Medioevo n. 248, Settembre 2017

Page 1

DIOEVO ME

RO

MEDIOEVO n. 248 SETTEMBRE 2017 BARBABLÚ GUALDO TADINO

BA UN STORB M RIAAB O D LÚ ST I

EDIO VO M E A

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

UNA GRANDE MOSTRA A PAVIA

LONGOBARDI UN POPOLO CHE CAMBIÒ LA STORIA

BARBABLÚ PRATO

Il giorno della Sacra Cintola

UMBRIA

A Gualdo Tadino i Giochi de le Porte

www.medioevo.it

€ 5,90

SACRA CINTOLA DI PRATO CANNONE DOSSIER LONGOBARDI A PAVIA

Mens. Anno 21 numero 248 Settembre 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

Un serial killer dell’età di Mezzo

IN EDICOLA IL 1° SETTEMBRE 2017

NN

IV E RS A R

www.medioevo.it

IO



SOMMARIO

Settembre 2017 ANTEPRIMA ANIMALI MEDIEVALI Naturalmente nobile

5

MUSEI Un’eredità preziosa La nuova «tenda» di Federico

6 10

APPUNTAMENTI Gemme senesi Camera con festa Popoli a confronto L’Agenda del Mese

14 20 21 26

ITINERARI La casa magna del ricco Giovanni

16

STORIE

SCIENZA E TECNICA Transizioni esplosive

PERSONAGGI

di Flavio Russo

Gilles de Rais

Lo sterminatore di Bretagna di Federico Canaccini

70

34

34

CALEIDOSCOPIO 70

COSTUME E SOCIETÀ TRADIZIONI Gualdo Tadino

È tempo di Giochi!

di Antonio Pieretti, Elvio Lunghi e Andrea Maiarelli

MOSTRE Prato Legami e ritorni

a cura di Stefano Mammini

46

STORIE, UOMINI E SAPORI Le regole dei quattro maestri 106 LIBRI Lo scaffale

110

MUSICA Un libro rosso per la Madonna Nera

112

62

Dossier

LONGOBARDI Un popolo che cambia la storia di Susanna Zatti, Gian Pietro Brogiolo ed Elena Percivaldi

79


MEDIOEVO

BA

UN STORB M RIAAB O D LÚ ST I RO

MEDIOEVO n. 248 SETTEMBRE 2017

DIOEVO ME

A

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

NN

IV E RS A R

IO

www.medioevo.it

UNA GRANDE MOSTRA A PAVIA BARBABLÚ GUALDO TADINO

LONGOBARDI UN POPOLO CHE CAMBIÒ LA STORIA

BARBABLÚ PRATO

Il giorno della Sacra Cintola

UMBRIA

A Gualdo Tadino i Giochi de le Porte

www.medioevo.it

€ 5,90

SACRA CINTOLA DI PRATO CANNONE DOSSIER LONGOBARDI A PAVIA

Mens. Anno 21 numero 248 Settembre 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

Un serial killer dell’età di Mezzo

IN EDICOLA IL 1° SETTEMBRE 2017

med248_Cop.indd 1

03/08/17 11:24

MEDIOEVO Anno XXI, n. 248 - settembre 2017 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it

Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa della mostra «Longobardi. Un popolo che cambia la storia»: copertina (e p. 80) e pp. 79-86, 88-96, 99, 100, 100/101, 101 (alto e destra), 102-105 – Mondadori Portfolio: Archivio Antonio Quattrone/Antonio Quattrone su concessione MiBACT: p. 5; AKG Images: pp. 35, 37, 39, 40/41, 42/43, 106; Leemage: p. 38; Rue des Archives/ René Dazy: p. 43; Album: p. 76 – Cortesia degli autori: pp. 6-8, 20, 20/21, 72-73 – Cortesia Ufficio Stampa Museo Federico II Stupor Mundi, Jesi: pp. 10 (alto); Stefano Binci: pp. 10 (basso), 12 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 14, 62-63, 64, 64/65, 65 (basso), 66-68 – Stefano Mammini: pp. 65 (alto), 112/113 – Polo Museale dell’Emilia-Romagna/Museo di Casa Romei: pp. 16-18 – Cortesia Pro Loco di Montopoli: p. 21 – Marka: Classic Vision: p. 34; Danilo Donadoni: p. 49 (alto) – Doc. red.: p. 36 (alto), 53, 56, 59 (alto), 96/97, 98 – DeA Picture Library: p. 36 (basso); C. Sappa: p. 52 – Alamy Stock Photo: p. 40 – Daniele Amoni: pp. 46-48, 50, 54-55, 56/57, 57, 58, 59 (basso) – Cortesia Comune di Gualdo Tadino: Pixe!, Foligno: pp. 50/51 – Archivi Alinari, Firenze: Raffaello Bencini: pp. 70/71 – Getty Images: Universal Images Group: pp. 74/75 (basso) – Flavio Russo: pp. 74/75 (alto), 75 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 49, 87, 101. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma

Editore: MyWay Media S.r.l.

Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it

Direttore generale: Andrea Ferdeghini Coordinatore editoriale: Alessandra Villa

Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Hanno collaborato a questo numero: Gian Pietro Brogiolo è professore di archeologia dell’architettura e archeologie postclassiche all’Università di Padova. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Elvio Lunghi è professore di storia dell’arte medievale all’Università per Stranieri di Perugia. Andrea Maiarelli è professore di storia della Chiesa presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Assisi. Chiara Parente è giornalista. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Antonio Pieretti è professore di filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Perugia. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Susanna Zatti è direttrice dei Musei Civici di Pavia.

Concessionaria per la pubblicità extra settore: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it

Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

In copertina spada in ferro damaschinato, da una tomba della necropoli longobarda di Nocera Umbra. VI sec., Roma, Museo delle Civiltà-Museo Nazionale dell’Alto Medioevo.

Pubblicità di settore: Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Direzione, sede legale e operativa: Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo

Nel prossimo numero storie

Misteri di Manfredonia

immaginario

La leggenda della regina di Saba

medioevo nascosto

Le meraviglie di Bobbio

dossier

Enrico II d’Inghilterra


ANIMALI MEDIEVALI a cura di Federico Canaccini

Naturalmente nobile

S

e il personaggio simbolo del Medioevo è probabilmente il cavaliere, non sarà strano che il cavallo sia l’animale piú celebrato dalla classe aristocratica. Su di lui si spendono pagine e pagine, tanto nei bestiari, quanto nei romanzi cavallereschi, tratteggiando con toni epici e spesso idealizzati le cavalcature dei nobili cavalieri. Cosí come il cavallo di Alessandro Magno, il mitico Bucefalo, che a detta dei medievali aveva le corna, cosí anche i cavalli dei sovrani e degli eroi hanno nomi propri: Tencedor si chiama quello di Carlo Magno, Veillantif quello del suo prode paladino Orlando, mentre quello del vile traditore Gano si merita un epiteto che è naturalmente un peggiorativo, Tachebrun. Non tutti i cavalli sono uguali e i cavalieri lo sanno bene, avendone in uso un’ampia dotazione. Possono montare un destriero per la battaglia, un palafreno per le parate, un ronzino quando si spostano per un viaggio, con un seguito di quadrupedi ancora piú vili, come bestie da soma. Secondo Brunetto Latini, che scriveva alla metà del XIII secolo, «I cavalli da combattimento fiutano la battaglia, si rianimano e si rallegrano al suono delle trombe, sono felici quando riportano una vittoria e sono tristi quando perdono. (…) Fra loro ce ne sono alcuni che ben riconoscono i nemici del loro padrone, perché li mordono e li colpiscono con grande rabbia. (…) Ed è cosa dimostrata che molti cavalli piangono e gettano lacrime per la morte del loro padrone». Queste distinzioni per tipologie, dal destriero al ronzino, non compaiono però nei bestiari, nei quali il cavallo è ora equiparato all’uomo, in quanto suo inseparabile compagno, oppure a uno strumento di lavoro a cui sono delegati il trasporto di uomini e cose: è il mezzo con cui andare in battaglia, lo strumento con cui far girare la macina e molte altre mansioni. Per tutte queste sue preziose qualità, la carne equina non compare mai sulle tavole del Medioevo. Per sua natura, il cavallo, è naturalmente selvaggio e orgoglioso, tronfio e consapevole della sua bellezza, rappresentata dalla criniera svolazzante che, se accorciata, lo rende triste e, come Sansone, ne infiacchisce la virilità. In molti stemmi araldici compare un cavallo sfrenato, come in quello della città di Arezzo. Nei bestiari, inoltre, gli autori si dilungano molto sulle giumente, considerate ottime madri che si occupano dei puledri altrui, se non possono curarsene perché malate. La giumenta è caratterizzata anche dalla sua lussuria, che la rende, tra gli animali domestici, la piú ardente di tutti. Se non trova uno stallone nei paraggi, corre in cerca di un asino, un animale sporco, pigro, testardo e lussurioso! La giumenta secerne allora un liquido detto ippomane, dalle proprietà afrodisiache po-

Battaglia di San Romano, particolare del disarcionamento di Bernardino della Ciarda, tempera su tavola di Paolo Uccello. 1438 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. tentissime. E si diceva che grazie a questa secrezione, utilizzata da stregoni in pozioni e filtri magici, molti sovrani fossero riusciti a procreare un erede! L’idea che il cavallo bianco sia quello del cavaliere senza macchia e senza paura nasce già nelle enciclopedie del Medioevo, che rivelano come dopo il manto candido, il piú apprezzato fosse quello nero, lucido e luminoso. Si diffida molto del manto rossiccio o marronastro, montato dai vili, dai traditori, e associato al colore fulvo della chioma di Giuda. Cosí anche si evitano i manti screziati, maculati, o – il peggiore di tutti – color cenere, che non sono né bianco, né nero: tali manti, e quindi i cavalli, non mostrano uniformità, mancano di purezza, valore che invece, per la cultura medievale, è fondamentale.


ANTE PRIMA

Un’eredità preziosa MUSEI • Collezionista ed erudito, il canonico fiesolano Angelo Maria Bandini riuní

nel Settecento una preziosa raccolta di opere che documentano la pittura fiorentina del Tre e Quattrocento. E che oggi sono il vanto del museo che porta il suo nome

«P

aese della pace e delle stelle (...) come un’immagine da sogno», scriveva lo scrittore d’origine tedesca Hermann Hesse – Premio Nobel per la letteratura nel 1946 – dalla collina di Fiesole. In epoca etrusca, la cittadina fu un centro di primaria importanza e a quella fase risalgono alcuni tratti di mura, ancora oggi visibili. Nel XIX secolo, quando moltissimi ospiti stranieri la scelsero per trascorrervi lunghi periodi, grazie alla posizione panoramica sopra Firenze e alla salubrità dell’aria, divenne una località residenziale alla moda. L’antica Faesulae romana è oggi sede di piccole realtà museali, tra le quali spicca il Museo Bandini. Pur essendo composto da appena quattro sale, racchiude un autentico tesoro, che documenta la storia della pittura fiorentina tra Medioevo e Rinascimento, formato dal corpus di terrecotte e dipinti del canonico Angelo Maria Bandini (1726-1803), appassionato collezionista ed erudito autore di numerose pubblicazioni. Nato e vissuto a Firenze, dove svolse l’attività di bibliotecario nella Biblioteca Marucelliana e poi in quella Medicea Laurenziana, nel 1795 il colto gentiluomo acquistò e restaurò il minuscolo complesso romanico di S. Ansano, situato

6

DOVE E QUANDO

Museo Bandini Fiesole, via Portigiani 1 Orario gli orari variano stagionalmente e si consiglia perciò di verificarli telefonicamente oppure on line (vedi info) Info tel. 055 5961293; e-mail: infomusei@ comune.fiesole.fi.it; www.museidifiesole.it In alto Fiesole. Il Museo Bandini, che custodisce tutte le opere riprodotte in queste pagine. A sinistra pastorale in argento di San Romolo. XVI sec. A destra Madonna di Fiesole, terracotta, attribuita alla bottega di Filippo Brunelleschi. settembre

MEDIOEVO


proprio sul colle fiesolano, nel quale allestí una prima pinacoteca, e dove morí nel 1803 lasciando la sua ricca raccolta al Capitolo di Fiesole, vincolandola con mandato testamentario.

L’interesse per i «primitivi» Dopo un lungo periodo di trascuratezza, si decise di realizzare un nuovo edificio nelle vicinanze del teatro romano, progettato dall’architetto Giuseppe Castellucci e inaugurato nel 1913, per ospitare degnamente la preziosa eredità, notevole anche per la storia del collezionismo, come testimonianza del nascente interesse, nel Settecento, per i cosiddetti «primitivi» da parte di intellettuali, che si rivelò determinante per la salvezza di molti lavori medievali, altrimenti perduti. I primi due ambienti della galleria sono caratterizzati dalla cospicua presenza di tavole «a fondo oro», ben rappresentate, oltre che dal vetro graffito a oro e dipinto attribuito alla bottega giottesca databile intorno al

In alto Incoronazione della Vergine e gerarchie celesti, tempera su tavola di Giovanni del Biondo. 1373.

collocata La discesa dello Spirito Santo di Agnolo Gaddi, che affrescò la Cappella Maggiore nella basilica S. Croce a Firenze con la Leggenda della Vera Croce. Autore dalle elaborate composizioni dalle linee sfuggenti e dai colori metallici, fu figlio di Taddeo, considerato il piú fedele allievo di Giotto – dal cui stile si distingue, tra l’altro, per le complesse architetture o per l’eccessiva carica espressiva delle figure – qui presente con una Annunciazione.

Avori e steatite

Qui sopra Trionfo del Tempo, pannello di Jacopo del Sellaio (attivo tra il 1442 e il 1493), facente parte della serie ispirata ai trionfi di Francesco Petrarca.

MEDIOEVO

settembre

1320, anche dalla Madonna del Parto di Nardo di Cione, fratello di Andrea Orcagna, che racchiude in sé anche i temi iconografici della Vergine, cioè Misericordia e Regina Coeli. Sulla facciata retrostante del pannello è

Non mancano, d’altronde, altri lavori come la tavoletta in avorio raffigurante una santa e databile all’XI secolo e il rilievo in steatite e tempera e oro su legno rappresentante l’arcangelo Gabriele risalente al 1100, esemplari emblematici del gusto raffinato e sensibile di Bandini. Il percorso nell’arte pittorica fiorentina prosegue con Giovanni del Biondo, documentato nel capoluogo toscano, a partire da metà Trecento. L’artista sviluppò uno stile

7


ANTE PRIMA

In alto Gesú e il Battista fanciulli, terracotta di Benedetto Buglioni (1460-1521). A sinistra San Bartolomeo e San Domenico, tavola di Giovanni di Bartolomeo Cristiani (attivo tra il 1370 e il 1396). fresco e disinvolto, talvolta ruvido, marcato da policromia, ritmo e vivacità narrativa, qui testimoniato dall’Incoronazione della Vergine e gerarchie celesti, mentre Lorenzo di Bicci, che emerge per il suo spiccato e dettagliato decorativismo, firma la tavola con San Iacopo e San Nicola di Bari. Alla stessa famiglia a capo di una florida bottega, appartiene anche Bicci di Lorenzo, con il figlio Neri di Bicci, prolifico esecutore di pale, paliotti e cassoni, spesso per importanti committenti, e al quale l’attenzione costante per Lippi non impedí di essere stimolato da artisti come Beato Angelico, ricordato nella seconda sala da due suoi seguaci, Andrea di Giusto Manzini e Domenico di Michelino. Formatosi nella tradizione trecentesca, ma aggiornato ai nuovi stilemi e dotato di un lessico personale e estroso, troviamo Giovanni dal Ponte,

8

artista che molto deve a Lorenzo Monaco, pittore fedele al linguaggio gotico e al rigore iconografico, ma capace di smorzare la severità giovanile, approdando a un moderno linearismo, in età matura.

Omaggio a Petrarca Allievo di Filippo Lippi è invece Jacopo di Arcangelo – chiamato «del Sellaio» dal mestiere del padre, attivo nella seconda metà del XV secolo e noto per le sue devote rappresentazioni con elementi didascalici –, del quale il Museo ospita, oltre alla tavola con San Girolamo, Santa Maria Maddalena e San Giovanni Battista nel deserto, anche i Trionfi, l’unico manufatto di tema profano della collezione, fedele trasposizione in pittura dell’opera omonima di Francesco Petrarca. Dedicato alle terrecotte smaltate, il terzo ambiente ha come protagonista

Andrea della Robbia che, insieme ai figli, portò avanti l’attività del laboratorio di famiglia fondato da Luca, ampliandone la produzione e le committenze, che oltrepassarono i confini locali, fino a interessare anche i mercati italiani ed esteri. Oltre a La Madonna in adorazione del Bambino fra due angeli, troviamo anche l’Effigie ideale di giovanetto entro ghirlanda, modellata ad altorilievo e invetriata in bianco. Ai Buglioni, loro diretti concorrenti, è attribuibile invece Gesú e il Battista, realizzato al fine di educare i fanciulli ai piú alti sentimenti religiosi. Nell’ultima sala, che riunisce lavori provenienti dal vasto patrimonio della Diocesi e che solo in parte appartenevano alla collezione Bandini, accanto alle mensole marmoree originariamente collocate nel Battistero fiorentino e attribuite a uno scultore fiorentino della prima metà del Trecento, spicca la terracotta policroma raffigurante la Madonna con il Bambino, di ambito del Brunelleschi. Prototipo modellato direttamente in creta e in stucco da cui furono tratte una ventina di repliche, oggi conservate in vari musei italiani e stranieri, l’opera ritrae una giovanissima Vergine con in braccio il Bambino, che sembra stringersi a lei, cercandone la protezione materna. Mila Lavorini settembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

La nuova «tenda» di Federico MUSEI • Jesi rende omaggio a uno dei suoi figli piú

illustri, inaugurando un museo multimediale che ne ripercorre la straordinaria vicenda. Con l’ausilio delle tecnologie avanzate, si possono seguire le tappe piú importanti della vita dello Stupor Mundi, cominciata nel dicembre del 1194 in una piazza della città marchigiana...

È

il 26 dicembre del 1194 e a Jesi (Ancona), in piazza san Floriano (oggi piazza Federico II) viene innalzata una tenda: di lí a poco, l’insolito «accampamento» si trasforma in sala parto per Costanza d’Altavilla, figlia del re normanno Ruggero II, ed Enrico VI di Hohenstaufen, re di Germania, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Sicilia e di Puglia. L’imperatrice, in viaggio per raggiungere il marito appena incoronato a Palermo, può cosí mettere al mondo Federico II di Svevia e lo fa in quell’insolita cornice affinché all’evento possano assistere le autorità civili e religiose, nonché la popolazione, per fugare, considerata la sua età avanzata – Costanza aveva allora quarant’anni –, ogni dubbio sulla maternità. L’episodio creò naturalmente un forte legame fra la cittadina marchigiana e lo Stupor Mundi, che

In alto miniatura raffigurante la nascita di Federico II a Jesi, dalla Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. A destra una delle installazioni multimediali che evoca la passione dell’imperatore per la falconeria.

10

oggi si rinnova con l’apertura di un museo multimediale dedicato alla sua straordinaria parabola. Il nuovo Museo Federico II Stupor Mundi è stato infatti allestito nello storico Palazzo Ghislieri, affacciato sulla stessa piazza dove Costanza d’Altavilla diede alla luce il futuro re

di Germania e di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero. Il ricordo della città natale rimase vivo nella memoria del sovrano, come prova in maniera eloquente la lettera inviata agli abitanti di Jesi nell’agosto 1239, nella quale la (segue a p. 12) settembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA DOVE E QUANDO

Museo Federico II Stupor Mundi Jesi (Ancona), Palazzo Ghislieri, piazza Federico II 3 Orario fino al 15 settembre: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-19,00; dal 16 settembre al 14 giugno: gio-sa, 15,00-19,00; do, 10,00-13,00 e 15,00-19,00; la mattina aperto solo su prenotazione per gruppi e scuole Info tel. 0731 084470 oppure 0731 202944; e-mail: info@federicosecondostupormundi.it www.federicosecondostupormundi.it

In alto, a sinistra l’immagine guida del Museo Federico II Stupor Mundi. In alto, a destra la sezione sul rapporto

12

fra papa Innocenzo III e Federico II. In basso la sala dei castelli federiciani, primo fra tutti Castel del Monte.

descrive come «nobile città della Marca, insigne principio della nostra vita, terra ove la nostra culla assurse a particolare splendore» e la definisce «la nostra Betlemme». La nascita di Federico II nella città marchigiana e i privilegi a essa concessi dai suoi eredi sono peraltro alla base dell’antica definizione di «Jesi Città Regia». Il nuovo museo si articola in sedici

sale tematiche, disposte su tre piani, che attraverso ricostruzioni scenografiche e tridimensionali, installazioni multimediali e l’utilizzo di tecnologie di ultima generazione, come il video mapping e supporti touch screen, costituiscono un viaggio immersivo e multisensoriale alla scoperta di Federico II di Svevia: la nascita e la storia dei suoi antenati; l’incoronazione come imperatore nella medievale basilica di S. Pietro; il suo rapporto con i papi e la Chiesa; la Crociata in Terra Santa; le mogli e la discendenza; la sua passione per la falconeria (fu autore di un prezioso trattato ancora oggi attuale e modernissimo, il De arte venandi cum avibus); il suo sconfinato interesse per le arti, le scienze e il sapere, che hanno contribuito a creare l’immagine di un mito, ora racchiuso in un unico luogo. (red.) settembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Gemme senesi APPUNTAMENTI • La storia di alcuni

dei piú insigni monumenti della città toscana rivive grazie a nuovi progetti imperniati sulla multimedialità

S

i riaccendono i riflettori sull’Acropoli di Siena. Quaranta proiettori con tecnologia laser tornano a illuminare i due complessi museali di piazza Duomo, al fine di raccontare la grande e millenaria storia della città. Nel settecentesimo (1317-2017) anniversario dell’ampliamento della Cattedrale, è stato inaugurato un nuovo percorso, finalizzato alla valorizzazione dell’oratorio di S. Giovannino: «Divina Bellezza-Sotto il Duomo, percorsi di Luce», un progetto attraverso il quale l’Opera intende recuperare e valorizzare l’oratorio ormai da decenni chiuso al pubblico. Il percorso inizia dal Battistero e prosegue negli ambienti frutto delle modifiche della Cattedrale iniziate nel 1317. Attraverso le fondamenta del braccio sinistro del transetto, una volta luoghi destinati alla conservazione delle granaglie, si giunge all’aula seicentesca della chiesa. Giunti nel cantiere dell’oratorio, si può assistere a uno spettacolo immersivo della storia, dell’arte e delle tradizioni di Siena grazie a una proiezione di videomapping 3D con cuffia in multilingua. Protagonisti dello spettacolo sono i Senesi che hanno

14

Siena. Due delle installazioni multimediali allestite per le nuove iniziative che mirano alla valorizzazione dell’oratorio di S. Giovannino e del complesso del Santa Maria della Scala. contribuito alla realizzazione di un paradigma che si fonda sul buon governo e i valori dell’etica.

La lunga storia di un ospedale Le luci si accendono anche per il Santa Maria della Scala, con il progetto «Nello spazio e nel tempo». Il Complesso museale propone quattro nuove installazioni di videomapping 3D con audio multilingua. Il primo video, proiettato sulla parete esterna della Sacrestia Vecchia, illustra le fasi costruttive del grande complesso: le origini, la creazione del primo e dei successivi pellegrinai, della strada interna, fino ad arrivare agli ultimi allestimenti museali. All’ingresso del granaio la seconda installazione

è dedicata alla Fonte Gaia di Jacopo della Quercia originariamente collocata in piazza del Campo. Proseguendo lungo il percorso, nei magazzini della corticella, il terzo momento di approfondimento legge il Santa Maria della Scala attraverso le fasi salienti della sua storia. Un ascensore che si apre e chiude permette di partecipare alla quotidianità dello spedale: balie, gittatelli, oblati, pazienti, medici e infermieri prendono vita grazie a materiali di archivio e foto. Alla fine dell’itinerario visivo e simbolico, nella strada interna, collegamento funzionale tra città e campagna, l’ultima installazione mostra le attività di una grancia dello spedale. (red.) settembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

La casa magna del ricco Giovanni ITINERARI • Casa Romei,

oggi trasformata in museo, è un documento di primaria importanza per la conoscenza dell’architettura signorile quattrocentesca ferrarese. Una residenza elegante e raffinata, impreziosita da un repertorio decorativo variegato, nel quale spiccano le fantasiose e intricate grottesche

R

itenuta il prototipo della dimora signorile nella Ferrara del Quattrocento, per la struttura architettonica e l’effetto di spazialità armonica, Casa Romei testimonia il delicato momento di transizione fra il XV e il XVI secolo, in cui il fantasioso spirito gotico di ascendenza veneta si

stempera nell’ordinato equilibrio rinascimentale di gusto, scelte decorative e iconografiche. Il banchiere Giovanni Romei fece edificare questa «domus magna» intorno al 1440, al tempo del principato di Lionello d’Este, dopo aver acquistato aree e fabbricati «in contrada Sancti Salvatoris ubi dicitur

Belvedere», una zona piú ariosa rispetto alle vie strette e buie del centro storico, destinata a divenire l’asse principale della nuova urbanizzazione. Oltre a significare l’agio economico raggiunto dal nobiluomo – arricchitosi con il commercio di grano, canapa e mercerie –, tale scelta rientrava nella tendenza, seguita in quel momento dai ceti piú abbienti, a erigere prestigiosi edifici proprio in quest’area della città. La configurazione iniziale dell’abitazione deriva dall’unione di tre case distinte, mentre la fisionomia definitiva di Casa Romei, quale appare tuttora, è stata raggiunta nell’arco di una quindicina di anni con il moltiplicarsi di logge e poggioli, spazi aperti e chiusi, che seguono criteri funzionali e celebrativi. Fulcro della residenza In alto Ferrara, Casa Romei. Una delle logge che ingentiliscono la dimora voluta da Giovanni Romei intorno al 1440. A sinistra Tobiolo e l’angelo, affresco attribuito al Bastianino (al secolo, Sebastiano Filippi). 1550 circa.

16

settembre

MEDIOEVO


è l’armonioso cortile d’onore, con il grande loggiato, che presenta finemente scolpite su angoli, capitelli e soffitti lignei le iniziali di Giovanni Romei e la sua arma gentilizia, un levriero rampante.

Un progetto iconografico unitario Al piano terra si visitano tre ambienti, ora adibiti a lapidario, un tempo probabilmente utilizzati come locali di servizio, cucine, magazzini e depositi, la Sala delle Sibille e la Sala dei Profeti. Questi ultimi due vani conservano l’originale decorazione in stile gotico e rientrano in un progetto iconografico unitario, ove, nello spirito del sincretismo rinascimentale, convivono motivi di ispirazione sacra e temi di carattere amoroso. Impreziosita da un maestoso camino a cappa pentagonale – considerato un

Un «catalogo» della pittura emiliano-ferrarese Nel 1866, in seguito alle leggi sabaude di soppressione degli Ordini religiosi, il convento del Corpus Domini passò al Demanio Comunale e Casa Romei divenne proprietà statale. Dopo un lungo abbandono, nel decennio 1920-30 si avviarono massicci interventi per restaurare e consolidare l’architettura civile e, nel 1952, fu istituito il Museo di Casa Romei. Oggi la dimora ospita le collezioni civiche di cotti architettonici, marmi trecenteschi, lapidi funerarie e affreschi. Staccate da edifici sacri distrutti o chiusi al culto e da abitazioni civili, le opere sono un’importante fonte iconografica della pittura emiliano-ferrarese fra il XIII e il XVI secolo e, in alcuni casi, rappresentano l’unica traccia superstite di cicli di ampio respiro. Particolarmente interessanti sono i brani a fresco provenienti dalle chiese di S. Caterina Martire e S. Guglielmo, che attestano la presenza di maestranze riminesi in città nel Trecento. Da segnalare anche un’Ascensione della Vergine, firmata «Serafinus de Mutin me pin.», eseguita dall’artista modenese attivo a Ferrara già dal 1361. Lo stile narrativo e fiabesco di Altichiero e Tommaso da Modena emerge invece in alcune lunette, dipinte per ornare la chiesa di S. Stefano. I mobili che arredano le sale, appartengono all’associazione «Ferrariae Decus», nata nel 1906 per la tutela del patrimonio artistico locale.

A destra il cortile d’onore, con il grande monogramma di san Bernardino. In basso Madonna col Bambino, bassorilievo in stucco policromo attribuito a Donatello e alla sua bottega. 1460 circa.

unicum in città –, la Sala delle Sibille, è decorata alle pareti da festosi affreschi con puttini alati, che sostengono rami vegetali colmi di pomi, pigne, melograne, pere, garofani. Essi attestano il gusto del tempo di simulare nelle dimore signorili giardini e verzieri, mediante dipinti murali o arazzi. Dodici maestose Sibille – che avvolte in ampi mantelli tengono in mano cartigli svolazzanti con frasi preannuncianti la venuta di Cristo – si stagliano sullo sfondo di un roseto verdeggiante, delimitato da canne

MEDIOEVO

settembre

incrociate. Terminato il giardino, infatti, la decorazione pittorica simula una tenda damascata, aperta su di una nicchia nella quale è affrescata la Natività di Gesú.

Intimità familiare Da un lato la Sala delle Sibille comunica con il quadrangolare cortile minore, che, riservato all’intimità familiare, documenta – nel moltiplicarsi degli spazi aperti adibiti a cortili o giardini – il prestigio economico raggiunto e, di conseguenza, l’adesione a

17


ANTE PRIMA La lunga vita di un ricco gentiluomo Nato nel 1402 da un’agiata famiglia di mercanti ferraresi, Giovanni Romei sposò Lavinia, figlia di Giovanni Baroni, uomo di fiducia del marchese Niccolò III, entrando cosí nella cerchia delle famiglie piú importanti di Ferrara. Le decime riscosse dalle popolazioni locali, la cura con cui si dedicò al dissodamento delle terre incolte, alla coltura cerealicola, alla vigna, all’allevamento degli animali e la massiccia vendita di medicine nella sua «speciaria» durante la pestilenza del 1436 lo portarono alla ribalta della vita economica della città e, di conseguenza, della vita politica dello Stato. Nel 1458 venne nominato fattore generale del duca, massima carica nell’amministrazione privata. Oltre che con la casa d’Este Giovanni Romei intrecciò rapporti con dotti umanisti e, in particolare, con Enea Silvio Piccolomini (il futuro papa Pio II). Morí il 9 (o forse il 2) ottobre del 1483, all’età di 81 anni, lasciando agli eredi un cospicuo patrimonio.

In alto la Sala delle Sibille, nella quale spicca il camino a cappa pentagonale, sormontata dallo stemma dei Romei. A sinistra Saletta delle Arti Liberali. Allegoria della Grammatica, tramezza lignea attribuita a un pittore ferrarese del secondo Quattrocento.

