Medioevo n. 251, Dicembre 2017

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FR SU AN LLA CI VI GE A NA

EDIO VO M E A

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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IV E RS A R

www.medioevo.it

Il ritorno di Federico II

VITA QUOTIDIANA Uomini, donne e bambini del Medioevo

RELIQUIE

MARIA

E LA VERA STORIA DEL

VELO

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Con i pellegrini sulla via Francigena www.medioevo.it

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VITA QUOTIDIANA IL VELO UN MUSEO PER FEDERICO II JESI DOSSIER PELLEGRINI SULLA VIA FRANCIGENA

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Mens. Anno 21 numero 251 Dicembre 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 251 DICEMBRE 2017

DIOEVO ME

IN EDICOLA IL 1° DICEMBRE 2017

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SOMMARIO

Dicembre 2017 ANTEPRIMA ANIMALI MEDIEVALI Piccolo è... brutto!

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MOSTRE Il cammino dell’uomo Un singularissimo testimone del tempo

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APPUNTAMENTI Medioevo Oggi Natale rosso fuoco Belli, Brutti e Nature L’Agenda del Mese

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SCOPERTE Il segno del comando

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LUOGHI JESI La nostra Betlemme di Furio Cappelli

STORIE LA VITA QUOTIDIANA Come in un giardino di delizie di Furio Cappelli

68

34

68

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CALEIDOSCOPIO

RELIQUIE

UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO Doni e donatori

108

LIBRI Tutta un’altra storia Lo scaffale

110 112

MUSICA Intervalli all’inglese

112

Il Velo della Madonna

Per tessere la devozione di Elisabetta Gnignera

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34 COSTUME E SOCIETÀ IL VELO Una storia da «svelare» di Erberto Petoia

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Dossier

Francigena LA VIA DEL PELLEGRINO testi di Giovanni Antonio Baragliu, Carlo Casi e Luciano Frazzoni

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FR SU AN LLA CI VI GE A NA

MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE

NN

IV E RS A R

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Il ritorno di Federico II

VITA QUOTIDIANA Uomini, donne e bambini del Medioevo

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MEDIOEVO Anno XXI, n. 251 - dicembre 2017 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Hanno collaborato a questo numero: Giovanni Antonio Baragliu è dirigente tecnico della Riserva Naturale «Selva del Lamone». Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesco Colotta è giornalista. Claudio Corvino è antopologo. Guido Curto è direttore di Palazzo Madama, Torino. Luciano Frazzoni è direttore del Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller» di Farnese. Elisabetta Gnignera è studiosa di storia del costume medievale e rinascimentale italiano. Aart Heering è giornalista. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Erberto Petoia è storico delle religioni. Antonio Pieretti è professore di filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Perugia. Michele Storelli è docente di lettere e storia ed esperto di cultura e folclore dell’Umbria. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: pp. 36, 51-53; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: copertina (e p. 108); AKG Images: pp. 34/35, 56-57, 62/63, 98/99, 106/107; Leemage: p. 41, 42, 50/51, 55 (basso), 66-67; Electa/Sergio Anelli: p. 48; su concessione MiBACT: pp. 48/49; Album: pp. 54/55, 55 (alto); Antonio Quattrone/Antonio Quattrone: pp. 60/61 – Bridgeman Images: pp. 5, 104/105 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 6-9, 14-16, 21 – Cortesia Edoardo Ridolfi: pp. 10, 10/11, 11 (sinistra), 12-13 – Doc. red.: pp. 11 (basso, a destra), 18, 38, 43, 62 (alto), 80 (alto), 90 (basso), 94, 100-101, 104, 111 – Cortesia degli autori: pp. 19, 20, 62 (basso), 64 (basso), 64/65, 80 (basso, a destra), 81, 82 (a sinistra) – Cortesia Appenzellerland Tourismus AR: Daniel Ammann: p. 22 – Archivi Alinari, Firenze: © BnF, RMN-Grand Palais/Image BnF: pp. 36/37; © RMN-Grand Palais/ Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge: Michel Urtado: p. 90 (alto e p. 91), Jean-Gilles Berizzi: p. 97 – DeA Picture Library: pp. 68/69; G. Dagli Orti: pp. 39, 87, 99; G. Cigolini: pp. 46/47; G. Andreini: p. 103 (basso) – Da: Vivere nel Medioevo, il Mulino, Bologna 2017: p. 40 – Shutterstock: pp. 58/59, 64 (alto), 80 (basso, a sinistra), 92-93, 102/103, 103 (alto) – Cortesia Museo Federico II Stupor Mundi, Jesi: pp. 71 (alto, a sinistra), 71 (basso), 75, 76 (centro); Biblioteca Apostolica Vaticana: pp. 70, 71 (alto, a destra); Stefano Binci: pp. 72-73, 74/75, 76 (alto), 78 (basso), 79; Sydonia Production: pp. 74, 78 (alto); KHM-Museumsverband: pp. 76 (basso), 77 – Da: Arte medievale nella Vallesina, Effeci, Jesi 2001: p. 82 (a destra) – Cortesia Duilio Ricci: p. 83 – Foto Scala, Firenze: p. 96; White Images: pp. 88/89 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 81, 90.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l.

Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

In copertina Adorazione dei Magi (particolare), tempera, oro e argento su tavola di Gentile da Fabriano. 1420-1423. Firenze, Gallerie degli Uffizi

Direttore generale: Andrea Ferdeghini Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Pubblicità: Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Direzione, sede legale e operativa: Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI)

Nel prossimo numero gennaio 1477

luoghi

La battaglia di Nancy

Mantova

costume e società

dossier

Quando il medico era una donna

I Longobardi nel Meridione


ANIMALI MEDIEVALI a cura di Federico Canaccini

Piccolo è... brutto!

N

ei bestiari medievali si trova una sezione a parte nella quale vengono descritti gli esseri partoriti dalla decomposizione della carne e degli elementi della terra, dell’aria e dell’acqua. Il fuoco non degrada, naturalmente, anzi consuma tutto ma fa nascere la fenice. All’interno di questa sezione, spesso lunghissima, trovano posto, oltre ai vermi veri e propri, animali che hanno una connotazione perlopiú negativa, proprio perché nascono dal decadimento della natura. Sono in genere piccoli o piccolissimi, ed è una fortuna, giacché nella gran parte dei casi provocano flagelli ed enormi danni. Ciò che colpisce è la loro eccezionale varietà, che comprende ragni, mosche, cavallette, cicale ma anche pulci, pidocchi e zecche. Il ragno è il campione del senso del tatto, grazie al quale si muove su fili praticamente invisibili. La mosca è un essere repellente, che si posa sugli escrementi, provocando poi epidemie, ha vita lunghissima e vola incessantemente attorno ai cavalli e alle mucche in attesa del loro decesso, per posarsi sui loro cadaveri. Le cicale sono talmente canterine che a volte dimenticano persino di mangiare e muoiono cantando! Si aggiungono alla lista le sanguisughe: ve ne sono alcune, in India, in grado di volare: attaccano l’uomo imprudente, dissanguandolo in pochi istanti. I vermi poi distruggono alberi, piante e mangiano i corpi degli uomini impuri e malvagi, cosí come si trova scritto nella Bibbia. Simbolo di malvagità, i vermi possono attaccarsi anche all’anima di un uomo reietto e solo un miracolo può liberare il malcapitato da tale dannazione. Non è un caso che Dante faccia camminare le anime degli Ignavi su un tappeto di vermi striscianti, pungolati incessantemente da vespe (si badi bene, non api!) e mosconi. Alcuni bestiari includono in questa sezione persino la lince, considerata come un enorme verme bianco dalla vista acutissima e che eccelle anche nella corsa. La sua urina, a contatto con l’aria, diventa una pietra dalle proprietà ricercatissime, il lyncurium, che lei però nasconde debitamente. Tuttavia, alcuni insetti sfuggono spesso a questa classificazione e sono quelli laboriosi, come la formica o l’ape, lodati e proposti come modello di virtú. Le formiche infatti sono laboriose, previdenti, coraggiose, intraprendenti e socievoli: la loro società non prevede capi, è un mondo in cui sono tutti uguali, e ognuno svolge il proprio compito senza bisogno di ordini, sapendo già bene cosa debba fare. Le api detengono però il primato di «verme» positivo. Anzi, è una forzatura includerle nella sezione dei «vermi», giacché, pur essendo insetti, sono spesso trattate in una sezione separata. La loro è una grande società, con tanto di «castello» in cui regna un sovrano, difeso da guerrieri; un territorio ben

Una pagina dal Codice Cocharelli, un trattato didattico sui vizi capitali. 1330-1340. Londra, British Library. La pagina è riccamente decorata con immagini di ragni e altri insetti. delimitato su cui lavorano migliaia di fedeli operai, devoti al sovrano e intenti alla produzione dell’unico dolcificante dell’età medievale: il miele. Come non potevano gli uomini dell’età di Mezzo non essere grati a questo insetto che, oltre al miele, produceva anche la preziosissima cera? Un divario colossale separa l’ape dalla vespa: la prima è un essere benigno, la seconda maligno. In molte culture l’ape simboleggia addirittura l’anima: ecco perché in Germania l’espressione «il sentiero delle api» allude al vento che trasporta le anime nell’aldilà. Mentre invece, «finire in un vespaio», dal momento che le vespe costruiscono le loro tane sottoterra, negli Inferi, significa ritrovarsi in un ambiente ostile.


ANTE PRIMA

Il cammino dell’uomo MOSTRE • Un ricco percorso espositivo

allestito in Palazzo Madama, a Torino, ripercorre la vicenda plurimillenaria delle strade battute dall’Umanità nella progressiva occupazione del nostro pianeta, vista come una sorta di grandiosa «migrazione»

«O

dissee» non è e non vuol essere una mostra incentrata «solo» sulle migrazioni; si tratta, infatti, di un’esposizione dedicata «anche» alle migrazioni, che ha però la presunzione di raccontare il cammino dell’Umanità sul pianeta Terra, nel corso di una storia plurimillenaria. Un percorso illustrato da grandi carte geografiche e documentato da un centinaio di opere d’arte emblematiche. Capolavori scelti perché metonimici – la parte per il tutto – delle principali «strade» percorse dall’Uomo nel suo lungo viaggio nel tempo e nello spazio, dal Paleolitico fino a oggi. Un viaggio suddiviso in dodici sezioni: la preistoria, i viaggi mitologici di Ulisse ed Enea, la diaspora ebraica, l’espansione

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A destra corredi funerari longobardi, dalla necropoli di Sant’Albano Stura (CN). VII sec. Torino, Soprintendenza Archeologia belle arti e paesaggio per le province di Alessandria, Asti e Cuneo. In basso olifante da caccia ricavato da una zanna di elefante, cultura dei Sapi (Sierra Leone). Fine del XV-inizi del XVI sec. Torino, Musei Reali, Armeria Reale.

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MEDIOEVO


A destra globo celeste in bronzo ageminato in argento e rame e niellato. Siria o Egitto, anno 622 del calendario di Egira (1225 d.C.). Napoli, Museo di Capodimonte, dalla Collezione Borgia.

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In alto Enea che fugge da Troia in fiamme, olio su tela di Pompeo Batoni. 1754-56. Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda. Il protagonista, una sorta di «migrante per necessità» ante litteram, abbandona la città traendo in salvo il vecchio padre, Anchise, e il figlioletto, Ascanio; secondo la tradizione, della moglie Creusa, che compare nel dipinto, perse invece le tracce.

Errata corrige con riferimento all’articolo Quei bambini scambiati nella culla (vedi «Medioevo» n. 250, novembre 2017) desideriamo precisare che la frase al quinto capoverso di p. 34 deve leggersi come segue: «Qualche studioso ha ritenuto di rinvenire il primo caso di changeling ricorrendo addirittura alla letteratura antica classica, in particolare all’episodio, narrato nel Satyricon di Petronio (I secolo d.C.), durante la cena di Trimalcione;» e non «...narrato nel Satyricon di Petronio (I secolo d.C.), che ha luogo durante la cena di Trimalcione;». Della modifica, che ha parzialmente alterato il senso della notizia riportata, ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori.

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ANTE PRIMA dell’impero romano, le cosiddette invasioni barbariche, l’espansione islamica, le crociate, i pellegrinaggi, le esplorazioni, le colonizzazioni, l’emigrazione europea verso le Americhe tra il 1800 e l’inizio del Novecento, le migrazioni contemporanee. Sezioni disposte non solo in sequenza cronologica, ma anche in base a nessi di consequenzialità contenutistici: il passaggio dalle Crociate ai pellegrinaggi cristiani, per esempio.

Uno scenario internazionale Determinante, per la riuscita della mostra, è stata la collaborazione con tanti «altri» musei di Torino e del Piemonte e con numerose, importanti istituzioni museali italiane, che hanno generosamente concesso prestiti indispensabili per arricchire un’esposizione che ha il suo fulcro in una trentina di opere appartenenti alle collezioni di Palazzo Madama, alle quali sono state accostate,

nella scelta intelligente e mirata dei conservatori-curatori, una quarantina di altri capolavori provenienti da quasi altrettanti musei italiani. È nato cosí un percorso espositivo che ha l’ambizione di documentare un vasto e complesso scenario internazionale, partendo da un ben preciso contesto territoriale. Tanto che potremmo definirla una mostra Glocal, perché Globale e locale, e per di piú «in progress», adottando ancora una volta una dizione inglese, in quanto si presta in futuro a essere esportata all’estero e di volta in volta, modificata e adattata ad altri specifici contesti territoriali e nazionali. «Odissee», infatti, non è, né vuol esserlo, una delle tante rassegne tematiche alla moda, dove l’idea del curatore rischia di diventare prevalente rispetto all’oggettività storica. Né, tantomeno, vuol essere una mostra ideologica. Constatiamo ogni giorno, purtroppo, che le migrazioni e le «invasioni» generano scontri, guerre, scorrimenti di sangue, atti di ferocia, neo-colonialismi, usurpazioni, violenze. D’altro canto, sappiamo che dall’incontro tra i popoli possono nascere nuove società e nuove civiltà. Chi scrive, infatti, crede manicheisticamente che la Storia umana sia pervasa da una incessante drammatica lotta tra il Bene e il Male. La mostra vuol dimostrare che dalle migrazioni può anche nascere un bene culturale e artistico. Prova ne sono i capolavori in mostra, che ben dialogano con le In alto medaglione in foglia d’oro incisa e dipinta tra due strati di vetro a fondo blu con ritratto di giovane donna (cosiddetta Marcia Otacilia Severa). Metà del III sec. d.C. Torino, Palazzo Madama. A sinistra lanterna da moschea in vetro soffiato con decorazioni a smalto policromo e oro. Egitto, dinastia mamelucca, XIV sec. Torino, MAO-Museo d’Arte Orientale.

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A destra carta nautica del Mediterraneo di Jacopo Russo. 1565. Torino, Musei Reali, Biblioteca Reale.

DOVE E QUANDO

«Odissee. Diaspore, invasioni, migrazioni, viaggi e pellegrinaggi» Torino, Palazzo Madama fino al 19 febbraio 2018 Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; chiuso il martedí Info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it Catalogo Libreria Geografica collezioni permanenti di un Museo di arti decorative, com’è appunto a Torino Palazzo Madama.

Un lavoro di squadra La mostra, ideata da chi scrive è stata costruita e «curata» insieme agli storici dell’arte che operano a Palazzo Madama: Clelia Arnaldi di Balme, Simone Baiocco, Simonetta Castronovo, Cristina Maritano, Paola Ruffino, Anna La Ferla, Paola Savio, Stefania Capraro e Tiziana Caserta. Il progetto si è avvalso, inoltre, dei fondamentali contributi scientifici di dicembre

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In basso anello nuziale in oro con iscrizione Stefanus Valatrud. Seconda metà del V-primo trentennio del VI sec. Torino, Palazzo Madama.

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molti esponenti di spicco del mondo della ricerca e della tutela che hanno regalato il loro «pensiero» allo staff curatoriale prima della definitiva messa in scena dell’allestimento, consentendo di poter contare sul loro sapere per definire le fasi di calibratura della mostra. I docenti universitari Alessandro Barbero, Piero Boitani, Paola Corti, Massimo Firpo, Giacomo Giacobini, Luca Aldo Patrizi, Cecilia Pennacini, Alberto Piazza e un folto gruppo di storici dell’arte e archeologi appartenenti al sistema di tutela

e valorizzazione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Non meno significativo è stato l’apporto in catalogo di studiosi e intellettuali come Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose; Maurizio Molinari, direttore de La Stampa; Claudia De Benedetti, presidente della Fondazione Arte, Storia e Cultura Ebraica a Casale Monferrato e nel Piemonte Orientale; Baruch Lampronti della Comunità ebraica di Torino; e Alberto Saroldi, studioso dell’arte del vetro di Altare. Guido Curto

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ANTE PRIMA

EDIO VO M E OGGI

T T

ra i desideri del futuro san Francesco, vi era quello che, nella «Festa delle feste», tutti fossero partecipi dell’esultanza che lui provava nel suo cuore per la nascita del Bambino Gesú. Era sua aspirazione che, nell’occasione, i poveri potessero sedersi a mensa con i ricchi in un clima di autentica fraternità. Nella felice ricorrenza doveva essere coinvolto tutto il creato; pertanto anche gli animali avrebbero dovuto avere una maggiore razione di biada e di fieno. Era l’anno 1223. Mancavano pochi giorni al Natale quando Francesco ricevette la gradita visita di un nobile di Greccio (un borgo oggi in provincia di Rieti), di nome Giovanni, che gli era molto caro perché timorato di Dio e generoso verso i suoi confratelli. Come riferisce il suo biografo Tommaso da Celano, il santo non esitò a manifestagli il suo desiderio, dicendogli: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello» (Vita Prima, XXX, n. 84).

A destra Gualdo Tadino (Perugia). La capanna, cuore del presepio vivente. Qui sotto le lavandaie. Nella pagina accanto, al centro la bottega dell’alchimista.

Le origini del presepio Giovanni fu felice di esaudire la volontà di Francesco. Si precipitò a Greccio e iniziò i preparativi necessari. I frati dei conventi vicini accolsero con entusiasmo l’invito a partecipare e anche gli abitanti del piccolo centro del Reatino, con la gioia nel cuore, cominciarono a procurarsi la cera e la resina necessarie per la realizzazione delle fiaccole. Le donne ripulirono la radura prescelta per il fatidico evento. Cosí, per la vigilia tutto era in ordine nel bosco: la mangiatoia, il fieno, il bue e l’asinello. Alla vista di questo scenario, Francesco esultò, perché gli era finalmente concesso di rappresentare al vivo, in una figurazione ideale, ciò che dentro lo infiammava. Nella sua assoluta nudità, il presepio avrebbe reso visibile il Cristo che si era umiliato per riscattare l’uomo dalla miseria del peccato e aveva scelto la condizione del povero per essere vicino agli ultimi, agli emarginati. Greccio sarebbe divenuta la nuova Betlemme. Con il sopraggiungere della notte, un velo scese sui lecci e sulle alte rupi. Un lungo silenzio di trepidante attesa si diffuse per la vasta vallata. Poi cominciarono a

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cadere abbondanti fiocchi di neve che, in breve tempo, ricoprirono gli alberi e il terreno circostante di un nitido biancore. All’improvviso divampò uno sfavillio di fiaccole vivaci e inquiete, che illuminarono a giorno uomini e cose. Alti roghi, innalzati all’estremità della radura, unirono la loro voce a questo tripudio di fiamme, mitigando l’aspra solitudine del luogo. La notte s’illuminò di una luce intensa e abbagliante. Una folla devota e silenziosa si assiepò intorno all’umile presepe in atto di raccoglimento. Dal gruppo dei frati si levò improvviso un canto di giubilo che si innalzava fino alle cime delle querce sulle quali si rifletteva il riverbero dei fuochi, si dilatava nel cielo invisibile e correva verso i lontani monti dell’Appennino. Una lieta armonia si diffondeva intorno fino a coinvolgere tutto il creato. dicembre

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Un dipinto come modello Il presepio vivente allestito a Gualdo Tadino si ispira quest’anno alla quattrocentesca Adorazione dei pastori di Domenico Ghirlandaio, «dalla natura fatto per esser pittore», secondo la bella espressione usata da Giorgio Vasari, che cosí descrisse l’opera: «Una tavola pur di sua mano, lavorata a tempera, quale ha dentro la natività di Cristo da far meravigliare ogni persona intelligente, dove ritrasse sé medesimo e fece alcune teste di pastori che sono tenute cosa divina». La tavola venne realizzata nel 1485, per la cappella della famiglia Sassetti nella chiesa di S. Trinita a Firenze, dove è tuttora conservata. La scena della Natività di Cristo è ambientata in uno spazio intimo e raccolto, presenti tutti gli elementi dell’iconografia tradizionale: l’umile capanna, il bue e l’asinello, la mangiatoia, lo stupore devoto dei pastori che, in poveri abiti che sottolineano per contrasto la regalità dell’evento, pregano davanti al Bambino. Ma il Ghirlandaio inserisce nel dipinto anche elementi architettonici e scenografici desunti dalla cultura classica, relitti di un passato glorioso, con quello sguardo rivolto verso l’antichità greco-romana che è cifra tipica della stagione umanistica. In tale visione, in cui la concretezza del paesaggio appenninico e delle sue attività si unisce al fiabesco e colto ricordo dell’antichità classica, l’artista riesce a dare perfetta forma alla celebre profezia contenuta nelle Bucoliche di Virgilio, nella quale era annunciata la nascita di un puer che avrebbe riscattato l’umanità intera e che i commentatori cristiani lessero sin da subito come rivelazione della venuta di Cristo. Michele Storelli

Dopo la lettura del Vangelo, Francesco, con indosso una bianca tunica da diacono, si rivolse al popolo con voce calda e penetrante, rievocando la nascita del Re in povertà e mostrando la gloria della piccola Betlemme. Al termine della solenne veglia ognuno tornò a casa con la gioia e la pace nel cuore. Quel luogo divenne tempio del Signore, poiché sulla radura del presepio fu poi innalzata una chiesa dedicata al santo di Assisi.

Una tradizione che si rinnova La fama dello straordinario evento si diffuse rapidamente, e la realizzazione del presepio a Natale è divenuta tradizione nel mondo cristiano. Ben presto, dalle comunità francescane, si è estesa alle chiese parrocchiali e alle famiglie ed è rimasta inalterata fino ai nostri tempi.

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ANTE PRIMA A destra i pastori con il loro gregge. In basso il corteo dei Magi percorre le vie del centro storico. Nella pagina accanto il mercante alle prese con il registro contabile.

Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae

È cosí consuetudine, non solo in Umbria, ma in tutte le regioni d’Italia rinnovare la rievocazione ogni anno nella notte di Natale. Le forme sono cambiate, secondo le abitudini e i costumi delle singole realtà sociali, ma il presepio ha mantenuto il suo fascino e la sua suggestione. Da alcuni anni a questa parte è tornata d’attualità la tendenza a riproporre il presepe vivente. Francesco, del resto, lo aveva concepito cosí, perché voleva che, nel mistero di Betlemme, la fede semplice e genuina della gente comune cogliesse il senso profondo del Dio che si è fatto uomo ed è venuto ad abitare in mezzo agli uomini. In questo ritorno alle origini c’è dunque l’aspirazione a riscoprire l’umiltà e la devozione che hanno ispirato il presepe di Greccio.

La Natività nell’arte La Natività ha trovato il suggello in una quantità sterminata di opere d’arte. Non c’è artista, di maggiore o minore fama, che non sia stato suggestionato da questo evento unico e irripetibile della storia dell’umanità. E a un’opera d’arte di epoca medievale o rinascimentale si ispira la sacra rievocazione che viene riproposta ogni anno a Gualdo Tadino per l’intero periodo natalizio (vedi box a p. 11), con un allestimento sagacemente realizzato negli orti adiacenti all’Istituto delle Suore del «Bambin Gesú». L’iniziativa si deve a un gruppo di giovani che fanno capo

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all’Associazione culturale «Capezza», cosí denominata da uno dei piú rappresentativi rioni della città. In prossimità del Natale, essi provvedono al riadattamento di vecchi ambienti, alla costruzione di nuovi, alla confezione degli abiti richiesti dall’opera d’arte prescelta, alla realizzazione di scene e di episodi attinenti all’epoca cui appartiene. Cosí viene ricostruita la vita comune, con le attività indispensabili per soddisfare i bisogni e le necessità quotidiane. dicembre

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Gualdo Tadino, città dei presepi Il Presepio Vivente «Venite Adoremus» si può visitare presso l’Istituto «Bambin Gesú» nei giorni: ● 25, 26 dicembre 2017 e 1° gennaio 2018, dalle 17,00 alle 19,30; ● 5 gennaio 2018, dalle 21,00 alle 23,00; ● 6 gennaio 2018, dalle 17,00 alle 19,30. Ma non è questo il solo allestimento che si può ammirare durante le festività natalizie a Gualdo Tadino, «città dei presepi». All’interno della monumentale chiesa di S. Francesco, nel centro cittadino, è infatti possibile ammirare il «Presepio Emozionale», curato dai Frati Cappuccini di Assisi tramite le Edizioni di Frate Indovino: un tipico borgo medievale, con personaggi, botteghe, mestieri e scene animate, visitabile da grandi e piccini perché totalmente costruito in sagome di cartone a grandezza naturale. Di grandissimo interesse anche il presepio conservato nel santuario della Madonna del Divino Amore, tra i piú antichi e suggestivi della città, e quello della parrocchia di S, Giuseppe Artigiano, dove a essere ricostruita – con sughero e minuziose tecniche artigianali – è un’intera città della Palestina, le oasi, i laghi e il vicino deserto. Particolarmente originale, infine, il «Presepio sull’acqua», nella frazione di Boschetto, con statuine in terracotta galleggianti sul fiume. Alla vigilia di Natale, quando la notte incombe, si accendono le torce e le lanterne per illuminare le strade e le botteghe. La magica scena è arricchita da alti foconi che strepitano vivacemente e mandano bagliori di luce in ogni angolo degli orti. Al centro, in un clima di raccolta intimità, si staglia l’umile capanna che accoglie un bambino in fasce amorevolmente accudito dalla madre e dal padre. Il quadro di forte intimità familiare è completato dalla presenza di un bue e di un asinello, che partecipano taciturni al lieto evento. Fuori della capanna si apre un ampio steccato dove stanno gli animali che un tempo erano parte fondamentale della vita domestica: galline, oche, anatre, conigli. In un altro adiacente, accanto a capre e pecore intente a brucare l’erba, stazionano animali di stazza superiore, come asini, cavalli, buoi che mangiano il fieno. Erano indispensabili per i lavori nei campi, per il taglio e il trasporto della legna, per lo spostamento di carichi pesanti.

Antichi mestieri Tutt’intorno, per una superficie di centinaia di metri quadrati, si snodano le botteghe del falegname, del fabbro, del ceramista, del maniscalco, del vetraio, dello scalpellino, del calzolaio. Tra tanta moltitudine di personaggi occupa un posto a sé il pecoraio, che, oltre a mungere le pecore e le vacche, produce la ricotta e il

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formaggio. Anche le donne hanno un posto di rilievo: alcune preparano la polenta, altre infornano il pane, altre ancora lavano i panni. Le giovani cardano la lana sotto lo sguardo attento delle madri che intessono maglie e tappeti o mettono una toppa sugli sdruciti calzoni. Ogni mestiere è riproposto in modo semplice, ma è eseguito con i gesti ieratici di un rito. Sul rumorio delle attività e il crepitio delle fiamme dei foconi si leva alta e solenne la voce dell’angelo che augura la pace a tutti gli uomini, annunciando loro che è iniziata una nuova epoca, in cui tutti sono fratelli e perciò eguali. Quella proposta dal presepio è una realtà di altri tempi, nella quale l’umano e il divino si incontrano in una mirabile armonia. Anche gli animali sembrano compresi dal ruolo che svolgono perché, quando non mangiano, si guardano intorno silenziosi e composti. Tra le folate di vento che scendono dall’Appennino spesso accompagnate da gelidi fiocchi di neve, un mondo che sembrava definitivamente tramontato torna a rivivere. L’opera d’arte che funge da sfondo alla rappresentazione si ravviva e diventa vita vissuta. Non esistono gerarchie, ruoli di prestigio, differenze etniche, perché tutti i protagonisti sono coinvolti in una rievocazione dal sapore antico, che celebra la dignità dell’uomo e il valore sociale del lavoro. Antonio Pieretti

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ANTE PRIMA

Un singularissimo testimone del tempo MOSTRE • Siena

celebra Ambrogio Lorenzetti, rivelando il poliedrico talento di un pittore che non fu soltanto lo straordinario «fotografo» del Governo cittadino

«F

amosissimo et singularissimo maestro» fu Ambrogio Lorenzetti, secondo il giudizio riportato dallo scultore rinascimentale Lorenzo Ghiberti, nei suoi Commentarii e, ora, protagonista assoluto di una mostra a lui dedicata, allestita nei locali del museo di Santa Maria della Scala, a Siena, la cui area conserva il settanta per cento della sua produzione finora conosciuta. Grazie anche ai prestiti provenienti da prestigiose gallerie, è stato possibile ricomporre la carriera professionale di un fuoriclasse colto e raffinato che, per secoli, è rimasto in penombra, oscurato dai grandi dell’epoca, come Duccio di Buoninsegna e il suo discepolo Simone Martini, indicatori di una svolta nella pittura occidentale, tra Duecento e Trecento.

In alto Madonna che allatta il Bambino, tempera e oro su tavola. 1325 circa Siena, Museo Diocesano. In basso San Michele arcangelo vittorioso sul demonio, vetri policromi dipinti a grisaglia e in parte sgraffiti. 1325-1330 circa. Siena, Palazzo Pubblico.

Un pittore di successo A capo di una prolifica bottega, insieme al fratello maggiore Pietro, al quale deve la sua formazione e le prime riflessioni compositive, Ambrogio fu attivo fino al 1348, presunto anno della sua morte, a causa della peste che stava imperversando in Europa (va peraltro ricordato che dell’artista si ignora anche la data di nascita). A sinistra Madonna col Bambino in trono, dalla chiesa di S. Michele Arcangelo a Vico l’Abate, tempera e oro su tavola. 1319. San Casciano Val di Pesa (Firenze), Museo di Arte Sacra «Giuliano Ghelli».

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A sinistra Adorazione di Gesú Bambino e Annuncio ai pastori, Crocifisso con i dolenti, Santi Giovanni Battista, Bartolomeo, Caterina d’Alessandria e Cecilia, tempera e oro su tavola. 1330-1334 circa. Francoforte sul Meno, Städel Museum.

nel percepire e illustrare sia la realtà visiva che quella concettuale, ha offuscato gli altri lavori eseguiti dall’artista toscano.

