Medioevo n. 246, Luglio 2017

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MEDIOEVO n. 246 LUGLIO 2017

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SOMMARIO

Luglio 2017 ANTEPRIMA ANIMALI MEDIEVALI Incanto e perdizione

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MOSTRE Un legame da ricucire Il ritorno di un capolavoro controverso

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APPUNTAMENTI Nella città del tesoro Omaggio alla grancontessa Viva gli sposi! L’Agenda del Mese

12 20 21 28

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STORIE COURTRAI

Battaglia degli Speroni d’oro

Un «Buongiorno» di sangue di Federico Canaccini

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36

48 COSTUME E SOCIETÀ

STORIE

Comunanza del Trasimeno

Quando l’acqua vale piú dell’oro di Jacopo Mordenti

ARCHITETTURA MILITARE La miglior difesa è... la lana di Flavio Russo

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IMMAGINARIO Lapislazzuli

Il cielo in una pietra di Lorenzo Lorenzi

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72

62

CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI, SAPORI Frustrazioni di un cuoco «segreto» 104 LIBRI Lo scaffale

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MUSICA Ritorno alle origini

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Dossier Genova REGINA DEI MARI

di Furio Cappelli

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MEDIOEVO

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M EN ECIA ED O LE IEV V AL A E

MEDIOEVO n. 246 LUGLIO 2017

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Leemage: copertina (e p. 67) e p. 47; AKG Images: pp. 36/37, 42/43, 68/69, 69, 82; AGE: p. 38 (sinistra); Rue des Archives/RDA: pp. 62/63; Archivio Quattrone/ Antonio Quattrone: p. 66/67; Electa/Sergio Anelli: p. 74 (alto); Electa/Fabrizio Carraro: p. 88; Rue des Archives/Tallandier: p. 90 (alto) – Doc. red.: pp. 5, 12, 13 (destra), 14, 46, 52, 55, 56, 56/57, 58 (sinistra), 61 (basso), 64-65, 68, 70, 71 (basso), 77, 80/81 (alto), 81, 83, 85, 86-87, 90 (basso), 91, 92-93, 96, 98/99, 100 (alto), 104-107 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 8-10, 16-18 – Shutterstock: pp. 12/13, 38 (destra), 50, 71 (alto, sinistra e destra), 76/77, 79, 80/81 (basso), 89, 94, 95 (basso), 97, 98, 100 (basso), 101-103 – Cortesia «Luglio longobardo», Nocera Umbra: p. 13 (sinistra e centro) – Cortesia degli autori: pp. 20-21, 72/73 (basso), 74 (centro e basso), 75 – DeA Picture Library: A. Dagli Orti: p. 40 – Alamy Stock Photo: De Rocker: pp. 40/41; Mauro Toccaceli: p. 57 – Bridgeman Images: pp. 44-45, 72/73 (alto) – Serena Bianconi: pp. 48/49, 60 – Foto Scala, Firenze: pp. 50/51 – Archivi Alinari, Firenze: pp. 52/53; Archivio Brogi: pp. 54/55 – Cortesia eredi Elio Pasquali: pp. 58 (destra), 59 – Marka: Danilo Donadoni: p. 61 (alto); BildagenturOnline: pp. 84/85 – Archivio Franco Cosimo Panini Editore: disegno di Andrea Rui da Mirabilia Italiae-La Cattedrale di San Lorenzo a Genova: p. 95 (alto) – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 38/39, 43, 53, 84.

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MEDIOEVO Anno XXI, n. 246 - luglio 2017 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Impaginazione: Alessia Pozzato

Editore: MyWay Media S.r.l.

Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Presidente: Federico Curti

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Lorenzo Lorenzi è storico dell’arte. Jacopo Mordenti è storico del Medioevo. Chiara Parente è giornalista. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Concessionaria per la pubblicità extra settore: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it Pubblicità di settore: Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com

Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

In copertina miniatura con l’allegoria del mese di Maggio, dalle Très Riches Heures du Duc de Berry dei fratelli Limbourg. 1411-1416. Chantilly, Musée Condé. Per la campitura del cielo e del manto di alcuni personaggi i celebri miniatori si servirono di un pigmento a base di lapislazzuli (vedi l’articolo alle pp. 62-71).

Direzione, sede legale e operativa: Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369

Nel prossimo numero protagonisti

costume e società

Processo a Boezio

Le banche nell’età di Mezzo

storie

dossier

I signori dell’Alto Tevere

I Normanni in Italia


ANIMALI MEDIEVALI a cura di Federico Canaccini

Incanto e perdizione

S

ulla sirena vige da sempre qualche confusione: in età classica essa poteva essere sia una sorta di uccello che di pesce, mentre nel Medioevo è perlopiú un ibrido fra un pesce e una donna, bella e seducente. Dal canto suo, il poeta duecentesco Richart de Fornival dichiara l’esistenza di ben «tre specie di sirene due delle quali sono metà donna e metà pesce, la terza metà donna e metà uccello». La maggior parte degli autori dei bestiari invece preferisce definire «arpie» gli esseri per metà uccello e per metà donna, il cui corpo può ricordare quello di un avvoltoio o di un’aquila. Cosí le descrive Dante Alighieri incontrandole nel Girone dei Suicidi: «Quivi le brutte Arpie lor nido fanno / che cacciar delle Strofade i Troiani / con tristo annunzio di futuro danno. / Ale hanno late e colli e visi umani, / piè con artigli e pennuto ‘l gran ventre; / fanno lamenti in su gli alberi strani». Il poeta collaziona una serie di elementi ereditati dalla tradizione classica che le voleva figlie di Forco o di Acheloo e di una Musa. Trasformate in mostri da Demetra, risiedevano in un’isola identificata ora in Capri, ora nelle isole Sirenuse presso la costa campana. Si tratta di uccelli dalle grandi ali, con il capo umano, con artigli spaventosi, ciascuno dei quali poteva sventrare fino a quattro uomini alla volta. Emettono suoni strazianti oppure un canto melodioso con cui attirare i naviganti per rivelare loro segreti e poi, invece, farli morire: l’arpia, infatti, odia il genere umano. Ma se vede riflessa la propria immagine in uno specchio, resasi conto di assomigliare agli umani che ha appena massacrato, allora si commuove sino al pianto.

Nel Medioevo, per «sirena» si intende un essere femminile seducente che, al posto delle gambe, ha la coda di un pesce. Con la bellezza del loro corpo femminile, l’unica parte che emerge dalle acque, attirano i marinai in mare aperto. Come le sirene della tradizione classica possono attirare gli uomini con canto melodioso, ma anche con la tromba o l’arpa, inducendoli ad addormentarsi. A questo punto le sirene salgono a bordo dei vascelli, abusano degli uomini e poi li uccidono facendoli affogare oppure mangiandoli. Sulla scia di Ulisse, anche i marinai medievali provano a evitare il suadente ma terribile richiamo delle Sirene, salpando con una buona scorta di stoppa e cera in tasca. Dovrebbero fare altrettanto gli uomini virtuosi, se vogliono sfuggire alle blandizie della lussuria e rimanere casti: chiudere occhi e orecchie e non cedere alle sensuali fattezze e movenze della donna! Tra i flutti del mare si aggirano però anche altre creature mostruose, come il monaco di mare, un essere ibrido con la testa di uomo tonsurato e una specie di cappuccio sulle spalle, da cui il singolare nome, e con due pinne al posto delle braccia. Nel Medioevo, del resto, il mare è sempre percepito come un luogo pauroso e portatore di morte. La fantasia degli uomini, unita alla paura dell’ignoto rappresentato dal mare aperto, partorí una pletora di esseri fantastici che avrebbero popolato gli abissi, pronti ad attaccare i marinai, i nomi di alcuni dei quali sopravvivono ancor’oggi: ecco allora il leone di mare, nome volgare per l’Eumpetopias Stelleri, e poi il prete, la monaca, il vescovo, il cane, l’asino, il serpente e pefino il pidocchio di mare! In alto raffigurazione di una creatura per metà uomo e per metà pesce, dall’Historia animalium di Konrad von Gesner. XVI sec. A sinistra miniatura con l’insolita raffigurazione di una sirena che nutre la figlia.


ANTE PRIMA

Un legame da ricucire

MOSTRE • È esposto a Spoleto un primo lotto di

opere del patrimonio umbro-marchigiano danneggiate dagli eventi sismici del 2016 e prontamente restaurate. Segno della volontà di rinascita e di ricomporre il tessuto culturale del territorio ferito dal terremoto

T

ra l’agosto 2016 e il gennaio 2017, una serie epocale di eventi sismici ha colpito l’Italia centro-appenninica (vedi «Medioevo» n. 241, febbraio 2017). In particolare, i fenomeni registrati nell’ottobre 2016 hanno stravolto il fitto tessuto di beni storico-artistici che si dipana nei territori pedemontani dell’Umbria e delle Marche. E sul versante umbro, grazie alla presenza di un deposito di sicurezza predisposto a Spoleto, in località Santo Chiodo, è stato messo in salvo un gran numero di dipinti, sculture, oreficerie, insieme a campane, volumi antichi, opere d’arte minore di ogni tipo (come le Madonne in forma di manichini, rivestite con sete e merletti).

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Grazie alla disponibilità dei Musei Vaticani e all’intervento dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, sono stati già effettuati i primi restauri su una serie di opere danneggiate, e tale impegno ha ispirato la mostra «Tesori della Valnerina», tuttora in corso alla Rocca Albornoziana di Spoleto, nel Salone d’Onore. In esposizione vi sono 30 manufatti di vario genere e di diverse epoche, ma tutti accomunati dall’appartenenza a un territorio, ribadendo in questa coralità l’urgenza di ricomporre al piú presto il


In questa pagina Annunciazione (veduta d’insieme e un particolare della Vergine), gruppo in terracotta invetriata eseguito da Luca il Giovane Della Robbia forse a fianco del padre Andrea. Inizi del XVI sec. Norcia, Museo de La Castellina.

DOVE E QUANDO

«Tesori della Valnerina» Spoleto, Rocca Albornoziana, Museo Nazionale del Ducato di Spoleto fino al 30 luglio Orario ma-do, 9,30-19,30; lu, 9,30-13,30 Info tel. 0743 224952 oppure 340 5510813; www.scoprendolumbria.it Note la visita comprende l’esposizione museale e ai visitatori viene fornita una card che garantisce agevolazioni in molte altre sedi espositive umbre Nella pagina accanto, in alto il gruppo dell’Annunciazione di Luca il Giovane Della Robbia, forse affiancato dal padre Andrea, dopo il recupero. Nella pagina accanto, in basso l’Arcangelo facente parte del gruppo della stessa Annunciazione. Inizi del XVI sec. Norcia, Museo de La Castellina.

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nesso con i contesti di provenienza. Non si tratta, d’altronde, di salvaguardare singoli capolavori, ma di mantenere quanto piú possibile integro un patrimonio immenso e differenziato, che ha anche e soprattutto una valenza identitaria per le popolazioni coinvolte.

Sotto il manto della Vergine Compare nel gruppo anche un testimone marchigiano come la Madonna della Misericordia di Girolamo di Giovanni (notizie dal 1450-1503), proveniente dalla Pinacoteca di Camerino: si tratta di uno stendardo in tempera su tela eseguito nel 1463

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ANTE PRIMA su commissione degli abitanti del piccolo centro di Tedico (Fiastra), rappresentati coralmente sotto il manto della maestosa Vergine. Tra le molte opere recuperate dal Museo de La Castellina di Norcia spicca il delicato gruppo in terracotta invetriata dell’Annunciazione, eseguito agli inizi del Cinquecento da Luca il Giovane Della Robbia (1475-1548), forse a fianco del padre Andrea (1435-1525).

Estrazione a sorte Un’opera assai singolare, sempre da Norcia, è il «bossolo del magistrato» in legno sagomato, intarsiato e dipinto (inizi del XVI secolo): una

cassetta istoriata che serviva per le procedure di estrazione a sorte, durante il rinnovo delle cariche pubbliche. I patroni della città, san Benedetto e sua sorella santa Scolastica, compaiono in veste di garanti della corretta procedura delle operazioni di voto. Non mancano i gruppi scultorei della Madonna con Bambino, assai diffusi nelle chiese dei borghi e nei santuari che costellavano le strade. Colpisce vivamente per la sua espressività una Vergine in adorazione del Figlio proveniente da Avendita (Cascia), in legno scolpito e dipinto (XV-XVI secolo). Furio Cappelli

In alto basamento della croce apicale della basilica di S. Benedetto a Norcia. Qui accanto Madonna in adorazione del Bambino, legno scolpito e dipinto, dalla chiesa di S. Procolo di Avendita (Cascia, Perugia). XV-XVI sec. A destra Madonna in forma di manichino, dalla chiesa di S. Andrea in località Campi (Norcia).

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ANTE PRIMA

Nella città del tesoro APPUNTAMENTI • Le tombe

longobarde di Nocera Umbra hanno restituito corredi di eccezionale pregio. E nella scia di quel passato illustre, il «Luglio longobardo» di quest’anno propone un viaggio nella gastronomia del popolo germanico

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el febbraio del 1897, a Nocera Umbra (Perugia), il bracciante Salvatore Tosti si rese protagonista di una delle scoperte archeologiche piú importanti di sempre per quanto concerne l’Alto Medioevo. Smuovendo la terra per mettere a dimora le viti sui terreni di proprietà della famiglia Blasi in località «Il Portone», riportò alla luce una serie di oggetti parsi subito notevoli: una croce in lamina d’oro, una spada con impugnatura anch’essa dorata, un umbone di scudo, vari puntali, resti di una guarnizione di cintura. Erano anni in cui l’archeologia, di impostazione classicista, si andava confrontando con i primi ritrovamenti rilevanti di età barbarica e longobarda: nel 1874 era

infatti emersa a Cividale del Friuli (Udine) la cosiddetta «tomba di Gisulfo», attribuita frettolosamente al primo duca del Friuli; quattro anni piú tardi, a Testona, frazione di Moncalieri (Torino), era stata trovata una serie di circa 350 sepolture; ancora, nel 1885, quattro tombe vennero alla luce in località «al Foss», nei pressi di Civezzano, in Trentino; infine, nel 1893, a Castel Trosino, nei pressi di Ascoli Piceno, fu la volta della ricchissima necropoli di Contrada Santo Stefano, che si era aggiunta alle tombe emerse una ventina d’anni prima in Contrada Pedata, tra cui quella di un cavaliere. Salvatore Tosti portò a casa il tesoro e non ne fece parola. Tuttavia, la voce giunse ugualmente alla

A sinistra fibula ad arco in argento, dalla tomba n. 162 della necropoli di Nocera Umbra. VII sec. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo.

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Qui sotto fibule a «S» in oro, con inserti di pietre dure e pasta vitrea, dalla tomba n. 10 di Nocera Umbra. VI sec. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo.

Una rievocazione tutta da... gustare Appuntamento estivo giunto alla sesta edizione, la manifestazione storicorievocativa il «Luglio Longobardo» è da sempre impegnata nella promozione e nella divulgazione del patrimonio longobardo di Nocera Umbra (Perugia). L’edizione 2017, curata come le precedenti dalla medievista Elena Percivaldi, in collaborazione con la locale Pro Loco e il Museo Archeologico, è in programma dal 21 al 23 luglio e avrà come tema «A tavola con i Longobardi». Il campo storico, che presenterà uno spaccato di vita del VII-VIII secolo, è gestito dalla Scuola di

Scherma Antica Fortebraccio Veregrense e proporrà dimostrazioni di combattimento, story telling e laboratori di medicina e scrittura condotti dai gruppi ospiti Gens Langobardorum

di Salerno e Benevento Longobarda. Presso il Museo è previsto un approfondimento sull’alimentazione altomedievale a cura di Presenze Longobarde. La novità di quest’anno sarà, oltre al logo rinnovato, l’allestimento di una mostra archeologico-didattica con un centinaio di riproduzioni di reperti longobardi da tutta Italia realizzati dagli artigiani del Gasac. Sono inoltre previsti un mercato artigianale con i banchi didattici del gruppo Tempora Medievalis, la cena longobarda, momenti di musica altomedievale con il gruppo Winileod e intrattenimento per grandi e piccini a cura degli Acrobati del Borgo. Per informazioni e programma completo: https://lugliolongobardo.jimdo.com

Nella pagina accanto, in alto umbone di scudo, forse da parata, in bronzo dorato e decorato con una scena di battaglia, dalla necropoli di Nocera Umbra. VI sec. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo. In basso, sulle due pagine una veduta di Nocera Umbra (Perugia).

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ANTE PRIMA

Particolare di una spada in ferro damaschinato, con impugnatura a lamine d’oro decorate con cerchietti e intrecci in filigrana, dalla tomba 32 di Nocera Umbra. VI sec. Sottoprefettura di Foligno, che l’11 febbraio inviò al sindaco nocerino un telegramma in cui si chiedeva – lo si legge nel verbale del brigadiere Angelo Noco – «il sequestro di oggetti di antichità e di pregio artistico rinvenuti in territorio fra Gualdo Tadino e Nocera Umbra». All’arrivo delle autorità, il bracciante cercò di minimizzare, mostrando ai Carabinieri soltanto «due ferri formanti lo scheletro di una sedia a branda». A smascherarlo, e a rivelare la vera entità della scoperta, furono però alcuni orefici locali ai quali Tosti aveva cercato di vendere i preziosi. I lavori proseguirono nei mesi

Vasi con decorazione impressa a stampiglia, uno dei quali proveniente dalla tomba 32 di Nocera Umbra. VI sec.

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successivi, questa volta sotto la sorveglianza dell’Arma dei Carabinieri, e portarono alla luce nuovi reperti. Gli scavi veri e propri, però, iniziarono solo nel marzo del 1898 sotto la guida dell’ispettore archeologo Angiolo Pasqui e con il fondamentale contributo del disegnatore Enrico Stefani, al quale si deve la fedele riproduzione di tutti gli oggetti.

L’acquisizione definitiva Per evitarne la dispersione sul mercato antiquario, l’allora Direttore Generale delle Antichità e delle Belle Arti, Felice Bernabei, ne promosse la catalogazione sistematica e l’acquisizione da parte dello Stato, liquidando ai proprietari dei terreni del Portone la somma di 24 000 lire. Il tesoro di Nocera Umbra poté cosí giungere a Roma, dapprima al Museo Nazionale Romano e poi (1967) al Museo dell’Alto Medioevo, dove oggi è esposto accanto a quello di Castel Trosino e ad altri materiali riordinati e restaurati tra il 1975 e il

1978. Una piccola parte dei corredi trova posto inoltre nel Museo dell’Alto Medioevo di Spoleto e al Museo Archeologico di Nocera. Considerando anche i successivi ritrovamenti di Pettinara-Casale Lozzi e piazza Medaglie d’oro, la necropoli nocerina consta complessivamente di 165 tombe, raggruppate in quattro insiemi forse riconducibili ad altrettante fare, i gruppi familiari allargati che occuparono l’Italia nella prima fase dell’invasione. Le sepolture maschili sono caratterizzate da ricchi corredi di armi (spade, scramasax – una spada di media lunghezza a un solo taglio –, scudi da parata...), quelli femminili hanno invece corredi diversificati, il che ha fatto supporre a Cornelia Rupp, autrice del catalogo scientifico dei materiali, che il nucleo longobardo insediatosi in questo importante snodo lungo la via Flaminia tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo abbia interagito con il locale gruppo «romanzo» stemperando progressivamente i propri caratteri «germanici». Il sito però fu abbandonato prima della fine del processo di acculturazione, lasciando aperti vari quesiti, il piú intrigante dei quali è il luogo esatto di insediamento: l’abitato di questa comunità longobarda, caratterizzata da una particolare dedizione alle attività artigianali (produzione di spade, sia da guerra che da tessitura, e di ceramiche) non è stato infatti ancora trovato. Elena Percivaldi luglio

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Il ritorno di un capolavoro controverso MOSTRE • Sebbene incompiuta, l’Adorazione dei

Magi è una delle opere piú affascinanti di Leonardo da Vinci. Che ora, grazie al recente restauro, torna a offrirsi all’ammirazione del pubblico e, soprattutto, rivela particolari inediti sulla sua realizzazione Sulle due pagine veduta d’insieme e particolari dell’Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci dopo il restauro. 1481-1482 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

I

restauratori dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze hanno ridato «vita» all’Adorazione dei Magi di Leonardo, une delle sue opere piú controverse, ritornata agli Uffizi dopo cinque anni di «cure» e celebrata con una mostra visitabile fino al prossimo 24 settembre, negli ambienti attigui alla sala che del genio toscano ospita l’Annunciazione. Le indagini diagnostiche preliminari e le successive ricerche hanno permesso la preparazione di un progetto di risanamento e conservazione preventiva dei materiali originali, oltre a una ulteriore approfondita conoscenza del processo creativo e della tecnica artistica, assicurando una lettura piú chiara degli straordinari valori espressivi del dipinto, la cui

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complessità risiede in parte proprio nella sua incompiutezza.

I ripensamenti del maestro Dalla costruzione spaziale interna alla figurazione, soprattutto nello sfondo, che si apre su una visione prospettica e atmosferica tipica di Leonardo – sinora nascosta da una patina di vernice pigmentata – si può dedurre che l’artista abbia elaborato disegno e studi di ottica direttamente sulla tavola anziché su carta, con segni leggeri, quasi impercettibili, come evidenziano i numerosi cambiamenti in corso d’opera che oggi sono di nuovo visibili. La delicata ripulitura ha rivelato testi inediti nel coacervo di immagini confuse che si ammucchiano e si sovrappongono e ha permesso di

DOVE E QUANDO

«Il cosmo magico di Leonardo da Vinci: l’Adorazione dei Magi restaurata» Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture fino al 24 settembre Orario ma-do, 8,15-18,50; lu chiuso Info www.uffizi.it riscoprire la composizione nebulosa dalle figure quasi indistinguibili, intente in azioni e gesti non decifrabili, che la superficie scura e brumosa copriva. Commissionata nel 1481 dai canonici regolari di Sant’Agostino, per l’altare maggiore della chiesa di S. Donato in Scopeto, che si trovava su una piccola collina, ai margini di Firenze, la tavola costituiva una novità per il mondo artistico fiorentino e racchiudeva in sé alcune idee pittoriche e sperimentazioni sviluppate successivamente: dalla zuffa di cavalieri per la Battaglia di Anghiari, sino alla Vergine delle Rocce, nella quale compare l’effetto visivo evocato dai riflessi d’acqua sotto i piedi di Maria. Partendo nel 1482 alla volta di

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ANTE PRIMA Ancora due particolari dell’Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci dopo il restauro. 1481-1482 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

Milano al servizio di Ludovico il Moro, senza rispettare la consegna pattuita nell’arco dell’anno, Leonardo lasciò la pittura a livelli diversi di avanzamento: alla stesura di azzurro del cielo, appena accennato, si affiancano aree con forme piú delineate e rilevate con colori scuri, in un continuo divenire di ricerca spaziale e volumetrica. La sopravvivenza dell’opera non terminata si deve presumibilmente al fatto che i committenti non ebbero la possibilità di capire se quella del pittore fosse una partenza definitiva e restarono a lungo in attesa del suo ritorno. Nei primi anni Novanta, però, decisero di rivolgersi a Filippino Lippi, incaricandolo di eseguire una pala d’altare, completata nel 1496, simile per dimensioni, soggetto ed elementi iconografici specifici, presente in mostra. Era un tema popolare, quello dei Magi, nella Firenze del Quattrocento, grazie anche all’influenza politica dell’omonima Confraternita laicale, che si riuniva nei locali del convento di S. Marco e alla quale appartenevano molti membri della famiglia dei Medici. Leonardo aveva studiato il componimento

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con disegni e schizzi, superando la tradizione iconografica dei cortei di nobili e personaggi esotici, per creare una complessa stesura, imperniata sul gruppo della Madonna con il Bambino, in primo piano, attorniata da una folla di astanti, mentre in secondo piano, spartito in due registri paralleli, sono figurati eventi apparentemente distinti: a destra si vede un combattimento acceso con cavalli, cavalieri e uomini a terra, simbolo di guerra; a sinistra si staglia una imponente architettura in rovina, dove su due livelli si muovono molti attori.

Un tema inusuale Proprio al piano superiore di questa struttura si è rilevata l’esistenza di manovali che s’affaticano a sollevare assi di legno e materiali da costruzione. Questo dell’edificio crollato, ma in procinto d’essere ricostruito, è un tema inusuale, scelto per evocare la pace. Dietro la testa del piccolo Gesú, lateralmente, si leva un giovane albero, sulle cui radici emergenti posa una mano un angelo che con l’indice della destra ne indica, in alto, la chioma rigogliosa, osservata

estaticamente anche da un uomo del corteo dei Magi. L’impaginazione concepita da Leonardo per questa Adorazione dei Magi offre complesse riflessioni, mentre nella tavola dipinta quindici anni dopo da Filippino Lippi, il pittore illustra il concetto dell’universalità della salvezza ricorrendo a un fondo in cui si muovono da differenti provenienze i cortei dei Magi, mantenendosi nella tradizione fiorentina. Il percorso dell’esibizione «Il cosmo magico di Leonardo da Vinci: l’Adorazione dei Magi restaurata» propone anche una raffigurazione a grandezza naturale di come il capolavoro appariva prima del restauro e un video che testimonia tutte le fasi dell’intervento e delle indagini diagnostiche effettuate sul dipinto con apparecchi all’avanguardia, oltre a tre tavole raffiguranti san Donato, sant’Agostino (prestiti del North Caroline Art Museum) e la coppia dei santi Ubaldo e Frediano (collezione privata), che si presume siano quanto rimane di una predella dell’Adorazione di Filippino Lippi. Mila Lavorini luglio

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ANTE PRIMA

Omaggio alla grancontessa APPUNTAMENTI • La

fama di Matilde di Canossa è ancora ben viva. E a tenere alto il suo nome concorre, come ogni anno, la rievocazione organizzata nel borgo di Frassinoro

Qui accanto e in basso due momenti della Festa Matildica che ogni anno anima le vie del borgo di Frassinoro (Modena).

N

el borgo di Frassinoro, piccolo cuore della cristianità medievale sull’Appennino modenese, ogni anno, alla fine di luglio, si tiene la Festa Matildica, in onore di Matilde di Canossa, che qui fece costruire un’abbazia. Il nome Frassinoro deriverebbe da un’immagine della Vergine raffigurata appesa a un frassino mentre irradia, con i suoi raggi d’oro, i valichi dell’Appennino. Le origini del borgo risalgono all’Alto Medioevo: nell’VIII secolo venne costruita una prima cappella, con annessa una foresteria per i viandanti e i pellegrini in transito per raggiungere Roma e la Terra Santa e probabilmente attorno alla cappella

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sorsero altre strutture destinate a usi spirituali e religiosi. Nel 1071 Beatrice di Lorena e sua figlia, Matilde di Canossa, fondarono l’abbazia di Frassinoro. Cinque anni dopo, alla morte della madre, la giovane Matilde ne ereditò le terre.

