Medioevo n. 250, Novembre 2017

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EDIO VO M E A

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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IL MISTERO

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MEDIOEVO n. 250 NOVEMBRE 2017 CHANGELING ORIGINI DELLE BANCHE TERME DI VITERBO

DIOEVO ME

IN EDICOLA IL 2 NOVEMBRE 2017

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SOMMARIO

Novembre 2017 ANTEPRIMA

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ANIMALI MEDIEVALI Il «parente» abominevole

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RESTAURI Qui giace il nobile Bartolomeo 6 A scuola dai Domenicani 10 Il primo patrono è tornato! 18 ITINERARI Nel cuore di Asti

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APPUNTAMENTI È tempo di mercati... L’Agenda del Mese

20 26

STORIE

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IMMAGINARIO

LUOGHI

Changeling

Quei bambini scambiati nella culla di Domenico Sebastiani

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32

BAGNI DI VITERBO La salute è nell’acqua di Luca Salvatelli

MEDIOEVO NASCOSTO Lazio Abbazia con vista fiume di Franco Bruni

Dossier

CALEIDOSCOPIO

62

98

STORIE, UOMINI E SAPORI Quando il banchetto si fa spettacolo

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LIBRI Lo scaffale

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MUSICA Amore, filosofia e altre storie

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LA REGINA DEL MARE di Elisabeth Crouzet-Pavan

COSTUME E SOCIETÀ BANCHE Soldi, prestiti e profitti

di Maria Paola Zanoboni

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DE A V LL LL IT EA AS E NT CORB IC PE O HE R TE TA RM E

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MEDIOEVO n. 250 NOVEMBRE 2017

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MEDIOEVO Anno XXI, n. 250 - novembre 2017 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it

Illustrazioni e immagini: Foto Scala, Firenze: copertina (e pp. 32/33) – Doc. red.: pp. 5, 35-39, 46/47, 49, 57 (basso), 60, 64 (alto), 65 (basso), 85, 89, 91, 95, 110 – Cortesia Museo Diocesano di Teggiano: Giusy Cariello: pp. 6-8 – Cortesia Ufficio Stampa della Diocesi di Treviso: pp. 10, 11 (basso) – Cortesia ISCR (Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro): pp. 12-13; Edoardo Loliva: pp. 11 (alto) – Cortesia Museo di S. Anastasio, Asti: pp. 14-16 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 18, 20 – Cortesia degli autori: pp. 22, 67 (alto9 – Mondadori Portfolio: p. 76; AKG Images: pp. 40/41, 59 (destra), 109; Leemage: pp. 48, 50-51, 54, 59 (sinistra), 96; AGE: pp. 52, 54/55; Electa/Arnaldo Vescovo: pp. 52/53; Archivio Magliani/ Mauro Magliani & Barbara Piovan: p. 78; Electa: p. 79 – Bridgeman Images: p. 42 – DeA Picture Library: pp. 65 (alto), 74/75, 82 (alto); G. Dagli Orti: pp. 56, 84; A. Dagli Orti: pp. 58, 76/77, 82 (basso), 97; A. De Gregorio: pp. 62/63; Biblioteca Ambrosiana: pp. 64/65 – Archivi Alinari, Firenze: © RMN-Grand Palais/ Agence Bulloz: p. 57 (alto) – Shutterstock: pp. 66/67, 71, 80-81, 83 (basso), 88/89, 96/97 – Getty Images: Frank van den Bergh: pp. 72/73 – Giorgio Albertini: disegni alle pp. 86/87, 92/93 – Franco Bruni: pp. 98/99, 100/101, 102-107 – Cortesia Giovanni Vignola: p. 100 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 68, 83, 100.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l.

Impaginazione: Alessia Pozzato

Direttore generale: Andrea Ferdeghini

Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Hanno collaborato a questo numero: Marco Ambrogi è direttore del Museo Diocesano di Teggiano. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Elisabeth Crouzet-Pavan è professore di storia medievale all’Université Paris IV-Sorbonne. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Chiara Parente è giornalista. Luca Salvatelli è dottore di ricerca in storia dell’arte medievale. Domenico Sebastiani è cultore di tradizioni e leggende medievali. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Concessionaria per la pubblicità extra settore: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it Pubblicità di settore: Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com

Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

In copertina Prato, Duomo. La nascita di santo Stefano e la sua sostituzione da parte di un demone, particolare di una scena dal ciclo di affreschi con le Storie di santo Stefano e di san Giovanni Battista di Filippo Lippi. 1452-1465.

Direzione, sede legale e operativa: Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369

Nel prossimo numero storie

luoghi

Vivere nel Medioevo

Jesi, la «città regia»

costume e società

dossier

La lunga storia del velo

La via Francigena


ANIMALI MEDIEVALI a cura di Federico Canaccini

Il «parente» abominevole

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on era difficile incontrare le scimmie nell’Europa medievale. Si trattava perlopiú di bertucce, catturate, addomesticate e poi protagoniste di spettacoli nelle corti feudali o regie. Le scimmie provenivano dai Paesi orientali e dall’Africa. Per catturarle, erano stati messi a punto alcuni stratagemmi di dubbia riuscita. Alcuni bestiari tramandano, per esempio, che i cacciatori si mostrano nella foresta con scarpe che lasciano in bella vista in una radura, sfilandosele sotto gli occhi curiosi delle scimmie. Queste, imitando il gesto degli uomini, calzano le scarpe a loro volta, ma ne restano prigioniere, in quanto appesantite da suole di piombo, e divengono cosí facile preda. Oppure i cacciatori sfruttano il presunto disinteresse della scimmia per uno dei suoi due piccoli: messa in fuga, porta il prediletto attaccato al petto, e il secondo sulla schiena. Sarà proprio il favorito quello che verrà involontariamente lasciato nelle mani dei cacciatori, quando, presa dall’affanno, la madre sarà indotta ad allargare le braccia per respirare. Racconti simili figuravano in molti manuali di zoologia e diedero vita a spiegazioni morali e teologiche di vario genere e spessore. Nonostante questa presenza nelle corti e nelle piazze dei borghi, la scimmia detiene il triste primato di essere considerato l’animale piú abominevole dei bestiari medioevali! La sua somiglianza con l’uomo, essere fatto a immagine e somiglianza di Dio, la rende l’abominio piú grande. Non è l’animale che assomiglia realmente all’uomo, ma un essere che tenta di «scimmiottarlo», in modo perverso, diabolico, subdolo, con risultati disastrosi. Nel Duecento si trova una spiegazione anche etimologica: la simia non è simile all’uomo, per natura, ma per artificio; essa infatti simula la somiglianza con l’uomo e, quindi, con Dio. Per questo è un essere demoniaco. Grazie a questa sua capacità imitativa, degna del demonio, la scimmia riesce a imitare i comportamenti umani, facendo divertire i bambini e gli adulti nelle piazze. Alcuni teologi vedono in lei addirittura una sorta di specie umana, cosí trasformata per essersi ribellata a Dio, come il bell’angelo Lucifero, tramutato, per la sua disobbedienza, in un essere abominevole. Aristotele e Plinio assicurano che la scimmia è l’essere che piú si avvicina all’uomo, anche se nel Medioevo si affiancano l’orso, per la postura, e il maiale, per l’anatomia interna. Isidoro da Siviglia non aveva dubbi a proposito della bruttezza della scimmia, una bruttezza che era addirittura trasmissibile attraverso la sola vista: se una donna incinta avesse infatti guardato una scimmia durante la gestazione, ella avrebbe dato alla luce un figlio talmente brutto e dalle fattezze scimmiesche che sarebbe stato evitato da tutti. La descrizione che ne danno i bestiari è disarmante: la pelle grinzosa, il naso orribilmente schiacciato, sgraziato e deforme, il posteriore, poi, privo dei peli che invece abbondano in modo ripugnante ovunque, è proprio indecente. Anche l’umore della scimmia, volubile, lunatico, è un elemento a suo sfavore: con la luna nuova è vivace e allegra, con la luna calante diventa malinconica e triste. La tristezza era considerata parte dei sette vizi capitali, integrata nell’accidia quando, da otto che erano, i vizi divennero sette, nella nuova e definitiva sistemazione altomedievale. Nell’iconografia cristiana, infine, si nota talvolta una scimmia ai piedi di Maria, a simboleggiare la menzogna su cui ha trionfato la verità, come nella Madonna della Scimmia di Dürer. Tenendo ai propri piedi la bestiola, la Vergine non solo blocca una creatura demoniaca, ma impedisce all’uomo il ritorno al peccato originale, che altro non è che l’essere stati generati attraverso il sesso, in condizione d’impurità. Maria, invece, rappresenta l’immacolata concezione.

Madonna con la scimmia, incisione di Albrecht Dürer. 1498 circa. Graz, Universalmuseum Joanneum, Alte Galerie.


ANTE PRIMA

Qui giace il nobile Bartolomeo RESTAURI • La tomba

tardo-gotica in stucco policromo di Bartolomeo Francone, conservata nel Museo Diocesano di Teggiano, è stata oggetto di un intervento di restauro che ha esaltato l’autenticità delle sue forme originarie

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el Trecento, periodo di riequilibrio dinastico e aristocratico nelle terre del Mezzogiorno angioino, si assiste a una politica di feudalizzazione legata ad alcune famiglie nobiliari, che tendono ad acquisire prestigio economico e sociale anche con la

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partecipazione agli eventi militari che interessano il Regno di Napoli. Non sono da meno, in questa linea di condotta, i Francone di Diano (odierna Teggiano), che «prestano» alle milizie del Principato Citra, e in modo particolare ai Sanseverino, il soldato Bartolomeo, per il quale innalzeranno, nella chiesa di S. Pietro a Teggiano (Salerno), una tomba superba della quale si è da poco concluso un importante restauro. Il sacello, di quadrata geometria e voltato a crociera acuta, venne aggregato architettonicamente alla chiesa In questa pagina due immagini della Tomba Francone. Inizi del XV sec. Teggiano, Museo Diocesano. A sinistra, una veduta del sepolcro e della cappella Francone; in alto, particolare della sommità del dossale, con la Vergine e i santi Giovanni Battista e Lorenzo. novembre

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Ancora due immagini della Tomba Francone. Inizi del XV sec. Teggiano, Museo Diocesano. A destra, particolare del secondo registro della cassa, con figure di santi entro lunette trilobate; in basso, particolare del primo registro della cassa, con angeli genuflessi e leoni.

parrocchiale petrina nel corso del Trecento e provvisto di una decorazione parietale, di cui sono state riscoperte tracce nel corso del restauro, voluto dalla Diocesi di Teggiano-Policastro e finanziato con fondi CEI e con una sponsorizzazione della locale Banca «Monte Pruno».

Un materiale economico e facile da lavorare Alla fine del XIV secolo, la famiglia Francone – che abitava in un palazzo aristocratico al centro della città di Diano – fece erigere un elegante e imponente sepolcro in stucco policromo, nella cappella di patronato, a imitazione delle tombe angioine marmoree napoletane; l’espediente dello stucco, di facile lavorazione e di buona economia, permetteva a una casata «di provincia», di poter eguagliare visivamente la ricchezza dei sepolcri in voga, nel Trecento, nelle chiese della capitale partenopea. Lo spunto iconografico e compositivo si avvalse dell’esemplare sepolcro di Enrico Sanseverino, in marmo di Carrara, eretto nella chiesa teggianese di S. Maria Maggiore, negli anni Trenta

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novembre

del XIV secolo e commissionato al celebre Tino di Camaino; una cassa con la soprastante figura del defunto e un dossale rappresentativo, racchiusi in un’arca con terminazione trilobata, furono alla base del programma plastico e figurativo, teso a occupare l’intera parete di sinistra del vano voltato, di proprietà dei Francone. Della tomba di Bartolomeo, manca oggi la parte terminale della

DOVE E QUANDO

Museo Diocesano di Teggiano Teggiano (SA), via San Pietro 1 Orario tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-18,00 (anche Lapidario Dianense); chiuso lunedí Info tel. 0975 79930 e 349 5140708; e-mail: museoteggiano@diocesiteggiano.it; www.paradhosis.it

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ANTE PRIMA

copertura dell’arca, crollata negli anni Cinquanta del Novecento, mentre nella composizione architettonica si può cogliere l’aspetto marcatamente provinciale, nella commistione di stucco e affreschi, l’uno a occupare le parti in rilievo, gli altri a definire i fondi iconografici delle pareti. Sul fronte della cassa risaltano a rilievo le figure del Cristo nel sepolcro, della Vergine e di san Giovanni Evangelista, oltre ad alcuni santi collocati alle estremità, mentre, nel lato corto, compare la figura dell’Arcangelo psicopompo Michele, che trafigge il demonio. Il corpo di Bartolomeo, giunto in parte frammentato – per via del crollo del tetto dell’arca – esalta la foggia dell’armatura, con l’interessante riporto dello scudo araldico sul cuscino e sul petto del milite. Immediatamente a ridosso della cassa, sulla parete della cappella, si stagliano le figure del Salvator Mundi, centrale e dei familiari di Bartolomeo, identificati grazie a una ricerca archivistica. Risalta la presenza dei familiari oranti, a chiedere intercessione per l’anima del proprio congiunto e il particolare riferimento allo status sociale di alcuni parenti rappresentati, tra i quali una monaca

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benedettina e un frate ospitaliere, probabilmente appartenenti ad alcune comunità monastiche cittadine. Al di sopra della teoria di figure care alla memoria del defunto, viene ripresa nuovamente la tematica plastica della parte bassa del sepolcro, con la raffigurazione della Vergine con Bambino, circondata dai santi Lorenzo e Giovanni Battista, mentre sul lato corto, alla medesima altezza, si presentano le figure di una santa e di una monaca in un clipeo.

Tonalità chiare e vive Nella stilizzazione del palinsesto pittorico, si assiste al netto passaggio dalle raffigurazioni originarie della cappella, con tonalità chiare e vive, ai toni bruni e marcati della pellicola pittorica e scultorea dell’apparato della tomba, evidenziando anche il distacco temporale, tra l’intervento del primo frescante, agli inizi del Trecento, e quello dell’autore della tomba Francone, nel 1401, cosí come recita l’iscrizione sul bordo della cassa. Verso la fine del Seicento, caduto in oblio lo ius patronatus della stirpe dei Francone, il sacello venne ridedicato, dal clero di S. Pietro, alla Vergine dei Sette Dolori, facendone affrescare la

Portale e portone del 1477: particolare della lunetta e dell’architrave con il nome del committente, Ambrogino Malavolta. Teggiano, Museo Diocesano. parte alta con la tematica mariana e commissionando sulla parete opposta alla tomba, la raffigurazione, unica nel suo genere, di san Filippo Benizi in abiti pontificali. Sulla volta a crociera acuta e nelle lunette dei sottarchi, vennero ad alternarsi scene mariane a florilegi su fondo rosso, secondo un programma decorativo in voga al tempo, sia nell’intero comprensorio valdianese, che nella vicina certosa di S. Lorenzo a Padula. Il complesso restauro della cappella, nella parte alta con gli affreschi settecenteschi e nell’apparato architettonico della tomba di Bartolomeo Francone, ha occupato il tempo di alcuni mesi e si è svolto in varie fasi, impegnando la ditta salernitana Cartusia, sotto il controllo della Soprintendenza ABAP di Salerno. Con l’occasione, si è proceduto al restauro anche del portale in pietra di Teggiano e del portone ligneo di ingresso all’antica chiesa, commissionati dalla famiglia senese dei Malavolta, da Ambrogino in particolare, e realizzati nel 1477. Marco Ambrogi novembre

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ANTE PRIMA

A scuola dai Domenicani

RESTAURI • Si è appena concluso

il restauro dei Domenicani illustri di Tomaso da Modena. Un intervento che, affidato agli allievi della Scuola di Alta Formazione e Studio dell’ISCR, ha riportato allo splendore originario uno dei cicli pittorici piú importanti del Trecento italiano

Treviso, ex convento di S. Nicolò (oggi Seminario Diocesano), Sala del Capitolo. Gli allievi della Scuola di Alta Formazione e Studio dell’ISCR (Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro) al lavoro sugli affreschi trecenteschi di Tomaso da Modena.

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oordinati dai loro docenti restauratori, 15 allievi della Scuola di Alta Formazione e Studio dell’ISCR (Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro) hanno appena portato a termine un intervento di restauro sul ciclo dei Domenicani illustri dipinto da Tomaso da Modena nella Sala del Capitolo dell’ex convento di S. Nicolò (oggi

Seminario vescovile) di Treviso (vedi box alle pp. 12-13). Si è trattato di un cantiere didattico, finalizzato al restauro integrale degli affreschi che ornano le pareti occidentale e meridionale della sala. Gli affreschi sono stati sottoposti a operazioni di pulitura, consolidamento e presentazione estetica, che hanno riportato all’antico splendore uno In questa pagina ancora due immagini del cantiere di restauro allestito nella Sala del Capitolo di Treviso. A Tomaso da Modena (al secolo Tomaso Barisini) si deve il ciclo dei Domenicani illustri, realizzato nel 1352.

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DOVE E QUANDO

Seminario Vescovile della diocesi di Treviso, Sala del Capitolo Treviso, piazzetta Benedetto XI 2 Orario tutti i giorni, 8,00-19,00 Info tel. 0422 3247; e-mail: seminario@diocesitv.it; www.seminariotreviso.it dei piú importanti cicli pittorici del Trecento italiano. La Sala del Capitolo e la sua decorazione hanno conosciuto una vicenda conservativa assai travagliata. Durante il primo conflitto mondiale, l’ambiente fu utilizzato per la degenza dei feriti dall’ospedale militare impiantato presso il complesso di S. Nicolò. In tale occasione, nel 1918, si procedette ai primi stacchi, finalizzati – secondo le intenzioni dell’epoca – a salvaguardare le parti migliori o quelle ritenute comunque

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ANTE PRIMA La svolta di Tomaso La Sala del Capitolo si colloca al centro dell’ala conventuale che chiude a oriente il primo e piú antico chiostro di S. Nicolò, edificato dalla seconda metà del Duecento accanto all’originaria chiesa dei Domenicani di Treviso. L’edificio di culto, eretto con ogni probabilità a partire già dal 1231 – anno a cui una delle due iscrizioni dipinte da Tomaso da Modena ai lati del portale d’ingresso riconduce l’insediamento dei frati predicatori a Treviso –, venne smantellato al principio del XIV secolo, per cedere il posto alla fabbrica attuale, avviata nel 1303, sotto il pontificato di Benedetto XI Boccasino. La sala capitolare conserva parte della piú antica decorazione ad affresco, risalente alla seconda metà del XIII secolo, sulla quale è andato a sovrapporsi il celebre ciclo dei Domenicani illustri realizzato dal pittore emiliano Tomaso Barisini, nei primi anni del suo soggiorno trevigiano. La prima campagna decorativa comprende la grande Crocifissione che domina la parete di fondo, a cui si raccordano lacerti dell’ornamentazione aniconica che si estendeva nella fascia inferiore delle quattro pareti. La scena della Passione, riconducibile agli anni finali del XIII secolo, verte sulla figura centrale del Cristo in atteggiamento patente, attorno alla quale si dispongono la Vergine e san Giovanni Battista. Piú in alto, distribuiti intorno alla traversa della Croce, quattro angeli assistono dolenti al dramma terreno del Redentore, di cui erano al contempo testimoni – prima che l’esplosione di un ordigno bellico nel 1944 causasse la perdita di una parte importante della composizione – anche i due principi degli apostoli, Pietro e Paolo, raffigurati all’interno di elaborate edicole architettoniche a chiudere sui due lati la rappresentazione. piú rappresentative del ciclo di Tomaso da Modena (al secolo Tomaso Barisini; 1325 o 1326-1379) rispetto a possibili danni bellici.

Il trasporto su tela Furono cosí staccati, trasportati su tela e collocati in deposito dodici dei quaranta ritratti dei Domenicani, e in particolare le coppie della parete d’ingresso e di quella meridionale, che furono abbinate su singoli pannelli, e otto figure del lato settentrionale, queste ultime raggruppate in due grandi telai includenti quattro

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Nella porzione inferiore delle quattro pareti, sopra un registro a imitazione di finte specchiature marmoree, correva un ampio fregio, contraddistinto da clipei multicolori al cui interno erano inscritte figure geometriche mistilinee includenti iscrizioni. Quasi completamente perduto nella parete orientale a causa di estese cadute di intonaco, tale apparato decorativo riaffiora per ampi lacerti al di sotto della nuova stesura pittorica che andò a sovrapporsi nel corso del Trecento. A questa fase tardo-duecentesca sembrano potersi attribuire anche le preziose tavolette dipinte che s’interpongono tra le testate delle travi al di sopra della Crocifissione, presentando in forma iconica il volto di Cristo, la Vergine, figure di angeli, profeti con cartigli e vari personaggi oranti tra i quali, all’estrema sinistra, è possibile scorgere san Francesco e san Domenico. La stessa iscrizione che riconduce al 1231 l’insediamento dei Domenicani a Treviso, riporta piú in basso la firma di Tomaso da Modena e la data di esecuzione del ciclo di affreschi che nel 1352 andò a ricoprire gran parte del primo intervento decorativo. L’artista emiliano ebbe cura di preservare la grande Crocifissione che campeggiava sulla parete di fondo, assumendola di fatto quale fulcro del nuovo apparato decorativo, e rispettò nello schema di massima anche l’impaginato aniconico delle restanti pareti, sulle quali ridipinse in forme aggiornate il repertorio a finte specchiature marmoree e tondi includenti iscrizioni già elaborato in occasione del precedente intervento pittorico. Queste ultime fanno riferimento all’organizzazione territoriale della compagine domenicana, enucleando in successione le Province dell’Ordine, i personaggi ciascuno. Durante il secondo conflitto mondiale, il 28 dicembre 1944, una bomba colpí la parete orientale dell’aula, causando il danneggiamento e il parziale distacco dei tre santi domenicani e della porzione inferiore della Crocifissione. I frammenti staccati furono prontamente raccolti dal restauratore trevigiano Mario Botter, che li portò in deposito e operò una prima ricomposizione, senza peraltro poterli riportare a parete. Nonostante l’appassionato intervento di Botter, le perdite novembre

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conventi della Provincia di Lombardia (quella al cui interno ricadeva il cenobio trevigiano) e i nomi dei maestri generali. Nel registro piú alto, invece, Tomaso affrescò il ciclo dei quaranta personaggi illustri dell’Ordine domenicano. Allineati in forma di paratattica e ieratica processione convergente dai due lati verso la preesistente Crocifissione, e contraddistinti dagli attributi che li qualificano via via come santi, papi, cardinali, vescovi e beati, essi compaiono all’interno dei propri scranni, intenti alla lettura, allo studio o alla meditazione sui sacri testi. Ogni rappresentazione è accompagnata da un’iscrizione che ricorda il nome e ripropone sinteticamente i meriti del personaggio raffigurato. Con grande maestria, Tomaso rompe la monotonia imposta dalla formula compositiva attraverso la consueta morbidezza nel si rivelarono pesantissime: nella deflagrazione i tre santi domenicani a sinistra della Crocifissione, già gravemente danneggiati per infiltrazioni dalla parete retrostante, subirono ulteriori perdite in termini di intonaco dipinto, mentre nella Crocifissione erano scomparse irrimediabilmente la figura di san Paolo e gran parte dell’edicola architettonica che lo conteneva. Solo nel 1969, grazie all’interessamento della Soprintendenza ai Monumenti di Venezia, Botter poté completare la prima parte dell’intervento, procedendo a ricollocare sulla parete di fondo dell’aula, al di sotto degli

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In alto la Sala del Capitolo al termine dell’intervento di restauro. Nella pagina accanto un momento delle operazioni di restauro che hanno interessato gli affreschi di Tomaso da Modena.

trattamento degli incarnati e delle vesti, la delicatezza dei trapassi cromatici, e soprattutto un’inedita quanto straordinaria ricerca di varietà negli atteggiamenti e nelle attitudini espressive dei personaggi, a cui fa da corrispettivo la minuziosa indagine analitica degli oggetti rappresentati. Elementi che fanno del ciclo di Treviso un momento di svolta nella pittura del tardo Medioevo e di innegabile apertura verso novità che, qui ancora in embrione, segneranno nel giro di alcuni decenni il trapasso verso la «nuova maniera» del Rinascimento italiano e del Quattrocento fiammingo. (red.)

affreschi rimasti in situ, i tre pannelli nei quali aveva ripartito gli elementi staccati della Crocifissione.

La ricomposizione Si dovette attendere ancora un trentennio prima che il pur frammentario ciclo potesse tornare a ricomporsi integralmente. Nel 1998, infatti, il figlio e già collaboratore di Mario Botter, Memi, fu alfine autorizzato a ricollocare le tre figure dei santi domenicani – Domenico, Pietro Martire e Tommaso d’Aquino – che apparivano ormai ridotte a uno stato larvale. In considerazione di

questi trascorsi, nel 2013 la locale Soprintendenza ha iniziato un complesso intervento di restauro teso a restituire uniformità e piena leggibilità al ciclo dei Domenicani illustri, in particolare attraverso l’integrale sostituzione dei vecchi telai lignei sui quali erano apposti gli affreschi staccati con nuovi pannelli in fibra di carbonio, nonché mediante il risanamento del prezioso soffitto ligneo dipinto. Intervento che è stato ora ripreso con successo dalla Scuola di Alta Formazione e Studio dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro. (red.)

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ANTE PRIMA

Nel cuore di Asti ITINERARI • La città piemontese

vanta un ricco patrimonio riferibile alla sua fase medievale, nel quale spicca il suggestivo complesso costituito dalla Cripta e dal Museo di S. Anastasio

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sti possiede un imponente patrimonio artistico medievale, che annovera, tra gli altri, la Cripta e il Museo di S. Anastasio, inglobati in un complesso di edifici scolastici affacciati su corso Alfieri, nel cuore del centro storico cittadino. Inserita tra i Monumenti Nazionali dal 1902 e compresa nel percorso museale, l’area archeologica ipogea presenta una stratificazione di reperti, databili dal I-II secolo d.C. all’inizio del Novecento. È questo uno dei luoghi piú radicati nella storia di Asti, perché permette di conoscere le trasformazioni, le distruzioni e le opere edilizie, che in varia misura ne hanno caratterizzato lo sviluppo urbanistico. Tra la seconda metà del VII e la seconda metà dell’VIII secolo, dopo la conquista longobarda della città, divenuta sede di un ducato, nel vasto spazio libero, in cui nella prima età imperiale si trovava la piazza del Foro della romana Hasta, fu innalzata l’ecclesia sancti Anastasii. Citato per la prima volta nel 792, il tempietto era situato sulla principale via di attraversamento di Asti, a metà strada tra la cattedrale e la chiesa di S. Secondo, le due In alto Asti. La cripta di S. Anastasio, del tipo «a oratorio», vale a dire scandita in navatelle da colonnine e capitelli di varia forma. A sinistra uno dei capitelli provenienti dalla chiesa astigiana di S. Anastasio e ora esposti nell’omonimo museo. 1120 circa.

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La schola dei capitelli Undici sono i capitelli recuperati dalla chiesa di S. Anastasio, databili nell’arco di otto secoli, dal IV all’XI. I quattro capitelli absidali della cripta si richiamano liberamente a modelli tardo-antichi e potrebbero appartenere alla fortunata e lunga stagione del classicismo liutprandino, che agevolò in Italia il cammino della Rinascita carolingia. Gli uccelli che becchettano le bacche tra i tralci, la divisione in due piani degli ornati, l’incertezza e le invenzioni rispetto al modello corinzio, non sono poi cosí lontani da quanto si può riconoscere in opere di Brescia e di Pavia. Inoltre, la storia di Asti per gli anni che precedono l’avvento dei Franchi, non esclude affatto la possibilità di una simile stagione figurativa alla corte dei duchi longobardi. La serie dei capitelli attribuiti all’arredo scultoreo della chiesa superiore si accosta invece ai prodotti iniziali della scuola comasco-milanese. Le chiese di S. Abbondio a Como, S. Savino a Piacenza, S. Ambrogio e S. Maria d’Aurona a Milano hanno fornito i modelli diretti, scelti con evidente preferenza per i partiti piú arcaici, i semplici intrecci e le volute di tralci vegetali. La quasi totale assenza del repertorio pavese, presente a S. Pietro in Ciel d’Oro, S. Michele, S. Giovanni in Borgo, se non per alcuni motivi piuttosto antichi, molto probabilmente prova di una fonte comune e non di una effettiva dipendenza, collocherebbe questi capitelli nella fase iniziale della cosiddetta «scuola del Monferrato». fondazioni religiose piú importanti, e occupava una posizione centrale, non lontana dalla porta occidentale, l’ingresso monumentale di epoca romana riplasmato dalla Porta Turris medievale.

Il Foro trasformato in cava Lo arricchiva un arredo liturgico scolpito, parti del quale si possono ancora riconoscere tra i reperti riutilizzati nella cripta romanica. È assai probabile che per costruire l’edificio siano state recuperate colonne, capitelli corinzi, rocchi e altri elementi architettonici dalle strutture e dalla pavimentazione del complesso forense, sfruttato nell’Alto Medioevo come cava di materiale edilizio. All’inizio dell’XI secolo nel settore occidentale dell’isolato venne fondato un monastero benedettino femminile, e la chiesa di S. Anastasio, di dimensioni quasi certamente esigue, fu inglobata nel complesso In alto pietra cantonale con stemmi dei Roero. Inizi del XIV sec. Asti, Museo di S. Anastasio. A destra stelo di fontana. XIII sec. Asti, Museo di S. Anastasio.

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A sinistra uno degli ambienti del Museo di S. Anastasio, che è in parte ricavato nelle strutture dell’area archeologica. A destra paliotto d’altare in pietra tenera. Fine del XIII-inizi del XIV sec. Asti, Museo di S. Anastasio. In basso un altro capitello proveniente dalla chiesa di S. Anastasio e ora esposto nell’omonimo museo. 1120 circa. conventuale, riedificata e ampliata. La nuova architettura religiosa aveva tre navate, separate da due file di sostegni e terminanti con absidi semicircolari. Collocata sotto al presbiterio, a sua volta posto a una quota piú elevata rispetto alla nave centrale e raggiungibile tramite una larga scalinata, la cripta era conformata «a oratorio»,

cioè scandita in navatelle da colonnine e capitelli di forme diverse, composti con materiale di epoca romana e altomedievale, scelto con cura a sottolineare quanto «antico» in questo caso sia stato sinonimo di venerabile e degno di fede. Cent’anni piú tardi, entro il primo ventennio del XII secolo, le necessità liturgiche e lo sviluppo del monastero, proprietario di parecchi beni nell’Astigiano, portarono a un’ulteriore trasformazione della fabbrica. Le navate furono suddivise in campate, coperte da volte a crociera e poggianti su sostegni con capitelli, ingentiliti da motivi figurati o vegetali. Fu accresciuta anche la zona sotterranea, che, con l’aggiunta di tre campate a ovest e altrettante a est, raggiunse uno sviluppo in lunghezza pari a circa metà del luogo di culto.

