Medioevo n. 247, Agosto 2017

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MEDIOEVO n. 247 AGOSTO 2017

DIOEVO ME

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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IV E RS A R

www.medioevo.it

DOSSIER

NORMANNI CITTÀ DI CASTELLO SEVERINO BOEZIO

IN

ITALIA Il processo a Boezio

MEDIOEVO NASCOSTO San Caprasio e le pievi della Lunigiana

CITTÀ DI CASTELLO

L’Alta Valle del Tevere e la nascita del genio di Raffaello

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IN EDICOLA IL 1° AGOSTO 2017

Mens. Anno 21 numero 247 Agosto 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SAN CAPRASIO CAMERA OSCURA DOSSIER I NORMANNI IN ITALIA

PROTAGONISTI

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SOMMARIO

Agosto 2017 ANTEPRIMA ANIMALI MEDIEVALI Come isole viventi

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MUSEI All’inizio fu un canonico...

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ITINERARI Meraviglie rivierasche

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MOSTRE Medioevo fiabesco

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APPUNTAMENTI Sia gloria all’Assunta In parata per gli sposi Tempo di penitenza L’Agenda del Mese

20 20 21 26

CALEIDOSCOPIO

PROTAGONISTI Severino Boezio

STORIE

Processo al senatore di Chiara Mercuri

ALTOTEVERE Il sangue e la bellezza

testi di Manuel Vaquero Piñeiro, Erminia Irace e Federico Fioravanti

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SCIENZA E TECNICA La camera delle meraviglie 34

di Flavio Russo

34

50

UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO Diavolo rosso

106

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LIBRI Lo scaffale

110

MUSICA Jacob, virtuoso del contrappunto

112

62

Dossier

MEZZOGIORNO NORMANNO di Tommaso Indelli

LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Lunigiana

Un eremita fra gli idoli di pietra di Elena Percivaldi

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MEDIOEVO

LU LE PIE NI VI D GI EL AN LA A

MEDIOEVO n. 247 AGOSTO 2017

DIOEVO ME

A

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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DOSSIER

NORMANNI CITTÀ DI CASTELLO SEVERINO BOEZIO

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ITALIA Il processo a Boezio

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PROTAGONISTI

11/07/17 12:05

MEDIOEVO Anno XXI, n. 247 - agosto 2017 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e p. 101) e pp. 53, 58, 75, 76, 85, 104-105 – Doc. red.: pp. 5, 59, 88, 90, 92, 94/95, 97, 100, 102/103 – Museo Nazionale di San Matteo, Pisa: pp. 8-10 – Cortesia Igli Kadilli: pp. 12-13 – Cortesia Ufficio Stampa: p. 14 – Cortesia degli autori: pp. 20-21, 37, 39, 42 (basso), 44, 47 (basso), 79-83 – Mondadori Portfolio: Leemage: pp. 34/35; Album: pp. 52/53, 54, 56/57; Electa/Sergio Anelli: p. 57; AKG Images: p. 96, 106 – Marka: Claudio Ciabochi: pp. 35, 45 (alto); Alain Schroeder: pp. 36, 45 (basso); Danilo Donadoni: pp. 38/39; Marco Scataglini: p. 62; Sergio Pitamitz: pp. 66/67; Stefano Cellai: p. 73; Fine Art Images: p. 98; Nevio Doz: p. 99 – DeA Picture Library: pp. 40/41, 48 (alto), 102; A. Dagli Orti: pp. 41, 43, 55 (basso), 93; C. Sappa: p. 42 (alto); G. Cigolini: p. 46 (basso); Archivio J. Lange: p. 48 (basso); M. Seemuller: pp. 50/51; J.E. Bulloz: pp. 55 (alto), 104; L. Romano: p. 91; A.C. Cooper: p. 105 (alto); G. Cigolini/Veneranda Bbilioteca Ambrosiana: p. 105 (basso) – Archivi Alinari, Firenze: Fine Art Images: p. 46 (alto) – Foto Scala, Firenze: p. 47 (alto) – Bridgeman Images: pp. 60, 61, 78, 86/87, 89 – Museo e Abbazia di San Caprasio, Aulla: pp. 63, 64, 65 (alto), 66, 68-71, 74, 77 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 36, 65, 86. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma

Editore: MyWay Media S.r.l.

Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it

Presidente: Federico Curti

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Coordinatore editoriale: Alessandra Villa

Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Claudio Corvino è antropologo. Federico Fioravanti è giornalista e ideatore del Festival del Medioevo. Tommaso Indelli è assegnista in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Erminia Irace è professore associato di storia moderna all’Università degli Studi di Perugia. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Chiara Mercuri è dottore di ricerca in storia medievale. Chiara Parente è giornalista. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Manuel Vaquero Piñeiro è professore associato di storia economica all’Università degli Studi di Perugia. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Tiziano Zaccaria è giornalista.

Concessionaria per la pubblicità extra settore: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it

In copertina Palermo, Palazzo dei Normanni, camera di Ruggero II. Particolare del mosaico che orna la parete meridionale della sala. XII sec.

Pubblicità di settore: Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Direzione, sede legale e operativa: Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo

Nel prossimo numero storie

Barbablú, un serial killer nel Medioevo

rievocazioni

tecnologia militare

I Giochi delle Porte a Gualdo L’avvento delle bocche da fuoco Tadino

dossier

I Longobardi a Pavia


ANIMALI MEDIEVALI a cura di Federico Canaccini

Come isole viventi

P

er gli uomini del Medieovo, la balena non è un mammifero, ma un pesce: il piú grande di tutti! Sulla scorta del racconto biblico di Giona, il quale, ingoiato da una balena, visse diversi giorni nel suo stomaco, nell’età di Mezzo si credeva che il cetaceo potesse ingoiare prede «piú grandi di un orso»! La balena viene spesso associata a un essere demoniaco per motivi diversi. Alcuni autori suggeriscono che essa inganni sia gli uomini che i pesci. Questi ultimi, infatti, sarebbero attratti dall’odore mellifluo del suo alito per poi finire divorati tra le fauci che il mostro serra all’improvviso. Gli uomini invece, quando incontrano la balena, sono solitamente protagonisti di episodi tragici, veri o di fantasia che siano. Per alcuni, la balena si addormenta a pelo dell’acqua, lasciando affiorare solo il dorso e a volte dorme cosí a lungo che sulla sua schiena spuntano arbusti: ed è questo, unito al colore «sabbia» della sua pelle, a indurre alcuni marinai ad attraccare sulla presunta «isola». Cosí infatti, nella sua Navigatio, narra san Brandano, il quale, avendo acceso un fuoco sull’isolotto in mezzo al mare, sentí scuotere il terreno sotto ai suoi piedi e, dopo un mezzo terremoto, vide l’isola inabissarsi, realizzando che, in realtà, si trattava di una balena. Brandano si salvò e poté raccontare la propria disavventura, ma molti marinai finiscono divorati dal cetaceo infuriato e indispettito dai fuochi accesi sul suo dorso. La stazza colossale e la particolare conformazione degli organi genitali dell’animale, il cui membro maschile è nascosto, fanno ipotizzare capriole selvagge per conseguire l’accoppiamento, capaci di mettere in fuga tutti i pesci del mare, capovolgere le navi e provocare inondazioni. Probabilmente furono le acrobazie che i cetacei effettivamente compiono quando vanno in amore e corteggiano, a suggerire simili scandalosi scenari, che, in qualche caso, avrebbero addirittura provocato l’inabissamento di intere città! Di solito, i bestiari medievali confondono balena e capodoglio, considerando il secondo come il maschio della prima. In un bestiario normanno si trova invece citato il cetus, probabilmente il maschio della balena, che l’autore definisce «un mostro davvero incredibile, malefico e pericoloso.

In alto miniatura raffigurante una barca che naviga sul dorso di una balena. Metà del XIII sec. Londra, British Library. A sinistra capolettera miniato raffigurante i marinai che gettano Giona nelle fauci della balena, dal Salterio di Carrow. 1250 circa. Baltimora, The Walters Art Museum. Per i marinai è una bestia pericolosa». In effetti coloro che, già nel Medioevo, tentavano la caccia alla balena nel Mare del Nord e nell’Oceano Atlantico, rischiavano spesso la morte. Alcuni autori, come Vincenzo di Beauvais, descrivono quella pratica rischiosissima. Naturalmente si richiede l’impiego di piú navigli che accerchino il cetaceo. Alcuni marinai devono poi suonare cembali e tamburi, per attirare l’animale, che è particolarmente sensibile alla musica: una volta emerso, un intrepido pescatore conficca sul dorso un arpione e poi, assieme a tutti gli altri, si allontana a bordo delle barche. A questo punto la balena inizia a divincolarsi furiosamente, per poi riemergere sfinita e morente. Solo allora i marinai possono tornare (coloro che sono rimasti!) e, dopo averla legata, portarla a riva per ricavarne carne, grasso, olio, ossa, denti e la lingua, un bocconcino particolarmente apprezzato dai buongustai dei secoli di Mezzo.


ANTE PRIMA

All’inizio fu un canonico... MUSEI • Meno noto del

complesso monumentale del Campo dei Miracoli, il Museo Nazionale di San Matteo non è certo secondo per importanza delle opere custodite. E, nel visitare Pisa, merita d’essere considerato come una tappa obbligata

C

ittà fra le piú floride nell’Europa del XII secolo, Pisa racchiude, oggi, preziosi gioielli d’arte medievale, molti dei quali non rientrano nel circuito turistico tradizionale e sono perciò poco conosciuti. È il caso del Museo Nazionale di San Matteo, allestito negli ambienti di un antico convento di monache benedettine fondato nell’XI secolo e intitolato a san Matteo in Soarta, ubicato sul Lungarno Mediceo, il cui nucleo originale si deve alla donazione di «primitivi» del canonico del Duomo Sebastiano Zucchetti fatta nel A sinistra Madonna del Latte, scultura in marmo di Andrea Pisano. 1343-1347.

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A destra Crocifisso di San Ranierino, tempera e oro su tavola di Giunta di Capitino, detto Giunta Pisano. Metà del XIII sec. 1796, a cui si aggiunsero le opere provenienti da successivi lasciti privati e acquisizioni. L’eccezionale raccolta di pitture, sculture in legno, marmo e bronzo, codici miniati, numismatica e sfragistica, dislocate in una trentina di sale, offre un ampio panorama, che contempla anche la piú cospicua collezione al mondo di ceramiche islamiche e locali, che abbracciano un arco cronologico compreso tra la fine del X e il XIV secolo.

Dalle case alle chiese Le prime giunsero in città dalle zone costiere del Mediterraneo ed ebbero inizialmente uso domestico, per poi essere largamente impiegate come elementi decorativi sulle pareti esterne delle chiese. Tutti i 631 bacini presentano una rifinitura particolare della superficie: a invetriatura semplice o alcalina, a smalto, a lustro metallico, a ingobbio. Tra i piú pregiati manufatti in esposizione, sono da annoverare ancone, icone e, soprattutto, croci dipinte provenienti da alcuni

edifici religiosi cittadini che si avvantaggiarono della posizione di prestigio politico, economico e culturale assunta dalla Repubblica marinara di Pisa. Diffusi nell’Italia centrale a partire dal 1100, eseguiti direttamente su legno, oppure su fogli di pergamena o cuoio e successivamente incollati sul supporto ligneo, i crocifissi erano posti al di sopra delle iconostasi, pareti che dividevano la navata delle chiese dal presbiterio – la agosto

MEDIOEVO


zona riservata al clero – oppure appesi nell’arco trionfale, mentre quelli double face si portavano in processione. Cristo è ritratto in posizione frontale con la testa eretta, il volto sereno e gli occhi aperti, vivo e trionfante sulla morte (Christus triumphans), circondato da scene tratte dalla Passione, come quello del Santo Sepolcro. Agli estremi dei bracci della croce, si ritraevano spesso piccole figure di contorno, che, dopo la seconda metà del Duecento, divennero i mezzibusti della Vergine e san Giovanni Evangelista in posizione di compianto. Agli inizi del XIII secolo compare una nuova tipologia, quella del Cristo morto, iconografia che deriva dal Christus patiens d’ispirazione bizantina, ma anche in sintonia con la coeva spiritualità degli Ordini mendicanti: sofferente, ha la testa reclinata sulla spalla, gli occhi chiusi e il corpo incurvato in uno spasimo di dolore. Uno dei primi a recepire questo nuovo linguaggio espressivo contraddistinto da una rivoluzionaria accentuazione patetica e dalla maggiore attenzione

per i dettagli naturalistici, fu Giunta Pisano, autore della Croce di San Ranierino e pittore di riferimento dei Predicatori francescani. L’artista toscano semplifica la composizione, con un tessuto dall’elegante motivo geometrico posto lateralmente, pur mantenendo nei terminali dei bracci i dolenti. Porta la sua firma anche il Dossale di San Francesco, uno dei primi ritratti del santo, effigiato a figura intera con storie della vita ai lati, ripresa dall’esempio delle icone bizantine, e una delle prime tavole che non ha come protagonista Gesú o la Madonna.

L’attenzione per il chiaroscuro Simili a microarchitetture composte da piú pannelli realizzati separatamente e poi assemblati, sono i polittici che iniziarono a diffondersi agli inizi del Trecento e che qui hanno degna rappresentanza con il dipinto di Simone Martini, integro nelle cuspidi e nella predella, dedicato a santa Caterina d’Alessandria, raffigurata insieme a ben 42 personaggi di tre quarti, inquadrati in archetti trilobati e disposti su un innovativo schema

a tre registri sovrapposti. Databile intorno al 1320, l’opera rivela l’attenzione ai valori del chiaroscuro e delle tonalità cromatiche, componenti riconducibili al pittore senese che contribuí alla formazione e maturazione di Francesco di Traino, il maggior pittore locale del tempo, legato al potente ambiente domenicano e i cui dipinti hanno affinità con un gruppo di manoscritti liturgici, conservati nella sezione dei codici miniati, dove trova posto la Bibbia «atlantica» risalente al 1168, considerato l’esemplare piú antico. Epoca ricca di linguaggi figurativi, grazie al cantiere degli affreschi del Camposanto Monumentale, nel quale si avvicendano grandi nomi, la metà del Trecento vede i maestri fiorentini, come Spinello Aretino, segnare il corso della pittura pisana; una situazione prolungata anche in età rinascimentale, con l’estinzione delle maggiori botteghe locali e la profonda influenza di Firenze che resse le sorti di Pisa dal 1406. Ecco, quindi, una girandola di maestri, come Masaccio, con il San Paolo, l’unico superstite in città del grande polittico, destinato alla chiesa del Carmine nel 1426, ma

Polittico di Santa Caterina d’Alessandria, tempera e oro su tavola di Simone Martini. 1319-1320.

MEDIOEVO

agosto

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ANTE PRIMA A sinistra Madonna dell’Umiltà, tempera e oro su tavola di Gentile da Fabriano. Ante 1423. In basso Madonna dell’Umiltà, tempera e oro su tavola del Beato Angelico. 1423 circa.

Cinquecento, in dono alla chiesa di S. Stefano dei Cavalieri. Il percorso espositivo del Museo di San Matteo comprende, inoltre, una collezione di monete di quasi duemila esemplari, un corpus di sigilli religiosi e laici medievali e alcune placchette plumbee provenienti dalle chiese di S. Paolo a Ripa d’Arno e di S. Pierino recanti ciascuna un’iscrizione che ne ricorda la consacrazione: si tratta di una rara tipologia di oggetto votivo, che documenta il fervore religioso della città nel XII secolo, legato al culto delle reliquie. Mila Lavorini

DOVE E QUANDO

Museo Nazionale di San Matteo Pisa, piazza San Matteo in Soarta 1 Orario ma-sa, 8,30-19,00; do e festivi, 8,30-13,30; lu chiuso Info tel. 050 541865; e-mail: pm-tos.museosanmatteo@ beniculturali.it; www.sbappsae-pi.beniculturali.it già disperso alla fine del XVI secolo, o come Beato Angelico e Gentile da Fabriano, interpreti dello stesso tema della Madonna dell’Umiltà, tutti al lavoro per chiese e conventi dove lasciarono affreschi e dipinti, testimoni della corrente figurativa umanistica basata su prospettiva, luce, naturalezza e insieme recupero della classicità.

Nuovi linguaggi artistici Varietà di tipologie e presenza di culture diverse si incrociano a Pisa e nel contado, durante la sua età aurea, con maestranze di provenienza bizantina che introducono novità culturali nell’arte cittadina, mentre si fa avanti un nuovo linguaggio scultoreo di ispirazione padana e transalpina, per arrivare, alla metà del Duecento, a Nicola Pisano, formatosi nella raffinata cultura meridionale della corte di Federico II e propenso allo

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studio e alla reinterpretazione in chiave gotica dei modelli plastici romani. Dopo il figlio, Giovanni, la scultura marmorea si evolve con Andrea Pisano, autore della Madonna del Latte realizzata per l’interno della chiesa della Spina, che si distingue per la marcata espressività e per il movimento delle linee curve delle vesti che si risolvono in un vorticoso abbraccio tra la Vergine e il Bambino. L’artista si cimentò anche con il legno, realizzando l’imponente Angelo Annunciante, che conserva tracce della cromia originale e fa parte del nucleo di statue dipinte, a grandezza naturale, spesso caratterizzate da arti mobili e snodabili. La precoce elaborazione di una ritrattistica attenta ai caratteri individuali e psicologici si evidenzia, invece, nel bronzeo busto-reliquiario raffigurante san Lussorio, eseguito da Donatello a Firenze tra il 1424 e il 1427 e arrivato a Pisa alla fine del agosto

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Meraviglie rivierasche ITINERARI • Arroccato

sul mare e imprendibile, il borgo ligure di Varigotti conserva resti di strutture religiose, civili e militari che documentano la sua importanza nei primi secoli del Medioevo

S

eguendo lo spettacolare tratto della via Aurelia che corre a strapiombo sul mare lungo le selvagge scogliere di Capo Noli, dopo aver oltrepassato la galleria di Punta Crena, s’incontra, sulla sinistra, il borgo medievale di Varigotti (Savona). L’architettura delle case, affacciate sugli stretti vicoli, che, articolati attorno a via del Capo, a sua volta intersecata e conclusa da due piazzette, raggiungono direttamente la spiaggia – come avveniva un tempo nei paesi pescatorili liguri – è caratterizzata da tetti a terrazza e linee vagamente arabeggianti. Costruite nella seconda metà del XIV e del XV secolo, queste abitazioni testimoniano forse gli influssi della dominazione saracena oppure il mantenimento di canoni architettonici legati a secolari tradizioni mediterranee.

Sovrastata dal boscoso altopiano delle Mànie, la penisola di Punta Crena è nota da sempre per la sua inaccessibilità da terra, motivo per cui, nel VI e VII secolo, in quest’area sorsero un castrum costiero e una base navale di Bisanzio.

Un porto ben riparato Nel X secolo, dalla rada, conquistata dai Longobardi nel 641, salparono le navi per la prima crociata, condotta da conti e marchesi liguri insieme a Ugo, re di Provenza, e a Guglielmo, conte di Arles. Tra il Duecento e il Trecento, il porto, ben riparato e protetto dai venti, divenne lo scalo principale per le imbarcazioni del Marchesato del Finale finché, nel 1341, fu interrato dai Genovesi. Dal centro storico di Varigotti due percorsi pedonali, inseriti nel contesto naturale aspro e gradevole

In alto la penisola di Punta Crena: sulla sinistra, il borgo di Varigotti (Savona) e, a destra, Capo Noli. Sulle due pagine la torretta saracena (a sinistra) e i resti del castrum. Nella pagina accanto, al centro la grotta dei Falsari.

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agosto

MEDIOEVO


dei terrazzamenti coltivati a ulivi, tra suggestivi scorci paesaggistici e angoli ricchi di storia, conducono all’antico castello e alla chiesa di S. Lorenzo Vecchio. Situato sopra Capo Varigotti, il fortilizio è costituito dagli avanzi del castrum bizantino-longobardo (VII-IX secolo) e dagli ampi resti della struttura militare, edificata dai nobili Del Carretto a difesa del sottostante approdo, distrutto da Genova. Nel Cinquecento, sulla sommità del promontorio fu eretta una torre di avvistamento, dalla cui cima si ha una grandiosa veduta, che spazia dagli strapiombi di Capo Noli, all’isola Gallinara, a Capo Mele.

Una storia in via di definizione La successione insediativa di Varicottis, menzionata dallo pseudo-Fredegario (Chron. IV,71) tra le località distrutte da Rotari nel VII secolo, appare molto complessa, con un sistema fortificato medievale posto sul promontorio, che delimita a occidente la rada portuale. Pur non citando l’esistenza di un circuito murario difensivo, la fonte scritta testimonia la presenza di un centro demico nella «memoria colta» altomedievale, inserito tra i principali nuclei urbani della Liguria litoranea. Tracce di un insediamento in età bizantina derivano da rinvenimenti occasionali, scavi stratigrafici e recuperi di tombe, anche nelle vicinanze della chiesa di S. Lorenzo. Sulla base degli esempi di castra noti nella Liguria di Ponente, il sistema difensivo messo in opera a Varicottis nel periodo bizantino potrebbe costituire l’espressione di una concezione strategica basata sulla difesa con epicentri fortificati distrettuali, posti a controllo di vie di penetrazione, in diretto rapporto con abitati litoranei, per esempio Noli e Finalborgo, o con centri rurali di mezzacosta. un preesistente tempietto d’epoca bizantina, nel 700 sia passato ai monaci benedettini.

L’arrivo dei monaci provenzali

Singolare è la posizione della chiesa di S. Lorenzo che, abbarbicata a un ripido pendio, di fronte al porto e al castello, appare sospesa tra il blu del mare e il verde della montagna. In origine, si trattava probabilmente di un eremo paleocristiano, simile a quelli delle vicine isole di Bergeggi e della Gallinara. È possibile che l’edificio di culto, costruito su di

MEDIOEVO

agosto

Nel 1127, il vescovo di Albenga, Ottone, concesse l’uso dell’abbazia di S. Lorenzo ai frati francesi, provenienti dall’isola provenzale di Lérins. E quest’anno ricorre infatti l’890° anniversario del loro insediamento a Varigotti. Abbandonato dalla comunità religiosa, il luogo di culto divenne in seguito la parrocchia del paese e lo fu per quattrocento anni. Nel 1586 la sede parrocchiale fu trasferita in una nuova chiesa, eretta vicino al litorale, e S. Lorenzo Vecchio venne declassata a cappella cimiteriale. Danneggiato da un bombardamento inglese nel 1944, l’edificio è stato restaurato dall’Associazione «Amici di San Lorenzo» (1946-1950 e1996-1998).

Nella chiesa, considerata un unicum tra le architetture rivierasche anche per la caratteristica facciata rivolta verso il mare, si celebra la messa una sola volta all’anno. Per il 2017, il suggestivo appuntamento ricorre il 9 agosto, alle ore 21,00, in occasione della vigilia del giorno dedicato a san Lorenzo, patrono di Varigotti. Info: la chiesa è aperta tutte le domeniche, dalle 10,00 alle 15,00. Le visite guidate sono possibili ogni giorno, ma è obbligatoria la prenotazione: tel. 345 1127439; www.chiesasanlorenzovarigotti.it Chiara Parente

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ANTE PRIMA

Medioevo fiabesco MOSTRE • Il Castello di Bianello, nel Reggiano, presenta

una rassegna che, nel narrare le vicende del territorio in epoca medievale, compie un viaggio nel tempo che, da Matilde di Canossa, giunge ai cartoni animati della Walt Disney...

Q

uattro Castella di Reggio Emilia propone una mostra dedicata ai castelli reggiani e ai paesaggi da favola nei quali sorgono; terre in cui la storia medievale torna prepotente, insieme ai cammini d’Europa che le attraversavano. Sono «Castelli in aria» perché costruiti su colli o speroni rocciosi per meglio difendersi e perché in essi si perde la fantasia e si scatena l’immaginario. Luoghi sicuri in cui rifugiarsi e allo stesso tempo misteriosi, dove si aprono porte invisibili e trabocchetti. Beni architettonici incastonati come gemme nell’Appennino, baluardo tra Emilia e Toscana, tappe, con le pievi romaniche, di pellegrini, mercanti ed eserciti. L’esposizione nasce dalla collaborazione tra l’Associazione Amici di Matilde di Canossa e del Castello di Bianello e l’amministrazione comunale di Quattro Castella e trova la sua sede ideale nel castello di Bianello, situato su uno dei quattro colli affacciati sulla pianura a definire l’inizio della linea appenninica.

Al tempo della grancontessa Il patrimonio esposto appartiene quasi interamente alla collezione di Giuliano Grasselli, cultore di storia matildica e collezionista, ricca di oltre 900 opere tra quadri, stampe, incisioni, fotografie storiche, libri antichi e moderni e medaglie. Nel castello si può cosí riassaporare l’aria di mille anni fa, la stessa che respirò Matilde di Canossa. Lo stesso Michelangelo, nella sua biografia, attribuisce ai Buonarroti la discendenza dai Canossa di Bianello. E proprio in questo castello nel gennaio 1077 si svolsero le trattative preliminari che condussero all’incontro epocale di Canossa, dove un papa e un imperatore si sfidarono ospitati della grancontessa. Il percorso espositivo si sviluppa in diverse sale del castello. La biblioteca è dedicata al Castello di Bianello e ai documenti piú antichi che lo riguardano. Si possono

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leggere le lettere inviate da Gregorio VI, il papa santo della Riforma cluniacense, ai regnanti e prelati d’Europa durante il suo soggiorno a Bianello nel 1077. Una sezione è dedicata a Matilde di Canossa con una serie veramente unica di ritratti della Grancontessa. Nell’ingresso antico è ospitata la sezione dedicata ai castelli appartenuti ai Canossa nel territorio reggiano e non solo. Sono qui riuniti quadri a olio, incisioni e acqueforti dei castelli di Canossa, Carpineti, Sarzano e Rossena e una ricostruzione del castello di Sassolato, presente un tempo nel territorio di Frassinoro. Vi sono esposte stampe di varie epoche provenienti da Germania e Inghilterra che propongono interpretazioni dell’episodio del perdono di Canossa, preziosi i libri antichi e le medaglie commemorative tedesche e italiane. Gli storici tedeschi da sempre hanno coltivato questi temi e lo studio di un francobollo di terra chiamato Canossa, cosí lontano dai loro confini ma decisivo per la loro storia e divenuto simbolo conosciuto in tutto il mondo. Sembra che la prima immagine fantastica del castello di Canossa, qui esposta nell’originale seicentesco, abbia ispirato sia i castelli di Ludwig che il logo della Walt Disney. Visitando il Castello di Bianello, si può infine approfittare della possibilità di facili escursioni sui numerosi sentieri dei quattro colli e della visita all’Oasi Lipu di Monticelli. (red.) DOVE E QUANDO

«Castelli in aria. L’immaginario del Bianello e dei castelli matildici» Quattro Castella (Reggio Emilia), Castello di Bianello fino al 24 settembre Orario e info tel. 0522 249232; www.bianello.it Prenotazioni visite Ideanatura: tel. 338 6744818 agosto

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Fra tradizione e innovazione

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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aglia il traguardo dei vent’anni la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, in programma dal 26 al 29 ottobre 2017 nell’area archeologica della città antica di Paestum. E, per l’occasione, la rassegna ospiterà prestigiose iniziative, tra cui l’anteprima dell’«Anno Europeo del Patrimonio Culturale», indetto dalla Commissione Europea per il 2018 e il Convegno «Il turismo sostenibile per lo sviluppo dei siti archeologici mondiali» a cura dell’UNWTO, l’Organizzazione Mondiale del Turismo delle Nazioni Unite. A fare da contorno, saranno gli appuntamenti ormai tradizionali e grazie ai quali la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si è affermata negli anni come un evento originale nel suo genere: sede dell’unico Salone espositivo al mondo del patrimonio archeologico e di ArcheoVirtual, la mostra internazionale di tecnologie multimediali, interattive e virtuali; luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio; occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e culturali, viaggiatori e appassionati; opportunità di business nella suggestiva location del Museo Archeologico, con il Workshop tra la domanda estera selezionata dall’ENIT e l’offerta del turismo culturale e archeologico. Un format di successo testimoniato dalle prestigiose collaborazioni di organismi internazionali quali UNESCO, UNWTO e ICCROM, oltre che da circa 10 000 visitatori, 100 espositori con 20 Paesi esteri, 70 tra conferenze e incontri, 300 relatori, 100 operatori dell’offerta, 100 giornalisti. Non va infine dimenticato che, dal 2015, si è aggiunto l’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio intitolato al Direttore del sito archeologico di Palmira, che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale: la Borsa e «Archeo», in collaborazione con le riviste media partner internazionali Antike Welt (Germania), Archéologie Suisse (Svizzera), Current Archaeology (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie (Francia) selezionano e premiano le principali scoperte archeologiche dell’anno.

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Qui sotto Paestum. Il tempio convenzionalmente detto «di Nettuno», ma forse dedicato a Hera. Metà del V sec. a.C. In basso uno degli stand allestiti in occasione dell’edizione 2016 della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico.

Per quest’anno concorrono all’assegnazione del premio: l’edificio della barca di Sesostri III e i graffiti di 120 navi ad Abido (Egitto); la prima opera architettonica dei Neandertal in una caverna di Bruniquel (Francia); la grande città dell’età del Bronzo presso il piccolo villaggio curdo di Bassetki (Iraq); la città indo-greca di Bazira (Pakistan); e 400 tavolette di epoca romana ritrovate nella City di Londra (Regno Unito). Info: www.borsaturismoarcheologico.it agosto

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Sia gloria all’Assunta! APPUNTAMENTI • Nella cittadina umbra di Corciano, la festa di mezzo agosto

è l’occasione per un ritorno al Medioevo: quando il borgo del Perugino era libero Comune e divenne ricco e fiorente grazie ai suoi mercanti e artigiani

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ià nel 1242, il centro umbro di Corciano (Perugia) era libero Comune, guidato dai priori e sotto lo sguardo di un capitano che rappresentava Perugia, la città dominante. Nei secoli successivi la città pulsò di un’intensa attività artigianale e commerciale, che le assicurò una considerevole prosperità. Ogni anno, la cittadina rievoca per tre giorni, dal 13 al 15 agosto, la vita quotidiana di quel periodo storico, con spettacoli, concerti, convegni, esposizioni e cucina ispirata al Medioevo, fra le vie del castello, illuminate dalle fiaccole. Le giornate medievali si aprono il 13 agosto, con le Serenate dei Menestrelli, in una serata dedicata all’amore animata da un gruppo locale di musica medievale.