Alleanze matrimoniali In quel periodo, per mantenere e accrescere il proprio potere, i Canossa grazie ad alcuni matrimoni di interesse si imparentarono sia con la famiglia imperiale tedesca, sia con i papi romani. Matilde sposò il fratellastro Goffredo, detto il Gobbo, che morí a seguito di un’imboscata, restando la padrona di tutti i feudi luglio

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Viva gli sposi! N

el 1367 il piccolo centro bergamasco di Bianzano ospitò il matrimonio tra Giovanni di Baldino Suardo e Bernarda Visconti, figlia di Bernabò Visconti, reggente del Ducato di Milano. In quell’occasione al giovane Giovanni fu intestato il castello del paese. Da questo episodio storico trae spunto la rievocazione «Alla Corte dei Suardo», che va in scena nel borgo medievale ogni anno nel primo week end d’agosto, quest’anno da giovedí 3 a domenica 6. Migliaia di persone si riversano in piazza e nel centro storico di Bianzano, fra figuranti in costume d’epoca che propongono quadri di vita medievale e antichi mestieri. Ricco è il cartellone degli intrattenimenti, con maestri d’arme, cavalieri, arcieri, sbandieratori, falconieri, musici, cantastorie, giullari e trampolieri. Il momento clou della rievocazione si ha nel pomeriggio della domenica, in occasione del corteo storico e dei festeggiamenti per l’arrivo in paese dei conti Suardo.

Venezia frustra le ambizioni dei Suardo Bianzano, 600 abitanti, è situato a circa 600 m d’altitudine, al confine fra le valli Cavallina e Seriana, nei pressi del lago di Endine. Il centro storico conserva la sua struttura antica, con case ed elementi di muratura tipici delle fortificazioni medievali. Nel XIV secolo il paese iniziò a svilupparsi grazie all’impulso fornito dai Suardo. Ma già nel secolo successivo, con l’arrivo della Repubblica di Venezia, la nobile famiglia perse potere e il borgo venne relegato a un ruolo minore. La costruzione del castello di Bianzano risalirebbe al 1233, come riportato su una pietra situata nel suo cortile. Tuttavia, a causa della mancanza di documenti ufficiali, si presume che le sue origini siano posteriori a quella data. Il primo atto scritto risale al 1367 ed è riferito appunto al nobile matrimonio di cui sopra. Nel XV secolo, quando la Repubblica di Venezia ordinò la distruzione di tutte le fortificazioni per porre fine alle lotte tra guelfi e ghibellini, i Suardo, per evitare la demolizione del castello, eliminarono le merlature e lo ricoprirono con un tetto, trasformandolo in dimora signorile. Il maniero possiede una struttura a pianta quadrata, protetta da due cinte murarie, con una torretta in ognuno dei quattro angoli. L’ingresso è costituito da un’alta torre, alla base della quale è presente un ciclo di affreschi del XIV secolo che proseguono nell’atrio interno. T. Z. del padre, della madre e del marito. La sua ascesa culminò nel 1111, quando venne incoronata con il titolo di Vicaria Imperiale-Vice Regina d’Italia dall’imperatore Enrico V. Quattro anni piú tardi Matilde scomparve. Nei secoli successivi la Badia di Frassinoro restò indipendente e soltanto nel Quattrocento, quando salirono al potere gli Estensi, divenne parte del Ducato di Modena e Reggio. Oggi appartiene al Comune di Modena. Delle antiche costruzioni medievali resta soltanto la chiesa, poiché nel XV secolo una frana distrusse l’antica abbazia. La Festa Matildica di Frassinoro,

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luglio

allestita nelle vie che circondano il Castello della Badia, quest’anno è in programma nei week end del 22-23 e 29-30 luglio. Numerosi gli appuntamenti in programma: laboratori, letture, spettacoli di burattini, giochi per ragazzi, conferenze, concerti lirici e poetici, danze e musiche popolari, animazioni di sbandieratori, dimostrazioni di falconeria e fuochi artificiali. Alcune locande e taverne allieteranno il palato. Nella serata di domenica 30 luglio, gran finale con il corteo storico «Andando incontro a Beatrice», che partirà da Casa Giannasi alle 21,30. Tiziano Zaccaria

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ANTE PRIMA

Un compleanno speciale

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

T

aglia il traguardo dei vent’anni la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, in programma dal 26 al 29 ottobre 2017 nell’area archeologica della città antica di Paestum. E, per l’occasione, la rassegna ospiterà prestigiose iniziative, tra cui l’anteprima dell’«Anno Europeo del Patrimonio Culturale», indetto dalla Commissione Europea per il 2018 e il Convegno «Il turismo sostenibile per lo sviluppo dei siti archeologici mondiali» a cura dell’UNWTO, l’Organizzazione Mondiale del Turismo delle Nazioni Unite. A fare da contorno, saranno gli appuntamenti ormai tradizionali e grazie ai quali la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si è affermata negli anni come un evento originale nel suo genere: sede dell’unico Salone espositivo al mondo del patrimonio archeologico e di ArcheoVirtual, la mostra internazionale di tecnologie multimediali, interattive e virtuali; luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio; occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e culturali, viaggiatori e appassionati; opportunità di business nella suggestiva location del Museo Archeologico, con il Workshop tra la domanda estera selezionata dall’ENIT e l’offerta del turismo culturale e archeologico. Un format di successo testimoniato dalle prestigiose collaborazioni di organismi internazionali quali UNESCO, UNWTO e ICCROM, oltre che da circa 10 000 visitatori, 100 espositori con 20 Paesi esteri, 70 tra conferenze e

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incontri, 300 relatori, 100 operatori dell’offerta, 100 giornalisti. Non va infine dimenticato che, dal 2015, si è aggiunto l’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio intitolato al Direttore del sito archeologico di Palmira, che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale: la Borsa e «Archeo», in collaborazione con le riviste media partner internazionali Antike Welt (Germania), Archéologie Suisse (Svizzera), Current Archaeology (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie (Francia) selezionano e premiano le principali scoperte archeologiche dell’anno. Per quest’anno concorrono all’assegnazione del premio:

l’edificio della barca di Sesostri III e i graffiti di 120 navi ad Abido (Egitto); la prima opera architettonica dei Neandertal in una caverna di Bruniquel (Francia); la grande città dell’età del Bronzo presso il piccolo villaggio curdo di Bassetki (Iraq); la città indo-greca di Bazira (Pakistan); e 400 tavolette di epoca romana ritrovate nella City di Londra (Regno Unito). Info: www.borsaturismoarcheologico.it luglio

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AGENDA DEL MESE

Mostre CITTÀ DEL VATICANO e ROMA LA MENORÀ. CULTO, STORIA E MITO Braccio di Carlo Magno Museo Ebraico di Roma fino al 23 luglio

L’esposizione ricostruisce la vicenda plurisecolare della Menorà grazie a un percorso ricco, che si articola in tre grandi nuclei, a loro volta suddivisi in ulteriori sezioni. Il primo nucleo ricostruisce la storia della Menorà dalla sua antichissima presenza nel Tempio di Gerusalemme fino alla sua dispersione a Roma, e cioè dall’antichità ai primi secoli dell’era moderna. Il

secondo nucleo insegue il mito della Menorà nel tempo e nello spazio dalla tarda antichità alle soglie del XX secolo, analizzandone con particolare attenzione da un lato l’appropriazione delle sue forme in seno al cristianesimo per la creazione di candelabri cerimoniali e, dall’altro, il suo perpetuarsi quale forte elemento aggregante del mondo, della cultura e dell’identità ebraiche. Il terzo nucleo, infine, offre un’ampia panoramica sul XX e XXI secolo con varie raffigurazioni della Menorà a opera di artisti di grandissimo livello. Per quanto riguarda l’età medievale, viene sottolineato come, a partire

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a cura di Stefano Mammini

dal periodo carolingio, l’arte cristiana abbia ripreso puntualmente le forme della Menorà per la creazione di quei candelabri a sette bracci posti in molte chiese a scopo liturgico. Un fenomeno documentato grazie alla presenza di testimonianze di grande rilievo risalenti al XIV e al XV secolo, come i monumentali candelabri del Santuario della Mentorella, del duomo di Prato e di quello di Pistoia, della Busdorfkirche di Paderborn, fino a due enormi candelabri del XVIII secolo provenienti da Palma de Maiorca (Museo Capitular, Catedral de Mallorca). info www.museivaticani.va; www.museoebraico.roma.it

FIRENZE FACCIAMO PRESTO! MARCHE 2016-2017: TESORI SALVATI, TESORI DA SALVARE Gallerie degli Uffizi, Aula Magliabechiana fino al 30 luglio

La mostra, i cui proventi verranno utilizzati per la ricostruzione dei monumenti colpiti dal sisma, presenta una selezione di capolavori provenienti dai paesi e dalle cittadine delle Marche, in particolare dalle province di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata colpite dal terribile terremoto che ha semidistrutto o reso inagibili le chiese, i palazzi e i musei dove erano custoditi, spesso fin dalla loro

origine. Occasione eccezionale per far conoscere i tesori di questi territori dell’entroterra marchigiano meridionale, l’iniziativa intende costituire un omaggio alle Marche da parte delle Gallerie degli Uffizi, che, grazie all’eredità di Vittoria della Rovere, mantengono un forte legame storico con le collezioni artistiche marchigiane e in particolare urbinati. La scelta delle opere esposte si prefigge anche l’intento di ripercorrere sinteticamente un ideale percorso nella storia dell’arte di questi territori a partire dal Medioevo e fino al XVIII secolo. info tel. 055 23885 (centralino); www.uffizi.it SPOLETO TESORI DALLA VALNERINA Rocca Albornoziana-Museo Nazionale del Ducato di Spoleto fino al 30 luglio

La mostra riunisce un nucleo di opere provenienti dai territori delle Marche, del Lazio e dell’Umbria colpiti dal sisma, anche come testimonianza di solidarietà tra aree accomunate da un evento cosí tragico, ma anche da comuni radici culturali e artistiche. L’esposizione si compone di

opere selezionate secondo diverse tipologie, ma tutte ricche di un grande significato simbolico, tra le quali spiccano il Crocefisso ligneo del XVI secolo proveniente dalla chiesa di S. Anatolia di Narco, la Madonna con Bambino di Avendita e il gruppo dell’Annunciazione di Andrea della Robbia dal Museo della Castellina di Norcia, nonché il raffinato dipinto su tavola di Nicola di Ulisse da Siena Madonna col Bambino dal Museo diocesano di Ascoli Piceno e il San Sebastiano della seconda metà del Seicento proveniente da Scai, nel territorio di Amatrice. info tel. 0743 224952 oppure 340 5510813; e-mail: spoleto@sistemamuseo.it; www.scoprendolumbria.it

PARIGI CHE C’È DI NUOVO NEL MEDIOEVO? Cité des sciences et de l’industrie fino al 6 agosto

In Francia, la pratica dell’archeologia preventiva è gestita dall’INRAP (Institut national de recherches archéologiques preventives), che è fra gli ideatori di questo nuovo progetto espositivo e grazie alle cui ricerche è stato possibile riunire i materiali presentati. Si tratta di un repertorio in molti casi inedito, che permette di inserire nel racconto dei mille luglio

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MOSTRE • Omaggio a Giovanni Pisano Pistoia – Palazzo Fabroni, Centro di Arti visive contemporanee

fino al 20 agosto info tel. 0573 371214; www.palazzofabroni.it; www.pistoia17.it

C

anni del Medioevo molte novità importanti, accomunate da un dato ormai inconfutabile: quei dieci secoli furono ricchi di storia, ma anche di innovazioni e invenzioni e nessuno piú, ormai, si lascerebbe andare a definirli «bui». La descrizione di questa età di Mezzo (almeno in parte) inaspettata si sviluppa in due grandi sezioni: nella prima, vengono messi a punto i riferimenti cronologici essenziali, corredati da alcuni manufatti particolarmente rappresentativi del periodo; nella seconda, si passa invece ai materiali scaturiti dagli scavi condotti dall’INRAP. info www.cite-sciences.fr FIRENZE

on questa importante rassegna monografica, Pistoia, Capitale Italiana della Cultura 2017, tributa un omaggio speciale a Giovanni Pisano, artista che ebbe ripetuti rapporti con la città. Palazzo Fabroni si apre per la prima volta all’arte antica, in coerenza con la sua ubicazione di fronte alla pieve romanica di S. Andrea, che conserva uno dei maggiori capolavori di Giovanni Pisano: il pulpito marmoreo terminato nel 1301. Il percorso espositivo è organizzato in nove stanze, ciascuna delle quali ospita un’opera. Si parte con un preludio: il rilievo con le Stimmate di San Francesco di Nicola Pisano, padre di Giovanni. È quanto resta di un monumento funebre risalente agli anni Settanta del Duecento, molto probabilmente eretto nella chiesa di S. Maria del Prato, prima chiesa francescana di Pistoia, in luogo della quale fu poi costruita l’attuale chiesa di S. Francesco. Il destinatario di questo sepolcro era probabilmente Filippo da Pistoia, già vescovo di Ferrara, di Firenze e arcivescovo di Ravenna.

Le successive otto sale sono dedicate a Giovanni Pisano e offrono una selezione significativa: dalla Madonna con Bambino, tondo in marmo che rappresenta uno dei vertici dell’opera del giovane scultore, alla figura allegorica della Giustizia, che faceva parte del monumento funebre di Margherita di Brabante, moglie dell’imperatore Enrico VII, morta di peste nel 1311. L’incarico di realizzarlo fu affidato al quasi settantenne Giovanni Pisano, considerato il miglior scultore di allora in Italia. Pur anziano, Giovanni dà prova di un’ulteriore, inaspettata evoluzione del suo stile, raggiungendo le vette di un’espressività meno stridente, piú armonica, con la dolce mestizia del volto della Giustizia.

GIULIANO DA SANGALLO. DISEGNI DAGLI UFFIZI Gallerie degli Uffizi, Sala Edoardo

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AGENDA DEL MESE Detti e Sala del Camino fino al 20 agosto

Si tratta della prima esposizione monografica degli Uffizi dedicata alla produzione grafica di Giuliano da Sangallo (Firenze, 1445 circa-1516), la mostra, oltre a ospitare una ragionata scelta del vasto corpus di disegni conservato in collezione, espone un numero limitato di altri manufatti artistici, accuratamente selezionati per dar conto della poliedricità dell’artista e delle molteplici implicazioni dei suoi interessi architettonici, nonché dell’attività della bottega. Il catalogo realizzato per l’occasione offre una valutazione complessiva dell’opera grafica di Giuliano da Sangallo, mettendo in luce la cronologia, i luoghi e la committenza degli ultimi decenni di attività; le ricerche compositive e le sperimentazioni tipologiche, nell’architettura sacra, civile e militare; la funzione degli studi antiquari e dei libri di disegni; i rapporti con il fratello Antonio il Vecchio, il nipote Antonio il Giovane e il figlio Francesco, nei codici e nei disegni di presentazione a piú mani; la pratica della copia e la circolazione del sapere

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architettonico e antiquario e, infine, la funzione dei modelli lignei come strumenti operativi di progettazione in relazione al disegno. info tel. 055 23885 (centralino); www.uffizi.it ROMA I FORI DOPO I FORI. LA VITA QUOTIDIANA NELL’AREA DEI FORI IMPERIALI DOPO L’ANTICHITÀ Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali fino al 10 settembre

L’area in cui sorgevano i Fori Imperiali, cuore antico della città di Roma e complesso architettonico unico al mondo per vastità e continuità urbanistica, è stata oggetto di scavi, studi e ricerche straordinariamente intensi. In particolare, gli scavi archeologici realizzati negli ultimi venticinque anni hanno portato alla luce un tesoro prezioso. Il rinvenimento di un’eccezionale varietà di reperti, in alcuni casi unici, ha permesso, infatti, di ampliare le conoscenze sulle vicende del sito nel periodo medievale e moderno. Un contesto storico sicuramente meno noto (e meno rappresentato) al grande pubblico rispetto a quello classico, ma altamente esemplare della continuità insediativa urbana. E ora un’interessante e quanto mai diversificata selezione di questi reperti – tra cui ceramiche, sculture, monete, oggetti devozionali e di uso quotidiano –, tra le migliaia recuperati e per la maggior parte esposti per la prima volta, raccontano questi significativi periodi storici nella mostra «I Fori dopo i Fori». info tel. 06 06 08 (tutti i giorni, 9,00-21,00); www.mercatiditraiano.it; www.museiincomune.it

ROMA PINTORICCHIO PITTORE DEI BORGIA. IL MISTERO SVELATO DI GIULIA FARNESE Musei Capitolini fino al 10 settembre

Alla fine del Quattrocento, l’élite culturale e politica di Roma fu attraversata da un grande fermento umanistico, propugnato dagli intellettuali, ma fortemente controllato dalla Curia. Filo conduttore dell’esposizione è dunque il tentativo di riconoscere nelle lettere e nelle arti dell’epoca, quella memoria della Roma antica, repubblicana e imperiale, sulla base della quale la Chiesa andava delineando il proprio «rinascimento» politico e religioso. A oltre cinquecento anni da quei fatti e grazie alla disponibilità dei proprietari

delle opere, viene presentato per la prima volta il volto della Madonna del Pintoricchio, finalmente riunito al piú noto Bambin Gesú detto «delle mani». Un’operazione che ha permesso di rivedere definitivamente il mito della presenza del ritratto di Giulia Farnese nell’appartamento Borgia riconoscendovi, invece, una rarissima scena di Investitura divina del neoeletto pontefice. info tel. 060608; www.museicapitolini.org PERUGIA DA GIOTTO A MORANDI. TESORI D’ARTE DI FONDAZIONI E BANCHE ITALIANE Palazzo Baldeschi al Corso fino al 15 settembre

Come annuncia il titolo, la mostra intende valorizzare il luglio

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patrimonio artistico posseduto dalle Fondazioni di origine bancaria e delle banche italiane. Si tratta di un patrimonio ampio che, per varietà di composizione e stratificazione temporale, può essere considerato il volto storico e culturale dei diversi territori della nostra Penisola. Questa particolare attività collezionistica è un aspetto del piú complessivo impegno culturale delle banche e delle fondazioni, in una dimensione piú ampia di attività e di impegno verso la comunità di riferimento: acquisto, recupero, restauro e quindi tutela e

Fondazioni e Casse di Risparmio. La mostra perugina propone dunque un avvincente percorso lungo sette secoli di storia dell’arte e al contempo consente di verificare la pluralità degli orientamenti che stanno alla base del fenomeno del collezionismo bancario. info tel. 075. 5724563; www.fondazionecariperugiaarte.it valorizzazione di opere che altrimenti andrebbero disperse. La maggior parte delle opere in mostra sono catalogate in Raccolte, la banca dati consultabile on line realizzata dall’Acri, l’Associazione di

MONTEPULCIANO LEONARDO DA VINCI: VISIONS Fortezza e Giardino di Poggiofanti fino al 17 settembre

La rassegna si articola in una duplice sede espositiva: presso la Fortezza sono

MOSTRE • La bellezza ritrovata. Arte negata e riconquistata in mostra Roma – Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori

fino al 26 novembre info Tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it

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e nostre bellezze artistiche patiscono furti, vandalismi e danneggiamenti dovuti a eventi naturali disastrosi, ma anche alla mano dell’uomo. Tuttavia, l’arte negata, mortificata e distrutta da guerre, furti e catastrofi come i terremoti può rinascere dalle macerie, come la fenice, e può tornare a rivelarsi, grazie alla volontà, all’impegno e alla caparbietà dell’uomo nel ricomporre e ricostruire la propria identità attraverso l’arte. La mostra allestita nel Palazzo dei Conservatori evidenzia e attualizza l’impegno delle istituzioni a favore dell’arte, presentando importanti testimonianze artistiche che, a causa di vicende non sempre trasparenti, sono state, per moltissimo tempo, negate alla pubblica fruizione e spesso dimenticate nei depositi o in altri contenitori non accessibili al pubblico. Un’occasione per porre in risalto anche il quotidiano impegno da parte del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Il percorso espositivo si articola in tre sezioni, rispettivamente dedicate alle opere recuperate a seguito di furti, alle opere salvate dalle zone terremotate dell’Italia Centrale, nello specifico delle Marche, e a contesti che hanno subito danni provocati dalle guerre. In quest’ultimo ambito viene ripercorsa la vicenda della cattedrale di Benevento, colpita dalle bombe degli Alleati nel settembre del 1943. All’indomani dell’evento, si provvide a recuperare e mettere in salvo il patrimonio superstite, ma gran parte del materiale fu evidentemente accatastato e dimenticato e, fino al ritrovamento del 1980, erroneamente ritenuto perduto. Fino al 1980 era opinione comune che dei due amboni del duomo, gli unici elementi superstiti fossero quelli conservati ed esposti presso il Museo del Sannio a Benevento e il Museo Diocesano a Benevento. Tuttavia, gli scavi archeologici hanno portato alla luce i marmi depositati in uno dei locali adiacenti alla cripta e ora esposti in mostra: tutti i leoni che facevano parte dei due pergami e i frammenti delle colonne che li sormontavano, alcuni capitelli ed elementi di sculture e di lastre marmoree che ne costituivano le fiancate, nonché la base con figure di mostruose cariatidi del cero pasquale e il fuso spiraliforme della colonna che su essa si impostava.

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AGENDA DEL MESE ospitate le riproduzioni delle macchine di Leonardo, mentre presso il Giardino di Poggiofanti è collocata la ricostruzione in scala 1:1 del monumento equestre in memoria di Francesco Sforza. Questa replica del colossale cavallo, alto oltre 7 m, è caratterizzata dalla fedeltà ai disegni di Leonardo e al processo di fusione da lui ideato. Realizzato in materiali compositi e struttura in acciaio, è alto 7,80 m per un estesione totale di circa 10 x 4 m e un peso complessivo di 20 tonnellate. Visions è un invito a esplorare il modo di pensare di Leonardo da Vinci e la sua concezione unitaria della conoscenza come sforzo di assimilare con ardite sintesi teoriche e con geniali esperimenti le leggi che governano tutte le meravigliose operazioni dell’uomo e della natura. info tel. 0577 286300; e-mail: leonardovisions@operalaboratori. com; www.leonardovisions.it FIRENZE IL COSMO MAGICO DI LEONARDO DA VINCI: L’ADORAZIONE DEI MAGI RESTAURATA Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture fino al 24 settembre

L’Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci torna agli Uffizi dopo sei anni di restauri e indagini conoscitive, condotti dall’Opificio delle Pietre Dure con il sostegno economico degli Amici degli Uffizi. La tavola fu commissionata a Leonardo nel 1481 dai monaci agostiniani per la chiesa di S. Donato a Scopeto; la partenza del maestro per Milano, nel 1482, determinò l’abbandono dell’opera, mai ultimata da Leonardo. Il dipinto incompiuto rimase per

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Stefano al Ponte – di centinaia di immagini digitalizzate ad alta definizione, d’inserti video in full HD e alla colonna sonora diffusa a 360° in Dolby surround. Arricchiscono il percorso della mostra modelli delle macchine leonardesche – a grandezza naturale e in scala –, tra i quali spicca l’ala per il volo umano di 9 m di apertura, sospesa al centro della navata. info tel. 055.217418; e-mail: info@davinciexperience.it; www.davinciexperience.it LONDRA GIOVANNI DA RIMINI: UN CAPOLAVORO TRECENTESCO SVELATO National Gallery fino all’8 ottobre

qualche tempo nelle case della famiglia fiorentina dei Benci, per poi entrare nelle collezioni dinastiche dei Medici. Costituisce oggi la tavola vinciana piú grande pervenutaci (246 x 243 cm). Il suo restauro, oltre ad avere risolto alcuni problemi conservativi, ha consentito di recuperarne tonalità cromatiche inaspettate e la sua piena leggibilità, ricchissima di dettagli affascinanti che aprono nuove prospettive sul suo complesso significato iconografico. Con l’Adorazione dei Magi di Leonardo viene esposta anche la versione eseguita da Filippino Lippi nel 1496, proponendo cosí un dialogo affascinante, che fa emergere le diversità tra i due maestri e la loro differente interpretazione del soggetto. info tel. 055 23885 (centralino); www.uffizi.it FIRENZE DA VINCI EXPERIENCE Ex chiesa S. Stefano al Ponte fino all’8 ottobre

Grazie all’accordo raggiunto con il collezionista newyorchese Ronald S. Lauder, la National Gallery può esporre per la prima volta la magnifica tavola di Giovanni da Rimini con scene delle vite della Madonna e altri santi. Il museo inglese ha infatti ricevuto in dono il dipinto dallo stesso Lauder, che però, fino a quando sarà in vita, continuerà a detenerlo, salvo temporanee esposizioni, la prima delle quali è appunto quella appena inaugurata. A fare da corona all’opera, che viene datata ai La chiesa sconsacrata di S. Stefano al Ponte ospita una mostra multimediale dedicata al genio di Leonardo, alla sua scienza ed eclettismo nelle varie discipline. Cuore del progetto espositivo è il format immersivo realizzato da Art Media Studio Firenze, una sorta di story telling per immagini dell’universo di da Vinci, ottenuto grazie alle multiproiezioni in video mapping – sui nove schermi dell’allestimento e sulle architetture della navata di S. luglio

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primissimi anni del Trecento, sono altri due lavori attribuiti a Giovanni, provenienti da Roma e Faenza, e opere firmate dai maggiori maestri attivi nella stessa epoca del pittore riminese, fra cui Neri da Rimini, Francesco da Rimini, Giovanni Baronzio e Giotto, che per un breve periodo soggiornò nella

Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria, insieme con l’Ufficio Beni Culturali dell’Archidiocesi di Spoleto-Norcia, hanno provveduto alla messa in sicurezza delle opere d’arte.

