chiesa attuale, risalente al XIV

secolo e realizzata in stile gotico (1320-1364), fu la terza edificata in questo luogo. Nei secoli successivi ha subíto ripetuti adeguamenti alle diverse correnti artistiche succedutesi. È stata cosí arricchita da una serie di cappelle, principalmente rinascimentali e barocche, nonché da opere d’arte risalenti a varie epoche.

Una vicenda plurisecolare La storica residenza reale, invece, ancora nel periodo tra le due guerre, oltre a essere sede di un museo, ha svolto un ruolo di rappresentanza quale sede del Presidente della Repubblica. Il vasto palazzo rinascimentale, databile alla prima metà del XVI secolo, contiene elementi di fabbricati medievali, mentre l’ala settentrionale è stata ammodernata in epoca barocca. Gli interni custodiscono collezioni di pregevoli opere d’arte. gennaio

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Fra le mostre tematiche allestite nel museo, è visitabile l’esposizione intitolata «Il Wawel Scomparso». Come suggerito dal titolo, essa narra la storia di luoghi non piú esistenti o difficilmente accessibili, mostrando opere architettoniche che nel tempo hanno cambiato funzione o sono state traslate dall’originale ubicazione sul colle. Un ampio ingresso divide la mostra in due parti: una sezione archeologico-architettonica, che ospita monumenti la cui provenienza spazia dall’epoca preromanica al gotico (fine del X-XV secolo), e una parte che accoglie sculture rinascimentale e una raccolta di maioliche (XVI-XVII secolo).

Un sapiente gioco di luci L’ampio spazio espositivo è immerso in una penombra dalla quale emergono monumenti e reperti, sapientemente posti in rilievo dall’impianto di illuminazione. La presenza di un corridoio sospeso che attraversa i vari ambienti, raggiungendo diverse altezze, consente di osservare ciò che rimane delle pareti da una prospettiva ampia e nel dettaglio. Sin dall’entrata lo sguardo viene catturato dal monumento principale: l’edificio circolare (detto «rotonda») intitolato ai santi Felice e Adautto. Eretto tra il X e l’XI secolo, presenta due piani e una pianta del tipo definito tetraconco (letteralmente,

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«quattro conchiglie»), provvista di annesso circolare con accesso. Nel 1806, gli Austriaci che occupavano Cracovia e la Polonia meridionale (in seguito all’annessione e alla spartizione della Polonia fra Russia, Prussia e Austria) demolirono, purtroppo, la parte superiore dell’edificio portandola al livello pavimentale di allora. Nel 1917 l’architetto Adolf Szyszko-Bohuszne riportò alla luce i muri e progettò la ricostruzione. Le pareti originali della rotonda ancora esistenti sono alte fra i 3 e i 7 m e presentano uno spessore di circa 1 m, mentre il diametro della navata circolare è pari a 4,8 m.

Le immagini che corredano l’articolo si riferiscono alla mostra permanente «Il Wawel Scomparso», allestita nel castello reale del Wawel, a Cracovia. In alto un particolare dell’edificio circolare (detto «rotonda»), intitolato ai santi Felice e Adautto. X-XI sec. Nella pagina accanto la collina del Wawel, a Cracovia, sulla quale sorgono il castello reale e la chiesa cattedrale. In basso esemplari di calzature in cuoio di epoca tardo-medievale. L’edificio è realizzato con blocchi di pietra arenaria legati con malta di calcina e poggia su roccia allo stato naturale. Attorno al tempio sono

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CALEIDO SCOPIO In basso statua in marmo rosso di sant’Antonio Abate, attribuita a un’artista anonimo noto come Maestro MS.

visibili resti di edifici altomedievali, le fondamenta del castello gotico trecentesco del re Casimiro il Grande e parti delle antiche cucine reali del XVI secolo. Negli ambienti che si snodano dopo la sezione archeologica, nell’area dell’antica rimessa di carri e della cucina reale detta «piccola», sono esposti oggetti di uso quotidiano d’epoca romanica e gotica. Si possono vedere strumenti in legno, osso e avorio – fra cui DOVE E QUANDO

«Il Wawel Scomparso» Cracovia, Castello reale del Wawel Orario gli orari variano stagionalmente ed è perciò consigliabile consultare il sito web del museo, disponibile anche in lingua inglese Info http://wawel.krakow.pl

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alcuni pettini –, nonché maioliche pavimentali decorate, recipienti realizzati al tornio recanti un motivo a nastro ondeggiante, nonché decorazioni in metallo, e persino uno scacco a forma di cavallo.