Scene di festa, giochi pirotecnici, danze e coreografie fanno da contorno alle serenate. Il 14 agosto, al calare della notte, va in scena la Processione del Lume. Magistrati, collegi delle arti e dei mestieri, clero e popolo sfilano al lume di torce e lanterne con un grande cero portato dai valletti comunali che viene offerto dalle magistrature alla chiesa madre di S. Maria Assunta. Qui, davanti all’immagine sacra della Madonna, vengono intonate laudi medievali e antiche preghiere.

Nel giorno dell’Assunzione Il 15 agosto è il giorno del Corteo storico del Gonfalone, rievocazione di una processione religiosa cinquecentesca, che si svolgeva a Corciano nel giorno dell’Assunzione

In parata per gli sposi O

gni cinque anni nel centro storico di Bruges, nelle Fiandre, va in scena la spettacolare Parata dell’Albero d’Oro. L’evento, che quest’anno torna sabato 19 e domenica 20 agosto (con inizio alle 15,00) rievoca le sfarzose nozze tra Carlo il Calvo, duca di Borgogna e conte delle Fiandre, e la principessa Margherita di York, che si celebrarono a Bruges nel 1468. Sfilano oltre duemila comparse in costumi d’epoca e una dozzina di carri sontuosi, ricreando un quadro spettacolare del Quattrocento in Belgio. L’Albero d’Oro è il simbolo del torneo di cavalieri che si svolge sulla centrale Piazza del Mercato.

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di Maria. Il corteo, che oggi si compone di circa 300 figuranti, si snoda dalla chiesa di S. Agostino e, dopo avere attraversato le strade del borgo, raggiunge la chiesa madre di S. Maria Assunta. Sfilano tamburini, musici, araldi, un paggio che offre simbolicamente la chiave della porta di Corciano alla protezione della Vergine, le corporazioni delle Arti e dei Mestieri, le sei confraternite religiose presenti in paese, gli Ordini mendicanti dei Francescani e degli Agostiniani. Raffigurante la Madonna della Misericordia, il Gonfalone viene portato a spalla dai valletti del Comune; seguono le magistrature civili, il Capitano del Contado in rappresentanza di Perugia, i sei rioni cittadini, la nobiltà, gli artigiani, i contadini e il popolo corcianese che offre in dono alla Vergine i frutti del lavoro quotidiano in cambio della sua protezione. Chiudono il corteo due prigionieri condannati alla pena capitale, ai quali viene però concessa la grazia pro amore Dei. Nel corso dei tre giorni, infine, menú d’epoca serviti in costumi storici caratterizzano le cene nella suggestiva Taverna del Duca. Tiziano Zaccaria Nella pagina accanto, in alto Corciano (Perugia). Il trasporto del Gonfalone in onore di S. Maria Assunta. In alto, a destra Guardia Sanframondi (Benevento). Un gruppo di «disciplinanti». A sinistra due momenti della Parata dell’Albero d’Oro di Bruges.

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Tempo di penitenza G

uardia Sanframondi, cittadina d’origine sannita in provincia di Benevento, torna a celebrare i Riti Settennali di Penitenza in onore di S. Maria Assunta, che si tengono appunto ogni sette anni nella settimana successiva al 15 agosto. L’edizione 2017 è in programma da lunedí 21 a domenica 27 agosto. I Riti sono un evento unico nel loro genere: niente luminarie, né bande musicali, fuochi artificiali o bancarelle, ma solo un profondo carattere penitenziale e di fede. La tradizione viene fatta risalire al Medioevo e alle origini del castello del paese, costruito dalla famiglia normanna dei Sanframondo nel 1139. L’organizzazione dei Riti è curata dai quattro rioni cittadini e dalle rispettive chiese: Croce (S. Rocco), Fontanella (S. Leonardo), Piazza (chiesa dell’Annunciata) e Portella (S. Sebastiano). I comitati rionali elaborano i Misteri, «quadri viventi» che raffigurano scene sacre, stabilendone i temi, i costumi e gli atteggiamenti degli attori. Dal lunedí al venerdí, per due giorni consecutivi ciascuno, i rioni danno vita alle rispettive processioni di Penitenza e di Comunione. Oltre ai Misteri, vi partecipano numerosi laici con simboli penitenziali come corone di spine e funi annodate intorno al petto, nonché i cori rionali. Inoltre, le quattro processioni di penitenza sono chiuse dai «disciplinanti»: penitenti avvolti in un saio bianco e col viso celato da un cappuccio, che si battono le spalle con delle catenelle metalliche dette appunto «disciplina».

La statua in processione Il sabato mattina dalla chiesa dell’Annunciata parte la processione del clero e delle associazioni laicali, dirigendosi verso il santuario dove si tiene l’«apertura della lastra» che custodisce la statua della Madonna. La domenica si svolge la processione generale, guidata dal vescovo e dal parroco, alla quale partecipano i quattro rioni con i Misteri, i cori, la statua dell’Assunta ricoperta di ori e soldi donati dai fedeli ed i «disciplinanti». E a tutti questi si aggiungono i «battenti»: penitenti con cappucci bianchi sul viso che si percuotono il petto fino a sanguinare con la «spugnetta», un disco di sughero con punte di metallo acuminate. Quando già le strade cittadine sono attraversate dai cortei religiosi, i «battenti» iniziano la loro espiazione incolonnandosi dietro il Mistero di San Girolamo presentato dal rione Croce. Piú tardi, dopo l’incontro con la statua dell’Assunta nei pressi della basilica di S. Sebastiano, si disperdono nel paese, liberandosi del saio macchiato di sangue, sudore e vino, usato per detergere e disinfettare le ferite. Al termine della processione la statua dell’Assunta rientra in chiesa e resta esposta per altre due settimane, dopodiché, con un nuovo complesso cerimoniale, viene riposta nella nicchia dove resta per sette lunghi anni. T. Z.

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ANTE PRIMA

Tra passato e presente T

orna il «Viaggio nel Medioevo» di Finalborgo, in provincia di Savona. Dal 24 al 27 agosto la cittadina ligure è teatro dell’ormai tradizionale manifestazione, organizzata dal Centro Storico del Finale in collaborazione con i portoghesi della Companhia de Teatro Viv’Arte e che vede esibirsi nel borgo centinaia di «artisti medievali», provenienti da tutta Europa. Artisti da strada, attori, mangiafuoco, giocolieri, musici, danzatori, sbandieratori, ammaestratori di rapaci, cavalieri, arcieri, spadaccini, osti e locandieri si incontrano nell’antico borgo per contendersi piazze e vie. Attraversando le porte di Finalborgo si ha la sensazione di varcare le porte del tempo ed essere immersi in un sogno medievale. Ovunque rifioriscono antiche botteghe dove i commercianti e gli artigiani del paese cogliendo lo spirito della festa medievale accettano il finarino, la moneta del Marchesato del Finale. Centinaia di personaggi si avvicendano per le vie di Finalborgo popolate di avventori in costume, con strade e piazze animate da dame, cavalieri e popolani, concerti di musica celtica-medievale, tornei a cavallo, torture e storia dal vivo in modo da riprodurre il XV secolo, epoca nella quale il Marchesato del Finale, governato dai Del Carretto, visse il suo periodo di maggior fulgore. Non mancheranno gli antichi mestieri, i giochi medievali e l’impeccabile e attesissima cena medievale alla «Locanda dei Cavalieri» nella splendida cornice dei chiostri di S. Caterina.

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

Un calendario ricco e variegato Per gli eventi collaterali, all’Oratorio De’ Disciplinanti del complesso monumentale di S. Caterina, prende il via l’undicesima edizione del Workshop sulla Storia del Finale, dove si possono trovare le Novità Librarie 2016/2017 con una Mostra-Mercato di recenti pubblicazioni. Un’importante novità del «Viaggio nel Medioevo» di agosto è la joint venture con Trust Floridi Doria Pamphilj, che porta a tanti interessanti appuntamenti di valore storico, artistico e culturale: ci sarà una tavola rotonda sui legami storici tra i Del Carretto e i Doria e una mostra, visitabile fino al 13 agosto, intitolata «Memorie#Estasi», dove l’arte sacra e quella laica si fondono in un ponte tra passato e presente, per capire il nostro oggi riscoprendo chi eravamo ieri. Tra gli appuntamenti in programma, possiamo inoltre segnalare le esibizioni di scherma e i tornei a cavallo

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Dall’alto in basso Finalborgo illuminata dai fuochi d’artificio; uno stand gastronomico; repliche del finarino, la moneta del Marchesato del Finale. (Compagnia di spada del Centro Storico del Finale, Compagnia Viv’Arte, Poeti della Spada e Lobos Negros); gli spettacoli di giocoleria e teatro; gli interventi musicali con brani della tradizione celtica; l’allestimento degli accampamenti, a cura di compagnie specializzate in ricostruzione storica, che integreranno i figuranti dei gruppi presenti offrendo un preciso spaccato della vita medievale; le esibizioni di falconeria, che vedranno impegnati i falconieri in uno spazio nel quale saranno esposti civette, aquile e falchi; il tiro con l’arco, con gli Arcieri della Sezione di Arco, che daranno dimostrazioni della pratica, offrendo la possibilità al pubblico di cimentarsi nel tiro con l’arco antico (Long Bow). Per informazioni: Associazione Centro Storico del Finale - piazza Santa Caterina, 11 – 17024 Finale Ligure (SV); tel./fax 0196 90112 o 347 0828855; e-mail: info@ centrostoricofinale.it; www.centrostoricofinale.it agosto

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre

che rappresenta uno dei vertici dell’opera del giovane scultore, alla figura allegorica della Giustizia, che faceva parte del monumento funebre di Margherita di Brabante, moglie dell’imperatore Enrico VII, morta di peste nel 1311. L’incarico di realizzarlo fu affidato al quasi settantenne Giovanni Pisano, considerato il miglior scultore di allora in Italia. Pur anziano, Giovanni dà prova di un’ulteriore, inaspettata evoluzione del suo stile, raggiungendo le vette di un’espressività meno stridente, piú armonica, con la dolce mestizia del volto della Giustizia. info tel. 0573 371214; www. palazzofabroni.it; www.pistoia17.it

FIRENZE GIULIANO DA SANGALLO. DISEGNI DAGLI UFFIZI Gallerie degli Uffizi, Sala Edoardo Detti e Sala del Camino fino al 20 agosto

Si tratta della prima esposizione monografica degli Uffizi dedicata alla produzione grafica di Giuliano da Sangallo (Firenze, 1445 circa-1516), la mostra, oltre a ospitare una ragionata scelta del vasto corpus di disegni conservato in collezione, espone un numero limitato di altri manufatti artistici, accuratamente selezionati per dar conto della poliedricità dell’artista e delle molteplici implicazioni dei suoi interessi architettonici, nonché dell’attività della bottega. Il catalogo realizzato per

ROMA

architettonico e antiquario e, infine, la funzione dei modelli lignei come strumenti operativi di progettazione in relazione al disegno. info tel. 055 23885 (centralino); www.uffizi.it l’occasione offre una valutazione complessiva dell’opera grafica di Giuliano da Sangallo, mettendo in luce la cronologia, i luoghi e la committenza degli ultimi decenni di attività; le ricerche compositive e le sperimentazioni tipologiche, nell’architettura sacra, civile e militare; la funzione degli studi antiquari e dei libri di disegni; i rapporti con il fratello Antonio il Vecchio, il nipote Antonio il Giovane e il figlio Francesco, nei codici e nei disegni di presentazione a piú mani; la pratica della copia e la circolazione del sapere

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PISTOIA OMAGGIO A GIOVANNI PISANO Palazzo Fabroni, Centro di Arti visive contemporanee fino al 20 agosto

Con questa importante rassegna monografica, Pistoia, Capitale Italiana della Cultura 2017, tributa un omaggio speciale a Giovanni Pisano, artista che ebbe ripetuti rapporti con la città. Palazzo Fabroni si apre per la prima volta all’arte antica, in coerenza con la sua ubicazione di fronte alla pieve romanica di S. Andrea, che conserva uno dei maggiori capolavori di Giovanni Pisano:

il pulpito marmoreo terminato nel 1301. Il percorso espositivo è organizzato in nove stanze, ciascuna delle quali ospita un’opera. Si parte con un preludio: il rilievo con le Stimmate di San Francesco di Nicola Pisano, padre di Giovanni. È quanto resta di un monumento funebre risalente agli anni Settanta del Duecento, molto probabilmente eretto nella chiesa di S. Maria del Prato, prima chiesa francescana di Pistoia, in luogo della quale fu poi costruita l’attuale chiesa di S. Francesco. Il destinatario di questo sepolcro era probabilmente Filippo da Pistoia, già vescovo di Ferrara, di Firenze e arcivescovo di Ravenna. Le successive otto sale sono dedicate a Giovanni Pisano e offrono una selezione significativa: dalla Madonna con Bambino, tondo in marmo

I FORI DOPO I FORI. LA VITA QUOTIDIANA NELL’AREA DEI FORI IMPERIALI DOPO L’ANTICHITÀ Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali fino al 10 settembre

L’area in cui sorgevano i Fori Imperiali, cuore antico della città di Roma e complesso architettonico unico al mondo per vastità e continuità urbanistica, è stata oggetto di scavi, studi e ricerche straordinariamente intensi. In particolare, gli scavi archeologici realizzati negli ultimi venticinque anni hanno portato alla luce un tesoro prezioso. Il rinvenimento di un’eccezionale varietà di

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MOSTRE • 1143: la croce ritrovata di Santa Maria Maggiore Bologna – Museo Civico Medievale

fino al 7 gennaio 2018 info tel. 051 2193916 o 2193930; e-mail: museiarteantica@comune.bologna.it; www.museibologna.it/arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte

L’

esposizione nasce dall’occasione di esporre per la prima volta, a seguito del restauro, questo prezioso esemplare di croce viaria. L’opera rientra nella tipologia di croci poste su colonne, che venivano collocate nei punti focali della città, a segnalare spazi sacri come chiese e cimiteri o di particolare aggregazione come i trivi o i crocicchi e le piazze. Stando alla tradizione, tale uso si diffuse già in epoca tardo-antica, ma è soprattutto a partire della nascita del Comune (1116) e con l’espansione urbanistica di Bologna del XII e XIII secolo che si venne a sviluppare tale fenomeno. Talvolta le croci venivano protette da piccole cappelle e corredate di reliquie, di altari per la preghiera, e di tutto il necessario per la celebrazione della messa. Segno distintivo e identificativo per la città, le

croci segnarono lo spazio urbano fino al 1796, quando l’arrivo delle truppe napoleoniche e l’instaurazione della nuova Repubblica, trasformarono la città e i suoi simboli. La croce ritrovata di S. Maria Maggiore è di notevole interesse sia perché era tra i molti esemplari andati dispersi, sia perché è possibile datarla grazie all’iscrizione 1143, presente nel braccio destro. L’opera si viene cosí a collocare tra i piú antichi modelli a noi pervenuti, come quella di poco successiva alla croce degli Apostoli e degli Evangelisti, detta anche di Piazza di Porta Ravegnana, che risale al 1159.

reperti, in alcuni casi unici, ha permesso, infatti, di ampliare le conoscenze sulle vicende del sito nel periodo medievale e moderno. Un contesto storico sicuramente meno noto (e meno rappresentato) al grande pubblico rispetto a quello classico, ma altamente esemplare della continuità insediativa urbana. E ora un’interessante e quanto mai diversificata selezione di questi reperti – tra cui ceramiche, sculture, monete, oggetti devozionali e di uso quotidiano –, tra le migliaia recuperati e per la maggior parte esposti per la prima volta, raccontano questi significativi periodi storici nella mostra «I Fori dopo i Fori». info tel. 06 06 08 (tutti i giorni, 9,00-21,00); www.mercatiditraiano.it; www.museiincomune.it

antica, repubblicana e imperiale, sulla base della quale la Chiesa andava delineando il proprio «rinascimento» politico e religioso. A oltre cinquecento anni da quei fatti e grazie alla disponibilità dei proprietari delle opere, viene presentato per la prima volta il volto della Madonna del Pintoricchio, finalmente riunito al piú noto Bambin Gesú detto «delle mani». Un’operazione che ha permesso di rivedere definitivamente il mito della presenza del ritratto di Giulia Farnese nell’appartamento Borgia riconoscendovi, invece, una rarissima scena di Investitura divina del neoeletto pontefice. info tel. 060608; www.museicapitolini.org PERUGIA

ROMA PINTORICCHIO PITTORE DEI BORGIA. IL MISTERO SVELATO DI GIULIA FARNESE Musei Capitolini fino al 10 settembre

Alla fine del Quattrocento,

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l’élite culturale e politica di Roma fu attraversata da un grande fermento umanistico, propugnato dagli intellettuali, ma fortemente controllato

dalla Curia. Filo conduttore dell’esposizione è dunque il tentativo di riconoscere nelle lettere e nelle arti dell’epoca, quella memoria della Roma

DA GIOTTO A MORANDI. TESORI D’ARTE DI FONDAZIONI E BANCHE ITALIANE Palazzo Baldeschi al Corso fino al 15 settembre

Come annuncia il titolo, la mostra intende valorizzare il patrimonio artistico posseduto dalle Fondazioni di origine

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AGENDA DEL MESE bancaria e delle banche italiane. Si tratta di un patrimonio ampio che, per varietà di composizione e stratificazione temporale, può essere considerato il volto storico e culturale dei diversi territori della nostra Penisola. Questa particolare attività collezionistica è un aspetto del piú complessivo impegno culturale delle banche e delle fondazioni, in una dimensione piú ampia di attività e di

impegno verso la comunità di riferimento: acquisto, recupero, restauro e quindi tutela e valorizzazione di opere che altrimenti andrebbero disperse. La maggior parte delle opere in mostra sono catalogate in Raccolte, la banca dati consultabile on line realizzata dall’Acri, l’Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio. La mostra perugina propone dunque un avvincente percorso lungo sette secoli di storia dell’arte e al contempo consente di verificare la pluralità degli orientamenti che stanno alla base del fenomeno del collezionismo bancario. info tel. 075. 5724563; www.fondazionecariperugiaarte.it MONTEPULCIANO LEONARDO DA VINCI: VISIONS Fortezza e Giardino di Poggiofanti fino al 17 settembre

La rassegna si articola in una duplice sede espositiva: presso la Fortezza sono

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ospitate le riproduzioni delle macchine di Leonardo, mentre presso il Giardino di Poggiofanti è collocata la ricostruzione in scala 1:1 del monumento equestre in memoria di Francesco Sforza. Questa replica del colossale cavallo, alto oltre 7 m, è caratterizzata dalla fedeltà ai disegni di Leonardo e al processo di fusione da lui ideato. Realizzato in materiali compositi e struttura in acciaio, è alto 7,80 m per un estesione totale di circa 10 x 4 m e un peso complessivo di 20 tonnellate. Visions è un invito a esplorare il modo di pensare di Leonardo da Vinci e la sua concezione unitaria della conoscenza come sforzo di assimilare con ardite sintesi teoriche e con geniali esperimenti le leggi che governano tutte le meravigliose operazioni dell’uomo e della natura. info tel. 0577 286300; e-mail: leonardovisions@operalaboratori. com; www.leonardovisions.it

Leonardo da Vinci torna agli Uffizi dopo sei anni di restauri e indagini conoscitive, condotti dall’Opificio delle Pietre Dure con il sostegno economico degli Amici degli Uffizi. La tavola fu commissionata a Leonardo nel 1481 dai monaci agostiniani per la chiesa di S. Donato a Scopeto; la partenza del maestro per Milano, nel 1482, determinò l’abbandono dell’opera, mai ultimata da Leonardo. Il dipinto incompiuto rimase per qualche tempo nelle case della famiglia fiorentina dei Benci, per poi entrare nelle collezioni dinastiche dei Medici. Costituisce oggi la tavola vinciana piú grande pervenutaci (246 x 243 cm). Il suo restauro, oltre ad avere risolto alcuni problemi conservativi, ha consentito di recuperarne tonalità cromatiche inaspettate e la sua piena leggibilità,

ricchissima di dettagli affascinanti che aprono nuove prospettive sul suo complesso significato iconografico. Con l’Adorazione dei Magi di Leonardo viene esposta anche la versione eseguita da Filippino Lippi nel 1496, proponendo cosí un dialogo affascinante, che fa emergere le diversità tra i due maestri e la loro differente interpretazione del soggetto. info tel. 055 23885 (centralino); www.uffizi.it FIRENZE DA VINCI EXPERIENCE Ex chiesa S. Stefano al Ponte fino all’8 ottobre

La chiesa sconsacrata di S. Stefano al Ponte ospita una mostra multimediale dedicata al genio di Leonardo, alla sua scienza ed eclettismo nelle varie discipline. Cuore del progetto espositivo è il format immersivo realizzato da Art

FIRENZE IL COSMO MAGICO DI LEONARDO DA VINCI: L’ADORAZIONE DEI MAGI RESTAURATA Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture fino al 24 settembre

L’Adorazione dei Magi di agosto

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SIENA LA BELLEZZA FERITA. NORCIA, EARTH HEART ART QUAKE. LA SPERANZA RINASCE DAI CAPOLAVORI DELLA CITTÀ DI SAN BENEDETTO Cripta sotto il Duomo e Complesso Museale Santa Maria della Scala fino al 29 ottobre

Il 24 agosto 2016 un forte terremoto colpisce il Centro Italia. Il 26 e 30 ottobre 2016, altre scosse «feriscono» Norcia e il territorio circostante. La basilica di S. Benedetto, la concattedrale di S. Maria Argentea e tutte le chiese della città e dintorni sono distrutte. A seguito del sisma, la Protezione Civile, il Corpo Nazionale Vigili del Fuoco, il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria, insieme con l’Ufficio Beni Culturali dell’Archidiocesi di Spoleto-Norcia, hanno provveduto alla messa in sicurezza delle opere d’arte. Alcune di esse sono ora ospitate dalla città di Siena e protette all’interno delle sue viscere: nella cosiddetta «Cripta» sotto il Duomo, dedicato alla Vergine Maria, e nel percorso del Santa Maria della Scala. L’allestimento prevede un itinerario attraverso i capolavori prima custoditi all’interno di basiliche,

Media Studio Firenze, una sorta di story telling per immagini dell’universo di da Vinci, ottenuto grazie alle multiproiezioni in video mapping – sui nove schermi dell’allestimento e sulle architetture della navata di S. Stefano al Ponte – di centinaia di immagini digitalizzate ad alta definizione, d’inserti video in full HD e alla colonna sonora diffusa a 360° in Dolby surround. Arricchiscono il percorso della mostra modelli delle macchine leonardesche – a grandezza naturale e in scala –, tra i quali spicca l’ala per il volo umano di 9 m di apertura, sospesa al centro della navata. info tel. 055.217418; e-mail: info@davinciexperience.it; www.davinciexperience.it LONDRA GIOVANNI DA RIMINI: UN CAPOLAVORO TRECENTESCO SVELATO National Gallery fino all’8 ottobre

Grazie all’accordo raggiunto con il collezionista newyorchese Ronald S. Lauder, la National Gallery può esporre per la prima volta la magnifica tavola di Giovanni

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da Rimini con scene delle vite della Madonna e altri santi. Il museo inglese ha infatti ricevuto in dono il dipinto dallo stesso Lauder, che però, fino a quando sarà in vita, continuerà a detenerlo, salvo temporanee esposizioni, la prima delle quali è appunto quella appena inaugurata. A fare da corona all’opera, che viene datata ai primissimi anni

del Trecento, sono altri due lavori attribuiti a Giovanni, provenienti da Roma e Faenza, e opere firmate dai maggiori maestri attivi nella stessa epoca del pittore riminese, fra cui Neri da Rimini, Francesco da Rimini, Giovanni Baronzio e Giotto, che per un breve periodo soggiornò nella città romagnola. info www.nationalgallery.org.uk

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AGENDA DEL MESE ROMA LA BELLEZZA RITROVATA. ARTE NEGATA E RICONQUISTATA IN MOSTRA Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori fino al 26 novembre

santuari e pievi del territorio. Una serie di video, concessi dal Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, e materiali fotografici di fotoreporter locali permettono inoltre la visione delle fasi di recupero delle opere dopo il terremoto. info e-mail: bellezzaferita@ operalaboratori.com; tel. 0577 286300; www.operaduomo.siena.it; www.santamariadellascala.com VENEZIA MAGISTER GIOTTO Scuola Grande della Misericordia fino al 5 novembre

Allestita negli spazi della Scuola Grande della

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Misericordia, la mostra guida il visitatore in un percorso accompagnato dalla voce di Luca Zingaretti per la narrazione dei testi e dalla drammaturgia musicale originale di Paolo Fresu. La produzione di Giotto viene illustrata compiutamente, cosí da far comprendere la rivoluzione compiuta dalla sua opera nel tardo Medioevo, quando il maestro seppe rinnovare l’arte occidentale, aprendo la strada al Rinascimento verso l’età moderna. Il punto di partenza, nell’immensa navata d’ingresso, è l’imponente Croce del Presepe Greccio,

ricostruita, su ispirazione di quella dell’affresco, e prosegue al primo piano nella sequenza imperniata sulle Storie francescane di Assisi, la Cappella degli Scrovegni di Padova, i maestosi Crocifissi e le altre opere del Maestro realizzate a Firenze. Come epilogo si è scelto di ricordare la Missione Giotto del 1986, realizzata dall’Agenzia Spaziale Europea, che per la prima volta nella storia intercettò la Cometa di Halley, dipinta nell’Adorazione dei Magi della Cappella degli Scrovegni a Padova. info www.giotto-venezia.magister. art; e-mail: info@magister.art

Le nostre bellezze artistiche patiscono furti, vandalismi e danneggiamenti dovuti a eventi naturali disastrosi, ma anche alla mano dell’uomo. Tuttavia, l’arte negata, mortificata e distrutta da guerre, furti e catastrofi come i terremoti può rinascere dalle macerie, come la fenice, e può tornare a rivelarsi, grazie alla volontà, all’impegno e alla caparbietà dell’uomo nel ricomporre e ricostruire la propria identità attraverso l’arte. La mostra allestita nel Palazzo dei Conservatori evidenzia e attualizza l’impegno delle istituzioni a favore dell’arte, presentando importanti testimonianze artistiche che, a causa di vicende non sempre trasparenti, sono state, per moltissimo tempo, negate alla pubblica fruizione e spesso dimenticate nei depositi o in altri contenitori non accessibili al pubblico. Un’occasione per porre in risalto anche il quotidiano impegno da parte del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Il percorso espositivo si articola in tre sezioni, rispettivamente dedicate alle opere recuperate a seguito di furti, alle opere salvate dalle zone terremotate dell’Italia Centrale, nello specifico delle Marche, e a contesti che hanno subito danni provocati dalle guerre. In quest’ultimo ambito viene ripercorsa la vicenda della cattedrale di Benevento, colpita dalle bombe degli Alleati nel settembre del 1943. All’indomani dell’evento, si agosto

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provvide a recuperare e mettere in salvo il patrimonio superstite, ma gran parte del materiale fu evidentemente accatastato e dimenticato e, fino al ritrovamento del 1980, erroneamente ritenuto perduto. Fino al 1980 era opinione comune che dei due amboni del duomo, gli unici elementi superstiti fossero quelli conservati ed esposti presso il Museo del Sannio a Benevento e il Museo Diocesano a

Benevento. Tuttavia, gli scavi archeologici hanno portato alla luce i marmi depositati in uno

dei locali adiacenti alla cripta e ora esposti in mostra: tutti i leoni che facevano parte dei due pergami e i frammenti delle colonne che li sormontavano, alcuni capitelli ed elementi di sculture e di lastre marmoree che ne costituivano le fiancate, nonché la base con figure di mostruose cariatidi del cero pasquale e il fuso spiraliforme della colonna che su essa si impostava. info Tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it

Appuntamenti PISA APERTURE SERALI IN PIAZZA DEI MIRACOLI fino al 31 agosto

Due tra i monumenti piú suggestivi della Piazza dei Miracoli prolungano l’orario di apertura oltre il tramonto: fino al 31 agosto, la Torre di Pisa e il Camposanto sono infatti visitabili sino alle 22,00. Nel Camposanto, ad accogliere il visitatore, è l’ultimo episodio del ciclo del Trionfo della Morte, il Giudizio Universale di Buonamico Buffalmacco, da pochi mesi ricollocato in situ

dopo che un importante restauro ne ha riportato alla luce il primitivo splendore. Nella visita notturna, gli affreschi sono valorizzati da una suggestiva illuminazione che, pur rispettando la sacralità e l’intimità del luogo, esalta la narrazione e lo stile delle storie dipinte sulle pareti. La salita serale sulla Torre è impreziosita dalla vista della città dall’alto, immersa nei colori del tramonto e poi nelle luci della notte. info tel. 050 835011; e-mail: info@opapisa.it; www.opapisa.it SARZANA (LA SPEZIA) FESTIVAL DELLA MENTE XIV EDIZIONE 1-3 settembre 2017

Giunto alla quattordicesima edizione, il Festival della Mente di Sarzana avrà il suo filo conduttore nel concetto di

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AGENDA DEL MESE

rete, indagato da letterati, artisti, scienziati, psicologi, filosofi, storici, designer. «Come è stato lo scorso anno per la parola “spazio”, anche “rete” è un concetto che racchiude molteplici significati e può essere declinato in molti modi», spiega Benedetta Marietti, direttrice della rassegna. «Dal web alla rete intesa come insieme di relazioni umane; dalle reti che ci ingabbiano e imprigionano all’esplorazione delle reti neurali nelle neuroscienze; dalla rete della solidarietà fino all’importanza della rete nella biologia, nella fisica, nella matematica, e perfino nello sport. Attraverso l’indagine di un tema è cosí possibile affrontare argomenti e campi diversi del sapere, dalle piú recenti scoperte scientifiche agli ambiti di pensiero artistico e umanistico, in linea con la vocazione multidisciplinare e divulgativa del Festival della Mente». Fra le partecipazioni annunciate vi sono quelle dello storico Alessandro Barbero e dello studioso del mondo classico Matteo Nucci. In programma, come sempre, anche una sezione per bambini e ragazzi – un vero e proprio festival nel festival curata da Francesca Gianfranchi, realizzata con il contributo di Crédit AgricoleCarispezia, che prevede numerosi laboratori, spettacoli, letture animate e incontri per i piú piccoli. info www.festivaldellamente.it CITTÀ DI CASTELLO (PERUGIA) IL CONVENTO DI SAN GIROLAMO

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A CITTÀ DI CASTELLO E LA PRESENZA DEI GESUATI Palazzo Bufalini 3 settembre

Proseguono gli appuntamenti con le celebrazioni del seicentocinquantesimo anniversario (1367-2017) della morte del beato Giovanni Colombini e della costituzione dell’ordine dei Gesuati. Il Palazzo Bufalini di Città di Castello ospita una giornata di studi nel corso della quale saranno presentati i seguenti interventi: Isabella Gagliardi (Università degli Studi di Firenze), Presenza castellana dei Gesuati; Francesco Rossi (Associazione Idilio dell’Era), Il Corpus Jesuatorum; Andrea Czortek (Istituto Teologico di Assisi), Il beato Giovanni Colombini e i Gesuati nella Città di Castello del ‘300. L’incontro è accompagnato da una mostra di documenti d’archivio, documenti a stampa e iconografia, visitabile fino a domenica 3 settembre. info istituto per la valorizzazione delle abbazie storiche della toscana: tel. 338 6581170; e-mail: abbazietoscana@libero.it; www.abbazietoscana.it

CAMOGLI (GENOVA)

Per la sua quarta edizione, la rassegna in programma a Camogli ha scelto il tema delle Connessioni. Connessioni che non

una delle sue caratteristiche piú apprezzate. Per questa ragione alle conferenze si affiancano laboratori, panel, spettacoli, mostre, cinema, escursioni e gite in mare. Fra gli altri, segnaliamo gli interventi dello storico Alessandro Barbero, Connessioni clandestine, e del

caratterizzano solo il secolo ipertecnologico in cui viviamo, ma sono anche intimamente legate alla natura umana: coinvolgono in modo profondo e strutturale la società, la storia, i sistemi economici e di governo, le nostre abitudini e il nostro pensiero. A confrontarsi sull’argomento sono chiamati oltre 130 esperti e studiosi di diversi ambiti e generazioni, per garantire quella ricchezza di contenuti e punti di vista che ha da sempre contraddistinto il festival e che rappresenta

matematico Piergiorgio Odifreddi, su Plutarco, Keplero e Huygens: una connessione astronomica, nonché l’approfondimento sul tema dell’Homo sapiens proposto dal genetista Guido Barbujani, insieme al presidente del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze Guido Chelazzi e al filosofo evoluzionista Telmo Pievani. Tutte le iniziative del festival sono gratuite e aperte al pubblico fino a esaurimento dei posti disponibili. info www.festivalcomunicazione.it

FESTIVAL DELLA COMUNICAZIONE IV EDIZIONE-CONNESSIONI 7-10 settembre 2017

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storie altotevere

Il sangue e la bellezza

testi di Manuel Vaquero Piñeiro ed Erminia Irace

Il Medioevo e il Rinascimento pullularono di cavalieri, armi, opere d’arte e passioni travolgenti. Non fa eccezione l’Alta Valle del Tevere, teatro di scontri accaniti per il controllo del territorio, ma anche culla di capolavori firmati dai maestri piú insigni


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l Paesaggio con fiume, disegno eseguito da Leonardo da Vinci nel 1473, è la prima opera d’arte in cui la natura assume il ruolo di protagonista assoluto. Il piccolo capolavoro (19 x 28,5 cm, conservato presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi) rappresenta il capostipite di una serie infinita di dipinti che hanno tramandato l’immagine del «bel paesaggio» italiano.