Le traversie dell’età moderna Tra il 1597 e il 1619 la costruzione fu sottoposta all’ultimo grande rifacimento. Dell’edificio medievale si salvarono soltanto parte della cripta e forse un tratto della facciata. La chiesa seicentesca fu soppressa dal governo napoleonico nel 1802, sconsacrata, trasformata in palestra e demolita nel 1907. Si preservò solo la cripta. Visitando il Museo di S. Anastasio, oltre all’area archeologica e ai bellissimi capitelli della seconda chiesa romanica (1120 circa), si possono ammirare le collezioni lapidee di Asti. Tra i reperti in esposizione: capitelli, mensole, conci d’arco scolpiti (XIII-XV secolo) provenienti dal monastero dei Domenicani, quasi totalmente demolito nell’Ottocento, un prezioso paliotto d’altare in pietra tenera (fine del XIII-inizi del XIV secolo), pietre cantonali e stemmi (XIV-XV secolo), che un tempo ornavano alcuni palazzi signorili della città. Il museo dispone anche di una sala per ipo/non vedenti e di un’aula didattica, dotata di vasca per lo scavo archeologico simulato. Chiara Parente

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ANTE PRIMA

Il primo patrono è tornato! RESTAURI • Si è felicemente concluso,

grazie alla proficua collaborazione fra istituzioni pubbliche e soggetti privati, l’intervento sul Tòdaro, la statua che ritrae il santo bizantino Teodoro, che da almeno settecento anni è uno dei simboli della città di Venezia

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opo undici mesi di lavoro, il restauro del Tòdaro, la statua che ritrae san Teodoro, primo protettore della città di Venezia (vedi «Medioevo» n. 238, novembre 2016), è stato ultimato. Il San Teodoro – Tòdaro è la versione dialettale del nome – santo bizantino e guerriero, raffigurato nell’atto di uccidere un drago, è uno dei simboli dell’area marciana e di tutta Venezia, che svetta assieme alla colonna con il Leone Marciano verso il molo e il bacino di S. Marco. (segue a p. 20)

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Qui accanto il Tòdaro, la statua che raffigura san Teodoro, primo protettore della città di Venezia al termine del restauro. In basso, a sinistra e a destra due momenti dell’intervento compiuto sulla scultura.

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ANTE PRIMA

Qui sopra ancora un’immagine dell’intervento di restauro eseguito sulla statua del Tòdaro. A destra la parte superiore del Tòdaro, ricavata dalla statua di una figura loricata realizzata al tempo dell’imperatore Adriano (117-138 d.C.). La testa, in marmo bianco, è invece riconducibile all’epoca costantiniana (inizi del IV sec.). L’originale della statua, unica per forza emblematica e fattezze, è esposto da oltre un lustro sotto il portico del cortiletto dei Senatori all’ingresso di Palazzo Ducale, dopo che, nel 1940, venne rimosso dalla colonna (dove dal 1948 è stata posizionata una copia in pietra d’Istria), per proteggerlo da eventuali danni bellici e ricoverato nell’abbazia di Praglia, presso Padova.

Armato di lancia e di spada Munito di aureola alla sommità, il Tòdaro appare armato di lancia nella mano sinistra e spada alla cintola. Gli elementi decorativi sono lignei, mentre il cinturone è in rame. Quest’ultimo è fissato alla statua per mezzo di piombatura. Il manufatto poggia su un basamento in bronzo al quale è fissato da barre metalliche di sostegno e viti bloccate da bulloni. La statua inoltre è sostenuta da una complessa struttura in bronzo all’interno e da ulteriori perni in ottone fissati in restauri precedenti. Eseguito dalla ditta Lares, che ha curato anche le indagini preliminari non invasive indispensabili per la stesura del progetto e la messa a punto delle tecniche per la futura fase operativa, l’intervento ha permesso di avviare nuovi studi, ricerche, analisi e approfondimenti. L’intervento si è quindi delineato in una serie di complesse azioni, che hanno incluso il consolidamento, la pulitura, la stuccatura, la ricostruzione e la protezione dei vari elementi lapidei e bronzei che compongono questa statua ibrida estremamente delicata e fragile, nata dall’assemblaggio di parti diverse (la testa il busto, le armi, ecc.) per provenienze, materiali ed epoche.

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Un’opera plurisecolare la cui bellezza e unicità sono rappresentate dell’«assemblaggio» di pietre differenti provenienti da quell’Oriente bizantino con cui Venezia è stata nei secoli in rapporto. La testa – probabilmente d’epoca costantiniana, anche se rimaneggiata, è in marmo bianco proveniente da Docimium, presso Afyon, in Turchia occidentale – viene identificata sulla base del confronto con le immagini monetali in un ritratto di Mitridate VI Eupatore, il re del Ponto che tenne per decenni in scacco i Romani sino alla sua morte nel 63 a.C. e probabilmente giunse a Venezia da Costantinopoli.

Un palinsesto della storia e della cultura di Venezia Il torso, decorato da Vittorie che incoronano un trofeo, apparteneva con probabilità a una statua loricata dell’imperatore Adriano. Lo scudo è in pietra d’Istria; gambe, braccia e drago sono in marmo proconnesio, proveniente dall’isola di Proconneso nel Mar di Marmara, tra il Mar Egeo e il Mar Nero; altre parti sono in marmo pentelico, lo stesso scavato vicino ad Atene e usato anche per il Partenone, mentre le armi in metallo sono d’epoca medievale. Si tratta di uno straordinario palinsesto della storia e della cultura millenaria di Venezia, della sua capacità di sintesi e d’incrocio di genti, arti e civiltà. «L’intervento di restauro della statua del Tòdaro – ha dichiarato Mariacristina Gribaudi, Presidente della Fondazione Musei Civici di Venezia – è davvero significativo, perché esemplifica perfettamente come dovrebbe concretizzarsi il rapporto di collaborazione tra Fondazione Musei Civici e imprese, in quell’ottica strategica dei rapporti tra pubblico e privato volti alla salvaguardia e valorizzazione del nostro patrimonio». L’intervento di restauro sulla statua del Tòdaro è stato realizzato grazie alla collaborazione tra Comune di Venezia, Fondazione Musei Civici di Venezia e Fondaco e alla sensibilità della Rigoni di Asiago, che lo ha finanziato. (red.) novembre

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ANTE PRIMA

È tempo di mercati... APPUNTAMENTI • L’Avvento si avvicina e, riprendendo una tradizione che affonda

le proprie radici nell’antichità, la Danimarca si appresta a celebrarlo allestendo, a Copenaghen e in molte altre città, le colorate fiere in cui si possono trovare prodotti dell’artigianato locale, assaporando i cibi e le bevande tipici del periodo natalizio

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n Danimarca, il Natale è la festa piú sentita dell’anno. La tradizione si perde nella notte dei tempi: già all’epoca dei Vichinghi, si festeggiava il solstizio d’inverno con riti pagani, che nel Medioevo furono poi assorbiti nel cristianesimo. Tra le antiche tradizioni, nel periodo natalizio c’era l’abitudine di tenere per molti giorni su un tavolo una pagnotta, che in primavera veniva sbriciolata e sparsa sui campi come auspicio di buon raccolto. Un rituale che, come altri, è andato perduto. È invece ben vivo l’uso che fa dell’Avvento un’occasione di festività. E, al pari di altri Paesi europei, il cuore degli eventi sono i tradizionali mercatini natalizi. Nella capitale, Copenaghen, il piú celebre e suggestivo è quello che si svolge nel parco di Tivoli, in Vesterbrogade, dove anche quest’anno, dal 18 novembre al 31 dicembre, le bancarelle proporranno prodotti dell’artigianato locale e specialità natalizie come il Gløgg og æbleskiver, un caldo vino rosso speziato accompagnato da paste servite con zucchero e marmellata. Anche Nyhavn, la zona dei canali, dove visse a lungo Hans Christian Andersen, ospita un mercato natalizio (dal 10 novembre al 23 dicembre) con bancarelle che propongono oggetti da regalo e delizie gastronomiche. Nei week end di dicembre, nel quartiere di Lyngby, il Frilandsmuseet – un museo a cielo aperto con 50 corti, case, giardini e mulini – si veste a tema, facendo

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rivivere le tradizioni natalizie dei secoli passati. Infine, un mercato alternativo si svolge nella Grey Hall di Christiania, il quartiere di Copenaghen proclamatosi «città libera», dove, per due settimane, alla metà di dicembre, sono in vendita vari prodotti artigianali.

Alla luce delle lanterne Anche l’antica cittadina di Århus, le cui origini risalgono al VII secolo, si veste a festa. Dal 18 novembre al 30 dicembre, il principale centro dello Jutland offre la possibilità di rivivere le antiche tradizioni natalizie nelle strade e nei cortili di Den Gamle By, la «città vecchia». Al lume di lampade a olio si possono gustare deliziose frittelle, arrosto di maiale con cavolo rosso, biscotti speziati e altre specialità gastronomiche locali. Sulla piazza principale viene allestito un mercatino animato da giocolieri e musicisti e nei numerosi bar del

Copenaghen. Il tradizionale mercatino natalizio che ogni anno anima la zona dei giardini di Tivoli. quartiere di Vadestedet, intorno al canale, ci si può scaldare con una tazza di vin brûlé, oppure dissetarsi con un boccale di Julebryg, la speciale birra di Natale. Un altro mercatino interessante si svolge nel centro storico di Tønder, nello Jutland meridionale, dall’11 novembre al 23 dicembre. Le strade acciottolate e le case tipiche di questa cittadina risalente al XIV secolo fanno da cornice alle bancarelle. Va infine ricordato il mercatino dedicato a Hans Christian Andersen nel centro storico di Odense, che, dal 15 novembre al 31 dicembre, si animerà di giocolieri, carrozze, giostre, musicisti e, naturalmente, dei personaggi delle fiabe del piú celebre scrittore e poeta danese. Tiziano Zaccaria novembre

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IL NUOVO DOSSIER DI MEDIOEVO

FRANCESCO D’ASSISI L’identità svelata È

il 1204 e Francesco, figlio di Pietro di Bernardone, un ricco mercante di Assisi, è in viaggio alla volta della Puglia, dove intende raggiungere le truppe di Gualtieri di Brienne e contribuire alla loro lotta contro l’esercito imperiale. All’altezza di Spoleto, però, decide di fermarsi e tornare sui suoi passi: è l’inizio di una svolta nella vita del giovane, che abbandona la vita mondana e sceglie di rinunciare agli agi familiari, per dedicare la propria esistenza al Signore. E lo fa in maniera dirompente, estrema, come mai prima s’era visto. Una «rivoluzione» che contagia ben presto molti altri giovani e dalla quale prende forma il primo nucleo di quello che, di lí a poco, sarà l’Ordine francescano. L’evento è il perno intorno al quale ruota l’intera vicenda di san Francesco, alla quale è dedicato il nuovo Dossier di «Medioevo», che ripercorre tutti i momenti salienti della straordinaria parabola di cui l’Assisiate fu protagonista. Chiara Mercuri, che del Dossier è l’autrice, sgombra il campo da stereotipi e travisamenti, per offrire un ritratto aderente al vero, supportato dai riscontri offerti dai piú recenti studi sull’argomento. Ne risulta una trattazione appassionante, grazie alla quale si possono cogliere sia l’umanità del personaggio, sia il formidabile impatto che la sua esperienza ebbe tra i contemporanei. Francesco fece irruzione sulla scena sociale e religiosa del suo tempo in maniera deflagrante, guadagnandosi l’apprezzamento di molti – non ultimo, papa Innocenzo III, che concesse il proprio imprimatur alla Regola –, ma anche l’ostilità di numerosi uomini di Chiesa, nonché, nel tempo, di alcuni dei confratelli, convintisi che lo stile di vita imposto dal loro maestro fosse esageratamente rigoroso. Come è facile intuire, la vita e l’operato di san Francesco costituiscono dunque una materia vasta e ricca di sfaccettature e implicazioni: temi puntualmente sviluppati nei capitoli del nuovo Dossier di «Medioevo», arricchito dalle magnifiche biografie per immagini realizzate da alcuni dei piú grandi maestri dell’arte d’ogni tempo, primo fra tutti Giotto.

In alto San Francesco d’Assisi (particolare), tempera e oro su tavola, aureola raggiata in rilievo, attribuito a Cimabue. 1290 circa. Assisi, Museo della Porziuncola. Nella pagina accanto Saluto di santa Chiara e delle sue compagne a san Francesco, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.

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AGENDA DEL MESE

Mostre VENEZIA MAGISTER GIOTTO Scuola Grande della Misericordia fino al 5 novembre

Allestita negli spazi della Scuola Grande della Misericordia, la mostra guida il visitatore in un percorso accompagnato dalla voce di Luca Zingaretti per la narrazione dei testi e dalla drammaturgia musicale originale di Paolo Fresu. La produzione di Giotto viene illustrata compiutamente, cosí da far comprendere la rivoluzione compiuta dalla sua opera nel tardo Medioevo, quando il maestro seppe rinnovare l’arte occidentale, aprendo la strada al Rinascimento verso l’età moderna. Il punto di partenza, nell’immensa navata d’ingresso, è l’imponente Croce del Presepe Greccio, ricostruita, su ispirazione di quella dell’affresco, e prosegue al primo piano nella sequenza imperniata sulle Storie francescane di Assisi, la Cappella degli Scrovegni di Padova, i maestosi Crocifissi e

a cura di Stefano Mammini

le altre opere del Maestro realizzate a Firenze. Come epilogo si è scelto di ricordare la Missione Giotto del 1986, realizzata dall’Agenzia Spaziale Europea, che per la prima volta nella storia intercettò la Cometa di Halley, dipinta nell’Adorazione dei Magi della Cappella degli Scrovegni a Padova. info www.giotto-venezia.magister. art; e-mail: info@magister.art SPOLETO TESORI DALLA VALNERINA Rocca Albornoziana-Museo Nazionale del Ducato di Spoleto fino al 5 novembre

La mostra riunisce un nucleo di opere provenienti dai territori delle Marche, del Lazio e dell’Umbria colpiti dal sisma, anche come testimonianza di solidarietà tra aree accomunate da un evento cosí tragico, ma anche da comuni radici culturali e artistiche. L’esposizione si compone di opere selezionate secondo diverse tipologie, ma tutte ricche di un grande significato simbolico, tra le quali spiccano il Crocefisso ligneo del XVI secolo proveniente dalla

chiesa di S. Anatolia di Narco, la Madonna con Bambino di Avendita e il gruppo dell’Annunciazione di Andrea della Robbia dal Museo della Castellina di Norcia, nonché il raffinato dipinto su tavola di Nicola di Ulisse da Siena Madonna col Bambino dal Museo diocesano di Ascoli Piceno e il San Sebastiano della seconda metà del Seicento proveniente da Scai, nel territorio di Amatrice. info tel. 0743 224952 oppure 340 5510813; e-mail: spoleto@sistemamuseo.it; www.scoprendolumbria.it

alla volontà, all’impegno e alla caparbietà dell’uomo nel ricomporre e ricostruire la propria identità attraverso l’arte. La mostra allestita nel Palazzo dei Conservatori evidenzia e attualizza l’impegno delle istituzioni a favore dell’arte, presentando importanti testimonianze artistiche che, a causa di vicende non sempre

ROMA LA BELLEZZA RITROVATA. ARTE NEGATA E RICONQUISTATA IN MOSTRA Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori fino al 26 novembre

Le nostre bellezze artistiche patiscono furti, vandalismi e danneggiamenti dovuti a eventi naturali disastrosi, ma anche alla mano dell’uomo. Tuttavia, l’arte negata, mortificata e distrutta da guerre, furti e catastrofi come i terremoti può rinascere dalle macerie, come la fenice, e può tornare a rivelarsi, grazie

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trasparenti, sono state, per moltissimo tempo, negate alla pubblica fruizione e spesso dimenticate nei depositi o in altri contenitori non accessibili al pubblico. Un’occasione per porre in risalto anche il quotidiano impegno da parte del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Il percorso espositivo si articola in tre sezioni, rispettivamente dedicate alle opere recuperate a seguito di furti, alle opere salvate dalle zone terremotate dell’Italia Centrale, nello specifico delle Marche, e a contesti che hanno subito danni provocati dalle guerre. In quest’ultimo ambito viene ripercorsa la vicenda della cattedrale di Benevento, colpita dalle bombe degli Alleati nel settembre del 1943. All’indomani dell’evento, si provvide a recuperare e mettere in salvo il patrimonio superstite, ma gran parte del materiale fu evidentemente accatastato e dimenticato e, fino al ritrovamento del 1980, erroneamente ritenuto perduto. Fino al 1980 era opinione comune che dei due amboni del duomo, gli unici elementi superstiti fossero quelli conservati ed esposti a Benevento presso il Museo del Sannio e il Museo Diocesano. Tuttavia, gli scavi archeologici hanno portato alla luce i marmi depositati in uno dei locali adiacenti alla cripta e ora esposti in mostra: tutti i leoni che facevano parte dei due pergami e i frammenti delle colonne che li sormontavano, alcuni capitelli ed elementi di sculture e di lastre marmoree che ne costituivano le fiancate, nonché la base con figure di mostruose cariatidi del cero pasquale e il fuso spiraliforme

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della colonna che su essa si impostava. info Tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it PAVIA LONGOBARDI. UN POPOLO CHE CAMBIA LA STORIA Castello Visconteo fino al 3 dicembre

Pavia torna capitale del «Regnum Langobardorum» e Napoli si fa portavoce del ruolo fondamentale del Meridione nell’epopea degli «uomini dalla lunghe barbe» e nella mediazione culturale tra Mediterraneo e Nord Europa. Nasce infatti dalla collaborazione tra Musei Civici di Pavia, Museo Archeologico Nazionale di Napoli e Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo una mostra davvero «epocale»: per gli

studi scientifici svolti, per l’analisi del contesto storico italiano e piú ampiamente mediterraneo ed europeo, per gli eccezionali materiali esposti, quasi totalmente inediti, e per le modalità espositive. L’esposizione offre una visione complessiva e di ampio respiro (dalla metà del VI secolo alla fine del I millennio) del ruolo, dell’identità, delle strategie, della cultura e dell’eredità del popolo longobardo, che nel

568, guidato da Alboino, varca le Alpi Giulie e inizia la sua espansione sul suolo italiano: una terra divenuta crocevia strategico tra Occidente e Oriente. info tel. 0382 399770; e-mail: mostralongobardi@comune.pv.it PAVIA L’UNIVERSO AD OROLOGERIA. L’ASTRARIO DI GIOVANNI DONDI A PAVIA Musei Civici del Castello Visconteo fino al 23 dicembre

di realizzare varie ricostruzioni. La mostra presenta quella eseguita da Guido Dresti fra il 2009 e il 2011, accompagnata da altri strumenti per la misurazione del tempo e del moto dei pianeti «antenati» dell’Astrario, da preziosi codici di astronomia e astrologia e dalla serie di stampe dei sette pianeti attribuita a Baccio Baldini e appartenente ai Musei Civici di Pavia. info tel. 0382 399770; e-mail: decumanoest@yahoo.it; www.museicivici.pavia.it VITERBO IL TESORO DI SANTA ROSA. UN MONASTERO DI ARTE, FEDE E LUCE Monastero di S. Rosa fino al 6 gennaio 2018

Grazie alla mostra, l’Astrario di Giovanni Dondi rivive nel luogo esatto dove a lungo fu collocato, la biblioteca visconteo-sforzesca del Castello di Pavia. Costruito, probabilmente tra il 1365 e il 1381, dal chioggiotto Giovanni Dondi, professore presso lo Studium pavese, l’Astrario era un complesso orologio planetario, che indicava i giorni e le feste del calendario, le eclissi e le posizioni dei sette pianeti nello zodiaco. Nel 1463, l’astrologo tedesco Giovanni Regiomontano ancora lodava l’orologio ma, per quanto i duchi di Milano si impegnassero a conservarlo, nel corso del tempo l’Astrario si degradò e andò perduto. Fortunatamente, sono sopravvissuti alcuni manoscritti che ne descrivono la costruzione e hanno permesso

Rosa è una santa giovane, povera e rivoluzionaria i cui resti, dal XIII secolo, sono ospitati nel monastero posto nel cuore della città di Viterbo. Attorno al suo culto patronale, la Città dei Papi si stringe in una celebre festa, incentrata sulla processione della statua con la luminosa macchina di S. Rosa. La mostra si sviluppa lungo quattro aree tematiche: l’antico monastero e la sua decorazione; la vita di santa Rosa e la sua canonizzazione; le monache di S. Rosa e la vita nel monastero; la devozione

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AGENDA DEL MESE popolare e gli ex voto. Si disegna cosí, intorno al chiostro, un percorso che esalta sia il valore storico artistico e etnoantropologico dei singoli pezzi, sia l’aspetto spirituale del luogo che li ospita. A partire dalla teca contenente il corpo della santa, si possono ammirare dipinti di particolare interesse storico-artistico, come quelli restaurati per l’occasione: la quattrocentesca Madonna del Latte, dipinta su una tegola, e un olio su tela del XVI secolo raffigurante Sant’Orsola; il bozzetto di Marco Benefial con La prova del fuoco; riproduzioni degli acquerelli secenteschi del Sabatini con la storia della santa, dipinta a metà del Quattrocento da Benozzo Gozzoli nell’antica chiesa andata distrutta; e ancora i preziosi documenti relativi alla santificazione: il manoscritto del 1457 contenente il processo di canonizzazione e le cosiddette Lettere patenti di 13 comunità limitrofe che lo sostenevano. info tel. 0761 342887; e-mail: monasterosantarosa@ alice.it; www.sabap-rmmet.beniculturali.it

BOLOGNA 1143: LA CROCE RITROVATA DI SANTA MARIA MAGGIORE Museo Civico Medievale fino al 7 gennaio 2018

L’esposizione nasce dall’occasione di esporre per la prima volta, a seguito del

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restauro, questo prezioso esemplare di croce viaria. L’opera rientra nella tipologia di croci poste su colonne, che venivano collocate nei punti focali della città, a segnalare spazi sacri come chiese e cimiteri o di particolare aggregazione come i trivi o i crocicchi e le piazze. Stando alla tradizione, tale uso si diffuse già in epoca tardoantica, ma è soprattutto a partire della nascita del Comune (1116) e con l’espansione urbanistica di Bologna del XII e XIII secolo che si venne a sviluppare tale fenomeno. Talvolta le croci venivano protette da piccole cappelle e corredate di reliquie, di altari per la preghiera, e di tutto il necessario per la celebrazione della messa. Segno distintivo e identificativo per la città, le croci segnarono lo spazio urbano fino al 1796, quando l’arrivo delle truppe napoleoniche e l’instaurazione della nuova Repubblica, trasformarono la città e i suoi simboli. La croce ritrovata di S. Maria Maggiore è di notevole interesse sia perché era tra i molti

esemplari andati dispersi, sia perché è possibile datarla grazie all’iscrizione 1143, presente nel braccio destro. L’opera si viene cosí a collocare tra i piú antichi modelli a noi pervenuti, come quella di poco successiva alla croce

degli Apostoli e degli Evangelisti, detta anche di Piazza di Porta Ravegnana, che risale al 1159. info tel. 051 2193916 o 2193930; e-mail: museiarteantica@ comune.bologna.it; www.museibologna.it/arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte VIENNA RAFFAELLO Museo Civico Medievale fino al 7 gennaio 2018

Grazie alla collaborazione con l’Ashmolean Museum di

Oxford, l’Albertina propone una ricca rassegna sul genio urbinate, riunendo 150 dipinti e disegni. Il nucleo portante dell’esposizione è composto da opere che appartengono alla prestigiosa raccolta viennese, alle quali fanno da contorno capolavori concessi in prestito, oltre che dall’Ashmolean, da molti dei maggiori musei internazionali. È cosí possibile documentare l’intero sviluppo della carriera artistica di Raffaello, dalle prime composizioni, ricche di spontaneità, alle ricercate realizzazioni della maturità. A testimonianza della versatilità del maestro, non mancano tracce della sua attività di architetto, ingaggiato da papi e principi, che contribuí a farne la firma piú ricercata del suo tempo. Un ingegno eccelso, del quale ancora oggi si può ammirare la straordinaria capacità di coniugare l’imitazione della natura con l’idealizzazione dei soggetti prescelti. info www.albertina.at

MOSTRE • Michelangelo, divino disegnatore New York – The Metropolitan Museum of Art

fino al 12 febbraio 2018 (dal 13 novembre) info www.metmuseum.org

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l Metropolitan Museum of Art celebra la grandezza del «divino» Michelangelo attraverso i suoi disegni, considerati come una delle espressioni piú cristalline del suo genio. Un’opera, la sua, che riscosse l’ammirazione dei contemporanei e che ha da allora costituito un modello e una fonte di ispirazione universali. Per l’esposizione newyorchese sono stati selezionati, oltre a 150 disegni, alcuni marmi, dipinti giovanili, il modello ligneo per la volta di una cappella, nonché un ricco corpus di opere firmate da artisti dell’epoca in cui Michelangelo fu attivo, cosí da inquadrare meglio il contesto storico e culturale nel quale di dispiegò la sua straordinaria vicenda umana e artistica. Grazie ai prestiti concessi da piú di 50 istituzioni pubbliche e novembre

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Tuttavia, oltre che magicamente trasparente, questa materia prima si rivela eccezionalmente duttile e può anche trasformarsi in bene alla portata di tutti e trova vastissima diffusione nelle cucine e sulle tavole, finendo con il diventare una presenza fissa nelle taverne. Né mancano gli utilizzi in campo religioso o medico, quando la pasta viene soffiata per assumere le forme di alambicchi e fiale. E poi, sul finire del XIII secolo, si apre un’altra delle grandi strade del vetro, quella della produzione delle prime lenti per occhiali. Una vicenda dunque affascinante e variegata, che a Cluny viene ripercorsa nei suoi mille riflessi. info www.musee-moyenage.fr PRATO LEGATI DA UNA CINTOLA. L’ASSUNTA DI BERNARDO DADDI E L’IDENTITÀ DI UNA CITTÀ Museo di Palazzo Pretorio fino al 14 gennaio 2018

e progettista

private statunitensi ed europee, sono confluiti nelle sale del Metropolitan alcuni dei piú celebri capolavori del Buonarroti, come la serie dei disegni realizzati per Tommaso de’ Cavalieri – il nobile romano che si legò a lui in un rapporto d’amicizia ultratrentennale – o il monumentale cartone preparatorio del suo ultimo affresco nei Palazzi Vaticani, la Crocifissione di san Pietro, portato a termine nel 1550 nella Cappella Paolina.

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PARIGI IL VETRO. UN MEDIOEVO DI INVENZIONI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino all’8 gennaio 2018

Il Museo nazionale del Medioevo presenta una selezione di autentici capolavori dell’arte vetraria, scelti come «ambasciatori» di questa peculiare produzione. Arte di lusso, nata dalla creatività dei mastri vetrai merovingi attivi intorno al V secolo, la produzione del vetro guadagna i suoi quarti di nobiltà con l’avvento dell’architettura gotica, come testimoniano in maniera eloquente le opere provenienti dall’abbazia di Saint-Denis o dalla Sainte-Chapelle.