Appuntamenti

ABBADIA SAN SALVATORE (SIENA) OFFERTA DEI CENSI 7-9 luglio

città romagnola. info www.nationalgallery.org.uk SIENA LA BELLEZZA FERITA. NORCIA, EARTH HEART ART QUAKE. LA SPERANZA RINASCE DAI CAPOLAVORI DELLA CITTÀ DI SAN BENEDETTO Cripta sotto il Duomo e Complesso Museale Santa Maria della Scala fino al 29 ottobre

Il 24 agosto 2016 un forte terremoto colpisce il Centro Italia. Il 26 e 30 ottobre 2016, altre scosse «feriscono» Norcia e il territorio circostante. La basilica di S. Benedetto, la concattedrale di S. Maria Argentea e tutte le chiese della città e dintorni sono distrutte. A seguito del sisma, la Protezione Civile, il Corpo Nazionale Vigili del Fuoco, il

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Alcune di esse sono ora ospitate dalla città di Siena e protette all’interno delle sue viscere: nella cosiddetta «Cripta» sotto il Duomo, dedicato alla Vergine Maria, e nel percorso del Santa Maria della Scala. L’allestimento prevede un itinerario attraverso i capolavori prima custoditi all’interno di basiliche, santuari e pievi del territorio. Una serie di video, concessi dal Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, e materiali fotografici di fotoreporter locali permettono inoltre la visione delle fasi di recupero delle opere dopo il terremoto. info e-mail: bellezzaferita@ operalaboratori.com; tel. 0577 286300; www.operaduomo.siena.it; www.santamariadellascala.com

La città del Monte Amiata rivive i fasti del Medioevo grazie ai suoi cittadini che, per tre giorni, smettono gli abiti contemporanei e tornano a vestire quelli dei loro avi, dando vita a una delle piú imponenti rievocazioni storiche italiane. Per tre giorni e tre notti si prepara l’Offerta dei Censi recuperando una “pratica” spesso descritta nella ricca documentazione del XIII secolo. Le carte parlano infatti dei “censi in natura” (ovvero prodotti locali) che venivano offerti al monastero di S. Salvatore dagli abitanti, a sancire lo stretto rapporto tra la comunità del borgo e

l’imponente struttura monastica, ancora oggi una delle meraviglie che Abbadia offre al visitatore. E proprio in memoria di questo antico legame nasce una grande festa in costume, momento in cui la comunità badenga riscopre la sua antichissima storia con una celebrazione collettiva. info tel./fax: 0577 778324 o 775221; e-mail: info@ prolocoabbadia.it; www.cittadellefiaccole.it; Fb: Abbadia Città delle Fiaccole PAOLA (COSENZA) LA VOLATA 21-23 luglio

La cittadina calabrese rievoca l’assedio guidato nel luglio del 1555 dall’ammiraglio e corsaro ottomano Dragut Rais. Il corteo storico sfila dal centro

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AGENDA DEL MESE al quartiere della Rocchetta, dando vita a un vero e proprio carosello fiabesco. info www.guiscardo.com VILLERS-DEVANT-ORVAL (BELGIO) NOTTURNI 2017-PATTO D’AMICIZIA FRA ORVAL E CANOSSA Abbazia di Notre-Dame d’Orval 27-30 luglio

Ogni quattro anni, in collaborazione con la locale municipalità, l’Associazione Aurea Vallis et Villare organizza una rassegna che ha come fine la riscoperta della storia medievale di Orval, sviluppata attraverso le vicende della sua abbazia. Il programma dell’evento comprende rievocazioni, spettacoli teatrali e concerti, ai quali si alternano le visite guidate a settori dell’abbazia solitamente non accessibili.

ABBADIA SAN SALVATORE (SIENA) IL FUOCO SACRO DEI GESUATI: LE RAGIONI DI UNA CELEBRAZIONE 30 luglio

L’appuntamento apre le celebrazioni del seicentocinquantesimo anniversario (1367-2017) della morte del beato Giovanni Colombini e della costituzione dell’ordine dei Gesuati. La prima parte della giornata è dedicata all’inaugurazione della manifestazione, alla celebrazione di una messa e alla scopertura di una lapide in onore del beato Colombini. Nel pomeriggio si tiene invece, presso il Teatro Servadio, un incontro di studi dedicato alla figura del religioso. Nato a Siena intorno al 1304, Giovanni Colombini fu un mercante piuttosto ricco e sposò Biagia Cerretani nel 1343. Dedicatosi

alla politica, divenne membro del Consiglio di Popolo e priore. Secondo le fonti, nel 1355, mentre leggeva la storia di santa Maria Egiziaca che gli era stata consigliata da Biagia, ebbe un’improvvisa conversione e cambiò vita, consacrandosi alla penitenza, ai piú poveri e alla glorificazione del nome di Gesú. Intorno a lui, si raccolsero alcuni amici e poi numerosi altri “convertiti” che, seguendone l’esempio, rinunciarono al mondo per seguire le orme di Cristo. Bandito dalla Repubblica di Siena a causa dei sospetti destati nei governanti – i quali temevano che nascondesse trame politiche sotto le spoglie della pietà -, si dette a viaggi di evangelizzazione che lo portarono a formare un numeroso gruppo di seguaci. Incontrò Urbano V a Corneto nel 1367; il papa approvò oralmente il suo stile di vita e quello dei suoi compagni, mentre il cardinale Grimoard suggerí loro come comportarsi da allora in avanti. Morí in quello stesso anno, il 31 luglio, ad Abbadia San Salvatore: di lui oggi resta una bellissima raccolta di lettere, sulle quali si formarono i suoi eredi spirituali, cioè i frati della congregazione dei Gesuati.

info istituto per la valorizzazione delle abbazie storiche della toscana: tel. 338 6581170; e-mail: abbazietoscana@libero.it; www.abbazietoscana.it

PISA APERTURE SERALI IN PIAZZA DEI MIRACOLI fino al 31 agosto

Due tra i monumenti piú suggestivi della Piazza dei Miracoli prolungano l’orario di apertura oltre il tramonto: fino al 31 agosto, la Torre di Pisa e il Camposanto sono infatti visitabili sino alle 22,00. Nel Camposanto, ad accogliere il visitatore, è l’ultimo episodio del ciclo del Trionfo della Morte, il Giudizio Universale di Buonamico Buffalmacco, da pochi mesi ricollocato in situ dopo che un importante restauro ne ha riportato alla luce il primitivo splendore. Nella visita notturna, gli affreschi sono valorizzati da una suggestiva illuminazione che, pur rispettando la sacralità e l’intimità del luogo, esalta la narrazione e lo stile delle storie dipinte sulle pareti. La salita serale sulla Torre è impreziosita dalla vista della città dall’alto, immersa nei colori del tramonto e poi nelle luci della notte. info tel. 050 835011; e-mail: info@opapisa.it; www.opapisa.it

Per l’edizione di quest’anno, è stato scelto di celebrare una sorta di gemellaggio con Canossa, attraverso la figura della grancontessa Matilde, nel cui nome è stato siglato un «Patto d’amicizia». I Notturni 2017 propongono quindi, oltre agli appuntamenti consueti, tableaux vivant che ripercorrono la vita della celebre nobildonna e, in particolare, i suoi rapporti con i conti di Chiny, Briey e Orval. info www.orval-patrimoine.be

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courtrai battaglia degli speroni d’oro

11 luglio 1302

Un «Buongiorno» di sangue di Federico Canaccini

Agli inizi del XIV secolo, il regno di Francia si risolse a stroncare in maniera definitiva gli aneliti indipendentisti delle Fiandre e Filippo il Bello inviò nella regione i suoi soldati migliori, al comando di Roberto d’Artois. Lo scontro decisivo si combatté a Courtrai e l’esito fu ben diverso dalle aspettative...

I

n età carolingia, la fiandra era un pagus (villaggio) affacciato sul Mare del Nord e dipendente dalla Francia occidentale. Dopo l’843, a seguito della divisione dell’impero, venne eletto a principato autonomo da una famiglia di conti i quali seppero approfittare del caos determinato dalle invasioni scandinave e del vuoto di potere centrale, per affermarsi e fondare una dinastia. Baldovino I († 879) e i suoi discendenti estesero il proprio dominio verso il Sud, scontrandosi con la potenza normanna e con il re di Francia. Col passare dei secoli, le Fiandre si distinsero per la produzione di tessuti, realizzati dapprima nelle aree rurali e poi in città, e quindi esportati sempre piú lontano, facendo sí che la regione soppiantasse l’area della Mosella e si imponesse come il principale polo industriale dell’Europa settentrionale. La crescita urbana che accompagnò quella commerciale e industriale provocò un aumento della domanda di approvvigionamento da parte di città che crescevano a vista d’occhio: Gand, Bruges, Ypres si rivolsero all’importazione di cereali dal Nord della Francia e dai Paesi germanici vicini. Le città fiamminghe conobbero dunque una grande prosperità, di cui, in una prima fase, beneficiò la famiglia comitale. Queste relazioni internazionali, però, provocarono due fenomeni che si alimentavano a vicenda: da un lato l’affermazione del

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La battaglia degli Speroni d’oro, olio su tela di Nicaise de Keyser. 1836 circa. Courtrai, Stedelijke Musea.

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courtrai battaglia degli speroni d’oro patriziato urbano, dall’altro le brame dei re e dei grandi principati vicini, quali la Francia e l’Inghilterra. Nel corso del Duecento la società fiamminga era lacerata tra il mondo rurale e quello urbano, tra città rivali, tra nobiltà cittadina e corporazioni dei mestieri, tra tessitori e follatori. Il clima internazionale era altrettanto incandescente e quando l’aristocrazia si riavvicinò al re di Francia, contro il quale aveva in precedenza lottato per l’autonomia, maturò l’insofferenza popolare destinata a sfociare in una rivolta. Nel XIV secolo la Fiandra era una pedina importante, giocata tra il re di Francia e il re d’Inghilterra. I banchieri e i commercianti fiamminghi, infatti, intrattenevano relazioni economiche col Plantageneto, in quanto importavano le calde lane

nobili fiamminghi, spaventati dal crescente tumulto, invocarono l’aiuto del re di Francia, il quale inviò messer Jacques de Saint Pol, a capo di 1500 cavalieri e di una nutrita guarnigione di fanteria. Ma ormai la favilla aveva acceso un grande incendio in tutta la Fiandra. Giunti a Bruges, i Francesi appianarono i fossi e abbatterono le porte della città, prendendo poi stanza presso il castello. Nottetempo, approfittando delle porte aperte, si radunarono in città i rivoltosi e «gridando in loro linguaggio fiammingo, che da’ Franceschi non erano intesi, “Viva la Comune, e alla morte de’ Franceschi”, (…) si cominciò la dolorosa pestilenzia e morte de’ Franceschi per modo che qualunque Fiamingo avea in casa sua nullo Francesco, o l’uccideva o ‘l menava presso A sinistra stemma della città di Bruges. In basso Bruges, Place Markt. Una veduta del monumento a Jan Breydel e Peter de Coninc che occupa il centro della piazza. 1887.

Lisbona

inglesi. Di converso, i sovrani capetingi si sforzarono di annettere la contea di Fiandra ai domini reali e, a partire dal 1296, condussero numerose campagne militari con l’obiettivo di sottomettere le città fiamminghe.

Il Mattino di Bruges

Il 18 maggio 1302, il giorno passato alla storia come «Il Mattino di Bruges», piú di 300 soldati francesi furono massacrati per le vie della città. Le truppe erano state inviate da Filippo il Bello, dopo che alcuni ribelli avevano prospettato una sorta di «indipendenza» economica e politica dal regno di Francia. A capo della ribellione ci sarebbero stati due capopopolo, Jan Breydel, macellaio, e Peter de Coninc, tessitore di panni. Non è chiaro quanto questi due personaggi – e il loro ruolo nella rivolta – siano reali o quanto siano il frutto della fantasia popolare. È però certo che la sollevazione si diffuse rapidamente, provocando paura tra i nobili fiamminghi e tra le guarnigioni francesi. Dopo l’uccisione di alcuni signori locali, gli stessi

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L’EUROPA DEL MALESSERE: RIVOLTE E DISORDINI NEI SEC. XIV-XV

Belgrado

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1349 Diffusione della peste nera

In alto cartina dell’Europa tardo-medievale che illustra la diffusione dell’epidemia di peste nera e il propagarsi delle ondate di malcontento e rivolta e che la seguirono.

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alla piazza dell’Alla, ove la Comune era raunata e armata e là giungendo i presi, come tonnina in pezzi erano tagliati e morti» (Giovanni Villani, Nuova Cronica). Qualche francese si travestí da popolano fiammingo: nel dubbio veniva richiesto di pronunciare le parole fiamminghe «schilt en vriend» («scudo e amico»). Coloro che erano traditi dalla errata pronuncia, venivano sgozzati all’istante. Un sistema analogo era stato usato nel giorno dei Vespri Siciliani: in quell’oc-

Aree in cui la mortalità per peste è scarsa o nulla Rivolte contadine Rivolte urbane dal 1250 al 1400 Battaglie

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casione, la parola era «sciciri», e anche allora la erre francese tradí centinaia di soldati angioini. Appena sentito il frastuono, gli uomini inviati dal re tentarono di scappare, ma i rivoltosi avevano già nascosto le loro selle e i freni dei cavalli e cosí – scrive ancora il cronista fiorentino Giovanni Villani – quei pochi che provarono a fuggire a cavallo «trovavano le rughe abbarrate e gittati loro i sassi dalle finestre (...). E cosí durò tutto il giorno la detta persecuzione, ove morirono che con ferri, e che di sassi, e d’essere gittati dalle finestre delle torri (…) onde tutte le rughe e le piazze di Bruggia erano piene di corpi morti e di sangue e di carogna de’ Franceschi, che piú di tre dí gli penarono a sotterrare, portandoli in carra fuori della terra, e gittandoli in fosse a’ campi». Sapendo che a un tale massacro sarebbe seguita una violenta risposta da parte del re francese, i cittadini chiamarono alle armi la milizia urbana e inviarono ambasciatori alle altre città con richieste di supporto militare. Solo Gand, rivale di Bruges, rifiutò l’aiuto richiesto. A capo del piccolo esercito si posero Guy de Namur e Willem van Jülich, figlio e nipote di Guy de Dampierre, conte di Fiandra, imprigionato due anni prima dai Francesi a causa di una rivolta. Villani ricorda anche questo episodio e narra che nel 1300 «il conte Guido di Fiandra molto anziano e vecchio, fece trattato con lui [Carlo di Valois, fratello del re di Francia] di venire con due suoi maggiori figliuoli alla misericordia del re, rendendogli pacificamente il rimanente della terra di Fiandra che tenea. Il detto messer Carlo promise che se ciò facesse di fargli fare grazia (…); il quale conte s’affidò a lui e gli rendè Bruggia e Ganto e l’altre terre di Fiandra (…). Il re, per malvagio consiglio, non asseguendo cosa che a loro fosse promessa, sanza nulla grazia gli fece mettere in pregione; per lo quale tradimento e dislealtà, grande male ne venne alla casa di Francia e a’ Franceschi, in brieve tempo appresso». Filippo il Bello inviò dunque un contingente composto dal fiore della nobiltà, con un grande corpo di cavalleria pesante e un seguito di fanteria, al comando di Roberto di Artois. L’esercito puntò in primo luogo su Oudenaarde, le cui truppe furono facilmente sconfitte; poi si diresse contro Courtrai, e la pose sotto assedio. L’11 di luglio si giunse alla risoluzione in campo aperto e i due eserciti si schierarono fuori dalla città, non lontano dal castello. L’episodio militare, che suscitò enorme impressione nei contemporanei, ci è stato

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Sulle due pagine Bruges, Stadhuis. Particolare della decorazione parietale della Sala Gotica, raffigurante Guy de Namur e Willem van Jülich. XX sec.

In alto ritratto di Filippo di Castiglia, detto il Bello, opera di Anonimo. XVI sec. Stoccolma, Gripsholms Slott, Svenska Statens Porträttsamling.

tramandato da molte ed eccellenti fonti coeve come gli Annales di Gand, lo Spiegel Historiael di Guillame Guiart, il Chronicon di Gilles le Muisit, la Cronaca di Ottokar von Steiermark, il Chronicon di Willelm Procurator, la narrazione del fiorentino Giovanni Villani e una fonte iconografica di eccezionale rarità quale il Baule di Courtrai (o di Oxford), intagliato con buona probabilità poco dopo gli eventi da un artista fiammingo (vedi box a p. 44). Dall’8 all’11 luglio Roberto d’Artois e i suoi luogotenenti studiarono il terreno e pianificarono l’attacco. L’esercito francese, composto da circa 3000 cavalieri e 5000 fanti, si dispose in battaglia, discendendo la luglio

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piana da Pottelberg a Groeninghe. L’armata francese, ricordata come la migliore d’Europa, comprendeva il fior fiore dell’aristocrazia e l’Artois, a sua volta, godeva di un grande prestigio come abile comandante ed esperto combattente. Mentre le truppe francesi compivano queste operazioni, quelle fiamminghe iniziarono a prendere posizione di fronte alle mura della città, suddivise per corporazioni, con davanti i nobili che avevano appoggiato la rivolta. Si trattava di un esercito numericamente simile a quello francese. In quel giorno furono nominati nuovi cavalieri, come si era soliti fare prima delle battaglie

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campali: Peter de Coninc e i suoi due figli, Jan Poelard, Clais Bernard, Jan e Wouter Schinkel e molti altri ricevettero l’onore del titolo di cavaliere dalle labbra di Guy de Namur e Willem van Jülich.

Nessuna pietà per il nemico

In prima linea furono sistemati i picchieri, poi, a seguire, i combattenti armati di uno spiedo piú corto delle picche, piú tardi detto «Goedendag» («Buongiorno»). Una schiera era composta da arcieri e balestrieri. I soldati di Ypres furono posti davanti al castello, per evitare una sortita della guarnigione francese ancora asserraglia-

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courtrai battaglia degli speroni d’oro

ta al suo interno. Il contingente giunto da Bruges e i combattenti delle Fiandre orientali, crearono una lunga linea curva dalla città sino al monastero di Groeninghe, protetti alla spalle dal fiume e di fronte dai fossi dei corsi d’acqua che circondavano Courtrai, sistemandosi a debita distanza dagli arcieri francesi. Guy de Namur dettò le regole per quella giornata senza troppi fronzoli: i Francesi non dovevano superare vivi i ranghi fiamminghi; era proibito fare prigionieri, e sia uomini che cavalli dovevano essere uccisi all’istante; era altresí vietato fermarsi a raccogliere bottino, pena la morte. Stessa sorte per gli eventuali disertori o per chi fosse fuggito durante la mischia. Il grido di guerra sarebbe stato: «Vlanderen ende Leuuw!» («Fiandre e il Leone!»). Poco prima di mezzogiorno, Roberto d’Artois ordinò ai suoi arcieri e balestrieri di aprire le ostilità. Lo scambio

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di schermaglie tra i reparti opposti non provocò molti caduti, non essendo particolarmente numerosi. A questo punto fu mandata avanti la fanteria francese, che avanzò tra i campi irrigati, pare, senza incontrare troppe difficoltà. In un primo momento l’attacco ebbe successo e la fanteria di Filippo il Bello fece rinculare quella fiamminga. Ma a questo punto, prima che i fanti potessero conseguire la vittoria, il signore di Artois fece suonare la ritirata delle truppe appiedate per poter dare alla nobiltà e alla cavalleria pesante l’opportunità di raccogliere il successo, assestando il colpo finale ai «conigli pieni di burro», come venivano soprannominati i Fiamminghi. Probabilmente non tutti i reparti di fanteria intesero l’ordine di indietreggiare: alcuni pensarono di aver già raggiunto il successo, altri non comprendendo il comando, rimasero in una situazione di stallo. Nel mentre, coluglio

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In alto la disposizione delle truppe francesi e fiamminghe a Courtrai. A sinistra la battaglia di Courtrai, in una miniatura tratta da Les anciennes Croniques de Flandres. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

loro che avevano dato l’ordine di indietreggiare ai fanti, si voltarono e gridarono «avanti!» alla cavalleria. Sette formazioni di cavalleria partirono al segnale del vessillifero. L’ala sinistra, comandata da Raoul de Nesle e composta da quattro squadre, caricò in leggero anticipo rispetto all’ala destra. All’arrivo delle colonne di cavalleria, i fanti francesi che stavano ancora ripiegando trovarono scampo ai lati del campo di battaglia oppure in maniera disordinata e rischiosa, tra un battaglione e l’altro in carica. I battaglioni di cavalleria erano comandati da Raoul de Nesle, da Jean de Burlats e da Goffredo di Brabante. Lanciati alla carica, i cavalli, appesantiti dalla corazza e dal peso dei cavalieri bardati, si trovarono davanti al fosso di Groeninghe, che dovette frenare o rallentare l’assalto. Verosimilmente, alcuni destrieri si rifiutarono di saltare il fosso e, solo dopo aver rinsaldato le fila, la

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cavalleria francese poté gettarsi, ma non con la velocità sperata, sulle solide truppe fiamminghe. La carica della cavalleria risultò efficace solo nella zona centrale, dove si incuneò; ma ai lati della lunga linea di fanti fiamminghi, i nobili francesi ebbero difficoltà di manovra, a causa della resistenza e della compattezza del nemico.

La divisione allo sbando

Goffredo di Brabante, uno degli eroi di Woeringen (combattuta nel 1288, fu la battaglia che pose fine al conflitto per la successione nel ducato di Limburgo, n.d.r.), tentò di superare le linee nemiche ma, maldestramente, provocò l’atterramento di Guillame de Juliers e della sua bandiera, causando lo smarrimento di una intera divisione, priva del riferimento del vessillo. Goffredo poi, caduto da cavallo, trovò la morte sotto i colpi dei Fiamminghi e anche Raoul de Nesle morí nel corso del primo impatto. Guillame de Juliers, colpito da una freccia, continuò a combattere fino allo sfinimento, quando i suoi scudieri lo portarono fuori dalla mischia. A quel punto, uno tra questi, Jan Vlaminc, indossò la sua cotta con le insegne del principe gridando ai Fiamminghi: «Juliers è ancora qui!». Superato il fosso di Groeninghe, l’ala destra francese attaccò con tre formazioni guidate dai conti d’Eu e d’Aumale, Jacques de Châtillon e Mathieu de Trie. La loro carica ebbe successo, penetrando le schiere fiamminghe, ma senza riuscire a sfondarle. In un punto la situazione era però particolarmente critica: il centro dello schieramento fiammingo era sotto pressione e, benché gli uomini di Franc di Bruges, stessero resistendo, i Francesi avanzavano di metro in metro. Tuttavia, la compattezza dei reparti di fanteria fiam-

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il baule di courtrai

Un «fumetto» di legno Fin dall’anno del suo ritrovamento (1905), il cosiddetto Baule di Courtrai (noto anche come Baule di Oxford) è considerato come una delle piú importanti fonti per la Battaglia degli Speroni d’Oro. Sul pannello frontale del grande cassone ligneo, infatti, compare una serie di episodi che non trovarono spazio nelle altre fonti e che fu di grande aiuto per gli storici per completare il quadro degli eventi e per acquisire migliori informazioni, soprattutto riguardo agli armamenti e all’araldica. Il pannello frontale è diviso in quattro lunghe fasce (17 x 98 cm) in cui sono narrati gli eventi culminati nella battaglia del 1302. Nella prima fascia, infatti, si nota sulla destra l’eccidio del Mattino di Bruges, mentre tre uomini offrono le chiavi della città a un drappello di cavalieri al galoppo verso la città. Nella seconda fascia compare ancora un combattimento davanti a una torre (forse un ulteriore episodio legato al Mattino di Bruges), mentre sulla sinistra si vede avanzare la massa di fanteria armata di Goedendag e con le bandiere dei mestieri: si possono riconoscere gli stemmi dei tessitori, dei follatori, dei vinattieri e dei marinai. La zona inferiore, invece, è dedicata alla battaglia vera e propria. A sinistra si riconosce il castello di Courtrai, occupato dai Francesi. Dal portone esce un drappello di cavalieri, tosto frenato dalle milizie di Ypres, riconoscibili dalla croce che orna le divise dei soldati. La sezione di destra è ripartita in due fasce: in alto si distinguono, grazie all’araldica, Guy de Namur e Willem van Jülich che guidano i reparti di fanteria, scanditi dalle bandiere. A sinistra Jan van Sijsele è attaccato da tre fanti fiamminghi. Nel registro inferiore è infine rappresentata la desolazione, a battaglia conclusa: il campo coperto di morti, un uomo sbudellato, uno decapitato, un fiammingo intento a svestire un francese caduto, due che si contendono il bottino, coltello alla mano.

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A destra e in basso due immagini del Baule di Courtrai (o di Oxford), di cui si apprezza l’elaborata decorazione a intaglio del pannello frontale, che raffigura eventi legati alla battaglia di Courtrai e scene dello scontro stesso. XIV sec. Oxford, Ashmolean Museum.

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In basso Parigi, basilica di Saint Denis. Il monumento funebre di Roberto d’Artois, opera di Jean Pepin de Huy. 1317.

minga iniziò ad avere ragione della massa di cavalieri di Filippo il Bello, grazie anche all’intervento delle riserve capeggiate da Jean de Renesse. A colpi di picche vennero uccisi uomini e cavalli e tra le fila francesi cominciò a diffondersi il panico: i cavalieri venivano disarcionati e si ritrovavano impantanati nei fossi, dove molti poi affogarono, calpestati dai compagni e appesantiti dalle armature. Al macabro grido di «Goedendag!», i fanti fiamminghi colpivano i nobili francesi caduti, finendoli a colpi di picca e battezzando il nome di questa arma sino ad allora non certo temuta dai nobili francesi. Al comando del Renesse, i Fiamminghi iniziarono ad avanzare: tra i 3 e i 4000 fanti caricarono con le loro picche i 2000 cavalieri francesi oramai in seria difficoltà. La confusione e la boria dei nobili francesi fecero il resto. «Il conte d’Artese – scrive ancora Giovanni Villani – e l’altre schiere veggendo mosso a fedire il conestabile con sua gente, il seguiro uno appresso l’altro a sproni battuti, credendo per forza de’ petti de’ loro cavalli rompere e partire la schiera de’ Fiamminghi e a loro avvenne tutto per contrario che per lo pingere e urtare, i cavalli dell’altre schiere per forza pinsono il conestabile e il conte d’Artese e sua schiera a traboccare nel detto fosso, uno sopra l’altro: e ‘l polverio era grande che que’ di dietro non poteano vedere né per lo romore d’colpi e grida intendere il loro fallo, né la dolorosa sventura dei loro feditori; anzi, creden-

I soldati francesi cercarono di sfuggire all’insidia rappresentata dai fossi e dal terreno melmoso, che per molti divennero una trappola mortale

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courtrai battaglia degli speroni d’oro Kortrijk 1302

Museo e nazionalismo Nel 2002 è stato inaugurato a Courtrai Kortrijk 1302, un museo dedicato alla Battaglia degli Speroni d’Oro. Nel percorso espositivo si possono seguire le vicende internazionali che portarono allo scontro, osservare le fasi della battaglia grazie a un sistema video, vedere ricostruzioni delle armi utilizzate e osservare i famosi «Goedendag» e alcuni degli speroni che resero celebre lo scontro. Una seconda sezione è poi dedicata al culto della battaglia di Courtrai, dal momento che, nel Romanticismo, essa fu eletta dalla comunità fiamminga a battaglia-simbolo della propria mitologia nazionale. In tutta Europa, tra il XIX e il XX secolo, le nazioni glorificarono le battaglie medievali che avevano favorito la nascita o l’indipendenza degli Stati moderni: Bouvines per la Francia,

Tannenberg per la Polonia, Bannockburn per la Scozia e cosí via. In Belgio, la battaglia di Courtrai assunse un significato particolare, per il clima – un tempo – di difficile convivenza tra Valloni e Fiamminghi. Una battaglia che aveva i suoi eroi popolari, che aveva visto soccombere l’esercito piú potente, che era finalizzata a rivendicare l’autonomia – culturale e linguistica – si rivelò quanto mai utile e attuale in un’epoca di nazionalismi. Ecco allora che molti pittori celebrarono l’evento del 1302 (Nicaise e Keyser, Jan van Beers, Godfried Guffens e Jan Swerts). L’episodio militare si trasformò progressivamente in un simbolo del nazionalismo fiammingo: nel 1914, quando il re Alberto, paventando l’attacco tedesco, si rivolge ai

Fiamminghi li esorta a ricordare i giorni della Battaglia degli Speroni d’Oro. Durante la Seconda guerra mondiale l’episodio fu addirittura trasformato dalla propaganda nazionalsocialista in uno dei piú eclatanti capitoli della storia della Grande Germania! Si deve attendere il dopoguerra per ritrovare il sentimento fiammingo legato al giorno di Courtrai e che, grazie al Vlaamse Volksbeweging (Movimento del popolo fiammingo) diverrà, tra anni Cinquanta e Sessanta, un «Giorno fiammingo». Nel 1973, l’11 luglio viene riconosciuto come giorno di Festa della comunità fiamminga, un episodio importante e significativo che porterà infine al processo di federalismo del Belgio. In alto i resti di due esemplari di «Goedendag». Courtrai, Kortrijk 1302. A sinistra Courtrai, Kortrijk 1302. Uno scorcio di uno degli allestimenti del museo dedicato alla battaglia di Courtrai.