Nel realizzare il disegno, sul quale sono state avanzate numerose ipotesi identificative, Leonardo trasse ispirazione dai particolari osservati in occasione dei suoi viaggi nella Penisola e non ebbe dubbi sulla scelta dell’elemento che caratterizzava in maniera inequivocabile lo spazio naturale: il primo piano della raffigurazione è occupato da un corso d’acqua in tumultuosa caduta, che si trasforma in una cascata. Il rilievo tributato al fiume è un indizio dell’attenzione per le acque coltivata dallo stesso Leonardo e da tutta la cultura rinascimentale. Qualche anno piú tardi, tra il 1502 e il 1503, Cesare Borgia incaricò Leonardo di progettare la bonifica del bacino idrico compreso tra l’Altotevere e la Valdichiana. Come attesta la mappa realizzata in quell’occasione, l’artista dovette analizzare a lungo il paesaggio modellato dallo scorrere del Tevere, le colline tra Perugia e Città di Castello, le forme delle tante insenature createsi nel corso del tempo, la direzione dei torrenti che dettavano i percorsi delle strade principali e secondarie e la rete degli insediamenti umani, distanti dagli impaludamenti di fondovalle.

Uno spazio di frontiera

Questa era la dimensione geografica e umana dell’Alta Valle del Tevere, un territorio inciso dalle lunghe catene collinari che scolpivano nel paesaggio il profondo legame delle popolazioni con il grande corso fluviale, punto d’arrivo e di partenza di strade e di percorsi vallivi. Nel complesso, era ed è un’immagine dolce, spesso nascosta dalle nebbie che dal fondo della valle salgono sui pendii delle colline. A partire dai primi secoli del Medioevo, l’Alta Valle del Tevere si caratterizzò come uno spazio di frontiera, ossia di confine ma anche di transito, nel quale si sedimentarono incessantemente le dinamiche storiche. Il territorio diventò una stra-

In alto Martirio di san Sebastiano, tempera su tavola di Luca Signorelli. 1498. Città di Castello, Pinacoteca Comunale. A sinistra, sulle due pagine Paesaggio con fiume, disegno di Leonardo da Vinci. 1473. Firenze, Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe.

tegica area militare. La valle tiberina aveva plasmato a fondo la fisionomia delle terre a nord di Perugia e rappresentava perciò il corridoio naturale attraverso il quale potevano spostarsi con facilità gli eserciti che traversavano l’Italia. Nella guerra greco-gotica (535553) e negli scontri tra i Longobardi e i Bizantini, la valle svolse un ruolo nevralgico nel garantire i collegamenti tra Roma e Ravenna. In questo contesto, le sommità delle colline, dalle quali era possibile controllare i passi e i sentieri, videro il formarsi di una capillare rete di torri e di presídi militari. La guerra dettò le regole dell’insediamento e del rapporto con il territorio. Nel contempo, l’area conobbe le trasformazioni spaziali derivanti dalla moltiplicazione dei centri mona-

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storie altotevere

In alto uno scorcio panoramico del fiume Tevere nel suo corso in territorio umbro. Qui sotto cartina dell’Umbria con indicazione dei principali centri e, in evidenza, la localizzazione di Città di Castello.

MARCHE

Città di Castello Pietralunga

Tevere

Arezzo

MontoneGubbio

TOSCANA

Tolentino

Lago Trasimeno

Perugia

Deruta

Todi Orvieto Lago di Bolsena

Assisi

Nocera Umbra

Spello Foligno Campello sul Clitunno

Acquasparta

ra

Ne

Spoleto

Norcia Cascia

Ferentillo Cascata Amelia Terni delle Marmore Narni Orte Rieti Viterbo

Lago di Vico

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Fabriano

LAZIO

stici. Sotto la spinta delle politiche fondiarie di abbazie rilevanti quali Badia Petroia (960), S. Maria di Val di Ponte (969 circa) e S. Salvatore di Montecorona (1008), gli uomini trovarono una nuova sistemazione sulle terre da bonificare e coltivare.

Poteri in conflitto

Nel quadro di una generalizzata crescita demografica ed economica, i corsi d’acqua, Tevere compreso, si trasformarono in spazi da controllare e su cui esercitare potere, per esempio costruendo un mulino oppure assicurandosi i pedaggi pagati da coloro che attraversavano un ponte. Nel Medioevo centrale, il rafforzamento della nobiltà e le accese rivalità tra i poteri che si confrontarono sul territorio provocarono ulteriori cambiamenti. Le torri di avvistamento furono trasformate in veri e propri castelli che attestavano

il potere e il prestigio raggiunto da una schiera di casate feudali. Cosí, a partire dall’XI secolo il castello di Monte Santa Maria in Tiberina diventò il centro di un’ampia signoria territoriale posta a cavaliere tra Toscana e Umbria (il marchesato del Monte fu eretto in feudo imperiale nel 1355). Un altro esempio è il castello di Antognolla, documentato dal XIII secolo e concesso in feudo da papa Bonifacio IX all’omonima famiglia. L’edificio fu realizzato inglobando i resti di un precedente insediamento benedettino, di cui rimane testimonianza nella cripta dedicata a sant’Ercolano. Il castello presenta una struttura fortificata caratterizzata dalla giustapposizione di corpi di fabbrica intorno a una torre originaria utilizzata per vigilare sulla vallata antistante. Funzioni analoghe furono svolte dalla rocca di Civitella Ranieri, posiagosto

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Qui sotto una veduta panoramica di Montone (Perugia), cittadina che ha legato molte delle sue vicende piú importanti alla famiglia Fortebracci.

Qui accanto la rocca d’Aries, nei pressi di Montone, eretta dalla famiglia Fortebracci sui resti di un piú antico fortilizio. A destra Montone. Una delle vie del borgo.

In alto una delle antiche porte d’ingresso al borgo di Montone.

In basso mappa del Marchesato del Monte Santa Maria, con i Marchesati di Sorbello e di Petrella (da Famiglie celebri d’Italia, Milano 1842).

zionata all’incrocio delle vie che collegavano Perugia, Gubbio e Città di Castello. Anch’essa attestata dall’XI secolo, appartenne alla famiglia perugina dei Ranieri e venne trasformata in feudo nel 1443 dall’imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Un’altra rocca rilevante è quella di Aries, ubicata poco fuori Montone; con ogni probabilità, costituí il primo nucleo di potere della famiglia Fortebracci. La massiccia costruzione rappresenta un chiaro esempio di fortilizio posto a presidio delle vie di collegamento lungo la valle del Carpina, uno dei corridoi naturali

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che consentiva l’attraversamento della catena appenninica tra l’Umbria e le Marche.

Un paesaggio turrito

Al di là delle singole specificità, questi edifici testimoniano la pluralità delle strategie e dei conflitti perseguiti dalle famiglie nobiliari per affermarsi sul territorio e per assicurarsi il controllo su un numero consistente di coloni e di vassalli. Il paesaggio dell’Alta Valle del Tevere divenne turrito sulla scia delle forti rivalità esistenti tra le casate nobiliari ma anche, dai secoli XII-XIII,

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storie altotevere

come conseguenza del consolidamento delle istituzioni comunali. L’asse dello scontro si spostò tra i nobili, arroccati nelle fortezze rurali, e le città impegnate nel sottometterli e nell’estendere la propria giurisdizione. Tale politica comunale mirava a portare l’ordine lungo la valle del Tevere, al fine di sviluppare le comunicazioni e gli scambi commerciali verso la Toscana e la Romagna. Perugia ordinò la costruzione della solida fortezza di Fratta (odierna Umbertide) nel tardo XIV secolo, mentre gli altri nuclei urbani del territorio si dotarono di possenti mura bastionate, come Città di Castello, Montone e Citerna. Con il prosieguo del tempo, si configurò uno scenario dominato dalle contese territoriali sia tra le città maggiori (Perugia, Città di Castello, Gubbio, Arezzo, San Sepolcro), sia tra gli Stati. In epoca rinascimentale l’Alta Valle del Tevere rappresentò una enclave posta tra i domíni della Chiesa e quelli della Repubblica fiorentina. L’Altotevere

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seguitava a essere attraversato da linee di tensione pronte a esplodere alla minima rottura degli equilibri. Le cronache cittadine degli inizi del XV secolo raccontano una situazione locale connotata dalle continue lotte di fazione e dai passaggi degli eserciti, ma altresí segnata dal susseguirsi di terremoti, che provocarono ingenti danni.

Un primato effimero

In un contesto dominato dall’instabilità si ambientò l’affermazione militare e politica di Braccio Fortebracci (1368-1424), il quale, in poco piú di quindici anni, conquistò un ampio dominio personale che comprese Perugia, Montone e Città di Castello, oltre a molte altre località. Per il condottiero fu particolarmente importante impadronirsi delle terre che lambivano la Toscana. Si trattò, però, di un assetto destinato a sbriciolarsi in poco tempo. Dopo la morte di Braccio, l’Alta Valle del Tevere diventò il luogo di confronto

e di scontro tra il papato e Firenze, entrambi impegnati a controllare in maniera, piú o meno diretta, questo strategico lembo di terra. Tuttavia, sarebbe un errore leggere le vicende della zona sul finire del Medioevo soltanto in chiave militare, perché proprio tale identità di frontiera consentí alla famiglia Vitelli di trasformare Città di Castello nella piccola capitale di uno Stato territoriale, anche mediante il ricorso a un raffinato mecenatismo architettonico e artistico. La coesistenza tra le distruzioni apportate dalla guerra e la creatività culturale rappresenta, ai nostri occhi, una delle contraddizioni piú vistose di quell’epoca, della quale possiamo farci un’idea grazie alle opere d’arte che ancora oggi si conservano in loco (in seguito, molti capolavori furono asportati da Napoleone). Anche utilizzando i proventi delle condotte militari, i discendenti di Niccolò Vitelli (1414-1486) trasformarono Città di Castello in un agosto

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Sulle due pagine vedute del Palazzo Vitelli alla Cannoniera a Città di Castello. XVI sec. A sinistra, il porticato; a destra, la facciata, ornata da una intricata decorazione in stile rinascimentale.

cantiere aperto, costruendo un’impressionante serie di prestigiose dimore di famiglia. Sul finire del XV secolo, su committenza di Camillo, Giovanni e Vitellozzo fu realizzato il cosiddetto Palazzo Vitelli in Piazza o dell’Abbondanza. Nei primi decenni del XVI secolo, Vitello promosse la costruzione del Palazzo Vitelli a San Giacomo per la moglie Angela Paola de’ Rossi, mentre, tra il 1521 e il 1545, Alessandro fece erigere il monumentale Palazzo Vitelli alla Cannoniera, edificio ispirato a modelli fiorentini, riccamente decorato, costruito sulla base di uno schema compositivo ideato dal Vasari. Chiude la serie il Palazzo Vitelli a Sant’Egidio, eretto alla metà del XVI secolo per Paolo II Vitelli. In sostanza, in meno di un secolo Città di

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Castello sperimentò trasformazioni architettoniche e urbanistiche simili a quelle conosciute, nello stesso periodo, dalla Ferrara estense.

Da fortezza a palazzo

Il modello imposto dai Vitelli in città si trasferí anche al di fuori del recinto urbano, come dimostrano le vicende del Palazzo Bufalini di San Giustino. L’originario fortilizio acquisí importanza nella seconda metà del XV secolo, giacché si trovava a poca distanza da Sansepolcro, nel frattempo diventata territorio fiorentino. Nel 1487 l’edificio entrò in possesso di Niccolò di Manno Bufalini, un tifernate protetto dai Vitelli e ben introdotto nella Curia romana – a lui si deve, tra l’altro, la committenza della cappella di famiglia nella basilica dell’Ara Coeli a Roma, affrescata dal Pintoricchio intorno al 1486. In seguito, con l’ausilio di architetti fiorentini la famiglia Bufalini trasformò la fortezza di San Giustino in un elegante palazzo

rinascimentale, ornato con un’elegante loggia e con giardini. Accanto al rinnovamento architettonico, la corte dei Vitelli commissionò ammirevoli pale d’altare e cicli pittorici eseguiti da alcuni dei maggiori pittori del Rinascimento e destinati ad abbellire le chiese della città: per esempio lo Stendardo della Santissima Trinità e lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, la Trasfigurazione di Cristo del Rosso Fiorentino, ma, soprattutto, i capolavori di Luca Signorelli. Il pittore di Cortona soggiornò per un lungo periodo a Città di Castello, dove realizzò numerosi dipinti, quali l’Adorazione dei Magi (1495), l’Adorazione dei pastori (1496), il Martirio di San Sebastiano (1498), oltre ai bellissimi affreschi dell’oratorio di S. Crescentino a Morra (1507). Se l’arte è un riflesso della società, l’Alta Valle del Tevere fu una delle aree piú dinamiche dell’Italia rinascimentale. F Manuel Vaquero Piñeiro

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storie altotevere

SIGNORI DELL’ALTOTEVERE L’8 marzo 1216, il castello di Montone si sottomise al Comune di Perugia e, nei decenni successivi, la sottomissione fu replicata piú volte; in particolare nel 1248, allorché, nel corso dei contrasti tra guelfi e ghibellini, Perugia riuscí a tornare in possesso del castello. In quell’occasione, il promotore dell’accordo fu Fortebraccio di Oddone, capo dei guelfi montonesi, che ottenne come ricompensa la protezione perugina (vedi box a p. 44). A partire da questo momento, i Fortebracci diventarono decisivi per Perugia, che intendeva espandersi lungo la vallata altotiberina. Pur conservando i possessi di Montone, la famiglia cominciò a risiedere anche a Perugia, qualificandosi come una delle piú potenti casate nobili della città. La situazione cambiò nel XIV secolo, quando, a seguito di una rivoluzione politica, il governo perugino fu controllato dalle corporazioni delle Arti. Le autorità tentarono piú volte di bandire dalla città i nobili, i quali, tuttavia, continuarono a contare sulle proprie fortezze dislocate nel territorio, sul mestiere delle armi, di cui avevano lunga pratica, e su preziosi contatti con i Comuni circonvicini. I Fortebracci strinsero proficui rapporti con Firenze: Guido di Oddone fu podestà della città toscana

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di Erminia Irace

nel 1368 e suo figlio, anche lui chiamato Oddone, ricoprí la carica di capitano del popolo nel 1372. Quest’ultimo fu il padre di Andrea soprannominato Braccio, uno dei piú celebri condottieri del Rinascimento.

Uniti alla conquista del potere

Nato nel 1368, Braccio crebbe come un esule, giacché la fazione nobiliare a cui la sua famiglia apparteneva fu espulsa per l’ennesima volta da Perugia nel 1378. Orfano di padre all’età di dodici anni, iniziò l’apprendistato militare sotto Antonio da Montefeltro e, soprattutto, Alberico da Barbiano. Nel 1394 promosse un patto giurato, firmato da 43 nobili perugini fuoriusciti, che impegnava i contraenti a rimanere uniti al fine di conquistare il potere nella città da cui erano stati cacciati. Braccio disponeva, a questo punto, di un obiettivo politico da raggiungere. Messosi in evidenza per il suo valore in battaglia, a lui nel 1407 si rivolsero gli abitanti di Rocca Contrada (oggi Arcevia), che lo nominarono loro signore. Approfittando della congiuntura difficile che caratterizzava il papato, preda del Grande Scisma, negli anni successivi Braccio inanellò una serie di affermazioni militari e agosto

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sia per evitare possibili sconfinamenti dei bracceschi in territorio toscano. Nel 1416 Braccio conquistò Perugia, riportando al potere la fazione nobiliare; nel 1417 governò Roma per 70 giorni, seminando il terrore tra i sostenitori del potere papale. Il suo dominio diretto si estese su una parte consistente dell’Italia centrale; perciò, diventò un pericolo. Nel 1420 papa Martino V lo nominò vicario apostolico di una parte dei territori umbro-marchigiani, ma dietro questa concessione si celava un accordo tra il papato e Firenze, finalizzato a ridimensionare la potenza di Braccio. Forse per evadere da questa tenaglia, il condottiero entrò al servizio della regina Giovanna II di Napoli, ma si ritrovò cosí invischiato in una lunga guerra, lontana dai solidi ripari dell’Altotevere. Braccio trovò la morte nella battaglia dell’Aquila (giugno 1424) e i centri del suo dominio furono recuperati dal papato.

La situazione si complica

In alto Perugia, Palazzo dei Priori, Sala della Congregazione. La dedizione di Perugia, particolare del ciclo di affreschi con le Storie di Braccio Fortebraccio da Montone di Tommaso Bernabei detto il Papacelio e aiuti. XVI sec. A destra stemma di Braccio da Montone, da un particolare della decorazione del suo sarcofago. XV sec. Perugia, chiesa di S. Francesco al Prato.

di conquiste territoriali nelle Marche e nell’Umbria. I successi lo resero uno dei protagonisti del complicato scacchiere geopolitico italiano. L’antipapa Giovanni XXIII cercò di utilizzarlo, ordinandogli di occupare la ribelle Bologna; come ricompensa, il papa eresse Montone in contea per Braccio e i suoi discendenti (agosto 1414). Parimenti, i Fiorentini, legatissimi a papa Giovanni, finanziarono le conquiste del condottiero sia per stabilizzare la convulsa situazione delle città umbre,

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Ai Fortebracci rimasero il controllo su Montone nonché il potente ricordo delle gesta di Braccio, attorno al quale si coagularono le aspettative di varie famiglie nobili umbre alla ricerca di spazi di manovra politica. Tra il 1431 e il 1432, papa Eugenio IV concesse due vicariati nell’area altotiberina: Montone a Carlo, figlio di Braccio, e Sansepolcro a Niccolò detto «della Stella», dal nome della madre, che era sorella di Braccio. Sembravano ricrearsi i presupposti per un dominio familiare sull’area altotiberina. Tuttavia, la precoce morte di Niccolò in battaglia (1435) e il trentennale impegno di Carlo come condottiero al servizio di Venezia (1447-1476) complicarono di nuovo la situazione. Da Montone Carlo sferrò un attacco contro Città di Castello nel 1477, ma le truppe inviate da papa Sisto IV sventarono il tentativo, assediando Montone, che fu nuovamente ricondotta sotto il dominio diretto della Chiesa. Nel 1518 papa Leone X attribuí la contea di Montone alla famiglia Vitelli, che la conservò fino al 1640. Vitellozzo di Gerozzo Vitelli era un ricco mercante tifernate degli inizi del XV secolo, ben inserito nei circuiti commerciali toscani e possessore di alcune località strategiche nel territorio di Città di Castello. Esiliato dalla città a causa della sua rivalità con un’altra famiglia, quella dei Guelfucci, si schierò dalla parte di Braccio Fortebracci, riuscendo in tal modo a rientrare in patria nel 1423. Dopo la morte di Braccio, allorché

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storie altotevere la santa spina di montone

Il prezioso dono del comandante Carlo Secondo la tradizione, una delle spine della corona di Cristo fu donata dall’arciprete di un piccolo centro del territorio di Verona a Carlo Fortebracci, al tempo in cui costui era uno dei comandanti dell’esercito veneziano. Nel 1473 Carlo, a sua volta, donò la Spina alla comunità di Montone, che la conservò nella chiesa di S. Francesco. A partire dal 1665 la Santa Spina fu racchiusa in un reliquiario d’argento finemente cesellato; i Francescani di Montone annotarono in uno dei loro registri che, in occasione del Lunedí dell’Angelo, i fedeli accorrevano osannanti da tutta l’Umbria per venerare la reliquia. La Spina è tuttora riposta nel reliquiario barocco conservato presso le monache di S. Agnese. La festa annuale in onore della reliquia si è tramandata attraverso i secoli e, negli ultimi decenni, si è arricchita di ritualità, trasformandosi in una grande manifestazione rievocativa della durata di una settimana, che si svolge nei giorni a cavallo di ferragosto. Montone si colora delle bandiere appese nelle piazze e nelle vie, e diventa sempre piú forte il senso di appartenenza ai tre rioni in cui è ripartito il centro storico: Porta del Borgo, Porta del Monte e Porta del Verziere. I rioni si confrontano gareggiando tra loro nel bando di sfida, nel tiro con l’arco e nelle rappresentazioni teatrali di ambientazione medievale; i punteggi sono assegnati da giurie di esperti che valutano la storicità

dell’ambientazione, le scenografie e le capacità interpretative dei partecipanti. Il rione vincitore si aggiudica il palio e il diritto a far sfilare la propria castellana nel giorno conclusivo della manifestazione. Durante quest’ultima giornata, un suggestivo corteo storico rievoca l’ingresso nella cittadina di Carlo Fortebracci, che incontra la moglie, Margherita Malatesta (sorella di Sigismondo, che fu signore di Rimini), impersonata dalla castellana del rione vincitore. La Donazione di Montone è socia fondatrice delle Manifestazioni storiche dell’Umbria (2001) e ha ottenuto il patrocinio dell’UNESCO (2007). Erminia Irace

la città tornò sotto il dominio della Chiesa, Vitellozzo strinse rapporti d’affari con il papato, ottenendo l’incarico di tesoriere della provincia del Patrimonio di San Pietro (1441). Nel frattempo, ancorché avversato dalle famiglie rivali, accrebbe la sua autorevolezza a Città di Castello, dove ricoprí importanti incarichi pubblici. Per assicurarsi una discendenza, Vitellozzo diventò il tutore del nipote Niccolò, nato nel 1414 da un suo fratello, in seguito precocemente scomparso. Istruito nelle discipline umanistiche, Niccolò ricoprí l’incarico di podestà a Firenze e a Perugia; dopo la morte dello zio, nel 1462, ne ereditò il ruolo pubblico, diventando il personaggio eminente della vita politica tifernate. Per consoli-

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In alto Montone (Perugia). Uno scorcio del centro abitato. A destra un’immagine del reliquiario in argento che custodisce la Santa Spina. XVI sec. Montone, chiesa di S. Francesco.

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Ritratto di Andrea Fortebracci, meglio noto come Braccio da Montone. Perugia, oratorio di S. Francesco dei Nobili.

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storie altotevere Tesori d’archivio

Il piú antico grifo perugino Il piú antico documento che si conserva nell’Archivio storico del Comune di Montone è una pergamena munita di un sigillo di ceralacca appeso con una fettuccia rossa: recentemente restaurata, è esposta nel complesso museale di S. Francesco. La pergamena riporta informazioni preziose su due momenti della storia locale, risalenti rispettivamente al 1216 e al 1248. Il contenuto del documento riferisce i dettagli del patto di sottomissione concluso l’8 marzo 1216 tra Cardasanti e Bernardo di Giacomo, consoli del castello montonese, e le autorità perugine, rappresentate dal podestà e dal camerlengo del Comune. Tra le clausole dell’accordo era specificato che Perugia avrebbe protetto i Montonesi alla stessa stregua dei propri cittadini. Era un atto importante per il Comune perugino, interessato a controllare le vie di comunicazione che conducevano verso la Toscana e le Marche. Tuttavia, come spesso avveniva all’epoca, l’accordo ebbe breve durata. Nel 1239, durante il conflitto tra Federico II e papa Gregorio IX, le truppe imperiali invasero le terre della Chiesa, assediarono Perugia e conquistarono gran parte dell’Umbria. Gli assetti istituzionali

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A destra la pergamena contenente gli accordi di sottomissione del castello di Montone alla città di Perugia. 1248. In basso particolare del sigillo in ceralacca allegato alla pergamena, che risulta la prima attestazione dell’effigie del grifo come emblema dell’autorità perugina.

vennero sconvolti, mentre all’interno delle comunità divamparono gli scontri tra guelfi e ghibellini. Dopo la sconfitta di Federico nella battaglia di Parma (1248), i guelfi ripresero il sopravvento, emancipandosi dal controllo imperiale. Il primo atto che segnò la ripresa dell’attività di Perugia fu il rinnovo del patto con Montone, concluso nel settembre 1248. La conferma aveva notevoli significati per entrambe le istituzioni contraenti; segnava la rinascita dei due Comuni, dopo gli sconvolgimenti federiciani. Pertanto, si procedette con grande solennità. Le autorità perugine inviarono un loro rappresentante, il notaio Giacomo di Buono, che si recò a Montone portando con sé una copia autenticata della sottomissione del 1216, che muní di un sigillo raffigurante un grifo passante e la dicitura sigillum C. Perusii («sigillo del Comune», o forse «della

Città, di Perugia»): è la piú antica attestazione del grifo utilizzato come simbolo del Comune perugino. A Montone Giacomo trattò l’accordo con Fortebraccio di Oddone, il capo dei guelfi locali, ed entrambi, a nome delle rispettive comunità, rinnovarono gli impegni già sottoscritti nel 1216. Dunque, la pergamena che si può ammirare nel Museo di S. Francesco è la copia, redatta e sigillata nel 1248, dell’originario documento steso nel 1216. Fortebraccio e Giacomo vollero che essa fosse conservata a Montone; per questo motivo, chi intenda mettersi alla ricerca del piú antico simbolo del Comune perugino, deve volgere i suoi passi in direzione della cittadina dei Fortebracci. Erminia Irace agosto

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dare la sua posizione, nel 1468 ordinò il massacro di numerosi oppositori, capeggiati dalle famiglie dei Giustini e dei Fucci, conquistando cosí il pieno controllo sulla città. Pochi anni piú tardi, nel 1474, papa Sisto IV tentò di inglobare definitivamente Città di Castello nei domíni apostolici e inviò un esercito, al comando del cardinale Giuliano della Rovere (il futuro pontefice Giulio II). Dopo due mesi di assedio, la città capitolò, mentre Niccolò, che aveva coordinato la resistenza, riparò a Firenze. Si reimpadroní di Castello nel 1482, con l’aiuto di un contingente armato fornito da Lorenzo il Magnifico, e ordinò di distruggere le due rocche costruite per volontà papale, «giudicando non la fortezza, ma la benivolenza del popolo lo avesse a tenere in quello stato», cioè al potere (Machiavelli, Discorsi, II, XXIV, 26). Con il sostegno dei Fiorentini, le magistrature cittadine lo proclamarono signore di Città di Castello, stabilendo che, dopo la sua morte, il titolo passasse ai discendenti. Niccolò morí nel 1486; pur tra alterne vicende, egli riuscí a salvaguardare l’autonomia della sua città, Città di Castello. Perciò, durante i solenni funerali, fu proclamato pater patriae, il medesimo riconoscimento che Firenze aveva tributato a Cosimo il Vecchio. La dinastia dei Vitelli fu proseguita dai suoi quattro figli legittimi, tutti condottieri. I piú celebri tra loro furono Vitellozzo e Paolo. (segue a p. 48)

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In alto Città di Castello. Panoramica aerea del centro abitato. Qui sopra Città di Castello, Piazza Gabriotti, Palazzo Comunale. Uno scorcio della lunetta del portale d’ingresso.