DOVE E QUANDO

Museo di Casa Romei Ferrara, via Savonarola 28-30 Orario do-me, 8,30-14,00; gio-sa, 14,00-19,30 Info tel. 0532 234130; e-mail: pm-ero.casaromei-fe@beniculturali.it; www.polomusealeemiliaromagna.beniculturali.it/musei/museodicasaromei un piú raffinato stile di vita. Dal lato opposto si accede invece alla Sala dei Profeti; anche qui, sulle pareti, ritorna il tema del giardino, delimitato da uno steccato di canne legate da esili cordicelle, disposte a formare dei rombi. I Profeti, dalle testine aureolate, compaiono su di un grande albero. Distribuiti per ogni lato della stanza in gruppi di cinque o sei, sventolano

18

cartigli con versetti di David, Isaia, Gioele, Daniele. In una nicchia, incorniciata da un’architettura ricca di guglie e pinnacoli, la Madonna sostiene sul grembo il figlio morto, secondo l’iconografia nordica della Pietà: chiudono la scena ai lati san Bernardino da Siena e un altro santo francescano. Nel 1491 l’immobile fu donato per volere testamentario alle Clarisse

dell’adiacente convento del Corpus Domini. Alla metà del Cinquecento, il cardinale Ippolito d’Este (1509-1572), fratello del duca Alfonso II, promosse una serie di interventi per abbellire alcuni ambienti del piano superiore e aggiornarli al gusto del Rinascimento maturo. Come motivo decorativo principale, scelse la grottesca, un elemento molto fantasioso, che consentiva all’artista di sbizzarrirsi in invenzioni capricciose, e che ricevette il suo maggior impulso a Ferrara, proprio dal cardinale estense. Realizzate con vivace colorismo dalla bottega dei Filippi, attivi anche nella Palazzina di Marfisa e nel castello, le grottesche di Casa Romei sfoggiano un’infinita varietà di ornati: girali fitomorfi, festoni, cartigli, trofei, nastri annodati e spiegati, maschere, animali reali e fantastici. Chiara Parente settembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Camera con giostra APPUNTAMENTI • Nel 1237, giunse

a Monselice, oggi in provincia di Padova, l’imperatore Federico II. La visita dello Stupor Mundi fu salutata con grandi festeggiamenti. Atmosfere di giubilo che si rinnovano ogni anno nella rievocazione di cui sono protagoniste le nove contrade della cittadina veneta

L

a cittadina veneta di Monselice si sviluppò nell’Alto Medioevo, dopo che, nel 602, i Longobardi avevano stabilito il loro presidio difensivo sul colle della Rocca. Nel 1237, il borgo accolse con grandi onori e feste Federico II di Svevia, in viaggio in Italia, assicurandogli la propria fedeltà all’impero. Come segno di riconoscenza, il sovrano decretò Monselice sua «camera speciale imperiale» e fece potenziare la fortificazione cittadina, dotandola di mura. Nella seconda metà del Duecento, il centro veneto istituí l’arengo, un vero e proprio «consiglio comunale», prima forma di partecipazione diretta del popolo alla gestione della cosa pubblica. E grazie anche alla definizione di un «impianto statutario» della vita politica e sociale, divenne un centro urbano fiorente e ben organizzato. Per rievocare i fasti del XIII secolo, Monselice mette in scena ogni anno la Giostra della Rocca, riproponendo gare di destrezza e forza di tradizione medievale. Cinque sono le competizioni della Giostra: il tiro con l’arco, la prova di forza alle macine, la staffetta podistica, il torneo di scacchi e la Quintana cavalleresca con la lancia. A sfidarsi sono le nove contrade cittadine di Cà Oddo,

20

Qui accanto e in basso alcuni momenti dei giochi e delle rievocazioni che si organizzano a Monselice per la Giostra della Rocca.

Carmine, San Bortolo, La Torre, Marendole, Monticelli, San Cosma, San Giacomo e San Martino.

Dagli scacchi alle prove di forza Il programma dell’edizione 2017 prevede per giovedí 7 settembre, alle 21,00, in piazza Mazzini la finale del torneo di scacchi in costume. Domenica 10 settembre,

per tutta la giornata, via Castello e piazza Mazzini ospitano il mercatino medievale; sono quindi in programma, alle 15,00, in via Piave, la gara degli archi; alle 16,00, la staffetta podistica; alle 16,30, la prova di forza alle macine. Domenica 17 settembre, alle 9,30, le contrade danno vita al grande corteo storico con oltre mille settembre

MEDIOEVO


figuranti. Di particolare interesse è la ricostruzione minuziosa delle macchine da guerra medievali che accompagnano il corteo: torri, balestre, catapulte, caldaia della pece, arieti e altri strumenti bellici. Alle 15,00, nel campo allestito in via Piave, si svolge la gara della Quintana, la piú attesa della Giostra della Rocca. Ogni contrada schiera due cavalieri, per un totale di 18, che si scontrano fra loro a eliminazione diretta, sino alla finale. La tenzone si svolge su una pista ovale lunga 220 m circa. Partendo da rettilinei contrapposti, al suono di una campana, i cavalieri devono percorrere velocemente tre giri di pista. Lungo il tracciato è posto un braccio fisso, la «quintana» appunto, A destra Montopoli Val d’Arno. Esibizioni di sbandieratori che fanno da contorno alla tradizionale Disfida con l’Arco che si svolge nella cittadina toscana.

Popoli a confronto I

l castello di Montopoli in Val d’Arno viene citato per la prima volta in un documento che porta la data del 1017. Lo fece costruire il vescovo di Lucca, signore del territorio, per dare agli abitanti del borgo di Mosciano un rifugio dalla minaccia dei barbari. Nel 1162, l’imperatore Federico II di Svevia ne assegnò la giurisdizione a Pisa ghibellina, scatenando la reazione di Lucca, che si alleò con Firenze per riprenderne il possesso. Il castello si trovò allora al centro di lunghe contese: fu piú volte conquistato e perso dalle due parti fino al 1349, quando si sottomise volontariamente a Firenze, che ne fece la sede di un vicariato e di una guarnigione stabile. All’indomani dell’evento, seguí un periodo storico florido, al quale è dedicata la Disfida con l’Arco, che Montopoli ospita ogni anno nella seconda domenica di settembre (quest’anno il 10). In particolare, la rievocazione celebra la divisione del borgo nei «popoli» di San Giovanni e Santo Stefano, introdotta dal podestà Jacopo degli Albizi nel 1412.

Insuiti vs Inguisti

con appesi tre anelli dal diametro decrescente di 9, 7 e 5 cm, che, uno alla volta, devono essere infilati con la lancia nei tre giri. A ogni anello corrisponde un punteggio: 800, 1000 e 1200. La classifica finale viene redatta tenendo conto del miglior piazzamento ottenuto dai due cavalieri in gara per ogni contrada. Tiziano Zaccaria

MEDIOEVO

settembre

Oggi i due «popoli» sono divisi a loro volta in cinque contrade ciascuno. Gli Insuiti, nella parte alta della città, comprendono Santo Stefano, Sant’Andrea, Barberia, San Matteo e Borgo Vecchio. Gli Inguisti, a valle, includono San Giovanni, Masoria, Napraia, Vallelunga e Borgo di Sotto. La Disfida si svolge in prossimità dell’Arco di Castruccio. Un arciere in rappresentanza di ogni contrada sale sulla pedana e tira dieci frecce contro un bersaglio circolare, largo 1 m, posto a circa 30 m di distanza. Fin dal mattino del giorno della gara, il borgo è animato da un mercato di antiche botteghe artigiane e scene di vita medievale, con dame, cavalieri, danzatrici, notabili, musici, sbandieratori, giullari e altri figuranti in costume. Nella stessa giornata sfila per il borgo un fastoso corteo storico. Già dal pomeriggio del sabato, Montopoli in Val d’Arno si anima con canti medievali, esibizioni di acrobati, trampolieri, mangiafuoco, duelli di spada e spettacoli di falconeria. In serata si può degustare la cena medievale ai piedi dell’antica Torre di San Matteo, mentre in piazza II Giugno si svolge l’esibizione dei Piccoli Arcieri della Rocca. T. Z.

21


ANTE PRIMA

Uniti per il patrimonio

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

T

aglia il traguardo dei vent’anni la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, in programma dal 26 al 29 ottobre 2017 nell’area archeologica della città antica di Paestum. E, per l’occasione, la rassegna ospiterà prestigiose iniziative, tra cui l’anteprima dell’«Anno Europeo del Patrimonio Culturale», indetto dalla Commissione Europea per il 2018 e il Convegno «Il turismo sostenibile per lo sviluppo dei siti archeologici mondiali» a cura dell’UNWTO, l’Organizzazione Mondiale del Turismo delle Nazioni Unite. Nelle scorse settimane, il Direttore della BMTA, Ugo Picarelli, ha incontrato a Tunisi la Ministra del Turismo e dell’Artigianato Selma Elloumi Rekik e l’ha invitata a partecipare a uno degli appuntamenti di maggiore rilevanza della XX edizione della rassegna, la conferenza «Il dialogo interculturale valore universale delle identità e del patrimonio culturale: #pernondimenticare il Museo del Bardo, 18 marzo 2015 e #unite4heritage for Palmyra», in collaborazione con UNESCO e Organizzazione Mondiale del Turismo, con la partecipazione dei Ministri del Turismo e della Cultura di Azerbaigian, Bahrein, Iraq, Serbia. Dopo la città punica di Cartagine, la Borsa ha visitato il Museo del Bardo incontrando il Direttore Mouncef Ben Moussa e ribadendo il suo impegno annuale a trasmettere sempre a futura memoria l’accaduto del marzo 2015. E, per sottolineare l’amicizia con il Bardo, è stato invitato a Paestum Hamadi Ben Abdesslem, la guida turistica che ha salvato 45 italiani durante l’attacco terroristico dell’Isis, portandoli al riparo da una uscita di servizio. Poiché Hamadi è nel suo Paese vicepresidente dell’Associazione Guide Turistiche, potrà portare la sua esperienza all’incontro annuale che ANGT, l’associazione delle guide italiane, svolge a Paestum. A fare da contorno, saranno gli appuntamenti ormai tradizionali e grazie ai quali la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si è affermata negli anni come un evento originale nel suo genere: sede dell’unico Salone espositivo al mondo del patrimonio archeologico e di ArcheoVirtual, la mostra internazionale di tecnologie multimediali, interattive e virtuali; luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio; occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e culturali,

22

Ugo Picarelli, direttore della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, insieme a Selma Elloumi Rekik, Ministra del Turismo e dell’Artigianato della Tunisia.

viaggiatori e appassionati; opportunità di business nella suggestiva location del Museo Archeologico, con il Workshop tra la domanda estera selezionata dall’ENIT e l’offerta del turismo culturale e archeologico. Non va infine dimenticato che, dal 2015, si è aggiunto l’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio intitolato al Direttore del sito archeologico di Palmira, che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale: la Borsa e «Archeo», in collaborazione con le riviste media partner internazionali Antike Welt (Germania), Archéologie Suisse (Svizzera), Current Archaeology (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie (Francia) selezionano e premiano le principali scoperte archeologiche dell’anno. Per quest’anno concorrono all’assegnazione del premio: l’edificio della barca di Sesostri III e i graffiti di 120 navi ad Abido (Egitto); la prima opera architettonica dei Neandertal in una caverna di Bruniquel (Francia); la grande città dell’età del Bronzo presso il piccolo villaggio curdo di Bassetki (Iraq); la città indo-greca di Bazira (Pakistan); e 400 tavolette di epoca romana ritrovate nella City di Londra (Regno Unito). Info: www.borsaturismoarcheologico.it settembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

ARABI IN ITALIA GLI

N

el solco di una tradizione ormai consolidata, il nuovo Dossier di «Medioevo» affronta con un taglio innovativo un tema sul quale esiste ormai una letteratura pressoché sterminata: sulla presenza islamica in Italia sono state scritte pagine in alcuni casi memorabili, prime fra tutte quelle della monumentale Storia dei musulmani in Sicilia dell’insigne patriota, storico e arabista siciliano Michele Amari (1806-1889), eppure, come Marco Di Branco sottolinea a piú riprese, sono altrettanto ampi gli spazi per letture critiche e proposte di lettura alternative.

Miniatura dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skylitzes, raffigurante una battaglia tra cavalieri bizantini e arabi. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

24

settembre

MEDIOEVO


IL NUOVO DOSSIER DI MEDIOEVO In particolare, risultano non piú differibili il riesame delle dinamiche che portarono all’avvento dei musulmani nel Meridione della Penisola – frutto di operazioni che non furono semplici «scorrerie» – e la revisione del fin troppo abusato cliché del Saraceno «truce» e «spietato». La presenza degli Arabi in un’ampia porzione del territorio italiano fu insomma un fenomeno articolato e, soprattutto, culturalmente significativo, con ricadute di cui constatiamo ancora oggi l’efficacia, per esempio nei campi della scienza o delle tecniche agricole. Per non dire,

e basterà in questo caso volgere lo sguardo ai magnifici monumenti della Palermo arabo-normanna, delle mirabili realizzazioni in campo artistico e architettonico. Il viaggio nell’Italia musulmana sarà dunque l’occasione per conoscere (o riscoprire) un patrimonio di straordinaria ricchezza, che il Dossier di «Medioevo» illustra in ogni suo dettaglio, offrendo anche inediti elementi di conoscenza, come quelli scaturiti dalle ricerche sul misterioso insediamento del Mons Garelianus e su una enigmatica iscrizione scomparsa…

25


AGENDA DEL MESE

Mostre ROMA I FORI DOPO I FORI. LA VITA QUOTIDIANA NELL’AREA DEI FORI IMPERIALI DOPO L’ANTICHITÀ Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali fino al 10 settembre

L’area in cui sorgevano i Fori Imperiali, cuore antico della città di Roma e complesso architettonico unico al mondo per vastità e continuità urbanistica, è stata oggetto di scavi, studi e ricerche straordinariamente intensi. In particolare, gli scavi archeologici realizzati negli ultimi venticinque anni hanno portato alla luce un tesoro

prezioso. Il rinvenimento di un’eccezionale varietà di reperti, in alcuni casi unici, ha permesso, infatti, di ampliare le conoscenze sulle vicende del sito nel periodo medievale e moderno. Un contesto storico sicuramente meno noto (e meno rappresentato) al grande pubblico rispetto a quello classico, ma altamente esemplare della continuità insediativa urbana. E ora un’interessante e quanto mai diversificata selezione di questi reperti – tra cui ceramiche, sculture, monete, oggetti devozionali e di uso

26

a cura di Stefano Mammini

quotidiano –, tra le migliaia recuperati e per la maggior parte esposti per la prima volta, raccontano questi significativi periodi storici nella mostra «I Fori dopo i Fori». info tel. 06 06 08 (tutti i giorni, 9,00-21,00); www.mercatiditraiano.it; www.museiincomune.it ROMA PINTORICCHIO PITTORE DEI BORGIA. IL MISTERO SVELATO DI GIULIA FARNESE Musei Capitolini fino al 10 settembre

Alla fine del Quattrocento, l’élite culturale e politica di Roma fu attraversata da un grande fermento umanistico, propugnato dagli intellettuali, ma fortemente controllato dalla Curia. Filo conduttore dell’esposizione è dunque il tentativo di riconoscere nelle

lettere e nelle arti dell’epoca, quella memoria della Roma antica, repubblicana e imperiale, sulla base della quale la Chiesa andava delineando il proprio «rinascimento» politico e religioso. A oltre cinquecento anni da quei fatti e grazie alla disponibilità dei proprietari delle opere, viene presentato per la prima volta il volto della Madonna del Pintoricchio, finalmente riunito al piú noto Bambin Gesú detto «delle mani». Un’operazione che ha permesso di rivedere definitivamente il mito della presenza del ritratto di Giulia Farnese nell’appartamento Borgia riconoscendovi, invece, una rarissima scena di Investitura divina del neoeletto pontefice. info tel. 060608; www.museicapitolini.org

PERUGIA DA GIOTTO A MORANDI. TESORI D’ARTE DI FONDAZIONI E BANCHE ITALIANE Palazzo Baldeschi al Corso fino al 15 settembre

Come annuncia il titolo, la mostra intende valorizzare il patrimonio artistico posseduto dalle Fondazioni di origine

bancaria e delle banche italiane. Si tratta di un patrimonio ampio che, per varietà di composizione e stratificazione temporale, può essere considerato il volto storico e culturale dei diversi territori della nostra Penisola. Questa particolare attività collezionistica è un aspetto del piú complessivo impegno culturale delle banche e delle fondazioni, in una dimensione piú ampia di attività e di impegno verso la comunità di riferimento: acquisto, recupero, restauro e quindi tutela e valorizzazione di opere che altrimenti andrebbero disperse. La maggior parte delle opere in mostra sono catalogate in Raccolte, la banca dati consultabile on line realizzata dall’Acri, l’Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio. La mostra perugina propone dunque un avvincente percorso lungo sette secoli di settembre

MEDIOEVO


storia dell’arte e al contempo consente di verificare la pluralità degli orientamenti che stanno alla base del fenomeno del collezionismo bancario. info tel. 075. 5724563; www.fondazionecariperugiaarte.it MONTEPULCIANO LEONARDO DA VINCI: VISIONS Fortezza e Giardino di Poggiofanti fino al 17 settembre

La rassegna si articola in una duplice sede espositiva: presso la Fortezza sono ospitate le riproduzioni delle macchine di Leonardo, mentre presso il Giardino di Poggiofanti è collocata la ricostruzione in scala 1:1 del monumento equestre in memoria di Francesco Sforza. Questa replica del colossale cavallo, alto oltre 7 m, è caratterizzata dalla fedeltà ai disegni di Leonardo e al processo di fusione da lui ideato. Realizzato in materiali compositi e struttura in acciaio, è alto 7,80 m per un estensione totale di circa 10 x 4 m e un peso complessivo di 20 tonnellate. Visions è un invito a esplorare il modo di pensare di Leonardo da Vinci e la sua concezione unitaria della conoscenza come sforzo di assimilare con ardite sintesi teoriche e con geniali esperimenti le leggi che governano tutte le meravigliose operazioni dell’uomo e della natura. info tel. 0577 286300; e-mail: leonardovisions@operalaboratori. com; www.leonardovisions.it FIRENZE IL COSMO MAGICO DI LEONARDO DA VINCI: L’ADORAZIONE DEI MAGI RESTAURATA Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture fino al 24 settembre

L’Adorazione dei Magi di

MEDIOEVO

settembre

Leonardo da Vinci torna agli Uffizi dopo sei anni di restauri e indagini conoscitive, condotti dall’Opificio delle Pietre Dure con il sostegno economico degli Amici degli Uffizi. La tavola fu commissionata a Leonardo nel 1481 dai monaci agostiniani per la chiesa di S. Donato a Scopeto; la partenza del maestro per Milano, nel 1482, determinò l’abbandono dell’opera, mai ultimata da Leonardo. Il dipinto incompiuto rimase per qualche tempo nelle case della famiglia fiorentina dei Benci, per poi entrare nelle collezioni dinastiche dei Medici. Costituisce oggi la tavola vinciana piú grande pervenutaci (246 x 243 cm). Il suo restauro, oltre ad avere risolto alcuni problemi conservativi, ha consentito di recuperarne tonalità cromatiche inaspettate e la sua piena leggibilità, ricchissima di dettagli affascinanti che aprono nuove prospettive sul suo complesso significato iconografico. Con l’Adorazione dei Magi di Leonardo viene esposta anche la versione eseguita da

Filippino Lippi nel 1496, proponendo cosí un dialogo affascinante, che fa emergere le diversità tra i due maestri e la loro differente interpretazione del soggetto. info tel. 055 23885 (centralino); www.uffizi.it QUATTRO CASTELLA (REGGIO EMILIA) CASTELLI IN ARIA. L’IMMAGINARIO DEL BIANELLO E DEI CASTELLI MATILDICI Castello di Bianello fino al 24 settembre

I castelli evocati dal titolo della mostra sono «in aria» perché costruiti su colli o speroni

rocciosi per meglio difendersi e perché in essi si perde la fantasia e si scatena l’immaginario. Beni architettonici incastonati come gemme nell’Appennino, baluardo tra Emilia e Toscana, tappe, con le pievi romaniche, di pellegrini, mercanti ed eserciti. L’esposizione nasce dalla collaborazione tra l’Associazione Amici di Matilde di Canossa e del Castello di Bianello e l’amministrazione comunale di Quattro Castella e trova la sua sede ideale nel castello di Bianello, situato su uno dei quattro colli affacciati sulla pianura a definire l’inizio della linea appenninica. Il patrimonio esposto appartiene quasi interamente alla collezione di Giuliano Grasselli, cultore di storia matildica e collezionista, ricca di oltre 900 opere tra quadri, stampe, incisioni, fotografie storiche, libri antichi e moderni e medaglie. info tel. 0522 249232; www.bianello.it FIRENZE DA VINCI EXPERIENCE Ex chiesa S. Stefano al Ponte fino all’8 ottobre

La chiesa sconsacrata di S. Stefano al Ponte ospita una mostra multimediale dedicata al genio di Leonardo, alla sua

27


AGENDA DEL MESE

scienza ed eclettismo nelle varie discipline. Cuore del progetto espositivo è il format immersivo realizzato da Art Media Studio Firenze, una sorta di story telling per immagini dell’universo di da Vinci, ottenuto grazie alle multiproiezioni in video mapping – sui nove schermi dell’allestimento e sulle architetture della navata di S. Stefano al Ponte – di centinaia di immagini digitalizzate ad alta definizione, d’inserti video in full HD e alla colonna sonora diffusa a 360° in Dolby surround. Arricchiscono il percorso della mostra modelli delle macchine

28

leonardesche – a grandezza naturale e in scala –, tra i quali spicca l’ala per il volo umano di 9 m di apertura, sospesa al centro della navata. info tel. 055.217418; e-mail: info@davinciexperience.it; www.davinciexperience.it LONDRA GIOVANNI DA RIMINI: UN CAPOLAVORO TRECENTESCO SVELATO National Gallery fino all’8 ottobre

Grazie all’accordo raggiunto con il collezionista newyorchese Ronald S. Lauder, la National Gallery può esporre per la prima volta la

magnifica tavola di Giovanni da Rimini con scene delle vite della Madonna e altri santi. Il museo inglese ha infatti ricevuto in dono il dipinto dallo stesso Lauder, che però, fino a quando sarà in vita, continuerà a detenerlo, salvo temporanee esposizioni, la prima delle quali è appunto quella appena inaugurata. A fare da corona all’opera, che viene datata ai primissimi anni del Trecento, sono altri due lavori attribuiti a Giovanni, provenienti da Roma e Faenza, e opere firmate dai maggiori maestri attivi nella stessa epoca del pittore riminese, fra cui Neri da Rimini, Francesco

da Rimini, Giovanni Baronzio e Giotto, che per un breve periodo soggiornò nella città romagnola. info www.nationalgallery.org.uk SIENA LA BELLEZZA FERITA. NORCIA, EARTH HEART ART QUAKE. LA SPERANZA RINASCE DAI CAPOLAVORI DELLA CITTÀ DI SAN BENEDETTO Cripta sotto il Duomo e Complesso Museale Santa Maria della Scala fino al 29 ottobre

Il 24 agosto 2016 un forte terremoto colpisce il Centro Italia. Il 26 e 30 ottobre 2016, altre scosse «feriscono» Norcia e il territorio circostante. settembre

MEDIOEVO


La basilica di S. Benedetto, la concattedrale di S. Maria Argentea e tutte le chiese della città e dintorni sono distrutte. A seguito del sisma, la Protezione Civile, il Corpo Nazionale Vigili del Fuoco, il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria, insieme con l’Ufficio Beni Culturali dell’Archidiocesi di Spoleto-Norcia, hanno provveduto alla messa in sicurezza delle opere d’arte. Alcune di esse sono ora ospitate dalla città di Siena e protette all’interno delle sue viscere: nella cosiddetta «Cripta» sotto il Duomo, dedicato alla Vergine Maria, e nel percorso del Santa Maria della Scala. L’allestimento prevede un itinerario attraverso i capolavori prima custoditi all’interno di basiliche, santuari e pievi del territorio. Una serie di video, concessi dal Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, e materiali fotografici di fotoreporter locali permettono inoltre la visione delle fasi di recupero delle

opere dopo il terremoto. info e-mail: bellezzaferita@ operalaboratori.com; tel. 0577 286300; www.operaduomo.siena.it; www.santamariadellascala.com VENEZIA MAGISTER GIOTTO Scuola Grande della Misericordia fino al 5 novembre

Allestita negli spazi della Scuola Grande della Misericordia, la mostra guida il visitatore in un percorso accompagnato dalla voce di Luca Zingaretti per la narrazione dei testi e dalla drammaturgia musicale originale di Paolo Fresu. La produzione di Giotto viene illustrata compiutamente, cosí da far comprendere la rivoluzione compiuta dalla sua opera nel tardo Medioevo, quando il maestro seppe rinnovare l’arte occidentale, aprendo la strada al Rinascimento verso l’età moderna. Il punto di partenza, nell’immensa navata d’ingresso, è l’imponente Croce del Presepe Greccio, ricostruita, su ispirazione di quella dell’affresco, e prosegue

al primo piano nella sequenza imperniata sulle Storie francescane di Assisi, la Cappella degli Scrovegni di Padova, i maestosi Crocifissi e le altre opere del Maestro realizzate a Firenze. Come epilogo si è scelto di ricordare la Missione Giotto del 1986, realizzata dall’Agenzia Spaziale Europea, che per la prima volta nella storia intercettò la Cometa di Halley, dipinta nell’Adorazione dei Magi della Cappella degli Scrovegni a Padova. info www.giotto-venezia.magister. art; e-mail: info@magister.art

tornare a rivelarsi, grazie alla volontà, all’impegno e alla caparbietà dell’uomo nel ricomporre e ricostruire la propria identità attraverso l’arte. La mostra allestita nel Palazzo dei Conservatori evidenzia e attualizza l’impegno delle istituzioni a favore dell’arte, presentando importanti testimonianze artistiche che, a causa di vicende non sempre trasparenti, sono state, per moltissimo tempo, negate alla pubblica fruizione e spesso dimenticate nei depositi o in altri contenitori non accessibili

ROMA LA BELLEZZA RITROVATA. ARTE NEGATA E RICONQUISTATA IN MOSTRA Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori fino al 26 novembre

Le nostre bellezze artistiche patiscono furti, vandalismi e danneggiamenti dovuti a eventi naturali disastrosi, ma anche alla mano dell’uomo. Tuttavia, l’arte negata, mortificata e distrutta da guerre, furti e catastrofi come i terremoti può rinascere dalle macerie, come la fenice, e può

MEDIOEVO

settembre

29


AGENDA DEL MESE al pubblico. Un’occasione per porre in risalto anche il quotidiano impegno da parte del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Il percorso espositivo si articola in tre sezioni, rispettivamente dedicate alle opere recuperate a seguito di furti, alle opere salvate dalle zone terremotate dell’Italia Centrale, nello specifico delle Marche, e a contesti che hanno subito danni provocati dalle guerre. In quest’ultimo ambito viene ripercorsa la vicenda della cattedrale di Benevento, colpita dalle bombe degli Alleati nel settembre del 1943. All’indomani dell’evento, si provvide a recuperare e mettere in salvo il patrimonio superstite, ma gran parte del materiale fu evidentemente accatastato e dimenticato e, fino al ritrovamento del 1980, erroneamente ritenuto perduto. Fino al 1980 era opinione comune che dei due amboni del duomo, gli unici elementi superstiti fossero quelli conservati ed esposti presso il Museo del Sannio a Benevento e il Museo Diocesano a Benevento. Tuttavia, gli scavi archeologici hanno portato alla luce i marmi depositati in uno dei locali adiacenti alla cripta e ora esposti in mostra: tutti i leoni che facevano parte dei due pergami e i frammenti delle colonne che li sormontavano, alcuni capitelli ed elementi di sculture e di lastre marmoree che ne costituivano le fiancate, nonché la base con figure di mostruose cariatidi del cero pasquale e il fuso spiraliforme della colonna che su essa si impostava. info Tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it

30

PAVIA LONGOBARDI. UN POPOLO CHE CAMBIA LA STORIA Castello Visconteo fino al 3 dicembre

Pavia torna capitale del «Regnum Langobardorum» e Napoli si fa portavoce del ruolo fondamentale del Meridione nell’epopea degli «uomini dalla lunghe barbe» e nella mediazione culturale tra Mediterraneo e Nord Europa. Nasce infatti dalla collaborazione tra Musei Civici di Pavia, Museo Archeologico Nazionale di Napoli e Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo una mostra davvero «epocale»: per gli studi scientifici svolti, per l’analisi del contesto storico italiano e piú ampiamente mediterraneo ed europeo, per gli eccezionali materiali esposti, quasi totalmente inediti, e per le modalità espositive. L’esposizione offre una visione complessiva e di ampio respiro (dalla metà del VI secolo alla fine del I millennio) del ruolo, dell’identità, delle strategie, della cultura e dell’eredità del popolo longobardo, che nel 568, guidato da Alboino, varca le Alpi Giulie e inizia la sua espansione sul suolo italiano: una terra divenuta

crocevia strategico tra Occidente e Oriente. info tel. 0382 399770; e-mail: mostralongobardi@comune.pv.it BOLOGNA 1143: LA CROCE RITROVATA DI SANTA MARIA MAGGIORE Museo Civico Medievale fino al 7 gennaio 2018

L’esposizione nasce dall’occasione di esporre per la prima volta, a seguito del restauro, questo prezioso esemplare di croce viaria. L’opera rientra nella tipologia di croci poste su colonne, che venivano collocate nei punti focali della città, a segnalare spazi sacri come chiese e cimiteri o di particolare aggregazione come i trivi o i crocicchi e le piazze. Stando alla tradizione, tale uso si diffuse già in epoca tardoantica, ma è soprattutto a partire della nascita del Comune (1116) e con l’espansione urbanistica di Bologna del XII e XIII secolo che si venne a sviluppare tale fenomeno. Talvolta le croci venivano protette da piccole cappelle e corredate di reliquie, di altari per la

preghiera, e di tutto il necessario per la celebrazione della messa. Segno distintivo e identificativo per la città, le croci segnarono lo spazio urbano fino al 1796, quando l’arrivo delle truppe napoleoniche e l’instaurazione della nuova Repubblica, trasformarono la città e i suoi simboli. La croce ritrovata di S. Maria Maggiore è di notevole interesse sia perché era tra i molti esemplari andati dispersi, sia perché è possibile datarla grazie all’iscrizione 1143, presente nel braccio destro. L’opera si viene cosí a collocare tra i piú antichi modelli a noi pervenuti, come quella di poco successiva alla croce degli Apostoli e degli Evangelisti, detta anche di Piazza di Porta Ravegnana, che risale al 1159. info tel. 051 2193916 o 2193930; e-mail: museiarteantica@ settembre

