Medioevo n. 243, Aprile 2017

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MEDIOEVO n. 243 APRILE 2017

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INCHIESTA SULL’ULTIMA CENA MISTERI DI CASTRO

PASQUA



SOMMARIO

Aprile 2017 ANTEPRIMA

CASTRO Castro e la febbre dell’oro

ANIMALI MEDIEVALI Un’invenzione di successo

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MUSEI «Delizie» lucchesi

8

di Giovanni Antonio Baragliu e Carlo Casi

40

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ARCHEOLOGIA Canale con sorpresa

10

ITINERARI Gioiello di frontiera

COSTUME E SOCIETÀ

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LA VERONICA Pellegrini della Vera Icona di Elisabetta Gnignera

APPUNTAMENTI La primavera comincia alle sei 18 La Pasqua dei diavoli danzanti 19 L’Agenda del Mese 22

CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI In (modesta) difesa del garum 104

STORIE

40

ICONOGRAFIA Ultima Cena

In tredici a tavola

di Federico Canaccini

30

30

72

PROTAGONISTI Siagrio Quel che resta di Roma di Giovanni Armillotta

Dossier ORVIETO

64

La regina della rupe di Giuseppe M. Della Fina

UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO Sacralità del legno

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LIBRI Lo scaffale I magnifici otto

111 112

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IN UL CH TIM IE S A TA CE NA SU LL’

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INCHIESTA SULL’ULTIMA CENA MISTERI DI CASTRO

PASQUA

15/03/17 15:13

MEDIOEVO Anno XXI, n. 243 - aprile 2017 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997

Illustrazioni e immagini: Getty Images: Artie Photography (Artie Ng): copertina – Mondadori Portfolio: pp. 32/33, 34-35; Electa/Sergio Anelli: p. 5; Electa/Antonio Quattrone: pp. 30/31, 33; Archivio Antonio Quattrone/ Antonio Quattrone: p. 38; Electa: pp. 38/39; AKG Images: pp. 64/65; Leemage: pp. 70/71 – Su concessione Soprintendenza Archeologia Belle Arti e il Paesaggio per le province di Lucca e Massa Carrara: pp. 8-9 – Doc. red.: pp. 10, 14 (alto), 42 (alto), 48/49, 69, 70, 75 (alto), 81 – Stefano Mammini: p. 12 – Cortesia Centro Culturale Diocesano di Susa: p. 13, 14 (basso) – Cortesia degli autori: pp. 18-19, 47, 86, 87, 88-89, 91, 93, 95-98, 100-102 – DeA Picture Library: pp. 36/37, 76; A. dagli Orti: p. 45; L. Pedicini: p. 105 – Shutterstock: pp. 37, 79, 80/81, 82-85, 86/87, 90, 92, 94, 99 – Massimo Tomasini: pp. 40/41, 42 (basso), 43, 44, 46, 48, 51-63 – Bridgeman Images: p. 50 – Archivi Alinari, Firenze: MBA, Rennes, Dist. RMN-Grand Palais/Adélaïde Beaudoin: p. 66; RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Jean-Gilles Berizzi: pp. 72/73; RMNGrand Palais (Musée de Cluny-Musée national du MoyenÂge)/Gérard Blot: p. 77 – Marka: Thomas Heymann/ ImageBROKER: p. 75 (basso) – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 43, 66/67, 69, 74, 80, 99.

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Hanno collaborato a questo numero: Giovanni Armillotta è cultore di storia e istituzioni dei Paesi afroasiatici e antropologia culturale all’Università di Pisa. Giovanni Antonio Baragliu è dirigente tecnico della Riserva Naturale «Selva del Lamone». Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesco Colotta è giornalista. Claudio Corvino è antropologo. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Elisabetta Gnignera è studiosa di storia del costume medievale e rinascimentale italiano. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Aart Heering è giornalista. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Chiara Parente è giornalista. Renata Salvarani è ricercatore di storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Università degli Studi Europea di Roma. Tiziano Zaccaria è giornalista.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Concessionaria per la pubblicità extra settore: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it

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In copertina Orvieto. La facciata del Duomo. Intitolata alla Vergine Assunta, la cattedrale è stata edificata tra il XIII e il XVII secolo

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Nel prossimo numero protagonisti

San Benedetto da Norcia

itinerari

Il Trasimeno nell’età di Mezzo

dossier

La vera storia del califfato


ANIMALI MEDIEVALI a cura di Federico Canaccini

Un’invenzione di successo

P

ur essendo un animale fantastico, i bestiari medievali sono ricchissimi di informazioni sull’unicorno, creatura reale al pari del drago. Le descrizioni medievali si rifacevano a quelle di autori classici, quali Ctesia, Plinio e altri enciclopedisti, alcuni dei quali si domandavano se non si trattasse del rinoceronte che vedevano combattere al circo e che uccideva sovente i propri avversari con il suo corno potente. Al tempo stesso, nel Medioevo le descrizioni si fecero piú elaborate, arricchendosi di particolari e interpretazioni legati al cristianesimo. L’unicorno è molto veloce, mentre il Monoceros (antica deonominazione del rinoceronte) è lento e massiccio e l’enigmatico e non meglio identificato Egliceron è di taglia ben piú ridotta. Se le dimensioni e il colore del manto possono variare, alcune peculiarità sono ben chiare a tutti: è l’unico animale dotato di un solo corno, lungo e dritto, piantato al centro della fronte ed è un essere ibrido, che prende in prestito varie parti del corpo da specie diverse. Il suo corno ha il potere di allontanare i demoni e purificare qualunque cosa tocchi: non a caso, l’unicorno rappresenta Cristo e il suo unico corno sta a simboleggiare che il Padre e il Figlio sono una cosa sola; due corna sarebbero inutili. Ctesia (storico e logografo greco del IV-III secolo a.C.) lo aveva descritto come un asino selvatico dalla testa rossa con gli occhi azzurri. Per Alberto Magno aveva invece corpo di cavallo, piedi di elefante, coda di leone e testa di cervo; altri invece gli attribuirono una testa caprina; e altri ancora corpo di cerva e coda di toro. Tutti i viaggiatori medievali diretti verso l’Oriente, verso le Indie, speravano di incontrare o addirittura di catturare il favoloso animale. Ma la sua ferocia, il suo orgoglio e la sua velocità lo resero inafferrabile. Per catturare o uccidere un unicorno, i cacciatori dovettero perciò ricorrere a un trucco (anch’esso ereditato dalla tradizione classica). Poiché la fiera era attratta dall’odore della verginità, si faceva sedere in una radura una fanciulla vergine: l’unicorno sarebbe allora uscito dalla tana, per poi inginocchiarsi di fronte alla ragazza e addormentarsi docilmente con il capo nel suo grembo. A quel punto i cacciatori potevano catturarlo o ucciderlo. Nel Medioevo la simbologia è quanto mai chiara: l’unicorno è Cristo, la fanciulla rappresenta Maria Vergine e il suo grembo la Chiesa. Non mancano, tuttavia, interpretazioni alternative: per alcuni autori l’unicorno è un animale crudele e diabolico, talmente malvagio che si deve ricorrere all’uso di una vergine per poterlo domare, cioè al simbolo della virtú e del bene. In giro per l’Europa si possono talvolta ammirare quelli che un tempo erano ritenuti essere i corni di questi

Roma, Palazzo Farnese. La Vergine e l’unicorno, affresco del Domenichino (al secolo Domenico Zampieri). 1604-1605. Secondo l’interpretazione cristiana, l’animale sarebbe il Cristo che s’addormenta nel grembo della Madre, visto come la Chiesa. fantastici animali e che venivano conservati nelle abbazie e poi nei gabinetti di rarità, per il loro potere di scacciare le forze maligne e neutralizzare i veleni. Si tratta, in realtà, del dente canino sinistro – lungo fino a 3 m e simile a un corno a torciglione – del narvalo, un cetaceo che vive nei mari del Nord. Marco Polo afferma di aver visto l’unicorno nel suo viaggio verso il Catai e cosí descrive il rinoceronte che invece gli si parò dinnanzi: «Egli hanno leonfanti assai salvatichi e unicorni che sono guari minori che leonfanti e sono di pelo di bufali e piedi come leonfanti; nel mezzo della fronte hanno un corno nero e grosso. E dicovi che non fanno male con quel corno, ma co’ la lingua, che l’hanno ispinosa tutta quanta di spine molto grandi; lo capo come di cinghiaro; la testa porta tuttavia inchinata verso terra ed istà molto volentieri tra li buoi. Ella è molto laida bestia a vedere. Non è, come si dice di qua, ch’ella si lasci prendere alla pulcella, ma è il contrario».


ANTE PRIMA

«Delizie» lucchesi MUSEI • La magnifica villa fatta costruire da Paolo Guinigi, signore di Lucca,

ospita da quasi un secolo una ricca collezione museale, che documenta la storia artistica della città toscana, dall’antichità all’età moderna

I

l 21 novembre del 1400, all’età di 24 anni, Paolo Guinigi assunse il potere facendosi nominare capitano e difensore del popolo e diventando signore di Lucca. Conservò quel ruolo per un trentennio, durante il quale incrementò i commerci, soprattutto nel settore tessile, con la produzione di seta, che prosperò grazie anche all’abile politica estera e all’alleanza con il papato. Guinigi ebbe anche amore per l’arte e fu un buon mecenate. Intorno al 1413, costruí l’edificio – una «residenza di delizie», originariamente ubicata appena fuori dalla cinta muraria duecentesca – che, dal secolo scorso, ospita il Museo Nazionale di Villa Guinigi. La raccolta è una risorsa fondamentale per conoscere Lucca e il suo territorio, attraverso la pregevole collezione di opere d’arte realizzate proprio per la città su committenza laica ed ecclesiastica da artisti lucchesi o stranieri.

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In alto la sezione del Museo di Villa Guinigi dedicata alle opere realizzate fra il Gotico e il Rinascimento. A destra scultura in pietra calcarea raffigurante un leone che artiglia una preda virile, nota come Pantera di Lucca. Maestro lucchese, XII sec. Il percorso espositivo si apre con la raccolta archeologica e si sviluppa fino al Settecento, articolandosi in cinque sezioni. Al piano terra, sono riuniti materiali pertinenti a insediamenti etruschi dell’VIII secolo a.C. – come cippi e ornamenti funebri –, reperti provenienti da Pozzi di Seravezza e databili tra il VII e il VI secolo a.C., nonché il ricco corredo della tomba di Rio Ralletta, con un cratere attico a figure rosse che fungeva da cinerario, presumibilmente attestabile intorno al 470 a.C. All’interno del vaso, insieme ai resti della defunta, furono rinvenuti numerosi oggetti di

DOVE E QUANDO

Museo Nazionale di Villa Guinigi Lucca, via della Quarquonia Orario ma-sa, 8,30-19,30: chiuso il lunedí, domenica e festivi Info tel. 0583 496033; e-mail: pm-tos.museilucchesi@ beniculturali.it; www.luccamuseinazionali.it aprile

MEDIOEVO


In questa pagina umbone e applicazioni laminari di uno scudo da parata longobardo. Fine del VI-inizi del VII sec. ornamento personale tra cui gioielli in ambra e oro. L’insieme testimonia il notevole livello economico raggiunto dagli Etruschi insediati nella piana del Serchio, la cui espansione demografica raggiunse l’apice proprio in quel periodo. Alla dominazione ligure, tra il IV e il III secolo a.C., risalgono invece vari frammenti di manufatti in bronzo e quattro tombe a cassetta, ritrovate a Marlia, corredate, tra l’altro, da olle, anelli e bracciali. La sezione delle antichità si chiude con ceramiche e terrecotte architettoniche, provenienti da edifici pubblici e privati, oltre che da necropoli di età romana dell’area lucchese.

l’omonima chiesa di Altopascio. Uno degli elementi tipici del Duecento lucchese – qui presente con le colonne provenienti dalla facciata della chiesa di S. Michele in Foro e dal chiostro di S. Giorgio – è l’incontro tra la cultura lombarda e quella locale. E la Croce lignea dipinta a tempera e oro da Berlinghiero Berlinghieri intorno al 1220 per il monastero di S. Maria degli Angeli, firmata BERLINGERIUS ME PINXIT sotto i piedi di Gesú, ne è una delle espressioni piú significative.

Oreficerie longobarde Salendo al livello superiore, si passa al settore che documenta l’orizzonte compreso fra l’Alto Medioevo e l’epoca romanica. Qui, insieme a brani di affreschi della chiesa dei Ss. Giovanni e Reparata, è esposto un pregevole nucleo di manufatti dell’VIII secolo, esempi dell’alto livello raggiunto dall’arte orafa longobarda, come alcune parti decorative di cintura, un pendente a forma di croce e le raffinate guarnizioni di scudo e di cintura rinvenute nell’oratorio di S. Giulia. Il millennio è invece illustrato dai raffinati capitelli della pieve di S. Giorgio di Brancoli, che costituisce uno degli esemplari piú significativi del nuovo linguaggio architettonico e figurativo della metà dell´XI secolo, caratterizzato dalla ripresa di moduli stilistici paleocristiani, mentre sono successive le sculture provenienti dalla fabbrica della Cattedrale, come il Busto di San Martino e i resti di transenna con San Pietro e San Jacopo che abbellivano

MEDIOEVO

aprile

La rappresentazione dalla ricca stesura pittorica, che propone il Christus triumphans con l’aureola impreziosita da gemme in pasta vitrea, accompagnato da Maria e san Giovanni Apostolo a figura intera nei tabelloni laterali, appare priva di accentuata drammaticità e dai contorni addolciti da tocchi cromatici sfumati. Lo stesso tema è sviluppato da Spinello Aretino nel trittico della Crocifissione con santi, uno dei dipinti piú importanti del museo, conservato nella sezione che prende in esame il passaggio dal Gotico al Rinascimento. Suddivisa in

tre comparti, la scena è popolata da molti personaggi secondari, come centurioni, astanti e dolenti, mentre ai lati – sempre su fondo oro e ciascuno in un proprio sito, delimitato da colonnine tortili – si riconoscono i quattro santi: Sisto Papa e Caterina d’Alessandria (a destra) e Margherita e Stefano Papa (a sinistra).

Fondi oro e sculture Il grande salone centrale, il cui allestimento ricorda la navata di una chiesa, ospita anche affreschi staccati, ricche tavole a fondo oro e sculture, tra cui la Vergine col Bambino di Tino di Camaino, il Sant’Antonio abate di Francesco di Valdambrino e il trittico di Angelo Puccinelli, raffigurante lo Sposalizio mistico di Santa Caterina, realizzato verso la fine del Trecento. Sono scarsissime le notizie biografiche di questo artista che sembra aver trascorso la maggior parte della sua vita proprio a Lucca, dove ebbe numerosi incarichi, come dimostrano i registri ecclesiastici, nei quali è menzionato per l’ultima volta nel 1407; purtroppo, quasi tutte le sue creazioni sono andate perdute. Il viaggio verso il XV secolo si conclude con le prime opere di carattere rinascimentale, come le due terrecotte attribuite a Donatello rappresentanti la Madonna col Bambino, che indicano gli stretti rapporti di Lucca con l’ambiente artistico fiorentino. Le ultime sale sono dedicate alla produzione che prosegue fino al neoclassicismo, passando per la Controriforma e che annovera, tra l’altro, lavori di Matteo Civitali, Iacopo Ligozzi, Antonio Franchi e Pompero Batoni che costituisce il trait-d’union tra le collezioni di Villa Guinigi e quelle di Palazzo Mansi, dove si riprende il filo cronologico dell’arte a Lucca, per giungere al XX secolo. Mila Lavorini

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ANTE PRIMA

Canale con sorpresa ARCHEOLOGIA •

Dalle acque di uno dei piú antichi canali di Amsterdam riaffiora un tratto delle mura che circondavano la città tra la fine del XV e gli inizi del XVII secolo

U

n tratto delle mura che dal 1480 al 1603 cingevano Amsterdam è venuto alla luce durante lavori di manutenzione delle banchine del Singel, uno dei primi canali della città. L’esistenza della cinta muraria era nota, e l’opera è ben visibile sulla piú antica mappa di Amsterdam, realizzata da Cornelis Anthonisz nel 1538. Finora, però, non se ne erano ritrovate tracce, a parte un solo blocco di pietra, ora murato nel Geldersekade (il molo di Gheldria). Le mura furono innalzate dall’allora signore di Amsterdam, Massimiliano d’Austria, il futuro imperatore. Alla fine del Quattrocento, la città era un florido centro commerciale abitato da circa 20 000 persone: come tale, rappresentava perciò un possibile obiettivo per i signorotti delle zone limitrofe. Nel giro di un secolo lo scenario cambiò radicalmente: la città era cresciuta enormemente fuori dalle mura ed era diventata la leader della nuova Repubblica delle Sette Province, cosicché si decise di abbattere la cinta, ormai obsoleta. L’opera si snodava dal Singel al Geldersekade, passando per la Zecca, il Kloveniersburgwal e la Schreierstoren (la Torre delle Piangenti, da dove le donne dei marinai salutavano i loro compagni in partenza per terre lontane). La

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In alto Amsterdam. L’area del canale del Singel in cui è affiorato un tratto della cinta muraria fatta innalzare da Massimiliano d’Austria. A destra la mappa di Amsterdam di Cornelis Anthonisz in una replica del 1557. Il circuito delle mura risulta ben visibile.

zona si trova ora nel cuore della città moderna ed è nota soprattutto per i suoi ristoranti etnici e le luci rosse.

La tenacia premiata L’archeologo Jerzy Gawronsky era da anni impegnato nella ricerca dei resti delle antiche mura, ma aveva finora individuato soltanto varie costruzioni ottocentesche. Fino allo scorso febbraio, quando una parte del Singel è stata prosciugata. Dopo avere rimosso uno strato di mattoni, è dunque affiorato un tratto delle mura: si tratta di 27

blocchi di pietra, che costituivano le fondamenta di arcate alte 5 m circa, sulle quali si snodava il camminamento di ronda. I blocchi sono stati rimossi, perché riposano su pali di legno che non garantiscono piú il sostegno naturale, e verranno ricollocati su una nuova base di cemento, nella nuova banchina. Questa volta, però, sopra il livello dell’acqua, in modo che il frammento della Amsterdam medievale appena recuperato possa diventare un’attrazione cittadina. Aart Heering aprile

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Gioiello di frontiera Susa (Torino). L’imponente campanile romanico della cattedrale di S. Giusto.

ITINERARI •

La plurisecolare vicenda di Susa è documentata da monumenti di grande pregio, nei quali si colgono gli echi degli scambi culturali favoriti dalla posizione di cerniera della città piemontese

attraverso i valichi del Moncenisio e del Monginevro. Nell’Alto Medioevo, per via della posizione strategica fra le terre dell’attuale Piemonte e quelle comprese nelle odierne province della Savoia e del Delfinato, quest’area di frontiera fu teatro di disordini e scontri militari, combattuti prima tra gli eserciti dei due regni dei Franchi e dei Longobardi (VII-VIII secolo), poi fra gli armati di quanti ambivano alla corona italica (X secolo). Il passaggio dei poteri alle diverse signorie locali, avvenuto in Piemonte nel XII secolo, giovò anche alle fondazioni religiose di Susa.