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storie altotevere

RAFFAELLO

L’esordio di un genio Un pala d’altare, l’Incoronazione di San Nicola da Tolentino. Una data: 10 dicembre 1500. E una firma: «magister Rafael Johannis Santis de Urbino». La prima pittura documentata di Raffaello Sanzio vide la luce a Città di Castello. Nella importante commessa lo affiancò Evangelista di Pian di Meleto, che aveva lavorato a lungo con il padre: amico di famiglia e socio, visto che erano ormai divenuti entrambi gli eredi della bottega urbinate di Giovanni Santi. Nel borgo dell’Altotevere, all’epoca centro nevralgico delle rotte commerciali tra l’Umbria, le Marche e la Toscana, Raffaello realizzò quattro grandi opere. Tre pale e un gonfalone: l’Incoronazione di San Nicola da Tolentino, lo Stendardo della Santissima Trinità, la Crocifissione con Santi e il celebre Sposalizio della Vergine.

L’Incoronazione di San Nicola da Tolentino, destinata alla cappella privata della famiglia Baronci, nella chiesa cittadina di S. Agostino, era un’opera monumentale (2,30 x 3,90 m). Andò dispersa a seguito di un terremoto che colpí Città di Castello nel settembre del 1789. Per pagare i lavori di ricostruzione dell’edificio la pala fu venduta a papa Pio VI e poi smembrata. Del grande dipinto a olio su tavola, sono rimasti solo quattro frammenti. L’immagine del busto di un angelo è conservata al Louvre, mentre il busto di un altro angelo si può ancora ammirare nella Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia. Il museo napoletano di Capodimonte

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In alto Testa di angelo, olio su tavola di Raffaello Sanzio. 1500 circa. Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo. A sinistra Lo Sposalizio della Vergine, olio su tavola di Raffaello Sanzio. 1504. Milano, Pinacoteca di Brera.

ospita altre due parti della pala d’altare: rappresentano L’Eterno Padre e la Vergine, ciascuno con una corona in mano da offrire a san Nicola. A Città di Castello è rimasta solo una copia del 1791 firmata dal pittore Ermenegildo Costantini. L’unico dipinto del giovane Raffaello rimasto in Altotevere è un doppio stendardo processionale, dedicato alla Trinità. Fu commissionato all’artista urbinate agosto

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da una confraternita religiosa, come ex voto in ricordo della peste che pochi anni prima aveva flagellato il borgo altotiberino. L’opera fu ritenuta a lungo la prima prova d’artista del grande pittore, ma i critici ne hanno di recente spostato la datazione tra il 1501 e il 1503. Il gonfalone fu dipinto su entrambe le facce, adesso separate ed esposte fianco a fianco nella Pinacoteca cittadina: da un lato la Trinità con i santi Rocco e Sebastiano, dall’altro la Creazione di Eva. La dolcezza del paesaggio e la presenza di angeli simmetrici tra i nastri svolazzanti richiamano la pittura del Perugino e altri particolari ricordano la lezione di Signorelli. Ma c’è già, nella disposizione negli spazi delle figure e nella freschezza dei colori il marchio inconfondibile del genio urbinate. L’eco della bellezza dello stendardo permise al giovanissimo artista di ottenere nuove commissioni. Come la splendida Crocifissione con santi (1503), dipinta per la cappella della chiesa di S. Domenico e ora conservata alla National Gallery di Londra. Sole e luna sovrastanti, rimandano a una evidente tradizione iconografica medievale. Alludono all’alfa e all’omega, inizio e fine dell’Incarnazione divina. Vasari

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In questa pagina due particolari del gonfalone dipinto da Raffaello Sanzio per la cattedrale di Città di Castello. A destra, Trinità con i santi Rocco e Sebastiano, dipinta sul fronte; in basso La creazione di Eva, dipinta sul rovescio. 1502. Città di Castello, Pinacoteca Comunale.

ricordò che se Raffaello non avesse firmato il dipinto «in maniera evidente e assai originale alla base della croce», «nessuno avrebbe creduto che non fosse opera del Perugino». La svolta definitiva nella maturazione artistica di Raffaello arrivò però l’anno dopo, nel 1504, quando l’artista dipinse lo Sposalizio della Vergine per la Cappella Albizzini nella chiesa di S. Francesco. Raffaello ha da poco compiuto 21 anni. È la sua ultima opera a Città di Castello. Consapevole della sua caratura d’artista, firma con orgoglio quello che è considerato il suo primo capolavoro, in lettere capitali, sull’architrave della loggia del tempietto che domina la scena del dipinto. L’opera affronta lo stesso tema dell’altro Sposalizio della Vergine, realizzato nel 1499 dal Perugino nel Duomo di Perugia. Ma l’allievo, come scrisse il Vasari, ormai ha superato il maestro.

Nasce Raffaello, pittore dell’armonia, capace di meditare con il segno del genio, la lezione del Perugino e di Piero della Francesca, ma anche del Bramante, di Leon Battista Alberti e di Leonardo da Vinci. La proporzione, l’equilibrio, delle figure, i caldi colori e l’uso avanzato della prospettiva, raccontano la nascita di un’arte nuova, nella quale pittura e architettura si fondono. Lo Sposalizio della Vergine rimase a Città di Castello fino al 1798. La città, da giorni, era alla mercè delle truppe francesi. La consegna del grande dipinto al generale napoleonico Giuseppe Lechi serví a evitare un saccheggio che era già stato ordinato. Con enfasi, i documenti ufficiali registrarono il gesto come un «dono». Ma si trattò di un furto. Federico Fioravanti

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storie altotevere A sinistra Città di Castello, Palazzo Vitelli a Sant’Egidio. Particolare degli affreschi raffiguranti le Storie della famiglia Vitelli tra il 1474 e il 1564, opera di Prospero Fontana. XVI sec. In basso scudo araldico di Niccolò Vitelli. Particolare della decorazione parietale della Sala dei Notari nel Palazzo dei Priori di Perugia. XV sec.

Quando il re di Francia Carlo VIII attraversò l’Italia col suo esercito (1494), i due avevano, rispettivamente, trentasei e trentatré anni e da tempo erano conosciuti per la loro valentía. Nel 1498 furono ingaggiati dalla Repubblica fiorentina, con la promessa di un soldo assai elevato. Paolo fu nominato capitano generale dell’esercito di Firenze e venne incaricato di condurre la guerra contro Pisa. Nell’agosto 1499, le sue truppe, nelle quali militava anche Vitellozzo, aprirono una breccia nelle mura pisane, ma non spinsero l’attacco fino in fondo. Questa titubanza, unita alla lentezza delle manovre, allarmò il governo fiorentino, una parte del quale non si fidava di Paolo. Egli fu arrestato, mentre il fratello si mise in salvo, tornando a Città di Castello. Condannato, Paolo venne decapitato il 1° ottobre 1499. Da allora in poi, Vitellozzo meditò la vendetta nei confronti di Firenze. Arruolatosi nell’esercito di Cesare Borgia, ne divenne uno dei principali luogotenenti. In particolare, occupò Arezzo e la Valdichiana insieme a Giampaolo Baglioni. Nel 1502, avendo compreso la pericolosità dell’espansionismo borgiano, partecipò alla dieta dei congiurati della

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Magione, ma, dopo poche settimane, accettò imprudentemente l’invito avanzato da Cesare di recarsi a Senigallia. Giunto sotto le mura della città marchigiana, andò incontro al duca «disarmato», vestito «con una cappa foderata di verde, tucto aflicto come se fussi conscio della sua futura morte», come in seguitò narrò Machiavelli (Del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini). Fu il primo dei congiurati a venire strangolato, a opera del famigerato don Micheletto, la sera dell’ultimo dell’anno del 1502. Privata del suo signore, Città di Castello tornò a dipendere dalla Sede apostolica. I Vitelli conservarono la loro preminenza nella società locale e i consolidati rapporti con il mondo toscano. Gli esponenti della famiglia seguitarono a praticare il mestiere delle armi, come Alessandro Vitelli, il quale, alla metà del Cinquecento, comandò gli eserciti di Cosimo I de’ Medici e del papato. I loro servigi ebbero ampie ricompense, tra le quali figurarono la contea di Montone, che abbiamo ricordato in precedenza, e il Marchesato di Bucine, presso Arezzo, acquisito nel 1646. F agosto

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protagonisti severino boezio

di Chiara Mercuri

Processo


al senatore

Sospettato di aver cercato accordi segreti con l’imperatore d’Oriente, Albino, senatore del regno ostrogoto di Teodorico, fu difeso da Severino Boezio. Il quale, però, scelse argomentazioni che costarono anche a lui l’incriminazione e la condanna a morte. Tuttavia, prima dell’esecuzione, riuscí a far sentire ancora una volta la sua voce autorevole, componendo un’opera magistrale...

A

nno 523. Re Teodorico – Teodorico l’Amalo (dal nome della dinastia a cui apparteneva, n.d.r.), il grande re dei Goti orientali, gli Ostrogoti – guida l’Italia da ormai trent’anni. È «rex» degli Ostrogoti, ma governa come un monarca l’intera Italia e alcune importanti aree contigue come la Provenza, la Dalmazia, i passi alpini verso nord (verso la Rezia e il Norico, attuali Svizzera e Austria). Governa dal palazzo di Ravenna, come i suoi predecessori, gli imperatori d’Occidente, gli augusti della pars occidentalis, l’ultimo dei quali, il giovanissimo Romolo Augustolo, era stato costretto all’abdicazione, il 24 agosto del 476, da Odoacre, capo ribelle dell’esercito imperiale. Proprio Teodorico – dieci anni dopo quella sortita e la conseguente estinzione del trono occidentale – era stato inviato in Italia dall’augusto orientale, l’imperatore Zenone, per uccidere Odoacre, cacciare i suoi soldati e proteggere da quel momento la Penisola e le regioni a essa legate in nome dell’impero romano legittimo, l’unico ormai rimasto, quello di Costantinopoli. Cosí, alla guida del suo popolo di guerrieri germanici, Teodorico aveva attaccato Odoacre, l’aveva ucciso e aveva preso il controllo dell’Italia. Nonostante il richiamo ideologico alla ritrovata unità imperiale, da quel momento il governo dell’Italia era rimasto nelle sue salde mani, e Costantinopoli non ave-

Miniatura raffigurante le Muse che visitano Severino Boezio in prigione, da un’edizione del De consolatione philosophiae. XV sec. Rouen, Bibliotheque Municipale.

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protagonisti severino boezio va potuto fare altro che esercitare un potere puramente nominale, del tutto evanescente. Il governo di Teodorico aveva tuttavia riportato agli Italici la possibilità – come proclamarono poi i suoi collaboratori – di gustare il «saporem de romana libertate». L’Italia ostrogota era a quel punto diventata un Paese difeso – e bene – dai soldati goti, che avevano confiscato le terre, sottraendole ai militari di Odoacre, senza nulla togliere ai proprietari romani. Grazie ai Goti, l’Italia aveva smesso di essere vulnerabile a scorrerie e incursioni, che invece tanto avevano contribuito al declino e alla fine dell’impero d’Occidente. A Ravenna era tornata la corte – ostrogota– e l’amministrazione civile era stata affidata ad alti funzionari romani, tra i quali spiccava il primo ministro di Teodorico, Cassiodoro.

Divergenze dottrinali

A Roma restava il Senato, che aveva mantenuto privilegi, funzioni e cariche, e in esso risuonavano le voci dei discendenti delle antiche casate nobiliari romane, i Decii, gli Anici, i Simmachi. Il Foro, gli anfiteatri, i circhi, le leggi, le distribuzioni alimentari alla popolazione, la manutenzione delle grandi città era garantita dagli Ostrogoti e amministrata da funzionari latini. Esisteva, certo, il problema religioso: gli Ostrogoti erano di religione ariana, appartenevano cioè – come la stragrande maggioranza delle popolazioni germaniche venute a contatto con l’impero romano – a una forma di cristianesimo che non considerava Gesú figlio di Dio, ma un semplice uomo. Ciò non impedí, tuttavia, che i rapporti tra Teodorico e i pontefici fossero buoni: il re sovrintendeva i sinodi e favoriva l’elezione papale, come faceva il suo omologo in Oriente e quando scese per la prima volta in visita ufficiale a Roma, il Senato – la gloriosa Curia imperiale posta nel cuore del Foro – eresse statue in suo onore, per ripagarlo della generosità mostrata nel sovvenzionare opere di restauro e manutenzione dell’Urbe. Il re germanico si rivolse allora con queste parole alla popolazione del nascente Stato: «Ascoltino, entrambi i popoli che noi amiamo: ai Goti sia chiaro che i Romani, come sono vicini a voi per le proprietà, cosí siano vicini a voi nell’affetto. E voi Romani dovete amare i Goti con grande impegno, perché in tempo di pace aumentano la vostra popolazione e in tempo di guerra difendono tutto lo Stato». Eppure, nonostante tali favorevoli premesse, tutto era sul punto di franare. Nel 523 Teodorico era un uomo avanti negli anni, stanco e cupo. Il genero Eutarico, a cui aveva progettato di affidare il suo regno, era deceduto, inaspettatamente, ancora giovane. Teodorico era preoccupato. Nonostante i tre decenni di insperata pace, nonostante avesse garantito un’inimmaginabile continuità della civiltà e dei costumi romani, sentiva di aver fallito. Quello ostrogoto, sebbene fosse di gran

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lunga il piú ricco e potente dei neonati regni germanici, appariva – per paradosso – il piú fragile. La causa prima di tale fragilità derivava dal fatto che il processo d’integrazione tra Romani e Ostrogoti si era arrestato e forse non era mai cominciato, innanzitutto per via della differenza religiosa: arianesimo e cattolicesimo si fronteggiavano con basiliche, battisteri e rispettivi ministri del culto a Ravenna, a Pavia, a Verona, e in ognuna delle altre grandi città italiane. La popolazione romana era compatta nella sua fede cattolica, mentre quella ostrogota intendeva restare – anche per orgoglio etnico – fedele all’arianesimo. Un senso di superiorità e diffidenza divideva i due popoli, uno piccolo e armato, l’altro numeroso e inerme, entrambi destinati a convivere nella stessa Penisola.

La «superiorità» degli Italici

Gli Italici erano colti e raffinati, sentivano di seguire la «vera» confessione religiosa ed erano una moltitudine. In fin dei conti, gli Ostrogoti erano ex barbari, erano «eretici», parlavano un dialetto tedesco, e, nella quasi totalità, erano analfabeti. Lo stesso Teodorico non sapeva scrivere. Avrebbero mai potuto governare senza l’aiuto dei funzionari romani? E che cosa sarebbe successo dopo la morte del re? Il potere ostrogoto avrebbe continuato a essere percepito come una agosto

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VICENZA

In alto miniatura raffigurante il duello a cavallo tra Teodorico e Odoacre, da un manoscritto del XII sec. CittĂ del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

RAVENNA

In alto Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Particolare del mosaico della parete destra della navata centrale, raffigurante il palazzo di Teodorico.

ROMA

A sinistra Roma, Foro. Veduta della facciata della Curia Iulia, sede del Senato romano. III sec. d.C.

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protagonisti severino boezio

potenza occupante o gli Italici avrebbero saputo dimostrarsi leali verso una corte che, seppure straniera, gli aveva garantito pace, sicurezza e continuità con la libertas romana per tanti anni? C’è una componente, apparentemente secondaria, ma destinata a prevalere su tutte le altre: la potenza evocativa, emotiva, psicologica della nostalgia dell’impero, quasi una sorta di «maledizione». Mentre le ca-

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pitali romano-germaniche delle altre regioni d’Europa – burgunde, franche, visigote, vandale, anglosassoni –, lontane da Costantinopoli, a cinquant’anni dalla caduta di Roma faticavano a ricordarne l’effigie, in Italia tutto era ancora vivissimo, come fosse accaduto ieri. Roma e Costantinopoli erano città gemelle, nelle quali il tempo si era fermato a cinquant’anni prima, alla vigilia della disfatta dell’impero d’Occidente. agosto

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Nella pagina accanto medaglione aureo di Teodorico rinvenuto in una tomba a Senigallia (Ancona). 500 circa. Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Qui sotto moneta d’oro con effigie dell’imperatore d’Oriente Zenone, fautore della caduta di Odoacre. V sec. In basso recto di un denario aureo con il profilo di Giustino I. VI sec. Le lettere che il senatore Albino inviò all’imperatore bizantino furono all’origine del procedimento giudiziario che finí con il coinvolgere anche Severino Boezio.

E se l’impero fosse tornato? Se il legittimo imperatore d’Oriente avesse infine riunito l’Italia a sé, come un tempo si prefiggeva? Del resto, l’imperatore d’Oriente aveva inviato gli Ostrogoti in Italia solo per cacciare Odoacre e riconsegnare la Penisola all’unità dell’impero. Non sarebbe stato allora naturale che l’Italia fosse tornata ad avere un imperatore cattolico? Che l’arianesimo fosse stato estirpato? Che la civiltà greco-romana avesse potuto ricostituire la propria perduta unità e che il Senato romano fosse tornato a essere il gioiello dell’amministrazione imperiale? E se il sogno dell’impossibile ritorno – diffuso tanto tra i ceti elevati come tra quelli popolari – si fosse ancora potuto concretizzare? Questi erano gli interrogativi che avvelenavano le speranze di gran parte della popolazione italica. In realtà, il primo ministro Cassiodoro, come la maggior parte degli intellettuali romani coinvolti nell’amministrazione, credeva nella necessaria collaborazione e lealtà nei confronti dei re ostrogoti, i soli che potessero garantire la pace e la prosperità della Penisola, ma il desiderio segreto di molti di veder naufragare il governo goto tormentava Teodorico.

Un’accusa priva di fondamento

In tale contesto, il referendarius Cipriano, un alto funzionario di Teodorico (vedi box a p. 59), accusò il senatore Albino di tramare contro il regno ostrogoto. Teodorico aveva raggiunto i settant’anni d’età e pensava ormai alla successione: per questo prestò maggiore attenzione alle voci sinistre che si levavano intorno a lui circa il futuro del dominio goto. Il senatore Albino fu sospettato di aver inviato una lettera al nuovo imperatore d’Oriente, Giustino, per tramare contro di lui. È in effetti

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possibile che Albino avesse inviato lettere a Giustino per comunicargli la notizia dell’elezione del nuovo pontefice Giovanni I. E che, in tale occasione, avesse espresso apprezzamento per l’editto antiariano emanato dall’imperatore. Tuttavia, l’accusa di complotto non aveva alcun fondamento e se essa attecchí fu solo a motivo della complessità del momento politico. Il nuovo imperatore d’Oriente, infatti, era diverso dai suoi predecessori: ferocemente antiariano, disprezzava i barbari e gli elementi «non greci» presenti nell’amministrazione orientale; cullava il sogno della restituzione reale – e non solo formale – dei territori occidentali al proprio trono. Albino, inoltre, era amico personale del nuovo pontefice, Giovanni I, ed era un senatore influente. Aveva fatto parte di una delegazione recatasi nel 520 a Costantinopoli per promuovere la risoluzione delle dispute tra cattolici latini e cattolici greci e in tale occasione era stato a stretto contatto con Giustino. Albino respinse i sospetti a suo carico come calunnie e Teodorico, consapevole della gravità dell’accusa e dell’importanza del senatore incriminato, decise di organizzare un processo teso a stabilire la verità. Convocò il consistorium regis – il largo consiglio del re – che si riuní a Verona. Alla presenza degli alti dignitari del regno – germanici e romani – Albino tentò in ogni modo di discolparsi e, nel corso del dibattimento, il senatore Boezio ebbe la malaugurata idea di prendere la parola in sua difesa. Anicio Manlio Torquato Severino Boezio era nato a Roma, intorno al 480, da una famiglia di antica nobiltà, gli Anicii. Suo padre, Flavio Narsete Manlio Boezio, fu console nel 487, e morí quando il figlio era ancora piccolo, per cui, secondo la tradizione romana, Boezio era stato adottato da un altro illustre senatore, Quinto Aurelio Memmio Simmaco, a sua volta console nel 485. Boezio aveva poi sposato la figlia di Simmaco, Rusticiana, da cui aveva avuto due figli. L’intera carriera di Boezio si era svolta sotto il regno di Teodorico. Coltissimo, si era meritato nel 505 le lodi di Cassiodoro ed era stato nominato questore, patrizio e

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protagonisti severino boezio «Quaderni» celebrativi Il dittico è un oggetto composto di due valve di legno, metallo o avorio, unite da una cerniera e chiudibili a libro. Nell’antichità fu usato per scrivere e a tale scopo le valve, all’esterno quasi sempre artisticamente ornate, venivano coperte all’interno di uno strato di cera su cui si incidevano le lettere con uno stilo. Nella tarda età imperiale fu in uso inviare dittici a ricordo di fausti avvenimenti (nomine di alti funzionari, matrimoni, ecc.). Di particolare importanza fra quelli a noi pervenuti sono i dittici detti «consolari», usati a Roma per celebrare l’entrata in carica dei consoli. Tra quelli emessi per celebrare avvenimenti legati alla storia di determinate famiglie e in particolare a matrimoni, si ricorda il dittico dei Simmaci e Nicomaci, diviso tra il Musée de Cluny di Parigi e il Victoria and Albert Museum di Londra.

infine console; nel 522 era divenuto magister officiorum, una sorta di alto cancelliere, entrando a far parte del consiglio regio, la cerchia ristretta dei collaboratori del re. La cultura e il prestigio della casata da cui proveniva lo rendevano – agli occhi di Teodorico – particolarmente adatto a intrattenere i complessi rapporti tra il regno ostrogoto e l’impero d’Oriente.

Da difensore a imputato

Nell’intento di difendere Albino, Boezio – forse troppo sicuro della propria intangibilità in quanto magister officiorum – finí col chiamare in causa l’intero Senato. Sostenne la difesa di Albino affermando: «L’insinuazione di Cipriano è del tutto falsa. Ma se anche Albino avesse fatto ciò di cui è accusato, io e l’intero Senato l’avremmo fatto con lui, unanimemente». Con quelle parole, intendeva dire che il fatto di corrispondere con l’imperatore d’Oriente rientrava nelle normali prerogative del Senato, e dunque proprie di ogni senatore. Tale dichiarazione, però, accentuò ancor piú i sospetti e i timori di Teodorico e l’accusa finí per focalizzarsi su Boezio, coinvolgendo – secondo il suo suggerimento – l’intero Senato. Cosí, quando Teodorico rinviò la pratica processuale al Senato – per marcare la distanza dal sospettato –, i senatori non presero le difese di Boezio, il quale si ritrovò isolato davanti ai suoi accusatori. Il processo, ormai rivolto contro Boezio, si svolse in un clima drammatico, senza che nessuno – a parte Simmaco – intervenisse per discolparlo. Cipriano presentò tre testimoni risibili, Basilio, Opilione e Gaudenzio, i quali, secondo quanto contestato da Boezio, non aveIn queste pagine due immagini della faccia anteriore (particolare) e posteriore del dittico consolare di Manlio Boezio, padre di Severino. 487.

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Brescia, Museo di Santa Giulia. Il prezioso manufatto venne realizzato quando il genitore del filosofo e senatore assunse la carica di console. agosto

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vano alcuna credibilità, poiché già in precedenza erano stati accusati di corruzione o frode; il primo era stato addirittura cacciato dal servizio regio, mentre gli altri due condannati all’esilio temporaneo. Essi risultavano, per giunta, strettamente imparentati con Cipriano.

Arti magiche per fare carriera

Le accuse mosse a Boezio insistevano su tre capisaldi: aver impedito la consegna dei documenti necessari a provare le colpe di Albino (le famose lettere tra Albino e Giustino); aver inviato egli stesso lettere alla corte orientale, auspicando la liberazione dell’Italia dal dominio goto, e infine – a rendere manifesta la strumentalità dell’accusa – l’aver usato «sacrilegi» (atti di stregoneria) per ottenere avanzamenti nella carriera. D’altra parte, Cipriano non poteva e non doveva essere giudicato solo come un volgare delatore. Romano di nascita, ma «goto di cuore», egli si era sempre dimostrato leale nei confronti degli Ostrogoti, sia sul campo di battaglia che nell’amministrazione civile. A conferma della sua sincera ammirazione per i dominatori,

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protagonisti severino boezio

Tradizioni leggendarie

I tormenti del re assassino Secondo le fonti, Severino Boezio venne imprigionato nell’Agro Calvenzano, alle porte di Pavia, e sarebbe stato rinchiuso in una torre – crollata nel 1584 –, che probabilmente apparteneva alla cinta di mura romane e sorgeva nell’attuale piazza Petrarca. L’atroce fine del senatore dette il via – da subito – al nascere di molte leggende. Una delle piú famose è ricordata da Procopio, storico bizantino, che scrisse appena tre decenni dopo gli eventi. Egli riferisce che, nelle poche settimane intercorse tra la morte di Boezio e il decesso di Teodorico, quest’ultimo fu ossessionato dalle ingiuste condanne che aveva fatto eseguire. Secondo Procopio, avvenne pure che, durante un pranzo di corte, avrebbero recato al re un piatto di portata contenente la testa di un grosso pesce, alla cui vista – gli occhi vitrei fuori delle orbite – il sovrano sarebbe deceduto all’istante, ricordando la morte inflitta al suo consigliere Simmaco.

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La Thidrekssaga, o Saga di Teodorico, un racconto cavalleresco scandinavo di età bassomedievale in cui confluirono diverse leggende epiche germaniche e vichinghe, riporta che Teodorico avrebbe avuto la visione, nei giardini della sua reggia veronese, di un bellissimo cervo. Desideroso d’inseguirlo, gli apparve un cavallo nero sellato, mai visto prima. Teodorico gli sarebbe salito in groppa e il cavallo avrebbe iniziato a correre all’impazzata. Il re tentò invano di

fermarlo, finché non comprese che si trattava del demonio, sopraggiunto per rapirlo. Proprio a questa leggenda si rifece il poeta Giosué Carducci nella lirica La Leggenda di Teodorico. Anche un famoso papa dell’epoca, Gregorio Magno (540-604), non mancò di menzionare l’orrendo crimine di Teodorico. Nei suoi Dialoghi, reinventò la morte di Teodorico, facendolo precipitare nel cratere dell’Etna, spinto dalle sue vittime, Boezio, Simmaco e papa Giovanni. agosto

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Nella pagina accanto Verona, basilica di S. Zeno Maggiore. Particolari della decorazione marmorea posta ai lati del protiro. In alto, Teodorico all’inseguimento del cervo, opera di maestro Nicolò. In basso, il duello tra Teodorico e Odoacre, opera di maestro Guglielmo. XII sec.

la vicenda giudiziaria

Alla sbarra per alto tradimento Il processo a Severino Boezio seguí pedissequamente le procedure istituzionali romane, cosí come erano andate definendosi nel periodo tardo-antico. Anche da questo punto di vista, il regno di Teodorico si presentò come un campione della continuità. Il processo ad Albino – che poi investí Boezio e gli altri senatori – assunse quindi le caratteristiche di quello che oggi potremmo definire un processo per alto tradimento a un’altissima carica dello Stato (una sorta di «impeachment»). Il dibattimento si svolse innanzitutto davanti a un tribunale speciale, un «tribunale dei

ministri» quale era il Consistorium regis, che consisteva in una sorta di consiglio allargato del re. Nel palazzo regio di Verona, si levò contro Albino il refendarius Cipriano. Il referendarius svolgeva la carica di pubblica accusa, una sorta di «avvocato dello Stato». Boezio prese invece la parola come difensore, in qualità di Magister Officiorum, una carica che potremmo assimilare al nostro Ministro della Giustizia. La causa venne quindi rinviata dal re al Senato, in modo che l’organo giudicasse da sé i propri appartenenti. Abbiamo visto come finí e come

In questa pagina la copia settecentesca della cosiddetta Iconografia Rateriana, veduta a volo d’uccello della città di Verona nel Medioevo, in cui è raffigurato e indicato anche il palazzo di Teodorico (nel particolare). L’originale su pergamena, realizzato presumibilmente tra il 915 e il 920-922, è andato perduto.

aveva anche fatto educare i propri figli nella doppia cultura e nel perfetto bilinguismo latino-gotico. Alla fine del dibattimento, come si è detto, Teodori-

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gli aspetti politici, le pressioni del governo e gli interessi individuali prevalsero sui contenuti e sui formalismi giuridici.

co rinviò – come atto puramente formale – il processo al Senato, il quale compí il vero tradimento, non opponendosi alle ingiuste accuse, probabilmente per timore di essere chiamato a correità. La condanna a morte di Boezio – indifeso e isolato – divenne, cosí, inevitabile. Venne condotto in prigione presso Pavia (in agro Calventiano) e rinchiuso in attesa dell’esecuzione. Qui, nelle segrete del carcere, scrisse il De consolatione philosophiae, uno scritto struggente e lucidissimo, a cui affidò la sua

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protagonisti severino boezio Il De consolatione philosophiae

Solo la filosofia può aiutare gli innocenti All’interno del carcere pavese, nel quale soggiornò in attesa dell’esecuzione, fra il 523 e il 525, Boezio trovò la forza di redigere un’opera in prosa e in versi, il De consolatione philosophiae. Oltre a costituire una sorta di testamento morale del senatore, essa si è rivelata di fondamentale importanza per l’influenza enorme che ha avuto sul pensiero medievale. L’opera si apre con l’espressione della sofferenza di Boezio per l’ingiustizia subita: il falso processo e il comportamento vile del Senato. Nondimeno, il suo animo nobile non rinuncia a cercare conforto nella

poesia e nelle Muse, dalle quali dice di ricevere ispirazione. A un certo punto del racconto, però, gli appare una donna dall’aspetto giovanile, che caccia le Muse: «La poesia, anziché placare i dolori, li alimenta», mentre la sua nuova visitatrice gli porterà soccorso. È la Filosofia, la sua antica compagna di giovinezza, colei che gli ha insegnato il pensiero di Platone e di Aristotele. «La filosofia – dice la donna a Boezio – aiuta sempre gli innocenti». Dal punto di vista dottrinario, il libro riprende molti temi neoplatonici: la vita terrena è una «ruota della fortuna»; la vera felicità è avvertire in

noi la presenza di Dio come «anima del mondo»; il male esiste solo in quanto assenza di bene; il tempo degli uomini non è altro che una frazione infinitesimale del vero tempo; il vero tempo è l’eternità nella quale Dio – e le esistenze da lui create – vivono una realtà distinta dagli eventi contingenti e vani del mondo umano. Le riflessioni di Boezio contenute nel De consolatione philosophiae ebbero un riflesso enorme sul pensiero medievale e giocarono un ruolo fondamentale nelle dispute universitarie, permettendo la piena fusione tra platonismo antico e cristianesimo.