Le acquisizioni piú recenti Stile figurativo, linguaggio iconografico, committenza, periodizzazione della sua attività: sono questi i principali punti su cui si sono concentrati gli studi effettuati durante gli ultimi anni, per imparare a conoscere Lorenzetti già attraverso i cantieri diagnostici e di restauro presenti nelle chiese di S. Francesco e S. Agostino, e approdare al progetto finale espositivo con l’intento di ricomporre i frammenti superstiti di numerosi dipinti murali. Ne sono un esempio i resti dell’aula capitolare e del chiostro In basso San Michele arcangelo che sconfigge il drago, San Bartolomeo, San Benedetto, Madonna col Bambino, San Giovanni Evangelista, San Ludovico di Tolosa, tempera e oro su tavola. 1337 circa. Asciano (Siena), Museo Civico Archeologico e d’Arte Sacra Palazzo Corboli.

Apprezzato da letterati e studiosi a lui contemporanei, godette di grande reputazione, imponendosi sulla scena tardo-medievale per la profonda sensibilità e per l’apertura alle novità fiorentine, cimentandosi in tematiche religiose e civiche che, intorno al 1337, dettero vita al ciclo di affreschi con le Allegorie e gli Effetti del Buono e Cattivo Governo nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico senese: il capolavoro «politico» può considerarsi come una finestra sulla vita quotidiana cittadina, attraverso la rappresentazione complessa dalla straordinaria coerenza prospettica e spaziale insieme a una ricercata unità logica e descrittiva. E, paradossalmente, proprio questa committenza, che mirabilmente esprime la sua abilità

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ANTE PRIMA DOVE E QUANDO

del convento francescano che, tra l’altro, contenevano la prima rappresentazione di una tempesta nella storia della pittura occidentale, dove spiccava la «grandine folta in su e’ palvesi» di ghibertiana memoria. Il percorso, che si snoda tra gli ambienti dell’antico ospedale municipale, propone un copioso corpus di manufatti pittorici, a partire dagli esordi del giovane Ambrogio, vivace autore della Madonna di Vico d’Abate, prima opera nota, risalente al 1319, dove la Vergine siede su un trono squadrato che occupa tutto lo spazio disponibile all’interno della tavola, mentre le mani dallo scorcio perfetto stringono un paffuto Bambino. La sua tendenza al rinnovamento di iconografie tradizionali, lo porterà, tredici anni piú tardi, al polittico con le Storie della vita di san Nicola per la chiesa fiorentina di S. Procolo, testimonianza della sua straordinaria dote di attento narratore di episodi multiformi in ambientazioni architettoniche coeve, in cui paesaggio e fenomeni naturali sono investigati in modo magistrale.

«Ambrogio Lorenzetti» Siena, Complesso museale Santa Maria della Scala fino al 21 gennaio 2018 Orario lu-me-gio, 10,00-17,00; ve, 10,00-19,00; sa-do, 10,00-20,00; 23 dicembre-6 gennaio: lu-ve, 10,00-19,00; sa-do, 10,00-20,00; giorni di chiusura: martedí, 25 dicembre Info tel. 0577 286300; e-mail: ambrogiolorenzettisms@ operalaboratori.com; www. santamariadellascala.com A sinistra Madonna col Bambino, tempera e oro su tavola. 1337 circa. Parigi, Museo del Louvre. In basso Allegoria della Redenzione, tempera e oro su tavola. 1338 circa. Siena, Pinacoteca Nazionale.

Un’iconografia inconsueta Accanto ai numerosi dipinti su tavola, sono stati sistemati una vetrata, la coperta di un registro semestrale della Gabella comunale e, nella sala Tolomei, gli affreschi staccati dalla piccola cappella annessa alla rotonda di S. Galgano a Montesiepi, dall’insolita iconografia sacra, lontana dai canoni del tempo. Nella figurazione distribuita su tre lunettoni appare, al di sotto della Maestà, l’Annunciazione, inserita in un vano prospetticamente definito e scorciato; la sinopia rinvenuta mostra la Vergine spaventata, che

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si sorregge a una colonna: una versione audace corrispondente a una tradizione agiografica locale che, però, dovette essere modificata sostanzialmente, una volta terminata. Chiude la rassegna l’Annunciazione del 1344, ultima opera datata, il piú antico esempio di rappresentazione con un unico punto di fuga prima dell’avvento

della prospettiva rinascimentale, anche se la perfetta impostazione prospettica delle formelle del pavimento si interrompe contro l’oro del fondo, negando la spazialità della rappresentazione, immortalata nel momento successivo all’apparizione dell’angelo, quando Maria accetta il volere divino. Mila Lavorini dicembre

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ANTE PRIMA

Il segno del comando SCOPERTE •

All’indomani del suo fortuito ritrovamento, la Compagnia di Gesú ha restituito all’Olanda il bastone appartenuto a Guglielmo d’Orange, simbolo del potere spettante al sovrano in quanto capo militare

«M

i sento onorato e emozionato, tenendo in mano quest’oggetto che mi lega al mio lontano antenato». Con queste parole, Willem-Alexander d’Orange-Nassau, re dei Paesi Bassi, ha ricevuto dalle mani di padre Arturo Sosa Abascal, Generale della Compagnia di Gesú, il bastone di comando attribuito a Guglielmo d’Orange, il leader della rivolta olandese, scoppiata nel 1568, contro re Filippo II di Spagna e la sua Inquisizione. La solenne cerimonia di restituzione si è svolta nello scorso giugno nel Salone Sistino della Biblioteca Apostolica Vaticana e ha coronato il ritrovamento di un oggetto di grande valore storico, un’icona unica (non si conoscono altri esemplari) del periodo della nascita dello Stato e del popolo olandese, che per secoli ha giaciuto dimenticato in un archivio catalano.

«Non disprezzare il potere...» Il bastone di legno, simbolo del potere del capo militare, è lungo 82 cm e reca lo stemma di Guglielmo d’Orange, nonché due placchette in argento con un’iscrizione in olandese cinquecentesco che recita:

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«Fidati del buon Dio e farai grandi cose. Non disprezzare il potere, cosí eviterai il giudizio di Dio». Con ogni probabilità venne portato da un generale olandese nella battaglia della Mookerheide (la torbiera vicino al paese di Mook, nel sud dell’Olanda) del 14 aprile 1574. Fu Lodovico di Nassau, il fratello

In alto Guglielmo I d’Orange-Nassau, olio su tavola di Antonio Moro. 1555. Kassel, Museumslandschaft Hessen, Pinacoteca. Nella pagina accanto due momenti della cerimonia di restituzione del bastone di comando di Guglielmo d’Orange, tenutasi nello scorso giugno in Vaticano. Il reperto è stato riconsegnato alla Corona olandese dalla Compagnia di Gesú. dicembre

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di Guglielmo d’Orange, a guidare gli insorti olandesi, autonomisti e protestanti. Quella battaglia, una delle prime nella lunga guerra di indipendenza olandese – conclusa solo con la Pace di Vestfalia nel 1648 –, finí per loro drammaticamente, con la morte dello stesso Lodovico, di suo fratello Enrico e di circa 3000 soldati, perlopiú mercenari.

Un gesto di riconciliazione

L’esercito spagnolo, guidato dal condottiero e diplomatico Bernardino de Mendoza, perse soltanto 150 uomini. Dopo la disfatta olandese, gli Spagnoli si

il palazzo di famiglia. Nel 1921, palazzo, cappella e archivio furono donati alla Compagnia di Gesú, che nel 1976 ne trasferí il contenuto nel Centro Borja a Sant Cugat del Vallés, a nord di Barcellona. Nel 2011 i beni cambiarono nuovamente sede e finirono all’Archivio Nazionale della Catalogna, che però prese in carico il solo materiale cartaceo, lasciando il bastone a Sant Cugat. Nell’Ottocento, alcuni studiosi si erano accorti del reperto, individuandolo frettolosamente, ed erroneamente, come appartenuto a don Giovanni d’Austria durante la battaglia di Lepanto. Poi, cadde

appropriarono dei beni rimasti sul campo di battaglia, tra cui trenta bandiere e tre stendardi, come scrisse lo stesso Mendoza nel 1592 nei suoi Comentarios sulla rivolta e la guerra nei Paesi Bassi. Le spoglie furono poi trasferite al governatore spagnolo dei Paesi Bassi, Luis de Requesens. Sebbene non venga esplicitamente nominato, è piú che probabile che tra il bottino di guerra ci fosse anche il bastone di Lodovico, il cui corpo non è mai stato ritrovato. Requesens, che fu nominato governatore nel 1573, morí a Bruxelles nel 1576; i suoi beni furono quindi portati a Barcellona, sua città natale, e depositati nell’archivio della cappella del Palau Reial Minor,

nel dimenticatoio. Fino a quando l’ambasciatore olandese presso la Santa Sede, il principe Jaime de Bourbon de Parme, cugino del re Willem-Alexander, nel corso di un incontro con il direttore di un importante istituto spagnolo, venne a sapere che questi, lavorando a una ricerca su Sant Cugat, nell’inventario aveva visto di sfuggita un riferimento a un «bastone di Guglielmo d’Orange». Rendendosi conto della potenziale importanza del fatto per la storia patria olandese, l’ambasciatore si informò e ottenne, da parte dell’archivio, una risposta affermativa. Apprese inoltre che, contemporaneamente, era giunta

spagnolo). Il rituale della consegna non poteva essere piú simbolico: dal generale gesuita al sovrano olandese, omonimo del suo antenato, durante la sua visita ufficiale in Vaticano. L’oggetto simbolo degli insorti protestanti, razziato dagli Spagnoli cattolici, è stato restituito al re protestante nella sede della massima autorità della Chiesa cattolica. Cosí, la consegna del bastone di comando, che dall’aprile del 2018 sarà esposto al Museo Militare olandese di Soesterberg all’interno della mostra su Guglielmo, rappresenta, oltre a una favolosa scoperta storica, la definitiva riconciliazione tra due Paesi e due religioni. Aart Heering

Confuso nel bottino di guerra

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un’altra richiesta d’informazioni da parte del Museo Militare Nazionale olandese, che, nel preparare una mostra su Guglielmo d’Orange, era arrivato sulle tracce del bastone grazie a una nota riportata in uno studio belga del 1974. In seguito, ambasciata e museo chiesero ai Gesuiti la restituzione del bastone, ricevendo una risposta positiva (è bene precisare che il reperto non è stato donato, ma ceduto in comodato d’uso, per non incorrere nel divieto d’esportazione di beni storici imposto dallo Stato

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ANTE PRIMA APPUNTAMENTI • Abbadia San

Salvatore rinnova la tradizione delle fiaccole che illuminano il borgo toscano nella santa notte del 24 dicembre

Natale rosso fuoco A

d Abbadia San Salvatore (Monte Amiata-Siena) il Natale profuma ancora di tradizione, di magia, di riti ancestrali. La Città delle Fiaccole prepara la sua stagione piú calda: l’intero paese si mette a lavoro per rinnovare una delle piú antiche feste del fuoco italiane, tradizione millenaria intimamente sentita e molto partecipata. Agli inizi di dicembre prende ufficialmente il via la costruzione delle Fiaccole, tipiche cataste di legna a forma piramidale alte fino a 7 m, che si levano al cielo in attesa del 24, quando poi vengono incendiate. Una lavorazione impegnativa, i cui segreti si tramandano di generazione in generazione, per celebrare un rito del fuoco che coinvolge l’intera comunità badenga, sposando simbolici significati pagani e religiosi. Sono «figli del fuoco», infatti, gli abitanti dell’Amiata, una montagna vulcanica che nelle sue viscere nascondeva lava incandescente, una terra che da sempre offre cibo e benessere per la collettività. Si estraeva cinabro da cui si ricavava mercurio nella grande miniera che oggi è diventata Museo (e la cui visita è una tappa da non mancare; info:www2.comune.abbadia.siena.it/ parcomuseo/). Una storia complessa che qui vede legati indissolubilmente uomo e natura, in un dialogo talvolta

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difficile, ma sempre pieno d’amore. È infatti quella montagna amata e sentita come madre, come presenza sacra che i Badenghi celebrano, in qualche modo, anche attraverso la tradizione delle Fiaccole. Per oltre un mese squadre di uomini vanno a cercare i tronchi piú adatti alla fiaccola da costruire in ogni rione del piccolo borgo medievale. Un lavoro che coinvolge generazioni diverse, impegnandole nella realizzazione di questi singolari monumenti rurali, in un tempo che resta sospeso fino al 24 dicembre. Durante questo periodo le Fiaccole vengono innalzate giorno dopo giorno, accompagnate da eventi, spettacoli, intrattenimenti, mercatini e moltissime altre iniziative che trasformano Abbadia in un autentico villaggio natalizio.

Si accendono i fuochi Poi arriva il giorno tanto atteso: il 24 dicembre, alle 18,00, inizia la «Cerimonia di accensione», che riunisce centinaia di persone. La banda suona canti natalizi e la fiaccola davanti al Municipio viene accesa con il fuoco sacro. È questo il segnale convenuto: da qui i capi fiaccola con le loro torce vanno a dare fuoco alle altre fiaccole disseminate nel centro storico (sono oltre trenta). dicembre

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Un borgo da scoprire Gli appuntamenti natalizi organizzati ad Abbadia San Salvatore possono essere l’occasione per scoprire il ricco patrimonio della cittadina toscana. Spicca, in particolare, l’abbazia eponima di S. Salvatore, una delle piú antiche della regione, che sorge sul versante orientale dell’Amiata e che per secoli ha scandito i tempi della storia e della vita del borgo. È stata ricostruita in stile romanico nell’XI secolo e poi nuovamente rimaneggiata nel Cinquecento. Nel 1782 venne soppressa come luogo di culto da Pietro Leopoldo e fu riconsacrata soltanto nel 1939. La facciata, molto singolare, è alta e stretta, fiancheggiata da due campanili, di cui uno, quello di destra, mai terminato. L’interno ha una navata a croce latina, con un arco di accesso alla crociera decorato con figure di santi ed evangelisti. La cripta, che probabilmente risale al momento stesso dell’edificazione dell’abbazia, è a croce greca, con ben 36 colonne che hanno capitelli di varie forme e decorazioni. In questa pagina due immagini delle Fiaccole che vengono accese ad Abbadia San Salvatore nella notte del 24 dicembre. Nella pagina accanto l’abbazia di S. Salvatore, complesso monastico che dà nome alla cittadina toscana.

Quindi tra canti di antiche melodie (le cosiddette «pastorelle») e musiche popolari, le Fiaccole iniziano a bruciare riempiendo di luce e magia il Natale ad Abbadia San Salvatore. L’intero paese si ritrova nelle strade, mentre le cataste di legna bruciano fino all’alba e piccoli chioschi, organizzati accanto ai fuochi, offrono dolci tipici e vin brulé. Un modo unico per vivere il Natale che si arricchisce di un ricco programma collaterale grazie al quale Abbadia San Salvatore offre la riscoperta di antiche tradizioni, arte, sapori e saperi di altri tempi.

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Oltre a segnare l’avvio della costruzione delle Fiaccole, la cerimonia di accensione dell’8 dicembre dà il via al calendario degli appuntamenti: le feste, infatti, continuano ben oltre la notte della Vigilia, con spettacoli, ciaspolate, trekking nel bosco e visite guidate nel centro storico di Abbadia, che per tutto il periodo natalizio ospita una singolare mostra itinerante di presepi. Info: tel. 0577 770361; e-mail: info@cittadellefiaccole.it; www. cittadellefiaccole.it; Facebook: abbadia città delle fiaccole (red.)

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ANTE PRIMA

Belli, Brutti e Nature APPUNTAMENTI • Le vie di Appenzell

e di altre cittadine del Canton Appenzello, in Svizzera, si apprestano a salutare la tradizionale «invasione» dei Silvesterklause, le grottesche maschere che ogni anno rievocano antichi riti propiziatori

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a secoli ad Appenzell, antico borgo della Svizzera tedesca, capitale del Canton Appenzello Interno, nel tardo pomeriggio del 31 dicembre compaiono decine di figure dall’aspetto grottesco. Si tratta dei Silvesterklause, maschere folcloristiche con campanacci sulle spalle ed enormi copricapi in legno decorati con scene di vita quotidiana. Questi personaggi si spostano in piccoli gruppi da sei, sostando nelle case e nelle fattorie, facendo risuonare i campanacci e cantando un zäuerli, ovvero un particolare jodel privo di parole, tipico del Cantone di Appenzello. L’usanza ha origini molto antiche. In epoca pre-cristiana aveva lo scopo di propiziare il risveglio della natura e il buon raccolto agricolo, poi durante il Medioevo ha assunto un significato

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di lotta tra il Bene e il Male ed è stata ricollegata alla questua natalizia. Il rito viene ripetuto il 13 gennaio, in occasione del capodanno dell’antico calendario giuliano, in ricordo del rifiuto di alcuni cantoni protestanti, che a lungo non accettarono la riforma del calendario voluta nel 1582 da papa Gregorio XIII.

A ciascuno la sua maschera Esistono tre tipi di Silvesterklause: i Belli, i Brutti e le Nature. Il costume piú tradizionale è il Bello (Schöne), che indossa una maschera con occhi buoni e guance rosse e porta in testa il grande copricapo decorato. La Natura (Schö-Wüeschte) indossa invece un abito realizzato con rami di

pino, corteccia e muschio, oltre a un copricapo meno decorato di quello dei Belli. Infine i Brutti (Wüeschte) hanno lo stesso costume della Natura e indossano una maschera terrificante, ricoperta di pece, con grandi denti fatti da ossa di animali. Le maschere raffigurano sia figure maschili che femminili, tuttavia solo gli uomini possono celarsi sotto un Silvesterklaus. La tradizione, sia pure con minor popolarità, si tiene anche in altre località del Canton Appenzello Esterno, come Herisau, Hundwil, Stein, Urnäsch, Waldstatt e Schwellbrunn. Tiziano Zaccaria

In alto e in basso due immagini delle pittoresche maschere dei Silvesterklause.

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Matrimonio in fortezza I

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In alto una veduta di Sorano (Grosseto), borgo che visse nel Medioevo il suo periodo di massima fioritura. In basso la Fortezza degli Orsini, che fecero di Sorano il proprio baluardo nelle lotte contro la Repubblica di Siena. una volta si è rivolta a una stilista che ha fatto di tessuti e disegni, di aghi e fili i suoi compagni di vita: Barbara Galimberti, che ha firmato gli abiti di Bella, la protagonista della favola, con il suo marchio Galimbertissima. A un evento che parli di matrimoni non poteva mancare l’abito da sposa o da sposo: l’Atelier Batinelli Sposa di Rita Batinelli ha dunque fatto sfilare strepitosi abiti per meravigliare gli occhi e sfiorare il cuore di chi sogna il giorno delle proprie nozze. La serata si è conclusa con una performance che ha coinvolto il pubblico attraverso una simpaticissima e travolgente coreografia: tre coppie di ballerini, in abiti da sposo e sposa e con scarpe da ginnastica, hanno formulato la simbolica richiesta di matrimonio come accade nelle piú belle e romantiche storie d’amore. L’organizzazione, attraverso le scarpe da ginnastica, ha voluto sottolineare, con ironia e forza allo stesso tempo, il nuovo ruolo della sposa moderna, profondamente determinata, sempre dinamica e in costante movimento.

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

l progetto itinerante «Destination Wedding» continua la sua kermesse per le città d’Italia abbracciando la nuova tendenza di utilizzare complessi storici e siti archeologici per il giorno del proprio matrimonio. Sull’onda di questo nuovo mood, lo scorso 15 ottobre, la wedding planner ed event manager Maria Rosa Borsetti ha proposto l’evento Dream Wedding nella Fortezza Orsini di Sorano (Grosseto). La manifestazione, accolta con entusiasmo dal territorio e patrocinata dal Comune di Sorano e dalla Pro loco Sorano, è stata resa possibile dalla fattiva collaborazione della Cooperativa Sociale Zoe, gestore del Parco Archeologico Città del Tufo di Sorano, di cui la Fortezza Orsini fa parte. Ricca di emozioni, eleganza e performance di danza e musica, la serata è stata presentata dalla scrittrice e giornalista Iolanda Pomposelli. Rivisitando la fiaba de La Bella e la Bestia, Maria Rosa Borsetti ha raccontato in modo insolito una storia d’amore a lieto fine. Come con la scena de «Il tè dei matti», tratta da Alice nel paese delle meraviglie, tornata con i suoi protagonisti: la cantante Martina Maggi, il cantante e compositore Vieri Venturi, il ballerino Marko Styler Cerroni, la ballerina Elisa Ricci e il ballerino Oscar Pomposelli. Valorizzare il Made in Italy in Italia e nel mondo è l’obiettivo dell’organizzatrice dell’evento, che ancora




AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre

santa, si possono ammirare dipinti di particolare interesse storico-artistico, come quelli restaurati per l’occasione: la quattrocentesca Madonna del Latte, dipinta su una tegola, e un olio su tela del XVI secolo raffigurante Sant’Orsola; il bozzetto di Marco Benefial con La prova del fuoco; riproduzioni degli acquerelli secenteschi del Sabatini con la storia della santa, dipinta a metà del Quattrocento da Benozzo Gozzoli nell’antica chiesa andata distrutta; e ancora i preziosi documenti relativi alla santificazione: il manoscritto del 1457 contenente il processo di canonizzazione e le cosiddette Lettere patenti di 13 comunità limitrofe che lo sostenevano. info tel. 0761 342887; e-mail: monasterosantarosa@alice.it; www.sabap-rm-met.beniculturali.it

PAVIA L’UNIVERSO AD OROLOGERIA. L’ASTRARIO DI GIOVANNI DONDI A PAVIA Musei Civici del Castello Visconteo fino al 23 dicembre

Grazie alla mostra, l’Astrario di Giovanni Dondi rivive nel luogo esatto dove a lungo fu collocato, la biblioteca visconteo-sforzesca del Castello di Pavia. Costruito, probabilmente tra il 1365 e il 1381, dal chioggiotto Giovanni Dondi, professore presso lo Studium pavese, l’Astrario era

BOLOGNA 1143: LA CROCE RITROVATA DI SANTA MARIA MAGGIORE Museo Civico Medievale fino al 7 gennaio 2018

un complesso orologio planetario che indicava i giorni e le feste del calendario, le eclissi e le posizioni dei sette pianeti nello zodiaco. Nel 1463, l’astrologo tedesco Giovanni Regiomontano ancora lodava l’orologio ma, per quanto i duchi di Milano si impegnassero a conservarlo, nel corso del tempo l’Astrario si degradò e andò perduto. Fortunatamente, sono sopravvissuti alcuni manoscritti che ne descrivono la costruzione e hanno permesso di realizzare varie ricostruzioni. La mostra presenta quella eseguita da Guido Dresti fra il 2009 e il 2011, accompagnata da altri strumenti per la misurazione del tempo e del moto dei

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pianeti «antenati» dell’Astrario, da preziosi codici di astronomia e astrologia e dalla serie di stampe dei sette pianeti attribuita a Baccio Baldini e appartenente ai Musei Civici di Pavia. info tel. 0382 399770; e-mail: decumanoest@yahoo.it; www.museicivici.pavia.it VITERBO IL TESORO DI SANTA ROSA. UN MONASTERO DI ARTE, FEDE E LUCE Monastero di S. Rosa fino al 6 gennaio 2018

Rosa è una santa giovane, povera e rivoluzionaria i cui resti, dal XIII secolo, sono ospitati nel monastero posto nel cuore della città di Viterbo. Attorno al suo culto patronale,

la Città dei Papi si stringe in una celebre festa, incentrata sulla processione della statua con la luminosa macchina di S. Rosa. La mostra si sviluppa lungo quattro aree tematiche: l’antico monastero e la sua decorazione; la vita di santa Rosa e la sua canonizzazione; le monache di S. Rosa e la vita nel monastero; la devozione popolare e gli ex voto. Si disegna cosí, intorno al chiostro, un percorso che esalta sia il valore storico artistico e etnoantropologico dei singoli pezzi, sia l’aspetto spirituale del luogo che li ospita. A partire dalla teca contenente il corpo della dicembre

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L’esposizione nasce dall’occasione di esporre per la prima volta, a seguito del restauro, questo prezioso esemplare di croce viaria. L’opera rientra nella tipologia di croci poste su colonne, che venivano collocate nei punti focali della città, a segnalare spazi sacri come chiese e cimiteri o di particolare aggregazione come i trivi o i crocicchi e le piazze. Stando alla tradizione, tale uso si diffuse già in epoca tardoantica, ma è soprattutto a partire della nascita del Comune (1116) e con l’espansione urbanistica di Bologna del XII e XIII secolo che si venne a sviluppare tale fenomeno. Talvolta le croci venivano protette da piccole cappelle e corredate di reliquie, di altari per la preghiera, e di tutto il necessario per la celebrazione della messa. Segno distintivo e identificativo per la città, le croci segnarono lo spazio urbano fino al 1796, quando l’arrivo delle truppe napoleoniche e l’instaurazione della nuova Repubblica trasformarono la città e i suoi simboli. La croce ritrovata di S. Maria Maggiore è di notevole interesse sia perché era tra i molti esemplari andati dispersi, sia perché è possibile datarla grazie all’iscrizione 1143, presente nel braccio destro. L’opera si viene cosí a collocare tra i piú antichi modelli a noi pervenuti, come quella di poco successiva alla croce degli Apostoli e degli Evangelisti, detta anche di Piazza di Porta Ravegnana, che risale al 1159. info tel. 051 2193916 o 2193930; e-mail: museiarteantica@ comune.bologna.it; www.museibologna.it/arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte

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straordinaria capacità di coniugare l’imitazione della natura con l’idealizzazione dei soggetti prescelti. info www.albertina.at PARIGI IL VETRO. UN MEDIOEVO DI INVENZIONI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino all’8 gennaio 2018

Il Museo nazionale del Medioevo presenta una selezione di autentici capolavori dell’arte vetraria, scelti come «ambasciatori» di questa peculiare produzione. Arte di lusso, nata dalla creatività dei mastri vetrai merovingi attivi intorno al V secolo, la produzione del vetro guadagna i suoi quarti di nobiltà con l’avvento dell’architettura gotica, come testimoniano in maniera eloquente le opere provenienti VIENNA RAFFAELLO Museo Civico Medievale fino al 7 gennaio 2018

Grazie alla collaborazione con l’Ashmolean Museum di Oxford, l’Albertina propone una ricca rassegna sul genio urbinate, riunendo 150 dipinti e disegni. Il nucleo portante dell’esposizione è composto da opere che appartengono alla prestigiosa raccolta viennese, alle quali fanno da contorno capolavori concessi in prestito, oltre che dall’Ashmolean, da molti dei maggiori musei internazionali. È cosí possibile documentare l’intero sviluppo della carriera artistica di Raffaello, dalle prime composizioni, ricche di spontaneità, alle ricercate realizzazioni della maturità. A testimonianza della versatilità del maestro, non mancano tracce della sua attività di architetto, ingaggiato

da papi e principi, che contribuí a farne la firma piú ricercata del suo tempo. Un ingegno eccelso, del quale ancora oggi si può ammirare la

dall’abbazia di Saint-Denis o dalla Sainte-Chapelle. Tuttavia, oltre che magicamente trasparente, questa materia prima si rivela eccezionalmente

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AGENDA DEL MESE MOSTRE • Terra Santa. 800 anni di presenza francescana a Gerusalemme Milano – Biblioteca Braidense (Sala Maria Teresa)

fino al 23 dicembre info tel. 02 86460907 (int. 501); e-mail: b-brai.comunicazione@beniculturali.it; www.braidense.it

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er celebrare otto secoli di presenza francescana nel Levante e piú specificatamente in Terra Santa, dove frate Elia arrivò nel 1217 inviato da san Francesco, viene presentato il libro Itinerari e cronache francescane di Terra Santa, una bibliografia ragionata dei libri scritti e fatti stampare dai Francescani tra il 1490 e il 1800, insieme al catalogo degli Itinerari presenti nelle biblioteche della Custodia a Gerusalemme, Itinera ad loca sancta. La bibliografia è frutto di una lunga ricerca avviata vent’anni fa da Marco Galateri di Genola, studioso della materia, su incoraggiamento di padre Michele Piccirillo, famoso archeologo e professore allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, purtroppo scomparso 10 anni fa. Il secondo libro è il catalogo dei libri di viaggio delle biblioteche francescane di Gerusalemme preparato da Alessandro Tedesco. La presentazione delle opere è stata accompagnata dall’allestimento di una mostra sulla Terra Santa divisa in due sezioni. La prima riunisce un centinaio di libri provenienti dalla

duttile e può anche trasformarsi in bene alla portata di tutti e trova vastissima diffusione nelle cucine e sulle tavole, finendo con il diventare una presenza fissa nelle taverne. Né mancano gli utilizzi in campo religioso o medico, quando la pasta viene soffiata per assumere le forme di alambicchi e fiale. E poi, sul finire del XIII secolo, si apre un’altra delle grandi strade del vetro, quella della produzione delle prime lenti per occhiali. Una vicenda dunque affascinante e variegata, che a Cluny viene ripercorsa nei suoi mille riflessi. info www.musee-moyenage.fr PRATO LEGATI DA UNA CINTOLA. L’ASSUNTA DI BERNARDO DADDI E L’IDENTITÀ DI UNA CITTÀ

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Biblioteca Braidense e da una biblioteca privata milanese. Volumi che includono anche testi di autori laici o appartenenti ad altri Ordini religiosi e hanno tutti per oggetto la Terra Santa e i Paesi limitrofi, quali la Siria, il Libano e l’Egitto, che molti pellegrini visitavano in occasione del loro viaggio in Palestina. Tra di essi, vi sono edizioni molto rare e altre di grande bellezza, sia per la veste tipografica che per le tavole che riproducono vedute del viaggio nel Levante, i monumenti sacri e quelli antichi, le popolazioni locali, la fauna e la flora dei luoghi ecc. La seconda sezione presenta oggetti in legno di ulivo e madreperla prodotti a Betlemme su incoraggiamento e con l’aiuto dei Francescani a partire dal XVI secolo. Essi venivano acquistati come souvenir dai pellegrini che li riportavano a casa a testimonianza del loro pellegrinaggio o erano donati dai Francescani ai loro conventi in Europa e alle istituzioni, re e principi, ordini religiosi e devoti, che li aiutavano anche economicamente a sopravvivere in Terra Santa. importanza. Prato può ora accoglierne i componenti entrati a far parte delle collezioni dei Musei Vaticani e del Metropolitan Museum of Art di New York. info tel. 0574 19349961; www.palazzopretorio.prato.it