MEDIOEVO


comune.bologna.it; www.museibologna.it/arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte

VIENNA RAFFAELLO Museo Civico Medievale fino al 7 gennaio 2018 (dal 29 settembre)

Grazie alla collaborazione con l’Ashmolean Museum di Oxford, l’Albertina propone una ricca rassegna sul genio urbinate, riunendo 150 dipinti e disegni. Il nucleo portante dell’esposizione è composto da opere che appartengono alla prestigiosa raccolta viennese, alle quali fanno da contorno capolavori concessi in prestito, oltre che dall’Ashmolean, da molti dei maggiori musei internazionali. È cosí possibile documentare l’intero sviluppo della carriera artistica di Raffaello, dalle prime composizioni, ricche di spontaneità, alle ricercate realizzazioni della maturità. A testimonianza della versatilità del maestro, non mancano tracce della sua attività di architetto, ingaggiato da papi e principi, che contribuí a farne la firma piú ricercata del suo tempo. Un ingegno eccelso, del quale

MEDIOEVO

settembre

ancora oggi si può ammirare la straordinaria capacità di coniugare l’imitazione della natura con l’idealizzazione dei soggetti prescelti. info www.albertina.at PARIGI IL VETRO. UN MEDIOEVO DI INVENZIONI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino all’8 gennaio 2018 (dal 20 settembre)

Il Museo nazionale del Medioevo presenta una selezione di autentici capolavori dell’arte vetraria, scelti come «ambasciatori» di questa peculiare produzione. Arte di lusso, nata dalla creatività dei mastri vetrai merovingi attivi intorno al V secolo, la produzione del vetro guadagna i suoi quarti di nobiltà con l’avvento dell’architettura gotica, come testimoniano in maniera eloquente le opere provenienti dall’abbazia di Saint-Denis o dalla Sainte-Chapelle. Tuttavia, oltre che magicamente trasparente, questa materia prima si rivela eccezionalmente duttile e può anche trasformarsi in bene alla portata di tutti e trova vastissima diffusione nelle cucine e sulle tavole, finendo con il diventare una presenza

fissa nelle taverne. Né mancano gli utilizzi in campo religioso o medico, quando la pasta viene soffiata per assumere le forme di alambicchi e fiale. E poi, sul finire del XIII secolo, si apre un’altra delle grandi strade del vetro, quella della produzione delle prime lenti per occhiali. Una vicenda dunque affascinante e variegata, che a Cluny viene ripercorsa nei suoi mille riflessi. info www.musee-moyenage.fr PRATO LEGATI DA UNA CINTOLA. L’ASSUNTA DI BERNARDO DADDI E L’IDENTITÀ DI UNA CITTÀ Museo di Palazzo Pretorio fino al 14 gennaio 2018 (dal 7 settembre)

Prato ed elemento cardine della sua identità, la Sacra Cintola pratese è protagonista della nuova esposizione nel Museo di Palazzo Pretorio. Un tema, quello della reliquia pratese, che accende un fascio di luce intenso su un’età di grande prosperità per la città toscana, il Trecento, a partire dalle committenze ad artisti di prim’ordine, come Giovanni Pisano e Bernardo Daddi, che diedero risonanza alla devozione mariana a Prato come vero e proprio culto civico. In particolare, l’esposizione è l’occasione per tornare ad ammirare nel suo complesso la monumentale macchina dipinta da Daddi: la pala dell’Assunta, che gli fu commissionata nel 1337-1338. Nel tempo, l’opera è stata smembrata e la sua diaspora ha fatto sí che si perdesse la coscienza stessa della sua importanza. Prato può ora accoglierne i componenti entrati a far parte delle collezioni dei Musei Vaticani e del Metropolitan Museum of Art di New York. info tel. 0574 19349961; www.palazzopretorio.prato.it

Simbolo religioso e civile, fulcro delle vicende artistiche di

31


AGENDA DEL MESE

Appuntamenti SARZANA (LA SPEZIA) FESTIVAL DELLA MENTE XIV EDIZIONE 1-3 settembre 2017

Gianfranchi, realizzata con il contributo di Crédit AgricoleCarispezia, che prevede numerosi laboratori, spettacoli, letture animate e incontri per i piú piccoli. info www.festivaldellamente.it CITTÀ DI CASTELLO (PERUGIA)

Giunto alla quattordicesima edizione, il Festival della Mente di Sarzana avrà il suo filo conduttore nel concetto di rete, indagato da letterati, artisti, scienziati, psicologi, filosofi, storici, designer. «Come è stato lo scorso anno per la parola “spazio”, anche “rete” è un concetto che racchiude molteplici significati e può essere declinato in molti modi», spiega Benedetta Marietti, direttrice della rassegna. «Dal web alla rete intesa come insieme di relazioni umane; dalle reti che ci ingabbiano e imprigionano all’esplorazione delle reti neurali nelle neuroscienze; dalla rete della solidarietà fino all’importanza della rete nella biologia, nella fisica, nella matematica, e perfino nello sport. Attraverso l’indagine di un tema è cosí possibile affrontare argomenti e campi diversi del sapere, dalle piú recenti scoperte scientifiche agli ambiti di pensiero artistico e umanistico, in linea con la vocazione multidisciplinare e divulgativa del Festival della Mente». Fra le partecipazioni annunciate vi sono quelle dello storico Alessandro Barbero e dello studioso del mondo classico Matteo Nucci. In programma, come sempre, anche una sezione per bambini e ragazzi – un vero e proprio festival nel festival curata da Francesca

32

IL CONVENTO DI SAN GIROLAMO A CITTÀ DI CASTELLO E LA PRESENZA DEI GESUATI Palazzo Bufalini 3 settembre

Proseguono gli appuntamenti con le celebrazioni del seicentocinquantesimo anniversario (1367-2017) della morte del beato Giovanni Colombini e della costituzione dell’ordine dei Gesuati. Il Palazzo Bufalini di Città di Castello ospita una giornata di studi nel corso della quale saranno presentati i seguenti interventi: Isabella Gagliardi (Università degli Studi di Firenze), Presenza castellana dei Gesuati; Francesco Rossi (Associazione Idilio dell’Era), Il Corpus Jesuatorum; Andrea Czortek (Istituto Teologico di Assisi), Il beato Giovanni Colombini e i Gesuati nella Città di Castello del ‘300. L’incontro è accompagnato da una mostra di documenti d’archivio, documenti a stampa e iconografia, visitabile fino a domenica 3 settembre.

info istituto per la valorizzazione delle abbazie storiche della toscana: tel. 338 6581170; e-mail: abbazietoscana@libero.it; www.abbazietoscana.it

CAMOGLI (GENOVA) FESTIVAL DELLA COMUNICAZIONE IV EDIZIONE-CONNESSIONI 7-10 settembre 2017

Per la sua quarta edizione, la rassegna in programma a Camogli ha scelto il tema

delle Connessioni. Connessioni che non caratterizzano solo il secolo ipertecnologico in cui viviamo, ma sono anche intimamente legate alla natura umana: coinvolgono in modo profondo e strutturale la società, la storia, i sistemi economici e di governo, le nostre abitudini e il nostro pensiero. A confrontarsi sull’argomento sono chiamati oltre 130 esperti e studiosi di diversi ambiti e generazioni, per garantire quella ricchezza di contenuti e punti di vista che ha da sempre contraddistinto

il festival e che rappresenta una delle sue caratteristiche piú apprezzate. Per questa ragione alle conferenze si affiancano laboratori, panel, spettacoli, mostre, cinema, escursioni e gite in mare. Fra gli altri, segnaliamo gli interventi dello storico Alessandro Barbero, Connessioni clandestine, e del matematico Piergiorgio Odifreddi, su Plutarco, Keplero e Huygens: una connessione astronomica, nonché l’approfondimento sul tema dell’Homo sapiens proposto dal genetista Guido Barbujani, insieme al presidente del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze Guido Chelazzi e al filosofo evoluzionista Telmo Pievani. Tutte le iniziative del festival sono gratuite e aperte al pubblico fino a esaurimento dei posti disponibili. info www.festivalcomunicazione.it MODENA, CARPI, SASSUOLO FESTIVALFILOSOFIA 2017 15, 16, 17 settembre

Dedicata al tema arti, la XVII edizione del Festivalfilosofia mette a fuoco le pratiche d’artista e le forme della creazione in tutti gli ambiti produttivi, esplorando la radice comune che lega arte e tecnica. Sono in programma lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, giochi per bambini e cene filosofiche. Gli appuntamenti saranno quasi 200 e tutti gratuiti. info tel. 059 2033382; www.festivalfilosofia.it

settembre

MEDIOEVO



personaggi gilles de rais

Lo sterminatore di Bretagna di Federico Canaccini

Per la favola di cui è protagonista Barbablú, Charles Perrault si ispirò alle macabre gesta del nobile francese Gilles de Rais. Ricco e ambizioso, il giovane si era messo in mostra alla corte di Carlo VII, ma, soprattutto, aveva affiancato Giovanna d’Arco nelle sue memorabili imprese. All’indomani dei ripetuti successi, però, la sua mente si offuscò e l’uomo divenne uno spietato omicida seriale...

L L

o scrittore Charles Perrault (1628-1703) deve la sua fama letteraria a I racconti di mia madre l’Oca, pubblicati in Francia nel 1697. Si tratta di undici fiabe che comprendono alcuni tra i piú celebri esempi di letteratura per bambini e ragazzi. Chi non conosce infatti – foss’anche solo nella versione della Disney – Cenerentola, Cappuccetto Rosso, Il gatto con gli stivali o La bella addormentata nel bosco? Con questi racconti, Perrault inaugurò il genere della fiaba, che in Francia non aveva alcun precedente letterario. Tra le undici novelle, vi è anche quella di Barbablú, dalla quale, forse a motivo della sua efferatezza, non venne ricavata alcuna versione a cartone animato: vi si narra la vicenda di un sadico assassino che uccide, in una stanza degli orrori, sette donne, dopo averle prese in moglie. Purtroppo, nella trama intessuta da Perrault, c’erano un tragico fondamento di verità e una serie infinita di dettagli che conducevano in un’area ben delimitata della Breta-

34

Particolare di un’illustrazione dalla novella Barbablú di Charles Perrault, da un’opera di Gustave Doré tratta da El Mundo Illustrado. Barcellona, 1880.

gna del Quattrocento. Tutto convergeva sulla vicenda storica di Gilles de Rais (1404-1440), compagno d’arme di Giovanna d’Arco, maresciallo dell’esercito regio, uomo ricco e raffinato, divenuto – dopo la parabola della Pulzella – l’omicida seriale di oltre 140 bambini, condotti con l’inganno nei propri castelli e, con l’aiuto di alcuni complici e sedicenti maghi, abusati e fatti morire di atroci tormenti nella speranza di recuperare, grazie a questi folli riti, le ricchezze perdute. Per una serie di fortunate coincidenze, Gilles ereditò una delle piú grandi fortune di Francia, risultato di tre patrimoni: quello del padre, Guy de Laval-Montmorency, quello del nonno materno, Jean de Craon e quello dei Rais, dai quali ottenne il nome, nella persona di Jeanne Chabot de Rais. Suo padre, Guy, dapprima circuí la anziana Jeanne, senza eredi maschi, e poi, ne sposò la figlia, unica ereditiera. Le nozze furono celebrate nel 1404 e, per propiziare la nascita di un maschio, gli sposi si recarosettembre

MEDIOEVO


Gilles de Rais, olio su tela di Eloi-Firmin Féron. 1834. Versailles, Château.

MEDIOEVO

settembre

35


personaggi gilles de rais Per una serie di circostanze fortunate, Gilles de Rais si ritrovò a essere uno degli uomini piú ricchi di Francia A destra sigillo di Gilles de Rais, recante il suo stemma, uno scudo crociato sormontato da un elmo con cimiero in forma di cigno montante.

no in pellegrinaggio a Saint-Gilles nel Cotentin (Normandia), promettendo di battezzare il nascituro col nome del santo. Alla fine dell’anno un maschietto nasceva a Champtocé-sur-Loire, nel maniero dei Craon: era Gilles de Rais. Di nobile famiglia, il piccolo Gilles leggeva i classici latini, per crescere educato alle imprese dei Cesari: ma di quei condottieri, il giovane ammirava le efferatezze e le stramberie, piú che il valore e la magnanimità. Da Svetonio apprese che Caligola amava far morire lentamente le proprie vittime, che sperperava il denaro in spese folli, che commetteva eccessi di ogni sorta, giacendo

Particolare del verbale della seduta del Parlamento di Parigi del 10 maggio 1429, dove è menzionata la vittoria di Orléans, e in cui, a margine, è effigiata Giovanna d’Arco. XV sec. Domremy-la-Pucelle, Casa Natale di Giovanna d’Arco.

36

con la moglie, con amanti, con le sorelle. In un’epoca come quella del XV secolo, funestata da carestie, pestilenze, dalla Guerra dei Cent’anni che dilaniava la Francia, il giovane Gilles associò l’idea di potenza a quella di infliggere la morte ai propri rivali: non era certo il solo.

Il nonno come tutore

Il 1415 fu un anno decisivo per il ragazzo: nei primi mesi dell’anno perse la madre e, a settembre, anche il padre, sbudellato da un cinghiale durante una battuta di caccia. Dopo una lunga agonia, il padre pose Gilles e il fratellino René sotto la tutela di un cugino, evitando l’influenza del nonno materno, Jean de Craon, uomo torbido e senza scrupoli. Un mese dopo, ad Azincourt, cadeva Amaury, figlio del Craon, lasciando Gilles unico erede di tre patrimoni e sotto la tutela del nonno, un vecchio cinico e avaro, che lasciò crescere il piccolo senza porgli alcuna restrizione. Piú tardi, durante il processo a cui fu sottoposto, egli stesso dichiarò che «a causa del cattivo governo che v’era stato della sua infanzia, essendo stato lasciato senza freno (…) perpetrò grandi ed enormi crimini, principalmente nella sua giovinezza, cinicamente contro Dio e i suoi comandamenti». settembre

MEDIOEVO


Jean de Craon si preoccupò di combinare le nozze di Gilles, che nel 1422 impalmò sua cugina Catherine de Thouars. Costei gli portò in dote il famigerato castello di Tiffauges, che, nell’immaginario collettivo, divenne il castello di Barbablú. Giunto alla maggiore età, il nobile si distinse per le spese folli: con una smania da perenne insoddisfatto, Gilles acquistava in modo compulsivo stoffe preziose e pietre rare, arazzi e reliquiari, gemme antiche e cappelli. Nel 1425 incontrò per la prima volta il Delfino, Carlo VII, costretto a ritirarsi a Bourges dopo essere scampato alla morte per mano del duca di Borgogna suo nemico. Quest’ultimo morí a sua volta nell’ennesimo scontro tra rivali, riaccendendo la guerra civile e lasciando sempre piú spazio agli Inglesi. La Francia toccò il suo punto piú nero: Carlo VI, il re folle, dichia-

MEDIOEVO

settembre

rò il Delfino «parricida» e nel 1420, a Troyes, venne firmato un trattato con il quale si sanciva che, alla sua scomparsa, la corona sarebbe passata a Enrico VI Lancaster.

L’arrivo a corte

Gilles fu introdotto alla corte del «re di Bourges», come veniva ironicamente soprannominato dagli avversari: il giovane si fece subito notare per la prodigalità, lo sfarzo del suo contingente, il rigore dei suoi soldati, ma anche per il coraggio in battaglia e la freddezza con cui assisteva alle tante esecuzioni che ordinava contro i collaborazionisti o i traditori. Ovviamente non era visto di buon occhio dagli altri comandanti e neppure a corte. La sua ricchezza suscitava l’invidia nei piú, in una corte, come quella di Chinon, che spesso somigliava piú a una mensa comune che a una regale.

Miniatura raffigurante Giovanna d’Arco che guida l’assedio di Parigi, da Les Vigiles de Charles VII di Martial d’Auvergne. 1484 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Per salvare la Francia, sarebbe servito un miracolo, e quel miracolo apparve nel marzo del 1429, sotto le spoglie di una giovane vergine: Giovanna d’Arco. Le vicende della Pulzella sono note: una fanciulla lorenese, assecondando alcune «voci», si presentò a Carlo VII con l’obiettivo di liberare Orléans, condurre il Delfino a Reims e consacrarlo re di Francia. Gilles de Rais era a corte quando la Pulzella s’inginocchiò davanti al Delfino e vide con i suoi occhi la vergine destinata a salvare la Francia dall’abisso. Su incarico del sovrano, la scortò a Poitiers, dove fu sottoposta a un’inchiesta per appurarne la

37


personaggi gilles de rais bontà. Superata brillantemente la serie di domande, Giovanna ricevette un’armatura su misura, paggi e dodici cavalli. A Blois si incontrarono i nobili con i contingenti destinati al soccorso di Orléans: Gilles fu nominato comandante delle truppe reali e fu al fianco della Pulzella per tutto il tempo delle operazioni. Sicuramente i due avevano piú d’una affinità: l’autorevolezza, l’amore per l’azione, ma anche per le stoffe preziose e le cose belle. Di Giovanna, il condottiero ammirava la durezza con cui trattava le prostitute che giravano tra le truppe e delle quali proibí la frequentazione, proponendo invece ai soldati preghiera e raccoglimento. Questa miscela di rigidità e misticismo affascinava il violento ma raffinato Gilles. Seguendo l’esempio della carismatica eroina, il contingente liberò in meno di due settimane Orléans, stretta

38

d’assedio da otto mesi. Alla liberazione seguí il successo di Patay, dove Rais si guadagnò la gloria militare: il re lo ricompensò col titolo di Maresciallo, l’onore di portare l’arme reale e uno stipendio di mille lire.

La Pulzella al rogo

Giovanna era arrivata a Chinon il 6 marzo; Orléans era stata liberata il 6 maggio; il 17 luglio Carlo VII veniva incoronato a Reims. All’incoronazione seguí l’azione della diplomazia, poco amata sia da Giovanna che da Gilles. Il signore di Rais doveva obbedire al generale La Trémoille, al quale aveva prestato giuramento; la Pulzella pagò con la cattura e la prigione, l’ennesimo colpo di mano, questa volta a Compiégne (maggio 1430). Venduta per 10 000 lire dai Borgognoni agli Inglesi, questi ultimi la condannarono al rogo, con l’accusa di stregoneria.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante la battaglia combattuta il 14 febbraio 1429 a Rouvray-Saint-Denis, detta «delle aringhe», che si inquadra nello scontro per Orléans, da un’edizione dalla Chronique de Charles VII. 1470-1480. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso illustrazione ottocentesca che raffigura Gilles de Rais mentre getta in un pozzo il cadavere di una delle sue vittime.

Alla morte della sua eroina, arsa a Rouen nel maggio del 1431, Gilles si impegnò ancora in alcune azioni militari, tra cui la battaglia di Lagny, che si risolse in un successo e fu uno degli ultimi episodi bellici a cui il condottiero partecipò. In cinque anni di guerra il giovane nobile, orgoglioso e raffinato, aveva scoperto quanto fosse inebriante uccidere: si avvicinava a passi veloci il momento del suo declino e della sua follia.

settembre

MEDIOEVO


Per sua stessa ammissione, come si legge nelle carte del processo, iniziò a uccidere per suo piacere dal 1432, l’anno in cui morí il nonno materno. Senza piú il modello religioso della Pulzella, senza piú il freno dell’autorità patriarcale incarnata dal ruvido nonno, Gilles si trovò libero; persino il signore a cui aveva giurato fedeltà, La Trémoille, era stato estromesso. Gilles era libero, ma anche profondamente solo, senza una mèta e in compagnia di molte ossessioni. Come dichiarò nel corso degli interrogatori, «non c’era nessun’altra causa, nessun altro fine né intenzione (…); aveva seguito la sua immaginazione e il suo pensiero, senza il consiglio di alcuno e secondo i propri sensi, soltanto per il suo piacere e diletto carnale, e non

MEDIOEVO

settembre

per altre intenzioni o fini». A partire dal 1432 iniziarono a sparire fanciulli e fanciulle dalle campagne vicine ai castelli del signore di Rais: a Machecoul, Tiffauges, Champtocé, Pouzages. Alcuni ragazzi venivano addirittura richiesti impudentemente dagli aiutanti del barone, altri, semplicemente, svanivano.

Pranzi luculliani

Alle richieste dei genitori sulla sorte dei figli, di volta in volta, si accampavano scuse o si proponevano ipotesi fantasiose: sarà andato in un altro castello, un nobile l’avrà preso con sé, sarà stato rapito dai briganti... Il loro destino era sempre uguale: se scarne sono le informazioni sulla vita quotidiana di Gilles de Rais, le carte processuali hanno

fatto luce in modo minuzioso sulle violenze, gli abusi e le morti cruente inflitte alle decine di giovani vittime. Con l’aiuto e la complicità dei suoi aiutanti Sillé, Briqueville e Poitou, il barone di Rais accoglieva i fanciulli nel suo castello invitandoli a pranzi luculliani durante i quali «un’avidità insaziabile di cibi delicati, e il frequente assorbimento di vini caldi, provocarono principalmente in lui uno stato di eccitazione che lo portò a perpetrare tanti peccati e crimini». Tutti a corte sapevano delle perversioni del loro oscuro signore: erano però legati da un misto di fedeltà, paura e omertà essendo coloro che, sprofondando nelle latrine, vi occultavano i cadaveri dei poveri innocenti. Una volta assaggiata l’inebriante, morbosa potenza derivante

39


personaggi gilles de rais Il processo a Gilles de Rais, presieduto dal vescovo Jean de Malestroit, in una illustrazione seicentesca. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

versi, la cui rappresentazione richiedeva 500 attori. La città stessa diveniva palcoscenico e, tra i protagonisti, non mancava il signore di Rais. Gilles poteva assistere seduto su uno scranno al proprio sogno-incubo: rivedere l’uomo felice, campione a Orléans, allontanando cosí la sua condizione attuale di sadico, inseguito dai creditori, deriso a corte per il suo infantile scialare. Il miraggio di questo labile godimento temporaneo lo consumò: Gilles curò in ogni dettaglio la messa in scena del Mystère, facendo ricavare persino i cenci dei mendicanti da stoffe nuove, stracciate a bella posta. In poche settimane dilapidò una cifra stimabile attorno ai 2-3 milioni di euro attuali. Impegnò

da tutto ciò, Gilles de Rais andò fuori di senno. Privo di freni inibitori, conscio o inconscio del proprio potere, il maresciallo scatenò la propria furia contro chi meno poteva difendersi: i bambini. La sua mente iniziò poi a percorrere con sempre maggiore compiacimento la via dello sdoppiamento: di giorno, il nobile raffinato e devoto, di notte, lo spietato assassino. Nel 1435 spese cifre da capogiro per la fondazione dei Santi Innocenti (cioè i bambini uccisi al posto del bambino Gesú) a Machecoul «per il bene e la salvezza della propria anima». Nella prima metà del XV secolo il culto macabro per i Santi Innocenti conobbe un successo strepitoso: era l’epoca in cui il sangue, la morte, l’orrore erano associati – oltre che alla quotidianità – in un modo bizzarro, anche alla pietà e alla religiosità. Per Gilles si trattava di un connubio perfetto.

40

Nello stesso anno giunse a corte Roger de Briqueville che Gilles nominò subito proprio sosia, dandogli il nome di «Rais-le-Héraut», l’«araldo di Rais». Due anni piú tardi, gli conferí enormi poteri, tra cui persino quello di occuparsi del futuro matrimonio della piccola Marie, sua figlia. Non a caso, il teatro divenne la piú grande passione del mostro: la finzione, il doppio, l’apparenza, l’inganno scenico. Tutto questo non faceva che assecondare la devianza che progressivamente s’allargava nella mente del signore di Bretagna.

Una città in scena

Fu infatti per uno spettacolo teatrale che il nobile signore impegnò gran parte delle proprie sostanze. Dopo la vittoria di Orléans, ogni 8 maggio, si festeggiava con solennità la liberazione della città. Un autore ignoto aveva composto il Mystère du Siège d’Orléans, un’opera in 20 000 settembre

MEDIOEVO


castelli, terre, persino oggetti personali: Gilles era oramai preda della sua ossessione. Le spese folli, il raptus omicida, la confusione sessuale, il degrado psichico, le pressioni dei creditori gettarono Gilles in uno stato di frustrazione e disperazione crescenti, dal quale non si sarebbe piú liberato. Un tentativo di sciogliere quel laccio, in realtà, vi fu, ma aggravò la situazione: il nobile, infatti, rivolse le proprie attenzioni alla magia e all’alchimia, nel tentativo di risollevare le proprie fortune. Non era certo il solo signore attorniato da sedicenti maghi e alchimisti, ma il depravato non ebbe scrupoli a rivolgersi al Diavolo pur di uscire da quell’incubo, sprofondando in uno ancora piú nero. Inviò i propri servitori a caccia di maghi in grado di evocare demoni, e quando Blanchet, amico di Gilles, incontrò il chierico Francesco

Prelati, di Montecatini, trovò in lui l’uomo adatto alle esigenze del suo signore. Per evocare il demone Barron, Prelati richiese a Gilles di sacrificare di volta in volta una colomba o una gallina: non ottenendo alcun risultato soddisfacente, Prelati suggerí di fare omaggio al demone delle membra di un giovane.

Timorato di Dio

Gilles aveva già da tempo intrapreso la via dell’omicida seriale: la complicazione di sacrificare a Satana le proprie vittime fu un ulteriore passo nell’abisso. Nel suo delirio, infatti, Gilles si riteneva ancora un buon cristiano, temeva ancora il Dio della misericordia, aveva addirittura progettato un pellegrinaggio di espiazione a Gerusalemme. Cedere alle profferte del Demonio significava perdere anche quel labile freno inibitorio: alla mancata apparizione del demone davanti al

sacrificio umano, anziché cessare, la strage aumentò. Nel frattempo, iniziarono a circolare voci sulle oramai incalcolabili sparizioni dei bambini: si diceva che Gilles uccideva e faceva uccidere fanciulli, e col loro sangue scriveva un libro nero. Alcuni dei suoi aiutanti dovettero farsi scappare qualche parola di troppo, qualcuno vide qualcosa e le voci si fecero piú insistenti. Ma fu il suo carattere borioso e violento a tradirlo. Tra i vari acquirenti a prezzi stracciati dei suoi beni, vi era anche Geoffroy le Ferron, tesoriere di Bretagna, che aveva dato in custodia la cittadina di Saint-Étienne-de-Mer-Morte al fratello Jean, un chierico protetto dall’immunità. Le lamentele dei contadini, vessati dai nuovi signori giunti «in casa» di Gilles de Rais, arrivarono alle sue orecchie e smossero la suscettibilità del barone. Gilles, alla luce del sole, prese le

Tiffauges (Francia). I resti del castello, tristemente famoso per essere stato la dimora di Gilles de Rais e per questo noto anche come Castello di Barbablú.

MEDIOEVO

settembre

41


personaggi gilles de rais difese di quei contadini di cui, nell’oscurità delle tenebre, seviziava i figli: ma lo fece contravvenendo ai privilegi ecclesiastici e infrangendo il patto che aveva stipulato con il duca di Bretagna, di cui le Ferron era tesoriere. Si fece infatti restituire, obtorto collo, il maniero e gettò in prigione il chierico. Dell’episodio approfittò il vescovo di Nantes, Jean de Malestroit, il quale – sfruttando la violazione come pretesto – avviò un’inchiesta privata riguardo alle voci sui delitti attribuiti al maresciallo. Nel luglio del 1440 Gilles dovette compiere uno dei suoi ultimi macabri omicidi: moriva tra le mani del brutale cavaliere il figlio di Jean Lavary. Alla fine dello stesso mese, il vescovo inviò lettere in cui non si parlava dell’episodio di SaintÉtienne, ma si leggeva che «il nobil uomo monsignor Gilles de Rais, signore del detto luogo e barone, con taluni suoi complici aveva sgozzato, ucciso e massacrato in modo odioso numerosi giovani innocenti; che aveva praticato con tali fanciulli lussuria contro natura e vizio di sodomia; che aveva spesso fatto e fatto fare l’orribile evocazione dei demoni, aveva sacrificato e fatto patti con essi e perpetrato altri crimini entro i confini della nostra giurisdizione». L’accusa era stata lanciata, ma Gilles, ignaro, non si fermò: il piccolo figlio di Macée de Villeblanche, di soli nove anni, fu l’ultima delle sue vittime.

Il mostro alla sbarra

Il vescovo agí d’intesa con il duca di Bretagna e con il signore di Richemont: il castello di Tiffauges fu conquistato e il chierico lí detenuto, immediatamente liberato. Al gesto riparatore circa l’affaire di SaintÉtienne, seguí l’accusa che il vescovo aveva mosso e che fu fatta propria anche dal braccio secolare. Il 14 settembre del 1440 gli uomini del duca di Bretagna si presentarono al castello di Machecoul per arrestare Gilles de Rais e molti dei suoi complici, tra cui i suoi camerieri e Prelati. Non vi fu resistenza: Gilles asso-

42

ciò al solo episodio di Saint-Étienne il trambusto e l’arresto. Il processo, invece, si aprí il 19 settembre con l’accusa generica di «eresia dottrinale», che Gilles accolse con calma, rassicurando la corte che si sarebbe volentieri sottoposto a interrogazioni tenute da inquisitori. Ignorava che il giudice aveva incontrato decine di parenti di bambini spariti e che tutti gli indizi conducevano ai suoi castelli da cui le vittime non facevano piú ritorno. Il sire di Rais rispose respingendo le pesantissime accuse e non ri-

conoscendo il potere giuridico della corte presieduta dal vescovo. Ma nelle sedute seguenti, alla lettura di innumerevoli articoli e capi d’accusa, e soprattutto al monito di dover riconoscere la corte, in quanto presieduta da un vicario del papa, e quindi di Cristo, Gilles de Rais cedette: fin tanto che era libero di scegliere tra Dio e Satana, era sempre lui l’attore. Con la scomunica, gli veniva preclusa la possibilità di scelta: la sua forza cedette. Sommessamente, riconobbe la giurisdizione dei suoi giudici: poi, tra le lacrime settembre

MEDIOEVO


A sinistra Pouzauges (Vandea). Il dongione del castello, uno dei possedimenti di Gilles de Rais, che fu soprattutto residenza della consorte, Catherine de Thouars. XII sec. A destra illustrazione cinquecentesca raffigurante l’esecuzione di Gilles de Rais. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

causa, nessun altro fine né intenzione, se non quelli che vi ho già detto: vi ho già detto cosa assai piú grandi, abbastanza da far morire diecimila uomini».