Simbolo religioso e civile, fulcro delle vicende artistiche di Prato ed elemento cardine della sua identità, la Sacra Cintola pratese è protagonista della nuova esposizione nel Museo di Palazzo Pretorio. Un tema, quello della reliquia pratese, che accende un fascio di luce intenso su un’età di grande prosperità per la città

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AGENDA DEL MESE

toscana, il Trecento, a partire dalle committenze ad artisti di prim’ordine, come Giovanni Pisano e Bernardo Daddi, che diedero risonanza alla devozione mariana a Prato come vero e proprio culto civico. In particolare, l’esposizione è l’occasione per tornare ad ammirare nel suo complesso la monumentale macchina dipinta da Daddi: la pala dell’Assunta, che gli fu commissionata nel 1337-1338. Nel tempo, l’opera è stata smembrata e la sua diaspora ha fatto sí che si perdesse la coscienza stessa della sua importanza. Prato può ora accoglierne i componenti entrati a far parte delle collezioni dei Musei Vaticani e del Metropolitan Museum of Art di New York. info tel. 0574 19349961; www.palazzopretorio.prato.it

affreschi del Palazzo Pubblico di Siena, le Allegorie e gli Effetti del Buono e del Cattivo Governo sulla città e il suo contado. Ma la densità concettuale di questo insieme di affreschi ha messo in ombra il resto delle sue opere pittoriche. Preceduta da un’intensa attività di ricerca e dalle importanti campagne di restauro, la mostra,

SIENA

rappresenta dunque l’occasione per provare a ricostruire la sua imponente attività. L’iniziativa è possibile soltanto nella città di Siena, che conserva all’incirca il 70 per cento delle opere oggi conosciute del pittore. Ma l’esposizione – grazie a richieste di prestito molto mirate (sono esposte, tra le altre, opere provenienti dal Louvre, dal National Gallery, dalla Galleria degli Uffizi, dai

AMBROGIO LORENZETTI Complesso museale Santa Maria della Scala fino al 21 gennaio 2018

Nonostante sia considerato uno degli artisti piú importanti dell’Europa trecentesca, Ambrogio Lorenzetti è ancora poco conosciuto al pubblico. Gli studi – spesso di livello altissimo – si sono concentrati, infatti, quasi esclusivamente sui suoi

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Musei Vaticani, dallo Städel Museum di Francoforte, dalla Yale University Art Gallery) – reintegra pressoché interamente la vicenda artistica di Lorenzetti, facendo nuovamente convergere a Siena dipinti che in larghissima parte furono prodotti proprio per cittadini senesi e per chiese della città. info tel. 0577 286300: e-mail: ambrogiolorenzettisms@ operalaboratori.com; www. santamariadellascala.com ZURIGO L’ABBAZIA DI EINSIEDELN. 1000 ANNI DI PELLEGRINAGGIO Museo nazionale fino al 21 gennaio 2018

L’abbazia di Einsiedeln, oggi nel cantone svizzero di Svitto, una cinquantina di chilometri a sud di Zurigo, è un’importante meta di pellegrinaggio, che, dal XIII secolo a oggi, ha accolto fedeli provenienti da ogni parte del mondo. Nel corso di una storia plurisecolare, la struttura originaria ha subito ripetuti rimaneggiamenti e cosí oggi, al posto del modesto eremo in cui visse Meinrado attorno all’860, si può ammirare la chiesa abbaziale in tutta la sua pompa barocca. Questo centro spirituale è stato investito di privilegi e ha ricevuto doni e offerte da papi, imperatori, re e semplici cittadini, uomini e donne. La mostra che si tiene nel nuovo edificio del Museo nazionale, frutto di una stretta collaborazione con l’abbazia, racconta i retroscena storici e politici, la venerazione di Maria e il ruolo di primo piano che il monastero riveste tuttora come meta di pellegrini. info tel. +41 (0)58 4666564; www.landesmuseum.ch

Appuntamenti CASTELSEPRIO/ GAZZADA SCHIANNO (VARESE) VI CONVEGNO NAZIONALE SULLE PRESENZE LONGOBARDE IN ITALIA Villa Cagnola 11-12 novembre

Indetto dalla Federazione Italiana Associazioni Archeologiche (FederArcheo), il Convegno promuove la conoscenza di tutte le realtà, soprattutto minori, che conservano tracce archeologiche, storiche, monumentali, artistiche e architettoniche dell’epoca longobarda. L’incontro è anche l’occasione per presentare nuove interpretazioni, interrogativi e scoperte, creando un’occasione di confronto fra studiosi e cultori di discipline diverse. Un’attenzione particolare viene riservata all’archeologia sperimentale, all’editoria e all’ambito del re-enactment. info e-mail: convegno. longobardi@gmail.com, federarcheo@gmail.com; https:// convegnolongobardi2017. wordpress.com; Facebook: VI Convegno Presenze Longobarde nelle Regioni d’Italia PAVIA L’UNIVERSO AD OROLOGERIA CICLO DI CONFERENZE Sedi varie fino al 28 novembre

Nell’ambito della mostra omonima, dedicata all’Astrario realizzato fra il 1365 e il 1381 da Giovanni Dondi per la biblioteca visconteo-sforzesca del Castello di Pavia, è stata organizzata una serie di incontro che intendono approfondire l’affascinante figura di Dondi – medico, astrologo, astronomo, letterato novembre

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Complesso monumentale di San Bevignate fino al 16 febbraio 2018

a tutto tondo del XIV secolo – e la temperie culturale e scientifica in cui si colloca la sua eccezionale opera. Questi i prossimi appuntamenti: 12 novembre, ore 16,00 Musei Civici del Castello Visconteo: UNO:UNO A tu per tu con l’opera. Dal manoscritto alla ricostruzione dell’Astrario (Guido Dresti e Rosario Mosello); 14 novembre, ore 18,00 Collegio Castiglioni Brugnatelli: Giovanni Dondi e Francesco Petrarca,

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un’amicizia tra Pavia e Padova (Elena Necchi); 28 novembre, ore 18,00 Collegio Castiglioni Brugnatelli: Destini meccanici: orologi astronomici ed astrologia, tra Medioevo e Rinascimento (Marisa Addomine). info tel. 0382 399770; e-mail: decumanoest@yahoo.it; www.museicivici.pavia.it PERUGIA LA STORIA DEI TEMPLARI RACCONTATA A SAN BEVIGNATE

San Bevignate è un complesso monumentale che, per le considerevoli dimensioni delle forme architettoniche e per il valore eccezionale delle testimonianze iconografiche di soggetto templare conservate al suo interno, è divenuto non soltanto elemento di attrazione per i visitatori, ma anche oggetto di rinnovati e proficui approfondimenti di taglio scientifico e didattico. Dal crescente interesse nei confronti del patrimonio monumentale e artistico di committenza templare è nato un nuovo ciclo di conferenze, che illustra momenti della storia della militia Templi e della sua presenza a Perugia. Questi i prossimi appuntamenti: 17 novembre, ore 17,00: «Quasi santo»: sulle tracce di san Bevignate, titolare della precettoria templare di Perugia (Mirko Santanicchia, Università di Perugia; introduce: Maria Grazia Nico Ottaviani, Università di Perugia);; 26 gennaio 2018, ore 18,00: Il vescovo e il santo: Napoleone Comitoli e il culto di san Bevignate (ca. 1600)

(Pascale Rihouet, Rhode Island School of Design, Providence, USA; introduce: Laura Teza, Università di Perugia); 16 febbraio 2018, ore 17.30: Cubiculari templari e ospedalieri al servizio del papa: i casi di fra Bonvicino, fra Tommaso e fra Giacomo da Pocapaglia (Sonia Merli, Deputazione di storia patria per l’Umbria; introduce: Paolo Caucci von Saucken, già Università di Perugia). info tel. 075 5772416 (lu-ve, 9,00-13,00); e-mail: info. cultura@comune.perugia.it; http://turismo.comume.perugia.it

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immaginario changeling Nel Medioevo si affermò la credenza che i neonati potessero essere vittime di misteriose «sostituzioni». Un fenomeno che venne spiegato chiamando in causa, di volta in volta, fate, elfi e perfino il diavolo. Diffuso soprattutto nel Nord Europa, il mito del changeling – come venivano chiamate le vittime degli scambi – sembra però avere anche alcune singolari attestazioni in Italia…

Quei

di Domenico Sebastiani

bambini

scambiati nella culla Sulle due pagine Prato, Duomo. Particolare di una scena dal ciclo di affreschi con le Storie di santo Stefano e di san Giovanni Battista di Filippo Lippi, raffigurante la nascita di santo Stefano e la sua sostituzione da parte di un demone. 1452-1465.

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immaginario changeling

I I

l termine changeling è attestato nella lingua inglese solo a partire dal Cinquecento, grosso modo al tempo di Edmund Spenser e William Shakespeare. L’espressione designa un bambino segretamente sostituito in culla da un altro, in particolare da una creatura – di salute malferma, particolarmente brutta o stupida –, che si suppone sia stata lasciata da fate, folletti, gnomi o esseri demoniaci in luogo del bimbo originario e sano, che essi stessi hanno rapito. Il termine, peraltro, non esiste solo nella Gran Bretagna, visto che anche altre lingue conoscono termini affini, come il tedesco Wechselbalg, il danese skifting e lo svedese bortbyting: il mitema, infatti, risulta piú che altro diffuso nei Paesi celto-germanici. Nel mondo anglofono e germanofono questo mito folklorico è stato oggetto di numerosi studi e pubblicazioni, mentre in Italia è stato quasi del tutto ignorato. Solo di recente, Riccardo Castellana ha esplorato per la prima volta in modo sistematico la diffusione nel nostro Paese di questo tema letterario, con l’obiettivo di analizzare le dinamiche per effetto delle quali un prodotto della cultura popolare e subalterna è stato poi rielaborato dalla cultura «alta», dal periodo medievale fino alle soglie della modernità. Se, dunque, la credenza nei changeling è diffusa soprattutto nella cultura celto-germanico-slava, anche per l’Italia esistono rari casi, documentati in Val d’Aosta e nell’alta Val di Susa, nonché in Sicilia e in zone circoscritte del Cilento e della Calabria. Se il persistere del mito nelle zone alpine è da ricollegare all’influenza del folklore celtico, la presenza di una credenza molto simile in Sicilia viene invece considerata piuttosto singolare in quanto non ricollegabile alle influenze nordiche, né, tantomeno, a quelle della zona greco-albanese. Nell’isola si parla di canciatu (o canciateddu), per indicare il bambino sostituito, e di donni di fuora, per identificare le misteriose entità femminili che procedono allo scambio, la cui prima attestazione risale a un manuale per confessori del Quattrocento, nel quale si parla di «donni di fori e ki vayanu la nocti». Si potrebbero ipotizzare, come ha suggerito Castellana, una credenza autoctona antichissima e un sostrato di base arcaico, comune a tutte le varianti del changeling in Europa, con connotazioni sciamaniche e legato al culto di Diana, alla stregua di quanto teorizzato da Carlo Ginzburg in relazione alle origini del sabba.

Un precedente in età antica?

Qualche studioso ha ritenuto di rinvenire il primo caso di changeling ricorrendo addirittura alla letteratura antica classica, in particolare all’episodio, narrato nel Satyricon di Petronio (I secolo d.C.), che ha luogo durante la cena di Trimalcione; in questo caso le striges – entità notturne a metà strada tra donne e volatili –

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Nella pagina accanto Natività di santo Stefano, pannello del retablo proveniente dalla chiesa di Sant Esteve de Granollers, opera di Pau Vergós e bottega. Tempera e foglia d’oro su tavola. 1495-1500 circa. Barcellona, Museo Nazionale d’Arte della Catalogna. La creatura che dorme sul lettino, con un copricapo rosso e le corna, è un changeling, mentre il santo è fra le braccia di Satana, che lo ha rapito e sta volando via.

sostituiscono, durante una veglia funebre, il corpicino di un bimbo morto con un fantoccio ripieno di paglia. In realtà, tale «sostituzione» è molto diversa da quella del changeling e si ricollega alla predilezione delle strigae romane, mostri ematofagi, per le interiora e per il sangue dei neonati; questo tratto, comune anche a creature della mitologia greca (come le lamiae), sarà poi ereditato dallo stereotipo della strega medievale, nota succhiatrice del sangue dei bimbi, spesso sotto le spoglie di gatto o di altro animale. L’analogia con il fenomeno del changeling quindi è solo apparente, in quanto le fate o altri esseri misteriosi non uccidono mai i bambini che rapiscono o che sostituiscono con i propri, ma sono indotti allo scambio proprio dal fatto di amare di un amore geloso e possessivo i neonati sani e di volerli allevare e tenere con sé, spesso per tutta la vita.

Le prime attestazioni medievali

Se il mito del changeling è ampiamente diffuso nel folklore del Nord Europa e protagonista di innumerevoli fiabe, esistono attestazioni medievali che fanno emergere con chiarezza una credenza che ha origini molto antiche. Attorno al 1200, in un suo sermone, Giacomo di Vitry, vescovo di Acri, usa nel francese antico la forma chanjon (o changeon) nel momento in cui afferma che «sono infatti simili al bambino che i Galli chiamano chamjon o chanjon, che prosciuga il latte di molte nutrici e ciononostante non ne trae alimento né cresce, ma ha il ventre duro e gonfio» . Piú tardi, attorno al 1405, Nicola Jawor, originario della Bassa Slesia e teologo all’Università di Heidelberg, nel trattato De superstitionibus, fa riferimento alla credenza non di infanti sostituiti da altri, ma di veri sostituti diabolici generati dai «demoni incubi». Essi vengono definiti «cambiones» o «cambiti»: «Sembra che i demoni siano davvero capaci di generare, perché è accertato, e presso il volgo lo si dice comunemente, che i figli di quei demoni che giacciono sopra le donne dormienti [cioè i «demoni incubi»] vengano sostituiti dagli stessi demoni e poi da quelle allevati come fossero figli propri, una volta rapiti i figli veri. Per questo motivo sono detti cambiones, o anche cambiti, cioè “scambiati”; e gli scambiati, dopo che alle partorienti sono stati sottratti i propri figli, li chiamano macilenti: piangono sempre, bevono avidamente il loro latte, al punto che la piú grande abbondanza di latte non riesce a saziarne uno solo». (segue a p. 39) novembre

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immaginario changeling Iconografia

Le storie di Stefano, Lorenzo e Bartolomeo

Il ciclo pittorico di santo Stefano attribuito a Martino di Bartolomeo (prima metà del XV secolo), esposto presso lo Städel Museum di Francoforte sul Meno, è composto di sette pannelli. Nel primo è rappresentato lo scambio del bambino: approfittando della distrazione dei presenti, un diavolo sostituisce il lattante con un piccolo demonio, molto simile nei tratti somatici al piccolo Stefano, con la differenza che sulla testa porta piccole corna invece dell’aureola. Nel secondo si vede il diavolo che vola via, dopo aver lasciato l’infante in un luogo abbandonato, ma questi viene salvato dall’intervento miracoloso di una cerva che lo allatta. Nel quinto pannello la scena si presenta divisa in due: da un lato santo Stefano, ormai adulto, torna nella sua abitazione e smaschera il suo sostituto diabolico che ancora dorme nella culla, tra l’incredulità dei genitori; dall’altro, scoperto l’inganno, il changeling viene gettato dai servi nel fuoco. In queste pagine alcuni particolari delle Storie di santo Stefano, tempera e foglia d’oro su tavola attribuito a Martino di Bartolomeo. XV sec. Francoforte sul Meno, Städel Museum.

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Nella pagina accanto, in alto, a destra la nascita e il rapimento di santo Stefano da parte di un demonio.

Altro famoso affresco che rappresenta lo scambio diabolico di cui fu vittima santo Stefano è quello del coro del Duomo di Prato, eseguito da Fra Lippo Lippi tra il 1452 e il 1465. In questo caso il changeling non ha l’aspetto di un demonietto, né ha le corna, risultando del tutto simile a santo Stefano, che viene portato via dal diavolo. La sola differenza tra i due bimbi è l’aureola, visto che Stefano la possiede, mentre il changeling ne è privo. Esistono numerosi altri dipinti in cui è raffigurato l’episodio, come nella chiesa di S. Lucchese a Poggibonsi, di autore anonimo e risalente al 1440 circa, oppure nell’oratorio di S. Stefano, a Lentate sul Seveso, di scuola lombarda della seconda metà del XV secolo. Notevole è la Natività di Santo Stefano, della scuola di Vergòs, originariamente nella chiesa di Sant Esteve de Granollers e attualmente conservata al Museo Nazionale

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Nella pagina accanto, in basso santo Stefano ritorna alla propria casa e smaschera il changeling, che viene gettato nel fuoco.

d’Arte della Catalogna (1495-1500), nella quale, davanti a un gruppo di donne, il changeling è rappresentato mentre dorme su un piccolo letto, con un copricapo rosso e le corna, mentre il vero santo Stefano è in alto a destra del dipinto, in braccio a Satana che, in volo, lo sta rapendo. Il motivo agiografico di santo Stefano sostituito da un changeling diabolico si estese, con alcune varianti, alle vite di san Lorenzo e san Bartolomeo. La storia del primo si ritrova raffigurata, con tratti molto stilizzati, in alcune chiese danesi, come quella di Undløse (1450) e nella chiesa parrocchiale di Skamstrup; riguardo a quella del secondo, notevole risulta l’affresco nella cattedrale di Tarragona (1360) ove gli sposi non sembrano preoccupati del piccolo demonio che si agita nella culla, mentre a terra giacciono addirittura quattro balie, con un chiaro riferimento al noto motivo della insaziabilità del changeling.

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immaginario changeling A destra Undløse (Danimarca). Il rapimento di san Lorenzo bambino, raffigurato in un particolare della decorazione ad affresco della chiesa, attribuita al Maestro di Undløse. 1450. Sulle due pagine xilografia raffigurante la leggenda medievale attorno a cui nacque e crebbe il culto di san Guinefort. XV sec.

la leggenda di guinefort

Il santo levriero L’episodio narrato da Étienne de Bourbon e studiato da Jean-Claude Schmitt ruota attorno alla presenza e alla venerazione, nella regione di Dombes, presso Lione, di un santo molto particolare, in quanto trattavasi di un cane. La leggenda narra che Guinefort, questo il nome del santo levriero, fosse il cane di uno iuvenis di nobile status. Questi, un giorno, si allontanò temporaneamente dalla propria abitazione insieme alla moglie, lasciando l’animale insieme al figlioletto che dormiva nella culla. All’improvviso, un grosso serpente si avventò sul bimbo e il cane, accorso in sua difesa, ingaggiò una strenua lotta con il rettile, riportando varie ferite, ma riuscendo a prevalere e a ucciderlo. Durante lo scontro, la culla si rovesciò e il bambino, indenne, rimase lontano dalla vista, avvolto in una copertina. Quando il signore rientrò e si accorse della culla vuota e del cane insanguinato, credette che il levriero avesse sbranato il bambino. Preso dall’ira, uccise per punizione l’animale, salvo poi accorgersi dell’enorme errore commesso e del fatto che l’infante era stato salvato proprio dal levriero; per espiare la colpa, fece seppellire il fedele cane nel bosco vicino, che dallo stesso prese il nome. Con il tempo si diffusero varie pratiche devozionali della popolazione locale, che si recava in pellegrinaggio sulla tomba di Guinefort, portando ex voto o chiedendo intercessioni per la salute dei propri bambini malati.

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Interessante è l’osservazione, comune a entrambi gli autori, secondo la quale questi changeling, oltre che malaticci, si lamentano sempre e hanno un appetito insaziabile, arrivando a succhiare senza limiti il latte dalle nutrici. Secondo il mito folklorico diffuso nelle regioni europee, lo scambio avviene normalmente tra le mura domestiche, in particolare nella camera da letto dove il bimbo dorme nella culla. In quel momento gli esseri sovrannaturali si introducono e sostituiscono il soggetto originario con il changeling. Esistevano, del resto, pratiche rituali per cercare di proteggere i piccoli nella culla, e tenere lontani gli spiriti malefici: buona cosa era quella di conservare sempre acceso un fuoco, o almeno una candela, nella stanza del bimbo, cosí come di bruciare paglia sopra la culla prima di deporvi il neonato, facendo il segno della croce. Anche avvolgere il bimbo in panni rossi, in Svezia, aveva una funzione apotropaica. Il rimedio a carattere preventivo di gran lunga piú efficace era senz’altro ritenuto il battesimo, che non solo aveva funzioni esorcistiche tali da allontanare le «fascinazioni» e il malocchio, ma, anche dal punto di vista sociale, costituiva il primo atto formale di riconoscimento dell’infante come «individuo» e come membro della famiglia. Ma come si riconosce un changeling? È sempre il folklore a dirci che esso si presenta come un essere zoomor-

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fo, incredibilmente brutto, irsuto, debole e fiacco, che rimane di costituzione piccola nonostante il passare degli anni, dotato di un appetito vorace, come si è notato anche nelle testimonianze di Giacomo di Vitry e Nicola Jawor. Il changeling non cammina, o si muove in modo sgraziato, non sa parlare o lo fa male, apparentemente non capisce e si atteggia come un idiota; in realtà, di nascosto, è diabolicamente furbo e vivace. Figlio di fate, elfi, folletti, demoni o altro, il changeling è motivo del rapimento-sostituzione per varie cause, secondo tesi non unanimi: la necessità degli elfi di preservare la specie tramite il nutrimento del latte umano, la cattiveria di alcun spiriti del male che hanno intenzione di nuocere agli uomini, ovvero l’amore delle fate nei confronti dei bambini che rapiscono e che intendono trattenere nel loro regno con le massime attenzioni, ovvero, ancora, la punizione in conseguenza di una colpa, ossia un comportamento eticamente scorretto dei genitori, come l’aver concepito il figlio fuori dal sacramento del matrimonio.

Espedienti per il riconoscimento

Se il sostituto ha dei caratteri esterni piuttosto chiari, il folklore richiede rituali di smascheramento, protezione e restituzione. Una pratica curiosa, diffusa nelle fiabe celtiche per riconoscere il changeling e attestata da William Butler Yeats nel suoi Fairy and Folk Tales of the Irish Peasantry (1888), è quella che consiste nel far bollire alcuni gusci d’uovo in una pentola d’acqua (in altri Paesi conchiglie o gusci di noce), pratica che provocherà grande stupore nel piccolo essere e lo indurrà a confessare di essere un changeling, vecchio di moltissimi anni. Pratiche piú cruente, anche se nel folklore sono riportate in modo alquanto sfumato, sono quelle che ricorrono al potere purificatorio e lustrale del fuoco e dell’acqua. Talvolta, anche la violenza fisica rappresenta un ottimo espediente per smascherare il changeling e indurre gli esseri soprannaturali a riprendere i figli deformi. Come ha infatti scritto lo storico francese JeanClaude Schmitt, una volta accertata la sostituzione, «un buon mezzo è quello di far soffrire il changeling affinché le sue grida di dolore richiamino i veri genitori e li spingano cosí a riprenderselo: a tal fine si può picchiarlo o anche semplicemente fingere di bruciarlo o ustionarlo con l’acqua bollente. Spesso il changeling viene deposto a un bivio solitario o al confine di tre paesi o alla confluenza di tre torrenti. Dopo averlo qui abbandonato, la madre si allontana in assoluto silenzio per ritornare indietro al primo vagito del bambino, nella speranza che le sia stato reso il proprio figlio in cambio del changeling». Tornando al periodo medievale, la stessa vicenda narrata dal frate domenicano Étienne de Bourbon (1180-1261), oggetto di studio da parte del citato

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immaginario changeling letteratura

Da Spenser a Pirandello Echi del motivo folklorico del changeling (che si interseca poi con quello del foundling, cioè del cosiddetto «trovatello») si ritrovano, in epoche successive al Medioevo, in varie letterature nazionali. Nell’Inghilterra elisabettiana, vi sono, per esempio, Edmund Spenser, con La Regina delle Fate (The Faerie Queene, 1590), nonché William Shakespeare, autore di Sogno di una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Dream, 1595), Racconto d’inverno (The Winter’s Tale) e I due nobili congiunti (The Two Noble Kinsmen, 1612-14), tutte opere che attingono ampiamente a tale tema mitico. Nel periodo a ridosso dell’illuminismo, Jon Gay (1685-1732) fu autore di due serie di favole esopiane, tra cui La madre, la nutrice e la fata (The Mother, the Nurse, and the Fairy), nella quale egli denuncia l’ingenuità popolare che crede nei folletti e si affida a spiegazioni magiche per spiegare il male e fenomeni totalmente naturali. In epoca romantica, invece, i fratelli Jacob e Wilhelm Grimm scrivono Der Wechselbalg, una serie di racconti incentrati sul tema dello scambio magico a opera di creature misteriose, che diventano elemento propulsore per la riscoperta ottocentesca del folklore inerente i changeling. Il tema mitico è fonte di ispirazione, del resto, anche per gli scritti di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822), William Butler Yeats (1865- 1939) e del premio Nobel Selma Lagerlöf (1858-1940). Il fatto che la credenza dei changeling sia attestata anche in Sicilia – situazione di assoluta rilevanza, perché, a tutt’oggi, sembra aver avuto un’origine indipendente rispetto ai mitemi del Nord Europa – influenzò anche Luigi Pirandello (1867-1936), il quale pubblicò la novella Il figlio cambiato nel 1923 (raccolta poi nell’ottavo volume delle Novelle per un anno, 1925). In realtà, la novella costituiva la rielaborazione di un racconto pubblicato già nel 1902 e intitolato Le nonne, con un evidente richiamo alle misteriose presenze femminili – fate e streghe – che rapiscono e sostituiscono i bambini. Pirandello tornò una terza volta sul tema, nel 1933, realizzando un dramma in tre atti, intitolato La favola del figlio cambiato. I ricordi personali di Pirandello relativi a tali leggende locali poterono peraltro giovarsi dello studio dell’etnologo Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, pubblicato nel 1889. Schmitt nel saggio Il santo levriero. Guinefort guaritore di bambini, rimanda a storie di rapimenti e sostituzioni, a fauni, demoni e prove ordaliche per riottenere indietro gli infanti sottratti alle proprie madri. In un trattato sul dono dello Spirito Santo, Étienne propose alcuni exempla, tra cui quello che narrava della scoperta, nella regione di Dombes, a breve distanza da Lione, dell’adorazione di un cane – a suo dire pratica diabolica –, che veniva considerato santo e taumaturgo. Il levriero, che era stato ucciso in passato per errore dal suo padrone nella convinzione che avesse sbranato il proprio bambino – mentre in realtà lo aveva salvato dall’attacco di un serpente –, divenne oggetto di culto da parte delle popolazioni locali come protettore e guaritore di bambini (vedi box a p. 38).

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Der Wechselbalg, carboncino e acquerello su carta Johann Heinrich Füssli. 1780. Zurigo, Kunsthaus Zürich. Il pittore raffigura una madre che scopre un changeling nella culla del figlioletto, che viene intanto rapito da una creatura alata. novembre

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Nella pagina accanto illustrazione per un’edizione del Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare, litografia a colori di Arthur Rackham. 1908. Collezione privata. Il bambino allevato da Titania (la regina delle fate) viene portato a Oberon (il re degli elfi).

Come narra lo stesso inquisitore domenicano, le donne che avevano bambini malati e deboli li conducevano in prossimità della tomba del santo levriero e, attraverso la mediazione di una vetula, conducevano un complesso rituale che comprendeva offerte, il passaggio dei bimbi attraverso i tronchi degli alberi, accensione di candele e immersione degli infanti nei torrenti. Ma, soprattutto, le stesse, secondo le parole di Étienne «invocando i demoni scongiuravano i fauni che si trovavano nella foresta di Rimite di prendere questo bambino malato e debole che, affermavano, apparteneva loro, rendendo invece loro stesse il proprio figlio grasso e grosso, sano e salvo, che essi si erano portati via».

Figli dei fauni

Come osserva ancora Jean-Claude Schmitt: «Spiriti non ben definiti, fate o nani, rapiscono i bambini e li sostituiscono con i loro (...) Étienne de Bourbon, riportando la testimonianza delle donne da lui interrogate, precisa che sono costoro a dire (quem eorum dicebant) che i changeling sono figli dei fauni: per quanto lo riguarda non può aderire a questa opinione. Ma questa opinione, tra il popolo almeno, è stata a lungo unanimemente accettata. Il che significa che i changeling rappresentano per i singoli, concretamente, un’intrusione angosciante nella vita quotidiana. Già la parola evoca, realmente, tutte le potenze del diavolo, al punto che accusare qualcuno di essere un changeling costituisce, nel XV secolo, una terribile ingiuria». Si può d’altra parte affermare che il rituale sorto attorno a san Guinefort, con la richiesta ai fauni – sovrapponibili alla figura del demonio – di restituire i bambini sani e di riprendere i propri figli malati o deformi, si ricollega chiaramente a una mitologia che, benché cristianizzata, lascia intravedere un substrato precristiano molto antico. Il tema del changeling ebbe larga fortuna nell’Europa cristiana medievale anche grazie ai racconti agiografici. Ci riferiamo, in particolare, alla leggenda apocrifa di santo Stefano (Vita fabulosa sancti Stephani protomartyris), databile tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, secondo la quale il santo sarebbe stato rapito ancora infante dal demonio e sostituito nella culla con un suo «doppio», per poi – abbandonato dal diavolo in un luogo sperduto per provocarne la morte – essere invece salvato e nutrito da una cerva bianca e tornare, una volta adulto, a smascherare il demonico impostore. Il motivo agiografico relativo alla «sostituzione» di santo Stefano ebbe grande fortuna,

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tanto da fare da modello a narrazioni simili riguardanti i santi Bartolomeo, Lorenzo e Zeno di Verona, e a ispirare numerosi cicli pittorici sia in Italia – si può pensare agli affreschi di Martino di Bartolomeo e di Fra Lippo Lippi nel Duomo di Prato – sia all’estero, come in Spagna e addirittura nella lontana Danimarca (vedi box alle pp. 36-37).

Un espediente culturale

Ad avviso dell’antropologo Massimo Centini, le fonti medievali, considerate nel complesso, tenderebbero a considerare il fenomeno del changeling e la sostituzione dei bambini opera del diavolo, il quale, con stratagemmi vari, avrebbe la finalità di insinuare creature del male in seno alla comunità cristiana. In realtà, la credenza sui bambini sostituiti diventa nella società del tempo un espediente culturale per tentare di dare un senso a ciò che la comunità percepisce come alterità e squilibrio, ossia l’esistenza di bambini malati, deformi o affetti da gravi deficit cognitivi. In accordo con le prerogative del pensiero magico, individuare un fattore esterno come causa di tali accadimenti permette di alleviare il senso di disagio e razionalizzarlo, tentando di mettere in essere pratiche finalizzate a ristabilire l’equilibrio perduto. Sulla stessa linea d’onda si pone Castellana, secondo il quale «il mito folklorico dei changeling, del resto, rielabora, per esorcizzarle, le paure ancestrali che circondano il momento della nascita: l’esito sempre incerto del parto, l’eventualità della malattia o della disabilità, i rischi legati ai primi mesi di vita del bambino. Ansie che la moderna medicalizzazione del parto e del monitoraggio costante della vita pre e post-natale non hanno sconfitto ma in molti casi moltiplicato, aumentando, insieme alle possibilità di diagnosi precoce e di cura, anche la consapevolezza, nel genitore, del grande numero dei rischi e delle eventualità negative. Paure molto spesso simili alle nostre, che un tempo la magia e il mito erano i soli dispositivi di pensiero legittimati a contrastare e che oggi, in termini freudiani, si ripresentano come “ritorno del superato”: ecco perché questo mito folklorico è perturbante, cosí distante nel tempo eppure cosí familiare e minacciosamente vicino».

Da leggere Riccardo Castellana, Storie di figli cambiati. Fate, demoni

e sostituzioni magiche tra folklore e letteratura, Pacini, Ospedaletto-Pisa 2014 Jean-Claude Schmitt, Il santo levriero. Guinefort guaritore di bambini, Einaudi, Torino 1982 Massimo Centini, Gli «scambiati», le fate e i fauni. Qualche considerazione intorno a un’antica credenza, in Il Giornale dei Misteri, 498 (ottobre 2013)

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Soldi, prestiti

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e profitti

di Maria Paola Zanoboni

Fin da quando si è affrancato dall’economia di baratto, l’uomo ha avuto bisogno di denaro, trovandosi spesso ad averne meno del necessario: ma come rispondeva l’età di Mezzo alla cronica insufficienza di quell’indispensabile «materia prima»? Ecco una storia di prestatori ebrei, Monti di Pietà e grandi compagnie bancarie…

Prato, chiostro della chiesa di S. Francesco, Cappella Migliorati. Due banchieri raffigurati in un particolare del ciclo di affreschi con le Storie di san Matteo, di Niccolò di Pietro Gerini. 1400 circa.