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Miniatura raffigurante la battaglia di Courtrai, da Les grandes chroniques de France di Jean Fouquet. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

do ben fare pignevano pure innanzi urtando i loro cavalli per modo, ch’eglino medesimi per l’ergere a cadere di loro cavalli, l’uno sopra l’altro s’affollavano e faceano affogare e morire gran parte, o i piú senza colpo di ferri, di lance o di spade».

La cavalleria torna alla carica

Vista la mala parata, vi fu un tentativo di sortita da parte della guarnigione di stanza nel castello di Courtrai che fu però subito rintuzzato dai soldati di Ypres. Il conte di Artois, che ancora non aveva preso parte alla battaglia, decise di ordinare una nuova carica di cavalleria, utilizzando il proprio contingente per liberare i suoi ed evitare la catastrofe. Un cavaliere della Champagne avvisò del rischio rappresentato dal fosso di Groeninghe, ma l’Artois ordinò di avanzare immediatamente. Una volta ancora i trombettieri suonarono la carica. L’Artois e il suo contingente divennero immediatamente l’obiettivo principale delle truppe a cavallo comandate da Guy de Namur, il quale guidò una carica contro il francese, che venne accerchiato, disarcionato

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da Guillame de Saeftinghe, ripetutamente ferito e infine colpito a morte dagli uomini del Namur. In breve il campo si ricoprí dei cadaveri e del sangue dei nobili francesi, con una perdita stimata tra il 40 e il 50% dei cavalieri scesi in battaglia. I Francesi persero piú di 63 effettivi, tra duchi, conti, principi e vessilliferi. Si stima che almeno 1250 nobili, il fiore della aristocrazia, morirono in battaglia, il che è confermato dal numero di 500 paia di speroni d’oro che, come si legge in un documento del 1382, risultavano conservati a Courtrai. A battaglia conclusa, infatti, dopo aver gridato ancora «Vlanderen ende Leuuw!», Guy de Namur ordinò di uccidere tutti coloro che portavano gli speroni, distinguendo cosí i nobili dai fanti senza valore – che furono comunque uccisi –, ma mantenendo la promessa di non fare prigionieri. Nel giro di tre ore la piú bella e potente armata d’Europa era stata annientata da un esercito composto perlopiú da tessitori e macellai. L’epoca della cavalleria iniziava a vedere il suo rapido tramonto. F

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comunanza del trasimeno

Quando l’acqua vale piú dell’oro di Jacopo Mordenti

Nel Medioevo, soprattutto nei periodi in cui vigeva l’obbligo di astenersi dal consumo di carne, il Trasimeno, grazie al suo pesce, costituí una risorsa preziosa per Perugia e non solo. Tanto da indurre alla creazione di un istituto, la comunanza, che dettava regole rigorose per lo sfruttamento del lago

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È

il 16 marzo 1277 e Perugia è in subbuglio. Nel consiglio cittadino si è data lettura di una richiesta di papa Giovanni XXI, il quale domanda che venga inviata a Roma, gratuitamente, una fornitura di pesce del lago Trasimeno. Sebbene sostenibile, la richiesta preoccupa le autorità perugine, le quali temono che un gesto di cortesia della città, se compiuto con leggerezza, potrebbe essere interpretato come un omaggio di natura feudale: un timore non infondato, se si considera che già l’anno precedente papa Innocenzo V aveva inoltrato a Perugia una richiesta del tutto analoga. Se nel 1276 il consiglio aveva deliberato a tal proposito l’invio di 10 some (la soma era un’unità di misura pari a circa 1 quintale, n.d.r.) di pesce pro coena domini – non senza aver prima ascoltato in merito il parere di alcuni sapientes – nel 1277 si ritiene opportuno deman-

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dare la questione a un’assemblea piú ampia, quella rappresentata dal consilium popolare: la richiesta di Giovanni XXI viene infine esaudita, ma solo dopo avere eletto, per espletarla, un apposito sindaco, vale a dire una figura istituzionale atta a incarnare il concetto per il quale il papa è un amico di Perugia, non certo il suo signore, e solo in quella veste egli potrà godere delle ricchezze della città. Su tutte, dei frutti di quella che è fra le prime, straordinarie risorse della Perugia medievale: il lago Trasimeno (vedi box a p. 53).

Il laco de Peroscia

Proprio in quegli anni il legame fra la città e il lago aveva trovato una sua declinazione plastica nel monumento simbolo della Perugia comunale: la Fontana Maggiore, inaugurata nel 1278. In essa l’allegoria del Trasimeno rimanda alla ricchezza conferita dal lago a Perugia: la Domina Laci scolpita nella vasca superiore è infatti intenta a portare in dono alla città, personificata alla sua destra dall’Augusta Perusia dotata di cornucopia, il pesce delle proprie acque. Si tratta di una rappresentazione non solo suggestiva, ma anche – e soprattutto – significativa di un preciso momento storico: quel pieno Duecento che aveva visto il Comune di Perugia portare a compimento una faticosa, plurisecolare politica di conquista del Trasimeno, che, da spazio geopolitico complesso – sul quale avevano insistito fin dall’antichità altre città, quali Cortona e Chiusi –, era divenuto il laco de Peroscia. Laco da presidiare, amministrare e, soprattutto,

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sfruttare. Nella seconda metà del Duecento, piú ancora della militarizzazione del territorio o della pletora di figure funzionali incaricate del suo controllo politico, balza agli occhi l’accurata gestione delle risorse lacustri, che Perugia formalizza e mette in pratica. Sotto il dominio perugino, incastonato nel sistema delle comunanze – vale a dire i territori di proprietà comunale che, previa asta pubblica, venivano appaltati a investitori privati –, il Trasimeno si configura come un microcosmo complesso, per certi aspetti fragile, e tuttavia capace di generare profitti importanti a partire non solo dall’intensa attività piscatoria, ma anche dalla messa a coltura dei terreni spondali – le cosiddette pedate –, dai pedaggi del pesce e, in un momento successivo, dalla caccia. Sebbene la pratica dell’appalto della comunanza del lago avesse trovato spazio già nello Statuto perugino in vigore nel 1259 – lo si deduce dal verbale di una seduta del consiglio cittadino di quell’anno –, la prima attestazione diretta e dettagliata risale al 27 aprile 1276, ospitata nel cartulario di maggior prestigio del Comune, quello delle Sommissioni. Il documento permette di entrare nel merito dei soggetti coinvolti: le istituzioni perugine trovano rappresentanza nel sindaco, Bencivenne Sappoli, il quale per un anno, dal 1° maggio seguente, conferisce a Pietruccio domini Andree e ai suoi soci tutti i diritti che il Comune di Perugia detiene sui cosiddetti Panoramica aerea del lago Trasimeno ripreso dal versante nord-orientale. Si distinguono, sulla sinistra, l’Isola Polvese e, sulla destra, l’Isola Maggiore e la piccola Isola Minore.

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comunanza del trasimeno

frutti delle acque del Trasimeno, diritti equivalenti a 1/3 dell’intero prodotto della comunanza. Il complesso delle clausole è nutrito: da una parte gli appaltatori devono sostenere un esborso liquido pari a 10 500 libbre di denari perugini e cortonesi e impegnarsi a fornire a Perugia, in tempo di Quaresima, lasche e tinche per un ammontare giornaliero di 10 some; d’altra parte, oltre appunto ai frutti del lago e delle terre, gli appaltatori possono godere dei proventi del pedaggio sul trasporto del pesce e, soprattutto, possono contare sul sostegno del Comune sia nei rapporti con gli abitanti delle comunità lacustri – i cosiddetti lacosciani –, affinché pescatori e contadini lavorino ai regimi previsti, sia in quelli con eventuali terzi che mostrino nei loro confronti una qualche ostilità.

Prerogative piuttosto ampie

Al netto delle penali previste per entrambe le parti in caso di inadempienza, l’appalto della comunanza del lago mostra una certa ambiguità: interessa beni comuni e prevede il rischio d’impresa, ma, a ben vedere, configura anche diritti di natura signorile, giacché agli appaltatori vengono riconosciute prerogative che vanno ben oltre il semplice esercizio della pesca e dell’agricoltura. La discrezionalità di cui essi godono nei confronti dei pescatori e dei contadini del lago lascia intravedere forme di pressione ai limiti della coercizione: invocando la negligenza, essi possono sottrarre le terre ai contadini per locarle a terzi, e possono inoltre denunciare quei pescatori che, sprovvisti della loro autorizzazione, siano sorpresi a pescare nel periodo interdetto – tipicamente fra le calende di giugno e la metà di agosto – con reti appena piú complesse delle semplici listarelle utili a cat-

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In alto Perugia, Fontana Maggiore. Particolare della vasca superiore: la Domina Laci (prima a sinistra), allegoria del Trasimeno, porta in dono le ricchezze delle acque del lago ad Augusta Perusia, personificazione della città di Perugia, che regge una cornucopia. XIII sec.

turare qualche tinca o qualche cavedano. La stessa Perugia, comunque, non era estranea a pratiche simili: il contratto d’appalto prova infatti come il Comune avesse creato le condizioni per la sorveglianza diretta dei beni appaltati, risultando di fatto continuativamente coinvolto nella gestione degli stessi. Tra Due e Trecento, alcune caratteristiche formali dell’appalto della comunanza del lago mutano. Al netto delle lacune nella documentazione, piú del fisiologico oscillare dei prezzi, spiccano la variazione della durata dell’appalto – che talvolta raggiunge i cinque anni – e, soprattutto, l’occasionale scorporo dalle acque delle pedate e dei pedaggi, magari a fronte dell’incamerazione di nuovi proventi, quali, per esempio, quelli derivanti dai terreni isolani e dall’uccellagione. luglio

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Confrontando gli appalti concessi nel 1276 e nel 1321, un dato sembra emergere con chiarezza: in poco meno di cinquant’anni, le condizioni lavorative ed economiche di quanti producono ricchezza al Trasimeno – e dei pescatori innanziutto – risultano peggiorate, mentre sono cresciuti il potere e il prestigio degli appaltatori. Questi ultimi sono solitamente personaggi di spicco della vita politica del Comune perugino e il fatto che molti di essi – iscritti perlopiú all’Arte della Mercanzia, nessuno invece all’Arte dei Pesciaioli – compaiano piú volte nel corso degli anni, impegnati magari in piú societas che insistono anche su altre comunanze, lascia supporre che la gestione di queste ultime si fosse andata configurando come un mestiere vero e proprio.

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In alto veduta a volo d’uccello dell’agro perugino, affresco di Ignazio Danti. XVI sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Pur escludendo la costa occidentale del Trasimeno – afferente il cosiddetto Chiugi perugino – e dunque individuando gli estremi della comunanza del lago in Tuoro, a nord-ovest, e Sant’Arcangelo, a sud-est, il controllo dell’area doveva passare per un capillare reticolo di domus: non è un caso che gli appaltatori e i loro uomini, a quest’epoca, disponessero di residenze a Montigeto, Passignano, Monte Ruffiano, San Savino, Santa Maria d’Ancaelle, e sulle isole Maggiore e Polvese. Il Trasimeno «ripagava» un presidio cosí puntuale: nella seconda metà del Duecento, in tempo di Quaresima, il lago doveva assicurare un pescato oscillante tra i 100 e

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comunanza del trasimeno A sinistra pianta della Terminazione delle pedate del Trasimeno della Comunità di Tuoro. 1762. Sulle due pagine Carta corografica della Val di Chiana, del Lago Trasimeno e delle regioni limitrofe compresa gran parte del senese, disegno di Leonardo da Vinci. 1478-1518 Londra, Windsor Castle, Royal Library. La carta illustra l’ipotesi di unire il lago Trasimeno alla piana aretina attraverso un canale.

gli ambiti latamente correlati al pesce del Trasimeno: oltre a quello della pesca, dunque, anche quelli del trasporto e del commercio in città.

Ripopolamento e divieti

i 150 quintali al giorno, pesce destinato alla vendita – e dunque preliminarmente al trasporto e al pedaggio – a Perugia e a un’altra dozzina di città. Considerando che la Quaresima rappresenta meno di un terzo dei giorni dell’anno nei quali si prevede l’astinenza dalla carne, in linea di principio gli introiti complessivi degli investitori potrebbero calcolarsi nel doppio di quanto essi corrispondevano al Comune. Tutti i soggetti coinvolti avevano dunque interesse a mantenere in piena efficienza un ambiente capace di produrre una simile ricchezza. Gli Statuti del Comune di Perugia oggi disponibili – in primo luogo quello del 1279, poi ancora quello del 1342 – sono in questo senso illuminanti e provano come il potere pubblico si sforzasse di tutelare, controllare e, se possibile, potenziare tutti

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Si pensi, innazitutto, all’attenzione per la pescosità del lago. Posto come il Trasimeno, ancora fra Due e Trecento, si attesti probabilmente su livelli medi inferiori agli attuali (vedi box alle pp. 54-55), gli Statuti perugini dell’epoca denunciano gli sforzi sostenuti per garantire una popolazione ittica adeguata ai consumi: nel 1279 si stabilisce che, fra febbraio e marzo e poi ancora fra settembre e ottobre, si immettano in acqua 2000 lucci e 2000 anguille provenienti dalla Chiana (vedi box alle pp. 56-57), nonché 2 quintali di gamberi e 2 quintali di trote; ed è significativo come il costo degli avannotti – le cosiddette brulglie – sia coperto in parti uguali dal Comune, dagli appaltatori della comunanza e dalle comunità lacustri. Nel 1342 tale principio risulta ancora vigente e, al piú, si può notare come a cambiare siano le quantità espresse; nell’ottica della maggior chiarezza possibile, peraltro, viene fatto esplicito divieto di pescare gli avannotti immessi nell’anno in corso. luglio

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La geologia

Un unicum vecchio di 2 milioni di anni

In basso carta schematica dell’area del Lago Trasimeno con indicazione delle principali località presenti sulla costa e dei tracciati viari circostanti con le relative destinazioni. FIRENZE - MILANO

Tuoro sul Trasimeno Rac

Terontola

c o r do aut. Perug ia-

SS. 71

Pietraia Borghetto

Isola Maggiore

Be tto ll e

Passignano

Isola sul Trasimeno Minore

LAGO TRASIMENO

Magione San Feliciano Isola Polvese

Perugia

San Savino

Sant’Arcangelo

Ter Terni Panicale ROMA

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Monte del Lago

Castiglione del Lago

CHIANCIANO Pozzuolo

Trecine

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Con una superficie di 124,3 kmq, il Trasimeno è il quarto lago d’Italia per estensione; al contempo, la sua natura laminare lo porta a distinguersi per una profondità massima che attualmente si aggira intorno ai 6,4 m. Di origine antichissima – la geologia colloca il prodursi della depressione che lo ospita tra la fine del Pliocene e l’inizio del Pleistocene Inferiore (intorno ai 700 000 anni fa) –, il lago deve aver assunto la morfologia e la posizione geografica note in epoca storica già dalla fine del Paleolitico Inferiore. Il ricambio delle acque può dirsi contenuto: dei 60 torrenti immissari del Trasimeno – fra cui il piú importante, il cosiddetto Fosso dell’Anguillara, è di origine artificiale, e rimanda agli anni Cinquanta del secolo scorso – nessuno fornisce acque perenni; l’unico emissario in funzione – il cosiddetto emissario Pompilj, che nel 1898 andò a sostituire l’emissario quattrocentesco realizzato durante la signoria perugina di Andrea Fortebraccio e perciò detto braccesco – lavora con una soglia di sfioramento posta a 257,5 m slm, e immette le eventuali acque lacustri in eccesso nel torrente Caina, tributario del fiume Nestore a sua volta tributario del Tevere. All’elemento storicamente coagulante rappresentato dal lago medesimo fanno da contraltare le difformità fra le coste, difformità che in termini di rilievi, di esposizione ai venti e – di riflesso – di antropizzazione, sono rilevanti.

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comunanza del trasimeno Per risultare efficace, il ripopolamento ittico non poteva prescindere da alcuni periodi di interdizione alla pesca, cosí come, ancora prima, da una certa tutela dell’habitat. Ne è prova l’attenzione per il benessere del canneto: nello Statuto del 1342 si sanciscono pene severe per quanti, in funzione del pascolo, danneggiano questa porzione di lago, imprescindibile per la riproduzione delle tinche. Quanto al divieto di pesca, lo statuto del 1279 fissa il periodo dal 1° maggio al 15 agosto: risultano tuttavia esentati quei pescatori che – come già accennato – ottengono l’autorizzazione direttamente dagli appaltatori della comunanza, o che si limitano a pescare con le listarelle. Quanto alla strumentazione, nello Statuto del 1279 spicca l’obbligo per il pescatore, ogni tre anni, di rinfrescare il toro, vale a dire di rinforzare con nuove frasche e fascine gli impianti semimobili e sommersi – detti appunto tori – che allora rappresentavano la tecnica piú diffusa sul Trasimeno per la cattura su larga scala di tinche, anguille e lucci (vedi box alle pp. 58-59). Gli Statuti rivelano anche l’attenzione del Comune di Perugia per l’ordine pubblico. L’attività piscatoria non dev’essere intralciata: né dall’esterno, né, soprattutto,

questioni idrometriche e linguistiche

«Quello che si sta prosciugando» Il nome stesso del lago rimanderebbe a un livello medio delle acque storicamente prossimo all’impaludamento: recenti indagini linguistiche fanno infatti risalire la voce Trasimeno al paleo-umbro *társameno, «[quello] che si sta prosciugando»; il toponimo, peraltro, è attestato nella forma etrusca taršminass nella Tabula Cortonensis (una lamina bronzea contenente un’iscrizione di carattere giuridico, n.d.r.). L’epoca etrusco-romana conobbe un Trasimeno attestato su un livello medio inferiore all’attuale: stante le tracce di frequentazione spondale rinvenute, è plausibile che nella tarda età imperiale la linea di costa si trovasse avanzata, rispetto a quella odierna, di diverse decine di metri. Ancora nella prima metà del XII secolo, il livello medio del lago doveva aggirarsi intorno ai 255,5 m slm: alcuni rinvenimenti archeologici – come quello, nel centro di Passignano, dell’alveo di una porta che doveva trovarsi a -3,39 m dall’attuale

Sulle due pagine fotografia storica che mostra una veduta del piccolo porto di Passignano sul Lago Trasimeno con vista delle Isole Maggiore e Minore. 1890 circa.

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pelo dell’acqua – vanno in questa direzione. Simili quote non devono aver comportato l’insalubrità delle acque, giacché il fondale dell’epoca, meno interessato dal fisiologico interramento indotto dagli affluenti, doveva essere appena piú incassato di quello attuale. Solo fra Tre e Quattrocento si registra il cospicuo innalzamento del livello medio del Trasimeno, che, fra il XV e il XIX secolo, si attesta intorno a 259,8 m slm, con picchi – come quello del 1602 – di 261 m. Solo il già citato emissario Pompilj, inaugurato nel 1898, riportò il lago a una regimentazione sostenibile, sia in termini di livello medio che di rapidità di variazione del medesimo.

In alto particolare di quattro frammenti della Tabula Cortonensis, lastra etrusca in bronzo inciso che riporta un atto di vendita di terreni adiacenti al lago Trasimeno. II sec. a.C. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca di Cortona. Nel testo è menzionato il nome del lago nella forma etrusca taršminass (evidenziato nel riquadro).

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al suo interno. Vengono quindi sanzionati il furto del pesce stipato nelle ceste, i bacaria, cosí come il danneggiamento degli strumenti funzionali alla pesca, in primo luogo di quell’ampia gamma di reti che va dalla piccola listarella alla monumentale travencola dei tori, passando per il tramaglum per lucci e carpe e il cervarium per le tinche: il dettaglio a cui arriva in merito lo Statuto del 1279 è interessante, e tuttavia lo è di piú intravedere, dietro di esso, il riflesso dei tumulti conosciuti dalla pesca nel Trasimeno negli anni Sessanta del XIII secolo. Nel 1262 il consiglio cittadino di Perugia aveva deliberato l’atterramento dei tetti delle case dell’Isola Maggiore: un provvedimento duro, che rispondeva a un’azione ostile della comunità isolana che non conosciamo nel dettaglio, ma che aveva verosimilmente nuociuto alla pesca. Quattro anni piú tardi il malumore della Maggiore aveva probabilmente contagiato anche l’Isola Polvese: secondo un verbale del consiglio cittadino, i pescatori delle due isole avrebbero distrutto le reti trovate in acqua, fatto che era divenuto oggetto di un’apposita commissione d’inchiesta. Forse proprio questi eventi – o gli espropri a essi conseguenti – determinarono la creazione e l’appalto della comunanza dei terreni delle isole, comunanza solo occasionalmente accorpata, a partire

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comunanza del trasimeno dallo scorcio degli anni Settanta, a quella dei frutti del lago. Ciononostante, ancora qualche buon anno dopo, la ripartizione delle zone di pesca fra le varie comunità doveva provocare qualche fisiologica irritazione, surriscaldando nuovamente un clima che il Comune di Perugia aveva tutto l’interesse a disinnescare, in via diretta e indiretta: da qui i reiterati incentivi alla delazione disseminati un po’ ovunque nella normativa. Nel tentativo di arginare pratiche truffaldine e antieconomiche clientele politiche, Perugia pretese di esercitare un controllo puntuale anche sulla compravendita del pesce in loco. Lo Statuto del 1342 restituisce in merito un quadro interessante: posto come la vendita potesse occasionalmente avvenire anche prima della ripartizione materiale delle quote fra appaltatori e lacosciani, spicca il divieto tanto a mantenere vivo il pesce in acqua in assenza di apposita licenza, quanto a compravenderlo – anche di notte – senza che siano presenti gli appaltatori o i loro uomini. Non solo: fra le righe dello Statuto traspare come ci fossero stati personaggi che, avvalendosi della propria posizione nelle istituzioni comunali, avevano goduto di forniture gratuite di pesce, una pratica censurata con fermezza.

Il viaggio delle anguille

Dal lago al mare L’anguilla risulta presente in area lacustre ben prima che le fonti trasmettano la notizia dell’immissione artificiale di avannotti: un capitello della cripta di S. Secondo di Isola Polvese, risalente al pieno se non all’Alto Medioevo, mostra

Solo pesce dentro le ceste

Nemmeno il trasporto del pescato in città viene lasciato al caso, tanto piú se demandato ai pescatori o ai loro familiari: nel 1342 si fa divieto di ospitare nelle ceste altro che non il pesce – se non sopra di esso, e per un peso non superiore alle 3 libbre – a riprova di quanto i tentativi di truffa in materia fossero noti e verosimilmente reiterati. Stando allo Statuto, peraltro, Perugia tutelava energicamente il trasporto del pesce del Trasimeno anche al di fuori della propria giurisdizione: se un’altra città lo avesse ostacolato, il Comune avrebbe adottato una politica di chiusura ai commerci della città medesima; se esso fosse stato oggetto di aggressione, il Comune avrebbe risposto con la rappresaglia. Il massimo rigore fu probabilmente raggiunto per la vendita al minuto del pesce, soprattutto nei giorni in cui l’obbligo liturgico ad astenersi dal consumo di carne faceva del Trasimeno il polmone alimentare di Perugia: è in questo senso significativo che nel 1342 si ritenga insufficiente l’ormai tradizionale fornitura giornaliera, in tempo di Quaresima, di 20 some di pesce fra lasche e tinche, per metà a carico degli appaltatori della comunanza, per metà degli stessi pescatori. Se non si può parlare di un vero e proprio calmieramento dei prezzi da parte del Comune, la volontà di prevenire rincari artificiali appare palese. Lo Statuto del 1279 dimostra come Perugia si attivasse in tal senso fin dall’inverno, facendo risiedere al lago un bonus homo e un notaio con il compito di provvedere all’acquisto di pesce per diretto conto del Comune; ricevuto in città da un altro bonus homo e da un altro notaio, quanto acquistato in loco veniva pesato, prezzato e infine rivenduto

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Qui sopra Isola Polvese, cripta di S. Secondo. La sagoma ondulata di un’anguilla scolpita su uno dei capitelli.

al dettaglio, generando peraltro un utile incamerato dal governo cittadino. Lo Statuto del 1279 vieta inoltre a tutti i soggetti coinvolti nel commercio del pesce del Trasimeno – e in primo luogo all’ultimo anello della catena, i piscarii pisciaioli – di fare cartello; in quello del 1342, d’altra parte, si precisa che gli appaltatori della comunanza del lago, cosí come i pescatori, per la propria vendita al minuto di pesce possono contare su spazi cittadini distinti da quelli dei pescivendoli comuni, beninteso nel rispetto delle quantità e dei tempi stabiliti per evitare qualsiasi fibrillazione del mercato. Tali fibrillazioni, con tutti i risvolti economici del caso, erano malviste da Perugia, come prova la reazione di fronte all’inadempienza delle comunità lacustri rispetto alla quota di pesce loro assegnata. Già nel 1278 il Comune aveva aperto un procedimento per negligenza che coinvolgeva non una, ma cinque comunità del Trasimeno; invece, nel 1282, in occasione di una nuova inadempienza di ampia portata, si registrano i maggiori dettagli in fatto di singoli pescatori coinvolti e di multe comminate. I dati a disposizione suggeriscono come le pertinenze luglio

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scolpita una figura serpentiforme riconducibile appunto all’anguilla. Considerando che la riproduzione naturale di tale specie non può prescindere dal mare aperto, una simile attestazione iconografica supporta l’ipotesi che il Trasimeno comunicasse con il mare, magari attraverso un occasionale deflusso delle acque, a partire dalla costa sud in direzione della Chiana, che le anguille avrebbero potuto percorrere a ritroso. L’apertura dell’emissario braccesco, nel 1422, ha peraltro fornito alle anguille un itinerario alternativo, ampiamente sfruttato – come l’interruzione dell’immissione degli avannotti nel tardo Medioevo sta a indicare – almeno fino alla costruzione della diga di Corbara negli anni Sessanta del XX secolo. Nell’epistola Thrasimeni descriptio seu de felicitate Thrasimeni, redatta fra il 1457 e il 1458 dal vescovo e umanista Giovanni Antonio de Teolis, detto il Campano, rinveniamo la piú puntuale descrizione della cattura delle anguille con le arèlle, un sistema di pareti di canniccio che conduceva all’intrappolamento del pesce in apposite reti, i tofi: tale sistema – intorno al quale i pescatori navigavano con imbarcazioni di media grandezza, le caravelle – era diffuso nel sud-est del lago, dove l’habitat risultava incompatibile con un altro sistema di pesca ben attestato nel Medioevo, quello con i tori.

dell’Isola Maggiore fossero tra quelle aventi la piú elevata potenzialità piscatoria, e dunque il maggior numero di pescatori; il fatto che le multe risultino concentrate nella seconda metà del periodo quaresimale permette peraltro di intuire quanto, tanto piú alle prese con i consumi cittadini del frangente, la pesca sul Trasimeno potesse risultare umanamente gravosa. Gravosa e tuttavia – è bene ribadirlo una volta di piú – remunerativa: se non per i pescatori – che pure, a partire da alcune sporadiche attestazioni, potevano occasionalmente raggiungere un qualche benessere (vedi box a p. 60) – certo per gli appaltatori della comunanza e, sullo sfondo, per il Comune di Perugia. La contabilità perugina fra Due e Trecento del resto parla chiaro: tanto piú se sommati a quelli del contiguo Chiugi perugino, i proventi del Trasimeno arrivano a rappresentare una quota maggioritaria delle entrate annuali del Comune, quota idealmente sufficiente a sospendere la tassazione ordinaria.