Per le reliquie di san Giusto Ne è un interessante esempio la cattedrale di S. Giusto. Il 9 luglio 1029 il vescovo di Asti Alrico, il marchese di Torino Olderico Manfredi e sua moglie Berta fondarono un monastero entro le mura cittadine e lo dotarono di vasti possedimenti e di una basilica, forse edificata tra il 1011 e il 1027 per ospitare le reliquie di san Giusto. Certamente l’edificio si trovava nella posizione dell’attuale cattedrale, che conserva alcune strutture architettoniche risalenti all’XI secolo, tra cui lo spettacolare campanile romanico, ritenuto uno dei piú grandi e imponenti del Piemonte. La chiesa, in parte trasformata

A

dagiata sulle rive della Dora Riparia e sovrastata dai monti – dominati dall’aguzza punta del Rocciamelone (3538 m) –, Susa (Torino) è da secoli il naturale centro di convergenza delle strade che collegano l’Italia alla Francia,

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Sulle orme di Carlo Magno Susa è segnalata tra le tappe della Grande Traversata delle Alpi (GTA), che unisce tutto l’arco alpino occidentale del Piemonte, privilegiando località ricche di storia e cultura, ma meno conosciute dal turismo di montagna. Agli appassionati di escursionismo, la città offre altri due interessanti itinerari: il Sentiero dei Franchi e il Sentiero aprile

MEDIOEVO


L’Arco di Augusto, fatto innalzare nel 9-8 a.C. per iniziativa del prefetto Cozio. in stile gotico, ha una pianta a croce latina con transetto ridotto. Di particolare interesse risulta la navata centrale. I grandi pilastri quadrangolari, che reggono, senza capitello all’imposta, archi a sesto acuto e le campate inquadrate entro arcate cieche, attestano una fase di transizione tra la colonna classica affiancata al pilastro e il pilastro lobato. Uno schema tipologico che rimanda al Duomo di Spira e alla chiesa abbaziale di S. Maria Laach, entrambi nella regione della Renania-Palatinato (Germania).

Sopravvivenze illustri dell’età romana La fronte della cattedrale di S. Giusto è addossata a Porta Savoia. Compresa nelle mure difensive, innalzate durante il tardo impero romano, questo pregevole esempio di architettura militare è formato da un’arcata sovrastata con un’alta cortina, stretta fra due torri cilindriche, ridotte nel 1789 e dotate di aperture per permetterne la difesa su tutti i lati. Susa possiede anche altri resti dell’epoca romana. Passeggiando nel Parco di Augusto, situato nella zona del Foro, è possibile ammirare l’Arco di Augusto. Semplice e solenne, è stato eretto in pietra di Foresto nel 9-8 a. C. su iniziativa del prefetto Cozio I, per celebrare l’imperatore. Lo contraddistingue nel fregio un bassorilievo, che rappresenta il patto di alleanza fra Augusto e Cozio e il rito sacrificale di un toro, una scrofa e una pecora. Nei pressi di Porta Savoia si trovano anche i resti dell’anfiteatro.

La firma di Pietro La cattedrale segusina riserva poi un’altra sorpresa: nella sala capitolare, si può ammirare un grande altare marmoreo, firmato dall’artefice, PETRUS LUGDUNENSIS, Pietro di Lione. Realizzato negli anni 1120-1130 e caratterizzato da raffinati capitelli dall’accentuato formalismo, esso testimonia la continuità della cultura figurativa locale nei confronti di una doppia apertura verso Occidente e verso Oriente. Inoltre la scelta di un marmo pregiato, l’esecuzione impeccabile, la colta calibratura dei rapporti tra membrature lavorate e campi liberi, alcuni dettagli inconfondibili – come le fogliette al termine delle scanalature dei pilastrini e la sofisticata decorazione delle lettere che compongono la firma –, contribuiscono a rendere il manufatto un riferimento fondamentale per la scultura della Borgogna e dell’asse rodaniano,

rivelando una nuova variante firmata del classicismo «lineare», che tanto affascina i visitatori a Cluny, Beaune, Paray-le-Monial e Autun. All’esterno di S. Giusto, nella lunetta che sovrasta una porta del fianco meridionale, è affrescata la Crocifissione. Il dipinto presenta figure fortemente stilizzate, bloccate in una sorta di sospensione dell’azione contro un fondo a bande. Per motivi

Balcone. Il primo è un percorso che, creato nel 1980 per ripercorrere l’ipotetico cammino di avvicinamento dell’esercito di Carlo Magno alle Chiuse assediate dai Longobardi, segue i secolari tracciati, privilegiati da viandanti e pellegrini in transito nella valle. Il secondo è un giro ad anello che, suddiviso in 14 tappe, collega attraverso sentieri e mulattiere 13 comuni dell’Alta Valle.

MEDIOEVO

aprile

stilistici, si colloca intorno al 1130 e riprende moduli di pittori francesi coevi. Ben confrontabile, anche per la gamma cromatica chiara, con i dipinti di Saint-Aignan a Brinay, databili al secondo quarto del XII secolo, presenta riferimenti cosí precisi con le pitture a fresco d’Oltralpe, da suggerire l’intervento di un maestro francese. Ciò non stupisce, sia per la posizione di Susa sulla Strada di Francia, sia per i rapporti tra i monaci di S. Giusto e alcuni confratelli della Francia e della Spagna settentrionale. Passeggiando lungo le vie del Borgo dei Nobili, su cui prospettano abitazioni con portali e finestre romanici e gotici – testimoni della ricchezza dell’antica aristocrazia

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ANTE PRIMA Quando la devozione è un’arte Inaugurato nel 2000, ampliato nel 2004 e recentemente ristrutturato, il Museo Diocesano di arte sacra di Susa si trova nei locali della rettoria, annessi alla chiesa della Madonna del Ponte, che, eretta nel XIII secolo, è stata riedificata nel 1591 e rimaneggiata nel Settecento. L’esposizione si articola in piú sezioni e raccoglie manufatti creati tra il VI e il XX secolo. Tra i rari pezzi si possono ammirare: due straordinari picchiotti in bronzo del XII secolo, recuperati dal portale della Cattedrale di Susa, il prezioso simulacro ligneo della Madonna della chiesa del Ponte, scolpito nel XII secolo e il celebre Trittico del Rocciamelone (1358), commissionato da Bonifacio Roero. Protagonista della vita politica, commerciante e prestatore di denaro con banchi in tutta Europa, il nobile magnate era aggiornato sui gusti del gotico d’Oltralpe e in grado di influenzare l’ambiente artistico locale, facendo eseguire questo splendido capolavoro in uno stile al passo coi tempi, forse da una bottega orafa di Bruges. In alto il Trittico del Rocciamelone, un ex voto in bronzo commissionato da Bonifacio Roero e forse realizzato da una bottega orafa di Bruges. 1358. Susa, Museo Diocesano d’Arte sacra. A sinistra la facciata di S. Giusto e l’adiacente Porta Savoia.

savoiarda, che qui giunse in seguito al trasferimento della corte da Chambéry a Susa –, si arriva al convento dei Minori, con la chiesa gotica di S. Francesco. Fondato insieme al convento nel 1244 da Beatrice dei conti di Ginevra, moglie di Tommaso I di Savoia, l’edificio di culto è stato costruito con materiali recuperati dal vicino anfiteatro romano. Nel chiostro, all’interno del monastero, si può ammirare

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un pregevole affresco che, dipinto da un anonimo artista nel quinto decennio del Trecento, ritrae otto busti di beati francescani. Accanto a noti esponenti dell’Ordine – come sant’Antonio di Padova e Leo da Perego, arcivescovo di Milano dal 1241 al 1257 –, compaiono altri monaci dal culto meno diffuso. I ritratti sono ospitati in medaglioni bianchi a quadrilobati, inscritti in un cerchio dello stesso colore e uniti

tra loro da tondi alternativamente decorati da un motivo vegetale e da uno a cerchi concentrici di colori diversi; quest’ultimo, detto a phalerae, era assai diffuso tra la fine del Duecento e il Trecento. Collocabili nella fase pittorica del Gotico internazionale, per la vivacità delle figure, il sottile gioco di simmetrie che le lega, il tentativo di distinguere nella fisionomia i soggetti rappresentati e la varietà dei loro gesti, le immagini costituiscono un unicum nella produzione valsusina della prima metà del XIV secolo. I tondi costituiscono anche una rarità dal punto di vista iconografico. L’esempio piú prossimo è quello con i beati, i cardinali e i santi domenicani realizzato da Tommaso da Modena nella sala capitolare di S. Nicolò a Treviso nel 1352, commissionato da fra Falione da Vazzola, in quegli anni priore del convento. Chiara Parente aprile

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ANTE PRIMA

Dall’immagine al nome CURIOSITÀ • La monetazione araba delle origini si mosse nel solco della grande

tradizione numismatica imperiale romana e poi bizantina. Fino a che il califfo Abd al-Malik non promosse una riforma mirata a modificare alcuni aspetti tecnici, ma che investí anche le scelte iconografiche alle quali attenersi

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F

ino a tempi abbastanza recenti, il sistema monetario piú diffuso è stato quello di tradizione musulmana e non europea. Vastissima, infatti, l’area sulla quale, con tempi e ritmi diversi, si diffuse: dalla Spagna e dal Marocco fino all’arcipelago malese, dal Kazan a Zanzibar. A differenza delle monetazioni sviluppatesi in Europa, essenzialmente figurative, quella araba assunse in breve un carattere quasi esclusivamente epigrafico. Tuttavia, malgrado queste differenze esteriori, le due monetazioni hanno alcuni aspetti in comune, a cominciare dagli «antenati». I principali nominali musulmani erano il dinar, il dirhem e il fels, rispettivamente d’oro, d’argento e di bronzo. Il dinar aureo e il fels di bronzo derivarono il loro nome dalle corrispondenti monete dell’impero bizantino. Il dinar, infatti, trae la sua denominazione – attraverso il siriano – dalla moneta aurea del tardo impero romano, propriamente detta denarius aureus. Anche il fels ha un’origine analoga, poiché discende dal follis. La moneta d’argento – il dirhem – prese invece il nome da una moneta sasanide: la dracma, a sua volta derivata dalla dracma greca. Anche in epoche successive si registrano simili «filiazioni». La denominazione del ghurush, la principale moneta argentea del sistema monetario ottomano, fu ripresa dal groschen che circolava nella confinante Austria. Per certi aspetti, la monetazione araba – che amalgama in un nuovo sistema monete di diverse e antiche tradizioni – è il frutto della fulminea avanzata dell’Islam sulle terre dell’impero bizantino e di quello sasanide. Nel corso dei primi cinquant’anni, gli Arabi apportarono lievi modifiche alle monetazioni in uso nelle province conquistate. Al dirhem d’argento ereditato dai Sasanidi si limitarono ad aggiungere una formula religiosa e, in alcuni casi, il nome del

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Dall’alto le due facce di un solido aureo dell’imperatore bizantino Eraclio (610-641) e di un dinar arabo che lo imita. governatore. In Siria e in Egitto la circolazione dei solidi aurei bizantini si protrasse a lungo e le prime emissioni arabe non sono altro che imitazioni di quelle bizantine, con piccole ma significative modifiche formali che ultime interessarono soprattutto la simbologia cristiana. In alcuni casi, addirittura, le raffigurazioni degli imperatori bizantini rimasero pressoché invariate (e non furono sostituite da quelle del califfo), ma fu eliminata la croce che in genere sormonta il diadema imperiale. Una sorte analoga toccò alla croce potenziata su gradini – tipica del rovescio dei solidi –, trasformata in una sorta di colonna. Fu solo il califfo Abd al-Malik che, tra il 690-700, decise di avviare la prima importante riforma del sistema monetario arabo, concertata con il suo ministro al-Hajjaj. Oltre a stabilire nuovi valori ponderali per le emissioni auree e per quelle argentee, fu deciso il ritiro dalla circolazione di tutte le monete arabo-bizantine e di quelle arabo-sasanidi. L’effigie del califfo apparve finalmente sui pezzi d’oro e di rame, mentre sulle emissioni d’argento fu riprodotto un mihrab cioè l’angolo per la preghiera. La scelta di imporre l’immagine di un personaggio vivente fu però aspramente criticata dai rappresentanti dell’ortodossia e, in breve tempo, anche queste emissioni furono sostituite. Da allora, gli elementi essenziali della monetazione araba sono, come si è detto, di tipo epigrafico, e la legenda riporta innanzitutto la professione di fede islamica. Solo in un secondo tempo si decise di aggiungere alle formule religiose il nome, il patronimico e il titolo del sovrano. Alessia Rovelli aprile

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ANTE PRIMA

La primavera comincia alle sei APPUNTAMENTI •

Il Paese «degli orologi» viene da sempre ritenuto il simbolo della puntualità. Una fama a cui sembra voler contribuire anche la festa che ogni anno, nel mese di aprile, anima le vie di Zurigo...

In alto un’immagine del corteo storico che attraversa il centro di Zurigo in occasione della Sechseläuten.

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uando in aprile rinasce la natura, le temperature aumentano e le giornate si allungano, gli abitanti di Zurigo celebrano la loro festa di primavera, la Sechseläuten. Questa tradizione affonda le radici nel XVI secolo, quando il Consiglio cittadino, allora composto solo dai membri di varie corporazioni zurighesi, decise di posticipare di un’ora l’orario di lavoro durante la bella stagione. Nei mesi invernali le condizioni di luce imponevano il riposo serale già alle cinque del pomeriggio, ma nei mesi caldi l’orario si spostava di un’ora, ovvero al rintocco (Läuten) delle sei (Sechs) di sera. E per indicare l’inizio della primavera, il primo lunedí dopo l’equinozio, la campana della chiesa di Grossmünster suonava puntuale alle sei. Per

celebrare l’arrivo della bella stagione, i membri delle corporazioni cittadine organizzavano festeggiamenti nell’antico Kratzquartier, mentre gruppi di ragazzi bruciavano i loro Böögg, personaggi simili a pupazzi di neve simboleggianti l’inverno. Soltanto alla fine dell’Ottocento le due usanze che si tenevano in contemporanea, la Sechseläuten e i falò dei Böögg, furono unificate. La ricorrenza del «rintocco delle sei» si celebra ancora oggi, ma non piú il primo lunedí dopo l’equinozio. aprile

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Nel secolo scorso la giornata è stata fissata al terzo lunedí di aprile; se però cade nella Settimana Santa, viene anticipata o posticipata di sette giorni. Quest’anno la Sechseläuten si svolgerà il 24 aprile. Nel pomeriggio del giorno precedente (domenica) la festa si apre con la sfilata in costume dei bambini, che vanno in corteo per il centro di Zurigo accompagnati da bande giovanili regionali.

Il corteo, la pira e la... grigliata Nel pomeriggio del giorno seguente va in scena la sfilata delle 25 corporazioni cittadine, formata da oltre 3000 figuranti, 300 cavalieri, 50 carri trainati da cavalli e 30 bande musicali. Il corteo attraversa la città imbandierata, dalla Bahnhofstrasse alla piazza di Sechseläuten, presso il Bellevue sul lago, dove si trova la pira per incendiare il Böögg. I A sinistra Zurigo. L’accensione della pira in cima alla quale è posto il Böög che ogni anno viene «sacrificato» in onore della primavera. A destra, in basso un’immagine del Ballo dei Diavoli di Prizzi (Palermo).

La Pasqua dei Diavoli danzanti È

fra le piú originali celebrazioni della Settimana Santa. A Prizzi, paese montano in provincia di Palermo, nella domenica di Pasqua (quest’anno il 16 aprile) si mette in scena il Ballo dei Diavoli, rappresentazione di origine medievale dell’eterna lotta tra il Bene e il Male. Questa tradizione folcloristico-religiosa conserva anche tracce di arcaiche feste pagane, incentrate sulla rinascita della natura dopo i freddi invernali. All’alba del giorno pasquale, gli abitanti del borgo siciliano vengono svegliati dal rumore provocato dai ragazzi che rappresentano i Diavoli e la Morte. I primi indossano un abito rosso, portano un’orrida maschera sul volto sormontata da due corna e con una grossa lingua penzolante, una pelle di caprone sulle spalle, e brandiscono catene. La Morte invece indossa un abito color giallo ocra, porta una maschera dal ghigno infernale dalla cui bocca fuoriescono le zanne e agita minacciosa una piccola balestra.

Quell’incontro non s’ha da fare... Questi personaggi inquietanti si aggirano per il paese, bussando alle case, facendo scherzi e disturbando i passanti, ai quali chiedono un obolo. Accanto a loro si muove il comitato organizzatore: adulti in costume, accompagnati dal «notaio» che raccoglie le offerte. Il culmine si ha nel pomeriggio, quando nella piazza principale di Prizzi i Diavoli tentano di impedire piú volte l’incontro tra la statua della Madonna e quella del Cristo risorto. A essi si oppongono gli angeli di scorta alle statue: una lotta, attuata secondo precise movenze ritmiche, chiamata appunto «Ballo dei Diavoli». Al terzo tentativo, i due angeli trafiggono con le lance i simboli del Male, consentendo alla Vergine di incontrare il Cristo risorto. La Madonna si libera allora del manto nero del lutto, per rivelare un vestito azzurro luminoso e brillante. Al termine il pubblico viene invitato a mangiare le cannatedde, tipico dolce pasquale a base di pasta frolla e uova sode. La rappresentazione, a metà fra il sacro e il profano, attira visitatori da tutta la Sicilia. Prizzi è situata a 1000 m circa d’altitudine, in posizione dominante sulle vallate dei Monti Sicani, e il suo centro storico conserva intatto il fascino medievale. T. Z.

cavalieri di alcune corporazioni cavalcano attorno al fantoccio accompagnati dal suono di una marcia, finché il Böögg finisce in fiamme allo scoccare delle 18,00. Secondo un’antica credenza popolare, piú velocemente il fuoco fa esplodere la testa (piena di fuochi d’artificio), piú bella sarà l’estate successiva. In serata, terminata la parte ufficiale del rito, sui resti del falò i cittadini organizzano una grande grigliata popolare. Tiziano Zaccaria

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ANTE PRIMA

Pagine rare

Da sinistra, in senso orario pagine della Divina Commedia del 1497; colophon di un manoscritto su cui compare il nome del copista Antonius Guarnera; uno dei disegni di Francesco Hayez.

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ltre a essere appuntamenti fissi per i collezionisti, le vendite all’asta possono trasformarsi in eventi culturali. È il caso della vendita di libri antichi e moderni allestita dalla Casa d’Aste Il Ponte – attiva sul mercato dal 1974 –, che si terrà Il prossimo 22 maggio, nei locali del seicentesco Palazzo Crivelli, nel cuore di Milano, e nella quale verranno battuti esemplari di straordinario pregio e interesse storico. In vista dell’evento, ne abbiamo incontrato la curatrice, Stefania Pandakovic, responsabile del dipartimento Libri, Manoscritti ed Incisioni della Casa d’Aste Il Ponte. Dottoressa Pandakovic, quale rilievo e quali novità caratterizzano l’asta del prossimo 22 maggio? «Forte dell’esperienza che ho maturato a Londra, presso la Christie’s, posso affermare che i libri italiani antichi riscuotono enorme interesse a livello internazionale e in occasione dell’asta in programma a Milano, presentiamo alcuni esemplari davvero straordinari. Il volume con i disegni di Hayez è un esemplare rarissimo e compare per la prima volta completo sul mercato. Anche la prima edizione del carme Dei Sepolcri di Foscolo è una scoperta sensazionale, finora mai messa in vendita. Per gli appassionati di storia medievale e rinascimentale segnalo un pregiatissimo volume della Divina Commedia del 1497, i Quattro Libri dell’architettura di Andrea Palladio e Le Maccaroniche, un’opera del 1520». L’interesse per il libro antico è in crescita? Possiamo definirlo un mercato in espansione?