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G G

ià nell’antica Mesopotamia, in Grecia e a Roma, il credito era una pratica abituale ed esistevano soggetti disposti a erogarlo. E il termine «bancus», che fece la sua apparizione soltanto nel Medioevo, non era che la traduzione latina del greco «trapeza», ovvero il banco (o tavola) su cui un banchiere professionista esponeva le sue monete e i suoi registri. Anche i vocaboli «trapezita» e «nummularius», che designavano i prestatori nell’antichità, ricomparvero nell’XI secolo, in corrispondenza con l’inizio della crescita economica del mondo medievale, per designare chi batteva moneta e svolgeva operazioni di cambio. Nel XIII secolo si potevano distinguere tre categorie di agenti di credito: i prestatori su pegno; i cambiavalute e banchieri di deposito; i grandi mercanti-banchieri, che operavano sulle piazze internazionali, una élite professionale composta da facoltosi imprenditori commerciali e manifatturieri, che dominavano l’economia delle proprie città. La fame di denaro che, come

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accade tuttora, caratterizzava il Medioevo faceva sí che il credito assumesse molteplici forme: credito alle attività commerciali e manifatturiere; credito «improprio», mascherato da finta elemosina destinata a enti religioso-assistenziali; credito «informale», come quello al consumo per le compravendite al dettaglio, ampiamente diffuso, in ambito urbano e rurale, in ogni parte d’Europa fin dal XIII secolo. Gli operatori tradizionali del settore (banchieri, cambiatori, Monti di Pietà) non ne detenevano l’e-

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sclusiva, poiché la loro attività non era sufficientemente estesa e diffusa: di conseguenza, pratiche di finanziamento diverse e inusitate si dipanavano capillarmente a ogni livello e in ogni strato sociale, sorrette dall’inventiva e dalla preparazione tecnica dei soggetti coinvolti.

Prestiti solidali

In questo panorama, l’istituzione dei Monti di Pietà (avvenuta verso la metà del XV secolo a opera dei Francescani) fu decisamente innovativa, sia per il modo di operare,

sia per la natura pubblica e solidaristica del prestito che concedeva. La circolazione dei pegni, infatti, rispondeva alla continua necessità di piccole somme per curare economie asfittiche, e risolvere, almeno temporaneamente, la precarietà continua di famiglie al limite della povertà, consentendo anche di combinare le esigenze di chi disponeva di modesti capitali da investire (che depositava al Monte), e chi aveva bisogno di un piccolo finanziamento a condizioni non rovinose. Fin dall’epoca medievale, non novembre

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante un usuraio che conta i suoi soldi, da un’edizione del Livre des bonnes moeurs di Jacques Legrand. XIV sec. Chantilly, Musée Condé. A destra La figura della vita eterna o vero del Paradiso et delli modi et vie di pervenire a quello, xilografia tratta da un’edizione del Libro delli comandamenti di Dio del Testamento Vecchio, operetta a carattere devozionale di Marco da Montegallo. 1494. Firenze, Biblioteca Nazionale. L’immagine ruota intorno a un enorme Mons Pietatis: il Paradiso è un monte di denari a cui attingere. Il senso della scena è che chi finanza il Monte di Pietà andrà in Paradiso.

era poi secondario il problema del finanziamento alle imprese artigiane, in particolare quando si trattava di attività dai costi elevati (per le materie prime o i macchinari). La questione poteva essere risolta mediante il ricorso a un socio finanziatore, o con il tentativo, da parte dell’artigiano stesso, di ottenere credito in vario modo, come il pagamento posticipato delle materie prime, o la mutuazione di somme garantite da un pegno.

Reti informali

La fiducia generata dai vincoli di vicinato e dall’appartenenza alla medesima categoria rappresentava, in genere, la motivazione principale alla concessione del credito. Al di fuori dei grandi circuiti finanziari che facevano capo ai grandi mercanti-banchieri o ai professionisti dell’attività feneratizia, esistevano dunque reti creditizie informali che attraversavano la società, rivitalizzandola. Un altro genere di credito era quello erogato da confraternite, ospedali e luoghi caritativo-assistenziali che, fin dal Medioevo, costituivano vere e propire «aziende» collettrici della ricchezza proveniente da lasciti ed elemosine, che ridistribuivano sotto forma di sussidio a favore dei bisognosi.

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Nelle città bassomedievali il bisogno di liquidità era tale che il tasso di interesse legalmente autorizzato dalle autorità pubbliche per i prestiti si aggirava intorno al 20%, limite al di sopra del quale veniva considerato usura. Molti, comunque, con vari stratagemmi, riuscivano ad aumentarlo. Spesso, fra il Duecento e il Trecento, mercanti e cambiavalute (dai Pepoli agli Scrovegni, ai Medici) accumularono in questo modo fortune immense, che costituirono il trampolino di lancio per la loro ascesa sociale e politica.

Il piccolo prestito su pegno, esercitato da professionisti che tenevano un banco ad hoc, subí un rapido mutamento a partire dall’inizio del Trecento: se in quest’epoca erano ancora abbastanza numerosi i banchi gestiti da specialisti, spesso toscani o piemontesi (i cosiddetti «lombardi»), nella seconda metà del secolo il settore venne progressivamente abbandonato, parallelamente all’atteggiamento sempre piú intransigente della Chiesa, preoccupata di distinguere l’attività lecita e operosa dei grandi mercanti

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costume e società – che agivano per il bene comune e il cui operato come prestatori era mascherato da quello di cambiavalute e dalla miriade di attività che svolgevano – dagli usurai manifesti, i quali concedevano piccoli prestiti con interesse. Poiché la domanda di cifre modeste era però continua e pressante, tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, le autorità cittadine di ogni parte della Penisola idearono il prestito convenzionato con gli Ebrei, chiamati ad aprire banchi ovunque, per sovvenzionare le piccole erogazioni di denaro. Il motivo era duplice: in primo luogo, non essendo cristiani, non sarebbero incorsi nella scomunica; in secondo luogo, trattandosi di comunità in perenne movimento e soggette al continuo pericolo di dover fuggire, tendevano a mantenere una notevole liquidità che non potevano investire in beni immobili, né in altre attività loro precluse dalla società cristiana. La disponibilità di denaro ebraica venne perciò a incontrarsi proficuamente con la richiesta di servizi creditizi da parte delle autorità cittadine, inaugurando un connubio destinato a durare fino alla seconda metà del Cinquecento.

Da usurai a banchieri

La genesi della banca pubblica (ovvero della cassa di risparmio cittadina) si può collocare intorno all’inizio del Cinquecento, ed è l’esito di un processo complesso, innescato dall’evolversi delle dinamiche creditizie ebraiche e cristiane. Se, fino a tutto il Duecento, l’usuraio – ebreo o cristiano – era una figura decisamente negativa, tra la fine del XIII secolo e l’inizio del successivo alcuni prestatori cristiani di Padova, Bologna e Firenze – legati per motivi di interesse ai relativi governi cittadini – si trasformarono in banchieri, cioè in figure di spicco, il cui rilievo civico era pari al significato politico della loro attività finanziaria. Tale processo rappresentava la conse-

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Banchi ebraici a Sansepolcro

Una presenza indispensabile Fin dal Trecento, la carenza di prestatori e la necessità di capitali, soprattutto per la coltivazione e la produzione del guado (il colorante ricavato dalle foglie della Isatis tinctoria, n.d.r.), il cui processo di lavorazione richiedeva investimenti notevoli, determinò a Sansepolcro, assai piú che in molti altri centri, un’accoglienza ottima nei confronti dei banchi ebraici, ai cui operatori vennero concessi i diritti civili e religiosi e la facoltà di celebrare le proprie festività ignorando quelle cristiane. La prima menzione di Ebrei a Borgo Sansepolcro risale al 1393 e si riferisce appunto al banco di un prestatore, la cui attività sarebbe durata fino al 1438. Nonostante il favore signorile, la presenza degli Ebrei fu in un primo tempo ostacolata dalla comunità: tra il 1394 e il 1395, infatti, il Comune cercò piú volte, ma con scarsi risultati, Nella pagina accanto San Bernardino predica nel Campo, tempera su tavola di Sano di Pietro. 1445 circa. Siena, Museo dell’Opera del Duomo. In alto, a destra miniatura raffigurante banchieri ebrei, dalle Cantigas de Santa Maria. XIII sec. El Escorial (Madrid), Biblioteca di S. Lorenzo.

guenza delle dottrine giuridiche del mondo cristiano, che, pur condannando l’usura, promuovevano le transazioni creditizie utili allo Stato, in quanto funzionali alla costruzione del «bene comune». In questo scenario, l’iniziativa economica ebraica, intrecciandosi a quella cristiana, la modificò e ne determinò le reazioni, in una prospettiva orientata da logiche di profitto indistinguibili dalle scelte

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di imporre limitazioni alla loro attività feneratizia che evidentemente faceva concorrenza ai circuiti creditizi locali. In seguito, però, la presenza di capitali ebraici si fece indispensabile, come veniva dichiarato nel 1436, al momento del rinnovo dei patti tra la comunità e il primo banco ebraico: il Borgo politiche e religiose. Se gli Ebrei, a differenza dei cristiani, rimasero sempre legati al piccolo prestito su pegno, senza potersi elevare al rango di banchieri concedendo sovvenzioni ai governi cittadini, fu soprattutto per la loro concezione strettamente personale dell’erogazione del credito, che doveva essere garantito esclusivamente da chi lo aveva ricevuto. Ciò rendeva impossibili le transazioni legate ai

– si diceva – non può sopravvivere decorosamente se non a patto che vi risieda stabilmente un prestatore. Un apporto determinante alla vita civile e artistica di Sansepolcro venne anche dalla predicazione di san Bernardino, che portò il 29 giugno 1466 alla fondazione del Monte di Pietà, uno dei primi in Italia. passaggi di credito da un soggetto all’altro, nonché i rimborsi mediante la riscossione di dazi (prassi comune per le sovvenzioni all’autorità pubblica). In ogni caso, il piccolo prestito al consumo erogato dagli Ebrei fu sempre bene accetto in Italia, e risultò fondamentale allo sviluppo delle attività economiche di tutte le comunità in cui si erano stabiliti. Tale fattore produceva un rafforza-

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In alto Siena. Particolare della facciata dell’ex ospedale S. Maria della Scala, con finestre a bifora con arco a sesto acuto e archivolti. XI sec. A sinistra Siena, Complesso museale del S. Maria della Scala, Sala del Pellegrinaio. La consegna del pane ai poveri raffigurata in un particolare dell’affresco La distribuzione delle elemosine di Domenico di Bartolo. 1441.

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mento delle dinamiche economiche a livello locale, con continue transazioni tra cristiani ed Ebrei, solo a tratti gestite da poteri governativi cristiani. Un’altra differenza importante era l’impossibilità per gli Ebrei di ottenere la cittadinanza, e quindi il loro rimanere stranieri. Le prime discussioni sull’istituzione di una banca pubblica che erogasse piccoli prestiti al consumo per sostituire i prestatori ebrei si tennero presso il Comune di Siena nel 1420: il risparmio pubblico accumulato per via creditizia sarebbe stato utilizzato per prestare denaro o viveri ai piú bisognosi. Proprio la necessità di costituire organismi di questo tipo, funzionali alla crescita economica delle città-stato, determinò, nel corso del Quattrocento,

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il sorgere nella Penisola di politiche del credito antiebraiche.

Un rimedio all’usura

Nella seconda metà del XV secolo, i Monti di Pietà, di fondazione francescana ma legati alle élite di governo cittadine, andarono progressivamente sostituendo i banchi ebraici: il ruolo di questi nuovi istituti nella genesi della banca pubblica in Italia, come la loro importanza nell’economia territoriale e a livello politico, furono notevolissimi. Nati verso la metà del Quattrocento dall’esigenza di coniugare la cura dei bisognosi (portatrice di ordine e tranquillità sociale) con il vantaggio, per i piú ricchi, di depositare il proprio denaro in un luogo sicuro, e di poterlo riavere a proprio piacimento, i Monti

di Pietà – propagandati dai predicatori francescani come rimedio all’usura – vennero imposti alle autorità cittadine pena la scomunica. Il primo venne aperto a Perugia nel 1462, utilizzando come capitale iniziale... un prestito degli operatori ebrei! In termini pratici, infatti, non era facile né annullare di colpo tutti i patti che le comunità cittadine avevano sottoscritto con i prestatori ebrei, né, tantomeno, trovare i capitali necessari a sostituire quelli dei loro banchi. In molti centri urbani si ricorse ai piú vari stratagemmi per ottenere offerte dai fedeli: questue dopo prediche sensazionali che demonizzavano l’usura, prospettando castighi tremendi come la peste; processioni teatrali, come quella che sfilò a Verona nel 1490, recando un baldacchino enorme, che riproduceva un monte circondato da immagini sacre, portato a spalla da 30 uomini dalle vesti variopinte; manifestazioni di vario genere, che univano alla predica canti e processioni, terminando invariabilmente nella raccolta di denaro. A Padova, dove il Monte venne fondato nel 1492, gli aderenti alla contribuzione per la sua nascita si impegnarono a versare un soldo al mese per tutta la vita, in cambio di speciali indulgenze concesse loro da Alessandro VI. Una volta costituito il capitale iniziale, il Monte funzionava come un normale banco di prestito su pegno, concedendo agli indigenti piccole somme, garantite da un oggetto che avrebbero potuto riscattare entro un certo tempo. Si trattava, in sostanza, di un’iniziativa di sostegno civico a beneficio di chi non riusciva a reggere il ritmo del mercato; tale sostegno sarebbe stato in seguito remunerato con un interesse del 5% circa (rispetto al 20-30% dei banchi ebraici). Istituzioni di questo tipo sorsero un po’ ovunque in Italia, spesso però con notevoli difficoltà. A Firenze, per esempio, la nascita del Monte, nel 1496, venne fortemen-

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In alto particolare di una tavola di Biccherna raffigurante gli esattori delle tasse, tempera su tavola di Sano di Pietro. XV sec. Siena, Archivio di Stato. Sulle due pagine Siena, Complesso museale del S. Maria della Scala, Sala del Pellegrinaio. Ancora un particolare dell’affresco La distribuzione delle elemosine di Domenico di Bartolo, raffigurante il dono di un vestito a un povero. 1441.

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te ostacolata dai Medici, interessati a mantenere buoni i rapporti con gli Ebrei, la cui liquidità era estremamente necessaria nella città di Dante a ogni livello sociale. Per di piú, a Firenze (come a Ferrara, dove la fondazione del Monte era stata ugualmente osteggiata), molti banchieri ebrei erano strettamente legati al governo cittadino e alle sorti economiche della città. Alla fine il Monte venne fondato – con il beneplacito di Girolamo Savonarola – proprio grazie al denaro degli Ebrei, i quali, in cambio, ottennero di poter rimanere in città.

Talvolta – come a Bologna, Carpi, Lugo e Milano –, i prestatori ebrei e il Monte di Pietà convissero pacificamente fino alla fine del Cinquecento. In altri casi ancora (come a Cesena), la concorrenza costituita dalla minaccia della fondazione di un Monte veniva utilizzata dalle autorità cittadine per spingere gli Ebrei a diminuire il tasso di interesse praticato.

Assistenza a tutto tondo

Un genere del tutto peculiare di istituto di credito era costituito dai banchi di alcuni tra i maggiori ospenovembre

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dali cittadini (ossia gli istituti di ricovero, non solo e non tanto degli ammalati, ma di ogni genere di poveri, bisognosi, orfani, trovatelli, pellegrini). Il caso finora meglio studiato è quello del S. Maria della Scala, la principale istituzione assistenziale di Siena (nata nel X secolo, ha funzionato come struttura sanitaria fino al 1995), e una delle maggiori italiane ed europee. Quest’opera caritativo-assistenziale svolgeva anche le funzioni di un vero e proprio istituto di credito. Dal 1326 al 1377 almeno, l’ospedale accolse infatti, in modo continuato

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e consistente, il risparmio dei cittadini, che poteva reinvestire, sul quale pagava interessi, e che gestiva in conti correnti. Prestava poi la liquidità incassata sia, moderatamente, a privati, sia, in larga misura, al Comune di Siena.

Denaro benedetto

Il «logo» dell’istituzione, raffigurante la Madonna, garantiva la sua moralità e la legalità delle operazioni finanziarie, e talvolta si arrivava persino a far benedire il denaro maneggiato. Agli occhi dei contemporanei, la connessione tra l’ospedale

e il suo banco, e quindi tra denaro – che «di per sé stesso è neutro» – e carità, verso la quale il primo può essere indirizzato, era strettissima. Gestito, almeno a partire dalla fine del Duecento, come struttura assistenziale a piú livelli, e in stretta connessione con un potere politico dalle molteplici reti di relazioni, l’ospedale – che la città di Siena nel suo statuto del 1262 aveva giurato di difendere, e i cui rapporti con il Comune si erano fatti sempre piú stretti nei primissimi anni del Trecento (nonostante l’opposizione dei frati che lo avevano in custodia) –

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era amministrato da un gruppo di professionisti esperti nella gestione della cosa pubblica e nella contabilità aziendale. Nel 1309 il Comune, che già ne nominava i revisori dei conti, tentò persino di collocare le proprie insegne all’ingresso dell’ospedale, atto poi immediatamente revocato per le fiere proteste che ne

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erano derivate, ma che testimonia la crescente ingerenza dell’autorità pubblica nell’organizzazione dell’assistenza, in linea con quanto stava avvenendo contemporaneamente in tutta Europa. L’ente rappresentava infatti anche un’impresa economica di primaria importanza, impegnata

nell’amministrazione di quello che nel Trecento era ormai un patrimonio vastissimo. E in tutto questo intervenivano al massimo grado i criteri di «gestione aziendale» dettati dagli stessi amministratori/ banchieri, ai vertici del ceto dirigente cittadino e del «consiglio di amministrazione» dell’ospedale, novembre

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criteri che riecheggiano chiaramente negli statuti trecenteschi dell’ente (1318): chi non si prende cura adeguatamente, e con efficaci strumenti di revisione dei conti, delle proprie entrate e delle proprie uscite – scrivevano – è destinato a veder fallire miseramente la propria impresa e a veder svanire anche i patrimoni piú grandi. E di fallimenti, in quel periodo, i banchieri senesi avevano una notevole esperienza. In effetti, proprio la precaria situazione a livello internazionale aveva spinto gli uomini d’affari senesi a disinvestire il proprio denaro dalle situazioni rischiose che avevano già portato molti di loro al tracollo, deviandolo verso il piú sicuro deposito presso l’ospedale della città, un’operazione che aveva liberato al tempo stesso anche un importante capitale umano – quello degli esperti in gestione aziendale –

In alto la bolla di Urbano IV con la quale vengono confermati i privilegi

accordati ai crociati. 1263. Parigi, Archives nationales.

nei prestiti al re di Francia), raggiunse l’apogeo del suo splendore architettonico con l’ampliamento del Duomo e la realizzazione della piazza del Campo, proprio grazie ai prestiti erogati al Comune dai grandi banchieri senesi. Tutto questo in un momento in cui la spesa pubblica aumentava a dismisura, e i tassi d’interesse altissimi impedivano a mercanti e artigiani di trovare liquidità per i propri affari, costringendoli a rivolgersi agli usurai.

Istituti internazionali

da mettere al servizio dell’istituzione assistenziale. I capitali disinvestiti dalla finanza internazionale avevano anche contribuito in modo massiccio all’abbellimento della città, che sotto il governo dei Nove (nonostante la situazione precaria e il fallimento di molte compagnie coinvolte

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Qui sopra Firenze, via S. Remigio. Particolare della lapide affissa dopo l’alluvione che colpí Firenze nel 1333, causando lo straripamento dell’Arno. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la conquista di San Giovanni d’Acri da parte di Guido di Lusignano nel croso della terza crociata. 1244. Chantilly. Musée Condé.

La grande banca a livello internazionale si sviluppò in seguito alle esigenze del commercio – soprattutto di quello delle spezie, dei tessuti e delle materie prime indispensabli alla fabbricazione dei secondi (la lana in primo luogo) –, per il quale esistevano già poli fondamentali di attrazione come le fiere della Champagne, divenute nel XIII secolo il cuore del commercio internazionale nel mondo occidentale. Verso la metà del Duecento, nel momento in cui queste fiere avevano rag-

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costume e società giunto il loro apogeo, nacquero le prime strutture bancarie, costituite inizialmente da filiali mercantili finalizzate a trasmettere le somme necessarie agli acquisti da piazze lontane al luogo in cui si teneva la fiera, senza dover ricorrere al trasporto materiale del denaro. A tale scopo furono approntati vari strumenti finanziari, il principale dei quali era la lettera di cambio: si trattava di un ordine di pagamento, emesso da chi voleva far pervenire il denaro su una piazza lontana, e consegnato al mercante-banchiere locale, il quale, a sua volta, dava ordine alla filiale della propria compagnia, situata dove si voleva far pervenire il denaro, di versare la somma ricevuta al richiedente l’operazione o ai suoi rappresentanti.

Notizie preziose

I mercanti italiani diedero poi una svolta decisiva a questa fase embrionale, avviando attività collaterali che avevano come oggetto specifico il commercio del denaro (con cambio di moneta, depositi, prestiti, erogazione di interessi per attrarre capitali) e di cui l’operazione di rimessa alle fiere diveniva soltanto un segmento. A tutto ciò si collegavano varie transazioni commerciali, svolte attraverso il credito concesso dalle filiali bancarie, che fungevano, tra l’altro, anche da reti informative di primaria importanza, sia per le no-

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In questa pagina, dall’alto rovescio di un doppio fiorino d’oro, con giglio e iscrizione «FLOR ENTIA» (XV-XVI sec.); fiorino aureo napoletano di Ludovico II d’Angiò: al dritto, effigie di san Giovanni e iscrizione «S IOHA NNIS B»; al rovescio, stemma bipartito di Gerusalemme e Angiò e iscrizione «LVDOV D GRA IHR E SICIL REX» 1390 circa. Padova, Musei Civici.

tizie di carattere economico, sia per quelle politiche che influenzavano pesantemente i mercati. Nello stesso periodo esigeva transazioni simili un altro snodo fondamentale: quello di San Giovanni d’Acri, porto nei pressi di Gerusalemme, conquistato dai crociati nel 1104, e che divenne il caposaldo fondamentale della raccolta delle risorse necessarie per finanziare le spedizioni. Fino alla prima metà del Duecento, tale attività era stata gestita dai Templari, la cui crisi vide subentrare, appunto verso la metà del XIII secolo, al tempo della crociata di Luigi IX di Francia, mercanti genovesi, veneziani, fiorentini e piacentini, già presenti sul posto per svolgere lucrosi commerci, e che divennero cosí anche i principali finanziatori delle «guerre sante»,

dando inizio a quel rapporto tra finanza e politica che avrebbe caratterizzato le epoche successive. Si era cioè andata creando, perfezionandosi verso la metà del Duecento, una gigantesca rete di scambi commerciali e di flussi di denaro che si estendeva dall’Europa settentrionale alla costa mediterranea del Nord Africa, in cui le rimesse di denaro verso luoghi lontani effettuate con adeguati strumenti bancari (le lettere di cambio) venivano compensate al di là del Mediterraneo o nel Nord Europa da quanto ricavato dalla vendita delle merci in quei luoghi.

Debitori coronati

Contemporaneamente e parallelamente a questo flusso di denaro e di merci, i mercanti presenti a San Giovanni d’Acri prestavano quanto avevano guadagnato ai sovrani che intraprendevano le crociate e che avevano quindi bisogno di liquidità al di là del Mediterraneo (tra i primi a usufruire di questo sistema ci fu Luigi IX); quelli presenti nell’Europa settentrionale (Senesi, Astigiani, «Lombardi»), sovvenzionavano invece i re di Francia e Inghilterra per le loro guerre sul continente. Spesso si trattava di finanziamenti a fondo perduto, perché raramente i sovrani restituivano il denaro, ma permettevano di ottenere sgravi fiscali, esenzione da dazi, monopoli sulla vendita o sull’acquisto di materie prime, diritti di riscossione delle imposte di un determinato territorio. Le nuove istituzioni bancarie andavano dunque collegandosi con le novembre

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istituzioni politiche, che ne colsero immediatamente le potenzialità e l’utilità, da un lato per ottenere le sovvezioni per pagare gli eserciti e sopperire alle esigenze di governo, dall’altro per affidare loro l’incombenza della riscossione di pedaggi, decime e tributi. Fu un papa, Urbano IV, giunto al soglio pontificio nel 1261, a gettare le basi del connubio Stato-finanza, collegato al sodalizio del papato con gli Angioini contro il ghibellinismo e l’impero. Per finanziare appunto la lotta contro i ghibellini, Urbano IV si serví dei banchieri: a sostegno della lotta contro Manfredi, fu creata una complessa rete di finanziamento su scala internazionale alimentata dai capitali lucrati dagli uomini d’affari senesi e fiorentini alle fiere della Champagne, fatti pervenire a Roma mediante lettere di cambio, e che venivano rimborsati ai banchieri dal papa con il gettito derivante dalle decime che quegli stessi banchieri avevano l’incarico di riscuotere in tutta la cristianità. Nel 1305, con il trasferimento della sede pontificia ad Avignone, le com-

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In alto, a sinistra Ritratto di Giovanni de’ Medici detto Bicci, olio su tavola di Agnolo di Cosimo detto il Bronzino. XVI sec. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

Qui sopra Cosimo de’ Medici il Vecchio, olio su tavola di Jacopo Carucci, detto il Pontormo. 1518-19. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

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costume e società A sinistra Portale del Banco Mediceo. Marmo di Candoglia. 1464 circa. Milano, Castello Sforzesco, Museo d’Arte Antica. In basso disegno della facciata del Palazzo del Banco Mediceo, da un’edizione del Trattato di Architettura di Antonio di Pietro Averlino detto il Filarete. XV sec. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.

inglesi in Francia. Dal 1300 avevano ottenuto addirittura la direzione dell’Exchange, l’ufficio centrale del cambio, incarico che li mise nelle condizioni di controllare l’intera politica monetaria del regno. Dall’inizio degli anni Trenta, i profitti cominciarono a scendere e la congiuntura si deteriorò decisamente dopo il 1340, quando divenne chiaro che il re inglese Edoardo III non era in grado di restituire ai mercanti-banchieri fiorentini le enormi somme che gli erano state anticipate per coprire i costi dell’impegno militare contro i Francesi allo scoppiare della guerra dei Cent’anni (1338). Ad aggravare il quadro si aggiunse il raffreddarsi delle relazioni di Firenze con i sovrani di Napoli e il clima di sospetto che spinse i titolari di depositi presso le compagnie fiorentine a una vera e propria corsa al prelievo. Questi rovesci innescarono una inarrestabile catena di fallimenti. Dal 1341 dichiararono bancapagnie fiorentine (Bardi, Peruzzi, Acciaiuoli, Frescobaldi, Alberti, Buonaccorsi, ecc.) si sostituirono a quelle senesi e lucchesi.

Le prime bancarotte

Tra la fine del Duecento e il primo Trecento, le compagnie bancarie fiorentine avevano raggiunto proporzioni enormi. I Frescobaldi, gli Scali, gli Amieri, i Bardi, i Peruzzi, gli Acciaioli costituivano ormai vere e proprie multinazionali, dotate di capitali ingentissimi, in grado di commerciare gli articoli piú sva-

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riati, e di insediare propri rappresentanti in tutti i luoghi strategici dell’attività economica: da Bari a Marsiglia, da Parigi a Bruges, da Londra a Barcellona, a Costantinopoli, Cipro, Rodi, Gerusalemme. I loro profitti potevano raggiungere il 15-20% del capitale investito. I Frescobaldi avevano anche anticipato ingenti somme di denaro ai sovrani inglesi in cambio di privilegi, come lo sfruttamento delle miniere del Devon, la riscossione dei diritti regi in Irlanda, l’esazione delle rendite di gran parte dei possedimenti novembre

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rotta gli Acciaioli, i Bonaccorsi, i Cocchi, gli Antellesi, i Corsini, i da Uzzano, i Pedendoli; nel 1343 fallirono i Peruzzi e, tre anni piú tardi, i Bardi. Il crollo delle grandi compagnie travolse anche tutti coloro che avevano continuato a mantenervi i depositi, dai ricchi rentiers ai piccoli risparmiatori. Dal momento che molte compagnie bancarie erano coinvolte anche in attività manifatturiere e mercantili, direttamente, o come finanziatrici, e quindi erogatrici di liquidità, l’impatto della crisi sull’economia urbana fu globale. E negli stessi anni, per analoghi motivi, non stavano affatto meglio i banchieri senesi, ugualmente coinvolti nei prestiti internazionali, soprattutto nei confronti del re di Francia.

Il malcontento popolare

Il lungo periodo di depressione economica, a cui si aggiungevano i disastri naturali (basti pensare all’alluvione causata dallo straripamento dell’Arno il 4 novembre 1333), portò, tra il 1342 e il 1347, a ripetuti disordini popolari, spesso messi in atto da lavoratori sottoposti e indirizzati contro le gabelle e il «popolo grasso». I governi che si susseguirono cercarono di reagire soffocando le insurrezioni e istituendo rigorosi controlli sull’importazione e sulla vendita del grano per calmierarne i

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Da leggere AA.VV., L’alba della banca. Le origini del sistema bancario tra medioevo ed età moderna, Edizioni Dedalo, Bari 1982 Maria Giuseppina Muzzarelli, Il denaro e la salvezza. L’invenzione del Monte di Pietà, Il Mulino, Bologna 2001 Luciano Palermo, La banca e il credito nel Medioevo, Bruno Mondadori, Milano 2008 Luciano Palermo, Alfio Cortonesi, La prima espansione economica europea. Secoli XI-XV, Carocci Editore, Roma 2009 Maria Paola Zanoboni, «Et che… el dicto Pigello sia piu prompto ad servire»: Pigello Portinari nella vita economica (e politica) milanese quattrocentesca, in Storia Economica, XII (2009); pp. 27-107

prezzi. Tra il 1345 e il 1347, le piogge autunnali e primaverili fecero marcire il raccolto, producendo in tutta la Toscana la carestia peggiore di tutta la prima metà del secolo. Affermatesi dunque fin dal Trecento, le aziende di tipo mercantile-bancario, in cui cioè, accanto alla mercatura, rivestiva un ruolo preponderante il settore creditizio, assunsero un ruolo determinante durante il Quattrocento. La principale, il Banco Mediceo, fondato nel

Gabriella Piccinni, Il banco dell’ospedale di Santa Maria della Scala e il mercato del denaro nella Siena del Trecento, Pacini, Pisa 2012 Amedeo Feniello, Dalle lacrime di Sybille. Storia degli uomini che inventarono la banca, Laterza, Roma-Bari 2013 Mauro Carboni e Maria Giuseppina Muzzarelli (a cura di), Reti di credito. Circuiti informali, impropri, nascosti (secoli XIII-XIX), Il Mulino, Bologna 2014 Maria Paola Zanoboni, Scioperi e rivolte nel medioevo. Le città italiane ed europee nei secoli XIII-XV, Jouvence, Milano 2015 Giacomo Todeschini, La banca e il ghetto. Una storia italiana (secoli XIV-XVI), Laterza, Roma-Bari 2016

1395 a Roma da Giovanni de’ Medici, padre del futuro signore di Firenze, Cosimo il Vecchio, seppe inserirsi, fin dagli esordi, nelle strutture amministrative e di tesoreria della curia pontificia, che costituiva la piú vasta organizzazione economica e finanziaria europea, venendo a controllare in tal modo i movimenti di denaro e di merci di ogni angolo del continente. Si creò cosí una rete di filiali del banco sparse per l’intera Europa, da Barcellona a Londra, da Bruges a Venezia e a Roma, coniugando ancora una volta il commercio del denaro e l’attività creditizia, pur prevalenti, con attività imprenditoriali (nel settore minerario e tessile) e commerciali. A partire dall’ultimo decennio del Quattrocento e nel primo Cinquecento, i banchieri tedeschi presero quasi improvvisamente il posto di quelli italiani in tutte le piazze europee, per una serie di fattori dovuti a mutamenti radicali nei circuiti delle merci e dei flussi di denaro, e al sostituirsi di Anversa a Bruges come snodo fondamentale dell’economia europea. F

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acque termali viterbo

La salute è nell’acqua

di Luca Salvatelli

Una veduta della sorgente termale del Bullicame, situata poco fuori Viterbo. Fin dall’epoca romana, le risorse termali di questo territorio furono molto apprezzate e sistematicamente sfruttate. Nel corso del Medioevo, il fenomeno fece registrare un significativo incremento quando la corte papale decise di trasferirsi nel capoluogo della Tuscia.