Introiti provvidenziali

Se si può solo ipotizzare che dietro l’estinzione del debito comunale del 1234 ci fosse la ricchezza prodotta dal lago, il suo impiego è invece ripetutamente documentato a partire dagli anni Sessanta del XIII secolo: il Comune la spese per finanziare infrastrutture, saldare compensi, assoldare milizie; la stessa Fontana Maggiore ne avrebbe beneficiato, giacché le spese per la sua realizzazione furono coperte anche grazie al Trasimeno e al Chiugi. Sul lungo periodo, un simile flusso di denaro filtrò nell’im-

Isola Polvese. I resti del convento degli Olivetani e della chiesa di S. Secondo. XI sec.

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comunanza del trasimeno La pesca con i tori Il sostantivo toro viene dal latino torus, «piccolo colle». Sebbene attestati per la prima volta in un atto di donazione del 1074, i tori risalgono probabilmente all’Alto Medioevo, e sembrano correlati alla cultura latamente bizantina insistente all’epoca sul lago: stando a una recente analisi linguistica, il gergo legato a questa tecnica di pesca presenta infatti una chiara matrice greca. In termini pratici, i tori consistevano in ampi mucchi di fascine di quercia accatastati sul fondale del lago, a circa 3 m di profondità, con lo scopo di attrarre i pesci che cercano un riparo nella stagione fredda; richiedevano una

posizione sottovento e un fondale malleabile, il che aiuta a comprendere perché abbiano perlopiú trovato impiego presso le comunità della costa nord e delle isole. La donazione del 1074 indica la loro dimensione in circa 8,8 x 6,6 m, ma è verosimile che si potessero approntare anche tori piú piccoli, e certamente tori piú grandi. La loro posizione rispetto alla costa veniva scelta in base al livello del lago, mentre per la loro dislocazione sul fondale, stante l’evidente inopportunità di far collidere fra loro piú tori, si può supporre un’organizzazione reticolare dello spazio, dove i cumuli di fascine fungevano da punti di giunzione. Il loro peso nell’economia della pesca sul Trasimeno, quanto meno a partire dal Basso Medioevo, dovette essere preponderante: piú ancora che il loro numero complessivo – che ancora alla metà del XV secolo viene indicato dal già citato Campano (al secolo Giovanni Antonio de Teolis) in circa 2000 – è significativo che, stando allo Statuto perugino del 1342, le quote di pesce necessarie al mercato cittadino di Perugia venissero di fatto ripartite fra le comunità lacustri sulla base dei tori afferenti ciascuna di esse. A quel tempo, peraltro, i tori si direbbero esulare dalle proprietà dei pescatori: la cedola dell’appalto della comunanza del lago del 1406 li colloca fra le infrastrutture compravendute fra gli appaltatori di appalto in appalto; a ogni modo, la loro complessità strutturale era tale che, fra pertiche, fascine di quercia e reti di canapa, intorno a essi doveva essersi sviluppato un vero e proprio indotto.

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A sinistra particolare di un disegno dalla Trasimenide di Matteo dell’Isola, manoscritto che descrive la tecnica della pesca con i tori. 1537. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Sulle due pagine acquerelli di Elio Pasquali che ricostruiscono alcune fasi della pesca con i tori fra Basso Medioevo ed età moderna. 1. I tori dell’anno precedente vengono ritrovati e nuove fascine vengono aggiunte alle vecchie. 2. Giunta all’alba in prossimità dei tori, la flotta delle navi si scioglie; ciascun equipaggio prende la direzione del toro prescelto per la pesca del giorno; è ormai giorno e il navarca scende sul navigiuolo, piú piccolo e maneggevole, per prendere a vista le coordinate precise del mucchio sommerso (il listro); infine, ritrovato il toro, chiama a sé l’equipaggio della nave: la pesca può avere inizio. 3. Una nave e un navigiuolo legano fascine di quercia ai pali esterni della struttura. 4. Le reti vengono lentamente ritirate, intrappolando il pesce. 5. Le reti ormai piene vengono issate contemporaneamente dalle due imbarcazioni e travasate nel mutilo, un grande sacco di raccolta. luglio

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L’impiego e la manutenzione dei tori – stando alla descrizione che ne fa Matteo dell’Isola nella sua Trasimenide, nel 1537 – erano demandati alle compagnie di navi pescanti: ogni compagnia, composta da un navarca e da otto pescatori, rinfrescava e pescava tra i 50 e i 60 tori. La pesca di un toro era un’operazione molto lunga e complessa, che combinava lo smantellamento del rifugio del pesce allo strategico posizionamento delle reti; tanto per la pesca quanto per il rinfresco si utilizzavano imbarcazioni a fondo piatto – lunghe fino a 11 m e capaci di caricare 5/6 tonnellate di fascine, sufficienti a rinfrescare 12 tori – chiamate navi, che potevano contare su piú piccoli navigiuoli d’appoggio.

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maginario collettivo di Perugia, fino a diventare il bersaglio del sarcasmo di osservatori esterni: una novella del Sacchetti, redatta fra il 1385 e il 1392, vede il pittore Buffalmacco dileggiare i Perugini con il dipinto di un sant’Ercolano incoronato da una ghirlanda di lasche. Tra XIV e il XV secolo l’equilibrio dell’ecosistema lacustre comincia ad alterarsi in maniera profonda, sancendo l’inizio di una fase – il tardo Medioevo e l’intera età moderna – segnata da un livello medio delle acque molto superiore a quello desumibile ancora per il Basso Medioevo. L’inefficacia della regimentazione precedente deriva probabilmente dalla combinazione di piú cause naturali e umane, fra cui, da una parte, un lungo periodo di intense precipitazioni, e, dall’altra, la mancata manutenzione dei torrenti funzionali all’occasionale deflusso delle acque in eccesso: se del primo si rinvengono tracce anche nella prossima Valdichiana, la seconda può probabilmente ricondursi allo spopolamento causato dalle campagne militari e dalle ondate epidemiche trecentesche.

Una soluzione di scarsa efficacia

Alle prese con il problema rappresentato dall’innalzamento delle acque, la tumultuosa Perugia del primo Quattrocento sembra incapace di fornire una risposta tecnica scevra di considerazioni politiche. Ne è prova il caso dell’«emissario braccesco», vale a dire di quell’intervento infrastrutturale di ampia portata, realizzato fra 1420 e 1421 nell’ambito della signoria perugina di Andrea Fortebraccio (detto Braccio da Montone), che portò appunto alla costruzione di un emissario in galleria nei pressi di San Savino. L’opera, funzionale al deflusso delle acque in eccesso del Trasimeno nella pianura antistante l’attuale Magione, risulta in funzione già nel 1422, e tuttavia si rivelò fin da subito sostanzialmente inefficace: essa alimentò una serie di mulini a valle, ma, a causa delle scarse dimensioni e di una realizzazione a dir poco dozzinale, non incise in maniera significativa sul livello medio del Trasimeno. In termini tecnici, l’emissario sarebbe risultato piú facilmente realizzabile lungo la costa sud, dove un canale a cielo aperto avrebbe potuto recuperare quello che si può supporre essere stato un precedente emissario naturale verso la Chiana: tuttavia, un progetto simile non si sarebbe potuto sviluppare nel solo territorio perugino e, soprattutto, avrebbe impedito a Braccio di godere del consenso politico che un intervento piú complesso, quale una galleria, gli avrebbe assicurato. A ridosso dell’esperienza signorile, peraltro, Perugia entrò nell’orbita giurisdizionale dello Stato della Chiesa: la gestione dell’area lacustre, nello specifico, fu demandata alla Reverenda Camera Apostolica. Se si escludono alcuni interventi di restauro dell’emissario, il nuovo corso politico – che in senso lato venne meno solo con

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comunanza del trasimeno Il mestiere del pescatore

Obblighi e opportunità La tradizione piscatoria sviluppata da alcune famiglie, tanto piú nell’economia di quelle comunità professionali dotate di propri spazi chiamati poste – attestate già nel Duecento a Montigeto, Monte del Lago e altre località –, avrebbe fatto perno sia sulla manifesta lungimiranza in termini di salvaguardia del lago, sia sull’attenzione per i risvolti economici dei rapporti con Perugia. Si prenda l’obbligo del trasporto del pescato: in un consiglio cittadino del 1278 si stabiliva che i pescatori, in tempo di Quaresima, avrebbero dovuto sobbarcarsi il trasporto giornaliero in città di 10 some di tinche e 10 some di lasche, un obbligo da cui, secondo lo Statuto del 1279, sarebbero stati

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sollevati solo se avessero riconosciuto al Comune non il consueto terzo, ma la metà del pescato. Da fonti successive si deduce come la proposta – meno vantaggiosa per i pescatori che per il Comune, che avrebbe visto rincarare il prezzo dell’appalto della comunanza – fosse stata nei fatti rigettata. L’attenzione dei pescatori per la pescosità delle acque emerge invece in una petizione del 1314, con la quale si chiedeva al consiglio cittadino di tutelare l’ambiente lacustre e vietare la pesca con quegli strumenti, per esempio le reti a strascico, ritenuti dannosi per la riproduzione del pesce, in particolare della tinca; non è secondario che il consiglio cittadino abbia assecondato la richiesta.

In termini generali, dai documenti a disposizione, la pesca e l’agricoltura sembrano attività inconciliabili: fra Due e Trecento, i pescatori del Trasimeno – che pure risultano occasionalmente accollarsi rischi finanziari notevoli per l’acquisto o l’affitto dell’attrezzatura – sembrano non possedere terre, ma vivere del proprio mestiere e, al piú, dell’indotto correlato. La loro iscrizione all’Ars Piscium di Perugia, peraltro, non avviene prima della seconda metà del XIV secolo: soltanto allora intere comunità del lago – prima fra tutte quella dell’Isola Polvese, la cui forza lavoro maschile doveva constare all’epoca di circa trenta uomini – risultano a essa afferenti.

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Nella pagina accanto una veduta del Trasimeno al tramonto con il Monte Amiata sullo sfondo. A sinistra e in basso impianti e strumenti tradizionali di pesca e un plastico ricostruttivo della struttura di un toro. San Feliciano, Museo della Pesca del Lago Trasimeno.

Rievocazioni Dal 22 al 30 luglio è in programma, a Passignano sul Trasimeno (Perugia), la XXXIV edizione del Palio delle Barche, rievocazione storica dell’ultimo atto delle ostilità tra le famiglie perugine dei Baglioni e degli Oddi, una battaglia sanguinosa, di cui Passignano fu appunto teatro nel 1495 Info www.paliodellebarche.it l’unità d’Italia – non portò all’attuazione di interventi in grado di risolvere il nodo della fallimentare regimentazione del lago: l’intera area si avvitò progressivamente in una crisi inestricabile.

Sul viale del tramonto

Nel giro di pochi decenni, l’impatto delle acque alte sull’antropizzazione del Trasimeno, e piú ancora la loro repentina oscillazione, assunsero caratteri per certi versi drammatici, coinvolgendo gli abitati e le attività produttive. Piú ancora dell’occasionale danneggiamento degli edifici venuti a trovarsi a contatto con l’acqua – è il caso di Borghetto, fortificato nel 1385 e inondato piú volte a partire dal Quattrocento – balza agli occhi l’incidenza dell’arretrare della linea di costa sulle pedate e, a lungo andare, su alcune tecniche di pesca, fra tutte quella con i tori. Le pedate videro ridursi la loro estensione: il fisiologico riflesso di un lago laminare (ovvero molto esteso, ma poco profondo, n.d.r.) all’innalzamento di livello le portò a perdere tanto il confine stabilito in epoca comunale attraverso la cosiddetta pilastrazione, nonché il loro valore sul mercato degli appalti. Quanto ai tori, che pure erano ancora in funzione nel 1537, quando Matteo dall’Isola ne forní una puntuale descrizione nella sua Trasimenide, essi imboccarono una parabola discendente proprio nella seconda metà del XV secolo, in ragione della loro collocazione via via piú difficoltosa sullo specchio d’acqua: sovradimensionati fino a risultare antieconomici – tanto piú se raffrontati ad altri impianti fissi di tipo però spondale, come i cosiddetti

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porti per la cattura delle lasche documentati nella prima metà del Cinquecento – i tori vennero abbandonati nei primi anni del Seicento. E, nell’economia di un piccolo, grande mondo come quello del Trasimeno, il fenomeno segnò la fine di un’epoca. F

Da leggere Giovanni Riganelli, Signora del Lago, signora del Chiugi, EFFE-Fabrizio Fabbri Editore, Perugia 2002 Ermanno Gambini, Elio Pasquali, I tori. La gran pesca del Medioevo al lago Trasimeno, Edizioni Guerra, Perugia 1996 Carlo Cattuto, Ermanno Gambini, Claudio Marinelli, Il Trasimeno. La complessa gestione di un lago laminare, EFFE-Fabrizio Fabbri Editore, Perugia 2011

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immaginario lapislazzuli

Il cielo in una pietra

di Lorenzo Lorenzi

Conosciuto e apprezzatissimo fin dalla preistoria, il lapislazzuli divenne una delle materie prime piú ricercate dai pittori medievali. Che lo utilizzarono soprattutto per ottenere firmamenti intensi e veritieri oppure per tinteggiare il manto della Vergine

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ella pittura medievale capita sovente di osservare cieli stellati e mantelli di dame o di Madonne splendenti d’azzurro, con nuance iridescenti, dalle quali emergono pagliuzze dorate e argentate. «Magie» ottenute grazie al lapislazzuli, nome che non indica un minerale, bensí una roccia composta da un amalgama di minerali del gruppo della sodalite (lazurrite, pirite, calcite e inclusioni di pirosseni, anfiboli, miche); è detto anche Lazur o «azzurro oltremare», per la sua provenienza medio-orientale e per la bellezza del pigmento, che da sempre affascina l’uomo. Era amato da Sumeri, Babilonesi ed Egiziani, che, con tecniche raffinate, lo usavano per impreziosire monili di regine, pettorali di re, immagini divine, fregi architettonici e maschere funerarie. E, riguardo alla sua localizzazione ed estrazione, Marco Polo indicava nel Sar-e-Sang – nella valle del fiume Kokcha, afferente al distretto di Badakhshan (Afghanistan del Nord) – il piú grande giacimento conosciuto, da cui si estraeva il piú bel laspislazzuli del mondo. Una prima menzione del lapis è

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presente nel Livro de como se fazem as cores, databile al 1262 (Parma, Biblioteca Palatina, ms. De Rossi 945), ma la sua consacrazione definitiva è attestata da tre importanti fatti storico-culturali risalenti al XIII secolo: le crociate, l’istituzione del culto della Vergine e l’ascesa della monarchia francese.

Lo scudo dei re

Lo scudo seminato di gigli d’oro su campo azzurro contrassegna la stirpe dei re di Francia ed è attestato in araldica nel 1211 per volere di Luigi VIII, sostituito dai soli tre gigli dorati nel 1375, sebbene la leggenda identifichi la sua origine in Clodoveo, il quale, avendo adottato dopo il battesimo la bandiera di san Martino di Tours, dette avvio alla stirpe dei re cristianissimi e taumaturghi: il campo azzurro dello scudo regale simboleggia la presenza di Cristo sul popolo dei Franchi, parimenti il giglio, variazione dell’Iris pseudacorus o «iris delle paludi» (noto anche come giaggiolo acquatico, n.d.r.), è immagine della fede perenne. Un altro tassello al consolidamento del blu in Europa si deve a Luigi IX di Francia, il re santo, la cui

Particolare di una miniatura raffigurante l’incoronazione di Luigi VIII il Leone, da un manoscritto delle Grandes Chroniques de France. 1455-1460 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. L’intera scena è avvolta dal campo azzurro con i gigli d’oro, che proprio Luigi VIII volle come emblema della corona francese.

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immaginario lapislazzuli biografia si intreccia con l’epopea delle crociate. In particolare, egli divenne protagonista della settima (1249-1254), al fianco di Roberto I d’Artois, Alfonso III di Poitiers, Carlo d’Angiò e dei duchi di Bretagna e di Borgogna, assieme a un esercito di circa 15 000 uomini; per i crociati, il colore oltremare identificava la Terra Santa e i luoghi del cristianesimo primitivo, e con esso furono realizzati sfondi stellati nelle miniature, nelle vetrate e tutti i vestimenti di re Luigi, responsabile della diffusione dell’azzurro nelle corti d’Europa, imitato con acume da Enrico III d’Inghilterra.

Una figura umanissima

Nella dimensione strettamente liturgica, il suo utilizzo è connesso alla nascita degli Ordini mendicanti (Domenicani, Francescani, Agostiniani, Carmelitani e Servi di Maria), fondatori della devozione popolare

Le prime attestazioni

Il segreto di Gilgamesh «Lapislazzuli» deriva dal latino lapis (pietra) e dall’arabo iazuward, che, a sua volta, discende dal persiano, a significare azzurro. Dall’Afghanistan veniva esportato mediante le rotte commerciali che toccavano la Mesopotamia, l’Egitto, la Grecia, l’impero romano, l’India, la Cina e il Giappone. Il geografo persiano Ibrahim al-Istakhri (X secolo) riferisce di avere visitato le miniere afgane rimanendone stupefatto. Le 16 tombe reali (databili dal 2600 al 2300 a.C.) della città sumera di Ur contenevano piú di 6000 inerente la contemplazione della vita di Cristo come uomo fra gli uomini nella povertà; da qui un’indiretta attenzione alla madre di Gesú, che i Vangeli presentano accompagnatrice del Figlio negli episodi della Passione, Morte e Resurrezione. La Vergine assume la qualifica di medium fra il figlio di Dio e l’umanità stessa, essendo sí pura e misericordiosa, ma anche sentimentalmente umana.

In basso particolare di una miniatura raffigurante la pittrice greca Timarete (attiva forse nel IV sec. a.C.), che, con un vistoso salto temporale, dipinge un’icona della Vergine col Bambino, da un’edizione del De mulieribus claris di Giovanni Boccaccio. 1402. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In secondo piano, l’apprendista frantuma il lapislazzuli, per ottenere il pigmento con cui l’artista sta colorando il manto della Vergine.

tecnologia

Una ricetta laboriosa La tecnica usata per realizzare la pasta d’azzurro oltremare fu descritta da Cennino Cennini nel Libro dell’Arte (XV secolo) e rimase invariata almeno sino alla fine del Settecento. Si arroventava la pietra con l’ausilio di carboni ardenti e, in un secondo momento, la si stemperava con aceto bianco distillato o con acqua di vite; poi si passava alla macinatura piú o meno fine mediante un mortaio in bronzo: il tutto si conservava in un vaso di terracotta. Separatamente veniva preparata una pasta composta da 1 parte (120 grammi circa) di cera gialla, 1 di trementina, 1 di raggia e 1 di olio di lino, che veniva fatta bollire a fuoco lento e successivamente raffreddata in una bacinella. Si univano la pasta e la polvere mescolando bene, per poi lasciar riposare il composto per una notte su una lastra di marmo: vi si doveva quindi versare sopra dell’acqua, cosí da ottenere l’oltremare puro una volta che il liquido fosse evaporato. La stesura su porzioni di muro avveniva solo dopo l’integrazione con uovo od olio, indispensabili per rendere il composto malleabile. Alla fine del Rinascimento, all’oltremare si cominciarono a preferire l’indaco e il guado, piú facili da ottenere e meno costosi.

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statuette, ma anche piatti, perle e sigilli in lapislazzuli; l’oggetto piú pregiato è il celebre stendardo con inserti di lapislazzuli sullo sfondo. Nel poema di Gilgamesh (2650 a.C. circa), si raccontano le gesta di un re di Uruk e il narratore, probabilmente un sacerdote della dea Ishtar, rivolgendosi a uno scriba, chiede di cercare il racconto segreto che il re Gilgamesh aveva lasciato («Adesso vai a cercare / La piccola cassa di rame. / Prendi l’anello di bronzo / Apri il pomello segreto / Ed estrai la tavoletta di lapislazzuli. / Cosí scopriremo come Gilgamesh / ha superato tante prove»). Nella letteratura biblica, di lapislazzuli era costituito il pettorale del Sommo Sacerdote di Gerusalemme, mentre nell’antico Egitto fu usato come lastra basamentale sulla quale scrivere il Libro dei Morti.

In questa pagina Presentazione al Tempio, tempera e oro su tavola di Ambrogio Lorenzetti. 1342. Firenze, Galleria degli Uffizi. Il dipinto è la parte centrale di un trittico i cui laterali, con San Crescenzio e San Michele arcangelo, sono andati dispersi. L’opera venne eseguita per l’altare di S. Crescenzio nel Duomo di Siena. Si può notare come l’azzurro intenso del manto della Vergine, ottenuto con il pigmento a base di lapislazzuli, risulti quasi fosforescente.

Come Cristo, la Vergine veste un manto azzurro, a simboleggiare l’assunzione in cielo della sua anima. Di fine lapislazzuli Duccio da Buoninsegna colora le sue Madonne e gli scomparti della predella della Maestà, e ugualmente fulgide appaiono le Madonne di Ambrogio Lorenzetti, che amava impreziosire i mantelli in lapislazzuli reso alla stregua di una vellutata micropolvere: ne sono esempi la tavola della Presentazione al Tempio e la Piccola Maestà, contrassegnate dalla pregnanza d’azzurro sugli altri pigmenti, tanto da farlo sembrare fosforescente.

Un’aura luminosa

Sul versante fiorentino, un effetto non dissimile viene sperimentato con frequenza dal Beato Angelico e da Benozzo Gozzoli, ma, in precedenza e piú intensamente, Nardo di Cione, nella pala alla National Gallery di Londra, tinge d’azzurro il manto e la veste di San Giacomo, circoscrivendo l’intera figura entro un’aura luminosa e pervenendo a una soluzione tridimensionale del pigmento stesso per un impianto figurativo basato essenzialmente sulla bidimensionalità. Lorenzo Monaco (al secolo Piero di Giovanni) sperimenta l’impiego dell’oltremare con effetti iridescenti nel polittico dell’Incoronazione della Vergine per il monastero camaldolese di S. Maria degli Angeli a Firenze: l’ultimo restauro ha rilevato (segue a p. 68)

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immaginario lapislazzuli Polittico con Incoronazione di Maria Vergine, episodi della vita della Madonna e di GesĂş, storie di San Benedetto, tempera e oro su tavola di Lorenzo Monaco (al secolo Piero di Giovanni). 1413. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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A destra miniatura con l’allegoria del mese di Maggio, dalle Très Riches Heures du Duc de Berry opera dei fratelli Limbourg. 1411-1416. Chantilly, Musée Condé.

Non solo i pittori, ma anche i miniatori amavano servirsi della «pietra del colore del cielo» 67


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Qui sopra Annunciazione, miniatura di Michelino da Besozzo dal Libro d’Ore noto come Offiziolo Bodmer. XV sec. New York, Pierpont Morgan Library.

una polvere finissima, stesa in dosi massicce a riempire le campiture del mantello di Cristo, delle vesti dei santi e tutta l’Annunciata ritratta su una cuspide, conferendo alla figurazione nel suo insieme un’atmosfera surreale e metafenomenica. Al crespuscolo del Medioevo, Gentile da Fabriano impiega l’oltremare in maniera discontinua, alternandolo all’azzurrite; degno di nota è quel che rimane del ciclo di affreschi (perduti) della cappella bresciana di S. Giorgio al Broletto: il lacerto che riferisce una scena di paesaggio con castello antistante presenta un cielo in azzurro elettrico, ottenuto con la finissima triturazione di lapislazzuli. Nel campo della miniatura, Michelino da Besozzo non tradisce il suo amore per questa polvere e,

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nell’Offiziolo Bodmer, molte immagini sono contrassegnate dall’oltremare in microcampiture decorative e in scene istoriate; in ambito nordico, i fratelli Pol, Hermant e Jehannequin de Limbourg realizzano con quel colore tutti i cieli stellati nelle storie dei mesi nel codice intiolato Le Très Riches Heures du Duc de Berry (1411-1416 circa).

Il sogno dell’imperatore

Un’antica attestazione dell’impiego di lapislazzuli e azzurrite risiede nell’affrescatura dell’oratorio di S. Silvestro del convento romano dei Ss. Quattro Coronati, riferita al terzo Maestro di Anagni, con il ciclo della Leggenda di Costantino e San Silvestro. Realizzato in una fase successiva alla canonizzazione di san Domenico (1234), ma non oltre il 1250 – ritenuto peraltro modello per la dipintura del Sancta Sanctorum e della basilica di Assisi –, il complesso ciclo pittorico integra sapientemente le due polveri a connotare vesti,

cieli e sfondi; in molte scene il blu splende come vero protagonista della figurazione. In scene come Pietro e Paolo appaiono in sogno a Costantino e Silvestro risuscita il toro ucciso risalta la lucentezza azzurra integrata con pastelli rosati, aranciati, verdastri e carminio: una tavolozza pittorica che vira sul binomio azzurrite/lapislazzuli, diversamente da quanto espresso nei due cicli di Subiaco e Anagni, sempre dello stesso artista, ma precedenti, nei quali la polvere di lapis sembra essere assente. Se di azzurrite è dipinta la volta celeste della Cappella degli Scrovegni di Giotto – che per ossidazione ha assunto in alcuni punti una colorazione verde malachite (prima del restauro) –, il manto bordato d’oro di Maria nella Maestà di Ognissanti è invece in polvere di lapis stesa in maniera cosí uniforme da sembrare pura tempera, una raffinatezza riscontrabile anche nella gamma cromatica strutturata sul blu oltremare, unita alle sfumature luglio

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In alto Roma, basilica dei SS. Quattro Coronati, oratorio di S. Silvestro. Particolare del ciclo della Leggenda di Costantino e San Silvestro raffigurante l’imperatore colpito dalla lebbra. 1246. A destra Madonna con Bambino e santi nota come Maestà di Ognissanti, tempera e oro su tavola di Giotto. 1302-1305. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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immaginario lapislazzuli I Santi Pietro e Dorotea, particolare di un’anta di altare dipinta a olio, attribuita al Maestro dell’Altare di San Bartolomeo. 1505-1510 circa. Londra, National Gallery.

