Medioevo n. 249, Ottobre 2017

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DIOEVO ME

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

IV E RS A R

www.medioevo.it

BACONE

In viaggio nell'Alto Medioevo

L'uomo che anticipò Leonardo

MARTIN LUTERO

LA PROTESTA CHE CAMBIÒ IL MONDO

♦ OTTOBRE 1517: LA RIVOLTA CONTRO ROMA ♦ L'INVENZIONE DEL PURGATORIO

€ 5,90

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SAN COLOMBANO A BOBBIO DOSSIER MARTIN LUTERO

Mens. Anno 21 numero 249 Ottobre 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

RUGGERO BACONE LA REGINA DI SABA ARCIPRETI DELLA PENNA

BOBBIO

NN

IN EDICOLA IL 3 OTTOBRE 2017

MEDIOEVO n. 249 OTTOBRE 2017

DE LL IL M A RE IS GI TE NA R DI O SA BA

EDIO VO M E A

IO



SOMMARIO

Ottobre 2017 ANTEPRIMA

LUOGHI

ANIMALI MEDIEVALI T’amo, o pio bove...

5

ITINERARI Trentino longobardo

6

MUSEI Il chiostro delle meraviglie

12

MOSTRE Una devozione secolare

18

APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

24

STORIE PERSONAGGI Ruggero Bacone

Genio, ma non troppo di Roberto Del Monte

34

34

GRANDI FAMIGLIE Arcipreti della Penna

L’imperatore e la bella Pennina di Sonia Merli e Andrea Margaritelli

46

COSTUME E SOCIETÀ ICONOGRAFIA Regina di Saba

Vergine nera

di Lorenzo Lorenzi

54

MEDIOEVO NASCOSTO Bobbio In viaggio con Colombano di Furio Cappelli

66

CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Piatti pieni di vizi e virtú

104

LIBRI Lo scaffale

108

MUSICA In Oriente con frate Guglielmo 112

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Dossier

MARTIN LUTERO La protesta che cambiò il mondo di Aart Heering

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DIOEVO ME

IV E RS A R

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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MEDIOEVO n. 249 OTTOBRE 2017

DE LL IL M A RE IS GIN TE A RO DI SA BA

MEDIOEVO A

18/09/17 14:39

MEDIOEVO Anno XXI, n. 249 - ottobre 2017 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Roberto Del Monte è storico dell’arte. Cristina Ferrari è archeologa e giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Aart Heering è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Lorenzo Lorenzi è storico dell’arte. Andrea Margaritelli è direttore della Fondazione Guglielmo Giordano di Perugia. Sonia Merli è storica del Medioevo. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: p. 5; AKG Images: copertina (e p. 88) e pp. 40/41, 83, 84 (alto), 85, 89 (sinistra), 90, 90/91, 92-93, 96-97, 100/101; AGE: pp. 36/37; Leemage: pp. 37, 50 (basso), 98; Rue des Archives/PVDE: p. 38; Electa: pp. 40, 42/43; Electa/ Sergio Anelli: pp. 54/55, 56, 58-59; Album: pp. 84 (basso), 87 – Cortesia Ufficio Stampa Castello del Buonconsiglio, Trento: pp. 6, 7 (alto), 10 – Cortesia Pillow Lab/ Consorzio Turistico Piana Rotaliana Königsberg: pp. 8/9 – Museo Diocesano Tridentino, Trento: p. 9 – Cortesia Museo Diocesano, Brescia: pp. 12-16 – Cortesia Ufficio Stampa Museo nazionale, Zurigo: pp. 18, 20 – Doc. red.: pp. 34-35, 52/53, 56/57, 60-61, 63, 66/67, 68, 79, 80, 103-105, 106 – Bridgeman Images: pp. 38/39 – Cortesia degli autori: pp. 46-49, 50 (alto), 52, 53 – DeA Picture Library: p. 51; G. Nimatallah: pp. 106/107 – Shutterstock: pp. 62, 62/63, 64, 73 (basso), 80/81, 91, 94-95, 98/99 – Cortesia Comune di Bobbio: per gentile concessione di Gian Luigi Olmi: p. 69 – Marka: Danilo Donadoni: pp. 70-71, 73 (alto), 78; OSP_milla74: p. 72 – Alamy Stock Photo: Nicola De Caro: p. 74; NMUIM: p. 89 (destra) – Archivi Alinari, Firenze: Archivio SEAT: p. 75-77 – Wartburg-Stiftung, Eisenach: p. 102 – Patrizia Ferrandes: cartina p. 68. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l. Direttore generale: Andrea Ferdeghini Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Concessionaria per la pubblicità extra settore: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it Pubblicità di settore: Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com

Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

In copertina Ritratto di Martin Lutero, olio su tavola della bottega di Lucas Cranach il Vecchio. 1528. Wittenberg, Lutherhaus.

Direzione, sede legale e operativa: Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI)

Nel prossimo numero storie

medioevo nascosto

immaginario

dossier

Andrea Cappellano e il trattato De amore Il mito del bambino «scambiato»

S. Andrea in Flumine

La nascita della Confederazione Elvetica


ANIMALI MEDIEVALI a cura di Federico Canaccini

T’amo, o pio bove...

C’

è un bue, nell’iconografia medievale, che ha segnato in gran parte i destini di questo animale: è quello che compare, accanto a un asino, nella capanna di Betlemme, dietro alla Sacra Famiglia. I teologi dell’età di Mezzo non tardarono a interrogarsi sulla presenza di questa coppia, dando risposte spesso contraddittorie. Perché è lí? Perché proprio questi due animali? Hanno fatto il viaggio insieme a Maria e Giuseppe? Sono a Gerusalemme per il grande censimento che, oltre ai cittadini, prevedeva allora anche gli animali? Insieme ai quesiti, abbondano le letture teologiche: il bue rappresenta il buon ladrone, l’asino quello cattivo; il bue rappresenta i pagani – spesso adoratori di vitelli aurei –, mentre l’asino gli Ebrei, duri di cervice; ma si può incontrare anche l’esatto opposto, con motivazioni altrettanto fantasiose. Solitamente, però, il bue supera il somaro in quanto piú laborioso, piú paziente, piú mansueto, e tale distinzione trova conferma nell’iconografia che mostra il primo mentre alita il suo calore sul bimbo, mentre il secondo, piú egoista, è spesso girato dall’altro lato, intento a mangiare il fieno. Entrambi sono comunque accomunati al Cristo, in quanto, vittime innocenti, subiscono le vessazioni degli uomini quando li costringono al pesante lavoro. Ed è questa l’immagine giunta sino a noi: non dimentichiamo il bue di san Luca, che rappresenta il lavoro, la pazienza e la sofferenza culminata nel sacrificio di Cristo. Il bue ha qualità indubbie, prima fra tutte la straordinaria capacità di prevedere le variazioni del tempo: è il meteorologo di fiducia dei contadini del Medioevo! Se lo si osserva con attenzione, si dirige alla stalla poco prima che inizi la tempesta, e ne esce ancor prima che spunti l’arcobaleno. Anche la vacca possiede questo dono e va ascoltata e studiata: se alza la coda tre volte, verrà una grandinata; se muggisce quattro volte di fila, un temporale è in avvicinamento! Quando in autunno termina la gestazione e la vacca partorisce, anche il numero dei vitelli è indice di previsioni del tempo: due vitelli significano un inverno piovoso, uno assicura un inverno mite e breve. La sua indole focosa si esprime nell’appetito sessuale: non a caso, vacca, cagna, maiala e cavalla – tutte bestie con questa peculiarità nei bestiari medievali – sono termini che, in un colorito linguaggio zoo-erotico, tuttora sottolineano questo aspetto. Al toro, infine, è toccato un destino curioso: se nell’antichità era celebrato dai Cretesi, nel Vicino Oriente e, nei primi secoli dell’era cristiana, anche dai Romani, adoratori del dio Mitra, i cristiani, in competizione col culto mitraico, ne demonizzarono l’immagine fino ad associarlo al demonio, eliminandolo quasi totalmente dai successivi Bestiari. Da questa campagna diffamatoria nascono alcune immagini di Satana con attributi taurini. Nel corso dei secoli, si creò cosí l’enorme divario tra il toro, mitraico e demoniaco, e il bue, sempre piú cristiano e mansueto. Riflessioni esegetiche medievali alla luce delle quali la poesia Il bove, composta da Giosuè Carducci nel 1872, assume un altro sapore: «T’amo, o pio bove; e mite un sentimento / di vigore e di pace al cor m’infondi, o che solenne come un monumento / tu guardi i campi liberi e fecondi, o che al giogo inchinandoti contento / l’agil opra de l’uom grave secondi: ei t’esorta e ti punge, e tu co ’l lento / giro de’ pazïenti occhi rispondi. Da la larga narice umida e nera / fuma il tuo spirto, e come un inno lieto il mugghio nel sereno aer si perde; / e del grave occhio glauco entro l’austera dolcezza si rispecchia ampïo e quïeto / il divino del pian silenzio verde».

Firenze, Palazzo Medici Riccardi, Cappella dei Magi. Veglia dei Pastori, particolare degli affreschi di Benozzo Gozzoli. 1459-1460.


ANTE PRIMA

Trentino longobardo ITINERARI • Sulla presenza del popolo

germanico nelle terre a ridosso delle Alpi si hanno poche notizie, ma, in compenso, una ricca documentazione archeologica. Che si può oggi ammirare nel Castello del Buonconsiglio

«I

n quei giorni arrivarono i Franchi e il castrum Anagnis [Nanno, n.d.r.], che è posto sopra Trento al confine d’Italia, si consegnò loro. Per questa ragione, il conte dei Longobardi di Lagare [in Vallagarina], chiamato Ragilone, si recò sul posto e depredò Anagnis. Ma mentre tornava con il bottino, fu ucciso con molti dei suoi dal duca dei Franchi Chramnichis, che gli si parò contro nel Campo Rotaliano. Lo stesso Chramnichis, non molto tempo dopo, venne a Trento e la devastò. Ma il duca

di Trento Evin lo inseguí e lo uccise con i suoi compagni nella località detta Salorno, riprendendo tutta la preda che quello aveva fatto. E cacciati i Franchi, recuperò il territorio di Trento». Con queste parole, Paolo Diacono, il grande storico dei Longobardi vissuto nell’VIII secolo, racconta lo scontro che si tenne, nel 577 (o 576), nella piana Rotaliana, tra le odierne Mezzocorona e Mezzolombardo, in Trentino. L’evento si inquadra in un momento difficile per il regno longobardo. Dopo aver dilagato in buona parte della Penisola (i Longobardi vi erano entrati nel 568 dalle Alpi Giulie), re Alboino aveva organizzato le conquiste, installando, nelle città principali, guarnigioni militari al comando dei duchi, allo scopo di controllare il territorio. In alto e a sinistra fibule longobarde in oro e in bronzo dorato, da Brez (Alta Val di Non, Trento). Seconda metà del VI sec. Trento, Castello del Buonconsiglio.

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Sia lui che il suo figlio e successore, Clefi, erano però stati assassinati, aprendo per il neocostituito regno una stagione di grande instabilità. Per un decennio, incapaci di eleggere un sovrano di comune accordo, i duchi agirono autonomamente, scontrandosi ora con i Bizantini, ora con i Franchi, che controllavano saldamente le Alpi Centrali, ma avevano tutta l’intenzione di estendere la loro influenza anche verso la Pianura Padana.

Un presidio strategico Il raid compiuto in Val d’Adige nel 575-577 da Chramnichis si concluse con un nulla di fatto grazie all’abilità di Evin, che riuscí a sconfiggere i Franchi nella Bassa Atesina, recuperando il bottino e il pieno controllo del territorio. Ma dimostra come il ducato di Trento fosse sin da subito considerato, proprio per via della sua posizione a ridosso delle Alpi, di grande importanza strategica, in quanto margine tra la nuova compagine longobarda e il regno transalpino dei Franchi, all’epoca in vigorosa ascesa. La narrazione di Paolo Diacono è l’unica fonte scritta che ci informi riguardo ai fatti longobardi in Trentino: del tutto perduto (a parte dodici righe manoscritte ottobre

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presenti in un codice dell’VIII secolo conservato a Stoccarda) è infatti il resoconto del principale testimone, Secondo di Non, che però Paolo lesse e utilizzò abbondantemente. Sappiamo cosí che Trento era tra i 35 ducati costituiti subito dopo la conquista. Lo spazio riservato a Evin, l’eroe di Salorno, riconosce al

duca una personalità di notevole spessore: in effetti, sposando una delle figlie del duca di Bavaria, Garibaldo (il cui nome non ci è noto), inaugurò quell’alleanza antifranca con il ducato transalpino che, corroborata di lí a poco dalle nozze di Autari – il re scelto nel frattempo dai Longobardi per porre fine al decennale interregno – con Teodolinda, altra figlia di Garibaldo, avrebbe influenzato profondamente il destino politico del regno.

I castra nel mirino dei Franchi Tra il VI e il VII secolo il Trentino compare piú volte nella cronaca di Paolo come protagonista. Nel 590, a seguito dell’accordo fra l’imperatore bizantino Maurizio e i Franchi teso all’eliminazione del regno longobardo, un esercito scese d’Oltralpe in Italia e attaccò la regione, conquistando una serie di castra – Tesana (Tesimo), Maletum (Meltina), Sermiana (Sirmiano), Appianum (Appiano), Fagitana (Fadana), Cimbra (Cembra), Vitianum (Vezzano), Bremtonicum (Brentonico), Volaenes (Volano), Ennemase (forse Castelfeder presso Egna, oppure San Martino di Lomaso), piú due in Valsugana e uno nel Veronese –, abbattendone le mura e deportandone gli abitanti

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ottobre

DOVE E QUANDO

Castello del Buonconsiglio Trento, via Bernardo Clesio 5 Orario fino al 5 novembre: ma-do, 10,00-18,00; altro periodo: ma-do, 9,30-17,00; chiuso tutti i lunedí non festivi, il 25 dicembre e il 1° gennaio Info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it

Crocetta in lamina d’oro con decorazione antropomorfa. VII sec. Trento, Castello del Buonconsiglio. come schiavi. Si salvò solo il castello di Ferruga (forse sul Doss Trento), la cui popolazione poté riscattarsi, grazie all’intercessione dei vescovi Ingenuino di Sabiona e Agnello di Trento, pagando una cifra che variava da 1 a 600 solidi a testa. Mentre erano in corso le trattative,

Errata corrige con riferimento all’articolo È tempo di Giochi (vedi «Medioevo» n. 248, settembre 2017) desideriamo precisare che le immagini alla p. 50 non si riferiscono alla corsa con il somaro che si disputa nell’ambito dei Giochi de le Porte e che il Polittico di Niccolò di Liberatore, detto L’Alunno (1471), conservato nel Museo Civico di Gualdo Tadino è quello che qui pubblichiamo e non quello riprodotto a p. 59 del suddetto articolo. Del tutto ci scusiamo con gli autori dell’articolo, con gli organizzatori della manifestazione gualdese, con il fotografo Daniele Amoni e con i nostri lettori.

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ANTE PRIMA Il ritorno dei Longobardi Alla battaglia del 577 è ispirato l’evento «A.D. 577-I Longobardi nel Campo Rotaliano», in programa a Mezzolombardo (Trento) dal 6 all’8 ottobre. La manifestazione, organizzata dalla Pro Loco e dall’Associazione Castelli del Trentino, in collaborazione con Perceval Archeostoria, si articola in due momenti distinti. Dopo l’inaugurazione di venerdí 6 ottobre, alle 20,00, in Sala Spaur, con la proiezione del film L’Italia dei Longobardi, il 7 mattina (dalle 9,00 alle 13,00) si tiene un convegno internazionale di studi, affidato alla curatela scientifica del professor Giuseppe Albertoni, dell’Università di Trento, con l’intervento di noti docenti e studiosi. La seconda parte della manifestazione, ideata e curata dalla medievista Elena Percivaldi per il format «Alla scoperta dei Longobardi» (www.ilongobardi.jimdo.com), si svolge in Località Piani di Mezzolombardo: la rievocazione vede la Scuola di Scherma Storica Fortebraccio Veregrense e il gruppo Bandum Freae proporre momenti di vita quotidiana, spettacoli, laboratori didattici, musica e dimostrazioni di armi. Completano l’evento due mostre e una cena longobarda su prenotazione. La rivista «Medioevo» è media partner dell’iniziativa. Per informazioni e programma: www.ad577.wordpress.com, www.facebook.com/Ad577.Longobardi; e-mail: associazionecastelli@libero.it; tel. 349 6892619.

Autari morí a Pavia, avvelenato. Teodolinda, con l’avallo dei saggi, scelse come nuovo consorte il duca di Torino, Agilulfo; poco dopo, alla corte pavese si stabilí il già citato Secondo di Non, monaco di grande cultura, rafforzando ulteriormente il legame tra la corona e l’area trentina garantito dalla fedeltà di Evin. Di origine romanza, Secondo fu infatti

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consigliere spirituale della regina e non solo battezzò, nel 602, il figlio della coppia regnante, Adaloaldo, nella chiesa di S. Giovanni Battista di Monza, ma mantenne fitti rapporti epistolari con Gregorio Magno, che stava collaborando con i sovrani alla conversione dei Longobardi al cattolicesimo. Agilulfo inviò Agnello in Francia

a trattare la liberazione di altri ostaggi trentini a ulteriore riprova della volontà, da parte dei sovrani, di mantenere stretti i rapporti con la Val d’Adige. Intanto, però, alla morte del volitivo Evin († 595) il ducato di Trento era passato a Gaidoaldo, personalità piú debole e meno autonoma rispetto alla corona: questa circostanza, unita ottobre

MEDIOEVO


A sinistra la Piana Rotaliana, vista da Mezzolombardo. È questo il probabile teatro della battaglia combattuta nel 577. Gundoaldo, duca di Asti e fratello di Teodolinda, quindi apparteneva alla dinastia bavarese cattolica: la sollevazione di Alahis va dunque interpretata come espressione del progressivo malessere, da parte dei territori dell’Austria (la parte orientale del regno comprendente il Veneto, il Trentino e il Friuli), nei confronti della politica della corona, giudicata troppo compromissoria con il papato e i Bizantini; essi promuovevano invece la ripresa dell’espansione e, probabilmente, anche forme di resistenza all’assimilazione religiosa e culturale in atto tra Longobardi e romanici.

La ribellione dell’Austria Alahis aprí le ostilità guastando l’alleanza con i Bavaresi, i quali con il beneplacito della monarchia avevano intanto esteso la loro influenza sulla zona altoatesina: attaccò il «gravio» (conte) di Bolzano e lo sconfisse. Pertarito reagí assediando Alahis

alla scomparsa di Secondo di Non († 612), sprofondò il Trentino nel silenzio delle fonti per un sessantennio circa. Le cronache tornano a occuparsene intorno al 680, quando il duca Alahis – definito dal Diacono «filius iniquitatis» – si ribella contro re Pertarito e il figlio Cuniperto, da lui appena associato al trono. Petrarito era nipote di

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ottobre

a Trento, ma il duca ribelle riuscí a contrattaccare il re costringendolo a una fuga umiliante. A questo punto Cuniperto, che ben conosceva Alahis per via della comune frequentazione in gioventú della corte pavese, intervenne come mediatore, ottenendo per lui il ducato di Brescia. La riappacificazione fu solo momentanea, perché alla morte di Pertarito, nel 688, Alahis si sollevò di nuovo chiamando a raccolta i bresciani Aldo e Grauso e altri nobili longobardi. Approfittando dell’assenza di Cuniperto da Pavia, il duca si impadroní del palazzo, sede e simbolo dell’autorità regia, poi si diede a perseguitare il clero e a comportarsi come un tiranno, inducendo i suoi stessi sostenitori ad abbandonarlo. La vicenda si chiuse a Cornate d’Adda (oggi in provincia di Milano) con la sconfitta e l’uccisione di Alahis, il cui cadavere fu decapitato e reso informe. La vittoria di Cuniperto, avvenuta secondo Paolo «con l’aiuto di Dio», segnò il trionfo della dinastia bavarese cattolica e il ridimensionamento politico

Frammento di pluteo (o paliotto) con grifo. Seconda metà dell’VIII sec. Trento, Museo Diocesano Tridentino.

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ANTE PRIMA Corredo della tomba femminile di Civezzano (Trento). Inizi del VII sec. Trento, Castello del Buonconsiglio. Tra i pezzi, una coppia di orecchini in oro con pendenti in ametista, resti dei broccati d’oro che adornavano la veste, uno spillone in oro e argento, un bracciale (o collana), una coppia di guarnizioni in bronzo dorato, un recipiente in bronzo e una crocetta aurea finemente lavorata. dell’area nord-orientale del regno, che tornò protagonista solo verso la metà del secolo successivo, durante la reggenza di Ratchis e poi di Astolfo (749-756): ma il suo cuore pulsante fu allora il Friuli e non piú il Trentino.

La parola ai reperti Se questi sono i fatti, piuttosto scarni, narrati dalle fonti, a farci conoscere meglio il volto dell’occupazione longobarda in Trentino ci sono per fortuna i reperti archeologici, distribuiti soprattutto nei luoghi strategici e lungo le grandi vie di comunicazione della regione. I piú noti sono quelli di Civezzano, a nord-est di Trento. Qui, il 13 febbraio 1885, lavorando nel loro vigneto in località al Foss, a valle del centro abitato, i fratelli Dorgioni si imbatterono in due tombe della metà del VII secolo: la prima, a fossa semplice, contenente una spada e una fibula di ferro; la seconda, oltre allo scheletro perfettamente conservato di un uomo, presentava

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le decorazioni metalliche della cassa funebre lignea (scomparsa), e molti oggetti di pregio: spada a doppio taglio e scramasax, una punta di lancia, tre punte di freccia, un umbone di scudo da parata e sei borchie dorate, una cintura con guarnizioni ageminate in oro e argento. Il defunto indossava vesti tessute con fili d’oro e una croce in lamina d’oro cucita sul sudario. I reperti finirono al Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, in Austria, dove sono conservati tuttora. Pochi decenni piú tardi, nel 1902, a monte di Civezzano e vicino a Castel Telvana, tornarono alla luce altre sette tombe degli inizi del VII secolo, di cui una femminile (oggi al Castello del Buonconsiglio di Trento). Dell’abbigliamento cerimoniale restano i broccati d’oro, uno spillone in oro e argento, un bracciale (o collana) con perline colorate e le guarnizioni in bronzo dorato appartenenti ai cinturini da calze. Risulta però piú interessante

la coesistenza nella sepoltura di un recipiente in bronzo posto ai piedi della defunta, chiaro simbolo pagano, con la crocetta aurea, emblema cristiano: insieme alla coppia di splendidi orecchini in oro traforato con pendenti in ametista, di foggia bizantina, questi reperti mostrano la commistione di elementi culturali di tradizione germanica e tardo-romani. Altri ritrovamenti sono emersi, in seguito, in alta Valsugana, in Vallagarina, in val d’Adige e in Val di Non, a riprova della fitta presenza, nelle campagne trentine, di insediamenti longobardi (finora non ancora identificati con precisione) governati da un’élite di possessori terrieri. I corredi rappresentano l’ostentazione della loro ricchezza e ne sono lo status symbol, ma, nel contempo, testimoniano il processo di acculturazione in atto, che avrebbe portato anche qui, come negli altri contesti italiani, alla progressiva fusione tra i due popoli. Elena Percivaldi ottobre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Il chiostro delle meraviglie MUSEI • Il Museo Diocesano di Brescia

inaugura, alla fine di ottobre, il nuovo allestimento della sezione dedicata alla raccolta di codici miniati. Un tassello importante, che arricchisce il patrimonio della collezione riunita a partire dal 1978 nell’ex convento di S. Giuseppe

N

el 1978, l’allora vescovo di Brescia, monsignor Luigi Morstabilini, osservava che: «Stante il problema di alcune chiese non piú utilizzate, esistono difficoltà nella conservazione di beni antichi, e si crei un museo». L’invito si trasformò in una realtà concreta il 23 dicembre dello stesso anno, quando, nei primi due chiostri dell’ex complesso conventuale francescano di S. Giuseppe, nacque il Museo Diocesano di Brescia, appunto con lo scopo di raccogliere e preservare le opere d’arte provenienti da tutto

A destra reliquiario Gambara, opera di argentiere romano realizzato in ebano e argento. Metà del XVI sec.

A sinistra Madonna con il Bambino e san Girolamo, olio su tela del Moretto (al secolo Alessandro Bonvicino). 1535-1540.

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il territorio della Diocesi, soprattutto da edifici religiosi non piú officianti. Nel frattempo, iniziava il recupero del complesso. L’ex convento, costruito a partire dal 1516 come proprietà dei Frati Minori Francescani e arrivato a rivestire un ruolo di primaria importanza nella vita sociale, religiosa e culturale della città, conobbe, nei secoli, soppressioni e restituzioni, fino a che non venne definitivamente soppresso con le leggi Siccardi che incorporavano i beni della Chiesa nel Demanio. Con l’acquisto del terzo chiostro (il chiostro maggiore), alla ottobre

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fine degli anni Ottanta le collezioni venivano finalmente spostate in una sede piú idonea e prestigiosa; il nuovo Museo Diocesano venne inaugurato nel 1995, con una mostra dedicata all’arte del Rinascimento. In questi ultimi anni, la raccolta, che si sviluppa al primo piano del chiostro maggiore, è stata oggetto di un nuovo riallestimento.

Il progetto espositivo «La scelta è stata di non dividere il Museo in sezioni – spiega il direttore, don Giuseppe Fusari –, ma di creare un’esposizione unitaria, un allestimento in cui le opere d’arte (tessuti liturgici, codici miniati, dipinti, sculture, oreficerie) possano dialogare l’una con l’altra e con i visitatori. Le opere sono viste nella loro fenomenologia religiosa e nel loro utilizzo quotidiano: in chiesa, infatti, si trovano insieme quadri e statue e, durante la funzione, il sacerdote indossa le vesti liturgiche e utilizza il calice in un rapporto continuo e unitario. L’unica eccezione riguarda i codici miniati, raccolti in un’apposita sezione, per motivi conservativi». Attualmente, il Museo Diocesano ospita anche alcuni quadri della Pinacoteca Tosio Martinengo, in riallestimento, tra cui capolavori dei pittori bresciani Alessandro Bonvicino, detto il Moretto, e Gerolamo da Romano, detto il Romanino. «Speriamo che la collaborazione con i Musei Civici di Brescia possa continuare anche dopo la riapertura della Pinacoteca – continua don Fusari – per poter esporre nuove opere in deposito e/o che non troveranno collocazione. Il Museo Diocesano è infatti un museo vivo, in perenne evoluzione che, oltre alle collezioni permanenti, presenta opere in continua rotazione e mostre temporanee, per far conoscere un patrimonio molto ricco e mai scontato. E non solo per la Chiesa ma anche per la città e il suo territorio». Le opere attraversano la storia di

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In alto Sposalizio mistico di santa Caterina, tempera su tavola di scuola veneto-cretese. Metà del XVI sec. A sinistra Ecce Homo, olio su pietra di pittore veneziano, dalla chiesa parrocchiale di S. Giorgio a Mocasina. XVI sec.

Brescia, in un percorso ideale che parte dalla fine del XIV secolo e arriva alla fine dell’Ottocento. La collezione piú ricca comprende le vesti liturgiche, con oltre 600

pezzi, databili tra la fine del XV e l’inizio del XIX secolo Nella galleria è possibile ammirare pianete (dette anche casule), ovvero le vesti dei sacerdoti, e tunicelle, utilizzate dai

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ANTE PRIMA Codici per un anno I 18 codici del Birago conservati nel Museo Diocesano di Brescia formano un ciclo completo per l’Anno Liturgico. «Si tratta di un caso rarissimo – spiega don Fusari – che testimonia le ambizioni e la grande disponibilità economica del Capitolo della Cattedrale di Brescia: tali libri musicali, infatti, avevano una durata di vita molto lunga e di conseguenza i cicli completi erano generalmente composti da codici di epoche diverse. Invece il ciclo bresciano è caratterizzato da continuità progettuale e artistica, essendo stato interamente realizzato dal Birago (e da altri miniatori, sotto la sua direzione)». Un altro indizio della preziosità dei corali è l’assenza di «scritture d’uso», appunti e note degli utilizzatori che si trovano talvolta sulle pagine di codici meno pregevoli: il riguardo osservato nei loro confronti indica che si trattava di libri il cui unico scopo non era certo solo il riportare la musica, ma considerati vere e proprie opere d’arte. Nei secoli, con l’evolvere delle pratiche liturgico-musicali, soprattutto dopo il Concilio di Trento (1545-1563), i codici persero di importanza pratica, e vennero utilizzati sempre piú raramente.

In questa pagina miniature che ornano i codici del Birago. Dall’alto: Ritrovamento della Santa Croce (Corale n. 12, Antifonario notturnale e diurnale, con i canti del Proprio dei Santi), Incoronazione delle Sante Vergini (Corale n. 13: Antifonario notturnale e diurnale, con i canti del Comune dei Santi), Giovane musicante (Corale n. 17: Antifonario notturnale e diurnale, con i canti del periodo tra le feste di San Michele Arcangelo e di San Clemente I papa).