Museo di Palazzo Pretorio

fino al 14 gennaio 2018

Simbolo religioso e civile, fulcro delle vicende artistiche di Prato ed elemento cardine della sua identità, la Sacra Cintola pratese è protagonista della nuova esposizione nel Museo di Palazzo Pretorio. Un tema, quello della reliquia pratese, che accende un fascio di luce intenso su un’età di grande prosperità per la città toscana, il Trecento, a partire dalle committenze ad artisti di prim’ordine, come Giovanni Pisano e Bernardo Daddi, che diedero risonanza alla devozione mariana a Prato come vero e proprio culto civico. In particolare, l’esposizione è l’occasione per tornare ad ammirare nel suo complesso la monumentale macchina dipinta da Daddi: la pala dell’Assunta, che gli fu

PARIGI CRISTIANI D’ORIENTE. DUEMILA ANNI DI STORIA Institut du monde arabe fino al 14 gennaio 2018

commissionata nel 1337-1338. Nel tempo, l’opera è stata smembrata e la sua diaspora ha fatto sí che si perdesse la coscienza stessa della sua

Secondo i Vangeli, teatro della predicazione di Cristo fu la Palestina e la nuova religione che da quell’esperienza prese le mosse si diffuse inizialmente fra il Mediterraneo e l’Eufrate, lungo il Nilo e sulle rive del Bosforo. Oggi, a dispetto delle vicissitudini antiche e moderne, i cristiani del Vicino e Medio Oriente non sono la presenza residua di un dicembre

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passato ormai lontano, ma sono parte essenziale di un mondo arabo che hanno contribuito a formare. Da queste premesse nasce il nuovo progetto espositivo dell’Institut du monde arabe, che, grazie a una selezione di oltre 300 opere – molte delle quali vengono presentate in Europa per la prima volta – ripercorre la vicenda delle comunità cristiane orientali dall’antichità ai giorni nostri, documentandone, oltre alla religione, la politica, la cultura e l’arte. Fra i numerosi capolavori presenti in mostra, possiamo ricordare i Vangeli Rabbula, un manoscritto siriano del VI secolo, gli affreschi di Dura Europos (III secolo) e mosaici provenienti dalle piú antiche chiese di Palestina e di Siria. info www.imarabe.org SIENA AMBROGIO LORENZETTI Complesso museale Santa Maria della Scala fino al 21 gennaio 2018

Nonostante sia considerato uno degli artisti piú importanti dell’Europa trecentesca, Ambrogio Lorenzetti è ancora poco conosciuto al pubblico. Gli studi – spesso di livello altissimo – si sono

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concentrati, infatti, quasi esclusivamente sui suoi affreschi del Palazzo Pubblico di Siena, le Allegorie e gli Effetti del Buono e del Cattivo Governo sulla città e il suo contado. Ma la densità concettuale di questo insieme di affreschi ha messo in ombra il resto delle sue opere pittoriche. Preceduta da un’intensa attività di ricerca e dalle importanti campagne di restauro, la mostra, rappresenta dunque l’occasione per provare a ricostruire la sua imponente attività. L’iniziativa è possibile soltanto nella città di Siena, che conserva all’incirca il 70 per cento delle opere oggi conosciute del pittore. Ma l’esposizione – grazie a richieste di prestito molto

mirate (sono esposte, tra le altre, opere provenienti dal Louvre, dal National Gallery, dalla Galleria degli Uffizi, dai Musei Vaticani, dallo Städel Museum di Francoforte, dalla Yale University Art Gallery) – reintegra pressoché interamente la vicenda artistica di Lorenzetti, facendo nuovamente convergere a Siena dipinti che in larghissima parte furono prodotti proprio per cittadini senesi e per chiese della città. info tel. 0577 286300: e-mail: ambrogiolorenzettisms@ operalaboratori.com; www.santamariadellascala.com

L’abbazia di Einsiedeln, oggi nel cantone svizzero di Svitto, una cinquantina di chilometri a sud di Zurigo, è un’importante meta di pellegrinaggio, che, dal XIII secolo a oggi, ha accolto fedeli provenienti da ogni parte del mondo. Nel corso di una storia plurisecolare, la struttura originaria ha subito ripetuti rimaneggiamenti e cosí oggi, al posto del modesto eremo in cui visse Meinrado attorno all’860, si

ZURIGO L’ABBAZIA DI EINSIEDELN. 1000 ANNI DI PELLEGRINAGGIO Museo nazionale fino al 21 gennaio 2018

può ammirare la chiesa abbaziale in tutta la sua pompa barocca. Questo centro spirituale è stato investito di privilegi e ha ricevuto doni e offerte da papi, imperatori, re e semplici cittadini, uomini e donne. La mostra che si tiene nel nuovo edificio del Museo nazionale, frutto di una stretta collaborazione con l’abbazia, racconta i retroscena storici e politici, la venerazione di Maria e il ruolo di primo piano che il monastero riveste tuttora come meta di pellegrini. info tel. +41 (0)58 4666564; www.landesmuseum.ch

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AGENDA DEL MESE TORINO GIOVANNI DA PISA. UN POLITTICO DA RICOSTRUIRE Palazzo Madama fino al 5 febbraio 2018

La mostra è il logico corollario del progetto di restauro e valorizzazione che ha riguardato quattro tavole attribuite al pittore ligure d’inizio Quattrocento Giovanni da Pisa, originariamente appartenenti a un medesimo polittico. Presso il Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale» sono state restaurate San Leonardo e Santa Chiara, di proprietà privata ma concesse in deposito a Palazzo Madama, cosí come la Sant’Agata del Museo Civico di Pavia; la Madonna col Bambino del Museo Diocesano di Genova

era stata invece restaurata presso il laboratorio genovese di Antonio Silvestri. La ricomposizione del polittico viene effettuata per la prima volta e la sua presentazione prende avvio da Palazzo Madama, da dove poi farà tappa presso i Musei Civici di Pavia e al Museo Diocesano di Genova. In seguito a questo intervento, si è aperta la possibilità di sottoporre a una nuova verifica l’ipotesi già da tempo formulata dalla critica, di una comune provenienza delle due tavole e degli altri due dipinti presentati in mostra: la Sant’Agata di Pavia e la Madonna col Bambino di Genova. Gli studi hanno inoltre consentito di ipotizzare che a completare il polittico ci fosse una quinta tavola: un frammentario San Lorenzo di cui si ignora la attuale ubicazione. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it NEW YORK MICHELANGELO, DIVINO DISEGNATORE E PROGETTISTA The Metropolitan Museum of Art fino al 12 febbraio 2018

Il Metropolitan Museum of Art celebra la grandezza del «divino» Michelangelo attraverso i suoi disegni, considerati come una delle espressioni piú cristalline del suo genio. Un’opera, la sua, che riscosse l’ammirazione dei contemporanei e che ha da allora costituito un modello e una fonte di ispirazione universali. Per l’esposizione newyorchese sono stati selezionati, oltre a 150 disegni, alcuni marmi, dipinti giovanili, il modello ligneo per la volta di una cappella, nonché un ricco corpus di opere firmate da

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artisti dell’epoca in cui Michelangelo fu attivo, cosí da inquadrare meglio il contesto storico e culturale nel quale di dispiegò la sua straordinaria vicenda umana e artistica. Grazie ai prestiti concessi da piú di 50 istituzioni pubbliche e private statunitensi ed europee, sono confluiti nelle sale del Metropolitan alcuni dei piú celebri capolavori del Buonarroti, come la serie dei disegni realizzati per Tommaso de’ Cavalieri – il nobile romano che si legò a lui in un rapporto d’amicizia ultratrentennale – o il monumentale cartone preparatorio del suo ultimo affresco nei Palazzi Vaticani, la Crocifissione di san Pietro, portato a termine nel 1550 nella Cappella Paolina. info www.metmuseum.org TORINO ODISSEE. DIASPORE, INVASIONI, MIGRAZIONI, VIAGGI E PELLEGRINAGGI Palazzo Madama, Corte Medievale fino al 14 febbraio 2018

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Palazzo del Monte di Pietà

fino al 18 marzo 2018

Dopo Galileo nulla fu come prima. E non solo nella ricerca astronomica e nelle scienze, ma anche nell’arte. Con lui, il cielo passa dagli astrologi agli astronomi. La mostra allestita nel Palazzo del Monte di Pietà di Padova racconta, per la prima volta, la figura Raccontare il cammino dell’umanità sul pianeta Terra nel corso di una storia plurimillenaria: è questo l’obiettivo della nuova esposizione allestita in Palazzo Madama. Per raggiungerlo, sono state scelte opere provenienti dalle raccolte dello stesso Palazzo Madama e da vari musei del territorio e nazionali: dipinti, sculture, ceramiche antiche, reperti etnografici e archeologici, oreficerie longobarde e gote, metalli ageminati e miniature indiane, armi e armature, avori, libri antichi, strumenti scientifici e musicali, carte geografiche, vetri, argenti ebraici e tessuti. Il percorso si articola in dodici sezioni: la preistoria, i viaggi mitologici di Ulisse ed Enea, la diaspora ebraica, l’espansione dell’impero romano, le cosiddette invasioni barbariche, l’espansione islamica, le Crociate, i pellegrinaggi, le esplorazioni, le colonizzazioni, l’emigrazione europea verso le Americhe tra l’Ottocento e gli inizi del Novecento, le migrazioni contemporanee. info www.palazzomadamatorino.it PADOVA RIVOLUZIONE GALILEO. LA SCIENZA INCONTRA L’ARTE.

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nominare ma da pochi realmente conosciuto. Dalla mostra emerge l’uomo Galileo nelle molteplici sfaccettature: dallo scienziato padre del metodo sperimentale al letterato esaltato da Foscolo e Leopardi, Pirandello e Ungaretti, De Sanctis e Calvino. Dal Galileo virtuoso musicista ed esecutore al Galileo artista, tratteggiato da Erwin Panofsky quale uno dei maggiori critici d’arte del Seicento; dal Galileo

passione per il vino dei Colli Euganei – rifiutando la «vil moneta» baratta i suoi strumenti di precisione con vino «del migliore» – o la produzione e vendita di pillole medicinali. info www.fondazionecariparo.it NAPOLI LONGOBARDI. UN POPOLO CHE CAMBIA LA STORIA Museo Archeologico Nazionale fino al 25 marzo 2018 (dal 21 dicembre)

Dopo l’esordio di Pavia (vedi «Medioevo» n. 248, settembre 2017), approda al Museo

complessiva e il ruolo di uno dei massimi protagonisti del mito italiano ed europeo. In un’esposizione dai caratteri originali, dove capolavori dell’arte occidentale in dialogo con testimonianze e reperti diversi consentono di scoprire un personaggio da tutti sentito

imprenditore – non solo il cannocchiale ma anche il microscopio o il compasso – al Galileo della quotidianità. Poiché l’uomo, eccezionale per potenza d’intuizione e genio scientifico, lo era anche nei piccoli vizi e debolezze, quali gli studi di viticoltura e la

Archeologico Nazionale di Napoli la grande mostra sui Longobardi: un’esposizione che corona oltre 15 anni di nuove indagini archeologiche, epigrafiche e storico-politiche su siti e necropoli altomedievali, frutto del rinnovato interesse per un periodo cruciale della storia italiana ed europea. Ne scaturisce una visione complessiva e di ampio respiro (dalla metà del VI secolo, dalla presenza gotica in Italia, alla fine del I millennio) del ruolo, dell’identità, delle strategie, della cultura e dell’eredità del popolo longobardo che, nel 568, guidato da Alboino, varca le Alpi Giulie e inizia la sua espansione sul suolo italiano: una terra divenuta

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AGENDA DEL MESE crocevia strategico tra Occidente e Oriente, un tempo cuore dell’impero romano e ora sede della cristianità, ponte tra Mediterraneo e Nord Europa. info www.mostralongobardi.it FIRENZE DA BROOKLYN AL BARGELLO: GIOVANNI DELLA ROBBIA, LA LUNETTA ANTINORI E STEFANO ARIENTI Museo Nazionale del Bargello fino all’8 aprile 2018

Dopo essere stato esposto, tra il 2016 e il 2017, presso il Museum of Fine Arts di Boston e la National Gallery di Washington, approda a Firenze un capolavoro che ha lasciato l’Italia nel lontano 1898: la lunetta con la Resurrezione di Giovanni della Robbia. L’opera viene presentata nella cornice del Museo Nazionale del Bargello, dove si conserva la maggiore raccolta al mondo di sculture realizzate in terracotta invetriata dai Della Robbia. Commissionata probabilmente intorno al 1520 da Niccolò di Tommaso Antinori (1454-1520), che dette inizio alla fortuna imprenditoriale di questo antichissimo casato fiorentino, la lunetta è di dimensioni monumentali (174,6 x 364,5 x 33 cm) e resta oggi uno dei piú notevoli esempi della produzione di Giovanni della Robbia (1469-1529). La lunetta raffigura il Cristo

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risorto, con il committente Antinori in ginocchio alla sua destra e i soldati attorno al sepolcro, secondo l’iconografia tradizionale: il tutto su un articolato sfondo di paesaggio e all’interno di una fastosa cornice di frutti e fiori popolata da piccoli animali. In parallelo, viene presentata un’opera di Stefano Arienti, artista italiano tra i piú apprezzati in ambito internazionale, dal titolo Scena fissa, con cui la scultura robbiana viene riletta e reinterpretata, dando vita a un inaspettato dialogo tra arte rinascimentale e contemporanea. info tel. 055 2388606; e-mail: mn-bar@beniculturali.it; www.bargellomusei.beniculturali.it LORETO L’ARTE CHE SALVA. IMMAGINI DELLA PREDICAZIONE TRA QUATTROCENTO E SETTECENTO. CRIVELLI, LOTTO, GUERCINO Museo-Antico Tesoro della Santa Casa fino all’8 aprile 2018

Primo appuntamento del ciclo di eventi «Mostrare le Marche», l’esposizione è finalizzata alla valorizzazione e alla tutela del patrimonio artistico e culturale dei luoghi colpiti dal sisma ed al rilancio dal punto di vista turistico ed economico degli stessi. «L’arte che salva» si propone di approfondire la conoscenza della produzione artistica collegata a un

Appuntamenti RIMINI «I FERRI DEL MESTIERE. LA CULTURA DEL PRENDERSI A CUORE» - XIX FESTIVAL DEL MONDO ANTICO Museo della Città «Luigi Tonini» 7, 8 e 9 dicembre

La rassegna riminese celebra il decimo anniversario dell’apertura al pubblico della Domus del Chirurgo, dedicando l’edizione 2017 all’arte del prendersi a cuore l’uomo e i beni comuni. Il tema viene declinato in molteplici accezioni, da quella medica a quella rivolta al patrimonio culturale, dalla cura del corpo fenomeno che ha caratterizzato in profondità la cultura non solo europea, la predicazione. Il tema è illustrato nei suoi molteplici aspetti: dalle figure dei predicatori dei grandi ordini religiosi, francescani, domenicani, agostiniani e gesuiti, alle devozioni da loro promosse con le relative immagini, spesso opera di grandi artisti quali Crivelli, Lotto, Muziano, Guercino; dall’effetto della predicazione sui fedeli, attraverso il caso emblematico di santa Camilla Battista da Varano, al rapporto con altre fedi religiose e fino alla spinta missionaria mondiale dei predicatori della Compagnia di Gesú. Il percorso è illustrato attraverso una quarantina di oggetti, comprendenti dipinti, sculture, incisioni, manoscritti e volumi provenienti dalla Regione Marche, con un nucleo significativo di opere salvate dal terremoto del Centro Italia. info tel. 071 9747198 oppure 06 68193064; e-mail: museoanticotesoro@ gmail.com oppure segr.artifex@gmail.com

a quella dello spirito, da quella della res publica a quella della società nelle sue frange piú deboli ed esposte. Gli incontri, spesso nella formula del dialogo a piú voci, coinvolgono studiosi che si occupano non solo del mondo greco e romano, ma anche di quello contemporaneo, e sono altresí previsti momenti di spettacolo. info http://antico.comune.rimini.it SAN MARTINO AL CIMINO (VT) LA GIOCONDA SVELATA, TRA RITRATTO E ALLEGORIA Palazzo Doria Pamphilj, Sala Regia sabato 9 dicembre, ore 17,00

Conferenza di Elisabetta Gnignera, studiosa di dicembre

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e della sua seconda moglie, Bianca Cappello, ma anche i 50 anni trascorsi dalla pubblicazione del Principe dello Studiolo, testo di Luciano Berti, ancor oggi essenziale per chiunque voglia affrontare la Firenze dell’epoca. L’ingresso al convegno è libero, fino a esaurimento dei posti disponibili. info www.palazzostrozzi.org storia del costume medievale e rinascimentale italiano. info tel. 347 8709572 (dalle 10,00 alle 18,00); e-mail: palazzosanmartino@virgilio.it FIRENZE IL PRINCIPE DEI GRANDUCHI Palazzo Strozzi, Altana venerdí 15 dicembre, dalle 14,30 alle 19,00

In occasione della mostra «Il Cinquecento a Firenze, “maniera moderna” e controriforma tra Michelangelo, Pontormo e Giambologna», è in programma un convegno di studi su Francesco I de’ Medici, figura emblematica del XVI secolo, della committenza medicea e del concepimento dell’idea degli Uffizi come museo. Il convegno intende, tra l’altro, celebrare i 430 anni dalla morte di Francesco (il funerale del granduca si tenne proprio il 15 dicembre 1587)

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PERUGIA LA STORIA DEI TEMPLARI RACCONTATA A SAN BEVIGNATE Complesso monumentale di San Bevignate fino al 16 febbraio 2018

San Bevignate è un complesso monumentale che, per le considerevoli dimensioni delle forme architettoniche e per il valore eccezionale delle testimonianze iconografiche di soggetto templare conservate al suo interno, è divenuto non soltanto elemento di attrazione per i visitatori, ma anche oggetto di rinnovati e proficui approfondimenti di taglio scientifico e didattico. Dal crescente interesse nei confronti del patrimonio monumentale e artistico di committenza templare è nato un nuovo ciclo di conferenze, che illustra momenti della storia della militia Templi e della sua presenza a Perugia. Questi i prossimi appuntamenti: 26 gennaio 2018, ore 18,00: Il vescovo e il santo: Napoleone Comitoli e il culto di san Bevignate (ca. 1600) (Pascale Rihouet, Rhode Island School of Design, Providence, USA; introduce: Laura Teza,

Università di Perugia); 16 febbraio 2018, ore 17.30: Cubiculari templari e ospedalieri al servizio del papa: i casi di fra Bonvicino, fra Tommaso e fra Giacomo da Pocapaglia (Sonia Merli, Deputazione di storia patria per l’Umbria; introduce: Paolo Caucci von Saucken, già Università di Perugia). info tel. 075 5772416 (lu-ve, 9,00-13,00); e-mail: info. cultura@comune.perugia.it; http://turismo.comume.perugia.it FIRENZE L’ALTROVE A FIRENZE. TESTIMONIANZE FRA ARTE E SCIENZA Palazzo Pitti, Teatro del Rondò di Bacco fino al 28 marzo 2018

Il ciclo di conferenze, pensate per coloro che desiderino conoscere meglio la storia di Firenze e ricevere spunti di riflessione e studio, nasce dalla collaborazione tra le Gallerie degli Uffizi e il Museo di Storia Naturale dell’Università degli Studi di Firenze. Il ciclo è dedicato sia ai docenti delle scuole di ogni ordine e grado, che potranno farlo valere anche come corso di aggiornamento, sia al pubblico dei musei fiorentini. Questi i prossimi appuntamenti in programma: 13 dicembre 2017, ore 17,00: L’Egitto a Firenze. La spedizione franco-toscana nella valle del Nilo (Maria Cristina Guidotti, sezione «Museo Egizio» del Museo Archeologico Nazionale di Firenze).

10 gennaio 2018, ore 17,00: Rocce, fossili e foto da mondi lontani: le spedizioni di Giotto Dainelli ripercorribili nelle collezioni del Museo di Paleontologia dell’Università di Firenze (Elisabetta Cioppi, sezione di Geologia e Paleontologia del Museo di Storia Naturale di Firenze). 24 gennaio 2018, ore 17,00: L’Oriente di Galileo Chini: fascino nuovo per un mondo antico (Silvestra Bietoletti, storica dell’arte). 14 febbraio 2018, ore 17,00: Da Cartagine alle Piramidi. I viaggi africani di Giovanni Pagni e Alessandro Pini, due eruditi toscani del XVII (Fabrizio Paolucci, Dipartimento

Antichità Classica delle Gallerie degli Uffizi). 28 febbraio 2018, ore 17,00: Andate, predicate e... raccogliete piante: i risultati botanici di due missionari francescani in Cina alla fine dell’Ottocento (Chiara Nepi, sezione di Botanica del Museo di Storia Naturale di Firenze). 14 marzo 2018, ore 17,00: Cosimo III e i viaggi da giovane principe per l’Europa (Ilaria della Monica, Villa I Tatti, The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies). 28 marzo 2018, ore 17,00: Firenze e l’America: Amerigo Vespucci e l’invenzione del Nuovo Mondo (Filippo Camerota, Museo Galileo-Istituto e Museo di Storia della Scienza). info www.uffizi.it

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Come in un

di Furio Cappelli

giardino di delizie

Da tempo abbiamo imparato che la storia non è fatta solo delle gesta di re e imperatori o di grandi battaglie, e che altrettanto avvincente può essere il racconto delle cose quotidiane e dei loro interpreti. Una brillante conferma è il nuovo libro di Chiara Frugoni, che propone un vivace ritratto a tutto tondo della vita di ogni giorno nei secoli del Medioevo. Con un’attenzione particolare per i piú piccoli

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a storiografia ha a lungo prediletto i grandi avvenimenti e i personaggi illustri, fino a che, soprattutto a partire dal secolo scorso, grazie ai nuovi orientamenti della ricerca – sempre piú incentrati sulle dinamiche della economia e della società –, si è creato uno spazio per tutti gli «attori secondari». Nel 1924, una illustre esponente della storia economica e sociale, Eileen Power (1889-1940), tra i capifila della Cambridge Economic History of Europe, diede alle stampe un libro assai fortunato, Medieval People (noto al pubblico italiano con il titolo Vita nel Medioevo). Attraverso «bozzetti» dedicati a personaggi di varia estrazione e noti solo agli specialisti, con l’unica eccezione di Marco Polo, la studiosa dimostrò che l’approccio analitico, pur necessario nel mestiere dello storico, non doveva necessariamente precludere lo sguardo alla vita quotidiana. Le stesse fonti utilizzate per studiare le reti commerciali o l’economia agraria fornivano prezioso materiale per ricostruire caratteri di persone emblematiche prese dalla realtà concreta di tutti i giorni.

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I genitori, la Trinità e l’infusione dell’anima al momento della concezione del bambino, miniatura da un manoscritto di Jean Mansel. 1490 circa. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

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storie la vita quotidiana

Si propose cosí una nuova forma di narrativa storica, in seno alla quale un fabbricante di panno o una badessa poté assumere un ruolo simile a quello vantato, fino a quel momento, solo da sovrani, pontefici e nobiluomini. Con una forza di coinvolgimento che trae vigore proprio dalla freschezza dei suoi «attori», questo approccio consentiva inoltre di avvicinare un pubblico vasto e vario ai grandi temi della economia e della società. Attraverso figure efficaci, illustrate in modo lineare, chiunque poteva accedere a situazioni e a concetti altrimenti «difficili» o comunque poco avvincenti.

Quasi come fotografie

Le fonti a cui Eileen Power attingeva erano esclusivamente di tipo documentario o letterario. Ma un passo in avanti nell’evocazione a tutto campo del passato poteva essere compiuto prendendo in considerazione le opere d’arte come documenti figurativi (in senso lato, come «istantanee») della società in cui il pittore o lo scultore operava. Cosí facendo, il dipinto o il bassorilievo non sarebbe stato piú solo una manifestazione di stile e di cultura, ma un elemento vivo di una realtà ben precisa. Si poteva costruire una sintesi storica utilizzando le grandi opere d’arte come riferimenti concreti per visualizzare avvenimenti, personaggi, trasformazioni della società, come fece Georges Duby (1919-1996) nel libro noto in Italia con il titolo L’arte e la società medievale

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In alto Siena, Palazzo Pubblico. Particolare de Il Buon Governo, gli Effetti in Città, affresco di Ambrogio Lorenzetti, raffigurante un bambino che impara il mestiere nella bottega di un calzolaio. 1338-1339. Sulle due pagine Il miracolo del bambino che parlava all’immagine della Vergine, miniatura di Liévin van Lathem, dal manoscritto Vie et miracles de Notre Dame, en prose française di Jean Miélot. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

(1977). Altrimenti, intrecciando fonti letterarie e fonti figurative di ogni genere e importanza, si poteva proporre un affresco dettagliato, nel quale venivano a collocarsi uomini e cose, per ricomporre un avvincente quadro della vita in una città del Due-Trecento. Chiara Frugoni realizzò in tal modo la Storia di un giorno in una città medievale (1997), prendendo le mosse da due contributi del padre Arsenio (1914-1970), riproposti nel volume come introduzione all’opera. A distanza di vent’anni, la studiosa torna a occuparsi della quotidianità, con Vivere nel Medioevo. Donne, uomini dicembre

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e soprattutto bambini. Come indica chiaramente il titolo, se nell’opera precedente prevaleva una dimensione corale, qui si entra, per cosí dire, «in punta di piedi» nella dimensione domestica, in una prospettiva individuale, che coinvolge ogni ceto e ogni ambiente con la stessa attenzione. La vita in sé passa in primo piano, a tal punto che, se nella Storia di un giorno la visione si articolava su un palcoscenico storico e ambientale ben definito (la città del Basso Medioevo), in Vivere nel Medioevo il punto di vista è onnicomprensivo, sia nello spazio che nell’ampio arco

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temporale, teso tra il IX secolo e le soglie dell’età moderna. Il Medioevo si presenta come uno spazio «epico», vigoroso e palpabile, che getta una luce particolare sulla condizione umana. Ogni persona, e soprattutto ogni bambino, entra a far parte di un racconto spoglio, senza i filtri della retorica e della finzione, come forse solo l’età di Mezzo può consentire, grazie a quella sua inconfondibile, quasi infantile immediatezza. Lo stile si adatta perfettamente alla materia, con il suo passo lineare che invita agevolmente ogni tipo di lettore, con una semplicità di analisi e di narrazione che

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storie la vita quotidiana è il risultato di ricerche meticolose e di riflessioni approfondite: una semplicità che nasce dalla padronanza della materia oltre che da un sentito, sottile coinvolgimento.

Un racconto (anche) per immagini

L’iconografia, che costituiva un elemento di forza già nella Storia di un giorno, assume qui un aspetto preminente. Vivere nel Medioevo, infatti, è soprattutto un viaggio attraverso le immagini, con le fonti letterarie che fanno da supporto e da controcanto. Tratte in massima parte dalle miniature dell’epoca, le figure sono spesso assai inconsuete e intriganti, e sempre inserite lungo il filo dell’esposizione, secondo un’alchimia tra parola e immagine che è ormai una cifra tematica e stilistica nell’opera di Chiara Frugoni. La copertina, accattivante ed efficace, introduce subito nella stanza da letto, fulcro dell’ambiente domestico. La figura, tratta da una miniatura del 1490, ritrae una coppia di coniugi nel momento in cui, nell’attimo stesso del concepimento, l’Eterno infonde l’anima nel nascituro, e questa assume le forme di un minuscolo infante che, inviato dal Cielo, fluttua nell’aria per giungere al cospetto della donna. Il trascendente piomba cosí nella dimensione quotidiana, secondo uno schema tipicamente medievale, dove la piú scarna realtà è spesso illuminata dai bagliori del divino. E la miniatura non interessa tanto per la lettura in chiave religiosa che richiede, quanto per i numerosi particolari della quotidianità che rivela, compresa la fiamma di una candela piegata da uno dei gelidi spifferi che penetravano di notte in ogni casa. Il tema della stanza da letto viene poi sviluppato per farne percepire l’aspetto per cosí dire «polifunzionale» nell’economia della casa medievale. Proprio grazie ai rimedi contro i rigori del freddo che il letto stesso offre – dalle coperte sino alle cortine di stoffa che lo circondano nelle tipologie piú raffinate –, la camera destinata al riposo notturno e alle intimità nuziali, è anche uno spazio di meditazione e di scrittura, e può anche essere eletta a luogo di solenni riunioni di corte. Un’attenzione particolare è riservata alla difficile vita del bambino, sottoposto a disagi, malattie e incidenti mortali sin dalla primissima infanzia. Secondo un uso

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che solo in teoria gli permetteva di essere protetto e rafforzato, appena nato era costretto a essere «imprigionato» nelle strette fasce che lo avvolgevano da capo a piedi, ed è un testimone dell’epoca, il monaco Guglielmo di Saint-Thierry (1085-1148), a parlare della fasciatura come una forma di prigionia. Affidato quasi sempre alle balie, e dunque privato dei benefici del contatto materno, il neonato doveva superare tutta una serie di ostacoli che mettevano a repentaglio la sua vita, compresa la probabilità che proprio la balia, tenendolo vicino a sé, si addormentasse sopra di lui, soffocandolo. Mille accorgimenti venivano ideati per tenere lontani gli scongiuri e le malattie, opera dell’onnipresente demonio. Il colore rosso delle vesti, per esempio, si riteneva avesse un valore curativo e protettivo. Il tedesco Matteo Schwarz (1497 circa-1575), direttore finanziario della banca Fugger di Augusta, in quel Libro dei vestiti che è in sostanza un’autobiografia illustrata, con le note di suo pugno che corredano i disegni, si fa rappresentare da bambino, in preda al morbillo, e si mostra rigorosamente vestito di rosso, proprio per scongiurare l’avanzamento della malattia. D’altro canto, in una favola dell’XI secolo che è alle origini di Cappuccetto rosso, una bambina predata da una lupa e data in pasto ai suoi cuccioli famelici, si salva proprio perché indossa una veste di lana rossa, confezionata in vista del battesimo.