Le varianti

Alternative minerali e vegetali Le varianti del blu oltremarino sono l’azzurrite, il guado e l’indaco. L’azzurrite è un minerale di carbonato basico di rame estratto in Europa e conosciuto nel Medioevo come «blu d’Alemagna»: un celeste pallido con inflessioni verdastre. Citato da Teofilo (XII secolo) nel trattato De diversis artibus, veniva macinato abbastanza finemente e poi mischiato con colla animale. Il dipinto del Maestro dell’Altare di San Bartolomeo con i Santi Pietro e Dorotea presenta l’utilizzo di due tipi di azzurrite: una per la veste, ove la polvere è stata macinata di rosa, bianchi, gialli e verdi, che caratterizza il transetto destro della Chiesa Inferiore della basilica di Assisi affrescato dal maestro assieme alla bottega con episodi dell’infanzia di Cristo.

Effetti sorprendenti

Nel periodo dell’Umanesimo, con l’avvento delle nuove tecniche, l’oltremare e l’azzurrite cedono il posto all’indaco e al guado, certo piú malleabili e soprattutto meno costosi. Tuttavia, eccezionalmente, Jan van Eyck dipinge intorno al 1430 un ritratto con la tecnica a olio mantenendo il laspislazzuli per il blu. Si tratta dell’Uomo con anello, abbigliato di cappotto di pelliccia, che presenta un fosforescente chaperon ottenuto dalla rigorosa diluizione della suddetta polvere: l’effetto è sorprendente e i colori oleosi, che solitamente appaiono traslucidi, nulla possono rispetto al penetrante bagliore dell’oltremare. Sebbene nel Rinascimento il suo impiego sia sempre piú sporadico, il fascino presso le grandi personalità

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cercando di mantenere una grana grossa (la piú costosa), e per questo motivo la saturazione è intensa, mentre per i polsi fu utilizzata azzurrite meno costosa e di grana fine. Anche Albrecht Dürer si affidava all’azzurrite locale per comporre i suoi blu piú intensi, come, per esempio, per la tavola di Gesú fra i dottori.

Il guado (Isatis tinctoria), pianta medicamentosa, veniva triturato nella parte fogliacea e poi lasciato macerare per qualche giorno, aggiungendo alla fine calce e urina; il liquido giallognolo diventava azzurro per mezzo dell’ossidazione. Sul piano visivo, la resa risultava assai meno suggestiva. L’indaco è un colorante di origine vegetale derivante dall’arbusto dell’Indigofera tinctoria e impiegato anche per scopi medicinali; per la pittura occorreva comporre una lacca pigmentosa, come attesta un manoscritto del XII secolo, realizzata con marmo bianco macinato unito al letame caldo; si riponeva il tutto entro un calderone per un giorno e una

notte, successivamente si iniziava a mischiare il composto finché non si formava una densa schiuma, da stendere su muro o tavola e con la quale si bagnavano i panni. In alto un cristallo di lazurite, uno dei principali componenti del lapislazzuli. A sinistra un campione di lapislazzuli. I piú ricchi giacimenti del minerale si trovano nell’odierno Afghanistan.

Da leggere Cennino Cennini, Il libro dell’arte, a cura di Fabio Frezzato, Neri Pozza, Vicenza 2009 Cecilia Frosinini, Il blu dei santi e dei re, in Maria Sframeli (a cura di), Lapislazzuli. Magia del blu (catalogo della mostra, Firenze, 9 giugno-11 ottobre 2015), Sillabe, Livorno 2015; pp. 123-133 Michel Pastoureau, Dominique Simonnet, Il piccolo libro dei colori, Ponte alle Grazie, Milano 2006 Gino Piva, Tecnica pittorica: acquarello e tempera, Ulrico Hoepli, Milano 1959

Gesú tra i Dottori (particolare), olio su tavola di Albrecht Dürer. 1506. Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza.

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dell’arte rimane invariato: Filarete, nel suo Trattato d’architettura (1464), lo definisce «Il blu piú bello è ricavato da una pietra e proviene da terre al di là dei mari» e Leonardo da Vinci impiega la preziosa polvere nella Madonna dei Fusi, integrandola con il pigmen-

to a olio; nell’Ultima Cena, le figure smaglianti degli apostoli sono magnificamente realizzate applicando il lapislazzuli sopra uno strato basico di azzurrite, eccezion fatta per Giuda, colorato con sola azzurrite frammista a semplice lacca rossa.

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architettura militare

La miglior difesa è... la lana di Flavio Russo

L’avvento delle armi da fuoco dimostrò quanto fosse poco redditizio, in caso di assedio, puntare sulla robustezza delle difese: crescendo la velocità dei colpi e dunque la forza degli impatti, era infatti preferibile aumentare le capacità di assorbimento delle mura 72


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In alto, sulle due pagine l’assedio di Maometto II a Costantinopoli (1453) in una delle pitture murali della chiesa di S. Giorgio a Voronet (Bucovina, Romania). Metà del XVI sec. Qui sopra bombarda a doghe di ferro a retrocarica. XV sec.

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tando alle piú attendibili analisi sulle prestazioni balistiche, le piú potenti artiglierie elastiche di età classica potevano scagliare palle che non eccedevano la velocità di 60-80 m/s (metri al secondo): certamente non pochi, ma del tutto insufficienti sia per abbattere mura piú spesse di un paio di metri, sia per sbrecciarle significativamente. Di conseguenza, durante gli investimenti ossidionali, neppure le maggiori baliste palintone (quelle che, per lanciare, ruotavano i bracci verso l’interno, n.d.r.) effettuarono mai tiri di demolizione, limitandosi alla distruzione delle schermature posticce lignee che defilavano i difensori schierati lungo gli spalti, cosí da lasciarli esposti, inermi, alle frecce degli archi, ai sassi delle fionde e ai dardi delle catapulte. Dal punto di vista architettonico, proprio per la modestia degli impatti non si adottò alcun rinforzo alla base delle cortine e al piede delle torri – la scarpa –, poiché non se ne temeva il crollo anche dopo reiterati urti con gli arieti, che, non a caso, agivano battendo e scardinando gli stipi e i piedritti delle porte. La situazione non

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architettura militare mutò piú di tanto nel secolo successivo all’invenzione e, soprattutto, all’adozione della polvere pirica come propellente, agli inizi del Trecento, tanto che a quelle arcaiche armi da fuoco non si diede nemmeno un nome e si continuò a definirle «tormenta» (plurale di tormentum), sebbene tonanti! Inizialmente, del resto, sia per la fin troppo rozza e approssimata costruzione delle bocche da fuoco e delle relative palle di pietra, sia per l’eccessiva tolleranza fra il diametro dell’anima delle prime e la scarsa sfericità delle seconde, la velocità iniziale di quest’ultime non superò quella fornita dalle baliste.

Corsa al gigantismo

Nel XV secolo si uscí finalmente dallo stallo, avviando la costruzione di artiglierie assai piú precise e accurate, sia che fossero di doghe di ferro saldate, sia di bronzo colato. Di conseguenza, la velocità iniziale – che, insieme alla massa dei proietti, determina la potenzialità distruttiva dell’arma – crebbe sensibilmente, restando però ancora al di sotto di quella minima necessaria per promuoverle a macchine termiche per demolizioni a distanza. Per incrementare la forza viva dei proietti, cosí da potenziarne gli impatti, se ne aumentò la grandezza: tale soluzione richiese ovviamente l’ampliamento delle relative bocche da fuoco, innescando una corsa al giA destra la il Cannone dei Dardanelli (o Grande Bombarda Turca), un poderoso cannone da assedio entrato in servizio nel 1464 e usato per l’ultima volta nel 1807. Portsmouth, Fort Nelson.

Qui sopra replica in miniatura di un cannone in bronzo del 1570.

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gantismo che ebbe nelle mostruose bombarde turche utilizzate nell’assedio di Costantinopoli il suo apice. L’espediente, che a lungo rese grosse ma non grandi le artiglierie, determinò lo speculare accrescimento delle fortificazioni, a partire dall’adozione di scarpe progressivamente maggiori e piú inclinate. Da tempo, infatti, si sapeva che la violenza degli impatti decresceva con l’allontanarsi della traiettoria delle palle dalla perpendicolare alle mura, fino a provocarne il rimbalzo. Proprio per proteggere i difensori da tale micidiale effetto contro le merlature, si introdusse – tra la sezione luglio

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A destra Pompei. Crateri da impatti balistici sull’estradosso delle mura riferibili all’assedio a cui la città fu sottoposta nell’89 a.C. dalle truppe romane guidate da Lucio Cornelio Silla. Nella pagina accanto, in alto «misura dell’alzo di una bombarda con l’equilibra», da un’edizione manoscritta dell’Ex ludis rerum mathematicarum di Leon Battista Alberti. XV sec. Firenze, Biblioteca Riccardiana.

inclinata e quella perpendicolare delle fortificazioni un robusto cordone torico – il redondone. Tuttavia, l’incremento degli spessori murari e dell’inclinazione delle scarpe – che, insieme all’abbassamento delle strutture, fu la connotazione piú vistosa della cosiddetta «architettura di transizione» – perse ogni validità ostativa, allorquando le artiglierie riuscirono a scagliare le loro palle, divenute nel frattempo di ferro fucinato, con velocità eccedenti quella del suono. L’evento segnò la fine delle cerchie urbiche e delle fortezze di concezione classica – per massicce che fossero state – e, in special modo dei castelli, inesorabilmente distrutti dai bombardamenti, ponendo cosí fine al Medioevo.

Velocità supersonica

Parlare dell’esistenza di oggetti supersonici nell’antichità o sul finire del Medioevo sembrerebbe a prima vista un anacronismo, dal momento che il superamento della velocità del suono (circa 331m/s nell’aria pari a 1237 km/h) risale al 14 ottobre del 1947. Eppure quel limite viene infranto innumerevoli volte al giorno da almeno tre millenni: la frusta, per esempio, prima di abbattersi sul dorso degli animali da tiro, fendendo l’aria, fa superare alla sua estremità libera la velocità del suono, causando lo schiocco che emette il suo caratteristico «bang». Tuttavia, al di là di questa misconosciuta manifestazione, la palla di bombarda superò per la prima volta la mitica barriera nella prima metà del XVI secolo, quando il matematico Niccolò Tartaglia (1499 crica-1557), si

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occupò di balistica. Fu allora appurato, con buona attendibilità, che per le lunghe colubrine e gli altrettanto lunghi cannoni campali, le velocità iniziali delle palle fossero notevoli, comprese fra i 700 e gli 800 m/s. Nel frattempo, inoltre, si erano diffuse le palle di ferro che, a parità di peso, consentivano di adottare calibri piú piccoli, quindi cannoni piú leggeri e maneggevoli, e, soprattutto, velocità iniziali maggiori, non essendovi piú il rischio di frantumare la palla al momento dello sparo per eccesso di carica. Con l’avvento delle palle di ferro, l’espediente di rivestire l’estradosso delle mura con conci di durissima pietra – basalto o granito – si rivelò subito controproducente, poiché, mancando ogni deformazione conseguente all’impatto dei proietti, non si aveva piú alcuna attenuazione della forza viva, che sgretolava perciò agevolmente la massa muraria. Per avere un’idea di che cosa significhi la velocità nell’impatto, una palla di ferro di 20 kg, circa 18 cm di diametro, per la formula dell’energia cinetica E= ½mv², dove E è l’energia espressa in Joule, m è la massa in kg e v la velocità in m/s, scagliata a 200 m/s cede al bersaglio 10 x 40.00=400 000 Joule. Entità che sale a 6 400 000 per 800 m/s e risulta appena superiore a quella impartita a un muro dall’impatto di un locomotore del peso di 100 tonnellate lanciato a 42 km/h! Poiché fin quasi agli inizi del XIX secolo, tanto la forma che le prestazioni dei cannoni mutarono pochissimo da quelli trascinati in Italia da Carlo VIII nel 1494, una significativa testimonianza asserisce che nel 1802

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architettura militare le «palle di cannone [hanno] mercé all’azion della polvere, velocità tale da potere iscorrere talvolta 2000 piedi [648 m] in un secondo». Non mancano, tuttavia, riscontri piú antichi e persino piú stringenti circa tiri supersonici, come si legge a proposito della bombarda in un trattato composto intorno al 1490 da Francesco di Giorgio Martini (1439-1501): «Lo impeto della quale solo a chi con li sensi lo comprende è credibile, perochè piú veloce è el moto della pietra impulsa da quella dell’orrendo strepito alle urecchie delli circostanti». Avvilite sono le deduzioni: «Li moderni ultimamente hanno trovato uno istrumento di tanta violentia, che contro a quello non vale gagliardia, non armi, non scudi, non fortezza di muri peroché con quello ogni grossa torre in picciol tempo è necessario si consumi (…) Onde considerati li edifici per fortezze fabbricati in Italia massimamente si può dire con verità che non sia rocca alcuna o fortezza che per via di bombarde, gittando le mura a terra, overo le offese, non si possi espugnare e debellare». Appena quattro anni piú tardi, anche Niccolò Machiavelli esprimeva l’identica conclusione: «L’impeto delle artiglierie è tale che non trova muro, ancora che grossissimo, che in pochi giorni ei non abbatta». Né Martini, né Macchiavelli immaginarono che pro-

prio dai cumuli di macerie prodotti dal bombardamento sarebbe scaturito il criterio informatore della nuova architettura militare. In quegli informi ammassi, infatti, le palle di cannone si arrestavano innocue: facile a quel punto intuire che, sostituendo alle dure e spesse corazze lapidee delle fortificazioni precedenti, tenere e sottili mura di mattoni, costipate di soffice terra alle spalle, si sarebbe ottenuta la medesima immunità. In definitiva una concezione ostativa che sostituiva al netto contrasto agli impatti il loro assoluto assorbimento: al muro di pietra succedeva... il muro di gomma!

Il muro di gomma

Per la verità, una sorta di anticipazione della difesa ad assorbimento d’urto ci viene, intorno al 1450, da Leon Battista Alberti (1404-1472), quando suggeriva di costruire cortine poggiate su fughe di archi con le cavità sottostanti riempite «con paglia ad argilla mescolata e con stanghe battuta. Di qui avverrà che l’empito de le machine da l’argilla tenera sostenuto, sia vano. Non potrarsi etiamdio aprire il muro, se non di luogo in luogo fargli in piú luoghi finestre, che agevolmente si potranno otturare, e cosí non sarà il muro men fermo».

Sulle due pagine il castello di Giulio II a Ostia Antica (Roma). La rocca fu edificata dall’architetto Baccio Pontelli per volere del cardinale Giuliano della Rovere, futuro papa Giulio II, tra il 1483 e il 1486.

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Una singolare conferma di quella stravagante considerazione si ebbe qualche anno dopo, nel 1453, durante l’assedio di Costantinopoli dove, stando alle cronache, il genovese Giovanni Giustiniani, il 18 aprile, comandò di calare balle di lana dinanzi alle mura piú minacciate per attutire i micidiali colpi delle bombarde ottomane. Forse perché mal condotta, forse perché la pioggia battente, inzuppando le balle, le aveva indurite, l’espediente tradí le aspettative. Pieno successo, in-

In alto miniatura raffigurante le truppe francesi di Carlo VIII che fanno il loro ingresso a Napoli, da un’edizione della Cronaca del Ferraiolo. 1498 circa. New York, Pierpont Morgan Library. Nel registro inferiore, le didascalie specificano il trasporto dell’«Artegliaria» e di «Palle de fierro» e «Sache de farina».

vece, arrise a Michelangelo quando nel 1529 ripropose il medesimo rimedio, per proteggere il campanile di S. Miniato dalle cannonate di Carlo V. Ma a quel punto la nuova architettura militare definita «fortificazione alla moderna» o, piú di recente, trace italienne, si era imposta ovunque con un proliferare di opere perfettamente in grado di sopportare gli impatti delle palle ultrasoniche, quale ne fosse stata la velocità. F

Da leggere Flavio Russo, Le artiglierie delle legioni romane, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2004 Giuseppe Saverio Poli, Elementi di fisica sperimentale, Angelo Trani, Napoli 1822 Francesco di Giorgio Martini, Trattati di architettura, ingegneria e arte militare, a cura di Corrado Maltese, trascrizione di Livia Maltese Degrassi, Il polifilo, Milano 1967 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di Corrado Vivanti, Einaudi, Torino 2000 Leon Battista Alberti, L’arte di costruire, a cura di Valeria Giontella, Bollati Boringhieri, Torino 2010

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di Furio Cappelli

Regina dei mari Città di armatori, condottieri e grandi mercanti, Genova divenne una delle «grandi potenze» del Medioevo, contendendo a Pisa e Venezia il monopolio delle rotte e dei relativi guadagni. Una vocazione internazionale che ebbe per protagonisti gli stessi uomini che l’arricchirono di architetture insigni Genova, Palazzo di S. Giorgio. Affresco raffigurante san Giorgio e il drago, frutto dell’interpretazione del perduto originale seicentesco realizzata da Raimondo Sirotti nel 1990. L’edificio è uno dei simboli del Porto Antico della città: le sue forme attuali costituiscono infatti l’esito finale dei rimaneggiamenti che interessarono l’originario palatium maris, il cui cantiere fu avviato nel 1257.


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ra le città d’Italia, Genova è «la superba», come già ebbe a definirla Francesco Petrarca (1358), per il quale era anche la «signora del mare», grazie ai successi riportati nelle attività economiche e nelle imprese militari. Nonostante una fama di cosí antica data, quando passiamo a considerare la realtà della città, ci accorgiamo di conoscerla troppo poco. Sono da tempo noti i palazzi nobiliari di origine cinquecentesca affacciati sulla Strada Nuova (via Garibaldi), ma rimane da scoprire un pullulare di elementi e di brani che compongono, nel loro insieme, un’immagine ancora avvincente della Genova medievale. Nel 2016, proprio tra due residenze di via Garibaldi, i palazzi Bianco e Tursi, è stato inaugurato un camminamento museale che permette di rievocare la grande chiesa scomparsa di S. Francesco di Castelletto, la cui costruzione fu intrapresa nel 1250 in questa stessa area, sotto la spianata che accoglieva la residenza fortificata dei signori di Genova (XIV-XV secolo). Nella chiesa, lunga ben 76 m, si ammirava il monumento funebre di Margherita

di Brabante, moglie dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, morta di peste a Genova nel 1311. Realizzata nel 1313-14, l’opera era dovuta all’ingegno di Giovanni Pisano e, tra i frammenti superstiti (oggi conservati nel Museo di S. Agostino), è indimenticabile il gruppo dell’ascesa al cielo della sovrana.

Persistenze dell’antico

Oltre a raccogliere i frammenti della decorazione dell’edificio, il percorso ne mette in evidenza alcune parti recuperate grazie agli scavi (in par-

In alto, sulle due pagine particolare del rilievo in marmo raffigurante l’Adorazione dei Magi, attribuito a Giovanni Gagini, posto in via degli Orefici 47. XV sec. In basso, sulle due pagine una veduta della città di Genova.

ticolare le aree sepolcrali), e conduce infine a un cortile dove un palazzo condominiale svela nella propria muratura le alte colonne, i capitelli e i residui degli archi che delimitavano sul lato sinistro la navata centrale. Sull’intonaco spicca bene l’alternanza tra conci di tonalità chiara e scura delle strutture medievali, che è un tratto tipico dell’edilizia elitaria genovese sin dal XII secolo, e si ha cosí un saggio della persistenza della città antica nel vivo delle strutture abitative tuttora in uso, anche se realizzate in epoche recenti.


In alto disegno raffigurante la chiesa di S. Francesco di Castelletto, eseguito da Pietro Battista Cattaneo negli anni 1595-1600.

Si tratta di una pratica diffusa, che si svela nell’intrico dei carrubei (le originarie vie carraie) e dei vicoli. Spesso si stagliano monumenti di innegabile impatto, ma affascina in modo particolare proprio la fitta tessitura delle strade, con i suoi palazzi e le sue torri medievali ancora evidenti. Proprio le cospicue dimensioni e le alte qualità costruttive hanno permesso la sopravvivenza degli edifici nobiliari del Medioevo, in brani piú o meno estesi, variamente riplasmati nell’edilizia moderna e contemporanea. Si possiede cosí

una rara profusione di indizi sull’architettura civica medievale, che a Genova rivaleggia con le stesse chiese per imponenza, raffinatezza dei paramenti e ricchezza degli ornati (si vedano, per esempio, i capitelli istoriati di via S. Bernardo, al n. 18, opera delle stesse maestranze che lavoravano nel cantiere della cattedrale). Per effetto degli spazi spesso ristretti, gli edifici sono accalcati e fanno a gara ad attrarre l’attenzione con la spinta verso l’alto delle loro facciate, che si distinguono l’una dall’altra per una miriade di elementi caratteristici, sia sul piano architettonico che su quello prettamente decorativo: una muratura a bugnato oppure a fasce di colore alternato, l’arco tamponato di un por-

tico o di una bottega, una polifora murata, una sovrapporta del Quattrocento, ossia un tipico pannello istoriato situato sopra agli ingressi, con scene araldiche ricorrenti (San Giorgio che uccide il drago) oppure con composizioni fittissime di strepitosa maestria (l’Adorazione dei Magi in via degli Orefici 47, attribuita a Giovanni Gagini, 1460 circa).

Sobrietà del quotidiano

Il movimento e il vociare delle persone sono tutt’uno con questa scenografia urbana, che trae la sua forza dalla propria ininterrotta vitalità. La bellezza dell’elemento scultoreo o della partitura architettonica della facciata deve la propria efficacia a questo contatto viscerale con una (segue a p. 84)


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LE DATE DA RICORDARE 643 Il re longobardo Rotari conquista la Liguria e Genova viene saccheggiata. 806 Ademaro, conte di Genova, muore in Corsica durante un’azione antisaracena promossa da Pipino re d’Italia, figlio di Carlo Magno. 934-935 Genova subisce un grave attacco saraceno. Le fonti islamiche parlano di 8000 prigionieri. 958 Il re d’Italia Berengario II e suo figlio Adalberto, associato al trono, riconoscono ai Genovesi i beni che detengono fuori e dentro le mura. 1015-16 Forse su ispirazione di papa Benedetto VIII, Pisa si allea con Genova e compie un attacco contro Musetto (Al Mudjahid), il sovrano delle isole Baleari che teneva sotto scacco la Sardegna. 1087 Su impulso di papa Vittore III, Genova si allea con Pisa, Amalfi e Salerno per la conquista di Mahdia, città costiera della Tunisia. 1096 Papa Urbano II si attiva per il coinvolgimento della città nella I crociata, che viene predicata con successo nella concattedrale di S. Siro. 1097, Parte alla volta della Terra Santa un luglio contingente di circa 1000 Genovesi. La spedizione, gestita in forma privata da un gruppo di armatori, contribuisce

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all’assedio di Antiochia (oggi in Turchia), che viene conquistata l’anno successivo. 1098 Re Boemondo di Antiochia dona ai Genovesi una chiesa in città con la relativa piazza, unitamente a un fondaco, a un pozzo e a 30 case. 1099, Nuova spedizione crociata, in forma luglio pubblica, sotto la guida di Guglielmo Embriaco in qualità di console dell’armata genovese. Il contingente partecipa all’assedio e alla conquista di Gerusalemme. 1100, Nuova spedizione in Terra Santa sotto agosto la guida dell’Embriaco. I Genovesi contribuiscono alla caduta di Cesarea di Palestina, oggi in Israele (1101). 1104 Concessioni ai Genovesi da parte di re Baldovino I di Gerusalemme. Nello stesso anno la città ligure partecipa alla conquista di Gibelletto, l’attuale Jubeil (Libano), e di Acri (Israele). 1109 Su impulso dei conti Giordano di Cerdagna (Catalogna) e Bertrando di Saint-Gilles (Provenza), i Genovesi assediano e conquistano Tripoli (Libia). 1133 Su nomina di papa Innocenzo II, Siro Porcelet è il primo arcivescovo di Genova, con giurisdizione su tre vescovati della Corsica, e con il dominio temporale su metà dell’isola. luglio

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1146

I Genovesi si alleano con il re di Castiglia e con il conte di Barcellona. 1148 Presa di Almería (Andalusia). 1149 Presa di Tortosa (Catalogna). 1152 Caffaro presenta ai consoli del Comune genovese la versione pubblica della sua storia della città (Annales Ianuenses). 1155 Concessione ai Genovesi di privilegi fiscali e di tutele da parte dell’imperatore bizantino Manuele I Comneno. 1252 Viene coniato il genovino aureo. 1261, Trattato del Ninfeo con Michele VIII 13 marzo Paleologo, il sovrano che mette fine alla dominazione latina di Costantinopoli. 1267-68 I Genovesi si insediano a Pera, sobborgo di Costantinopoli sulla riva settentrionale del Corno d’Oro. Diventerà la sede del podestà dei Genovesi di Romània. 1284, Vittorioso scontro con i Pisani al largo di 6 agosto Livorno, nella battaglia della Meloria.

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1289 Prima attestazione della cinta muraria nella colonia genovese di Caffa, impiantata sul Mar Nero su concessione del khan dei Tartari. 1290 I Genovesi attaccano Porto Pisano distruggendone le torri, e riportano in patria come trofeo la catena di chiusura. 1298 Vittoria sui Veneziani presso l’isola croata di Curzola. Nella pagina accanto pianta a volo d’uccello della città di Genova, dall’opera Nouveau Théatre de l’Italie di Pierre Mortier. Amsterdam, 1705. In basso una veduta dell’allestimento dei frammenti superstiti del monumento funebre a Margherita di Brabante, opera di Giovanni Pisano. 1313-1314. Genova, Museo di S. Agostino.

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Palazzo Bianco

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Via Alessi

quotidianità senza fronzoli. D’altronde, se Genova è «la superba», lo deve proprio all’operosità e all’intraprendenza dei suoi abitanti. Per fornire un orientamento generale, è bene partire dal mare, la ragion d’essere della città. La prima tappa è un antico approdo, a S. Giovanni di Pré. Il toponimo deriva dall’antica dizione ad praedia («verso i poderi»), poiché l’area si trovava in origine fuori dalle mura, per divenire poi un sobborgo a ponente della città, incluso infine

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Sulle due pagine il complesso, o commenda, di S. Giovanni di Pré. XII sec. A sinistra cartina di Genova con i principali monumenti citati nel testo.

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Piazza Sarzeno

S. Agostino (Museo)

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Porta di Santa Fede

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S. Maria della Sanità in Pagan

Nostra Signora N. S. delle Vi Grazie del Carmine a Palazzo An to Reale

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S. Giovanni di Prè

Corso Firenze

Albergo dei Poveri

dalla terza e ultima cerchia muraria genovese, nel 1346.