Una figura insolita Curiosa è inoltre la figura del piccolo bue con muso allungato, che costituisce il piú antico esempio di scultura romanica qui esposta, scolpito in pietra calcarea fra il X e l’XI secolo. Tra i reperti piú significativi, spiccano un denaro del re Ladislao il Breve (1260/61-1333), un simbolo di pellegrinaggio recante l’effige di san Stanislao, patrono della cattedrale e della Polonia (probabilmente successivo al 1250) e una bolla di papa Alessandro IV, del XIII secolo.


A sinistra e a destra due immagini delle soluzioni adottate per l’esposizione dei materiali architettonici. Nella pagina accanto, in basso statuetta in pietra calcarea raffigurante un bue. X-XI sec.

I reperti sono esposti in vetrine sollevate da terra mediante sostegni metallici, che conferiscono loro leggerezza, favorendo al contempo l’osservazione dei materiali. Per presentare il modello degli edifici sacri e laici originariamente situati sul Wawel sono state impiegate teche cubiche in vetro pieno che possono essere ruotate, consentendo allo sguardo di cogliere il modello da ogni prospettiva.

Nella cripta di Karol Wojtyła

primi due ambienti sono stati riuniti frammenti architettonici appartenuti principalmente al castello rinascimentale, innalzato negli anni 1504-40 circa, per iniziativa dei sovrani della Repubblica della dinastia degli Jagelloni. È altresí possibile ammirare i magnifici capitelli e collarini di colonne, creati a Cracovia dalle maestranze di illustri artisti italiani, quali Francesco Fiorentino e Bartolomeo Berrecci. Tra le cornici che sormontano le finestre, si distingue

quella proveniente dallo studio dello stuccatore Benedetto, 1524-29, che coniuga tratti gotici e rinascimentali. Cattura l’attenzione il cartiglio in gesso recante lo stemma della Polonia: un’aquila realizzata da Berrecci nel 1534. La sobrietà degli strumenti espositivi pone in rilievo, ulteriormente sottolineati da luce calda, i monumenti in pietra. Tali sostegni rimandano evidentemente a elementi architettonici; al contempo, essendo realizzati

Guardando la ricostruzione della prima catedrale, edificata fra l’XI e il XII secolo, vale la pena ricordare che a essa appartennero la tuttora esistente cripta di S. Leonardo e la parte inferiore della Torre Vicariale (situata a sud-ovest della chiesa). In questa cripta celebrò la sua prima messa padre Karol Wojtyła, che divenne poi vescovo di Cracovia e, in seguito, nel 1978, papa, assumendo il nome di Giovanni Paolo II. Nelle sale successive il Medioevo lascia il posto all’età moderna. Nei A destra modello della chiesa cattedrale del Wawel, cosí come si presentava nella sua fase romanica.

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CALEIDO SCOPIO Maiolica policroma raffigurante un giovane sovrano, manifattura di Bartosz da Kazimierz. Primo quarto del XVI sec.

sottolineato che non si tratta di calchi contemporanei, ma risalenti agli anni 1868-1874. A realizzarli furono le allieve dei Corsi per Donne organizzati dal Museo della Tecnica e dell’Industria di Cracovia a partire dalle sagome preparate dallo scultore cracoviano Parys Filippi. L’ultimo modulo dell’esposizione è costituito dalla preziosa raccolta di piastrelle del XVI e XVII secolo recanti splendidi fiori e rosette dai colori intensi e variegati. Le maioliche piú belle furono prodotte dalla manifattura locale di Bartosz da Kazimierz, nel primo quarto del XVI secolo, compresa quella raffigurante un giovane re. Completano l’esposizione alcuni modelli di stufe.