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«Il mercato del libro antico e dei manoscritti resta di nicchia, ma ha sempre una notevole vitalità. Mi trovavo a Londra durante la crisi del 2008, e la categoria dei libri di pregio, a differenza di altri oggetti d’asta, ha retto maggiormente all’impatto di quella negativa congiuntura economica. Ho notato poi una crescita di interesse da parte dei giovani per i manoscritti di materia scientifica, un dato da valutare con grande attenzione». Quale tipologia di libri la affascina maggiormente? «Sono un’appassionata di libri veneziani del primo Cinquecento, ma anche di manoscritti medievali. Guardo comunque con interesse anche alla produzione moderna e contemporanea, in particolare ai libri di architettura e di arte. Il fascino del mio lavoro, però, è soprattutto il contatto con i clienti e con i collezionisti, dai quali con una certa frequenza apprendo particolari inediti sulla storia e il contenuto di un testo. Sono informatissimi e molto rigorosi nelle loro ricerche». Quanta passione per la storia c’è in chi organizza le vendite all’asta di libri? «È affascinante non solo studiare la composizione e la forma del testo, le sue illustrazioni, ma anche il percorso compiuto dal manoscritto. In quali mani è passato e perché, rintracciando magari quei profili di unicità che possono aumentarne il valore. E spesso il nostro lavoro precede quello degli storici, in quanto in prima battuta riusciamo a disporre di materiali custoditi per secoli da famiglie nobili e mai resi pubblici». aprile

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AGENDA DEL MESE

Mostre ROMA LEONARDO E IL VOLO Musei Capitolini fino al 17 aprile

Il Codice sul volo degli uccelli raccoglie la summa delle intuizioni elaborate da Leonardo sull’argomento. Nel manoscritto – un quaderno, composto da 18 carte e due copertine – il genio toscano definí una vera e propria teoria, attraverso la quale progettò le sue macchine volanti: l’analisi del volo degli uccelli fu condotta in modo rigorosamente meccanico elaborando progetti, appunti e disegni sulla fisionomia dei volatili, sulla resistenza dell’aria e sulle correnti. Le

pagine del Codice, che contengono anche spiegazioni su come coniare medaglie e preparare i colori, sono accompagnate da accurati disegni: volatili (il nibbio è l’uccello piú rappresentato), figure geometriche, disegni meccanici e architettonici. A rendere ancor piú prezioso il Codice sono sette disegni in sanguigna con figure vegetali e umane; in particolare, alla carta 10v, sembra celarsi un autoritratto leonardesco. Le apparecchiature multimediali touchscreen realizzate per la mostra permettono di «sfogliarlo»

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a cura di Stefano Mammini

virtualmente, di «navigarlo» in alta risoluzione e di «leggerlo» grazie alla trascrizione in italiano e in inglese. Arricchiscono l’esposizione alcune copie anastatiche del Codice, a partire dalla preziosa edizione francese della fine dell’Ottocento, provenienti anch’esse dalla Biblioteca Reale di Torino. info tel. 060608 (attivo tutti i giorni, 9,00-21,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it MODENA IL SEGNO DI ARIOSTO. AUTOGRAFI E CARTE ARIOSTESCHE NELL’ARCHIVIO DI STATO DI MODENA Archivio di Stato di Modena fino al 29 aprile

In occasione del 500° anniversario della prima edizione dell’Orlando Furioso, viene esposta una selezione delle 61 lettere autografe scritte dall’Ariosto tra il 1509 e il 1525. Le missive, tra cui due inediti, rimandano a distinte fasi biografiche e professionali del poeta: «familiare» del cardinale Ippolito I e di Alfonso I d’Este; ambasciatore dello Stato estense presso i papi Giulio II e Leone X; commissario in Garfagnana. Il carteggio presenta una fondamentale importanza politico-amministrativa e offre preziosi dati storici per lo Stato estense e per l’Europa, dando nel contempo testimonianza di una prosa autenticamente letteraria, intrecciata al grande impegno poetico per la stesura del Furioso. Fanno da corredo agli autografi alcuni testi (come l’unica lettera autografa di Ruzante conservatasi), edizioni antiche del Furioso e documenti iconografici dei secoli XVI-XVII (mappe di Ferrara, Roma, Reggio e Garfagnana, disegni di

macchine scenografiche, di giostre di cavalieri, di armi) e immagini delle filigrane delle carte inviate da Ariosto dai vari luoghi in cui risiedeva. info tel. 059 23 05 49; e-mail: as-mo@beniculturali.it FIRENZE IL RESTAURO DEL TRITTICO CON LA RESURREZIONE DI LAZZARO DI NICOLAS FROMENT Gallerie degli Uffizi, Sala del Camino fino al 30 aprile

Viene presentato al pubblico, dopo il restauro realizzato grazie al contributo degli Amici degli Uffizi, il trittico raffigurante la Resurrezione di Lazzaro del francese Nicolas Froment, maestro originario della Piccardia e lungamente attivo in Provenza, di cui rimangono oggi pochissime opere. Firmato e datato 1461, il dipinto è una delle opere piú considerevoli della collezione degli artisti stranieri del XV secolo alle Gallerie degli Uffizi, oltre che un’importante testimonianza dell’interesse della committenza italiana per la pittura del Nord Europa. Il trittico è pervenuto alle gallerie fiorentine dal convento francescano di Bosco ai Frati in Mugello in seguito alle soppressioni di epoca napoleonica. Il restauro recentemente concluso ha restituito brillantezza alla

cromia squillante della stesura pittorica, migliorando la leggibilità di particolari minuti e curiosi. È stata inoltre accertata l’originalità della maggior parte degli elementi che costituiscono la cornice, fra cui il bellissimo traforo gotico presente nella tavola centrale. info tel. 055 23885 (centralino); www.uffizi.it MONTEFALCO (PERUGIA) ANTONIAZZO ROMANO E MONTEFALCO Complesso museale di S. Francesco fino al 7 maggio

Nella Roma della seconda metà del XV secolo, Antoniazzo Romano (al secolo Antonio di Benedetto degli Aquili) era certamente il pittore piú famoso: guidava una fiorente bottega, che lo affiancava nei cantieri impegnati nella decorazione di chiese e conventi e nella produzione di tavole devozionali e d’altare. Il maestro romano è ora protagonista dell’esposizione allestita nel Complesso museale di San Francesco a Montefalco, che accoglie il trittico della Madonna col Bambino tra i Santi Paolo, Benedetto, Giustina e Pietro, realizzato tra gli anni 1488-1490 e conservato presso la Pinacoteca della Basilica di S. Paolo Fuori le

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viene ora presentata, per la prima volta, nella mostra allestita presso i Cloisters, la sezione staccata del Metropolitan Museum dedicata all’arte e all’architettura del Medioevo. Fra i materiali di maggior pregio, spiccano il rosario realizzato per Enrico VIII

Mura a Roma. Gli ori del dipinto romano, restaurato nei laboratori dei Musei Vaticani, brillano accanto alla pala San Vincenzo da Saragozza, Santa Illuminata, San Nicola da Tolentino, proveniente dalla chiesa di S. Illuminata di Montefalco e oggi custodita nella Pinacoteca cittadina. Antoniazzo Romano realizzò la pala con i santi Vincenzo, Illuminata e Nicola da Tolentino nel 1430-35 per la cappella di S. Caterina nella chiesa di S. Maria del Popolo a Roma. Giunse a Montefalco nel 1491 e venne posta nella chiesa di S. Illuminata, grazie all’intervento di frate Anselmo da Montefalco, generale dei frati agostiniani. In quell’occasione fu eseguito un adattamento dei santi raffigurati sulla tavola, di cui il restauro dà testimonianza: santa Caterina d’Alessandria, titolare della cappella romana, fu trasformata in santa Illuminata, coprendone la ruota del martirio; sant’Antonio da Padova venne spogliato del saio francescano e rivestito di

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quello agostiniano al fine di trasformarlo in san Nicola da Tolentino. L’unico santo non modificato fu Vincenzo da Saragozza, connotato dal vascello. info www.sistemamuseo.it NEW YORK PICCOLE MERAVIGLIE: MINIATURE GOTICHE IN BOSSO The Met Cloisters fino al 21 maggio

Piccole nelle dimensioni, ma piene di vita, le miniature in legno di bosso – pianta originaria del Mediterraneo che ha conosciuto uno straordinario successo nella creazione dei giardini - sono state fonte di meraviglia fin da quando ebbe inizio la loro produzione, nell’Olanda del Cinquecento. I miracoli e i drammi della Bibbia vengono rievocati su manufatti riccamente lavorati che spesso misurano non piú di 5 cm. Gli oggetti venivano realizzati per essere utilizzati come elementi di rosario o altari in miniatura e una loro selezione

d’Inghilterra e per la sua prima moglie, Caterina d’Aragona, e una scultura miniaturistica, in forma di lettera P, ornata con scene della leggenda di san Filippo. info http://www.metmuseum.org

Longhi (1890-1970): entrambi, infatti, furono studiati e «riscoperti» dallo storico dell’arte già dai suoi anni formativi. Del Caravaggio Longhi fu «scopritore» moderno, lucido studioso e collezionista, tanto da acquisire per la propria «raccolta», intorno al 1928, il Ragazzo morso da un ramarro; e su Piero della Francesca, lo studioso scrisse, nel 1927, una monografia tuttora imprescindibile, anticipata dal lucidissimo saggio del 1914, Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana. A ideale apertura della mostra è il meraviglioso Polittico della Misericordia. La tavola di Ercole de’ Roberti Ritratto di giovane, che reca nel verso un Ritratto di giovane donna – appartenente a una collezione privata – viene esposta a testimonianza della «discendenza, per quanto evoluta e ormai incrociata di veneto», del profilo «nitido» del giovane dai ritratti di Piero, come ebbe a riconoscere Longhi nel volume Officina ferrarese del 1934. Accanto al Caravaggio, alla tavola di Ercole de’ Roberti, e al polittico di Piero della Francesca, sono esposti documenti provenienti

SANSEPOLCRO NEL SEGNO DI ROBERTO LONGHI. PIERO DELLA FRANCESCA E CARAVAGGIO Museo Civico fino al 4 giugno

L’inedito accostamento tra Caravaggio e Piero della Francesca potrebbe a prima vista sembrare azzardato. Eppure, le motivazioni emergono se si guardano i due artisti, tra loro cosí lontani e diversi, nel segno di Roberto

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AGENDA DEL MESE dall’archivio, dalla biblioteca e dalla fototeca della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi. info tel. 199 151 121; www.mostrapieroecaravaggio.it CONEGLIANO BELLINI E I BELLINIANI, DALL’ACCADEMIA DEI CONCORDI DI ROVIGO Palazzo Sarcinelli fino al 18 giugno

La nuova mostra in Palazzo Sarcinelli prosegue le esplorazioni sulle trasformazioni dei linguaggi della pittura veneziana e veneta negli anni magici tra Quattro e Cinquecento, approdando alla figura imprescindibile di Giovanni Bellini, nel quinto centenario della morte del maestro. Chi sono, quindi, i giovani artisti e collaboratori del grande Giambellino? Come si formarono, quale posto avevano nella produzione della bottega? Che cosa trassero e che cosa a loro volta tramandarono dalla frequentazione e dalla stessa collaborazione con un artistaintellettuale tanto sublime per pensiero e per invenzione, per tecnica e non meno che per precisione formale? L’esposizione prende le mosse proprio da queste domande e trova nella raffinata collezione dell’Accademia dei Concordi di

Rovigo lo spunto per tracciare una sorta di mappa del milieu belliniano. Dai due celebri capolavori di Bellini in mostra – la Madonna col Bambin Gesú e il Cristo portacroce – il percorso espositivo propone importanti confronti, contaminazioni, suggestioni con opere di altri artisti, da Palma il Vecchio a Dosso Dossi fino a Tiziano e Tintoretto, o, addirittura, a maestri tedeschi e fiamminghi (come Mabuse e Mostaert) per sottolineare la centralità di Giovanni Bellini rispetto a uno scenario non solo veneziano e veneto. info tel. 0438 1932123; www.mostrabellini.it

disposizione della comunità, anche scientifica, un patrimonio collezionistico fino ad allora privato e dunque di difficile consultazione. Sono ora trascorsi vent’anni e per l’occasione vengono presentate alla città e al pubblico opere di grande

LA SPEZIA L’ELOGIO DELLA BELLEZZA. 20 CAPOLAVORI, 20 MUSEI, PER I 20 ANNI DEL LIA Museo Lia fino al 25 giugno

Il 6 giugno del 1995 il notaio Leonardo Milone di Roma redige l’atto di donazione unilaterale a favore del Comune della Spezia, con il quale Amedeo Lia assegna alla sua città d’adozione la preziosa e cospicua raccolta d’arte, forte di quasi milleduecento opere tra dipinti, sculture, miniature e oggetti. A poco piú di un anno, il 3 dicembre del 1996, il Museo Civico «Amedeo Lia» ha aperto al pubblico, mettendo a

significato provenienti da altre istituzioni museali che in questi due decenni hanno collaborato con il Lia. Venti opere, una per ogni anno trascorso, distribuite lungo il percorso museale, a integrazione, pur provvisoria, della collezione permanente. info tel. 0187 731100 http://museolia.spezianet.it MONTEPULCIANO, SAN QUIRICO D’ORCIA, PIENZA (SIENA) IL BUON SECOLO DELLA PITTURA SENESE. DALLA MANIERA MODERNA AL LUME CARAVAGGESCO Museo Civico Pinacoteca Crociani, Palazzo Chigi Zondadari, Conservatorio S. Carlo Borromeo fino al 30 giugno

Il progetto espositivo è nato dalla volontà di mettere finalmente in luce gli interpreti della pittura in terra di Siena tra i primi del Cinquecento e la seconda metà del 1600. Artisti di eccellente e spesso notevolissimo livello, ancora non tutti compiutamente studiati e conosciuti. La mostra

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è strutturata in tre sezioni, divise cronologicamente in relazione alla presenza di opere d’arte già esistenti in loco. Il Museo Civico Pinacoteca Crociani di Montepulciano ospita la sezione Domenico Beccafumi, l’artista da giovane, che, partendo dal ritrovamento di un’opera documentata dell’attività giovanile dell’artista, la Sant’Agnese Segni, illustra, dapprima, i documenti e le testimonianze che hanno reso possibile la nuova attribuzione e, successivamente, di analizzare le notevoli problematiche inerenti la personalità artistica del giovane Beccafumi. A San Quirico d’Orcia, in Palazzo Chigi Zondadari, viene invece proposto il percorso Dal Sodoma al Riccio: la pittura senese negli ultimi decenni della Repubblica, che si dipana attorno alla Madonna col Bambino e i Santi Leonardo e Sebastiano di Bartolomeo Neroni detto il Riccio, appartenente alla Compagnia del Santissimo Sacramento di San Quirico d’Orcia. La sezione prende quindi in esame il periodo artistico che va dalla tarda attività del Sodoma, di cui sono presenti diverse e importanti opere. Il Conservatorio S. Carlo Borromeo di Pienza, infine, ospita la sezione Francesco Rustici detto il Rustichino, caravaggesco gentile e il naturalismo a Siena. L’allestimento è qui incentrato sulla pala di Francesco Rustici raffigurante la Madonna col Bambino e i Santi Carlo Borromeo, Francesco, Chiara, Caterina e Giovanni Battista e costruisce attorno a quest’opera una interessante esposizione riguardante principalmente l’attività del aprile

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Rustichino, di cui sono presenti, riuniti insieme per la prima volta, diversi capolavori. info tel. 0578 757341 (Pro Loco di Montepulciano) tel. 0577 899728 (Ufficio Turistico San Quirico d’Orcia); tel. 0578 748359 (Ufficio Turistico di Pienza) e-mail: ilbuonsecolodella dellapitturasenese@gmail.com https://ilbuonsecolodella pitturasenese.wordpress.com/ FIRENZE FACCIAMO PRESTO! MARCHE 2016-2017: TESORI SALVATI, TESORI DA SALVARE Gallerie degli Uffizi, Aula Magliabechiana fino al 30 luglio

La mostra, i cui proventi verranno utilizzati per la ricostruzione dei monumenti colpiti dal sisma, presenta una selezione di capolavori provenienti dai paesi e dalle

cittadine delle Marche, in particolare dalle province di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata colpite dal terribile terremoto che ha semidistrutto o reso inagibili le chiese, i palazzi e i musei dove erano custoditi, spesso fin dalla loro origine. Occasione eccezionale per far conoscere i tesori di

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aprile

questi territori dell’entroterra marchigiano meridionale, l’iniziativa intende costituire un omaggio alle Marche da parte delle Gallerie degli Uffizi, che, grazie all’eredità di Vittoria della Rovere, mantengono un forte legame storico con le collezioni artistiche marchigiane e in particolare urbinati. La scelta delle opere esposte si prefigge anche l’intento di ripercorrere sinteticamente un ideale percorso nella storia dell’arte di questi territori a partire dal Medioevo e fino al XVIII secolo. info tel. 055 23885 (centralino); www.uffizi.it

nella seconda, si passa invece ai materiali scaturiti dagli scavi condotti dall’INRAP. info www.cite-sciences.fr

PARIGI

FIRENZE

CHE C’È DI NUOVO NEL MEDIOEVO? Cité des sciences et de l’industrie fino al 6 agosto

IL COSMO MAGICO DI LEONARDO DA VINCI: L’ADORAZIONE DEI MAGI RESTAURATA Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture fino al 24 settembre

In Francia, la pratica dell’archeologia preventiva è gestita dall’INRAP (Institut national de recherches archéologiques preventives), che è fra gli ideatori di questo nuovo progetto espositivo e grazie alle cui ricerche è stato possibile riunire i materiali presentati. Si tratta di un repertorio in molti casi inedito, che permette di inserire nel racconto dei mille anni del Medioevo molte novità importanti, accomunate da un dato ormai inconfutabile: quei dieci secoli furono ricchi di storia, ma anche di innovazioni e invenzioni e nessuno piú, ormai, si lascerebbe andare a definirli «bui». La descrizione di questa età di Mezzo (almeno in parte) inaspettata si sviluppa in due grandi sezioni: nella prima, vengono messi a punto i riferimenti cronologici essenziali, corredati da alcuni manufatti particolarmente rappresentativi del periodo;

L’Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci torna agli Uffizi dopo sei anni dedicati al restauro e alle indagini conoscitive dell’opera, condotti dall’Opificio delle Pietre Dure con il sostegno economico

degli Amici degli Uffizi. La tavola fu commissionata a Leonardo nel 1481 dai monaci agostiniani per la chiesa di S. Donato a Scopeto; la partenza del maestro per Milano, nel 1482, determinò l’abbandono dell’opera, mai ultimata da Leonardo, tanto che alcuni anni piú tardi i committenti fecero eseguire a Filippino Lippi un’altra pala d’altare con l’Adorazione dei Magi, terminata nel 1496. Il dipinto, interrotto da Leonardo dopo una lunga elaborazione preliminare, rimase per qualche tempo nelle case della famiglia fiorentina dei Benci, per poi entrare nelle collezioni dinastiche dei Medici. Costituisce oggi la tavola vinciana di piú grandi dimensioni pervenutaci (246 x 243 cm). Il suo restauro, oltre ad avere risolto alcuni problemi conservativi, ha consentito di recuperarne tonalità cromatiche inaspettate e la sua piena leggibilità, ricchissima di dettagli affascinanti che aprono nuove prospettive sul suo complesso significato iconografico. Con