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diaconi, esposte in ordine cronologico per evidenziare l’evolversi del gusto e le diverse tipologie decorative. «La particolarità – spiega il direttore del Museo – è dovuta al fatto che quasi tutti i paramenti sacri sono infatti realizzati riutilizzando abiti civili, in particolare delle dame. I tessuti, tutti di altissima qualità, erano confezionati con sete e fili d’oro e d’argento in Francia

(soprattutto a Lione) e a Venezia, che rappresentavano i principali poli produttivi d’Europa. Di conseguenza, i paramenti non presentano decorazioni squisitamente religiose, ma soprattutto floreali e vegetali, importanti per il loro significato simbolico: dovevano infatti ottobre

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sottolineare la dignità della loro funzione. Motivi piú prettamente religiosi si trovano invece nelle decorazioni realizzate a ricamo, aggiunte successivamente ai tessuti, tra cui va ricordata una magnifica croce di manifattura germanica della metà del 1400, raffigurante l’Adorazione dei Magi. Tale ricamo si trova applicato sulla parte posteriore della pianeta, in quanto il sacerdote celebrava la messa rivolto verso l’altare, dando la schiena ai fedeli».

Artisti bresciani e veneziani La galleria comprende circa un centinaio di quadri, soprattutto di artisti bresciani e veneti. «Per quanto riguarda il XVI secolo, vanno citate opere del Moretto (le ante d’organo dalla chiesa di S. Pietro in Oliveto e tre tavolette dalla chiesa dei Ss. Nazaro e Celso) e del Romanino (una Madonna con Bambino e un San

Girolamo). Splendide sono anche le raccolte del XVII e XVIII secolo che accolgono, fra le altre, pale d’altare recuperate da depositi di Chiese, e testimoniano il gusto e la ricchezza dell’epoca. Oltre ai maggiori pittori bresciani, sono esposte opere dei veneziani Andrea Celesti (tra cui una Santa Rosa da Lima, datata 1698) e di Giovanni Battista Pittoni (una Madonna con Bambino e Santi del 1737, proveniente dalla chiesa di S. Giorgio)». Da quest’ultima chiesa, ricchissima, situata di fronte al Museo stesso, nell’omonima piazzetta, provengono numerose opere, rimaste anche dopo la riapertura dell’edificio sacro, in

quanto sarebbero state collocate in luoghi inaccessibili ai visitatori: «in questo modo abbiamo creato un ulteriore percorso ideale, tra il Museo e la Chiesa che diventano complementari tra loro». Ben rappresentate sono anche le suppellettili liturgiche, che comprendono croci astili e da tavolo, calici e reliquari, in particolare il «Calice di Pontevico» in oro, argento e pietre preziose dell’orefice milanese Carlo Grossi. «La sezione dedicata ai codici miniati, che verrà inaugurata alla fine di questo mese, in un allestimento totalmente rinnovato, comprende 22 codici, databili tra

Orsola e le sue compagne L’opera piú importante conservata nel Museo Diocesano di Brescia è il Trittico di Sant’Orsola (datato intorno alla prima metà del 1400) del pittore veneziano Antonio Vivarini (probabilmente realizzato in collaborazione col fratello Bartolomeo), che coniuga il mondo del tardo gotico con le prime novità rinascimentali accolte in laguna, in ritardo rispetto all’area toscana. Commissionata per la chiesa di S. Pietro in Oliveto, l’opera, è composta da tre tavole, di cui quella centrale rappresenta sant’Orsola con le sue compagne (tema ripreso anche dal Moretto nel quadro conservato nella chiesa di S. Clemente), mentre sulle laterali sono raffigurati i santi Pietro e Paolo. In origine l’opera doveva comprendere almeno altri due pannelli, per armonizzare la postura dei santi e i colori dei gradini su cui poggiano, in una perfetta corrispondenza simmetrica, ma il polittico risulta smembrato già nel 1600.

In alto croce a ricamo con l’Adorazione dei Magi. Manifattura germanica, metà del XV sec. Il ricamo è applicato sulla parte posteriore di una pianeta, in quanto il sacerdote celebrava la messa rivolto verso l’altare, dando la schiena ai fedeli.

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ANTE PRIMA Madonna con il Bambino (o Madonna di Calvagese), olio su tela di Girolamo Romanino, dalla chiesa parrocchiale della Cattedra di san Pietro a Calvagese. Prima metà del XVI sec.

la seconda metà del XII (il Codice Capitolare 13, un libro liturgico musicale che riporta l’Officiatura dei santi Faustino e Giovita, patroni della città) e il XVI secolo. Un corpus importante è il gruppo dei codici realizzati per il vescovo Giacomo degli Atti negli anni Quaranta/ Cinquanta del 1300, che raccolgono soprattutto opere di san Tommaso d’Aquino (Summa Theologica e Summa contro Gentiles), miniati in uno scriptorium bolognese e in uno francese (probabilmente parigino). Di particolare importanza è il codice della Maregola di Collio, commissionato dalla Confraternita dei Santi Antonio Abate Faustino e Giovita di Memmo di Collio (Valtrompia) e datato 1523, con le prime due pagine miniate dal pittore bresciano Floriano Ferramola, maestro del Moretto». A questi verranno aggiunti altri 18 preziosi codici provenienti dal Capitolo della Cattedrale di Brescia (S. Maria Maggiore de Dom, nota come il Duomo Vecchio). «Tali codici, corali realizzati tra il

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1469 e il 1474, sono il capolavoro giovanile del miniaturista lombardo Giovanni Pietro Birago, già noto come “Maestro del libro d’orazioni di Bona Sforza di Savoia”, o come “Pseudo Antonio da Monza”, nonché l’unica testimonianza sicura della sua attività giovanile, e potrebbero essere definiti come una vera e propria “Cappella Sistina della miniatura lombarda”».

Legature originali «In realtà, i codici risultano già scritti in parte nel 1463, e solo successivamente sono stati decorati dal Birago, che realizzò le iniziali maggiori e molte delle minori (istoriate, figurative e decorate), oltre ai fregi, e da altri ignoti miniatori (tra i 4 e i 7), probabilmente tutti di area lombarda; per la preziosità della loro decorazione rappresentano una splendida testimonianza della miniatura oltre che, per i contenuti, delle pratiche musicali e liturgiche dell’epoca». I corali conservano inoltre le loro legature originali, quasi tutte realizzate da Filastro

de’ Passeri. Tutti i codici verranno inoltre digitalizzati: «Con il nuovo allestimento sarà installato il “tavolo degli studiosi”, una postazione dove si potrà sfogliarli pagina per pagina e, naturalmente, studiarli. Ma per far questo non sarà necessario arrivare a Brescia: è in progetto infatti di inserire le versioni digitali on line, perché siano fruibili in tutto il mondo». Grazie alla convenzione quadro firmata con la Fondazione Brescia Musei, il Museo Diocesano riceverà inoltre in deposito a lungo termine altri 17 splendidi corali (11 antifonari e 6 graduali) riccamente miniati. «Sono codici databili intorno al 1490, provenienti dalla chiesa di S. Francesco, e commissionati dal Generale dell’Ordine, frate Francesco Sansone, che aveva intrapreso grandi lavori di rinnovo e arricchimento del complesso conventuale, cercando anche di far dipingere la pala dell’altare maggiore da Leonardo da Vinci. Sono splendidamente decorati con miniature a piena pagina, figurative e con decorazione intorno, e piú piccole, decorative, soprattutto a motivi floreali, e un grande utilizzo della foglia d’oro lucidata a pietra d’agata, a testimonianza della ricchezza della committenza. I corali sono opera di un atelier del Nord Italia, estremamente raffinato»; vari studiosi li riconducono a Iacopo Filippo de’ Medici d’Argenta e ai suoi collaboratori, mentre la Natività dell’antifonario 2 viene da alcuni attribuita al giovane Girolamo Dai Libri. Cristina Ferrari DOVE E QUANDO

Museo Diocesano Brescia, via Gasparo da Salò 13 Orario tutti i giorni, mercoledí escluso, 10,00-12,00 e 15,00-18,00 Info tel. 030 40233; e-mail: museo@diocesi.brescia.it http://web.diocesi.brescia.it ottobre

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Una devozione secolare

MOSTRE • Il Museo nazionale di Zurigo ripercorre la lunga storia dell’abbazia

di Einsiedeln, luogo di culto nato dall’umile cella di san Meinrado e trasformatosi in un potente polo d’attrazione dopo la sua «consacrazione angelica»

L’

abbazia di Einsiedeln, oggi nel cantone svizzero di Svitto, una cinquantina di chilometri a sud di Zurigo, è un’importante meta di pellegrinaggio, che, dal XIII secolo a oggi, ha accolto fedeli provenienti da ogni parte del mondo. Nel corso di una storia plurisecolare, la struttura originaria ha subito ripetuti rimaneggiamenti e cosí oggi, al posto del modesto eremo in cui visse Meinrado attorno all’860, si può ammirare la chiesa abbaziale in tutta la sua pompa barocca. Questo centro spirituale è stato investito di privilegi e ha ricevuto doni e offerte

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da papi, imperatori, re e semplici cittadini, uomini e donne. La mostra che si tiene nel nuovo edificio del Museo nazionale, frutto di una stretta collaborazione con l’abbazia, racconta i retroscena storici e politici, la venerazione di Maria e il ruolo di primo piano che il monastero riveste tuttora come meta di pellegrini.

Vittima dei briganti Gli esordi di Einsiedeln come sede monastica e catalizzatrice di pellegrini risalgono al IX secolo e alla figura di san Meinrado, il quale, secondo la leggenda, morí nell’861

L’abbazia di Einsiedeln intorno al 1840/1850. Olio su tavola. Einsiedeln, Collezione d’arte dell’abbazia. per mano di due briganti. Nei luoghi in cui il santo visse e operò venne fondato nel 934 un monastero benedettino, che già dopo breve tempo aveva intessuto una notevole rete di relazioni. Grazie al sostegno dell’imperatore Ottone I, l’abbazia divenne un centro religioso di importanza sovraregionale. A partire dall’Alto Medioevo, la cappella – eretta in onore di (segue a p. 20) ottobre

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ANTE PRIMA

In alto veste in seta donata alla Madonna Nera da una coppia coreana, in segno di gratitudine per aver visto esaudito il loro desiderio di avere un bambino. A sinistra un particolare dell’allestimento della mostra nel Museo nazionale di Zurigo. Meinrado sul luogo in cui sorgeva in origine la sua cella di eremita – diventò meta di pellegrini. All’origine della particolare devozione riservata a questo luogo era soprattutto la sua «consacrazione angelica»: secondo questa tradizione, divulgatasi a partire dal XII secolo, sarebbe stato Cristo stesso a consacrare la cappella. La leggenda prese forza in virtú di un documento – in realtà contraffatto – attribuito a papa Leone VIII. A partire dal XIII secolo, a diventare oggetto di venerazione fu la statua della Madonna presente nella cappella. I pellegrini erano attirati principalmente dalla cosiddetta immagine miracolosa: una statua della Vergine rivestita di una cappa, con il Bambino in braccio, chiamata «Madonna Nera». A implorare la Madonna di Einsiedeln perché concedesse loro protezione, aiuto e salute, erano non solo semplici cittadini, ma anche nobili provenienti dai Paesi confinanti, che nutrivano una particolare affezione per quel luogo. I doni, le offerte, gli ex voto erano di conseguenza numerosi, e vengono conservati tuttora in memoria di quanti hanno già compiuto il cammino di pellegrinaggio. Si tratta di oggetti della piú svariata natura,

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dalle semplici tavole votive dipinte fino a sontuosi calici d’oro.

Dalle razzie alla rinascita L’abbazia è sopravvissuta a numerosi incendi e, anche grazie all’attrattiva esercitata sui pellegrini, a diversi momenti di crisi. Le vicende della Rivoluzione francese e della Repubblica Elvetica determinarono le cesure piú importanti nella storia del monastero, che nel 1798 fu saccheggiato dalle truppe transalpine. Il luogo sacro venne depredato degli oggetti di valore, dipinti e arredi furono distrutti, i

libri mandati al macero e i cavalli dati via. Anche la Cappella delle Grazie fu smantellata pietra per pietra, per impedire la pratica del pellegrinaggio, ma i monaci riuscirono a mettere in salvo per tempo l’oggetto piú sacro e inestimabile, l’immagine miracolosa. Partiti i Francesi, nel 1803 la Madonna fece ritorno ad Einsiedeln, e con lei i pellegrini. Il XIX secolo vide un rinfocolarsi dello spirito devozionale un po’ in tutta Europa, e cosí per Einsiedeln ebbe inizio un nuovo periodo di fioritura. Con lo sviluppo della rete ferroviaria il pellegrinaggio diventò una pratica di massa: intorno al 1830 affluivano ad Einsiedeln circa 30 000 pellegrini all’anno. Oggi sono mezzo milione coloro che ogni anno visitano la cittadina e il monastero. (red.) DOVE E QUANDO

«L’abbazia di Einsiedeln. 1000 anni di pellegrinaggio» Zurigo, Museo nazionale fino al 21 gennaio 2018 Orario ma-do, 10,00,17,00 (giovedí apertura prolungata fino alle 19,00); chiuso il lunedí Info tel. +41 (0)58 4666564; www.landesmuseum.ch ottobre

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ANTE PRIMA

ARABI IN ITALIA GLI

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el solco di una tradizione ormai consolidata, il nuovo Dossier di «Medioevo» affronta con un taglio innovativo un tema sul quale esiste ormai una letteratura pressoché sterminata: sulla presenza islamica in Italia sono state scritte pagine in alcuni casi memorabili, prime fra tutte quelle della monumentale Storia dei musulmani in Sicilia dell’insigne patriota, storico e arabista siciliano Michele Amari (1806-1889), eppure, come Marco Di Branco sottolinea a piú riprese, sono altrettanto ampi gli spazi per letture critiche e proposte di lettura alternative.

Miniatura dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skylitzes, raffigurante una battaglia tra cavalieri bizantini e arabi. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

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IL NUOVO DOSSIER DI MEDIOEVO In particolare, risultano non piú differibili il riesame delle dinamiche che portarono all’avvento dei musulmani nel Meridione della Penisola – frutto di operazioni che non furono semplici «scorrerie» – e la revisione del fin troppo abusato cliché del Saraceno «truce» e «spietato». La presenza degli Arabi in un’ampia porzione del territorio italiano fu insomma un fenomeno articolato e, soprattutto, culturalmente significativo, con ricadute di cui constatiamo ancora oggi l’efficacia, per esempio nei campi della scienza o delle tecniche agricole. Per non dire,

e basterà in questo caso volgere lo sguardo ai magnifici monumenti della Palermo arabo-normanna, delle mirabili realizzazioni in campo artistico e architettonico. Il viaggio nell’Italia musulmana sarà dunque l’occasione per conoscere (o riscoprire) un patrimonio di straordinaria ricchezza, che il Dossier di «Medioevo» illustra in ogni suo dettaglio, offrendo anche inediti elementi di conoscenza, come quelli scaturiti dalle ricerche sul misterioso insediamento del Mons Garelianus e su una enigmatica iscrizione scomparsa…

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AGENDA DEL MESE

Mostre LONDRA GIOVANNI DA RIMINI: UN CAPOLAVORO TRECENTESCO SVELATO National Gallery fino all’8 ottobre

Grazie all’accordo raggiunto con il collezionista newyorchese Ronald S. Lauder, la National Gallery può esporre per la prima volta la magnifica tavola di Giovanni da Rimini con scene delle vite

della Madonna e altri santi. Il museo inglese ha infatti ricevuto in dono il dipinto dallo stesso Lauder, che però, fino a quando sarà in vita, continuerà a detenerlo, salvo temporanee esposizioni, la prima delle quali è appunto quella appena inaugurata. A fare da corona all’opera, che viene datata ai primissimi anni del Trecento, sono altri due lavori attribuiti a Giovanni, provenienti da Roma e Faenza, e opere firmate dai maggiori maestri attivi nella stessa

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a cura di Stefano Mammini

epoca del pittore riminese, fra cui Neri da Rimini, Francesco da Rimini, Giovanni Baronzio e Giotto, che per un breve periodo soggiornò nella città romagnola. info www.nationalgallery.org.uk SIENA LA BELLEZZA FERITA. NORCIA, EARTH HEART ART QUAKE. LA SPERANZA RINASCE DAI CAPOLAVORI DELLA CITTÀ DI SAN BENEDETTO Cripta sotto il Duomo e Complesso Museale Santa Maria della Scala fino al 29 ottobre

Il 24 agosto 2016 un forte terremoto colpisce il Centro Italia. Il 26 e 30 ottobre 2016, altre scosse «feriscono» Norcia e il territorio circostante. La basilica di S. Benedetto, la concattedrale di S. Maria Argentea e tutte le chiese della città e dintorni sono distrutte. A seguito del sisma, la Protezione Civile, il Corpo Nazionale Vigili del Fuoco, il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria, insieme con l’Ufficio Beni Culturali dell’Archidiocesi di Spoleto-Norcia, hanno provveduto alla messa in sicurezza delle opere d’arte. Alcune di esse sono ora ospitate dalla città di Siena e protette all’interno delle sue viscere: nella cosiddetta «Cripta» sotto il Duomo,

dedicato alla Vergine Maria, e nel percorso del Santa Maria della Scala. L’allestimento prevede un itinerario attraverso i capolavori prima custoditi all’interno di basiliche, santuari e pievi del territorio. Una serie di video, concessi dal Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, e materiali fotografici di fotoreporter locali permettono inoltre la visione delle fasi di recupero delle opere dopo il terremoto. info e-mail: bellezzaferita@ operalaboratori.com; tel. 0577 286300; www.operaduomo.siena.it; www.santamariadellascala.com VENEZIA MAGISTER GIOTTO Scuola Grande della Misericordia fino al 5 novembre

Allestita negli spazi della Scuola Grande della Misericordia, la mostra guida il visitatore in un percorso accompagnato dalla voce di Luca Zingaretti per la narrazione dei testi e dalla drammaturgia musicale originale di Paolo Fresu. La

produzione di Giotto viene illustrata compiutamente, cosí da far comprendere la rivoluzione compiuta dalla sua opera nel tardo Medioevo, quando il maestro seppe rinnovare l’arte occidentale, aprendo la strada al Rinascimento verso l’età moderna. Il punto di partenza, nell’immensa navata d’ingresso, è l’imponente Croce del Presepe Greccio, ricostruita, su ispirazione di quella dell’affresco, e prosegue al primo piano nella sequenza imperniata sulle Storie francescane di Assisi, la Cappella degli Scrovegni di Padova, i maestosi Crocifissi e le altre opere del Maestro realizzate a Firenze. Come epilogo si è scelto di ricordare la Missione Giotto del 1986, realizzata dall’Agenzia Spaziale Europea, che per la prima volta nella storia intercettò la Cometa di Halley, dipinta nell’Adorazione dei Magi della Cappella degli Scrovegni a Padova. info www.giotto-venezia.magister. art; e-mail: info@magister.art ottobre

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SPOLETO TESORI DALLA VALNERINA Rocca Albornoziana-Museo Nazionale del Ducato di Spoleto fino al 5 novembre (prorogata)

La mostra riunisce un nucleo di opere provenienti dai territori delle Marche, del Lazio e dell’Umbria colpiti dal sisma, anche come testimonianza di solidarietà tra aree accomunate da un evento cosí tragico, ma anche da comuni radici culturali e artistiche. L’esposizione si compone di opere selezionate secondo diverse tipologie, ma tutte ricche di un grande significato simbolico, tra le quali spiccano il Crocefisso ligneo del XVI secolo proveniente dalla chiesa di S. Anatolia di Narco, la Madonna con Bambino di Avendita e il gruppo dell’Annunciazione di Andrea della Robbia dal Museo della Castellina di Norcia, nonché il raffinato dipinto su tavola di Nicola di Ulisse da Siena Madonna col Bambino dal Museo diocesano di Ascoli Piceno e il San Sebastiano della seconda metà del

MOSTRE • Ambrogio Lorenzetti Siena – Complesso museale Santa Maria della Scala

fino al 21 gennaio 2018 (dal 22 ottobre) info tel. 0577 286300: e-mail: ambrogiolorenzettisms@operalaboratori.com; www. santamariadellascala.com

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onostante sia considerato uno degli artisti piú importanti dell’Europa trecentesca, Ambrogio Lorenzetti è ancora poco conosciuto al pubblico. Gli studi – spesso di livello altissimo – si sono concentrati, infatti, quasi esclusivamente sui suoi affreschi del Palazzo Pubblico di Siena, le Allegorie e gli Effetti del Buono e del Cattivo Governo sulla città e il suo contado. Ma la densità concettuale di questo insieme di affreschi ha messo in ombra il resto delle sue opere pittoriche. Preceduta da un’intensa attività di ricerca e dalle importanti campagne di restauro, la mostra, rappresenta dunque l’occasione per provare a ricostruire la sua imponente attività. L’iniziativa è possibile soltanto nella città di Siena, che conserva all’incirca il 70 per cento delle opere oggi conosciute del pittore. Ma l’esposizione – grazie a richieste di prestito molto mirate (sono esposte, tra le altre, opere provenienti dal Louvre, dal National Gallery, dalla Galleria degli Uffizi, dai Musei Vaticani, dallo Städel Museum di Francoforte, dalla Yale University Art Gallery) – reintegra pressoché interamente la vicenda artistica di Lorenzetti, facendo nuovamente convergere a Siena dipinti che in larghissima parte furono prodotti proprio per cittadini senesi e per chiese della città.

Seicento proveniente da Scai, nel territorio di Amatrice. info tel. 0743 224952 oppure 340 5510813; e-mail: spoleto@sistemamuseo.it; www.scoprendolumbria.it ROMA LA BELLEZZA RITROVATA. ARTE NEGATA E RICONQUISTATA IN MOSTRA

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AGENDA DEL MESE Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori fino al 26 novembre

Le nostre bellezze artistiche patiscono furti, vandalismi e danneggiamenti dovuti a eventi naturali disastrosi, ma anche alla mano dell’uomo. Tuttavia, l’arte negata, mortificata e distrutta da guerre, furti e catastrofi come i terremoti può rinascere dalle macerie, come la fenice, e può tornare a rivelarsi, grazie alla volontà, all’impegno e alla caparbietà dell’uomo nel ricomporre e ricostruire la propria identità attraverso l’arte. La mostra allestita nel Palazzo dei Conservatori evidenzia e attualizza l’impegno delle istituzioni a favore dell’arte, presentando importanti testimonianze artistiche che, a causa di vicende non sempre trasparenti, sono state, per moltissimo tempo, negate alla pubblica fruizione e

spesso dimenticate nei depositi o in altri contenitori non accessibili al pubblico. Un’occasione per porre in risalto anche il quotidiano impegno da parte del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Il percorso espositivo si articola in tre sezioni, rispettivamente dedicate alle opere recuperate a seguito di furti, alle opere salvate dalle zone terremotate dell’Italia Centrale, nello specifico delle Marche, e a contesti che hanno subito danni provocati dalle guerre. In quest’ultimo ambito viene ripercorsa la vicenda della cattedrale di Benevento, colpita dalle bombe degli Alleati nel settembre del 1943. All’indomani dell’evento, si provvide a recuperare e mettere in salvo il patrimonio superstite, ma gran parte del materiale fu

evidentemente accatastato e dimenticato e, fino al ritrovamento del 1980, erroneamente ritenuto perduto. Fino al 1980 era opinione comune che dei due amboni del duomo, gli unici elementi superstiti fossero quelli conservati ed esposti a Benevento presso il Museo del Sannio e il Museo Diocesano. Tuttavia, gli scavi archeologici hanno portato alla luce i marmi depositati in uno dei locali adiacenti alla cripta e ora esposti in mostra: tutti i leoni che facevano parte dei due pergami e i frammenti delle colonne che li sormontavano, alcuni capitelli ed elementi di sculture e di lastre marmoree che ne costituivano le fiancate, nonché la base con figure di mostruose cariatidi del cero pasquale e il fuso spiraliforme della colonna che su essa si impostava. info Tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it PAVIA LONGOBARDI. UN POPOLO CHE CAMBIA LA STORIA Castello Visconteo fino al 3 dicembre

Pavia torna capitale del «Regnum Langobardorum» e Napoli si fa portavoce del ruolo fondamentale del Meridione nell’epopea degli

«uomini dalla lunghe barbe» e nella mediazione culturale tra Mediterraneo e Nord Europa. Nasce infatti dalla collaborazione tra Musei Civici di Pavia, Museo Archeologico Nazionale di Napoli e Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo una mostra davvero «epocale»: per gli studi scientifici svolti, per l’analisi del contesto storico italiano e piú ampiamente mediterraneo ed europeo, per gli eccezionali materiali esposti, quasi totalmente inediti, e per le modalità espositive. L’esposizione offre una visione complessiva e di ampio respiro (dalla metà del VI secolo alla fine del I millennio) del ruolo, dell’identità, delle strategie, della cultura e dell’eredità del popolo longobardo, che nel 568, guidato da Alboino, varca le Alpi Giulie e inizia la sua espansione sul suolo italiano: una terra divenuta crocevia strategico tra Occidente e Oriente. info tel. 0382 399770; e-mail: mostralongobardi@comune.pv.it BOLOGNA 1143: LA CROCE RITROVATA DI SANTA MARIA MAGGIORE Museo Civico Medievale fino al 7 gennaio 2018

L’esposizione nasce dall’occasione di esporre per la prima volta, a seguito del ottobre

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restauro, questo prezioso esemplare di croce viaria. L’opera rientra nella tipologia di croci poste su colonne, che venivano collocate nei punti focali della città, a segnalare spazi sacri come chiese e cimiteri o di particolare aggregazione come i trivi o i crocicchi e le piazze. Stando alla tradizione, tale uso si diffuse già in epoca tardoantica, ma è soprattutto a partire della nascita del Comune (1116) e con l’espansione urbanistica di Bologna del XII e XIII secolo che si venne a sviluppare tale fenomeno. Talvolta le croci venivano protette da piccole cappelle e corredate di reliquie, di altari per la preghiera, e di tutto il necessario per la celebrazione della messa. Segno distintivo e identificativo per la città, le

datarla grazie all’iscrizione 1143, presente nel braccio destro. L’opera si viene cosí a collocare tra i piú antichi modelli a noi pervenuti, come quella di poco successiva alla croce degli Apostoli e degli Evangelisti, detta anche di Piazza di Porta Ravegnana, che risale al 1159. info tel. 051 2193916 o 2193930; e-mail: museiarteantica@ comune.bologna.it; www.museibologna.it/arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte croci segnarono lo spazio urbano fino al 1796, quando l’arrivo delle truppe napoleoniche e l’instaurazione della nuova Repubblica, trasformarono la città e i suoi simboli. La croce ritrovata di S. Maria Maggiore è di notevole interesse sia perché era tra i molti esemplari andati dispersi, sia perché è possibile

VIENNA RAFFAELLO Museo Civico Medievale fino al 7 gennaio 2018

Grazie alla collaborazione con l’Ashmolean Museum di Oxford, l’Albertina propone una ricca rassegna sul genio urbinate, riunendo 150 dipinti e disegni. Il nucleo portante

MOSTRE • Il Tesoro di Santa Rosa. Un monastero di arte, fede e luce Viterbo – Monastero di S. Rosa

fino al 6 gennaio 2018 info tel. 0761 342887; e-mail: monasterosantarosa@alice.it; www.sabap-rm-met.beniculturali.it

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osa è una santa giovane, povera e rivoluzionaria i cui resti, dal XIII secolo, sono ospitati nel monastero posto nel cuore della città di Viterbo. Attorno al suo culto patronale, la Città dei Papi si stringe in una celebre festa, incentrata sulla processione della statua con la luminosa macchina di S. Rosa. La mostra si sviluppa lungo quattro aree tematiche: l’antico monastero e la sua decorazione; la vita di santa Rosa e la sua canonizzazione; le monache di S. Rosa e la vita nel monastero; la devozione popolare e gli ex voto. Si disegna cosí, intorno al chiostro, un percorso che esalta sia il valore storico artistico e etnoantropologico dei singoli pezzi, sia l’aspetto spirituale del luogo che li ospita. A partire dalla teca contenente il corpo della santa, si possono ammirare dipinti di particolare interesse storico-artistico, come quelli restaurati per l’occasione: la quattrocentesca Madonna del Latte, dipinta su una tegola, e un olio su tela del XVI secolo raffigurante Sant’Orsola; il bozzetto di Marco Benefial con La prova del fuoco; riproduzioni degli acquerelli secenteschi del Sabatini con la storia della santa, dipinta a metà del Quattrocento da Benozzo Gozzoli nell’antica chiesa andata distrutta; e ancora i preziosi documenti relativi alla santificazione: il manoscritto del 1457 contenente il processo di canonizzazione e le cosiddette Lettere patenti di 13 comunità limitrofe che lo sostenevano.