Guardando all’Italia

in metallo tinto di nero, scompaiono discretamente nell’ombra, cosí da lasciare in primo piano il reperto.

Gli ampliamenti piú recenti Questa sezione della mostra è stata parzialmente modificata e ampliata pochi anni fa. Le due sale successive, adibite a lapidario, sono dedicate alle opere d’arte provenienti dalla Cattedrale waweliana. Degno di particolare attenzione è quanto rimane del dossale eseguito in calcare dalle maestranze dell’architetto e scultore Bartolomeo Berrecci (1480-1537). Finemente decorato, è provvisto di un timpano che reca una rara rappresentazione

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iconografica raffigurante il Signore. Un gruppo di opere è costituito da sculture e bassorilievi realizzati in marmo rosso, fra i quali spicca la statua di sant’Antonio Abate (1558), opera di un artista ignoto e denominato convenzionalmente Maestro MS, che proviene dall’altare della cattedrale intitolata al santo. Vi è inoltre spazio per la decorazione della Cappella di Sigismondo, mausoleo degli ultimi Jagelloni, opera anch’essa di Bartolomeo Berrecci e nota «perla del Rinascimento» a nord delle Alpi. Sono qui esposti calchi in gesso di pannelli murali ornati da immagini grottesche. Merita d’essere qui

Inaugurata nel 1975, «Il Wawel Scomparso» coronò il progetto elaborato da Jerzy Szablowski, ex direttore del Wawel. Alla sua riuscita diede un contributo decisivo la scenografia artistica creata da Adam Młodzianowski (1917-1985), che si ispirava alle eccellenti esperienze progettistiche italiane successive al 1950, coniugando arte antica e forme moderne. Occorre segnalare che la prima versione della mostra, di formato ridotto, era stata allestita negli anni Cinquanta del XX secolo. Ulteriori progetti vennero aggiunti nel decennio successivo. L’esposizione dei reperti è stata curata nel rispetto dell’amor vacui (amore del vuoto): mettendo in mostra una quantità ridotta di oggetti vengono soddisfatte le migliori condizioni per una loro ricezione e comprensione. La struttura della mostra «Il Wawel Scomparso» soddisfa quattro principi fondamentali: simmetria, ritmo, armonia e contrasto – caratteristiche immanenti della natura e della cultura. E, a distanza di quasi mezzo secolo dalla sua apertura, conserva intatta la sua efficacia. Ojcumila Sieradzka gennaio

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Lo scaffale considerato e, molto spesso, fortemente desiderato. Come emerge da piú di uno degli interventi, infatti – a cominciare Edizioni ETS, Pisa, 258 pp. da Umberto Eco –, 24,00 euro i secoli dell’età di ISBN 978-884674970-3 Mezzo, almeno fino www.edizioniets.com al Duecento, furono Il volume si basa soprattutto tempi di in larga parte sui fame, in cui i sontuosi contributi presentati banchetti dell’età in occasione rinascimentale erano dell’omonimo ancora ben lontani. convegno tenutosi Tanto da far dire allo a Milano nel 2015 stesso Eco che il piatto e attraverso il quale piú prelibato della la SISPM (Società cucina altomedievale Italiana per lo fu… «l’acquolina in Studio del Pensiero bocca»! Altrettanto rilevanti erano i condizionamenti imposti dalla religione, che infatti costituiscono un denominatore ricorrente, di volta in volta analizzato attraverso i riferimenti ai precetti della dottrina cristiana e alle conseguenti speculazioni di Padri della Chiesa Medievale) ha e filosofi. Né manca portato il proprio l’ennesima conferma contributo al tema dell’eclettismo di dell’alimentazione, Ildegarda di Bingen, scelto come filo che anche al cibo conduttore dell’EXPO volle dedicare le sue che in quei mesi riflessioni, affiancando andava svolgendosi nel a considerazioni di Ondas. Martín Codax, carattere teorico capoluogo lombardo. Cantigas Amigo Non si tratta,dedunque, anche chiose di Hamon di Vivabiancaluna una disamina Biffi, Pierre natura pratica. Come Arcana (A390), 1 CD quando, nell’ambito della gastronomia www.outhere-music.com medievale, bensí di un di un commento alla insieme di riflessioni Regola benedettina, su come il cibo venisse si perita per esempio Chiara Crisciani Onorato Grassi (a cura di) Nutrire il corpo, nutrire l’anima nel Medioevo