Miniatura che raffigura Boezio di fronte alla ruota della Fortuna, da un’edizione del De consolatione philosophiae, tradotto da Jean de Meung. XV sec. Rouen, Bibliothèque Municipale.

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A destra Boezio e la Filosofia, particolare di una miniatura da un’edizione rinascimentale del De consolatione philosophiae. 1476. Londra, British Library.

difesa presso i posteri (vedi box alla pagina precedente); una difesa segnata dalle accuse contro Cipriano e dallo sgomento per il comportamento del Senato romano.

Una fine controversa

Secondo alcune fonti, Boezio venne ucciso – dopo crudeli torture – nell’autunno del 524, poco dopo il processo. Secondo altre, invece, sarebbe stato ucciso sul finire del 525 o nei primi mesi del 526, in seguito al fallimento della missione di papa Giovanni in Oriente. Missione che aveva avuto l’obiettivo di convincere l’imperatore Giustino a ritirare i provvedimenti antiariani. Teodorico aveva costretto papa Giovanni a cercare una mediazione con Giustino sul tema scottante della repressione antiariana in modo da ricomporre anche la crisi tra senatori e corte regia, ma le cose andarono ben diversamente. Il ritorno di papa Giovanni con un nulla di fatto nelle mani spinse Teodorico – ormai in preda a paranoici sospetti – a convincersi della fondatezza di un complotto bizantino contro il suo regno. E a quel punto avrebbe or-

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dinato l’esecuzione di Boezio come reazione. Poco tempo dopo, il sovrano convocò Simmaco, anziano padre adottivo del senatore, accusandolo di complicità e condannandolo, con un processo sommario, alla morte per strangolamento. Infine, incarcerò a Ravenna papa Giovanni, che si ammalò e morí. Il sogno di pace e di convivenza del re ostrogoto svaní cosí nel giro di pochi mesi a causa di un delirio complottistico, segnato dal sangue. Teodorico, ormai pazzo, visse ancora solo pochi mesi, tra visioni orrifiche (vedi box a p. 58) e presagi mortiferi, fino a spegnersi a Ravenna, il 30 agosto del 526. Meno di dieci anni piú tardi, una potente flotta – inviata da Giustiniano, imperatore d’Oriente succeduto al padre Giustino – attaccò il regno ostrogoto, alla cui guida era salito il nipote di Teodorico, l’inetto Teodato. Una guerra ventennale (detta «greco-gotica») determinò il ritorno – effimero e malinconico – delle insegne imperiali in Italia, segnando la completa estinzione degli Ostrogoti e la morte di gran parte della popolazione italica, in una parola, la fine della civiltà romana.

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Un eremita fra gli idoli di pietra di Elena Percivaldi

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Nei pressi di Aulla, nel cuore della Lunigiana, si può ammirare il complesso abbaziale di S. Caprasio. Un monumento importante, la cui storia plurisecolare è stata segnata da non poche traversie, che l’hanno perfino visto rischiare la distruzione completa. Scampato il pericolo, esso si offre oggi ai visitatori e ai pellegrini che, come un tempo, percorrono la via Francigena

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hi oggi percorra la via Francigena nel suo tratto toscano in provincia di Massa-Carrara, non può non sostare all’abbazia di S. Caprasio. Siamo ad Aulla, nel cuore della Lunigiana, alla confluenza tra il fiume Magra e il torrente Aulella: una terra di confine, tra i colli e il mare, suggestiva e magica, fatta di borghi, castelli e memorie millenarie. Per comprendere la lunga e complessa storia di S. Caprasio, occorre accennare alle vicende del territorio di cui costituí, per secoli, uno dei punti di riferimento: vicende che affondano le loro radici in un’epoca molto antica, come dimostrano i numerosi ritrovamenti risalenti

In alto Filattiera (Massa-Carrara), pieve di S. Stefano di Sorano. Una veduta esterna del versante absidale, trilobato, a cui si affianca la torre campanaria. Nella pagina accanto statua-stele di guerriero (Sorano V). VI sec. a.C., conservata nella pieve di S. Stefano di Sorano.

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medioevo nascosto lunigiana A destra l’abito del pellegrino francigeno ricostruito in uno degli allestimenti del Museo di S. Caprasio ad Aulla. Nella pagina accanto il pannello che segnala S. Caprasio come importante tappa sul tracciato della via Francigena.

all’età del Bronzo e del Ferro, prime fra tutti le celebri statue-stele oggi esposte nel non lontano Castello del Piagnaro di Pontremoli e nel Castello di San Giorgio alla Spezia. In età romana (ma anche molto prima), la Lunigiana e le regioni attigue – come la Garfagnana e il Lucchese – erano aree strategiche per la loro posizione tra l’entroterra e il mare, solcate dai fiumi. La Lunigiana, in particolare, ruotava attorno al porto di Luni, sorto alle foci del fiume Magra nel 177 a.C. a seguito della deduzione di una colonia nell’agro appena sottratto ai Liguri Apuani, che divenne in breve uno degli scali piú importanti del versante tirrenico.

La rete dei commerci

Da Luni partivano navi cariche di marmo delle Alpi Apuane, legname, formaggi, vini e altri prodotti locali. Né il mare era il solo itinerario seguito da uomini, bestiame e merci. Assai battuta era la via Aemilia Scauri, istituita nel 109 a.C. dal censore Marco Emilio Scauro per collegare ancora Luni alle colonie padane di Parma e Piacenza. Il sistema viario, antico ma efficiente, era completato dalle tortuose strade che, in quota, attraversavano l’Appennino e giungevano in pianura, portando a dorso di mulo sale, derrate e altri beni commerciabili. Questo sistema di interscambio si mantenne efficiente e attivo fino alla conquista longobarda, quando i collegamenti tra il mare e la Pianura attraverso gli Appennini si interuppero bruscamente, isolando le valli dal mare e lasciando ai Bizantini soltanto le coste e poco entroterra da controllare. Luni, che in età imperiale romana si era arricchita di edifici monu-

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mentali – nel Parco Archeologico si possono vedere resti del Foro e dell’anfiteatro – ed era stata elevata nel V secolo a sede vescovile, iniziò cosí la sua parabola discendente. Fu saccheggiata ripetutamente, prima dai Longobardi (642), poi dai pirati saraceni e, infine (840), dai Nor-

manni. Spopolata e resa insalubre dalle paludi che si impadronirono progressivamente del porto, la città fu abbandonata tra la fine del IX e l’inizio del X secolo, a tutto vantaggio della vicina Sarzana, destinata da allora in poi a una fulgida storia. Alla caduta di Luni e alla deagosto

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Berceto

Borgo Taro

Montelungo Groppoli Casalina

Varese Ligure

Arzengio

P Pontremoli

Maissana

Zeri

Pieve di Saliceto

o Pieve di Sorano

Fi Filattiera

Mulazzo

Bagnone

Sesta Godano Zignago Carro

Castiglione del Terziere

Rocchetta di Vara Brugnato Calice al Cornoviglio Borghetto Vara Bonassola

Bigliolo

Podenzanaa

La Brina

Lerici

Minucciano

Castelnuovo Magra Ortonovo Carrara Avenza

Massa

Aree pianeggianti

Via Francigena

Territorio dell’antica diocesi di Luni

Via Francigena

Tracciato automobilistico

Confine della provincia di Massa Carrara

Via Francigena

Tracciato ciclabile

Autostrada

Via del volto santo

Tracciato consigliato per il carattere monumentale

Ferrovia

Strade rotabili principali e secondarie

Via degli abati

Piazza al Serchio

Fosdinovo

Sarzana

La Spezia

C Codiponte

Soliera

Santo Stefano di Magra

Arcola Riomaggiore

Aulla A Bibola

Vezzano Ligure

Monterosso

Fivizzano izz iz izz zzza zzaan an

Monti

Follo

Pignone

Levanto

Tresana

Bolano

Beverino

Comano

Licciana

Pietrasanta Camaiore

Dove e quando Museo e Abbazia di S. Caprasio Aulla (Massa-Carrara), piazza Abbazia Orario tutti i giorni, 9,00-12,00 e 15,00-18,00 Info tel. 0187 420148; e-mail: museo@sancaprasio.it; www.sancaprasio.it

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medioevo nascosto lunigiana Un rapporto privilegiato

A sinistra un ritratto di san Caprasio. A destra l’abbazia di Lérins, sull’Île Saint-Honorat (Francia), fondata dai santi Caprasio e Onorato al ritorno da un pellegrinaggio in Oriente.

Provenza, o cara! San Caprasio è legato non solo ad Aulla, ma anche a uno dei piú importanti monasteri del primo Medioevo, quello provenzale di Lérins, che sorge su un’isola al largo della Costa Azzurra, non lontano da Cannes. Secondo la tradizione, il futuro santo vi arrivò, insieme al piú giovane Onorato, intorno al 404, al ritorno da un pellegrinaggio in Oriente. Il fratello di Onorato, Venanzio, era morto durante il viaggio e i due intendevano ritirarsi in un luogo isolato, per dedicarsi alla vita eremitica, su imitazione dei Padri del Deserto che avevano conosciuto. Ben presto, attirati dal loro esempio, furono raggiunti da molti altri, desiderosi di seguirne l’esempio. La piccola comunità che andò radunandosi si diede una regola prendendo spunto da quella elaborata, in Oriente, da san Pacomio.

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E mentre Onorato «vegliava sul suo gregge come un pastore attento» (sono parole di Fausto, che fu abate di Lérins tra il 434 e il 462), Caprasio «nella solitudine, come su un monte lontano, invocava Dio pregandolo senza sosta». Egli amava ritirarsi in una capanna discosta: vuole la tradizione che il luogo esatto sia quello in cui oggi sorge la piccola cappella a lui dedicata, a ovest dell’isola maggiore. Grazie alla compresenza di studio e ascesi, nell’abbazia di Lérins, tra il V e il VI secolo, si formarono personalità di primissimo ordine, tra cui tre vescovi di Arles: oltre allo stesso Onorato e a Ilario, che ne scrisse nel 431 l’orazione funebre, il piú celebre fu sicuramente il grande predicatore e scrittore Cesario (470 circa-543), che esercitò profonda influenza sulla vita monastica.

Anche la casata del fondatore dell’abbazia di Aulla era legata alla Provenza, per interessi e rapporti parentali. Il marchese Adalberto I di Tuscia aveva intitolato la chiesa da lui eretta a Maria e «ai santi che vi saranno custoditi»; fu però probabilmente suo figlio Adalberto II, che era patrigno del re d’Italia Ugo di Provenza, a far arrivare in Lunigiana le spoglie di Caprasio dalla Francia, dove erano state messe in salvo dalle scorrerie saracene. Alcuni storici gli attribuiscono, a seguito di questo episodio, il cambio di dedica della chiesa abbaziale dalla Vergine a Caprasio; altri pospongono la data all’epoca della costruzione della «terza chiesa». La dedicazione al santo, però, compare nelle fonti per la prima volta solo nel 1077, in un diploma emanato dall’imperatore Enrico IV di Franconia. agosto

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cadenza degli itinerari marittimi corrispose la ripresa delle vie di comunicazione terrestri, sebbene forse su scala piú ridotta. Se ne giovò, in particolare, l’asse che si snodava lungo la Valle del Magra, intorno a Sorano, oggi frazione di Filattiera. Lí, in età romanica, sorse la pieve di S. Stefano (vedi box alle pp. 73-76). Dobbiamo immaginare, sui colli e nei centri che si stendevano lungo questa strada in età tardo-antica, un gran numero di torri di avvistamento e qualche castello (che i Bizantini chiamavano «kastròn»): di alcuni di essi è documentata archeologicamente la presenza, di altri sopravvive solo la memoria nei documenti e nelle fonti oppure nella toponomastica. Possiamo a tal proposito ricordare il «Kastròn Soreon», il castello di Sorano, ricordato nel VII secolo dal geografo Giorgio Ciprio, e il nome

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di Filattiera, che parrebbe derivare, come quello della vicina Filetto, dal greco «philakterios» (da phylasso, «difendere»), termine che designava le torri di guardia che segnavano i sistemi difensivi bizantini.

La corte scomparsa

Oltre al centro di Sorano (Surianum), che in epoca longobarda divenne sede di gastaldo, nel locale contesto altomedievale mantenne un ruolo di primaria importanza l’antica «curtis de Cuscugnano», soggetta al vescovo di Luni: se ne trova menzione ancora nei documenti del IX e del X secolo, dopo di che, misteriosamente, non se ne ha piú alcuna attestazione. Tale scomparsa potrebbe spiegarsi con il fatto che, nello stesso periodo, il marchese Adalberto I di Tuscia, membro di una famiglia aristocratica legata alla corona d’Italia

e in forte ascesa sul territorio, stava costruendo un castrum proprio nella vicina Aulla, a cui aggiungeva poco dopo – alla confluenza del torrente Aulella nel Magra – una chiesa dedicata a Maria con annessa abbazia, la futura S. Caprasio. Siamo nell’anno 884 e la fondazione e la dotazione di questo complesso comportò, di lí a poco, lo spostamento dell’asse gravitazionale dalla vecchia corte di Cuscugnano al centro dell’abbazia stessa. L’intento del marchese, e di suo figlio Adalberto II – presente come testimone all’atto di donazione dei terreni necessari alla dotazione –, era del resto proprio quello di garantirsi il controllo dell’intero territorio e i mezzi per esercitarvi il potere. A cui aggiungere, con la costruzione di un edificio religioso, la glorificazione della propria stirpe.

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medioevo nascosto lunigiana In effetti, grazie all’abbazia, gli Adalberti poterono in breve tempo affermare la propria autorità su un’area che si estendeva dalla Lunigiana alla Provenza e all’Emilia (ma alcuni possedimenti arrivavano in Lombardia e Veneto). Il loro disegno prevedeva la creazione, sfruttando la «vacatio legis» e il caos seguiti alla deposizione dell’imperatore Carlo il Grosso nella dieta di Augusta dell’887 e alla conseguente nascita del regno d’Italia conferito a Berengario del Friuli, un vero e proprio principato territoriale, per il quale la dipendenza dalla corona sarebbe stato poco piú che un atto formale.

VISITIAMO INSIEME

Una storia lunga e travagliata

In lotta per il trono

Gli Adalberti cercarono dunque di volgere a proprio vantaggio le discordie che subito scoppiarono fra lo stesso Berengario e l’altro pretendente al trono, Guido di Spoleto, sostenendo ora l’una ora l’altra parte, ma senza mai ambire di persona al titolo, pur avendone, in teoria, sia per «peso» territoriale che per nobiltà e dotazione economica, i requisiti. Nel proseguimento della lotta, che vide coinvolti altri grandi feudatari, come Lamberto II di Spoleto e addirittura l’imperatore Arnolfo di Carinzia, Adalberto II provò ad aiutare (invano) Berengario impegnato contro le scorrerie degli Ungari, salvo poi cercare di fermarlo quando, nel 907, sembrò intenzionato a sottrargli la sua Tuscia. Allora, probabilmente, Aulla e il castrum videro passare, o forse addirittura ospitarono al sicuro della cinta del borgo, le truppe mobilitate per contrastare le velleità del sovrano. Adalberto II morí nel 915. Gli succedettero la moglie Berta, figlia di Lotario II, e i figli Guido e Lamberto. Questi ultimi credettero giusto sostenere il fratellastro Ugo di Provenza, figlio di primo letto di Berta, nel suo tentativo di prendere la corona d’Italia (che in effetti cinse tra il 926 e il 947), ma non furono ripagati come si aspettarono. Fede-

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L’aspetto odierno del complesso di S. Caprasio è piuttosto diverso da quello che doveva avere all’epoca del suo massimo splendore. Oggi si conservano infatti solo la chiesa, la sala capitolare e parte del chiostro. L’edificio ha conosciuto tre fasi di vita: alla piccola chiesa edificata tra il VII e il IX secolo fece seguito una piú ampia costruzione, sempre a navata unica, promossa da Adalberto e dal figlio omonimo in occasione della fondazione abbaziale documentata dell’884 e della, di poco successiva, traslazione delle reliquie del santo dalla Provenza. La terza e ultima fase, tra la fine del X e il principio dell’XI secolo, coincise invece con l’ulteriore ampliamento a tre navate della chiesa e la ricollocazione delle reliquie in un sarcofago monumentale di stucco sistemato nella navata centrale. Quest’ultima chiesa, la terza, è quella che sostanzialmente si conserva tuttora. L’originario soffitto a campate è però stato sostituito, nel Seicento, da una volta a botte, cosí come al XVII secolo risale anche l’attuale pavimento in marmo bianco e ardesia, ora restaurato e riportato alla luce. I pilastri quadrangolari che suddividevano lo spazio delle navate sono ancora oggi in posizione, anche se di alcuni, abbattuti in occasione dei restauri barocchi, si conserva solo la base. Uno di essi è visibile, entrando dall’ingresso principale, subito sulla destra. Accanto si trova il fonte battesimale, costruito tra la fine dell’XI e la prima metà del XII secolo, quando cioè la chiesa dell’abbazia assunse il ruolo di chiesa pievana per il territorio circostante. Poco lontano, sul lato orientale della chiesa, si intravvedono i resti di

In alto la chiesa di S. Caprasio cosí come si presenta oggi, dopo i restauri barocchi.

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A destra l’esterno dell’absidale di S. Caprasio, in cui si possono leggere le tracce delle diverse fasi costruttive. X sec. In basso veduta dei resti del fonte battesimale, posto all’interno della chiesa. XI-XII sec.

una struttura muraria, orientata nord-sud, di problematica interpretazione: è probabile che si tratti di ciò che rimane della facciata fatta edificare da Adalberto. Sempre lungo la navata destra si trova anche la traccia del portale, ormai tamponato, che nell’XI secolo introduceva in chiesa: con molta probabilità l’ingresso era decorato, all’esterno, con due grandi capitelli, ora conservati nel museo, recanti rispettivamente le effigi dell’aquila e del demonio: come di prassi all’epoca, dovevano servire ad ammonire i fedeli sul pericolo dei vizi e delle tentazioni, e viceversa ricordare i benefici delle virtú e della parola evangelica. La parte che permette di apprezzare maggiormente tutte le vicissitudini è però l’abside. Quella attualmente visibile appartiene all’ultima fase: conserva tre grandi finestroni tamponati, uno dei quali ridotto a monofora in epoca romanica, mentre le due absidiole minori furono rasate e oggi ne resta solo la traccia, messa in luce dagli scavi. Quella di destra è stata sostituita dal campanile tuttora in piedi. A terra si scorgono molto bene i resti delle due fasi precedenti: ciò che resta della prima chiesetta del VII-IX secolo è poco piú di un lacerto, mentre possiamo seguire perfettamente l’andamento dell’abside della «seconda chiesa», quella di Adalberto, e vedere, sulla destra, qualche resto della pavimentazione realizzata con elementi di riuso. Tra essi spicca un frammento di lapide di marmo tardo-repubblicana (vi si legge il nome di Lucio Titinio, «praefectus fabrum»), oltre a mattonelle e porfido colorato. Al centro dell’abside, in basso, si conserva la fossa che conteneva, ai tempi di Adalberto, la cassa di legno di san Caprasio; poco sopra, invece, ecco il loculo dove a seguito della costruzione della terza chiesa fu spostato il sarcofago con le reliquie. A sinistra, un’impronta segna il luogo esatto dove il 18 maggio 1944 atterrò, fortunatamente senza esplodere, una delle bombe sganciate dall’aviazione alleata. Lasciata la chiesa, la visita prosegue nel museo, ospitato nell’antica sala capitolare e aperto grazie alla dedizione dei volontari, che espone i reperti riemersi dalle tombe all’interno della chiesa e nel chiostro, quest’ultimo ormai un semplice e ordinato cortile. La piú interessante è forse quella, datata VIII-IX secolo e rinvenuta poco al di fuori dell’abside della «seconda chiesa», di uomo di circa 60 anni: un personaggio sicuramente di alto lignaggio visto che gli spettò il privilegio della sepoltura «ad sanctum», vicino alle reliquie di Caprasio. Un’altra sessantina di sepolture di epoca compresa tra l’VIII e il XIV

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medioevo nascosto lunigiana la traslazione delle reliquie

Le spoglie ritrovate Caprasio morí nel 430 e fu sepolto, con Venanzio, nella chiesa di S. Pietro, patrono di Lérins, ma i suoi resti non dovettero risposare tranquilli a lungo. Nel 732, dopo la battaglia di Poitiers, i Saraceni, sconfitti da Carlo Martello, si diedero a saccheggiare la Provenza. Vittima delle scorrerie cadde anche il monastero di Lérins, la cui comunità fu quasi interamente massacrata. Narra Raymond Feraud (morto intorno al 1324), trovatore e poi monaco nello stesso cenobio, che l’abate Porcario, vedendo i pirati all’orizzonte, esortò i suoi a nascondere le reliquie conservate sull’isola in modo che non potessero profanarle: tra di esse c’era anche il corpo di san Caprasio. Qualche secolo dopo, le sante spoglie

giunsero ad Aulla, probabilmente tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, all’epoca cioè della costruzione della «seconda chiesa»: furono esposte ai fedeli e poi composte con cura in una cassetta di stucco, benedette e collocate nella basilica appena ampliata da Adalberto II di Tuscia. Delle reliquie si persero poi le tracce, al punto che molti finirono per considerare la storia della traslazione soltanto una leggenda locale. Nel 2003, però, durante una campagna di scavo, arrivò la sorpresa: al centro dell’abside, sotto il pavimento, gli archeologi trovarono una tomba privilegiata, che per le sue caratteristiche scatenò subito il generale entusiasmo. Emerse dapprima un loculo vuoto, di

In alto, a destra veduta dell’allestimento del reliquiario di san Caprasio, ricollocato sotto il pavimento dell’abside della chiesa. Qui sopra particolare di uno dei capitelli della chiesa, raffigurante un drago alato, personificazione del male, oggi conservato nel museo del complesso. XII sec. A destra planimetria della chiesa e del museo di S. Caprasio.

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forma rettangolare e con le pareti interamente intonacate; ammucchiati sul lato orientale, insieme a minuscoli frammenti ossei, giacevano alcuni reperti di ferro e una serratura appartenenti con ogni probabilità a una bara di legno: si trattava forse dei resti della cassa che aveva trasportato il corpo del santo dalla Provenza fino ad Aulla? Stabilirlo fu solo questione di tempo. Poco piú in là, in un altro loculo chiuso con lastre di pietra di risulta, si celava infatti un sarcofago-reliquario in stucco, contenente le ossa di un uomo molto anziano, con il corpo disteso e rivolto verso oriente. Gli studi paleoantropologici hanno confermato che i resti ossei di In alto il reliquiario di san Caprasio, subito dopo il suo ritrovamento, avvenuto in occasione di scavi archeologici condotti nel 2003.

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secolo sono riemerse invece nell’area esterna alle absidi; altre ventitré, infine, si trovavano appunto nel chiostro. Tra gli elementi di corredo degni di nota citiamo uno spillone di bronzo lungo 13,5 cm (fine IX secolo) a capocchia piatta con decoro a cerchietti, una fibbia d’oro del XII-XIII secolo, un anello d’argento decorato con l’aquila imperiale e una moneta coniata dalla Zecca di Parma nel 1209. Ma il «pezzo forte» del museo è la collezione di pietre scolpite tra il X e il XIII secolo. Si tratta di capitelli ed elementi di arredo provenienti dalla seconda e terza chiesa e in parte, forse, anche dal chiostro. La loro decorazione è in genere molto semplice e conforme ai piú diffusi motivi tipici dell’iconografia romanica: palmette, gigli, alcune fiere del bestiario, stucchi a motivo floreale. Vi è inoltre un frammento di marmo decorato a foglie forse proveniente da Luni, sottratto come molti altri pezzi sparsi in Lunigiana e altrove a seguito dello spoglio della cittadina ormai in piena decadenza. Interessante è infine la fossa di fusione di una campana di bronzo di 30-40 cm di diametro, ritrovata nel passaggio tra la chiesa e l’odierno museo: grazie allo strato di due centimetri di carboni ancora ben conservato, è stata datata all’XI-XII secolo, quando l’abbazia era già dotata di almeno una campana.

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entrambe le tombe appartenevano al medesimo individuo: un uomo morto in età avanzata, che in vita aveva camminato molto e negli ultimi anni si era alimentato di pesci e crostacei. L’esame al radiocarbonio ha permesso di datare al V secolo sia le ossa, sia i frammenti di legno, indicando come piú che possibile la suggestiva attribuzione al santo. Terminato l’esame, il reliquiario con i preziosi resti è stato benedetto e collocato sotto l’altare maggiore della chiesa, dove si trova tuttora esposto alla venerazione dei fedeli. San Caprasio è il patrono del tratto di Via Francigena che attraversa la diocesi di Massa Carrara-Pontremoli. Il Martyrologium Romanum ne assegna la festività al 1° giugno. le al suo programma politico – che prevedeva il ridimensionamento dei poteri dell’aristocrazia italiana mortificandone progressivamente le velleità autonomistiche –, Ugo finí per mettere nel mirino anche il potentato che i marchesi di Tuscia si stavano costruendo proprio a cavallo degli Appennini, per di piú assai ricco grazie anche alle cospicue proprietà che il monastero era andato accumulando. Ugo di Provenza tolse dunque agli Adalberti l’autorità sulla Marca di Tuscia, e, con essa, il controllo sull’abbazia aullese, e li conferí entrambi a un «uomo nuovo» di sua stretta fiducia, tale Oberto di origine longobarda, forse gastaldo a Surianum e futuro capostipite della potente famiglia degli Obertenghi che da lui avrebbe appunto preso il nome. Prima di morire Adalberto II aveva fatto in tempo a dotare la «sua» chiesa di S. Maria di un tesoro di prim’ordine: le reliquie di san

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medioevo nascosto lunigiana Caprasio. Era costui un eremita vissuto e morto nel V secolo, che, insieme a un altro asceta, Onorato, aveva fondato il monastero provenzale di Lérins, in Costa Azzurra. Intorno al 732 il cenobio era stato attaccato dai pirati saraceni: leggenda vuole che l’allora abate, Porcario, avesse messo in salvo i resti di Caprasio per evitare che cadessero, insieme ad altri oggetti, in mani sacrileghe. Si è già accennato al fatto che gli Adalberti fossero legati alla Provenza sia per ambizioni territoriali che per rapporti parentali: non stupisce dunque che quando, sul finire del IX secolo, ripresero le scorrerie dei pirati – che questa volta utilizzarono come base l’enclave di Frassineto –, Adalberto II si fosse offerto di ospitare ad Aulla le spoglie di san Caprasio, facendole arrivare dalla Francia. Per custodire i sacri resti era inoltre pronta la chiesa che aveva appena ampliato e cosí il reliquiario di legno che conteneva le preziose spoglie fu collocato in un sepolcro scavato su misura al centro della navata. Con gli Obertenghi, siamo dunque all’inizio dell’XI secolo, il complesso venne ulteriormente ampliato e la chiesa adalbertina ingrandita, assumendo la tipica pianta a tre navate e un volto squisitamente romanico. Nell’occasione si procedette anche a una solenne ricognizione delle spoglie del santo, che furono riesumate, esaminate, ostentate alla popolazione e poi inserite in una teca appositamente realizzata. Sigillato e coperto di lastre di marmo, il reliquiario venne infine traslato in una nicchia piú grande: è probabile che, oltre a verificarne lo stato, si volesse anche mettere i resti al riparo dalle incursioni che avevano ripreso a flagellare la costa. È suggestivo, nonché verosimile, pensare che l’artefice della traslazione e della «messa in sicurezza» delle reliquie di Caprasio sia stato l’Adalberto II Obertenghi che, nel 1016-1017, condusse nel Mar Ligure, per volere di papa

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Benedetto VIII, una vittoriosa spedizione navale contro i pirati. Ed è altrettanto probabile che proprio in quella circostanza l’intitolazione della chiesa, e di conseguenza dell’abbazia, siano passate dalla Vergine a san Caprasio, anche se vi è fra gli storici chi attribuisce l’iniziativa al piú «antico» Adalberto II, il primo collettore delle reliquie.

Le fasi di vita

Perduto gran parte del complesso a seguito dei bombardamenti del 1944, gli scavi archeologici hanno documentato i cambiamenti subiti dalla chiesa nel tempo. È stata dunque ritrovata la «prima chiesa», citata come presente nel castrum nell’atto di fondazione dell’884. Orientata verso est, era per le dimensioni ridotte poco piú di una cappella e venne edificata tra il VII e il IX secolo. Gli scavi hanno altresí provato che il piccolo edificio fu rasato e inserito in un altro di poco piú grande – quello eretto da Adalberto a seguito della fondazione abbaziale dell’884 –, che conserva anche le tracce della prima collocazione delle reliquie di Caprasio, portate dalla Provenza proprio in quel periodo. A inglobare entrambi, c’è infine la piú ampia basilica a tre navate, tuttora esistente e voluta forse da Adalberto II Obertenghi, in cui avvenne la definitiva traslazione delle reliquie e che vide il cambio di intitolazione dalla Vergine a san Caprasio. Fu questa l’epoca d’oro dell’abbazia, che appariva maestosa con i suoi solidi edifici fortificati e le sue tre torri a dominare il corso del Magra. Le mura che si dipartivano dal complesso circondavano l’intero borgo di Aulla e ne comprendevano, oltre alla chiesa e agli attigui edifici conventuali, le pertinenze: un pozzo, un forno e un’ampia vasca per irrigare i campi, alimentata dall’acqua di una fontana della piazza antistante. Nella cerchia muraria si aprivano due sole porte, una che dava sulla via principale (la futura

via Francigena) in direzione di Parma, l’altra verso Luni, prospiciente il fiume Aulella; la strada che le attraversava, via della Dovana, lambiva il retro dell’abbazia. Su di essa si affacciava l’entrata principale al convento; l’ingresso della chiesa riservato ai fedeli era invece collocato sul lato sud e sembra fosse delimitato da un portale con due capitelli recanti le effigi dell’aquila e del demonio, posti a perenne monito della differenza tra il Bene e il Male. Con il subentro degli Obertenghi agli Adalberti, l’abbazia e la Lunigiana intera conobbero una svolta decisiva. Già marchese di Milano e dal 951 conte di Luni, Oberto fu nominato dal nuovo sovrano Berengario II d’Ivrea margravio e ricevette da lui potestà di controllo sulla Liguria orientale e la Toscana con le città di Genova, Luni, Tortona, Parma e Piacenza. L’area che comprendeva questi territori – che da lui prese il nome di Marca Obertenga – vide sorgere in Alta Lunigiana numerosi castelli a scopo militare e difensivo, che andarono ad affiancare quelli utilizzati invece per l’organizzazione agricola dai vescovi di Luni, nella media e bassa Lunigiana. Tuttavia, i due poteri territoriali della zona, a esclusione di una rinuncia, da parte di Oberto II nel 998, ai diritti patrimoniali su quattro pievi in alta Lunigiana a vantaggio del vescovo Gotifredo, non sembrano aver mai interagito. In ogni caso, la Marca rimase sotto il controllo della dinastia obertenga solo per poco tempo: i suoi territori finirono infatti spartiti, com’era uso dell’epoca, tra i numerosi successori, destinati a dare origine alle famiglie dei Malaspina, degli Estensi, dei Pelavicino e dei MassaCorsica-Parodi. (segue a p. 76) Nella pagina accanto Sorano di Filattiera, pieve di S. Stefano. Una veduta della navata centrale, permeata dalla sobrietà dello stile romanico. X sec. agosto

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itinerario

Tra le pievi della Lunigiana Delle 35 pievi che nel Medioevo facevano parte della diocesi di Luni, molte sono visitabili, mentre altre sono scomparse (Soliera) o hanno subito alterazioni che rendono irriconoscibile l’impianto originario (per esempio quella di Offiano, a Casola). Le piú suggestive, importanti e godibili sono forse quelle (per ragioni storiche e di spazio, ci riferiamo qui alla sola Provincia di Massa-Carrara) di S. Stefano a Sorano di Filattiera, S. Paolo di Vendaso a Fivizzano, Ss. Cornelio e Cipriano a Codiponte.