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AGENDA DEL MESE l’Adorazione dei Magi di Leonardo, viene esposta anche la versione eseguita da Filippino Lippi nel 1496, in un affascinante dialogo che fa emergere le diversità tra i due maestri e la loro differente interpretazione del soggetto, frutto delle mutazioni politiche e culturali intercorse a Firenze nell’arco di poco piú di un decennio. info tel. 055 23885 (centralino); www.uffizi.it SIENA LA BELLEZZA FERITA. NORCIA, EARTH HEART ART QUAKE. LA SPERANZA RINASCE DAI CAPOLAVORI DELLA CITTÀ DI SAN BENEDETTO Cripta sotto il Duomo e Complesso Museale Santa Maria della Scala fino al 29 ottobre

Il 24 agosto 2016 un forte terremoto colpisce il Centro Italia. Il 26 e 30 ottobre 2016, altre scosse «feriscono» Norcia e il territorio circostante. La basilica di S. Benedetto, la concattedrale di S. Maria Argentea e tutte le chiese della città e dintorni sono distrutte. I monaci, insieme alla popolazione, pregano in ginocchio nella piazza, dinanzi alla statua del santo che ha fondato l’Ordine benedettino. A seguito del sisma, la Protezione Civile, il Corpo Nazionale Vigili del Fuoco, il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale e la Soprintendenza

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APPUNTAMENTI • Medioevo in libreria, XV Edizione: «Scienza e innovazione nel Medioevo» Milano – Civico Museo Archeologico, Sala Conferenze

fino all’8 aprile 2016 info tel. 02 45329840; e-mail: info@ italiamedievale.org; www.italiamedievale.org; http://medioevoinlibreria.blogspot.it

S

i chiude la XV edizione di «Medioevo in Libreria», dedicata quest’anno al tema «Scienza e innovazione nel Medioevo», con l’intento di smentire i luoghi comuni che mostrano un’età di Mezzo immobile, buia, barbara. Ecco il programma dell’ultimo appuntamento: ✓8 aprile. Ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Maria Bianca, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Francesca Roversi Monaco, Università degli Studi di Bologna: Sperimentazioni del potere nell’Italia padana: il comune come laboratorio politico. Prima della conferenza, alle ore 15,30, sarà proiettato il filmato Medioevo Movie-Viaggio nel Medioevo. Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria, insieme con l’Ufficio Beni Culturali dell’Archidiocesi di Spoleto-Norcia, hanno provveduto alla messa in sicurezza delle opere d’arte del territorio. Alcune di esse sono ora ospitate dalla città di Siena e protette all’interno delle sue viscere: nella cosiddetta «Cripta» sotto il Duomo, dedicato alla Vergine Maria, e nel percorso del Santa Maria della Scala, luogo principe dell’accoglienza, dai pellegrini agli infermi, dai bambini abbandonati, i gittatelli, fino agli indigenti, senza cibo né tetto. L’allestimento prevede un itinerario attraverso i capolavori prima custoditi all’interno di basiliche, santuari e pievi del territorio. Una serie di video, concessi dal Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, e materiali fotografici di fotoreporter locali permettono inoltre la visione delle fasi di recupero delle opere dopo il terremoto. info e-mail: bellezzaferita@ operalaboratori.com; tel. 0577 286300; www.operaduomo.siena.it; www.santamariadellascala.com

Appuntamenti ROMA LUCE SULL’ARCHEOLOGIA Teatro Argentina 23 aprile

Si conclude presso il Teatro Argentina di Roma la III edizione del ciclo di incontri «Luce sull’Archeologia», che ha avuto come filo conduttore il tema: «Roma oltre Roma». L’ultimo appuntamento in programma è il seguente: 23 aprile, ore 11,00 La fine del mondo antico: da Roma a Costantinopoli (Alessandro Barbero, Massimiliano Ghilardi). Costantino spostò a Bisanzio la capitale dell’impero romano; dopo di lui, Roma accolse sempre piú raramente gli imperatori e finí per identificarsi piuttosto come capitale della Chiesa cattolica. Ma quali furono i veri motivi di questa decisione epocale? E che rapporto ebbe Costantino con Roma? Con la fondazione e la successiva ascesa di Costantinopoli, l’Urbe conobbe un lento ma inarrestabile declino, solo in parte mitigato da campagne di restauro ad architetture templari e costruzioni di nuovi edifici per

il culto cristiano. Saccheggi ripetuti, ben tre solo nel corso del V secolo, e il conflitto greco-gotico segnarono la fine della città antica. info tel. 06 684000.311-314; www.teatrodiroma.net MODENA IL SEGNO DI ARIOSTO Liceo classico e linguistico «L.A. Muratori-San Carlo», Aula Magna fino al 29 aprile

In occasione dell’omonima mostra documentaria allestita presso l’Archivio di Stato della stessa Modena, è in programma un ciclo di conferenze e lezioni aperte alle scuole e alla città sulla figura di Ludovico Ariosto. Gli incontri si svolgono dalle 10,00 alle 11,00, con ingresso libero. Ecco il calendario dei prossimi appuntamenti: 8 aprile Ariosto e le arti figurative (Sonia Cavicchioli); 29 aprile Il mondo di Ariosto e Lucrezia Estense de Borgia tra dediche e carteggi (Bruno Capaci). info tel. 059 23 05 49; e-mail: as-mo@beniculturali.it; www.asmo.beniculturali.it aprile

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iconografia l’ultima cena

di Federico Canaccini

In tredici Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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on la caduta di Gerusalemme e degli ultimi avamposti in Terra Santa (eventi che ebbero il loro epilogo a San Giovanni d’Acri, presa dai musulmani nel 1291), l’indulgenza un tempo promessa a chi impugnava la Croce per liberare il Sepolcro fu veicolata in un nuovo pellegrinaggio, non piú armato, non piú verso Gerusalemme, ma verso la Nuova Gerusalem-

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me, dove sedeva il vicario, non piú di Pietro, ma di Cristo: Roma. Fin dal Basso Medioevo si era andata consolidando quest’idea di traghettamento del sacro dall’Oriente verso l’Occidente, iniziata con il trasporto delle reliquie verso l’Europa e con la nascita di molteplici pellegrinaggi e indulgenze. Nel corso del Duecento, poi, tale idea si affermò per piú versi, spostando

l’interesse dai luoghi di Cristo, in Terra Santa, a Cristo stesso e al sacramento dell’Eucarestia da lui istituito: era quello il corpo da ricercare, adesso, non piú il luogo su cui quel corpo era stato adagiato. A conferma di tutto ciò, si registrano alcuni eventi significativi: la traslazione della reliquia del Santo Sangue a Bruges (dove, secondo la tradizione, sarebbe stata portata da aprile

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a tavola

La rappresentazione dell’Ultima Cena godette di grande popolarità nell’arte d’ispirazione sacra e adottò come riferimento il racconto contenuto nel Vangelo di Giovanni. Tuttavia, molte potevano essere le varianti, anche significative, dettate dai principi degli Ordini religiosi che solitamente commissionavano simili composizioni

Teodorico d’Alsazia nel 1150, all’indomani della seconda Crociata, n.d.r.); l’inaugurazione a Parigi della Sainte-Chapelle (1248), il piú grande reliquiario della Passione di Cristo; il miracolo di Bolsena (1263), che mostrò nuovamente il sangue vivo scaturire dalle particole della comunione e la successiva istituzione della festa del Corpus Domini. Tutto questo indicava una nuova

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strada, ben lontana da quella delle Crociate: il Cristo che moriva non si incontrava piú solo sul Golgota a Gerusalemme, ma su ogni altare in cui si celebrava il rito dell’Ultima Cena. Non si doveva poi attraversare il mare per vedere il Sepolcro vuoto, ma ci si recava a Roma per vedere i segni tangibili della presenza umana di Cristo: il legno della Croce, i chiodi della crocifissione, il velo

Milano, refettorio del convento di S. Maria delle Grazie. L’Ultima Cena dipinta da Leonardo da Vinci tra il 1494 e il 1497. L’opera fu commissionata al maestro da Ludovico il Moro.

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iconografia l’ultima cena

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il racconto di giovanni

«Uno di voi mi tradirà» Le rappresentazioni dell’Ultima Cena che si diffusero nel Medioevo si basavano sul racconto che Giovanni inserí nel XIII capitolo del suo Vangelo: «Dette queste cose, Gesú si commosse profondamente e dichiarò: “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà”. I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesú amava, si trovava a tavola al fianco di Gesú. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: “Di’, chi è colui a cui si riferisce?”. Ed egli reclinandosi cosí sul petto di Gesú, gli disse: “Signore, chi è?”. Rispose allora Gesú: “È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò”. E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone. E allora, dopo quel boccone, Satana entrò in lui. Gesú quindi gli disse: “Quello che devi fare fallo al piú presto”. Nessuno dei commensali capí perché gli aveva detto questo; alcuni infatti pensavano che, tenendo Giuda la cassa, Gesú gli avesse detto: “Compra quello che ci occorre per la festa”, oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri. Preso il boccone, egli subito uscí. Ed era notte». della Veronica (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 72-77), la tavola su cui Gesú aveva istituito l’Eucarestia, conservata in Laterano. Gerusalemme era ormai perduta: caduta in mano al Saladino, papa Innocenzo III la definí addirittura «Jerusalem miserabilis, quae est in Syria». C’è un’eco di tutte queste vicende persino in una preghiera, il Pange

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lingua, che conobbe un’enorme fortuna presso i devoti del Basso Medioevo: «Pange, lingua, gloriosi corporis mysterium, sanguinisque pretiosi, quem in mundi pretium fructus ventris generosi Rex effudit gentium» («Canta, o lingua il mistero del glorioso Corpo e del Sangue prezioso, che il Figlio del nobile grembo, Re dei popoli, versò a riscatto del mondo»).

Il tema dell’Ultima Cena, dunque, crebbe enormemente in Occidente già dal Duecento e, nel XIV e poi nel XV secolo, si moltiplicarono gli affreschi raffiguranti il cenacolo. La città di Firenze, come del resto molte altre in Italia, conserva un numero impressionante di rappresentazioni dell’Ultima Cena. Se analizzate con un particolare filtro, esse sono un’ottima chiave di lettura dei diversi Ordini religiosi del tempo: ogni scelta pittorica, infatti, ha motivazioni legate al luogo in cui questi Cenacoli venivano dipinti, o all’Ordine – femminile o maschile – da cui venivano commissionati.

Duplice significato

Già nel Medioevo con il termine Cenaculum – che, in realtà, indicherebbe la stanza in cui fu consumato l’ultimo pasto con i Dodici – si prese a indicare prima la sua rappresentazione pittorica e poi la sala in cui queste pitture venivano eseguite, cioè il refettorio, il luogo in cui le religiose o i religiosi mangiavano assieme, trovando nell’episodio evangelico un motivo di riflessione. La decorazione del refettorio avveniva solitamente quando l’Ordine aveva raggiunto una certa stabilità, aprile

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A sinistra la disposizione dei personaggi nell’Ultima Cena di Leonardo. Da sinistra: 1. Bartolomeo; 2. Giacomo; 3. Andrea; 4. Pietro; 5. Giuda Iscariota; 6. Giovanni; 7. Gesú; 8. Tommaso; 9. Giacomo Maggiore; 10. Filippo; 11. Matteo; 12. Giuda Taddeo; 13. Simone. In basso il refettorio di S. Maria delle Grazie.

e la scena andò progressivamente a cristallizzarsi in una modalità sempre piú statica e iconica. Il testo a cui si poteva fare riferimento era il Vangelo di Giovanni, l’apostolo che partecipò a quella Cena, e gli episodi da rappresentare ruotavano, in sostanza, attorno a quattro attori fondamentali: Cristo, Giuda, Pietro e lo stesso Giovanni (vedi box alla pagina precedente). Osserviamo allora alcuni di questi Cenacoli fiorentini: quello di Taddeo Gaddi, in Santa Croce; quello di Andrea del Castagno, in S. Apollonia; quello di Stefano d’Antonio di Vanni, conservato nello Spedale di S. Matteo; quelli del Ghirlandaio, in Ognissanti, a S. Marco e alla Badia di Passignano, e ancora quello del Perugino, a S. Onofrio, e, infine, quello in S. Girolamo, attribuita a un allievo del Ghirlandaio. L’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, probabilmente il Cenacolo piú famoso di tutti i tempi, sarà citata talvolta, anche per svelare qualche «segreto». Nelle pitture succitate, che adornano cenacoli di istituzioni sia maschili che femminili, tutti gli autori si concentrano sui momenti topici dell’episodio evangelico: dopo l’an(segue a p. 37)

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iconografia l’ultima cena

Sulle due pagine particolari dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci: in alto, Pietro (al centro) si rivolge a Giovanni, chiedendogli a chi alluda

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Gesú nell’annunciare che uno degli Apostoli è destinato a tradirlo; nella pagina accanto, da sinistra, Bartolomeo, Giacomo e Andrea. aprile

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iconografia l’ultima cena La testimonianza di Giorgio Vasari

Quando il maestro «si vendicò» di un priore impaziente Cosí racconta Giorgio Vasari ne Le vite dei piú eccellenti pittori, scultori e architetti, nel 1568: «Dicesi che il priore di quel luogo sollecitava molto importunamente Lionardo che finissi l’opera, parendogli strano veder talora Lionardo starsi un mezzo giorno per volta astratto

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in considerazione, et arebbe voluto, come faceva dell’opere che zappavano ne l’orto, che egli non avesse mai fermo il pennello. E non gli bastando questo, se ne dolse col Duca e tanto lo rinfocolò, che fu costretto a mandar per Lionardo e destramente sollecitarli l’opera,

mostrando con buon modo, che tutto faceva per l’importunità del priore. Lionardo, conoscendo l’ingegno di quel principe esser acuto e discreto, volse (quel che non avea mai fatto con quel priore) discorrere col Duca largamente sopra di questo; gli ragionò assai de l’arte, e lo fece

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capace che gl’ingegni elevati, talor che manco lavorano, piú adoperano, cercando con la mente l’invenzioni, e formandosi quelle perfette idee, che poi esprimono e ritraggono le mani da quelle già concepute ne l’intelletto. E gli soggiunse che ancor gli mancava due teste da fare, quella di Cristo, della quale non voleva cercare in terra e non poteva tanto pensare, che nella imaginazione gli paresse poter concipere quella

bellezza e celeste grazia, che dovette essere quella de la divinità incarnata. Gli mancava poi quella di Giuda, che anco gli metteva pensiero, non credendo potersi imaginare una forma, da esprimere il volto di colui, che dopo tanti benefizii ricevuti, avessi avuto l’animo sí fiero, che si fussi risoluto di tradir il suo Signore e creator del mondo, purché di questa seconda ne cercherebbe, ma che alla fine non trovando meglio, non gli

In alto Firenze, basilica di Santa Croce, refettorio. Ultima Cena, affresco di Taddeo Gaddi. L’artista lavorò a questa e alle altre pitture della sala fra il 1334 e il 1366. A sinistra Ultima Cena, riquadro dell’Armadio degli Argenti del Beato Angelico. 1450-1453. Firenze, Museo Nazionale di San Marco.

nuncio dell’imminente tradimento, gli Apostoli mostrano sgomento e sconforto. Gesú, come si intuisce dai suoi gesti, istituisce il sacramento dell’Eucarestia, mentre Giovanni, il piú giovane dei Dodici, quasi si accascia tra le sue braccia, divenendo l’icona preferita per il monachesimo femminile, quasi una figura analogica della sponsa Christi («la sposa di Cristo», n.d.r.) Tommaso viene rappresentato scettico e dubbioso, in previsione dell’episodio della sua incredulità dinnanzi alle parole degli Apostoli che avevano visto Cristo dopo la morte. Pietro viene quasi sempre raffigurato seduto alla destra di Gesú, a rappresentare il primo erede della Chiesa. Se però osserviamo l’Ultima Cena di Leonardo, notiamo che Pietro è il quarto da sinistra, brandisce un coltello – come in quasi tutte le rappre-

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mancherebbe quella di quel priore, tanto importuno et indiscreto. La qual cosa mosse il Duca maravigliosamente a riso e disse che egli avea mille ragioni. E cosí il povero priore confuso attese a sollecitar l’opera de l’orto e lasciò star Lionardo. Il quale finí bene la testa del Giuda, che pare il vero ritratto del tradimento et inumanità. Quella di Cristo rimase, come si è detto, imperfetta».

sentazioni, preannunciando l’episodio del taglio dell’orecchio a Malco, nell’Orto degli Ulivi – e scuote Giovanni come per chiedergli: «Di’, chi è colui a cui si riferisce?». Giovanni poi non è adagiato nel grembo o sul petto di Gesú, come nelle altre rappresentazioni, ma è separato da lui, nell’atto di ascoltare la domanda di Pietro, lasciando cosí Cristo solo a campeggiare al centro della scena. Si chinerà solo dopo, ripetendo la domanda di Pietro («Ed egli reclinandosi cosí sul petto di Gesú, gli disse: “Signore, chi è?”»).

Un’allusione alla Regola

Il personaggio di Giuda Iscariota, un protagonista di difficile giustificazione teologica, viene rappresentato solitamente separato dal resto degli Apostoli, con un chiaro riferimento alla Regola benedettina che prevedeva, come punizione, che i monaci colpevoli di qualche trasgressione consumassero il pasto da soli. Ciò che a noi potrebbe apparire come un espediente stilistico, in realtà racchiudeva significati ben chiari per i religiosi che utilizzavano quotidianamente la sala refettoriale. È assai probabile che alcuni par-

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iconografia l’ultima cena ticolari delle rappresentazioni pittoriche venissero indicati dai committenti stessi. Nell’Ultima Cena di Leonardo, per esempio, Giuda è raffigurato in modo differente dalla grande maggioranza delle rappresentazioni dell’epoca, in cui – come abbiamo detto – lo si vede da solo, al di qua del tavolo. Leonardo invece raffigurò Giuda assieme agli altri Dodici, come aveva fatto del resto anche il domenicano Beato Angelico, nell’Ultima Cena dell’Armadio degli Argenti (vedi foto alle pp. 36/37), lasciandogli addirittura l’aureola, al pari degli altri. Ne è invece privo in tutte le altre rappresentazioni che abbiamo citato e ha la scarsella col denaro in mano: non si tratta, però, dei famosi trenta denari, che deve ancora ricevere; nel Vangelo si legge chiaramente che Giuda era semplicemente colui che «teneva la cassa». L’Iscariota si volta a guardare gli astanti, nella versione del Perugino

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in S. Onofrio, mentre, nella versione di Leonardo, per alzarsi di fretta dal tavolo e recarsi a tradire Gesú, rovescia maldestramente una saliera mentre stringe il borsello in mano.