Uno spazio di incanto e di intimità

L’infanzia, naturalmente, era sempre e comunque uno spazio di incanto e di intimità. Lo attestano chiaramente le testimonianze delle «ninne nanne», delle cantilene intonate per far addormentare i pargoli, e che già nel Medioevo erano designate in quel modo, grazie al loro proverbiale ritornello. In un esempio particolarmente singolare, la canzone racconta il processo di dentizione del neonato. Le stesse innumerevoli immagini sacre che raffiguravano la Madonna col Bambino, espresse in modo sempre piú intimistico, dolce e colloquiale, erano fonte di commozione, al di là del soggetto raffigurato, proprio come vivide esaltazioni dell’amore materno. San Frandicembre

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Nella pagina accanto Matteo Schwarz bambino, malato di morbillo, particolare di una illustrazione dal manoscritto Trachtenbuch di Matteo Schwarz. XVI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra Montefalco, (Perugia), chiesa di S. Chiara, Cappella della Santa Croce. La Madonna porta Gesú bambino dalla piccola Chiara perché possa giocare, affresco del Maestro di Santa Chiara da Montefalco. 1333.

cesco d’Assisi rimase particolarmente colpito da una Madonna del Latte, in cui la Vergine (a rigore, sprovvista di latte materno), nutrendo Gesú al proprio seno, diviene l’immagine piú compiuta del legame tutto terreno tra madre e figlio. E poteva d’altro canto accadere che un bambino offrisse la propria mela al piccolo Gesú, vedendolo raffigurato in una chiesa, dicendogli: «Mangia, pupetto, mangia con me», come racconta una deliziosa miniatura del XV secolo. Quando arrivava il momento dell’istruzione occorreva l’abecedario, strumento essenziale per imparare a leggere e a scrivere. Le testimonianze iconografiche che ne documentano l’uso mostrano sempre in bella evidenza le prime quattro lettere da cui lo strumento prendeva nome, per via del fatto che si imparavano quattro

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lettere alla volta. E talvolta occorreva ricorrere ai fondamenti della comunicazione anche con gli adulti: in una miniatura trecentesca piuttosto pungente, Mosè in persona è costretto a spiegare la Legge facendo ricorso alle prime lettere dell’alfabeto, proprio perché il suo popolo è come un bambino recalcitrante, non solo incolto, ma anche mal disposto nei riguardi della volontà divina.

Piccoli apprendisti

I bambini erano spesso costretti a lavorare prima della maturità, e un piccolo garzone di bottega fa capolino tra gli Effetti del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, nel Palazzo Pubblico di Siena (1338-39). Ma, in un momento essenziale della formazione, il gioco costituiva un elemento fondamentale nello sviluppo individuale e

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storie la vita quotidiana A sinistra Il re Salomone presenzia ad uno spettacolo di marionette, copia di miniatura dal distrutto manoscritto dell’Hortus deliciarum di Herrad, badessa di Hohenbourg. 1125-1195. Nella pagina accanto Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila. Gennaio nel Ciclo dei Mesi, affrescato alla fine del XIV sec. Fuori dalle mura del castello è raffigurata una battaglia di palle di neve tra alcuni personaggi elegantemente abbigliati.

nell’instaurarsi dei rapporti tra i coetanei. Frugoni dedica al gioco un ampio spazio, mettendo a frutto la conoscenza di fonti di ogni tipo, anche archeologiche, come i preziosi stampi in pietra per la fabbricazione di giocattoli, databili al XIII secolo, rinvenuti di recente presso il duomo di Magdeburgo (Germania). Tra questi, spicca un cavaliere bardato di tutto punto. Il tema del gioco diviene cosí il fulcro e anche l’asse portante del libro. In un riferimento toccante, che allude anche alla condizione di una donna già in tenera età destinata a indossare l’abito monastico, vediamo il piccolo Gesú che si mostra un po’ ritroso di fronte alla beata Chiara di Montefalco (1268-1308), desiderosa di trovare in lui un amichetto con cui giocare. L’affresco trecentesco, che si osserva nella città natia della beata, traspone la fantasia di una bimba che reagisce alla solitudine chiedendo conforto alle immagini religiose. Le bambole di fattura raffinata presentavano immagini di donne morigerate e impeccabili nel rigore dei loro abiti, in modo che le bambine avessero ben chiaro il proprio destino di «spose irreprensibili», esattamente all’opposto delle Barbie del nostro tempo, che si mostrano invece aggressive, disinvolte ed esuberanti, come sottolinea argutamente l’autrice. Molto diffusi erano gli spettacoli di marionette: in una miniatura perduta, ma nota attraverso una copia, del Giardino delle delizie (Hortus deliciarum) della badessa Herrad di Honenbourg (1125-1195), i pupazzi vengono messi in scena nel tipico teatrino mobile nientedimeno che di fronte al biblico re Salomone. D’altro canto un codice trecentesco del Romanzo di Alessandro, nelle sue illustrazioni a margine, offre un vasto campionario di giochi infantili: la trottola, il volano, le bocce, i trampoli, l’altalena, la caccia alle farfalle... La mattanza del maiale, a dicembre, era un’auten-

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tica manna per i bambini, poiché potevano divertirsi a gonfiare le vesciche degli animali macellati, allo stesso modo dei palloncini dei nostri tempi. Le ossa della mascella del cavallo potevano poi essere agevolmente trasformate in pattini, per giocare sul ghiaccio. E tutto un ampio spazio è dedicato, con «sorridente attenzione», a una meticolosa lettura dei Giochi dei bambini di Pieter Bruegel il Vecchio (1560), un dipinto ricchissimo di spunti per rievocare un’infanzia con tanti e vari giochi di gruppo, talvolta piuttosto aggressivi, e spesso sfornita di giocattoli, cosicché bastava un manico di scopa per sentirsi in groppa a un cavallo.

Battaglie invernali

La magia della neve fa la sua comparsa quando si rievocano le battaglie con il lancio delle palle, come quella raffigurata a Trento nel Castello del Buonconsiglio (Torre Aquila, fine del XIV secolo). Ma la neve ha un effetto tutto particolare in una miniatura dedicata al mese di Gennaio, opera di Sano di Pietro (1460 circa), in cui una monaca, assorta, lascia il suo lavoro di tessitura e, attraverso la finestra, rimane rapita a guardare lo spettacolo dei fiocchi che scendono dal cielo. Nella stanza si assiste alla preparazione di un pasto fatto di poche vivande. In questo modo, nello spazio di una raffigurazione apparentemente scarna, si rievoca tutto uno stile di vita basato sul lavoro manuale, sulla meditazione e sulla povertà, nei beni come nel cibo. E, tra i rigori dell’inverno e della vita monastica, talvolta poteva aprirsi uno squarcio inatteso sulle meraviglie del mondo esterno. D’altronde, come sottolinea l’autrice, l’esperienza del monastero poteva essere per certi versi la meno difficile e la piú appagante per una donna, altrimenti costretta a un ruolo di secondo piano in una vita coniugale piena di oneri ed esposta alle tante incognite della dicembre

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storie la vita quotidiana Santa UmiltĂ recita le sue preghiere, particolare di una delle scene dal Polittico della beata UmiltĂ , tempera su tavola di Pietro Lorenzetti. 1340 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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gravidanza. Rifacendosi a una riflessione della scrittrice Virginia Woolf sulla condizione femminile, Chiara Frugoni dimostra che la monaca medievale poteva ambire a una «stanza tutta per sé», poteva cioè conquistare uno spazio nel quale far emergere la propria personalità e il proprio talento, come attestano le tante firme di letterate e artiste del Medioevo, sempre gemmate dal mondo della clausura. Si trattava infatti di un talento utile e degno di lode perché consacrato alla gloria di Dio. La monaca Ende, miniatrice dell’immaginifico codice del Beatus della cattedrale di Gerona (Spagna; 975), un’opera ispirata all’Apocalisse, poteva cosí definirsi un’aiutante dell’Eterno. Dal canto suo, la beata Umiltà di Faenza (1230 circa-1310) viene ritratta da Ambrogio Lorenzetti (1340 circa) mentre detta i sermoni alle proprie consorelle sotto la diretta ispirazione dello Spirito Santo. Dio è presente in scena nella forma di una colomba che le sussurra all’orecchio, secondo una formula iconografica che rimanda nientemeno a papa Gregorio Magno.

Sulle orme dei viandanti

L’ultima parte del volume ritorna al paesaggio urbano della Storia di un giorno, ma in chiave intimistica, intrecciando le sensazioni dell’esperienza quotidiana al meraviglioso. Seguendo le orme di un viandante ci troviamo cosí di fronte a un cavaliere che incede a gambe larghe per le strette vie di Firenze, sfiorando di continuo i passanti con le «punte delle scarpette». Leggiamo le risentite riflessioni del predicatore domenicano Giordano da Pisa (1260 circa-1311), che registra l’andirivieni dei pellegrini sulle strade dei grandi santuari. Tutti costoro credono, a torto, che questo loro girovagare consenta la remissione dei peccati, cosicché le strade sono piene di illusi e «la strada del perdono è vota [vuota]». Il farmacista Giovanni da Montopoli (Pisa), già pellegrino a Santiago di Compostella, muore a Roma nel 1320, e nella sua lastra tombale ricorda ai viventi il destino che li attende, invitandoli a fare penitenza. Quando l’obiettivo si concentra sulla Città Eterna, l’accostamento tra la realtà e il mito si fa avvincente. La dura esperienza del viandante, magari costretto a condividere il letto con piú di quattro persone, emerge dall’esperienza vissuta in prima persona dal poeta e cronista abruzzese Buccio di Ranallo (1295 circa-1363). Gli albergatori si mostrano in prima battuta accoglienti e

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In basso Roma, basilica di S. Prassede. Particolare della lastra tombale di Giovanni da Montopoli, con il defunto raffigurato con l’abito e gli attributi da pellegrino. XIV sec.

ben disposti, ma ben presto rivelano una natura rapace: «Li ostulani che se monstravano angeli, et poi erano cani». Si contrappone a questa sconsolante tranche de vie lo splendore dei monumenti dell’Urbe antica. L’autrice concentra la sua attenzione sulla magica attrattiva delle statue, facendo soprattutto riferimento alle «meraviglie» illustrate dall’inglese Maestro Gregorio (XIII secolo). Questo prezioso testimone trascura quasi del tutto le chiese, ma rimane incantato di fronte alla Venere capitolina. E, nel sottile crinale tra la Roma pagana e la Roma cristiana, emerge con forza il Pantheon, il celebre tempio convertito in chiesa, con dedica alla Madonna e a tutti i martiri. I pellegrini riportavano in patria placchette-ricordo che raffiguravano la sua proverbiale cupola. L’apertura sommitale incuriosiva i letterati, spingendoli a formulare ricostruzioni piuttosto elaborate. In genere si credeva che l’oculo fosse in origine occluso da una statua dorata di Cibele, madre di tutti gli dèi, in evidente contrapposizione alla Vergine, madre di tutti i santi. Stando a Benedetto Canonico (XII secolo), papa Bonifacio IV (608-615) – che, in una miniatura duecentesca, è intento a cacciare i demoni dal tempio – volle consacrare il Pantheon alla Vergine proprio nel giorno della festa della Magna mater. Grazie a queste voci intrise di incanto, il Medioevo assume le sembianze di un giardino di delizie, e la storia stessa sembra un grande gioco. F

Da leggere Chiara Frugoni

Vivere nel Medioevo. Donne, uomini e soprattutto bambini Il Mulino, Bologna, 320 pp., 210 ill. col. 40,00 euro ISBN: 978-88-15-27371-0 www.mulino.it

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Una storia da «svelare» di Erberto Petoia

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Negli ultimi anni, l’utilizzo del velo è divenuto terreno di scontro fra l’Occidente e l’Islam. Un contrasto spesso alimentato dalla scarsa conoscenza delle origini e delle motivazioni che determinarono il diffondersi di questa usanza. Un fenomeno da rileggere, dunque, con attenzione, per scoprire le affinità e le differenze che lo hanno caratterizzato in ambito cristiano prima e musulmano poi

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er poterla comprendere correttamente, la storia del velo in Occidente, e dell’evoluzione dei suoi contenuti e forme, va inserita nella piú ampia politica di discriminazione ed emarginazione attuata dalla Chiesa cattolica nei confronti delle donne. Delle tre grandi religioni monoteistiche, il cristianesimo è stato il primo a imporre il velo alle donne, ammantandolo di significati strettamente teologici. L’evoluzione e la diversità del velo o dei copricapi femminili in Europa ha in genere contribuito a obliterare la memoria dell’usanza secolare di coprire e di velare il capo delle donne, connotandola oggi, in una sorta di rimozione e di arroganza etnocentrica e in una presa di distanza, nonché di rifiuto e di ne-

Predica di san Marco ad Alessandria d’Egitto, olio su tela di Gentile e Giovanni Bellini. 1504-1507. Milano, Pinacoteca di Brera. Si noti la vivace caratterizzazione dell’uditorio locale attraverso l’abbigliamento tipico.

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gazione della propria storia, come esclusività del mondo islamico. Fin dalle prime teorizzazioni cristiane, il velo, capo d’abbigliamento dalle molteplici funzioni, si caratterizza come elemento identitario della donna da un punto di vista religioso e sociale, sottolineandone la condizione di sottomissione all’uomo e la sua diversa collocazione all’interno della società. Nell’elaborazione teologica dell’imposizione del velo, il cristianesimo attinge a piene mani dal patrimonio culturale pagano, dove il velo è sostanzialmente un capo dell’abbigliamento femminile, il cui uso non è soggetto ad alcuna norma, ma solo un’usanza che può variare a seconda delle regioni e del contesto sociale.

San Paolo detta le regole

Con l’avvento del cristianesimo, tale prassi consuetudinaria fu però modificata e irrigidita, diventando prescrizione religiosa. La fonte cristiana su cui poggia la dottrina dell’imposizione del velo alle donne è la Prima lettera ai Corinzi (11, 2-16) di san Paolo, in cui l’apostolo sostiene che:

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«L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è l’immagine e il riflesso di Dio; la donna invece è il riflesso dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza». Sul significato simbolico della sottomissione tornarono a piú riprese i Padri della Chiesa, come Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo o Agostino (De Trinitate, XII,7), il quale, ribadendo la differenza della donna dall’uomo per il suo sesso, cosí spiegava l’esigenza del velo: «Ma poiché per l’azione razionale sulle cose temporali c’è il rischio di lasciarsi trascinare eccessivamente verso le realtà inferiori, per questo essa deve avere un potere sopra il suo capo, indicato dal velo, che significa che dev’essere contenuta». Integrando il testo paolino con la tradizione romana della velatio – il rituale che sanciva il matrimonio (vedi box a p. 50) –, Isidoro di Siviglia, definiva il velo un simbolo che ricordava alla donna la sua sottomissione al marito: «Le donne, durante il matrimonio, indossino il velo,

Arezzo, basilica di S. Francesco, Cappella Maggiore. Due ancelle della regina di Saba (in alto) e il volto della Vergine mentre riceve dall’arcangelo Gabriele l’annuncio dell’incarnazione di Cristo nel suo grembo, particolari di due scene del ciclo delle Storie della Vera Croce, realizzato da Piero della Francesca tra il 1452 e il 1466. Le tre figure presentano veli e copricapi di diversa foggia.


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velo e matrimonio

Gli amori di Zeus e le nozze mistiche delle Vestali Il velo ha da sempre un ruolo centrale nel rituale e nel sacramento del matrimonio, ma solo in tempi recenti, e in particolare dopo la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione nel 1854 da parte di Pio IX, è divenuto simbolo di castità, dando vita alla moda degli abiti da sposa bianchi, corredati da un velo altrettanto candido. Nell’antica Grecia, le ragazze andavano abitualmente a capo scoperto, mentre la sposa doveva indossare il velo nel corteo che la conduceva alla casa del marito, dove si sottoponeva al rituale dello svelamento, che sanciva ufficialmente il matrimonio. Il mito fondante dello svelamento, va ricondotto al rito ierogamico tra Zeus e Chtonie, come riportato nella teogonia di Ferecide di Siro (VI secolo a.C.), in cui si narra che, dopo i festeggiamenti, il dio condusse in un luogo appartato la dea e le tolse il velo, dichiarandola cosí sua consorte e facendo di questo rituale una legge per uomini e dèi. Segno distintivo delle donne sposate, in Grecia il velo stava a rappresentare pudore e modestia, ma anche, a differenza delle donne che non lo indossavano in pubblico, la loro indisponibilità sessuale. Penelope, infatti, si mostra ai suoi pretendenti solo con il

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velo, a ribadire il suo stato di donna sposata, che il destino incerto del marito Odisseo e la sua lunga lontananza mettono ormai in discussione. Nell’antica Roma l’elemento distintivo dell’abbigliamento della sposa era il flammeum, un velo giallo, che aveva un ruolo primario nel rituale a cui si sottoponevano le spose il giorno del loro matrimonio, molto simile al rituale, dalle forti sfumature religiose, del velamento delle Vestali. Proprio le Vestali, che similmente alle odierne suore cattoliche assumevano il velo come contrassegno permanente, avrebbero fornito a san Paolo lo spunto per associare il velo alla castità e alla subordinazione, prescrivendolo cosí per tutte le cristiane. La stretta relazione tra velo e matrimonio è già sottolineata da Isidoro di Siviglia nel IX libro delle sue Etymologiae: «Le nuptae, sono cosí chiamate perché si velano il proprio volto; termine traslato che deriva da nubes, le nubi che velano il cielo. Da qui anche il termine nuptiae, le nozze, perché in quell’occasione si vela per la prima volta il capo delle nubentes. Obnubere, infatti, significa “coprire”. Il contario è innuba, cioè innupta, colei che non ha ancora velato il suo volto». dicembre

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perché esso ricordi loro di essere sempre umili e soggette al marito, e per questo motivo questo velo viene chiamato dal popolo mavortem, da Marte, poiché in esso risiede il segno della potestà e della dignità del marito. Difatti l’uomo è il capo della donna, ed è perciò lecito che essa si veli durante il matrimonio, affinché riconoscano la verecondia femminile» (De ecclesiasticis officiis II, 20). Il contributo dei Padri della Chiesa fu fondamentale nel rendere il velo un simbolo della donna cristiana in Occidente e in Oriente e un tratto distintivo che la differenziasse dalle altre donne, veicolando con la sua imposizione il concetto di pudore, di sottomissione e di appartenenza della donna al marito, terreno o celeste che fosse.

Obblighi e ammende

Durante l’Alto e fino al Basso Medioevo, l’insegnamento paolino passò dall’ambito della prescrizione religiosa a quello del diritto, facendo dell’imposizione del velo un precet-

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In alto affresco di epoca augustea noto come Nozze Aldobrandine, dall’Esquilino (Roma). Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Al centro, una sposa, velata, viene accudita da Venere. A destra Siena, Palazzo Pubblico. Una donna, dalla testa velata, porta un’anatra al mercato, particolare de Il Buon Governo, gli Effetti in Città, affresco di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339.

to religioso e, al tempo stesso, una norma giuridica. La Lex Gundobada (VI secolo) condannava a un’ammenda di 12 soldi colui che avesse discapillato una donna sposata nella sua casa o per strada; mentre negli emendamenti della Lex Salica (555558), nel capitolo intitolato De muliere caesa uel excapillata, l’ammenda da pagare andava dai 15 ai 30 soldi per chi avesse fatto cadere il velo di una donna sposata o le avesse tolto le bende che tenevano raccolti i capelli. L’obbligo di indossare il velo è accolto anche nel Decretum Gratiani (1140 circa), primo apparato nor-

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costume e società il velo Sulle due pagine ancora due particolari dell’affresco de Il Buon Governo, gli Effetti in Città, realizzato da Ambrogio Lorenzetti in Palazzo Pubblico a Siena, fra il 1338 e il 1339. A sinistra, due giovani donne osservano una promessa sposa in un corteo nuziale; nella pagina accanto, la Vanagloria, rappresentata come una ragazza dall’acconciatura elaborata e ricca di gioielli.

mativo della Chiesa di Roma, in cui si riprende il tema della verecondia, a cui la donna deve attenersi, della soggezione che deve dimostrare nei confronti del marito, suo capo, e della sudditanza, che il velo, signum subiectionis, incarna. Nell’Occidente altomedievale, il velo della donna sposata diventa cosí il signum potestatis sulla donna, trasferito con il rito di passaggio del matrimonio dal padre a un altro uomo. A partire dal XIII secolo si assiste a una nuova fase, che investe la modalità e l’obbligo di velare il capo, con una maggiore attenzione da parte di legislatori e religiosi per quello che le donne indossano e si mettono sul capo. Le donne cominciano a rendere loro accettabile l’imposizione del velo, trasformandolo in un capo di moda, di eleganza e di seduzione, capovolgendo cosí l’obiettivo iniziale dell’ostentazione della modestia e della subordinazione, e provocando al tempo stesso un’altra ondata di leggi e divieti.

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Nella sua Chronica, il frate minore Salimbene de Adam (12211288) riferisce dell’irritazione delle donne all’indomani dell’emanazione delle costituzioni elaborate nel 1279 dal cardinale Latino Malabranca, il cui sesto capitolo conteneva leggi suntuarie comprendenti l’obbligo, per le coniugate, di coprirsi il capo con un velo.

Astuzie femminili

In particolare, profondo fu il risentimento delle Bolognesi (nel 1278 Malabranca era stato nominato legato a latere dal papa, che gli aveva assegnato un territorio comprendente, fra le altre, la Romagna con Bologna), ma, al tempo stesso, alla norma si reagí indossando veli di bisso e di seta, intessuti d’oro, trasformando l’obbligo di girare velate in un modo per diventare dieci volte piú belle e, come scrive Salimbene, «attirare ancora piú alla lascivia gli occhi di chi le guardava». Il significato dell’obbligo di in-

dossare il velo veniva cosí depotenziato, come si evince dalla condanna che trova voce nelle predicazioni penitenziali di Bernardino da Siena e, in particolare, di Francescani e Domenicani, nel tentativo di limitare o eliminare il ricorso a materiali preziosi per abbellire i copricapi. Il velo, dunque, andava sempre piú connotandosi come simbolo di dipendenza e di sottomissione all’uomo, come ci viene confermato anche dalle norme in vigore nel 1356 a Spira, Europa Centrale, dove erano esenti dal coprirsi il capo le donne nubili e le fanciulle «perché non avevano uomo». In base allo stesso principio, l’adultera veniva punita con l’abrogazione del diritto a stare a capo coperto e simile divieto era imposto alle prostitute. Ad Arles, alla fine del XII secolo, qualsiasi donna onesta che si fosse imbattuta in una prostituta velata aveva il potere e il dovere di strapparle il velo. L’inefficacia di tali restrizioni, che si protrassero fino a dicembre

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costume e società il velo quasi tutto il XV secolo, non frenò il dibattito, ma, al contrario, portò a una recrudescenza nella riproposizione degli obblighi e dei divieti, estesi indistintamente a tutte le donne, nubili e sposate, e alle donne di quelle classi sociali che a fino a questo momento erano state dispensate dal coprirsi il capo. Tra gli apologisti e i predicatori piú accaniti, va ricordato Giovanni da Capestrano (1386-1456), frate minore osservante, inquisitore dei fraticelli e degli Ebrei, proclamato santo nel 1690, che si distinse per il disprezzo verso le donne e per la sua violenta battaglia per l’imposizione del velo. Nel Tractatus generalis de usu cuiuscumque ornatus (143437) – un pamphlet sugli ornamenti femminili –, il frate, conformemente alla tradizione precedente, di cui l’opera è una perfetta sintesi, ribadisce l’inferiorità della donna e l’obbligo per lei di vestirsi senza lussi e con modestia, per dovere di sottomissione all’uomo e, soprattutto, per evitare di suscitare la lussuria. A meno che questo non avvenga solo «in grazia dei loro mariti», cosí da frenare l’impulso di questi all’adulterio, e che non sia da adescamento per altri uomini. Sembra però, continua il frate, che la donna, per la sua naturale inclinazione a indurre al peccato, riesca a trovare anche nel dettato a coprirsi il modo per adescare gli uomini, e spesso, anziché impedire il male dell’adulterio, lo assecondi, indossando «mitrie od altri addobbi, indici di superbia e d’inonestà, e che provocano la libidine». Nella XIII rubrica del suo trattato, Giovanni va ancora oltre e, poiché anche il solo viso della donna incita alla concupiscenza, propone una copertura fitta, quasi integrale: «Non basta alla donna coprirsi la sommità del capo, ma bisogna che veli la testa da ogni parte, anche dinanzi, in modo che appena se ne possa vedere il volto». E per evitare che le poche concessioni della lettera di Paolo potessero essere interpretate in

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senso piú liberale, egli aggiunge che la donna, vergine, nubile o sposata, deve velarsi il capo non solo in Chiesa, ma in qualsiasi luogo; a meno che non vi sia qualche infermità a fare da impedimento, o qualche deformità della donna, la quale, pure stando a capo scoperto, non induce in tentazione l’uomo.

Una questione d’ordine

Nell’Islam, contrariamente a quanto avvenuto per il cristianesimo – e a quanto comunemente oggi si crede –, l’equazione velo-sudditanza non trova alcun riscontro nel Corano, e la sua imposizione non è frutto di sottili disquisizioni di ordine teologico o dottrinale affini a quelle che ne hanno caratterizzato la storia in Occidente. Se nel cristianesimo l’obbligo per la donna di coprirsi il capo si fonda su basi ontologiche,

nell’Islam il suo uso, almeno nella fase iniziale, fu dettato da esigenze di ordine sociale e civile. Nel Corano tale prescrizione non è mai di ordine religioso e mai assume il significato di sottomissione della donna all’uomo, ma serve semplicemente a indicare, a evidenziare e rendere ben riconoscibile il suo rango sociale e metterla cosí al riparo dalle molestie maschili. Va preliminarmente precisato che i riferimenti nel Corano al velo sono pochissimi e il termine con cui esso viene designato, hijab, copre un campo semantico ben piú ampio. Il termine sta a significare la «cortina» o «riparo», dietro il quale sono avvenute la Rivelazione di Allah e la recita della parola sacra al suo inviato. Esso rappresenta, inoltre, la barriera che impedisce al credente di vedere Allah durante la dicembre

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A sinistra miniatura raffigurante la raccolta delle banane, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto particolare di una miniatura da un manoscritto arabo raffigurante due donne che discorrono. XV sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo del Escorial. In basso Le nozze del profeta Maometto con la sua prima sposa Khadija, particolare di una miniatura di Lutfi Abdullah dal Siyer-i Nebi. XVI sec. Istanbul, Museo del Serraglio del Topkapi.

rivelazione: «Non è dato all’uomo che Allah gli parli, se non per ispirazione o da dietro un velo, o inviando un messaggero che gli riveli, con il Suo permesso, quel che Egli vuole» (XLII, 51); o la cortina con cui Maria, la madre di Gesú, si mise al riparo dagli sguardi indiscreti della propria gente: «Tese una cortina tra sé e gli altri. Le inviammo il Nostro Spirito che assunse le sembianze di un uomo perfetto» (XIX,17). Lo ritroviamo come barriera escatologica che separa i dannati dai beati nel giorno del Giudizio: «E tra i due vi sarà un velo e sull’Arâf uomini che riconoscono tutti per i loro segni caratteristici. E grideranno ai compagni del Giardino: “Pace su di voi!”, senza potervi entrare pur desiderandolo» (VII, 46). In senso ancora piú generale, esso sta a indicare il «velo» della notte che avvolge il sole al tramonto: «In verità ho amato i beni [terreni]

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costume e società il velo Fra politica e ideologia

Simbolo di lotta e rivoluzione Una tappa cruciale nella trasformazione del velo tradizionale in simbolo femminile dell’Islam è rappresentata dal colonialismo: il tentativo di «civilizzazione» attuato dalle potenze occidentali passò infatti anche attraverso l’abolizione del velo, rendendolo involontariamente uno strumento identitario e inducendo persino le femministe a schierarsi contro il divieto di indossarlo. Questo capo di abbigliamento divenne un elemento cruciale nella complessa negoziazione fra le identità religiose e culturali musulmane e quelle occidentali e strumento visibile da opporre all’occidentalizzazione forzata e all’imitazione dei costumi e dei modelli culturali che si volevano imporre. Nel 1936, in Persia, lo scià Reza Palhavi aveva emanato un decreto con cui si vietava alle donne di indossare il chador e ogni altro copricapo femminile, a eccezione dei cappelli di foggia occidentale, rendendolo cosí simbolo della ribellione all’autorità dello Stato. Nel 1979, con il rovesciamento del regime dello scià, in seguito alla rivoluzione sciita khomeinista, l’adozione del chador da parte delle donne rappresentò un momento di identificazione In alto particolare di una miniatura raffigurante una donna turca, velata. XVIII sec. Istanbul, Biblioteca del Serraglio del Topkapi. A destra particolare di una miniatura persiana raffigurante una donna con il burqa. XIX sec. Londra, Victoria and Albert Museum.

piú che il Ricordo del mio Signore, finché non sparí [il sole] dietro il velo [della notte]» (XXXVIII, 32), o ancora, e in senso mistico, è il buio che ottenebra il cuore e i sensi degli empi: «I nostri cuori sono avviluppati [in qualcosa che li isola] da ciò cui ci inviti, e c’è un peso nelle nostre orecchie. C’è un velo tra noi e te» (XLI, 5).

Le nozze del Profeta

Il testo sacro islamico non ne impone l’adozione da parte della donna, ma si limita a raccomandare che il suo corpo non sia sconvenientemente scoperto, ed è pertanto inteso come un indumento indossato per tutelare il pudore femminile. In genere, si fa risalire la rivelazione dell’hijab alla sura XXXIII,

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53, versetto che storicamente fa riferimento alla festa di nozze tra Maometto e Zaynab, nell’anno 5 dell’Egira, e che allude esplicitamente a un problema verificatosi la sera delle nozze. Durante la festa, il Profeta fu molto infastidito dalla prolungata presenza degli ospiti che si attardavano a parlare con la sua sposa, ma, avendo troppo pudore per licenziarli e per reclamare la sua intimità, si ritirò nella stanza nuziale, dove pronunciò i versetti divini che segnarono la discesa del hijab, per rimettere ordine nelle relazioni tra le sue mogli e gli uomini che frequentavano la sua casa: «O voi che credete! Non entrate negli appartamenti del Profeta senza permesso (…) E quando domandate un oggetto alle sue spose, domandatelo restando dietro una tenda: questo servirà meglio alla purità dei vostri e dei loro cuori» (XXXIII,53). La discesa del hijab assume cosí una funzione normativa dei comportamenti da tenere nei confronti del Profeta e del suo hadicembre

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popolare alla lotta, e non indossarlo equivaleva ad accettare la corruzione, l’ingiustizia e l’acculturazione imposta dal nemico. Anche in Algeria, dove le autorità coloniali francesi avevano promosso campagne contro il suo uso, secondo canoni emancipazionistici europei, il velo diventa per le donne impegnate nella guerra di liberazione il simbolo della loro volontà contro l’assimilazione, e il suo divieto a indossarlo l’ennesimo sopruso da parte dell’occupante. In Turchia, invece, la repubblica kemalista, in nome della modernizzazione – che doveva avvenire a partire da una riforma dei rapporti di genere –, vietò alle donne di indossare il velo nelle istituzioni pubbliche, visto come ostacolo alla laicizzazione e all’ammodernamento dello Stato. In Egitto, nessuna legge è mai riuscita a vietare del tutto il velo, nonostante i diversi tentativi, anche recenti, in tale direzione; all’inizio del XX secolo il suo uso si era gradualmente ridotto, almeno fino alla metà degli anni Settanta, quando si è avuta un’inversione di tendenza in seguito alla crescita di gruppi politici islamici, come quello dei Fratelli musulmani. La questione è stata oggetto di discussione, nel corso del Novecento, in tutto il mondo islamico, dove fondamentale è stato il lavoro portato avanti dalle femministe musulmane e dai partiti politici, come, per esempio, in Tunisia, dove la federazione socialista, a partire dal 1924, ha intrapreso una vera campagna contro il velo, anche con la partecipazione di alcune donne. rim, prima e dopo la sua morte, come si può leggere nei versetti immediatamente successivi: «Non è lecito offendere il Messaggero di Dio, né sposare le sue mogli mai, dopo di lui. Ciò sarebbe presso Dio un’enormità». Ciò dimostra che i versi della discesa del hijab non avrebbero validità universale, ma investono solo le mogli del Profeta, poiché le vedove musulmane sono autorizzate dal Corano a risposarsi e a scegliersi liberamente il marito. Infatti l’espressione «darabat al-hijab», cioè «ella mise il velo», ai tempi di Maometto era sinonimo di «sposò il Profeta»; e solo le mogli di Maometto, infatti, potevano portare il velo affinché si distinguessero dalle altre donne, in particolare dalle concubine, e fossero particolarmente rispettate dai fedeli. Alla disposizione precedente se ne aggiunse un’altra che ne sanciva il rango sociale e l’inviolabilità, in quanto musulmane: «O Profeta! Dí alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti che si coprano con i loro veli; sarà il modo migliore per distinguerle dalle altre e per evitare che subiscano offese» (XXXIII,59).