Confessione e contrizione e in ginocchio, si rivolse al vescovo per essere assolto dalla sentenza di scomunica. Solo dopo questa rassicurazione riconobbe tutti i crimini che gli erano stati imputati. La corte ammutolí di fronte all’ammissione di colpevolezza, alla portata dell’orrore e alla mancanza di un movente: Pierre de L’Hôpital, presidente di Bretagna, non comprendeva come tutto ciò fosse stato possibile senza un perché. Gilles, abbandonando il latino informale dell’interrogatorio, rispose in francese: «Invero, non c’era nessuna altra

MEDIOEVO

settembre

Nell’udienza finale, il 22 ottobre 1440, Gilles rese piena confessione – e volle farlo in volgare, al fine di essere compreso da tutti – davanti a una folla enorme. Da mostro, si trasformò in vittima ed esortò «quanti avevano dei figli a istruirli nelle buone dottrine e a inculcare loro l’abitudine alla virtú sin dalla primissima infanzia». L’uomo si poneva come critico della corrotta società della quale non era che un piccolo ingranaggio. Implorava i genitori a vegliare sui figli, a non tollerare l’ozio, a non comprar loro vestiti troppo costosi: era tutto questo che lo aveva portato alla rovina. La sua confessione si concluse con la richiesta della «misericordia e

il perdono del suo Creatore e Santo Redentore, come pure dei genitori e degli amici dei fanciulli cosí crudelmente massacrati, e di tutti coloro di cui aveva leso i diritti, domandando a tutti i fedeli adoratori di Cristo il soccorso delle loro devote preghiere». Il mostro s’era trasformato in un santo e, come tale, si avviò al patibolo: ottenne di essere ammesso ai sacramenti e si confessò. Fu condannato all’impiccagione assieme a due servitori e poi al rogo, oltraggio che gli fu però risparmiato, a motivo della sua profonda contrizione. Gilles ottenne addirittura di essere sepolto nella chiesa del monastero delle Carmelitane. Tuttavia, quando nel corso della Rivoluzione Francese, anche Nantes venne travolta, la chiesa fu saccheggiata e la tomba di Gilles de Rais, come quelle di altri, fu profanata, distrutta per sempre, e i suoi resti gettati nella Loira. F

43


tradizioni gualdo tadino

È tempo di Nell’ultima settimana di settembre, i quattro rioni di Gualdo Tadino, in Umbria, si sfidano nel palio di San Michele Arcangelo, contendendosi il privilegio di bruciare la Bastola, la «strega» colpevole di aver causato il devastante incendio del 1237. E, prima della gara, la città torna alle atmosfere del Medioevo, tingendosi dei colori delle Porte di San Benedetto, San Donato, San Facondino e San Martino

testi di Antonio Pieretti, Elvio Lunghi e Andrea Maiarelli

Giochi! Q

uarant’anni di «Giochi de le Porte». Dal 1978 ai nostri giorni, la rievocazione storica si celebra ogni anno a Gualdo Tadino nell’ultima settimana di settembre. In modo ininterrotto. Con la sola eccezione del 1997, quando la fascia appenninica fu colpita da un grave evento sismico. In origine, i «Giochi» si richiamavano al «Palio di San Michele Arcangelo», che si svolgeva in occasione della ricorrenza della solenne festività riservata al patrono cittadino. Alla luce di alcuni riscontri documentari, si può ipotizzare che la devozione per l’Arcangelo si sia radicata nel territorio gualdese fin dalla seconda metà del VII secolo, all’indomani della definitiva affermazione dei Longobardi sui Bizantini. Legato alla transumanza di greggi e pastori che raggiungevano i rigogliosi pascoli dell’Appennino, il culto si sviluppò in sostituzione di quello del dio Sole e di altre divinità pagane, come si evince dai due dischi in lamina d’oro ritrovati in Val di Gorgo. Per i Longobardi la devozione all’Arcangelo aveva un significato politico, oltre che religioso, poiché contribuiva ad avvicinare le popolazioni germaniche a quelle autoctone. Nell’opinione comune, infatti, il santo era considerato come portatore di luce, difensore del popolo e combattente contro le forze del male. La chiesa a lui dedicata è nominata per la prima volta in una bolla di papa Alessandro III, promulgata a Benevento il 4 agosto 1169, che la dichiara dipendente dal monastero di S. Benedetto, all’epoca posto nella pianura oggi individuata dalla chiesa della Madonna delle Rotte. Quando i monaci benedettini, per Gualdo Tadino. Una figurante in costume impegnata nei «Giochi de le Porte».

46

settembre

MEDIOEVO


Gualdo Tadino. Il corteo storico che anima le vie cittadine in occasione dei ÂŤGiochi de le PorteÂť. Sullo sfondo, si staglia la mole della Rocca Flea.

MEDIOEVO

settembre

47


tradizioni gualdo tadino

In questa pagina Gualdo Tadino. Ancora due momenti del ricco corteo di figuranti e carri allegorici che accompagna i ÂŤGiochi de le PorteÂť. Nella pagina accanto, in alto una veduta di Gualdo Tadino.

48

settembre

MEDIOEVO


Tevere

ragioni di sicurezza e per difendersi dalla malaria che solenne processione per le vie della città, alla quale parinfestava la località, si trasferirono sul colle di Sant’Antecipavano non soltanto le autorità religiose, ma anche gelo, dove fu edificata Gualdo (1237), la chiesa di S. Anquelle preposte al governo del territorio, con i segni digelo di Fléa venne incorporata nella costruenda chiesa stintivi delle loro funzioni istituzionali e le fiaccole acabbaziale di S. Benedetto (vedi box alle pp. 57-58). cese in mano: i priori indossavano il «cappuccio» rosso La devozione per san Michele Arcangelo ben presto riverso sulle spalle; i membri del General Consiglio una si consolidò. Fino a che il santo fu adottato come patro«cappa grigia» che li ricopriva fino alla tibia e una «berno e raffigurato sullo stemma del Comune di Gualdo, retta» forse dello stesso colore. armato di spada e scudo e ornato del Secondo l’usanza dell’epoca, le blasone della città. A testimonianza cerimonie e i festeggiamenti comdella fiducia che riponevano nelle prendevano anche una fiera che duMARCHE sue virtú taumaturgiche, i Gualderava otto giorni. Durante il mercato Arezzo Pietralunga si misero sotto la sua protezione la erano sospesi non solo i comuni balMontoneGubbio Fabriano principale delle loro occupazioni; TOSCANA zelli e i pedaggi, ma anche le impoTolentino gli dedicarono infatti due feste: una ste sui vini, sulle carni e sui generi Lago Gualdo Tadino coincideva con l’inizio della transucommestibili, in modo da favorire Trasimeno Perugia Nocera Umbra manza (8 maggio), l’altra con la sua l’afflusso dei forestieri. I prodotti Assisi Deruta Spello conclusione (29 settembre). che venivano scambiati erano pochi, Foligno Si trattava di un culto molto perché coincidevano con quelli offerra Campello Ne sul Clitunno sentito, che risultava rassicurante ti dalla campagna e dalla montagna; Norcia Todi Spoleto Cascia di fronte al disagio fisico e psichico tuttavia, non mancavano pezzi di arOrvieto Acquasparta Ferentillo al quale gli abitanti erano esposti a tigianato di discreta fattura, realizzaLago Cascata Amelia Terni delle Marmore causa delle ricorrenti scorrerie delle di Bolsena ti dalle abili mani di un ceramista o Narni Orte soldatesche di passaggio per la via di un falegname. Rieti Viterbo Flaminia, ma anche per le carestie Facevano parte della festa patroLAZIO Lago di Vico e le pestilenze. Le ricorrenze, pernale anche le giostre equestri, in cui tanto, si celebravano ogni anno, con due cavalieri si fronteggiavano con la grande solennità e la forte partecipazione di fedeli da lancia in resta, cercando di colpirsi al petto o alla testa, ogni parte del territorio circostante. I devoti erano cosí e di sbalzarsi di sella. L’intera cittadinanza era coinvolnumerosi che papa Bonifacio IX, con bolla del 1° febta, ma i veri protagonisti della manifestazione erano braio 1393, stabilí che potevano ottenere l’indulgenza soprattutto gli esponenti della borghesia, i cui rampolplenaria tutti coloro che, pentiti e confessati, avessero li si cimentavano in prove che richiedevano non solo visitato la cappella dedicata a san Michele Arcangelo destrezza e abilità, ma anche la disponibilità dei mezzi nel giorno della festa. necessari per dotarsi di un’armatura adeguata e di un L’evento aveva però anche una forte rilevanza civile. cavallo ben addestrato. Il popolo, per quanto fosse parGli Statuti cittadini tramandano che si svolgesse una tecipe da un punto di vista emotivo, viveva le sfide da

MEDIOEVO

settembre

49


tradizioni gualdo tadino A sinistra due momenti della corsa con i somari, una delle quattro competizioni in cui i popoli delle Porte si sfidano durante i Giochi.

semplice spettatore, assiepato ai margini del campo e schierato a favore dell’uno o dell’altro contendente. Le autorità ecclesiastiche erano però poco propense ad accettare la diffusione di spettacoli pubblici che prevedevano l’impiego delle armi. Cosí, il Palio venne ben presto affiancato da un’altra manifestazione, che assolveva alla sola funzione di gioco popolare. Poiché i giochi previsti consistevano in corse a piedi, in sfide con la balestra e con lo «scoppietto», e quindi erano tali da non comportare aggravi particolari per coloro che vi partecipavano, con il passare del tempo l’ultima festa prese il sopravvento sul torneo cavalleresco. E ne rilevò anche la denominazione. Nella sua versione popolare, il Palio divenne la manifestazione ludica principale della città, alla cui gestione e organizzazione provvedeva il Comune. Un evento celebrato fino agli ultimi anni del Seicento con grande interesse di tutti, ma poi interrotto, a causa delle occupazioni, dei saccheggi, delle carestie e pestilenze, che fecero sprofondare la popolazione nella prostrazione e nella miseria. Nei secoli successivi, anche le celebrazioni in onore del patrono furono fortemente ridimensionate, con la soppressione della sfilata e dei festeggiamenti abituali.

Voglia di ricominciare

Nel corso del Novecento, si cercò piú volte di ripristinare il Palio di San Michele Arcangelo, ma i ripetuti tentativi si rivelarono infruttuosi per ragioni di ordine pubblico. Si temeva, infatti, che gli assembramenti troppo numerosi potessero costituire un pericolo per la sicurezza dei cittadini e la stabilità delle istituzioni. Finalmente, all’inizio degli anni Settanta, cioè in un periodo di benessere economico e di tranquillità sociale, si avvertí con rinnovato vigore l’esigenza di recuperare l’eredità ideale, per riappropriarsi del passato e riscoprire le vicende storiche del borgo sorto sulle pendici di Colle Sant’Angelo. Fu allora, in un clima di rinnovato interesse per l’identità cittadina, che l’attenzione degli studiosi si concentrò su uno dei periodi piú felici della storia locale: i primi settant’anni del XV secolo, coincidenti con l’elevazione di Gualdo Tadino alla dignità di legazione autonoma. Con

50

settembre

MEDIOEVO


Taverna S. Martino

Taverna S. Facondino

Taverna S. Donato

Taverna S. Benedetto

Pianta della città di Gualdo Tadino con indicazione dei principali luoghi e monumenti e delle quattro taverne associate alle relative porte.

Il centro storico di Gualdo Tadino 1. Cattedrale di S. Benedetto 2. Palazzo del Podestà e Torre Civica Museo regionale dell’Emigrazione «P. Conti» 3. Chiesa di S. Francesco 4. Palazzetto medievale 5. Chiesa di S Maria dei Raccomandati 6. Chiesa di S. Donato 7. Porta di S. Benedetto 8. Casa Cajani-Museo della Ceramica. Museo Archeologico degli Antichi Umbri

MEDIOEVO

settembre

9. Chiesa di S. Chiara 10. Chiesa di S. Maria del Purgo 11. Chiesa di S. Margherita 12. Porta di S. Donato 13. Museo Opificio Rubboli 14. Villa Casimiri 15. Rocca Flea e Museo Civico 16. Chiesa di S. Rocco 17. Eremo di S. Marzio 18. Convento Ss. Annunziata 19. Eremo di Serrasanta 20. Chiesetta Valsorda

51


tradizioni gualdo tadino A sinistra Gualdo Tadino. L’edicola votiva con decorazione in maiolica raffigurante la Madonna e il Bambino con un santo francescano e angeli musicanti, che riprende gli stilemi tipici della ceramica locale.

Dove e quando «Giochi de le Porte» Gualdo Tadino dal 24 al 29 settembre Info www.giochideleporte.it; Facebook Ente Giochi de le Porte

questa investitura, infatti, la città, benché fosse sottoposta all’autorità di un cardinale legato, iniziò a godere di una certa libertà e di un relativo prestigio. Le prerogative comunali vennero riconfermate e garantite dalla presenza di un luogotenente con ampi poteri politici, amministrativi e giurisdizionali.

52

Per le sorti dello Stato pontificio, Gualdo rivestiva una posizione strategica come ultimo baluardo contro le mire egemoniche del Ducato dei Montefeltro. Alle autorità cittadine fu quindi consentito non solo di provvedere al restauro delle mura, al consolidamento della Rocca Flea e di altri importanti edifici pubblici, ma anche di svolgere una proficua azione di promozione e di sviluppo del territorio. Fiorirono allora nuove attività artigianali, soprattutto nel settore della ceramica e dei laterizi, e quelle agro-forestali. E si intensificarono le iniziative culturali, favorite dalla presenza di una borghesia intraprendente e sensibile al fascino delle humanae litterae. La denominazione scelta per i «Giochi», istituiti, come già ricordato, nel 1978, nasceva dalle quattro porte di ingresso alla città, aperte lungo le mura castellane, proprio in corrispondenza delle chiese di S. Benedetto, S. Donato, S. Facondino e S. Martino, negli anni in cui Gualdo fu riedificata, dopo il rovinoso incendio del 1237 che ne ridusse in cenere le abitazioni e ne decimò la popolazione. Tuttavia le «Porte», ai tempi di Federico II, avevano un ruolo soltanto propositivo e circoscritto alle ricorrenze religiose; invece, con l’elevazione della città a legazione autonoma, diventarono parte attiva della vita civile, organizzandosi come vere e proprie circoscrizioni politico-amministrative, con funzioni e organismi autonomi. I «Giochi de le Porte» sono stati istituiti per ristabilire un rapporto di continuità con la storia. Oltre a rinnovare la fedeltà al patrono, i Gualdesi hanno inteso riconfersettembre

MEDIOEVO


Una tradizione secolare L’arte della ceramica è da sempre un elemento caratterizzante di Gualdo Tadino. Nel XIX secolo, Paolo Rubboli riscopre la tecnica dei lustri metallici, oro e rubino: nel suo opificio, si conservano le muffole, unico esempio di antichi forni in Europa, dove si utilizzavano le tecniche di cottura con il fuoco di ginestra. Le ceramiche di Rubboli e quelle di un altro Gualdese, Alfredo Santarelli, sono raccolte nel Museo Civico Rocca Flea e nel Museo della Ceramica Casa Cajani.

mare i valori morali e civili che sono contenuti in questa memoria. La festa patronale si è cosí trasformata in un’opportunità per riaffermare l’identità di una comunità posta a ridosso degli Appennini, ma aperta oltre i propri confini verso i vicini centri di Nocera Umbra, Fossato di Vico, Sigillo, Costacciaro e Scheggia. La festa è un collante tra tutte le sfere sociali e promuove un forte senso di appartenenza. Il popolo dei «Giochi», vero protagonista della manifestazione, vive le sfide in modo appassionato e all’insegna di un forte antagonismo, ma nel rispetto delle regole civili, nella lealtà e nel riconoscimento dei meriti. L’appartenenza a una Porta è segno di distinzione, ma non tale da produrre inimicizie e contrasti insanabili. Terminate le competizioni ed esaurito il rito dei canti e degli scherni, tutti ritornano amici, perché sono consapevoli di far parte della stessa comunità.

Fede, giustizia e lavoro

La festa è caratterizzata da un corteo storico, dai giochi veri e propri e dalle sentitissime sfide culinarie. Il corteo storico mette in scena un’epoca complessa e mai pienamente definibile: quella medievale e quella tardo-medievale. Nella ricchezza e varietà delle sue sfumature, rispecchia la società nell’articolazione che suggeriva il vescovo e poeta francese Adalberone di Laon (947-1030) in un poema cavalleresco destinato al re di Francia, Roberto il Pio. Essa si basa su tre componenti fondamentali, ordinate in modo gerarchico, ma reciprocamente connesse, costituite da coloro che pregano e diffondono la fede cristiana, da coloro che combattono per il trionfo della giustizia sulla forza o per la salva-

MEDIOEVO

settembre

guardia dell’ortodossia cristiana e, infine, da coloro che svolgono ai lavori manuali e producono i beni indispensabili per la vita. Ogni Porta conserva nel proprio corteo il nocciolo di questa ripartizione sociale e antropologica. L’universo medievale e tardo medievale si offre cosí allo sguardo dello spettatore nella povertà del monaco, nell’opulenza del nobile, nell’aggressività del capitano di ventura, nell’ingegno dell’artigiano, nell’abilità del giocoliere e nei gesti semplici e schivi del contadino e del pastore. Per dar conto della complessa configurazione della società, però, il corteo storico riserva un posto importante anche ad altre figure, come quella del console, del magistrato, dell’intellettuale e del mercante. Ma, sospeso come è tra terra e cielo, l’uomo medievale piú che alle cose, guarda al loro significato. Per questo, fin dal 1978, le Porte hanno riservato un’attenzione particolare alla ricostruzione delle simbologie

53


tradizioni gualdo tadino Due figuranti che sfilano in corteo durante i «Giochi de le Porte». I sontuosi costumi sono frutto di un lavoro che si sviluppa durante tutto l’anno, risultato di un attento studio delle fonti storiche unito alla maestria dei laboratori artigiani locali.

come segno di una verità superiore. Con ciò, tuttavia, non hanno sottovalutato l’importanza della natura, delle faccende domestiche, degli ambienti di lavoro. E questo è appunto uno dei tratti che distingue in modo specifico la sfilata: la vivacità della vita dei campi, la ricchezza delle attività artigianali, delle arti e dei mestieri. Ma vi occupano un posto rilevante anche le scene riservate alla fantasia e all’immaginazione, alle passioni e ai desideri, perché l’uomo medievale non persegue soltanto la salvezza dell’anima, ma coltiva anche i piaceri del corpo. Tutto ciò è inserito all’interno di una scenografia a cielo aperto dove monumenti maestosi, come la Rocca Flea, la cattedrale dedicata a S. Benedetto, le chiese di S. Francesco, S. Donato, S. Maria, S. Margherita, il Palazzo del Podestà e il Palazzo comunale concorrono a realizzare una felice simbiosi tra il «meraviglioso» e il «quotidiano». Le quattro porte, San Benedetto, San Donato, San Facondino e San Martino si contendono il Palio e il privilegio di bruciare l’effigie della Bastola, la «strega», antica nemica di Gualdo, colpevole di aver causato il terribile incendio che distrusse la città nel 1237. La disputa si ispira all’antica tradizione cavalleresca che sancisce il rispetto delle regole, la cortesia verso l’avversario, la lealtà nei suoi confronti. Nella loro difficile impresa, i protagonisti del Palio possono contare su un amico fe-

54

dele: il somaro. I «Giochi» rivalutano l’animale, spesso schernito e additato a simbolo di ignoranza. Addirittura ne fanno uno dei simboli della manifestazione, tanto da assegnargli il ruolo di protagonista in due prove che spesso si rivelano decisive per l’assegnazione del Palio. Le altre due sono riservate agli arcieri e ai frombolieri. I «Giochi» però vivono anche nelle sartorie, nelle quali, d’inverno, si studia, si ricerca, si progetta e, d’estate, si realizzano le idee. Allora le suggestioni ricavate dai libri di storia dell’arte, del costume, diventano abiti, allegorie, rappresentazioni simboliche. Grande cura è posta nella scelta delle stoffe e nella cernita degli accessori che devono accompagnare i costumi. Cosí si lavorano anche la pelle e il cuoio; si realizzano i calzari e, quando le esigenze lo impongono, perfino i gioielli. È però nelle taverne che la rievocazione del Medioevo trova la sua espressione piú convincente. Ogni elemento richiama l’età di Mezzo: le volte in pietra, le lucerne a olio che si affacciano dalle pareti, le tavole in legno, gli otri di ceramica, gli addobbi con i fiori dei campi e le spighe di grano. A tavola le generazioni si incontrano, le differenze anagrafiche e sociali si annullano. E nascono nuovi legami. Esaltati dai «Giochi de le Porte», «lo avvenimento piú fastoso e desiato, de lo quale li forestieri de la nostra grandezza e de la nostra abilitate diranno». F Antonio Pieretti settembre

MEDIOEVO


LA RICERCA DELLA BELLEZZA S. Francesco, la chiesa monumentale affacciata sulla piazza principale di Gualdo Tadino, è un magnifico esempio di arte devozionale legata all’Ordine francescano

di Elvio Lunghi Gualdo Tadino. Una veduta del versante absidale della chiesa di S. Francesco, con l’annessa torre campanaria. XIV sec.

MEDIOEVO

settembre

55


tradizioni gualdo tadino «Si guardino bene i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e tutto quanto viene costruito per loro, se non fossero come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre dimorandovi da ospiti come forestieri e pellegrini». Dalle pagine del Testamento, Francesco esortò i suoi frati a saper dire no. Dire no quando fossero stati loro offerti luoghi contrari alla vita povera prevista nella Regola che si erano dati o chiese destinate a un numero di sacerdoti eccessivo per una famiglia composta prevalentemente da laici. Dire no all’ingresso senza limiti di nuovi frati, con la conseguente necessità di conventi sempre piú grandi. E dire no anche alle comunità cittadine che spingevano i frati a trasferirsi in città, per vivere in edifici monumentali costruiti nei borghi sorti a ridosso delle mura, oppure occuparsi del culto dei patroni in santuari urbani.

La scissione

Morto Francesco, i caratteri originali di una comunità nata con una spiccata predilezione per luoghi lontani dai centri abitati, si sfrangiarono tra i fautori di una vocazione contemplativa e quelli di una vita attiva, che si nutriva del chiasso delle città moderne per esercitarvi la virtú della carità. Si produsse cosí la divisione fra «Spirituali» e «Conventuali». Con mille differenti sfumature, le due parti in polemica si ritrovarono nel cercare la bellezza nelle forme dell’arte. La pietra dello scandalo fu la chiesa sepolcrale di Assisi, caput et mater dei Minori, che vide frati della comunità e Spirituali in competizione per renderla piú bella di quanto già fosse. I «Conventuali» nella cappella papale della Chiesa Superiore, quando, con l’elezione di Niccolò IV nel 1288, l’intera navata fu dedicata al ruolo dei frati Minori nella storia della salvezza, grazie al confronto tra la vite dei patriarchi e di Cristo nel claristorio superiore delle pareti,

56

e la vita di Francesco nello zoccolo inferiore. L’invenzione iconografica fu affidata a Matteo d’Acquasparta e adottò il racconto di Bonaventura da Bagnoregio nella Legenda Maior. In questi dipinti lo «stil novo» di Giotto voltò pagina rispetto alla «maniera greca», trionfante ai tempi di Cimabue, in forma di un teatro naturale a dimensione realistica. Negli anni immediatamente successivi, il primitivo programma iconografico della Chiesa Inferiore, che accompagnava i pellegrini in visita alla tomba del santo, tra due ali di dipinti murali che ritraevano la passione di Cristo e la sequela Christi di Francesco, fu sconvolto dall’apertura nelle pareti dell’accesso a cappelle destinate a tombe private. A volere una nuova decorazione fu il cardinale Napoleone Orsini, grande mecenate, che si avvalse, ad Assisi e altrove, dei maggiori pittori del tempo: Giotto, Pietro Lorenzetti

In alto Gualdo Tadino, chiesa di S. Francesco. San Francesco riceve le stimmate, affresco attribuito a Matteo da Gualdo. 1496. Il dipinto è riemerso sulla parte destra della parete d’ingresso, durante un restauro effettuato negli anni Sessanta. A destra Crocifisso con la Vergine, Giovanni e San Francesco, opera del Maestro del Crocifisso di Gualdo Tadino. XIII sec. Gualdo Tadino, Museo Civico.


e Simone Martini. Ma fu anche protettore di mulieres religiosae e dei frati «spirituali», avendo accolto Ubertino da Casale nella sua famiglia, in Italia e in Provenza. Fece cosí irruzione la pittura moderna, tanto apprezzata da una società in evoluzione, aperta al mondo fantastico dei romanzi cavallereschi, alla Commedia di Dante e alle rime amorose di Petrarca, ma con i piedi ben piantati a terra per il ruolo che la società civile e mercantile stava assumendo nella società comunale.

S. Benedetto

Da monastero a cattedrale

Una città ricostruita

Sullo scorcio del XIII secolo, i Francescani di Gualdo Tadino si trovarono di fronte a una situazione quasi identica, con una differenza di fondo: a Gualdo non si trattò di sostituire una decorazione antiquata con immagini di pittori moderni, né di costruire una chiesa fienile che andasse a occupare spazi vuoti in una città in espansione. A Gualdo fu l’intera città a essere ricostruita dalle fondamenta, in seguito al disa-

Edificata nella seconda metà del XIII secolo insieme all’annessa abbazia camaldolese, la basilica cattedrale di S. Benedetto, domina la piazza maggiore di Gualdo Tadino. Quasi la chiude, sul lato orientale, con la sua facciata romanico-gotica, il grande rosone scolpito e il campanile neo-romanico. Il Duomo è chiamato anche «S. Benedetto Nuovo» per distinguerlo da un’altra costruzione, «S. Benedetto Vecchio». Il piú antico insediamento benedettino di Gualdo risale infatti agli inizi del X secolo: si trattava di un modesto cenobio intitolato ai santi Nicolò e Vito, ubicato presso il fiume Feo, nella piana sottostante l’attuale centro abitato. L’insediamento fu voluto dalla famiglia feudataria dei conti di Nocera. Nel 1006 il conte Offredo di Monaldo II, acconsentendo, pare, al desiderio di san Romualdo, fondatore dell’Ordine camaldolese, eresse un nuovo e piú grande monastero, intitolato a san Benedetto. Il conte dotò il nuovo monastero di un ricco patrimonio fondiario e la protezione nobiliare ne agevolò la rapida crescita. Nel corso dell’XI secolo divenne protagonista della vita religiosa ed economica del territorio di Gualdo. Nel giro di pochi decenni, In alto la facciata principale della cattedrale di S. Benedetto. XIII sec.

57


tradizioni gualdo tadino Gualdo Tadino, S. Benedetto. Particolare della facciata con il grande rosone. XIII sec.

attraverso donazioni e acquisti, la forza economica della comunità religiosa si fece immensa e vari privilegi pontifici ne confermarono le pertinenze e i diritti, tra cui quello di essere direttamente soggetto alla Sede Apostolica. Nel XII secolo il monastero aderí alla riforma benedettina camaldolese. Qualche sintomo di difficoltà si cominciò, però, ad avvertire negli ultimi anni del XIII secolo. Nel 1198 Innocenzo III acconsentí alla richiesta dei monaci di trasferirsi in un luogo piú sicuro e l’anno successivo incaricò il vescovo di Nocera Ugo Trinci di visitare e riformare l’abbazia. Agli inizi del Duecento, forti della concessione pontificia, i monaci si trasferirono entro le mura di Gualdo, dove furono edificati la chiesa e il monastero detti di S. Benedetto Nuovo. La sede originaria, abbandonata, acquisí la denominazione di S. Benedetto Vecchio. Tra i monaci illustri della nuova sede va ricordato il beato Angelo da Gualdo Tadino, nato nella villa di Casale nel 1270 ed entrato giovanissimo in monastero dopo un pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Angelo condusse vita eremitica in una cella isolata e morí in odore di santità il 15 gennaio 1324. Il suo corpo fu collocato sotto l’altare della chiesa abbaziale, presso il quale si sviluppò un intenso culto. Nel primo Quattrocento il monastero entrò in una crisi lenta e irreversibile e cominciò a paventarsi il passaggio al regime commendatario. Vi si oppose con forza l’ultimo abate, il Gualdese Giovanni Matteo Bongrazi. Alla sua morte, nel 1485, Innocenzo VIII procedette però alla trasformazione del monastero in commenda, che assegnò al cardinale Giovanni Battista Savelli, legato pontificio di Perugia e dell’Umbria. La piccola famiglia monastica superstite continuò a risiedere in S. Benedetto, ma senza accogliere nuovi monaci. L’ultimo religioso morí nel 1518. Perduto il monastero, i Gualdesi cercarono di ottenere per S. Benedetto una nuova dignità ecclesiastica e, nel 1530, approfittando della visita a Gualdo di Clemente VII, richiesero, invano, la sua erezione in collegiata. La richiesta fu piú volte reiterata, fino a che, nel 1818, monsignor Francesco Piervissani, vescovo di Nocera Umbra e abate commendatario, ottenne da Pio VII l’abolizione della commenda e l’accorpamento del beneficio di S. Benedetto alla mensa episcopale di Nocera Umbra. A ciò si opposero i Gualdesi, che, nel 1847, conseguirono da Pio IX il distacco del monastero dalla mensa vescovile e la sua erezione in collegiata con capitolo di 8 canonici e dignità arcidiaconale. Il collegio canonicale fu formalmente costituito nel 1848, alla morte del vescovo Piervissani. Tra il XIX e il XX secolo la chiesa fu ristrutturata e riccamente decorata grazie alla liberalità di monsignor Roberto Calai Marioni, gualdese e vescovo titolare di Esbon. Il 2 gennaio 1915 Benedetto XV assegnò alla diocesi di Nocera Umbra la nuova denominazione di «Diocesi di Nocera Umbra e Gualdo Tadino» ed elevò la chiesa collegiata di S. Benedetto a cattedrale honoris causa tantum. Nel 1980, infine, Giovanni Paolo II, per i 1500 anni dalla nascita di Benedetto da Norcia, le conferí il titolo di basilica minore. Andrea Maiarelli

58

stroso incendio che aveva distrutto nella primavera del 1237 il popoloso borgo in località Val di Gorgo. Gli abitanti dispersi si raccolsero su uno sperone isolato, il colle di Sant’Angelo, dove sorgevano una piccola chiesa e una rocca restaurata ai tempi di Federico I Barbarossa. Il 30 aprile 1237 il sindaco della ritrovata comunità ottenne la disponibilità del sito dall’abate di S. Benedetto, a cui apparteneva la chiesa di S. Angelo di Flea, «pro construendo et edificando de novo castrum Gualdi». Tre anni dopo, il 30 gennaio 1240, la nuova Gualdo fu visitata dall’imperatore Federico II di Svevia, il quale facendo sosta nel castello trovò il borgo abitato del tutto indifeso. Lo fece allora circondare da mura, rafforzate da torri e fossati, fece ricostruire la rocca in vetta al colle e concedette numerosi privilegi ai Gualdesi. Ultimate le mura nel 1242, Gualdo Tadino diventò di fatto una città imperiale.