Libero arbitrio

Perché mai allora il domenicano Beato Angelico decise di dotare Giuda di aureola? E perché Leonardo lo fece sedere assieme agli altri? Forse ebbe qualche responsabilità il domenicano Vincenzo Bandello, priore del convento di S. Maria delle Grazie, in cui il Cenacolo fu dipinto? Probabilmente sí, giacché l’Ordine domenicano dava grande importanza all’idea del libero arbitrio: l’uomo non sarebbe perciò predestinato al Bene o al Male, ma avrebbe in sé la libertà di scegliere tra le due possibilità. C’erano poi differenze tra refettori maschili e femminili? Quale diversa percezione avevano i frati e le monache dell’episodio dell’Ultima

A destra Firenze, Ognissanti, refettorio. Ultima Cena, affresco del Ghirlandaio (al secolo Domenico Bigordi). 1480. In basso Firenze, ex convento di S. Onofrio, cenacolo di Fuligno. Ultima Cena, affresco del Perugino (al secolo Pietro Vannucci). 1493-1496. Si noti, in questa versione dell’episodio, la figura di Giuda, seduto al centro, al di qua della tavola, che si volta a guardare gli astanti.

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Cena? C’è qualche traccia di questa diversa modalità interpretativa nelle differenti versioni pittoriche? Se si osservano i refettori maschili affrescati dopo la nascita degli Ordini Mendicanti, si nota come si tenda a offrire un’interpretazione dei Dodici come fratelli e si proponga, quindi, un modello a cui ispirarsi e da imitare, un prosieguo della imitatio Christi, che, passando per gli Apostoli, giunge sino al presente, cioè a quei frati che osservano il dipinto mentre consumano il loro pasto comunitario. Il refettorio era di fatto il luogo piú importante per il contatto con il mondo esterno – con il Secolo – e la rappresentazione del Cenacolo completava, con simboli e allegorie chiari a un pubblico maschile, il messaggio di fratellanza espresso dall’Ordine. Il Cenacolo doveva apparire dunque ricco, la tavola imbandita, per trasmettere anche la «buona salute» dell’Ordine.

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Se per i frati, gli Apostoli erano percepiti come un gruppo, per le monache, isolate, essi dovevano invece apparire come singoli, come modelli umani di diversa levatura su cui riflettere di volta in volta singolarmente. A differenza delle tavole raffigurate imbandite nei Cenacoli dei conventi maschili, quelle rappresentate nei refettori femminili sono povere, i cibi modesti e frugali, riflesso stesso della loro idea di preghiera come rinuncia e mortificazione. Per esempio, non compare mai carne negli affreschi di S. Apollonia o di S. Onofrio, appannaggio delle Clarisse.

Mistica salvazione

Molte religiose rinvenivano nel controllo sul corpo una forma di mistica salvazione, e l’anoressia poteva essere intesa come una mortificazione volta a esaltare la Passione di Cristo, in cerca di un

arricchimento spirituale. Inoltre, le pitture dei cenacoli femminili erano destinate alla sola visione delle monache: il monachesimo femminile, infatti, non impegnato come quello maschile nella predicazione e nella vita a contatto col Secolo, non poteva vivere in ugual modo il concetto stesso di preghiera, non dunque come gesto collettivo, quanto piuttosto come individuale forma di ascesi e devozione. Ogni Cenacolo racconta cosí una storia diversa, a seconda della categoria di spettatori a cui si rivolge la pittura. Il genio di Leonardo riuscí a condensare i due diversi tipi di messaggio nel suo celebre Cenacolo, dipinto tra il 1494 e il 1497: da un lato la commozione e lo stupore del gruppo all’udire le parole di Gesú, prossimo alla morte, dall’altro uno studio approfondito e una resa mirabolante dei moti dell’animo di ciascuno degli Apostoli.

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storie castro di Giovanni Antonio Baragliu e Carlo Casi, con un reportage fotografico di Massimo Tomasini

Castro e la «febbre dell’oro» A

In una notte d’inverno del 1527, i Farnese conquistano Castro, un antico insediamento del Viterbese, dal glorioso passato medievale. L’intento è quello di farne la nuova e splendente capitale del loro Ducato. Ma la città a «forma di lira» gode di una fortuna effimera e, alla metà del Seicento, letteralmente scompare. Oggi le rovine del borgo sono al centro di un’importante iniziativa di riscoperta e valorizzazione. Ecco, in esclusiva per i nostri lettori, il racconto – e le immagini – della sua storia

«È

una piccola città che si trova su un’altura, ha la forma di una lira ed è circondata da dirupi scoscesi e da una valle profonda; le sue mura e gli inaccessibili dirupi nessuno potrebbe scalare se non con le ali. Cosicché anticamente la cittadina fu chiamata con il nome di Castro Felice». Cosí, nel 1575, nell’opera De Depraedatione Castrensium et suae patriae historia, il notaio castrense Domenico Angeli descriveva Castro (situata nel Viterbese, a pochi chilometri dal confine fra Lazio e Toscana). Della città a forma di lira restano soltanto macerie informi, sommerse dalla vegetazione. I dirupi inaccessibili non servirono a difenderla e, nel 1649, Castro, una volta felice, venne distrutta, anzi demolita con ostentata arroganza, pietra per pietra, tegola per tegola, mattone per mattone (perché non si potessero riutilizzare) e infine, come a Cartagine, sulle sue rovine fu sparso il sale, affinché mai piú risorgesse. Ma che cosa è stata Castro e quali eventi l’hanno resa splendida e infine ne hanno decretato una cosí

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La chiesa del romitorio di Poggio Conte (in località Chiusa dell’Armine, presso Ischia di Castro, Viterbo), sulla cui volta si conserva una decorazione con motivi geometrici e floreali. Sulla sinistra, al centro dell’abside, si riconoscono i resti della cattedra. Il sito fu scelto come eremo, nel XIII sec., da monaci che seguivano la Regola benedettina.

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storie castro i farnese alla conquista

Storie di guerre, promesse e congiure Fra il XIII e il XV secolo, i Farnese – una famiglia originaria del territorio vicino a Castro e distintasi con alterne vicende al servizio della Chiesa e di liberi Comuni come Siena, Firenze, Orvieto, Viterbo – avevano creato un vasto dominio territoriale, che circondava buona parte dei confini di Castro stessa. Durante le scaramucce che tormentarono il Medioevo locale, i Farnese riuscirono a occupare la città (che, fino ad allora, era gestita come un libero Comune soggetto allo Stato pontificio) varie volte; ma solo nel terribile anno 1527 cominciò a formalizzarsi una pesante ingerenza dei potenti feudatari sui destini di Castro. In quell’anno, mentre i lanzichenecchi di Carlo V saccheggiavano Roma, il cardinale Alessandro Farnese, desideroso di annettere Castro ai possedimenti del figlio Pier Luigi, invitò i maggiorenti della città a un incontro nella rocca della Badia al Ponte, nei pressi di Vulci. Da uomo scaltro qual era, fece loro un discorso pragmatico, che cosí possiamo immaginare: «Visto l’attuale andamento del mondo, considerato che la famiglia a cui appartengo è in buona armonia con le fazioni in lotta, essendo io cardinale della Chiesa e mio figlio Pier Luigi uno dei comandanti delle truppe di Carlo V, comunque vadano le cose, se consegnate la vostra città in signoria a mio figlio Pier Luigi, possiamo garantirvi la salvezza dai numerosi pericoli (guerra, saccheggio, ecc.) che sovrastano anche Castro». I Castrensi risposero picche. Ma dove non bastò la persuasione, riuscí il tradimento, per cui, fomentati da un certo Giovanni Cobella, molti congiurati, con a capo Antonio Scaramuccia,

Giacomo Caronio, Antonio di Giovanni Sciucca e altri futuri beneficiari della riconoscenza farnesiana, una notte aprirono le porte a due centurie di soldati di Pier Luigi. I Castrensi dovettero fare buon viso a cattiva sorte. Solo l’intervento del pontefice Clemente VII, tramite il vescovo di Castro, monsignor Gabriele d’Ancona, le truppe di Ludovico Orsini conte di Pitigliano e minacce di scomunica e spoliazione dei beni (i Farnese erano pur sempre vassalli della Chiesa), convinsero l’occupante a sgomberare. Per punire i cittadini infedeli il vescovo chiese l’intervento di un suo amico personale: Galeazzo signore di Farnese e Latera, membro anch’esso della famiglia di Pier Luigi. Questi, con le sue truppe e aiutato da alcuni traditori, la notte del 26 dicembre 1527 prese la città, ne massacrò buona parte dei cittadini, ne saccheggiò le case e le chiese. In seguito a queste vicende Castro decadde, senza potersi piú riavere completamente; ciò permise a Paolo III Farnese di poterla cedere, senza rimostranze da parte dei cittadini, a suo figlio Pier Luigi e istituire il Ducato che prese nome dalla città. In alto veduta di Castro. XVI sec. Roma, Palazzo Farnese, Sala dei possedimenti farnesiani. A sinistra Castro. Resti di abitazioni di fronte ai ruderi del convento di S. Francesco.

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Castro. Resti dell’interno di un grande edificio medievale, con muro a cortina, nei pressi del convento di S. Francesco.

brutale scomparsa? L’area della città venne occupata in età antica dagli Etruschi, come testimoniano le ricche necropoli che si estendono intorno al sito dell’abitato e che hanno restituito vasi in bucchero di finissima fattura (il bucchero è la tipica ceramica di produzione etrusca riconoscibile dal colore nero, n.d.r.), vasellame di importazione greca (attico, corinzio), sculture in nenfro a tutto tondo (databili al VI secolo a.C.), che raffigurano mostri alati, posti a guardia dei sepolcri. In particolare, una missione belga ha scoperto tombe a cassone e a camera, databili tra la seconda metà del VII e la fine del VI secolo a.C. E, nell’ottobre del 1967, lo scavo del dromos (corridoio di accesso) di una tomba già saccheggiata ha restituito, insieme agli scheletri di due cavalli, una biga riccamente decorata, attribuibile ad artisti vulcenti degli ultimi decenni del VI secolo a.C. (530-520 a.C.), ora conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Viterbo.

Un misterioso altare

Inoltre, di fronte al santuario del Ss. Crocifisso, sul fianco di un colle, è stato messo in luce un misterioso monumento a forma di altare, lungo 13 m, coronato da cornici di nenfro che terminavano con due bellissime protomi angolari a testa di ariete e di leone. Databile

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alla fine del VI secolo a.C., il complesso venne inizialmente interpretato come altare e perciò ribattezzato «ara del tufo»; in realtà, sembra pertinente a un sottostante sepolcro a tre camere. SS223

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Porto Santo Stefano

Orvieto

Sorano

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Castro o

SR312

Capalbio

Tuscania Viterbo

Montalto di Castro Tarquinia

SS1bis E80

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storie castro Il Ducato di Castro

Uno «Stato» a regime familiare Il 13 ottobre 1534 saliva al soglio pontificio il cardinale Alessandro Farnese, che assunse il nome di Paolo III. Tre anni piú tardi, il 1° marzo 1537, con un atto di nepotismo vistoso e sfacciato, fece acquistare al figlio Pier Luigi, da Lucrezia Colonna della Rovere, la città di Frascati, poi ceduta alla Camera Apostolica in cambio di Castro e Grotte. Ai primi di novembre del medesimo anno erigeva il Ducato di Castro e la Contea di Ronciglione, investendone lo stesso Pier Luigi, il nipote Ottavio e i discendenti primogeniti di essi, con piena signoria di comando e ogni potere della spada e il diritto di battere moneta.

Il Ducato di Castro, che si estendeva per circa 1200 kmq, comprendeva i paesi e castelli di Castro, Montalto, Canino, Musignano, Tessennano, Arlena, Piansano, Cellere, Pianiano, Ischia, Valentano, Bisenzo, Capodimonte, Marta, Gradoli, Grotte San Lorenzo, Borghetto, Badia al Ponte e le isole Martana e Bisentina nel Lago di Bolsena. Nel Ducato vennero inclusi, nominalmente, i feudi di Latera e Farnese, appartenenti a un ramo laterale della famiglia, il cui signore era il Galeazzo che, nel 1527, saccheggiò Castro. Questo microscopico Stato, forse in attesa dell’estinzione della

linea familiare che vi dominava, ebbe vita autonoma e, agli inizi del Seicento, venne anch’esso costituito in Ducato, con l’investitura di Mario Farnese come duca di Latera, e sopravvisse fino al 1668. Associata a Castro, sotto la medesima sovranità, anche se distinta territorialmente, fu la Contea di Ronciglione. Questo feudo, sebbene piú piccolo, era notevolmente piú ricco e popoloso del Ducato. Esso comprendeva: Ronciglione, Nepi, Isola Farnese, Caprarola, Canepina, Vallerano, Borgo San Leonardo, Sant’Elia, Corchiano, Vignanello, Fabbrica, Carbognano e l’Abbazia Fallense. A sinistra resti di edifici privati presenti sulla Piazza Maggiore di Castro, progettati da Antonio da Sangallo il Giovane, appartenuti a cittadini facoltosi quali il Cavalier Sassuolo e Giacomo Garonio. Nella pagina accanto ritratto di Pier Luigi Farnese con l’armatura, olio su tela di Tiziano. 1546 circa. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.

Per l’antica Castro passava la via Clodia, attraverso la «Cava grande», una spettacolare tagliata etrusca, che dalle rive dell’Olpeta risale verso i colli di Sorcano e Montecristo. La città dovette comunque perdere d’importanza già dopo l’età augustea, tanto che non viene riportata nella Tabula Peutingeriana (una carta stradale del mondo realizzata nel Medioevo sulla base di un originale del III-IV secolo d.C., n.d.r.), che pure segnala Tuscania, Maternum e Saturnia, poste anch’esse sulla Clodia.

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Per tutto l’Alto Medioevo non si hanno notizie di Castro. Tuttavia, forse per amor di patria o per il desiderio di creare ex novo una storia, nel XVII secolo cominciarono a comparire varie cronache apocrife, come quella compilata dal Beato Bernardo, che in qualche modo cercavano di riempire il vuoto e che, se non veritiere, possono essere considerate verosimili. Secondo queste fonti, il Beato Bernardo da Bagnoregio fu l’ultimo vescovo di Vulci, e, dopo la distruzione aprile

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storie castro

Resti del ponte di San Pietro sul Fiora. La sua costruzione, nel 1419, prova la volontà dei Castrensi di acquisire il controllo dei territori al di là del fiume, ambiti per la presenza dei minerali.

di questa città da parte dei Saraceni, nel 964, si trasferí con la sede vescovile a Castro.

Il castello di monna Felicità

Piú di un autore antico afferma che Castro nell’Alto Medioevo si chiamava Castrimonium, cioè «fortezza» o «castello forte»; e forte lo era, in quanto naturalmente difesa da rupi a picco e altissime. Secondo altri era denominata Castrum Felix o Castrum Felicitatis. La cronaca del Beato Bernardo afferma che il secondo dei nomi gli derivava dal fatto che una nobildonna chiamata Felicità aveva dominato sulla città alla fine del X secolo, per cui Castrum Felicitatis avrebbe appunto il significato di

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«Castello di Felicità». Secondo alcuni studiosi Felicità sarebbe vissuta al tempo della distruzione di Vulci e della venuta del Beato Bernardo, nella cui cronaca apocrifa si legge che la nobildonna donò i suoi feudi alla Chiesa. Alla morte di Felicità, le gerarchie ecclesiastiche avrebbero dunque inviato un cardinale a prendere possesso di Castro e conferire ai suoi vescovi anche il dominio temporale sulla città. Sembra comunque che nel concilio romano del 680 figuri un tal Custodito, che si firma vescovo di Valentano e che avrebbe esercitato il suo ministero nella diocesi castrense, risiedendo ora a Castro e ora a Valentano. E nel sinodo tenuto a Roma nell’853 appare la firma del vescovo di Castro Giordano. In seguito, trovandosi in forte contrasto con la popolazione locale, un vescovo avrebbe ceduto il dominio di Castro al (segue a p. 50) aprile

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antonio da sangallo il giovane a castro

Ricercato come un’archistar Nel 1537, quando Pier Luigi Farnese fu nominato duca di Castro, la città era pressoché in rovina. Egli cercò allora di farne una capitale degna di tale nome, abbellendola con porte, piazze, palazzi e case private, stimolando gli abitanti dello Stato a risiedervi, invitandovi artisti e letterati. E, per favorire il commercio, obbligò gli Ebrei del Ducato ad abitare a Castro. Prima dell’avvento dei Farnese, in città esisteva un solo monumento di rilievo: la cattedrale di S. Savino. In poco tempo ci fu un tale fervore di lavori che il poeta Annibal Caro, segretario del duca, cosí scriveva in una sua lettera: «Questa città, la quale altre volte mi pareva una bicocca, sorge ora con tanta e sí subita magnificenza che mi rappresenta il nascimento di Cartagine». Pier Luigi affidò la ristrutturazione urbanistica ad Antonio da Sangallo il Giovane (1484-1546). Venne cosí progettato il circuito difensivo e furono realizzate le porte: la porta del castello, con strutture a tenaglia a difesa dell’ingresso e un corpo avanzato, per dividere e arrestare l’avanzata del nemico; la porta Lamberta, che si apriva sulla via di comunicazione piú importante, realizzata con due fornici successivi e abbellita con un arco trionfale. Per controbattere le artiglierie di ipotetici assedianti, venne creata una fortezza con un possente maschio cilindrico, che dominava tutte le vie d’accesso alla città. Sulla collina di fronte alla porta del castello sorse il cosiddetto «forte reale», a forma di stella a cinque punte; mentre due fortini quadrangolari vennero posti ai fianchi della via cava. Per costruire la porta del castello, si dovette distruggere il convento di S. Francesco, per cui il Sangallo ne

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progettò uno nuovo all’interno della città, presso la rupe Praticotonia. Iniziato e mai finito fu il palazzo ducale, mentre nella piazza rettangolare, mattonata a lisca di pesce, sorse il palazzo detto «dell’Hostaria», adibito a sede ducale e ostello per artisti e cortigiani. Si trattava di un edificio a tre piani, in travertino. In basso correva un porticato con tredici arcate, lungo 65 m, in ordine dorico. Il piano superiore, secondo l’ordine corinzio, era abbellito da paraste comprendenti le finestre del piano nobile, coronate da una cornice con mensoloni nel fregio. Infine, nell’attico, si sviluppavano le arcate di un loggiato. Un altro importante edificio era il palazzo della Zecca, di bellissima architettura, con i muri esterni in travertino bugnato. La Zecca fu attiva fino al 1556 e vi furono coniate, dai maestri Leonardo Centone da Parma e Gian Maria Rossi da Reggio, le monete del Ducato: lo scudo d’oro, il paolo d’argento, il grosso d’argento, il baiocco, il baiocchetto e il quattrino. Oltre agli edifici pubblici Antonio da Sangallo disegnò, come dice Giorgio Vasari: «altre fabbriche a diverse persone e terrazzane e forestiere».

Pianta di Castro del Capitano Soldati. 1644. Parma, Archivio di Stato.

Furono soprattutto i congiurati del 1527, i vari Caronio e Scaramuccia ad avere la casa in piazza progettata dal celebre architetto. Messer Mattio della Posta chiese al Sangallo di preparargli un’abitazione in vari centri del Ducato: Castro, Ischia, Gradoli, Montalto. Messer Agnolo da Castro ebbe un bellissimo palazzo, con un bagno privato per ogni stanza e lavelli con acqua corrente. La casa del Capitano Meo venne fusa armonicamente con l’Hostaria. Il Signor Sforza, come Messer Bastiani, andava orgoglioso della sua bella casa con uno studiolo. Al Sangallo si rivolsero poi il Capitano d’Alterni, il Cavalier Sassuolo, il Cavalier Gandolfo. Anche gli altri centri del Ducato – Ischia, Gradoli, Valentano, la vicina Farnese – ebbero residenze ducali, costruite ex novo o riutilizzando i vecchi castelli della famiglia. A Capodimonte, Antonio da Sangallo costruí per Pier Luigi una villa castello a pianta ottagonale, che domina il lago di Bolsena. Sull’isola Bisentina fu sepolto lo stesso duca, dopo aver trovato la morte a Piacenza, nel 1547, vittima di una congiura.