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Miniatura persiana raffigurante una giovane donna. XVII sec. Istanbul, Biblioteca dell’Università.

Il Corano non impone l’uso del velo per coprirsi il volto, come comunemente si crede e come erroneamente sostengono i detrattori dell’Islam, ma si limita a dettare norme di comportamento e di atteggiamento pudico e morigerato da parte delle mogli del Profeta e delle donne in generale, in particolare alla presenza di estranei: «E dí alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quel che di fuori appare, e si coprano i seni di un velo» (XXIV, 31).

Una comunità in crisi

Furono alcuni fattori storici e sociali a determinare l’imposizione del velo a tutte le donne islamiche e la sua connotazione negativa di sottomissione e di dipendenza. La neonata comunità islamica attraversava una forte crisi sociale, militare e morale, e per evitare che potesse spaccarsi, minando cosí il progetto

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costume e società il velo l’islam e i suoi veli

Un mosaico di forme e colori Nel 1989, a Creil, in Francia, l’espulsione dalla scuola di tre ragazze musulmane che indossavano il velo fa scoppiare l’affaire du foulard. Sette anni piú tardi, ancora in Francia, nel novembre del 1996, ventitré ragazze musulmane vengono espulse dalle rispettive scuole in seguito a una decisione del Consiglio di Stato, fino ad arrivare all’approvazione, nel 2004, di una legge che vieta «segni o tenute» religiosi nella scuola pubblica primaria e secondaria. È del marzo 2017, infine, la delibera delle Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in risposta a due ricorsi di Belgio e Francia, in cui si stabilisce che non costituisce discriminazione il divieto da parte delle aziende private alle loro dipendenti di indossare indumenti che siano «segni religiosi», come il velo islamico. Le inchieste che hanno fatto seguito a questi e ad altri casi, indagando le motivazioni individuali delle ragazze che scelgono liberamente di «velarsi», hanno evidenziato la complessa e ambivalente polisemicità del hijab, smentendo l’interpretazione che lo vuole unicamente come segno di sottomissione al potere patriarcale e strumento discriminante da parte degli integralisti musulmani. Anzi, spesso esso viene visto da chi lo indossa come un segno di emancipazione e di modernizzazione, come un tentativo di distinguersi e di prendere le distanze dalla generazione dei propri genitori, i quali, nel tentativo di assimilazione e di accettazione, hanno rinunciato a ogni indizio esteriore della propria diversità. Parole come hijab, niqab, burqa, chador sono ormai entrate a far parte del linguaggio comune, principalmente nella loro valenza negativa e discriminante, ma spesso se ne ignora il reale significato; cosí come si ignora l’esistenza di una pluralità di veli nel mondo islamico, il cui significato può declinarsi a seconda delle interpretazioni dei testi sacri, dell’origine geografica delle donne e dei gusti personali. Per esempio, l’hijab è un ampio foulard, che cela orecchie, nuca e capelli, e può essere di diversi colori. Il chador, perlopiú di colore nero, è il velo imposto in Iran dalla rivoluzione khomeinista del 1979, e formato da una stoffa semicircolare che ricopre il capo e le spalle e arriva fino a terra, lasciando scoperto il viso, e di solito indossato su altri indumenti quando si esce di casa. Il niqab, anch’esso generalmente nero, è il velo di tessuto leggero, con cui la donna musulmana copre il viso, lasciando scoperti solo gli occhi. Piú simile a un capo di vestiario che a un velo, è il jilbab, termine anch’esso generico, ma che oggi designa una sorta di soprabito, a maniche lunghe, che copre interamente il corpo fino alle caviglie. Tipico dell’Afghanistan è il burqa, telo ampio e lungo, generalmente di colore azzurro, traforato all’altezza degli occhi, che copre tutta la figura, compreso il volto, dalla testa fino ai piedi. La maggior parte delle donne musulmane che provengono dalla Turchia tendono a indossare lunghi soprabiti e un foulard (un velo), oppure un carsaf, abito nero che assomiglia molto al chador. E si può continuare con il pardeh indiano e pachistano, il milayat libico, l’abaya iracheno, oppure il khimar, un grande velo indossato sia in Oriente che in Occidente, che la donna porta sulla testa a coprire i capelli, il collo e il petto, a eccezione del viso.

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di costruzione di uno Stato islamico forte e potente, Maometto dovette scendere a compromessi con gli alleati e gli avversari politici. Grosse concessioni all’opposizione patriarcale e al suo principale rappresentante, il futuro califfo ‘Umar – noto per la sua intransigenza e per la sua misoginia –, si ebbero soprattutto nel campo dei diritti femminili.

Una svolta epocale

Nei primi anni della comunità islamica, le donne cominciano a godere di diritti impensabili fino ad allora; il Corano abolisce la pratica dell’infanticidio femminile, a causa dei costi della dote, molto diffusa nell’Arabia preislamica, e condanna il concetto di impurità che circonda la donna. Inoltre, esso disciplina il suo ruolo in ambito familiare e matrimoniale, sottraendola cosí ad abusi e violenze, eliminando la forma matrimoniale preislamica, equiparata a una vera e propria compravendita, e stabilendo l’inalienabilità della dote dicembre

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Damasco. Donne velate da capo a piedi nel cortile della Grande Moschea degli Omayyadi.

fiqh, il diritto musulmano, sviluppatosi verso il IX secolo intorno a quattro scuole, interpretando il Corano e gli hadith in maniera strumentale alla loro visione patriarcale della società, ignorando o reinterpretando i passi in cui poteva scorgersi un’apertura o un atteggiamento liberale nei confronti delle donne, e rendendo legge quelli dal carattere piú repressivo, vanificando cosí il messaggio sostanzialmente egualitario della Rivelazione.

Idee oscurantiste

anche in caso di divorzio, in quanto possesso personale. Un apporto significativo all’identificazione del velo quale simbolo di sudditanza e di reclusione delle donne venne, invece, dalle raccolte di fatti e detti attribuiti al Profeta, noti come hadith, ovvero l’insieme di tradizioni che forniscono chiarimenti sull’interpretazione delle prescrizioni sui costumi e sulla morale della società musulmana all’epoca del califfato. Questa letteratura, oggetto di selezione, analisi e interpretazione da parte degli uomini, si è rivelata a lungo andare, ancora piú del Corano, quasi esclusivamente l’unico strumento per avallare ogni sorta di provvedimento adottato contro le donne, per giustificarne l’oppressione, l’obbligo di portare il velo e la loro segregazione. A universalizzare l’imposizione discriminatoria del velo femminile ha contribuito nel corso dei secoli anche la giurisprudenza islamica medievale, in particolar modo il

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Tra i piú celebri rappresentanti di questa oscurantista e misogina giurisprudenza islamica troviamo Ibn Al-Jawzi (1126-1201), che proponeva una vita da recluse per le donne, e Ibn Taymiyya (1263-1328), il quale, per le sue posizioni radicali, è considerato tutt’oggi una figura di riferimento del cosiddetto fondamentalismo islamico. Nel suo scritto Il velo della donna e il modo in cui si deve vestire per la preghiera, questi ricorre a una mitologia del velo come espressione della «purità della donna», degradando il sesso femminile ad anonimo e mero oggetto sessuale, e in ultima istanza a nonpersona. Egli sostiene la necessità per ogni donna musulmana di coprirsi completamente con un velo, soprattutto quando esce di casa o incontra un estraneo, in modo che non si possano vedere né capelli, né volto, né occhi, e affinché il suo corpo non causi discordia o pericolo in seno alla comunità. Negli anni in cui scriveva Ibn Taymiyya, il mondo arabo-islamico era già sulla strada della decadenza, e di quella cultura tollerante che aveva caratterizzato l’Islam delle origini restava solo il ricordo. La storia del velo nella religiosità cristiana e in quella islamica procede per molti versi in maniera

parallela, ma non priva di paradossi. Nonostante l’aspetto ontologico e dottrinale che la Chiesa, con i suoi reiterati sforzi, ha cercato di conferire al velo, l’obbligo di indossarlo non ha conosciuto nei secoli sviluppi culturali significativi; le donne si coprivano il capo, e questo fino a tempi recenti anche nelle nostre culture contadine, piú per un’usanza diffusa, per una questione di praticità, che per una reale consapevolezza di ciò che esso stava a simboleggiare. Al contrario, nell’Islam delle origini – dove indossare il velo è un fatto culturale, di circostanze, e non religioso –, il suo sviluppo storico all’interno della giurisprudenza e delle società musulmane ha fatto sí che venisse erroneamente considerato quasi un pilastro di quella dottrina, diventando un emblema e uno strumento coercitivo nei confronti delle donne.

Da leggere Erdmute Heller, Hassouna Mosbahi,

Dietro il velo. Amore e sessualità nella cultura araba, Laterza, Roma-Bari 1996 Giorgio Vercellin, Tra veli e turbanti. Rituali sociali e vita privata nei mondi dell’Islam, Marsilio, Venezia 2000 Alessandro Aruffo, Donne e Islam, Datanews, Roma 2001 Renata Pepicelli, Il velo nell’Islam, Carocci, Roma 2012 Maria Giuseppina Muzzarelli, Maria Grazia Nico Ottaviani, Gabriella Zarri (a cura di), Il velo in area mediterranea fra storia e simbolo, il Mulino, Bologna 2014 Bruno Nassim Aboudrar, Come il velo è diventato musulmano, Raffaello Cortina, Milano 2015 Maria Giuseppina Muzzarelli, A capo coperto. Storia di donne e di veli, il Mulino, Bologna 2016 Giulia Galeotti, Il Velo. Significati di un copricapo femminile, EDB, Bologna 2016

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reliquie velo della madonna

Per tessere la devozione di Elisabetta Gnignera

Ad Assisi, nella basilica di S. Francesco, si custodisce un velo che la tradizione attribuisce alla Vergine e che viene perciò considerato come una reliquia degna della massima venerazione. Tessuto a mano con bisso marino – e, dunque, particolarmente prezioso –, proprio in questi giorni verrà solennemente esposto, in occasione della festa dell’Immacolata Concezione

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onservato nella Chiesa Inferiore della basilica di S. Francesco ad Assisi e visibile soltanto due volte l’anno in occasione delle due principali feste mariane dell’Immacolata (8 dicembre) e dell’Assunta (15 agosto), il cosiddetto «Velo della Madonna» di Assisi riveste una notevole importanza non soltanto come oggetto di devozione ma anche quale sopravvissuto testimone di una cultura materiale antichissima, perché realizzato con bisso marino intrecciato a mano. Se, infatti, di bisso di seta (e non marino) si può parlare nel caso della reliquia nota come «Velo della Vergine» conservata nella Cattedrale di Chartres, esattamente di bisso marino (vedi box a p. 64) occorre parlare per il Velo di Assisi, al quale la reliquia di Chartres viene spesso accostata. Chiamato

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Padova, Cappella degli Scrovegni. Fuga in Egitto, particolare della scena dal ciclo di affreschi con le Storie di Cristo, realizzato da Giotto tra il 1303 e il 1305. La Vergine tiene a sé Gesú servendosi di un drappo annodato a mo’ di fascia-contenitore e che, in questo caso, non può essere assimilato al velo conservato ad Assisi.

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reliquie velo della madonna l’oro del mare, il bisso è caratterizzato da riflessi dorati, quali quelli ben visibili, appunto, nella reliquia custodita ad Assisi, che si crede sia appartenuta alla Vergine Maria.

Per grazia ricevuta

La tradizione narra che, nell’anno 1320, la basilica di S. Francesco fu arricchita di un tesoro inestimabile: il velo della Madonna offerto da Tommaso degli Orsini, nobile romano, che lo ebbe dal pascià di Damasco, il quale l’aveva a sua volta sottratto da una chiesa di Gerusalemme. Tornato in Italia e ridotto in fin di vita da una grave infermità, Tommaso fece voto al santo assisiate, tradizionalmente venerato dalla sua famiglia, e, ottenuta una guarizione miracolosa, venne ad Assisi dove, davanti all’altare del santo, offrí ai frati la veneranda reliquia. La vicenda è narrata tra l’altro nella Storia d’Asisi di Antonio CriIn alto Chartres, cattedrale di Notre-Dame. Il reliquiario che custodisce il velo in seta che proverrebbe dalla camicia della Vergine annunciata. XIV sec. A sinistra Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore. Due cavalieri riccamente abbigliati raffigurati in un particolare dalla Crocefissione di Pietro Lorenzetti 1320-1322.

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Il Velo della Madonna venne donato dal nobile romano Tommaso degli Orsini, il quale lo aveva a sua volta ricevuto dal pasciĂ di Damasco

Il reliquiario che custodisce il velo in bisso che si ritiene essere appartenuto alla Vergine. 1604. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore.

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reliquie velo della madonna il bisso

La seta di mare

A sinistra un esemplare di mollusco bivalve della specie Pinna Nobilis nel suo ambiente naturale. In basso, a sinistra ciuffo di filamenti provenienti da un esemplare di Pinna nobilis pulito e pettinato prima del taglio del peduncolo.

Senza entrare nell’annoso e ancora vivace dibattito, sulla etimologia del termine «bisso», usato nell’antichità per indicare un tessuto extra-fine di lino, cotone, o, piú raramente, seta, ci soffermeremo sulle caratteristiche del bisso marino a cui, a partire dal XVI secolo fu dato, per analogia, lo stesso nome dell’antico bisso. Per il bisso marino, le fonti antiche parlano di «lana del mare»: cosí è per lo scrittore greco Alcifrone, vissuto probabilmente nel II secolo d.C., e per Tertulliano (155-230 d.C.), il quale scrive: «Come se quasi non bastasse, piantare e coltivare le tuniche, capita perfino che gli indumenti si possano pescare. Infatti, pure dal mare vengono ricavati fiocchi di lanuggine abbastanza soffice, i quali formano la chioma di certe muscose conchiglie» (De Pallio III,6). Del resto, la dicitura «pelo di nacchera» per indicare il bisso del mare, è sopravvissuta fino ai nostri giorni, in quanto il bisso marino è di fatto un ciuffo di lunghi filamenti simili a seta, attraverso cui alcuni molluschi bivalvi quali pinna (la nacchera o cozza) e mitilo, si ancorano alle rocce o al terreno. Il bisso marino per antonomasia è però quello derivato dalla Pinna nobilis, che veniva raccolto insieme al guscio per produrre la «seta di mare» sin dai tempi piú antichi. La produzione di bisso marino è laboriosa e passa tramite molte fasi: dopo aver raccolto i filamenti, il bisso deve essere pulito e pettinato piú volte, messo a macerare nel succo di limone e infine filato a mano. Per ottenere 1 kg di filamenti grossolani e produrre 200300 grammi di bisso marino, ci vogliono fino a 1000 conchiglie: è per questo che i manufatti derivati dal bisso sono sempre stati considerati prodotti di lusso e, fin dall’antichità, appannaggio di nobiltà e clero.

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stofani, il quale cosí riporta i fatti nel XIX secolo: «Non voglio tacere, che nell’anno seguente 1320 fu questa città arricchita d’un tesoro inestimabile, cioè del velo di nostra Donna, non tolto, come usavasi di que’ tempi, a qualche terra espugnata, bensí offerto in dono alla basilica di S. Francesco da Tommaso degli Orsini. Narrano alcuni scrittori delle cose nostre, benchè a dir vero alquanto posteriori al secolo XIV, che militando egli in levante, lo avesse dal Bascià di Damasco suo prigione di guerra, che con altre prede avevalo tolto dalla chiesa di Gerusalemme, dove era da’ cristiani custodito con singolarissima religione. E tornandosi con esso in Italia, ed essendo per una infermità sopravvenutagli condotto allo stremo della vita, fe’ voto di farne presente alla chiesa di s. Francesco, del quale era nella famiglia sua ereditaria la divozione. Dopo di che, ricuperata fuor d’ogni speranza de’ medici la sanita, venne, come avea promesso, in Asisi

il giorno 11 di marzo, e dinanzi 1’altare del santo presentò di questa veneranda reliquia i frati minori, i quali insino al presente con ispecial culto 1’hanno custodita. Ne mancò Iddio d’illustrare col lume de’ miracoli la fede posta da’ cittadini in questo velo».

Come un nobile cavaliere

Immaginiamo Tommaso degli Orsini vestito come uno dei nobili cavalieri che Simone Martini e Pietro Lorenzetti dipinsero negli stessi anni dei fatti narrati (1312-1322), proprio nella Chiesa Inferiore di Assisi nella grandiosa scena della Crocefissione alla base della volta sulla parete sinistra e nella Cappella di S. Martino. Il primo reliquiario donato appunto da Tommaso degli Orsini nel 1320 è ricordato ancora nell’inventario del 1430. A esso venne sostituito l’attuale, nel 1604, per opera del cardinale Alessandro Peretti da Qui sotto particolare ingrandito di un velo Montalto, alla cui parente Camilla di bisso marino, in cui si può notare la Peretti era stata concessa la Cappelstruttura a rete annodata. Assisi, basilica la di S. Giovanni Battista, perché vi di S. Francesco, Chiesa Inferiore. fosse conservata la reliquia. L’attuale teca, contenente il lembo superstite del velo – che misura qualche decina di centimetri quadrati –, corredato da un cordone dai riflessi verdastri e nappe, non è collocata nella posizione originaria, sempre nella Chiesa Inferiore di S. Francesco, ma forse nella Cantoria dei Nepis, una cappella nel nartece. Si ricordi anche che san Giuseppe da Copertino (1603-1663), vissuto per molti anni nel Sacro Convento di Assisi e celebre per i suoi rapimenti mistici, andato in estasi, chiese alla Madonna se quello di A sinistra un Assisi fosse realmente il velo da essa esemplare Pinna portato; alla domanda del santo, la Nobilis in secco in Vergine avrebbe cosí risposto: «Crecui si può osservare dimi, figlio, quello è il mio velo, e mi seril ciuffo di filamenti ví per avvolgere il Bambino Gesú». di bisso protundente Tale leggenda sarebbe sorprendal piede. dentemente compatibile con i dati tecnici resi noti in una recente intervista televisiva da Chiara Vigo, «Maestro del Bisso» e ormai nota

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per essere l’ultima depositaria di un antico sapere detenuto dalla sua famiglia a Sant’Antioco nel Sulcis, un’isola collegata alla Sardegna da un ponte di epoca fenicia e da un istmo artificiale dove da sempre Chiara vive, pescando la Pinna nobilis e lavorando il bisso marino. Chiara apprende l’arte della filatura e tessitura del bisso dalla nonna Leonilde Mereu, a sua volta allieva di Italo Diana (1890-1967), fondatore della locale «scuola di tessitura del bisso» di Sant’Antioco, e sperimenta con successo una nuova tecnica di utilizzo della fibra prodotta dalla Pinna nobilis, ricavata senza uccidere i molluschi per poi reimpiantarli sui fondali, una volta tolti i filamenti. Dal punto di vista tessile e della manifattura, secondo Chiara Vigo, il manufatto di Assisi sarebbe compatibile di fatto con un’antichissima provenienza orientale, cosí come avveniva per drappi simili realizzati in vista del matrimonio e della nascita di un figlio, in quanto il velo di Assisi non è costruito sul telaio, bensí a mano, su una struttura a rete annodata: tecnica precedente all’uso del telaio e dunque molto arcaica, e utilizzata, fra l’altro, per le coperte dei bambini in Mesopotamia.

Prima del telaio

Tali strutture tessili a rete potevano essere trasportate a spalla, inserendo alcuni bastoncini all’interno dei bordi esterni per facilitarne il trasporto. Essendo la trama del velo di Assisi molto fitta, si presuppone che ad annodare il velo siano stati bambini o fanciulle dalle dita sottili. Del resto, filatura e tessitura erano attività educative di prassi nell’antichità per le giovani donne e anche nella Bibbia «moglie capace» è descritta quale colei che «stende la sua mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso» (Proverbi 31:10, 19). In quanto all’uso, per cosí dire, «ambulante» di drappi e tessuti usati per proteggere e contenere i bam-

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reliquie velo della madonna A sinistra Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore, cappella di S. Martino. San Martino divide il suo mantello con un mendicante, particolare dell’affresco di Simone Martini. 1315. In basso Adorazione dei Magi, particolare della decorazione di una copertura di evangelario nota come Dittico delle cinque parti. Produzione ravennate, fine del V sec. Milano, Tesoro del Duomo.

a seconda dell’uso, e riferibili a un gusto mediorientale. In ogni caso, la scena citata ci porta alla mente la pratica necessità di popoli costretti a spostamenti dalla condizione di nomadi o da contingenze improvvise, come accade alla famiglia di Nazareth, di poter disporre di tessuti facilmente trasportabili, resistenti e in grado di conservarsi nel tempo: qualità di cui certamente dispone il velo di Assisi il cui eccezionale stato di conservazione è dovuto, secondo Chiara Vigo, alle proprietà del bisso: «Fibra quasi indistruttibile, capace di resistere all’umidità naturalmente, provenendo dalle profondità marine». Di tale eccezionale resistenza recava testimonianza un frammento tessile, datato al IV secolo e trovato nel 1912 nella tomba di una donna della città romana di Aquincum (l’odierna Budapest), purtroppo bini, è possibile trovare rare reminiscenze in sporadiche raffigurazioni tra le quali citiamo la Fuga d’Egitto di Giotto di Bondone nella Cappella degli Scrovegni di Padova (13031305), dove la Vergine trattiene a sé Gesú, attraverso un drappo annodato a modo di fascia-contenitore (vedi foto alle pp. 60/61). Ovviamente non si tratta in questo caso di un velo con struttura a rete annodata come quello di Assisi, ma di quei tessuti genericamente «orientali», la cui tipologia ricorrente mostrava appunto decorazioni ad listas, ad virgas e ad barras, ossia in righe verticali o bande orizzontali, su basi piú o meno consistenti

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andato disperso insieme a tutta la documentazione di scavo, durante la seconda guerra mondiale. Di bisso di seta – nell’accezione di fine drappo serico – tessuto in Oriente tra il I e il III secolo d.C., occorre parlare invece per la preziosa reliquia tessile arrivata a Chartres nell’876, come dono di Carlo il Calvo, ereditato da suo nonno Carlo Magno, il quale la ebbe, a sua volta, dall’imperatrice Irene di Bisanzio. Il tessuto originario, miracolosamente scampato a un incendio nel 1194, misurava 5,35 x 0,46 m, ma, nel 1793, fu tagliato in varie porzioni, poi messe in vendita, riducendosi significativamente la lunghezza del tessuto superstite agli attuali 2 m circa. Secondo la tradizione, il velo di Chartres costituirebbe la camicia che Maria portava al momento dell’Annunciazione, quando concepí il Verbo; nell’impossibilità di verificare storicamente l’ipotesi, ci rivolgiamo alle visioni della mistica tedesca e beata Anna Katharina Emmerick (1774-1824), la quale, nel descrivere la veste nuziale di Maria, narra come questa fosse «una veste larghissima azzurra senza maniche, le braccia erano coperte con le bende di lana bianca della camicia; allora le camicie non avevano le maniche ma solo bende penzolanti».

Dunque, secondo la mistica, le camicie erano al tempo costituite da bende e senza maniche, e la Vergine appare abbigliata con una lunga veste di lana nel giorno della Annunciazione, dettagliatamente descritto con queste parole: «La stanzetta di Maria si trovava accanto al focolare e vi si entrava dalla cucina. La Vergine vi entrò e indossò una lunga veste di lana, poi si preparò alla preghiera coprendosi il capo con un lungo velo color giallo pallido. Si era tolta il velo nero che si abbassava sul volto quando parlava agli uomini».

I doni dei re sapienti

Significativi appaiono la descrizione del lungo velo giallo pallido della Vergine e alcuni nessi individuabili tra la natura dei tessuti delle due reliquie e le visioni che la beata Emmerick riferisce ai doni che i re sapienti recarono durante la loro seconda visita alla Sacra Famiglia nella grotta di Betlemme: «La sera vidi Mensor [uno dei tre re sapienti, n.d.a.] entrare nella grotta per il commiato, Maria gli porse il Santo Pargoletto tra le braccia; vidi il Re raggiante di gioia. Dopo Mensor, seguirono gli altri due che si accomiatarono piangendo di commozione. In quest’occasione, essi fecero alla Sacra Famiglia nuovi doni: molti pezzi di stoffa grezza, dei panni rossi e a

fiorami, bellissimi tappeti, e vi lasciarono perfino gli ampi e finissimi mantelli; (…) I Magi, nel congedarsi definitivamente dalla Madonna e dal Bambino, piansero commossi. La Santa Vergine, frattanto, era rimasta in piedi dinanzi a loro e teneva il Bambino fra le braccia avvolto in un velo. Ella accompagnò per alcuni passi i Santi Re verso l’ingresso della grotta, poi si fermò e diede a Mensor il sottile velo di stoffa color giallo che portava sul capo, affinché questi potesse avere un ricordo dell’avvenimento. Inchinatosi riverenti, i Magi accettarono con gioia quel dono prezioso della Madonna, mentre il cuore batteva dentro di loro gonfio di riconoscenza e di santo timore. Da quel momento il velo fu per loro la reliquia piú sacra conservata gelosamente». Al termine di questo viaggio fra le «trame della devozione», ci piace pensare che il drappo di Chartres possa essere uno dei finissimi tessuti che i re donarono alla Sacra Famiglia di Nazareth, e che il velo di Assisi sia invece proprio ciò che rimane del velo donato dalla Vergine al re Mensor quando, nella visione della mistica tedesca, i re d’Oriente si accomiatarono da Maria, commossi dalla eccezionalità dell’evento cui furono chiamati da Dio come testimoni di fronte alla storia degli uomini. F

Da leggere Antonio Cristofani, Storia della Città di Asisi, in Delle storie di Asisi, libri sei, Tipografia di Domenico Sensi, Assisi 1866; libro Terzo: pp.123-124 Vincenzo Noja (a cura di), La vita della Madonna secondo le contemplazioni della beata stigmatizzata Anna Caterina Emmerick, Editrice Ancilla, Conegliano (TV) 1997 Elisabetta Gnignera, Vergini, spose, vedove. Stati sociali e acconciature femminili nell’Italia del Quattrocento, Amazon Editions (ebook e a stampa) 2017

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luoghi jesi

La nostra

di Furio Cappelli

Betlemme Una fredda notte di dicembre, una grande tenda a fare da ricovero, i primi vagiti di un neonato: sembra un presepio vivente e invece è lo scenario in cui, secondo la tradizione, Federico II di Svevia sarebbe venuto alla luce, in una piazza di Jesi. Se forse leggendario è il racconto, è invece storicamente indiscusso il legame fra lo Stupor mundi e la città marchigiana. Che ora celebra questo suo figlio illustre con un nuovo e suggestivo museo multimediale

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el 1239 era in atto lo scontro frontale tra papa Gregorio IX (1227-1241) e l’imperatore Federico II di Svevia (1220-1250), scomunicato dal pontefice per la seconda volta. Per tutta risposta, lo Svevo voleva riconfermare la propria autorità sui territori di pertinenza imperiale che la Chiesa aveva compreso nei confini del proprio Stato: uno Stato della Chiesa che aveva ormai assunto una fisionomia precisa, soprattutto grazie all’impegno di Innocenzo III (1198-1216), il papa alle cui cure Federico era stato affidato in tenera età. L’imperatore si avvaleva sul campo dell’impegno del figlio Enzo, nominato l’anno prima re di Sardegna sempre a scorno di papa Gregorio (l’isola era infatti considerata un feudo della Chiesa romana), e l’obiettivo primario dell’azione era costituito da due distretti, i cui ambiti ricadevano nell’orbita del Sacro Romano Impero sin dall’epoca di Carlo Magno: la Marca di Ancona e il ducato di Spoleto, che corrispondono in larga parte alle attuali regioni Marche e Umbria.

L’ingresso di Federico II a Jesi, sipario dipinto da Luigi Mancini per il Teatro Pergolesi di Jesi (Ancona). 1855 circa. L’opera è ispirata alla tradizione storica locale, che attestava una trionfale visita del sovrano nella città marchigiana nel 1216.