Assistenza e carità

Già nel 1163 i consoli del Comune provvidero a costruire in questo luogo alcuni scali fissi di legno per le navi, compresa una strada di collegamento parallela alla riva che giungeva fino al fossato del Santo Sepolcro. Attraversato da un ponte e inalveolato in una condotta muraria, lo stesso fossato venne presto incluso, per un tratto, nel perimetro

della commenda di S. Giovanni, di cui si può tuttora ammirare il singolare complesso edilizio, formato da un ospedale e da una chiesa doppia. L’istituzione era gestita da una comunità di monaci ospedalieri o gerosolimitani, vale a dire un gruppo di pii cavalieri dediti all’assistenza e alla carità, che rispondevano localmente all’autorità di un commendatore, ossia un illustre personaggio del ceto nobiliare che riceveva l’incarico di gestire la casa. L’ampiezza e la qualità della costruzione si spiegano facilmente con l’importanza di Genova come scalo marittimo strategico nelle rotte dirette verso la Terra Santa. Lo stesso fossato prendeva nome dal monastero del Santo Sepolcro, attestato luglio

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Genova e le crociate

Partenze (e ritorni) illustri

in zona nel 1143, gestito dall’omonimo Ordine di analoga ispirazione assistenziale, e sempre in zona non mancavano i Templari, insediati là dove sorge la chiesa (sconsacrata) di Santa Fede (XVII secolo). La commenda genovese di S. Giovanni era direttamente collegata al mare grazie a un condotto sotterraneo che si imboccava con l’ausilio di una scala all’angolo del salone di pianterreno dell’ospedale. Sin dall’origine, questo ampio spazio era sud-

La sacralizzazione dell’area portuale si lega bene alla memoria delle crociate, con il forte contributo che a esse fornirono i Genovesi. Partecipò alla I crociata, appena ventenne, il cronista Caffaro di Rustico di Caschifellone, nato intorno al 1080 (il cui curioso nome è figlio dell’esotismo del tempo: deriverebbe infatti dall’arabo kafir, «infedele»). Nel 1099, a Giaffa, approdarono le due galee genovesi al comando di Guglielmo Embriaco «Testadimaglio» e di Primo de Castro. L’Embriaco tornò in patria carico di onore e di gloria, ponendo cosí le basi per la fortuna del suo potente clan. Di ritorno da una nuova spedizione (1101), forse riportò con sé da Cesarea di Palestina il Sacro Catino, un vaso vitreo di un colore verde intensissimo, elevato a reliquia della Passione di Cristo e come tale conservato tra i beni piú preziosi del Tesoro della Cattedrale. Da Genova, poi, nel 1190 partí per la III crociata lo stesso re Filippo II Augusto di Francia (1180-1223). Nello scalo ligure, convergevano i viaggiatori d’Oltralpe che, all’altezza di Tortona, lasciavano la via Francigena per imbarcarsi sulla costa tirrenica anziché in Puglia, come fece lo storico inglese Matthew Paris (1253). E, come attesta l’itinerario di Filippo Augusto, Genova traeva importanza anche dal tracciato costiero che la collegava alla Provenza. Non a caso, proprio lungo questo percorso troviamo attestate altre importanti commende ospedaliere, a Porto Maurizio, a Noli e a Savona.

In alto, a destra particolare della decorazione della facciata occidentale del Palazzo di S. Giorgio, raffigurante Guglielmo Embriaco Testadimaglio che regge in mano il Sacro Catino. A destra il Sacro Catino, manufatto di arte islamica portato dalla Terra Santa dopo la I crociata e tradizionalmente ritenuto una reliquia della Passione di Cristo. IX-X sec. Genova, Museo del Tesoro della Cattedrale di S. Lorenzo.

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Sulle due pagine immagini della commenda di San Giovanni di Pré. In alto, una nicchia affrescata, sormontata da un’iscrizione che attesta il collegamento del luogo con l’Ordine gerosolimitano e con la Terra Santa; a sinistra, una veduta interna della chiesa superiore; nella pagina accanto, la chiesa inferiore.

diviso in due navate da una fila di colonne, sia per reggere il solaio (in precedenza in travi di legno), sia per approntare separazioni con tendaggi o paratie lignee, creando due corsie unite da un corridoio anulare. I letti erano disposti tutt’intorno, con il lato corto addossato alle pareti perimetrali, lungo il quale si vedono le nicchie multiuso suddivise in due comparti: in alto fungevano da ripostiglio per il vestiario e per gli effetti personali, mentre in basso erano uti-

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lizzate come lavabi. La captazione e lo scarico dell’acqua erano favoriti dalla presenza del fossato del Santo Sepolcro, incapsulato nel mezzo della costruzione, secondo una modalità attestata in altri complessi assistenziali dell’epoca. La suddivisione dell’ambiente in due navate era poi funzionale ai riti e alle celebrazioni religiose che si univano costantemente alla pratica ospedaliera, tanto che il salone era direttamente collegato alla chiesa inferiore.

Alla chiesa superiore corrispondeva un ulteriore piano dell’ospedale, già nell’assetto originale collegato al pianterreno solo all’esterno, grazie a due scalinate simmetriche. Questa separazione tra i piani poteva servire a evitare la promiscuità tra uomini e donne, oppure tra semplici ospiti e malati, ma potrebbe anche essere il segno di un utilizzo esclusivo al servizio della comunità monastica. In ogni caso, dopo le trasformazioni tardo-medievali, comprensive di un secondo piano destinato agli appartamenti del commendatore, il salone del primo piano assunse un aspetto in linea con le residenze nobiliari della Genova del tempo.

Per i monaci-cavalieri

Si tratta di un ambiente dal soffitto ligneo dipinto che aveva il suo fulcro nel camino, situato sul lato lungo opposto alla facciata, cosí come si doveva presentare una tipica «caminata» del Trecento genovese. La stessa chiesa superiore, con i suoi matronei, ossia i suoi corridoi di rappresentanza, in origine conluglio

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giunti da una tribuna, ha un’intonazione solenne, e sembra legata in modo pressoché esclusivo ai riti e alle assemblee dei monaci-cavalieri. L’elegante prospetto esterno del complesso trova la sua dominante nota cromatica nella scura pietra del Promontorio, ampiamente utilizzata a Genova, qui come in tanti altri casi illustri alternata sui portici e sulle finestre dei piani nobili a un marmo di tonalità chiara, con un tipico effetto bicromatico. Spicca la torre campanaria con il suo tetto piramidale in ardesia, impreziosita sui finestroni da 17 bacini di ceramica, in massima parte originali, tra i quali si riconoscono manufatti di accertata provenienza greca. Alla base della torre si ammira poi, compresso in un arco acuto, il ritratto scultoreo di colui che, nel 1180, promosse il complesso di S. Giovanni con il trasferimento o il rifacimento di una sede precedente. Come informa l’epigrafe che corre tutt’intorno, si tratta del monaco fra’ Guglielmo, attestato due anni dopo come hospitalarius, ossia responsabile principale della struttura assistenziale. L’iscrizione specifica inoltre che Guglielmo volle essere sepolto in quello stesso luogo.

La tomba di uno schiavo

All’epoca della costruzione, la linea di costa era assai piú arretrata, e il portico dell’ospedale (rifatto nel 1508 ma presente già in origine) era separato dal mare da una ristretta area prospiciente. Solo nel Settecento vi fu aperta una strada. Prima di allora, lo spazio era esclusivamente impegnato dal cimitero, consistente in un’area incolta, lasciata a prato, nella quale si scavavano le fosse terragne. Tra queste, si è trovata la sepoltura quattrocentesca di uno schiavo, riconoscibile dal caratteristico anello metallico al collo. A questo punto si impone una divagazione, poiché su una collina retrostante alla stazione ferroviaria di Piazza Principe, in mezzo a un

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Nella pagina accanto una veduta dell’ala orientale del Palazzo di S. Giorgio, dal lato di piazza del Caricamento, evidente ispirazione per la realizzazione di quella, ottocentesca, del Castello d’Albertis (in questa pagina, in basso). A destra ancora una veduta del Palazzo di S. Giorgio.

parco, si staglia un castello che merita senz’altro una visita. Si tratta di una dimora ottocentesca in stile neomedievale voluta dal capitano di mare Enrico Alberto D’Albertis, infaticabile esploratore e collezionista (1846-1932). Vi lavorò l’architetto di origine portoghese Alfredo D’Andrade (1839-1915), che ha provveduto al restauro di importanti edifici del Medioevo genovese, elaborando di pari passo uno stile architettonico basato su quegli esemplari.

Un edificio-simbolo

Proprio il Castello D’Albertis (1886-1892) presenta sulla corte una facciata con il piano nobile a mattoni aperto da polifore in marmo, in base allo stile che si osserva nel Palazzo di S. Giorgio. Si tratta, non a caso, di un edificio-simbolo ubicato nel cuore del Porto Antico: è il palatium maris edificato a partire dal 1257, dapprima cancelleria del Capitano del popolo, in seguito dogana, e infine sede del piú antico istituto di credito italiano: la Casa delle compere e dei banchi di S. Giorgio (1407-08).

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Tornando all’area di ponente e spostandosi verso il perimetro della seconda cerchia muraria, dalla commenda di S. Giovanni si può percorrere la via di Pré, cosí da ricalcare l’antica direttrice che conduce alla monumentale Porta di Santa Fede (o dei Vacca, una nobile famiglia anticamente insediata in zona). La vicina chiesa cinque-seicentesca dell’Annunziata, sulla piazza omonima, si lega a un’ampia trasformazione urbanistica imperniata sull’asse di via Balbi, nuovo ingresso solenne al cuore della città. Se invece si sale sul pendio retrostante, ci si imbatte in una preziosa «tessera» della Genova medievale, la chiesa di Nostra Signora del Carmine, immersa in un rione prettamente novecentesco, e quasi anonima nella sua veste esterna. Già legata a un convento dei Carmelitani (demolito nel 1870 per tracciare una strada), venne fondata nel 1262 con il determinante contributo di Opizzo Fieschi, fratello di Sinibaldo, salito pochi anni prima al soglio di Pietro con il nome di Innocenzo IV (1243-1254). Insieme ai

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Dossier A sinistra miniatura raffigurante la visita di Luigi II di Borbone a Genova nel 1390, da un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart. 1475 circa. Parigi, Bibliothéque nationale de France. In basso uno scorcio interno dell’abside della chiesa della Nostra Signora del Carmine, decorata con un ciclo pittorico celebrativo dell’Ordine carmelitano che culmina con l’Annunciazione, intervallata dal grande finestrone circolare. XIII sec.

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Grimaldi (avi degli attuali principi di Monaco), i Fieschi costituivano lo zoccolo duro dello schieramento guelfo nelle lotte di fazione che infiammavano la città. Alberto Fieschi legò il suo nome all’attuale torre del Palazzo Ducale, presso la cattedrale: in origine la torre stessa era una pertinenza di famiglia, e fu data in affitto nel 1271 al Capitano del popolo affinché potesse risiedervi. Ebbene, la chiesa di Nostra Signora ha l’imponenza e la grazia austera della migliore tradizione del gotico italiano, in netto anticipo rispetto a un’illustre chiesa conventuale come S. Maria Novella di Firenze (iniziata nel 1279). Inoltre, la sua abside in forma di coro rettangolare (secondo i principi di semplicità propugnati già dai Cistercensi) era rivestita di notevoli affreschi, oggi in larga parte recuperati e restaurati. Si tratta dell’unico, ampio complesso iconografico superstite disposto dai Carmelitani, che avevano svolto una capillare attività missionaria in Oriente per poi inserirsi nel continente europeo, in veste di frati mendicanti, a seguito dell’abbandono della sede in Terra Santa (1235).

La lezione di Cimabue

L’apparato culmina in una grande Annunciazione, in omaggio alla Vergine patrona dell’Ordine, e vede sfilare figure della Chiesa universale e patroni della Chiesa genovese. Sono coinvolti anche personaggi dell’Ordine carmelitano, cosí come i santi protettori di taluni luoghi d’Oriente dove si svolse l’attività missionaria degli stessi monaci (per esempio san Bartolomeo patrono dell’Armenia o santa Margherita di Antiochia). Si coglie bene il riflesso dell’impresa che Cimabue svolse nel transetto della Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi, e l’artefice del ciclo genovese è con tutta probabilità un suo seguace, Manfredino da Pistoia, qui all’opera nell’ultimo decennio del Duecento.

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Si può quindi tornare alla Porta di Santa Fede, per imboccare il carrubeus maior, la direttrice viaria principale del centro antico, che corre lungo la linea di costa, in corrispondenza delle attuali via del Campo, via S. Luca, via Canneto il Vecchio. Su via del Campo spicca la Torre dei Piccamiglio (XIII secolo), del tutto integra. Scavalca un vicolo con l’ausilio di un voltone, in modo da dominare un settore della città e il suo vitale collegamento al porto.

La Porta di Santa Fede, detta anche Sottana, o dei Vacca. XII sec.

Sempre seguendo la linea di costa, sul perimetro esterno dell’incasato, possiamo ammirare una schiera compatta di edifici in cui si riconoscono facilmente ampi e significativi brani di età medievale: è il singolare complesso della Ripa, tuttora assai eloquente nonostante le trasformazioni subíte. Si tratta di un’impresa urbanistica che il Comune ebbe mo-

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Xilografia raffigurante Genova verso la fine del Medioevo, con il porto in evidenza, tratta dalle Cronache di Norimberga di Hartmann Schedel. 1493.

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do di affrontare nel 1133, durante il «trentennio eroico» di Genova, quando si determinarono le fortune della città (1130-1160). Tenendo ben presente alcuni modelli di città portuali dell’Oriente islamico, venne ideato un lunghis-

simo portico che si affacciava sul mare, in origine a breve distanza dagli scali delle navi. Si creava cosí l’opportunità di un mercato coperto facilmente rifornito, con le botteghe e con i magazzini (emboli) che si affacciavano sotto le volte, lungo il luglio

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In alto la Torre Morchi, affacciata su piazza del Caricamento, che appartenne alla potente famiglia degli Spinola. XIII sec.

te del portico aveva preso corpo una schiera di edifici nobiliari, in piú di un caso con la tipica struttura a torre. Si riconosce, in particolare, la Torre Morchi (XIII secolo), già appartenuta alla potente famiglia Spinola, che nel XII secolo possedeva nell’area prospiciente uno scalo per le navi gestito in proprio, affiancato da due scali gestiti dagli Embriaci e dagli Streggiaporco.

Una chiesa senza piazza

percorso oggi noto come Sottoripa, ancora brulicante di attività commerciali. Nell’area retrostante si irraggiano a pettine le strade che collegano la Ripa al vivo dell’incasato. E, al culmine della vicenda edilizia di questo complesso, sopra alle vol-

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All’altezza del già nominato Palazzo di S. Giorgio, la Ripa incontrava la direttrice trasversale che collegava il porto alla cattedrale, l’attuale via San Lorenzo, ben piú ampia rispetto al tracciato medievale. La stessa cattedrale era sprovvista all’origine di una congrua piazza prospiciente, sicché le sue alte pareti, impaginate con grande impegno, erompevano d’incanto nel denso tessuto edili-

zio, senza poter essere colte da una visuale complessiva. Persino la facciata poteva essere ammirata solo di scorcio, oppure da sotto in su, sulla soglia della sua gradinata (in origine meno evidente). Questa situazione ambientale è ancor piú sorprendente se si considera che proprio la cattedrale, in quanto «chiesa del Comune» ante litteram, era in origine luogo di rappresentanza della magistratura civica, in assenza di una sede specificamente preposta. A differenza di tante città del Medioevo italiano, Genova rimase a lungo sfornita (fino al 1290) di un palazzo espressamente concepito come sede dell’autorità civica, e fino all’età moderna non ebbe piazze che fungessero da polo urbanistico e monumentale. Le particolari prerogative della chiesa nascevano dal prestigio sto(segue a p. 96)

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Il bianco e il nero

In alto spaccato assonometrico della cattedrale di S. Lorenzo, che ne evidenzia l’articolata struttura architettonica e il gioco cromatico ottenuto grazie all’uso alternato di pietra chiara (marmo) e scura (pietra del Promontorio). Nella pagina accanto la facciata della cattedrale, con, in primo piano, uno dei due leoni marmorei (opere ottocentesche di Carlo Rubatto) posti in cima alla scalinata di accesso. A destra particolare della sommità del portale centrale della cattedrale. Il programma figurativo è diviso in due registri e rappresenta, in quello superiore, Cristo in maestà circondato dai simboli degli Evangelisti e, in quello inferiore, il martirio di san Lorenzo, arso su una graticola. 1225 circa.

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Dossier il portale di s. gottardo

Un gotico in forme embrionali Aperto sul fianco della cattedrale verso via S. Lorenzo, il Portale di S. Gottardo (1155 circa) ha un solo plausibile aggancio con il romanico pisano, individuabile nei bellissimi capitelli «neocorinzi». Per il resto, si presenta come un insieme di grande ricchezza architettonica e decorativa, su una linea prettamente lombarda, ma con un originale accento europeo. Le decorazioni della strombatura, con le matasse o trecce, variamente impaginate, i tralci «abitati» brulicanti di figure o le aquile ripetute entro clipei (come in una stoffa istoriata di manifattura bizantina), si ricollegano a tanti complessi scultorei, sia del Nord Italia che d’Oltralpe. E nella ritmica di questi elementi, dove si alternano ricchi ornati a superfici lisce, si può addirittura cogliere l’approdo a una prima sensibilità gotica, affine a quella del portale di Saint-Denis (Parigi; 1137-1140) e, di riflesso, della cattedrale inglese di Lincoln (1144-48). Tra le tante figure, ritroviamo l’asino che suona la lira, tipica rappresentazione da una favola di Fedro posta a simboleggiare l’ignoranza, cosí come si vede nel portale di Saint-Pierre a Aulnay-de-Saintonge (verso la costa atlantica della Francia), o nel pulpito di S. Ambrogio a Milano. Nel caso genovese, c’è la rara variante del cane gioioso che assiste alla modesta esibizione musicale.

rico e dall’autorità del vescovo (dal 1133, arcivescovo), che si prestava egregiamente come garante e rappresentante dei Genovesi fuori da ogni logica di gerarchia o di fazione. Già nel 1104, come ricordava una lapide allestita nella chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme, re Baldovino designava la cattedrale di Genova come beneficiaria delle sue concessioni (una piazza nella stessa Gerusalemme, una via a Giaffa, e altro ancora).

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Se poi entriamo in S. Lorenzo, un semplice dettaglio rivela l’intreccio tra la chiesa e la città: sul finto matroneo che adorna la parete sinistra della navata centrale, compare l’immagine scultorea di Giano bifronte (1307). Il dio pagano viene recuperato e reinventato nella veste di un mitico re italico, eletto a fondatore della città grazie al facile accostamento tra Ianua (la città) e Ianus (il «re»). Non è la prima volta che un personaggio dell’antichità,

vero o presunto, sia associato all’immagine di una illustre città medievale (basti pensare ai «binomi» Virgilio-Mantova o Antenore-Padova), ma è del tutto inedita l’accoglienza di un simile eroe nello spazio liturgico di una chiesa. Pisa, la grande antagonista di Genova, aveva inaugurato la fabbrica di una superba cattedrale negli stessi anni del cantiere ligure, cosicché papa Gelasio II ebbe modo di consacrare entrambe le chiese nel luglio

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A destra cattedrale di S. Lorenzo. Uno scorcio della parete sinistra della navata centrale. Su uno dei pilastri del finto matroneo si trova una raffigurazione di Giano (foto qui sotto). XIV sec.

Nella pagina accanto due particolari del bestiario istoriato sul Portale di S. Gottardo. A destra, particolare dell’asino che suona la lira, assistito dal cane gioioso. XII sec.

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Dossier A sinistra la facciata della chiesa di S. Matteo, fulcro religioso e celebrativo della famiglia Doria. XIII sec.

1118. E se mettiamo i due templi a confronto, sia a Pisa che a Genova notiamo l’uso dei finti matronei o il gusto della bicromia tramite l’uso di differenti tipologie di pietra, secondo una consuetudine che l’Europa conobbe attraverso l’architettura islamica. In entrambe le cattedrali, inoltre, spicca il gusto per il reimpiego di materiale antico. Tuttavia, ogni dettaglio indica tempi e modalità diversi. Proprio in tema di antichità, si è visto con quale ingegno fosse stata coinvolta a Genova la figura di Giano. Osservando con attenzione la facciata, d’altronde, si può notare che un abilissimo scultore oriundo del Lago di Como (per

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la precisione uno degli Antelami), già agli inizi del Duecento, ricreò per un portale mai compiuto due animatissime scene circensi di lotta tra animali, prendendo spunto dalle sculture dei sarcofagi romani.

Sensibilità mediterranea

A partire dal 1225 circa, una dimensione europea della chiesa si afferma poi nella solenne facciata, ricca di marmi, di intarsi marmorei, e, in origine, di finiture in mosaico policromo. Il linguaggio delle cattedrali gotiche d’Oltralpe è filtrato da una sensibilità tipicamente mediterranea, ben evidente nella modulazione delle superfici e nella ricchezza

dei materiali. E tutta particolare è poi la «teatralità» con cui questa trionfante pagina di architettura internazionale si offre al pubblico delle feste e delle processioni. Nella lunetta del portale principale campeggia la nuda figura di san Lorenzo, disteso sulla graticola del suo martirio. Al di sotto, una serie di ganci reggeva le fiammelle che venivano accese per evocare il supplizio, nella ricorrenza del santo protettore. Se ci spostiamo poi negli ambienti dell’antica canonica, che oggi accolgono il Museo Diocesano, ci attendono sorprendenti testimonianze che aprono uno squarcio in piú sulla società della Genova luglio

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medievale. Il complesso si mostra imperniato su un raro chiostro romanico completo di galleria (XII secolo), recuperato in tempi recenti. E nel piano nobile, nei locali di residenza e di rappresentanza, con soffitti lignei dipinti, troviamo cospicui elementi di una decorazione parietale che ci dà l’idea di come si doveva presentare l’ambiente di una residenza nobiliare del Due-

si può cogliere l’impianto ortogonale della Genua romana, su cui si sovrappose poi la Genova carolingia, con la sua esigua superficie di 20 ettari. E questo fulcro cosí ricco di storia e di significato vide addensarsi le piú importanti dimore aristocratiche, anche quando la città trovò ben altri spazi di sviluppo nel burgus circostante. Ancora in età moderna, i Doria

Tutta l’area urbana circostante fu trasformata in modo che la piazza-sagrato prospiciente alla chiesa identificasse una vera e propria corte Doria. Si vedono elementi tipicamente genovesi, come la sovrapporta dedicata a san Giorgio, ma nel palazzo di Lazzaro Doria (1486) spiccano finestre gotiche finemente intagliate e aerei loggiati, che traspongono in questo scenario

cento. Si notano finti velari che si snodano sotto altrettanto posticci paramenti murari policromi, e in una stanza si osserva un fregio istoriato di carattere prettamente profano, con le tipiche allegorie dei mesi. Dove c’è spazio per scene di ambientazione cortese, con tanto di cavalieri e di dame, c’è persino un evidente influsso dei modi aristocratici della miniatura gotica. Di fronte a una tale profusione di ricercatezza e di eleganza, lo stesso chiostro si trasforma nella corte di una grande dimora nobiliare. La cattedrale individua lo spazio della civitas, il nucleo generatore dell’impianto urbano, in cui ancora

sfoggiavano le prerogative di una nobiltà che tendeva ad appropriarsi di interi settori urbani, trasformandone le stesse chiese in «gioielli» di famiglia. Non lontano dalla cattedrale, infatti, questa casata ricostruí, nel 1278, la chiesa di S. Matteo, al servizio di un’abbazia che proprio i Doria avevano fondato, e che in origine dipendeva dal cenobio costiero di S. Fruttuoso di Capodimonte. S. Matteo divenne cosí la chiesa-mausoleo della famiglia, con il corredo di un solenne chiostro (1308-10). Lo stesso Andrea Doria (1466-1560), celebre ammiraglio e figura-chiave della storia della Repubblica genovese, vi trovò sepoltura.

La fronte di sarcofago romano inglobata nella facciata della chiesa di S. Matteo.

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i modi piú raffinati dell’edilizia nobiliare veneziana. In un tale spazio si integra perfettamente anche la semplice facciata di S. Matteo, con lunghe epigrafi celebrative impaginate su lastre di marmo, e con l’urna dell’ammiraglio Lamba Doria (1250 circa-1323) evidenziata dalla preziosa fronte di un sarcofago romano, come trofeo per i lusinghieri successi ottenuti. Egli infatti fu il principale artefice del trionfo di Curzola sui Veneziani (1298), e in suo onore il Comune di Genova dispose la costruzione del palazzo che

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto secondo chiostro di S. Maria in Castello. Annunciazione (particolare), affresco di Giusto di Ravensburg, che si firma Iustus de Alamania (Giusto d’Alemagna). 1451. A sinistra la loggia dell’Annunciazione. XV sec. Nella pagina accanto la Torre degli Embriaci, edificata agli inizi del XII sec. nell’antico quartiere di Castello.

si trova proprio di fronte a S. Matteo, con la facciata a fasce alternate di marmo e di ardesia. L’altura del castrum, che trae nome da una residenza fortificata di pertinenza del vescovo, identifica il luogo della piú remota storia insediativa di Genova, che rimonta al VI secolo a.C. In cima spicca il

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complesso di S. Maria di Castello, a testimoniare la presenza dell’antica sede vescovile. I membri della famiglia de Castro, in qualità di vassalli del vescovo, eressero nel XII secolo la loro slanciata torre nelle vicinanze, in deroga alle norme che limitavano l’altezza di queste costruzioni. È oggi nota come Torre degli Embriaci, ma in realtà gli eredi del prode Testadimaglio abitavano piú a sud, in una corte (la curia Embriacorum) dotata di ben due torri congiunte, presso l’ex chiesa di S. Maria in Passione (bombardata nel 1942-44, e tuttora in stato di rudere). La torre piú antica (XII secolo) sfoggia ancora la sua robusta parete di base in un passaggio voltato, l’antica volta degli Embriaci, che costituisce il principale ingresso alla cima della collina.