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S. STEFANO DI SORANO Situata lungo la Francigena nella piana di Filattiera, la pieve di Sorano sorge su un’area cultuale antichissima come prova il ritrovamento di una necropoli dell’età del Ferro e di due statue-stele ancora visibili, una femminile acefala, l’altra di guerriero e databile alla prima metà del VI secolo a.C., riutilizzate all’interno della chiesa stessa come materiale di reimpiego. In epoca romana, nel I secolo a.C., sorgeva a Sorano una fattoria appartenente probabilmente a una tribú locale, la gens Suria; documentato almeno nel VII secolo è invece il Kastròn Soreon, un castello che in

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età bizantina fungeva da presidio locale. La prima menzione della pieve sembra risalire invece al celebre itinerario dell’abate di Canterbury, Sigerico, che da qui transitò di ritorno dal pellegrinaggio che fece a Roma nel 990. La pieve conserva quasi intatto il suo suggestivo aspetto romanico, restituito dai restauri eseguiti in occasione del Giubileo del 2000. L’interno a tre navate scandite da pilastri con capitelli presenta alcuni interessanti bassorilievi, come quello di un uomo itifallico. Dell’esterno colpiscono il bell’equilibrio donato al complesso dalle tre absidi in pietra locale tratta dal Magra e la sobria facciata con finestra centrale quadrilobata. Il campanile, quadrato e tozzo, riporta alla memoria l’epoca in cui il paesaggio era costellato di torri di avvistamento a scopo militare e difensivo. La piccola chiesetta di S. Giorgio, che si trova nella vicina frazione sulla collina omonima, è quanto resta di un piú imponente sistema difensivo. Oltre che per la quiete del luogo e le belle forme romaniche (l’edificio attuale è probabilmente del XIII secolo), la chiesa si segnala perché custodisce, murata al suo interno, la «lapide di Leodgar», un tempo custodita a Sorano. La lapide è dedicata a un vescovo o un gastaldo, di origine longobarda, che morí nel 752 dopo aver promosso la cristianizzazione della Lunigiana: il testo fa riferimento alla distruzione di «idoli di pietra» (forse le statue-stele?), segno della diffusione in loco, ancora nella prima metà dell’VIII secolo, di ancestrali culti pagani, quando ormai la conversione del popolo longobardo avrebbe dovuto essere già stata realizzata (almeno sulla carta) da un secolo.

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S. PAOLO DI VENDASO Seguendo una variante della Francigena che sale verso il passo del Cerreto, si incontra, appena giunti in territorio di Fivizzano, la pieve di S. Paolo di Vendaso. Citata per la prima volta in un documento del 1148, ma sicuramente piú antica, oggi si presenta come una sobria chiesa a tre navate. L’elemento piú interessante è costituito dai capitelli conservati all’interno, che raffigurano l’universo simbolico tipico della scultura romanica con i suoi complessi (ma un tempo molto piú chiari) significati: intrecci, rose a sei petali, cerchi concentrici che rimandano al moto solare, animali mostruosi, draghi, felini, uccelli, sirene bicaudate e uomini itifallici, teste dal volto allungato che inquietano con il loro enigmatico e millenario sorriso.

SS. CORNELIO E CIPRIANO A CODIPONTE Anch’esso sito antichissimo e di passaggio verso la Garfagnana, il toponimo conserva le memorie del ponte che sorgeva sull’Aulella e di cui si intravvedono ancora i ruderi. La pieve si trova oggi nel territorio comunale di Casola in Lunigiana ed è documentata a partire dal 793: di questo periodo conserva quasi intatto il bel fonte battesimale ottagonale decorato a bassorilievo con una croce. Costruita secondo il classico impianto a tre navate (con due sole absidi, la terza essendo stata sostituita dalla torre campanaria) si segnala, oltre che per la bellezza in generale dell’edificio e la quiete del luogo in cui sorge, per gli splendidi e originali capitelli romanici che raffigurano un vero e proprio catalogo della simbologia medievale e che sovente citano, sincretisticamente, memorie di culti pagani ancora ben presenti (e per questo successivamente in parte erase): anche qui oranti, alberi della Vita, rose a sei agosto

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A destra particolare del pannello centrale del cosiddetto Trittico di Codiponte, raffigurante la Vergine in trono con il Bambino. XV sec. Codiponte, chiesa dei Ss. Cornelio e Cipriano. Nella pagina accanto, in alto la pieve di S. Paolo di Vendaso, nel territorio di Fivizzano. La prima menzione della chiesa risale al 1148, ma la sua fondazione fu senza dubbio piĂş antica. Nella pagina accanto, in basso uno dei capitelli della pieve di S. Paolo di Vendaso. Al centro della fascia decorata, si riconosce una sirena bicaudata.

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petali, sirene bicaudate, uomini itifallici, felini, serpenti striscianti. Da segnalare l’enigmatico portale esterno, conservato sul lato sud, caratterizzato da alcune teste con copricapi bizzarri, il cui significato non è ancora stato sciolto in maniera convincente.

La Lunigiana, Aulla e l’abbazia andarono ai Malaspina. Iniziò cosí una lunga epoca di contese e ulteriori frazionamenti, che culminò, nel 1221, con la divisione del casato in due rami, da allora detti dello «Spino Secco» e dello «Spino Fiorito»: ai primi, capeggiati da Obizzino († 1249), andarono i domini a sinistra del Magra con capoluogo Filattiera; ai secondi, capitanati da Corrado, quelli a destra con Mulazzo. Tali divisioni sarebbero perdurate (una eco si coglie anche nella Commedia dantesca) e anzi aumentate, sicché il territorio si coprí nel tempo di fortez-

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IL LABIRINTO DI PONTREMOLI La chiesa di S. Pietro a Pontremoli, non lontano da Aulla, custodisce una delle piú emblematiche testimonianze legate alla via Francigena. Si tratta di un bassorilievo in arenaria, scolpito probabilmente nel XII secolo, che ze e castelli, frammentandosi in una moltitudine di staterelli feudali la cui struttura – formalmente dipendente dall’impero ma in realtà ampiamente autonoma – rimase invariata fino all’età napoleonica.

Alla moda del barocco

L’abbazia di S. Caprasio conobbe tutte le ripercussioni di tali divisioni, di cui anche i suoi edifici testimoniano l’impatto: basti pensare al «restauro» seicentesco della chiesa, promosso per adeguarla all’imperante gusto barocco, dopo che l’abbazia era stata trasformata in com-

raffigura un labirinto, simbolo del viaggio sia fisico che spirituale che l’uomo deve compiere durante la sua vita e il pellegrino percorrere alla ricerca della Verità. Il labirinto appare formato da undici cerchi concentrici sovrastati da due figure a cavallo affrontate ma non menda secolare dei Centurione, signori di Aulla di origine genovese. In quell’occasione andarono perduti quasi del tutto l’impianto medievale e gli eventuali affreschi superstiti. I danni piú gravi furono tuttavia causati dal già ricordato bombardamento del 18 maggio 1944. Gli Alleati angloamericani colpirono a tappeto il borgo di Aulla, devastandolo e causando la morte di ventidue persone; e anche il maestoso complesso abbaziale venne in gran parte distrutto. Unica superstite fu la chiesa: un ordigno di 250 kg ne sfondò il tetto, per poi interrarsi nelagosto

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A destra Pontremoli, chiesa di S. Pietro. Il rilievo con il labirinto. XII sec. Nella pagina accanto la chiesa dei Ss. Cornelio e Cipriano a Codiponte.

speculari, probabile allegoria del Bene contro il Male; al centro appare il cristogramma IHS, Gesú Salvatore dell’uomo, mentre nella parte bassa della lastra si legge l’iscrizione «Sic currite ut comprehendatis» (Corinzi 9,24), ossia «Correte per far vostro il premio» (la Salvezza). Sicuramente doveva essere murato all’esterno, in un luogo visibile ai pellegrini che transitavano lungo la strada. La chiesa e l’attiguo monastero di S. Pietro de Conflentu, che sorgevano nella parte meridionale del borgo nei pressi della Porta detta «Fiorentina», furono distrutti anch’essi, come gran parte dell’abbazia di S. Caprasio, dai bombardamenti del 1944. La chiesa, ricostruita, oggi è raramente aperta al pubblico: un calco del bassorilievo è però visibile all’interno del Museo Diocesano di Pontremoli. Per ulteriori informazioni sulle mete di questo itinerario e sulle altre località di interesse della zona, si può consultare il sito www. terredilunigiana.com la navata centrale e rimanere inesploso. La bomba riemerse nel 2003, nel corso degli scavi archeologici: giaceva intatta a un metro o poco piú di distanza dai resti del santo, che all’epoca si credevano perduti e che invece si celavano, sigillati da quasi un millennio, sotto la navata centrale della basilica. Qualcuno gridò al miracolo. Nel 2010, un’alluvione rischiò ancora una volta di distruggere il monumento. A salvare S. Caprasio e la sua storia furono questa volta i volontari: un’intera comunità, bambini compresi, che, badili al-

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la mano, ha scavato nella melma, filtrato l’acqua con gli scolapasta, recuperato le monete, i monili e persino le ossa, anche i piú piccoli frammenti, tutti puliti e asciugati uno a uno con pazienza certosina. Ora sono di nuovo esposti nel museo allestito in quella che un tempo era la sala capitolare. Da allora gli studi e le scoperte sono proseguiti e di recente sono riemerse le tracce di una torre databile tra il VI e il VII secolo. Oggi S. Caprasio accoglie i viaggiatori che transitano lungo la Francigena, offrendo un piacevole momento di sosta e riflessione. F

Da leggere Giulivo Ricci, Aulla e il suo territorio attraverso i secoli. Vol. 1. Dalla Preistoria al ‘400, Artigianelli, Pontremoli 1989 Roberto Ricci, La Lunigiana nel secolo di ferro (900-999). Istituzioni e società in un territorio di confine, in Studi Medievali, s. III, I (2002), pp. 287-336. AA.VV., Gli scavi di San Caprasio ad Aulla, estratto da Archeologia Medievale, 33, 2006, All’Insegna del Giglio, Firenze 2007

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scienza e tecnica

La camera delle

meraviglie

di Flavio Russo

Immagini misteriosamente rovesciate, eclissi di Sole, ombre proiettate a comporre una sorta di cinematografo ante litteram... C’è tutto questo e molto altro nelle sperimentazioni a cui, forse fin dalla preistoria, l’uomo si dedicò dopo avere osservato il comportamento della luce: una materia capace di affascinare gli scienziati, ma anche i filosofi, e che tenne a battesimo macchine prodigiose, pensate per terrorizzare il nemico, ma anche per far divertire i bambini...

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N N

elle grotte di Lascaux, presso Montignac (Francia centro-occidentale) – una delle piú celebri testimonianze d’arte preistorica a oggi note –, tra le numerose pitture parietali che raffigurano animali di grossa taglia, eseguite fra i 17 000 e i 15 000 anni fa, ve n’è una che, fin dalla scoperta del sito, ha suscitato e suscita perplessità. Rappresenta un cavallo giacente sul dorso e con le zampe in aria: forse un animale caduto, o fatto cadere, anche se una simile evenienza non giustificherebbe la postura perfettamente tesa degli arti. Secondo una delle ipotesi interpretative, non priva di fascino, la figura potrebbe invece essere stata suggerita dal casuale formarsi di immagini invertite in ambienti rischiarati da un piccolo pertugio, come appunto in una grotta, dando vita a una manifestazione antesignana della «camera oscura». Un processo vagamente simile fu escogitato dai Cinesi per proiettare, retroilluminandole, le ombre delle mani e di sagome in legno di uomini, animali e cose: a quelle ombre, spesso in movimento, archetipo della cinematografia, fu perciò dato il nome di «ombre cinesi». Per canali imperscrutabili, o per una mera coincidenza, quell’ingenuo spettacolo raggiunse l’Occidente, tanto che Platone concepisce per la sua metafora sul «mito della caverna» immagini cosí proiettate sul fondo di una grotta. Circa la proiezione, è esperienza comune l’avere osservato che la luce del Sole, quando penetra da un irregolare spiraglio dell’infisso in una stanza in penombra, disegna

In alto stampa seicentesca raffigurante il «mito della caverna» raccontato da Platone nel VII libro della Repubblica. Nella pagina accanto illustrazione ottocentesca raffigurante una camera ottica portatile con specchio interno inclinato di 45° per il raddrizzamento dell’immagine.

sull’opposta parete un cerchio luminoso perfetto. Il curioso fenomeno venne rilevato già da Aristotele, discepolo di Platone, che cosí lo descrisse: «I raggi del Sole che passano per un’apertura quadrata formano [tuttavia] un’immagine circolare la cui grandezza aumenta con l’aumentare della distanza dal foro» (Problemata XXX, 6). Ne indagò la spiegazione, ipotizzando che il foro, quale che fosse la sua forma, avesse all’interno il punto di unione di due coni luminosi contrapposti, il maggiore dei quali aveva per base il Sole stesso e l’altro, di gran lunga piú piccolo, la sua proiezione.

Come una mezzaluna

Stando alla tradizione, Aristotele si avvalse del fenomeno per studiare un’eclissi di Sole, esperienza ripetuta anche il 24 gennaio del 1544 dal matematico e astronomo olandese Rainer Frisius e, prima ancora, nel 1038, dal dotto arabo Alhazan Ibn Al-Haitham, che cosí ne diede conto nell’opera Opticae thesaurus: «Se l’immagine del Sole al momento di un’eclisse, purché non sia totale, cade attraverso un forellino rotondo su di una superficie piana opposta, essa avrà la forma di una mezzaluna». Dalle allusioni di Platone e dagli esperimenti di Ari-

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scienza e tecnica stotele scaturí nel Medioevo una rudimentale camera oscura, che stimolò la curiosità dei maggiori fisici vissuti fra il XIII e il XVI secolo, tra cui Ruggero Bacone, Filippo Brunelleschi e Leonardo da Vinci. Quest’ultimo, da profondo indagatore, cosí ne espose il criterio informatore: «La sperentia che mostra come li obbietti mandino le loro spetie over similitudini intere segate dentro all’occhio nello umore albugino si dimostra quando per alcuno piccolo spiraculo rotondo penetrano le spetie delli obbietti alluminati in abitazione fortemente oscura: allora tu receverai tale spetie in una carta bianca depola, posta dentro a tale abitazione alquanto vicina a esso spiraculo e vedrai tutti li predetti obbietti in essa carta colle lor proprie figure e colori ma saran minori e fiene sotto sopra per causa della intersegatione» (Leonardo da Vinci, Codice Atlantico). Va ricordato che, fin quasi agli inizi dell’età moderna la «camera oscura» era effettivamente una stanza buia, nella quale la luce entrava solo da un piccolo foro, o foro stenopeico (dal greco stenos, stretto, e opè, foro), e tale denominazione si conserva ancora oggi, sia pure

come suffisso: fotocamera, cinecamera, telecamera, videocamera, ecc. Fu però in epoca rinascimentale che si costruirono le prime camere ottiche in legno, dapprima enormi e poi portatili: una scatola con al centro del lato minore anteriore il piccolo foro, presto sostituito da una lente biconvessa, in grado di migliorare l’immagine rovesciata che si formava sul lato opposto sopra una pergamena ben tesa, sostituita anch’essa da una lastra di vetro opaco. Il raddrizzamento dell’immagine venne ottenuto semplicemente interponendo uno specchio inclinato di 45° fra il foro e la lastra opaca. Assunta la denominazione di «camera ottica», questa apparecchiatura divenne rapidamente uno straordinario strumento per gli artisti, in particolare pittori e architetti.

Un primato immeritato

La storia assegna allo scienziato, filosofo e letterato Giambattista Della Porta (1535-1615) l’invenzione della camera oscura, che cosí ne illustrava i possibili impieghi pratici nel 1558: «Se non sapete dipingere, potete con questo sistema disegnare con una matita. Non dovete poi fare altro che aggiungere i colori. Otterrete questo facendo riflettere l’immagine verso il basso su di un tavolo da disegno sul quale sia stata posta della carta. E per una persona abile far questo è molto facile» (Magiae naturalis libri IV, Venezia 1560, libro IV). Chiunque voglia avvalersene, precisava inoltre nella seconda edizione del volume, «serri tutte le finestre serrando tutti gli spiragli acciò che entrando in casa qualche poco di lume non gli guasti l’opera e una solamente ne bucherai con la trevella ma farai che il buco habbia figura piramidale tonda del quale la base sia verso il Sole et il cono verso la stanza. All’incontro vi metterai lenzuoli bianchi o fogli acciocchè ogni cosa sia poi illuminato dal Sole che tu vedrai gli huomni che camminano per la piazza come antipodi e quelle cose che so-

In alto e qui accanto disegni di Leonardo da Vinci relativi all’utilizzo di una camera oscura e di una camera ottica munita di grossa lente d’ingrandimento.

Stampa che raffigura l’osservazione dell’eclissi di Sole effettuata tramite una camera oscura dal matematico e astronomo olandese Rainer Frisius il 24 gennaio del 1544.

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no destre ti parranno sinistre e ti parrà ogni cosa alla rovescia e quanto piú sono lontani dal buco parranno maggiori. E quanto piú sono vicini tanto minori non di meno avertisce che bisogna aspettar un’ poco perché non cosí tosto appariscono le immagini perché la cosa simile gagliarda si fa con il senso insieme, una grandissima sensazione, et fa quest’effetto, che non solamente offendino il senso, ma etiandio quando si sono partiti dall’opera, ancho vi rimangano per un poco di tempo le spetie». La vasta diffusione letteraria e il successo che ne ricavò finirono per assegnare all’autore la paternità dell’invenzione, ma, come vedremo, Della Porta ebbe in realtà il solo merito di aver descritto scientificamente la camera ottica.

Una certa confusione

Il funzionamento della camera ottica è reversibile, per cui se un oggetto posto davanti al suo foro genera sul vetro posteriore la sua immagine, illuminando quest’ultima dal foro, uscirà un fascio di luce che riprodurrà su di una parete l’immagine dell’oggetto. Cosí, per l’incanto delle sue proiezioni, lo strumento venne ribattezzato «lanterna magica». E sebbene, come accennato, camera ottica e lanterna magica fossero fra loro interdipendenti – e forse in alcuni casi anche reversibili con opportuni accorgimenti –, una certa confusione circa l’esatta distinzione iniziale si coglie nelle descrizioni seicentesche. Scriveva, per esempio, Giorgio Vasari che quando nel 1457 fu trovato «l’utilissimo modo di stampare i libri da Giovanni Guttembergh germano, trovò Leon Batista, a quella

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Stampa seicentesca raffigurante l’impiego della camera oscura da parte di un pittore paesaggista.

similitudine per via d’uno strumento, il modo di lucidare le prospettive naturali e diminuire le figure, et il modo parimente da potere ridurre le cose piccole in maggior forma e ringrandirle; tutte cose capricciose, utili all’arte e belle affatto». Un’attribuzione confermata dal contemporaneo anonimo autore della Vita di Leon Battista in questi termini: «Scrisse l’Alberti alcuni libri sulla pittura, e con quest’arte fece opere non piú udite ed incredibili a que’ medesimi che le vedevano. Ei le aveva chiuse in una piccola cassa, e le mostrava per mezzo di un piccolo foro. Tu avresti ivi veduti altissimi monti e vaste provincie intorno al mare, e piú da lungi paesi cosí lontani, che l’occhio non ben giugneva a vederli. Tali cose erano da lui dette Dimostrazioni, ed esse erano tali, che i rozzi ed idioti credevano di veder cose reali, non già dipinte. Nelle notturne vedevasi Arturo, le Najadi, Orione ed altre stelle risplendenti; rimiravasi il sorgere della luna dietro le cime de’ monti, e distinguevansi le stelle che precedono l’aurora. Nelle diurne vedevasi il sole che per ogni parte spargeva i suoi raggi. Ei fece stupire alcuni grandi della Grecia, ch’erano ben esperti nelle cose di mare; perciocché mostrando loro per mezzo di quel piccolo pertugio questo suo finto mondo, e chiedendo loro che vedessero: ecco, dissero, che noi veggiamo un’armata navale fra l’onde: essa giugnerà qua innanzi al mezzodí, se pure qualche tempesta non tratteralla; perciocché vediamo il mare che comincia a gonfiarsi e ripercuote troppo i raggi del sole. Egli era continua l’anonimo, piú intento

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scienza e tecnica Qui accanto una delle prime lanterne magiche degli inizi del Settecento, non dissimile da quella inventata pochi decenni prima da Christian Huygens.

A destra ritratto dello scienziato, filosofo e letterato Giambattista della Porta, erroneamente riconosciuto come l’inventore della camera ottica, strumento del quale, in realtà , forní la prima descrizione scientifica.

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A sinistra bozzetti del Canaletto ottenuti tramite l’impiego di una camera ottica. In basso disegno tratto dall’album di Giovanni Fontana che documenta l’invenzione di una lanterna magica.

a trovar tali cose che a promulgarle; perciocché piú dilettavasi di esercitar l’ingegno, che di ottener fama. Ed ecco l’Alberti inventore alla metà del quindicesimo secolo di quelle per i nostri antenati meravigliose macchine chiamate con plebeo vocabolo Lanterna Magica, piú dottamente Camera Ottica, ed a’ tempi nostri gabinetto pittorico meccanico, o con greche voci, diorama, neorama, ecc.» (L’architettvra di Leonbatista Alberti. Tradotta in lingua Fiorentina da Cosimo Bartoli, Firenze 1550; al medesimo episodio si riferisce anche Opere volgari di Leon Battista Alberti, perlopiú inedite e tratte dagli autografi, dal dottor Anicio Bonucci, Firenze 1843).

Il vero prototipo

Risulta evidente la confusione ingeneratasi fra i due strumenti, che tuttavia si rifacevano al medesimo principio: ma anche dando per scontata la datazione della supposta lanterna magica inventata dall’Alberti, non se ne può accettare la priorità, dal momento che, alcuni decenni prima, era comparsa una medesima invenzione, forse persino piú aderente a quella che noi oggi consideriamo lanterna magica. Sul manoscritto dell’ingegnere Giovanni Fontana, Bellicorum Instrumentorum Libri cum figuri set fictitijs lite-

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ris conscriptus, la cui stesura è collocata dagli studiosi tra il 1420 e il 1440, compare una inconfondibile lanterna magica, abbastanza elementare: è infatti costituita da una normale lanterna cieca su tre lati, munita nel quarto di un vetro sul quale era dipinta la figura da proiettare. La proiezione perciò avveniva direttamente senza lenti e quindi l’immagine non si invertiva ma soltanto si ingrandiva, restando sfocata; un inconveniente, quest’ultimo, trascurabile, poiché il «prodigio» aveva lo scopo di terrorizzare intrusioni nemiche con quella sorta di apparizione diabolica. Per contro, va osservato che esistono molte lampade da notte per bambini che proiettano sulla parete deboli immagini di personaggi fantastici, senza alcun condensatore o lente di sorta. Un vero dispositivo per la proiezione di immagini dipinte su vetro risale al 1646, stando alla descrizione fornita dal gesuita Athanasius Kircher (1602-1689). Tuttavia, anche in questo caso, è verosimile credere che qualcosa del genere già esistesse, come del resto tratteggiato, anche se si dovette attendere il 1678 perché il fisico Chrstian Huygens gli desse il nome di «lanterna magica», menzionandola fra le sue invenzioni. F

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di Tommaso Indelli

Alla vigilia dell’anno Mille, gli «uomini del Nord» approdano sulle coste della Campania. Colpiti dall’amenità dei luoghi, ma, soprattutto, intuendone le ricchezze, danno inizio a una stagione che li vede protagonisti di una lunga fioritura. Con loro nasce un regno vasto e potente, del quale oggi possiamo ripercorrere le vicende attraverso un magnifico e variegato patrimonio monumentale

Mezzogiorno

normanno Cefalú, Duomo. La decorazione dell’abside della chiesa, con l’imponente mosaico del Cristo Pantocratore che occupa l’intero catino absidale. XII sec.


Dossier

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ll’inizio dell’XI secolo, il Mezzogiorno d’Italia era caratterizzato da un’estrema frammentazione politica e sottoposto a tre dominazioni distinte: longobarda, bizantina e saracena. Nel 774, caduta Pavia, capitale del regno longobardo, a opera dei Franchi, Arechi II, duca di Benevento, si proclamò principe, rivendicando la continuità dinastica e politica del regno longobardo nel principato beneventano. Il principato unitario sopravvisse fino al IX secolo quando, nell’839, morto il principe Sicardo, una grave crisi dinastica sfociò nella sua scissione nei due principati distinti di Salerno e Benevento (849). Da Salerno, in seguito, si staccò Capua, che divenne principato indipendente (900).

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Solo sotto il governo di Pandolfo I Capo di Ferro, principe di Capua e duca di Spoleto, i tre principati furono riunificati in un’unica compagine. Dopo la sua morte, però, tornarono a dividersi, seguendo politiche autonome, mentre i rimanenti possedimenti bizantini nel Sud vennero riorganizzati in una nuova provincia, detta catepanato (metà del X secolo), con capitale Bari, costituita dai temi di Lucania, Puglia e Calabria (il tema era una provincia bizantina ordinata militarmente, n.d.r.). Sulle coste del basso Lazio e campane sorgevano i ducati di Gaeta, Napoli, Sorrento e Amalfi, formalmente sottoposti a Bisanzio, mentre in Sicilia, già dominio bizantino, si erano insediati i Saraceni, i quali, dopo una lunga guerra di

A destra particolare di una miniatura, raffigurante un contingente di soldati normanni durante l’attraversamento della Manica, da un’edizione de La Vie de Saint Aubin d’Angers. XI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso l’assetto geopolitico dell’Italia meridionale tra il X e l’XI sec.

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dai vichinghi ai normanni

Dal Grande Nord all’isola del Sole L’immigrazione dei Normanni nel Mezzogiorno fu solo la fase finale di un lungo e complesso fenomeno espansivo delle popolazioni scandinave iniziato alla fine dell’VIII secolo. L’«età vichinga», il periodo in cui le genti del Nord – di stirpe germanica – si espansero militarmente in Occidente e nell’Oriente russo e ucraino, viene convenzionalmente compresa tra il 793 e il 1066, vale a dire tra il primo saccheggio compiuto ai danni dell’abbazia di Lindisfarne, sulle coste orientali della Northumbria anglosassone, e la battaglia di Hastings – 14 ottobre 1066 –, in cui i Normanni sconfissero gli Anglosassoni e conquistarono il regno d’Inghilterra. Oltre al termine «Vichinghi», nelle fonti dell’epoca, le genti del Nord venivano anche indicate con l’etnonimo di Northmanni, «uomini del Nord», oppure di Variaghi, Rus (Varangoi, Rhos, in greco, Rus, in slavo, «Russi»). La presenza dei Normanni nel Mezzogiorno, agli inizi dell’XI secolo, è incontestabile, mentre è piú problematico ricostruire quali motivazioni li avessero spinti a stabilirsi nel Sud Italia, e permangono dubbi anche sulle loro direttrici di marcia. Molto probabilmente seguirono il tracciato della via Francigena, praticato da tutti i pellegrini diretti a Roma, oppure, abili navigatori, si servirono della navigazione di cabotaggio, lungo le coste franco-spagnole, fino a Gibilterra, per entrare nel Mediterraneo e raggiungere le coste italiane. Le cause che determinarono la seconda espansione normanna, nell’XI secolo, furono di ordine economico, sociale e politico. Dal punto di vista economico-sociale, il fenomeno va collegato alla ripresa demografica, economica e produttiva che attraversò l’Europa occidentale, a partire dall’XI secolo. Molto probabilmente, il ducato di Normandia fu travolto dalla crescita demografica, a cui non si riuscí a provvedere con un adeguato sviluppo delle risorse. Lo squilibrio tra demografia e risorse, aggiunto alla trasmissione in senso «patrilineare» dei beni feudali e allodiali, spinse molti esponenti «cadetti» dei lignaggi nobiliari normanni ad abbandonare il ducato, per trovare altrove migliori opportunità e condizioni di vita. Il «fenomeno normanno», quindi, coinvolse tutta l’Europa, e non solo il Mezzogiorno italiano. Tuttavia, accanto a quelle di ordine economico e demografico, vi erano cause, ben piú gravi, di ordine politico. Tra il 1035 e il 1066, il ducato di Normandia venne travolto dalle guerre civili che opponevano il duca, Guglielmo il Bastardo, all’aristocrazia normanna, poiché il duca perseguiva un chiaro obiettivo di «centralizzazione politica», che urtava gli interessi delle piú potenti famiglie del ducato. Tra il 1047 e il 1060, il Bastardo combatté le sue prime e piú importanti battaglie – Val ès Dunes, Mortemer, Varaville – contro l’aristocrazia che minacciava il suo potere. Questi conflitti civili alimentarono l’emigrazione dal ducato verso il resto d’Europa, in particolar modo verso il Mezzogiorno d’Italia.