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Una lettera accorata

Alle manovre delle truppe si affiancava il notevole impegno sul piano diplomatico. Federico scrisse a diverse città, confidando sulla loro adesione ai propri piani, e si rivolse con toni del tutto particolari a Jesi, una cittàcardine nel cuore della Marca, non lontana dall’attuale

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luoghi jesi Una paternità discussa

Fi de becer diabele! Sulla nascita di Federico II di Svevia le malelingue dovettero sbizzarrirsi con facilità, nutrendo dubbi e fornendo ricostruzioni «veritiere» dei fatti a dispetto delle versioni ufficiali. Il francescano Salimbene de Adam (1221-1288) raccoglie con scrupolo una diceria secondo cui Federico era in realtà un figlio di un macellaio di Jesi, posizionato al momento giusto sotto le vesti della puerpera per la messinscena della sua nascita. Il frate dichiara senza mezzi termini che le donne si comportano spesso con questa disinvoltura. I parti finti, insomma, sono una loro specialità! Salimbene chiama inoltre due ulteriori «fatti» a sostegno di questa versione. Mago Merlino avrebbe parlato a proposito di Federico di una nascita «insperata e miracolosa». Infine, Giovanni di Brienne, suocero di Federico, apostrofò un giorno lo Svevo, nel corso di un diverbio, chiamandolo nel «suo» francese «Fi de becer diabele!» («Tu diavolo, figlio di un beccaio!», ossia macellaio). Una ricostruzione dell’evento piuttosto artificiosa è registrata poi in modo meticoloso dal cronista tedesco Alberto di Stade,

Miniatura raffigurante la nascita di Federico II a Jesi, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

francescano anch’egli (già abate benedettino, morto nel 1264). Dopo avere asserito di essere certo che Federico è figlio di Enrico, alcune pagine dopo riferisce al riguardo su quelli che oggi definiremmo rumors, chiamandoli in causa come rumores ossia semplici dicerie (si riferisce infatti ai rumoribus). Stando a questa versione alternativa della vicenda, Federico non sarebbe figlio di Enrico nella realtà, ma solo a livello di chiacchiera (non... realem filium, sed vocalem). Preoccupato dell’eventualità che sua moglie potesse rimanere sterile, Enrico si rivolse ad alcuni medici, ed essi trovarono la soluzione. Gli fecero credere che Costanza fosse rimasta incinta, grazie ad alcuni farmaci che,

capoluogo costiero di Ancona, e posta a dominio della Vallesina (la valle del fiume Esino), una fascia territoriale storicamente nevralgica, tesa tra l’Adriatico e l’Appennino umbro-marchigiano, ricca di insediamenti e di risorse ambientali. Era una città tendenzialmente ghibellina, rimasta fedele agli Svevi anche all’epoca di Manfredi e Federico sapeva di poter contare sul suo appoggio. L’approccio della lettera è quasi intimistico, nella misura in cui lo consentivano la retorica e gli obiettivi propagandistici. Come si evince dalle parole stesse di Federico, Jesi era infatti la città in cui aveva visto la luce: «Se il luogo nativo per un impulso della volontà, secondo natura, è amato da tutti senza differenze di sorta, in modo speciale; se l’amore della patria natale conduce tutti con la sua dolcezza, e non permette di dimenticare che apparteniamo a

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una volta somministrati alla donna, avevano semplicemente ottenuto l’effetto di ingrossarle il ventre. Costanza, naturalmente, doveva essere a conoscenza di tutta questa macchinazione. Nel contempo, l’équipe medica si attrezzò per avere a disposizione un neonato qualsiasi da piazzare nel letto dell’imperatrice al momento stabilito per il finto parto. A tal fine furono individuate tre puerpere qualsiasi, e ne risultò, in definitiva, il dubbio di chi fosse il vero padre di Federico: uno scienziato, un mugnaio o un falconiere?

essa, Noi per la stessa ragione, per effetto naturale, siamo indotti ad abbracciare con intimo affetto Jesi, nobile città della Marca, insigne fondamento della nostra origine, dove la divina nostra madre ci ha dato alla luce, e dove il nostro esordio risplendette. Ne consegue che non si può estirpare quel luogo dalla nostra memoria, e che la nostra Betlemme, terra dell’imperatore e sua origine, rimane profondamente radicata nel nostro animo. Onde tu Betlemme, città della Marca, non sei la piú piccola tra i capoluoghi che fanno capo alla nostra stirpe. Da te infatti scaturí il condottiero e il principe dell’Impero romano, che reggerà e proteggerà il tuo popolo, e non permetterà che tu debba ancora sottostare a un governo ostile. Sorgi, dunque, prima patria e liberati dal giogo avverso! Provando pietà per via dei gravami che incombono su di voi e sugli altri nostri (segue a p. 75) dicembre

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In alto, a destra miniatura raffigurante Federico II in trono, da un’edizione del De arte venandi cum avibus. XIII sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Qui accanto e in alto, a sinistra Jesi. Una veduta d’insieme di piazza Federico II (l’antica Platea Sancti Floriani) e l’iscrizione commemorativa che ricorda la nascita dell’imperatore.

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luoghi jesi TUTTE LE TAPPE DI UNA PARABOLA STRAORDINARIA FEDERICO II

JESI

1184, 29 ottobre Viene reso pubblico il fidanzamento tra Enrico VI e Costanza d’Altavilla. 1186, 27 gennaio Nella basilica milanese di S. Ambrogio si celebra il matrimonio tra Enrico e Costanza. Federico Barbarossa nomina Enrico suo erede e coreggente. 1186, dicembre Enrico VI è presente a Jesi, dove sottoscrive due diplomi. 1190, 10 giugno Muore Federico Barbarossa. 1190, 18 novembre Tancredi di Lecce, nipote naturale di Costanza, viene incoronato re di Sicilia. 1191, 15 aprile A Roma si tiene l’incoronazione imperiale di Enrico e di Costanza. 1192, giugno Dopo essere stata presa in ostaggio da Tancredi, Costanza viene liberata. 1194, 20 febbraio Muore Tancredi di Lecce. Prima attestazione del Comune jesino 1194, maggio Il 12 maggio Enrico e Costanza partono da Trifels (Germania) alla volta della Sicilia. Dopo essere stati insieme a Milano diversificano il tragitto sul versante tirrenico (Enrico) e su quello adriatico (Costanza). 1194, 25 dicembre Enrico VI riceve a Palermo la corona di re di Sicilia. (Natale) 1194, 26 dicembre Costanza d’Altavilla si trova a Jesi e partorisce Federico II. (Santo Stefano) 1195, fine marzo Enrico e Costanza si ricongiungono a Bari. 1195, Pasqua La Curia regia si riunisce a Bari. Nell’occasione Costanza cinge la corona di Sicilia. 1197, 28 settembre Enrico VI muore a Messina in presenza della consorte. 1198, 17 maggio Federico II è incoronato re di Sicilia. 1198, 27 novembre Muore Costanza d’Altavilla. 1220, 22 novembre Federico II è incoronato imperatore. 1227, 10 ottobre Papa Gregorio IX scomunica lo Svevo per la prima volta. 1229, 18 marzo Federico II si incorona re di Gerusalemme. 1233, novembre Federico II dispone solenni festeggiamenti in tutto il Regno nel giorno di Santo Stefano per commemorare la propria nascita. 1234

Gregorio IX scomunica il podestà e il Consiglio cittadino di Jesi Giorgio da Como è all’opera sulla facciata della cattedrale.

1237 A novembre Federico II vince la battaglia di Cortenuova contro la Lega lombarda. 1239, 20 marzo Gregorio IX scomunica lo Svevo per la seconda volta. (Pentecoste) 1239, agosto Federico II indirizza una lettera alla città di Jesi.

Re Enzo conferisce un privilegio alla città di Jesi. 1239, ottobre 1245, 17 luglio Al concilio di Lione, papa Innocenzo IV scomunica e depone Federico II. 1247, dicembre Jesi è nello schieramento filosvevo durante la battaglia di Civitanova, che

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1248, febbraio Il 18 febbraio Federico II subisce la disfatta di Parma.

1250, 11 marzo 1250, autunno 1250, dicembre Il 13 dicembre Federico muore a Castel Fiorentino (Torremaggiore, in provincia di Foggia). 1258, ottobre

vede la sconfitta delle forze papali, nonché la cattura e l’uccisione del vescovo Marcellino Pete, legato pontificio. Il 13 febbraio il cardinale Raniero conferisce un privilegio alla città di Jesi, per premiare il suo ritorno all’obbedienza papale. Jesi conclude un’alleanza in funzione antisveva con le città di Ancona, Arcevia e Fabriano. Tornata su posizione filosveva, Jesi riceve su nomina federiciana il podestà Pietro di Aversa. Il federiciano Pietro di Aversa risulta ancora in carica in un atto stipulato a Jesi il 2 dicembre.

Durante la sua campagna militare nella Marca di Ancona, Manfredi ottiene l’appoggio della città di Jesi e ne conferma tutte le prerogative sul territorio. 1266, 13 gennaio 1266, 26 febbraio

Manfredi muore nella battaglia di Benevento.

Jesi compie atto di sottomissione nei riguardi del cardinale Simone, legato pontificio.

Sulle due pagine Jesi, Museo Federico II Stupor Mundi. Alcune immagini degli allestimenti e delle installazioni multimediali realizzate nelle sale di Palazzo Ghisleri.

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In alto ancora una veduta di piazza Federico II. Sulla destra, Palazzo Ghislieri, sede del Museo Federico II Stupor Mundi. A sinistra un primo piano dell’emblema della città di Jesi posto sulla facciata del Palazzo della Signoria. XV sec. Nella pagina, accanto, in basso particolare della fascia esterna della fioriera al centro di piazza Federico II, su cui corre un’iscrizione commemorativa dell’imperatore.

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tenenza al proprio luogo natio. Ma ciò che colpisce, e che fece gridare allo scandalo il filologo parigino Louis-Alphonse Huillard-Bréholles (1817-1871), primo editore della lettera (1857), è il ricorso piuttosto disinvolto (se non «temerario», secondo lo studioso) all’immagine stessa di Cristo. Dal momento che ha dato i natali a Federico, Jesi è infatti una «controfigura» di Betlemme, la città in cui Gesú è nato. Né manca una citazione dei Vangeli, quando la lettera asserisce la grandezza simbolica di Jesi, proprio in virtú dell’illustre pargolo. Il riferimento è a Matteo (2, 6), quando, alla venuta dei Magi, i sommi sacerdoti pronunciano al cospetto dell’allarmato re Erode una profezia di Michea (5, 1), che, nel Vecchio Testamento, suona cosí: «E tu, Betlemme di Efrata, cosí piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele». Proprio ascoltando questi versi il re si convince che è nato il Messia, e chiede ai Magi di avere notizie sull’esatto luogo in cui si trova, poiché intende adorarlo (le sue intenzioni, naturalmente, erano ben altre, ma i Magi non caddero nella trappola).

Il re come «vicario di Cristo»

fedeli, abbiamo infatti deciso di liberare voi e gli altri nostri fedeli, sia della Marca che del ducato di Spoleto, dall’oppressione di colui che ci oltraggia [papa Gregorio IX]. Dal momento che costui, per via di una evidente ingratitudine, non merita alcuna benevolenza da noi e dall’impero, abbiamo stabilito che siate sciolti dal giuramento di fedeltà alla Chiesa, fatti salvi quei diritti che l’impero aveva dato in prestito alla Chiesa stessa, e a tal fine vi abbiamo mandato il nostro diletto figlio [re Enzo], specchio della nostra potenza (...)».

Un consigliere caduto in disgrazia

Il testo venne verosimilmente redatto da Pier Della Vigna, il fidatissimo e colto consigliere che, accusato di tradimento, fu poi accecato su ordine dello stesso Federico (1249). L’abilità della costruzione letteraria è evidente nel ricorso ai versi malinconici del poeta latino Ovidio, allorché, in una delle lettere scritte dall’esilio sul Ponto, riflette sul senso di appar-

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Nell’ottica della lettera, l’allusione evangelica ha una doppia valenza. Infatti, non solo rafforza l’associazione Federico-Cristo, ma lascia intendere che papa Gregorio, il nemico del sovrano, è un despota perfido e simulatore, al pari del biblico Erode. In ogni caso, al di là delle contingenze della lotta ideologica e militare tra il papa e l’imperatore, la lettera dello Svevo trae linfa da un concetto tutt’altro che nuovo e dirompente. Si tratta della concezione del sovrano cristiano come «vicario di Cristo», un titolo tipicamente imperiale, che in questo momento è conteso e rivendicato dallo stesso pontefice. Il sovrano è immagine e rappresentante di Dio in terra, ed è scelto e protetto dal Cielo al fine di condurre il mondo visibile con giustizia e misericordia. Cristo, d’altronde, nel ruolo di Dio Padre, era raffigurato come un re seduto in trono, quando giungeva il momento del Giudizio Universale. Federico, quindi, nella concezione del proprio ruolo, si riallaccia a una «teologia politica» già espressa, secoli prima, da Costantino. Aveva perciò tutto il diritto di asserire la sacralità della propria figura, soprattutto all’indomani della sua incoronazione nel Santo Sepolcro di Gerusalemme (1229), quando l’assunzione del potere regio nella Terra Santa equivaleva a proclamarsi diretto discendente del biblico re Davide, oriundo anch’egli di Betlemme, come ha sottolineato lo storico tedesco Hans Martin Schaller (1923-2005).

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luoghi jesi Qui e altrove, Federico non esita, in sostanza, a presentarsi come un nuovo Messia. La sua nascita segna un momento di svolta nella storia. L’allusione a Cristo – che egli non esita a sottolineare con forza – è priva di qualsiasi implicazione religiosa, come invece sostengono i detrattori del sovrano, convinti della sua blasfemia e della sua natura demoniaca, degna semmai dell’Anticristo. I gesti e le parole ispirati ai Vangeli e al rituale cristiano servono a dare sostanza e chiarezza al suo messaggio.

Echi della grandezza di Roma

Grazie a lui tornano in auge le glorie di quell’impero di Roma richiamato nel testo in modo esplicito, tanto che la sua defunta madre, Costanza, può essere chiamata diva, con evidente allusione alla divinizzazione dei principi dell’Urbe antica (l’imperatrice, d’altronde, ha lo stesso nome della figlia di Costantino Magno). E già a ridosso dell’evento, intorno al 1195, il poeta Pietro da Eboli poté parlare di Federico come di un sole splendente senza nuvole, segno di quella età in cui il tempo si ac-

Le insegne del potere In alto particolare dell’allestimento multimediale della sala 14, «Stupor Mundi», del Museo Federico II, che rappresenta l’imperatore nel paludamento imperiale. A sinistra ricostruzione sartoriale del globo Imperiale. Jesi, Scuola Teatrale di Jesi. In basso globo imperiale in oro, pietre preziose e perle. 1200 circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

cinge a rinnovarsi. I suoi versi si rifacevano al concetto di un ritorno all’età dell’oro, cosí come prefigurato da Virgilio, nelle Bucoliche (quarta egloga), con la nascita di un fanciullo prodigioso. Proprio le circostanze della nascita dello Svevo hanno alimentato da subito il suo mito, ancora vivissimo ai nostri giorni. Appena nato, Federico era già un personaggio che suscitava stupore. Nemici e sostenitori dell’impero e della casata sveva furono accomunati da un senso di sbigottimento quando ricevettero la notizia della sua nascita. Si trattava di un parto su cui nessuno avrebbe scommesso a cuor leggero. Stando a Benvenuto da Imola (1320/30-1387/88), commentatore della Divina Commedia, Federico stesso considerava la propria nascita come un miracolo. Quando pronunciava un giuramento, si appellava appunto a quel miracolo «in cui mia madre mi mise alla luce». Se, da un lato, il matrimonio tra Enrico VI e Costan-

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Corona del Sacro Romano Impero in oro, smalti, pietre preziose e perle. Seconda metĂ del X sec. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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In alto Castel del Monte (Andria). Una veduta del piĂş famoso tra i castelli fatti costruire da Federico II di Svevia.

Dove e quando Museo Federico II Stupor Mundi Jesi (Ancona), Palazzo Ghislieri, piazza Federico II, 3 Orario gio-sa, 15,00-19,00; do, 10,00-13,00 e 15,00-19,00; la mattina aperto solo su prenotazione per gruppi e scuole Info tel. 0731 084470 oppure 0731 202944; e-mail: info@ federicosecondostupormundi.it www.federicosecondostupormundi.it

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za d’Altavilla fu un audace e fortunato capolavoro di politica e di diplomazia, dall’altro lato il divario di età dei due coniugi, ribaltato rispetto alla consuetudine, non lasciava molto spazio alla speranza di un erede. Enrico, nato nel 1165, aveva 21 anni. Costanza ne aveva 32, e, data in sposa per la prima volta, non aveva mai messo al mondo un bambino. Passarono 8 anni dal giorno delle nozze, e ogni anno che passava senza alcuna novità rendeva sempre piú difficile che si compisse il lieto evento. A questo si assommavano gli ostacoli per prendere possesso del regno di Sicilia, con l’agguerrito Tancredi che non esitò a imprigionare proprio Costanza, sua zia naturale, pur di rimanere sul trono di Palermo.

In dolce attesa, finalmente!

D’un tratto il destino sembrò compiersi su tutta la linea a favore di Enrico e della sua consorte. Nel giro di pochi mesi, Tancredi morí e Costanza rimase incinta, ormai quarantenne. Arrivò cosí il momento tanto atteso di salire sul trono di Sicilia, avendo per giunta la speranza di tramandare la corona a un erede. Partiti dal castello tedesco di Trifels (Renania-Palatinato), i coniugi, giunti nella Pianura Padana, seguirono cammini separati. Proprio per proteggere adeguatamente la consorte in dolce attesa, senza esporla a un viaggio che poteva nascondere non poche insidie, Enrico decise di farla soggiornare nella Marca di Ancona. Nella stessa Jesi era già stato nel 1186 e sapeva dunque di poter contare sulla fedeltà dei Nella pagina accanto, in basso e qui sotto due immagini della sala 7, «I castelli», del Museo Federico II Stupor Mundi, che include un plastico di Castel del Monte.

suoi vassalli, oltre che sulla sicurezza dell’insediamento. Frattanto procedé alla volta della Sicilia, organizzando un’ampia trama di alleanze a sostegno della sua avanzata. Entrò a Palermo a fine novembre. A Natale fu incoronato, e il giorno dopo nacque suo figlio. Una simile coincidenza era destinata a fare scalpore e bastò da sola per intessere un’aura tutta particolare intorno al neonato. Federico stesso, nel 1233, dispose in tutto il regno solenni festeggiamenti nel giorno di Santo Stefano onde commemorare il proprio compleanno. A San Germano (l’attuale Cassino), secondo il cronista Riccardo (1165 circa-1244), che di lí era originario, il 26 dicembre 1233 ben 500 poveri si riunirono in piazza e si saziarono di pane, vino e carne. Ben presto le narrazioni dell’evento cominciarono a infittirsi e a nutrirsi di dettagli, e molto spesso si calcava la mano sull’età avanzata di Costanza (talvolta spinta fino ai 60 anni!), e sul problema di rendere pubblicamente accertato un parto cosí importante, che tutti, fino a quel momento, avevano reputato difficile se non impossibile. Grazie anche alla bella miniatura che illustra l’evento, nel manoscritto Chigi L.VIII.296 della Biblioteca Vaticana (1350-75), preziosa fu la narrazione fornita da Giovanni Villani (1276-1348) nella Nuova Cronica, laddove si asserisce che il parto ebbe luogo sotto un padiglione, in una pubblica piazza (localizzata per errore a Palermo), alla presenza di molte donne fatte accorrere con un bando proprio per assistere all’evento e per fugare cosí ogni sospetto. Non è improbabile, d’altronde, che il parto avvenuto di notte e nel mezzo di un viaggio, appena trascorso il Natale, abbia favorito nelle narrazioni una sua collocazione scenografica in uno spazio aperto, all’addiaccio, come si conviene a un nuovo Messia che riecheggia la nascita del Bambino di Betlemme. Poco importa se poi, verosimilmente, il parto si tenne nel chiuso di un palazzo.

Un’identificazione certa

L’evento della nascita di Federico ha una precisa collocazione. La piazza di cui parla Giovanni Villani è stata identificata in modo unanime con la Platea Sancti Floriani di Jesi, situata in corrispondenza del Foro della città romana (Aesis), nel Medioevo sede del mercato e delle cerimonie pubbliche, oltreché fulcro religioso di primo piano per la presenza della cattedrale di S. Settimio e della chiesa eponima di S. Floriano, intitolata al protettore dello «Stato» jesino. La piazza è oggi intitolata proprio a Federico II, e in questo scenario, che segna la nascita del mito e della realtà storica di un tale personaggio, nel corso di quest’anno è stato inaugurato un museo espressamente dedicato alla sua figura (vedi anche «Medioevo» n. 248, settembre 2017). Il «Museo Federico II Stupor Mundi», che ha sede in (segue a p. 84)

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JESI, UNA VISITA

Una veduta di Jesi (Ancona) e (in basso, a sinistra) uno scorcio dall’esterno della cinta muraria.

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Usciti dal Museo Federico II Stupor Mundi, la realtà di Jesi e del suo territorio offre molti spunti di grande interesse proprio in rapporto all’epoca di Federico II e al Medioevo in generale. Già la struttura urbanistica, con il suo fitto reticolo di strade e la splendida cinta muraria in laterizio, di origini trecentesche, evidenziano bene il carattere e l’importanza della città nella piena età comunale. E, restando in Piazza Federico II, la settecentesca cattedrale conserva due vigorosi leoni stilofori in marmo rosso che sono proprio dell’epoca dello Svevo. Oggi reggono due acquasantiere, ma in origine si trovavano sulla facciata della chiesa, cosí come si presentava nel suo precedente assetto. Reggevano due colonne anch’esse di marmo, in un avancorpo pensile (un

In basso Jesi, cattedrale di S. Settimio. Leone stiloforo in marmo rosso, proveniente dalla sistemazione della facciata operata da Giorgio da Como. 1237.


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protiro) che corrispondeva al portale centrale. Una perduta epigrafe, che nominava sia papa Gregorio che Federico, datava l’opera al 1237 e ne tramandava l’autore, Giorgio da Como, specificando che era divenuto cittadino di Jesi. Sul presbiterio si nota poi un ambone assai particolare. Si tratta di un cippo romano che nel 1084 è stato trasformato nella base istoriata di un altare dedicato a san Giovanni Battista. Un’iscrizione incisa sul retro, raschiando il piano su cui si leggeva l’epigrafe antica, informa inoltre che l’opera fu commissionata da un abate di nome Pietro. Sulle altre facce prendono corpo, a bassissimo rilievo, i simboli degli Evangelisti. Sono figure cesellate con una efficace sensibilità decorativa, con un trattamento lineare che reinventa i raffinati modelli dell’arte bizantina coeva. L’opera non apparteneva in origine alla cattedrale, ma la dedica al Battista ci ricorda comunque che in questa chiesa Federico dovette ricevere un battesimo «di emergenza», limitato alla sola infusione dell’acqua santa, per poi completare il rito in una situazione solenne, ad Assisi o a Palermo (1196-97). Procedendo sulla direttrice dell’antico cardo maximus, lungo l’odierna via Pergolesi, sfilano molteplici segni del Rinascimento jesino, con un consapevole rimando all’antichità che traeva anche linfa dal ricordo dello Svevo. L’aggancio è evidente nella facciata del Palazzo della Signoria (in antico, Palazzo dei Priori), progettato dal senese Francesco di Giorgio Martini (1486-98). L’epigrafe del 1498 che correda il leone rampante dello stemma urbico, informa che esso è stato concesso in tempi assai remoti dal re italico Aesis, mentre la corona che lo sormonta, conferendo a Jesi lo statuto di città regia, è stata concessa da Federico in persona. Leggibile nella sua interezza è la chiesa medievale di S. Nicolò, che identifica un borgo extraurbano già attestato nel 1219. Completamente edificata in laterizio, si presenta

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Qui sopra Jesi, cattedrale di S. Settimio. L’ambone, ricavato da un cippo di epoca romana e che mostra sulle facce, a bassissimo rilievo, i simboli degli Evangelisti.

con una solenne struttura basilicale, impreziosita da una copertura a volte. L’edificio attuale è databile alla fine del Duecento, come suggeriscono peraltro due interessanti elementi decorativi. Il portale di facciata sfoggia un arco senese, tipico della città toscana sin dal tardo Duecento. All’interno, poi, un meritorio restauro ha riportato alla luce un affresco dell’epoca, situato sulla navata centrale. Mostra, sia pure frammentario, un dinamico e agguerrito San Michele Arcangelo che è intento a pesare le anime (psicostasía), per stabilire chi sia degno di entrare in paradiso (se la bilancia tende al basso, l’anima è destinata all’inferno). Nel contempo, l’Arcangelo impugna la spada contro un demonio, che interferisce nel tentativo di rubare le anime elette. Di fianco si osserva un probabile San Pietro. Il dipinto è un bell’esempio di quello stile lineare tipico della pittura tardo-duecentesca, con un senso delle movenze e della forma che rielabora i dettami tradizionali con una vigorosa immediatezza.

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Fuori dalla cinta urbica, in corrispondenza della Porta S. Floriano (oggi Garibaldi), troviamo la chiesa di S. Marco, pertinente a un importante convento francescano sorto sul luogo di un monastero benedettino. Qui, nel 1239, soggiornò il cronista parmense Salimbene de Adam, convinto detrattore di Federico. L’edificio attuale risale agli ultimi decenni del Duecento e riveste particolare interesse per la sua matrice lombarda, per il felice contrappunto del portale marmoreo sullo sfondo della facciata in laterizio, per l’uso di una parete rettilinea al posto delle consuete absidi, secondo un dettame di quell’arte cistercense che tanta parte ha avuto nel mondo federiciano. Proprio sulla parte terminale della chiesa, all’interno, si notano i cospicui resti di una monumentale decorazione pittorica del primo Trecento, tra cui spicca la Crocifissione del presbiterio (1310-1330), ricondotta all’opera dei maestri giotteschi della scuola riminese. In periferia, lungo la direttrice dell’antica via Salaria gallica che collegava la romana Aesis ad Asculum (Ascoli Piceno), la chiesa di S. Maria del Piano, fortemente ristrutturata nel XVIII secolo, era già pertinente a un’abbazia medievale di notevole impatto, e mostra nei sotterranei una stratigrafia assai

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A sinistra Jesi, chiesa di S. Nicolò. Uno scorcio della navata centrale. In basso Jesi, chiesa di S. Maria del Piano. Particolare di un frammento di affresco raffigurante la testa di un angelo. XII sec.

complessa e intrigante. Si può cosí leggere la storia dell’edificio a partire da una basilica funeraria tardoantica (IV-V secolo) sino alle modifiche tardo-medievali (XIII-XIV secolo), evidenti negli archi a sesto acuto oggi tamponati, visibili nell’aula, posti in origine a suddividere la navata centrale dalla navata destra (oggi l’aula superstite corrisponde alla navata centrale originaria). Di notevole interesse è un sarcofago-reliquiario istoriato con fregi e scene paradisiache, in genere riferito a epoca altomedievale, ma forse realizzato o rilavorato nella prima età romanica (X-XI secolo). Sui lati lunghi della cassa si contrappongono due elaborati girali di acanto, uno dei quali, ispirato al repertorio decorativo delle stoffe, mostra nei campi centrali due scene di combattimento tra animali (cervi e leoni). Sui timpani del coperchio troviamo il motivo paleocristiano della croce e della colomba che si abbevera alla fonte, con allusione a Cristo come fonte di vita eterna. In una scena la colomba è minacciata da un leone malefico. Su una delle strutture medievali rimesse in luce (si tratta della parete di una cripta), si osserva infine un pregevole affresco romanico frammentario, con il volto di un Angelo, originariamente nell’atto di rendere omaggio, rivolto al Cristo in gloria dicembre

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A sinistra Jesi, chiesa di S. Marco. Veduta d’insieme dell’affresco della Crocifissione, nell’area absidale, attribuito ad artisti di scuola riminese. XIV sec. In basso Jesi, chiesa di S. Nicolò. Particolare del frammento di affresco riportato alla luce dai restauri effettuati nella navata principale, raffigurante l’arcangelo Michele che pesa due anime sulla bilancia, mentre con la spada scaccia un demone che tenta di ghermirne una. XIII sec.

o alla Vergine in trono col Bambino (poteva anche trattarsi dell’Arcangelo Gabriele in una Annunciazione alla Vergine). L’opera risale all’ultimo quarto del XII secolo, e si riallaccia alla vigorosa diffusione dell’arte bizantina della fase tardo-comnena (dal nome della dinastia dei Comneni, che regnò a Costantinopoli tra il 1057 e il 1185), grazie soprattutto ai grandi complessi a mosaico della Sicilia normanna (in particolare quello del duomo di Monreale, voluto da re Guglielmo II, nipote di Costanza d’Altavilla). Se poi ci si sposta verso la costa adriatica, non lontano dalle foci dell’Esino, merita una visita l’abbazia cistercense di Chiaravalle di Castagnola. Realizzata presso una rigogliosa selva di castagni (come suggerisce il toponimo), la fondazione è tra i piú antichi insediamenti italiani della congregazione di san Bernardo. I monaci giunsero nella Vallesina, secondo la tradizione, nel 1147, dal Piemonte (Locedio) o dalla Lombardia (Chiaravalle Milanese), e la chiesa superstite, ben conservata nella purezza dello

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stile cistercense originario, risulta completata nel 1172. Federico Barbarossa, il nonno dello stupor mundi, donò all’abbazia alcuni appezzamenti e le concesse la protezione imperiale, con un privilegio datato 24 novembre 1177.

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luoghi jesi Palazzo Ghislieri, prende le mosse proprio dalla rievoca- suo «peso» con la giusta misura. Ma quando si assiste zione del padiglione sotto le cui cortine Federico vide la alla ricomposizione virtuale della monumentale Porluce, collegando idealmente il percorso espositivo alla ta di Capua, sulla base dei resti e delle testimonianze scenografia urbana. Sin da questo primo «quadro», il vi- che ci sono pervenuti, si rimane ben convinti che la sua sitatore si trova di fronte a una visione che si sviluppa costruzione ideale avesse radici solide, senza esaurirsi sul duplice percorso della vicenda storica e dell’imma- negli intenti di una semplice propaganda. Quella porginario. Grazie a un approccio multisensoriale, messo in ta, come d’altronde Castel del Monte, testimonia bene atto con un flou di suoni, immagini interattive, plastici, che Federico aveva le idee chiare su come magnificare ricostruzioni e filmati, si dipana un racconto avvincente, la propria immagine, rendendola a tutti gli effetti imcapace di appassionare ogni genere di pubblico. mortale. E questa sua immanenza rimane forse il suo I livelli di suggestione e di lettura sono infatti arti- lascito piú forte, al di là del ruolo effettivo che esercitò. colati in modo tale da coinvolgere non soltanto chi si Lo spazio dedicato ai problematici rapporti con il paavvicini per la prima volta a questi argomenti, ma anche pato e con le città lombarde rende d’altronde ben edotti chi sia addentro alla materia. L’appassionato o l’esper- dei limiti della sua visione, in uno scontro pressoché to di Medioevo ha una preziosa occasione per vedere e continuo con una realtà tutto sommato impermeabile toccare con mano come certi temi ai suoi sogni di gloria. Si trattò copossano essere affrontati in modo L’allestimento del Museo munque di una vicenda appassioempatico e finanche spettacolare, nante che assume nel suo comsenza tuttavia derogare da una Federico II Stupor Mundi plesso una valenza epica proprio conoscenza di base attentamente grazie al ruolo trainante di un trasforma la vicenda verificata. Il risultato è una sorpersonaggio del genere. Anche gli dell’imperatore in una aspetti meno rilucenti della sua ta di grande film, in cui ci si può muovere nei tempi e nei modi vicenda finiscono cosí per comsorta di grande film che ciascuno preferisce. Federico porre un quadro esaltante. Alla II costituiva il soggetto ideale per fine del percorso ci si rende conto, un’impostazione cosí articolata nelle forme come negli cosí, che la grandezza di Federico sta proprio nell’aver argomenti affrontati, su una sequenza di 16 sale mono- incarnato e propiziato un’immagine forte del Medioevo, tematiche disposte su 3 piani. La sua vicenda, infatti, si in tutte le sue molteplici componenti. F dipana toccando tutta una serie di aspetti irrinunciabili L’autore ringrazia per l’accoglienza e per la cortese dispoquando si elencano gli aspetti piú intriganti del Medio- nibilità Franca Tacconi della Fondazione Federico II Hohenevo, spaziando dalla storia sino all’arte e alla cultura let- staufen di Jesi. Ringrazia inoltre Duilio Ricci dell’Associazione teraria e scientifica. Cavalieri Templari Cattolici d’Italia.