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Le sorgenti termali che sgorgano nei pressi di Viterbo furono apprezzate fin dall’età romana. Nel Medioevo, la frequentazione dei bagni si fece ancor piú intensa, soprattutto all’indomani del trasferimento della corte pontificia nel capoluogo della Tuscia. Una vicenda che possiamo ripercorrere anche grazie al trattatello scritto nel 1352 da un erudito che si firmò «maestro Girolamo»

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ede della corte papale in maniera ininterrotta tra gli anni Sessanta e Ottanta del XIII secolo, la città di Viterbo – la cui centralità nella politica territoriale del Patrimonium Sancti Petri risulta ancora testimoniata dalla celebre piazza su cui si affaccia il palazzo pontificio con loggiato –, può essere considerata, in quell’arco cronologico, una delle capitali culturali e scientifiche dell’Europa. L’attenzione per tematiche sanitario-filosofiche inerenti il prolungamento della vita e il rallentamento della senescenza (recreatio corporis, prolongatio vitae, retardatio senectutis) che si sviluppò in seno alla corte pontificia fin dal Duecento – in stretto parallelismo con le medesime ricerche e in mutuo e fruttuoso dialogo con la Magna Curia di Federico II di Svevia – risul-

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ta strettamente connessa alla passione e fascinazione per i bagni e le acque termali, i cui benefici influssi curativi furono la ragione prima della rilevante mobilità curiale duecentesca. E proprio le sue caratteristiche di amenità e salubrità dovettero indurre la corte papale a scegliere il capoluogo della Tuscia come residenza. Quel luogo, infatti, permetteva di sfuggire al venefico contagio malarico causato dall’impaludamento del Tevere che affliggeva la calura estiva di Roma. La suddetta attenzione si lega al fermento scientifico-filosofico dello Studium Viterbiensis, denominazione con la quale si identifica il cosmopolita cenacolo culturale – che aveva sede presso il convento domenicano cittadino di S. Maria in Gradi – che fu espressione dell’interesse per la speculazione scientifica nutrito

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acque termali viterbo A sinistra una pagina dell’edizione del De balneis Viterbiensibus secundum Hyeronimum physicum viterbiensem facente parte di una piú ampia miscellanea medica conservata nella biblioteca dell’Academy of Medicine di New York (ms Folio 200832). La redazione del testo originale, da parte di un non meglio identificato maestro Girolamo, risale al 1352.

(† 1277), autore del ricettario medico-farmauceutico intitolato Thesaurus pauperum e salito al soglio pontificio nel 1276 con il nome di Giovanni XXI, l’astronomo e ambasciatore polacco Witelo († dopo il 1277), nonché lo stesso Ruggero Bacone († dopo il 1292).

Una capitale della cultura scientifica

della corte papale e che era formato da eminenti esponenti della curia. Intorno al pontefice Urbano IV († 1264), definito dalle fonti come un «novello Socrate», si coagulò un attivo e vivace entourage, che vide impegnati in una proficua cooperazione il matematico Campano da Novara († 1296), il penitenziere papale Guglielmo da Moerbeke († 1286), il cardinale e arcivescovo di Canterbury Giovanni Peckham († 1292), il medico portoghese Pietro Ispano

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In tal modo Viterbo divenne, come accennato, un polo scientifico di primo piano, capace di competere con le corti del già citato Puer Apuliae o di Alfonso X il Saggio. Lo spirito ivi instaurato può riassumersi in un’immagine: la Creazione degli astri miniata all’interno di una piccola Bibbia, forse proveniente dal convento di S. Maria in Gradi (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottob. Lat. 356, f. 1r). Il diagramma cosmogonico che vi è rappresentato risulta infatti avere strette affinità con le ricerche portate avanti da Campano da Novara nella Theorica Planetarum, compendiando in immagine il ruolo della scienza nei confronti della teologia, già espresso da Bacone nell’Opus maius (vedi anche «Medioevo» n. 249, ottobre 2017). All’interno di tale contesto culturale si deve quindi analizzare l’interesse per il vasto complesso termale di Viterbo e che godette di una vasta e rinnovata fortuna dal primo quarto del XIII secolo. Il cronista inglese Matthew Paris († dopo il 1259), per esempio, sottolineava come Gregorio IX, affetto da calcoli e anziano, si curasse proprio attraverso le acque termali viterbesi, grazie alle quali riusciva a trovare momentaneo sollie-

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In alto incisione seicentesca raffigurante la chiesa e il convento di S. Maria in Gradi, sede dello Studium Viterbiensis.

Qui sopra un’altra veduta delle sorgenti termali del Bullicame. A sinistra le sorgenti del Bullicame in una tavola pubblicata il 3 agosto 1850 da L’album, giornale letterario e di belle arti, a corredo di un articolo sui bagni di Viterbo. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

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vo per il mal della pietra (calcolosi), specificando anche che morí il 22 agosto 1241 per l’impossibilità di potersi recare a tali abituali cure. Per favorire lo sviluppo e la diffusione delle pratiche terapeutico-sanitarie, le magistrature cittadine decisero di costruire alcuni ripari intorno ai resti degli impianti balneari romani che sorgevano al 50° miglio della via Cassia, allestendo anche un ricovero (hospitalium), una domus balnei e provvedendo alla loro gestione pubblica, come si può desumere dalla lettura degli atti notarili e comunali nelle Riformanze e nella Margarita. La Piana dei bagni divenne argomento di indagine in trattati scientifici atti a delineare le proprietà curative delle sue acque. Ne è prova, per esempio, la citazione che si ritrova nel Tractatulus de balneis del medico padovano Gentile da Foligno († 1348), a proposito della sorgente del Pellicanum (Bullicame) nei pressi di Viterbo.

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acque termali viterbo

Viterbo, il Palazzo dei Papi. La costruzione dell’edificio, in stile romanico, cominciò nel 1255 e venne ultimata nel 1266. L’anno successivo fu portata a termine anche la loggia, in stile gotico. Quest’ultima si conserva oggi su un solo lato, con sette archi sorretti da colonnine binate che si intrecciano sotto un’elegante trabeazione. Qui si svolse il primo conclave della storia della Chiesa, che si protrasse per ben tre anni, dal 1268 al 1271.

Il piú antico trattatello esclusivamente dedicato ai bagni viterbesi e alle sorgenti termali situate nella piana del Bullicame, il De balneis Viterbiensibus secundum Hyeronimun (sic) physicum viterbiensem, risulta composto intorno alla seconda metà del XIV secolo da un non meglio identificato maestro Girolamo, che si presenta come de civitate Viterbi, doctor minime, fidelis servolus Vester, nonché peritissimus medicinae, forse da identificare con l’omonimo compilatore della cronaca cittadina relativa agli anni 1255-1376, secondo quanto leggibile dalle te-

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stimonianze della Cronica del cronista cittadino Niccolò della Tuccia († 1473/1474).

La dedica al pontefice

In quest’ultima opera, infatti, si citano «Certi libri d’uno valente homo chiamato m° Geronimo medico e d’un altro cittadino di Viterbo chiamato Cola di Cavelluzzo Speziale» e si asserisce inoltre che tale magister di parte guelfa era ambasciatore del prefetto di Viterbo presso il pontefice Urbano VI nel 1378, e forse anche tra coloro che rientrarono in città quando Bonifacio IX recuperò la signoria sul territorio di Viterbo. A tal proposito, si deve tenere presente che il trattato venne espressamente redatto e dedicato per il pontefice Innocenzo VI: «Innocentio, Spiritus sanctus gratia Pape Sexto, Summo Romanonrum Pontifici». Consisteva in un breve opuscolo, una summa di precetti, raccolti delle esperienze sulle acque termali viterbesi. novembre

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A destra ricostruzione ipotetica della Piana dei bagni di Viterbo elaborata da Costantino Zei per un articolo pubblicato dal Bollettino d’Arte nel 1917. In basso il segmento della Tabula Peutingeriana in cui è riportata la località di Aquas Passeris. XIII-XIV sec. Vienna, Biblioteca Nazionale.

Databile intorno al 1352, il testo è la base di tutte le successive trattazioni sulle terme cittadine, come già specifica l’archiatra pontificio Franesco Casini († 1406) nel suo Tractatus de balneis Duci Mediolanensi nuncupatus, redatto intorno al 1399, ma la cui gestazione si prolungò per trent’anni ed ebbe inizio a Viterbo. Nel 1367 Urbano V, in occasione del viaggio di ritorno da Avignone a Roma, chiese a Casini di accompagnare una commissione medica per esporre una propria opinione sulla base di un esame autoptico delle qualità curative delle acque dei bagni del capoluogo della Tuscia. L’occasione forní il pretesto per la composizione del nuovo trattato, a pochi decenni da quello di magister Hieronimus, che divenne non soltanto una delle principali auctoritates, ma anche parte integrante di quello di Francesco Casini, che ne citò interi passi, segnalandoli come verba magistri Hieronimi. Il De Balneis è suddiviso in due sezioni, segnalate dal-

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le rispettive rubriche e inerenti le generiche qualità delle acque (virtutes acquarum calidarum), per poi procedere all’indicazione topografica dei balnea che si susseguono dal Ponte Camillario e dal complesso di S. Maria in Silice, fino all’attuale località del Bagnaccio e alla descrizione delle loro differenti virtú.

Una descrizione meticolosa

Dei piú importanti impianti termali della città (Grota, Vallis Cay, Cruciatorum, Bussero, Aqua publica, Palacis, S. Maria in Silice, Prati, Vaganelli, Asinelle), già indicati genericamente all’interno della Tabula Peutingeriana lungo il corso della via Cassia sotto il toponimo Aquas Passaris, rinomati nelle pratiche di cura et recreatio corporis proprie della curia pontificia fin dal tempo di Innocenzo III e Gregorio IX, vengono riferite con minuziosa precisione le caratteristiche organolettiche, chimico-fisiche delle differenti acque indicando sinteticamente le loro pecu-

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acque termali viterbo A sinistra cartina dell’area in cui si concentrano le sorgenti termali di Viterbo.

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il Bagnaccio, parco termale e orto botanico

Teverina SS675 SS675 SS675 SS675

Monterazzano

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Piscine Carletti

Bullicame Viterbo

Terme dei Papi

SS675 SS675

Castel D’osso

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Buon Respiro

Le Fari Belcolle

SR2 SR2

Le Masse

San Martino Al Cimino

liari virtú e lo specifico utilizzo curativo. Questi ultimi particolari vengono desunti sia dalle autorità mediche classiche o orientali, quale per esempio il Canone di medicina di Avicenna secondo la traduzione di Gherardo Cremonense, sia attraverso la pratica sperimentale e l’osservazione del dato reale.

Le copie manoscritte del trattato

A oggi, il De Balneis risulta conosciuto in sole due versioni. La prima è inclusa all’interno di un ampio manoscritto medico, oggi conservato presso la biblioteca dell’Academy of Medicine di New York (ms Folio 200832), all’interno di cinque fogli di modesta fattura, privi di ogni decorazione, fatta esclusione dei tituli rubricati e delle iniziali in rubro (rosso), come il capolettera rilevato C di Cum virtutes, e vergati da un non meglio identificabile scriptor di nome Ghabriel intorno al 1469. Un secondo testimone risulta invece databile al XVIII secolo ed è rintracciabile in un manoscritto composto del conte Solaro ora conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (ms Magl. XV.7.189, ff. 36r-39r). La versione del De balneis Viterbiensibus secundum Hyeronimum physicum viterbiensem del manoscritto newyorkese risulta, a oggi, il testimone piú genuino dell’opera di maestro Girolamo, rispetto a quella

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presente nel già noto codice fiorentino del fondo Magliabechiano. Pertanto i due testimoni del De Balneis viterbiensibus, sembrerebbero appartenere a due famiglie distinte della sua tradizione manoscritta (stemma codicum). Una tale argomentazione risulterebbe supportata anche dalle indicazioni fornite nel XVIII secolo dallo storico e studioso Ignazio Marini, il quale afferma di aver visto una copia di tale trattato, non piú rinvenibile, all’interno del fondo Barberini della Biblioteca Apostolica Vaticana. Si può dunque affermare come il De balneis viterbiensibus – per la sua lineare, limpida, chiara esposizione – si mostri come un vero e proprio primo libello medico-terapeutico atto a illustrare a un pubblico esperto le variegate proprietà dei dieci principali balnea che costituivano la copiosa rete termale del capoluogo del Patrimonium Sancti Petri e che, alla metà del XIV secolo erano sfruttati non solo dalla cittadinanza, ma anche da abitanti delle zone limitrofe e provenienti dall’intero territorio del Patrimonium. Ciò sarà la chiave della sua fortuna testuale, come prova il Delle virtú de’ bagni di Viterbo con sonetti e canzoni di piacere, una versificazione dell’opera redatta da Agostino Almadiani († 1514), nonché il venire preso presto a modello, e citato quale riferimento imprescindibile nei successivi trattati inerenti l’argomento fino a tutto il XVII secolo, per poi cadere nell’oblio fino agli inizi del Novecento, quando venne data alle stampe da Francesco Cristofori la versione dell’abate Solaro, e trovare nuova rinomata fortuna negli studi odierni. Il presente articolo prende le mosse dall’edizione critica, trascrizione e traduzione condotta da chi scrive del De Balneis Viterbiensibus di Mastro Gerolamo per i tipi di ArcheoAres Edizioni (Viterbo 2016). novembre

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di Elisabeth Crouzet-Pavan

La regina del mare Nel Palazzo Ducale di Venezia, un intero ciclo pittorico illustra la lunga serie di vittorie, perlopiú marittime, che hanno segnato la gloriosa ascesa della Repubblica. Ma quali furono le ragioni di una crescita cosí formidabile? Ripercorriamo, allora, le tappe di una «storia di successo» che sembrava non dover finire mai…

Trionfo di Venezia regina dei Mari (particolare), affresco realizzato da Jacopo e Domenico Tintoretto per il soffitto della Sala del Senato nel Palazzo Ducale di Venezia. 1581-1584.


Dossier

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er evocare gli spazi marittimi sui quali si andò edificando la potenza di Venezia, i convogli di battelli, il porto e gli arrivi di prodotti mediterranei e orientali, vale la pena di cominciare con alcune immagini. Per tutti – uomini di ieri e di oggi –, esse proclamano che Venezia è la regina del mare; la rappresentano, come nell’affresco che Jacopo e Domenico Tintoretto immaginarono per il soffitto della Sala del Senato, nel Palazzo Ducale della città lagunare, nei panni di una sovrana che regna sui sudditi, mentre tritoni e nereidi vengono in corteo a recarle doni (vedi foto a p. 71). Nel cuore del Palazzo Ducale, là dove si decidono gli affari della Repubblica, nelle sale dove siedono i diversi consigli, sono stati affrescati grandi cicli pittorici che il visitatore può ancora oggi ammirare. E la storia della loro realizzazione è ben nota. Nel 1587, due patrizi illustri vengono incaricati di consultare le antiche cronache, per stilare l’elenco delle piú grandi battaglie navali combattute da Venezia. Si è infatti deciso di rinnovare la decorazione delle due sale di Palazzo Ducale, tra le quali figura quella del Maggior

Consiglio. Dieci anni prima un incendio aveva gravemente danneggiato la sede del governo e, nel 1587, dopo un lungo restauro, è giunto finalmente il momento di passare all’ornamentazione. Viene dunque commissionato a Paolo Veronese, Jacopo Tintoretto e Francesco Bassano un programma di pitture destinato a illustrare la lunga serie di vittorie, quasi tutte marittime, che, dalle origini, hanno scandito la storia della città. Del resto, un decoro di questo tipo non costituiva una novità. Già da tempo, infatti – fin da quando, nel 1365, la sala del Maggior Consiglio era stata ornata una prima volta – si era presa l’abitudine di illustrare in questi luoghi ufficiali la gloriosa storia della Repubblica.

Lo «sposalizio del mare»

Ecco, ora, un’immagine della piú famosa cerimonia veneziana: la festa dell’Ascensione, ovvero la «Sensa». Ben presto, un particolare splendore caratterizza nelle lagune la celebrazione di questa ricorrenza, che sembra sia nata per commemorare la vittoriosa spedizione compiuta dal doge Pietro II Orseolo in Dalmazia (1000), prima tappa del

vivere in laguna

«Acquatici come gli uccelli» Un testo databile fra il 537 e il 538 fornisce la prima descrizione della Laguna e dei suoi abitanti: è la lettera di Cassiodoro. Nato verso il 470-480 e morto intorno al 570-575, questi era un alto funzionario – ricopriva, infatti, la carica di prefetto del pretorio –, nonché uomo di fiducia del re ostrogoto. Alla vigilia dell’attacco bizantino contro l’Italia ostrogota, venne incaricato di coordinare l’approvvigionamento di Ravenna in vino, olio e grano. Cassiodoro negoziò dunque, attraverso una lettera, inviata ai capi veneziani, l’inoltro delle mercanzie. Il testo, fortemente retorico, dipinge un paesaggio fatto di paludi, canne e fango, in mezzo al quale si muovono uomini in barca, «acquatici come gli uccelli che essi cacciano». L’ambiente appare singolarmente ingrato e le risorse alquanto magre. I primi abitanti del bacino lagunare hanno già elaborato, per sopravvivere, una rudimentale economia dell’acqua, che il prefetto del pretorio dettaglia con curiosità: essi pescano, raccolgono il sale, effettuano trasporti in barca.

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Panoramica aerea della cittĂ di Venezia e della laguna circostante.

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Dossier Scene storiche

La spada benedetta La tela di Francesco Bassano raffigurante papa Alessandro III mentre consegna la spada benedetta al doge Sebastiano Ziani si trova nella Sala del Maggior Consiglio, nel Palazzo dei Dogi, e fu realizzata nel corso degli anni Ottanta del XVI secolo, e precisamente fra il 1584 e il 1587, riprendendo un soggetto già scelto da Gentile Bellini alla fine del Quattrocento. Il dipinto di Bassano è, infatti, molto vicino a quella prima versione dell’opera: esso mostra il doge mentre si appresta a condurre, per conto del papa Alessandro III, l’armata veneziana alla battaglia contro l’imperatore Federico Barbarossa. Il pontefice gli sta consegnando la spada, mentre dietro si scorge una lunga processione di gentiluomini, con il palazzo e la basilica in prospettiva. Una numerosa folla assiste alla scena. Il fatto che l’episodio sia leggendario non impedisce che i Veneziani lo abbiano reputato veritiero e che sia stato raccontato dalle antiche cronache e illustrato da diversi dipinti. Proprio queste opere pittoriche, che rappresentavano «scene storiche», erano ritenute a Venezia prove indiscutibili. E quando si decideva di rifarle, perché erano state danneggiate dal tempo o distrutte da un incendio, si affidava spesso la nuova composizione a un pittore di grido, che doveva ispirarsi fortemente all’opera precedente. La libertà dell’artista era dunque assai ridotta. processo che stava trasformando l’Adriatico in Golfo veneziano. Ogni anno, l’imbarcazione del doge attraversava il passaggio litoraneo di San Nicolò del Lido per rendere omaggio alle acque del mare che il vescovo, a sua volta, benediceva. Su questa antica cerimonia, dopo le formidabili conquiste della quarta crociata, si innesta nel corso del XIII secolo il rito dello «sposalizio del mare». Il doge, d’ora in avanti, getta in mare un anello d’oro, simile a quello che il papa Alessandro III avrebbe donato al doge Sebastiano Ziani, in ricompensa dell’aiuto prestato da Venezia in occasione del conflitto tra il papato e l’imperatore Federico Barbarossa. Con questo gesto e pronunciando la formula «noi ti sposiamo, mare, in segno della vera e perpetua

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Il doge, sul punto di salpare con la flotta contro il Barbarossa, riceve dal papa la spada benedetta, dipinto di Francesco Bassano il Giovane. XVI sec. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio.

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Dossier

In alto il trasporto delle spoglie di san Marco da Alessandria a Venezia in una formella della Pala d’oro, voluta per decorare l’altar maggiore della basilica marciana. Realizzata nel 1105, fu poi arricchita nel 1209 con smalti provenienti da Costantinopoli. Sulle due pagine miniatura raffigurante il doge Ziani che si reca al convento della Carità sul Bucintoro per rendere omaggio a papa Alessandro III. XVI sec.

dominazione», ci si univa in matrimonio con il mare e, nel contempo, si rinnovava il ricordo del dominio di Venezia. Si potrebbero enumerare all’infinito i riti e i simboli che fanno della città lagunare la regina del mare;

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tutti la dipingono felicemente installata «sopra le acque salse», nel seno protettore dell’Adriatico.

Sentirsi a casa

Non che il rapporto con il mare sia stato sempre, per tutti, cosí semplice e sereno. Le canzoni dei marinai, infatti, parlano in toni tremebondi della furia delle tempeste e dei terribili naufragi. Ciò non impedisce che si vada diffondendo presto un’idea dominante che le opere pittoriche, i testi e i rituali non si stancano di illustrare: il mare appartiene ai Veneziani, a quei marinai che, come dicono essi stessi, quando navigano nel Mediterraneo orientale si sentono come a casa.

Caso unico fra tutti gli altri centri marittimi, questa città sviluppò dunque fino all’estremo un acuto senso della talassocrazia. Allo stesso modo, anche il culto del santo patrono, l’evangelista Marco, ebbe un ruolo importante nella formazione della coscienza di sé dei Veneziani. All’inizio del IX secolo, infatti, Venezia abbandona il suo primo patrono, il greco Teodoro, per porsi sotto la protezione di un santo latino, Marco, lo stesso che aveva evangelizzato le lagune. Secondo la tradizione, le reliquie dell’evangelista furono provvidenzialmente trasportate nell’828 da Alessandria a Rialto, dove venne costruita, in brevissimo tempo, la novembre

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basilica destinata a ospitarle, quella di di S. Marco, appunto. Il nuovo patrono serve dunque a emancipare da Bisanzio la giovane potenza veneziana, traduce, insomma, la sua volontà d’indipendenza. Ma la figura di san Marco viene anche utilizzata a beneficio delle imprese della flotta. Il racconto della translatio delle sue reliquie è, a questo riguardo, ricco di informazioni; esso descrive, tra l’altro, come i Veneziani siano riusciti a lasciare Alessandria con i santi resti, senza che le guardie musulmane battessero ciglio: per imbarcarli, ricorsero infatti a uno scaltro stratagemma, nascondendoli sotto un carico di carne di maiale. Al termine di un

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viaggio di ritorno punteggiato di miracoli, la comunità organizza ferventi cerimonie per celebrare il prezioso corpo santo, felicemente approdato a Rialto malgrado tutti i pericoli del mare. Cosa dedurne?

Un protettore privilegiato

Molto concretamente, questo racconto – che descrive la presenza, nel Mediterraneo orientale, di mercanti e bastimenti provenienti dalle lagune, già nel IX secolo –, testimonia la precoce forza del commercio veneziano; piú simbolicamente, esso annuncia anche che le imprese marittime dei Veneziani hanno ormai trovato un protettore privilegiato. In rotta verso l’Adriatico, le navi

con il loro prezioso carico sono salvate dal naufragio dall’intervento del santo stesso. E, per decenni, la sacra reliquia fu in qualche maniera preposta alla protezione della città che nell’Adriatico subiva ancora gli attacchi di numerosi nemici. Tuttavia, alla fine del X secolo, la situazione si evolve. Venezia passa all’offensiva: le sue armi riportano i primi successi e il nome dell’evangelista vi è sempre associato. Quando il doge Pietro Orseolo II parte per una vittoriosa spedizione in Dalmazia, riceve dalle mani del vescovo lo stendardo di San Marco perché sventoli sui suoi successi militari. Sotto l’egida del suo patrono, la città moltiplica le impre-

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Dossier la «guerra delle reliquie»

Due patroni per una città L’episodio della «guerra delle reliquie» di san Nicola ben testimonia l’importanza del culto dei santi che proteggevano chi andava per mare. Bari conservava i resti di san Nicola e i Veneziani, che ne erano molto gelosi, approfittarono della prima crociata per organizzare, da Myra (città, oggi in Turchia, di cui Nicola fu vescovo e nella quale morí, n.d.r.), la traslazione solenne di altre reliquie del santo, che essi pretendevano fossero gli unici resti autentici. Fu subito scritto anche un testo nel quale si vantavano i benefici del doppio patronato sotto il quale Venezia era ormai posta. La città, scriveva l’agiografo, è oggi doppiamente felice; essa poggia, infatti, su due colonne: ha il leone (san Marco) che la rende vittoriosa in combattimento e il nocchiero (san Nicola) che non teme le tempeste. A sinistra San Nicola e san Pietro raffigurati in un particolare del Trittico dei Frari (pannello di sinistra), olio su tavola di Giovanni Bellini. 1488. Venezia, Basilica di S. Maria Gloriosa dei Frari. Nella pagina accanto Il leone di san Marco, olio su tela di Vittore Carpaccio. 1516. Venezia, Palazzo Ducale.

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se. E, da allora in poi, il nome, le raffigurazioni e i colori di Marco ne accompagnano l’espansione.

La città si fa ricca

La vocazione marittima veneziana ha ragioni oggettive, per cosí dire fisiche. Città senza terra, che all’inizio non possedeva altra risorsa da offrire che il suo sale (vedi box alle pp. 86-87), Venezia si rivolse verso il mare: l’espansione marittima era la condizione dei suoi approvvigionamenti e della sua stessa sopravvivenza. Terra d’Oriente isolata in Occidente, seppe anche trarre profitto dal suo ruolo d’intermediaria, dai legami che la univano agli spazi bizantini. Ma, altrettanto presto, la comunità veneziana proclamò, e senza dubbio lo credeva fermamente, che essa aveva ricevuto il mare in sorte e che, sul mare, si sarebbe compiuto il suo destino. L’espansione comincia presto. Già nell’829, il testamento del doge Giustiniano Partecipazio attesta l’esistenza di traffici e di capitali «investiti nella navigazione in mare». Il bacino lagunare trae vantaggio dalla sua appartenenza all’impero bizantino: in effetti, soprattutto donovembre

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po la conquista dell’Italia da parte dei Longobardi, esso riveste un ruolo importante sia come sbocco che come sorgente di rifornimenti per l’impero d’Oriente. Dalla Laguna transita buona parte delle esportazioni bizantine verso l’Occidente (sete, spezie, metalli preziosi), mentre da Torcello e da Rialto partono per Bisanzio e per il Levante musulmano gli schiavi, il sale e il legno. Il volume degli scambi cresce rapidamente, grazie alle attività di redistribuzione dei Veneziani sulle grandi arterie fluviali dell’Italia settentrionale. I loro battelli risalgono fino a Pavia, dove approvvigionano la corte di mercanzie di lusso. Venezia commercia tanto con l’impero d’Oriente (un primo accordo fra il doge e Costantinopoli risale al 993) che con il mondo musulmano. Ma, sino alla fine dell’XI secolo, il grosso dell’attività marittima si svolge ancora in Adriatico, ove la flotta veneziana interviene anche militarmente, spingendosi fino nelle acque meridionali, dove le spetta il compito di assicurare la difesa dell’impero bizantino contro i Normanni. La crisobolla del 1082 ricompensa, infatti, i servizi resi (vedi box a p. 89).

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Il Leone di San Marco

«La pace sia sopra di te...» Il Leone di San Marco è il simbolo piú antico e universale della Repubblica di Venezia: rappresenta lo Stato, nella città e nelle terre poste sotto la dominazione veneziana, in una sorta di allegoria ripetuta all’infinito, ma è anche, e soprattutto, l’emblema del santo patrono. Il Leone di San Marco dipinto da Vittore Carpaccio (1516) traduce bene questo duplice messaggio. Provvisto di ali e di un’aureola, l’animale ricorda la protezione costante del santo su Venezia; esso posa la sua zampa sul libro aperto che reca l’iscrizione «La pace sia sopra di te, Marco mio evangelista». Secondo la leggenda, con queste parole un angelo si sarebbe rivolto al santo, annunciandogli che la Laguna sarebbe stata il luogo del suo riposo eterno. L’episodio, fabbricato dai cronisti, era destinato a giustificare il furto delle reliquie del santo compiuto dai Veneziani e a provare, nel contempo, che la costruzione di Venezia era stata voluta da Dio. Il leone, qui, è rappresentato in posizione «andante»: ha le zampe posteriori nell’acqua, l’elemento che ha permesso la gloria e la prosperità di Venezia e sulla quale sono raffigurate alcune galere. Le zampe anteriori, però, poggiano sulla terra, indicando cosí, in questo inizio del XV secolo, la sovranità della Repubblica sulla terraferma. Le crociate segnano poi un altro momento importante. Almeno nella fase iniziale, la prima crociata non è molto favorevole agli interessi di Venezia, che vede la sua antica preponderanza rimessa in questione dalla concorrenza dei Pisani e dei Genovesi. Tuttavia, i mercanti vene-

ziani ristabiliscono in breve le loro posizioni e, nei decenni centrali del XII secolo, ottengono profitti altissimi. Con i possessi latini di Siria e di Palestina, i traffici sono notevoli, ma è con l’Egitto e Costantinopoli che, per riprendere l’espressione di allora, viene il tempo del «gran

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Dossier guadagno». Primi sulle piazze di Alessandria e del Cairo, i Veneziani vendono materie strategiche, indispensabili alla costruzione navale e all’armamento – come gli schiavi –, acquistando i prodotti locali (allume, lino, cotone) e i prodotti orientali che convergono sul mercato egiziano (spezie, sete). Nell’impero bizantino gli affari decollano. E, grazie ai vantaggi doganali dei quali sono stati gratificati, i Veneziani consolidano la propria posizione. La colonia di Costantinopoli si ingrandisce, diventando sempre piú ricca e numerosa. È però la quarta crociata (1204) ad assicurare definitivamente la supremazia di Venezia, trasformandola in una potenza imperialista. Certo, questo primato viene minacciato a piú riprese. Quattro guerre, fra la metà del XIII secolo e l’ultimo terzo del XIV se-

Qui accanto uno dei due leoni alati posti sulle colonne che si ergono sulla Riva degli Schiavoni, di fronte all’accesso a piazza S. Marco.