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storie castro Il Ducato di Castro A destra Castro, Piazza Maggiore o dei Bandi. Capitelli che coronavano due delle lesene del prospetto del piano nobile della Zecca. Nella pagina accanto Castro in una veduta a volo d’uccello realizzata da Joan Blaeu per il Theatrum civitatum et admirandorum Italiae. Amsterdam, 1663. Qui sotto particolare della pavimentazione della piazza di Castro, mattonata a spina di pesce, realizzata in occasione degli interventi affidati all’architetto Antonio da Sangallo il Giovane.

Qui sotto a sinistra, Castro ruderi di un pilastro della chiesa cattedrale dedicata a san Savino; a destra, Castro, rupe Praticotonia, resti di corridoio con volta a botte, forse facente parte di un convento.

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storie castro A sinistra La fucina di Vulcano, olio su tela di Luca Giordano. 1660 circa. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage. Nella pagina accanto Monti di Castro, presso Ponte San Pietro. Resti di galleria realizzata negli anni Cinquanta del secolo scorso per la ricerca di mineralizzazioni a solfuri misti di ferro, rame, piombo e zinco. In filoni di quarzo, presenti nell’area è stato trovato oro in concentrazione di 20-24 g per tonnellata.

conte Bartolomeo (si tratta, in questo caso di un personaggio storicamente attestato, che nella seconda metà del XII secolo dominava la cosiddetta «Terra Guiniccesca», comprendente, tra gli altri, Pitigliano e Farnese), il quale instaurò un regime di terrore.

Nasce il libero Comune

La conseguente rivolta dei Castrensi portò alla cacciata del vescovo e del conte e, forse, dette origine al libero Comune di Castro, che, come altri piú importanti (Viterbo, Tuscania), ebbe magistrati, leggi e statuti propri. Nel suo territorio si trovavano vari castelli, come Castelfranco e Castelgretoso, e sotto la sua giurisdizione ricadevano forse anche quelli di Scarceta e di Pian di Vulci, insieme ad altre strutture difensive minori in prossimità della Selva del Lamone. Nel 1154 Castro venne acquistata da papa Adriano IV e incamerata al Patrimonio di San Pietro in Tuscia. Il dominio pontificio era piú nominale che reale e cosí molti Comuni poterono a lungo ricavarsi ampi spazi di libertà. Sebbene piccola, Castro divenne quindi una città ricca e attiva nei commerci. Nei tempi di massima floridezza poteva armare sette centurie di soldati, che le permettevano una certa sicurezza militare e di incutere timore ai borghi del circondario. Seppe peraltro resistere all’invadenza di Siena, Orvieto, Viterbo e Tuscania. Benché fosse sede vescovile e avesse un vasto territorio, Castro era povera di risorse, tormentata dalla

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malaria e soffriva cronicamente per la mancanza di acqua potabile. «Ed èvi Castro povero e mendico» aveva scritto Fazio degli Uberti nel suo Dittamondo (1346-1367). Nel 1550 nella sua Descrittione di tutta l’Italia, Leandro Alberti affermava «piú giú [di Farnese] trovasi la Città di Castro totalmente da rupi et caverne intorniata che pare a quelli che la veggono, piuttosto di intrare in una spelonca da selvaggi animali habitati che da domestici uomini». Nel 1550, quindi, era già finito il fervore costruttivo. La malaria costituiva quasi un sinonimo per Castro, tanto che, nel 1610, il medico fisico della città, Mariano Ghezzi di Sinalonga si vide costretto a stampare un Breve discorso non men curioso che bello sopra la salubrità dell’aria della città di Castro contra l’estimation’ volgare. Ghezzi non attribuiva «la povertà, o poco numero di genti, che ora vi si ritrova (...) All’imperfettione dell’aria», ma piuttosto alle vicende politiche e alla mala sorte. Anche le acque che scaturivano dalla fonte detta Succivita e da quella di Santa Maria erano di «tutta bontà». Il medico riteneva conformi ai dettami di Ippocrate le stesse «acque piovane, che nelle cisterne si conservano, di cui poche case sono in Castro, che non ne siano accomodate». Tuttavia, le fonti citate da Ghezzi avevano una portata ridotta, insufficiente per le necessità di una capitale. La stessa Succivita, a valle di Porta Lamberta, è una piccola grotta, con una vasca che raccoglie lo stillicidio dell’acqua dalla parete di fondo. Le sorgenti piú interessanti si trovano nel territorio di Farnese; mentre in quello di Castro sono spesso temporanee, di scarsa portata e situate a una quota molto piú bassa di quella della città.

Mire espansionistiche

Intorno al 1430 i Castrensi avevano occupato alcuni territori appartenenti agli Orsini e che si incuneavano pericolosamente entro i confini meridionali della Repubblica di Siena. In particolare, oltre alle terre di Scarceta, vi era compreso il versante orientale dei Monti di Castro, dal fosso dell’Argentiera al Botro del Pelagone. La volontà di occupare queste terre al di là del Fiora, per la presenza di minerali, era già stata manifestata con la costruzione, nel 1419, del Ponte di San Pietro (vedi foto a p. 46). Le esplorazioni e le coltivazioni minerarie della zona già dal Quattrocento potrebbero essere state comprese in alcune concessioni. In particolare nella concessione aprile

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storie castro Paolo e Giovanni da Castro

Il giurista e il viaggiatore Grazie alla sua neutralità, Castro poté vivere nel Medioevo una vita tranquilla e laboriosa, traendo il suo sostentamento dalla pratica dell’agricoltura, della pastorizia, della pesca e della caccia. Nel primo quarto del XV secolo vennero elaborati gli Statuti della città, di cui una copia manoscritta è conservata nella Biblioteca degli Ardenti a Viterbo. Si tratta di un’opera in lingua latina, composta da 61 fogli pergamenacei e divisa in cinque libri, la cui compilazione potrebbe essere ricollegata al grande giureconsulto Paolo Serangeli, nativo della città e noto come Paolo di Castro (o Paolo Castrense). Di oscura famiglia, Serangeli fu allievo del famoso giurista perugino Baldo degli Ubaldi. Si addottorò in utroque iure (letteralmente, «nell’uno e nell’altro diritto»: è la formula adottata per indicare la laurea in diritto civile e canonico, n.d.r.) ad Avignone ed esercitò la professione per quarantacinque anni, con grande successo, a Padova, Ferrara, Bologna, Firenze, Siena. Morí a Padova nel 1441. È considerato uno dei piú grandi giuristi del Quattrocento e, nel suo tempo, godette di notevole fama, tanto che, nel 1407, venne interpellato dai cardinali fedeli al papa in merito alla riconciliazione della Chiesa d’Occidente. Prese parte alla revisione degli statuti di Firenze, alla riforma di quelli di Siena e Fermo. I contemporanei lo chiamarono «Lucerna iuris». Di lui si conoscono varie opere. Paolo ebbe due figli degni di nota, Angelo, giureconsulto, e Giovanni, celebre viaggiatore. Il secondo, dopo aver a lungo vissuto a Costantinopoli, si mise al servizio del cardinale Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II. Dalla qualità delle erbe che crescevano sui Monti della Tolfa, in base alla lunga esperienza acquisita in Oriente, scoprí gli importanti giacimenti di allume colà esistenti. Ciò permise allo Stato della Chiesa di avere il monopolio di tale minerale, utile come mordente in tintoria, e a Giovanni Serangeli di avere fama, onori e una statua fatta erigere da Pio II sulla piazza di Castro. Gli operai mandati a lavorare in quelle miniere, nella maggior parte condannati ai lavori forzati, diedero origine al paese di Allumiere. perpetua del 15 aprile 1510 a Ottaviano de Castro per oro, argento e altri metalli, con l’obbligo di denunciare le miniere scoperte alla Camera Apostolica, prima di iniziare lo sfruttamento. Già il 28 giugno dello stesso anno, Ottaviano notificò quattro miniere: di cui una di rame, con oro e argento, utilizzata in precedenza, risultava abbandonata da tempo. La Zecca castrense venne creata da Pierluigi Farnese

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A destra un’area del filone affiorante, composto da pirite massiva, calcopirite e tetraedrite, lungo il fiume Fiora, presso il Ponte di San Pietro. La colorazione rossa dell’acqua è data dalla decomposizione dei minerali.

Qui sopra discarica generata dalle attività minerarie condotte presso Ponte San Pietro. Vi sono stati trovati cristalli di quarzo, pirite, tetraedite, siderite, sfalerite, calcopirite, siderite, azzurrite, galena.

per concessione di Paolo III, nel tentativo di trasformare Castro in una città rinascimentale. Annibal Caro, che piú tardi divenne segretario proprio di Pierluigi Farnese, parla delle affannose ricerche minerarie che si svolgevano in quel territorio, in una lettera del 1538 diretta a tutti i familiari di monsignor dei Gaddi in Roma, rivolgendosi in particolare al geografo Verrazzano (Girolamo, se non proprio lo stesso Giovanni da Verrazzano): «Siamo aprile

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

in un deserto, e volete lettere da noi (...) Ma di che Volete che vi scriviamo? Del nostro viaggio? de’ nostri accidenti? delle miniere? d’ogni cosa, cred’io. Orsú, a ogni modo sono scioperato, che tutti gli altri sono andati fuori alle cave». Caro insiste sullo stato di abbandono della zona («Siamo in un deserto») e affronta subito il tema della lettera («miniere (…) tutti gli altri sono andati fuori alle cave»). Segue quindi la descrizione dello smarrimento nella

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Selva del Lamone: «Entrammo poi in una foresta tale, che ci smarrimmo: e tempo fu ch’io credetti di non aver mai piú a capitare in paese abitato, trovandone rinchiusi, ed aggiratí per lochi dove l’astrolabio, e ‘l quadrante vostro non arebbono calculato il sito de’ burroni, l’altezza de’ macigni, e gli abissi de’ catrafossi, in che ci eravamo ridotti. E se aveste veduta la nostra guida, vi sarebbe parsa la smarrigione, e ‘l baloccamento di naturale. Pensate che Vittorio l’accomandò a Drianna, la quale,

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storie castro Il Parco Archeologico Antica Castro Ischia di Castro Pitigliano

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La promozione del neoistituito Parco Archeologico Antica Castro è l’obiettivo del progetto «Programma integrato per la valorizzazione e fruizione della antica città di Castro e lo sviluppo delle attività economiche per una crescita sostenibile del territorio». Al Parco – nei cui confini ricadono le vestigia dell’antica città di Castro e il suo comprensorio archeologico, con importanti necropoli etrusche – occorre garantire, grazie anche a ulteriori strumenti normativi e organizzativi, una sempre migliore valorizzazione, migliorandone la tutela e la fruizione. L’intervento proposto vuole dotare il Parco Archeologico Antica Castro delle infrastrutture che consentano

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il giusto uso delle risorse culturali, 15 17 restituendo senso ai resti visibili e 16 contestualizzandoli nel paesaggio storico. Coniugare quindi gli aspetti 18 della conservazione/tutela con quelli della fruizione (visibilità, percorsi, forme della comunicazione; accessibilità 19 ampliata alle diverse tipologie di visitatori, prevedendo attività di 20 comunicazione, ecc.). Infine, ma non per ultima, la difesa dell’intera area 21 22 dal fenomeno dirompente degli scavi clandestini e del vandalismo, a cui le Ischia di Castro nuove tecnologie dovranno porre freno. Canino In termini generali, l’obiettivo è Montalto un insieme completo di beni e attività tali da definire un’offerta culturale e turistica completa. Pertanto, cantiere e ora pronta per un utilizzo a partire dalla valorizzazione dell’area autonomo e autosufficiente dal punto archeologica dell’antica città di di vista economico. Castro – con la realizzazione di servizi Per quanto riguarda i servizi, direzionali e accessori, compreso un oltre all’area del parco – per adeguato marketing territoriale – si la quale saranno progettate cercherà di avviare e sperimentare biglietterie, servizi igienici, percorsi, percorsi formativi pilota, avviando poi arredi, strutture di sostegno alla ricerca, iniziative di impresa, con l’ambizioso alla valorizzazione e alla formazione, obiettivo, a regime, di raggiungere ecc. –, si porrà particolare attenzione l’autonomia economica e funzionale del alle «aree di bordo», cosí da definire sito, comprensiva di quella forza lavoro nel massimo equilibrio i rapporti con formata e occupata durante le fasi di il contesto esterno (vie di accesso, aprile

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Cartina con l’indicazione dei principali monumenti dell’antica città di Castro e degli immediati dintorni. Nei confini del Parco Archeologico Antica Castro ricadono però anche numerosi siti di grande interesse tra cui i romitori di cui si parla nell’articolo (vedi box a p. 58): 1. Piazza Maggiore; 2. Hostaria; 3. Zecca; 4. Palazzo di Giacomo Garonio; 5. Palazzo del Podestà; 6. Cattedrale di S. Savino; 7. Piazza del Vescovado; 8. Porta Lamberta; 9. Porta Murata; 10. Chiesa di S. Maria; 11. Convento di S. Francesco; 12. Chiesa 13 del Ss. Crocefisso; 13. Tomba a Dado o «a Casa»; 14. Tomba della Biga; 15. Tomba del Principe Massimo; 16. Colombario; 12 17. Resti del ponte medievale; 18. Chiesa di S. Maria delle Grazie; 19. Cava di Castro; 20. Iscrizioni rupestri etrusche; 21. Forte A; 22. Forte B.

La cascata formata dal torrente Ermini presso il romitorio di Poggio Conte.

STRADA DELLA CAVA DI CASTRO Qui sotto la Tomba della Biga, che prende nome dal carro da parata rivestito di bronzo (fine del VI sec. a.C.) in essa rinvenuto nel 1967.

trasporti, parcheggi, aree di sosta, recinzioni, ecc.). Il progetto è stato affidato dal Comune di Ischia di Castro allo Studio Associato, Architetti Stefano Ceccarelli e Rita Lulli, sotto la direzione scientifica di Alfonsina Russo, Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale e di Carlo Casi, direttore scientifico di Fondazione Vulci.

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Nella pagina accanto Madonna con Bambino, affresco proveniente dalla chiesa di S. Maria intus Civitatem a Castro. Opera di maestranze locali del XIV-XV sec. Ischia di Castro, Museo «Pietro e Turiddo Lotti».

dice egli, ch’era una Fata, che con un gomitolo di spago trasse dell’arbintro un certo Tisero figliuolo di Manosso». «O quivi averci voluto io voi, M. Giorgio, con la vostra collera acuta, e col vostro stomaco impaziente, a vedervi strascícar dietro da un balordo per quelle catapecchie, senza saper dove vi foste, né dove, né quando, né che v’aveste a mangiare: o come vi sarebbe venuta la senapa al naso! e che strani visi avreste veduti fare a noi altri! Io per me mi condussi a tanto di fame, che le peruzze, e le nespole m’ebbero a strangolare». «Ma tanto ci avvoltacchíammo alla fine, che vedemmo, come per cerbottana, un poco di piano. E tirando a quella volta, maravigliosamente ci si presentarono avanti alcuni morbisciatti, che ne diedero lingua, ed indrizzo per venir dove siamo. E questo vè quanto al viaggio. Della stanza poi, Iddio ne guardi i cani. Bisognerebbe, o fuggir via, o chiuder gli occhi, e gli orecchi, per non vedere, né sentire. Voi, Barbagrigia, conoscete il Bistolfo, a discrezione di chi stiamo. Ci tiene con un certo acquerello, e con certi tozzi di pane inferigno; che par che siamo veramente schiavi confinati a: cavare il metallo». Come a dire: dove siamo capitati? Visti i luoghi selvaggi, gli abitanti ottusi e malaticci per la malaria (morbisciatti), l’albergo e il cibo pessimi. «Ora parlerò delle miniere a tutti in solido. Qui si soffia a piú potere, e l’Allegretto, e io siamo sopra i mantici. Mastro Marco è Volcano stesso. Il Greco, Sterope; e Cosmo, Bronte; Piragmi, gli altri tutti. Monsignore col suo’ bastoncino, e col petasetto, al solito sollecita il ministerio, e, se non ci fa lavorare, non vaglia». Il laboratorio dove si saggiano i campioni dei minerali viene descritto come se fosse la fucina di Vulcano con i ciclopi (Sterope, Bronte e Piracmone) affannati a soffiare sui mantici. In realtà gli indaffarati inservienti di Vulcano erano

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storie castro

Frasetta in latin totaspit apisi dolendis dolum, inum, sim abo. Aped est faccus, officius, od quam

lo stesso Annibal Caro, Antonio Allegretti, Giovanni Greco e altri, letterati e familiari di monsignor Giovanni Gaddi, chierico della Camera Apostolica, da cui dipendevano le concessioni minerarie. In caso di coltivazione dei giacimenti, il monsignore avrebbe potuto introitare circa il 10% dei proventi della Camera Apostolica. La frenesia si manifestava anche negli scavi e saggi minerari che interessavano sia i Monti di Castro, sia quelli della Tolfa e il sogno evidente era quello di far soldi a palate. «Vassi ogni dí castrando montagne! Ora quella di Castro, or questa della Tolfa. Si fanno saggi sopra saggi. Non si parla d’altro che di cave, di vene, e di filoni: si disegnano spianate, tagliate, magazzini, gran cose s’imprendono, grandi speranze si danno: fino a ora ci si vede del carbone, del fumo, e delle loppe assai (nella metallurgia del ferro, si intende per loppa una scoria d’altoforno derivante dalla fusione delle parti non metalliche [ganga] della carica, di prodotti di addizione [fondenti] e di prodotti di reazione tra la scoria e il metallo, n.d.r.). Mastro Marco va di qua, con quel suo balteo a traverso al petto, dicendo di gran cose. Vuol far ricca la

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Sedia Apostolica d’entrate a milioni, e Monsignore nostro a decine di migliaia; noi tutti vuole che participiamo non so di che carati: il qual peso, secondo gli orefici, mi par che sia men d’un ottavo d’oncia; ed egli ne vuol far credere che importi le libre e le marche de l’oro. Iddio ci aiuti. Io, per me se diventassi ricco cosí in un subito, mi troverei impacciato, perché non ho pensato ancora a quello che farei de’ danari, e non ho imparato ancora di maneggiarli». L’Allegretto ai mantici immaginato sopra era Antonio Allegretti – poeta, filosofo, alchimista e astrologo –, uno dei familiari del Gaddi, che spesso attaccò lite con Annibal Caro, finché, nell’aprile del 1550, ne divenne nemico. Tra le sue opere, sono noti il poema alchemico De la trasmutatione de’ metalli e quello astrologico Delle cose del cielo. Interessante risulta la sua presenza in questa affannosa ricerca dell’oro. Tuttavia, Caro dubita, come abbiamo visto, dei risultati e questo ribadisce in una lettera successiva (del 1538) a Benedetto Varchi: «Le medaglie cercherò, e quando Monsignore verrà da Castro, dove si trova a le miniere, vedrò d’averne qualcuna; se no, quelle di piombo non mancheranno». aprile

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Sulle due pagine veduta panoramica esterna del romitorio rupestre di Ripatonna Cicognina, nel territorio di Castro. In basso Castro. Resti di un magazzino con la presenza dei caratteristici butti o pozzi (silos per granaglie o cisterne per l’acqua, utilizzati anche come discariche domestiche).