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di sottolineare l’attenzione che si doveva prestare nel curare l’alimentazione del lettore nel refettorio, affinché questi non rischiasse di venire meno mentre era intento alla declamazione delle scritture a beneficio dei confratelli che consumavano il pasto. Altri contributi ampliano ulteriormente la prospettiva dell’indagine, analizzando il trattamento riservato al mangiare da Dante Alighieri nel Convivio e da Giovanni Boccaccio nel Decameron, a riprova di un’attenzione diffusa e sentita per la questione. Si potrebbe insomma affermare che, forse proprio perché la sua presenza non era scontata, il cibo veniva trattato con particolare rispetto, in una società che ancora non aveva imboccato la deriva edonistica dei secoli successivi. Alberto Magnani Flavio Belisario

Graphe.it Edizioni, Città di Castello, 170 pp.

15,00 euro ISBN: 978-88-9372-023-6 www.graphe.it

Con stile piano e scorrevole, Alberto Magnani ripercorre la vicenda del generale Flavio Belisario,

che, per almeno un trentennio, fu protagonista della storia dell’impero bizantino e, in particolare, delle sue imprese militari in Italia e in Oriente. La parabola di questo uomo d’armi si compie in un’epoca comunque travagliata, nella quale gli equilibri geopolitici stanno ridefinendosi, all’indomani del crollo dell’impero romano d’Occidente. Originario di Germania, una località situata al confine fra l’Illirico e la Tracia, Belisario si arruolò quand’era poco piú che un ragazzo e seppe subito mettersi in luce, tanto che, come scrisse Procopio, ebbe il suo primo comando sul campo «ancora di primo pelo». La sua fu una carriera brillantissima: dopo una serie di vittoriose campagne contro Persiani e Vandali, venne inviato in Italia e qui, nel giro di cinque anni – tra il 535 e il 540 – seppe volgere in favore dei Bizantini il conflitto

poi denominato «guerra greco-gotica», coronando la sua azione con la presa di Ravenna. Richiamato a Costantinopoli, fu mandato ancora una volta a combattere contro i Persiani e, nel 548, fu di nuovo nella Penisola, dove però non gli riuscí di rinnovare i trionfi della missione precedente. Rientrato sul Bosforo, sfuggí a una congiura e, negli anni successivi ebbe modo di adoperarsi in campo diplomatico oltre che militare. Nel 559, fu chiamato a salvare la capitale dall’attacco degli Unni e riuscí a sconfiggerli. Tre anni piú tardi, venne adombrata la sua partecipazione a una fallita congiura ai danni dell’imperatore Giustiniano: l’inchiesta che ne seguí lo scagionò completamente e gli permise di concludere i suoi giorni pienamente reintegrato negli onori e negli averi. Di una vita che fu dunque lunga e densa il volume dà conto in maniera puntuale, cercando anche di immaginare gli stati d’animo di un uomo che fu posto di fronte a responsabilità e scelte non facili. (a cura di Stefano Mammini)

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Intervalli all’inglese MUSICA • Al repertorio trecentesco anglosassone è dedicata la piú recente

incisione dell’Orlando Consort, ensemble vocale che si conferma tra le eccellenze in questo campo ed esalta le peculiarità delle partiture scelte per l’occasione

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ccostandosi alla polifonia medievale inglese, si apre un panorama sonoro inusuale, contraddistinto dagli stilemi compositivi che hanno caratterizzato lo sviluppo musicale di queste terre. L’isolamento geografico ha probabilmente avuto il suo peso e,

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benché alcuni elementi teorici del contrappunto elaborato alla scuola parigina di Notre Dame abbiano influenzato anche i compositori inglesi, questi ultimi hanno sviluppato un linguaggio che si discosta in maniera significativa dall’esperienza «europea».