L’arrivo dei monaci

Nel 1256 i monaci dell’abbazia di S. Benedetto si trasferirono all’interno delle mura e occuparono il lato a monte della piazza, dove erano già presenti i palazzi delle magistrature riconosciute da Federico II. Poco dopo entrarono nella stessa piazza anche i frati Minori, mentre gli Agostiniani si stabilirono nella parte inferiore dell’abitato. Non sappiamo quale aspetto avesse e a quale anno risalisse la prima chiesa costruita dai frati all’interno delle mura, salvo che fu costruita sopra un terreno che era stato loro donato da un patrizio di nome Oddo. Doveva comunque avere un aspetto diverso dalla chiesa odierna. Oggi ne rimane soltanto il grande Crocifisso patiens, trasferito in tempi recenti nel Museo della Rocca Flea: opera di un pittore umbro noto come Maestro della Santa Chiara, del quale si conosce un’atsettembre

MEDIOEVO


tività che va dal 1257 circa, data del Crocifisso di donna Benedetta in S. Chiara di Assisi, fino al 1283, data dell’icona con la Santa Chiara nell’omonima chiesa assisiate. Rispetto a quest’ultima, la croce di Gualdo Tadino si distingue per l’imitazione del transetto cimabuesco di Assisi, nella figura del san Francesco ai piedi della croce costruito sovrapponendo strati di cristalli come i personaggi di Cimabue. Di conseguenza, l’opera dovrebbe essere anteriore al pontificato di Niccolò IV (1288-1292). Forse della stessa epoca era un’icona con una immagine della Madonna, che fu descritta in S. Francesco nel 1862 per essere poi alienata alla fine del secolo. La chiesa di S. Francesco di Gualdo Tadino è un edificio a una sola navata di tre campate e con un’abside poligonale di sette lati. È coperta con volte a crociera nell’intera navata e da una volta a ombrello nella tribuna absidale. A metà altezza dell’intero perimetro, corre un ballatoio rientrante, che passa dietro i pilastri a tre colonnini addossati alle pareti, che fanno d’imposta ai costoloni delle volte. Tra la seconda e la terza campata c’è ancora l’ingresso al pontile che divideva

MEDIOEVO

settembre

A destra Polittico di Niccolò di Liberatore, detto L’Alunno. Tempera su tavola. 1471. Gualdo Tadino, Museo Civico. In basso Gualdo Tadino, chiesa di S. Francesco. Uno scorcio della tribuna del catino absidale, in cui si aprono le tre grandi bifore che illuminano l’aula dal lato settentrionale. XIV sec.

l’aula in due parti. Da qui si potevano celebrare funzioni liturgiche per la chiesa dei laici nello spazio antistante, laddove lo spazio retrostante ospitava la chiesa dei frati.

Sul modello di Assisi

L’edificio segue alla lettera l’aspetto dalla basilica papale di Assisi, imitata persino nella forma dei contrafforti cilindrici esterni e nelle linee

della tribuna absidale, salvo che ad Assisi troviamo cinque lati invece di sette: numero mistico per eccellenza. Anche lo zoccolo inferiore della navata si distingue dal precedente di Assisi per le nicchie provviste di altari che vi si aprono, laddove nel S. Francesco di Assisi – ma anche in S. Chiara di Assisi e in S. Francesco al Prato a Perugia – lo zoccolo è una parete continua interrotta dai soli pilastri lobati. Questa soluzione ha una indubbia importanza, perché di cappelle nella pars plebana, cioè nello spazio accessibile ai laici, non si trovano tracce nelle chiese degli Ordini Mendicanti della regione fin verso la fine del XIII secolo, e fanno seguito al capitolo generale di Parigi della primavera 1292, quando furono rimossi i divieti di concedere ai laici la sepoltura nelle chiese dei frati, vincendo le resistenze del clero secolare, che temeva di perdere i cospicui proventi dei lasciti testamentari. Le conseguenze non tardarono a farsi notare in edifici di nuova costruzione, come il S. Fortunato di Todi, fondato nel 1292, o S. Croce a Firenze, fondata nel 1294: il primo con le cappelle addossate alle nava-

59


tradizioni gualdo tadino rocca flea

Le mille vite di un antico fortilizio La Rocca Flea si erge imponente e massiccia sul colle che domina la Val di Gorgo, dove scorre il fiume Feo, da cui prende nome. Costruita negli ultimi anni della dominazione longobarda, fu per molto tempo nelle mani degli Atti, signori di Foligno. La sua funzione difensiva fu però compromessa dai danni subiti per mano delle soldatesche di Ottone III, che nel 996 misero a ferro e fuoco Tadinum. Data la sua rilevanza strategica per il controllo della via Flaminia e per il passaggio in direzione delle Marche, la Rocca Flea suscitò l’interesse di Federico I Barbarossa, che ne affidò la custodia al Ducato di Spoleto. Nel 1198 passò sotto la giurisdizione di Innocenzo III, che la impiegò per conferire una struttura piú definita agli incerti confini territoriali dello Stato pontificio. Nel frattempo, i Gualdesi, trasferendo il castrum da poco ricostruito nella pianura in una località piú sicura, alle pendici dell’Appennino, saldavano i propri destini con quello della Rocca Flea. Da allora, infatti, questa non fu piú dominio dei «comites arcius Flebei», ma possesso del libero Comune. In seguito alla vittoria riportata da Perugia su Gubbio, nel 1208 le magistrature gualdesi consegnarono la città a quelle perugine, che tuttavia si impegnarono a provvedere alla conservazione e al mantenimento della Rocca Flea. Otto anni piú tardi, Gualdo fu di nuovo al centro della contesa tra Gubbio e Perugia. La guerra ebbe esiti disastrosi per gli Eugubini. Di conseguenza, la ripartizione dei domini restò immutata. In seguito al rovinoso incendio del 1237, Gualdo fu ricostruita sul colle Sant’Angelo, proprio a ridosso della Rocca Flea, che cosí divenne il vero baluardo della città. Federico II, passando per il territorio

60

gualdese per raggiungere Gubbio, ne intuí l’importanza strategica; provvide allora alla costruzione della cinta muraria cittadina, nonché al consolidamento della Rocca Flea: la restaurò, la ampliò e la muní di un fossato (1242). Dopo la sua morte, i Gualdesi, non potendo piú contare sulla protezione imperiale, demandarono al nuovo sindaco, Bartolo da Sigillo, il compito di sottomettere ai consoli del Comune di Perugia il castello di Gualdo, di consegnargli le chiavi delle quattro porte e anche della Rocca Flea. Dopo un lungo periodo di relativa tranquillità, la rocca diventò quasi un simbolo dei continui passaggi di dominio da parte dei capitani di ventura che reggevano le sorti di Perugia. Nel 1394 venne occupata da Biordo Michelotti, che fece erigere il Cassero chiamato anche Torre della Fonte o della Campana. Nel 1398 l’imponente maniero passò sotto la giurisdizione dello Stato pontificio. Ma già l’anno successivo tornò ai Perugini. Nel 1403 se ne impadroní Ceccolino Michelotti, al quale fu tolto, nel 1416, da Braccio Fortebracci. Dopo la sua morte, la Rocca Flea divenne dominio della vedova, Nicola Varano, e dei suoi figli, Oddo e Carlo. Alla fine del 1425 ritornò al papa che, però, dopo pochi mesi la restituí ai Fortebracci, per poi togliergliela di nuovo e concederla in governo, nel 1432, a Corrado XV Trinci, signore di Foligno. L’anno successivo, il pontefice, per placare Francesco Sforza che gli aveva mosso guerra, concesse la Rocca Flea al duca di Milano in vicariato per cinque anni, togliendola di fatto al Trinci. Per tutto l’inverno 1442-1443 nelle vicinanze della costruzione pose il suo campo Nicolò Piccinino, che guidava le truppe pontificie e la consegnò infine alla Sede

settembre

MEDIOEVO


Nella pagina accanto Gualdo Tadino. Una veduta della Rocca Flea, fortificazione medievale che trae il nome dal vicino fiume Flebeo o Feo, oggi sede del Museo Civico. XII-XIV sec. A sinistra Albero genealogico della stirpe di David, tempera su tavola di Matteo da Gualdo. Gualdo Tadino, Museo Civico.

Apostolica: la Rocca Flea entrò a far parte definitivamente dello Stato pontificio. Nel 1458 tornò in possesso del figlio di Nicolò, Jacopo Piccinino, che però la dovette restituire molto presto, per volontà del re Ferdinando d’Aragona, che lo aveva assoldato. Nel 1478, con la bolla Etsi de cunctorum, papa Martino V inserí Gualdo e la sua rocca entro la Provincia di Perugia, della quale era tornato in possesso dopo la morte di Braccio Fortebracci. Superato l’assalto della Compagnia dei Cappelletti, formata da truppe assoldate da Francesco Maria della Rovere, duca d’Urbino, la Rocca Flea perdette la sua funzione difensiva e divenne, dal 1513 al 1587, la sede residenziale dei cardinali legati. Alla fine del mandato cardinalizio, Gualdo entrò nella Circoscrizione Governativa di Perugia, per cui nell’antica roccaforte subentrarono i commissari apostolici, fino al 1798. Nel 1803 la Rocca Flea fu ceduta al Comune che progettò anche di trasformarla in un ospedale. Con la proclamazione dell’Unità d’Italia, divenne sede di un carcere e tale rimase fino al 1985. Dopo un attento restauro, dal 1999 l’edificio accoglie la Pinacoteca Comunale, con opere di pittori umbri dal XV al XVII secolo. Da allora ospita un antiquarium con reperti romani e medievali, una raccolta di ceramica e, periodicamente, mostre di pittura e di scultura.

MEDIOEVO

settembre

te laterali, la seconda con le cappelle nel perimetro del presbiterio. Nella stessa Assisi, sullo scorcio del XIII secolo furono aperte una serie di cappelle destinate a sepolture private sulle testate del transetto e alle pareti della navata nella Chiesa Inferiore. A queste vicende è dovuto l’acuirsi delle polemiche tra Spirituali e Conventuali e legate all’aspetto dei nuovi edifici di culto, costruiti per i frati Minori in anni non lontani dal 1300. La chiesa di Gualdo ce ne offre un caso esemplare, essendo oggetto di un culto civico e trovandosi nel perimetro della piazza centrale di una città di recente costruzione.

Il cuore dell’abitato

Potremmo definire Gualdo una «città ideale» del tardo Medioevo, con una piazza, due chiese e un palazzo, verso le quali convergono gli assi di un impianto urbanistico del tutto nuovo. A mezzogiorno la piazza è chiusa dalla sede del Comune e a oriente dalla chiesa abbaziale di S. Benedetto (vedi box alle pp. 57-58). S. Francesco occupa tutto il lato occidentale. Ha la facciata principale rivolta a mezzogiorno e la tribuna absidale rivolta a settentrione. Di conseguenza l’interno della chiesa è illuminato da un rosone che si apre sulla facciata meridionale e da tre bifore nella tribuna che guarda a settentrione. L’Archivio Provinciale dei frati Minori Conventuali dell’Umbria conserva una copia dell’atto di acquisto da parte dei frati di un oratorio intitolato a santa Maria della Misericordia, con annesso un orto e altri fabbricati. L’oratorio fu acquistato l’8 maggio 1293 e confinava con la strada pubblica, l’orto dei frati Minori, un terreno del Comune e l’orto degli Agostiniani. Probabilmente in seguito a questo acquisto si decise di ricostruire la chiesa di S. Francesco, per la quale si ha notizia di una cerimonia di consacrazione avvenuta il 1° maggio 1315.

61


mostre prato

Legami e ritorni

a cura di Stefano Mammini

Si inaugura a Prato, in Palazzo Pretorio, una grande mostra che prende spunto dalla celebre reliquia nota come Sacra Cintola. Per l’occasione, viene temporaneamente ricomposta la pala che Bernardo Daddi dedicò alla sua miracolosa acquisizione, scelta come cardine di un viaggio nella storia e nella cultura del Trecento pratese. Epoca che per la città toscana coincise con una stagione di straordinaria fioritura economica e culturale

R R

innovando una tradizione secolare, Prato saluta l’ostensione della Sacra Cintola (o Cingolo; vedi box a p. 64) nel giorno della Natività di Maria, l’8 settembre. Quest’anno, però, l’appuntamento viene preceduto da un evento non meno importante e che alla celebre reliquia è strettamente legato, l’apertura della grande mostra «Legati da una cintola. L’Assunta di Bernardo Daddi e l’identità di una città», allestita in Palazzo Pretorio. Un’esposizione ricca e articolata, frutto di un progetto espositivo del quale pubblichiamo la sintesi elaborata dai suoi curatori.

62

La reliquia della Cintola della Vergine, rilasciata a san Tommaso e dopo avventurose peripezie pervenuta a Prato nel 1141, rappresentò un vero e proprio mito identitario in cui l’intera città si riconobbe nel periodo della sua piú tumultuosa crescita, fra Due e Trecento. Custodita nella cattedrale di S. Stefano e nell’occasione resa visibile da vicino in una teca apposita, nella cappella a lei consacrata, la venerata cintura è stata per secoli il tesoro piú prezioso della città, contribuendo a rafforzarne il prestigio e


La predella (in alto), con Storie della Sacra Cintola (Prato, Museo di Palazzo Pretorio) e la terminazione, con la Madonna assunta che cede la Cintola a San Tommaso (New York, Metropolitan Museum of Art) della pala dell’Assunta di Bernardo Daddi. 1337-1339. In occasione della mostra «Legati da una Cintola», l’opera viene eccezionalmente riunita, insieme ai pannelli con la migrazione del corpo di santo Stefano da Gerusalemme, a Roma, concessi in prestito dai Musei Vaticani.

MEDIOEVO

settembre

63


mostre prato

La Sacra Cintola

Il tesoro nel canestrino Per Sacra Cintola (o Sacro Cingolo) si intende la cintura della Madonna, considerata la reliquia piú preziosa di Prato. È una striscia sottile (87 cm) di finissima lana di capra, di color verde broccata in filo d’oro, i cui estremi sono nascosti da una nappa da una parte e da una piegatura sul lato opposto (tenute da un nastrino in taffetà verde smeraldo). La tradizione locale riferisce che san Tommaso, a cui la cintura sarebbe stata affidata dalla stessa Maria, la lasciò a un sacerdote perché fosse venerata in una chiesa da costruire in onore della Madonna. Per timore dei Giudei, però, l’edificio non fu mai edificato e la reliquia venne per secoli tramandata dai discendenti del sacerdote. Intorno al 1140 Michele Dragomari, un devoto pratese di modeste condizioni (la tradizione lo dice pellicciaio), giunse in pellegrinaggio a Gerusalemme, dove si innamorò di una fanciulla, Maria. La sposò in segreto all’insaputa del padre di lei, un sacerdote di rito orientale, e dovette perciò fuggire, dopo aver ricevuto in dono dalla madre di Maria un canestrino di giunchi marini che conteneva la reliquia. Tornato per nave in Italia, quindi a Prato nel 1141, Michele non fece parola della Cintura e solo in punto di morte (intorno al 1172) la donò a Uberto, proposto della pieve di S. Stefano, svelandogliene l’origine. Le storie narrano poi dei dubbi del proposto e del prodigioso manifestarsi della reliquia, portata infine nella pieve e da allora esposta alla venerazione del popolo. Le ostensioni pubbliche erano regolate dagli Statuti del Comune (al quale spettavano parte delle chiavi necessarie

per estrarla dall’altare), e si tenevano per Pasqua e l’8 settembre, Natività della Vergine. Solo piú tardi si aggiunsero le ostensioni per Natale, quindi quella del primo maggio, infine il 15 agosto. Dalla fine del Duecento al 1336, il Comune, con imponenti demolizioni, realizzò la vasta piazza davanti alla chiesa, destinata ad accogliere i pellegrini. Nel 1312 ebbe luogo un tentativo di furto della reliquia, a opera di Giovanni di Landetto detto Musciattino, che fu duramente punito col taglio delle mani e il rogo, sul Bisenzio. Dopo l’evento si decise di dare sistemazione piú sicura alla reliquia e si avviarono i vasti lavori per la realizzazione del transetto gotico della chiesa, conclusi solo intorno al 1365. Tra il 1386 e il 1390, venne realizzata una nuova cappella vicino all’ingresso, atta a sistemarla in via definitiva, ornata nel 1392-95 dallo splendido ciclo di affreschi di Agnolo Gaddi con le Storie di Maria e la Storia della Cintola. Il 4 aprile 1395 la reliquia venne trasferita nel nuovo altare (parte delle chiavi necessarie per estrarla erano conservate, come avviene ancora oggi, dal Comune). In base allo stesso progetto, venne piú tardi completata anche la nuova facciata, e realizzati infine il pulpito esterno di Donatello e Michelozzo, e il terrazzo interno, di Maso di Bartolomeo, destinati unicamente alle ostensioni della Cintola. La Cintola fu conservata inizialmente in uno scrigno di avorio, poi nella splendida capsella di Maso di Bartolomeo. (testo tratto dal sito web della Diocesi di Prato: www.diocesiprato.it)

A destra la teca in argento, opera della bottega di Salvestro Mascagni, che sostituí la capsella che in origine custodiva la Sacra Cintola (vedi foto a p. 68) e nella quale viene riposto il reliquiario in cristallo di rocca (foto in alto). 1633. Prato, Museo dell’Opera del Duomo.

64

settembre

MEDIOEVO


In alto reliquiario in cristallo di rocca, argento dorato e smalti della Sacra Cintola, opera di Alessandro Cella, 1638. Prato, Duomo. A destra Prato, Duomo. Il pulpito esterno di Donatello e Michelozzo, destinato alle ostensioni della Sacra Cintola.

l’identità, in un avvincente intreccio di devozione, arte e tradizione. La mostra racconta questa storia, che affonda le sue radici nel XII secolo, quando uno scultore attivo in Spagna e in Toscana, autore dei capitelli del chiostro della cattedrale, il Maestro di Cabestany, per la prima volta scolpí la Vergine che consegna la Cintola a Tommaso, in un rilievo che in via del tutto eccezionale viene esposto a Prato. Attorno alla reliquia, disputata fra Chiesa e Comune, crebbe per gradi la fabbrica gotica dell’allora prepositura di S. Stefano, fino alla realizzazione di una cappella apposita presso l’ingresso, affrescata da

Agnolo Gaddi tra 1392 e 1395, e del pulpito di Donatello e Michelozzo per l’ostensione periodica, sull’angolo della nuova facciata. Nel 1312 il pistoiese Musciattino aveva tentato di rubarla: fu punito a morte e in seguito si curò un nuovo allestimento in una cappella a lato della maggiore, per cui Bernardo Daddi tra 1337 e 1338 dipinse un’importante pala. Cuore spettacolare della mostra è la ricostruzione di questa tavola dell’Assunta, divisa fra Prato, la Pinacoteca Vaticana e il Metropolitan Museum di New York, arricchita da due predelle che raccontavano la migrazione della reliquia da Gerusalemme a Prato e, in parallelo, quella A destra Madonna del Parto, tempera su tavola di Nardo di Cione. 1350 circa. Fiesole, Museo Bandini.

MEDIOEVO

settembre

65


mostre prato palazzo pretorio

Una città e il suo museo La mostra «Legati da una Cintola» è allestita nelle sale dell’ex Monte dei Pegni, il cui recupero ha costituito l’ultimo tassello del restauro di Palazzo Pretorio, definitivamente restituito alla pubblica fruizione nell’aprile 2014 (vedi «Medioevo» n. 208, maggio 2014). Il prestigioso edificio ha una storia plurisecolare e la prima attestazione certa risale al 1284, quando il Capitano del Popolo Francesco de’ Frescobaldi ne fece l’abitazione dei magistrati. Il primo nucleo fu ampliato nel Trecento, dando forma a uno dei piú raffinati palazzi pubblici toscani del Medioevo. Col crescere della città il palazzo venne trasformato e adattato alle nuove esigenze e funzioni, cosicché il suo aspetto attuale è la sintesi dell’alternarsi degli stili architettonici e dei continui rimaneggiamenti della sua struttura. Nell’Ottocento, anche per gravi problemi statici perse importanza, rischiando addirittura di essere demolito. Gli imponenti restauri e rifacimenti comportano un nuovo uso della struttura che divenne nel 1912 sede della Galleria Comunale. Risale al 1954 il nuovo allestimento, rimasto sostanzialmente invariato fino all’ultimo, complessivo restauro, avviato nel 1998 e concluso nel 2013, che lo ha restituito al suo ruolo prestigioso: custode di opere d’arte ma anche forziere delle memorie e delle vicende storiche di Prato. Nelle sale di Palazzo Pretorio – arricchite da affreschi, stemmi dipinti, statue e altri ornamenti lapidei – si può ammirare una collezione di capolavori formata nei secoli grazie ad artisti come Bernardo Daddi, Giovanni da Milano, Donatello e Filippo Lippi, come i pratesi Filippino Lippi e Lorenzo Bartolini. In alto una sala del Museo di Palazzo Pretorio. A destra il Palazzo Pretorio, sede del Museo e della mostra «Legati da una Cintola».

66

del corpo di santo Stefano da Gerusalemme a Roma. Prato in questo modo si proiettava in una dimensione di assoluto prestigio cultuale e simbolico, rifacendosi all’Urbe e alla Terra Santa, svincolandosi dalle rivalità con le vicine Firenze e Pistoia.

Cintole sacre e profane

La Cintola si associava all’idea stessa di un grembo fecondo e faceva convergere nel culto mariano le attese propiziatorie e taumaturgiche. Cintole profane di età gotica, preziosamente decorate, testimoniano la carica simbolica di un simile oggetto, esibito anche dalla Santa Caterina dipinta da Giovanni da Milano nel suo polittico pratese. Altri dipinti e miniature aiuteranno a contestualizzare la fioritura artistica e culturale della città in questo momento storico, quando attirò l’opera di grandi artisti della statura di Giovanni Pisano e di Bernardo Daddi. L’immagine dell’Assunta e della consegna della Cintola trovò dunque a Prato un luogo di elaborazione privilegiata. Grazie a opere soprattutto del Tre e Quattrocento si possono seguire le varianti successive nell’elaborazione di questa scena, e, attraverso altre testimonianze si comprende la continuità del culto, la valenza civica e politica della Cintola e della sua ostensione attraverso i secoli seguenti. Andrea De Marchi e Cristina Gnoni Mavarelli settembre

MEDIOEVO


IL PERCORSO ESPOSITIVO La mostra si apre con una delle prime attestazioni in Occidente della Madonna assunta che dona la Cintola, con il rilievo eponimo del Maestro di Cabestany, scultore romanico attivo nel Roussillon e in Toscana che lavorò anche a Prato, nei capitelli del chiostro dell’antica prepositura di S. Stefano (1. Da Cabestany a Prato: genesi di un tema). Perno dell’intera esposizione è la ricomposizione della pala dell’Assunta di Bernardo Daddi (2. La pala pratese di Bernardo Daddi restituita): commissionata nel 1337-1338, è una delle immagini piú prestigiose dedicate nel Trecento all’Assunta e al dono miracoloso della Cintola all’incredulo san Tommaso. L’opera nel tempo è stata smembrata e la sua complicata diaspora ha fatto sí che si perdesse la coscienza stessa della sua capitale importanza. L’allestimento in Palazzo Pretorio consente di tornare ad ammirare nel suo complesso la monumentale macchina dipinta da Daddi, riunendo i suoi componenti, che originariamente comprendevano una doppia predella con la storia del viaggio della Cintola e del suo approdo a Prato (questa custodita nel Museo) e la parallela migrazione del corpo di santo Stefano da Gerusalemme a Roma, perché si riunisse a quello di san Lorenzo (conservata nei Musei Vaticani), e una terminazione con la Madonna assunta che cede la Cintola a san Tommaso (proveniente dal Metropolitan Museum of Art di New York). Per meglio contestualizzare l’operato di Bernardo Daddi si espongono altre opere del pittore giottesco, appartenenti a

MEDIOEVO

settembre

In alto L’Assunta offre la Cintola a San Tommaso, rilievo in marmo di Niccolò di Cecco del Mercia. 1340-60. Prato, Diocesi.

Dove e quando «Legati da una cintola. L’Assunta di Bernardo Daddi e l’identità di una città» Prato, Museo di Palazzo Pretorio fino al 14 gennaio 2018 (dal 7 settembre) Orario tutti i giorni (eccetto il martedí non festivo), 10,30-18,30 Info e prenotazioni tel. 0574 19349961; e-mail: museo.palazzopretorio@comune.prato.it; www.palazzopretorio.prato.it Note il biglietto di ingresso alla mostra vale anche per l’accesso alla Cappella della Sacra Cintola nel Duomo di Prato (prenotare l’orario di ingresso) e dà diritto a uno sconto sulla visita al ciclo di affreschi di Filippo Lippi nello stesso Duomo questa stessa fase stilistica, contraddistinta da una felice e vivace vena narrativa (3. Bernardo Daddi narratore). Un nucleo scelto di cintole profane del secolo XIV documenteranno la bellezza di questo genere di manufatti, riprodotto nell’elegantissima Santa Caterina dipinta da Giovanni da Milano nel polittico per lo Spedale della

67


A destra La Madonna della Cintola a San Tommaso, tempera e oro su tavola di Filippo Lippi-Fra Diamante. 1456-1466 circa. Prato, Museo di Palazzo Pretorio. In basso capsella in rame dorato, osso e corno utilizzata come prima custodia della Sacra Cintola. Il prezioso scrigno è opera di Maso di Bartolomeo, 1446-48. Prato, Museo dell’Opera del Duomo.

Misericordia, uno dei capolavori del museo di Palazzo Pretorio (4. La Sacra Cintola, le cinte profane e Giovanni da Milano). Segue una rassegna esemplificativa delle diverse elaborazioni dell’iconografia che univa la morte della Vergine e l’Assunzione nell’arte toscana del Trecento: dipinti, miniature, sculture permettono di apprezzare la

68

diversa interpretazione del tema in area fiorentina, dove san Tommaso afferra la Cintola, e in area senese, dove la cintola è lasciata cadere dalla Madonna in volo (5. L’Assunta e la Cintola: varianti nel Trecento toscano). Il percorso espositivo prosegue presentando la tradizione iconografica dell’Assunta in terra toscana, dove prevale il tema della Madonna della Cintola col solo san Tommaso, con la selezione di esempi particolarmente significativi e concludendo con gli echi piú tardi in area pratese, fino alle pale di Stradano e di Santi di Tito (6. L’Assunta e la Cintola: la tradizione seguente). Vengono infine esposte tutte le testimonianze documentarie e visive che accompagnarono il culto della Cintola stessa e l’ostensione: le preziose custodie, le suppellettili e gli arredi della Cappella della Cintola nella Cattedrale. Alcuni apparati didattici aiutano a comprendere la natura anche tecnica del manufatto e a raccordare fra loro le testimonianze librarie e archivistiche. Sono state inoltre riunite testimonianze del culto della Cintola nel Duomo di Pisa. (7. Il culto e l’ostensione della Sacra Cintola a Prato e in Toscana). Nel percorso è infine compreso anche il Duomo di Prato: chi visiti la mostra può infatti entrare nella Cappella della Cintola, abitualmente preclusa alla visita, e ammirare da vicino il ciclo di affreschi realizzati da Agnolo Gaddi. settembre

MEDIOEVO



scienza e tecnica

Transizioni

esplosive di Flavio Russo

Negli ultimi decenni del Medioevo, si visse una sorta di «seconda» età del Bronzo: la richiesta della lega aumentò infatti a dismisura, per poter intensificare la produzione dei cannoni. Armi che rivoluzionarono gli scontri campali, segnando il declino definitivo della guerra intesa come scontro cavalleresco

P P

er un singolare paradosso della storia, i maestri fonditori delle prime bocche da fuoco in bronzo – di gran lunga migliori delle coeve in ferro fucinato – furono gli stessi delle campane. Alternativi risultarono gli impieghi: in tempo di pace, molti cannoni divenivano campane e, in tempo di guerra, accadeva il contrario, tanto che ai fonditori fu riconosciuto il «diritto alle campane», ovvero alla loro razzia dopo un assedio vittorioso. L’affermarsi di questa «seconda» età del Bronzo, persino piú avida della prima della gialla lega – composta al 75% di rame e al 25% di stagno, con tolleranze del 5% –, non derivò dalla sua minor temperatura di fusione, né dalla resistenza alla corrosione, ma, innanzitutto, dalla maggiore elasticità alle sollecitazioni, dalla quale, in ultima analisi, scaturiva la sonorità delle campane. L’insieme di queste peculiarità determinò comunque la superiore qualità ed efficacia dei cannoni di bronzo, che, fin quasi alle soglie del Novecento, non temettero confronti con quelli in ferro colato, piú pesanti, fragili e spesso perfino micidiali per i serventi.

Firenze, Galleria degli Uffizi. Una fonderia di cannoni raffigurata in uno degli affreschi realizzati da Ludovico Buti per la volta di una delle sale che componevano l’Armeria, una sezione della Galleria voluta dal granduca Ferdinando I alla fine del Cinquecento per esporre le armature di proprietà della famiglia. 1588.

Maestri polivalenti

Il progressivo affinarsi delle conoscenze sul comportamento della lega aveva portato all’individuazione di titoli piú idonei al gravoso impiego, fermo restando che, ancora nella prima metà del XV secolo, la tecnica del getto non si discostava gran che dalla fusione delle campane. Non sorprende, pertanto, che, in virtú della loro ultrasecolare esperienza, i maestri campanari fossero

70

settembre

MEDIOEVO


MEDIOEVO

settembre

71


scienza e tecnica La bucatura del cannone era un’operazione delicata, che si effettuava tenendo l’arma sospesa e facendola ruotare A sinistra illustrazione raffigurante un’alesatrice verticale con utensile dall’alto,da un’edizione del De re militari di Vegezio. XVI sec. Nella pagina accanto, in alto particolare di un disegno raffigurante le fasi della costruzione di una forma per la fusione di una bombarda, dal Codice Atlantico di Leonardo da Vinci. XIV-XV sec. Milano, Biblioteca Ambrosiana. Nella pagina accanto, in basso ancora un’illustrazione da un’edizione del De re militari di Vegezio, raffigurante un’alesatrice verticale con utensile dal basso. XVI sec.