Scopo delle ricerche minerarie era proprio quello di provvedere alle materie prime per la nuova Zecca, come risulta chiaramente in un sonetto, riportato nella stessa lettera e indirizzato al tesoriere di monsignor Gaddi, Giovanni Boni: «La Tolfa è Giovanni Boni, una bicocca, tra schegge e balze d’un petron ferrigno; (…) Pur ci stiam per aver celti catolli Da far delle patacche e dei fiorini, Poiché tu, con gli tuoi non ci satolli».

Metalli d’importazione

Poco tempo dopo, forse per gli scarsi risultati delle ricerche minerarie, il papa autorizzò l’importazione a Castro di metalli per la Zecca. Il fallimento delle ricerche minerarie, avviate quasi in contemporanea con l’istituzione del Ducato di Castro (la lettera di Annibal Caro è del 13 ottobre 1537 e la bolla d’istituzione Videlicet immeriti venne pubblicata il 31 dello stesso mese) rappresentò di sicuro un duro colpo per le ambizioni

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storie castro sulle tracce degli eremiti

I romitori, luoghi di meditazione e di fede L’ambiente nel quale sono inseriti i romitori di Poggio Conte e Chiusa del Vescovo (situati entrambi a sud-ovest dei resti dell’antica Castro, a una decina di chilometri di distanza, i siti sono raggiungibili da Ischia di Castro per le Strade Provinciali 109 e 106) deve aver avuto sicura importanza per gli uomini silenziosi a cui si deve la loro creazione. La suggestione emanata dal ruscello che si tuffa dall’alto di una rupe finendo ai piedi delle stanze ricavate nella roccia di Poggio Conte è ancora oggi ben percepibile e palpabile. E la vegetazione che nasconde l’insediamento rupestre certamente accresce il carattere religioso del luogo, rendendolo invisibile e allontanandolo dal mondo. Un sentiero ricavato nella roccia consente di risalire la ripida parete nella quale si apre, poco dopo, il magnifico ingresso alla chiesa, animato nella parte alta da un occhio che spia la luce e che sormonta lo stretto passaggio inquadrato da due semicolonne. Entrando, ci accoglie un ambiente nel quale quattro pilastri a fascio sostengono la perenne fioritura che decora la volta e, al di sotto, nelle tredici nicchie, stavano gli affreschi degli Apostoli con al centro la figura di Gesú che, staccati e parzialmente recuperati, costituiscono una delle principali attrazioni del Museo Civico di Ischia di Castro.

Un’apertura conduce all’interno di un ambiente piú grande, al centro del quale si conserva un altare litico. Sulla parete di fondo, in asse con l’entrata si riconosce l’abside rettilinea, che accoglie i resti della cattedra e di due scranni laterali dedicati ad altrettanti santi vescovi, anch’essi impropriamente asportati. Altri due locali si sviluppano vicino: si tratta verosimilmente di vani abitativi a servizio degli antichi «Atleti di Dio» che in questo eremo si erano rifugiati nel XIII secolo, scegliendo di seguire i dettami della Regola benedettina. A pochi chilometri da Poggio Conte, in località Chiusa del Vescovo, si trova un altro insediamento eremitico rupestre, noto anche come Ripatonna Cicognina. Il romitorio viene menzionato per la prima volta da Benedetto Zucchi, che nel 1630 scriveva: «Vi è un Romitorio chiamato Ripatogno Cicognina, piantato sulla sponda di detto fiume Olpita di sopra e piantato sul tufo di detta ripa e lontano da Castro poco piú di un miglio, luogo di bellissima vista, con comodità di fontana e di terreno da farvi orto a proposito per tale effetto, con dentro la Chiesa consegrata; e vi si può dire Messa, vi sono altre buone comodità: il quale per essere tenuto per cattiva aria non è troppo abitato».

dei Farnese. Dietro le ricerche della Camera Apostolica c’era, pur sempre, la longa manus di Paolo III Farnese. In qualche modo rappresentò, assieme al sopravvenire di altri e maggiori interessi (come il Ducato di Parma e Piacenza), l’inizio del lento e ininterrotto declino della città di Castro, fino al tragico epilogo della sua distruzione, nel 1649. La fame di denaro, alla fine, determinò il destino della infelice città dai sogni aurei degli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento al cumulo di

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Arrivando sotto lo sperone tufaceo, si ha la sensazione che le aperture affacciate dalla ripida parete spiino la valle che accompagna il corso dell’Olpeta sino alla confluenza con il Fiora. Anche qui, un sentiero gradinato risale l’erto pendio fino alla struttura monastica. Si sale adagio e il rispettoso silenzio ci accompagna in un lento divenire, quali novelli pellegrini, alla scoperta di un mondo magico impregnato di mistici misteri. O almeno cosí ci sembra, quando entriamo nella cavità tufacea e ci rendiamo conto con meraviglia che la struttura ricavata nella roccia consta di ben tre piani per circa 5 m d’altezza. Nel labirintico sviluppo che coinvolge una decina d’ambienti, la chiesa, posta quasi al centro, attira le maggiori attenzioni. Caratterizzata dalla volta a botte, presenta una fossa scavata nel pavimento, forse traccia di un’antica sepoltura purtroppo depredata, mentre una sorpresa sono i due affreschi ai lati dell’abside che, seppur deteriorati, sono riconducibili a sant’Antonio e a un santo vescovo. Le pitture rimandano all’ambiente culturale tardo-senese, indicando una datazione all’interno del Quattrocento che, insieme all’incisione leggibile su una delle pareti delle celle, «1614», conferma la presenza di eremiti a Chiusa del Vescovo per almeno trecento anni (dal XV al XVII secolo).

debiti accumulati e non saldati dai Farnese. Un destino percorso parallelamente dalla sua Zecca. Nel 1545 si preparavano i conii per «monete grosse», come scrive Centone, responsabile della Zecca, in una lettera inviata da Castro a Pier Luigi Farnese il 22 giugno. L’attività dell’opificio sembra essere stata sospesa l’anno dopo: una lettera di Camilla Centone al Farnese, inviata da Castro il 21 aprile 1546 in risposta a un ordine (segue a p. 63) aprile

MEDIOEVO


Romitorio rupestre di Ripatonna Cicognina. Strutture abitative scavate nel tufo.

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storie castro Sguardi e gesti fissati sulla pietra A destra romitorio di Poggio Conte. La volta a crociera del presbiterio. XIII sec. A sinistra affresco raffigurante una santa, dalla chiesa di S. Maria intus Civitatem a Castro. XIV sec. Ischia di Castro, Museo «Pietro e Turiddo Lotti». Qui sotto San Paolo, tempera su muro, dal romitorio di Poggio Conte. XIII sec. Ischia di Castro, Museo «Pietro e Turiddo Lotti».

In basso affresco raffigurante un santo, dalla chiesa di S. Maria intus Civitatem a Castro. Opera di maestranze locali del XIV-XV sec. Ischia di Castro, Museo «Pietro e Turiddo Lotti».

Nella pagina accanto, in basso a sinistra Ecce Homo e aguzzini, frammento di affresco proveniente dalla chiesa di S. Maria intus Civitatem a Castro. XV sec. Ischia di Castro, Museo «Pietro e Turiddo Lotti».

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Qui accanto Ritorno dalla fuga in Egitto, frammento di affresco proveniente dalla chiesa di S. Maria intus Civitatem a Castro. XIV sec. Ischia di Castro, Museo ÂŤPietro e Turiddo LottiÂť.

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storie castro

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A destra l’ingresso del romitorio di Poggio Conte, sormontato da un occhio che permetteva alla luce di filtrare e rischiarare l’interno. Nella pagina accanto la porta di accesso al romitorio di Ripatonna Cicognina. Le pitture che ornano gli interni e una data incisa (1614) su una delle pareti provano che l’eremo venne occupato dai monaci per almeno trecento anni, dal XV al XVII sec.

dato a Leonardo Centone, afferma che era stato «mandato huomo apposta, et con celerità, notificarli il tutto per non trovarsi al presente quia Castro inperochè come si vidde fuora di l’ombra di quella, et esserli suspesa la zecca volse ricorrere a V. Eccellentia».

L’abbaglio «dorato» dei Farnese

Durante il Medioevo e il Rinascimento, l’estrazione dell’oro e dell’argento dai loro minerali ridotti in poltiglia avveniva per amalgamazione del metallo prezioso con mercurio e successiva distillazione a caldo di questo elemento (punto di ebollizione a 357 °C). Il mercurio poteva essere ricavato dalle stesse mineralizzazioni a cinabro (solfuro di mercurio) presenti sui Monti di Castro o nei pressi, pochi chilometri a occidente, sul Monte Capita, dapprima nel territorio della Repubblica di Siena e quindi nel Granducato di Toscana. È probabile che l’utilizzo dei minerali presenti nei pressi di Ponte San Pietro avesse avuto inizio già dall’Età del Rame (IV-III millennio a.C. circa), con la raccolta di composti del rame e dell’argento e, in seguito, quando lo sviluppo delle tecnologie di fusione lo permise, con lo sfruttamento del ferro. È inoltre possibile che la ricerca si fosse indirizzata anche verso l’oro. Ancora oggi affiora un filone che si addentra all’interno della corrente del fiume e che nell’antichità doveva essere molto piú evidente. Il ritrovamento di microscopiche o quasi invisibili sfere d’oro (sferule) può far presupporre che esse derivino da fusione di oro o altri metalli che lo contengono e che restino intrappolate all’interno delle scorie di fusione, quali che siano il metodo o il fondente utilizzati. Già gli Etruschi, per preparare queste sferule da utilizzare nel processo di granulazione, avevano compreso che se ne poteva ottenere una buona quantità fondendo frammenti di oro nella polvere di carbone. Quello che ha abbagliato i Farnese, oltre a precedenti ricerche ed estrazioni minerarie, nonché a fortuiti e occasionali ritrovamenti di minerali auriferi, può essere stata la scoperta di questi accumuli di microsfere d’oro derivanti da antiche attività di fusione dei metalli. Infatti, anche la fusione di minerali di argento o di rame, che contengono tracce d’oro, può dare origine alla for-

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mazione di alcune sferule. La quantità che se ne ottiene è talmente piccola che difficilmente possono essere notate nelle scorie di fusione. Se queste vengono abbandonate, finiscono per alterarsi e liberarsi delle sferule. Le sferule ritrovate nell’area di Ponte San Pietro potrebbero quindi derivare da attività metallurgiche sviluppate nel Medioevo, e poiché molte presentano un’elevata quantità di rame in lega con l’oro, è probabile che derivino dalla fusione di minerali di rame. La possibilità di scavare minerali, in particolare quelli preziosi adatti a battere moneta (oro, argento e lo stesso rame), forse influí sulle fortune, e sfortune, di Castro molto piú di quanto si è sempre valutato nella storia dell’infelice città. La «febbre dell’oro», che interessò alcuni anni a cavallo tra i Trenta e i Quaranta del Cinquecento, era sicuramente dettata da una presenza di mineralizzazioni sui Monti di Castro, probabilmente piú evidenti di quelle di oggi, anche se, in definitiva, assolutamente e imprevedibilmente deludenti. F

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protagonisti siagrio

A Quel che resta di Roma di Giovanni Armillotta

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Siagrio regnò sulla Francia centro-settentrionale dal 464 (o 465) al 486. Una vicenda significativa sia per la sua durata – in un’era di grandi turbolenze, governare per un ventennio non fu impresa da poco –, sia perché nel suo protagonista si identifica l’ultimo autentico rappresentante dell’impero romano d’Occidente

L’incoronazione di Clodoveo e la battaglia di Soissons in un arazzo della serie L’histoire du fort roi Clovis. Manifattura di Arras (o Tournai), 1440 circa. Reims, Palais di Tau.

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el 394, Teodosio I il Grande (379-395) stabilí per la quarta e ultima volta l’unità imperiale, che venne meno all’indomani della sua morte. Da quel momento l’impero romano rimase per sempre spezzato in due parti, ciascuna delle quali assunse una vita propria. Soltanto in una delle entità prodottesi prim’ancora dell’abbattimento formale dell’impero si cercò di conservare l’ultimo (segue a p. 68)

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protagonisti siagrio

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In alto Meroveo (bozzetto), olio su tela di Evariste Vital Luminais. Seconda metà del XIX sec. Rennes, Musée des Beaux-Arts.

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Da un grande impero a una miriade di regni 66

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Dopo che il re sciro germanico Odoacre aveva deposto l’imperatore d’Occidente, il pannonio Romolo Augusto, detto Augustolo (475-476), l’ex impero

risultò diviso nei seguenti Stati romano-barbarici: Regno dei Vandali (ex Africa romana occidentale e, in un secondo momento, Sardegna, Corsica e Baleari); Regno dei Suebi (Spagna aprile

MEDIOEVO

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- GERMANICI GERMANICI(IV (IV- VII - VIIsecolo) secolo)

Principali migrazioni dei popoli barbari

Situazione politica all’anno 476 JUTI

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Razzie e spedizioni di Vandali marittime dei Vandali Impero Romano tempo romano alal tempo di Diocleziano (284-305) Divisione dell’Impero dell’impero da parte di Teodosio (395)

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nord-occidentale); Regno dei Visigoti (parte alta della Penisola Iberica e Gallia meridionale); Regno degli Angli e dei Sassoni (Sud-Est della Britannia); Eptarchia britannica (parte rimanente della Britannia); Armorica (Bretagna); Regno di

Trebisonda

Siagrio; Regno dei Franchi (terre centro-settentrionali corrispondenti alle valli della Senna e del basso Reno); Regno degli Alamanni (terre centrali su entrambe le rive del Reno); Regno dei Burgundi (terre presso l’alto corso del Rodano); Dominio di

Odoacre (patrizio e «rex gentium»: Italia, Sicilia e Rezia); Regno dei Rugi (nel Norico, poi conquistato da Odoacre) e Regno degli Ostrogoti (Pannonia e parte occidentale della Penisola Balcanica sino ai confini settentrionali dell’attuale Albania).

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protagonisti siagrio baluardo del retaggio romano. E fu proprio in quella occidentalis pars in cui i popoli gallici avevano combattuto, cinquecento anni prima, contro Giulio Cesare: si trattava del cosiddetto Regno di Siagrio, ossia la regione della Gallia tra i fiumi Senna, Somme, Mosa e Schelda. Dopo la morte del ministro e generale romano-illirico Flavio Ezio (390-454 circa), l’antemurale dell’autorità imperiale fu Egidio, originario della Gallia occidentale. Quando da Meroveo (448-457), vincitore degli Unni di Attila (451) e successore di Clodione (427-448), il potere sui Franchi Salii passò al figlio Childerico [I] (457-481), questi – accusato d’insidiare le donne e le figlie dei guerrieri – fu deposto, e riparò in Turingia. Al contempo, i Franchi Salii elessero quale loro capo il predetto Egidio, conte di Suessiones (Soissons), padre di Siagrio, e magister militum per Gallias dell’imperatore d’Occidente, Maggioriano.

L’assedio di Arles

Nel 457, dopo il rovesciamento e l’uccisione dell’imperatore d’Occidente Avito, Teodorico II, re dei Visigoti, non riconobbe Maggioriano e, a capo di un esercito, avanzò nella provincia di Narbona e pose sotto assedio Arles. Egidio richiamò Childerico e, nel 458, Maggioriano – col sostegno di Egidio e del re franco, fedeli a Roma – sconfisse Teodorico II nella stessa Arles, obbligandolo a sottoscrivere una pace triennale. In seguito Maggioriano venne ucciso dal patricius Ricimero, che elevò al trono l’imperatore fantoccio Libio Severo. Egidio si ribellò al «signore della guerra» Ricimero – padrone dell’impero d’Occidente dal 461 fino alla sua scomparsa – e mantenne l’anzidetta entità galloromana nella regione attorno a Suessiones. Per quasi dieci anni egli si contrappose vittoriosamente ai Visigoti; protesse i Brettoni e stette in pace col re dei Franchi Salii e con i vicini. Alla morte di Egidio (nel

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464 o 465), il figlio Afranio Siagrio (nato nel 430) – che portava il nome dell’avo, console romano nel 382 – assunse il ruolo di difensore e tutore della latinità contro i barbari. A Siagrio erano andate, per diritto ereditario come patrimonio personale, la città e la diocesi di Suessiones e dopo lo sfaldamento dell’impero d’Occidente a lui si sottomisero senza difficoltà le desolate rovine della Seconda Belgica (metropoli di Reims e una gran parte dei Paesi Bassi), Troyes, Beauvais e Amiens. Egli avrebbe potuto ottenere il titolo, o almeno l’autorità, di re dei Romani: romana era stata la sua educazione negli studi di retorica e diritto, ma per caso, o per una scelta politica ben meditata, si serviva correntemente anche della sua lingua germanica tradizionale. I barbari indipendenti ricorrevano cosí al tribunale di uno straniero, che aveva l’originale qualità di esprimere nel loro idioma materno i dettami della giurisprudenza. La diligenza e l’affabilità resero Siagrio popolare; l’imparzialità dei suoi giudizi gli assicurò la volontaria obbedienza dei barbari e il suo regno sembrava voler porre le premesse per il risorgere delle istituzioni primitive della civiltà di Roma. Il figlio di Egidio mai si faceva condizionare dall’interesse personale, dalla passione e dalle antipatie e simpatie: le sue disposizioni ben si

addicevano al costume dei Germani e, se necessario, venivano ammorbidite dal carattere piú mite del diritto romano e del cristianesimo. Siagrio si fece arbitro nelle liti fra Germani e Gallo-romani e si sforzò di restare imparziale tra le due parti, cercando di inserire i primi nella sua organizzazione politica. Fino alla morte di Giulio Nepote, nel 480, Siagrio lo riconobbe, non accettando – al pari dell’impero d’Oriente – il nuovo imperatore Romolo Augustolo. Quando Giulio Nepote spirò, Siagrio prese le insegne dell’imperatore d’Oriente, Flavio Zenone, che non era però in grado di sostenere militarmente l’alleato dell’Ovest.