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AGENDA DEL MESE dell’esposizione è composto da opere che appartengono alla prestigiosa raccolta viennese, alle quali fanno da contorno capolavori concessi in prestito, oltre che dall’Ashmolean, da molti dei maggiori musei internazionali. È cosí possibile documentare l’intero sviluppo della carriera artistica di Raffaello, dalle prime composizioni, ricche di spontaneità, alle ricercate realizzazioni della maturità. A testimonianza della versatilità del maestro, non mancano tracce della sua attività di architetto, ingaggiato da papi e principi, che contribuí a farne la firma piú ricercata del suo tempo. Un

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ingegno eccelso, del quale ancora oggi si può ammirare la straordinaria capacità di coniugare l’imitazione della natura con l’idealizzazione dei soggetti prescelti. info www.albertina.at PARIGI IL VETRO. UN MEDIOEVO DI INVENZIONI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino all’8 gennaio 2018

Il Museo nazionale del Medioevo presenta una selezione di autentici capolavori dell’arte vetraria, scelti come «ambasciatori» di questa peculiare produzione. Arte di lusso, nata dalla creatività dei

mastri vetrai merovingi attivi intorno al V secolo, la produzione del vetro guadagna i suoi quarti di nobiltà con l’avvento dell’architettura gotica, come testimoniano in maniera eloquente le opere provenienti dall’abbazia di Saint-Denis o dalla SainteChapelle. Tuttavia, oltre che magicamente trasparente, questa materia prima si rivela eccezionalmente duttile e può anche trasformarsi in bene alla portata di tutti e trova vastissima diffusione nelle cucine e sulle tavole, finendo con il diventare una presenza fissa nelle taverne. Né mancano gli utilizzi in campo religioso o medico, quando la

pasta viene soffiata per assumere le forme di alambicchi e fiale. E poi, sul finire del XIII secolo, si apre un’altra delle grandi strade del vetro, quella della produzione delle prime lenti per occhiali. Una vicenda dunque affascinante e variegata, che a Cluny viene ripercorsa nei suoi mille riflessi. info www.musee-moyenage.fr PRATO LEGATI DA UNA CINTOLA. L’ASSUNTA DI BERNARDO DADDI E L’IDENTITÀ DI UNA CITTÀ Museo di Palazzo Pretorio fino al 14 gennaio 2018

Simbolo religioso e civile, fulcro delle vicende artistiche di Prato ed elemento cardine della sua identità, la Sacra Cintola pratese è protagonista della nuova esposizione nel Museo di Palazzo Pretorio. Un tema, quello della reliquia pratese, che accende un fascio di luce intenso su un’età di grande prosperità per la città toscana, il Trecento, a partire dalle committenze ad artisti di prim’ordine, come Giovanni Pisano e Bernardo Daddi, che diedero risonanza alla devozione mariana a Prato come vero e proprio culto civico. In particolare, l’esposizione è l’occasione per tornare ad ammirare nel suo complesso la monumentale macchina dipinta da Daddi: la pala dell’Assunta, che gli fu commissionata nel 1337-1338. Nel tempo, l’opera è stata smembrata e la sua diaspora ha fatto sí che si perdesse la coscienza stessa della sua importanza. Prato può ora accoglierne i componenti entrati a far parte delle collezioni dei Musei Vaticani e del Metropolitan Museum of Art di New York. info tel. 0574 19349961; www.palazzopretorio.prato.it ottobre

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cattedrale, quella al Museo dell’Opera ove si potranno ammirare, nella Sala delle Statue, i mosaici con i simboli delle città alleate di Siena e le tarsie originali di Antonio Federighi con le Sette età dell’Uomo. Nella Sala dei Cartoni, il cui ingresso fiancheggia la magnifica Maestà di Duccio, è visibile la celebre pianta del Pavimento del Duomo delineata da Giovanni Paciarelli nel 1884, che permette di avere un quadro d’insieme delle figurazioni e dell’itinerario che, dall’ingresso, conduce fino all’altar maggiore. Il percorso integrato prevede anche l’accesso alla cosiddetta «Cripta», sotto il Pavimento del Duomo e al Battistero. info tel. 0577 286300; http://operaduomo.siena.it

Appuntamenti SIENA DIVINA BELLEZZA. SCOPERTURA DEL PAVIMENTO DEL DUOMO Duomo fino al 25 ottobre 2017

La Cattedrale di Siena torna a «scoprire» il suo straordinario pavimento a commesso marmoreo, risultato di un complesso programma iconografico realizzato attraverso i secoli, dal Trecento fino all’Ottocento. I cartoni preparatori per le cinquantasei tarsie furono disegnati da

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importanti artisti, quasi tutti «senesi», fra cui il Sassetta, Domenico di Bartolo, Matteo di Giovanni, Domenico Beccafumi, oltre che da un pittore «forestiero» come l’umbro Pinturicchio, autore, nel 1505, del Monte della Sapienza, raffigurazione simbolica della via verso la Virtú come raggiungimento della serenità interiore. Il percorso completo OpaSiPass permette, oltre alla visita del Pavimento in

MONTEROSSO (LA SPEZIA) MONTEROSSO: LA RISCOPERTA DELL’ANTICO. UN PATRIMONIO DA CONOSCERE E VALORIZZARE 27-28 ottobre

Il seminario si articola su due giorni: il primo è dedicato alla presentazione del volume di Giuliano Volpe Un patrimonio italiano: Beni culturali, paesaggio e cittadini, titolo che ben sottolinea il processo che va dalla conoscenza alla valorizzazione dei luoghi, impossibile senza la

partecipazione diretta di chi li vive quotidianamente. Il tema è in armonia con gli argomenti del seminario, finalizzati a fornire nuove conoscenze del patrimonio edilizio e archeologico monterossino, finora noti, per i secoli dal X al XV. La storia altomedievale di Monterosso offre infatti attualmente pochi spunti, eccetto le prime menzioni del castello e di alcuni edifici funerari. Per accrescere tale panorama, verranno quindi presentate: le ricerche condotte sull’edilizia «signorile» del borgo e del castello, per precisare le diverse fasi di sviluppo dell’abitato e i suoi rapporti con il castello d’altura; e le riflessioni sul piú antico edificio di culto e funerario, scavato all’interno dell’attuale chiesa di S. Maria di Soviore. Analisi «campione» condotte su uno scheletro del cimitero potrebbero, a tale proposito, fornire la datazione della chiesa antica. Gli interventi del pomeriggio, dedicati alla valorizzazione dei beni, completano il ciclo virtuoso tra conoscenza e comunicazione, con l’invito a mantenere viva la memoria del passato. info tel. 0187 817506; https:// monterossoriscopertadellantico. wordpress.com/; facebook: Monterosso la riscoperta dell’antico

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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personaggi ruggero bacone

Genio, ma non troppo

di Roberto Del Monte

Leonardo da Vinci viene da sempre celebrato come campione di eclettismo, capace di cimentarsi con ogni branca del sapere. Senza nulla togliere a un ingegno che fu senza alcun dubbio formidabile, è tuttavia importante considerare che la sua opera non emerse da una sorta di «deserto», ma si inserí in una piú vasta tradizione di studi e speculazioni, che ebbe nel filosofo e scienziato inglese Ruggero Bacone uno dei suoi esponenti piú illustri

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egli ultimi decenni, la figura di Leonardo da Vinci (1452-1519) ha assunto caratteri mitici, confinando l’artista rinascimentale in una sorta di bolla d’aria svincolata dalla cultura e dal mondo nel quale egli visse e operò. Leonardo viene sbandierato come un simbolo del made in Italy, e intorno a lui ruota un consistente giro d’affari: basti pensare al controverso romanzo di Dan Brown Il Codice da Vinci, oppure ai tour organizzati a Parigi per ripercorrerne le tappe. Di Leonardo affascinano il genio creativo, le intuizioni nel campo della meccanica, dell’anatomia e di altre discipline, che sembrano anti-

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cipare di secoli il pensiero moderno: in lui troviamo incarnato lo spirito del nostro tempo.

Nella giusta prospettiva

Tuttavia, esaltare Leonardo come prodromo dello scienziato moderno, isolandolo dal contesto che lo produsse, giova assai poco alla comprensione storica di un uomo, certamente dotato e florido di ingegni. Ci permettiamo di recuperare le parole di uno dei piú grandi studiosi di Leonardo da Vinci, Augusto Marinoni (1911-1997), che cosí si espresse: «L’eccessiva insistenza sul carattere divinatorio, reale o presunto di certi pensieri [di

In alto diagramma della rifrazione della luce da parte di un contenitore pieno d’acqua nel Tractatus de multiplicatione specierum di Ruggero Bacone. 1267-68. Nella pagina accanto Ruggero Bacone nel suo osservatorio al Merton College, Oxford, olio su tela di Ernest Board. 1912 circa. Londra, Wellcome Library.

Leonardo], ha spostato la nostra attenzione piú alla periferia che al centro della sua personalità». Nessuno storico serio si sognerebbe di affermare che Leonardo fu l’inventore della scienza sperimentale, che trovò il suo seme nel Seicento e terreno fertile fin dagli ultimi secoli del Medioevo. Già le

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personaggi ruggero bacone Fotomontaggio nel quale sono associati un ritratto di Leonardo da Vinci e il celebre «uomo vitruviano», realizzato dal maestro intorno al 1490. Il disegno viene cosí chiamato poiché illustra le proporzioni del corpo umano in forma geometrica ed è corredato da testi esplicativi che si ispirano a un passo di Vitruvio, celebre architetto e trattatista latino vissuto verosimilmente in età augustea.

ricerche naturalistiche degli ultimi scolastici si erano rivolte al mondo sensibile, poiché era emersa la sostanziale sfiducia nelle possibilità effettive di comprendere quello soprannaturale. A discapito delle certezze dogmatiche ricavate dalle Sacre Scritture, si afferma, a partire dal filosofo scozzese Giovanni Duns Scoto († 1308), il ragionamento ipotetico (per imaginationem), che pone il dubbio come molla primaria della conoscenza. Si indagano il mistero della materia e la relazione tra gli oggetti: in particolare le scuole inglesi del XIII e XIV secolo elaborano molti dei principi fisici da cui Leonardo trasse le proprie conclusioni di meccanica razionale.

Il principio d’inerzia

I fisici della prima metà del Trecento già discutono sul modo di concepire categorie fondamentali, come quantità, movimento, mutamento, tempo, spazio: è interessante, per esempio, soffermarsi sul concetto di impetus, tradizionalmente associato al filosofo francese Giovanni Buridano († dopo il 1358), ma che era già stato avanzato in forme similari da commentatori antichi di Aristotele e da autori latini del XIII e XIV secolo. Fu però Buridano a darne la definizione piú puntuale, superando l’identità ockhamistica di motore e mosso e proponendo, in forma germinale, un’idea non troppo diversa dal principio d’inerzia. Figura che piú di ogni altra sembra anticipare Leonardo fu il francescano Ruggero Bacone (1214 o 201292), «quel genio indisciplinato»,

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«un reazionario in filosofia» (come ebbe a definirlo Émile Brehiér), tanto piú innovativo perché, pur rientrando nel circuito della scuola di Oxford, il suo lavoro fu essenzialmente svincolato dall’insegnamento universitario. Leonardo dovette conoscerne il pensiero, poiché ne parla nel Codice Arundel, chiamandolo «Rugieri Bachon». Bacone visse in anni politicamente molto delicati: con l’ascesa di Clemente IV (1265), la cristianità, e gli ambienti francescani in partico-

lare (quelli influenzati da Gioacchino da Fiore, e quindi da una visione millenaristica del mondo), si aspettavano l’avvento di una aetas nova, all’indomani della morte di Federico II (1250) e del conseguente tramonto del dominio svevo in Italia. Gli scritti del francescano Bacone esprimono quella (breve) speranza: l’Opus Maius, Minus e Tertium, redatti proprio su richiesta del nuovo pontefice, si propongono di rinnovare lo studium per rinnovare la Chiesa, e quindi la cristianità tutta. ottobre

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ogni dove, la cultura del tempo è di fatto vanità e morte, miserabile aggregazione senza nessi e coordinazioni»: manca uno scopo; mancano, insieme, una pratica e una teoretica del sapere.

Un’opera frammentaria

Come l’opera di Leonardo, anche quella di Bacone è essenzialmente incompleta e frammentaria: Clemente IV muore nel 1268, e l’idea di una enciclopedia non vide mai la luce. Semplicemente, non esisteva, come Bacone stesso ebbe a scrivere al papa: ci sono solo frammenti, abbozzi di idee, brani che toccavano ora questo ora quel ramo del sapere («nunc de una scientia, nunc de alia», scrive in una lettera a Clemente IV). E tuttavia quello che ne resta è un lavoro grandioso, non tanto di analisi del sapere (il che presupporrebbe una visione conclusa e ormai data della conoscenza, secondo il tradizionale modello culturale medievale basato sulle auctoritates e sulle Sacre Scritture), bensí di sintesi, un discorso sul

sapere che ne lega ogni branca in modo critico e dinamico, secondo una modalità di pensiero affatto differente da quella moderna. Come ha scritto Franco Alessio, «[l’Opus Maius rappresenta] l’idea che il sapere è unità – che in sé ed essenzialmente sono unici, unitari, identici l’origine, il fondamento, il contenuto e il fine del sapere, che le stesse cinque articolazioni fondamentali della scientia [grammatica, matematica, ottica, scienza sperimentale, filosofia morale] non sono, da ultimo, che forme e determinazioni specifiche dell’unità del sapere, ciascuna a titolo diverso, e ciascuna in funzione di intenzionalità co-

A destra il filosofo e scienziato inglese Ruggero Bacone in una incisione seicentesca.

A differenza delle enciclopedie di Vincenzo di Beauvais († 1264) o Alberto Magno († 1280), Bacone libera il proprio lavoro da preconcetti e nozioni aprioristiche. Egli non impose, come i suoi contemporanei, una visione data del mondo, ma propose una sistemazione organica e innovativa della conoscenza, sempre intesa a servizio dell’uomo. Bacone nega perfino le modalità di conoscenza a lui contemporanee: «Per ogni dove, il sapere contemporaneo è apparenza; per

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personaggi ruggero bacone

spiranti con l’unità del sapere che le precede e le riconduce a sé come membra di un organismo vivente». L’Opus Maius annuncia insomma una «scientia experimentalis» destinata ad assicurare il dominio dell’uomo sulla natura, attraverso il concorso di autorità, esperienza e ragionamento. Con questo c’è da dire che Bacone non ha istituito alcun metodo sperimentale inteso in senso moderno, poiché l’esperienza è intesa quale semplice constatazione non verificata. Quando egli afferma che nessuna scienza può essere conosciuta senza la matematica, sta recuperando l’affermazione biblica secondo la quale tutte le cose sono state fatte in termini di peso e di misura; è la continuazione del pitagorismo agostiniano, per cui in ogni cosa vi è uno schema numerico o geometrico. «Verificare» significa pertanto confermare che il fenomeno scaturisce da un determinato modello che è verità.

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In alto incisione seicentesca raffigurante Bacone che forse effettua un esperimento: l’equilibrio fra i piatti della bilancia potrebbe alludere al concetto delle giuste proporzioni nei processi alchemici.

Anche Leonardo, in linea col neoplatonismo fiorentino del suo tempo, nel Trattato sulla pittura (pubblicato nel 1651) afferma che la Natura è scritta in caratteri geometrici, i cui rapporti sono espressi dalla scienza in termini matematici. Affermando questo, recupera i contenuti del Timeo di Platone, non a caso uno dei testi piú considerati e commentati nelle scuole medievali: proprio da quest’opera cosmogonica Leonardo prese di peso tutta la teoria geometrica degli elementi.

Conoscere è potere!

La conoscenza genera un potere sulla Natura, un potere che, afferma Bacone, deve essere al servizio dell’uomo, e in particolare dei so-

vrani: non diversamente per Leonardo. L’utilità della scienza deve infatti poter essere verificabile anche sul piano tecnico-pratico, per cui nel De mirabile potestate artis et natura (1249), i cui concetti saranno ribaditi nella Epistula de secretis operibus naturae et de nullitate magiae (1257) e ancora riformulati nella pars sexta dell’Opus Maius, Bacone scrive: «È possibile costruire macchine per la navigazione senza rematori, per cui un uomo solo potrà far muovere sui fiumi e sui mari navi grandissime, e piú velocemente che se fossero cariche di uomini. È possibile anche costruire carri tali che, senza muscoli, si sposteranno con incredibile rapidità [...]. È possibile costruire anche macchine volanti, fatte in modo che un uomo, seduto al ottobre

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centro, possa azionare un congegno per mezzo del quale le ali artificiali batteranno l’aria come quelle di un uccello. Si può costruire anche una macchina di piccole dimensioni per sollevare o calare enormi pesi, di utilità senza pari in casi d’emergenza. […] Si potrebbero fare anche macchine per camminare sui mari e sui fiumi, ed anche sul fondo, senza pericolo». Bacone immagina quindi macchine straordinarie non molto diverse da quelle che accesero la fantasia di Leonardo, che ideò macchine per il volo, paracadute, carri armati e sottomarini. La tradizione del progetto bellico era in realtà antichissima, basti pensare ai numerosi trabocchi, mangani e balliste medievali, o ancora al celebre De

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rebus bellicis, redatto da un autore anonimo nel IV secolo, probabilmente sotto l’imperatore Costanzo II, che propone congegni talvolta straordinariamente simili a quelli ideati dal genio fiorentino.

Illustrazione raffigurante un battello a ruote spinto dalla forza motrice generata dai buoi che si trovano a bordo, da un manoscritto del XV sec. ispirato al De rebus bellicis, trattato di cose militari scritto nel IV sec. da un autore anonimo.

Per costruire le macchine

schizzi di Villard de Honnecourt, splendide testimonianze della tecnologia medievale del XIII secolo. Le intuizioni di Bacone si rivolgono al potere, e quindi all’arte della guerra, ma egli non dimentica mai il principio, certo di matrice francescana, che il linguaggio varrà sempre piú di qualsiasi guerra. Leonardo avrebbe potuto facilmente trovarsi d’accordo con lui: se è vero che, nel 1482, scrisse la celebre lettera a Ludovico il Moro, nella quale

A questo proposito, va detto che, all’indomani del sacco di Costantinopoli del 1204, giunse in Europa una grande quantità di codici e manoscritti dell’antichità – alcuni provenienti dalla Biblioteca di Alessandria –, che contenevano numerose informazioni circa la possibilità di costruire le macchine piú diverse. Non si può escludere un’influenza di queste opere nelle fantasie letterarie di Bacone, cosí come negli

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personaggi ruggero bacone

In alto disegni e annotazioni a margine del testo su congegni meccanici che forse simulano le ali degli uccelli, dal Codice sul volo degli uccelli di Leonardo da Vinci. 1505-1506. Torino, Biblioteca Reale. Sulle due pagine altri disegni di Leonardo relativi a un carro falcato (in alto) e un veicolo blindato semovente, nel quale si può riconoscere un antesignano del carrarmato.

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faceva sfoggio del proprio ingegno bellico, è altrettanto vero che a piú riprese definí la guerra una pazzia bestialissima, cosí come, da vegetariano qual era, scrisse: «Colui che non rispetta la vita, non la merita». Bacone, come Leonardo, assegna un’importanza fondamentale alla matematica, che è l’unità comune fondamentale di ogni razionalità. Anzi, per Bacone la ratio equivale

essa stessa alla matematica, una visione che rientrava nella cultura universitaria inglese della metà del Duecento, e che, per la prima volta dopo secoli, metteva in discussione la deduzione sillogistica aristotelica come sistema logico di conoscenza sempre valida. Non è vero, insomma, che logica e matematica sono disgiunte. Leonardo, nonostante si fosse definito piú volte omo sanza lettere, tanto che, non conoscendo né greco, né latino, ebbe sempre difficoltà ad accostarsi ai testi classici di matematica ottobre

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e geometria, intuí sul piano teorico l’importanza delle scienze matematiche quali chiavi di accesso alla conoscenza del reale. Scrisse infatti, nel Trattato sulla pittura: «Niuna umana investigazione si può dimandare vera scienzia s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni». L’amicizia col matematico Luca Pacioli († 1517), la lettura del De Expetendis, et fugiendi opus rebus di Giorgio Valla († 1500) – opera che conteneva riferimenti importanti a scienziati latini e greci quali Boezio, Erone, Ippocrate da Chio – giovarono certamente alla

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conoscenza matematica di Leonardo, che però non fu mai realmente sfruttata nell’indagine del mondo: sappiamo anzi che aveva difficoltà anche con l’aritmetica elementare, come per esempio con le frazioni. Per quanto riguarda la geometria, gli Elementi di Euclide avevano circolato fino a quel momento in latino (lingua che, come già accennato, Leonardo non conosceva), e la prima edizione italiana (peraltro solo riassuntiva) fu pubblicata da Niccolò Tartaglia nel 1534, quindici anni dopo la morte di Leonardo.

Tra le scienze matematiche rientra l’ottica, che Bacone lodava come pulchra et delectabilis, una definizione in perfetta sintonia con la posteriore affermazione di Leonardo sul piacere offerto dalla sua contemplazione. Le conoscenze ottiche occidentali derivavano essenzialmente dalla cultura araba, con gli scritti di Alhazen e Alkindi, e passando attraverso gli studi di Roberto Grossatesta († 1253), John Peckham († 1292), Witelo († dopo il 1277) e dello stesso Bacone, giunsero fino a Biagio Pelacani († 1416),

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personaggi ruggero bacone Disegno (a destra) di Leonardo da Vinci di un volto maschile di profilo con studio di incidenza della luce, dal Codice Vaticano Urbinate lat. 1270. 1452-1519. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

matematico e filosofo che insegnò all’Università di Pavia e che scrisse un trattato di prospettiva: e proprio durante il suo soggiorno del 1490 nella città lombarda, Leonardo dovette conoscere questa tradizione.

Il valore dell’esperienza

Rompendo per la prima volta una tradizione millenaria, Bacone assegnò grande importanza all’esperienza (in particolare nella pars sexta dell’Opus). Recuperando il tema agostiniano, il francescano intese l’esperienza interiore come esperienza mistica ed esteriore come esperienza sensibile («Experientia duplex est», «L’esperienza è duplice»). Alla prima corrisponde l’intelletto, alla seconda la ragione. Nessuna delle due basta a se stessa per scoprire i misteri del mondo: «Sine experientia nihil sufficienter sciri potest», («Senza l’esperienza, nulla si può conoscere a sufficienza») scrive. Tutte le scienze si fondano sulla matematica non meno che sulle intuizioni dell’esperienza, poiché è nelle cose della Natura che si incarnano le leggi matematiche, ed è attraverso l’esperienza che conosciamo la Natura. E tuttavia, l’esperienza interiore dell’illuminazione divina è il presupposto metafisico per ogni conoscenza sensibile. Influenzato dalla Theologia platonica di Marsilio Ficino (scritta tra il 1469 e il 1474), e in generale dalla cultura platonica che tanta fortuna aveva ancora a Firenze al suo tempo, Leonardo promuoveva ugualmente l’importanza dell’esperienza, ma sempre nel contesto di una struttura ideale e immutabile del mondo: Leonardo cercava di cogliere, oltre la visione superficiale delle cose, le necessità matematiche dell’esperienza. In questo, fu piú fi-

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glio di un Roberto Grossatesta, che padre di un Cartesio. Insistendo sulla necessità che armonicamente regola l’universo («O mirabile, o stupenda necessità, tu costringi colla tua legge tutti li effetti (…) a partecipar delle loro cause»), l’indagine sperimentale intesa in senso moderno non poteva che frantumarsi in osservazioni singole, in curiositas dal carattere ancora perfettamente «medievale», volte

a confermare nozioni pregresse piú che a creare nuove conoscenze. Leonardo giunse infatti a intuire alcuni fondamentali principi della fisica moderna, quali il principio di azione e reazione, di composizione delle forze e di inerzia, ma tutte queste intuizioni non assunsero mai in lui i caratteri di nozioni generali, necessari alla costituzione di una nuova fisica (come poi accadrà ottobre

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Da leggere Edmondo Solmi, Le fonti dei manoscritti di Leonardo da Vinci, La Nuova Italia, Firenze 1976 Émile Brehiér, La filosofia del Medioevo, Einaudi, Torino 1952 Eugenio Garin, La cultura fiorentina nell’età di Leonardo, in Belfagor», Firenze 1952; pp. 272-289 Augusto Marinoni, Scritti letterari, Rizzoli, Milano 1952 Franco Alessio, Introduzione a Bacone, Laterza, Roma-Bari 1985 Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Massimo Parodi, Storia della filosofia medievale, Laterza, Roma-Bari 2012

generale, provalo due o tre volte», non è poi un gran progresso metodologico rispetto ai fisici medievali come Buridano, il quale, commentando il De coelo et mundo di Aristotele, scrive «Ego hoc non sum expertus, ideo nescio si est verum» («Di questo non sono esperto, perciò non posso sapere se sia vero»).

Un mito da rivedere?

con Galileo, Cartesio e Newton), poiché risultato di ricerche particolaristiche, elaborate all’interno di un quadro generale, quello della fisica scolastica, affatto diverso dal contesto culturale baconiano. Inoltre, molti testi elaborati da Leonardo hanno tutto l’aspetto di frettolosi appunti tra una lettura e l’altra, piuttosto che conclusioni ragionate; e spesso, rispetto alla

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validità del contenuto scientifico, confusi e contraddittori. Spesso Leonardo copia assunti di opere note e diffuse ai suoi tempi, senza alcuna elaborazione critica. Se è innegabile che egli abbia sempre invocato l’esperienza, è pur vero che fu sempre difficile per lui organizzare esperienze sistematiche e controllate in senso moderno: sostenere «innanzi di fare di questo caso regola

Si può dunque affermare che, sul terreno filosofico, Leonardo non aggiunse molto alla visione platonicoficiniana in voga al suo tempo e, in campo scientifico, non elaborò teorie d’insieme originali, ma piuttosto approfondí tesi feconde che trovò già formulate. Fu uno straordinario ingegnere, ma, come Bacone, inseguí le sue fantasie, piuttosto che attivare un processo utile a creazioni concrete. Lasciando da parte un mito che probabilmente continuerà ad alimentarsi, Leonardo fu un artista eccellente e un uomo dal multiforme ingegno, ma, concludendo con le parole di Eugenio Garin, «non fu piú eccezionale di molti altri dell’età sua, aperti a ogni interesse, consapevoli della centralità dell’uomo che con le proprie mani costruisce il proprio mondo». F

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grandi famiglie arcipreti della penna

L’imperatore e la

bella Pennina

di Sonia Merli e Andrea Margaritelli

Quella degli Arcipreti della Penna fu una delle famiglie aristocratiche piú importanti di Perugia. Il loro nome torna ora alla ribalta, grazie all’acquisizione, da parte della Fondazione Guglielmo Giordano, di un documento emesso dall’imperatore Carlo V d’Asburgo, pochi mesi prima della nascita della bambina concepita dal giovane sovrano con una discendente della nobile schiatta umbra

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a storia delle città italiane tra Basso Medioevo e prima età moderna è stata spesso narrata – soprattutto in ambito erudito –, ripercorrendo le vicende delle famiglie piú eminenti e, nel caso di Perugia, si è tradotta in un topos che molto ha fatto leva sulla secolare inimicizia fra gli Oddi e i Baglioni. Tuttavia, a ben guardare, tra le cinque principali casate aristocratiche elencate, tra l’altro, in un endecasillabo divenuto proverbiale («Oddi, Staffa, Ranier, Penna, Baglioni»), figurava anche quella degli Arcipreti – poi denominati Arcipreti della Penna o, tout court, della Penna – recentemente oggetto di studi importanti, che hanno consentito di aggiornare in modo significativo la storiografia sull’argomento. Posto infatti che gli Arcipreti sono frequentemente menzionati nell’Historia di Perugia di Pompeo Pellini (1523-1594) – che la storica Erminia Irace ha definito una sorta di «enciclopedia di riferimento della storia perugina» –, risulta evidente come, a fronte dell’abbondanza di notizie relative a personaggi come Giacomo degli Arcipreti e suo figlio Agamennone, poco o nulla si sapesse delle origini e delle fasi piú risalenti della stirpe. E tutto ciò nonostante l’impegno profuso nella prima

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Stemma della famiglia Arcipreti della Penna, dai Catasti del Comune di Perugia.

metà del Seicento dallo «storico di famiglia» Bernardino della Penna (1609-1665), il quale si era cimentato in una ricerca di ampio respiro che aveva coinvolto vari eruditi, primo fra tutti l’eugubino Vincenzo Armanni, instancabile compilatore di genealogie. Sebbene non esplicitamente dichiarato, lo scopo della ricognizione promossa da Bernardino è presto detto: ricostruire, risalendo quando piú indietro possibile, le generazioni che avevano preceduto Iohannes Archipresbiteri, primo esponente della casata a poter vantare, abbinata al proprio nome di battesimo, una forma primigenia di quello che, negli anni Trenta del Trecento, si sarebbe definitivamente affermato come cognome familiare. ottobre

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Albero genealogico degli Arcipreti della Penna facente parte delle prove fornite per l’ammissione della famiglia nell’Ordine di Malta.