Una realtà dinamica

Il personaggio diviene cosí anche una chiave per immergersi in una realtà tutt’altro che statica, dove si poteva concepire una cultura di corte aperta alla poesia come alla scienza, e ben disposta nei riguardi degli stili e dei saperi che potevano giungere dai mondi che esulavano dalla cristianità, sia nel tempo che nello spazio, come l’antichità greco-romana o l’Islam. Con l’evocazione della cappella palatina di Aquisgrana o della Zisa di Palermo, si vede bene, poi, come Federico stesso fosse debitore nei riguardi di una eredità di modi, di concetti e di simboli che si rifacevano alla grande tradizione dell’impero medievale, come pure alla fondamentale esperienza del regno normanno, dove già il contatto tra il Medioevo cristiano e la cultura araba aveva dato frutti prodigiosi. Rimangono poi particolarmente impresse le sale dedicate all’arte e alla letteratura, ambiti proverbialmente legati alla figura stessa dello Svevo, e dove il suo contributo è stato spesso sminuito o, al contrario, enfatizzato. Il suo forte carisma ha spesso impedito di valutare il

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Da leggere Ernest H. Kantorowicz, Federico II imperatore, Garzanti,

Milano 2000 David Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale,

Einaudi, Torino 2015 Antonio Gianandrea, Di Federico II di Svevia e della

sua Casa in relazione con la città di Jesi, Jesi 1895; ora disponibile in Tabulae, Fondazione Federico II Hohenstaufen, n. 3, Jesi 1993; pp. 139-163 Wolfgang Hagemann, Jesi nel periodo di Federico II, in Atti del Convegno di studi su Federico II (Jesi, 28-29 maggio 1966), Jesi 1976; pp. 19-71 Hans Martin Schaller, La lettera di Federico II a Jesi, in Atti del Convegno di studi su Federico II (Jesi, 28-29 maggio 1966), disponibile anche on line: www.mgh.de Renzo Paci, Jesi, in Guida ai centri minori. Italia centrale, Touring Club Italiano, Milano 1984; pp. 117-121 Alvise Cherubini, Arte medievale nella Vallesina. Una nuova lettura, Ancona 2001 dicembre

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testi di Giovanni Antonio Baragliu, Carlo Casi e Luciano Frazzoni

La via del pellegrino Palmieri, peregrini, romei: nei secoli del Medioevo schiere di credenti attraversavano l’Occidente e si spingevano fino in Terra Santa per venerare le sepolture di santi e martiri e i luoghi della Passione di Cristo. Un flusso pressoché ininterrotto, che seguiva un reticolo di percorsi esteso e capillare, imperniato su alcune arterie principali. Una delle piú battute era la via Francigena, collegamento naturale fra le terre del Nord Europa e Roma, culla della cristianità Abbazia di Novalesa (Torino), Cappella di S. Eldrado e S. Nicola. Particolare dal ciclo di affeschi con le Storie della vita di Sant’Eldrado, raffigurante sant’Eldrado che torna da Santiago di Compostella e riceve l’abito monastico dell’abate di Novalesa. XI sec.


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hissà se Sigerico, tornando verso casa, dopo essere stato ordinato nel 990 arcivescovo di Canterbury da papa Giovanni XV, abbia mai pensato che i suoi appunti di viaggio sarebbero stati un giorno considerati la prima guida ufficiale della via Francigena. Una via, giammai una strada; piuttosto una «rotta», da seguire liberamente sulle appunto ruptae (rovinate) e abbandonate strade romane e soprattutto all’interno di quell’intrico di sentieri e piste, piú o meno battuti, che convergevano verso passaggi obbligati come guadi e passi e verso le mansioni che ospitavano i pellegrini per la notte. Sigerico viaggiò per 79 giorni, percorrendo 1600 chilometri; toccò 34 città e 45 paesi e borghi tra Inghilterra, Francia, Svizzera e Italia (Val d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana e Lazio), e riportò su due pagine manoscritte l’itinerario considerato ancora oggi come il piú canonico.

L’arrivo dei Longobardi

La storia della via Francigena era in realtà cominciata molto prima, quando, già attorno al VII secolo, i Longobardi – scesi in Italia sin dal 568, dilagando nella Pianura Padana – si erano spinti verso sud, arrivando a costituire i ducati di Spoleto e Benevento. D’altra parte, i Bizantini, non senza difficoltà, erano riusciti a mantenere il controllo su Ravenna, capitale dell’esarcato, e su tutta la Val Tiberina sino a Roma, nonché di una buona parte dell’Italia meridionale. Si era di fatto creata «un’isola longobarda» centromeridionale, la Langobardia Minor, che doveva essere collegata all’area padana senza incorrere nelle ire dei Bizantini, i quali, a loro volta, dovettero comunque abbandonare le vie consolari che collegavano Roma all’Italia settentrionale. L’Aurelia risultò a quel punto troppo prossima alla costa tirrenica, soggetta al controllo via mare di Bisanzio, cosí come la Cassia, all’al-

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tezza della Valdichiana, si avvicinava pericolosamente ai territori bizantini. Nacque allora una «terza via», che passava per la Toscana interna e superava la dorsale appenninica nelle vicinanze dell’attuale Passo della Cisa. Un percorso citato per la prima volta da Paolo Diacono come «strada di Monte Bardone», dall’omonimo Mons Langobardorum, con cui si indiMiniatura raffigurante l’arrivo a Roma di un gruppo di pellegrini, in occasione del Giubileo del 1300, da un’edizione delle Croniche di Giovanni Sercambi. XV sec. Lucca, Archivio di Stato.

cava il tratto di crinale appenninico controllato dai Longobardi. Solo all’indomani dell’occupazione dell’Italia da parte dei Franchi, l’itinerario, progressivamente attrezzato con luoghi di sosta e strutture per l’accoglienza dei pellegrini, divenne via publica, prendendo poi il nome di via Francisca o via Francigena, come ben testimonia nell’876 il


Codex Diplomaticus Amiatinus dell’abbazia di S. Salvatore (complesso monastico da cui ha preso nome la cittadina oggi in provincia di Siena). Se dal punto di visto turistico la via Francigena tende a rappresentare un itinerario di viaggio poco definito topograficamente, che mette in comunicazione la Terra dei

Franchi con Roma, per gli studiosi essa indica invece una lunga arteria, che nel Medioevo permise il collegamento diretto tra la città papale e il Mare del Nord. Roma, quindi, quale principale elemento attrattivo, come dimostra l’iniziale appellativo dato alla via di sancti Petri o Strata Romae sancti Petri. Già prima di Costantino sono testimoniati pellegrinaggi alle

tombe dei martiri cristiani, che trovano poi con papa Damaso, alla seconda metà del IV secolo, una prima forma di organizzazione. Gli itinera ad sanctos vedono una sempre maggiore affluenza di pellegrini e, tra il VI e il VII secolo, Roma può definirsi a tutti gli effetti una «città santa». In questo senso la cultura cristiana, accogliendo una chiara tradizione


Dossier ebraica e pagana legata al rituale viaggio di fede, ne amplifica il messaggio religioso, rendendo il pellegrinaggio una delle piú alte forme di venerazione e lo indirizza principalmente verso Gerusalemme, la città della Passione del Cristo, e verso Roma, erede del potere imperiale. Ma la via Francigena è piú di una semplice rotta: è un vero e proprio sistema organizzato di strutture diluite nello spazio, ma sempre poste in una stringente relazione tra loro. Alcuni studiosi propendono a trattare le strade medievali con lo stesso approccio topografico utilizzato per quelle romane, tentando di individuare un tracciato ben definito, mentre altri mettono a fuoco il concetto di fasci di percorsi diversi, pur lungo un’unica direttiva. Per la via Francigena, se analizziamo la questione in termini diacronici, possiamo probabilmente parlare di entrambi: se fino al X secolo si assiste per molti tratti all’utilizzo della viabilità romana – come testimoniano i luoghi di culto e di assistenza disposti sul cammino –, dal XII secolo in poi emergono sempre piú variabili di tracciato, spesso determinate dalle logiche commerciali e d’interesse locale. Come per esempio l’importante variante della via Cimina, nei pressi di Viterbo, dovuta alla potente abbazia di S. Martino al Cimino.

Arteria della ripresa

Da qui in poi si rintracciano facilmente i nuovi poteri emergenti che modificano e controllano (anche attraverso veri e propri pedaggi stradali), il variegato fascio di percorsi. Addirittura c’è chi ha ipotizzato la nascita dei castelli, visto il sempre piú interessato ruolo delle signorie castellane allo sfruttamento fiscale a carico di mercanti e pellegrini, non tanto per tenere in sicurezza le vie di comunicazione quanto al loro controllo sulla riscossione dei pedaggi. Ma anche se sulla sua rotta sono passati re, principi, papi, sol-

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dati e contadini, la via Francigena emerge prepotentemente quale arteria principale della trecentesca ripresa economica dell’Occidente per aver favorito gli scambi commerciali e finanziari e la specializzazione delle manifatture, consentendo cosí anche agli imprenditori locali d’inserirsi in quella che è stata definita l’economia a «raggio mondiale» del Medioevo. La crescita dei mercati diffonde benessere e ha come prima conseguenza la proliferazione dei tracciati di collegamento tra il Nord e Roma e lo sviluppo di nuove vie di comunicazione. E cosí prende corpo, per esempio, l’asse Faenza-Forlí-Bagno di Romagna-Arezzo-Viterbo, o, all’indomani dell’esperienza di san Francesco, quello che passa per Assisi e la Val Tiberina, mentre la nascente importanza di Firenze fa sí che per il superamento dell’Appennino venga privilegiato il valico con Bologna, decretando, tra l’altro, la fine dell’antico percorso della Cisa. Sopravvive indenne solo l’ultima parte della via, quella piú meridionale, in virtú del fatto che, presso il Lago di Monterosi, nella Cassia–Francigena confluiva la strada di raccordo con la Val Tiberina. Il valore intrinseco dell’importante direttrice che consentí lo sviluppo dei centri posti sul suo tracciato, divenne anche il suo punto debole. L’insorgere del potere d’attrazione di grandi Comuni, associato a nuovi fattori devozionali che le fecero perdere la caratteristica di unicità, ne decretò di fatto la fine. Carlo Casi dicembre

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MARE DEL NORD Stade Brema Celle Münster

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Bolzano Pusterdal-Pusteria Gran San Bernardo Lione Trento Aosta Treviso Chambery Bassano Ivrea Vercelli Pavia Padova Moncenisio Venezia Piacenza Mortara Susa Po Rovigo Torino Fidenza Cisa Bologna Ravenna Sarzana Luni Firenze Forlì Lucca Alpe di Serra Arezzo Poggibonsi Siena SanQuirico Orvieto MA Bolsena RA DR Viterbo IAT Corsica Sutri ICO Roma

Roda

A sinistra e in questa pagina insegne di pellegrinaggio. Parigi, Musée de Cluny, Musée national du Moyen-Âge. Nella pagina accanto, in basso ampolla «del pellegrino», in piombo e stagno. VII-VIII sec. Monza, Tesoro del Duomo. In questi contenitori si raccoglieva olio santificato per i sacramenti oppure olio tratto dalle lampade che ardevano vicino ai luoghi santi.

Duisburg Colonia Bonn

Sardegna

A sinistra gli itinerari per Roma dal Nord Europa secondo gli Annales Stadenses, titolo attribuito alla cronaca universale, dalla Creazione al 1256, di cui fu autore il cronista tedesco e frate minore Alberto di Stade.

MAR TIRRENO

Sicilia

Qui sopra insegna in forma di valva del Pecten jacoabaeus, la conchiglia di San Giacomo, simbolo del pellegrinaggio a Santiago di Compostella, poiché si poteva trovare sulle spiagge galiziane e si diffuse l’uso di cucirla sul mantello o sul cappello, a testimonianza del percorso completato.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam da mangiare, mentre ai poveri e agli consent, studentiperspiti era addirittura consentito il conseque passaggionisgratuito. maxim Ma seeaquis non mancava di earuntia cones cosí ammirata da «cortesia», apienda. Boccaccio, a Ghino non facevano

Ghino di Tacco

Il ladro gentiluomo

La storia di Ghino di Tacco è degna di un romanzo d’appendice, del quale contiene tutti gli ingredienti: dal dramma di un’ingiustizia patita alla pubblica redenzione, dal coraggio all’onore e fors’anche il mistero, dal momento che permangono ancora seri dubbi sulla morte del protagonista. È invece certo che sia Dante – «Quiv’era l’Aretin che da le braccia fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte e l’altro ch’annego correndo in caccia» (Divina Commedia, Purgatorio VI 13-15) –, sia Giovanni Boccaccio – «Ghino di Tacco piglia l’abate di Cligní e medicalo del male dello stomaco e poi il lascia quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa e fallo friere dello Spedale» (Decameron, II novella del X giorno) – palesano un profondo rispetto per questa sorta di Robin Hood della Francigena. Ghino era nato a La Fratta di Torrita di Siena, nella seconda metà del XIII secolo, da Tacco Ugolino della importante famiglia

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Cacciaconti. Sin da ragazzo venne avviato alle armi, insieme al fratello Turino, dal padre e dallo zio, Ghino di Ugolino, andando a formare la Banda dei Quattro, dedita a rapine e scorribande in aperta ribellione all’eccessiva oppressione fiscale esercitata dalla Chiesa senese a favore dello Stato pontificio. Purtroppo i ghibellini di Ugolino, catturati nel 1285, furono giustiziati l’anno seguente in piazza del Campo e solo la giovane età impedí a Ghino e a suo fratello di seguire la stessa sorte. Nel 1290, il tentativo di costruire una nuova fortezza nei pressi di Sinalunga ne decretò la definitiva cacciata dal contado senese. Decise allora di fissare il proprio covo sulla isolata rupe di Radicofani, nella terra di confine in quel momento ancora contesa tra Siena e Roma. Qui pellegrini, mercanti e semplici viandanti venivano regolarmente derubati, ma con stile: gli veniva comunque lasciato di che sopravvivere e veniva offerto loro

difetto neanche la sete di giustizia e la difesa dell’onore, invece ben rimarcata da Dante in occasione della macabra uccisione del giudice Benincasa, che aveva condannato a morte il padre e lo zio. Alla testa di quattrocento uomini, mosse da Radicofani alla volta di Roma, dove il giudice si era nel frattempo trasferito. Raggiunta l’Urbe ed entrato in tribunale, Ghino tagliò la testa al malcapitato, infilandola sulla sua picca e riprendendo poi la strada di casa. Ladro sí, ma per necessità, e nobile d’animo, Ghino di Tacco non faceva mai ricorso alla violenza e, anzi, si dimostrava sempre molto ospitale nella sua fortezza, prima di presentare il conto a quelli che dovremmo forse considerare come facoltosi clienti piú che come viaggiatori rapinati. E cosí anche l’abate di Cluny, seppur inatteso ospite, ebbe a beneficiare dei servizi offerti dal castello di Ghino di Tacco.


Durante la prigionia, il presule – che stava recandosi alle terme di San Casciano per curare un fastidioso mal di stomaco – venne guarito da una dieta selezionata dallo stesso Ghino a base di pane, fave e vino. La forzosa vicinanza costrinse i due a incontrarsi, cosicché l’abate poté conoscere la vera storia del nobile proprietario del maniero, che alla sua partenza gli restituí tutti i beni sottratti. Giunto a Roma, l’abate rivelò a papa Bonifacio VIII tutte le vicende e i trascorsi di Ghino, invitando il pontefice a

perdonarlo e ad accordargli la grazia. Bonifacio si convinse e concedette a Ghino anche il prestigioso titolo di cavaliere dell’Ordine degli Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme (chiamati anche Cavalieri di Malta o di Rodi). Per dirla con Boccaccio: «Il papa, udendo questo, sí come colui che di grande animo fu e de’ valenti uomini, disse di farlo volentieri, se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse sicuramente venire. Venne dunque Ghino fidato, come allo abate piacque, a corte; né guari appresso del papa fu, che egli il reputò valoroso,

e riconciliatoselo gli donò una gran prioria di quelle dello Spedale, di quello avendol fatto far cavaliere. La quale egli, amico e servidore di santa Chiesa e dello abate di Cligní, tenne mentre visse». La storia di Ghino di Tacco, ladro gentiluomo, si conclude dunque con la sua completa riabilitazione, assurgendo a quella fama di eroe positivo e portatore di valori esemplari che ancora oggi aleggia tra le desertiche e movimentate crete della Val d’Orcia e della Val di Paglia. Carlo Casi

Sulle due pagine veduta panoramica e particolare del mastio della rocca di Radicofani. La fortezza venne edificata a partire dal 1153 su precedenti fortificazioni, a guardia dei borghi sottostanti e della via Francigena. Nel 1290 fu scelta da Ghino di Tacco per insediarvi il proprio covo.

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Dossier l’abbigliamento

Vestivamo alla pellegrina

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Viaggiare per fede

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Il viaggio che i pellegrini intraprendevano nel Medioevo era pieno di pericoli e molti, prima di partire, facevano perciò testamento. Per essere immediatamente riconoscibili da tutti, i pellegrini indossavano pertanto un abbigliamento che poteva assicurare loro ospitalità e protezione, una vera e propria «divisa», che li equiparava ai membri degli Ordini monastici. Gli accessori piú importanti erano il bastone (baculum) e la bisaccia (pera), di forma rettangolare, che veniva portata a tracolla. Chiamato anche «bordone», il bastone serviva per sostenersi, ma anche per difendersi dagli animali selvatici; aveva l’estremità ricurva, per appendervi la borraccia o i vestiti, o anche alcuni oggetti, come la conchiglia di san Giacomo, simbolo dell’avvenuto pellegrinaggio a Santiago di Compostella, mentre nella parte inferiore era provvisto di una punta metallica per avere migliore presa sul terreno. La veste del pellegrino era costituita da una tunica, legata in vita con una corda o una cintura di cuoio, alla quale venivano appesi oggetti legati ai culti dei luoghi visitati. Sopra la tunica veniva indossato un mantello di tessuto grezzo con cappuccio (chiamato sanrocchino, schiavina o pellegrina), o una sopraveste aperta davanti e tenuta da una fibula. Le gambe venivano avvolte con calze di maglia o con bende fino al ginocchio fermate da lacci di cuoio, accompagnate da calzature simili a stivaletti. Ma quello che caratterizzava maggiormente il pellegrino, a partire dal XIV secolo, era il cappello a falda larga, rialzato sul davanti, in feltro o cuoio, con un laccio per legarlo sotto il mento, che veniva portato in estate per proteggersi dal sole, e d’inverno per ripararsi dalla pioggia e dalla neve. Tale cappello veniva chiamato petaso, poiché ricordava il copricapo alato di Mercurio, messaggero degli dèi. A partire dall’XI secolo, alcuni elementi come la bisaccia e il bastone, venivano benedetti dal vescovo secondo un preciso rituale, come avveniva per i cavalieri in partenza per le crociate. Il pellegrino diventa cosí anche lui una sorta di cavaliere, pronto a intraprendere il suo cammino fisico e spirituale che lo porterà alla purificazione dell’anima. Esistevano veri e propri «punti di raccolta», come Utrecht, dove affluivano i pellegrini dell’Europa del Nord diretti a Roma e in Terra Santa; qui ricevevano il bastone e la bisaccia e venivano benedetti prima di mettersi in viaggio. Gli accessori del pellegrino avevano anche una valenza simbolica; un sermone del 1125, contenuto nel Liber Sancti Iacobi (o Codex Calixtinus), indica infatti che la bisaccia rappresenta l’elemosina, essendo troppo piccola per contenere molto denaro, mentre il bastone, usato per difendersi dai lupi e da altri animali, simbolo delle forze del male, è come la terza gamba del pellegrino e rappresenta la Trinità che vince sul demonio. Luciano Frazzoni Nella pagina accanto miniatura raffigurante la bottega di un cartolaio e un pellegrino, dalle Memorie Istoriche di Bologna di Floriano di Pier Villola, contenute nel Codice 1456 della Biblioteca Universitaria di Bologna. XIV sec. Il ritratto del pellegrino permette di distinguere gli elementi tipici del suo abbigliamento: 1. la conchiglia; 2. il copricapo a falda larga, detto anche petaso; 3. il bastone (baculum o bordone), con la punta in metallo, per migliorarne la presa sul terreno; 4. la fiaschetta; 5. la bisaccia (pera).

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In un’epoca intrisa di misticismo e sensibilità religiosa quale fu il Medioevo, il pellegrinaggio verso i luoghi santi (principalmente Roma, la Terra Santa e Santiago di Compostella), rappresentò per molti cristiani un’esperienza mistica, nella quale si univano il desiderio di espiazione dei peccati – attraverso le dure prove affrontate durante il viaggio – e un momento di riflessione spirituale volto a un rinnovamento morale e a un maggiore approfondimento della propria fede. Abbandonare i luoghi domestici e la famiglia per un certo tempo, significava, oltre che un’esperienza reale, anche intraprendere, già in ambito terreno, il cammino verso il Regno dei Cieli. Prima di intraprendere il pellegrinaggio, occorreva procurarsi le necessarie risorse finanziarie, e cosí poteva accadere che qualcuno fosse costretto a vendere o ipotecare i propri beni. La Chiesa condannava però chi si metteva in cammino con «gran lusso e pompa», pensando di guadagnarsi la salvezza per il solo fatto di essersi recato in un luogo santo. Martin Lutero riteneva addirittura i pellegrinaggi puerili e non necessari, e consigliava ai parroci di incitare i loro fedeli a «impiegare il denaro e la fatica che (…) un pellegrinaggio comporta, nel compiere il volere di Dio in opere mille volte piú buone, cioè a favore dei propri familiari e del prossimo bisognoso». Anche il riformatore religioso Giovanni Calvino li riteneva una «evidentissima superstizione». In ogni modo, per tutto il Medioevo e oltre, milioni di pellegrini attraversarono l’Europa e il Medio Oriente per raggiungere i luoghi santi della cristianità. Prima di partire, il viaggiatore provvedeva a fare testamento, tanto che esistevano veri e propri formulari testamentari per pellegrini; spesso i beni in assenza del proprietario, rimanevano sotto la protezione della Chiesa. Nel Medioevo

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Nella pagina accanto Dar da bere agli assetati, tempera su tavola facente parte del ciclo delle Opere di misericordia di Olivuccio di Ceccarello. Inizi del XV sec. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. Al centro tondo in vetro raffigurante l’arrivo di un pellegrino in una locanda. Fine del XV sec. Parigi, Musée de Cluny, Musée national du Moyen-Âge.

il viaggio comportava molteplici rischi, dalle catastrofi naturali (frane, inondazioni) alla presenza di animali selvatici, alle insidie di bande di ladri («rubatori delle strade»), che assalivano i viandanti, sperando di derubare qualche ricco personaggio; non ultimo, le truffe a opera di osti e locandieri. Pertanto le strade erano disseminate di ospizi, in cui i pellegrini potevano trovare un sicuro rifugio per la notte, e di ospedali dove ricoverare i malati e i bisognosi. Basti pensare che solo a Lucca, tra il 720 e il 767, erano presenti una decina di xenodochia (plurale di xenodochium, da xenos, «forestiero» e dechomai, «accogliere»: termine che, nel Medioevo indicava un ospizio gratuito per forestieri e pellegrini, n.d.r.), in città e nei dintorni, e che a Poggibonsi, dalla metà dell’XI secolo, se ne contavano ben nove, in un punto nodale all’incrocio della Francigena con gli assi stradali che collegavano le principali città della Toscana. Nella Vita Nova (XL), Dante distingue tre tipi di pellegrini: quelli che si recano oltremare, e che tornano portando la palma, e che sono appunto chiamati palmieri; i peregrini, che vanno alla casa della Galizia, cioè Santiago di Compostella, dove è la sepoltura di san Giacomo Maggiore, l’apostolo se-

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polto piú lontano dalla sua patria; e i romei, che si recano a Roma. I luoghi di pellegrinaggio in Italia erano principalmente Roma, con la visita alle tombe dei santi Pietro e Paolo, le basiliche di S. Giovanni in Laterano, quelle dedicate a santo Stefano e san Lorenzo e S. Maria Rotonda (il Pantheon). Durante il viaggio verso Roma, i pellegrini visitavano però altri luoghi santi: Lucca, dove almeno dall’XI

secolo si venerava il Volto Santo, ossia il crocefisso di legno scolpito, secondo la leggenda, da Nicodemo e approdato miracolosamente a Luni, quindi traslato a Lucca e ritenuto la vera immagine della croce (vedi «Medioevo» n. 225, ottobre 2015); altri luoghi frequentati erano i santuari di Loreto, dedicato alla Santissima Casa, e quello di Bari, dedicato a san Nicola. I pellegrini erano soliti riportare vari oggetti a ricordo dei loro viaggi o come testimonianza dell’avvenu-

ta visita ai luoghi santi. Tra questi, la palma di Gerico, riportata dal pellegrinaggio a Gerusalemme, o la conchiglia da Santiago di Compostella. Ma i piú diffusi erano le insegne, placchette sulle quali erano raffigurati in genere i santi venerati nei diversi santuari, di forma prevalentemente rettangolare o quadrata (per questo chiamate quadrangulae), e di solito munite di occhielli per poter essere cucite all’abito o alla bisaccia. Le insegne erano in metallo, piombo o lega di piombo e stagno, e, piú raramente, di carta, stoffa o cuoio. Soprattutto a partire dal Giubileo del 1300, indetto da papa Bonifacio VIII, la produzione di queste placchette si fece massiccia, per soddisfare l’enorme richiesta della folla di pellegrini che giungevano a Roma e nei vari santuari per le indulgenze. Questi oggetti venivano spesso accostati alle reliquie, assumendo cosí con il contatto un enorme valore sacro e apotropaico. Le insegne erano anche una prova dell’avvenuto pellegrinaggio, specialmente se questo avveniva per procura, da parte di chi, non potendo effettuare personalmente il cammino verso i luoghi santi, pagava un’altra persona perché lo facesse al posto suo. Al ritorno dal pellegrinaggio, le insegne potevano essere donate ai parenti per proteggerli dalle malattie; immersi nell’acqua o nel vino, trasformavano questi liquidi in vere e proprie medicine; le insegne potevano inoltre essere attaccate alla porta di casa, seppellite nelle fondamenta di queste, o fuse sulle campane delle chiese. Era infine pratica comune farsi seppellire con esse (alcuni rin-

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Dossier

Madaba (Giordania), chiesa di S. Giorgio. Rappresentazione di Gerusalemme in un particolare della cosiddetta Mappa di Terra Santa, mosaico pavimentale che raffigurava l’itinerario per raggiungere la città santa attraverso il Medio Oriente. VI sec. d.C.

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venimenti provengono infatti da tombe), in modo da testimoniare davanti a Dio l’avvenuto pellegrinaggio in vita. A oggi, il maggior numero di insegne di pellegrinaggio (tra placchette in metallo e conchiglie della specie Pecten jacobaeus) è stato ritrovato in Scandinavia all’interno di sepolture. Nella chiesa dei Domenicani a Helsingborg (Svezia), è stata per esempio rinvenuta la sepoltura di un pellegrino che aveva

visitato Roma e Lucca un paio di volte, nonché Bari, Tours e Rocamadour, e che venne inumato insieme a ben dieci insegne. Le insegne erano decorate solo frontalmente; in alcuni casi la parte posteriore poteva essere cava, per contenere piccole reliquie, pezzi di tessuto venuti in contatto con le tombe dei martiri, o addirittura la limatura del ferro delle chiavi di accesso ai santuari. dicembre

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A destra pagina miniata tratta dal libro V del Codex Calixtinus, che illustra i quattro percorsi che portano dalla Francia fino a Santiago di Compostella. XII sec.

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Il ritorno dell’imperatore Sulla torre del Trabucco della cattedrale di S. Donnino, a Fidenza – una delle città toccate dalla via Francigena – corrono due fregi che sono stati a lungo identificati come rappresentazioni dei pericoli ai quali andavano incontro i pellegrini (in alto) e di un gruppo di fedeli in viaggio verso Roma. Per entrambe le composizioni è stata recentemente proposta una nuova interpretazione. La prima, ispirata alla Geste Francor – un gruppo di poemi d’ambito carolingio –, illustra la storia di Berta, sorellastra di Carlo Magno, e Milone, figlio di Bernardo di Clairmont, appartenente ad un potente casato francese: nel particolare qui riprodotto (in alto), si vede appunto Milone, che seduce Berta (sulla destra) e che poi lotta con uno dei banditi che, in un bosco della Provenza, vogliono rapire la donna. Il secondo fregio (a destra) raffigura in sei formelle il Corteo di Carlo Magno che torna in Francia, dopo aver liberato Roma dai Saraceni. La scena va letta da sinistra a destra e l’imperatore è riconoscibile in fondo al corteo, a cavallo e con lo scettro, preceduto da un servitore appiedato.

La maggior parte dei luoghi di ritrovamento di insegne da pellegrino in Italia ricalca le due grandi direttrici del pellegrinaggio verso la Terra Santa; la prima è quella della Francigena che, passando per la Liguria e la Toscana, arrivava a Roma, proseguendo poi verso la Sicilia; l’altra, che dall’Europa settentrionale, costeggiando l’Adriatico, portava, attraverso la Romagna, a Roma oppure, continuando, verso Loreto e la Puglia per arrivare in Terra Santa. Stando ai dati attualmente a nostra disposizione, in Italia, come nel re-

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sto d’Europa, le insegne vedono un picco di produzione tra il 1150 e il 1250, per poi assestarsi nei secoli successivi e scomparire gradualmente tra il 1500 e il 1600. Curiosamente, il 90 % circa delle insegne che ci sono pervenute proviene da ritrovamenti effettuati in seguito a dragaggi di grandi fiumi, come il Tamigi, la Senna e la Loira.