72

settembre

MEDIOEVO


stati cooptati per realizzare le bocche da fuoco, ignorandone le piú gravi inadeguatezze. La peggiore era insita nella prassi di gettare i cannoni in forme refrattarie, nelle quali il metallo liquido andava a colmare una matrice provvista di «nocciolo», originando una sorta di tubo chiuso a un’estremità. Poiché però il nocciolo, la futura anima del cannone, risultava molto piú piccolo dell’anima delle campane, il suo esatto centraggio si confermò sempre un obiettivo utopistico, nonostante le piú minuziose attenzioni. Ne conseguiva la scarsa coassialità fra le pareti interne ed esterne delle bocche da fuoco, oltre a deleterie cavitazioni dell’anima. Difetti che inficiavano la corretta punteria del pezzo e, nei casi peggiori, ne causavano l’esplosione. Il puntamento, infatti, veniva preso traguardando due risalti sul dorso del cannone, alla bocca e alla culatta (la parte posteriore della bocca da fuoco, n.d.r.), per cui quando la volata (la parte anteriore del cannone, n.d.r.) non era coassiale all’anima, la linea di mira e la traiettoria dei proietti divergevano. Altrettanto grave, ma di minore apprezzamento, era la scabrosità dell’anima, che, unitamente all’approssimata sfericità delle palle di pietra, privavano lo sparo della necessaria compressione e determinavano tiri fiacchi e inefficaci. Sarebbe stato del resto impossibile correggere tale deficienza incrementando la carica di lancio, poiché ne sarebbe conseguita la frantumazione delle palle prima ancora della loro espulsione.

Le prime sperimentazioni

L’idea che i cannoni dovessero avere un’anima perfettamente cilindrica per palle perfettamente sferiche, cominciò a essere avanzata negli ultimi anni del XIV secolo, portando progressivamente a superare le molteplici difficoltà tecniche che vi si frapponevano. La soluzione, quando alla fine si trovò e lentamente s’impose, consistette nell’ottenere l’anima per trapanazione. La procedura venne sperimentata inizialmente con i calibri minori, a partire dalla seconda metà del Quattrocento, quando s’iniziarono a gettare le artiglierie di bronzo in forme prive di nocciolo. Era precauzione abituale quella di posizionarle con la bocca verso l’alto, per aumentare la densità del metallo in culatta, scongiurando cosí il formarsi di cricche in quella parte critica. I pezzi ottenuti, del tutto pieni, venivano trapanati con appositi attrezzi, detti anche trivelle, e il foro era regolarizzato con precisione con alesatrici idrauliche o manuali. Per eseguire la delicata bucatura, il cannone, sospeso, verticalmente e con la bocca in basso, veniva fatto girare, mantenendo fermo l’utensile, poiché occorreva far cadere i trucioli per evitare l’intasamento del foro. Grazie alla sua rilevante inerzia, la rotazione garantiva bucature regolari e coassiali, ma di diametro approssimato, alle quali, per l’anima, si ovviava con alesature successive, via via

MEDIOEVO

settembre

73


scienza e tecnica piú precise. In estrema sintesi, mentre il trapano forava il cannone, il foro assumeva la conformazione cilindrica grazie all’alesatrice, sostituita per i diametri maggiori da un utensile simile, detto barenatrice. Di pari dimensioni si fondevano quindi le palle, che rimasero ancora a lungo specifiche per ciascun cannone, non essendo stata ancora introdotta la standardizzazione dei calibri. Pochi anni piú tardi, ferma restando la collocazione verticale del cannone da trapanare, si adottò la rotazione dell’utensile dall’alto, alquanto rara, o soprattutto dal basso, sempre con grandi macchine di legno, ricordate come alesatrici verticali, poi riservate ai calibri maggiori. Impiantate in prossimità di corsi d’acqua, ne ricavavano la forza motrice tramite una ruota idraulica che, a sua volta, mediante molteplici ingranaggi, poneva in rotazione l’asta dell’utensile munita in sommità di vari taglienti. In assenza di corsi d’acqua, la forza motrice veniva fornita da giostre di cavalli o da ruote calcatorie, ferma restando la concezione generale del trapano.

La prima descrizione dettagliata delle alesatrici si deve a Vannoccio Biringuccio

L’approvazione dei maggiorenti

Col tempo, avendo rilevato la superiorità delle artiglierie trapanate rispetto alle precedenti, si elaborò un’alesatrice orizzontale, piú semplice, economica e molto meno ingombrante dell’arcaica verticale, realizzando una macchina che, con lievi perfezionamenti, rimase in uso fino all’Ottocento. Chi e quando l’abbia inventata le fonti non lo tramandano, ma sappiamo che «nel 1479, il 27 di ottobre, un tale Paolo Niccolini, del contado lucchese, espone ai Magnifici Signori Anziani e Gonfalonieri di Giustizia di Lucca: “como lui intenda fare uno edificio da trapanare spingarde ad acqua in nel Comune di S. Quirico a Petronio”». Apprezzata l’utilità della macchina, che doveva perciò essere già nota da tempo, i maggiorenti diedero parere favorevole e relativa licenza. La spingarda era un pezzo di piccolo calibro, ma la trapanatura su bocche da fuoco piú grandi non tardò a imporsi un po’ ovunque, con i medesimi congegni. Non abbiamo descrizioni dettagliate del procedimento di trapanatura, né disegni attendibili di quelle prime macchine, che, ricordate dai contemporanei come simili alle sucessive, ci autorizzano a trarre proprio da quest’ultime le relative conoscenze, utilizzando il trattato di Vannoccio Biringuccio De la pirotechnia, edito a Venezia nel 1540, tra i piú meticolosi in materia. Apprendiamo cosí che la foratura dei cannoni, con un’alesatrice orizzontale, si praticava da tempo a Milano: «Aduirtiendo que en Milan se barrena como la Figura muestra (…) en che hombres dan buelta à la barrena acercando o apartando la pieza, con la querdas que se ven en ella». Come anche a Napoli, con l’utensile azionato da una ruota mossa a braccia: «Y en Napoles con la barrena affida à una rueda, dandole buelta, a fuerca de brazos». La descrizione dell’alesatrice orizzontale lasciata dal Biringuccio non significa

74

che lui ne sia stato l’inventore, ma solo che fu il primo a darne dettagliata contezza, descrivendone vari tipi. Ciò premesso, cuore dell’alesatrice era una massiccia asta di legno, avente un diametro appena minore della palla prevista, in testa alla quale erano incastrati 4 o 8 taglienti, destinati a incidere il bronzo, realizzati con i piú duri acciai disponibili. Disposti ortogonalmente fra loro, venivano bloccati e mantenuti in sede da 3 cerchi di bronzo o di ferro. L’avanzamento dell’utensile si otteneva con una cremagliera azionata dall’operatore tramite un apposito volante, mentre l’asta veniva posta in rotazione dalla solita ruota idraulica o calcatoria. Tre le alesatrici descritte dal Biringuccio che, per quanto accennato, da almeno settant’anni si utilizzavasettembre

MEDIOEVO


A sinistra disegno ricostruttivo, con spaccato, della testa di un’alesatrice. Qui sotto disegno ricostruttivo, con spaccato, della testa di una barenatrice.

Sulle due pagine illustrazione raffigurante un’alesatrice orizzontale,da un’edizione del De la pirotechnia di Vannoccio Biringuccio. Venezia, 1540.

no per la foratura dell’anima, la prima è cosí ricordata: «Anchora ho fatto tale effetto di triuellare con piú altre sorti di triuelli quali vi voglio narrare, perché accadendoui non habbiate a esser suggetto a un solo modo, e in Firenze volsi vedere la sperentia di piú modi infra li altri per triuellare una colubrina feci un’hasta di legname di leccio seccho grossa poco meno chel vano de l’artiglieria, in el quale feci in luocho del massello del’acciaro incastrare a contrario l’un de l’altro otto tagli d’acciaro temperato e fatti taglienti con tre cerchi di ferro un da piei uno in mezzo e l’altro da capo per legamento d’essi adattati però da poterli mettere e cavare vostra posta, de quali quattro ne veniuano da capo e quattro piú bassi, e cosí questo tal stile mi serue a triuellare tal colubrina benissimo». La seconda, a sua volta: «Anchora oltre a questo per tri-

MEDIOEVO

settembre

uellare il Leofante nel medesimo luoco col parer d’un fabbro ingegnoso di fe uno triuello a similitudine d’un di quelli che adoperano alcuni maestri di torno che li chiamono triuelli alla franzese che stanno quasi come gobbie, ma questo era come un pezzo di cannale de acciaro temperato con li suoi tagli viui e taglienti, e questo girandolo con una ruota grande leuaua benissimo». Questa, infine, la terza: «Anchora come v’ho detto di sopra volendo fare un trivello d’acciaro da cometer per triuellare cannoni o doppi cannoni, o pur che fusse saldo in ponta d’un’haste di ferro sarebbe gran difficultà farlo che stesse bene in quadro, e che tenesse buoni li cantoni si per fabricarlo come anchora per esser massa troppo grande per scardarlo, temperarlo o alla ruota farlo tagliente. Per il che bisogna pensar la via piú facile, e per far questo si fa di bronzo un tassello tondo grosso

75


scienza e tecnica Miniatura raffigurante un esercito assediante che attacca un castello con cannoni e balestre. XV sec. Chantilly, Chateau.

pocho meno chel diametro della palla, e in questo si fa quattro o al piú sei canali che stieno infondo a coda di rondine, e in questi di poi sia commesso quattro coltelli d’acciaro ben tempati e taglienti, e v’ho detto quattro, perché quattro fanno meglio che se fussero piú atteso che con piú».

Una forma duratura

Complemento imprescindibile della trapanatura dell’anima fu, come accennato, la palla in ferro fuso, spesso fucinata. Gettata in due semisfere refrattarie e regolarizzata con la lima, presentava una discreta sfericità ed essendo assai piú resistente della palla di pietra, consentiva cariche di lancio molto maggiori, che, unitamente alla minima tolleranza fra lei e l’anima – o «vento» –, garantiva una discreta compressione dei gas di sparo e contribuiva al vistoso incremento della velocità iniziale. Si rese allora indispensabile il dimensionamento differenziato della volata per resistere alle enormi sollecitazioni dello sparo: il cannone assunse cosí la forma tronco-conica, che manterrà fino alla prima guerra mondiale. Grazie alle maggiori velocità e densità, palle di ferro molto piú piccole della arcaiche di pietra riuscivano a infliggere devastazioni irreparabili alle coeve fortificazioni, determinando il definitivo e irreversibile tramonto dei castelli e del loro mondo, pateticamente inermi di fronte a tali impatti, ulteriormente esaltati dall’inusita-

76

ta cadenza di tiro consentita dall’adozione delle cariche di lancio preconfezionate, denominate scartocci. L’impiego generalizzato delle palle di ferro per tutti i calibri anticipa di poco la calata di Carlo VIII, nel 1494. Le artiglierie dell’imperatore impressionarono gli osservatori dell’epoca, come prova, fra le altre, questa testimonianza di Francesco Guicciardini: «Ma i franzesi, fabbricando pezzi molto piú espediti nè dall’altro che di bronzo, i quali chiamavano cannoni, e usando palle di ferro, dove prima di pietra e senza comparazione piú grosse e di peso gravissimo s’usavano, gli conducevano in sulle carrette, tirate non da buoi, come in Italia si costumava, ma da cavalli, con agilità tale d’uomini e di instrumenti deputati a questo servigio che quasi sempre al pari degli eserciti camminavano, e condotte alle muraglie erano piantate con prestezza incredibile; e interponendosi dall’un colpo all’altro piccolissimo intervallo di tempo, sí spesso e con impeto sí veemente percotevano che quello che prima in Italia fare in molti giorni si soleva, da loro in pochissime ore si faceva». Il Castello di Monte San Giovanni, sulla riva del Liri, baldanzoso per avere respinto pochi anni prima un assedio settennale, nel 1495 si fece beffe delle minacce di Carlo VIII, massacrandone per giunta dei suoi messaggeri. Entrata in azione, l’artiglieria, in circa 4 ore, brecciò le sue mura, e per i difensori fu il massacro indiscriminato. Era la nuova veste della guerra, della quale il cannone ne divenne la voce. F settembre

MEDIOEVO




testi di Susanna Zatti, Gian Pietro Brogiolo ed Elena Percivaldi

I LONGOBARDI Un popolo che cambia la storia

Pavia torna capitale del regno longobardo, ospitando la prima tappa di una importante mostra che fa il punto sulla grande stagione vissuta dall’Italia tra il VI e l’VIII secolo, quando il popolo di Alboino acquisí il controllo di un’ampia porzione dei suoi territori. Una stagione cruciale, che ebbe significativi riflessi politici, economici e culturali e che l’esposizione documenta alla luce delle piú recenti acquisizioni Particolare di un pluteo marmoreo raffigurante l’Agnus Dei, forse proveniente dall’area del Seminario Vescovile di Pavia. VIII sec. Pavia, Musei Civici.


Dossier I LONGOBARDI A PAVIA La città lombarda documenta i suoi trascorsi di capitale del regno soprattutto attraverso le ricche collezioni museali, che la mostra invita ora a riscoprire di Susanna Zatti

S S

celta dagli Ostrogoti come seconda capitale dopo Ravenna e allora dotata di architetture pubbliche eccellenti, Pavia viene espugnata nel 572 da Alboino, dopo un assedio lungo tre anni; seguono due secoli (cederà all’assedio dei Franchi di Carlo Magno nel 774) nei quali la città è baricentro delle vicende politiche, economiche e amministrative piú rilevanti del regno, che la narrazione di Paolo Diacono, le pur scarse testimonianze materiali, ma anche – e soprattutto – la tradizione, le leggende e le memorie locali, i toponimi tuttora ricordano: dall’emanazione dell’Editto di Rotari al recupero e traslazione delle spoglie mortali di sant’Agostino minacciate dai Saraceni, alle cospicue fondazioni religiose destinate a cenotafi di re e regine.

e gli incendi, ma la splendida fioritura romanica dopo il Mille – con la necessità di recuperare spazi e materiali pregiati per le costruzioni – e poi la crescente insofferenza estetica per espressioni d’arte «barbariche», almeno sino al romanticismo, avevano determinato il progressivo svanire delle testimonianze materiali di Pavia longobarda (mentre, in parallelo, il patriziato e gli eruditi locali avevano reagito alla decadenza dei loro tempi con la creazione del mito della capitale altomedievale, tramandandone ai posteri un ricordo parziale e travisato). Cosí, solo per ritrovamenti fortuiti e rarefatti nei secoli e per epi-

Tesori da riscoprire

All’eccezionale fortunata ricchezza dell’immagine di Pavia capitale del regno longobardo corrisponde, oggi, un’avvilente povertà di sussistenze monumentali – tale da aver precluso l’inserimento della città nella rete UNESCO dei siti longobardi –, cosí che ben si può attribuire a Pavia quell’appellativo di «straordinaria Atlantide sommersa» (Romanini) da riferirsi a un prezioso tesoro d’arte sopravvissuto solo a livello sotterraneo nelle cripte, oppure tuttora celato da substrati, inglobato in murature, o reimpiegato in nuove architetture, in attesa di essere riscoperto e disvelato. Non solo le devastazioni belliche

80

A destra spada in ferro damaschinato, da Nocera Umbra. VI sec., Roma, Museo delle Civiltà-Museo Nazionale dell’Alto Medioevo. Nella pagina accanto, in alto crocetta funeraria in oro con teste umane stilizzate. Fine del VI-inizi del VII sec. Pavia, Musei Civici. Tutti gli oggetti illustrati in questo Dossier sono attualmente esposti nella mostra «Longobardi. Un popolo che cambia la storia».


Qui accanto orecchino aureo «a tamburo» o «a disco» con decorazione cloisonné e pendente cruciforme. VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

«Rosmunda, durante il sonno di Alboino, sottraendo tutte le altre armi, legò la spada alla testata del letto in modo che non potesse sguainarla. Svegliatosi Alboino di soprassalto,rapido pose mano alla spada, ma essendo legata non riuscí ad estrarla (…) Quell’uomo di sommo ardire morí (…) Il suo corpo fu sepolto sotto una scala attigua al palazzo. Ai nostri giorni Giselperto duca di Verona aprí la sua tomba e portò via la spada e quanti ornamento vi poté trovare»

(Paolo Diacono, Historia Langobardorum, I, 28)

MEDIOEVO

settembre

81


Dossier 568: una data-spartiacque

Ma fu davvero un’«occasione mancata»? L’anno 568, quando i Longobardi guidati da Alboino varcarono le Alpi Giulie e iniziarono la loro espansione sul suolo italiano, è considerata tradizionalmente come una data-spartiacque della storia d’Italia. L’unità politico-amministrativa della Penisola, raggiunta e sancita al tempo di Augusto (e cioè oltre cinque secoli prima) veniva spezzata dall’ingresso di un popolo «invasore», il cui progetto di conquista non avrebbe però saputo estendersi all’interezza delle sue regioni, alcune delle quali rimasero in mano all’impero bizantino. Di qui, come già sottolinearono gli storici dell’età del Risorgimento, avrebbe preso le mosse quella storia di divisioni e di frammentazione politica che, nei secoli a venire, avrebbe portato l’Italia (dall’essere il fulcro dell’impero romano) a divenire terra di conquista da parte di altre nazioni. L’arrivo dei Longobardi costituí davvero l’avvio di questa catena di eventi o fu la grande «occasione mancata» affinché l’Italia potesse rifondare su nuove basi la propria unità politica? Nell’ambito di un processo che interessò gran parte dell’Europa occidentale, senza dubbio i Longobardi introdussero nuovi squilibri nella società italiana, appena uscita dalla lunga guerra (535-553) con la quale l’imperatore d’Oriente Giustiniano pose fine al regno dei Goti. Ma seppero anche raccogliere molteplici sfide: dai conflitti con i Bizantini, ai quali tolsero progressivamente molti territori; dai rapporti con gli altri barbari d’Europa, e in particolare con i Franchi, a quelli con il Mediterraneo bizantino e poi in parte arabo; alla riorganizzazione sociale ed economica, necessaria per adattarsi a una realtà politica e sociale del tutto nuova e nel corso di un cambiamento climatico che mutò, in molte regioni, il paesaggio e l’economia.

In alto corno potorio in vetro, dalla tomba 27 della necropoli di San Mauro (Cividale del Friuli). Ultimo terzo del VI sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.

Cofanetto reliquiario in osso. VI-VII sec. Susa, Museo Diocesano d’Arte Sacra.

82

settembre

MEDIOEVO


la rinascenza carolingia

Un cliché da rivedere Nel «secolo d’oro» di Carlo Magno e degli imperatori carolingi, e poi ancora di quelli germanici, l’Italia fu terra di mediazioni tra il Mediterraneo e l’Europa, esercitando un ruolo da protagonista nei contatti tra il mondo occidentale e le aree del Mediterraneo orientale e meridionale, ove fiorivano le civiltà di Bisanzio e dell’Islam. È ormai chiaro che l’humus dell’Italia longobardo-bizantina è il primo laboratorio di elaborazione della cosiddetta «Rinascenza Carolingia» delle arti e della cultura. Ed è comunque chiaro che – grazie proprio al grado di sviluppo raggiunto dalla nostra Penisola tra la fine del VII e la prima metà dell’VIII secolo – essa non fu semplicemente «assorbita» all’interno di un’Europa a guida politica franca, avente il suo centro nelle terre fra la Loira e il Reno, ma svolse in questo contesto un ruolo molto piú attivo e propulsivo. Inoltre, le vicende degli Stati meridionali di Benevento, Salerno e Capua, vere «cerniere» fra l’Europa e il mondo arabo-bizantino del Mediterraneo, protrassero l’esistenza delle presenze longobarde sul suolo italiano sin oltre il Mille, disegnando un arco temporale che ha coperto quasi mezzo millennio di storia italiana.

Qui sopra e nella pagina accanto, a destra fibule a staffa alamanne, da Alcagnano (Vicenza). V-VI sec. Milano, Civico Museo Archeologico. A destra orecchino aureo «a tamburo» o «a disco» con decorazione cloisonné e pendente cruciforme. VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

MEDIOEVO

settembre

sodiche campagne recenti di scavo archeologico, sono stati riportati alla luce elementi architettonici, monili, lapidi ed epigrafi funerarie, pezzi scultorei, che sono confluiti nelle raccolte civiche e allestiti nelle sale museali del castello visconteo. Sono reperti di straordinaria qualità – tali da ripagare in parte per la loro unicità ed eleganza, pur nelle ridotte dimensioni, la perdita di strutture monumentali – che per l’appunto sono pervenute ai musei

o dall’occasionale riemersione durante interventi urbanistici o dal privato collezionismo antiquario: si tratta, perlopiú, di manufatti da riferire alla celebrazione regia, encomiastica e legati ad ambienti aulici e di corte, che devono la loro sopravvivenza al reimpiego in contesti successivi, in qualità di stipiti, di soglie, di chiusure di pozzi. Era stato il marchese Luigi Malaspina, colto e illuminato raccoglitore non solo di pittura italiana

83


Dossier Il «caso» Lombardia

Centralità di un territorio La presenza longobarda sul suolo italiano fu tutt’altro che labile. I paesaggi storici, gli insediamenti, la toponomastica del nostro Paese recano ancora oggi segni indelebili delle loro memorie, a partire dalla macroscopica evidenza costituita dall’esistenza di una regione – la Lombardia – il cui nome ricorda la centralità che questo territorio ebbe nelle vicende politiche del regno, avendone ospitato la capitale Pavia. A sinistra fibula a disco in oro e gemme, con pietra superstite. VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso corredo formato da guarnizioni di cintura in ferro ageminato, bicchieri in pietra e un coltellino. VII sec. Aosta, Museo Archeologico Regionale.

dal Medioevo al neoclassicismo ma anche di testimonianze artistiche locali, munifico fondatore dei musei pavesi, a voler salvare dall’oblio e dall’incipiente distruzione alcune lapidi tombali di re e regine longobardi tumulate in chiese sconsacrate e soppresse in età giuseppina. Sotto il portico della sua residenza pavese, il nobile aveva allestito un’ampia raccolta epigrafica di varie età, tra cui l’epitaffio ritmico che celebra Cuniperto, «re prospero e pre-

84

stante che l’Italia piange», acquistato entro il 1819 e proveniente dal monastero di S. Salvatore dove – come recita l’epitaffio – «quiescunt in ordine reges»; poi due lastre dalla chiesa di S. Maria alle Pertiche, fondata da Rodelinda, l’una della regina Ragintruda, l’altra del dux Liguriae Audoaldo; successivamente quella, incorniciata da decori vegetali, di Cuniperga, già nel monastero di S. Agata al Monte di fondazione regia. Ma il «colpo» collezionistico di

Malaspina fu nell’acquisizione, nel 1832, di pezzi scultorei dal monastero femminile di Teodote (o della Pusterla): l’iscrizione funebre di Teodote e quelli che – per interpretazione dei cugini Defendente e Giuseppe Sacchi – erano stati riconosciuti come i due lati lunghi e quello corto del sarcofago a cassa della giovinetta concupita e violata dal re Cuniperto, cioè i celebri plutei con i draghi, con i pavoni e con l’agnello. Oggi, la mostra «Longobardi. Un popolo che cambia la storia» è ancora l’occasione per ripensare in parte l’esposizione e ulteriormente valorizzare il patrimonio museale, nel senso sia di esaltare attraverso la luce la preziosità e la raffinatezza di ciascuno dei pezzi esemplari di scultura decorativa e di oreficeria, sia di comunicare in modo piú efficace e consapevole con il visitatore, favorendo – grazie anche alla strumentazione informatica e alle ricostruzioni virtuali – la conoscenza dei contesti architettonici di provenienza e inducendo a immaginare, suggestivamente, la forma urbana di Pavia tra la metà del VI e la fine dell’VIII secolo. settembre

MEDIOEVO


UN’ITALIA DIVISA La conquista longobarda investí solo parzialmente la Penisola. Tuttavia, al di là dell’estensione geografica, il loro dominio non cancellò l’eredità dell’impero romano di Gian Pietro Brogiolo

N

el 476, dopo aver deposto l’imperatore romano d’Occidente Romolo, il magister militum Odoacre inviò a Costantinopoli le insegne imperiali, riconoscendo con tale atto l’autorità dell’imperatore d’Oriente. Sempre in nome dell’impero, tredici anni piú tardi, Teodorico conquistava l’Italia. Il suo regno comprendeva, oltre alla Penisola, un vasto territorio che si estendeva dalla Dalmazia, al Norico, alla Provenza; esercitò anche una sorta di protettorato sull’Hispania, dopo la distruzione, a opera dei Franchi, del regno visigoto di Aquitania nel 507. Controllava di fatto il Mediterraneo occidentale e confinava a oriente con l’impero di Costantinopoli: la situazione, almeno dal punto di vista istituzionale ed economico, era in quegli anni migliore di quella antecedente il 476. L’impero era finito, ma, per quanto riguardava l’Italia, in un quadro di legalità e di continuità: il Senato formalmente rappresen-

In alto brattea aurea raffigurante Cristo tra gli angeli. VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A destra fibula a «S» in argento dorato e pietre almandine, dalla necropoli di San Giovanni a Cella. 600 circa. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.

MEDIOEVO

settembre

tava ancora le aristocrazie romane; venivano regolarmente nominati consoli, prefetti del pretorio e altri magistrati previsti nell’ordinamento dell’impero tardo-antico; le tasse erano sempre impostate sulla base delle proprietà fondiarie. A fare la differenza era il controllo dell’esercito, di esclusiva competenza dei Goti, mentre i conti, funzionari regi nominati in alcune città, avevano di fatto sottratto alle curie e alle magistrature cittadine molto del loro potere amministrativo. La collaborazione tra Romani e Goti, efficacemente raccontata nelle

85


Dossier lettere di Cassiodoro, s’incrinò solo dopo la morte del re (526), quando, con Teodato, le aristocrazie romane subirono confische e violenze. Tuttavia, a cambiare definitivamente la situazione, non solo per la Penisola ma per l’intero Occidente, fu la decisione dell’imperatore Giustiniano di tentare la riconquista dell’Italia. Con un’aspra guerra durata ben diciotto anni (la cosiddetta «Guerra gotica», 535-553, n.d.r.) riuscí a prevalere; tuttavia, la Pragmatica sanctio, il decreto con il quale intendeva

ristabilire la legalità fornendo una serie di linee guida all’amministrazione, rimase inattuata a nord del Po, dove i Franchi, ambigui alleati dei Romani durante la guerra, avevano creato proprie enclave; esse si aggiungevano a sacche di resistenza gota, soffocate solo nel 563.

Una scelta disastrosa

In questa precaria situazione s’inserisce la notizia – tramandata da alcuni autori – dell’invito che Narsete, plenipotenziario dell’impe-

ratore d’Oriente in Italia, avrebbe rivolto ai Longobardi affinché attaccassero i Franchi, cosa che alcuni capi militari in effetti fecero, con un risultato peraltro disastroso. Al di là della veridicità o meno della testimonianza, i Longobardi, varcato il confine nel 569, occuparono senza difficoltà le città pedemontane dell’Italia settentrionale. Alcuni gruppi si spinsero piú a sud, dove riuscirono a fondare i ducati di Lucca, Chiusi e Spoleto, mentre non è chiaro quando

A sinistra frammento di pluteo o paliotto in pietra calcarea raffigurante un grifo. VIII sec. Trento, Museo Diocesano. Nella pagina accanto l’assetto geopolitico della Penisola italiana nei duecento anni in cui venne quasi interamente controllata dai Longobardi, che riuscirono a conquistare anche la Pentapoli (la provincia comprendente le città di Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona), strappandola ai Bizantini.

86

settembre

MEDIOEVO


CONQUISTE E RICONQUISTE DEI LONGOBARDI Conquiste iniziali (568-590)

Aquileia

Milano

Territori contesi fra Longobardi e Bizantini

644

Brescia

Venezia

Pavia

Torino

Conquiste del VII secolo (con data) (Agilulfo 590-616; Rotari 636-652; Grimoaldo 662-671)

Conquiste al tempo di Liutprando (712-744)

502

603

Parma Genova

Bologna

643

Pisa

Conquiste al tempo di Astolfo (749-756)

Pe

Ravenna

nt

ap o

li

Firenze

Dominio bizantino nel 774

Rimini

Ducato di Spoleto

Confini attuali

Ancona Fermo 640 circa

Spoleto

605

650 circa

Roma

Ducato romano

662

Bari

Benevento Napoli Salerno

Ducato di Benevento

Potenza

645 circa

Cagliari

Cosenza

Palermo

Agrigento

MEDIOEVO

settembre

Lecce

Reggio Calabria

Siracusa

87


Dossier Le forme dell’insediamento

Dalla città al castello Alcuni cambiamenti epocali verificatisi in tutto l’Occidente, non dipesero dai Longobardi. Fin dalla prima metà del V secolo, infatti, a seguito dello stanziamento di gruppi di barbari in molte regioni dell’Occidente, il fisco aveva perso una parte consistente delle entrate e mancavano le risorse per le opere pubbliche. E tuttavia le città – sebbene comites, iudices e duces, espressione del potere militare, avessero esautorato, in tempi diversi a seconda dei singoli centri, le funzioni della curia – costituivano ancora il perno del sistema, non solo amministrativo, ma anche fiscale e giudiziario. Le principali (Roma, l’antica capitale, Ravenna, sede ufficiale del re, Verona, Milano e Pavia) erano state oggetto dell’attenzione di Teodorico e dei suoi successori. Accanto a esse, soprattutto in Italia settentrionale, erano stati fondati numerosi castelli. Nelle fonti narrative e documentarie, dalla guerra greco-gotica in poi, tutti questi centri costituirono il punto di riferimento sia per il territorio rimasto all’impero, sia per quello conquistato dai Longobardi. Dopo l’invasione, alla fine del VI secolo la Descriptio orbis romani, attribuita a Giorgio Ciprio, elenca cinque eparchie (provinciae) sotto il controllo imperiale: due di queste (l’Annonaria e l’Aemilia) comprendevano città e castelli dell’Italia settentrionale. Anche per il territorio assoggettato dai Longobardi, fonti piú tarde (alla fine del VII secolo, l’Anonimo Ravennate; un secolo dopo, Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum) descrivono la medesima articolazione, in città e castelli, dei centri di potere, talora confondendo i due termini, dal momento che erano equivalenti almeno dal punto di vista civile, come sedi amministrative di un territorio dipendente. Il parallelismo tra i territori del regno e quelli dell’impero suggerisce inoltre che tale organizzazione fosse antecedente alla conquista dei Longobardi; in essa, le città di antica fondazione mantennero peraltro un ruolo piú importante.

effettivamente sia stato costituito quello di Benevento. La penetrazione ramificata in due terzi della Penisola, seguendo le strade e occupando le piazzeforti, era poco adatta a un controllo territoriale omogeneo, ma utile ad accumulare tesori e a fare razzia di persone da vendere come schiavi.