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Dossier I Normanni giunti nel Meridione italiano discendevano dai Vichinghi che, un secolo prima, avevano flagellato l’Europa La Sicilia musulmana

La «modernizzazione» araba Le prime incursioni musulmane in Sicilia furono condotte ai danni di Siracusa, sede del governatore bizantino, nel 652 e nel 669, mentre la conquista definitiva venne portata a termine, nel 902, dagli Aghlabiti, dinastia che regnava sull’attuale Tunisia. Nel 949, il governatore Hasan al Kalb proclamò la propria indipendenza dal governo tunisino, costituendo la Sicilia in un emirato pienamente indipendente, quello kalbita, destinato a durare fino alla conquista normanna. La duratura presenza islamica nell’isola favorí importanti progressi culturali, artistici ed economici, come la razionalizzazione dell’agricoltura – con bonifiche, introduzione di piú evolute tecniche di irrigazione e nuove colture (zafferano, canna da zucchero, gelso, agrumi e palma da dattero) – e lo sviluppo di nuovi settori manifatturieri, come la produzione di carta e di seta. I dominatori musulmani erano portatori di una cultura decisamente piú avanzata rispetto agli autoctoni e alle stirpi germaniche longobarde e normanne, oltre che di una religione rivelata ed esclusivista. Non fu, pertanto, possibile alcuna assimilazione di questi ultimi, come era avvenuto per altri nuclei allogeni. Molte conquiste tecniche, scientifiche e civili rimasero patrimonio comune degli isolani, anche dopo la fine del dominio islamico.

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LE DATE DA RICORDARE 999 circa Un gruppo di cavalieri normanni sbarca a Salerno dalla Terra Santa. 1017-1018 Seconda rivolta di Melo, aristocratico barese, contro il potere bizantino. Al suo servizio ci sono alcuni cavalieri normanni. 1027 Guaimario IV diventa principe di Salerno. Fra il 1038 e il 1047 sarà anche principe di Capua e dal 1043 porterà il titolo di duca di Puglia. 1030 circa Fondazione di Aversa a opera di Rainulfo e altri cavalieri normanni. Nel 1038 Rainulfo fu investito della contea di Aversa dall’imperatore germanico Corrado II, dietro richiesta di Guaimario IV di Salerno. 1042 circa I maggiori capi normanni si dividono a Melfi le principali città della Puglia, quelle già conquistate, e quelle ancora da conquistare. 1047 circa Arrivo in Italia di Riccardo Quarrel e Roberto il Guiscardo. 1052 Guaimario IV, principe di Salerno, viene ucciso da una congiura di palazzo. Suo figlio, Gisulfo II, riesce poco dopo a riprendere il controllo della città, con l’aiuto determinante dei Normanni. 1053 I Normanni sconfiggono le truppe papali a Civitate, nella Puglia settentrionale. 1058 Riccardo Quarrel conquista Capua e ne diventa principe. 1059 A Melfi il Guiscardo giura fedeltà al papa Niccolò II, assume il titolo di duca e viene investito dei territori di Puglia e Calabria (ancora in gran parte in mano ai Bizantini) e della Sicilia ancora araba. 1071-1072 Il Guiscardo conquista Bari, capoluogo dei domini bizantini nell’Italia meridionale (1071); Ruggero I conquista, con l’aiuto del Guiscardo, Palermo, capitale dell’emirato arabo di Sicilia (1072). 1073 L’ultimo principe beneventano, Landolfo VI, si sottomette al papa. Benevento si sottrae in tal modo alla conquista normanna; rimarrà per secoli sotto il dominio pontificio. 1077 Il Guiscardo conquista Salerno. 1081 Il Guiscardo inizia la sua impresa di conquista dei Balcani: sbarca a Valona, conquista Corfù e assedia Durazzo. 1085 Il Guiscardo si ammala e muore nei Balcani; il suo corpo viene poi riportato agosto

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in Puglia e sepolto a Venosa, nell’abbazia della Ss. Trinità. 1087 Alcuni marinai baresi trafugano le reliquie di san Nicola a Mira, in Asia Minore, e le portano a Bari. 1089 Al termine di un’aspra lotta il ducato di Puglia viene diviso fra i due figli del Guiscardo. Ruggero, il nuovo duca, conserva la Campania meridionale, la Puglia settentrionale, la Calabria e la parte occidentale della Basilicata. Boemondo I acquisisce la Puglia centromeridionale e la parte orientale della Basilicata. 1111 Muore il duca di Puglia Ruggero. Gli succede il figlio Guglielmo. 1127 Muoiono quasi contemporaneamente il duca di Puglia Guglielmo e Boemondo II, figlio di Boemondo I. Entrambi non hanno eredi maschi. Ruggero II, conte di Sicilia, rivendica la successione, in quanto appartenente al ceppo degli Altavilla. 1130 Ruggero II, dopo aver esteso la sua autorità all’Italia meridionale continentale, si fa incoronare re con il consenso dell’antipapa Anacleto II. 1139 Ruggero II viene riconosciuto re dal pontefice legittimo Innocenzo II, dopo la morte di Anacleto II. 1154 Muore Ruggero II. Gli succede il figlio Guglielmo I.

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Nella pagina accanto, in basso miniatura raffigurante l’assedio e la conquista di Siracusa dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale. In basso incisione raffigurante Papa Leone IX fatto prigioniero dai Normanni dopo l’annientamento del suo esercito. Parigi, 1780 circa.

conquista (827-902), avevano trasformato l’isola in un emirato, senza riuscire a estendere il loro potere sul Mezzogiorno peninsulare (vedi box alla pagina precedente).

La conquista

L’arrivo dei Normanni nel Sud è collocabile tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo. Discendenti degli antichi Vichinghi che, tra l’VIII e il X secolo, avevano fatto tremare l’Europa con le loro scorrerie, questi cavalieri erano originari del ducato di Normandia, vera e propria enclave in terra franca, che i Vichinghi erano riusciti a costituire nel X secolo, grazie alla concessione, nel 911, di alcuni territori da parte del re di Francia, Carlo il Semplice. Giunti nel Sud della Penisola, i Normanni furono attratti dall’amenità dei luoghi e dalle risorse economiche di quelle terre, e decisero di stabilirvisi alla ricerca di migliori condizioni di vita. Il loro numero doveva essere esiguo, se confrontato con la maggioranza della popolazione, ma ciò di cui si resero pro-

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Dossier A sinistra Venosa, abbazia della Ss. Trinità, Chiesa Vecchia. Un’immagine della tomba degli Altavilla. Alla metà del Quattrocento, nell’arca furono riunite le spoglie di vari componenti della famiglia, tra cui quelle di Roberto il Guiscardo. Nella pagina accanto recto di un tarí d’oro di Guglielmo II d’Altavilla. Regno di Sicilia, XII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

tagonisti dimostra come una minoranza guerriera abile, spregiudicata e senza scrupoli, favorita dalle debolezze e divisioni degli autoctoni, abbia potuto facilmente assumere un ruolo dominante e modificare, profondamente, le strutture politico-sociali del Mezzogiorno italiano (vedi box a p. 87). La guerra rappresentava l’unico strumento per accumulare onori e ricchezze e per costituire «signorie» politico-territoriali a cui venne dato il nome di «contee», utilizzando una denominazione desunta dall’articolazione politico-istituzionale dei principati longobardi. I nuovi signori si appropriarono di gran parte delle terre per «diritto di conquista» e le distribuirono ai milites che costituivano le loro «bande», sotto forma di bene-

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fici feudali. Attraverso l’uso sistematico dei legami vassallatici, i conti attivarono un complesso sistema di gerarchie di potere, basate sulla fedeltà personale, coinvolgendo anche i ceti dirigenti locali che, ben presto, si sottomisero ai conquistatori.

I pellegrini-guerrieri

Ma chi furono i primi Normanni approdati sul suolo italiano? In origine si trattava, probabilmente, di pellegrini-guerrieri, in visita al santuario garganico di S. Michele che, di ritorno dal pellegrinaggio, giunti a Salerno, assediata dai Saraceni – tra il 999 e il 1016 –, fornirono un valido aiuto militare per respingere l’assalto islamico e vennero ricompensati dal principe longobardo, Guaimario III, con armi, terre e vettovagliamento.

Alcuni di essi, dopo un breve rientro in Normandia, tornarono a Salerno, con altri conterranei, e si misero al servizio di Guaimario; altri andarono a cercare fortuna in Puglia, dove divampavano alcune rivolte contro gli occupanti bizantini. Tra i raggruppamenti di questi avventurieri se ne distinsero subito due: il primo faceva capo ai fratelli d’Altavilla, figli di Tancredi, il secondo al clan dei DrengotQuarrel, guidato dai fratelli Osmondo e Rainulfo (vedi box a p. 92). Dall’XI secolo, la Puglia era attraversata da fermenti di rivolta antibizantina, fomentati da Melo di Bari – notabile barese di origine longobarda – ribellatosi al governo. Melo era sostenuto dall’imperatore tedesco, Enrico II, il quale lo aveva investito del titolo di duca di Puglia, agosto

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auspicando la formazione di una compagine politico-territoriale che avrebbe dovuto gravitare nella sfera d’influenza dell’impero germanico. Con l’aiuto delle truppe normanne, Melo mosse guerra all’impero d’Oriente e riportò alcune vittorie, finché fu sconfitto dai Bizantini nella battaglia di Canne (1018). Fuggí quindi in Germania, dove sperava di riorganizzare una spedizione militare nel Mezzogiorno, ma la morte lo colse prima che potesse riuscire nel suo intento e venne sepolto nel Duomo di Bamberga (1020).

Guaimario si proclamò anche «duca di Puglia e Calabria», facendo dell’Altavilla un suo vassallo, e lo investí dell’appannaggio della contea di Puglia, con capitale Melfi (1043). Gli Altavilla cominciavano a emergere su gli altri clan normanni, per via dello speciale rapporto di fedeltà con la piú importante dinastia longobarda del Mezzogiorno. Morto Guglielmo nel 1046, gli successero nel governo della contea di Puglia i fratelli Drogone e Unfredo. Alla morte di Unfredo (1057), la contea passò al fratellastro Rober-

La fuga del duca

Intanto, in Campania, il principe di Capua, Pandolfo IV, aveva intrapreso una politica di espansione militare ai danni di Napoli, costringendo il duca Sergio IV a fuggire e a trovare aiuto presso i Drengot. Grazie all’appoggio dei Normanni, Sergio tornò in possesso del ducato e ricompensò i suoi alleati con la concessione in feudo del castrum di Aversa, in Terra di Lavoro. Affidata al governo di Rainulfo Drengot, la contea di Aversa fu posta alle dipendenze del duca di Napoli e costituí il primo nucleo territoriale e militare dell’insediamento normanno nel Mezzogiorno (1030). A Salerno, morto Guaimario III, gli successe il figlio Guaimario IV, che intraprese una politica espansionistica in direzione della Calabria e della Puglia, servendosi proprio dell’aiuto dei cavalieri normanni al fine di combattere i Bizantini ed eroderne i precari possessi. Sprovvisti di una guida politica, i Normanni accettarono che tale ruolo venisse assunto proprio da Guaimario. Per cementare l’alleanza con i Normanni, il principe favorí le nozze di sua nipote con Guglielmo d’Altavilla, detto Braccio di Ferro, uno dei capi piú prestigiosi, che era riuscito a costituirsi un cospicuo possedimento territoriale tra Puglia e Basilicata.

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partecipò anche il nuovo principe di Salerno, Gisulfo II. Il papa mise insieme un esercito di oltre 20 000 uomini e nell’estate del 1053 marciò verso la Puglia, ma il 18 giugno fu sconfitto a Civitate sul Fortore (oggi San Paolo di Civitate, in provincia di Foggia). Fatto prigioniero, Leone fu condotto a Benevento e liberato dai Normanni solo dopo il pagamento di un riscatto. La disfatta di Civitate aumentò il prestigio degli Altavilla, che ottennero altre vittorie ai danni dei Bizantini a Matera (1054), Oria (1055) e Taranto (1056). Il Guiscardo, intanto, si imparentò con il successore di Guaimario IV, Gisulfo II, di cui sposò la sorella, Sichelgaita, mentre anche il conte normanno di Aversa, Riccardo Drengot, espandeva i suoi domini, impadronendosi di quanto restava del principato longobardo di Capua, mentre il principe Landolfo VI prendeva la via dell’esilio.

Fedeltà al papa

to il Guiscardo – dal francese Guischart, «l’Astuto» –, il quale estromise i figli di Unfredo dalla successione. Roberto aveva avuto già modo di distinguersi in battaglia, comandando l’ala sinistra dell’esercito normanno che, nel 1053, aveva duramente sconfitto le truppe papali. Mentre i Normanni si espandevano nel Mezzogiorno, a supplire all’assenza dell’iniziativa militare degli imperatori germanici intervenne papa Leone IX, il quale, in accordo con l’imperatore Enrico III, promosse una vasta campagna militare contro i Normanni, a cui

L’evento piú significativo nell’affermazione del dominio normanno nel Mezzogiorno si verificò però nel 1059. Il nuovo papa, Niccolò II, nel corso di un sinodo tenuto a Melfi (luglio-agosto), investí Roberto il Guiscardo del ducato di Puglia e Calabria, conferendogli anche la sovranità sulla Sicilia, in caso di vittoria sui Saraceni. Tale investitura prevedeva, come corrispettivo, l’assunzione di obblighi di fedeltà assoluta verso il papa. Il normanno si impegnò a fornire truppe al Santo Padre, a difendere la fede da ogni nemico della Chiesa e a garantire il libero svolgimento delle elezioni pontificie. Con l’investitura del ducato, la posizione del Guiscardo nei confronti degli Altavilla e di tutti i Normanni del Sud fu pienamente definita, e il papa non solo riuscí a contenere l’espansionismo dei con-

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Dossier

DA TANCREDI ALLO STUPOR MUNDI TANCREDI (980/990-1040?)

Altavilla e Drengot

Serlone I (1010 circa-?) rimane in Normandia Guglielmo Braccio di Ferro (1010 circa-1046), 1° conte di Puglia (1042)

= (1) Muriella

Drogone (1015 circa-1051), 2° conte di Puglia (1046) = Gaitelgrima di Salerno (Altrude)

Riccardo d’Altavilla (1045 circa 1110 circa)

Umfredo (1020 circa-1057), 3° conte di Puglia (1051) Goffredo (1020 circa-1071), conte di Capitanata

= (2) Fredesenda

Roberto il Guiscardo (1025 circa-1085), conte di Puglia e di Calabria (1057), poi duca di puglia, di Calabria e di Sicilia (1059) Malgerio (1025 circa-1064), conte di Capitanata (1057) Guglielmo (1030 circa-1080 circa), conte del Principato di Salerno (1056)

Escluse le femmine, Tancredi ebbe undici figli. Da Muriella, la prima moglie, aveva avuto: Guglielmo, Drogone, Umfredo, Serlone. Da Fredesenda: Roberto, detto il Guiscardo, Maugerio, Ruggero, Guglielmo (II), Tancredi, Uberto, Alveredo. I Quarrel-Drengot provenivano, come gli Altavilla, dalla Normandia, guidati da Osmondo e Rainulfo, i quali erano fuggiti dal loro borgo natio, in quanto ricercati per l’omicidio di un nobile del luogo, Guglielmo Repostel, di cui avevano violentato la figlia. Quarrel doveva essere un cognomen toponomasticum derivante dall’omonimo borgo, identificabile con l’attuale Les Carraux, comune d’Avesnes-en-Bray, ubicato nel dipartimento di Seine-Maritime. Si conoscono i nomi soltanto di cinque fratelli Quarrel, Rainulfo, Rodolfo, Asclettino, Osmondo e Gilberto.

Alveredo o Alfredo, rimasto in Normandia Tancredi, venuto in Italia e scomparso Beatrice (1030 circa-?) Emma (1030 circa-?) Fredesenda (1030-1097) Ruggero I (1031 circa-1101), conte di Sicilia (1062) =

Matilde (1062-1094) (1) 1061 Giuditta di Evreux (1050-1076)

Adelicia Emma Malgerio, conte di Troina (1080 circa-1100 circa)

(2) 1077 Eremburga di Mortain (†1087)

Busilla (Felicia) (1080 circa-1102) Costanza (1080 circa-?) Violante (Iolanda) Giuditta

(3) 1087 Adelaide del Vasto (1074-1118)

Simone di Sicilia (1093-1105) Matilde (1090 cica-11119) Ruggero II (1095-1154), conte (1105) poi re di Sicilia (1130) =

A sinistra Coutences (Francia), Cattedrale. Particolare della statua raffigurante Roberto il Guiscardo. La scultura, posta sull’esterno, è una copia ottocentesca dell’originale gotico, che fu distrutto durante la rivoluzione francese.

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Ruggero (1175-1193) Costanza Valdrada Maria Albina (1175 circa-1234), contessa di Lecce Guglielmo III (1185-1198), re di Sicilia (1194)

In alto Palermo, Palazzo dei Normanni, Cappella Palatina. Particolare del mosaico del Trono Reale raffigurante lo stemma del Regno di Sicilia con le insegne della Casa d’Aragona e le aquile imperiali sveve. XII sec.

Ruggero (1118-1148), duca di Puglia e Calabria = Bianca di Lecce Tancredi (1120 circa-1138), principe di Bari Alfonso (1122 circa-1144), duca di Napoli

(1) 1116 Elvira Alfonso di Castiglia (1097-1135) (2) 1149 Sibilla di Borgogna (1126-1150) (3) (N)

Adelicia (1130 circa-?)

Ruggero (1150-1161), duca di Puglia Guglielmo II il Buono (1153-1189), re di Sicilia (1166-1189) Enrico (1158-1172), principe di Capua Matina

Simone di Taranto

(4) 1151 Beatrice di Rethel (1135 circa-1185)

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Guglielmo I il Malo (1131-1166), re di Sicilia (1154-1166) = Margherita di Navarra

Tancredi (1138-1194), conte di Lecce, re di Sicilia (1189-1194) = Sibilla di Medania

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Costanza (1154-1198) = Enrico VI, imperatore (1165-1197)

FEDERICO II (1194-1250), imperatore

quistatori, ma anche a coinvolgerli nel processo di «ricattolicizzazione» dei territori bizantini e musulmani del Mezzogiorno. Niccolò adottò la medesima politica verso i Drengot, il cui capo, Riccardo, si era impossessato da poco di Capua (1058), che capitolò definitivamente solo nel 1062. Riccardo venne investito dal papa del titolo di principe di Capua e, dopo il sinodo di Melfi, la conquista del Mezzogiorno fece registrare un’accelerazione. Il Guiscardo si accordò con il fratello Ruggero per una ripartizione degli impegni militari. Quest’ultimo fu investito da Roberto del governo della Sicilia e di parte della Calabria a sud del fiume Sinni, con il titolo di conte, e con il compito di muovere guerra ai Saraceni. Il primo, invece, si riservò il possesso e la conquista della terraferma che procedette spedita. Nel 1071 cadde Bari e, poco dopo, Amalfi (1073) e Salerno (1077). La conquista di Salerno – dove fu trasferita la capitale del ducato di Puglia – pose fine al principato longobardo, costringendo Gisulfo II all’esilio. Il Guiscardo non riuscí a impossessarsi di Benevento – dal 1051 sotto la protezione del papa –, che, a seguito dell’estinzione della dinastia principesca, fu incorporata nei domini pontifici (1077).

L’isola è normanna

Mentre veniva occupata Salerno, Ruggero procedeva alla conquista della Sicilia, che poté dirsi conclusa solo nel 1091, con la presa di Noto. L’isola conservò in buona parte le strutture amministrative precedenti, ma, in base agli accordi intercorsi col Guiscardo prima dell’inizio della conquista, Ruggero era vassallaticamente sottoposto al fratello e non ne aveva piena sovranità. A definire meglio la sua posizione nei confronti della Chiesa siciliana, intervenne una bolla di Urbano II – la Quia propter prudentiam tuam, del 5 luglio 1098 – con la quale il papa nominò Ruggero «legato apostolico», con

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diritto di portare anello, dalmatica e mitra vescovile, pur essendo un laico. Urbano si impegnava a non nominare legati senza il consenso del sovrano, che autorizzava tutti gli ecclesiastici a lasciare la Sicilia per partecipare a eventuali concili. La designazione di abati, arcivescovi e vescovi non poteva avvenire senza il consenso del conte. In base all’assetto che il sinodo di Melfi aveva assegnato al Mezzogiorno, le com-

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pagini normanne risultavano tre: il principato di Capua, retto dai Drengot, il ducato di Puglia e Calabria e la contea di Sicilia, retti da rami distinti degli Altavilla che facevano capo a Roberto e al fratello Ruggero.

Guerra su piú fronti

Il Guiscardo morí il 17 luglio del 1085, a Cefalonia, mentre conduceva una campagna militare contro l’impero bizantino. Nel 1074,

aveva infatti dato in moglie la figlia Olimpia al principe Costantino, erede al trono e figlio dell’imperatore Michele VII Ducas e, quando questi venne deposto dall’esercito, Costantino fu estromesso dal trono e Olimpia relegata in un monastero (1078). Il Guiscardo mosse guerra al nuovo imperatore, Niceforo III Botoniate, pretendendo la liberazione della figlia e il ritorno di Michele sul trono. Mentre si svolgeva agosto

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Miniatura raffigurante papa Niccolò II che incorona Roberto il Guiscardo, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

quando gli successe il figlio, Guglielmo, che lo resse fino alla morte, nel 1127. In Sicilia, nel frattempo, morto il conte Ruggero (1101), gli successe il figlio Simone. Alla sua morte (1105), salí al potere il fratello, Ruggero, per circa un settennio sotto la reggenza (1105-1112) della madre, Adelasia del Vasto. Tuttavia, occorre ora soffermarsi sull’opera del «creatore del regno normanno», che comprendeva l’intero Mezzogiorno peninsulare: Ruggero II. Egli trasferí da Mileto a Palermo la capitale della contea e, alla morte del duca di Puglia, Guglielmo sbarcò a Salerno e si proclamò duca (1127). Papa Onorio II – che rivendicava l’alta sovranità su quelle terre – promosse contro di lui una coalizione, con i Drengot di Capua e altri conti normanni, che però si sfaldò nell’estate del 1128, costringendo il papa a riconoscere a Ruggero il ducato di Puglia, con una bolla promulgata a Benevento (22 agosto 1128).

Una Chiesa lacerata

la guerra nei Balcani, il Guiscardo aveva espugnato Roma per liberare il papa, Gregorio VII, prigioniero dell’imperatore Enrico IV, nel pieno della «lotta per le investiture». Il pontefice fu condotto a Salerno, dove morí il 25 maggio del 1085. Il Guiscardo lasciò due figli, Marco – detto Boemondo (vedi box alle p. 98-99) – e Ruggero, detto Borsa. Quest’ultimo ereditò il ducato di Puglia, che governò fino al 1111,

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Nel 1130, un grave scisma ebbe pesanti conseguenze politiche. In quell’anno vennero eletti ben due papi: Innocenzo II e l’antipapa Anacleto II. Ruggero II si schierò con il secondo, aiutandolo a insediarsi a Roma, e costringendo alla fuga il suo rivale, che trovò rifugio a Pisa. Anacleto riconobbe il titolo regio a Ruggero, con bolla promulgata il 27 settembre del 1130 ad Avellino e, nella notte di Natale di quell’anno, l’Altavilla si fece ungere re nella cattedrale di Palermo dal cardinale di S. Sabina, alla presenza dell’arcivescovo e degli alti dignitari del regno. Innocenzo II, allora, sobillò l’aristocrazia contro Ruggero, lo sco-

municò (1135) e riuscí a ottenere il riconoscimento della sua elezione dai principali regni europei e dal re di Germania, Lotario II. Questi, nel 1133, riuscí a insediare a Roma Innocenzo II, dal quale ottenne la corona imperiale, ma solo nel 1137 si decise a un intervento piú serio contro Ruggero, conducendo una grande campagna nel Mezzogiorno, che si concluse con la disfatta dell’Altavilla a Rignano, in Puglia. Nel corso di una solenne cerimonia tenuta a Melfi, il papa e l’imperatore investirono del ducato di Puglia il conte di Alife, Rainulfo. Poco tempo dopo, morti l’imperatore (1137), l’antipapa (1138) e lo stesso conte di Alife (1139), Innocenzo rimase da solo a fronteggiare Ruggero, il quale, alla fine, sconfisse il papa a Galluccio, nella valle del Garigliano (22 luglio 1139). Innocenzo II dovette riconoscere a Ruggero la corona su Sicilia, ducato di Puglia e principato di Capua, con apposita bolla (27 luglio 1139). Ruggero II si trovò cosí a governare su un regno enorme (70 000 kmq), esteso dalla Sicilia a Gaeta, a ovest, fino al fiume Pescara, a est. In politica estera il sovrano cercò di porre le fondamenta di un vasto «impero» mediterraneo, promuovendo campagne militari in direzione dell’Africa settentrionale e dell’Oriente bizantino. In Africa riuscí a sottomettere Gerba, Tripoli, Mahdia, Sfax, Tunisi e Bona, i cui emiri fecero atto di sottomissione al sovrano. Nei confronti delle comunità islamiche siciliane Ruggero mostrò sempre grande tolleranza, lasciando loro la possibilità di professare liberamente la propria fede, in cambio di un tributo e della fedeltà al nuovo regime. Il re si richiamò espressamente a simbologie politiche islamiche quando si trattò di legittimare la sua autorità verso i sudditi di fede musulmana, assumendo il titolo di al-Mu’tazz bi-’llah («Potente per mezzo di Dio»), che volle apparis-

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In alto miniatura raffigurante l’imperatore Niceforo III Botoniate tra san Giovanni Crisostomo e l’arcangelo Michele. XI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Nella pagina accanto ritratto di Gregorio VII, eletto papa nel 1073, olio su tela di Giuseppe Franchi. 1600-1624. Milano, Pinacoteca Ambrosiana. agosto

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se su monete di conio arabo come i famosi tarí. Tra il 1146 e il 1149, Ruggero condusse alcune guerre contro i Bizantini che consentirono l’annessione delle Isole Ionie, tranne Corfú, riconquistata dall’impero grazie all’aiuto veneziano (1149). In politica interna, Ruggero pose le premesse di un solido apparato amministrativo, che fece del regno normanno uno dei regimi piú centralizzati ed efficienti del Medioevo europeo, con un organigramma istituzionale decisamente evoluto per l’epoca. A Ruggero è attribuito anche il codice normativo noto come «Assise di Ariano», che costituí il pilastro della vita giuridica del regno. La raccolta di norme, di diritto pubblico e privato, pose ordine nel marasma dei secoli precedenti, imponendo il principio della volontà sovrana quale unica fonte del diritto della comunità e riducendo il precedente diritto longobardo e bizantino a fonte normativa sussidiaria destinata a supplire le lacune della legge regia, senza alcuna possibilità di derogare da essa.

Il «grande ammiraglio»

Unificato il Mezzogiorno, Ruggero cercò di non alterare la fisionomia istituzionale degli Stati preesistenti. Le antiche compagini – principato di Capua, ducato di Puglia, contea di Sicilia – sopravvissero come articolazioni geografiche del regno, mentre la capitale fu fissata a Palermo, sede della Magna Curia, ovvero degli ufficiali dell’amministrazione centrale dello Stato, tra cui il cancelliere, il gran connestabile e il grande ammiraglio. Un ruolo direttivo fu riservato al «grande ammiraglio», una sorta di primo ministro. A Palermo aveva sede anche la Dogana, ufficio supremo di amministrazione finanziaria e tributaria. A livello periferico, la compagine ruggeriana era suddivisa in circoscrizioni minori, rette da camerari, giustizieri e connestabili, con competenze diverse. I camerari

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amministravano il demanio regio ed esercitavano la giustizia in tutti gli affari riguardanti i feudatari del re; i giustizieri amministravano la giustizia civile e penale, riservando a sé la cognizione dei reati piú gravi come la sedizione; i connestabili si occupavano del comando delle truppe regie, del loro approvvigionamento e della disciplina militare. Al di sotto di questi organi periferici erano le università – le città –, sud-

divise in demaniali e feudali, a seconda che rientrassero sotto la potestà regia o sotto quella di un conte. Le città conservarono generalmente gli ordinamenti amministrativi precedenti la conquista e le proprie consuetudini, mentre al loro vertice fu posto un baiulo di nomina regia o signorile, con compiti di vigilanza delle amministrazioni cittadine, riscossione delle imposte e amministrazione della giustizia.

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Dossier A sinistra particolare di una miniatura raffigurante il ritorno in Puglia di Boemondo I, da un’edizione della Historia di Guglielmo di Tiro. XV sec. Ginevra, Bibliothèque de Genève. Nella pagina accanto Canosa di Puglia, mausoleo di Boemondo. Uno scorcio della parte inferiore del complesso architettonico, con la porta in bronzo che chiude l’accesso alla tomba. XII sec.

Boemondo d’Altavilla

L’eroe dei due mondi Marco, detto dal padre Boemondo (da un leggendario «Buamundus gigas»), era il primogenito del Guiscardo, figlio del primo matrimonio con la normanna Alberada. A quanto pare, il «Guiscardo» sarebbe stato appellato cosí, per la prima volta, proprio da Gerardo di Buonalbergo, poco prima della battaglia di Civitate, nel 1053, a cui Gerardo partecipò con circa

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200 cavalieri. Il Guiscardo divorziò da Alberada intorno al 1058, dopo l’annullamento ecclesiastico per legami di parentela con la sposa, per contrarre nuove nozze con Sichelgaita, sorella di Gisulfo II di Salerno e madre di Ruggero Borsa. Alla morte del padre, Boemondo ne rivendicò l’eredità, opponendosi con le armi al fratello, Ruggero Borsa.