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In alto, sulle due pagine veduta aerea di Venezia. Sulla destra, adiacente alla basilica di S. Marco, il Palazzo Ducale.

colo, oppongono Venezia e Genova, sconvolgendo la storia del Mediterraneo. Fra le due città marittime – nessuna delle quali riesce a trionfare sull’altra –, la lotta è segnata da battaglie accanite la cui violenza colpisce i contemporanei, da razzie e da saccheggi sul litorale, da atti di pirateria. Dopo la quarta guerra (quella di Chioggia; vedi box a p. 85), Venezia riesce tuttavia a imporre la propria egemonia in Oriente. L’apogeo viene raggiunto nel XV secolo. Il doge Tommaso Mocenigo descrive in una celebre arringa lo straordinario patrimonio della sua città: 3000 imbarcazioni, 300 navi e 45 galere solcano i mari battendo la bandiera di San Marco; ogni anno, nel commercio, si investono 10 milioni di ducati. novembre

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Questa dominazione viene rimessa progressivamente in discussione dall’avanzata turca. Anche se frammenti di impero resistono fino alla caduta della Repubblica e benché la lotta contro i Turchi, bene o male, si prolunghi fino al XVIII secolo, il commercio dell’Europa con i Paesi lontani non passa ormai in prevalenza piú dal Mediterraneo: trionfano altre vie marittime, quelle dell’Atlantico in primo luogo.

Lo «Stato di mar»

La Repubblica dispone di possedimenti che sono in relazione diretta con il mare, il cui controllo condiziona enormemente il commercio. Queste città e queste isole, disseminate dalla Dalmazia fino a Cipro, costituiscono un vero impero. In questo vasto «Stato di mar», occorre

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tuttavia distinguere due tipi di territorio. Ai possedimenti detti del Golfo, vale a dire dell’Adriatico, si sono venuti ad aggiungere, dopo la quarta crociata, quelli del Levante. Da principio Venezia ha imposto la propria legge al Nord dell’Adriatico, sottomettendo un certo numero di città situate sulla costa dell’Istria. Pola, Trieste e Capo d’Istria le devono una rendita, ma sono soprattutto legate alla dominante da impegnativi contratti di commercio. Con le spedizioni del doge Orseolo, poco prima del Mille, la flotta veneziana affronta il medio Adriatico: vengono conquistate isole e città dalmate, Zara, Spalato, Ragusa, e il doge aggiunge al proprio titolo quello di duca di Dalmazia. Queste città, però, riconobbero a Venezia solo una sovranità lontana, e le numerose

ribellioni di Zara provano che le relazioni furono spesso difficili. Resta il fatto che, grazie a una serie di azioni belliche, Venezia conserva la supremazia in Adriatico. Nessuna nave da guerra può penetrare in questo spazio marittimo senza il suo permesso, e la squadra del Golfo è incaricata della sorveglianza. La supremazia sul Golfo mirava inizialmente a impedire a tutte le altre potenze di chiudere ai bastimenti veneziani l’entrata o l’uscita dall’Adriatico, ma essa consentí anche di stabilire in queste acque un fruttuoso monopolio commerciale. Alla metà del XIII secolo, grazie all’azione congiunta della sua flotta e delle sue pattuglie fluviali, Venezia era giunta a controllare i movimenti commerciali a nord di una linea che andava da Ancona a Zara.

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Dossier A destra lo stendardo della flotta della Repubblica di Venezia alla battaglia di Lepanto. XVI sec. Venezia, Museo Correr. In basso miniatura raffigurante il doge che impartisce ordini alle truppe della Serenissima. XVI sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

È però sul possesso del Levante che venne davvero costruito il primato veneziano. Dopo la presa di Costantinopoli (1204) e la caduta dell’impero bizantino, il doge Enrico Dandolo aveva rifiutato di essere eletto alla testa dell’impero latino che i crociati stavano organizzando. Ma alla sua città, come prezzo della conquista, venne attribuito, nel maggio 1204, il quarto dell’impero romano, che i vincitori stavano smembrando: le coste e le isole del Mar Ionio, la maggior parte del Peloponneso, le Cicladi e alcune Sporadi, aree dell’Eubea, le posizioni di Gallipoli e di Rodosto (l’odierna Tekirdag) sugli Stretti (Bosforo, Mar di Marmara e Dardanelli) e, infine, il terzo ottavo di Costantinopoli, con la chiesa di S. Sofia. A questo vasto insieme si aggiunse poi un altro territorio: Venezia acquistò infatti Creta dai marchesi di Monferrato e il doge assunse cosí il titolo di «signore di una quarta parte e mezzo dell’Impero Romano». Tappa naturale sulle grandi vie del Mediterraneo orientale, l’isola di Creta, dunque, completò felicemente il sistema di scali, luoghi e possedimenti strategici che, da Corfú agli Stretti, interessavano di striscio il Mediterraneo. Altre garanzie, o concessioni, ingrandirono ulteriormente questo già favoloso bottino, indebolendo in proporzione la posizione delle città marittime rivali.

il dominio dei mari

Un diritto divino La tesi della legittima sovranità di Venezia sui mari cominciò a essere forgiata probabilmente nel X secolo, allorché l’espansione in Adriatico conobbe i suoi primi successi. Essa veniva, infatti, a rafforzare una prima interpretazione della storia di Venezia, alla quale avevano dato forma le cronache precedenti. Le lagune erano il rifugio propizio che Dio aveva riservato ai Veneziani. Per questi «uomini nati e nutriti d’acqua» la supremazia sui mari era una logica spettanza. La storiografia posteriore non fece che sviluppare questo tema. Lo si trova particolarmente ben illustrato dagli storici ufficiali come Marcantonio Cocco, detto il Sabellico, o Paolo Morosini, che raccontano le brillanti e leggendarie vittorie navali riportate, fin dai primi secoli, contro i Dalmati, i Goti, gli Slavi. In pieno XIX secolo, certe opere continuano a descrivere come le lagune, alle porte dell’Italia, ai piedi delle Alpi e a portata di tutti i Paesi transalpini e danubiani, siano votate al commercio, come esse siano sempre state popolate di marinai e di mercanti. Insomma, questi testi, poco importa se scritti nel XVI o nel XIX secolo, confortano un mito che la potenza veneziana, un tempo, finí per rendere quasi vero: quello di avere ricevuto in dono la dominazione sui mari.

Le chiavi del successo

Di per sé, la Laguna non aveva niente da offrire, salvo il suo sale e la sua posizione: quella di un pezzo di mondo stretto fra terra e mare, alla frontiera fra l’Oriente e l’Occidente. Eppure, verso la fine del Medioevo,

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Ginevra Ginevra Milano Milano VENEZIA VENEZIA

CORSICA CORSICA

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SARDEGNA SARDEGNA

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Napoli Napoli

TT ii rr rr ee nn oo

Ragusa Ragusa (1205-1358)

(1205-1358)

Tessalonica Tessalonica (1423-1429) (1423-1429)

Butrinto Butrinto (1386)

CORFÚ CORFÚ

Bona Bona

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MALTA MALTA

RR

Tripoli Tripoli

La Repubblica di Venezia La Repubblica nel 1200 circa di Venezia nel 1200 circa

LEMNO LEMNO

(1205-1268) (1205-1268)

(1205-1224)

LESBO LESBO NEGROPONTE M a r NEGROPONTE Focea Corinto (1205-1470) M a r (1204-1479) Focea Corinto (1205-1470) Patrasso Argo Patrasso II oo nn ii oo (1389-1394) Argo Efeso Atene Efeso (1389-1394) Nauplía Atene (1395-1402) Nauplía Modone Mileto (1389-1394) (1395-1402) Modone Mileto (1389-1394) (1205-1500) (1205-1500) Malvasia (dal 1463) Malvasia (dal 1463) Corone Corone (1205-1500) (1205-1500) La Canea Rodi La Canea Rodi Candia Cerigo Candia Cerigo CEFALONIA CEFALONIA (1204-1479)

Itinerari Itinerari commerciali commerciali

(dal 1207) (dal 1207)

Rotte commerciali Rotte commerciali Rotte percorse Rotte galee percorse dalle veneziane dalle galee veneziane Vie commerciali Vie commerciali terrestri verso le Fiandre terrestri verso le Fiandre Impero latino Impero latino di Costantinopoli di Costantinopoli Stati latini Stati latini (1230) di Levante di Levante (1230) Impero ottomano Impero alla fine ottomano del XIV sec. alla fine del XIV sec.

Trebisonda Trebisonda

Costantinopoli Costantinopoli Eraclea Eraclea Gallipoli Gallipoli (1205-1224)

o l i a n aa tt o l i a A A n Lajazzo Lajazzo

Nicosia Famagosta Nicosia Famagosta Pafo Pafo CIPRO CIPRO (dal 1489)

CRETA CRETA

(dal 1206) (dal 1206)

(dal 1489)

Sidone Sidone Tiro Tiro

Aleppo Aleppo Antiochia Antiochia

Beirut Beirut Damasco Damasco Acri Acri

Gerusalemme Gerusalemme

Tobruk Tobruk Alessandria Alessandria

Damietta Damietta

t t o EE gg ii ii t t o ol o NN l

Acquisizioni veneziane Acquisizioni veneziane alla fine del XV sec. alla fine del XV sec. Territori acquisiti Territori acquisiti temporaneamente temporaneamente dai Veneziani dai Veneziani Colonie commerciali Colonie commerciali veneziane veneziane

Adrianopoli Adrianopoli Rodosto Rodosto

SCIRO (1205-1453) SCIRO (1205-1453)

(1407-1499) (1407-1499)

M ME E DD I I TT EE R R RR A AN N EE O O

Territori sotto forte Territori sotto forte influenza veneziana influenza veneziana

(1386)

Lepanto Lepanto

Siracusa Siracusa

Tunisi Tunisi

Sinope Sinope

(dal 1494)

Durazzo Durazzo (dal 1205)

(1205-1386) (1205-1386)

Messina Messina

M M aa rr N N ee rr oo

Cattaro Cattaro (dal 1494)

(dal 1205)

Palermo Palermo

io a n uu bb i o D D an

(dal 1420)

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Roma Roma

Soldaia Soldaia

Belgrado Belgrado

Spalato Spalato (dal 1420)

Tana Tana

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Zara Zara

(1202-1358) (1202-1358)

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Porto Porto Pisano Pisano

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Ravenna Ravenna

Trieste Trieste

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Torino Torino Genova Marsiglia Genova Marsiglia

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Lione Lione

In alto le aree poste sotto il controllo della Repubblica di Venezia tra il XIII e il XV sec. A destra i quattro cavalli in bronzo dorato provenienti dall’ippodromo di Costantinopoli e portati a Venezia dopo il saccheggio del 1204. IV sec. d.C. Venezia, Museo Marciano.

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Dossier I crociati, guidati dal doge di Venezia Enrico Dandolo, assalgono la città di Zara nel novembre del 1202, olio su tela di Andrea Michieli. XIII sec. Venezia, Palazzo Ducale.

Venezia era diventata una delle piú grandi piazze di commercio, se non addirittura la piú grande in assoluto, di tutto l’Occidente. Come spiegare una posizione tanto eminente? La marina, ripetono all’infinito le deliberazioni pubbliche, fu e resta il primo fondamento della potenza. Ma come si presenta questa forza navale nel XIII secolo? Essa è composta da due tipi di bastimenti. Ci sono innanzitutto le navi tonde, a vela latina, utilizzate per il commercio e i carichi pesanti. Le navi da trasporto rientrano in questa categoria; munite almeno di due ponti, fatte per le lunghe traversate, hanno una portata media di 200 tonnellate, anche se qualche rara unità può arrivare fino a 500 tonnellate. Le navi lunghe, a remi, piú basse, piú maneggevoli, piú rapide, rappresentano il secondo tipo di bastimenti, riservato piuttosto alla flotta da guerra. In quel periodo, le navi lunghe piú frequentemente costruite dai cantieri veneziani sono le galere biremi, veloci imbarcazioni

Il sacco di Costantinopoli del 1204

Una deviazione attentamente calcolata? Per trasportare in Egitto, obiettivo iniziale della crociata, uomini, cavalli e materiale bellico, i crociati si rivolsero a Venezia e ottennero i servizi della sua flotta. Tuttavia, non potendo pagare i bastimenti veneziani, i capi della crociata accettarono, nel 1202, di riprendere, per conto di Venezia, Zara, città della Dalmazia che si era ribellata alla città lagunare. Dopo diverse trattative, la spedizione fece vela verso Costantinopoli. Il fine era quello di ristabilire sul trono il legittimo imperatore Isacco, che era stato cacciato dall’usurpatore Alessio III. Costantinopoli viene presa nel luglio del 1203. Un anno piú tardi, nell’aprile del 1204, poiché l’imperatore non era riuscito ad affermare la propria

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autorità, i crociati si impadronirono nuovamente della città, la saccheggiarono e si spartirono l’impero. A credere alla nera leggenda che li riguarda, i Veneziani avrebbero a lungo caldeggiato la deviazione della crociata. I vantaggi che ricavarono dalla divisione dell’impero romano furono, infatti, immensi. Il doge Enrico Dandolo, uno dei capi della spedizione, fu dunque ritenuto il responsabile dell’operazione. Si deve notare che, a fronte di queste accuse, i Veneziani giustificarono sempre il proprio ruolo. Dal XIII secolo, piú di una cronaca asserisce che l’impero greco era caduto nelle mani degli eretici: con la presa di Costantinopoli, si doveva perciò restituirlo alla vera fede. novembre

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alle quali spetta il compito di proteggere il flusso della navigazione mercantile, assicurando la sicurezza del commercio. Questa divisione funzionale non è tuttavia cosí rigida. Malgrado la loro ridotta capacità di carico, le galere vengono anche utilizzate per trasportare mercanzie preziose; quanto alle navi, resistono bene ai combattimenti e possono essere requisite in tempo di guerra.

Le prime galere

Intorno al 1300, a Venezia, gli effetti di quella che viene chiamata «la rivoluzione navale» del Medioevo sono sensibili e le innovazioni di carattere tecnico si vanno moltiplicando. I vascelli tondi, che si tratti di cocche o di bastimenti, sono ormai muniti di vele quadre e di un timone assiale; quanto alle navi lunghe, le loro capacità sono aumentate. Vengono costruite le prime galere triremi. Poi, l’ingegneristica navale lagunare mette a punto la famosa galera che, fino alla fine del Medioevo, sarà il simbolo della potenza commerciale veneziana (vedi disegno

alle pp. 90/91). Questa «galera grossa», ancora migliorata, raggiunge le massime dimensioni alla fine del Quattrocento, allorché si presenta come un bastimento, a due o tre alberi, che serve al trasporto di mercanzie o di passeggeri, come i pellegrini in rotta per Gerusalemme. La flotta di guerra, invece, è formata

da «galere leggere»: battelli rapidi, muniti di un’unica vela latina, che pattugliano il Golfo e tutti i mari del commercio veneziano, scortando occasionalmente i convogli delle «galere grosse». Alla fine del XV secolo, si registrano ulteriori mutazioni. Da una parte, i vascelli tondi soppiantano

la guerra di chioggia

Mobilitazione generale La quarta guerra veneto-genovese ha inizio nel 1378. Rispetto a Genova, alleata del re d’Ungheria, del duca d’Austria e di Francesco da Carrara, signore di Padova, Venezia è isolata. Dopo le prime vittorie, la flotta veneziana, comandata da Vettore Pisani, subisce una grave disfatta al largo di Pola. Venezia non è piú in grado di controllare il suo Golfo: le lagune vengono assediate, Grado e Caorle conquistate. Dal lato di terraferma, le truppe di Padova organizzano il blocco; dalla parte del mare, le navi genovesi tengono sotto il loro fuoco i cordoni litorali. Chioggia cade il 16 agosto 1379. A quel punto, i lignaggi veneziani piú ricchi contribuiscono allo sforzo bellico, sottoscrivendo prestiti forzati; nella Laguna, il Comune ordina una lista di leve; dall’Arsenale escono nuovi bastimenti. Il bacino lagunare è finalmente sbloccato il 21 giugno 1380, quando i Genovesi capitolano a Chioggia. I combattimenti, tuttavia, proseguono ancora per un anno e hanno termine ufficialmente solo con la pace di Torino, siglata l’8 agosto 1381.

Il doge di Venezia Bartolomeo Gradenigo assedia Chioggia nel 1379, dipinto di Giovanni Grevembroch. XVIII sec. Venezia, Museo Correr.

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Dossier gradualmente le galere per il trasporto delle mercanzie, dall’altra, nel momento in cui la flotta turca accresce la propria minaccia, l’Arsenale si specializza nella produzione di grandi galere da combattimento, dotate di un’ingente potenza di fuoco, prima di mettere a punto le galeazze rese celebri dalla battaglia di Lepanto. Anche dopo la costituzione dello «Stato di terra», Venezia continuerà ad attribuire sempre la maggiore importanza ai suoi possedimenti d’Oltremare.

Una rete capillare

Distesa sull’acqua, la ghirlanda costituita dalle basi e dalle colonie fornisce il collegamento indispensabile al grande commercio. Queste postazioni costellano la rotta marittima verso Costantinopoli e dominano anche quelle verso la Siria e l’Egitto. Dopo gli scali dell’Adriatico (Pola, Zara e Ragusa, poi Corfú da quando Ragusa affermò la propria indipendenza), due porti all’estremo sud del Peloponneso avevano un ruolo di «piattaforma girevole»: si trattava di Corone e Modone, gli «occhi della Repubblica», come li chiamavano i membri dei Consigli. Là, tutte le navi facevano scalo per rifornirsi di acqua e viveri. Le strade poi divergevano: per i convogli di Alessandria, di Cipro e di Beirut, all’andata e talvolta anche al ritorno, uno degli scali piú regolari era Creta, cerniera dell’intero sistema di navigazione;

L’area intorno al ponte di Rialto cosí come si può immaginarla alla fine del XII sec. Le coste di Rialto, da sempre cuore economico di Venezia, vennero collegate da un ponte di barche nel 1172, ma solo nel 1181 il collegamento fu stabilmente assicurato da un ponte di legno (1). Il Mercato di Rialto divenne allora una sorta di fiera permanente, in cui si contrattavano le merci che giungevano dall’Oriente. Intorno alla chiesa di S. Giacomo (2), sede dei banchi di scrittura – le banche dell’epoca – e sul ponte stesso (3), trovavano posto le mercanzie piú ricche, mentre quelle meno pregiate e piú ingombranti si commercializzavano sulle rive (4), come attestano alcuni toponimi quali Riva del Vin, Riva dell’Ogio (olio), ecc., sopravvissuti fino ai nostri giorni. Ancora per tutto il XIII secolo la maggior parte delle costruzioni fu realizzata in legno (5), su fondazioni costituite da pali infissi nell’instabile terreno lagunare fino a raggiungere lo strato di argilla e sabbia («caranto»; 6). Il problema dell’approvvigionamento d’acqua potabile venne risolto con una complessa installazione: un pozzo (7) sormontato da una vera (8) pescava in una cisterna (9) dalle pareti impermeabili, riempita d’acqua piovana attraverso le due o quattro «pilelle» o tombini (10) che circondavano il pozzo. Uno strato di sabbia all’interno della cisterna filtrava l’acqua, liberandola dalle impurità. Nel disegno, fra le altre, è ben riconoscibile anche una bottega nella quale veniva venduto il sale (11).

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Il mercato del sale

L’oro bianco della Laguna I Veneziani iniziano ben presto a smerciare nell’Italia del Nord il sale ricavato dalle acque salmastre del bacino lagunare. Dal Mille, comincia a svilupparsi un fiorente commercio di esportazione e, nel secolo seguente, Chioggia, a sud della Laguna, dove sono concentrate le saline, diventa uno dei piú grandi centri mediterranei per l’estrazione del sale. Nel Duecento, Venezia non si accontenta piú di vendere la produzione delle proprie

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saline, e intende instaurare a suo profitto un monopolio di forniture: allo scopo di alimentare le entrate fiscali e di finanziare il necessario approvvigionamento di cereali, occorreva riservarsi l’esclusiva del rifornimento di sale dei Paesi rivieraschi della bassa e della media valle del Po. Nel corso di questa prima fase, gli scontri sono incessanti, sia che Venezia attacchi i centri produttori rivali, sia che essa imponga, con la forza, le sue condizioni alle novembre

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città vicine. Poi, i Veneziani compiono la scelta di approvvigionarsi nel Mediterraneo e dedicarsi al commercio marittimo con i Paesi lontani. Essi scoraggiano dunque la produzione adriatica, onde garantire gli sbocchi alle loro importazioni. Da Ibiza a Occidente, da Cipro a Oriente, marinai e mercanti riportano del sale che ha l’ulteriore vantaggio di zavorrare a buon mercato le navi. Tutti questi carichi,

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immagazzinati negli immensi depositi della punta della Dogana, vengono rivenduti a un prezzo da monopolio negli Stati veneziani, a cifre invece negoziate, ma comunque alte a causa della mancata concorrenza, in Lombardia, in Emilia, nelle Marche o in Romagna. Si è potuto calcolare che all’epoca della sua maggiore espansione, il mercato del sale veneziano arrivò a movimentare 33 000 tonnellate circa di prodotto.

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Dossier

le galere della linea della Romania (vale a dire l’impero d’Oriente) si fermavano a Negroponte, prima di raggiungere Costantinopoli, poi Trebisonda e La Tana. L’impero, e principalmente le colonie di sfruttamento, avevano anche un attivo ruolo economico importante: queste terre esportavano prodotti alimentari e materie prime indispensabili alla metropoli, anche se Venezia continuò sempre a fare acquisti massicci, in particolare di cereali, in Italia (Puglia, Marche, Romagna) e in Oriente (Tracia, Mar Nero). L’Istria, la Dalmazia e i possedimenti albanesi fornivano vino, sale, pellami, legno, materiali da costruzione. Creta aveva il proprio ruolo di «nucleo e forza dell’impero»: i mercati di Candia e della Canea offrivano cereali e vino – che i battelli venivano a imbarcare in enormi quantità dopo la vendemmia –, ma anche cera, olio, miele e formaggi. Il grano e il vino erano anche caricati a Negroponte: il vino (malvasia) partiva dagli scali del Peloponneso, via Venezia, verso

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l’Inghilterra e le Fiandre. Sulle banchine di Rialto venivano sbarcate frutta (arance, limoni) e uva secca, da Zante, Corfú e dal Peloponneso, olio, ancora da Corfú, cotone e zucchero, soprattutto dopo la cessione di Cipro alla Repubblica.

Un ritardo singolare

I Veneziani innovarono poco in materia di tecniche commerciali e finanziarie. Anzi, si può parlare di un certo ritardo da parte loro, poiché, per esempio, la contabilità in partita doppia è attestata a Rialto un secolo piú tardi che a Genova. L’uso dell’assicurazione marittima e della lettera di cambio furono ugualmente presi a prestito da Genova e dalla Toscana. All’attività monetaria i Veneziani si interessarono poco e, in questo campo, operavano a Rialto principalmente i mercanti-banchieri fiorentini. Certo, dalla Zecca veneziana era uscita, alla fine del XII secolo, una moneta d’argento stabile, il grosso, ma, per contro, Venezia ricominciò a battere l’oro (il ducato) solamente tre decenni dopo Genova e Firenze.

Il progresso commerciale, dunque, si basò per lungo tempo su tecniche finanziarie semplici. Nella società in nome collettivo, o compagnia, ogni socio portava una parte del capitale e partecipava al commercio; i profitti e le perdite erano divisi, al momento di regolare i conti, secondo i rispettivi apporti di capitale. Ma il tipo di associazione preferito rimase a lungo la società commerciale semplice, la classica commenda, che univa un finanziatore e un mercante al quale spettava il compito di far fruttare il capitale. Comunque, pur importate da altre città, le tecniche di cambio e di trasferimento di capitali, perfettamente dominate, servivano con efficacia il gioco degli affari. Invece di crearli, Venezia diffuse gli strumenti commerciali e finanziari che hanno permesso lo sviluppo economico dell’Occidente. Alla fine del Medioevo, la prosperità della piazza di Rialto e le pratiche contabili e finanziarie che vi erano impiegate suscitavano l’ammirazione dei visitatori stranieri. novembre

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A sinistra Iraklion, Creta. La fortezza di Koules, il cui primo nucleo fu costruito dai Saraceni nel X sec. L’aspetto attuale è frutto delle modifiche apportate dopo la riconquista dell’isola, prima dai Bizantini e quindi dai Veneziani.

Il dinamismo e la prosperità si spiegano anche con la politica economica adottata dallo Stato veneziano, una politica che tendeva a fare di Venezia il punto di passaggio obbligato per tutti i traffici fra Oriente e Occidente. Si trattava, insomma, di costringere il maggior numero possibile di partner commerciali ad approvvigionarsi sul mercato veneziano. Le città legate alla Repubblica da trattati dovevano cosí, per tutti i loro scambi marittimi, passare dal centro delle lagune. Quanto ai mercanti veneziani, per proteggere l’attività del porto e della flotta, in un primo tempo dovevano avviare verso Rialto, e su battelli veneziani, il carico acquistato ad Alessandria o a Costantinopoli, quale che fosse la sua destinazione finale. In questi ultimi secoli del Medioevo, Venezia era dunque diventata, per tutta una parte del commercio internazionale, un punto obbligato di scarico delle merci, nonché il magazzino verso il quale le mercanzie, nella loro infinita varietà, dovevano necessariamente

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i rapporti con bisanzio

Commercio libero e senza gabelle Come ricompensa per l’aiuto militare prestato dalla flotta veneziana, l’imperatore Alessio I Comneno accordò a Venezia, con la crisobolla (o bolla d’oro) del 1082, considerevoli vantaggi economici. La colonia veneziana di Costantinopoli si vide dotata di vaste infrastrutture: un forno, magazzini, tre scali o posti di ancoraggio sul Corno d’Oro… A Durazzo, cioè allo sbocco della via Egnatia, la grande arteria commerciale che attraversava la penisola balcanica, i lagunari, già numerosi e ben impiantati, ebbero un vero quartiere. Soprattutto, i Veneziani furono esentati dal pagamento dei diritti di dogana in quasi tutto l’impero bizantino. Il testo enumera una lunga lista di territori in cui i mercanti di Venezia potevano ormai «commerciare liberamente e in totale franchigia». A nord della Siria, in Cilicia, in Panfilia, su tutta la costa occidentale dell’Asia Minore, a Tessalonica, in Attica, a Nauplia, a Corinto, nel sud del Peloponneso, a Corfú, piazze e porti sono loro largamente aperti. Solo i porti del Mar Nero e le isole del Mediterraneo orientale (Creta e Cipro) non vengono citati a proposito di questo privilegio. La crisobolla chiude quello che per Venezia è stato un secolo di continua ascesa marittima. La sua preminenza in Adriatico, a nord di Durazzo, è riconosciuta. A Costantinopoli e nell’impero d’Oriente, i Veneziani godono di vantaggi tali che i loro concorrenti stranieri, come gli Amalfitani, si trovano relegati in posizione subalterna. Il bailo, ambasciatore di Venezia a Costantinopoli, accolto dai ministri della città, disegno acquerellato di Giovanni Grevembroch. XVIII sec. Venezia, Biblioteca Correr.

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Dossier convergere e dove gli Italiani e gli altri venivano ad approvvigionarsi. Le favolose entrate che lo Stato veneziano incassava nel XV secolo – e che potevano ammontare fino a un milione di ducati all’anno – si spiegano cosí: su questi scambi, i differenti uffici economici imponevano ingenti diritti di dogana. Anche il sistema delle linee di navigazione, le cosiddette «mude», faceva parte di questa organizzazione. All’inizio del XIV secolo, il Senato organizza il primo convoglio di galere, al quale seguirà molto presto la messa in opera delle altre linee. E fino al principio del Cinquecento, malgrado alcune difficoltà, le mude continuano ad assicurare una rete di relazioni commerciali regolari. La marina mercantile veneziana si divide allora in due settori. I bastimenti della navigazione libera o disarmata (cocche e vascelli tondi) assicurano la maggior parte dei trasporti. Le galere del settore controllato dallo Stato navigano invece in convoglio – secondo itinerari e date stabiliti dal Senato – e trasportano i carichi piú preziosi, come le spezie o la seta. Questo sistema di trasporto puntava a razionalizzare gli scambi e ad abbattere i costi. Gli itinerari e la frequenza dei convogli erano modu-

lati ogni anno in funzione della congiuntura. D’altra parte le navi, ben difese, navigavano di conserva (in convoglio); ne conseguivano un aumento della sicurezza e della regolarità e, dunque, costi concorrenziali. Ogni anno, il Comune procedeva alla vendita all’incanto dei bastimenti – costruiti all’Arsenale – e determinava innanzitutto il numero dei convogli e delle galere, nonché le diverse clausole della messa all’asta. Solo gli armatori nobili, individualmente o in associazione, erano autorizzati a partecipare all’operazione. Dall’inizio del XIV secolo, furono lanciate due linee: un convoglio partiva verso Costantinopoli e il Mar Nero, un altro verso la Fiandra e l’Inghilterra. Poi, furono resi operativi convogli per l’Egitto e per Beirut. In maniera episodica, funzionò anche una muda verso Cipro e la Piccola Armenia. La rete fu completata, infine, dalle mude occidentali e da quella detta «al Trafego», che collegava Tunisi ai porti del Levante. All’inizio del XV secolo, una flotta composta da una ventina di grosse galere assicurava questi trasporti. Mezzo secolo piú tardi, navigavano quarantacinque «galere da mercato» e il sistema raggiungeva il suo apogeo.