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grandi famiglie arcipreti della penna Pagina delle Riformanze del Comune di Perugia nella quale viene citato Ercole degli Arcipreti in qualità di prior priorum (primo priore): è questo il motivo per cui gli viene assegnato l’onore di avere lo stemma della famiglia, fra due grifi.

Indicata nella letteratura erudita ottocentesca come «una raccolta della nobiltà e antichità della famiglia Arcipreti ora detti della Penna», la ricerca prodotta da Bernardino consisteva, di fatto, in una genealogia ragionata, risalente fino al 1130, anno in cui prendeva avvio con un tale «Conte dell’Arciprete», menzionato in altra sede come «Conte detto dell’Arciprete de’ signori de’ Bogis e di Chiqueran d’Arles, città di Provenza». Da lui la famiglia avrebbe assunto il piú antico dei suoi due cognomi e tale «scoperta», oltre a consolidare la memoria dinastica, costituí anche un importante elemento a supporto dell’antichità e del prestigio della schiatta. Prova ne sia il fatto che il nome di Conte degli Arcipreti compare negli alberi genealogici prodotti a corredo delle prove di nobiltà ripetutamente esibite allo scopo di ottenere l’ammissione di alcuni esponenti della famiglia nei sempre piú selettivi ordini cavallereschi.

Un meccanismo collaudato

Grazie però agli apporti forniti dalla documentazione di prima mano, molto è stato fatto per ricostruire le effettive origini della nobile stirpe degli Arcipreti, in special modo mettendo a frutto una serie di attestazioni individuate nei registri dell’Archivio Capitolare di Perugia contenenti l’annotazione dei pagamenti dei canoni versati al Capitolo di S. Lorenzo. Segno evidente del fatto che i piú antichi esponenti della famiglia – come peraltro lascia intendere lo stesso cognome – poterono vantare stretti legami con la canonica della cattedrale, in quanto appartenenti alla cerchia di quei lignaggi che avevano scelto di porsi sotto la protezione del vescovato o del capitolo cattedrale, avvalendosi di un meccanismo semplice e collaudato: dapprima i proprietari di grandi complessi fondiari disponevano cospicue donazioni in favore dei canonici; dopodiché questi ultimi provvedevano a retrocedere ai medesimi donatori i beni appena ricevuti, sotto forma, però, di possesso derivato. Si noti che, nel caso perugino, tutto ciò avveniva per il tramite di contratti di enfiteusi a terza generazione, che prevedevano la corresponsione di un canone

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annuo, da versare nel giorno della festa di san Lorenzo, patrono della città, nonché titolare della cattedrale. E fu infatti il 10 agosto del 1265 che dominus Iohannes Archipresbiteri, recatosi personalmente in claustro canonice Perusine, versò, in presenza di quattro testimoni, i 3 denari dovuti come pensio per l’anno in corso. Nel prosieguo dell’atto, si precisava inoltre che tale canone era da corrispondere a fronte dei beni ottenuti a livello dalla canonica, come risultava nero su bianco dall’atto redatto in una data imprecisata dal giudice Ilottobre

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debrando («representavit et dedit (...) pro pensione presentis anni rerum et possessionum quas habent a dicta canonica ad libellum, sicut patet per instrumentum publicum scriptum manu Ildebrandi iudicis»). Andando a ritroso tra le varie registrazioni, si è scoperto che la costituzione dell’enfiteusi in questione risaliva addirittura all’agosto del 1163, allorché Guidutius de Mincio de Teuça aveva donato per la salvezza dell’anima sua e dei suoi genitori a Bertraimo, arciprete della canonica di S. Lorenzo, tutte le sue proprietà poste dentro e fuori Perugia. Immediatamente dopo l’arciprete aveva retrocesso al medesimo Guiduccio, per libellum enphyteosin, i beni in questione, in cambio di una pensio annua di 3 denari: una cifra non piú che simbolica, ma dal chiaro valore ricognitivo, giacché il versamento del canone enfiteutico consentiva di verificare con cadenza annuale i diritti dell’una e dell’altra parte. Ecco dunque che le solutiones canonum alla canonica di S. Lorenzo facenti capo a quell’originario documento del 1169 comprovano, innanzituto, la connotazione schiettamente «cittadina» della stirpe degli Arcipreti, da annoverarsi tra le famiglie dell’aristocrazia consolare collegate alla signoria ecclesiastica. Ma, nel contempo, permettono anche di far luce, negli anni compresi fra il 1265 e il 1302, sulla discendenza di Guidutius de Mincio de Teuça, il quale, sebbene sprovvisto del cognome, può essere comunque considerato come il piú antico esponente noto della stirpe di cui si stanno ripercorrendo le gesta.

Protagonisti della storia cittadina

Quanto alle fonti di produzione comunale, già da un primo sguardo, gli Arcipreti si configurano come un potente e articolato lignaggio per lungo tempo protagonista della storia politico-istituzionale di Perugia. Lo comprovano innanzitutto le Riformanze (ovvero i verbali delle delibere consiliari del Comune), i Catasti e la serie dei registri degli Offici, che, a partire dal Trecento, tramandano i nomi degli eletti all’interno delle magistrature cittadine. Si parte dunque dal già menzionato

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In basso stemma lapideo degli Arcipreti della Penna. 1361. Perugia, Museo Capitolare.

Iohannes Archispresbiteri, documentatissimo tra il 1217 e il 1266 in quanto espressione di quel ceto dirigente che molta parte ebbe nel consolidarsi del neonato Comune. Tre esempi per tutti: nel 1218 Giovanni risulta attestato tra i nove uomini che, ex parte Perusina civitatis, giurano l’osservanza dei patti tra Todi e Perugia stipulati dai rispettivi podestà; a partire dal 1230 figura piú volte fra i consiliarii del Consiglio generale e speciale di Perugia; tra il 1256 e il 1260 è ripetutamente impegnato in veste di ambasciatore per il Comune. Nei versamenti in favore della canonica è spesso nominato anche Ugolino di Nerolo, nato dallo strategico matrimonio di quest’ultimo con Imiglia, dei conti di Coccorano. Nipote del Giovanni di cui si è appena detto, Ugolino costituisce la perfetta incarnazione di quella nobiltà cittadina non soltanto abile nel mestiere delle armi, ma provvista di elevate competenze nel campo del diritto. Non a caso, il 10 agosto 1298, allorché provvide a versare alla canonica di S. Lorenzo la consueta pensio, Ugolino è qualificato come iudex; a partire dallo stesso anno, lo si trova inoltre attestato come docente di diritto nello Studium cittadino, destinato a trasformarsi nel 1308 in Studium generale, aggiungendosi cosí alle prestigiose sedi di Bologna, Padova, Roma e Napoli. Nella seconda metà del Trecento, l’assetto istituzionale del Comune si indebolí progressivamente a causa dei rivolgimenti interni provocati dalla contrapposizione fra il partito nobiliare (che vedeva tra i suoi massimi esponenti i Baglioni) e quello popolare (guidato, in modo non certo disinteressato, dalla nobile famiglia dei Michelotti). Continue furono le estromissioni in massa degli appartenenti all’una e all’altra fazione, come conferma la vicenda di Giacomo di Conte degli Arcipreti, il quale, nel 1378, in quanto implicato nella congiura ordita dai nobili contro i popolari, fu cacciato dalla città insieme ad altri magnates e a buona parte dei suoi consanguinei. Nel 1384, tuttavia, a fronte della crescente minaccia costituita dai potenti e ambiziosi Michelotti – so(segue a p. 52)

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grandi famiglie arcipreti della penna Storie segrete

Le relazioni pericolose Nell’Archivio Generale di Simancas (Spagna), si conserva un dossier documentario che racconta, ex post, le vicende del tutto eccezionali di cui fu protagonista Orsolina della nobile famiglia degli Arcipreti della Penna. Le cose andarono piú o meno cosí. Nei primissimi anni Venti del Cinquecento, la giovane Orsolina si recò al seguito del marito Valentino dei Cancellieri nelle Fiandre, che al tempo erano parte del ducato di Borgogna. Le ragioni del viaggio non sono note, ma, a un certo punto, qualcosa non andò per il verso giusto: Valentino, infatti, morí improvvisamente e Orsolina si ritrovò vedova in terra straniera. A trarla d’impaccio in questa

In alto documento, elegantemente miniato e dalla solenne mise en page, emesso dalla cancelleria imperiale a Bruxelles il 27 aprile 1522, vale a dire poco prima che Carlo V d’Asburgo partisse alla volta dell’Inghilterra e della Spagna ignaro del fatto che dalla sua liaison con la «bella Pennina perusina» il 23 gennaio dell’anno successivo sarebbe nata la sua figlia naturale Thadea. Perugia, Fondazione Guglielmo Giordano.

A destra L’incoronazione dell’imperatore Carlo V a Bologna, olio su tela di autore anonimo, da un originale di Gaspard Crayer. XVII sec. Montauban, Musée Ingres.

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Veduta di piazza Navona, a Roma, olio su tela di Gaspar van Wittel. XVII sec. Collezione privata. Sulla sinistra, dopo la chiesa di S. Agnese, si riconosce il Palazzo de Cupis, che ospitò la figlia segreta di Carlo V e Orsolina degli Arcipreti.

difficile situazione fu la sua avvenenza, che, a quanto pare, non era passata inosservata nella città di Bruxelles e di cui dovette giungere ben presto eco a corte. A rimanere conquistato dalla «bella Pennina perusina» fu addirittura Carlo V d’Asburgo, nato a Gand nel 1500, proclamato duca di Borgogna nel 1515 a Bruxelles nell’Aula magna del sontuoso palazzo del Coudenberg e, a soli diciannove anni, eletto imperatore del Sacro Romano Impero. Da questa liaison nacque una figlia di nome Thadea, che, il 23 gennaio 1523, fu data alla luce al riparo da occhi indiscreti a Bologna, nella dimora di Pirro ed Ercole della nobile casata dei Malvezzi. A Bologna la giovane donna era giunta in compagnia di Giovanna, persona di fiducia di Carlo V; Orsolina, di lí a poco, poté rientrare a Perugia, mentre la neonata fu consegnata in segreto qualche tempo dopo alla madre dalla fida nutrice borgognona. Va da sé che la prima preoccupazione della «bella Pennina» fu quella di nascondere il «frutto del peccato» e, a tale scopo, fu scelto il monastero delle clarisse di Collazzone, nei pressi di Todi.

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Carlo V, però, non si era affatto dimenticato della figlia naturale avuta da Orsolina e, trovandosi nel 1530 a Bologna per essere incoronato re d’Italia (24 febbraio), approfittò dell’occasione per far portare al suo cospetto la piccola Thadea. Dopodiché, nella primavera del 1536, a prendere in mano la situazione furono gli zii materni della fanciulla, i quali, dopo averla fatta prelevare a forza dal monastero di Collazzone, la diedero in sposa a Sinibaldo de Cupis, appartenente a una famiglia originaria di Montefalco, ma che in breve tempo aveva fatto fortuna a Roma, grazie soprattutto a Bernardino, «maestro di casa» della potente famiglia dei della Rovere, e a suo figlio Giovan Domenico de Cupis, creato cardinale nel 1517 da Leone X. Informato di ciò, Carlo V scrisse una lettera a Orsolina, nella quale, oltre a esprimere tutta la sua contrarietà per non essere stato interpellato in merito alle nozze, annunciava anche che avrebbe garantito un appannaggio di 3000 scudi da destinare a «profitto e utilità» di Thadea. Le cose sembravano dunque procedere per

il meglio, senonché, nel giro di pochi anni, Orsolina morí e la giovanissima Thadea rimase vedova: di qui la scelta di quest’ultima di dedicarsi a una vita pia e ritirata sotto la guida spirituale di padre Pedro, il quale, rivelatosi essere un emissario dell’imperatore, prese a farsi latore dei messaggi di costui. Anche quell’ultimo legame parentale, tuttavia, era destinato a venire meno: Carlo V d’Asburgo morí infatti il 21 settembre 1558 a Yuste, in Estremadura, e, a seguito di tutto ciò, Thadea cominciò a raccogliere prove e testimonianze atte a dimostrare il suo essere figlia naturale del defunto imperatore. Si comprende cosí che il dossier conservato nell’Archivio di Simancas altro non è che l’insieme delle pezze d’appoggio prodotte dalla donna nella speranza di ottenere dall’illustrissimo fratellastro Felipe II di Spagna una qualche sorta di riconoscimento, come lascia intendere la lunga e commovente supplica rivolta alla «sacra chattolica maiestà» e con in calce la seguente firma: «Minima, indegnia et inutilissima serva Thadea».

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grandi famiglie arcipreti della penna

In alto veduta della Rocca Paolina di Perugia, sotto la quale si riconosce il Palazzo della Penna. XIX sec. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.

spettati di avere cercato l’appoggio del papa allo scopo di assumere il dominio della città – i fuoriusciti della parte nobiliare furono richiamati in patria, e Giacomo di Conte divenne, in breve tempo, uno dei protagonisti del governo cittadino, ricoprendo, tra l’altro, la carica di priore nel bimestre luglio-agosto del 1386. Ma quel che piú conta è che, nel 1389, egli fu uno dei cinque conservatori della libertà: una magistratura straordinaria, provvista di poteri amplissimi e alla quale si era soliti ricorrere in tempi particolarmente drammatici. Della cinquina, entrata in carica il 1° settembre, faceva parte anche Pandolfo Baglioni, il quale, appena una settimana dopo, non si peritò di guidare la rivolta antipopolare grazie alla quale i nobili conquistarono, ma solo per breve tempo, il potere.

Bandi, confische e confino

Nel 1393, infatti, a seguito dell’ennesimo colpo di mano, il governo nobiliare venne rovesciato e ad affermarsi furono nuovamente i popolari, forti fino al 1398 dell’appoggio di Biordo Michelotti, ucciso a tradimento il 10 marzo di quell’anno dai sicari di Francesco Guidalotti, abate del monastero di S. Pietro nonché cognato dello stesso Biordo. In conseguenza di un atto cosí tremendo, scattò ancora una volta il meccanismo dei bandi, delle confische dei beni e del confino per i soggetti ritenuti piú pericolosi. Tra i destinatari di tali drastiche misure fu ovviamente incluso il nobilis vir Giacomo di Conte, il quale, come lascia intendere la data topica del suo testamento, dettato il 5 gennaio 1403 a Borgo San Sepolcro, morí nel luogo in cui era stato confinato.

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Il desiderio di rivincita degli Arcipreti, fomentato dagli odi di fazione e dai lunghi anni di esilio, trovò di lí a qualche anno ampia soddisfazione grazie all’ascesa del condottiero Braccio Fortebracci, il piú celebre e ambizioso tra i fuoriusciti perugini. Con lui, infatti, si schierarono i tre fratelli Ugolino, Gentiluomo e Giacomo, i quali, in quanto figli di Francesco di Ugolino, appartenevano alla discendenza diretta di Giovanni dell’Arciprete. In particolare, Giacomo di Francesco militò lungamente al seguito di Braccio prendendo parte, tra le altre cose, all’ardito colpo di mano del 1404 e alla spedizione del ottobre

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A sinistra pagina della partita catastale di Agamennone degli Arcipreti. XV sec. In basso Perugia, Palazzo dei Priori. La dedizione di Perugia, particolare degli affreschi con le Storie di Braccio Fortebraccio da Montone di Tommaso Bernabei detto il Papacelio e aiuti. XVI sec.

affermazione di un governo oligarchico, espressione di una nuova élite che occupò i luoghi chiave del potere al fianco di Braccio, per otto anni di fatto signore di Perugia. Cominciò cosí la fase del forte arricchimento della famiglia degli Arcipreti, comprovato, tra le altre cose, dagli allibramenti registrati tra il 1436 e il 1444 nella partita catastale di Agamennone, di fatto al tempo l’uomo piú ricco di Perugia.

Un matrimonio strategico

1407, entrambi organizzati dai fuoriusciti della fazione nobiliare allo scopo di rientrare in città. Dopo i due infruttuosi tentativi, il 12 giugno 1416 le truppe di Braccio riuscirono infine a sconfiggere l’esercito perugino guidato da Carlo Malatesta, signore di Rimini, che, al termine della battaglia di Sant’Egidio, fu fatto prigioniero insieme al nipote Galeazzo e per la cui liberazione fu chiesto un riscatto di 100 000 ducati. L’impresa venne ovviamente coronata dal rientro in città degli esiliati – riammessi ad gradus, honores et dignitates goduti prima del 1393 –, e dalla conseguente

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Senza dimenticare che la fedeltà dimostrata al tempo in cui il Fortebracci era impegnato nell’assedio posto contro il castello di Mugnano (storico possedimento degli Orsini non lontano da Viterbo), gli aveva consentito nel 1421, o giú di lí, di contrarre uno strategico matrimonio da cui derivarono importanti conseguenze dal punto di vista dell’onomastica familiare. Prima moglie di Agamennone fu infatti Costanza, figlia dello sconfitto Ulisse I Orsini, che in quel torno di anni si era pure impadronito del castello di Penna in Teverina, sottraendolo ai Colonna del ramo di Palestrina. In conseguenza dell’acquisizione temporanea, per via dotale, di tale bene gli Arcipreti decisero di aggiungere il predicato territoriale «de Pinna» all’originario cognome de Archipresbiteris, rafforzandone cosí la connotazione aristocratica in senso signorile.

Da leggere Erminia Irace (a cura di), Gli Arcipreti della Penna. Una famiglia nella storia di Perugia, Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, Perugia 2014 Sandro Tiberini, Dal cespuglio all’albero. Nuovi documenti per la storia della famiglia Arcipreti di Perugia (1034-1416), Fabrizio Fabbri editore, Perugia 2017

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iconografia regina di saba

Vergine

nera

di Lorenzo Lorenzi

Personaggio esotico e leggendario, la regina di Saba viene ricordata soprattutto per l’episodio dell’incontro con il re Salomone. Un tema piú volte declinato in campo artistico e nel quale si fondono elementi iconografici tratti dal patrimonio mitologico e temi tipici della rappresentazione della Madonna

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a regina di Saba è un’immagine allegorica di grande fascino, poiché, similmente alla sfinge di Edipo, ebbe il dono di pronunciare enigmi e a lei ci riferiamo quando parliamo di saggezza, eleganza, abbondanza, lungimiranza, prodigalità. Ma quali sono le informazioni che ne riferiscono la personalità storica e quali i tratti costitutivi del mito pre-cristiano che importanti cattedrali gotiche francesi custodiscono? Come Eva, Sara, Rebecca e Susanna, la regina rappresenta il collegamento fra Vecchio e Nuovo Testamento: è guida e luce per i popoli medio-orientali essendo la stirpe etiope di Menelik I germogliata dalla sua unione con Salomone. Del suo regno, che andava dall’Arabia sino al Corno d’Africa, parla lo storico Giuseppe Flavio nelle Antichità giudaiche (93-94 d.C.), prodigo di particolari sull’incontro di Salomone con Nikaule, che lo omaggiò di semi di boswellia

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Arezzo, chiesa di S. Francesco, Cappella Maggiore. L’incontro tra la regina di Saba e Salomone, una delle scene del ciclo delle Storie della Vera Croce. Gli affreschi, realizzati da Piero della Francesca tra il 1452 e il 1466, si basano sulla Legenda Aurea, una raccolta di vite di santi composta da Iacopo da Varagine alla metà del XIII sec.

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iconografia regina di saba

A sinistra Firenze, basilica di Santa Croce. L’albero della Croce, particolare di una delle scene dal ciclo di affreschi raffiguranti la Leggenda della Vera Croce, opera di Agnolo Gaddi e bottega. 1340-1366. Dal legno della Croce, affiancata da due santi, si espandono come rami di un albero cartigli con iscrizioni e clipei, arricchiti da racemi vegetali.

sacra (olio d’incenso), e sulla migrazione delle comunità semitiche dal Mar Rosso in terra d’Etiopia. Anche l’antico testo del rastafarianesimo intitolato Kebra Nagast (IV-

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VI secolo) descrive la scura regina Machedà quale donna forte e potente, richiamo ideale della solida struttura politica e religiosa nella regione africana centro-occiden-

tale; fu infatti per volere di suo figlio Bayna-Lehkem/Menelik I che si ebbe il trasferimento dell’Arca dell’Alleanza in quelle terre. La fama che la lega agli enigmi ottobre

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A sinistra Firenze, basilica di Santa Croce. La regina di Saba adora il legno della Croce. Ancora una delle scene dal ciclo di affreschi raffiguranti la Leggenda della Vera Croce. Il legno era stato tagliato dagli operai di re Salomone per costruire il tempio, ma, incapaci di trovarne un impiego, lo avevano gettato in un lago per servire da ponte.

Giuseppe Flavio narra che la regina di Saba portò in dono al re Salomone alcuni semi della pianta da cui si ricava l’incenso La Legenda Aurea

Seconda solo alla Bibbia Composta in latino nel 1265 dal domenicano e vescovo di Genova Iacopo da Varagine (o Varazze, 1244-1298), l’opera ha rappresentato nel Medioevo e sino all’età dei Lumi (grazie alla sua traduzione in volgare), una straordinaria fonte di ispirazione per gli artisti, poiché in essa è dispiegata una solida narrazione sacra strutturata in solenni rappresentazioni allegoriche. Essendo una summa di biografie agiografiche di santi e personaggi illustri della cristianità, si è citata nei principali testi del monoteismo: nel Corano, Bilqis giunge dallo Yemen al palazzo di Salomone, rimanendo incantata dalla sua dimora e, al tempo stesso, in-

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spiega la sua ampia diffusione fino al Settecento, con una tiratura inferiore solo alla Bibbia. Sono sopravvissuti circa 1400 codici manoscritti; per il Medioevo si sono conservate dieci versioni in italiano, diciotto in alto-tedesco, sette in basso tedesco, diciassette in francese, quattro in inglese, tre in ceco, dieci in olandese. Di versioni a stampa se ne contano quarantanove, edite fra il 1470 e il 1500, ventotto fra il 1500 e il 1530 e tredici fra il 1531 e il 1560. cantando con il suo incedere il monarca, che, incuriosito, volle esaminarla. Il I Libro dei Re (10,1-13, 2) e il II Libro delle Cronache (9,1-12) menzionano lo stupore di Machedà

L’autore raccolse in un santorale organizzato secondo l’anno liturgico centocinquanta vite di santi, una trentina di capitoli dedicati alle feste cristologiche, mariane e liturgiche, nonché alcuni racconti legati alla Leggenda della Vera Croce. Il tempo liturgico (ciclo annuale) è intrecciato con quello lineare della cronologia dei santi (tempo santorale) e con il tempo finale, in cui l’umanità si consegna al Giudizio Universale di Cristo quale tempo ultimo di redenzione. per la saggezza del re israelita: «E poiché la fama di Salomone e del suo dio raggiunsero la regina di Saba, ella venne al cospetto del re per metterlo alla prova con degli enigmi».

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iconografia regina di saba hhh gli affreschi della cappella maggiore di arezzo

La regina di Piero Il presbiterio della chiesa gotica di S. Francesco ad Arezzo ospita gli affreschi (databili fra il 1452 e il 1466) di Piero della Francesca, protagonista del Rinascimento italiano, che sostituí il pittore Bicci di Lorenzo morto proprio nel 1452. Il ciclo presenta episodi della Leggenda del Sacro Legno della Croce e del Nuovo Testamento e siffatta scelta iconografica, desunta dalla Legenda Aurea, dai Vangeli apocrifi e da quelli sinottici, è imputabile al volere di alcuni membri della famiglia Bacci che ne aveva il patronato (nelle figure di Francesco e del figlio Giovanni, noto umanista). Se un diretto precedente è costituito dall’omologa impresa di Agnolo Gaddi per la chiesa di Santa Croce a Firenze, è d’uopo sottolineare come qui il narrato segua un andamento anticronologico e antiorario, fondato su opposizioni simmetriche di scene, in tutto 12 (compresi i profeti Ezechiele e Geremia) poste su tre livelli e prive di specifica incorniciatura architettonica. Gli avvenimenti iniziano della Genesi fino all’anno 628, quando il Santo Crocifisso, dopo essere stato rubato, venne riportato trionfalmente a Gerusalemme. Seguendo una scansione lineare, le scene si leggono cosí: Morte di Adamo, Adorazione della Croce e Incontro fra Salomone e la Regina di Saba, Annunciazione, Sogno di Costantino, Vittoria di Costantino su Massenzio, Tortura dell’Ebreo, Ritrovamento delle tre croci, Battaglia di Eraclio e Cosroè, Esaltazione della Croce. L’incontro fra la regina di Saba e Salomone potrebbe costituire un collegamento con importanti vicende teologiche del primo Quattrocento, quali la riunione della Chiesa d’Occidente con quella d’Oriente (Concilio di Firenze del 1431), intendimento reso ancora piú pressante dopo la caduta di Costantinopoli, avvenuta nel 1453 per mano dei Turchi ottomani. Tale relazione trova un ulteriore tassello veritativo nel volto di Salomone somigliante al ritratto dell’umanista cardinale Bessarione, tra i maggiori fautori di tale unificazione.

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La regina di Saba, che compare per due volte di profilo, è modellata sul tipo della Vergine, assumendone gli attributi qualificativi: umiltà e carità; nell’incontro con Salomone, la donna è avvolta da un mantello diafano (come la sua carnagione), simbolo di purezza. La sua fisionomia, in linea con quella delle dame della sua corte, è lontanissima dai moduli espressivi di una donna africana; è probabile che il pittore abbia voluto tratteggiare la sposa del re d’Israele come madre piena di grazia, viste le evidenti e non casuali somiglianze con la Vergine dell’Annunciazione e con la tavoletta della Madonna di Senigallia, oggi alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino. Sulle due pagine Arezzo, S. Francesco. Due particolari degli affreschi con Storie della Vera Croce, di Piero della Francesca. 1452-1466. A destra, la regina di Saba adora il legno gettato dagli operai di re Salomone sopra un piccolo lago; in basso, particolare del volto della regina stessa, durante l’incontro con il re, mentre gli svela che quel legno servirà per la crocefissione di Cristo.

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Rispetto al Corano, accade il contrario: sarà lei a sottoporre il re d’Israele a un fuoco di fila di domande e questi, rispondendo correttamente, la indurrà in amore; l’episodio è ricco di informazioni sul suo arrivo a Gerusalemme, dove porta con sé un’upupa, gemme e spezie; interessante risulta lo stupore nel vedere la fantasmagoria del trono in avorio dorato e la pavimentazione cristallina che la trasse in inganno: pensando si trattasse di uno specchio d’acqua, sollevò la veste mostrando le gambe pelose e un piede caprino, che inorridirono immensamente Salomone, cosicché la regina – per vendicarsi – pronunciò indicibili enigmi.

Un essere spaventoso

Nell’Occidente medievale la sua vicenda rimane oscura sino alla fine del X secolo, nonostante la citazione nei Vangeli (Giovanni, 5,2; Matteo, 12,42) in relazione alle virtú di fortezza e giustezza ma senza fare accenno alla capacità di porre indovinelli (sulla stessa linea il Talmud di Gerusalemme e gli antichi Misrashim). Dopo l’anno Mille, contestualmente alla diffusione della raccolta di omelie sul Libro di Ester (composta fra il VII e l’VIII secolo), Machedà-Bilqis entra a far parte della teofania cristiana e su di lei abbondano citazioni circa il suo aspetto fisico alquanto sgradevole, a causa di un’eccessiva villosità che avvolge interamente il suo corpo, tipica delle veggenti e delle streghe nella cultura orientale, le quali impaurivano chiunque le incontrasse somigliando piú a scimmie che a esseri umani. L’esploratore e arabista britannico St. John Philby (1885-1960) ha sostenuto che i racconti di epoca tardo-antica abbiano inconsapevolmente confuso la vicenda della regina etiope con la personalità storica di Zenobia, sovrana di Tadmor (Palmira), nominata «az-Zabb» , «la pelosa» (aggettivo derivante dalla

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iconografia regina di saba

Miniatura raffigurante Salomone e la regina di Saba che adorano un idolo, da un’edizione manoscritta del poema didattico di Hans Vintler Die Blumen der Tugend (I fiori della virtú). 1411.

deformazione del suo stesso nome), in quanto la storiografia tradizionale fa nascere la città di Palmira per espressa volontà di Salomone. L’agiografia medievale della regina yemenita presenta tre varianti: donna sensuale e concupiscibile (incanta e ammalia), donna retta e timorata (insegna e giudica), venere scura e deforme (inquieta e inibisce) in relazione al topos dell’imperfezione corporea delle sovrane legate a Salomone. Nel primo caso abbiamo una diretta influenza del

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Cantico dei Cantici (IV secolo a.C.), essendo lo scritto incentrato sugli incontri amorosi e le fantasie di due amanti vissuti al tempo del re d’Israele e in cui si accenna alla carnagione di lei: «sono nera e tuttavia desiderabile»; pertanto il filone letterario che la vuole appassionata e sensuale risulta direttamente collegato allo scritto veterotestamentario.