Un elemento emblematico, per esempio, riguarda l’uso, nelle voci, dell’andamento parallelo per intervalli di terze e seste – una sorta di quello che potremmo chiamare volgarmente «controcanto» –, vietato dai teorici europei, ma che ritroviamo ampiamente utilizzato

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nelle musiche trecentesche inglesi. Peraltro, proprio l’utilizzo di tali intervalli rende, paradossalmente, queste musiche piú vicine alla nostra sensibilità tonale moderna, nella quale essi non sono piú considerati dissonanti rispetto a quanto si andava praticando nella musica europea due-trecentesca. Tutto ciò ben si evince dall’ascolto dell’antologia Beneath the northern star. The rise of English polyphony, che offre uno spaccato della produzione sacra anglosassone tra la fine del XIII e gli inizi del XV secolo, qui interpretata da un’eccellenza della discografia medievale, The Orlando Consort, quartetto maschile inglese che al repertorio dell’età di Mezzo ha dedicato numerose e significative registrazioni.

L’estate sta arrivando... L’antologia si apre con due brani, Alleluia. Christo iubilemus e Stella maris nuncuparis, il cui stile cantilenante (rondellus), dovuto all’impiego di un ritmo tropaico, ci ricorda un notissimo brano della tradizione inglese, Sumer is icumen in (l’estate sta arrivando), conosciuto per essere anche il primo canone della tradizione anglosassone. Mentre alcuni brani nella loro costruzione contrappuntistica si avvicinano maggiormente allo

Beneath the northern star. The rise of English polyphony, 1270-1430 The Orlando Consort Hyperion (CDA68132), 1 CD www.hyperionrecords.co.uk

stile compositivo praticato dai compositori europei, con utilizzo di linee vocali in cui note di lunga durata nelle voci basse sostengono melodie piú movimentate nelle voci acute – è il caso, per esempio, di Sub Arturo plebs di Johannes Alanus, un mottetto isoritmico che si avvicina stilisticamente alla produzione continentale –, altri fanno un esemplare uso di quell’andamento parallelo di terze e seste di cui si parlava poc’anzi; è il caso di Ave mundi rosa, Kyrie Cuthberte prece e dell’Agnus Dei di Chirbury, le cui linee vocali si muovono sinuosamente La pagina dell’Old Hall Manuscript contenente la trascrizione di una delle composizioni scelte dall’Orlando Consort per l’antologia Beneath the northern star. 1410-1420. Londra, British Library.

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in intervalli paralleli e per gradi congiunti, creando un effetto particolarissimo, quasi ipnotico e molto evocativo. Oltre ai vari brani anonimi proposti, alcuni dei quali provenienti dall’Old Hall Manuscript della British Library – una fonte preziosa quanto unica per la conoscenza del repertorio inglese medievale –, la scelta antologica si sofferma su alcuni nomi, tra cui quelli piú noti di Leonel Power e John Dunstable accanto ai meno conosciuti Johannes Alanus, Thomas Damett, Robert Chirbury, Byttering, Gervays e Excetre, tutti attivi tra la fine del XIV e i primi decenni del secolo successivo. La variegata materia musicale proposta dalla registrazione è un ottimo campo di prova per le quattro voci dell’Orlando Consort, che si avventurano in questo territorio sonoro con la maestria che caratterizza le loro incisioni. Con un’intonazione e un senso ritmico eccellenti, Matthew Venner, Mark Dobell, Angus Smith, Donald Greig si integrano perfettamente tra loro, dando vita a un equilibrato impasto vocale, frutto di decenni di lavoro e frequentazione del repertorio medievale. Franco Bruni

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