Soldati troppo violenti

Ricalcava peraltro quella attuata da Belisario durante la guerra contro i Goti, alla quale i Longobardi avevano partecipato con un contingente di trentamila uomini, reclutati nel 552 da Narsete. Dopo le conclusive battaglie di quell’anno erano stati però congedati per l’eccessiva violenza dimostrata. Conoscevano dunque il sistema difensivo imperniato su città fortificate e castelli, la rete di strade che li collegavano, le aree agricole che potevano fornire gli approvvigionamenti. Per la rapidità della conquista

A sinistra pendente aureo piramidale. V-VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

In alto anello con castone. VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A destra timpano marmoreo decorato con motivi vegetali e geometrici, tra cui quello tipico a rotae. VIII sec. Cividale del Friuli, Museo Cristiano.

88

settembre

MEDIOEVO


potrebbe essere stato determinante anche l’aiuto dei Goti, definitivamente sconfitti da Narsete solo nel 561-562, con la caduta di Brescia e Verona. Colti di sorpresa, i Romani riuscirono ad asserragliarsi in alcune roccaforti: Pavia si arrese solo dopo un assedio durato tre anni; alcuni castelli alpini – come l’Isola Comacina, dove il comandante Francione resistette per vent’anni – e alcune città della Pianura Padana centrale e della costa rimasero ancora piú a lungo nell’orbita dell’impero. L’incapacità dei Longobardi di conquistare l’intera Italia si tradusse in un confronto militare che, pur con momenti di pausa e di pacificazione, continuò su molteplici linee di frontiera, sovente con autonomia di azione dei singoli duchi. Al suo arrivo in Italia, il re Alboino si stabilí a Verona nel palazzo eretto da Teodorico. I suoi successori preferirono Milano, per poi spostarsi, non prima degli inizi del

MEDIOEVO

settembre

rimasta ai Romani –, fu capoluogo dell’intero Friuli; e poi Treviso, Vicenza, Trento, Brescia, Bergamo, Asti, Torino; in Toscana, Firenze, Lucca e Chiusi; e poi Spoleto e Benevento, a capo di due ducati che, come quello friulano, corrispondevano a una regione. Il rilievo di queste città, oltre che dall’essere sedi vescovili, dipendeva dalla presenza di un’autorità civile, talora limitata al solo gastaldo di nomina e dipendenza regia, talaltra condivisa con un duca. In alto tondo in marmo con iscrizione commemorativa dell’abate Audiberto per il rinnovamento dell’oratorio di S. Donato di Maruni (Valpantena, Verona). IX sec. Verona, Museo di Castelvecchio.

VII secolo, a Pavia, definitiva capitale del regno. Altre città furono sede dei principali ducati: nel Nord, Cividale che, a seguito della decadenza di Aquileia – troppo vicina alla costa

Continuità d’uso

Nelle città occupate, i Longobardi conservarono le fortificazioni, le infrastrutture, quando queste erano sopravvissute, e le chiese. Le nuove autorità si insediarono nelle vecchie sedi del potere: a Verona e Pavia, nel palazzo costruito da Teodorico, a Milano, in quello imperiale della fine del III secolo. Ancora nel 602 il re Agilulfo poteva organizzare nel circo, annesso al palazzo, la cerimonia pubblica di associazione al trono del figlio Adaloaldo. E tuttavia l’archeologia ha dimostrato come i Longobardi non siano stati in grado di arrestarne il degrado. Molte (anche sedi di importanti ducati, come Lucca) si frammentarono «a isole», con insediamenti presso le porte e le chiese. Alle strade lastricate si sostituirono, con poche eccezioni, quelle di terra battuta. In tutte scomparvero le domus, sostituite da edifici piú poveri. Alcuni templi pagani vennero utilizzati per attività artigianali (a Brescia), altri vennero demoliti e sostituiti da capanne (a Oderzo). La medesima sorte subirono gli edifici da spettacolo. Alcuni anfiteatri, come a Verona e Pollenzo, fin dall’età gota erano stati inseriti nel sistema di difesa della città; altri si ridussero a quartieri abitativi con case ricavate negli archivolti, come quelli di Verona, Lucca e Benevento. Attività artigianali entrarono dovunque in città, pur nel segno di un (segue a p. 93)

89


Dossier

hospitalitas longobarda

Per l’acquartieramento dell’esercito L’archeologia ha documentato che spesso l’insediamento longobardo nelle campagne è in relazione con le ville romane, sovente senza che se ne possano stabilire le modalità. In alcuni casi, potevano aver fatto parte del patrimonio imperiale o del fisco pubblico fin dall’origine, come residenza del funzionario che gestiva l’azienda dipendente dal patrimonio; in altri, potrebbero essere state confiscate dagli imperatori, come quella di Desenzano (se proprietà del Decentius, i cui beni vennero confiscati alla fine del IV secolo); in altri ancora, l’esproprio potrebbe essere piú recente. Che la villa di Desenzano fosse entrata nel patrimonio fiscale lo ricaviamo, oltre che dal toponimo «borgo regio», solo da un discusso documento databile alla fine del IX secolo. Analoga indicazione suggeriscono le fonti scritte piú tarde per le ville romane di Leno, Sirmione, San Cassiano di Riva del Garda, Toscolano. L’hospitalitas, già prevista nella legislazione romana, fu dunque lo strumento legale per l’acquartieramento dell’esercito utilizzato anche dai Longobardi in Italia.

90

settembre

MEDIOEVO


Nella pagina accanto, a sinistra frammento di lesena in terracotta decorata a stampo. VII sec. Brescia, Santa Giulia, Museo della Città. Nella pagina accanto, a destra miniatura raffigurante Adelchi, principe longobardo di Benevento, dal Codex Legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni, Abbazia della SS. Trinità. Adelchi salí al trono nell’853, dopo il distacco del principato di Salerno e del gastaldato di Capua dal principato originario, il cui indebolimento favorí la conquista normanna nell’XI sec.

Le consuetudini giuridiche di un popolo Il Codice che reca l’Editto di Rotari, promulgato nel 643. San Gallo, Stiftsbibliothek. Con l’Editto, il re longobardo Rotari (636-652) aveva dato per la prima volta forma scritta alle consuetudini giuridiche del suo popolo. Nel testo, spicca la

MEDIOEVO

settembre

preminenza del mondo rurale: molti capitoli trattano infatti temi quali la protezione del bestiame, degli alberi, delle coltivazioni e degli attrezzi da lavoro; una prova della centralità dell’economia agropastorale nella vita dei Longobardi.

91


Dossier

92

settembre

MEDIOEVO


ficò per le campagne, piú stabili dove piú massicciamente si insediarono, controllandole attraverso le corti regie e ducali: centri amministrativi di beni fiscali affidati ai giudici, che avevano anche l’incarico di esercitare la giustizia e organizzare la leva militare riservata agli uomini liberi longobardi (gli arimanni).

La politica fiscale

In alto piatto di legatura in avorio decorato con scene relative a san Remigio e al re Clodoveo. IX sec. Amiens, Museé de Picardie. A sinistra miniatura raffigurante Arechi II, duca e poi principe longobardo di Benevento, dal Codex Legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni, Abbazia della Ss. Trinità.

rigido controllo delle nuove autorità sulle stesse, affidate a individui servili insediati in spazi pubblici. Piú legato all’iniziativa di gruppi e singole famiglie e, in questo caso, senza un intervento dall’alto, è un altro fenomeno generalizzato: l’ingresso delle sepolture in città. Accanto alle città sorsero alcuni castelli come capoluoghi di distretto. Nessuno, tra i castelli longobardi provvisti di un territorio dipendente, divenne però sede vescovile, a conferma di una maggiore stabilità istituzionale, non solo ecclesiastica, nei territori conquistati dai Longobardi rispetto a quelli rimasti all’impero, dove piú numerosi sono i casi di crisi urbana con conseguente spostamento della sede vescovile. Osservazione che ci porta a concludere che, alla fine, sopravvissero meglio i centri nei quali i Longobardi stanziarono la loro classe dirigente. Lo stesso si veri-

In un celebre passo, Paolo Diacono ci racconta che i Longobardi, dopo il caotico periodo dell’interregno succeduto all’uccisione di re Clefi, per dare stabilità istituzionale al regno ripartirono i beni fiscali tra il re e i duchi. Stabilirono altresí le modalità dell’insediamento attraverso l’istituto della tertia, già adottato fin dall’età romana e utilizzato per lo stanziamento dei Goti. Alcuni storici hanno interpretato la concessione della tertia, sia ai Goti sia ai Longobardi, non come attribuzione di terre ma, piú semplicemente, di rendite. Tuttavia, sia le fonti (rilette approfonditamente da Francesco Porena per l’età gota e da Paolo Delogu per quella longobarda), sia i dati archeologici suggeriscono si sia perlopiú trattato di terre fiscali, incrementate dai Longobardi attraverso le confische. Alcuni scavi, sia in città (Brescia, complesso di S, Giulia; Pavia, area del palazzo), sia nei castelli (e basti ricordare il caso di Sirmione), sia nell’ambito di siti rurali (Mombello e Collegno), hanno dimostrato che a un insediamento con elementi culturali goti ne seguí uno di cultura longobarda. Il risultato fu un’occupazione capillare in alcuni territori: quelli pedemontani della prima fase della conquista, quelli attorno alle sedi ducali e ai castelli nei ducati del centro Italia e in quello di Benevento. In alcuni casi, i nuclei di popolamento corrisposero alle «fare» (ricordate da Paolo Diacono e da tanti toponimi), clan che facevano riferimento a un capo militare e che si tradussero sul terreno in un villag-

93


Dossier A sinistra anello in oro con castone a tamburo. VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

A destra fibbia di cintura gota in argento dorato e niellato, almandini, vetro bianco e verde, da Torre del Mangano. Fine del V sec. Pavia, Musei Civici.

gio. In altri casi, i nuclei insediativi sono assai piú piccoli, non piú di due o tre capanne, legati a una singola famiglia di proprietari o di dipendenti che lavoravano la terra. In un giudizio complessivo, si deve tener conto che i Longobardi invasero l’Italia dopo una lunga guerra, che aveva cancellato uno Stato, quello goto, ricco e potente, esteso piú di un milione di chilometri quadrati dalla Penisola Iberica alla Pannonia. Il loro regno, anche dopo l’annessione della Liguria e di altri territori, alla fine del VII secolo non superava di molto i centocinquantamila chilometri quadrati. Era dunque molto piú debole non solo di quello goto, ma anche di quello dei Franchi, riorganizzato da Carlo Martello agli inizi dell’VIII secolo.

Una conquista parziale

Non avevano inoltre approfittato fino in fondo della crisi dell’iconoclastia, nella quale era caduto l’im-

94

pero d’Oriente. Ci aveva provato Liutprando, nel 725, a conquistare Ravenna, capitale dell’esarcato, senza però portare a compimento l’impresa. Nel 741, ritentò suo nipote Ildebrando, con la collaborazione del duca di Vicenza, Peredeo, e forse anche dei Venetici. La conquista della città riuscí al re Astolfo nel 752, ma era ormai troppo tardi, perché non aveva valutato la reazione del papa e la forza militare e la coesione dei Franchi, che corsero in aiuto del pontefice, e nel 756 sconfissero duramente il sovrano. L’anno seguente il papa stesso favorí la nomina a re di Desiderio, dopo avergli fatto promettere che avrebbe ceduto alla Chiesa i territori conquistati da Astolfo. Accordo che l’ambizioso Desiderio non rispettò, cercando anzi un’alleanza con i Franchi attraverso legami matrimoniali. E sarà sempre il papa a convincere re Carlo a rompere con Desiderio e a stroncare le velleità del

re che aveva cercato di consolidare il regno contro gli interessi della Chiesa. Finiva cosí, nel 774, la dominazione longobarda, salvo nella Langobardia minor, dove il ducato di Benevento si manterrà formalmente indipendente fino alla conquista normanna nella seconda metà dell’XI secolo. La conquista di Carlo fu assai rapida e gli storici si sono chiesti perché i Longobardi non siano stati in grado di resistere. Il loro regno era modesto e non aveva dunque una popolazione (dalla quale ricavare un esercito) e risorse paragonabili a quelle dei Franchi. Oltre a questi limiti, territoriali e di risorse umane e materiali, altri elementi minavano la loro coesione. Superata con un lungo percorso la frammentazione sociale (tra Romani e Longobardi) e ideologica (tra cattolici e ariani), rimaneva infatti la rivalità tra il re e alcuni duchi, soprattutto quelli di Spoleto e Benevento. E a minare la settembre

MEDIOEVO


A destra un’altra pagina dell’Editto di Rotari. VII sec. San Gallo, Stiftsbibliothek. In basso orecchino aureo a cestello. VI-VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

95


Dossier credibilità di Desiderio furono anche gli oppositori rifugiatisi presso Carlo Magno.

Verso una nuova sintesi

In conclusione, la contrapposizione militare tra Longobardi e Romani, molto piú prolungata e profonda rispetto ad altri Stati romano-barbarici, introdusse nuovi modelli sociali e culturali dominati da militari e chierici: è il Medioevo che si riflette in città e castelli circondati da mura e pullulanti, dentro e fuori, di edifici di culto, punti di riferimento sociale e ideologico di una nazione che da un’iniziale rottura (sociale, economica e ideologica) è pervenuta, nell’VIII secolo, a una nuova sintesi mediata dalla Chiesa. Una società che non è però riuscita a superare la frammentazione originaria, anche perché, entrato in crisi l’antico avversario a seguito delle lotte per l’iconoclastia, si è trovata di fronte un nuovo concorrente, il papa, che gli ha impedito di aspirare all’egemonia sull’Italia. Ed è questo il limite dei Longobardi rispetto ai Franchi, che alla fine realizzarono una nazione forte e omogenea. Grazie all’alleanza strategica con la Chiesa, Carlo Magno rifondò l’impero d’Occidente. Ai Longobardi non rimase che l’amara consolazione di aver fornito alcuni elementi alla koinè culturale promossa dall’impero carolingio nel segno della continuità con l’antico.

In alto orecchino aureo a cestello. VI-VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A destra L’assassinio di Alboino, re dei Longobardi, olio su tela di Charles Landseer. 1856. Collezione privata. L’artista ritrae il sovrano mentre cerca inutilmente di difendersi con uno sgabello dai colpi di Elmichi.

Dove e quando «Longobardi. Un popolo che cambia la storia» Pavia, Castello Visconteo - fino al 3 dicembre Orario martedí-domenica, 10,00-18,00; lunedí, 10,00-13,00 Info tel. 0382 399770; www.mostralongobardi.it Catalogo Skira Editore Note la mostra sarà presentata dal 15 dicembre 2017 al Museo Archeologico Nazionale di Napoli e ad aprile 2018 al Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo

96

settembre

MEDIOEVO


MEDIOEVO

settembre

97


Dossier


SULLE STRADE DELLA CAPITALE Un itinerario alla riscoperta di luoghi, ancora esistenti o scomparsi, testimoni di due secoli di storia longobarda di Elena Percivaldi

Nella pagina accanto L’ingresso di Alboino a Pavia, xilografia da un dipinto di Ludovico Pogliaghi del 1890. In alto Pavia, chiesa di S. Eusebio. Una veduta della cripta, unica parte superstite dell’edificio originario. VII sec.

MEDIOEVO

settembre

Nel 572, dopo quasi tre anni di assedio, Alboino entrava in Pavia e sceglieva la città come capitale di un regno, quello longobardo, destinato a durare fino alla conquista – nel 774 – da parte di Carlo Magno. L’uscita di scena dell’ultimo sovrano longobardo, Desiderio, esule in Francia, non poté però cancellare l’impronta data dai Longobardi alla città in due secoli di storia. Ticinum – questo l’antico nome della città: Papia, da cui Pavia, entrò in uso proprio in età longobarda – era stata fondata dai Romani in un territorio occupato dalle tribú galliche. A loro si deve la pianta ortogonale ancora oggi ben visibile, che ricalca il consueto modello del castrum. Situata sul Ticino, a pochi chilometri dalla confluenza nel Po, sulla strada che da Milano portava a Genova, la città era un crocevia di importanti collegamenti terrestri e fluviali. Già sede di zecca

99


Dossier durante l’impero, Pavia fu occupata dai Goti e dotata da Teodorico di un palazzo regio; poi, nel 540, caduta Ravenna nelle mani di Belisario in piena guerra greco–gotica, venne scelta come nuova capitale del regno ostrogoto, rivestendo un ruolo di primo piano sullo scacchiere italiano fino, appunto, all’arrivo dei Longobardi. Anche per questo Alboino e i suoi successori si trasferirono nel palazzo regio di Teodorico e lo ingrandirono, poi dotarono la città di monumenti e, dopo la conversione al cristianesimo, di chiese e monasteri: S. Michele Maggiore, S. Pietro in Ciel d’Oro, S. Eusebio, S. Giovanni Domnarum, S. Maria alle Cacce, S. Salvatore, S. Agata al Monte, S. Maria alle Pertiche, S. Stefano. Di tanto splendore oggi si conservano poche tracce. Oltre all’usura del tempo, la città longobarda subí un rovinoso assedio, nel 924, da parte degli Ungari, poi, nel 1004, venne semidistrutta da un vasto incendio che, riporta un anonimo cronista tedesco, «arse tutti gli edifici che l’illustre maestria degli antichi aveva innalzato». Ciò che restava ancora intatto fu messo a ferro e fuoco nell’estate 1024 da una rivolta scoppiata alla morte dell’imperatore Enrico II, e poi raso al suolo dal terribile terremoto che, nel 1117, ridusse in rovina buona parte dell’Italia settentrionale. In età barocca le chiese furono conformate ai dettami della Controriforma e infine, nell’Ottocento, per adattare il volto di Pavia alle esigenze «moderne», le risistemazioni urbanistiche non risparmiarono edifici millenari. La città altomedievale torna oggi visibile grazie alle ricostruzioni 3D realizzate per la mostra «Longobardi. Un popolo che cambia la storia», che consentono di sorvolarla com’era restituendo anche i contesti, oggi perduti, in cui erano collocati i tesori esposti nella sezione longobarda permanente dei Musei Civici nel Castello. Per l’occasione, le tre cripte di S. Eusebio, S. Felice, S. Giovanni Domnarum sono inoltre aperte con orari estesi nei fine settimana (per informazioni e aggiornamenti: www.mostralongobardi.it). Nelle pagine che seguono, vi proponiamo dunque un itinerario alla scoperta delle vestigia longobarde pavesi. S. MICHELE MAGGIORE La basilica di S. Michele Maggiore è senza dubbio il monumento piú importante della Pavia

100

Didascalia

aliquatur adi odis SPLENDORI SOTTERRANEI

que vero ent qui doloreium A destra Pavia, monastero di S.conectu Maria rehendebis eatur alle Cacce. Una veduta della cripta. VIII sec. Il monasterotendamusam fu abitato da una consent, perspiti comunità di monache benedettine. conseque nis In basso Pavia, chiesa di S. Giovanni maxim eaquis Domnarum. Uno scorcio della zona earuntia cones dell’altar maggiore della cripta, il cui soffitto e capitelliapienda. sono decorati con affreschi raffiguranti santi della tradizione locale come Teofilo (a sinistra) e Invenzio (a destra). VII sec.

4

2

1 Cripta di S. Eusebio

6 Area di S. Maria alle Pertiche

Chiesa di S. Giovanni 2 Domnarum

7 Monastero di S. Salvatore

3

Monastero di S. Maria Teodote

4 Chiesa di S. Maria alle Cacce 5 Monastero di S. Felice

8 Basilica di S. Michele 9

Area del monastero di S. Agata al Monte

10 Chiesa di S. Pietro in Ciel d'Oro 11 Area di S. Giovanni in Borgo 12 Palazzo Reale 13 Basilica di S. Stefano

settembre

MEDIOEVO


A destra Pavia, chiesa di S. Eusebio, cripta. Uno dei capitelli che ornano le colonne, in questo caso riconducibile alla tipologia «a fibula alveolata», verosimilmente orfano delle pietre e delle paste vitree che in origine dovevano riempirne gli alveoli. In basso, a destra Pavia, monastero di S. Felice. Una delle colonne con capitello dell’edificio originario. VIII sec. Nel Settecento il monastero venne soppresso e il complesso riconvertito in orfanotrofio. Oggi è utilizzato dalla Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Pavia.

1 5

A

10

6

Piazza E. Filiberto

Piazza Castello

Piazza Dante

5 Via Roma

Corso Carlo Alberto

B

1

7

C

Piazza L. Da Vinci

Piazza Minerva

2

12 Via Scopoli

4 3

Piazza Duomo

13

8

9 Viale Lungo Ticino Visconti

Fiume Ticino

MEDIOEVO

Piazza Ghislieri

settembre

11

Viale Lungo Ticino Sforza

A

Castello Visconteo (sede Musei)

B

Università

C

Stazione FS

101


Dossier Didascalia aliquatur adi odis

Un assedio leggendario

Storie di un re spietato e di un cavallo goloso Narra Paolo Diacono che i Pavesi resistettero per ben tre anni, dal 569 al 572, all’assedio di Alboino. Alla fine, però, capitolarono e, quando il re stava per entrare in città, il suo cavallo cadde e non fu piú possibile farlo rialzare. Un suo suddito ricordò allora al sovrano che aveva giurato di sterminare tutti gli abitanti, e aggiunse che solo infrangendo

questo voto cosí empio sarebbe potuto entrare in città. Alboino promise di risparmiare i cittadini, al che il suo cavallo subito si risollevò, permettendogli l’ingresso a Pavia. Nel Cinquecento si diffuse un’altra versione della leggenda, che situa gli eventi alla vigilia di Pasqua e secondo la quale un fornaio convinse il

medievale. Denominata dalle fonti «quae dicitur maior», venne fondata nel VII secolo come templum regium, ossia chiesa regia, per la sua stretta dipendenza dal palazzo reale già eretto da Teodorico e poi restaurato dai Longobardi. Dedicata al santo protettore del regnum, la basilica rimase al centro della vita politica e delle vicende private dei sovrani per buona parte del Medioevo, ospitando le incoronazioni dei re italici: il luogo in cui, secondo la tradizione, avvenne quella di Federico Barbarossa, per esempio, è indicato da cinque cerchi di marmo al centro dei quali compare una rappresentazione stilizzata della corona ferrea. La chiesa subí molte vicissitudini, dal saccheggio degli Ungari nel 924 al devastante incendio del 1004, finché non fu danneggiata irreparabilmente dal terremoto del 1117, tanto da dover essere abbattuta per far posto all’attuale edificio in stile romanico. Nulla o quasi è rimasto della chiesa longobarda, ma il Chronicon Novalicense, redatto entro la prima metà dell’XI secolo, narra che, durante l’assedio franco, Desiderio vi si recasse ogni sera a pregare: anche per questo non può che essere considerata un luogo-simbolo imprescindibile. S. PIETRO IN CIEL D’ORO Nell’aspetto odierno della basilica di S. Pietro in Ciel d’Oro, consacrata da Innocenzo II nel 1132, non vi sono tracce dell’edificio eretto nel VI secolo e reso splendido da Liutprando. Il ricordo del sovrano è legato alla traslazione delle reliquie di sant’Agostino di Ippona dalla Sardegna, decisa nel 722 per metterle al riparo dalle incursioni saracene. I resti del grande dottore della Chiesa – che riposavano a Cagliari, nell’omonima cripta – erano stati trasportati sull’isola nel 504 dall’Algeria per mano di Fulgenzio di Ruspe in fuga dai vandali di

102

vero ent qui reque a desistere dal suo intento, doloreium conectu promettendogli in cambio un dolce eatur arehendebis forma di colomba, alla vista del tendamusam quale il cavallo si rianimò. A ricordare consent, di perspiti l’assedio Pavia c’è oggi una lapide, nisaffacciata su corso suconseque una casa maxim eaquis Garibaldi (dove un tempo si apriva cones di San Giovanni): laearuntia porta orientale apienda. collocata, nel Cinquecento, l’avrebbe l’erudito locale Antonio Maria Spelta.

Trasamondo: l’attuale Arca marmorea fu però realizzata nel 1362 ed è considerata un capolavoro della scultura gotica lombarda. Nella cripta riposano invece i resti di Severino Boezio, il grande filosofo consigliere di Teodorico e autore del De Consolatione Philosophiae, dal re goto ingiustamente accusato di tradimento e fatto uccidere dopo una lunga detenzione (vedi «Medioevo» n. 247, agosto 2017). Tornando a Liutprando, accanto alla basilica fondò anche un monastero benedettino maschile (oggi gestito dagli Agostiniani), che conobbe grande ricchezza nei secoli successivi. Alla sua morte, venne sepolto nel mausoleo di S. Adriano, presso la basilica di S. Maria alle Pertiche, per poi essere traslato, nel XII secolo, in S. Pietro: oggi la tomba si trova alla base dell’ultimo pilastro della navata destra, vicino a un’iscrizione che ne ricorda le gesta. S. GIOVANNI DOMNARUM Secondo Paolo Diacono, la regina Gundeberga, figlia di Teodolinda e Agilulfo, «sull’esempio di quel che sua madre aveva fatto a Monza costruí una basilica in onore di san Giovanni Battista nella città di Ticinum e la adornò in maniera mirabile con ori, argenti e paramenti sacri, dotandola riccamente di tutto; lí riposa sepolto anche il suo corpo». La chiesa di S. Giovanni Domnarum, detta «delle donne» perché frequentata dalla regina e dal suo seguito femminile (per altri, invece, per via della presenza di un battistero a loro dedicato) ha oggi un aspetto barocco: fu infatti distrutta già dagli Ungari e poi dall’incendio del 1004, quindi piú volte riadattata fino alla definitiva risistemazione del Seicento. Mantiene però ancora in buone condizioni di leggibilità la cripta, con capitelli e pilastrini che risalgono all’epoca longobarda (forse provengono proprio dal mausoleo di Gundeperga) e materiali di reimpiego romani derivanti dalle terme che sorgevano nei pressi. settembre

MEDIOEVO


A destra Pavia, monastero di S. Felice. Uno scorcio della cripta, rinvenuta durante i restauri effettuati nell’ultimo decennio del XX sec., che custodisce le tombe delle monache, databili tra l’VIII e il IX sec. Nella pagina accanto pendente aureo decorato. VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La pianta parzialmente circolare dell’originario tempio della principessa seguiva il modello delle Grabkirchen regie, ispirate a loro volta alla rotonda dell’Anastasis costantiniana che racchiudeva a Gerusalemme il Santo Sepolcro. Un confronto interessante, da questo punto di vista, è dato dallo studio della chiesa di Saint-Pierre di Ginevra, ricostruita da Sigismondo re dei Burgundi nel 513-15 come mausoleo a struttura circolare. EX MONASTERO DI S. FELICE Sito nelle adiacenze di piazza Botta, il «monastero della Regina» venne fondato da Ansa, moglie di Desiderio, nella seconda metà dell’VIII secolo con l’intitolazione al Salvatore, ai santi Pietro e Paolo e a san Daniele. Il piú antico documento che lo riguarda è un diploma dello stesso Desiderio, datato 771, in cui risulta dipendere dal monastero bresciano di S. Salvatore. All’inizio dell’XI secolo, il cenobio si affrancò da Brescia e assunse l’intitolazione a san Felice, martire del III secolo di cui conserva le reliquie. Della chiesa altomedievale

MEDIOEVO

settembre

rimangono oggi visibili solo il fianco esterno meridionale, articolato in arcate cieche, e la suggestiva cripta a corridoio – vi si accede dalla Facoltà universitaria di Economia e Commercio –, dotata di grandi arche in marmo di età carolingia (IX-X secolo). Recenti scavi (1996) hanno riportato alla luce l’originale forma a navata unica della chiesa, provvista di tre absidi e atrio adibito a cimitero per le monache. Tra le tombe, del tipo alla cappuccina, la piú interessante è quella della «abatissa Ariperga»: databile alla fine dell’VIII secolo, presenta raffinate decorazioni pittoriche, tra cui una croce e i quattro vangeli. CRIPTA DI S. MARIA ALLE CACCE La cripta della chiesa di S. Maria alle Cacce è ciò che rimane dell’antica chiesa di S. Maria foris Portam, cosí denominata in quanto collocata appena fuori da Porta Palacense. Sebbene la tradizione la assegni a Ratchis, venne fondata molto probabilmente da Ragimperto, che fu sovrano solo per pochi mesi, nell’anno 700. Anticamente l’edificio era sede di un monastero:

103


Dossier A sinistra Pavia, monastero di S. Maria alle Cacce. Scorcio di uno degli ambienti trasformati durante il XVII sec. In basso placchetta rettangolare con decorazione a smalto cloisonné. IX sec. Venafro, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto Pavia, chiesa di S. Eusebio, cripta. Affresco raffigurante i quattro evangelisti. XIII sec.

rimaneggiato come la chiesa nel 1629, fu soppresso in età napoleonica, e nel Novecento trasformato in edificio scolastico (oggi ospita una scuola media). L’edificio longobardo – piuttosto esteso: doveva essere lungo 33 m e largo 15, una dimensione notevole per l’epoca – è stato inglobato dalla chiesa barocca: oggi restano visibili solo una finestra in laterizio, incassata nella muratura che dà verso via Scopoli, un capitello corinzio del VI secolo murato nel coro (già di riutilizzo all’epoca della prima costruzione della chiesa) e la cripta. CRIPTA DI S. EUSEBIO La testimonianza longobarda pavese forse piú suggestiva è la cripta di S. Eusebio, unico resto del vasto complesso ecclesiale che Paolo Diacono testimonia già esistente al tempo di re Rotari (636-652)

104

ma utilizzato come chiesa ariana: l’intitolazione al vescovo di Vercelli, noto per il suo zelo contro i pagani e chi professava l’arianesimo – confessione giudicata eretica già dal concilio di Nicea del 325 –, risale a dopo la conversione dell’ultimo vescovo ariano, Anastasio (680), e ha quindi valore esaugurale. Già ristrutturata in epoca romanica, la chiesa venne rifatta nel XVII secolo, per poi essere sconsacrata agli inizi dell’Ottocento e infine abbattuta nel 1923 per far spazio al Palazzo delle Poste. La cripta venne interrata e tale rimase fino al 196768, quando fu riportata alla luce, restaurata e dotata di una moderna tettoia protettiva. Una volta entrati, si possono apprezzare l’antica pianta a ferro di cavallo dell’edificio, le murature dell’originaria costruzione del VI-VII secolo e i capitelli in pietra che sormontano le dieci colonne, lavorati a incavo in forme di triangoli e foglie: dal punto di vista stilistico, testimoniano il passaggio dell’arte barbarica da una fase piú naturalistica a una piú geometrizzante, e il loro aspetto (oggi sono bianchi) in origine doveva essere policromo con inserti in pasta vitrea e dorati lungo i bordi. Notevoli, anche se piú tardi (XIII secolo), sono anche i lacerti di affreschi che raffigurano la Madonna col Bambino, il Cristo, gli evangelisti e una teoria di santi e sante, molti dei quali però risultano ormai poco leggibili. settembre