Nel giorno del giudizio

Relativamente al secondo aspetto della fortezza e della giustezza, è probabile un’influenza del Vangelo di Luca (11, 29-32), che insiste sulla lungimiranza foriera di rettitudine, poiché è Gesú stesso ad annunciare come nel giorno del giudizio la regina del Sud verrà a giudicare gli

uomini, cosí come un tempo, dalle estremità della terra, si mosse per ascoltare Salomone. Le prime raffigurazioni della regina si trovano sui codici miniati biblici, richiamandone il significato di icona precristiana: in questo senso, è opportuno citare la miniatura con la regina nera che compare nel volume di Hans Vintler. In ambito italiano, ricordiamo che Benedetto Antelami scolpisce due monumentali statue di Salomone e della Regina di Saba per il Battistero di Parma (1216), mentre in letteratura Giovanni Boccaccio parla di lei nel capitolo intitolato De Nicaula Ethyopum regina (nel De mulieribus claris, 1361-62), delineando una personalità modellata ottobre

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sulla virtú della temperanza nella prospettiva escatologica. L’autore trae informazioni dalla Legenda Aurea scritta da Jacopo da Varagine (e questi a sua volta dai Vangeli apocrifi; vedi box a p. 57); qui l’immagine di una numinosa preveggente è cesellata con acume in relazione al sacro legno: si narra che Adamo, in punto di morte, mandò il figlio Set in Paradiso per ottenere l’olio della misericordia, ma ebbe invece in dono dall’arcangelo Michele un ramoscello dell’albero della vita da inserirsi nella bocca del padre al momento della sepoltura. Esso crebbe e Salomone volle che fosse utilizzato per la costruzione del Tempio, ma le maestranze, non riuscendo a impiegarlo utilmente, decisero di farne la passerella di un fiume. Un giorno la regina di Saba, osservandolo attentamente, ebbe un’illuminazione profetizzandone il futuro, cosicché il suo sposo decise di sotterrarlo e quando Cristo fu condannato, il legno venne riportato alla luce dagli Israeliti alfine di costruirvi la Croce.

La regina di Saba in una miniatura dal trattato Bellifortis, opera di Conrad Kyeser. XV sec. Gottinga, Niedersächsische Staats- und Universitätsbibliothek.

Devozione solenne

La tematica dell’albero della vita è cara ai Francescani, come dimostra lo scritto Lignun vitae di Bonaventura da Bagnoregio (1217/21-1274), e nelle basiliche officiate da quest’Ordine viene spesso rappresentata unitamente alle storie della regina di Saba e della Croce; un esempio significativo è contenuto nella basilica di Santa Croce a Firenze: nel refettorio campeggia il grande affresco (1355) dell’Albero, composto da 12 rami, realizzato da Taddeo Gaddi, mentre Agnolo Gaddi è responsabile della Cappella Maggiore, con le storie della regina e di Salomone (1380). Nella scena con L’Adorazione del legno, la sovrana è ritratta con manto azzurro, velo bianco e una sfarzosa corona ad alte punte sulla testa, mentre la sua espressione ieratica idealizza una devozione solenne, la stessa che ritroviamo nella

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iconografia regina di saba A sinistra e a destra Chartres, cattedrale di Notre-Dame. Particolari della decorazione scultorea esterna, in cui compaiono la regina di Saba e re Salomone. A sinistra, uno scorcio dello stipite sinistro del portale dell’Alleanza (settentrionale), dove il re e la regina sono raffigurati nelle prime due statue, da destra, accanto al profeta Balaam. A destra, uno scorcio del portale Reale (occidentale), dove sono invece rappresentati nelle prime due statue, da destra, assieme a re Davide e a un altro personaggio di incerta interpretazione. XII-XIII sec. Nella pagina accanto, a destra una delle tavole di Dom Urbain Plancher che riproduce i ritratti di Salomone e della regina di Saba scolpiti sul portale della chiesa di Saint BÊnigne a Digione.

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Dunque, in Francia il piede asinino si trasforma in una zampa d’oca e fino al Settecento sono attestate imponenti statue coronate della sovrana, nominata «pédauque», poste a decoro dei portali di alcune importanti cattedrali gotiche. Simbolicamente, l’uccello era sacro agli Egizi e, come tale, entra a far parte della cultura cristiana nell’accezione di scrigno dei segreti legati ai tempi ultimi del Giudizio. Sarebbe perciò interessante comprendere l’eventuale connessione con i nomi di alcune località mariane poste lungo la via del pellegrinaggio per Santiago de Compostela contenenti proprio il nome dell’oca: Loye, L’Ouche, L’Auchere…

La Madonna Nera

cappella della Croce di Giorno, attigua alla chiesa di S. Francesco a Volterra, contenente le storie del Sacro Legno di Cenni di Francesco (1410), ispirate all’esempio fiorentino. Relativamente all’allegoria della dama nera, la questione appare oscura e richiamandoci a Giuseppe Flavio, che – citando Erodoto – la nomina Nikaule, è stato supposto un riferimento al soprannome che i Greci davano a Empusa, demone di sesso femminile dalle gambe d’asino, chiamata Onokole («colei che ha membra asinine»). La caratteristica della deformità compare in Europa centrale solo alla fine del XII secolo, qualificando la regina di Saba alla stregua di donnaanimale avente piedi d’oca e occhi lucenti come stelle. Si ipotizza sia stato Dagoberto II (652 circa-679) a introdurre la devozione della Madonna Nera, vedendo in lei una sintesi di saggezza e fertilità (stante l’antico culto di Iside), simbolo della regale israelitica.

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Vuole la tradizione che, nel 1255, re Luigi IX il Santo avesse portato dalla Palestina, al ritorno dalla settima crociata, una statua femminile in legno nero che venne indentificata da Bernardo di Chiaravalle nella Vergine-madre di Gesú, vestibolo ai misteri della fede. Da quel prototipo è attestata in ambito francese la moda della Madonna Nera coronata (se ne contano circa 200), effigiata con fattezze mediorientali memori della sposa di Salomone. Il portale di Saint-Bénigne a Digione, come dimostra un disegno di Dom Urbain Plancher, ospitava nello strombo colonne antropomorfe di re e profeti di Israele, che, in linea con la filosofia tomistica, potrebbero simboleggiare il mondo pagano che viene a Cristo e prefigura i Magi della Natività. La regina di Saba dai lunghi capelli raccolti è colei che ha piede d’oca ed è pertanto depositaria dei segreti trinitari; ugualmente presente nelle cattedrali di Corbeil, Reims e Amiens è raffigurata mentre contempla i misteri divini, e figura anche nell’apparato scultoreo esterno della cattedrale di Chartres quale sobria guardiana del tempio. Detto luogo rappresenta uno snodo primario in relazione all’i-

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iconografia regina di saba Montserrat (Spagna), monastero di S. Maria. La Madonna Nera, scultura lignea di epoca romanica, contraddistinta dal colore scuro dell’essenza utilizzata per l’incarnato. XII sec.

si chiarisce l’allegoria dell’antica alleanza e la preparazione della venuta di Cristo, soprattutto nell’accesso di destra, le immagini di Salomone e della regina somigliano a emblemi reali di stirpe carolingia e potrebbero leggersi sia in senso allegorico, relativamente alla saggezza israelitica, sia in senso anagogico come antesignani di Gesú e di Maria. Nel portale Sud, a tematica apocalittica, l’archivolto esterno, con 28 statuette di Re e Regine, Patriarchi e Profeti dell’Antico Testamento, presenta singolari coppie di quattro figure sedute, ovvero Jesse e Davide, ma anche Salomone che regge uno scettro e la regina di Saba che stringe nella mano un fiore interpretabile come dono profetico da offrire all’umanità; tutto questo in straordinaria simmetria con una statua nera di Vergine con Bambino presente nella cripta, replica di un’antica scultura del XII secolo andata distrutta, ma molto simile all’antichissima Madonna Nera di Montserrat, sontuosamente vestita e ingioiellata, mirabilmente coronata, somigliante a una vera e propria regina dell’antichità come fu la sposa di Saba. F

Da leggere dentificazione della regina di Saba con Maria madre di Gesú e ciò perché il grande diffusore della devozione mariana in ambito francese fu Bernardo di Chiaravalle, fautore della seconda crociata (1145-49), e che proprio in occasione di quella spedizione scrisse un commento al Cantico dei Cantici, in cui la sposa nigra sed formosa è considerata precorritrice della Vergine; in lei il teologo ravvede lo speculum exemplorum

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di saggia sposa, icona ancestrale di femminilità e salvifico emblema cristiano di verginità, come dimostra il Paliotto smaltato di Klosterneuburg a Vienna (1181), realizzato dall’orafo Nicola de Verdun.

Duplice simbologia

Nel portale Sud della cattedrale citata, i personaggi esprimono il significato della nuova alleanza neotestamentaria, in quello Nord

Jacopo da Varazze, Legenda Aurea, Einaudi, Torino 2007 Sabina Antonini de Maigret, Paola D’Amore, Michael Jung (a cura di), Il trono della regina di Saba, Artemide, Roma 2012 Lorenzo Mazzoni, Kebra Nagast. La Bibbia segreta del Rastafari, Shake Edizioni, Milano 2013 Sandra Reberschak, La Regina di Saba, Bompiani, Milano 1995 ottobre

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In viaggio con Colombano di Furio Cappelli

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Un luogo appartato, un lungo fiume che si snoda fra gole tortuose e campi di fondovalle: qui, dopo una lunga peregrinazione, giunse, nel 612, il monaco irlandese e vi fondò la sua abbazia. Oggi, una visita alla cittadina di Bobbio consente di immergersi nell’atmosfera di quei lontani secoli dell’Alto Medioevo...

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nfaticabile, indomabile e inesauribile, nello spirito e nelle membra, san Colombano (542 circa-615) approdò a Bobbio (nell’odierna provincia di Piacenza) dopo lunghissime peregrinazioni. L’ultima parte della sua vita, in fondo, si può leggere come un viaggio sempre piú proteso verso l’Italia. Il destino volle infatti che, dopo venticinque anni di lontananza dalla sua natia Irlanda, finisse i suoi giorni in un eremo dell’Appennino tosco-emiliano. Ma nulla poteva prefigurare quell’esito, e se i suoi rapporti con la corte merovingia di Borgogna non fossero finiti ai ferri corti, se il re Teodorico II (596-613), spinto dalla sua pugnace nonna Brunechilde (534 circa-613), non lo avesse costretto all’esilio, forse avrebbe concluso la sua esistenza tra le selve degli amati Vosgi, dove aveva fondato tre monasteri, superata già la soglia dei settant’anni. Quando partí dal suo cenobio di Bangor, volle essere accompagnato da dodici confratelli, come gli apostoli. Approdato nel continente, cercò terre lontane dai grandi centri abitati, ricche di risorse naturali e magari ancora soggette ai riti pagani, quelli piú difficili da sradicare, incentrati su fonti d’acqua sorgiva o su alberi sacri. Il suo punto di riferimento simbolico era Roma, sede della massima autorità apostolica, in quella penisola italica che era anche un forziere del sapere, stracolmo di libri che spaziavano dalla cultura greco-romana ai Padri della Chiesa, libri che, con l’andare del tempo, erano sempre meno letti e ancor meno copiati. Quei libri arrivavano spesso nelle isole britanniche, a sostegno dell’opera Bobbio (Piacenza). Il Ponte Vecchio (detto anche «Gobbo» o «del Diavolo»). Essenziale collegamento con la sponda destra della Trebbia, era probabilmente in uso fin dal Medioevo, mentre l’assetto attuale è frutto di interventi succedutisi fino al XVII sec. Salvo diversa indicazione, tutte le immagini riprodotte nell’articolo si riferiscono all’abbazia di S. Colombano a Bobbio.

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nuovi codici, e ogni monastero doveva possedere una degna biblioteca. La sua azione, apparentemente lontana dal mondo, finiva cosí per avere solide implicazioni con la società e con la cultura delle terre che attraversava. Il ruolo di Bobbio fu in tal senso davvero esemplare. Da questo monastero derivano infatti 25 dei 150 manoscritti latini superstiti di epoca precedente al VII secolo. Basti citare il famoso Virgilio mediceo (V secolo), oggi conservato nel fondo Plutei della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, o il Codice K della Biblioteca Nazionale di Torino (IV-V secolo), con una traduzione dei Vangeli di Marco e di Matteo che precede la Vulgata di san Girolamo. Una tradizione, purtroppo non comprovata, vuole che sia stato Colombano stesso a portare questo libro in Italia, tenendolo con sé lungo tutto il viaggio, in una borsa sospesa al collo.

Una pianura silenziosa missionaria, e ora che l’Irlanda era divenuta un bastione di solida cultura e di religiosità integerrima, poteva dare man forte al continente. Per Colombano la vita del monaco era inconcepibile senza libri su cui meditare. Anche per questo era importante stabilire sull’immediato un dialogo con le corti regie, poiché i sovrani e i loro dignitari avevano le conoscenze e i contatti necessari per reperire e per acquisire

Bobbio aveva tutti i requisiti giusti per accogliere Colombano e i suoi seguaci. Là dove ora sorge la città, sviluppatasi tutt’intorno al nuovo monastero fondato dall’abate Agilulfo (883-96), occorre immaginare una pianura silenziosa solcata dal fiume Trebbia. Il toponimo Bobium deriva forse dall’altura che domina il panorama della città sul versante occidentale, il saltus Boielis, oggi noto come Monte Pènice, un tempo sede di un luogo di culto pagano, con il tipico albero sacro che Colombano stesso sradicò. Dove ora sorge il Castello Ma-

A destra Bobbio. Una veduta complessiva dell’Abbazia di S. Colombano. Fondata dal santo nel 612-13, fu trasferita nel sito attuale negli anni 883-96. La chiesa è stata ricostruita in due fasi tra il 1456 e il 1523.

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1. Ponte Vecchio 2. Duomo 3. Museo Diocesano 4. Archivi storici Bobiensi 5. Municipio, Biblioteca e Auditorium S. Chiara 6. Museo dell’Abbazia e Museo Collezione Mazzolini 7. Museo della Città 8. Basilica di S. Colombano 9. Chiesa di S. Lorenzo 10. Monastero di S. Francesco 11. Santuario della Madonna dell’Aiuto 12. Castello Malaspina-Dal Verme

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Natura e opera dell’uomo trovano un punto di incontro particolare proprio nei pressi della città, grazie al Ponte Vecchio che attraversa la Trebbia alle spalle della catte(segue a p. 72)

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da piccoli centri. Oltrepassata la città, la strada permette di svalicare verso Genova, e questo aspetto poteva giocare come un elemento strategico nell’appoggio di Agilulfo alla volontà di Colombano. Il capoluogo ligure era ancora in mano bizantina, e il monastero di Bobbio poteva costituire una simbolica «testa di ponte» del regno longobardo. Certo è che proprio la presenza del monastero trasformò la val Trebbia in una direttrice di transito, soprattutto quando si definirono i percorsi della via Francigena, uno dei grandi corridoi del pellegrinaggio medievale, su un asse ideale che aveva ai suoi poli Roma e le isole britanniche. 45

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laspina, nel punto piú alto della città, era situato l’unico edificio rilevante dell’intero comprensorio, la basilica di h S. Pietro. Nel 614 il re longobardo Agilulfo (590-616) la concesse a Colombano insieme al terreno circostante perdaun raggio di 4 miglia. Il condottiero Sundrarit, che deteneva il controllo della zona – forse perché lui stesso l’aveva conquistata –, si vide riconosciuta la metà delle rendite di alcune importanti saline situate sul versante opposto della Trebbia. Si trattava di un territorio ricco di risorse, dunque, ma in una zona lontana dal Po e dall’asse della via Emilia. Come era nella norma delle fondazioni di Colombano, una città come Piacenza era ben distante, e il paesaggio tipicamente appenninico era dominato dalle alture rivestite di boschi e dai corsi d’acqua. Tuttora Bobbio trae il proprio fascino dalla sua collocazione apN partata, su un percorso lungo il fiume che si snoda tra o v a gole talvolta tortuose e campi di fondovalle punteggiati

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medioevo nascosto bobbio I SECOLI DELL’ABBAZIA 590-591 Dopo aver lasciato il cenobio di Bangor, sulla costa orientale dell’Irlanda, Colombano oltrepassa la Manica e approda in Francia alla testa di un gruppo di 12 confratelli. Negli anni seguenti, svolgendo la sua azione nell’aspra regione dei Vosgi, fonda i monasteri di Luxueil, Annegray e Fontaines. 610 A causa di un dissidio ormai insanabile con l’anziana Brunechilde (o Brunilde), nonna del re merovingio Teodorico II, questi costringe Colombano all’esilio. L’imbarco per il rimpatrio è previsto al porto di Nantes, ma la nave, stando all’agiografo Giona, non riesce a prendere il largo. Colombano riesce comunque a eludere la scorta del re, si spinge verso Rouen, fa tappa a Parigi oltreché a Metz per poi risalire la valle del Reno, giungendo infine a Bregenz (Austria), sul lago di Costanza, dove fonda un monastero (611). 612 Mentre il suo discepolo prediletto Gallo rimane nella regione del lago, dove si

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ritira in solitudine e dove fonda il celebre monastero che da lui prenderà nome (San Gallo), Colombano oltrepassa le Alpi e approda in Italia. Compie un’opera di apostolato soggiornando spesso a Milano, e individua a Bobbio il luogo in cui ritirarsi (612-13). 614, Ottiene da re Agilulfo la concessione della 24 luglio chiesa di S. Pietro insieme a un ampio distretto per fondare il monastero di Bobbio. 615, Dopo essersi ritirato nell’eremo di 23 novembre S . Michele Arcangelo presso Coli, Colombano muore. 615-27 Il primo successore di Colombano a Bobbio, l’abate franco Attala, subisce la scissione di un gruppo di monaci, insorti contro l’austerità e la ferrea disciplina della regola. 622, estate La regina Teodolinda, vedova di Agilulfo, e suo figlio Adaloaldo compiono un pellegrinaggio sulla tomba di Colombano. 628-40 È l’epoca dell’abbaziato di Bertulfo di Metz. Viste le pretese di Probo, vescovo di Tortona, richiede a papa Onorio I la protezione della sede romana e l’esenzione dalla giurisdizione episcopale. Il monaco si reca a Roma per l’udienza alla corte papale, e il re Ariovaldo gli fornisce una scorta per il viaggio. La richiesta va a buon fine. È, in assoluto, la prima volta che un monastero ottiene dal papa un privilegio del genere. 641-52 Abbaziato del monaco greco Bobuleno. Risulta una popolazione di 150 monaci. La biblioteca del monastero conserva la versione piú antica superstite dell’Editto di Rotari (643), forse redatto proprio grazie all’apporto dei giuristi di Bobbio. 643 Di fianco alla severa regola di Colombano, viene introdotta la piú mite norma di san Benedetto da Norcia, nel tentativo di sanare il malcontento di parecchi monaci. 653-61 Abbaziato del vescovo irlandese Cumiano. 836 Dungal, riverito maestro dello studium di Pavia, diviene abate di Bobbio. Dona 29 codici alla biblioteca del cenobio. 841-65 Si succedono abati commendatari di nomina imperiale. Si tratta di vescovi e di arcivescovi insediati altrove. 883-96 Abbaziato di Agilulfo. Il monastero si trasferisce nella sede attuale. La ottobre

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Nella pagina accanto, in basso san Colombano raffigurato in un affresco del chiostro. A destra veduta della piazza S. Fara, ricavata nell’area dell’orto dell’abbazia; a questa appartiene il lungo porticato cinquecentesco che si congiunge al fianco destro della chiesa.

biblioteca risulta avere una dotazione di 690 codici. 928, luglio Visti i tentativi di egemonia da parte del vescovo Guido di Piacenza, l’abate Gerlanno cerca la protezione del re italico Ugo di Provenza, e a tal fine organizza una traslazione temporanea a Pavia delle spoglie di san Colombano. 1013, Natale L’abate Pietroaldo si incontra a Pavia con re Enrico II e propone l’elevazione di Bobbio a sede vescovile. 1014, Grazie alla mediazione del re, papa febbraio Benedetto VIII approva la creazione del nuovo episcopato. Lo stesso abate Pietroaldo è il primo vescovo di Bobbio. 1017 Prima attestazione del centro abitato (castrum) di Bobbio. Con la morte di Pietroaldo l’unità vescovo-abate si scinde, e si creano cosí le premesse per una rivalità tra le due istituzioni. Il primo vescovo a sé stante, Attone, si insedia presso l’antica chiesa di S. Pietro. 1027 Un diploma di Corrado II contiene la prima attestazione della cattedrale di S. Maria Assunta. 1173 Bobbio si sottomette a Piacenza e aderisce alla Lega Lombarda. 1207, Dopo decenni di attriti, papa Innocenzo III autunno indice il processo di Cremona per risolvere il conflitto tra episcopato e monastero, e stabilisce in conclusione che quest’ultimo deve essere sottomesso al vescovo. 1216 Fredencio è il primo podestà di Bobbio.

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1229 In seguito a una seconda rivolta ai danni del vescovo Oberto I, già cacciato dai Bobbiesi nel 1209, Piacenza organizza una spedizione militare in appoggio al presule e costringe la città alla capitolazione. 1304-41 Signoria di Corradino Malaspina. Con i lavori avviati nel 1305, prende forma una prima edizione del castello in forma di residenza nobiliare. 1436 Filippo Maria Visconti concede Bobbio in feudo al conte Luigi Dal Verme. 1440 Si intraprendono i lavori di ricostruzione del castello. 1448 Papa Niccolò V affida il monastero alla congregazione di S. Giustina di Padova. In questo periodo la comunità non supera i 18 componenti. 1456 Inizia la ricostruzione della chiesa abbaziale. 1461 Un nuovo inventario accerta che nella biblioteca del cenobio sono presenti solo 243 codici. 1480 Si realizza la nuova arca marmorea di san Colombano. 1493 L’umanista Giorgio Galbiato giunge a Bobbio e scopre i tesori superstiti della biblioteca. 1516-23 Si completano i lavori di ricostruzione della chiesa abbaziale. 1803 In seguito alla soppressione napoleonica, viene battuto all’asta ciò che resta della biblioteca: 74 codici e 542 stampati.

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medioevo nascosto bobbio Miti e leggende

La colomba e il diavolo Tre coppie di edicole con le loro colonnine (crocini) scandiscono il percorso del Ponte Gobbo. Esse accoglievano una serie di immagini sacre che garantivano protezione al viandante, «fortificando» al contempo un’opera cosí ardita e di difficile manutenzione. Oltre a una Madonna col Bambino si nota ancor oggi un bassorilievo con l’icona di san Colombano, nella sua tipica veste di solenne vegliardo, accompagnato da una colomba che allude al suo nome e alla purezza della sua fede. Egli stesso amava fare giochi di parole tra columba e Columbanus, e non è improbabile che questa assonanza

abbia favorito il suo ascendente presso i Longobardi, visto che già nel loro immaginario precristiano la colomba era molto importante. Come attesta Paolo Diacono, se in una famiglia qualcuno moriva lontano dalla patria, nelle necropoli veniva issata una pertica (una sorta di cenotafio), e sulla cima veniva innestata una colomba di legno. Questa veniva poi orientata in modo che indicasse il luogo in cui il congiunto aveva perso la vita. A destra Bobbio. Uno scorcio di una delle edicole erette sul Ponte Gobbo, contenente il bassorilievo con la Madonna col Bambino.

drale. Dal secolo scorso è noto soprattutto come Ponte Gobbo, per il tipico profilo a schiena d’asino che la carreggiata assume in due punti-chiave, allo scopo di favorire il deflusso delle acque piovane. La costruzione è stata realizzata in un punto piuttosto ampio dell’alveo di magra del fiume, ed è stato cosí necessario allestire un lungo corteo di arcate, ben undici, che si succedono in modo irregolare su una lunghezza complessiva di 273 m. L’assetto attuale risale sostanzialmente al 1590, nel mezzo di un’ampia serie di ricostruzioni oltreché di riparazioni dovute al regime spesso impetuoso delle acque fluviali, ma è molto probabile che una simile struttura esistesse già nel Medioevo. Di certo, l’attraversamento del fiume in corrispondenza della città, accanto alle esigenze specifiche del traffico e dell’estrazione del sale, finí per definire un percorso solenne di entrata. Ora che è interdetto il passaggio ai veicoli, la passeggiata sul ponte è una meta d’obbligo per ogni visitatore, e la visione panoramica che da lí si gode è splendida, sia lungo i parapetti, con uno sguardo sconfinato su entrambi i versanti della vallata, sia sulla sponda orientale, laddove è possibile ammirare la struttura sullo sfondo della città e del Monte Pènice.

Un nuovo polo di riferimento

Come si è accennato, la città di Bobbio si sviluppò intorno al monastero di S. Colombano, e si creò cosí la circostanza assai particolare di un cospicuo centro abitato nato e cresciuto intorno a un cenobio, per essere

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poi dotato delle consuete sedi istituzionali del vescovo e del Comune. La stessa sede episcopale si gemmò dal monastero. Dapprima si definí la figura di un abatevescovo, Pietroaldo (1014), ma già alla sua morte il vescovo di Bobbio acquisí una distinta fisionomia giuridica, spesso in grave dissidio con lo stesso cenobio, e stabilí un nuovo polo di riferimento della città. Dapprima, nel 1017, il vescovo Attone recuperò l’antica chiesa di S. Pietro, che era stata abbandonata dai monaci, ma poi, intorno al 1025, si pose mano a una cattedrale ex novo a sud-est del centro abitato. Intitolata a S. Maria Assunta, ha conosciuto molte fasi di ricostruzione, e l’aula si presenta oggi con un assetto decorativo neomedievale, realizzato con ingegno e con fastosità dal pittore Aristide Secchi di Lodi (1896). Tuttavia, la facciata, con le sue torri campanarie di rinfianco – nonostante le evidenti modifiche nell’assetto generale e nei dettagli –, costituisce ancora una pagina eloquente della costruzione romanica originaria. Il motivo delle torri gemelle, in particolare, rende conto di una certa ricercatezza architettonica, al servizio di un’istituzione che voleva essere al passo con la grande edilizia di rappresentanza, riprendendo schemi di illustri chiese coeve del Nord Italia (come se ne vedevano a Milano) e d’Oltralpe. La piazza antistante era già nel Medioevo caratterizzata da edifici porticati, e tra questi si inseriva l’antica residenza comunale, a sinistra della cattedrale, demolita nel 1927. Anche il monastero di S. Colombano è stato piú volte ottobre

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C’è poi una leggenda tardiva, adattata alle varie situazioni locali, che attribuisce al ponte di Bobbio come a tanti altri ponti riscontrabili ovunque (anche fuori d’Italia) la qualifica di «opera del diavolo» (è infatti chiamato anche Ponte del Diavolo). Perché il racconto attecchisca, basta che il ponte abbia un aspetto irregolare. Si deve poi inserire in modo un po’ temerario in un quadro naturale aspro o comunque esuberante. Se queste condizioni sono accertate, Satana in persona risulta aver realizzato la struttura in cambio di un’anima da portare all’inferno, quella del primo passante. Ma il Signore degli Inferi, compiuta l’opera, viene puntualmente gabbato. Nel caso di Bobbio, proprio san Colombano affida al proprio orso personale l’incarico di attraversare il ponte per primo.

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A destra Un primo piano del bassorilievo raffigurante san Colombano, contenuto in un’altra delle edicole del Ponte Gobbo. In basso ancora uno scorcio panoramico del Ponte Gobbo, in cui si distinguono due edicole, poste in corrispondenza della sommità di una delle campate.

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rimaneggiato, ma un’ampia serie di elementi davvero preziosi testimonia ancora i momenti del suo massimo fulgore. La chiesa abbaziale si presenta attualmente nelle forme di una solida costruzione rinascimentale. Gli unici residui architettonici della precedente costruzione romanica (XI secolo) si osservano all’esterno, in fondo al transetto sinistro. Spicca in particolare la torre campanaria (la cui cella è stata ricostruita nel XIX secolo), con una struttura basale a due piani che fa corpo con l’edificio, in modo da alloggiare due cappelle sovrapposte. Di fianco all’abside centrale originaria, occorre immaginare un’altra torre gemella simmetrica, secondo un assetto ancora oggi osservabile, per esempio, nella cattedrale di Aosta. È cosí evidente che la chiesa abbaziale di S. Colombano e la cattedrale di S. Maria manifestavano la concorrenza delle rispettive istituzioni anche sul piano delle soluzioni architettoniche adottate.