L’ARSENALE Veduta della parte orientale di Venezia, con, in alto, l’Arsenale. XVII sec. Versailles, Musée national des Châteaux de Versailles et de Trianon. 1. Canale artificiale collegava l’Arsenale, che, per motivi strategici, non aveva sbocco diretto a mare, al Canal Grande. 2. Tesoni di San Cristoforo scali coperti che potevano ospitare fino a due galee, consentendo di lavorare anche col cattivo tempo. 3. Darsena Grande bacino interno, circondato da magazzini e scali coperti, fu realizzato nella vasta area prima occupata dal lago di San Daniele. 4. Isola di Sant’Elena vi sorge la chiesa che custodisce le reliquie della madre di Costantino, con l’annesso convento degli Agostiniani (1810). 5. Isola di San Pietro chiamata Olivolo o Castello, ospitava la chiesa di S. Pietro di Castello, sede vescovile e poi patriarcale di Venezia.

Corridori dei mari

Le fonti italiane del Medioevo descrivono il Veneziano come un corridore dei mari e un negoziante, un contabile e un sensale, tutto preso a contare i suoi colli di merce, a de-

L’Arsenale

Una città nella città L’Arsenale venne fondato alla fine del XII secolo, ai margini orientali della città, in mezzo agli stagni. Le prime installazioni erano modeste, ma verranno ben presto rinforzate da un immenso deposito per il legno e da un magazzino per le armi. Alla fine del XIII secolo, cominciano i lavori per la costruzione delle corderie, dette de la Tana, e l’edificio viene terminato intorno al 1320. I testi rivelano la piena attività di questa «casa del canevo», dove le fibre vengono immagazzinate e lavorate, dove si producono vele e cordami per tutta la flotta. Un’operazione di grande portata trasforma in seguito, a partire dal 1326, la capacità del cantiere: là dove si stendevano le paludi, nasce l’«Arsenale Nuovo».

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Da allora, questa struttura – in origine destinata all’immagazzinamento delle materie prime piú che alla costruzione navale –, assume un ruolo di crescente importanza nella produzione delle galere e non solo. Alla fine del XV secolo, armi bianche e armi da fuoco escono in gran quantità dalle officine allineate a sud della grande darsena e, piú tardi, vengono costruite le sale destinate a custodire l’equipaggiamento di cinquanta galere: l’Arsenale diventa cosí una gigantesca armeria. Una terza campagna di lavori – che porta alla creazione dell’«Arsenale Nuovissimo» – viene avviata a partire dal 1473, quando la flotta turca si fa piú minacciosa. Il cantiere pubblico appare allora a novembre

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tutti gli osservatori come un’opera di eccezionale portata, una concentrazione di uomini e di mezzi unica nel mondo mediterraneo. Il cantiere pubblico si afferma come il fondamento della potenza marittima, il centro logistico sul quale si basano il commercio e l’impero. Sul fianco orientale di Venezia, dietro le mura, l’Arsenale diventa una città nella città. A fianco agli operai che costruiscono le galere, ci sono quelli che producono il rame e poi le donne, che cuciono e riparano le vele; e ancora, le sale dove si immagazzinano il carbone e il salnitro, dove si raffina lo zolfo, prima dei depositi di polvere da sparo e dei magazzini delle armi. Inoltre, al di fuori delle mura del cantiere, in tutta la zona

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portuale, da San Biagio fino alla punta di Sant’Antonio, brulicavano i cantieri privati per le costruzioni navali, le attività associate alla costruzione e alla manutenzione delle imbarcazioni, alle imprese marittime. In prossimità delle abitazioni dove si accalcava una fitta popolazione di rematori, di facchini e di scaricatori, lavoravano i fabbri specializzati nella produzione di ancore e di chiodi per i lavori di marina. A San Biagio, i forni comunali, dove veniva cotto il biscotto per la flotta, si elevavano al di sopra del molo dove venivano ammassate le mercanzie. Infine, erano stati costruiti gli ospizi per i cosiddetti «arsenalotti», ovvero i marinai vecchi o malati, e questi edifici contribuivano a rinforzare la particolare identità del quartiere.

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Disegno ricostruttivo di una galea veneziana del XIV sec. 1. proda; 2. sperone; 3. coperta; 4. stiva; 5. fondo con zavorra mobile, costituita da pietre e sabbia, che poteva essere rimossa per pulire le sentine; 6. forcata; 7. corsia; 8. pavesata; 9. schermo, scalmo al quale venivano legati i remi; 10. banco; 11. posticcio: questa sorta di cornice lungo le fiancate della nave era il punto avanzato al quale venivano fissati i remi e poteva costituire un camminamento per i balestrieri a bordo; 12. vela latina serrata; 13. antenna; 14. albero maestro; 15. coffa di maestra; 16. albero di mezzana; 17. cucina; 18. castello di poppa.

positare nei magazzini il suo pepe e il suo cotone, a prestare e a investire, a navigare o a scrivere ai suoi fattori e agenti. La figura di Marco Polo, uno fra i piú celebri Veneziani del Medioevo, illustra bene i rapporti di questa comunità con il commercio e con gli orizzonti lontani. Negoziante, figlio e nipote di negozianti, viaggiatore e scopritore di Paesi, Marco Polo non è che il mediatore attraverso il quale ci sono state trasmesse le descrizioni delle meraviglie asiatiche e le sbalorditive avventure di Occidentali giunti fino ai confini del mondo. Egli ha anche il gusto delle cifre, il pensiero delle mercanzie e del loro prezzo. Amministra i suoi affari secondo le normali regole del capitalismo familiare, ed è vittima dei rischi e degli errori di calcolo che compiono tutti gli uomini di affari.

Mercanti ed esploratori

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I suoi viaggi, condotti partendo dai banchi d’Oriente, rivelano la presenza di colonie composte da Latini, impiantate dal Mediterraneo al Mar Nero, e tutto un sistema di scambi e di traffici. Rientrato a Venezia, Marco Polo torna a essere un mercante dall’onesta agiatezza, proprietario di una grande casa e di altri beni, perfettamente inserito nella società del suo tempo. Dopo di lui, altri mercanti-esploratori lasceranno Venezia per terre lontane, come Alvise Ca’ da Mosto, che intorno alla prima metà del Quattrocento si spinse fino al Senegal (vedi box a p. 97). Nel corso del XV secolo, per alcuni dei prosperi uomini d’affari patrizi, il rapporto quotidiano e concreto con la mercanzia comincia ad affievolirsi. L’attività commerciale di uno di questi, Guglielmo Querini, che ha potuto essere ricostruita, testimonia di

un netto declino della «colleganza» (denominazione adottata a Venezia per la commenda). Facendo largo ricorso ad agenti, incaricati dello sdoganamento delle sue merci, Querini può condurre i suoi affari senza muoversi da Venezia. Inoltre, esistono molteplici indicatori che mostrano la diversificazione degli investimenti da parte della nobiltà e il progressivo volgere del capitale veneziano verso le campagne. Resta il fatto che la portata di questi fenomeni evolutivi non deve essere esagerata. Con l’avanzare dell’età, fatta fortuna, il nobile mercante risiede senza dubbio piú volentieri nella sua casa di Venezia. Ma, per molto tempo, i rampolli della nobiltà trascorrono il periodo della gioventú come balestrieri sulle galere della Repubblica e facendo una sorta di apprendistato del commercio per conto della società di famiglia o presso i corrispondenti di parenti o amici, a Candia o ad Alessandria. Per altri, poi, proprietari di navi, l’ora della sedentarizzazione non viene mai. Si devono attendere gli ultimi anni del XV secolo, perché, nei primi e rari palazzi, la struttura tradizionale dell’edificio sia trasformata: nelle antiche case-fondaco, gli ambienti a livello del canale erano riservati al magazzino e alle funzioni commerciali, mentre nei nuovi palazzi i depositi, le sale e gli uffici scompaiono, lasciando il posto a ingressi e vestiboli monumentali. Basta leggere i racconti dei viaggiatori per comprendere che Venezia appare agli stranieri venuti dalla Germania, dalla Francia o dalle Fiandre come una città strana, meravigliosa. Sui moli, nei granai e nei magazzini, le ricchezze si accumulano, i prodotti si ammassano: lo zucchero e il cotone, la seta e i tappeti, la frutta e le spezie. Lungo la riva del porto, o sullo sfondo del sorprendente scenario creato dalle cupole e dagli ori di S. Marco e di S. Zaccaria, passa e lavora una folla cosmopolita.

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Dossier LA SERENISSIMA NELL’ETÀ DI MEZZO 421, Data alla quale viene fissata la fondazione 25 marzo leggendaria di Venezia e che coincide con la costruzione della chiesa di S. Giacometo. 697 Elezione a Eraclea del primo doge Paulicio. 751 Il crollo dell’esarcato di Ravenna sotto la spinta longobarda accelera il processo di affrancamento delle isole lagunari dal dominio di Bisanzio. 810 Trasferimento a Rialto della sede governativa. 828 Giungono a Venezia, da Alessandria d’Egitto, le presunte reliquie di san Marco evangelista. 992 Crisobolla dell’imperatore bizantino Basilio II e del figlio coregnante Costantino VIII, concedente una tariffa preferenziale ai mercanti veneziani. 998-1001 Conquista della Dalmazia. 1082 Bolla aurea dell’imperatore d’Oriente Alessio I Comneno che privilegia il commercio veneziano. 1094 Consacrazione solenne della basilica di S. Marco alla presenza dell’imperatore Enrico IV. 1104 Presunta fondazione dell’Arsenale (il primo documento in proposito è del 1220). 1177 Incontro a Venezia del papa Alessandro III con l’imperatore Federico Barbarossa. Gli stranieri, venuti dai Balcani e dal Mediterraneo orientale, erano in effetti numerosi in tutta la zona del porto. Essi giungevano a ondate da un mondo scosso dalle guerre e dalla miseria o da colonie subissate di tasse. Questa gente senza radici aveva spesso raggiunto, come prima tappa, i porti veneziani della Dalmazia, dell’Albania o della Grecia occidentale, per poi compiere il grande balzo verso la metropoli. Gli anni 1430-1440 avevano visto scatenarsi un primo grande flusso migratorio. Sotto la spinta turca del decennio 1450-1460, si mettono in movimento altri gruppi di popolazione che sbarcano sulla costa adriatica, dalla Puglia alle Marche, a Venezia. Tutti questi immigrati non sono senza arte né parte; basti

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1202-1204 Partecipazione veneziana alla IV crociata che, deviata dagli scopi originari, vede la conquista e il saccheggio di Costantinopoli, da cui giungono a Venezia, fra gli altri, i quattro cavalli bronzei che ornano la facciata di S. Marco. 1211 Insediamento veneziano a Creta. 1295 Dopo 25 anni d’assenza Marco Polo ritorna a Venezia. 1298 La flotta genovese batte quella veneziana presso Curzola. 1348, Inizia la spaventosa peste nera nella quale marzo perisce, stando alle testimonianze, oltre la metà degli abitanti. 1381, Pace con Genova a conclusione del 8 agosto conflitto nel corso del quale questa aveva occupato Chioggia. 1404-1428 Annessione al dominio della Serenissima di Padova, Vicenza, Verona, Belluno, Feltre, Cividale, Udine, Salò. Brescia, Bergamo. 1464-1479 Cessione ai Turchi di Negroponte, delle Sporadi, di Lemno, Argo e, in Albania, di Croia e Scutari. 1489, Giunge a Venezia Caterina Cornaro, vedova 1° giugno dell’ultimo re di Cipro Giacomo Lusignano, che cede l’isola alla Repubblica. 1504 Oltre alla Puglia (Otranto, Brindisi, Trani, Monopoli), l’espansione di Venezia arriva alla Romagna.

pensare al considerevole apporto fornito dagli architetti di marina e dai carpentieri di origine greca alla costruzione delle navi veneziane. Gli immigrati si raccolgono dunque nel sestiere di Castello, in prossimità del porto e dell’Arsenale. Dal 1442, gli Albanesi, in maggioranza cattolici, avevano ottenuto il permesso di formare una confraternita nella parrocchia di S. Severo e, qualche anno piú tardi, questa «scuola» viene trasferita nella chiesa di S. Maurizio. Gli Slavi, a loro volta, si raggruppano nel 1451 nella «scuola» di S. Giorgio degli Schiavoni, la cui decorazione venne piú tardi affidata a Vittore Carpaccio. I Greci, invece, devono reclamare a lungo un luogo di culto che la Signoria è restia ad accordare loro. Funzioni religiose secondo il ri-

to ortodosso vengono celebrate, all’inizio, in diverse chiese, prima che i Greci si vedano concedere un luogo di culto esclusivo nella chiesa di S. Biagio. In seguito, le concessioni si susseguono: nel 1498, la comunità riceve l’autorizzazione a formare una confraternita e «nazione» greca; poi, nel 1514, le vengono attribuite la chiesa di S. Giorgio dei Greci e un cimitero. Pur essendo completata solo nel 1573, la chiesa costituisce tuttavia l’epicentro della colonia che imprime il suo marchio alla toponomastica: rio dei Greci, ponte dei Greci.

Un legame conflittuale

Infine, i rapporti che Venezia intrattenne con la propria eredità bizantina non furono mai semplici e la storia locale tese sempre a igno-


Miniatura raffigurante l’arrivo di una nave di mercanti a Hormuz, da un’edizione del Milione di Marco Polo. 1410 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

la via delle spezie

Aromi d’Oriente I prodotti piú conosciuti del commercio veneziano sono senz’altro le spezie: pepe, cannella, zenzero, noce moscata, ma anche gomme, profumi, sostanze medicamentose… Secondo le epoche e l’evoluzione delle vie commerciali tra l’Oriente e il Mediterraneo, i mercanti veneziani si approvvigionavano di spezie «grosse e minute» ad Alessandria, nelle colonie del Mar Nero o a Beirut. Si è a lungo ritenuto che la scoperta della rotta del Capo, compiuta dai Portoghesi, avesse sferrato un colpo mortale al commercio italiano, poiché i mercanti veneziani, e quelli genovesi in misura inferiore, non erano piú i soli a poter rifornire di spezie l’Europa occidentale. Questa interpretazione è stata in seguito

modificata. Nei primi anni del XVI secolo, i Portoghesi cercarono, è vero, di monopolizzare il commercio con le Indie e di apprrovvigionare la Francia e l’impero. Ne risultò una penuria sul mercato del Levante come su quello di Rialto. Tuttavia, dagli anni Venti del Cinquecento, il grosso della crisi era superato. La piazza veneziana era di nuovo ben fornita, i suoi prezzi erano concorrenziali ed essa aveva ripreso, in particolare con i Tedeschi, la propria funzione distributrice. Si è potuto calcolare che il volume delle spezie che, nell’ultimo terzo del XVI secolo, raggiungevano l’Egitto attraverso il Mar Rosso, per essere poi avviate verso Venezia, fosse equivalente a quello della fine del XV secolo.


Dossier Il Fondaco dei Tedeschi

Alla maniera dei funduk A partire dal XIII secolo, le relazioni commerciali tra Venezia e i Paesi tedeschi furono molto attive. L’area germanica formava, insieme con la piana italiana, uno sbocco naturale per il commercio lagunare. E Venezia, grazie alla strada per il Brennero beneficiava di un passaggio che molto presto fu largamente utilizzato. Inoltre, il centro veneziano aveva un’immensa necessità di metallo prezioso, poiché doveva finanziare, a Levante, un commercio costoso. Le miniere d’argento di Boemia e quelle d’oro dell’Ungheria soddisfacevano a questi bisogni e i mercanti tedeschi servivano da intermediari. Preso atto dell’importanza di questi scambi, il Comune veneziano apre dunque, fra il 1222 e il 1225, nel gomito del Canal Grande, sulla riva sinistra di Rialto, un insediamento destinato ai mercanti tedeschi. È il «fondaco dei Tedeschi», al tempo stesso magazzino e luogo di residenza, che ricalca il modello del funduk che i Paesi musulmani riservavano ai mercanti stranieri. I Veneziani, ad Alessandria, disponevano per esempio di installazioni similari, che essi amministravano tuttavia secondo la loro convenienza. I Tedeschi non ottennero mai, sul Canal Grande, un trattamento altrettanto favorevole. La sede del commercio germanico era posta sotto il controllo del Comune e dei suoi ufficiali, e la concentrazione di uomini e di mercanzie favoriva la sorveglianza. Il sistema stabiliva che i mercanti tedeschi di passaggio a Venezia dovessero risiedere obbligatoriamente nel fondaco, dove dovevano anche immagazzinare e sdoganare le loro mercanzie, sia quelle destinate all’importazione, sia quelle designate per l’esportazione.

Dopo la sua ricostruzione, all’inizio del XIV secolo, il fondaco si presentava come un’ampia costruzione, articolata su due piani e dotata di tre cortili interni. Le sue dimensioni sono appena inferiori a quelle dell’edificio attuale, costruito all’inizio del XVI secolo. Il volume degli affari era impressionante: nel 1470, il cronachista Paolo Morosini lo valuta sul milione di ducati all’anno; nel 1499, un pellegrino tedesco stima che la somma delle entrate doganali che la Signoria di Venezia ne ricava sia di 100 ducati al giorno. In alto il Fondaco dei Tedeschi. A sinistra Il Canal Grande di Venezia con il Ponte di Rialto, replica di autore anonimo dell’originale del Canaletto. XVIII sec. Madrid, Museo del Prado. Sulla sinistra, è ben riconoscibile il Fondaco dei Tedeschi.

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alvise ca’ da mosto

Sulle orme di Marco Polo

A destra l’omaggio degli indigeni di Capo Verde ad Alvise Ca’ da Mosto in un dipinto realizzato da Francesco Grisellini per la Sala dello Scudo di Palazzo Ducale, su commissione del doge-letterato Marco Foscarini. XVIII sec.

rare questi legami e questi apporti. Resta il fatto che l’influenza bizantina fu forte, come emerge dallo stesso paesaggio urbano. L’immagine di Costantinopoli e l’organizzazione degli spazi centrali della capitale imperiale ispirano senza dubbio la creazione, nel sestiere di San Marco, nell’ultimo terzo del XII secolo, di una piazza di dimensioni e struttura straordinarie in una città occidentale del tempo.

I magnifici quattro

Quanto alla basilica, costruita a imitazione della chiesa, oggi distrutta, dei Ss. Apostoli di Costantinopoli, venne ricostruita per ben due volte e, nel corso dei secoli, raccolse gli ornamenti, i trofei, le prede di guerra e le ricchezze dell’Oriente:

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Marco Polo è certo il piú celebre viaggiatore veneziano, ma, accanto a lui, va almeno ricordato un altro marinaio, mercante e scopritore: Alvise Ca’ da Mosto. Nato nel 1432, dopo i primi anni dell’infanzia trascorsi a Venezia, prende a navigare dalla Manica al Mediterraneo, percorrendo tutte le tappe dell’apprendistato riservato ai giovani mercanti. Nel 1454, si imbarca sulle galere di Fiandra comandate da Marco Zeno e in breve diventa celebre. Dal suo incontro con l’infante di Portogallo, Enrico il Navigatore, nasce l’avventura dei grandi viaggi di esplorazione, che lo conducono, nel 1455, fino a Capo Verde, e l’anno successivo, a compiere un secondo periplo del mondo, nel corso del quale raggiunge la Casamancia, nell’odierno Senegal. Ma Alvise non è solo un esploratore che consegna le proprie scoperte a una relazione di viaggio. Egli è e resta soprattutto un mercante, che si interessa ai prodotti che al di sopra del portale, la quadriga di cavalli in bronzo dorato, portata a Venezia da Costantinopoli, dopo il saccheggio del 1204; sulla facciata sud, il gruppo in porfiro dei Tetrarchi, due colonne scolpite, bassorilievi bizantini. All’interno della chiesa, ancora marmi di reimpiego e decine e decine di colonne importate dalle terre bizantine. Ma non c’è solo questo monumento a rendere manifesti i legami della laguna con Bisanzio. Altre chiese, come quelle di S. Eufemia, di S. Polo, di S. Sofia o di S. Nicolò dei Mendicoli conservano una pianta basilicale. In altre ancora,

Portoghesi e indigeni si scambiano, alla tratta degli schiavi. E proprio con i profitti che realizza rivendendo gli schiavi acquistati in Guinea finanzia il suo secondo viaggio. meno numerose, si ritrova la pianta a croce greca. E questo modello, mantenutosi fedele allo stile e alle tradizioni bizantine, viene ripreso da alcune costruzioni del Rinascimento, come S. Giovanni Crisostomo, l’ultima opera di Mauro Coducci, completata poi da suo figlio Domenico. Allo stesso modo, le costruzioni di S. Michele di Murano e di S. Maria dei Miracoli (14811489) testimoniano di un neobizantinismo affermato quando, dopo la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi, Venezia poté raccogliere questa eredità ed effettuare una vera translatio imperii.

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Abbazia con vista fiume di Franco Bruni

Nel VI secolo, Galla, figlia di un consigliere del re Teodorico, fonda un luogo di culto ai piedi del Monte Soratte, in prossimità del Tevere. Nasce cosí il nucleo piú antico dell’abbazia di S. Andrea in Flumine, che nel tempo divenne uno dei principali insediamenti monastici della zona e che, nonostante i ripetuti rimaneggiamenti, conserva squisite testimonianze artistiche e architettoniche della sua fase medievale

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atta all’antica con belli ornamenti et magnificenza de’ marmi lavorati, et colonne, et particolarmente l’Altar maggiore, vicino al quale si conservano molte reliquie». Cosí recita un passo tratto dal Catasto Abbatia S. Andrea, conservato all’Archivio Segreto Vaticano – siamo nell’anno 1600 – a proposito dell’abbazia di S. Andrea in Flumine. Il documento descrive il complesso situato presso Ponzano Romano, nella provincia di Roma, a poca distanza del Tevere – che qui disegna una serie di affascinanti anse –, e che allora era ancora in buone condizioni, ma che già dagli anni Settanta del XVII secolo versava in uno stato di avanzato degrado. Ne abbiamo conferma da un erudito locale, Antonio Degl’Effetti, il quale, nelle sue Memorie di S. Nonnoso abbate del Soratte (Roma, 1675), dà conto di un complesso visibilmente in rovina. A distanza di un secolo, secondo il resoconto di una visita effettuata dal Vicario dell’abbazia delle Tre Fontane (da cui S. Andrea dipendeva) la situazione è ancor piú drammatica: la facciata della chiesa ostruita dalla costruzione di un edificio, l’atrio trasformato in una stalla, parte della navata destra esposta a ovest completamente distrutta. Una precarietà estrema, che solo le campagne di restauro condotte nel secolo scorso sono riuscite a tamponare. Tornando piú indietro nel tempo, occorre risalire alla fine del X secolo per racco-

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Tutte le immagini che corredano l’articolo documentano le architetture e le opere d’arte dell’abbazia di S. Andrea in Flumine, presso Ponzano Romano (Roma). Sulle due pagine la navata centrale della chiesa. Ai lati sono visibili le colonne di restauro (1958), ripristinate dopo la tamponatura delle navate laterali (XIX sec.).

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medioevo nascosto lazio Civita Castellana

Ponzano Romano

Ronciglione Rignano Flaminio

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Colle Farnese Lago di Bracciano

Fiano Romano

Morlupo SR2 SR2

Cesano

SS4 SS4

Formello

A destra Il versante ovest della chiesa. Al centro, ove in origine si trovava il chiostro, si riconoscono i resti della villa romana. Da notare la sezione di parte della navata tamponata in seguito al crollo avvenuto agli inizi del XVII sec. In basso una veduta aerea del complesso abbaziale.

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Monterotondo

Osteria Nuova A90 A90

A90 A90

Roma

Il Tevere e il suo territorio

Un sito strategico L’appellativo in Flumine dato all’Abbazia di S. Andrea, originariamente intitolata anche ai santi Pietro e Benedetto, la dice lunga sull’importanza determinata dalla vicinanza del fiume. Un’area, questa, in cui la presenza umana è attestata sin dall’età del Bronzo. Con la sua funzione primaria di via di comunicazione da e per Roma, il Tevere ha avuto proprio nelle vicinanze dell’abbazia una zona portuale denominata «Portovecchio»: il portus Ponzani, che fu sotto la giurisdizione delle abbazie di S. Andrea e di S. Silvestro al Soratte e che ha mantenuto la funzione di scalo e di servizio di traghetto sino alla metà del XX secolo. Piú di un personaggio famoso ha attraversato il fiume nello scalo di Portovecchio: tra gli altri, l’esercito tedesco di Enrico IV, in seguito alla fuga da Roma nel 1084, e papa Pio II, il quale in partenza per la crociata nel 1464, soggiornò a S. Andrea prima di attraversare il fiume, come narra Giuseppe Tomassetti nella sua monumentale opera La Campagna romana antica, medioevale e moderna (1910). gliere qualche notizia sull’abbazia di S. Andrea, grazie a un manoscritto: il Chronicon redatto da Benedetto, un non meglio identificato monaco del Soratte, tra il 972 e l’anno 1000 e oggi conservato nel Fondo Chigi della Biblioteca Apostolica Vaticana (Chigi F.IV.75.).

Una fonte preziosa

Si tratta appunto di una «cronaca», incentrata sulla storia italica e romana – inizia con il regno di Giuliano l’Apostata per concludersi con l’anno 972 –, che narra gli avvenimenti legati ai cenobi sorti attorno al Monte Soratte. Tra verità e leggende – come, per esempio, quella del viaggio di Carlo Magno in Terra Santa –, l’opera costituisce a oggi la sola fonte documentaria sulla storia piú antica del cenobio di S. Andrea, in parte suffragata dai risultati dei piú recenti scavi archeologici condotti

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poi essere chiamato solo S. Andrea in Flumine, vista la contiguità geografica con il Tevere. Altre notizie riferiscono che, piú tardi, nel 761, con una bolla di Paolo I, i monasteri del Soratte, tra cui S. Andrea, furono concessi a Pipino il Breve, il quale, a sua volta, assegnò quello di S. Silvestro (e sicuramente anche S. Andrea) alla chiesa romana di S. Silvestro in Capite. Come si è detto, il Chronicon alterna notizie storiche ad altre di dubbia veridicità, se non totalmente leggendarie. Vi si narra, per esempio, della visita che Carlo Magno avrebbe effettuato in compagnia della regina Ildegarda al cenobio di S. Andrea nel 781, al quale egli stesso accordò l’immunità imperiale nell’805. Poco oltre – e qui entriamo nella pura leggenda – si dà conto di come ancora Carlo Magno, di ritorno da un viaggio dalla Terra Santa, avesse visitato l’abbazia nei pressi di Ponzano insieme a papa Leone III, facendo dono al cenobio di alcune reliquie di sant’Andrea.

La rinascita dopo le devastazioni

sul sito, che hanno contribuito a confermare le sporadiche notizie tratte dal Chronicon. Circa la fondazione del luogo di culto piú antico, Benedetto narra che, nel VI secolo, fu Galla, figlia di Simmaco, consigliere di re Teodorico, a farne posare la prima pietra in un terreno appartenente alla famiglia, mentre si fa risalire all’VIII secolo la costruzione di un cenobio. In questa fase entra in scena Carlomanno, il quale, dopo avere abdicato in favore del fratello Pipino il Breve, era sceso in Italia per abbracciare la vita monastica e poi stabilirsi proprio nei pressi del Monte Soratte, nelle cui vicinanze si trova la nostra abbazia. A lui si deve anche la fondazione dei cenobi benedettini di S. Silvestro al Soratte e S. Stefano a Ramiano. Il cenobio di S. Andrea venne inizialmente dedicato, oltre che ad Andrea, ai santi Pietro e Benedetto, per

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Se tra il IX e il X secolo, in seguito alle incursioni saracene, il complesso conosce uno dei suoi momenti piú bui, con Alberico II – figlio del duca di Spoleto Alberico I, che governò Roma dal 932 al 954 –, il cenobio torna a nuova vita dopo le devastazioni subite. Alberico fece nominare abate Leone, già prete ai Ss. Apostoli a Roma; proseguí la sua azione portando a termine la conquista della Sabina per poi restituire al cenobio tutti i suoi beni. A questo si aggiunge anche l’importante opera di fortificazione – come la costruzione di tre torri – a difesa dell’abbazia. Piuttosto scarse sono le notizie sui secoli XI e XII. Per il Duecento, come ricorda la studiosa Anna Maria Ramieri – che ha generosamente contribuito alla storia di Ponzano e del suo territorio –, sono invece documentati gli interventi di papa Nicolò IV a favore di S. Andrea: la nomina ad amministratore del cardinale Matteo di S. Lorenzo in Damaso; il riconoscimento di alcune indulgenze e l’ottenimento della protezione pontificia. Nel XV secolo, sia S. Silvestro al Soratte, sia S. Andrea furono affidate al monastero romano di S. Paolo fuori le Mura. Un importante evento fu poi, nel 1548, l’affidamento del cenobio da parte di papa Paolo III Farnese al cardinal nipote Alessandro Farnese, commendatario dell’abbazia romana delle Tre Fontane, sotto la cui giurisdizione S. Andrea rimase sino al 1981, prima di passare definitivamente sotto quella della diocesi di Civita Castellana. Con l’arrivo del cardinale Farnese, il complesso subisce alcune importanti trasformazioni e ampliamenti, come la bella loggia, oggi purtroppo tamponata, dalla quale si domina la sottostante valle del Tevere. Grazie alle indagini e agli scavi succedutisi alla fine degli anni Cinqunata del Novecento e, piú di recente, in occasione dell’anno giubilare del 2000, l’abbazia di S. Andrea in Flumine si è rivelata un autentico palinsesto,

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In alto un’altra veduta dell’abbazia dal versante orientale. Nella pagina accanto l’abbazia vista dal versante occidentale. Alla base della torre campanaria si vedono i resti di muratura di una delle pertinenze dell’abbazia andate distrutte. A sinistra la torre campanaria, la cui struttura piú antica arriva sino alla modanatura seghettata posta al di sotto dei grandi finestroni aggiunti probabilmente nel XVI-XVII sec.