Nelle acque del Tevere

A Roma, alcune insegne sono state ritrovate nel Tevere, all’altezza di Ponte Sant’Angelo, che, come ri-

corda anche Dante (Inferno, XVIII, 28-32), veniva attraversato dalla folla di pellegrini che andavano a S. Pietro per il Giubileo del 1300. Non è chiaro il motivo che spingeva i pellegrini a gettare questi oggetti nei fiumi, forse gesto benaugurante per il viaggio di ritorno o forse per esorcizzare le acque impetuose. Le placchette venivano realizzate a stampo e la loro produzione e vendita era autorizzata dalla Chiesa, che incamerava anche una parte dei proventi. La forma piú diffusa è quella rettangolare, con quattro dicembre

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anelli ai lati per essere cucite (XIXIII secolo); vi sono poi insegne sagomate (XI-XV secolo), romboidali (XI-XII secolo), a croce (XI-XII secolo), rotonde e ovali (XV-XVI secolo). Le ultime due costituiscono il tipo piú recente, che, a partire dal XVI-XVII secolo, venne sostituito dalle medagliette devozionali. I soggetti piú diffusi sulle insegne sono san Pietro e san Paolo divisi da una croce, con vari attributi (la chiave e il libro) e la scritta SIGNA APOSTOLORVM PETRI ET PAULI, o le abbreviazioni S.PE e S.PA; si possono inoltre trovare Maria col Bambino, la Santa Casa di Loreto, la conchiglia, l’Agnus Dei, i santi Lorenzo e Stefano, san Nicola di Bari, sant’Antonio Abate, la Veronica e il Volto Santo, san Giovanni Battista, il cristogramma.

quella di san Mena, in Egitto, contenente l’acqua di una fonte situata vicino al luogo di sepoltura del santo; quella di Terra Santa, contenente l’olio delle lampade che illuminavano le chiese dei luoghi santi; e quella di altri santuari orientali. Dal XIII-XIV secolo si registra un incremento della produzione delle ampolle, che si protrasse almeno fino al XV secolo. Le ampolle erano fabbricate sempre in piombo o in lega di piombo e stagno; venivano decorate su ambo i lati ed erano applicate alle cinture o appese al collo tramite un cordoncino, fatto passare attraverso i manici. La maggior parte dei rinvenimenti di ampolle ha avuto luogo nel Nord Europa e in Inghilterra. Sembra che simili oggetti fossero souvenir molto popolari soprattutto

Diari e itinerari

Altri oggetti riportati dai pellegrinaggi erano le ampolle, piccoli recipienti in metallo che contenevano in genere olio benedetto, particelle di reliquie o acqua attinta dalle fonti presenti vicino ai santuari. In epoca altomedievale (VVI secolo), si producono ampolle derivate dalle borracce da viaggio di epoca ellenistica e imperiale, di forma lenticolare schiacciata, con due manici per potervi legare una corda con cui appenderle alla cintura o al collo. A questo periodo appartengono tre tipi di ampolla:

a Canterbury. In Italia, i luoghi di rinvenimento sono localizzati soprattutto al sud – in Calabria, Sicilia e Puglia – e lungo la costa adriatica, nei luoghi piú direttamente interessati dal pellegrinaggio in Terra Santa o al santuario di S. Nicola a Bari, famoso per gli oli miracolosi: si tratta, in ogni caso, di ambienti rurali, il che ha fatto pensare che le ampolle fossero legate a particolari riti connessi con la benedizione dei campi, sui quali veniva versato il liquido in esse contenuto. Luciano Frazzoni

a lungo dopo il tramonto per guidare i pellegrini verso l’ospizio. Il viaggio quindi poteva essere fonte di apprensione e anche di angoscia, perché i pericoli erano reali. Ci si affidava alle esperienze altrui che, spesso, venivano riportate nei racconti orali, nelle agiografie e nei diari scritti da molti pellegrini colti, veri e propri resoconti di viaggio, meglio noti come Itineraria. Famosi erano quelli di Egeria (Peregrinatio Heteriae, o Itinerarium Egeriae, o Peregrinatio ad Loca Sancta), una pellegrina di origine spagnola che

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Come già ricordato, il pellegrinaggio rappresentava una grande avventura, che andava pianificata con attenzione, anche perché la sua riuscita non era sempre certa e molti potevano essere i rischi, determinati anche dagli ambienti attraversati. Per esempio, il monaco inglese John de Bremble, in una lettera indirizzata al suo priore nel 1118, scrisse che il passaggio sul San Bernardo ricordava, nei suoi pericolosi e profondi burroni e strapiombi, le bolge dell’Inferno. Per non parlare dei ponti, spesso realizzati con legname scadente, pronti a crollare sotto il peso dei pellegrini. Le stesse strade non erano mantenute in buone condizioni, né i percorsi erano segnalati. Per questo la campana detta «Smarrita», ad Altopascio, veniva suonata

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

si era recata in Terra Santa, in un periodo che oggi si ascrive alla fine del IV secolo, o quello piú antico (333-334) noto come Itineriarium Burdigalense o Itinerarium Hierosolymitanum (Itinerarium a Burdigala Jerusalem usque et ab Heraclea per Aulonam et per urbem Romam Mediolanum usque), opera di un anonimo pellegrino cristiano in viaggio da Burdigala (oggi Bordeaux) a Gerusalemme, per venerare il Santo Sepolcro. Era nota inoltre, in tutto il Medioevo e il Rinascimento una cronaca di pellegrinaggio in Terra Santa attribuita a sant’Antonino di Piacenza, morto martire nel 303; ma redatta probabilmente intorno

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al 570 da un pellegrino piacentino devoto al santo. Negli Itineraria i suddetti pellegrini fornivano preziose indicazioni sugli itinerari, sullo stato della viabilità, la lunghezza e durata delle tappe; indicando le città toccate dal percorso; ma anche i centri minori dove poter riposare e rifocillarsi, o le stazioni per il cambio dei cavalli; oltre a particolari riti religiosi a cui avevano partecipato durante e alla fine del cammino.

Una produzione copiosa

Tra il Trecento e il Quattrocento vennero redatti quasi 360 diari di viaggio ai Luoghi Santi, prova

dell’alto numero dei pellegrini che vi si recavano. E ben dodici autori latini compilarono Itineraria, tra cui Beda il Venerabile, il quale, tra il 703 e il 705, scrisse il Liber de locis sanctis, basandosi su racconti di autori precedenti. La prima descrizione riguardante la via Francigena venne fatta scrivere a un componente del suo seguito dal vescovo di Canterbury Sigerico, il quale, nel 990, tornando da Roma – dove aveva ricevuto dal papa il pallio della consacrazione a presule – alla sua sede, elencava tutte le località in cui, con il suo seguito, aveva trascorso la notte durante il viaggio. Venivano, inoltre, riportadicembre

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ti chiese, ospedali, luoghi nei quali poter riposare e dormire, rifocillarsi e ricevere cure. Le tappe corrispondono, in gran parte, a località tuttora esistenti e il suo itinerario, il piú diretto e con probabilità piú utilizzato, è quello classico della Francigena da Canterbury a Roma. Il «diario» di Sigerico ci è pervenuto per caso: le tappe del suo percorso sono state infatti trascritte da un anonimo, in appendice a un elenco dei papi del X secolo, attualmente conservato presso la British Library di Londra. A partire dal XII, secolo, con le crociate, esplose la produzione di itinerari, anche per mantenere vi-

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A sinistra e in alto Altopascio, Lucca. Una veduta del Complesso degli Ospitalieri dal lato esterno della città e uno scorcio della loggia superiore, affacciata sulla piazza omonima. A destra il campanile della chiesa dei Ss. Jacopo, Cristoforo ed Eligio ad Altopascio. Da qui, dopo il tramonto, i rintocchi della campana Smarrita guidavano verso la cittadina i pellegrini ancora in cammino.

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Dossier va la memoria degli eventi e delle gesta verificatisi in quegli anni; è il caso dell’Itinerarium peregrinorum del canonico londinese Ricardo, che seguí il Cuor di Leone nella terza crociata (1187-1192). Per altri autori, invece, diventava preponderante l’aspetto penitenziale e spirituale (Iter ad Terram Sanctam, del renano Tetmaro, 1217).

Sulle orme di Sigerico

L’abate islandese di Thingor, Nikulas di Munkathvera, nel 1154, recandosi a Roma, scrisse un diario di viaggio molto piú particolareggiato di quello di Sigerico, pur ricalcandolo pedissequamente. Tra l’altro, esso citava, fra Piacenza e Fidenza, l’ospizio di Eric I di Danimarca e l’ospizio di Matilde ad Altopascio; vere e proprie strutture destinate ad accogliere i pellegrini. Lo stesso itinerario della Francigena, in senso inverso, venne elencato da Filippo II

In alto miniatura raffigurante alcuni pellegrini che si bagnano nelle acque del Giordano, da un’edizione del Livre des Merveilles. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra la prima pagina di una copia del Libro di Margery Kempe. 1440 circa. Londra, British Library.

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Augusto, re di Francia, nel suo ritorno dalla terza crociata nel 1191. Il nome di Hôpital dato ad Altopascio conforma l’importanza della struttura di accoglienza ivi presente. Negli Itineraria e nelle agiografie venivano spesso riportati i pericoli di aggressione da parte di Saraceni, non soltanto nelle terre di oltremare, ma anche nella regione delle Alpi. Lo stesso abate di Cluny, Maiolo – secondo quando scrive Sirio nella Vita di San Maiolo abate di Cluny –, venne fatto prigioniero nel 972, nei pressi del Gran San Bernardo da una banda di Saraceni, attestata a dicembre

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quattro pellegrinaggi in Terra Santa. Vero e proprio bandito, omicida, ladro saccheggiatore e stupratore, Folco aveva ucciso la moglie lo stesso giorno delle nozze, bruciandola viva, con l’accusa di aver concesso le sue grazie a un capraio.

Saccheggi e truffe

Frassineto, che controllava importanti passi alpini. L’abate fu rilasciato soltanto dopo che venne pagata un’immensa quantità di denaro. Anche con le popolazioni locali, non ancora cristianizzate, come Baschi e Navarri, si rischiava, se non la vita, la riduzione in schiavitú e di esserre trattati come animali da soma. Secondo la Guida del pellegrino di Santiago (V libro del Codex Calixtinus), del XII secolo, gli empi Navarri e Baschi «erano soliti non solo derubare i pellegrini che si dirigevano a Santiago, ma anche cavalcarli come asini e ucciderli». Bande di malintenzionati predava-

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no lungo le antiche vie romane: il santo abate Guglielmo da Vercelli, secondo la Legenda de vita et obitu S. Gulielmi confessore e l’Istoria dell’origine del sagratissimo luogo di Montevergine, di Tommaso Costo (1591), venne sonoramente bastonato da alcuni masnadieri nei pressi di Oria, mentre si dirigeva a Brindisi per salpare verso la Terra Santa. Non sempre il pellegrinaggio veniva compiuto per fede. Molti, soprattutto tra i nobili, vi erano obbligati dai propri confessori, per espiare gravi peccati. Folco III d’Angiò (972-1040) dovette compiere ben

Molti erano poi i falsi pellegrini, che aspettavano il momento proprizio per aggredire e depredare i compagni di viaggio. Cosí, nei Miracula Sancti Eutropii, si racconta di un pellegrino cieco che venne derubato dei soldi, del cavallo e dei bagagli da coloro che lo accompagnavano nel viaggio. Particolare attenzione doveva essere data anche a chi forniva ospitalità e ristoro. Secondo la Veneranda dies (I libro del Codex Calixtinus) non tutti gli albergatori erano onesti, molti imbrogliavano sui prezzi e sul cambio delle monete, si servivano di pesi e misure truccati, fornivano cibo scadente, allungavano vino con acqua, utilizzavano botti con due scomparti, in uno dei quali era posto il vino buono per gli assaggi e nell’altro quello scadente da fornire durante i pasti. D’altronde, le abitudini alimentari incontrate lungo il viaggio potevano non essere del tutto gradite ai pellegrini di gusti piú raffinati. Secondo la Guida del Pellegrino di Santiago, nei Paesi Baschi, nella città di Bayonne, mancavano pane, vino e ogni alimento del corpo, anche se vi si trovavano cibi e bevande piú usuali come mele, latte e sidro. Soltanto chi era in grado di pagare poteva permettersi un vitto migliore. Nei racconti compaiono anche storie picaresche di belle ostesse respinte da giovani pellegrini e che si vendicano accusandoli di furti di oggetti preziosi. Nei casi peggiori, soprattutto nell’attraversare località colpite da carestie, i viandanti potevano essere perfino uccisi e mangiati, come testimoniato dalle ben quarantotto teste ritrovate in casa di un signore che viveva in Francia

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La Gerusalemme Celeste in una miniatura dal manoscritto Les Trois Pèlerinages di Guillaume de Digulleville. 1355. Parigi, Bibliothèque Sainte-Geneviève.

nella foresta di Châtenet, presso Mâcon, come racconta Rodolfo il Glabro (985 circa-1047 circa) nelle sue Storie dell’anno Mille: I cinque libri delle Storie e Vita dell’abate Guglielmo. Né mancavano gabellieri malvagi, pronti a esigere ingiusti pedaggi dai pellegrini, che per la loro condizione risultavano essere esentasse. La Guida del pellegrino di Santiago riporta le male consuetudini dei gabellieri di Ostabat, nei Pirenei, presso il passo di Cize, abituati a pretendere tributi, minacciando con archi e frecce e perquisendo i malcapitati anche nelle zone piú intime.

I timori delle donne

Per le donne, soprattutto se non accompagnate dal marito, familiari o da una scorta armata, il pellegrinaggio poteva avere esiti ben peggiori. Margery Kempe (1373 circa-dopo il 1438), nel Libro di Margery Kempe, raccontando il suo pellegrinaggio ai luoghi santi della cristianità, Roma, Gerusalemme e Santiago di Compostella, mostra il terrore di essere violentata lungo il cammino. Sempre secondo la Guida del pellegrino di Santiago, era bene diffidare anche dei barcaioli e dei traghettatori che esigevano, talvolta con la forza, pedaggi altissimi per il trasporto sulle loro barchette piccole e malagevoli, che non potevano accogliere la cavalcatura: una moneta per il viandante e quattro per un cavallo. Il proprietario era costretto a trascinare l’animale per le redini fuori dalla barca. Se poi il numero eccessivo di pellegrini faceva capovolgere o affondare l’imbarcazione, i barcaioli che già avevano ricevuto il compenso, gioivano nell’appropriarsi dei beni degli affogati. Anche per questo, alla fine, il pellegrinaggio consigliato diventò quello interiore: la prima opera in questo senso è Pélerinage de la vie humaine del poeta francese Guillaume de Deguileville, composta tra il 1330 e il 1331. V Giovanni Antonio Baragliu

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UN ANTROPOLOGO NEL

MEDIOEVO Doni e donatori A

l titolo II delle Norme generali per l’ordinamento dell’anno liturgico e del calendario (emanate nel 1969 durante il pontificato di Paolo VI), si legge che il «tempo di Natale inizia con i primi vespri del Natale del Signore e termina la domenica dopo l’Epifania, cioè la domenica che cade dopo il 6 gennaio». Nelle culture popolari europee, invece, questo «Tempo di Natale» – che potremmo anche definire «di san Nicola» – si dilata e si prolunga almeno fino alla Purificazione della Vergine, il 2 febbraio, quando non arrivi a coprire tutto il periodo invernale. L’attribuzione

al santo barese non nasce da una semplice o devota predilezione rispetto ad altri santi, ma perché la sua figura sembra accompagnare l’intero ciclo delle feste e dei rituali invernali: dal 30 novembre, giorno di sant’Andrea, e almeno fino al 13 gennaio, quando il santo appare nelle processioni di Urnäsch nell’Appenzel svizzero. Questo predominio è stato certamente agevolato dal fatto che durante l’inverno ci troviamo di fronte a un denso periodo festivo dai tratti comuni che caratterizzano il nostro emisfero. Come se «pezzi» di


rituale fossero migrati da un luogo all’altro, da un giorno all’altro del calendario, in una cornice festiva che orbita intorno al solstizio d’inverno. E se questi elementi «migrano» è perché hanno un sostrato culturale che, se non comune, almeno è omogeneo. In questo lungo periodo solstiziale siamo quindi di fronte a credenze, riti, leggende e usi che sembrano avere tratti comuni: pronostici per il futuro, prodigi, visite di esseri provenienti da un altro mondo (siano essi i «mostri» di Halloween o i morti del 2 novembre) e, soprattutto, una vorticosa circolazione di doni. Quest’ultimo elemento, attualmente concentrato attorno a poche date (santa Lucia, santa Claus, la Befana), ha il duplice scopo di riaffermare le distinzioni e la collocazione sociale dei partecipanti allo scambio e rinsaldarne i legami sociali: fare un regalo «importante» a qualcuno significa affermare la sua rilevanza e, piú in generale, fare regali significa riaffermare i legami, d’amicizia o d’altro. Proprio questo comune bacino di credenze giustifica il fatto che la figura di un santo come Nicola – donatore per eccellenza fin dalle sue prime biografie – possa muoversi tra le diverse date con tanta disinvoltura.

Sconfitti dalla generosità La funzione sociale di questa circolazione di doni è stata osservata da molti studiosi, primo fra tutti Marcel Mauss (1872-1950) nel suo Saggio sul dono (Parigi 1925). Partendo dalla constatazione che la circolazione dei doni comprende necessariamente il «dare-riceverericambiare», l’antropologo francese osserva una cerimonia che si svolgeva tra gli indiani Kwakiutl del Nord-Ovest americano, conosciuta come Potlatch e durante la quale gli attori coinvolti stipulavano o rinforzavano alleanze tra i vari gruppi grazie allo scambio di doni e alla loro distruzione rituale. In entrambi i casi, i Kwakiutl affermavano pubblicamente, grazie a questa sorta di «generosità», la loro potenza, il loro rango o lo riacquistavano nel caso l’avessero perso. Questa generosità sembrava sostituire la guerra come risoluzione dei conflitti: donare qualcosa di stravagante o di molto prezioso metteva infatti in seria difficoltà colui che lo riceveva, nel momento in cui avrebbe dovuto «ricambiare», per giunta con gli obbligatori interessi. Questo avrebbe avuto su di lui e il suo casato un effetto peggiore di una sconfitta in battaglia: avrebbe «perso la faccia», e con essa il suo prestigio. Ancora Mauss, in questo caso tra gli Eschimesi, o Inuit, rilevò la grande differenza esistente tra il periodo estivo Nella pagina accanto Adorazione dei Magi (particolare), tempera, oro e argento su tavola di Gentile da Fabriano. 1420-1423. Firenze, Galleria degli Uffizi. Realizzata grazie al lauto finanziamento di mecenati locali, l’opera è considerata uno dei capolavori dell’arte sacra di ogni tempo.

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e quello invernale, durante il quale «l’aggruppamento umano vive per cosí dire in stato di esaltazione religiosa continua (…). È l’epoca in cui i miti e le leggende vengono tramandati dagli anziani ai piú giovani». La vita sociale, cioè, era in qualche modo risvegliata e sentita maggiormente. Tornando in Europa, è almeno dall’epoca romana che intorno ai festeggiamenti del nuovo anno ci si scambiavano doni, chiamati strenae, donde le nostre strenne natalizie. In particolare queste venivano distribuite dal patronus in cambio della fedeltà dei loro clientes. Un collaudato sistema di consenso che non ha mai smesso di funzionare: il classico do ut des. Quasi inutile dire che la Chiesa si scagliò spesso e fin dall’inizio contro quest’uso e questa mentalità: «Vi ho detto, non date strenne, ma date ai poveri. Ora, mi si obbietta: “Quando dò le strenne, a mia volta ne ricevo”. Ma, secondo la promessa del Signore, se darete ai poveri riceverete cento volte tanto». Appaiono evidenti, in questa affermazione di Cesario di Arles del principio del VI secolo, le differenze profonde tra cultura romana e cultura cristiana: la circolazione «politica» (come quella osservata dall’etnologia) del dono viene condannata in favore di un donativo senza speranza di contraccambio: l’appartenenza alla comunità, la propria posizione gerarchica al suo interno, non vengono sancite attraverso il ciclico e mutuo scambio di donativi, ma dal comune sentimento di carità che, unito alle altre virtú teologali, diviene strumento per raggiungere la felicità.

La Chiesa si affida ai santi Questa era la battaglia che il cristianesimo ha condotto contro il dono, questa la differenza che ha sempre tentato di (im)porre tra sé e le altre culture. La stessa creazione divina veniva considerata come libero dono di Dio, un’idea che mirava ad abolire la relazione orizzontale della circolazione del dono in favore di una verticale fondata sul massimo dono possibile: un Dio che «nasce» per donare la sua vita in favore degli uomini. Un’idea che si affianca alla duplice affermazione teologica della non-necessità e contingenza dell’atto creativo di Dio e quindi della radicale subalternità dell’intero mondo creato rispetto al suo creatore. La Chiesa non riuscí mai ad abolire questa vorticosa circolazione e si accontentò di incaricare i suoi santi di questa spinosa faccenda: i morti, santa Lucia, san Nicola, Gesú Bambino, sono tutte figure sante che presero nei secoli l’appalto di donare agli uomini, soprattutto ai bambini. Questo, almeno prima che l’incarico fosse esclusivamente affidato a Babbo Natale, parente stretto, cugino e fratello gemello di san Nicola, il grande donatore presente ancor oggi nel periodo di massima circolazione dei doni. Claudio Corvino

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Tutta un’altra storia LIBRI • Il mondo del lavoro e le sue dinamiche sono

al centro di una vasta e approfondita ricognizione che sfata molti stereotipi sui modi della produzione

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n collegamento ideale con la Storia del lavoro in Italia di Amintore Fanfani (e secondo di una serie che dall’epoca romana arriva al Novecento), questo corposo volume, frutto delle ampie e originali ricerche di numerosi specialisti del settore, non rappresenta un’enciclopedia sull’argomento, ma costituisce piuttosto una selezione di temi e problematiche essenziali alla comprensione della società medievale nei suoi molteplici aspetti inerenti il mondo della produzione, trattati in modo esteso e analitico, pur senza rinunciare alla sintesi e all’interpretazione. Lungo un arco cronologico che spazia dal V al XV secolo – e in una realtà geografica i cui confini coincidono con quelli della Penisola –, vengono cosí presi in considerazione il mondo urbano e quello rurale; le relazioni tra gli individui e l’ambiente in continua trasformazione grazie alle sempre nuove tecniche agricole; i complessi rapporti tra i soggetti del mondo produttivo cittadino (mercanti, imprenditori, artigiani autonomi e semiautonomi, lavoratori salariati, maestri, apprendisti, lavoro femminile), caratterizzati da molteplici livelli di imprenditorialità e da una variabilità estrema di situazioni che tendono a sfumare l’una nell’altra; le professioni; le attività svolte nei conventi; i livelli di vita; le forme di protesta e i conflitti che animavano il mondo dei mestieri. Motivo ricorrente in tutti i saggi e merito fondamentale dell’opera è l’intento di sfatare gli stereotipi e la visione

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asfittica, limitata e schematica del mondo del lavoro contenuta nei manuali, per fornire finalmente una trattazione ampia dell’argomento, basata sull’elaborazione e la sintesi di una vasta documentazione di prima mano e di studi specialistici, ottenendo cosí un quadro fondato sulla realtà in tutta la sua concretezza.

Una Regola da rileggere Vengono dunque sfatati i pregiudizi sul lavoro femminile, diffuso in tutti i settori (compresa l’edilizia e le attività usuranti), e a tutti i livelli (dalla manovalanza all’imprenditorialità); quelli sul lavoro monastico: la formula «ora et labora» non esiste nella Regola benedettina, e i monaci non lavorarono mai la terra, né si occuparono della sua amministrazione, affidandola a gestori specializzati, anche se la loro attività in altri settori piú intellettuali risultò comunque fondamentale. Non si prende neppure in considerazione il «modo di produzione feudale», altro archetipo privo di fondamento; viene sfatato il vecchio stereotipo dei «servi della gleba» per analizzare capillarmente la realtà materiale e la condizione giuridica di questi lavoratori. Dall’analisi delle singole realtà economiche appare palesemente superato il concetto tradizionale del mondo medievale come caratterizzato da un’«economia chiusa»: gli orizzonti dischiusi per terra e per mare dai molteplici collegamenti tra le reti mercantili sparse per tutta

Franco Franceschi (a cura di) Storia del lavoro in Italia. Il Medioevo. Dalla dipendenza personale al lavoro contrattato collana diretta da Fabio Fabbri, Castelvecchi Editore, Roma, 606 pp. 47,00 euro ISBN 9788869449352 l’Europa, confutano ampiamente anche questo stereotipo. Istituzioni imparziali, rapide nei giudizi, competenti e affidabili come i tribunali corporativi; tecniche commerciali, bancarie e assicurative risalenti all’età medievale e giunte pressochè immutate fino ai nostri giorni; la migrazione delle maestranze, la circolazione dei saperi, l’imitazione dei prodotti, in una sorta di globalizzazione dei mercati ante litteram, l’affermarsi di un’economia «consumistica» fin dal Duecento; la variegata dicembre

MEDIOEVO


Miniatura raffigurante alcuni dei mestieri piú diffusi nel Medioevo, dalla prima copia a stampa del Tractatus de sphaera mundi di John Holywood (1190 circa1250 circa). 1472. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

articolazione sociale ed economica delle associazioni corporative, rappresentano ulteriori temi presi in considerazione nel volume e atti a sfatare pregiudizi e luoghi comuni.

Un’opera imprescindibile Dopo una parte introduttiva, dedicata al sistema di valori della società medievale in rapporto al lavoro e ai lavoratori, la prima sezione del volume (secoli V-X) si sofferma su forme, figure e rappresentazioni del lavoro nelle campagne, e sulle attività dei

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monaci; sul lavoro urbano, sul suo inquadramento istituzionale, sui contesti economico-sociali dei processi produttivi e dell’artigianato; sul lavoro non libero. La seconda sezione, riguardante invece l’arco cronologico compreso tra l’XI e il XV secolo, contiene saggi dedicati all’Italia contadina; a industria e artigianato nelle aree extraurbane; ai mestieri del mare; alla geografia e tipologia delle attività urbane; alle professioni «liberali» (giuristi, notai , medici, maestri); ad artigiani, salariati,

corporazioni, lavoro femminile; ai consumi e ai livelli di vita; al rapporto tra lavoro, conflitti e rivolte. Conclude il volume una vastissima bibliografia di oltre 80 pagine, comprendente tutte le opere citate nei vari saggi. Si tratta, insomma, di un’opera imprescindibile per chi voglia farsi un’idea del mondo del lavoro medievale nella sua realtà effettiva e nella sua concretezza, andando oltre gli schemi teorici che ne hanno a lungo proposto una visione distorta. Maria Paola Zanoboni

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Cristina Carbonetti Vendittelli e Marco Vendittelli (a cura di) La mobilità sociale nel Medioevo italiano 5. Roma e la Chiesa (secoli XII-XV) Viella, Roma, 147 pp.

22,00 euro ISBN 978-88-6728-895-3 www.viella.it

Dopo essere a lungo rimasto ai margini della storiografia medievale, il tema della mobilità sociale è divenuto oggetto, in particolare nell’ultimo decennio, di un rinnovato interesse. Ciò ha permesso di allargare gli orizzonti, consentendo di comprendere meglio le vicende che all’interno di determinati contesti hanno reso possibile l’ascesa sociale degli individui e dei loro casati. Quinto titolo di una serie che l’editore Viella ha dedicato all’argomento – e che si inserisce all’interno di un progetto di ricerca nazionale su «La mobilità sociale nel Medioevo italiano (secoli XII-XV)» coordinato da Sandro Carocci –, questo volume si sofferma sul caso romano, in cui la Curia pontificia ha rappresentato uno

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dei canali che hanno favorito la mobilità sociale. Roma, in questo senso, si rivela un campo di studio privilegiato, nel quale le numerose istituzioni ecclesiastiche legate appunto alla Curia e al clero cittadino hanno creato opportunità per l’ascesa sociale, grazie a una politica

nepotistica legata alla figura del papa, ma anche a un piú specifico nepotismo «cardinalizio». I sette studi riuniti nel volume affrontano da angolazioni diverse le varie sfaccettature del tema prescelto. Grazie all’esame delle dinamiche sociali, vengono evidenziati sia casi di cambiamento di status sociale di personaggi legati all’aristocrazia e al baronato, ma anche l’ascesa sociale di clerici appartenenti

agli strati piú bassi della gerarchia, ovvero il ritorno allo stato laicale di componenti del clero capitolare, che conseguirono importanti posizioni sociali grazie alla formazione teologicogiuridica acquisita. Altro argomento interessante affrontato nel volume è l’importanza della formazione universitaria e quella legata ai collegi sparsi nella città; attraverso l’esame di alcune biografie viene dimostrato, infatti, come l’investimento nella formazione culturale e universitaria abbia costituito uno dei mezzi essenziali all’avanzamento sociale. Anche lo sguardo sulle realtà meno abbienti, costituite dai pauperes, orfani e figli illegittimi, affidati alle cure di alcune confraternite romane, evidenziano come una politica di sostegno sia riuscita, in taluni casi, a offrire valide opportunità di avanzamento sociale seppure nell’ambito piú povero della società. Non viene tralasciato, infine, il tema della centralità dei patrimoni femminili (le doti),

che hanno avuto un ruolo non secondario nell’ambito della mobilità sociale. Franco Bruni Alfonsina Russo Luisa Caporossi (a cura di) Il Tesoro di Santa Rosa Un Monastero di Arte Fede e Luce

e

Gangemi Editore International, Roma 142 pp., ill. col.

30,00 euro ISBN: 978-88-492-3506-7 www.gangemieditore.it

Pubblicato come catalogo dell’omonima mostra allestita a Viterbo presso lo stesso monastero di S. Rosa, il volume ripercorre la storia di questo importante complesso religioso, la cui prima attestazione porta la data del 1235. Nei capitoli che precedono le schede delle opere d’arte e degli oggetti selezionati per l’esposizione vengono dunque passate in rassegna sia le caratteristiche architettoniche e artistiche del sito, sia la storia della santa a cui è intitolato. E molti sono gli elementi di interesse, come, per esempio, l’archivio dei documenti che il monastero custodisce, nel quale – caso

non unico, ma raro – sono state raccolte e conservate quasi tutte le pergamene prodotte fra il XIII e il XIX secolo. Articolata e spesso travagliata è stata la vita del sito, che ha subito numerosi rimaneggiamenti, tra i quali rientra, fra gli altri, la distruzione degli affreschi con le Storie della vita di Santa Rosa che Benozzo Gozzoli dipinse nel 1453 sulle pareti della chiesa, sacrificati in occasione del rifacimento seicentesco e dei quali si conservano oggi le riproduzioni realizzate da Francesco Sabatini. Né manca, com’era del resto logico attendersi, un capitolo dedicato alla tradizione ancora oggi viva e sentita della Macchina di Santa Rosa, il cui trasporto, nella sera del 3 settembre, è uno degli eventi piú attesi dall’intera comunità viterbese. Stefano Mammini dicembre

MEDIOEVO



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