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È però all’interno che si può ammirare il «pezzo forte» superstite della chiesa romanica. Quando, nel 1910, si provvide a effettuare uno scavo per una nuova scalinata di collegamento alla cripta, venne scoperto, in corrispondenza della navata centrale, uno splendido pavimento istoriato in mosaico policromo, in tessere di marmo e di pietra locale, tuttora osservabile nella porzione messa in luce (100 mq circa) a una quota di -2,40 m rispetto al pavimento attuale. Si tratta di un’opera databile alla metà del XII secolo, perfettamente in linea con i migliori esempi di una vasta tradizione, testimoniata per esempio a Piacenza, nella cripta della basilica di S. Savino. La decorazione si articola su quattro registri, in funzione del punto di vista del fedele. Le figure, infatti, dovevano essere osservate dalla navata, mentre oggi possono essere viste solo dal lato dell’altare, in una prospettiva ottobre

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Sulle due pagine uno scorcio del mosaico pavimentale a tessere policrome che decora la cripta dell’abbazia. XII sec. A destra particolare di una delle scene del mosaico, raffigurante il combattimento tra una blemmia (uomo senza testa) e un drago.

A destra ancora un particolare del mosaico pavimentale, raffigurante il re pagano Antioco Eupatore che comanda l’assalto alla città di Antiochia, difesa dagli Ebrei.

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rovesciata. Verso la navata, gli ultimi due registri visibili presentano il tipico calendario figurato, con le allegorie dei mesi accompagnate dal rispettivo segno zodiacale. La sequenza parte da marzo, secondo l’uso dell’anno ab incarnatione (che inizia il 25 marzo, festa dell’Annunciazione), e si sviluppa a sequenze di due edicole, disposte alternamente sui due ordini, sopra e sotto. La maggior parte delle allegorie presenta scene di vita campestre. Novembre, per esempio, percuote con una pertica i rami di un albero, per raccogliere noci o ghiande che servono poi a nutrire i maiali raffigurati in basso; Dicembre, invece, è intento all’uccisione dei suini stessi. Verso l’altare sono poi di grande effetto i due registri in massima parte dedicati a un ciclo narrativo, con episodi del Vecchio Testamento, tratti dai due Libri dei Mac-

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cabei. Sul primo registro (sul bordo del mosaico) si interpone una scena di lotta tra esseri fantastici: un centarius (centauro) combatte contro una quimera (chimera), ibrido di leone, serpente e capra, mentre una blemmia (uomo senza testa) è alle prese con un draco.

Lo scontro con i pagani

Tra i riquadri narrativi spicca sul secondo registro una scena di guerra assai animata, ispirata ai contrasti tra gli Ebrei di Giuda Maccabeo e il regno ellenistico di Siria (II secolo a.C.). Sotto le mura di Antiochia (nell’odierna Turchia), in mano agli Ebrei, un gruppo di feroci soldati pagani, agli ordini di Antioco Eupatore, è all’attacco di un drappello che protegge la città. Dalla parte opposta sopraggiunge un drappello nemico con un elefante in ottobre

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In queste pagine ancora due particolari del mosaico pavimentale della cripta. Sulle due pagine, un momento dell’attacco alla città di Antiochia, raffigurante un’efficace sortita degli assediati contro un elefante da guerra. In alto, l’allegoria del mese di settembre.

testa, su cui torreggia un palanchino da cui manovrano gli arcieri, ma Eleazar riesce a compiere una sortita di nascosto, si apposta sotto al pachiderma e lo uccide con un colpo di lancia. Molto interessante, rispetto al testo biblico, è la menzione della città che fa da scenario. Antiochia, infatti, che era in realtà la capitale del regno seleucide, prende il posto della fortezza di Bet-Zur e del campo di Bet Zaccaria per attualizzare il racconto, che unifica due episodi distinti. Lo scontro tra i pagani e i Maccabei fa cosí da rimando alla «riconquista» crociata della città siriaca (1098), evidenziando gli atti di eroismo che sono necessari per contenere la minaccia delle truppe musulmane. Al termine del mosaico, in corrispondenza del presbiterio, dobbiamo immaginare un’ampia e complessa

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cancellata in ferro battuto, messa in opera tra il XII e il XIII secolo. Parzialmente riutilizzata nella cripta, all’ingresso della sagrestia, sfoggia un fittissimo «ricamo» di volute ed è sormontata da portaceri e da alberelli, uno dei quali arricchito sulla punta da un gallo, annunciatore dell’avvento del Cristo-Sole.

L’arca del santo fondatore

Al centro della cripta, l’attuale arca di san Colombano, riconfigurata da ultimo nel 1910, mostra sui lati cinque formelle a bassorilievo, originariamente dorate, che appartengono all’arca realizzata ex novo nel 1480. L’artefice, come risulta dalla «firma» apposta su un cartiglio, è Giovanni de’ Patriarchi di Milano. Originario di Argegno (Como), apparteneva a una famiglia di artisti operanti in diversi settori, ed egli stesso era una figura eclettica di pittore e architetto. Fu coinvolto anche in altre opere con elementi scultorei, ma solo come progettista. Le sculture dell’arca bobbiese, magari eseguite non da lui ma da un coimpresario, possono essere liquidate come un’opera «attardata» e di qualità artigianale, ma traggono forza proprio dalla loro asciutta semplicità, e si adattano bene a illustrare la figura e le gesta del santo

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medioevo nascosto bobbio i tesori dell’abbazia

Il vaso in cui l’acqua si tramutò in vino La formella con papa Gregorio Magno nell’atto di donare un’anfora a san Colombano suggerisce che uno splendido manufatto in alabastro, già presente nel monastero nel XIII secolo, fosse stato donato al santo dal papa in persona. La tradizione è attestata per la prima volta negli atti del processo di Cremona (1207), dove fu illustrata per sostenere le prerogative storiche del cenobio, ma Colombano non giunse mai a Roma e, soprattutto, giunse in Italia quando Gregorio Magno era già defunto. Si tratta dell’idria (vaso per l’acqua) oggi conservata nel Museo dell’Abbazia. Tradizionalmente identificata con uno dei vasi delle nozze di Cana, giunto dall’Oriente grazie a una missione svolta a Costantinopoli dal predetto papa Gregorio, era in origine, probabilmente, un’urna cineraria, tratta da una sepoltura illustre di età romana.

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Un altro prezioso manufatto che dal tesoro della chiesa è pervenuto nel Museo, è una teca in avorio ricavata dalla base di una zanna di elefante. Di piccole dimensioni, alta 16 cm e con un diametro di 13 cm, con la parte inferiore mancante a causa di un trafugamento, era utilizzata come pisside (contenitore dell’ostia consacrata) o come portareliquie, ma in origine apparteneva a una nobildonna dell’epoca tardoantica, e serviva a racchiudere profumi o gioielli. La superficie esterna è fittamente istoriata. Nella parte centrale Orfeo è intento a suonare la lira, ed è attorniato da un nugolo di figure di evidente carattere simbolico. Il carattere profano della decorazione, in questo e in tanti altri casi di riusi medievali, non causò alcun imbarazzo quando l’oggetto entrò a far parte del tesoro dell’abbazia.

La preziosità del materiale e l’eleganza dell’insieme dovevano mettere in secondo piano ogni considerazione sugli usi e sui significati originari, anche se, d’altro canto, non si può escludere che il soggetto fosse correttamente identificato, potendo per giunta essere interpretato come una immagine di Cristo per svariate connessioni. La capacità di Orfeo di ammansire le bestie piú feroci allude al ruolo di colui che distoglie l’anima dal peccato, come si può già riscontrare nel pensiero dei Padri della Chiesa e nella stessa pittura catacombale del III secolo. In basso particolare di uno dei lati del sarcofago in marmo di san Colombano, che si trova nella cripta. Opera di Giovanni de’ Patriarchis, è decorato con scene a bassorilievo, raffiguranti episodi della vita del santo. 1480.

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A destra e in basso ancora due immagini dalla cripta, che mostrano le sepolture degli abati Attala e Bertulfo. XV sec. Le lastre marmoree sono elementi di reimpiego, provenienti dalla chiesa altomedievale, databili al IX sec.

abate, come nella Scrittura della regola, con la colomba che reca l’ispirazione trasmessa dall’Eterno, o come nel San Colombano fondatore di Bobbio, dove il protagonista tiene in mano un grande «plastico» che unifica tutte le componenti della città. Bobbio si presenta come una sorta di fortilizio, secondo una norma iconografica tipicamente medievale, in linea con una resa prospettica che valorizza gli elementi piú importanti, senza inutili problemi di verosimiglianza. Spicca cosí l’intero recinto delle mura, entro il quale torreggia la chiesa abbaziale, fulcro generatore della città.

Un motivo antichissimo

Sempre nella cripta, ai lati dell’arca di Colombano si osservano le sepolture degli abati Attala e Bertulfo, cosí come sono state configurate nel XV secolo, e in ciascuna di esse spicca una lastra istoriata di reimpiego: elementi che facevano entrambi parte dell’arredo della chiesa altomedievale. Sono infatti due esempi di scultura carolingia, che utilizzano il repertorio adottato nelle recinzioni presbiteriali delle basiliche di Roma, nella stessa epoca (IX secolo). Con una lavorazione a bassissimo rilievo, e senza alcun ricorso a figure di sorta, in questo genere di arredi si sviluppano nastri bisolcati, noti anche come «trecce» per i nodi innumerevoli che formano lungo rigorosi tracciati geometrici. Il motivo, forse importato dall’Egitto copto, nasce da un antichissimo simbolo delle onde marine, e attecchí nell’Alto Medioevo europeo per comporre una visione astratta dell’aldilà, laddove il nastro, magari associato a foglie, rosette o grappoli d’uva stilizzati, allude ai fiumi del paradiso o ai rami che si dipartono dall’albero della vita (come è ben evidente nella lastra dell’arca di Attala), in riferimento al ruolo salvifico di Cristo.

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Quando i sepolcri della cripta sono stati sottoposti a un’accurata ricognizione, nel 1910, sono venuti alla luce numerosi reperti che si ricollegano alle esperienze dei pellegrini, come, per esempio, gli amuleti di viaggio, spesso acquistati presso i luoghi santi. Vi sono anche semplici pietre, isolate o racchiuse in masse argillose, già racchiuse in probabili sacchetti di fibra vegetale. Nel Museo dell’Abbazia è cosí possibile vedere una rara campionatura di simili oggetti, in massima parte databili al VII secolo. Le cassettine portareliquie, che venivano appese al collo o alla cintura, provengono d’Oltralpe, ma la maggior parte del materiale è da riferire alla Terra Santa o a Roma. Si tratta delle semplici eulogie, medagliericordo di argilla, alle quali si affianca l’ampia serie di

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La lapide di Cumiano

«Grande per dignità, discendenza e aspetto» «+ Qui si dissolvono le sacre membra del beato Cumiano, la cui anima traversando il cielo gioisce con gli angeli. Costui fu grande per dignità, discendenza e aspetto. La Scothia [si intende l’Irlanda, accomunata alla Scozia nella terminologia geografica dell’epoca, n.d.a.] lo inviò ormai vecchio in terra italica, si stabilisce a Bobbio vinto dall’amore di Cristo dove, osservando

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la regola del venerando Colombano, vegliando, digiunando, infaticabile in assidua preghiera, cosí visse felicemente lo spazio di 4 olimpiadi piú un anno [17 anni] in modo che anche ora lo si ritiene felice: mite, prudente, pio operatore di pace per tutti i fratelli. Gli anni della sua età furono novanta, con l’aggiunta anche di un lustro e quattro mesi [morí all’età di 95 anni, n.d.a.].

Ma tu, insigne padre, presentati come potente intercessore per il gloriosissimo re Liutprando, che ha ornato devotamente la tua tomba con una pietra di gran pregio, perché sia manifesto dove è coperto il tuo almo [nobile] corpo. Qui fu deposto il vescovo dominus Cumiano, il giorno 18 di agosto. + Eseguí l’opera il maestro Giovanni» (traduzione di Paolo Todde).

In alto, a sinistra la lapide della tomba del vescovo Cumiano, realizzata dal lapicida Giovanni per volere di re Liutprando. VIII sec. Bobbio, Museo dell’Abbazia di S. Colombano.

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Da leggere Giona di Bobbio, Vita di Colombano e dei suoi discepoli, a cura di Inos Biffi e di Costante Marabelli, Jaca Book, Milano 2001 Michele Tosi, S. Colombano di Bobbio, in Giovanni Spinelli (a cura di), Monasteri benedettini in Emilia Romagna, Silvana Editoriale, Milano 1980; pp. 18-31 Anna Segagni Malacart, Saverio Lomartire, Bobbio, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1992, disponibile anche on line su Treccani.it. Eleonora Destefanis, Il monastero di Bobbio in età carolingia: un santuario sulla via francigena, in Silvia Lusuardi Siena (a cura di), Fonti archeologiche e iconografiche per la storia e la cultura degli insediamenti nell’Altomedioevo, Vita e Pensiero, Milano 2003; pp. 133-152 Sulle due pagine Bobbio, cattedrale di S. Maria. Scorcio della navata centrale, in cui si può apprezzare l’impianto architettonico romanico, poi rielaborato dalle modifiche e decorazioni successive. XI-XIX sec.

ampolle in piombo, stagno e argento, assai frammentarie, destinate a custodire l’olio benedetto ossia l’«olio del legno della vita», come recitava l’iscrizione in greco che doveva leggersi su quasi tutti gli esemplari. Il corpo centrale, lavorato con la fusione a conio, presentava inoltre la semplice immagine della croce o una raffigurazione stilizzata dell’edicola del Santo Sepolcro, scene della Passione di Cristo o l’episodio di San Pietro salvato dalle acque.

Il venerabile Cumiano

Non sono queste le sole spoglie della piú antica fase storica dell’abbazia, poiché il Museo conserva anche reperti lapidei riferibili al VII e all’VIII secolo. Tra questi bisogna almeno ricordare la splendida lastra tombale di Cumiano, un personaggio eccezionale che, vicino alla soglia degli ottant’anni, lasciò l’Irlanda, dove era vescovo, e intraprese un lungo viaggio sulle orme di Colombano, per giungere cosí a Bobbio, a cospetto della sua tomba, nel 644. Entrato nella comunità monastica fu poi eletto abate nel 653, e morí dopo aver compiuto ben 95 anni,

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nel 661. La sua memoria era talmente sentita che il re longobardo Liutprando (712-744) commissionò il lungo epitaffio che segnalava sul pavimento la presenza delle venerande spoglie del vescovo-monaco. Il lapicida Giovanni incorniciò il testo con un fregio elegantissimo, ed ebbe l’accortezza di orientare la decorazione in senso opposto rispetto all’epigrafe, come era nell’uso dei mosaici pavimentali antichi, in modo che, da qualunque parte venisse, il passante venisse «catturato» dal fregio o dal componimento. Quando l’abate Agilulfo stabilí la nuova sede del monastero (883-96), le sepolture illustri e gli arredi dell’antica chiesa di S. Pietro furono necessariamente traslati, e non sempre le cose dovettero presentarsi allo stesso modo. La lapide di Cumiano, in particolare, conobbe una sorte curiosa. Fu rilavorata sul lato grezzo, nello stile delle lastre già osservate nelle arche laterali della cripta, e, insieme a quelle stesse lastre, fece parte integrante del presumibile recinto presbiteriale della chiesa carolingia di S. Colombano.

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di Aart Heering

La protesta che cambiò il mondo Dipinto dell’artista tedesco Hugo Vogel (1855-1934) nel quale il pittore immagina Martin Lutero che, il 31 ottobre 1517, affigge le sue 95 tesi sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg (oggi nel Land di Sassonia-Anhalt, Germania). A oggi, in realtà, non esistono prove certe che l’episodio abbia effettivamente avuto come protagonista il padre della Riforma protestante.

Nel corso del Medioevo, la Chiesa si allontanò progressivamente dagli ideali di sobrietà del messaggio cristiano. E a Roma aumentarono i costi di quella che ormai era diventata una vera e propria corte. Per farvi fronte, furono ideate numerose iniziative, tra cui la «vendita» delle indulgenze: una soluzione che dovette trasformarsi nella scintilla da cui, nell’ottobre di cinquecento anni fa, ebbe origine, con Martin Lutero, la scissione protestante


Dossier

I I

l frate domenicano di Lipsia Johann Tetzel non era uno «stinco di santo». Durante la sua vita movimentata (1460-1519), fu piú volte accusato di comportamenti poco consoni al suo status di uomo della Chiesa e, nella città di Innsbruck, venne addirittura condannato alla morte per annegamento per aver commesso adulterio e truffa nel gioco. Fu salvato dall’intervento in suo favore – presso l’imperatore Massimiliano – del principe elettore della Sassonia, la regione in cui Tetzel era divenuto famoso come predicatore e venditore di indulgenze. Un’attività, quest’ultima, grazie alla quale, un anno prima di morire di peste, ottenne il titolo di Dottore della Chiesa, su autorizzazione di papa Leone X. Tuttavia, se non fosse diventato, suo malgrado, il catalizzatore della Riforma protestante, Tetzel sarebbe stato presto dimenticato. Accadde invece che la sua attività attirasse l’ira di un allora sconosciuto monacoprofessore, che viveva in una piccola

A sinistra il religioso domenicano Johann Tetzel (1456-1519) in una incisione di Nikolaus Brühl (1691-1763). Il vasto commercio di indulgenze orchestrato da Tetzel fu una delle cause scatenanti delle prese di posizione di Lutero contro la Chiesa cattolica. In basso lettera di indulgenza rilasciata dal vescovo di Magdeburgo Alberto di Brandeburgo. Neuburg an der Donau, Monastero bendettino.

l’indulgenza

Attualità di un principio L’indulgenza fa tuttora parte della dottrina cattolica. Nell’edizione del 1997 del Catechismo della Chiesa Cattolica, nell’articolo sul Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione – lemmi 1471-79 – viene cosí definita: «L’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, remissione che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, autoritativamente dispensa e applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi» (1471). Il Catechismo sottolinea poi la validità di alcuni elementi fondamentali che i protestanti rifiutano: come l’esistenza del Purgatorio (1472), naturalmente, la Chiesa come detentrice del «tesoro dei meriti di Cristo e dei santi» (1478), e la possibilità di ottenere indulgenze per i defunti (1471 e 1479). Ma non parla piú della facoltà di monetizzare le indulgenze.

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città della Germania orientale, ma che, in pochi anni, di quella Riforma sarebbe divenuto l’ispiratore. Dalla critica a Tetzel, e di conseguenza alla compravendita di indulgenze in generale, Martin Lutero di Wittenberg arrivò infatti alla negazione di una serie di princípi fondamentali della Chiesa di Roma: cadute in terra fertile, le sue idee si diffusero con eccezionale rapidità in gran parte dell’Europa, ponendo fine alla sostanziale unità religiosa e culturale del Medioevo e causando una frattura duratura tra Nord e Sud.

Assicurazioni per l’aldilà

Il concetto dell’indulgenza, elaborato già alcuni secoli prima di Lutero, deriva dal potere sacerdotale di cancellare i peccati di un peccatore pentito, il quale, in cambio, si sottopone a penitenze come il digiuno, la recita di preghiere o l’esclusione temporanea dalla comunità religiosa e sociale. L’idea base dell’indulgenza è che le penitenze dovute per determinati peccati – già cancellati da confessione e pentimento – possano essere sostituite da opere pie. Sempre con l’aiuto della Chiesa, in quanto detentrice di un immenso «tesoro di grazie», accumulato da Cristo e santi e al quale può attingere per elargire favori spirituali ai fedeli pentiti. A partire dall’XI secolo, la Chiesa, occasionalmente, concedeva la sostituzione della penitenza con la partecipazione a una crociata, la donazione di elemosine o con un contributo per la costruzione o il restauro di una chiesa. La prassi dell’indulgenza ricevette un’importante spinta negli ultimi decenni del XII secolo, con l’elaborazione del concetto – o, nelle parole dello storico francese Jacques Le Goff (1924-2014), la «scoperta» – del Purgatorio (vedi box alle pp. 86-87). Una volta stabilita l’esistenza di questa «sala d’attesa», nella quale le anime dei defunti, prima di poter entrare nel Regno dei Cieli, dove-

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vano scontare le pene per i peccati non ancora cancellati, l’indulgenza divenne una valida assicurazione per la vita nell’aldilà. Nessuno poteva sapere quanto tempo avrebbe dovuto penare nel Purgatorio, ma la possibilità di ottenere, grazie a questa nuova prassi, una riduzione della penitenza era talmente ricercata che, nel 1215, il Quarto Concilio Laterano si vide costretto a limitare la crescita incontrollata del fenomeno. Decise che vescovi e arcivescovi

L’arcivescovo Alberto di Brandeburgo come san Gerolamo nel suo studio, olio e tempera su tavola, 1525. Darmstadt, Hessisches Landesmuseum.

avrebbero potuto condonare al massimo quaranta giorni di Purgatorio, mentre solo il papa poteva concedere un’indulgenza plenaria. Nei decenni successivi, la pratica dell’indulgenza, inizialmente intesa come atto riparatorio del peccatore (segue a p. 88)

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Dossier L’invenzione del Purgatorio

Quella condizione che diventa luogo Nel mondo cristiano, il Purgatorio, inteso come «terzo luogo» tra Paradiso e Inferno, è un concetto esclusivo della confessione cattolica. I protestanti lo rifiutano, perché le Sacre Scritture non ne farebbero cenno, e anche gli ortodossi non riconoscono il Purgatorio, il dibattito sulla cui esistenza fu una delle cause del fallito tentativo di riavvicinamento con i cattolici al Concilio di Firenze del 1438-39. L’elaborazione del concetto di Purgatorio ha avuto luogo dopo il grande scisma del 1054, solamente all’interno del cristianesimo latino. Lo sostenne, nel saggio La nascita del Purgatorio (Einaudi, Torino 1982), il grande medievista Jacques Le Goff, il quale, utilizzando una mole di fonti d’epoca, colloca questa «nascita» verso la fine del XII secolo, come esito di un processo millenario. Dopo che il cristianesimo si era affermato come religione predominante e che erano confutate alcune aspettative escatologiche dei primi cristiani, si pose il problema dell’aldilà. Era chiaro che i buoni sarebbero andati in Paradiso e i cattivi all Inferno, ma quale sarebbe stato il destino delle anime delle persone meno buone – cioè quasi tutte – o di quelle morte all’improvviso, senza potersi confessare, o, ancora, dei pagani buoni, ai quali non era giunto il messaggio del Vangelo? E poi, dove avrebbero soggiornato le anime dei defunti, in attesa del Giorno del Giudizio? A parte due accenni assai vaghi alla possibilità di riscatto dopo la morte – Matteo, 12.31-32 e I Corinzi, 3.11-15 – le Sacre Scritture non offrivano risposte soddisfacenti. Perciò, già nell’antichità, alcuni teologi elaborarono il concetto del refrigerium interim come «temporaneo ricettacolo delle anime dei fedeli».

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Fu però sant’Agostino, il «vero padre del Purgatorio» (per dirla con Le Goff), a porre alcuni principi base per la futura credenza del Purgatorio. Il vescovo di Ippona, vissuto tra il 354 e il 430, distingue tra quattro tipi di anime: tra i buoni e i cattivi si trovano i non del tutto buoni e i non del tutto cattivi. Per loro c’è ancora speranza, ma non senza sofferenza: «Anche se alcuni saranno salvati per mezzo del fuoco, tale fuoco sarà piú terribile di quanto un uomo possa patire in vita sua». Agostino distingue tra il fuoco temporaneo – tra morte e resurrezione – della purgazione e quello eterno della dannazione e afferma che oltre alla penitenza in vita, le anime dei defunti possono essere aiutate dai suffragi dei vivi. Due secoli piú tardi, un altro Padre della Chiesa, san Gregorio Magno, riaffermò le tesi del suo predecessore, aggiungendo l’esistenza di un Inferno poco infernale, nel quale si sarebbero trovati gli antichi filosofi e altri infedeli senza colpa. Il fuoco purgatorio di Agostino rimane il modello, non meglio circoscritto, della penitenza post mortem, fino alla metà del XII secolo, ma, all’indomani di quella data, cambia notevolmente. Le Goff descrive la mutazione della parola «purgatorio» da aggettivo a sostantivo, ossia da condizione in luogo, tra il 1150 e il 1170. Piú di un autore indica addirittura il luogo preciso, in qualche isola a ovest dell’Irlanda o sull’Etna, rimpiazzandone cosí il precedente «inquilino» pagano, Vulcano. Allo stesso tempo, le quattro categorie agostiniane si riducono a tre: tra buoni e cattivi ci sono coloro che hanno commesso i peccati piú o meno veniali e a loro è destinato il Purgatorio. Come scrisse Pier Lombardo, vescovo di Parigi morto

nel 1160, esiste una gerarchia dei peccati in base alla quale le anime dei morti saranno purgate e liberate piú o meno rapidamente. Parallelamente, si sottolinea l’importanza delle penitenze in vita e dei suffragi per i morti. Il Purgatorio appare come nuovo luogo negli scritti di teologi parigini e cistercensi tra il 1170 e il 1180, per poi entrare in una ricca letteratura popolare di visioni dell’aldilà. Significativo è l’esempio del Purgatorio di San Patrizio, una storia redatta da un monaco inglese verso il 1210 e che ebbe un successo straordinario in tutta l’Europa occidentale, tanto da dare il nome al Pozzo di San Patrizio costruito a Orvieto nel Cinquecento. È il racconto di un cavaliere. Owein, il quale, in un’isola irlandese, scende verso gli inferi dove è minacciato da demoni furiosi e vede anime torturate nelle maniere piú atroci. Ma Owein non demorde e alla fine, dopo essere passato su un ponte sopra un fiume di fuoco, raggiunge una bellissima città bianca, dove due signori che guidano una processione gli spiegano il senso del suo viaggio: tutti i presenti sono passati per queste torture, non avendo ultimato la loro penitenza prima di morire, ma dopo la purgazione si trovano in questo luogo d’attesa, per poi essere salvati. La durata della pena dipende dalla gravità dei peccati, ma anche dalle messe, preghiere ed elemosine fatte per loro. Con ciò, si sta già delineando quel tariffario salvifico che, nelle sue forme piú estreme, avrebbe suscitato le ire dei futuri riformatori. Le Goff definisce il Duecento il secolo del «trionfo del Purgatorio» (anche se le prime immagini conosciute sono del secolo successivo, cosí come l’apoteosi poetica di Dante del «secondo regno / dove l’umano spirito si purga / ottobre

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Miniatura raffigurante Virgilio che prega Catone l’Uticense (scelto da Dio come custode del luogo) di ammettere lui e Dante nel Purgatorio, da un’edizione illustrata della Divina Commedia. Madrid, Biblioteca Nazionale.

e di salire al ciel diventa degno»). Alberto Magno lo definisce «luogo di dannazione temporaneo», localizzato in un compartimento dell’Inferno. Tommaso d’Aquino assicura che i suffragi sono utili a coloro che sono in Purgatorio e che il cumulo di suffragi può addirittura annullare la pena. Dalla teologia, il Purgatorio scende alla pratica pastorale, soprattutto grazie a predicatori itineranti che amano arricchire i loro sermoni di cosiddetti

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exempla: storielle edificanti con le quali indurre alla penitenza e all’elemosina. Spesso si tratta di apparizioni di defunti sofferenti, che raccontano ai parenti i dolori che stanno patendo nel Purgatorio, per poi riapparire raggianti dopo un certo periodo in cui il congiunto ha fornito l’aiuto spirituale richiesto. Nel 1254 giunge la definitiva conferma pontificia, quando Innocenzo IV, in polemica con gli ortodossi, definisce il Purgatorio come «fuoco temporale dove sono

purgati i peccati non gravi e rimessi in precedenza con la penitenza» e raccomanda – anche ai Greci, che però si rifiutano – di utilizzare tale espressione nel futuro. Nel 1300, il suo successore, Bonifacio VIII, dopo l’indizione del primo Giubileo, estende l’indulgenza plenaria accordata ai pellegrini anche a chi sia morto durante o dopo il viaggio a Roma. Cosí facendo, conferma il potere papale anche sul Purgatorio, ponendo le basi per gli abusi dei secoli successivi.

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Dossier e, di conseguenza, anche come un sollievo psicologico, si trasformò in una importante fonte di reddito per la Chiesa stessa. Un risvolto di cui si ebbe una tangibile e consistente conferma nel 1300, quando papa Bonifacio VIII indisse il primo Anno Santo, con la promessa di accordare l’indulgenza plenaria per tutti i peccati commessi ai pellegrini che avessero raggiunto la Città Eterna. La massa di credenti in cerca di assoluzione diede infatti un notevole contributo all’economia locale e alle casse pontificie. In seguito, le cosiddette «lettere di indulgenza», rilasciate a pagamento dalle autorità ecclesiastiche locali, servirono a procurare fondi per l’abbellimento di chiese, la costruzione di biblioteche, l’assistenza ai poveri e l’organizzazione di crociate in Terra Santa (anche se queste ultime spesso non ebbero effettivamente luogo).