MEDIOEVO


I GIOIELLI PERDUTI Di altri luoghi «longobardi» pavesi oggi resta solo il ricordo. Uno di questi è il palazzo regio, costruito da Teodorico e ampliato dai nuovi sovrani che gli affiancarono la chiesa regia di S. Michele Maggiore. Il palazzo venne distrutto durante la rivolta del 1024 e non se ne conservano resti visibili. Anche la sua ubicazione è materia di discussione: la teoria piú accreditata è che sorgesse all’estremità del Decumanus maximus. Nei pressi del palazzo, re Petrarito fece costruire la Porta Palacense (ne rimane traccia nell’omonima via). L’edificio fu teatro di congiure e tradimenti e vittima di una spoliazione: re Ariperto II, nel tentativo di rifugiarsi presso i Franchi per mettersi in salvo dall’accorrente Ansprando, che gli contendeva il regno, trafugò il tesoro ma, appesantito dal carico, affogò nel Ticino. Una recente (2015) indagine con il georadar ha rilevato nel sottosuolo tra via Porta, via Corridoni e via Ressi la presenza di mura di grandi dimensioni. L’area è conosciuta come «Il Giardino del Re» e oggi appartiene alla Fondazione Nascimbene: potrebbero queste mura essere i resti del famigerato palazzo regio? È invece ben nota l’ubicazione della chiesa di S. Maria delle Pertiche, oggi ricordata dalla via omonima nella zona nord-est della città. Fondato, secondo Paolo Diacono, nel 677, poco fuori dalle mura, l’edificio fu voluto da Rodelinda, moglie di Pertarito. Il nome deriverebbe, come attesta ancora Paolo, dall’uso, praticato dai Longobardi quando erano ancora pagani, di erigere, in ricordo di chi era morto lontano, pertiche sormontate da colombe di legno orientate in direzione del luogo della

MEDIOEVO

settembre

scomparsa. Tale usanza fu forse mutuata dalle genti delle steppe (era presente anche presso i Goti), ma dopo la conversione venne ben presto dimenticata: ne rimase il ricordo nella sola chiesa di S. Maria, che doveva sorgere vicino al cimitero di pertiche. In origine la chiesa, che ospitò anche incoronazioni regie (come quella di Ildebrando nel 735), aveva pianta circolare, che fu riveduta nel corso dei secoli fino alla sua demolizione nel 1813. Due colonne restano oggi nei Musei Civici, altre due presso Porta Milano. Anche il Duomo, che risale al Rinascimento, sorge su vestigia longobarde: S. Stefano, la prima cattedrale dopo la conversione dei Longobardi al cattolicesimo, e S. Maria Maggiore (detta «del Popolo»), la cattedrale invernale fatta costruire qualche anno dopo dal nobile Anso. All’esterno del Duomo, sulla sinistra, si notano i resti del fianco nord della prima, edificata forse dal vescovo Damiano nel VII secolo; all’interno, al livello della cripta, resta invece visibile qualche lacerto della seconda. Le due chiese gemelle furono fondate nel VI-VII secolo. Lungo l’odierna via Sant’Agata, dove ha sede il Policlinico, sorgeva la chiesa di S. Agata al Monte. A volerla fu Pertarito: il toponimo «monte» è dovuto al fatto che l’area era leggermente in altura rispetto al vicino fiume Ticino, verso il quale la strada risulta tuttora in pendenza. Là dove oggi si trova il Seminario Vescovile, infine, sorgeva il monastero di S. Maria Teodote. Ne resta visibile il chiostro, rifatto nel Quattrocento, mentre per visitare la chiesa occorre recarsi sul retro: qui, passata una botola, si accede ai resti dell’antico oratorio di S. Michele Arcangelo, detto in seguito «alla Pusterla», perché collegato a una porta pedonale che si apriva nelle mura. Il primo edificio di culto venne fondato alla fine del VII secolo da un certo Gregorio (lo attesta un privilegio di Lotario I dell’839). L’intitolazione di S. Maria Teodote si deve invece a un fatto scabroso avvenuto al tempo di Cuniperto e narrato ancora una volta da Paolo Diacono. Secondo lo storico, la moglie del re, l’anglosassone Ermelinda, vide un giorno alle terme del palazzo reale «una fanciulla di nobilissima stirpe romana, di corpo assai leggiadro e con i capelli biondi e lunghi fin quasi ai piedi e ne lodò la bellezza al marito. Costui, pur fingendo di infastidirsi ai frivoli discorsi della moglie, s’infiammò invece d’ardente passione per la ragazza. Dopo non molto tempo, recatosi a caccia nel bosco che si chiama Urbe, ordinò a Ermelinda di raggiungerlo; quindi, di notte, tornò a Pavia e, fattasi portare Teodote, giacque con lei e poi la mandò in un monastero pavese al quale rimase il nome della fanciulla». L’oratorio di S. Michele fu abbattuto nel 1868 quando fu costruito il Seminario. Dal convento provengono i due plutei di Teodote conservati ai Musei Civici, tra gli esempi di scultura piú alti della cosiddetta «Rinascenza liutprandea». E che con i loro enigmatici pavoni e grifoni, hanno ancora oggi una storia lunga da raccontare.

105


CALEIDO SCOPIO

Storie, uomini e sapori

Le regole dei quattro maestri «N

el corpo dell’uomo vi sono il sangue, il flegma, la bile gialla e la bile nera che ne costituiscono la natura e sono la causa della malattia e della salute. Quando questi umori sono in giusta proporzione e quando la loro mescolanza è compiuta vi è salute perfetta. Vi è malattia quando uno di questi umori, in eccesso o in difetto, si isola da tutti gli altri». Il medico Polibo (o Polibio) di Kos – vissuto tra il IV e il III secolo a.C. e da non confondere col piú noto

106

Polibio di Megalopoli, storico del II secolo a.C. – compendia cosí la dottrina umorale ippocratica, la prima teoria eziologica della malattia apparsa nel mondo occidentale. In tale visione, un’infermità non è piú una punizione divina scongiurabile con preghiere e riti magici oppure ricorrendo a superstizioni, ma è invece in rapporto di interdipendenza e complementarietà con cause biologiche che

scaturiscono da un disequilibrio dei fattori intrinseci all’organismo umano, dovuto anche a errori alimentari o da questi aggravato. Ippocrate di Kos, che fu maestro di Polibo, stabilí che la bile nera (o atrabile) ha sede nella milza e coincide con la terra; la bile gialla (detta anche collera) dimora nel fegato e si identifica col fuoco; il flemma (o flegma) abita nella testa e corrisponde all’acqua, mentre settembre

MEDIOEVO


Nella pagina accanto miniatura raffigurante una visione idealizzata della Scuola Medica Salernitana, da un’edizione manoscritta in ebraico del Canone di Medicina di Avicenna. XV sec. Bologna, Biblioteca Universitaria. A destra miniatura raffigurante la dieta suggerita dal Regimen Sanitatis della Scuola Medica Salernitana, da un’edizione manoscritta del XIV sec. Napoli, Biblioteca Nazionale. l’aria si identifica col sangue, che ha sede nel cuore. Ne conseguono cosí quattro temperamenti (sanguigno, collerico, melanconico, flemmatico) e quattro qualità elementari (freddo, caldo, secco, umido) che sono riconoscibili anche nei cibi. Sistematizzato nel II secolo d.C. da Galeno di Pergamo, il pensiero di Ippocrate trovò convinta accoglienza in tutto l’Occidente, soprattutto a opera della celebre Scuola Medica di Salerno, una città allora al centro degli scambi economici e culturali con l’Oriente e l’Africa.

Un’arte medica raffinata Nata probabilmente nel IX secolo grazie al leggendario incontro di quattro maestri – il salernitano Salernus, il greco Pontus, l’arabo Adela e l’ebreo Helinus –, la Scuola elaborò i postulati ippocratici alla luce degli insegnamenti dalle culture bizantina, araba ed ebraica, creando un’inedita forma di sincretismo scientificofilosofico, da cui scaturí un’arte medica raffinata, pratica, diligente, aperta anche alle donne e fondata sull’osservazione e il ragionamento: una visione modernamente olistica, in cui il corpo e la mente umana rappresentavano un unico microcosmo immerso nel macrocosmo della natura. Tra l’XI e il XIV secolo gli insegnamenti impartiti a Salerno (definita anche Hippocratica Civitas) erano paragonati a quelli delle grandi Università di Bologna e Parigi, e le Costituzioni melfitane (1231) di Federico II stabilirono che

MEDIOEVO

settembre

solo coloro che avevano conseguito il diploma rilasciato dalla Schola Salerni potevano esercitare la professione di medico. Questa notorietà era dovuta non solo alle competenze e alle abilità degli archiatri salernitani, ma anche all’opera didattica e divulgativa dei maestri, che produssero un’imponente letteratura medico-filosofica, terapeutica e farmacologica, realizzata sia traducendo testi dal greco, dall’arabo e dall’ebraico, sia elaborando opere originali, come quelle di Giovanni Plateario (De aegritudinum curatione e Practica brevis), di Cofone (De arte medendi) e di Alfano arcivescovo di Salerno (Premnon physicon seu stipes naturalium, Depulsibus e De quatuor umoribus). Risale al XIII secolo L’Articella, un corpus di sette trattati che demoliscono alle radici il fanatico misticismo medievale ed esortano a servirsi di tutti i beni terreni che la natura ha elargito per controllare gli umori del corpo; fu il testo obbligatorio per gli studenti di medicina sino al XV secolo e andò arricchendosi di glosse e postille dei professori che la commentavano nelle loro lezioni.

I manoscritti della tradizione medievale salernitana giunti fino a noi classificano ed esaminano le qualità medicamentose di moltissime piante usate per sanare malattie e ansie, per gestire la sessualità, la gravidanza, migliorare l’igiene del corpo e mantenerlo sano, curando particolarmente l’alimentazione.

Alla ricerca dell’equilibrio Il testo piú noto è un’opera anonima derivata dalla consuetudine popolare del X secolo: il Regimen Sanitatis Salernitanum, o De conservanda bona valetudine, noto anche come Flos medicine, un poema in esametri in origine composto da 363 versetti, che nelle numerose riedizioni successive crebbero fino a 1639. Lo stile è quello tipico dei tacuina sanitatis, manuali di scienza medica molto diffusi fino alla metà del XV secolo, usati per divulgare – spesso in forma poetica e ricorrendo anche a miniature – i precetti della natura e della materia, con lo scopo di salvaguardare la salute e attenuare l’angoscia della malattia e della morte grazie a un perfetto equilibrio tra uomo e creato.

107


CALEIDO SCOPIO Suggerimenti preziosi Dall’amabile traduzione di Pietro Magenta datata 1835 e intitolata La Scuola Salernitana ossia precetti per conservar la salute. Poemetto del secolo XI ridotto alla sua vera lezione e recato in versi italiani, Pavia presso Luigi Landoni, ecco alcuni esempi di consigli di dietetica relativi al cibo: Salvia e ruta nel bicchiere Ti faran sicuro i bere: Se di rosa aggiugni il fiore, Scemerai l’estro d’amore. Senza vino la porcina Carne è della pecorina Ben peggior: se al vin si mesce Quasi farmaco riesce. Del majal son buon i quarti, Son cattive l’altre parti. Son le rape esche dietetiche Per lo stomaco e diuretiche; Però molto flatulenti, Ed assai nocive ai denti. Chi mal cotte le assapora Della colica addolora. Del finocchio le sementi Caccian fuori l’ano i venti. Quando i pesci a fibre molli Han gran corpo, tén satolli: Se le carni han dure, allora I piú piccoli assapora. Sieno luci a tinche uniti, Sieno persici, e cobiti, Morve, raje con carpioni, Gorni, sfoglie, e salamoni.

Sana il fico strume, ghiande, E i tumor su’ cui si spande. Se il papaver gli si aggiunge L’ossa infrante ad estrar giunge. Crea pidocchi e voglie oscene, Ma chiunque le previene E’ il granel piccolo ed alido Della senape assai calido: Purga il capo, il tosco smove, E le lagrime promove Giova al tisico il caprino Latte, e poscia il cammellino. Nel nutrir, sopra ogni greggia, Quello d’asina primeggia. Quel di vacca è pur nutriente, Quel di pecora egualmente. Per chi ha febbre o mal di testa Esca è il latte ognor funesta. Cibo è il cacio freddo, agresto, Grossolano, ed indigesto: Perciò il cacio al pan frapposto E’ pel sano un buon composto Ma per quei che non è sano Anche il pan v’unisci invano. Posto il cacio fra i nocenti Cibi han medici inscïenti.

labbro accosta / sobrio, e di rado, ad una parca cena / siediti, e passeggia un po’ dopo la mensa, / nelle ore del meriggio al pigro sonno /non ti donar, non ritener l’orina / e l’ano comprimere non devi o farle forza. / Cosí osservando ben questi precetti/lungamente godrai vita felice. / Se ti mancano i Medici, siano per te farmaco/ queste tre cose: l’animo lieto, / la quiete, e la moderata dieta». Le redazioni in latino del Regimen furono una quarantina fino al XVI secolo e continuarono in forma critica o tradotte ancora nel XVII, con l’edizione inglese di John Harington del 1608, una parigina di Renato Moreau (1625) e quella pregevole di Zaccaria Silvio (1649). Johann Christian Ackermann riprese nel 1790 il testo originale di Arnaldo da Villanova, con una vasta e puntuale prefazione sulla storia della Scuola, mentre Salvatore De Renzi pubblicò i regimina nella sua Collectio Salernitana in 5 volumi (1852-1859). La Schola Salerni fu attiva fino al 1811, quando fu soppressa dal re Gioacchino Murat con un decreto che riconobbe valide solo le lauree rilasciate dall’Università di Napoli. Tuttavia le «Cattedre di Medicina e Diritto» rimasero operative a Salerno fino alla loro chiusura, voluta dall’allora Ministro dell’Istruzione del Regno d’Italia, Francesco De Sanctis nel 1861. Sergio G. Grasso

Il cibo in un’altra miniatura tratta da un’edizione manoscritta del Regimen Sanitatis della Scuola Medica Salernitana. XIV sec. Napoli, Biblioteca Nazionale. Nel XIII secolo il Regimen venne rielaborato e commentato dal medico e alchimista catalano Arnaldo da Villanova (1240-1313). Il suo incipit all’opera – data per la prima volta alle stampe nel 1480 – cosí recita in una traduzione ottocentesca: «Se vuoi sia tua la sanità perfetta / ed immune serbarti da ogni male / scaccia le gravi cure, e non dar luogo / all’ira passion truce e profana. / Al calice di Bacco il

108

settembre

MEDIOEVO



CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Gubert H iulianoHP ouben into Federicomedievale Firenze II. Imperatore, e dintorni uomo, Viella, Roma, 228 pp. mito Universale 25,00 euro Paperbacks, ISBN ocietà 9788867287079 editrice il Mulino, S www .viella , 208 .it pp., ill. b/n Bologna 12,50 euro

Riunendo saggi editi ISBN 978-88-15-13338-0 e inediti, il volume Nato dall’unione tra il approfondisce alcuni tedesco Enrico VI e la momenti e peculiarità normanna della storiaCostanza di Firenze D’Altavilla, II, tra il XIII e ilFederico XVI secolo. imperatore del regno In primo luogo, il romano-germanico rapporto fra la città ee regno di Sicilia, fu idel suoi mercanti: la loro uno dei la protagonisti cultura, possibilità piùmobilità controversi dell’età di sociale, di mezzo. Gliesercitata aspetti l’attrazione della personalità del dalla città di Dante sovrano, i suoideirapporti nei confronti famigliari e l’evoluzione mercanti-artigiani dei del mito generato centri minori, come nel corso secoli Borgo Sandei Sepolcro figura, sono esulla Sansua Gimignano. indagati da luogo, Hubert In secondo Houbendella nellepolitica tre parti aspetti di cui si compone economica, come il testo. l’approvvigionamento In apertura, dei generi alimentari l’autore ripercorre nel Trecento, e della sinteticamente politica estera (ile tappe della storia Fiorentini nelsua Regno politica, di Napolisegnata in età dal conflittoViene con angioina). le città presa dell’Italia quindi in esame settentrionale e dal l’evoluzione economica scontrodella con il eviolento demografica papato. Scomunicato Toscana fra il XIII volte, e ilperdonato XV secolo,più con Federico lottò per la particolare attenzione nettal’economia separazione per tra potere spirituale mezzadrile e per i e temporale riflessi socialiedel per legittimare la sistema economico. sacralità Gli ultimi dell’istituto due saggi, imperiale. Si distinse sulla storiografia, per i suoi importanti affrontano, l’uno, interventi l’opera di economici Robert e amministrativi, per Davidsohn

110

l’ampia apertura (1853-1937), autore culturale della sua della monumentale corte, composta Storia di Firenze, da studiosi ebrei e ricca di riferimenti musulmani, eeper i suoi documentari numerosi interessi. ancora oggi punto La figura dell’imperatore, di riferimento tratteggiata per indispensabile sullevoglia sembianze chi accostarsi dell’anticristo nei alle vicende della toni apocalittici della città nel Medioevo (al propaganda o, punto che si papale potrebbe al contrario, associata attribuire anche a lui a quellaera salvifica quanto stato detto delArmando messia inSapori: quella di di parte imperiale, «non scrive la storia, attraversa i secoli, fino a giungere all’epoca contemporanea. Prescindendo da strumentalizzazioni demagogiche e leggende moderne, l’imperatore rimane un uomo del suo tempo, ma con il merito di aver lasciato un’eredità ideologica importante per lo sviluppo della coscienza la vive»). Ilmoderna. secondo Stefania riguarda inveceSapuppo l’opera di Elio Conti Paul Freedmanstorico (1925-1986), Il gusto delle spezie delle campagne nel Medioevo fiorentine, della Biblioteca storica, Società demografia e della editrice il Mulino, Bologna fiscalità, nonché pp., ill. b/n 313 autorevole 28,00 euro editore di fonti. Tra i temi su cui ISBN: 978-88-15-13332-8 l’autore si sofferma, Provenienti da luoghi vanno ricordati quelli lontaniricchezza e misteriosi, della e della le spezienelle nell’Europa povertà città furono veri emedievale nelle campagne e propri oggetti toscane fra XIII edel XV desiderio, simbolo secolo, e dei livelli di agiatezza e prestigio vita nell’economia sociale per un’ élite mezzadrile. Un altro che ne ostentava aspetto che gli è pubblicamente ilcaro è particolarmente

l’attività degli operatori consumo. I primi economici capitoli delnelle volume «quasidedicati città» della sono all’uso Toscana: esamina che si faceva di perciò ipreziose traffici di un queste mercantearomatiche, e tintore di sostanze guado di Sansepolcro essenziali non solo (XIV secolo), e quelliper nella gastronomia, di un mercante insaporire e profumare sangimignanese piatti raffinati, ma (1353-1437). Vengono largamente utilizzate quindi per analizzati anche le loroi requisiti necessari proprietà curative e la per ottenere la capacità di contribuire cittadinanza al benesserefiorentina, e tra i quali, in del primo all’equilibrio corpo possesso di eluogo, dellailmente. sostanze, Eadeguate ancora, bruciate fatteritidicristiani capitali nei mercantili piú che di di purificazione oimmobili distillate(questi come ultimi, allora come oggi, mira essenze, le spezie precipuail del fisco), ebbero potere di e frutto dii mercanti duro e spingere sagace lavoro, perlopiú ad avventurarsi nell’ambito della fino agli angoli più mercatura. remoti del mondo, Maria Paola Zanoboni segnando nuove rotte commerciali ichela Pereira eMalimentando la Ildegarda di Bingen spinta espansiva Maestra di sapienza oltre i confini nel suo tempo e oggi conosciuti. L’autore Il Segno dei Gabrielli traccia la via verso Editori, San Pietro in leariano spezie, prendendo (Verona ), C in considerazione i 176 pp., ill. col. luoghi di provenienza, 15,00 euro iISBN costi978-88-6099-313-7 e le tipologie www .gabriellieditori.it di commercio, concludendo con i Ormai che da tempo, ea motivi portarono livello internazionale, si all’attenuarsi di è acceso un passione. notevole questa forte interesse sulla Un’interessante figura della mistica sezione è dedicata benedettina alle teorie medievali (e poi santa) censorie e moraliste Ildegarda di Bingen che condannavano (1098-1179). E un l’uso di questi prodotti impulsoconsiderati fondamentale esotici,

di piacere èforme venuto dall’edizione transitorio e simboli critica integrale delledi ostentazione e avidità. sue opere, avviata nel 1978 e ultimata nelS. S. 2016. In questa scia Chiara Guarnieri si inserisce Michela Il bello studiosa dei butti.di Pereira, Rifiuti emedievale, ricerca filosofia archeologica che ripercorre a Faenza tra di l’intera vicenda Medioevo ed Età questo singolare ed Moderna eclettico Quaderni dipersonaggio. Archeologia L’autrice la dell’Emilia sviluppa Romagna, 24, sua trattazione in , del Giglio All’insegna pp., ill. col . Firenze, 174 maniera rigorosa, con 28,00 euro supporto il costante ISBN: 978-88-7814-404-0

In epoca medievale, gli statuti delle città stabilivano norme precise che regolavano lo smaltimento dei rifiuti, vietando ai cittadini di abbandonarli all’aperto. Erano dunque fognature e cisterne abbandonate o buche scavate nel terreno orti e delle fonti edifrequenti giardini domestici rimandi alla vasta a trasformarsi in bilbiografia esistente discariche, in materia, accogliendo ma ha il pattume. Oggi, ili butti, al tempo stesso grazie all’importante pregio di adottare massa informazioni uno stilediscorrevole, forniscono, che rende il volume rappresentano perai accessibile anche i ricercatori uno dei non specialisti. principali strumenti Né mancano i di conoscenza della riferimenti all’eredità vita quotidiana nel lasciata da Ildegarda epassato. alla percezione che I butti di lei sirinvenuti, ha oggigiorno, inquadrabili in un arco non priva di curiose cronologico va derive, comeche quella dal XIV XVIII secolo, che l’haalportata a vengono analizzati diventare una sorta di nel lorodella complesso icona New Age.e in relazione singoli StefanoaiMammini

ambiti di provenienza. In appendice sono presentati alcuni contributi specialistici, tra cui un intervento dedicato alle pratiche di recupero e restauro del materiale ceramico, nel caso Maria Beatrice faentino curato Autizi Le Stelle did’Arte Giotto dall’Istituto Enrico Scrovegni Ballardini. e i Templari S. S. Editoriale Programma, Treviso, 389 pp.

15,00 euro ISBN 978-88-6643-413-9 www.editorialeprogramma.it

Già docente di storia dell’arte, Maria Beatrice Autizi propone, in forma di romanzo, una nuova interpretazione degli affreschi realizzati da Giotto nella Cappella degli Scrovegni, avanzando l’ipotesi che in essi si possano individuare segni d’ispirazione templare. Come l’autrice stessa scrive nella Premessa, «le relazioni tra Enrico Scrovegni e i Templari (…) non sono testimoniate da alcun documento», ma sarebbero appunto alcuni particolari delle pitture a giustificare l’associazione. Un’idea non priva di fascino, sviluppata in un racconto godibile, dal quale traspare l’ampio vaglio delle fonti disponibili sul periodo storico in cui si collocano gli eventi. S. M. settembre

MEDIOEVO


Da Venere alla Vergine V

igevano vide nel XV secolo un periodo di grande splendore, grazie all’amore di Francesco Sforza, e successivamente di Ludovico il Moro per questa amena cittadina, tanto da divenire un importante centro di potere, grazie anche alla mirabile opera urbanistica di Donato Bramante e di Leonardo da Vinci. Anticamente identificata da alcuni col nome di «Vicus Veneris», ben presto venne soprannominata «Vicus Virginis» per la profonda venerazione che i Vigevanesi provavano nei confronti della Vergine Maria, a cui dedicarono una quindicina di chiese. Tale devozione per il sacro fu infervorata da frate Matteo dell’Ordine dei Domenicani, il quale, alla metà del XIV secolo, giunse a Vigevano e vi rimase fino alla sua morte, sopraggiunta il 5 ottobre 1470. Durante il suo soggiorno presso il convento di S. Pietro Martire compí miracolose guarigioni e conversioni, tanto da conquistare il cuore del popolo vigevanese, che lo venerò presto come «beato», proclamazione ufficializzata dalla Chiesa nel 1482.

Dodici parrocchie per dodici contrade È in suo onore che nel 1981 nacque il Palio delle Contrade, che ancor oggi vede gareggiare dodici contrade, abbinate alle dodici parrocchie cittadine. Accanto ai personaggi del Corteo Ducale, raffiguranti le antiche famiglie nobili del borgo vigevanese (recuperate

settembre

111

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

MEDIOEVO

attraverso una fedele ricerca storica effettuata dall’Associazione Sforzinda), oggi si possono ammirare i popolani, riuniti nelle differenti corporazioni, che animano il borgo medievale ricreato nel cortile del Castello Sforzesco. Il Palio è stato arricchito in questi ultimi anni dalla creazione di alcuni gruppi storici: • I l Biancofiore, gruppo di danza rinascimentale urora Noctis, gruppo di giocoleria •A •M usici e Alfieri dell’Onda Sforzesca, gruppo di tamburi e sbandieratori •A rmeria Ducale. L’evento di quest’anno è in programma da venerdí 6 a domenica 8 ottobre. A dare il via alla manifestazione, venerdí 6 sera, sarà la fiaccolata delle contrade da Piazza Ducale verso la chiesa di S. Pietro Martire, per deporre un cero ai piedi dell’urna che custodisce le spoglie del Beato Matteo. Sabato 7, dalle 16,00 fino a notte e domenica 8 ottobre il centro vigevanese si trasformerà nel magnifico borgo rinascimentale dei tempi d’oro: si potrà assistere allo svolgersi dei giochi per la conquista dell’ambito cencio e passeggiare fra dame, cavalieri, popolani e armigeri. Piú di 500 figuranti comporranno il grande corteo che sfilerà nel pomeriggio di domenica. Banchetti allestiti dalle contrade offriranno, entrambi i giorni, gustose pietanze dell’epoca e rappresentazioni degli antichi mestieri, fra spettacoli e animazioni di strada, con sbandieratori, musici, danzatori e giocolieri. Info: www.paliodivigevano.it


CALEIDO SCOPIO

Un libro rosso per la Madonna Nera

MUSICA • Jordi Savall

guida la Capella Reial de Catalunya e Hespèrion XXI in una magnifica edizione del Llibre Vermell de Montserrat, un documento di eccezionale importanza sulle pratiche devozionali in onore della Moreneta 112

N

el Medioevo, le mete di pellegrinaggio furono anche i luoghi privilegiati nei quali si andò diffondendo una specifica produzione musicale d’ambito devozionale. Si pensi, per esempio, al cammino di Santiago e, restando in area ispanica, alla devozione per la «Vergine Nera» (la cosiddetta Moreneta) del monastero di Montserrat, in Catalogna. La devozione per la «Madonna Nera», raccontano le leggende, nacque dal ritrovamento da parte di alcuni pastori della miracolosa immagine in

una grotta nei pressi del Montserrat. Lí venne edificata la prima cappella, che fu poi trasformata in monastero benedettino, ancora oggi frequentatissima meta di pellegrinaggio.

La voce dei fedeli I canti legati alle pratiche devozionali durante il Medioevo costituiscono una vera e propria vox populi, in cui è la collettività dei fedeli a farsi promotrice e «creatrice» di repertori tramandati oralmente; solo in casi sporadici, settembre

MEDIOEVO


A sinistra il monastero di Montserrat, in Catalogna, sorto nei pressi della grotta in cui alcuni pastori avrebbero trovato l’immagine miracolosa della Moreneta, la Madonna Nera. vita del monastero, sui miracoli in esso avvenuti e, in particolare, include anche una piccola raccolta di 10 canti devozionali, due dei quali oggi perduti. Ma la peculiarità del Llibre Vermell sta anche nella eccezionale presenza di indicazioni coreografiche, oltre che musicali: un’attività devozionale a tutto tondo, dunque, che univa canto e danza, quest’ultima eseguita in circolo, come indicato dalla fonte, per allietare i pellegrini nell’attesa che precedeva la venerazione dell’icona miracolosa.

Matrice popolare

i canti vennero notati in forma scritta per essere piú agevolmente trasmessi alle generazioni future. In questo senso il Llibre Vermell di Montserrat, manoscritto composito allestito alla fine del XIV secolo, è di fondamentale importanza per la conoscenza delle pratiche legate alla devozione della «Madonna Nera». Sopravvissuto alle devastazioni napoleoniche del monastero, il Llibre Vermell – detto «rosso» per via del colore del velluto scelto per la sua rilegatura tardo-ottocentesca – raccoglie ricche informazioni sulla

MEDIOEVO

settembre

Ai canti del Llibre Vermell, il catalano Jordi Savall, memore delle tante visite effettuate durante la sua infanzia a Montserrat, ha voluto dare voce, riproponendo con maestria e fedeltà filologica le esecuzioni musicali che caratterizzarono la vita del monastero tra il XIV e il XV secolo. I brani hanno una comune matrice d’origine popolare e sono composti su testi, anonimi, in latino, catalano e occitano, che celebrano la Madonna quale mezzo di intercessione alla misericordia divina. Pur restando costanti le tematiche dei testi, le musiche, al contrario, sono piuttosto variegate nella struttura e nello spirito, presentandosi sia in forma monodica e ritornellata, sia in polifonia con canoni a due/tre voci. Bellissimo è il brano di apertura e chiusura dell’antologia, l’antifona

Llibre Vermell de Montserrat La Capella Reial de Catalunya, Hespèrion XXI direttore, Jordi Savall Alia Vox AVSA9919, 1 CD + DVD www.alia-vox.com Laudamus Virginem, presentata nella versione monodica e a canone, eseguito dalle voci e dagli strumenti. Momenti particolarmente festosi si respirano nel Cuncti simus concanentes (Cantiamo tutti uniti) o nella danza della morte Ad mortem festinamus, in cui si celebra la vacuità della vita materiale. La Capella Reial de Catalunya e l’Hespèrion XXI sono splendidamente diretti da Jordi Savall, che fa ancora una volta sfoggio della raffinatezza interpretativa e della maestria che gli derivano dalla conoscenza profonda e dalla frequentazione pluridecennale dei repertori medievali catalani. Felice risulta anche la scelta di intercalare i brani vocali con brevi improvvisazioni, affidate a strumenti come il rebab, il duduk, l’arpa, il liuto, il salterio, la cornamusa, lo xeremia, appartenenti alla tradizione medievale occidentale e non solo e che, oltre a esibirsi in brevi assolo, accompagnano l’ottimo ensemble vocale, composto da 11 cantanti. Franco Bruni

113


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.