Nel 1089, però, decise di arrivare a un compromesso, rinunciando al ducato di Puglia, e accettando il governo di una nuova compagine, il principato di Taranto, comprendente una parte del territorio pugliese, calabro e lucano. Nel 1096, Boemondo decise di intraprendere la crociata per liberare i luoghi santi dai Turchi e nell’estate dell’anno successivo era in Asia Minore. agosto

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Il re normanno non disdegnò di ricorrere ai rapporti feudali per organizzare il territorio e inquadrarne le popolazioni, sebbene tali rapporti fossero ben inseriti nelle strutture dello Stato. I vassalli regi tenuti al servizio militare o al pagamento di un’imposta sostitutiva – adiutorium – erano divisi in conti e baroni. Con il consenso regio, essi potevano procedere a ulteriori sub-infeudazioni nell’ambito dei rispettivi domini, ma ogni vassallo era tenuto all’«omaggio ligio» verso il sovrano, signore supremo. La successione nei feudi e la loro alienazione erano disciplinate dalla legislazione regia, per evitare la dispersione del patrimonio, con conseguente difficoltà ad adempiere gli obblighi verso la curia. Solo i conti – appartenenti alle stirpi normanne piú prestigiose – detenevano i pieni poteri di governo sui propri sudditi, ma, in genere, non potevano mai spingersi fino all’erogazione della pena di morte, riservata ai giustizieri.

Adriano IV. Tra essi figuravano Roberto, conte di Loritello e Conversano e Riccardo d’Aquila, conte di Fondi. Dopo due anni di scontri, i ribelli furono sconfitti dall’esercito regio, guidato dall’ammiraglio Asclettino (1156). Con il pontefice, Guglielmo stipulò un accordo a Benevento, il 18 giugno del 1156, con cui otteneva il riconoscimento del regno e si impegnava a rispettare gli obblighi assunti dai suoi predecessori nei confronti del papa. Nel 1158, fu raggiunta anche una pace trentennale con l’impero d’Oriente, che, in quegli stessi anni, aveva approfittato della ri-

volta dei baroni per impossessarsi di alcuni porti pugliesi. Una nuova rivolta, ben piú grave, esplose nel 1160, proprio a Palermo, contro la cattiva amministrazione del grande ammiraglio Maione di Bari, «primo ministro» del sovrano che fu prontamente eliminato. Ispiratore della sommossa fu il nobile Matteo Bonello, signore di Caccamo, il quale, a sua volta, venne catturato e giustiziato nel marzo del 1161. Infine, a seguito dell’espansione militare della dinastia berbera degli Almohadi (tra il 1156 e il 1159), Guglielmo I perse tutti i possedimenti africani annessi dal padre.

I successori di Ruggero

Ruggero II si spense il 26 febbraio del 1154, lasciando il trono al figlio Guglielmo, associato al potere dal 1151. Da subito, il nuovo re dovette affrontare una grave ribellione che vedeva coinvolti esponenti della feudalità sobillati dal pontefice

Si distinse nelle battaglie di Nicea e Dorileo (1097) e nell’assedio di Antiochia, che venne espugnata dalle truppe crociate nel giugno del 1098. Proclamato signore di Antiochia con il rango di principe, Boemondo fu poi catturato dai Selgiuchidi nel 1100 e liberato tre anni piú tardi. Nel 1105 intraprese un viaggio in Europa per reperire fondi e uomini

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per la crociata e, alla corte del re di Francia Filippo I, incontrò e sposò Costanza, figlia del sovrano. Nel 1106 era di nuovo nel Mezzogiorno, per intraprendere una campagna militare contro l’impero d’Oriente, come aveva fatto suo padre. L’esito dell’impresa fu però disastroso. Boemondo si trovò costretto a stipulare il trattato di Devol con l’imperatore (1108), e a

riconoscerlo supremo signore del principato di Antiochia. Non tornò piú in Oriente e morí in Italia, a Bari. Venne sepolto nel mausoleo annesso al transetto della cattedrale di S. Sabino, a Canosa, ancora oggi esistente (1111). Il figlio, Boemondo II († 1130), ereditò il principato di Taranto e quello di Antiochia, dove fece ritorno solo nel 1126, lasciando per sempre l’Italia.

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Dossier Il sovrano morí il 7 febbraio 1166 e a lui successe il figlio Guglielmo II, il cui regno cominciò sotto la reggenza della madre, Margherita di Navarra. Questa promulgò un’amnistia generale, consentendo a molti baroni ribelli di rientrare in possesso delle proprie contee. Nel 1168 si registrò una nuova ribellione, scatenata dall’autoritarismo del cancelliere del regno e arcivescovo di Palermo, Stefano di Blois, cugino e amante della regina. Il cancelliere fu costretto a fuggire dalla Sicilia, assieme ai suoi favoriti, e Margherita istituí una direzione collegiale del regno che faceva capo a tre illustri personalità: Gualtiero Offamilio, arcivescovo di Palermo, Riccardo Palmer, vescovo di Siracusa, Matteo d’Aiello, vicecancelliere. Terminata la reggenza (1171), il re assunse il potere, continuando a usufruire del contributo di questi preziosi collaboratori. Nel 1160 era ufficialmente iniziato lo scontro tra l’imperatore Federico I Barbarossa, i Comuni e papa Alessandro III, e Guglielmo II decise di parteciparvi, schierandosi contro il tedesco. Una scelta di campo comprensibile, se si pensa alle rivendicazioni dell’impero germanico sul Mezzogiorno, e che vide Guglielmo impegnato fino alla pace di Venezia del 1177. Il re fu attivo anche contro l’Oriente bizantino (segue a p. 105)

In alto Palermo, chiesa della Martorana. Mosaico raffigurante Cristo che incorona Ruggero II. XII sec. A destra manto purpureo appartenuto a Ruggero II, con oro, perle e smalti. 1133-1134. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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la cultura

Palermo, caput mundi Il Mezzogiorno italiano conserva tracce del suo passato normanno sotto il profilo architettonico, letterario e, in senso piú generale, artistico. Basti pensare al «mantello di re Ruggero», oggi custodito a Vienna, presso il Kunsthistorisches Museum, opera raffinata delle maestranze arabe che operavano nei laboratori tessili di corte (vedi foto alla pagina precedente). Realizzato con seta di importazione bizantina è decorato da scritte in lingua araba e raffigura due leoni, simboli del potere normanno, che sovrastano due cammelli, simbolo dell’Islam sottomesso ai conquistatori. All’epoca di Ruggero II risalgono i mosaici della Cappella Palatina (1131-1143) di Palermo, nel Palazzo dei Normanni, sede della curia regia e oggi dell’Assemblea Regionale Siciliana. Articolata in tre navate, la cappella serviva al servizio liturgico della corte ed è ornata da splendidi mosaici con scene dell’Antico e del Nuovo Testamento. Uno sfolgorante Cristo Pantocratore troneggia nella cupola, mentre la caratteristica decorazione araba a nicchie – muqarnas – decora il soffitto.

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In alto Salerno, Duomo. Scorcio del portale d’accesso al quadriportico. La realizzazione della cattedrale è direttamente riconducibile a Roberto il Guiscardo. XII sec. In basso Palermo, Palazzo dei Normanni, camera di Ruggero II. Un’immagine della ricca decorazione a mosaico che orna la parete meridionale della sala. XII sec.

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A sinistra Monreale, Duomo. Particolare della decorazione a mosaico, raffigurante Guglielmo II nell’atto di dedicare la cattedrale alla Vergine. XII sec.

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A sinistra Monreale, Duomo. Ancora un particolare della decorazione a mosaico, raffigurante Cristo in trono che incorona Guglielmo II. XII sec.

Allo stesso periodo risale anche la chiesa palermitana della Martorana, voluta da Giorgio d’Antiochia († 1151), «grande ammiraglio» di Ruggero. Anche qui vi sono mosaici di fattura bizantina, tra i quali spicca quello raffigurante l’incoronazione, a opera di Cristo, di Ruggero II, ritratto con le stesse fattezze del Salvatore, probabilmente a suggerire l’origine divina del suo potere. Dell’età ruggeriana è anche lo splendido Duomo di Cefalú (1131), destinato a sepoltura del re, con i magnifici mosaici del presbiterio, che culminano nella raffigurazione del Pantocratore, nel catino absidale. Grande fervore edilizio caratterizzò il regno di Guglielmo II, al quale viene attribuita l’edificazione dell’abbazia di Monreale (1166-1178) – vicino

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Palermo –, poi trasformata in arcidiocesi retta dal vescovoabate (1182). La chiesa abbaziale, con l’annesso chiostro a pianta quadrata, ornato di archi a sesto acuto retti da colonnine decorate con mosaici, rappresenta la fusione di elementi architettonici romanico-normanni e arabo-bizantini. Splendide sono anche le porte di bronzo, opera di Bonanno da Pisa e Barisano da Trani, in cui si fondono mirabilmente elementi dell’arte figurativa romanico-bizantina e la maestria nordica nella lavorazione dei metalli. Le basiliche normanne rispecchiavano le caratteristiche degli edifici religiosi romanici e bizantini, con le mura spesse, la struttura imponente dei corpi di fabbrica, l’assenza quasi totale delle decorazioni

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Dossier A destra Palermo, Palazzo della Zisa. Veduta panoramica ripresa dal versante delle vasche d’acqua. Magnifico edificio voluto da Guglielmo I, è chiaramente ispirato ai canoni dell’architettura araba. XII sec. Nella pagina accanto Palermo, Palazzo dei Normanni. Uno scorcio del Cortile Maqueda, ornato da un portico e due ordini di logge in stile rinascimentale. XVII sec.

- pitture, mosaici, sculture - esterne agli edifici, mentre abbondavano di mosaici e decorazioni interni. Basterà qui ricordare l’abbazia della Ss. Trinità di Venosa, la Ss. Trinità di Mileto, o il Duomo di Salerno – dedicato a san Matteo – edificato da Roberto il Guiscardo in collaborazione con l’arcivescovo Alfano, attingendo al proprio tesoro personale. Con il suo portico ornato di 28 colonne di spoglio e il policromo loggiato superiore – riservato al clero del capitolo cattedrale – realizzato in pietra calcarea, tufo grigio, arenaria e laterizio, il Duomo di Salerno è una delle migliori espressioni del romanico meridionale. Al regno di Guglielmo I sono attribuibili due caratteristiche costruzioni in perfetto stile arabo: la Zisa e la Cuba di Palermo, ubicate nel parco reale – Genoardo –, il cui nome significa, in arabo, «Paradiso sulla Terra». Ricco di giardini, agrumeti, peschiere, fontane e riserve di caccia, il Genoardo, era destinato al piacere dei re e della curia. La Zisa – «la Splendida» – e la Cuba – «la Cupola» – erano padiglioni di caccia e riposo a forma di parallelepipedo, decorati con marmi policromi intarsiati, soffitti a muqarnas e archetti intrecciati a fondo cieco per conferire profondità alla volumetria delle pareti. Alla corte di Ruggero II operarono molte e illustri figure di intellettuali, tra cui l’arabo Edrisi e il greco Nilo Dossopatre. Il primo fu autore di un manuale di geografia – il Libro di

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Ruggero – illustrato da un planisfero argenteo, in cui era sintetizzato il meglio della scienza geografica arabo-greca, mentre il secondo fu monaco e diacono di S. Sofia, autore di un Trattato sui cinque Patriarcati, opera di geografia e storia ecclesiastica, e di omelie, inni e poesie. Durante il regno di Guglielmo I, Palermo si distinse come importante centro di traduzione di opere greche e arabe in lingua latina. Tra le personalità piú attive in questo campo, sono da ricordare Enrico Aristippo, arcidiacono di Catania, ed Eugenio l’Ammiraglio, un greco al servizio della curia. Il primo tradusse i dialoghi platonici Fedone e Menone e l’Almagesto dell’astronomo greco Tolomeo; il secondo tradusse l’Ottica di Tolomeo, la favola di origine indiana Kalila e Dimna, e fu autore di molte poesie. Nell’ambito della produzione letteraria di epoca normanna, grande diffusione ebbe anche la storiografia in lingua latina, grazie all’opera di molti autori, laici ed ecclesiastici, che scrissero opere di chiaro intento apologetico nei confronti dei Normanni e del loro regno. D’altronde, la storiografia era il genere letterario che, piú di ogni altro, consentiva di celebrare ed esaltare la nuova realtà statuale normanna sorta dalla conquista. Tra gli autori – tutti fioriti tra l’XI e il XII secolo – sono da ricordare Amato di Montecassino, Guglielmo di Puglia, Goffredo Malaterra, Alessandro di Telese, Ugo Falcando e Romualdo Guarna. agosto

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e i Saraceni. Queste azioni militari non sortirono grandi successi, per quanto Guglielmo fosse supportato da una grande flotta, comandata da Margheritone da Brindisi, e da un numeroso esercito.

Attacco all’impero

Nel 1175, la flotta normanna comparve al largo di Alessandria d’Egitto, ma le truppe non riuscirono a sbarcare e dovettero ritirarsi, limitandosi a saccheggiare il litorale egiziano. Tra il 1180 e il 1185, il re attaccò ripetutamente i possedimenti bizantini in Grecia, saccheggiando Peloponneso, Attica e Beozia ma, nel 1185, le sue truppe furono seriamente battute e, rinunciando a un’ulteriore espansione, conservò il possesso delle Isole Ionie: Zante, Cefalonia e Corfú. Il pretesto per l’attacco all’impero fu trovato nel rifiuto dell’imperatore Manuele di dare in sposa la figlia Maria a Guglielmo, che ripiegò su Giovanna Plantageneta, figlia di Enrico II d’Inghilterra.

Negli stessi anni vennero stipulati accordi commerciali con Genova, Pisa e Venezia, che ottennero privilegi fiscali nel territorio del regno. Nel 1187, caduta Gerusalemme nelle mani di Saladino, Guglielmo cominciò a preparare l’esercito per la crociata indetta dal papa e inviò la flotta lungo la costa palestinese, il che impedí l’ulteriore espansione dei musulmani in direzione del Mediterraneo. Sprovvisto di discendenza, il re iniziò a predisporre la successione, facendo sposare la zia, Costanza d’Altavilla – figlia di Ruggero II – con Enrico di Hohenstaufen, duca di Svevia e figlio del Barbarossa. Le nozze furono celebrate a Milano, nel 1186, mentre il re, nell’assise solenne di Troia, in Puglia, si faceva promettere dai baroni di accettare il nuovo sovrano. Morto Guglielmo II – e sepolto, come il padre, a Monreale (18 novembre 1189) –, la dinastia degli Altavilla si estinse. A dispetto degli auspici di Guglielmo, iniziò un lungo periodo di guerre civili, che lacerarono il regno fino al 1194. Tancredi di Lecce, nipote di Ruggero II, si mise a capo del «partito normanno» che riuniva tutta l’aristocrazia ostile al cambio di dinastia a favore dei Tedeschi, ma la morte che lo colse improvvisa gli impedí di compiere il suo disegno politico: ed Enrico VI di Hohenstaufen divenne re (vedi box alle pp. 101-104). V

Da leggere Marjorie Chibnall, I Normanni, ECIG Edizioni, Genova 2005 Paolo Delogu, I Normanni in Italia. Cronache della conquista e del regno, Liguori, Napoli 1984 Hubert Houben, I Normanni, Il Mulino, Bologna 2015 Donald J. Matthew, I Normanni in Italia, Laterza, Roma-Bari 2008 Donald J. Matthew, L’Europa normanna, Jouvence, Roma 1987

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UN ANTROPOLOGO NEL

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Diavolo rosso P

er tutta la stagione estiva, fino a settembre, non c’è regione italiana, soprattutto al Sud, che non abbia sagre, festival o convegni sul bruciante peperoncino, con gli inevitabili corollari di fuochi d’artificio e ammiccanti allusioni al suo potere afrodisiaco. Sembra quasi crearsi un corto circuito simbolico e linguistico tra il bruciore del piccolo vegetale, i sensi e la stagione. Ora, in questo breve spazio, il rosso cornetto alimentare ci offre l’occasione di riflettere sull’invenzione, il perpetuarsi e soprattutto sulla trasmissione di una tradizione di lunga durata che ha una sua precisa data di nascita: il tardo Medioevo. Il peperoncino infatti viene presentato all’Europa grazie a Cristoforo Colombo, che lo nomina per la prima volta il martedí 15 gennaio del 1493: «E lí vi era cotone in gran quantità, e assai fino, e lungo, e gran copia d’alberi di mastice e gli pare che gli archi siano fatti di tasso, e che vi fosse oro e rame; eppure axí in abbondanza, che è il loro pepe, e di qualità che di molto sopravanza quella del pepe, e non v’è chi mangi senza di esso, che reputano assai curativo: e se ne possono riempire in quella Española cinquanta caravelle ogni anno».

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L’albero e la preparazione del pepe in un’illustrazione che correda un’edizione del Livre des Merveilles du monde di Marco Polo e Rustichello. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Due sono gli elementi notevoli di questa breve nota dell’Ammiraglio: l’interpretatio europea del vegetale americano e le sue possibilità commerciali.

Tutti vogliono le spezie... Quell’accenno a «il loro pepe» mostra un elemento fondamentale di questa «nuova tradizione» che vediamo nascere in Occidente: il peperoncino non coglie gli Europei completamente impreparati, anzi, sembra sovrapporsi perfettamente a una nicchia gastronomica e culturale già occupata dal piper latino, utilizzato per la preparazione di molte pietanze, ma anche di rimedi contro varie malattie e, non ultimo, come afrodisiaco. Nonostante le resistenze di Plinio il Vecchio contro una spezia che «non ha nulla per piacere nel frutto e nella bacca», almeno nell’aspetto, la cucina romana d’élite ne fece agosto

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sempre un largo consumo. Il Medioevo ne ereditò l’uso e la credenza, e il Regimen Sanitatis (XI-XIII secolo) ne parla come di un condimento universale, insieme alla salvia, al sale, al vino, all’aglio e al prezzemolo. Veniva inoltre utilizzato come digestivo e purgante. Inutile dire quanto le spezie in generale, e il pepe in particolare, influenzassero la vita economica, sociale e culturale degli Europei. La «follia delle spezie», come l’ha definita lo storico Fernand Braudel, non modificò soltanto il gusto e l’alimentazione dei ricchi e dei potenti, ma contribuí a perfezionare – offrendolo concretamente alla percezione dei sensi – il modello esotico e lontano del misterioso Oriente, che cosí diviene a portata di tavola. Lungo l’arco del Medioevo, le spezie furono il modello di esotismo per eccellenza, l’orizzonte onirico nel quale gli occidentali proiettavano sogni e desideri. Fame, malattia, e soprattutto il freddo, potevano essere vinti grazie a queste saporite sostanze odorose che riscaldavano, e surriscaldavano, i corpi. Fu anche in nome di questo esotismo che Colombo varcò l’Oceano: retoricamente egli ricalcava – che ne fosse consapevole o meno non importa – il cliché dell’Oriente meraviglioso, creandone un altro a Occidente, altrettanto in bilico tra admiratio e stupore, Paradiso Terrestre e Paese di Cuccagna.

Una pianta facilmente coltivabile Ma il marinaio Colombo – e veniamo al secondo aspetto del suo appunto sul Diario – aveva anche intuito le possibilità commerciali del peperoncino, che avrebbe potuto sostituire il Piper nigrum, e non solo dal punto di vista simbolico. Già nella sua seconda permanenza in America, Colombo e i suoi ne cominciarono la coltivazione: «Oggi sono trentuno giorni che sono arrivato a questo porto. (…) I semi avevano già attecchito fin dal terzo giorno. Di ravani, peperoncino e altre consimili piante potevamo già fare raccolto, e le piante ormai sono alte». Piú ancora, raccomanda premurosamente l’Ammiraglio, «In quanto poi all’axí che noi chiamiamo pepe, di cui portai mostra a Vostra Altezza, qui ce n’è e ve ne sarà quanto piacerà alle Vostre Altezze disporre, che lo seminano e nasce negli orti come mille altre cose». Ma proprio i fattori botanici fecero fallire questa nuova via delle spezie occidentale: il peperoncino si semina e cresce quasi ovunque con grande facilità. I Portoghesi poi fecero il

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In alto disegno della pianta del pepe realizzato per l’opera A History of East Indian Trees and Plants, and of their Medical Properties. 1600-1625. Londra, British Library. A sinistra tavola a colori raffigurante il peperoncino dall’erbario di Giovanni Battista Morandi Hortulus botanicus pictus sive collectio plantarum... 1748. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

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CALEIDO SCOPIO Ritratto (postumo) di Cristoforo Colombo, olio su tela di Sebastiano del Piombo. 1519. New York, The Metropolitan Museum of Art.

resto, portandolo dall’Africa fino all’India, dove divenne, sotto le varie forme di curry, chutney e altro, la salsa piú diffusa in quel subcontinente e nelle zone limitrofe.

Condimento dei poveri La delusione di Colombo fu però la fortuna del peperoncino: preannunciato al palato e alla cultura dal piper, a partire dal Cinquecento il rosso cornetto vegetale prese una strada tutta sua, «popolare», nel duplice senso di diffusa e subalterna. L’adattabilità del peperoncino e quel suo sapore forte, violentemente piccante, hanno fatto sí che venisse utilizzato nei piú semplici e poveri piatti contadini, soprattutto quelli vegetali oppure a base di scarti alimentari o carni non fresche. Con un po’ di olio,

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aglio, zenzero o pochi altri elementi, è diventata l’unica salsa con la quale milioni di poveri potessero e possano ancor oggi condire un pugno di riso o di pasta. Questa adozione da parte delle classi subalterne ha sancito però la condanna del peperoncino da parte delle classi egemoni, che se ne allontanarono lentamente, ma inesorabilmente. Soprattutto nell’Italia del Sud, dove è conosciuto con termini come diavolillo o diavolicchio, cancariellu e cancaricchiu (da cancro), che rivelano la profonda diffidenza verso il vegetale. Termini che alludono all’eccessivo e violento piccare del peperoncino, ma potrebbero anche rivelare pregiudizi di carattere morale e religioso nei confronti dei cibi piccanti e quindi eccitanti. Claudio Corvino agosto

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Maria Elisa Soldani I mercanti catalani e la Corona d’Aragona in Sardegna Profitti e potere negli anni della conquista Viella, Roma, 164 pp.

19,00 euro ISBN 9788867288069 www.viella.it

Inserendosi nel filone storiografico che vede nei rapporti di patronage un legame piú forte di quelli politici nella costruzione degli Stati e delle regioni economiche, Maria Elisa Soldani esamina i meccanismi di promozione sociale delle famiglie mercantili catalane in quanto indispensabili alla comprensione dei rapporti politici ed economici del mondo mediterraneo. Nel volume si fondono cioè due temi che sono alla base del piú recente dibattito storiografico: quello accennato dei rapporti personali come fondamento della costruzione dello Stato, tanto dal punto di vista politico che da quello economico, e quello della mobilità sociale. I mercanti catalanoaragonesi costituivano, infatti, un fattore di unificazione dello spazio mediterraneo piú solido di quello politico-istituzionale

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legato alla Corona, per cui i monarchi trovarono conveniente sfruttare le relazioni con la nobiltà e gli uomini d’affari, ricambiandone i servigi con concessioni, appalti, salvacondotti, infeudazioni. Gli agganci clientelari e le possibilità di ascesa sociale venivano cioè a intrecciarsi: i mercanti seppero a loro volta sfruttare i rapporti

col mondo politicoistituzionale per accrescere la propria ricchezza e il proprio status, approfittando del bisogno di denaro della Corona aragonese, acuito dalle necessità belliche (non diversamente dai principi degli altri Stati regionali della Penisola fino a tutto il XV secolo). Un meccanismo analogo a quello che si innescò nel ducato di Milano nel secondo Quattrocento, all’epoca degli Sforza. Gli anni in cui la Sardegna venne

conquistata dagli Aragonesi (a partire dal 1324/26 fino al 1409) rappresentarono per i mercanti catalani un’occasione importante di arricchimento e di consolidamento sociale, grazie alla loro capacità di armare le navi, di offrire servizi indispensabili di trasporto delle truppe, di trasferimento del denaro, di organizzazione produttiva. A sua volta, la presenza delle loro compagnie favorí l’inserimento dell’isola tra le principali rotte commerciali del Mediterraneo. Furono queste stesse famiglie (insieme ai mercanti fiorentini e al gettito della fiscalità straordinaria) a finanziare la Corona aragonese nelle operazioni di conquista della Sardegna. Nella prima parte del volume vengono dunque illustrate le ragioni dell’adesione dei mercanti barcellonesi alla politica della Corona; nella seconda l’autrice ricostruisce l’attività e le reti di relazioni di alcuni uomini d’affari catalano-aragonesi e la loro affermazione economica, sociale e politica dal 1324 alla fine del secolo; la

terza parte esamina le misure governative messe in atto per favorire l’afflusso dei mercanti nell’isola e rendere piú efficace l’amministrazione delle sue risorse, e il cambiamento di tendenza degli operatori economici nella seconda metà del Trecento. E appunto l’esodo dalla Sardegna degli uomini d’affari di tutte le nazionalità in tale periodo, costituisce il sintomo piú appariscente della crisi economica sarda dell’epoca successiva alla Peste. Del resto, già nel decennio precedente la crisi, era apparso chiaro che i prestiti e i servizi offerti alla Corona non sarebbero stati rimborsati: l’euforia iniziale aveva presto ceduto il passo alla disillusione. Maria Paola Zanoboni Amedeo Belluzzi, Caroline Elam, Francesco Paolo Fiore (a cura di) Giuliano da Sangallo

Officina Libraria, Milano 456 pp., ill. b/n

45,00 euro ISBN 978-88-99765-20-0 www.officinalibraria.com

Il volume riprende e arricchisce i temi affrontati nel corso di due incontri di studio svoltisi a Firenze

(2011) e Vicenza (2012). Grazie ai numerosi contributi che in esso sono confluiti, è possibile ripercorrere l’intera carriera di Giuliano da Sangallo (1443 o 1445-1516), che viene senz’altro annoverato fra i migliori ingegni del primo Rinascimento, ma del quale è evidente l’attenzione per la lezione dell’antico (a cui è non a caso dedicata una parte importante del libro). L’opera è articolata in varie sezioni, che analizzano il contesto nel quale il grande architetto si trovò a lavorare, il suo modus operandi e i suoi progetti, per edifici religiosi e residenziali. Merita infine d’essere segnalato il ricco Atlante che precede i testi, nel quale sono riunite le magnifiche fotografie in bianco e nero, realizzate da Vaclav Sedy, che esaltano le creazioni del maestro fiorentino. Stefano Mammini agosto

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CALEIDO SCOPIO

Jacob, virtuoso del contrappunto MUSICA • L’ensemble

inglese The Clerks’ Group, sotto la guida di Edward Wickham, si cimenta con le complesse partiture di Jacob Obrecht: quasi una sfida per strumentisti e cantanti. Che il gruppo supera brillantemente

In alto il castello di Ferrara, città in cui Jacob Obrecht soggiornò, lavorando alla corte degli Estensi.

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oce fra le piú rappresentative della scuola polifonica francofiamminga, Jacob Obrecht (1457 circa-1505) è tornato all’attenzione degli studiosi negli ultimi decenni, grazie alle ricerche che il musicologo Reinhardt Strohm ha condotto su Bruges, città in cui il musicista visse e operò a lungo nella seconda metà del Quattrocento. Le poche note biografiche conosciute lo descrivono come cantore e, successivamente, maestro di cappella nelle città di Uthecht, Anversa, Berg, Cambrai e, a piú riprese, a Bruges. Seguendo le orme di molti suoi

colleghi, anche Obrecht si lasciò tentare da un ingaggio alla prestigiosa corte estense di Ferrara, presso la quale soggiornò per alcuni mesi tra il 1487 e il 1488, per poi farvi ritorno nel 1504 e morirvi l’anno successivo di peste. Gran parte della sua produzione è dedicata alla musica sacra e su di essa si concentra l’antologia dell’ensemble inglese The Clerks’ Group, riproposta per l’etichetta Alto. Considerevoli sono le numerose messe su canto fermo, la cui particolare tecnica costruttiva implica l’utilizzo di melodie agosto

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Jacob Obrecht. Missa Sub Tuum Praesidium The Clerks’ Group, Edward Wickham Alto (ALC 1308), 1 CD http://altocd.com Ritratto del compositore Jacob Obrecht, tempera, olio e oro su tavola di autore anonimo, probabilmente olandese o francese. 1496. Fort Worth (Texas, USA), Kimbell Art Museum. gregoriane, ma anche profane, nelle varie parti vocali. Nel caso della Missa Sub Tuum Praesidium – oggetto di questa registrazione –, l’autore affida al soprano il canto fermo, caratterizzandolo con l’adozione di lunghe note, che ripropongono l’antica melodia gregoriana, mentre l’intreccio polifonico si sviluppa nelle voci inferiori. Geniale, in questa messa è anche la scelta di strutturare le varie sezioni adottando una polifonia a tre parti nel Kyrie iniziale, per proseguire aggiungendo a ogni brano una voce, sino ad arrivare al climax delle sette voci impiegate nell’Agnus Dei finale. Pregevoli sono anche gli altri mottetti che completano

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l’antologia – Salve Crux, Beata es Maria, Salve Regina, Factor Orbis e Mille Quingentis –, che rivelano la grandezza di Obrecht e, soprattutto, la sua padronanza della tecnica contrappuntistica, per il quale venne particolarmente apprezzato.

La musica innanzitutto D’altronde, è anche vero che, pur trovandoci di fronte a tanta sapienza musicale e straordinaria perizia tecnica, nel compositore fiammingo manca ancora quella sensibilità verso il contenuto testuale che, nelle sue musiche, passa inevitabilmente in secondo piano, avvicinando il suo stile a una estetica gotica piú che umanistica quale si andava sviluppando. Un atteggiamento compositivo, questo, che crea non poche difficoltà all’esecutore di tale repertori, in quanto la linea interpretativa deve affidarsi al senso strettamente musicale senza

poter davvero interagire con il testo messo in musica. Diretto da Edward Wickham, The Clerks’ Group opta per un’interpretazione in cui prevale, acusticamente parlando, un effetto piuttosto cameristico e, forse, poco coinvolgente rispetto alla scelta di una sonorità piú riverberata quale si poteva avere all’interno di una cattedrale. Tale effetto permette una comprensione maggiore degli arditi giochi contrappuntistici delle linee vocali, ma produce una secchezza eccessiva del suono, che poco si addice a questo repertorio, e sarebbe semmai piú consona all’esecuzione di un repertorio madrigalistico profano. Ciononostante, si apprezzano la bravura degli interpreti e l’ottimo amalgama sonoro soprattutto in considerazione del non ottimale contesto acustico in cui si è svolta la registrazione. Franco Bruni

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