Un esercito di predicatori

Per massimizzare gli introiti, nel 1476 papa Sisto IV permise la vendita di indulgenze valide non solo per gli acquirenti stessi, ma anche per terzi. Il risultato fu una nuova corsa ai pregiati documenti da parte di gente di tutte le classi sociali, ansiosa di poter alleviare le pene post mortem dei congiunti deceduti. In piú, fu mandato in giro per l’Europa un piccolo esercito di predicatori specializzati, con il compito specifico di vendere il maggior numero possibile di indulgenze. Come scrive Johann Heinrich Claussen, addetto culturale della Chiesa Evangelica Tedesca, era stato, insomma, messo a punto un sistema efficiente, ma al tempo stesso fragile: «La Chiesa si era creata un fondo di capitale di salvezza, dove potevano entrare i clienti religiosi. Un marketing intenso da parte di predicatori ambulanti garantiva una partecipazione adeguata. L’indulgenza era però un prodotto finanziario salvifico problematico: il capitale reale del fondo era incal-

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Ritratto di Martin Lutero, olio su tavola della bottega di Lucas Cranach il Vecchio. 1528. Wittenberg, Lutherhaus. ottobre

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Ritratti di Hans Lutero e Margherita Ziegler, padre e madre di Martino, olio su tavola di Lucas Cranach il Vecchio. 1527. Eisenach, Wartburg-Stiftung.

Cronologia 1453 Dopo un lungo assedio, i Turchi ottomani conquistano Costantinopoli. Cade l’impero bizantino. 1454 L’orafo e tipografo tedesco Johannes Gutenberg inventa la stampa a caratteri mobili. 1483 A Eisleben, nell’odierno Land tedesco di Sassonia-Anhalt, nasce Martin Lutero. 1492 Cristoforo Colombo sbarca sulle coste del nuovo continente. 1498 Accusato di eresia, il predicatore domenicano Girolamo Savonarola viene arso sul rogo a Firenze. 1503 Alla morte di Pio III, viene eletto papa il cardinale Giuliano della Rovere, che sale al soglio pontificio con il nome di Giulio II. 1505 Contro la volontà del padre, Martin Lutero decide di farsi monaco ed entra nel convento agostiniano di Erfurt. 1512 Lutero ottiene il dottorato in teologia all’Università di Wittenberg e diventa professore di studi biblici. 1516 L’umanista e scrittore inglese Tommaso Moro pubblica L’Utopia, romanzo in cui viene rappresentata la società ideale del Rinascimento. 1517 Le celebri 95 tesi di Lutero contro le indulgenze vengono affisse sul portale della chiesa del castello di Wittenberg. È il primo atto ufficiale di rottura del teologo tedesco con il cattolicesimo. 1519 A Zurigo, il teologo svizzero Huldrych Zwingli sottolinea la necessità di operare un profondo rinnovamento nella Chiesa.

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1520 Papa Leone X emana la bolla Exsurge Domine, con la quale invita Lutero a ritrattare le sue tesi. Quest’ultimo non adempie all’intimazione del pontefice e brucia pubblicamente la bolla. 1521 Lutero viene scomunicato e rifiuta di ritrattare le sue tesi in occasione della Dieta di Worms, al cospetto dell’imperatore Carlo V. 1522 Lutero inizia la traduzione della Bibbia in tedesco. 1525 In Germania scoppia la rivolta dei contadini. Lutero si schiera con i principi invitandoli a sedare l’insurrezione. 1526-29 Due Diete tenutesi a Spira emanano provvedimenti contraddittori. La prima favorisce la diffusione del protestantesimo, la seconda la reprime. 1530 Il teologo tedesco Filippo Melantone redige la Confessio augustana, primo vero e proprio «manifesto» della Riforma protestante. 1531 In Turingia, viene costituita la Lega di Smalcalda, unione di principi luterani pronti a combattere con le armi in difesa della propria fede. 1532 La pace di Norimberga sancisce una tregua tra cattolici e luterani tedeschi, con l’avallo dell’imperatore Carlo V. 1534 L’Atto di Supremazia stabilisce la sovranità di re Enrico VIII sulla Chiesa inglese. 1545 Gli Stati protestanti tedeschi non partecipano al Concilio di Trento, indetto da Paolo III con l’obiettivo di favorire un dialogo tra cattolici e luterani. 1546 Martin Lutero muore a Eisleben.

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Dossier colabile, i costi erano alti, le spese di mediazione non trasparenti, e la distribuzione dei dividendi avrebbe avuto luogo in un momento che non si sarebbe piú vissuto, cioè nel aldilà». Si tratta di osservazioni pronunciate dal pulpito avversario e, pertanto, non prive di malizia, ma che contengono anche una buona dose di verità, come dimostrano gli eventi prodottisi all’inizio del Cinquecento, quando i nodi vennero al pettine. Nel secondo Quattrocento, il traffico delle indulgenze aumentò notevolmente. La recente invenzione della stampa (1455) agevolava la produzione in massa di lettere di indulgenze, ma c’era anche un motivo geopolitico di non poco conto. Nel 1470, diciassette anni dopo la caduta di Costantinopoli, anche l’isola di Negroponte (oggi Eubea, lungo la

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costa sud-orientale ellenica, n.d.r.), l’ultimo baluardo cristiano in terra greca, fu presa dai Turchi, che ora dai Balcani minacciavano direttamente l’Italia e la Germania. Per fermarne l’avanzata, papa Innocenzo VIII dichiarò, nella bolla Universo pene orbi del 1487, la necessità di una nuova crociata.

Appello alla crociata

Un suo legato speciale per la Germania, il cardinale francese Raymond Peraudi, fu particolarmente attivo nel diffondere l’idea della crociata e, piú in particolare, della necessità di finanziarla utilizzando i ricavi derivanti dalla vendita delle indulgenze. Nella Dieta di Francoforte sul Meno del 1489, Peraudi invitò, con scarso successo, i principi tedeschi a porre fine ai loro dissidi interni e a unirsi nella lotta contro il pericolo turco.

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A sinistra e in alto Eisenach (Turingia). Due immagini della casa in cui Martin Lutero soggiornò e studiò prima di frequentare l’Università di Erfurt. Nella pagina accanto, a sinistra Eisleben (Sassonia-Anhalt). La casa in cui Martin Lutero nacque nel 1483.

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Con lo stesso obiettivo, tra il 1486 e il 1504, organizzò tre grandi campagne di vendite di indulgenze in tutta la Germania. Grazie all’eloquenza del prelato e ad accordi con le chiese locali – alle quali era destinato un terzo dei proventi, mentre il resto andava a Roma, dopo il pagamento delle spese di segreteria per Peraudi e i suoi aiutanti – furono vendute centinaia di migliaia di indulgenze. Per stimolare ulteriormente la vendita, Peraudi aveva elaborato un sistema tariffario nel quale l’importo della donazione richiesta era legato alla disponibilità economica del penitente. Il cardinale morí nel 1505, ma la sua scomparsa non frenò il florido commercio: tra il 1503 e il 1519, in Germania furono cosí raccolti fondi per la lotta dell’Ordine Teutonico contro i Tatari in Livonia e per la costruzione di nuove chiese in città come Augusta, Treviri

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Dossier A destra frontespizio di un’edizione dell’opera Contro il papato istituito a Roma dal diavolo, pubblicata da Lutero nel 1545. L’immagine, realizzata da Lucas Cranach il Vecchio (a cui si devono anche le tavole che corredano il testo), mostra il papa alle soglie dell’Inferno. Nella pagina accanto illustrazione satirica che presenta il papa di Roma come un asino (Der Bapstesel zu Rom), xilografia forse attribuibile alla bottega di Lucas Cranach il Vecchio. 1523. L’opera prende spunto dalla descrizione di una creatura mostruosa, un asino-papa appunto, che, secondo la versione tramandata da Filippo Melantone nel 1557, sarebbe stato trovato nel Tevere nel 1496, dopo una grande inondazione.

In basso caricatura raffigurante il papa che decapita l’imperatore, xilografia realizzata dalla bottega di Lucas Cranach il Vecchio. 1545.

e Costanza. Una sorta di apoteosi del traffico di indulgenze fu, poi, la grande campagna indetta da papa Leone X nel 1515, per finanziare la costruzione, già iniziata nel 1506 dal suo predecessore Giulio II, della nuova basilica vaticana di S. Pietro. Tuttavia, il mercato delle indulgenze mostrava segni di saturazione. Era ormai chiaro che la compravendita della salvezza delle anime si era trasformata in una mera transazione finanziaria, che ben poco aveva a che fare con la reale penitenza. Da quando, nel Duecento, il monaco francescano Bertoldo di Ratisbona aveva bollato i falsi predicatori di indulgenze come «servi di Satana», piú di una voce si era levata, anche in seno alla Chiesa, contro questo sfruttamento della grazia divina. Il grande umanista Erasmo da ottobre

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Rotterdam – che, a differenza di Lutero, non ruppe mai con la Chiesa – non esitò a protestare contro lo «svergognato» traffico delle indulgenze, chiedendosi retoricamente dove fossero finiti tutti i danari raccolti per finanziare opere di bene. Anche Johann von Staupnitz, personaggio di spicco nell’Ordine di Sant’Agostino e guida spirituale del giovane Lutero, nel 1516 tenne una serie di sermoni critici contro il commercio di indulgenze. La critica aperta poteva comunque rivelarsi piuttosto rischiosa, come dimostra il caso del parroco del Duomo di Würzburg, Dietrich Morung, che aveva osato mettere in discussione il potere del papa di alleggerire le pene delle anime nel Purgatorio. Nel 1489, su indicazione dello stesso Peraudi, Morung venne arrestato e scomunicato. Trascorse otto anni in carcere e venne rilasciato soltanto dopo avere rinnegato le sue tesi «eretiche». Negli anni seguenti, le critiche si fecero perciò meno plateali.

Le lamentele dei principi

Nel frattempo, però, anche tra i principi tedeschi cresceva l’insofferenza nei confronti delle pretese e delle tasse imposte della Curia romana. «Prelature, capitoli e prebende vengono occupati da indegni, inetti e stranieri», recitava una dichiarazione di protesta adottata nel 1456 dai principi elettori, insieme ai vescovi e ai capitoli delle principali città tedesche. Nei decenni successivi seguirono altre liste di lamentele, note come gravamina nationis germanicae, che rimasero tuttavia inascoltate, favorendo cosí il sentimento antipapale, che avrebbe piú tardi contribuito all’elaborazione della Riforma. Sullo sfondo di questo scenario, anche il traffico di indulgenze divenne sempre piú sospetto. In linea di massima, i governanti tedeschi non avevano nulla da obiettare quando a beneficiare erano attività locali, come la costruzione e il re-

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stauro di chiese, conventi e ospedali. Vedevano invece con diffidenza le campagne indette da e per il Vaticano, per effetto delle quali notevoli somme di contanti venivano sottratte all’economia locale. Infine, dopo quasi trent’anni di campagne di vendita, anche la platea dei consumatori cominciava a mostrare segni di stanchezza. La maggior parte dei potenziali acquirenti era già stata accontentata, mentre i

risultati, data la natura particolare dell’acquisto, erano difficili da valutare. Cosí, a Francoforte, dove nel 1488 Peraudi aveva incassato 2078 gülden, nel 1502 ne furono raccolti appena la metà, mentre la campagna per S. Pietro, nel 1517, rese solo 304 gülden. «Siamo diventati piú tirchi e questa storia delle indulgenze comincia a raffreddare le anime», scrisse Erasmo a proposito del calo delle vendite. Nei diversi ceti della società, soprattutto

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Dossier nell’Europa settentrionale, cresceva la diffidenza verso le gerarchie ecclesiastiche di Roma. Ne è un esempio eloquente la posizione assunta dal consiglio comunale della libera città di Norimberga, che, nel 1516, si oppose a un’indulgenza papale per lo Spirito Santo, definendola un «inganno del popolo comune». La Curia romana, invece di cogliere i segnali del malessere, reagí con una mossa disperata, accorciando la durata delle indulgenze. Nel caso della raccolta di fondi per

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto Wittenberg. La piazza del Mercato con i monumenti realizzati nell’Ottocento in onore di Melantone (in primo piano) e Lutero; del secondo è riprodotto, qui accanto, un particolare.

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L’uomo giusto per simili mercanteggiamenti era stato individuato nella persona di quel Johann Tetzel ricordato all’inizio di questo Dossier, affermatosi come abile venditore. Egli stesso si vantava di aver salvato, con le sue indulgenze, piú anime di san Pietro, e di poter far perdonare persino uno stupratore della Santa Vergine.

Appena il soldino…

la basilica vaticana, la validità delle indulgenze già concesse fu limitata a otto anni, rendendo quindi necessario il loro rinnovo, a fronte di un nuovo pagamento. Come ha scritto lo storico inglese Andrew Pettegree, fu una brutta sorpresa per chi aveva creduto nella validità eterna del proprio pio investimento, che determinò un ulteriore motivo di diffidenza verso Roma. Perciò, Lutero ebbe gioco facile quando, nell’89ª delle sue famose 95 tesi, chiese ironicamente: «Dato che il papa con le indulgenze cerca la salvezza delle anime piuttosto che il denaro, perché sospende le lettere e le indulgenze già concesse, quando sono ancora efficaci?». Per indurre i credenti a versare

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altro denaro occorrevano predicatori convincenti. Ne erano ben consci sia il papa che l’arcivescovo di Magdeburgo, Alberto di Brandeburgo, da poco nominato anche arcivescovo di Magonza. Per ottenere la seconda diocesi – una prassi vietata dal diritto canonico –, Alberto aveva dovuto versare nelle casse del papa 23 000 ducati, presi in prestito dai banchieri Fugger e da racimolare attraverso la vendita di indulgenze. Il papa e l’arcivescovo si erano infatti accordati per un’equa spartizione: dei proventi della campagna per la costruzione della basilica di S. Pietro, la metà sarebbe andata a Roma, l’altra metà ad Alberto, e, da lí, immediatamente ad Augusta, sede della banca Fugger.

A lui viene attribuita la frase, ripresa poi dallo stesso Lutero nella 27ª delle sue tesi, con parole destinate a risuonare in tutto il futuro mondo protestante: «Appena il soldino tintinna nella cassa, l’anima vola verso il cielo» («Sobald der Gülden im Becken klingt im huy die Seel im Himmel springt»). Tetzel iniziò a girare per le terre di Alberto, facendo leva sulla credulità popolare. Si presentava con una grande cassa di legno destinata alla raccolta dei soldi. Sulla cassa – nota come Tetzelkasten e della quale esistono ancora alcuni esemplari –, era dipinto un diavolo che torturava le povere anime dei defunti nel Purgatorio. Nelle sue prediche, Tetzel impressionò il pubblico con immagini cruente che nulla lasciavano all’immaginazione: «Non sentite forse le voci dei vostri genitori e di altri defunti che gridano: “Pietà di me, pietà di me, perché la mano di Dio mi ha percosso. Stiamo subendo punizioni severe e soffriamo dolori di cui tu con poche elemosine ci potresti liberare, se solo volessi!”». Per aumentare gli introiti, Tetzel arrivò a vendere indulgenze persino per peccati non ancora commessi. Una leggenda racconta come una volta fosse stato derubato da un cavaliere, il quale dinanzi alle vivaci proteste del predicatore, gli mostrò l’indulgenza che lui stesso gli aveva venduto il giorno prima. Non sappiamo se l’episodio sia realmente accaduto, ma il fatto che, nel tempo, sia stato raccontato in molte varianti – fra gli altri, anche dal noto scrittore tedesco Theo-

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Dossier A destra, sulle due pagine I Dieci Comandamenti, olio su tavola della bottega di Lucas Cranach il Vecchio. 1516. Wittenberg, Lutherhaus. In basso Wittenberg. La stanza della casa in cui, nel 1560, Filippo Melantone esalò l’ultimo respiro.

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dor Fontane (1819-1898) – la dice lunga sulla fama di cui Tetzel gode tuttora, soprattutto nel mondo protestante. Tetzel non si recò a Wittenberg, che si trova in Sassonia, il cui principe elettore, Federico il Saggio, gli aveva negato il permesso di predicare. Proprietario di una rinomata collezione di reliquie, Federico non era avverso alle credenze popolari, ma si rifiutò di fare un favore al suo rivale Alberto, poiché questi gli aveva sottratto Magonza, per decenni feudo della sua famiglia. Da Wittenberg, tuttavia, molti fedeli, attratti dalla fama di Tetzel, attraversarono la vicina frontiera con le terre del Magdeburgo per assistere alle sue prediche. Una volta tornati, alcuni di loro mostrarono le indulgenze acquistate al loro confessore, Martin Lutero, sostenendo che con queste carte in mano la penitenza era diventata superflua. Il fatto fece esplodere l’ira che Lutero covava già da anni e segnò, probabilmente, il momento decisivo nel processo storico che ha portato alla Riforma. All’epoca, Martin Lutero era an-

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cora uno sconosciuto. Era nato nel 1483, a Eisleben, nell’attuale Land orientale della Sassonia-Anhalt, in una famiglia della piccola borghesia cittadina. Dopo aver studiato presso la scuola latina, entrò – contro la volontà del padre – in un convento agostiniano. Nel 1507, un anno prima di essere accolto nell’Ordine, prese l’abito talare. Nel 1508 venne chiamato una prima volta alla neonata Università di Wittenberg, per insegnare l’etica di Aristotele. Quattro anni piú tardi, nel 1512, lo stesso ateneo gli affidò la cattedra di esegesi biblica, che Lutero tenne fino alla morte. Come uomo di fiducia del priore, nel 1510 fu mandato a Roma per chiedere l’intermediazione del papa in una lite: la città gli fece una grande impressione e, da buon cattolico, Lutero salí la Scala Santa in

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ginocchio e visitò le chiese piú importanti. Ma, da buon tedesco, si irritò per la scarsa serietà del clero romano, all’epoca guidata dal «papa guerriero» Giulio II, al secolo Giuliano della Rovere. Studi recentissimi hanno però rivelato che questa immagine negativa dell’Urbe, passata da Sancta Roma a sedes Diaboli, sarebbe frutto di una rielaborazione posteriore, scaturita dalla reinterpretazione delle sue esperienze.

Lo studio delle fonti

Per diversi anni, Lutero studiò a fondo la Bibbia e sant’Agostino, seguendo il dettame umanistico di risalire ad fontes. Alla fine, giunse alla conclusione – che fu per lui una rivelazione – che tutto ciò che conta è la grazia di Dio, mentre la volontà umana non conta nulla. Tale visione contrastava con la dottrina cattolica

ufficiale, nella quale l’uomo è libero di scegliere tra bene e male. Il punto di rottura fu però la vendita delle indulgenze. Il giovane teologo non era contrario alle indulgenze in sé, e, a Roma, ne aveva personalmente acquistata una per l’anima del nonno. Ma contestava energicamente l’operato di venditori come Tetzel, che avevano ormai mercificato i sentimenti di pentimento e vera penitenza. Espresse le sue critiche in 95 tesi, scritte prima in latino e ben presto tradotte in tedesco, e che, a differenza dei trattati teologici del tempo, brillavano per la loro chiarezza (vedi box a p. 98). Se, come vuole la tradizione, sia stato o meno lo stesso Martin Lutero ad affiggere il documento sul portone della chiesa di Wittenberg, il 31 ottobre del 1517, poco importa. Quel che conta è che le sue affermazioni

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Dossier furono lette e riprodotte, riscuotendo un successo immediato in tutta la Germania. Lutero diventò scissionista suo malgrado. Non aveva infatti alcuna intenzione di uscire dalla Santa Romana Chiesa e si considerava un cattolico devoto, che voleva mettere in discussione alcuni abusi per poterli superare. Ma fu la reazione delle alte gerarchie a scatenare in lui, e in milioni di credenti con lui e dopo di lui, la ribellione contro quella Chiesa. Lo stesso Lutero, con la tesi n. 90, invitò il papa a valutare seriamente le sue critiche e a non «soffocare queste argomentazioni con la sola autorità». Cosa che invece avvenne puntualmente. Subito dopo la pubblicazione delle tesi, Lutero cercò di convincere Alberto di Brandeburgo a ritirare le deleghe a Tetzel, ma l’arcivescovo si guardò dal farlo, poiché aveva urgente bisogno dei proventi della campagna di vendita delle indulgenze per pagare i suoi debiti verso i Fugger. Tetzel invece, reagí con una

A sinistra ritratto di Federico il Saggio, olio su tavola di Lucas Cranach il Vecchio. 1509. Londra, National Gallery. A destra Wittenberg. La porta della chiesa di Ognissanti, sui cui battenti furono affisse le 95 tesi di Martin Lutero.

le 95 tesi

Critiche feroci, non senza ironia... Le «95 tesi» pubblicate da Martin Lutero a Wittenberg il 31 ottobre del 1517 sono scritte in un linguaggio semplice e aggressivo, arricchito da un’ironia pungente, come, per esempio, nelle tesi 65-66: «Dunque i tesori evangelici sono reti con le quali un tempo si pescavano uomini ricchi» e «Ora i tesori delle indulgenze sono reti con le quali si pescano le ricchezze degli uomini». Del resto, già nella tesi 24, si legge: «È inevitabile che la maggior parte del popolo sia ingannata dalla indiscriminata e pomposa promessa di liberazione della pena». Un vero e proprio attacco frontale è quello portato con le tesi 35-36; «Non predicano cristianamente quelli che insegnano che non è necessario il pentimento per chi (…) acquista lettere di indulgenza» e «Qualsiasi cristiano veramente pentito ottiene la remissione plenaria della pena (…) anche senza lettera di indulgenza». A cui fanno eco: «È vana la fiducia nella salvezza mediante le lettere di indulgenza» (52) e «Saranno dannati in eterno coloro – con i loro maestri – che credono di essere sicuri della loro salvezza sulla base delle lettere di indulgenza» (32). Lutero si scaglia piú volte contro il papa, con riferimenti feroci alla vendita di indulgenze per finanziare la costruzione della basilica di S. Pietro: «Perché il papa le cui ricchezze oggi sono piú opulente di quelle degli opulentissimi ricconi, non costruisce la basilica di San Pietro con i propri soldi invece che con quelli dei poveri fedeli?» (86). E, nella tesi 82: «Perché il papa non vuota il Purgatorio per via della santissima carità e per la somma necessità delle anime – che è la ragione piú giusta di tutte – mentre invece libera un numero infinito di anime in forza del funestissimo denaro per la costruzione della basilica, che è una ragione debolissima?».

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difesa pubblica delle indulgenze, alla quale Lutero rispose, nel marzo 1518, con il Sermone sull’Indulgenza e la Grazia. Grazie a quest’opuscolo di poco piú di 1500 parole, pubblicato in tedesco e stampato e ristampato da tipografie in tutto il Paese, il dibattito academico divenne pubblico. Lutero stesso, nel giro di due anni, diventò l’uomo piú famoso della Germania e l’autore piú pubblicato d’Europa, trasformandosi nel capo carismatico di un movimento riformatore sempre piú potente. Il monaco ribelle non faceva tutto da solo, potendo contare su un gruppo di amici e sostenitori spesso molto influenti. Riscuoteva un crescente successo tra i suoi confratelli agostiniani e il suo superiore, von Staupniz, si rifiutò di procedere contro di lui. La sua incolumità fisica era garantita da Federico il Saggio. Il potente principe elettore sarebbe rimasto sempre cattolico, ma ciononostante continuava a prestare aiuto a Lutero nella convinzione, assai moderna e liberale per l’epoca, che il riformatore dovesse avere il diritto di esprimere le sue idee.

Filosofo e linguista

Collaboratore valoroso e grande amico fu il teologo e filosofo Filippo Melantone (1497-1560, al secolo Philipp Schwarzerdt), che si adoperò per mitigare il linguaggio spesso aggressivo di Lutero. A Melantone, anch’egli tedesco (il nome deriva dall’italianizzazione di Melanchthon, grecizzazione del suo cognome – letteralmente, «terra nera» – coniata dal suo mentore, Johannes Reuchlin, come omaggio al talento di Philipp per le lingue antiche, n.d.r.), si devono la prima professione di fede protestante e l’aver posto le basi di un moderno sistema educativo. Di lui Lutero scrisse: «Il mio compito è quello di sradicare e potare, dopo di che arriva Mastro Filippo per seminare, piantare e innaffiare». Grazie a un altro amico, il famoso pittore Lucas Cranach il Vecchio, il ritratto

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del riformatore – col viso massiccio e squadrato, lo sguardo deciso e il cappello nero – divenne noto in tutta Europa, mentre gli scritti di Lutero erano spesso ingentiliti da decorazioni dello stesso Cranach. Nel frattempo, la «questione Lutero» era giunta anche a Roma. In 40 delle sue 95 tesi, Martino aveva fatto riferimento esplicito al ruolo del papa, in termini spesso poco lusinghieri, e s’imponeva una reazione. Dal gennaio 1518, la Curia romana era al corrente degli interventi di Lutero, ma il papa mediceo Leone X non

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aveva alcuna intenzione di entrare nel merito della questione e, ancor meno, di rinunciare a una fonte di guadagno piú che gradita.

La Chiesa non si discute

Tuttavia, a Roma, le parole azzardate di un monaco insolente, che viveva in un modesto borgo della lontana Germania orientale – a Wittenberg si contavano all’epoca soltanto 384 case – non sembravano costituire una minaccia seria. Il pontefice, dunque, non intervenne personalmente, e affidò l’incarico di

risolvere il problema al teologo ortodosso Silvestro Mazzolini, Maestro del Sacro Palazzo Apostolico. Nel maggio del 1518, Mazzolini espresse il suo giudizio: chiunque avesse messo in discussione le scelte della Chiesa in materia di indulgenze era da considerarsi eretico. Nell’ottobre dello stesso anno, Lutero fu convocato ad Augusta (oggi Augsburg, n.d.r.) per un confronto con il legato papale, il cardinale Tommaso de Vio, noto come Cajetanus. Ma mentre il riformatore si era preparato a un dibattito teologico, Cajetanus preottobre

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Etimologia

Quando si dice «protestante» Il termine «protestante», per indicare i seguaci di Lutero e di altri riformatori, nasce nel 1529. Nel 1521 la Dieta (la rappresentanza dei diversi Stati e città libere della Germania) di Worms aveva colpito Lutero e i suoi seguaci con il bando imperiale. Cinque anni dopo, la prima Dieta di Spira permise a principi e città di decidere autonomamente quale religione seguire. La seconda Dieta di Spira, nel 1529, ribaltò questa decisione. Su iniziativa di Carlo V, rappresentato dal fratello Ferdinando I, la maggioranza cattolica obbligò le regioni e le città passate alla Riforma a tornare alla confessione cattolica. La minoranza riformatrice (seguaci sia di Lutero che di Zwingli) reagí con una protestatio, uno scritto di protesta, nel quale annunciavano il loro rifiuto di obbedire. La protestatio venne sottoscritta dai principi di Sassonia, Brandeburgo, Braunschweig, Assia e Anhalt-Köthen, nonché dal conte di Fürstenberg e da 15 città, tra cui Norimberga, Strasburgo, Costanza e Ulm. Seguirono decenni di tensione e guerra, ma i tentativi di Carlo V di imporre il cattolicesimo in tutta la Germania fallirono definitivamente nel 1555, quando, con la Pace di Augusta, il luteranesimo venne ufficialmente riconosciuto, con la formula «cuius regio, eius religio»: «chi governa una regione, decida quale religione scegliere». Raffigurazione simbolica della presentazione della Confessio Augustana all’imperatore Carlo V, il 25 giugno 1530, e dell’ufficio religioso protestante, olio su tela. 1656 circa. Rosstal (Germania), Parrocchia della chiesa luterana.

seguaci», esigendo entro due mesi la ritrattazione delle 95 tesi e dei numerosi trattati e libelli scritti in seguito.