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che testimonia una continuità di utilizzo di 2000 anni, nel corso dei quali si è andata trasformando e, con essa, sono mutate le sue destinazioni d’uso: da villa romana a luogo di culto, a monastero, a fattoria. Il luogo di culto, e il successivo cenobio benedettino, furono infatti fondati sfruttando le preesistenze di una grande villa romana, dotata anche di un impianto termale. Poco rimane, purtroppo, dell’abbazia medievale e risulta anche difficile trovare un riscontro tra quanto di essa ci è pervenuto e le prescrizioni della Regola benedettina sull’organizzazione degli spazi di un cenobio. All’epoca medievale risalgono la chiesa – ampliata nel corso del XII secolo –, l’area del chiostro – nella quale si possono oggi vedere parte dei resti della villa romana e del suo impianto termale –, la torre campanaria e i resti della fortificazione voluta da Alberico II. Attorno al chiostro erano collocati gli ambienti di pertinenza, tra cui il refettorio e il dormitorio, disposti a ovest della chiesa e oggi scomparsi; se ne trova però testimonianza iconografica in alcuni disegni settecenteschi di Luigi Vanvitelli, l’architetto della Reggia di Caserta, conservati negli archivi della stessa.

Le prime indagini

Fondato in epoca carolingia, il cenobio di S. Andrea ha conosciuto, nel tempo, sostanziali mutamenti. Con i decreti napoleonici che prevedevano l’abolizione degli Ordini religiosi, venne addirittura trasformato in azienda agricola. Ciononostante, il sito fu oggetto di ripetute indagini da parte di vari personaggi. Negli anni Trenta dell’Ottocento, nei pressi dell’abbazia furono ritrovati

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vari manufatti antichi, frutto di scavi condotti su richiesta del commendatario cardinale Patrizi. Tra questi, anche i resti di una pavimentazione a mosaico, oggi non piú visibile. Se discontinuo si è mostrato l’interesse da parte delle autorità, negli anni Ottanta del XIX secolo Giuseppe Tomassetti, noto topografo e specialista del territorio laziale, effettuò un’analisi ricognitiva del complesso. Seguirono, nei primi anni del secolo successivo, le indagini di Thomas Ashby, altro specialista della Campagna Romana, e, piú tardi, quelle di Geraint D. Barri Jones, eseguite negli anni Sessanta. Gli interventi di scavo curati dalla Soprintendenza dagli anni Novanta del secolo scorso e ripresi nel 2000 hanno dato un contributo sostanziale alla storia del complesso. I risultati ottenuti hanno per esempio permesso di stabilire con certezza la fisionomia della chiesa piú antica, anteriormente all’ampliamento del XII secolo. Fasi ben

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In alto il portichetto (jubé) articolato in tre volte a crociera, che divide l’aula dei fedeli dal presbiterio.

leggibili anche nella parete est della chiesa, che si presenta, nella parte ampliata, con una muratura in conci di tufo, mentre la parte piú antica è in cortina. Le indagini piú recenti, che hanno interessato l’area occupata originariamente dal chiostro, suggeriscono che la fase piú antica del complesso romano risalga al II-I secolo a.C. Nel settore nord, antistante la facciata della chiesa – che nei secoli è stata occultata da un edificio –, è stata accertata la presenza di una cisterna e di un complesso idraulico, quest’ultimo piú volte ricordato dalle fonti piú antiche. Nello stesso settore nord, in epoca tardo-imperiale, il complesso viene ridefinendosi con nuove strutture architettoniche a ridosso del pendio che scende verso valle. Il monastero andò sviluppandosi tra l’VIII e il IX secolo a ovest della chiesa. Attorno alla zona occupata anticamente dal chiostro, gli scavi hanno riportato alla luce una struttura semicircolare (forse una vasca), senza dubbio legata alla presenza di un impianto ter-

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male. Dagli indizi riscontrati nel corso delle indagini, si evince che la villa conobbe nel V secolo un momento di particolare benessere e ricchezza, come confermano le tracce di marmi policromi ritrovati in loco; a questa fase fece seguito il graduale abbandono. Ulteriori interventi strutturali furono eseguiti nella fase altomedievale, e il ritrovamento di frammenti ceramici di butto d’epoca carolingia autorizza a collocare la fondazione del cenobio nell’VIII secolo, confermando quando narrato da Benedetto nel suo Chronicon. Nei secoli successivi alla fondazione del cenobio, a seguito dell’alterazione delle strutture architettoniche antiche – in parte recuperate e in parte distrutte –, l’abbazia ha subito ripetuti cambiamenti, soprattutto nel versante settentrionale, dove, nel XVIII secolo, la facciata della chiesa venne ostruita da un edificio. Vennero quindi ampliati vari locali, in seguito all’arrivo del cardinale commendatario Alessandro Farnese, che fece costruire una scala monumentale, oltre alla grande loggia di gusto rinascimentale. In seguito, alcuni cedimenti strutturali portarono il convento a uno stato di degrado avanzato e allo snaturamento delle sue funzioni originarie.

L’ampliamento della chiesa

Se il complesso abbaziale, relativamente alla sua fase piú antica, si presenta oggi piuttosto alterato per poterne percepire l’originaria configurazione – nonostante qualche indizio presente nei disegni del Vanvitelli –, la chiesa resta la testimonianza piú eloquente del complesso medievale del XII secolo, epoca che segna anche l’ampliamento dell’edificio di culto. Poche, purtroppo, sono le testimonianze riferibili alla fase altomedievale In alto l’affresco di Francesco Biancardino, del 1622, eseguito sulla parete tamponata a seguito della demolizione della navata laterale destra. A sinistra frammento di trave decorata usata come soglia nella parte interna del portale di accesso alla chiesa. IX sec.

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medioevo nascosto lazio dell’ambiente di culto originario. Doveva in ogni caso trattarsi di un edificio di dimensioni ridotte rispetto a quello attuale, come prova la netta differenza nella struttura muraria visibile nella parete esterna sinistra, che segnerebbe la linea di demarcazione tra l’edificio altomedievale e l’ampliamento del XII secolo. Le indagini nell’area absidale esterna provano che in epoca carolingia erano già presenti tre navate. La porzione piú antica dell’edificio cultuale, corrispondente all’attuale zona presbiteriale, è anche quella che, non a caso, presenta alcuni degli elementi architettonici piú antichi. Qui si ritrovano, infatti, nelle colonne superstiti – alcune sono di restauro – capitelli d’epoca imperiale, mentre nella sezione corrispondente alla fase post-carolingia, vi sono anche capitelli altomedievali, che avvalorerebbero la datazione piú tarda rispetto alla superficie occupata dal presbiterio. Inseriti in vari punti della chiesa si ritrovano peraltro elementi altomedievali sparsi, come, per esempio, il frammento incastonato nel pavimento in corrispondenza del passaggio tra lo jubé (un piccolo portico) e la zona presbiteriale: una pietra finemente lavorata con motivi a intreccio; come anche la piccola architrave decorata a cerchi annodati che ritroviamo sulla soglia della porta di accesso alla chiesa. Poiché, come già ricordato, la costruzione di un edificio obliterò la facciata della chiesa, a quest’ultima si accede per un piccolo portale, che risale alla fase dell’ampliamento del XII secolo. Si entra quindi in quello che rappresenta il solo ampliamento sul versante nord. Tale datazione è confermata non solo dalle evidenze rimarcate nella muratura esterna, ma anche dal ricco apparato decorativo cosmatesco, risalente alla metà del 1100, che caratterizza l’area antistante la zona presbiteriale e che si estende fino all’altare.

In alto il ciborio, a tre ordini di colonnine, opera del marmoraro Nicola e dei suoi figli Giovanni e Guittone. Metà del XII sec.

La firma del marmoraro

Nei magnifici mosaici ritroviamo un abbondante uso del porfido rosso, del giallo antico e del serpentino verde, con tessere che disegnano geometrie fatte di cerchi intrecciati e riquadri tipici dello stile cosmatesco. L’iscrizione posta alla base di una delle colonnine del ciborio rivela i nomi degli autori di quest’ultimo e, con ogni probabilità, anche dei mosaici: NICOLAVS CVM SVIS FILIIS IOANNES ET GVITTONE FECERVNT HOC OPVS. Si tratta di una nota famiglia di marmorari, gli stessi che, nel 1166, decorarono la chiesa di S. Maria in Castello a Corneto (l’attuale Tarquinia). Tornando al settore ampliato nel XII secolo, si nota, sul lato opposto al portale d’accesso, la tamponatura di quella che fu la navata sinistra. Quest’ultima, infatti, risulta distrutta già dai primi decenni del XVII secolo. Conferma questa datazione un affresco presente sul muro di tamponatura che ritrae un prelato in ginocchio, opera di Francesco Biancardino e datato al 1622.

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Qui sopra un pregevole capitello di spoglio d’epoca adrianea utilizzato come basamento di colonna. A destra l’ambone antistante la zona rialzata con decorazione cosmatesca, in prossimità dell’altare.

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In questa ala della chiesa, si ritrovano vari capitelli medievali, caratteristici nelle loro semplici decorazioni a foglie lisce, come quelli delle colonne che sostengono il portichetto – databile attorno al XV secolo – che separa i due settori della chiesa. Questo portico, detto jubé, è un elemento piuttosto raro, che si andò sviluppando tra XII e XIII secolo – la sommità, all’occorrenza, era usata come pulpito –, atto a marcare la separazione tra l’aula dei fedeli e quella riservata al presbiterio: una sorta di iconostasi che, nei secoli a venire, fu spesso smantellata, riducendo la presenza di questo elemento, tipico delle chiese romaniche, a poche testimonianze esistenti. Da una foto d’archivio del 1958 si notano ai due lati del portichetto (costituito da tre volte a crociera) due piccoli altari con relativi paliotti cosmateschi. Inspiegabilmente, questi ultimi furono rimossi, nel corso dei restauri, insieme agli altari e i due paliotti vennero ricollocati arbitrariamente sul pavimento a ridosso della parete ovest di tamponatura della navata crollata nel XVII secolo.

Capitelli trasformati in basi

Attraversando il portichetto (jubé), ci ritroviamo nell’area presbiteriale, che conserva nonostante i molti restauri subiti, un ricco apparato decorativo. Anche qui proseguono nella pavimentazione le straordinarie geometrie del pavimento cosmatesco di Nicola e dei suoi figli, che si prolungano fino all’altare, che si trova in posizione rialzata. In questo luogo, che coincide anche con il settore piú antico dell’edificio di culto, si trovano molte colonne con capitelli di spoglio d’epoca romana, in alcuni casi riutilizzati alla base delle colonne. Nella zona presbiteriale, l’elemento architettonico che piú di ogni altro colpisce per la sua fattura è lo straordinario ciborio del XII secolo, opera di Nicola e dei figli. Si tratta di un baldacchino sovrastante l’altare, costituito da quattro colonne, alla cui sommità si ritrovano tre eleganti ordini di colonnine: il primo a pianta quadrata, il secondo a pianta ottagonale ed entrambi sormontati da una piramide tronca, sulla quale sta un terzo ordine, anch’esso ottagonale. Si tratta di un ciborio di grande pregio architettonico, la cui tipologia si ritrova in esemplari coevi nelle chiese romane di S. Giorgio al Velabro e S. Lorenzo fuori le Mura. Nell’area absidale si possono inoltre vedere alcuni affreschi del XV-XVI secolo, tra cui una Crocifissione al di sopra dell’arco trionfale (quest’ultimo decorato al suo interno da grottesche), mentre nel catino absidale appare il Cristo risorto. Un altro affresco, raffigurante sant’Andrea, si trova in fondo alla navata destra. Di una piú antica decorazione pittorica non ci è dato purtroppo sapere, fatta eccezione per qualche sporadico lacerto di affresco, come quello riconducibile al XII secolo presente nella navata centrale in prossimità del muro dello jubé, raffigurante tre personaggi aureolati non meglio identificati. F

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Storie, uomini e sapori

Quando il banchetto si fa spettacolo S

ul muro esterno dell’abbazia ferrarese di S. Pietro in Polesine, sotto al portico, una lapide funeraria, guarnita di stemma nobiliare, ricorda Cristoforo da Messisbugo (che la grafia indica Messi Sbugo), conte palatino, morto nel 1548. È uno dei pochissimi monumenti che celebrino la memoria di un uomo – un umanista nel senso piú compiuto del termine –, che dedicò la vita alla felicità e al benessere altrui fra la cucina e la sala da pranzo. Cristoforo non fu un cuoco, anzi, nell’elenco degli offiziali di corte, con cui si apre il suo Banchetti composizione di vivande e apparecchio generale, egli riserva proprio ai cucinieri una posizione di second’ordine rispetto ai siniscalchi, ai credenzieri, ai canevari (i sommelier), ai soprastanti, finanche ai musici e ai danzatori che rallegrano il banchetto. Facendo sua – in anticipo di settant’anni, e senza saperlo – la massima di Vincenzo Cervio, autore del Trinciante, anche Cristoforo doveva considerare «tre gli uffici honorati che sogliono dare li Principi, e cioè quelli di Scalco, di Coppiero e di Trinciante», affidati «se non a persone molto nobili». A corte, il cuoco manipolatore di vivande – e che si limita a far solo quello – cede ormai il posto a un personaggio molto piú aulico, capace e al quale si conferiscono maggiori poteri: lo si definisce «scalco», ma il suo compito non è tanto quello di tagliare e dividere le carni – anche se tale bravura rientra fra le sue

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doti: ancora nel 1839, un altro nobile e gourmet, Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, proclama la scalcheria «arte cavalleresca», quanto l’organizzare quella complessa rappresentazione di gala che è il banchetto rinascimentale. Uno spettacolo in grado di occupare piacevolmente tutta la notte e in cui il nobil signore può dimostrare la sua ricchezza e potenza non solo facendo sfilare i cento-centoventi piatti divisi in quattro o cinque servizi di cucina (piatti caldi) e di credenza (freddi), ma anche offrendo agli ospiti musiche, canti, danze, pièce «alla pavana» del Ruzante e commedie dell’Ariosto, offiziale anch’egli di palazzo come il Messisbugo.

Un vero cortigiano Di Cristoforo da Messisbugo non si sa molto. Sembra fosse di origine fiamminga, discendente dalla famiglia del pittore Quentin Messys. Nel 1533, Carlo V gli conferí il titolo di conte palatino, molto probabilmente dopo una visita a Ferrara. Cristoforo si inserí bene nella società ferrarese: sposò una nobile e accasò anche tre sorelle con altrettanti cavalieri. Fu, insomma un cortigiano nel senso migliore e cinquecentesco del termine e la sua nomina a conte palatino, concessagli nel 1533 dall’imperatore Carlo V, fu senz’altro meritata. Il Banchetti venne pubblicato per la prima volta a Ferrara, nel 1549, da Giovanni De Buglhat e Antonio

Tavola (successivamente colorata) raffigurante un cuoco che prepara pietanze a base di carne stufata e allo spiedo, dall’opera Banchetti composizione di vivande e apparecchio generale di Cristoforo da Messisbugo (Ferrara, 1549). Hucher, quando l’autore era morto da un anno. Dieci anni dopo, per il tipografo veneziano Francesco De Leno, uscí il Libro novo nel qual si insegna a far d’ogni sorte di vivanda, opera oggi di stupefacente rarità bibliografica che riproduce, con qualche errore, l’editio princeps del Messisbugo, generando non poca confusione tra bibliofili ed esegeti di cucina. Banchetti ebbe un’enorme fortuna e ne furono stampate almeno 15 edizioni, fino all’ultima, impressa a Venezia nel 1626. L’opera è suddivisa in tre parti; nella prima, l’autore elenca gli strumenti e gli alimenti necessari all’organizzazione dei banchetti; la seconda parte è dedicata alle portate di undici cene, tre desinari e una festa organizzati a corte tra il 1529 e il 1548; nell’ultima parte vengono presentate 315 ricette raggruppate in sei paragrafi: paste, torte, minestre, salse, brodi, latticini. Messisbugo non appare ancora sotto l’influenza del barocchismo destinato a trionfare, anche in tavola, nel Seicento; la sua cucina si basa, essenzialmente, su pasticci, torte, timballi «pastelli», «tarterette», «offelle» e «fiadoncelli». Oltre a inventare nuove vivande, egli novembre

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CALEIDO SCOPIO Due pagine dell’edizione originale dell’opera Banchetti composizione di vivande e apparecchio generale di Cristoforo da Messisbugo, stampata a Ferrara, da Giovanni De Buglhat e Antonio Hucher, nel 1549.

riesamina e raffina ricette popolari mentre adatta quelle forestiere ed esotiche ai prodotti locali. Colpisce la prima citazione conosciuta della preparazione di «frittade de caviaro» e di «caviaro per mangiare, fresco, o per salvare», ottenuto cuocendo «per lo spatio di due paternostri» le uova dello storione beluga, un pesce oggi estinto ma che ai tempi di Maestro Cristoforo era copioso nell’Adriatico e nel Po. Nell’elencare i pesci degni d’esser portati in cucina, egli esclude «macarelli (sgombri), polpi, razze, pescicane ed altri, che son cibo da galeotti». Anche per le ricette elaborate, Cristoforo segue lo stesso principio, elenca ed esamina solo le grandi portate, aggiungendo: «Non spenderò tempo in descrivere minestre d’ortami e legumi, o insegnare a friggere una tenca o un luzzo in gratella, che son cosa da vile femminuccia». Molte sue preparazioni sembrano tuttora accettabili e, nonostante certi nomi siano passati da una regione all’altra – la sua torta lombarda, ripiena di biete, è ormai la torta di verdura ligure –, la tradizione della nostra cucina regionale continua

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ad accettarle. Ecco che codifica i tortellini in brodo, la torta di carciofi e una torta alla tedesca, quasi identica allo strudel di mele trentino.

Lasagne e tortelletti Come fonte di ispirazione, il Messisbugo può ancora offrire molto: rielaborando, per esempio, la sua «sfogliata magra d’olio» si può giungere a quelle lasagne alla Messisbugo, che alternano, fra «suolo e suolo» di pasta, una salsa bianca al fumetto di pesce, con code di scampi e filetti di sogliola, o, meglio ancora, di pesce persico. Egli, tuttavia, operava ancora in un secolo in cui le spezie dominavano la scena gastronomica e continuavano a rappresentare un simbolo di ricchezza; i suoi «tortelletti magri d’altra sorte» ripieni di spinaci, fichi secchi, uvetta e noci, potrebbero ancora essere graditi per affinità con i tortelli mantovani di zucca e amaretti, se non fosse che per appena dieci porzioni egli prescrive ben mezza libbra di zucchero, un’oncia (30 grammi) di cannella e quasi 10 grammi di pepe, piú

un’altra aggiunta di zucchero sui tortelli cotti. E ancora, certe torte – di piccioni e prosciutto, di luccio, persino di frutta – sono, per noi, rovinate dall’aggiunta di spezie, di acqua di rose e di agresto (una spremuta di chicchi d’uva acerba o di piú rara uva spina) abusata allora come succede oggi con il succo di limone. Ma tant’è: il secolo di Messisbugo e i personaggi della corte in cui egli serviva pretendevano banchetti e piatti di quel genere. Al conte palatino riconosciamo anche il merito di aver nobilitato la pasta asciutta. Mastro Martino parla di maccheroni romaneschi e siciliani, mentre il Platina confonde lasagne e pasta lunga quando confeziona una «vivanda dicta vermiceli» con riquadri di sfoglia; Messisbugo dà indicazioni piú esatte: i maccheroni sono gnocchi modellati sul rovescio della grattugia, ma quelli napoletani, ottenuti da impasto di farina, uova, acqua, pangrattato, zucchero e acqua di rose, sono di «sfoglia piuttosto grossa che sottile, tagliata in strisce strette e longhette». Sergio G. Grasso novembre

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Lo scaffale sui fattori economici, il volume – che dà conto dell’omonimo convegno di studi svoltosi nel 2015 a Pistoia – prende in considerazione il quadro Atti del XXV Convegno climatico-ambientale, Internazionale di Studi l’evolversi della (Pistoia, 14-17 maggio 2015), Viella, Roma, tecnologia, i nuovi 488 pp., ill. rapporti di potere 33,00 euro instauratisi nel mondo ISBN 9788867288427 cittadino e in quello www.viella.it rurale; le relazioni La crescita economiche e culturali dell’economia rimane con le aree del un «mistero», che non mondo piú sviluppate; può essere svelato l’espansione soltanto attraverso commerciale con l’uso degli indicatori la conseguente economici, perché, evoluzione delle come sottolineato nel tecniche mercantili e saggio che conclude bancarie; gli strumenti questo volume, e i meccanismi della «l’autore principale di crescita costituiti tutti i fatti economici dalla moneta e dalle resta l’uomo (…) pratiche creditizie; che non può essere lo stimolo ai ridotto a numeri consumi comportato astratti, con le sue dalla crescente ansie, i suoi sistemi di urbanizzazione e valori, e la sua cultura la loro dinamica che si modificano nel analizzata attraverso corso del tempo». le fonti archeologiche; Partendo dunque il rapporto tra dal presupposto che crescita economica i fattori di crescita e arti figurative; la non si possono geografia regionale limitare all’esame dello sviluppo; il ruolo dell’economia, ma delle istituzioni nel vanno messi in generare incentivi relazione con la per la partecipazione Ondas. Martín molteplicità degli Codax, degli individui al Cantigas de Amigo eventi politici, mercato; gli effetti Vivabiancaluna Biffi, Pierre culturali, tecnologici, dellaHamon crescita sulle Arcana (A390), 1 CD strutture sociali e sulla ambientali, climatici, www.outhere-music.com che in tutte le mentalità collettiva; loro sfaccettature i meccanismi esercitano un impatto che portarono al Franco Franceschi (a cura di) La crescita economica dell’occidente medievale. Un problema storico non ancora esaurito

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rovesciamento della congiuntura. L’incontro di Pistoia ha inoltre permesso di ridefinire la periodizzazione dell’espansione economica, anticipandola all’VIII-IX secolo (anziché al X-XI), interrogandosi sul momento di inizio della crisi (la seconda metà del Duecento, o la prima del Trecento?), e sfatato il pregiudizio

nei centri urbani non comportava necessariamente un miglioramento delle condizioni di vita. Appare ormai superata anche l’idea che la penuria di derrate alimentari fosse dovuta sempre ai cattivi raccolti: le manovre speculative ebbero infatti un peso notevole al riguardo. Maria Paola Zanoboni Giancarlo Andenna, Cosimo Damiano Fonseca, Elisabetta Filippini (a cura di) I Templari Grandezza e caduta della «militia Christi»

Vita e Pensiero, Milano, 268 pp., ill. b/n

23,00 euro ISBN 978-88-343-3253-5 www.vitaepensiero.it

di una crescita nei secoli XI-XIII apportatrice di una maggiore ricchezza generalizzata: nelle campagne, dal XII secolo, la progressiva riorganizzazione fondiaria portò canoni piú pesanti e un peggioramento delle condizioni dei contadini. Contemporaneamente, nelle città, la comparsa del lavoro salariato introdusse una maggiore precarietà: il trasferirsi

Intorno al 1118, un gruppo di nove cavalieri, rappresentati da Ugo di Payns e Goffredo di Saint-Omer, si reca dal patriarca di Gerusalemme, comunicandogli l’intenzione di votarsi alla Chiesa, professare la castità e l’obbedienza e rinunciare a ogni bene personale. L’episodio segna l’inizio di una vicenda che, ancora oggi, suscita un fascino per molti irresistibile: quella dell’Ordine del Tempio. Una vicenda che, sebbene si sia

dipanata nell’arco di soli due secoli, ha fatto registrare eventi di primaria importanza nella storia della Terra Santa e dell’Occidente europeo. Al tempo stesso, forse anche per via delle drammatiche circostanze che ne segnarono la scomparsa – i Templari furono condannati allo scioglimento dalla bolla Vox in excelso, emanata da papa Clemente V e approvata dal Concilio di Vienne nel 1312 –, molte sono state (e spesso continuano a essere) le ricostruzioni distorte di quell’esperienza. Nasce dunque con l’intento di ristabilire la verità questo volume, che, per farlo, si affida ai contributi di una ventina di studiosi italiani e stranieri, ciascuno dei quali affronta aspetti specifici della storia templare, affidandosi alle piú recenti acquisizioni documentarie. Stefano Mammini

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Amore, filosofia e altre storie MUSICA • Cinque dischi ripercorrono i trent’anni di attività del gruppo musicale

italiano La Reverdie. Un cofanetto prezioso, il cui ascolto offre la possibilità di conoscere, innanzitutto, la ricca tradizione musicale del XIV secolo

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er celebrare i trent’anni di attività, il gruppo La Reverdie ripercorre alcune tappe della sua carriera pubblicando un prezioso cofanetto di cinque dischi, che raccoglie incisioni realizzate tra il 1992 e il 2000. Gruppo tutto italiano e tra i pochi a dedicarsi al solo repertorio tardo-medievale, La Reverdie ha da sempre rivolto un’attenzione particolare al Trecento europeo: periodo descritto dai teorici del tempo come Ars Nova e segnato dalle conquiste raggiunte nel sistema della notazione e dalla creazione di nuovi generi poetici e soluzioni tecnico-compositive che hanno rivoluzionato il panorama musicale occidentale.

Due immagini del gruppo musicale La Reverdie, che, in occasione dei trent’anni di attività, ha pubblicato il cofanetto Knights, maids and miracles. The spring of Middle Ages.

Tutte le forme dell’amore Diverse sono le tematiche scelte per i cinque dischi. Con Specvlvm amoris, è l’amore, tema centrale di tanta lirica due-trecentesca, che viene narrato in tutte le sfumature, da quello mistico, con ascolti di brani devozionali come la bella lauda mariana, Laude novella sia cantata (XIII secolo), passando per brani inglesi come Eya martyr Stephane (XV secolo), toccando le vene piú terrene come in Questa fanciulla Amor, di Francesco Landini, la voce piú celebre dell’Ars Nova italiana. Altri brani francesi, Ma douce amour di Johanes Simon Hasprois (1378-1428), Très douls amis di anonimo del XIV secolo, nonché

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l’Ain graserin del noto Minnesänger tirolese Oswald von Wolkenstein (1377-1457) completano l’ascolto. Il secondo CD, O tu chara sciença – che cita nel titolo un celebre brano di Giovanni da Firenze (metà del XIV secolo), qui proposto in versione strumentale –, si sofferma sul

concetto stesso della musica nel pensiero medievale, a cui i versi sono dedicati. La scelta antologica, con brani che spaziano tra il X e il XIV secolo, tende a sottolineare i vari modi in cui la musica veniva intesa nel Medioevo. Un primo gruppo, dedicato alla musica terrestris, celebra novembre

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il potere dell’armonia come fonte di gioia (De luscinia di Fulberto di Chartres, 960 circa-1029); in altri brani gli strumenti sono citati onomatopeicamente nei contesti piú disparati (la caccia Segugi a cord’e). Nella sezione ars musica, è l’aspetto teorico a essere celebrato, come si evince da Pantheon abluitur/Zodiacum signis lustrantibus (forse opera di Bernard de Cluny, XIV secolo), in cui vengono acclamati i piú grandi teorici musicali e musicisti dell’epoca. Un tono polemico verso coloro che praticano la musica in maniera lasciva e senza regole è quello che troviamo in tre brani, Musica son/Già furon/Ciascun vuoli di Francesco Landini, Are post libamina/Nunc surgunt in populo (Matheus de Sancto Johanne, XIV secolo) e in Non piú doglie ebbe Dido di Andrea di Firenze († 1415) in cui, ascoltando un organo stonato, l’autore afferma ironicamente di aver provato piú dolore di Didone abbandonata da Enea. Con la terza sezione è la musica celeste, eseguita in onore di Dio a essere proposta con brani anonimi dal VII al XIV secolo, tra i quali spicca il Laus Trinitati di Ildegarda di Bingen, la filosofa mistica e musicista del XIII secolo.

Musica di corte e di chiostro Dalla contemplazione della musica si passa con il terzo CD, Suso in Italia bella, alla musica praticata nelle corti e nei chiostri dell’Italia settentrionale. Anche qui sono molteplici le atmosfere suscitate nella giustapposizione di brani sacri e profani, con ascolti tratti da autori come Rodolfo di Fenis († 1196), Jacopo da Bologna (XIV secolo), Vincenzo da Rimini (XIV secolo), i padovani Marchetto (XIV secolo) e Bartolino (XIV secolo), Matteo da Perugia (inizi del XV

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secolo) e Antonio da Cividale (inizi del XV secolo), tutti riconducibili alla tradizione arsnovistica italiana, accanto ad altri brani piú antichi, tra cui lo splendido anonimo O lylium convallium, del X secolo. Incentrata sull’universo femminile della cultura celtica, la quarta antologia, Insvla feminarvm, ci regala alcuni dei brani piú suggestivi del cofanetto. La figura della donna, descritta come un’icona profana della Madonna e fortemente connessa al tema dell’amore, apre

Knights, maids and miracles. The spring of Middle Ages La Reverdie Arcana (A399, 5 CD) www.outhere-music.com i primi quattro brani, espressione della tipica cultura cortese. Un altro gruppo di composizioni anonime trecentesce è incentrato sul tema della «regalità»; musiche in cui la donna assume connotati di maestosità, tanto da elevare l’uomo, con la sua vicinanza, al rango reale. A concludere l’antologia non potevano mancare brani legati al tema mariano, che ci offrono una visione della donna non distante da

quella sacralizzata che ritroviamo nella letteratura cortese e, nella fattispecie, celtica.

Composizioni originali Nell’ultima antologia, Nox-Lux, viene svelato il panorama francese e inglese del XIII-XIV secolo. I brani scelti contemplano, in realtà, una produzione che va oltre l’ambito geografico-cronologico indicato nel disco, includendo la sequenza pasquale Victime Pascali Laudes (XI secolo), Ich spuer ein tyer del tirolese Oswald von Wolkenstein, sino a toccare il XV secolo, con Resvellies vous di Guillaume Du Fay. A rendere interessante l’ascolto concorrono alcuni brani moderni di grande suggestione, composti degli stessi esecutori ed eseguiti con strumenti della tradizione medievale. Eccellente è l’interpretazione dell’ensemble La Reverdie, diretto da Claudia Caffagni, le cui esecuzioni, oltre all’altissimo livello qualitativo, costituiscono un modello interpretativo di grande pregio. Le molteplici combinazioni vocali e vocali-strumentali proposte permettono di apprezzare l’arte di ogni interprete: Claudia Caffagni (voce, liuto, symphonia e percussioni), Livia Caffagni (voce, flauti e viella), Elisabetta de Mircovich (voce, rebecca, symphonia, arpa e organo portativo), Ella de Mircovich (voce, arpa, chitara teutonica), Doron D. Sherwin (voce, cornetto e percussioni), Mauro Morini (tromba), Claudia Pasetto (viella), Elena Bertuzzi (voce), ci affascinano con il loro virtuosismo, offrendo atmosfere di grande seduzione sonora, che, dalle suggestive polifonie primitive, si evolvono fino agli elaborati intrecci del Trecento arsnovistico, e oltre. Franco Bruni

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