Un bottino immenso

La chiesa romanica di S. Maria, congiunta sin dal 1442 a un ampio convento domenicano di notevole interesse storico e artistico, mostra tutti i tratti tipici della grande edilizia sacra della Genova del XII secolo: il reimpiego di un architrave antico sul portale di facciata, il solenne colonnato interno, ricco di capitelli e fusti romani, il finto matroneo. Si vedono persino due iscrizioni cufiche su marmo, tratte dalla decorazione di una moschea. Sono senz’altro trofei di guerra, ed evocano le imprese che Genova compí a danno di due ricche città della Spagna musulmana, da cui riportò un immenso bottino: Almeria, sulla costa dell’Andalusia (1148), e Tortosa, in Catalogna (1149). A queste imprese erano dedicati affreschi celebrativi di cui rimangono alcuni frammenti nella navata destra della cattedrale, e un ricordo eloquente dei trofei ispanici è racchiuso in una delle epigrafi apposte sugli stipiti della Porta Soprana. Come lo stesso testo evidenzia, essa venne realizzata pochi anni dopo (1155), in un clima di grande fervo-

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Dossier Porta Soprana

Rocce come memoria Per accentuare l’effetto della sua apparizione, durante i restauri Porta Soprana è stata dotata sull’esterno di rocce affioranti appositamente allocate, in modo da suggerire lo stagliarsi delle torri su un terreno arido e aspro. Ma il suo orgoglioso isolamento ambientale rispecchia solo in parte l’assetto antico della zona. Su un lato è stata infatti sbancata un’intera collina che la sovrastava, con un cospicuo monastero (S. Andrea) che è stato cosí demolito. Il chiostro romanico punteggiato agli angoli da capitelli istoriati, è stato tuttavia ricomposto nel 1922 a pochi passi dalla porta, in un gustoso isolamento tra incombenti palazzi novecenteschi. Sulle due pagine tre immagini della Porta Soprana. Complessa e imponente struttura difensiva, rappresentava uno degli accessi monumentali alla città, che si aprivano nella cinta muraria approntata come sfida all’autorità di Federico Barbarossa. XII sec.

re, quando la nuova cinta muraria (detta «del Barbarossa») racchiuse un’estensione di 52 ettari. La solida cerchia, realizzata in blocchi di pietra perfettamente squadrati, si avvaleva di sette porte monumentali, ma ne sopravvivono solo due: Porta Soprana, oggi collegata alla cattedrale da via S. Lorenzo, e la già ricordata Porta di Santa Fede o dei Vacca, sul lato opposto della città. Si tratta di ingressi solenni arricchiti da epigrafi e da elementi scultorei (un corpus di capitelli degni di

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una chiesa) di una finezza insolita in opere del genere, senza pensare all’impegno profuso nella progettazione e nella costruzione di organismi cosí articolati e imponenti.

Proiettata sul mondo

Un’opera del genere suggerisce facili connessioni al nome stesso della città, nella forma in voga sin dal X secolo (Ianua, «porta»). D’altronde, le epigrafi di corredo esaltano la potenza di una Genova che fu capace di affrontare l’impeto della guerra

in ogni angolo del mondo, dirigendo le proprie mire fin verso l’Africa e l’Asia. Non a caso un tale «fortilizio» raccoglie le suggestioni dei castelli e delle mura che i crociati realizzarono in Terra Santa, dove c’erano abbondanza di materia prima e una tradizione costruttiva ininterrotta. Si è cosí ipotizzato che proprio le esperienze svolte in Palestina dai Genovesi stessi per le operazioni belliche e per l’impianto delle colonie, abbiano fornito il giusto bagaglio di idee e di tecniluglio

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che per dare lustro alle mura della gloriosa madrepatria. V L’autore desidera ringraziare per l’accoglienza e l’assistenza fornite Raffaella Cecconi del Comune di Genova (Direzione Marketing della Città, Turismo e Relazioni Internazionali), Loredana Pessa e Piera Melli (mostra «Genova nel Medioevo»), Paola Martini (conservatore del Museo Diocesano di Genova), Grazia Di Natale (Arcidiocesi di Genova, Ufficio Beni Culturali), Raffaella Besta (Musei di Strada Nuova), Maria Teresa La Chiesa.

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Da leggere Giorgio Rossini (a cura di), La Commenda di Pré. Un ospedale genovese del Medioevo, Libreria dello Stato, Roma 1992 Clario Di Fabio, La cattedrale di Genova nel Medioevo, secoli VI-XIV, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 1998 Fulvio Cervini, Liguria romanica, Jaca Book, Milano 2002

Paola Guglielmotti, Genova, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2013 Antonio Musarra, Genova e il mare nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 2015 Loredana Pessa (a cura di), Genova nel Medioevo. Una capitale del Mediterraneo al tempo degli Embriaci, Sagep, Genova 2016

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Storie, uomini e sapori

Frustrazioni di un cuoco «segreto» I

l piú completo e ponderoso testo di gastronomia del Rinascimento è l’Opera dell’arte del cucinare di Bartolomeo Scappi, «cuoco segreto» – ovvero personale, come si autodefinisce nel frontespizio della prima edizione, stampata dal tipografo veneziano Michele Tramezzino nel 1570 – di papa Pio V, un pontefice vegetariano, digiunatore convinto, estremamente severo e poco incline alle cose terrene; un santuomo che, appena

In alto il cuoco Bartolomeo Scappi nell’incisione che corredava il frontespizio della sua Opera. A destra le pagine dell’Opera di Bartolomeo Scappi dedicate ai servizi resi in occasione del conclave del 1549, che si concluse con l’elezione di Giulio III (Giovanni Maria Ciocchi del Monte).

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eletto al soglio di Pietro, licenziò il giullare di corte assunto dal suo predecessore, abolí i tradizionali banchetti annuali che celebravano la sua incoronazione e si impegnò a far ricoprire i nudi michelangioleschi della Cappella Sistina. In merito alle abitudini alimentari del papa, Scappi si esprime cosí: «A mezzodí pan bollito con due uova e mezzo bicchiere di vino. Il pranzo alla sera consisteva comunemente in minestra con legumi, insalata, alcuni crostacei e frutta cotta. Solo due volte la settimana

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compariva la carne alla sua tavola. (…) Prima e dopo il pasto recitavansi lunghe orazioni (…) Egli e i suoi commensali rimanevano in un silenzio claustrale».

E venne il tempo della forchetta... In un’epoca in cui l’arte italiana del buon vivere era oggetto di attento studio e di deliziato interesse in tutta Europa, fu forse il disinteresse di questo papa verso ogni tipo di piacere terreno a incoraggiare il professionalmente frustrato Scappi a scrivere un manuale in

cui raccogliere ricette e descrizioni di banchetti, impreziositi da 27 accuratissime tavole, caso unico nella storia dei libri di gastronomia del XVI secolo. Oltre a immagini di «istrumenti e ordegni» di ogni tipo, nell’Opera compare una delle prime illustrazioni della forchetta, già citata in un inventario del 1360: un aggeggio a due denti, tozzo, col manico lungo, che consentiva di scavalcare le gorgiere salvaguardate da tovaglioli annodati al collo. Fu Caterina de’ Medici, si dice, a introdurre l’uso della forchetta sulle tavole francesi e non è un caso che recentemente sia venuto alla luce un esemplare del testo dello Scappi appartenuto proprio «à la Florentine». Le poche notizie biografiche su messer Bartolomeo provengono proprio dalla sua Opera, sebbene non si conoscano l’anno della sua nascita – pur collocandola nel primo decennio del Cinquecento –, né il luogo, per lungo tempo ritenuto prima Bologna, poi Venezia e infine, grazie al ritrovamento di una lapide dedicatoria, il paese di Dumenza, nei pressi di Luino (Varese). Dalla penna dell’autore sappiamo che dal 1528 fu a servizio del cardinale Grimani a Venezia, mentre nel 1536 passò alla dimora romana del cardinal Campeggi, per il quale provvide, tra le altre cose, a progettare ed eseguire il sontuoso banchetto in onore dell’imperatore Carlo V. L’evento ebbe luogo un venerdí di Quaresima e lo Scappi fece preparare tredici portate «di magro» servite in vertiginosa successione: dalle teste di storione (una prelibatezza per l’epoca) al caviale in torta, dai tartufi al fegato d’ombrina, dalle tartarughe di terra in crosta alla coda d’aragosta fritta, senza dimenticare molluschi fritti, spinaci conditi con aceto e mosto, broccoli rosolati in olio e spruzzati di succo d’arancia, potaggi e piatti dolci. Venuto a mancare Campeggi, nel 1539 Bartolomeo prese servizio, sempre a Roma, dal cardinale

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CALEIDO SCOPIO

Altre due pagine illustrate tratte dalla prima edizione dell’Opera di Bartolomeo Scappi, stampata a Venezia nel 1570. Rodolfo Pio da Carpi. Nell’inverno del 1549 fu incaricato di provvedere alle cucina e alle imbandigioni per il lungo conclave da cui sarebbe stato eletto papa Giulio III; in oltre 70 giorni di tenzone elettorale, la ricchezza e la bontà della tavola di ogni cardinale erano componenti importanti della guerra psicologica e, stando all’Opera – che lo descrive minuziosamente –, il conclave costituí un momento topico nella carriera dello Scappi. Sempre autobiografica – e confortata da documenti della Biblioteca Apostolica del Vaticano – è la notizia che il nostro, nel «felice anno 1564», serví papa Pio IV, un lombardo energico, attivo e amante della

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buona tavola, famoso per il suo amore per budini, sformati e cosce di rane fritte con aglio e prezzemolo, delle quali Scappi tramanda ai posteri la ricetta. Il servizio per Pio IV fu sicuramente molto gratificante per Scappi e il fatto che nel frontespizio dell’Opera il titolo di «cuoco segreto» sia riferito a Pio V va interpretato solo come un gesto di riguardo verso il pontefice allora regnante, a tal punto morigerato che il giorno dell’incoronazione (gennaio 1566) mangiò in Vaticano come se si fosse trovato nel refettorio del suo convento.

Eleganza e chiarezza Il manuale di culinaria di Bartolomeo Scappi può essere considerato, al pari dell’opera figurativa di Michelangelo Buonarroti, un archetipo della nitida

eleganza dell’Alto Rinascimento; lo è per la squisitezza della stampa, per l’accurata presentazione e, soprattutto, per la lineare comprensibilità. A Scappi spetta il primato di aver introdotto i prodotti del nuovo mondo nella cucina tradizionale italiana grazie alle sue sperimentazioni con pomodori, melanzane e peperoni, mentre a lui si deve la scoperta della comunissima «pasta al sugo». L’Opera si apre con un dialogo immaginario tra l’autore e il suo apprendista (utile espediente per illustrare i principi della buona cucina), quindi Scappi passa a trattare di carne e pollame, pesci, vivande per giorni di grasso e giorni di magro, pasta e diete per malati. Come tutti i cuochi del Rinascimento, messer Bartolomeo era interessato soprattutto agli luglio

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aspetti scientifici delle cibarie, e la sua esperienza con papi anziani (Pio IV soffriva di disturbi digestivi) devono averlo reso particolarmente attento ai problemi sanitari. Molti dei classici metodi culinari si ritrovano ben sviluppati da Scappi, che apprezza le marinate ed è anche un fine esperto di stufati e bagnomaria; fa macerare il pollo in vino bianco, aceto e spezie, quindi lo cuoce al forno in uno «stufatore» ermeticamente chiuso e ne serve la marinata come salsa. Egli esamina ogni argomento con una cura per i particolari mai adottata prima ed è anche il primo europeo a entrare in merito all’arte araba della pasticceria, prendendo a modello le fragili cialde arabe per allestire una pasta per dolci alternata a strati di grasso e piegata piú volte: il primissimo esempio di sfoglia. Un impasto dello stesso genere gli ispira anche un primitivo tipo di volau-vent, allora detto «crostata», che veniva unto con una penna bagnata di burro fuso per facilitare la crescita durante la cottura prima di venir riempito con vari ingredienti.

Ancora una tavola dell’Opera di Bartolomeo Scappi che illustra uno dei procedimenti di cottura in uso all’epoca del grande cuoco lombardo.

Influenze straniere Una caratteristica peculiare della cucina di Bartolomeo Scappi fu l’amore per i latticini – ricotta per ripieni e dolci, formaggio fresco per i piatti farciti, e parmigiano grattugiato come condimento –, ma anche per la carne di vitello e gli insaccati come mortadella e salame; né omette di esaltare le specialità regionali come le ostriche e i gamberetti di Venezia, le ricette «alla lombarda» di molte verdure e piatti di frutta o le cotture «alla napoletana». Molte preparazioni risentono anche di una profonda influenza della cucina straniera grazie alla situazione cosmopolita di Roma; ecco un «succussu alla moresca» (cuscus) cotto in una sorta di pentola a pressione e una «trota alla tedesca». Ma il manuale parla anche dell’abbondanza di merluzzo

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delle acque britanniche e spiega che «crema è un termine francese, e la si ottiene impastando assieme farina, latte e uova», consegnandoci cosí la ricetta della crema pasticcera. Scorrendo l’Opera con le sue oltre mille ricette e la sbalorditiva esibizione dell’armamentario di un mastro cuciniere (in gran parte in uso ancor oggi), si direbbe che nel 1570 gli Italiani godessero di una salda posizione di predominio nella culinaria europea. E tuttavia, di lí a cinquant’anni, l’iniziativa era passata a Parigi, città che, in quanto centro vitale della cultura francese, presentava un ambiente piú favorevole allo sviluppo della cucina di quanto non fosse quello delle faziose città italiane. Con la fine dello spirito cosmopolita

del Rinascimento, il destino della cucina italiana fu demandato alle regioni piuttosto che a singole città; l’ampiezza di prospettive di Scappi cadde in disuso, e dopo il 1650 l’Opera non venne piú ristampata. Tuttavia, l’enciclopedica cultura di cui è improntata ne fa un vertice dei testi culinari europei. La sua struttura, la precisione e la cura dei particolari riflettono, in quest’ambito, un influsso ancor piú importante, quello del metodo scientifico che, nato nel XVII secolo, ne fece un’epoca cosí straordinaria per la cultura europea, forse piú originale e importante persino dell’Umanesimo, sostanzialmente conservatore, e dello stesso Rinascimento. Sergio G. Grasso

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Lo scaffale Paola Guerrini Gioacchino da Fiore e la conservazione del sapere nel Medioevo Diagrammi e figure da Boezio a Raimondo Lullo Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto, 136 pp., 51 tavv. f.t.

25,00 euro ISBN 978-88-6809-103-3 www.cisam.org

Grazie a questo saggio denso e serrato, Paola Guerrini offre all’attenzione di ogni tipo di lettore un

segmento illustre ma poco noto della cultura medievale. Si tratta di quell’ampia schiera di raffigurazioni che, in una sintesi unitaria, illustrano relazioni e concezioni complesse nei vari ambiti del sapere. Gli esempi citati percorrono tutto l’arco del Medioevo, a partire da quel Severino Boezio che può essere definito la prima voce della filosofia dell’«età di Mezzo», fino a giungere alla

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dottrina dell’inquieto predicatore Raimondo Lullo di Maiorca, attivo tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo. Fulcro dell’itinerario è il mistico Gioacchino da Fiore, visto che proprio una serie di diagrammi fa da corredo alle sue speculazioni storico-teologiche. In generale, si tratta di «schemi» la cui struttura geometrica di base (spesso nella forma circolare della rota) può essere espressa nella sua immediata linearità o arricchita da elementi figurativi. L’immagine può limitarsi a illustrare la ripartizione di una disciplina scolastica, in uno spirito simile alle sintesi grafiche degli odierni manuali, ma, nella maggior parte dei casi, compone una visione del mondo o della storia, sulla scorta di una scienza che abbina o sviluppa in modo circostanziato la conoscenza dei testi sacri e la cultura enciclopedica. Si forma cosí un caleidoscopio di forme e di concetti a mezza strada tra arte e letteratura, e ci si imbatte anche in suggestive connessioni con i complessi decorativi di talune cattedrali, senza pensare ai debiti della

Una delle illustrazioni dell’edizione del Liber Divinorum Operum di Ildegarda di Bingen contenuta nel Codice lucchese 1942. XIII sec. Lucca, Biblioteca Statale. La figura fantastica allude alla visione di Dio.

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CALEIDO SCOPIO Commedia dantesca nei riguardi di una tale «architettura» del sapere. In particolare, con le Visioni di Ildegarda di Bingen tradotte in figura, questi «schemi» accompagnano i testi in una relazione tutt’altro che servile. L’autrice sottolinea infatti che in queste sintesi grafiche la parola si rende chiara attraverso l’immagine, e la figura favorisce cosí il processo di interpretazione e di memorizzazione dell’opera, divenendone parte integrante. Si tratta quindi di un precoce e raffinato esercizio di «infografica», tale da suscitare spunti di discussione assai intriganti sul tema, attualissimo, del rapporto tra parola e immagine. Furio Cappelli Maria Giuseppina Muzzarelli A capo coperto Storie di donne e di veli Il Mulino, Bologna, 236 pp., ill.

16,00 euro ISBN 978-88-15-26417-6 www.mulino.it

Diffuso oggi come in passato, in Oriente e in Occidente, presso Assiri, Greci, Romani, nella cultura ebraica, come in quella cristiana e islamica, il velo ha assunto in età contemporanea

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un denso significato simbolico, mentre nel passato costituiva semplicemente un capo di vestiario pressoché indispensabile. Oggi il velo a copertura del capo rappresenta soprattutto una tradizione le cui radici vanno indagate partendo dal Medioevo. Oggetto ambiguo e versatile,

in quanto copre, nasconde e adorna, esso riveste anche una funzione importante nella definizione dell’identità: personale (ragazza nubile o sposata), sociale (donna laica o monaca), religiosa (da elemento connotante la fede cristiana a simbolo di quella islamica). L’impossibilità di identificare una persona a causa del velo ha da sempre suscitato timore, tanto che a Siena, nel 1343, le autorità cittadine proibirono alle donne di

mostrarsi in pubblico velate rendendosi irriconoscibili: «Le fattezze e il volto di ciascuna donna – recitava il decreto – devono apparire in modo chiaro e palese». Il volume focalizza dunque l’attenzione sull’utilizzazione del velo in Occidente nel tardo Medioevo e nella prima età moderna, epoche particolarmente significative per i mutamenti verificatisi nella tipologia dell’articolo: di fronte all’obbligo di coprire il capo – fattosi pressante nei sermoni dei predicatori a partire dal XIII secolo –, le donne risposero studiando capi sempre piú raffinati che trasformavano il velo, da simbolo di sottomissione, a ricercatezza della moda ed esibizione di ricchezza e di status sociale. Da qui la nascita di una fiorente organizzazione produttiva e commerciale prevalentemente in mano alle donne (XIV-XV secolo), che raggiunse il suo massimo splendore nel Cinquecento. La molteplicità degli aspetti (religioso, simbolico, sociale, produttivo, legislativo) riguardanti questo articolo vengono

dunque affrontati nel libro con l’ausilio indispensabile dell’iconografia. Maria Paola Zanoboni Luca Salvatelli La scienza a Roma, Viterbo, Avignone Studi sulla corte papale tra XIII e XIV secolo Archeoares, Viterbo, 217 pp., ill.

18,00 euro www.archeoares.it

Tra il XIII e il XIV secolo la corte papale visse una particolare fase di approfondimento e splendore degli studi scientificofilosofici promossa dai pontefici e dall’ambiente curiale, il cui ruolo poliedrico e cosmopolita fu essenziale allo sviluppo delle scienze, come testimonia la produzione testuale e manoscritta dell’epoca pari a quella della Magna Curia federiciana e di quella castigliana di Alfonso il Saggio. A questo tema è dedicato il volume di Luca Salvatelli, che ha basato il suo studio sull’analisi di

importanti manoscritti dell’epoca e di una vasta e aggiornata bibliografia. In cinque sezioni, l’autore traccia un’attenta analisi degli studi scientifici alla corte papale tra Roma, Viterbo e Avignone. La prima parte ripercorre le vicende dello Studium viterbiensis tra gli anni Settanta e Ottanta del XIII secolo, e gli sviluppi durante il pontificato di papa Bonifacio VIII Caetani. La seconda riguarda il panorama scientifico e culturale di Avignone, la Nuova Roma sorta sulle rive del Rodano, con un aprofondimento sulle figure di Giovanni XXII e Clemente VI: sotto il primo le questioni chimico-alchemiche conobbero un nuovo fiorire, tanto che l’intero palazzo era descritto, nelle fonti ottocentesche, come un enorme laboratorio dedito a tali ricerche, mentre sotto il pontificato del secondo fu per la prima volta affrontato il problema della riforma del calendario e del numero aureo per il calcolo della Pasqua. Il terzo capitolo è incentrato sulle fonti e gli inventari delle biblioteche papali e cardinalizie tra il 1295 (Recensio Bonifaciana) e il 1594 (Inventarium Aquaviva), luglio

MEDIOEVO



CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale di primaria importanza per comprendere l’effettiva diffusione di libri di argomenti scientifico-filosofici all’interno delle differenti librariae dei palazzi pontifici di Roma e Avignone e di quelle a esclusivo uso privato dei membri della curia, di cardinali e pontefici. La quarta sezione si sofferma sul censimento e sull’analisi dei manoscritti miniati di argomento scientifico legati all’ambiente curiale del XIII e XIV secolo, sottolineando, oltre alle peculiarità figurative e decorative, la linea di continuità riscontrabile sia tra vecchia e Nuova Roma, sia il medesimo livello esecutivo con la produzione di pari committenza, quale quella teologica, giuridica o piú strettamente legata all’officium curiae. L’ultima sezione consiste in un’appendice documentaria che comprende la trascrizione degli item, cioè le differenti voci inerenti i volumi scientifico-filosofici rintracciati nelle fonti inventariali, nonché le segnature identificative dei manoscritti a oggi riconducibili a tali descrizioni e afferenti a istituzioni culturali

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italiane e straniere. Frutto di ricerche in molteplici biblioteche e archivi, La scienza a Roma, Viterbo, Avignone vuole essere un punto di partenza, un viatico per ridare voce a quella rivoluzione scientifica verificatasi nel XII secolo e che, continuata tra il XIII e il XIV secolo, risulta ancora poco conosciuta. Francesca Ceci Anna Rosa Calderoni Masetti Intrecci mediterranei Pisa tra Maiorca e Bisanzio

Edizioni ETS, Pisa, 118 pp., ill. col. e b/n

18,00 euro ISBN 978-8846747891 www.edizioniets.com

Tra il 1113 e il 1115 Pisa guidò una spedizione armata contro gli Arabi stanziati nel quadrante occidentale che investí le Baleari e, nel primo anno di operazioni, fece registrare il saccheggio di

Maiorca, la piú grande delle isole che compongono l’arcipelago. L’evento è il punto di partenza da cui prende le mosse lo studio presentato in questo volume, che propone una rassegna di manufatti che avrebbero appunto fatto parte del bottino riportato dai Pisani. La prima e forse piú significativa testimonianza è la lapide in caratteri cufici collocata nella controfacciata della chiesa di S. Sisto. Dopo un iniziale fraintendimento, il documento è stato correttamente interpretato e attribuito all’emiro al-Murtadà, primo sovrano indipendente delle Baleari, morto nel 1094. Quest’ultimo particolare ha costituito la prova decisiva della sua provenienza, in quanto risulta pienamente compatibile con la data del saccheggio, che le armate pisane, come già ricordato, condussero nel 1113. Per l’autrice del volume, la lapide dell’emiro è dunque la prima di una schiera di «prede di guerra», da lei rintracciate nella stessa Pisa e, in un caso, anche a Firenze.

Le ipotesi vengono argomentate in maniera convincente, corroborando ciascun caso con dovizia di particolari, e, soprattutto, lasciando aperto il campo a possibili nuove acquisizioni, in quanto i frutti della razzia potrebbero essere stati ancora molti e non si può escludere che possano almeno in parte essere identificati, non solo nella città toscana, ma anche in altri centri che furono coinvolti nell’impresa. Stefano Mammini

Kasdagli ha avuto per oggetto i manufatti scolpiti nella pietra che si trovano oggi in contesti diversi da quelli per i quali erano stati realizzati. Si tratta, in tutto, di oltre 200 reperti, che comprendono elementi architettonici, pietre tombali e lastre funerarie, nonché numerosi stemmi e insegne che un tempo facevano mostra di

DALL’ESTERO Anna-Maria Kasdagli Stone Carving of the Hospitaller Period in Rhodes Displaced pieces and fragments

Archaeopress Archaeology, Oxford, 214 pp., ill. b/n

35,00 GBP ISBN 978-1-78491-478-3 www.archaeopress.com

La presenza degli Ospitalieri di San Giovanni costituí uno dei capitoli piú significativi nella storia di Rodi. I cavalieri vi risiedettero infatti per poco piú di due secoli, dal 1309 al 1522, lasciando ampie tracce della loro permanenza. In particolare, la ricerca di Anna-Maria

sé su edifici civili e religiosi. Nei capitoli iniziali, l’autrice introduce il lettore alla storia di Rodi e alla sua topografia, per poi dedicarsi all’analisi tecnica e stilistica dei materiali scolpiti. A questo inquadramento fa seguito il catalogo sistematico dei reperti, suddivisi per classi tipologiche e funzionali. Completano il volume la schedatura dei manufatti e la documentazione grafica e fotografica. S. M. luglio

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Ritorno alle origini MUSICA • Ripercorrendo

idealmente i momenti cruciali dell’anno liturgico, l’antologia proposta dalla Schola Gregoriana Benedetto XVI propone una scelta di brani tratti dal repertorio religioso monodico. Un’operazione che, grazie al talento dei suoi interpreti, si rivela filologicamente impeccabile

C

he si tratti di canto gregoriano, ambrosiano o mozarabico, l’ascolto dell’antico repertorio monodico liturgico – che ha posto le fondamenta della musica occidentale – costituisce sempre un’esperienza singolare. Se per alcuni tale esperienza può assumere contorni mistici, per altri l’abbandonarsi a queste melodie sacre si trasforma in una sorta di ritorno alle origini stesse del linguaggio musicale, in cui la voce, che si esprime nella sua forma piú pura, si fa portavoce dell’autentica devozione cristiana. Con un itinerario che ripercorre idealmente l’intero anno liturgico, l’antologia Per anni circulum ci introduce, attraverso una selezione oculata dei brani, agli episodi piú rappresentativi che celebrano la figura di Gesú Cristo. Si parte, dunque, dal periodo dell’Avvento, che segna le quattro domeniche che precedono la nascita del Signore, passando per la celebrazione della Natività, proseguendo con la

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luglio

Settimana Santa e la Passione – momenti cruciali dell’intero anno liturgico – per culminare infine con la Resurrezione.

Tutti i generi del canto Un percorso liturgico nel quale è possibile ascoltare le varie tipologie di canto – antifonale, responsoriale –, passando per i vari generi: l’introito il graduale, l’antifona, il responsorio, senza tralasciare il Victimae Paschali Laudes, una delle pochissime sequenze medievali sopravvissute all’ostracismo dei padri tridentini. Ad accompagnarci nella suggestiva atmosfera mistica evocata dai 16 brani è un gruppo di recente formazione, la Schola Gregoriana Benedetto XVI, fondato nel 2007 e

Per Anni Circulum, Gregorian Chant Schola Gregoriana Benedetto XVI, direttore don Nicola Bellinazzo Brilliant Classics (95286), 1 CD www.brilliantclassics.com dedito essenzialmente al repertorio monodico. A dirigerlo è il monaco benedettino don Nicola Bellinazzo, la cui esperienza liturgica, musicologica e didattica ne fanno un interprete di grande spessore, come del resto prova questa pregevole registrazione, in cui il fraseggio musicale e la cura dell’emissione vocale esaltano al massimo la raffinatezza di questi canti, testimonianza altissima della religiosità medievale. Franco Bruni

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