Un gesto plateale tese nientemeno che il ritiro totale delle sue tesi e la richiesta di perdono per gli errori commessi. Lutero ovviamente rifiutò. Né la situazione migliorò quando in un dibattito pubblico ammise che la sua negazione del primato papale lo avvicinava a John Wycliffe e Jan Hus, condannati come eretici nei secoli passati. Il 15 giugno 1520, con un ritardo dovuto alle trattative per la successione all’imperatore Massimiliano I, morto nel gennaio del 1519, il papa promulgò l’Exsurge Domine, la «bolla contro gli errori di Lutero e i suoi

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Lutero attese fino a dicembre, prima di dare la bolla alle fiamme fuori delle mura di Wittenberg, con un gesto plateale, da abile uomo di propaganda, quale nel frattempo era diventato. Anche dal punto di vista dottrinale, nel corso della lotta contro Roma, Lutero aveva assunto posizioni sempre piú radicali. Definendo l’essenza del cristianesimo con l’espressione Sola Scriptura, negava ogni validità a elementi non presenti nella Bibbia ma aggiunti nella lunga storia della Chiesa romana: il culto della Madonna e dei santi, il Purgatorio, i sacramenti (tranne

battesimo e matrimonio), il celibato e, infine, il primato del papa, da lui ormai equiparato all’Anticristo, in quanto ostacolo a una vera riforma e a un autentico ritorno alle origini della Chiesa. Il 3 gennaio 1521 seguí l’inevitabile scomunica. Nell’aprile dello stesso anno, il giovane imperatore Carlo V gli diede un’ultima possibilità di pentirsi e prendere pubblicamente le distanze dalle sue idee alla Dieta di Worms. Per due volte Lutero si difese davanti all’imperatore, sostenendo che non avrebbe potuto ritrattare nulla, se non davanti a solidi argomenti dedotti dalla Bibbia, mentre sarebbe rimasto convinto che, nel passato, sia il papa che il concilio avessero piú volte sbagliato. Affermazioni piú che sufficienti per incorrere nel bando imperiale, che arrivò per decreto il 25 maggio e lo trasformò in un fuorilegge. Tuttavia, il vincitore morale della sfida era proprio Lutero, il quale, durante il viaggio da Wittenberg a Worms, era stato accolto ovunque

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come un eroe, mentre grazie alla sua difesa, abile e razionale, aveva riscosso un successo notevole anche davanti ai principi dell’impero. In piú, si era mostrato uomo di grande coraggio, disposto a morire per i suoi convincimenti. Lutero era venuto a Worms con un lasciapassare procurato da Federico il Saggio, ma la triste sorte subita da Jan Hus un secolo prima, durante il Concilio di Costanza – il teologo boemo era finito sul rogo pur essendo anch’egli in possesso di un lasciapassare –, dimostrava che la sua incolumità non poteva certo dirsi garantita. Lutero comunque, grazie all’appoggio del suo potente protettore, fu lasciato andare, ma la repressione era ormai nell’aria. Il 1° luglio 1523, due suoi confratelli furono arsi vivi sul Mercato Grande di Bruxelles per aver propagato le sue idee: furono i primi martiri della Riforma protestante.

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Il castello della Wartburg, presso Eisenach (Turingia). Dopo la scomunica e la condanna emesse nei suoi confronti, Martin Lutero vi si rifugiò per un anno, lavorando a una nuova traduzione in tedesco del Nuovo Testamento.

Il Museo del Purgatorio

Impronte prodigiose A Roma esiste un piccolo Museo delle Anime del Purgatorio. Si trova nella sacristia della Chiesa del Sacro Cuore di Gesú (anche nota come la Chiesa del Sacro Cuore del Suffragio), una rara costruzione neogotica sul Lungotevere Prati, completata nel 1917 e consacrata nel 1921 su iniziativa del missionario marsigliese Victor Jouet. Lo stesso Jouet nel 1893 aveva fondato, a Roma, l’Associazione del Sacro Cuore del Suffragio delle Anime del Purgatorio, e possedeva una piccola collezione di cimeli che dovevano provare l’esistenza del Purgatorio e il potere del suffragio. Gli oggetti esposti, raccolti in Italia, Francia, Germania e Belgio e databili dal Seicento al secolo scorso, sono perlopiú indumenti e libri sacri con impronte delle dita di defunti. Come per esempio quella lasciata dalla suocera di Margherita Demmerlé della parrocchia di Ellinghen, nella diocesi di Metz, nel 1815, trent’anni dopo la sua morte. In quell’anno apparve, gemendo e con sguardo triste, alla nuora. Alla domanda ottobre

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Nel viaggio di ritorno da Worms, Lutero fu portato di nascosto da uomini di Federico al castello della Wartburg, in Turingia, dove visse per un anno in incognito, lavorando a una nuova traduzione in tedesco, direttamente dall’originale greco, del Nuovo Testamento. Era la conseguenza logica del suo pensiero: se il credente si deve confrontare direttamente con Dio, dev’essere in grado di conoscere in prima persona la Sua parola. Nel 1534 seguí la sua traduzione (dall’ebraico e aramaico) del Vecchio Testamento e, da allora, per secoli a venire, la Lutherbibel sarebbe divenuta una presenza fissa in milioni di case tedesche, contribuendo non poco all’alto grado di alfabetizzazione nel mondo protestante. Durante il soggiorno alla Wartburg, Lutero, come scrisse egli stesso, sarebbe stato visitato piú volte dal diavolo, intento a interrompere il suo lavoro. Per cacciarlo, il grande riformatore gli avrebbe buttato contro un calamaio, lasciando una chiazza nera sul muro

che tuttora costituisce la principale attrazione per i turisti che visitano il castello. Dopo un anno, Lutero tornò nel convento di Wittenberg, nel quale trascorse il resto della sua vita. Ciò non gli impedí di sposarsi, nel 1525, con Katharina von Bora, una ex suora, che gli diede sei figli.

Scrittore instancabile

Lutero continuò a pubblicare freneticamente, ma dovette constatare che la Riforma da lui promossa si diffondeva anche senza il suo impegno personale. Mentre le idee sue e di altri riformatori, come lo svizzero Huyldrich Zwingli, il francese Giovanni Calvino e lo scozzese John Knox – per non dire della scissione anglicana di re Enrico VIII –, si stavano radicando in ampie porzioni dell’Europa, Lutero continuò a commentare, con il suo abituale stile diretto e aggressivo, le vicende politiche e religiose tedesche ed europee. Per finire, tre anni prima di morire, con il libello antisemita Degli ebrei e le loro

su cosa la facesse tanto soffrire, la defunta le chiese di andare al santuario di Nostra Signora di Mariental e far celebrare due sante Messe per lei. Dopo il pellegrinaggio, la suocera riapparve per annunciare la sua liberazione dal Purgatorio, lasciando come segno col dito una bruciatura sulla copia de L’Imitazione di Cristo, che la pia signora stava leggendo e che ora si trova nella chiesa romana. Il piú recente oggetto della collezione è una banconota da 10 lire (in fotocopia), una delle trenta lasciate nel 1919 presso il monastero di S. Leonardo di Montefalco da un sacerdote defunto che chiedeva la celebrazione di sante Messe. Sembra una curiosa inversione della pratica tardo-medievale: non piú il vivo che paga per il benessere del trapassato, ma quest’ultimo che finanzia i viventi...

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Roma. La chiesa del Sacro Cuore di Gesú (o del Sacro Cuore del Suffragio).

menzogne. Riscoperta e utilizzata abilmente dalla propaganda nazista del secolo scorso, è considerata giustamente l’opera piú odiosa e detestabile della sua sterminata produzione letteraria. Con Martin Lutero, la Riforma riuscí ad arrivare là dove precedenti movimenti riformatori avevano fallito. In parte grazie allo stesso Lutero, che fu un propagandista coraggioso, infaticabile ed efficace e che sapeva parlare sia il linguaggio accademico che quello del popolo, ma era dotato al tempo stesso di un notevole fiuto politico. Lo dimostrò negli anni 1524-25, durante la Guerra dei Contadini, che si erano ribellati contro i signori feudali, spesso in nome di Lutero stesso. Il riformatore si schierò invece decisamente dalla parte dei principi vincitori: era un riformatore religioso, ma non un rivoluzionario politicosociale. I governanti tedeschi, o almeno parte di essi, ricambiavano, anche perché la Riforma dava loro la possibilità di sottrarsi alla pressione politica e finanziaria del papato, che nei decenni passati aveva già suscitato un diffuso atteggiamento critico verso Roma. Come già detto, veicolo essenziale per la diffusione dello spirito riformatore fu la stampa. A differenza dei pensatori critici del passato, Lutero poté diffondere in poche settimane le sue idee in tutto l’impero, creando una massa critica di sostenitori impossibile da arginare. Un aiuto involontario giunse infine dal Vaticano stesso, dove la Curia, immersa nel lusso e negli intrighi di palazzo, sottovalutava quel che stava accadendo nella lontana Germania e rifiutava qualsiasi dialogo. Particolarmente ottusa si dimostrò nella questione delle indulgenze, la causa scatenante della rivolta contro Roma. Nel 1562 il Concilio di Trento vietò la vendita delle indulgenze. Ma il dado era stato tratto, ormai da troppo tempo. V

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Storie, uomini e sapori

Piatti pieni di vizi e di virtù T

ra il XV e il XVII secolo comparvero numerose opere che trattavano l’alimentazione e il cibo come rimedi naturali ed efficaci per recuperare l’equilibrio fisiologico perduto. Molte di esse, oltre a fornire la descrizione degli effetti del cibo sull’organismo, sconfinavano nelle indicazioni d’uso e addirittura in ambiti puramente gastronomici. Ne sono esempi il Libreto de tute le cose del medico patavino Michele Savonarola (1384-1468), nonno di Girolamo e il Liber de conservatione sanitatis del bolognese Girolamo Manfredi (1430-1493), come pure l’Archidipno, ovvero dell’Insalata e dell’uso di essa dell’aquilano Salvatore Massonio (1554–1624) e il Brieve racconto di tutte le radici di tutte le erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano di Giacomo Castelvetro da Modena (1546-1616).

per ognuno di essi la qualità, la scelta, i giovamenti, i nocumenti e i rimedi. Il Tesoro, che ebbe larghissima circolazione, fu piú volte stampato nel corso del Cinquecento e del Seicento anche in formati «tascabili» e maneggevoli, a conferma del suo ampio utilizzo quale prontuario.

Su questo filone si inseriscono anche opere piú tarde, come quelle del mugellese Antonio Cocchi (1695-1758), autore di un interessante discorso Del vitto pitagorico per uso della medicina, e del feltrino Antonio Pujati (1701-1760), con le sue Riflessioni sul vitto pitagorico.

Le «sei cose non naturali» Notevole successo arrise al De bonitate et vitio alimentorum del botanico e archiatra di Sisto V Castore Durante (1529-1590), apparso nel 1565 e ripubblicato in italiano nel 1586 come Tesoro della sanità. Quest’ultimo fu uno dei piú apprezzati trattati rinascimentali di dietetica, redatto secondo il modello del classico regimen sanitatis e diviso in due parti, di cui la prima tratta delle «sei cose non naturali» (aria, moto, quiete, inazione, replezione, accidenti dell’animo) e la seconda illustra, invece, la natura dei cibi, indicando

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A destra un’edizione del Tesoro della sanità, opera del botanico e archiatra di Sisto V Castore Durante, pubblicata per la prima volata nel 1565 con il titolo di De bonitate et vitio alimentorum. In basso, sulle due pagine La cucina grassa. Una allegoria, olio su tavola di Pieter Aertsen. 1565-1575. Copenaghen, Statens Museum for Kunst. Il lavoro piú interessante e originale rimane il Trattato della natura de’ cibi et del bere, del sig. Baldassare Pisanelli, nel quale non solo tutte le Virtu, & i Vitij di quelle minutamente si palesano; ma anco i rimedij per correggere i loro difetti copiosamente s’insegnano: tanto nell‘apparecchiarli per l’uso, quanto nell’ordinare il modo di riceverli.

Un rapporto millenario Sulla base dell’antica scienza di Ippocrate e Galeno, affinata nell’ambito della Scuola Medica Salernitana, Baldassare Pisanelli (1525?-1586), medico bolognese formatosi alla scuola di Ulisse Aldrovandi, approfondisce nel suo Trattato il rapporto millenario fra regime alimentare e «complessione umorale» del corpo umano, e analizza anche gli aspetti antropologici di molte patologie, non soltanto digestive, fino a proporre la sovralimentazione come una della cause di disagio sociale. Pisanelli – che nel 1559 ottenne la cattedra di medicina teorica – analizza caratteristiche, virtú e vizi di decine di alimenti, si dilunga sulla storia e la loro considerazione nel

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CALEIDO SCOPIO A sinistra il frontespizio di un’edizione del 1593 del Tesoro della sanità di Castore Durante. A destra Dispensa con pesce, carne, uova sode e fiasca di vino, olio su tela di Jacopo Chimenti, detto l’Empoli. 1625. Marano di Castenaso, Collezione Molinari Pradelli. Nel dipinto è ben riconoscibile anche un mazzo di asparagi, uno degli alimenti di cui Baldassare Pisanelli descrive vizi e virtú nel suo Trattato.

mondo antico, ne suggerisce i diversi impieghi per combattere le piú comuni patologie o per migliorare lo stato fisico, ma fornisce nel contempo numerosi suggerimenti su come cucinare i cibi e come abbinarli tra loro per riequilibrare gli «umori» e giovare alla salute.

Un’impostazione moderna Il Trattato appare modernamente strutturato in «schede» dedicate ai singoli alimenti di cui vengono elencate «elettione, giovamenti, nocumenti, rimedio, gradi, tempi, etadi, complessioni». A titolo d’esempio, ecco come Pisanelli parla degli asparagi: «Elettione: Che siano domestichi, colti freschi, e che le cime incomincino a risguardare verso la terra. Giovamenti: Apreno, e levano le oppilationi delle reni, e

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del fegato, accrescono il coito, mollificano il corpo, e provocano l’orina. Nocumenti: Inducono nausea quando si mangiano freddi, e a stomachi colerici accrescono alquanto la colera per la lor amaritudine. Rimedio: Se si lessano, e si butta via la prima acqua, che cosí lasciano l’amarezza: e poi si condiscano con Aceto, oglio, sale, e Pepe in quantità. Gradi: Sono caldi nel primo grado, e umidi temperatamente, se ben Galeno pare che non si sappia risolvere della loro qualità attiva. Tempi, Etadi, Complessioni: Quando si possono avere, sono buoni per tutte le età e complessioni, e massime di vecchi, e frigidi». Il successo editoriale dell’opera del medico bolognese fu immediato e strepitoso, al punto da richiedere cinque ristampe in quattro anni e trenta edizioni fino alla seconda metà del Settecento.

Pisanelli dimostra comunque di conoscere a fondo sia la letteratura medica sia quella botanica e gastronomica fino ad allora prodotte. Cosí, al Platina che nel 1474 scriveva nel celebre De honesta voluptate et valetudine che «le ostriche sono fortemente afrodisiache e come tali molto apprezzate dai ricchi e dai lussuriosi», Pisanelli chiosa raccomandando di degustarle fresche nei mesi con la erre; e al medesimo che del tartufo dice: «È questo un cibo molto nutriente come crede anche Galeno, ed è un eccitante della lussuria. Perciò vien servito spesso nei pruriginosi banchetti di uomini ottobre

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ricchi e raffinatissimi che desiderano essere molto preparati ai piaceri di Venere», Pisanelli postilla che i tartufi «aumentano lo sperma e l’appetito del coito [ma] nuocciono agli umori, alla complessione e ai melanconici, e con processo di tempo fanno tristo il fiato della bocca, e sono molto ventosi (…) fanno venire difficoltà di orinare (affermazione non vera, poiché il tartufo contiene l’arginina che è un diuretico)». Di notevole interesse è il florilegio di citazioni classiche, erudite e un po’ naïf che Pisanelli inserisce per ogni singolo alimento sotto la voce «Historie naturali».

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L’anguilla, creatura prodigiosa Fra le tante, ecco quella relativa alle anguille: «L’Anguille sono desiderate nelle tavole, per essere al gusto sopra modo soavi, e delicate. Si generano senza ovo e senza coito, perché ne’ stagni seccata l’acqua, si generano subito che è piovuto; viveno e si nutriscono di pioggia. In mare nascono appresso le bocche de’ fiumi, ove è l’Alga, e ne’ stagni appresso le ripe. Si trovano in tutti i laghi e in tutti i fiumi, si dilettano stare nell’acqua chiarissima, altrimente nella torbida subito muoiono, si come ancora in poca acqua s’affogano, come gli animali che inspirano aria, se in poca aria si

rinchiudeno. Il giorno dormeno, e l’una mangia l’altra. Atheneo dice aver visto in Arethusa appresso Negroponte l’anguille domesticate con gli annelii d’oro, e di argento a gli orecchi, e prendere il cibo dalle mani di chi lo porgeva. Viveno otto anni, e sei giorni fuori dalle acque, se spira tramontana. Riferisce Atheneo, che in una cena, ove era una bellissima Anguilla, fu detto da uno dei convivanti: Tu sarai l’Helena di questi convivanti, e io farò il Paride. In Beotia si sacrificava alli Dei. Archestrato la chiamò Regina, e guida delle voluptà. Nelle Anguille non ci è maschio ne femina». Sergio G. Grasso

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Lo scaffale Giuliana Albini Poveri e povertà nel Medioevo

Carocci Editore, Roma, 334 pp., ill.

28,00 euro ISBN 9788843082629 www.carocci.it

Vasto e onnipresente lungo l’intero arco del Medioevo, il tema della povertà viene affrontato da Giuliana Albini a partire dal VI secolo sino alla fine del XIV, nella molteplicità delle sue

sfaccettature: i poveri nelle campagne e nelle città in rapporto ai periodi di crisi e a quelli di crescita economica [capp. 1 e 2]; la concezione della povertà nelle sue trasformazioni tra Alto e Basso Medioevo, attraverso l’analisi delle posizioni in merito assunte dagli uomini di cultura dell’epoca, laici ed ecclesiastici, e della pratica quotidiana di santi e martiri [capp. 3 e 4]; l’aiuto alla povertà nelle sue

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varie forme (povertà laboriosa, mendicanti e vagabondi, povertà vergognosa, povertà congiunturale, povertà malata e di donne e bambini) da parte delle istituzioni civili ed ecclesiastiche (mediante apposite istituzioni assistenziali), e da parte dei privati cittadini (attraverso lasciti testamentari, pratiche devozionali, fondazioni di ospedali e confraternite) [capp. 5, 6 e 7]. Negli ultimi secoli del Medioevo, il susseguirsi di crisi dovute a carestie, epidemie, guerre, col conseguente aumento del numero di mendicanti e vagabondi che si riversavano all’interno delle mura cittadine, sollecitò da parte delle autorità azioni che disciplinavano e controllavano la loro presenza, a salvaguardia dell’ordine pubblico. Disposizioni volte alla loro espulsione sono comprese in molti statuti cittadini della fine del Duecento e del primo Trecento, in una congiuntura in cui anche le persone di ceto elevato morivano di fame. Tale situazione portò a trasformazioni profonde nell’ambito delle politiche sociali e nelle strutture

caritativo-assistenziali, trasformazioni sorrette in prima persona dai ceti dirigenti cittadini di estrazione mercantile, che, in una società in cui il divario tra ricchezza e povertà si era enormemente accentuato, non lesinarono il proprio determinante contributo alla creazione di luoghi pii e ospedali: basti pensare alla fondazione di quello di Prato da parte di Francesco Datini (1410), o al fatto che una partita del libro mastro della compagnia dei Bardi, significativamente intestata a «Messer Domeniddio», destinasse ai poveri una parte dei proventi dei commerci intrapresi. Situazioni concrete, tratte soprattutto dalle cronache cittadine, e da statuti, testamenti, fonti agiografiche, contribuiscono a vivacizzare la narrazione e a immergere il lettore nel clima dell’epoca. Maria Paola Zanoboni Matteo Colaone Paesi scomparsi d’Insubria Wüstungen medievali tra Milano, Adda e Ticino Ritter Edizioni, Milano, 228 pp., ill. col.

24,00 euro

ISBN 9788889107775 www.ritteredizioni.com

Il volume esamina un fenomeno, quello dell’abbandono degli insediamenti abitati, che, come si legge nell’Introduzione, solo in anni recenti ha cominciato a essere indagato anche in Italia. Un ritardo, soprattutto nei confronti degli studi condotti in Inghilterra, Francia e Germania, che Matteo Colaone contribuisce a colmare, soffermandosi sull’area compresa fra il Ticino e l’Adda e nella quale ricade la città di Milano. Quest’ultima è peraltro uno dei cardini del lavoro presentato, poiché la sua crescita ha determinato un gran numero di Wüstungen (il termine tedesco citato nel sottotitolo e che viene usato in letteratura per indicare appunto l’abbandono, o, meglio, la «desolazione totale»), cosicché la prima metà del saggio passa in rassegna

in casi individuati nell’odierna cintura urbana e periurbana, un tempo caratterizzata da una ben diversa occupazione del territorio. Con criterio analogo, l’indagine si sposta dunque nelle aree del Seprio e nel Comasco, per poi proporre gli apparati che offrono la sintesi dei dati acquisiti, corredata da un buon repertorio cartografico e da un’ampia bibliografia. Come sottolinea l’autore, le fonti primarie per lo studio degli abitati perduti sono le ricerche d’archivio e quelle archeologiche e dunque, in entrambi i casi, è lecito sperare che nuove acquisizioni possano ulteriormente arricchire un quadro già ricco e articolato. Stefano Mammini Simone Bartolini Le porte del cielo Percorsi di luce nelle chiese romaniche toscane

Edizioni Polistampa, Firenze, 230 pp., ill. col. e b/n

25,00 euro ISBN 978-88-596-1721-1 www.polistampa.com

Come si legge nella Premessa, Simone Bartolini ha condotto lo studio di cui ora dà conto con l’intento di ritrovare, nelle chiese romaniche, il «simbolismo piú ottobre

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a essere un utile ausilio alla conoscenza di un periodo particolarmente delicato nella storia dell’Occidente tardoantico. Al di là dei tratti personali e familiari, la vicenda della figlia di Teodosio I è infatti una chiave di lettura ottimale delle tensioni che caratterizzarono il periodo compreso tra la fine del IV e i primi decenni del V secolo. La nobilissima, come sempre presiedette alla fondazione dei luoghi di culto. Criteri che riproponevano, in chiave cristiana, quanto già sperimentato e praticato da culture ben piú antiche, come per esempio nel caso delle ziqqurat mesopotamiche o, profondo che i primi piú tardi, in ambito cristiani attribuivano etrusco. L’architettura alla luce». Prendono religiosa romanica dunque le mosse da organizza dunque i questo desiderio la suoi volumi affinché, ricerca effettuata sulle attraverso la luce, chiese romaniche venga esaltato e della Toscana, poco ribadito il legame con meno di 400, e le il divino, tradotto dai osservazioni su un fasci splendenti che nucleo di 44 edifici, fendono lo spazio della scelti come campioni chiesa attraverso le maggiormente monofore. Architetti, Ondas. Martín rappresentativi delCodax, ma soprattutto Cantigasanalizzato. de Amigo fenomeno monaci, operano Vivabiancaluna Hamon L’autore illustra e Biffi, Pierre quasi come altrettanti Arcana (A390), 1 CD «direttori della documenta lo stretto www.outhere-music.com rapporto con la sfera fotografia», illuminando celeste e con il sole con sapienza i grandi in particolare che momenti dell’anno

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liturgico, prima fra tutti la Pasqua. Bartolini propone una trattazione ampia e ben strutturata, che, dopo l’analisi del fenomeno e il suo inquadramento nella cultura del tempo, offre il repertorio delle chiese selezionate, con le indicazioni dei momenti dell’anno nei quali si possono verificare le condizioni descritte e documentate nel volume. S. M. Vitantonio Sirago Galla Placidia La Nobilissima

Editoriale Jaca Book, Milano, 144 pp.

14,00 euro ISBN 978-88-16-41430-3 www.jacabook.it

Pubblicata per la prima volta nel 1996, questa biografia di Galla Placidia continua

volle ribattezzarla il padre, per metterla sullo stesso piano dei fratelli – Pulcheria e Onorio – seppe districarsi abilmente nelle dinamiche della corte imperiale ed ebbe modo di dimostrare le sue doti di donna forte e autorevole soprattutto quando, fra il 425 e il 437, resse le sorti dell’impero d’Occidente in attesa che il figlio, Valentiniano raggiungesse la maggiore età. S. M.

Andrea De Marchi Cristina Gnoni Mavarelli (a cura di) Legati da una cintola L’Assunta di Bernardo Daddi e l’identità di una città

e

Mandragora, Firenze, 256 pp., ill. col. e b/n

28,00 euro ISBN 978-88-7461-357-1 www.mandragora.it

Catalogo della mostra omonima, in corso a Prato (vedi «Medioevo» n. 248, settembre 2017), il volume associa alla documentazione dei materiali riuniti per l’occasione una serie di saggi che ampliano i temi illustrati nelle varie sezioni dell’esposizione. È cosí possibile, innanzitutto, approfondire la tormentata vicenda che ha portato allo smembramento dell’opera intorno alla quale ruota l’intero progetto, la pala dell’Assunta di Bernardo Daddi, e conoscere in dettaglio le ragioni che hanno fatto della Cintola di Prato un simbolo identitario eccezionalmente forte e duraturo. S. M.

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Lo scaffale Capolettera istoriato con la Madonna assunta che dona la Cintola a san Tommaso, da La storia et la leggenda come la cintola venne in Prato e volgarizzamento del Liber de accessu animae ad Deum. Bottega di Bicci di Lorenzo, 1428 circa. Prato, Biblioteca Roncioniana.

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In Oriente con frate Guglielmo

MUSICA • Nel XIII

secolo, Guglielmo di Rubruck fu inviato in Asia centrale con l’incarico di convertirne le genti. L’impresa fallí, ma di quel viaggio si conserva una cronaca mirabile, che ha ispirato l’affascinante antologia proposta da Bruno Bonhoure con La Camera delle Lacrime 112

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ncentrata intorno all’anno 1253, che vide i soldati cristiani, guidati da Luigi IX il Santo, impegnati nella VII crociata, l’antologia Itinerarium ad partes Orientales propone una serie di brani che riflettono le vicissitudini storiche di quella che fu una tragica annata per la storia dei Loca Sancta. La raccolta si organizza intorno ad alcune tappe del viaggio compiuto da frate Guglielmo di Rubruck, missionario e autore di una cronaca di estremo interesse: Itinerarium fratris Willielmi de Rubruquis de ordine fratrum Minorum, Galli, Anno gratia 1253 ad partes Orientales, che costituisce la prima descrizione analitica delle terre dell’Asia

centrale. Fu lo stesso Luigi IX a chiedere a frate Guglielmo di recarsi nelle terre tatare, con l’improbabile scopo di cristianizzare i Mongoli e, soprattutto, convincerli a lottare contro gli usurpatori di Gerusalemme.

Umiliazione a Mansura Seguendo l’itinerarium, l’antologia propone composizioni che evocano le località toccate dal frate viaggiatore. Significativo è il primo brano, Ai! Dieus! Per qu’as facha tan gran maleza, un sirventese del trovatore alverniate Austorg d’Aurillac, nel quale viene deplorata la triste fine della cristianità a seguito della ottobre

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(Qailiq), l’Ave Regina Caelorum, anch’essa di derivazione gregoriana, eseguita nel campo del capo mongolo Mangu Kahn, e l’inno di Sedulio A solis ortus cardine, alla cui melodia affidata alla voce solista viene associata la percussione.

Tradizioni a confronto

sconfitta patita da Luigi IX nel 1250 a Mansura (Egitto), dove il sovrano venne perfino fatto prigioniero. Ai canti «locali», di origine caucasica e sufi, si alternano ascolti di provenienza occidentale, come il Pos anc no-us ualc amors di Bernard de Ventadorn, un tipico brano provenzale incentrato sul tema dell’amore non corrisposto, a cui fa seguito il bel Miserere Dei, che Guglielmo intonò davanti a Batu Kahn, nipote di Gengis Kahn. Tra i brani sacri vi sono l’antifona Salve Regina, cantata, come si legge nell’Itinerarium, il 24 novembre del 1253 in una chiesa nestoriana nei pressi del villaggio di Cailac

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Grande pregio di questa antologia è il tocco di esotismo dato dalla presenza di vari canti mongoli che si alternano a quelli di tradizione occidentale e/o a questi associati, in una commistione di tradizione occidentale e orientale di grande originalità. Cuore che batte nelle steppe e Tang Tang, nei quali si possono apprezzare le peculiari sonorità del kamancheh (cordofono di origine persiana), affascinano con le loro melodie ricche di glissandi e microtoni, che rivelano la forte influenza orientale, piuttosto distante dalla sensibilità occidentale. La controversia di Karakorum è stata invece composta dagli ideatori di questo programma musicale, Bruno Bonhoure e Khai-dong Luong, su un sostrato musicale che inevitabilmente si ispira a un canto antico, in cui la voce narrante

Itinerarium ad partes Orientales. Guillaume de Rubrouk 1215-1295 (VOC 75901, 1 CD; il disco è autoprodotto ed è disponibile sul sito dell’ensemble) www.lacameradellelacrime.com conduce un dibattito di natura teologica di cui lo stesso Guglielmo di Rubruck fu protagonista nella città di Karakorum. Giocato tra contaminazioni e suggestioni musicali di diversa provenienza, questo singolare itinerarium musicale diretto da Bruno Bonhoure, alla guida dell’ensemble La Camera delle Lacrime, si apprezza in particolar modo per l’approccio interpretativo, lontano da ogni intento estetico, e rivolto a ricreare con un approccio vocale volutamente scarno una dimensione sonora vicina alla realtà dei contesti musicali evocati. Ottime le voci del direttore come anche quelle di Yan Li Erth e Mokrane Adlani, a cui si aggiungono gli strumentisti Liam Fennelly (viola d’arco e kamancheh), Michèle Claude (percussioni) e Christophe Tellart (ghironda, flauti e cornamusa). Franco Bruni

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