Indipendente de facto

Siagrio non riuscí a resistere all’avanzata del re visigoto Eurico verso la Loira, ma mantenne il Nord della Gallia e difese le terre della Senna e della Somme contro i Goti, da sud contro i Burgundi e da est contro i Franchi. La posizione era difficile, in quanto doveva innanzitutto mantenere buoni rapporti con i Franchi, cosí come aveva fatto il padre. Siagrio era de facto, ma non de nomine, un sovrano indipendente e i Franchi ritenevano che le province romane da lui amministrate fossero il suo regno e rappresentassero ancora l’impero romano. Perciò egli veniva considerato rex romanorum e il padre reputato addirittura figlio di Ezio.

le principali eresie

Una fede e molteplici declinazioni Novazianesimo: anche di fronte a conversione e penitenza, la Chiesa neghi la (III-VIII secolo) comunione e l’assoluzione ai lapsi (apostati) e a chiunque, col peccato mortale, abbia perduto la grazia battesimale. Pelagianesimo: l’uomo è in grado di osservare i comandamenti e salvarsi; la (IV-V secolo) grazia può solo aiutarne l’azione; si negano, quindi, il peccato originale e la necessità del battesimo e della penitenza. Arianesimo: negazione della divinità del Verbo e della sua consustanzialità (IV-V secolo) al Padre. aprile

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I Franchi all’avvento di Clodoveo Regno di Siagrio (486)

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Territori degli Alamanni (496-97)

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Territori dei Visigoti (507)

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Nelle tradizioni franche, infatti, gli ultimi tre difensori della Gallia imperiale appartenevano a una dinastia di «re romani» e venne anche compilato un albero genealogico ad hoc, che risaliva ancor piú indietro nel tempo. Chi si batteva contro di loro, aveva l’onore di guerreggiare con Roma anche perché non v’era la coeva percezione del crollo imperiale, stabilito a tavolino tempo dopo dagli storici. Nell’attuale territorio della Gallia abitavano molti popoli. Prevalevano territorialmente i Visigoti nelle province meridionali – confinati dalla Loira, dall’Ardèche e dal Rodano –, compreso il Meridione della Provenza: dopo le conquiste di Eurico nella Spagna, essi erano apparentemente i piú forti tra i barbari. Legandosi tra sé in confederazione di città libere, le province armoriche o marittime dei Brettoni avevano negato obbe-

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Popoli armoricani (497 circa)

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CONQUISTE DI CLODOVEO

Narbona

In alto, a sinistra dritto di un solido aureo con Romolo Augustolo. Zecca di Arles, 476. Boston, Museum of Fine Arts. A sinistra solido aureo di Giulio Nepote. Zecca di Ravenna, 473-475. Washington, Dumbarton Oaks Byzantine Coin Collection.

Arles Marsiglia

Regno dei Franchi alla morte di Clodoveo Spartizione tra i suoi quattro figli CLOTARIO

dienza ai fiacchi imperatori e armato milizie a propria difesa. I Britanni – fuggiti dall’isola natia quando fu invasa da Angli, Sassoni, Juti e Frisoni – si recarono anche nella Terza Lionese (la Turenna), fra gente che come loro parlava celtico. Gli Osismi, dall’estremo dell’Armorica, non avevano ancora abbandonato il culto druidico e spesso, malgrado le leggi, offrivano sacrifici umani ai loro dèi. Altri, dopo avere trascorso la giovinezza fra saccheggi e devastazioni, accolsero la croce e si ritirarono nella religione; altri ancora, presa la via della penitenza, divennero vescovi e santi.

Burgundi e Alemanni Nestorianesimo: l’unione delle due nature nel Cristo non è ipostatica (sostanza (V-VI secolo) assoluta trinitaria), ma volontaria; inoltre non accetta l’attributo di genitrice di Dio, riferito a Maria Vegine. Monofisismo: nel Cristo vi è la sola natura divina. (V-VI secolo) Monotelismo: esistono due nature e due volontà nel Cristo, la divina (VII secolo) e l’umana; ma quella che opera è la volontà divina che costituisce il tratto d’unione delle due nature.

MEDIOEVO

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Dal 406 al 415, fra Basilea e il Mediterraneo, Nevers e le Alpi, s’insediarono i Burgundi, conquistando, con capitale Lione, quelle che oggi sono la Provenza settentrionale, il Delfinato, la Cevenne, il Lionese, la Borgogna, la Franca-Contea, Langres nel Bassigny, la Svizzera francese, il Vallese e la Savoia. Gli Alemanni possedevano l’Alsazia e la Lorena, nonché, alla sinistra del Reno, i Paesi fino alla Mosella, e, a oriente, le

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protagonisti siagrio terre da Costanza a Basilea e Magonza, ossia la Svevia (Baden-Württemberg), il Darmstadt e buona parte della Franconia (Baviera).

Guerre e razzie

Incisione ottocentesca raffigurante la decapitazione di Siagrio, vinto da Clodoveo nella battaglia di Soissons.

I Franchi tenevano la restante parte della Gallia settentrionale, coi Paesi Bassi e il granducato del basso Reno, oltre ai Paesi sulla destra del Reno, che oggi sono Assia e Nassau. Anche i Franchi Ripuarii, volendo avere postazioni determinate come i fratelli del Nord, s’impossessarono di Colonia e Treviri, in tal modo estendendosi da Coblenza a Clèves; non mancarono guerre con i Burgundi, né dalla loro avanzata si salvarono gli ultimi caposaldi romani. Su altre zone del Paese i Franchi Salii erano governati da vari capi, tra cui i piú noti erano stanziati a Cambrai, Thérouanne, Tournai (oggi in Belgio). V’erano anche piccole colonie appartenenti a varie tribú stabilitesi qua e là, su tutta la superficie della Gallia – come, per esempio, a Le Mans –, che bande di barbari armati devastavano alla ricerca di una sede. I Franchi, nel complesso, erano i meno toccati dalla civiltà romana,

A sinistra testa di Clodoveo, dal rilievo raffigurante il battesimo del re sul portale nord della cattedrale di Notre-Dame a Reims. 1220-1230. Reims, Palazzo del Tau.

e ancora pagani, nonché nemici dell’impero, si dimostravano piú Germani e barbari dei Burgundi e dei Goti medesimi. Al contempo, i pirati sassoni che infestavano le coste si erano stabiliti in buon numero a Bayeux. Infine v’erano i piú numerosi

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Galli, che conservavano l’eredità e le istituzioni di Roma. Sebbene rinserrati fra i popoli germanici nella loro enclave imperiale, essi mantenevano in vita le vestigia antiche. E tale reminiscenza d’una grandezza che non esisteva piú, era pur considerata la sola autorità legittima fra la pletora dei domini barbarici in Occidente. Essa aveva in sé la sanzione di mezzo millennio d’ininterrotta permanenza statuale d’amministrazione e di legioni dell’Urbe; al contrario, i regni confinanti erano fondati e retti unicamente dal potere della spada. Per i Galli, manteaprile

MEDIOEVO


I capi continuarono a mantenere buone relazioni con gli episcopati romani, ma i sudditi gallo-romani continuavano a considerare gli altri fautori dell’eresia, e ritenevano la loro sconfitta indispensabile per il trionfo della fede. Questa era la situazione nel momento in cui il quindicenne Clodoveo [I] – succedendo al padre Childerico – si sedette sul trono dei Franchi Salii (481). Agli inizi restò inattivo, probabilmente sotto l’egida di Eurico, ma, un anno dopo la morte del re visigoto, si incontrò nel 485 con i magnati salii suoi cugini – Ragnacaro di Cambrai e Cararico di Tongeren –, decidendo a diciannove anni di stabilire un nuovo ordine nell’intera Gallia.

Le ambizioni di Clodoveo

nere l’impero significava ribadire l’affrancamento nazionale. V’è anche da dire che i Visigoti e i Burgundi cercavano di convivere pacificamente con i Gallo-romani, di amministrarne saggiamente i territori. A loro gli ex sudditi di Roma si sarebbero sottomessi di buon grado, in cambio di protezione e di pace; avrebbero anche sorvolato sul fatto di aver conquistato parte delle loro terre con le armi. Tuttavia, fra i Gallo-romani e i barbari vi era un grave motivo di dissenso confessionale: i primi erano obbedienti al papa mentre i secondi erano ariani.

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Chi avesse voluto reggere le sorti d’un grande Stato, neutralizzando i regni barbarici della Gallia, e unire in esso l’elemento legittimista gallo-romano nei propri interessi, avrebbe dovuto innanzitutto sconfiggere il nome di Roma. Fu Clodoveo ad assumersi il compito, in quanto – come ha sostenuto Edward Gibbon – la gloria del padre costituiva fra i Merovingi sempre un affronto per il figlio, in cerca d’imprese piú grandi di quelle del genitore. Egli non si accontentava del piccolo regno ereditario di Tournai e voleva diventare l’unico capo dei popoli a qualsiasi costo. Al tempo di Cesare, Suessiones avrebbe fornito 50 000 armati a cavallo, oltre a un’abbondante provvista di scudi, corazze e macchine militari, ma il coraggio e il numero della gioventú gallica, propensa a difendere la propria autoctonia, si erano da gran tempo esauriti. Le schiere indisciplinate di legionari, alleati, volontari e mercenari che militavano sotto le bandiere di Siagrio non potevano fronteggiare i 5000 di Clodoveo, che avevano in sé il valore dei Franchi, e già principiavano a sentirsi nazione. La battaglia si combatté a Nogent nel

486, circa 15 km a nord di Suessiones e fu Clodoveo a offrire cavallerescamente la scelta del campo a Siagrio. Il re di Tournai attraversò la selva delle Ardenne portando con sé i propri militi, stimolati dalle ricchezze dei Romani, e giunse a destinazione. Clodoveo fu ugualmente vittorioso: Siagrio, disponendo di forze inferiori e malmesse, incorse in una rapida disfatta. Si ritirò passando la Senna, e nel trovare le città della Loira non pronte alla difesa, riparò a Tolosa dal re dei Visigoti, Alarico II. Il figlio di Eurico si trovò di fronte alle complicazioni dovute all’ambizione del re dei Franchi, il cui genitore aveva combattuto contro il padre di Alarico. Clodoveo chiese al re visogoto che Siagrio gli fosse consegnato e il monarca, paventando l’ira del franco – inteso a muovergli guerra – acconsentí. Dopo un breve confino, l’ultimo «re romano» finí nelle mani di Clodoveo, il quale lo gettò in prigione e lo fece porre segretamente a morte fra il 486 e il 487. A quel punto, lontanissimi dalla corte bizantina, i Galli non potevano sperare d’esser soccorsi e perciò non esitarono a sottomettersi. Il succedersi di questi eventi prova dunque che l’impero romano d’Occidente, di fatto, scomparve nell’attuale Soissons, dieci anni dopo la deposizione di Romolo Augustolo e non prima, come ancora oggi recitiamo a memoria.

Da leggere Edward Gibbon, Decadenza e caduta dell’Impero Romano, Newton Compton, Roma 1973; vol. IV Gregorio di Tours, Storia dei franchi: i dieci libri delle storie, a cura di Massimo Oldoni, Liguori, Napoli 2001 Mario Attilio Levi, Piero Meloni, Storia romana dalle origini al 476 d.C., Cisalpino-Goliardica, Milano 1986

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costume e società

Pellegrini

della

Vera Icona di Elisabetta Gnignera

Il velo che la Veronica avrebbe dato a Gesú nella salita al Calvario è tra le reliquie piú venerate della cristianità. Portato a Roma, esso esercitò un richiamo fortissimo sulle schiere dei fedeli che si mettevano in cammino alla volta dell’Urbe e che ne fecero una delle proprie insegne, arricchendo un vestiario già assai connotato

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el XXXI canto del Paradiso, composto entro il 1320, Dante si paragonava al pellegrino venuto «forse di Croazia» a vedere a Roma la «Veronica nostra», ossia il lino della Veronica quale «verace sembianza» del Cristo di cui non è mai pago. Pochi anni piú tardi, Petrarca compone un sonetto nel quale, in cerca dell’effigie di Laura, si paragona al vecchierello che abbandona gli agi della sua casa, per osservare nel velo della Veronica «la sembianza di colui / ch’ ancor lassú nel ciel vedere spera» (Canzoniere, XVI). In un breve volgere di tempo, dunque, i due grandi poeti danno conto di una delle reliquie piú venerate durante il primo Giubileo della storia, indetto a Roma nel 1300 da papa Bonifacio VIII. Come ha scritto lo storico dell’arte Alberto Cottino, la figura della Veronica, scaturisce da «una serie di leggende popolari (probabilmente tratte da interpolazioni del vangelo apocrifo di Nicodemo) che narrano di una donna di questo nome che durante la Passione asciugò il sudore e il sangue dal volto di Gesú con un velo che miracolosamente rimase impresso della sua immagine. La Vera Icon, dunque, che probabilmente battezzò la santa». Forse inviata nell’Urbs Aeterna dal patriarca di Costantinopoli Germano I (634-733 circa) per salvarla dalla furia degli iconoclasti, la reliquia del velo della Veronica si trovava a Roma almeno dal XII secolo, quando, durante il pontificato di Celestino III (1191-1198), fu collocata nel piano superiore di un ciborio a sei colonne che la proteggeva, fungendo altresí da «teca espositiva», vicino alla Cappella di S. Giovanni, in S. Pietro.

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Via Crucis, pala d’altare realizzata per la Cappella Antinori della chiesa di Santo Spirito a Firenze da Biagio d’Antonio. 1480. Parigi, Museo del Louvre. Sulla destra della scena, si riconosce la Veronica con il velo su cui è impressa l’immagine del volto di Cristo.

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costume e società dalla nuova cronica

MARE DEL NORD

o Ren

Didascalia Brema aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu Münster Duisburg rehendebis eatur Colonia tendamusam Bonn consent, perspiti Coblenza conseque nis Neufchateau Sen maxim Reims Worms na eaquis earuntia cones Châlons-sur-Marne Spira apienda. Troyes Strasburgo Loi

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«La piú mirabile cosa»

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Schongau Châlon-sur-Saône Tournus

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Bolzano Pustertal-Pusteria Gran San Bernardo Lione Trento Aosta Treviso Chambery Bassano Ivrea Vercelli Pavia Padova Moncenisio Venezia Piacenza Mortara Susa Po Rovigo Torino Fidenza Cisa Bologna Ravenna Sarzana Luni Firenze Forlì Lucca Alpe di Serra Arezzo Poggibonsi Siena San Quirico Orvieto MA Bolsena RA DR Viterbo IAT Corsica Sutri ICO Roma

Sardegna

MAR TIRRENO

Sicilia

Nel 1216, durante il pontificato di Innocenzo III, il velo fu protagonista di un episodio miracoloso: raccontano le fonti (tra cui la Chronica Maiora di Matthew Paris, 1240-53) come, nella seconda domenica dopo l’Epifania, il pontefice fosse solito recarsi all’ospedale di Santo Spirito in Saxia – da lui poco prima rifondato sulle spoglie del precedente ospedale di S. Maria in Saxia –, per mostrare ai malati il sudarium della Passione di Cristo. In quell’anno, quando si volle riporre la reliqua dopo l’ostensione, la raffigurazione del volto si capovolse da sola. Interpretandolo come un cattivo presagio, il papa decise di promuovere il culto della reliquia, introducendo una particolare preghiera rivolta all’immagine

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Cosí Giovanni Villani descrive i pellegrini che, in occasione del Giubileo del 1300, si recavano a Roma per rendere omaggio alla Veronica: «Come papa Bonifazio VIII diè perdono a tutti i Cristiani ch’ andassono a Roma l’anno del giubileo MCCC. Negli anni di Cristo MCCC (…) papa Bonifazio VIII, che allora era appostolico, nel detto anno a reverenza della Natività di Cristo fece somma e grande indulgenza in questo modo: che qualunque Romano visitasse infra tutto il detto anno, continuando XXX dí, le chiese de’ beati appostoli santo Pietro e santo Paolo, e per XV dí l’altra universale gente che non fossono Romani, a tutti fece piena e intera perdonanza di tutti gli suoi peccati, essendo confesso o si confessasse, di colpa e di pena. E per consolazione de’ Cristiani pellegrini ogni venerdí o dí solenne di festa si mostrava in Santo Pietro la Veronica del sudario di Cristo. Per la qual cosa gran parte de’ Cristiani che allora vivevano feciono il detto pellegrinaggio cosí femmine come uomini di cotanti e diversi paesi, e di lungi e d’appresso. E fue la piú mirabile cosa che mai si vedesse» (Nuova Cronica, XXXVI). Gli itinerari per Roma dal Nord Europa secondo gli Annales Stadenses del cronista tedesco e frate minore Alberto di Stade.

e concedendo un’indulgenza di dieci giorni a tutti coloro che vi avessero pregato davanti. Innocenzo III istituí inoltre una processione annuale, concedendo indulgenze a quanti vi avessero partecipato con rette intenzioni.

Un richiamo irresistibile

Racchiusa in una cornice dorata, dono di tre devoti veneziani, la reliquia venne esposta in S. Pietro durante le maggiori festività e, in particolare, in occasione degli Anni Santi del 1300 e del 1350. Un passaggio del noto brano sul Giubileo del 1300 incluso nella Nuova Cronica del fiorentino Giovanni Villani (1276-1348), attesterebbe che molti pellegrini si recavano a Roma aprile

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Sutri (Viterbo), chiesa di S. Maria del Parto. Particolare delle pitture che si conservano sulle pareti del vestibolo. Nel riquadro sono raffigurati i pellegrini in processione verso il Monte Gargano.

proprio per assistere all’ostensione della reliquia della Veronica (vedi box alla pagina precedente). Dell’aspetto di tali pellegrini reca una traccia importantissima la chiesa rupestre di S. Maria del Parto a Sutri (Viterbo), in origine intitolata a san Michele Arcangelo: sulle pareti del vestibolo si conserva una delle piú vivide rappresentazioni superstiti di fedeli in cammino, pressoché coeva del Giubileo del 1300, poiché datata ai primi decenni del secolo XIV. Nel pannello centrale è riprodotto il miracolo del Monte Gargano, in cui un arciere – identificato come Gargano o Elvio Emanuele, un facoltoso possidente di Siponto – scaglia frecce contro un toro della sua mandria, all’interno della grotta nella

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quale si era rifugiato; le frecce rimbalzano miracolosamente, trafiggendo l’arciere. In alto, a sinistra, si trova l’immagine miracolosa dell’Arcangelo ad ali spiegate, con in mano la lancia quale signum della sacralità della grotta, e, in basso, si snoda verso l’alto una lunga teoria di pellegrini e fedeli diretti alla grotta del santo. L’artista doveva ben conoscere i costumi di quei pellegrini romei, che dall’Europa andavano in pellegrinaggio verso Roma, transitando per Sutri, lungo la via che prese il nome di Francigena, perché collegava appunto Roma alla terra dei Franchi. La denominazione di «Romei» è attestata nel Miracolo de lo sacro Corporale, dramma sacro di anonimo umbro del 1300 sul miracolo di Bol-

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costume e società sena, in cui si dice che i pellegrini erano riconoscibili proprio per il particolare vestiario e le insegne adottate. L’equipaggiamento tradizionale del pellegrino comprendeva dunque: una tunica o gonnella che, nei primi anni del XIV secolo, arrivava al polpaccio per l’uomo, mentre per la donna si attestava alla caviglia; una cintura (o un cordone a modo di cintura), a cui era appesa la scarsella (borsa), quando non veniva indossata la bisaccia; una sopravveste oppure un mantello, confezionati principalmente in lana follata e infeltrita per garantire una maggiore impermeabilità e foderati, in inverno, di pellicce piú o meno pregiate a seconda dell’estrazione sociale del proprietario, mentre in estate lo stesso capo veniva fatto con tessuti leggeri; un cappello a tesa larga, legato sotto il mento; e, infine, un bordone, ovvero un bastone ferrato piuttosto lungo, per difendersi dai tagliaborse. Non potevano mancare le borracce per le bevande, fatte con zucche «a fiaschetta» oppure in pelle impermeabilizzata all’interno con cera.

Cappelli, cappucci e calzini

Nelle pitture di Sutri, oltre ai mantelli, gli uomini indossano sopravvesti chiamate guarnacche e lunghe cappe mantellate, dette tabarri; sotto ai cappelli a tesa larga, sono raffigurati i cappucci «a gote», ossia a punta, che circondavano il volto (le gote appunto) e che potevano terminare talvolta in una mantellina, prendendo il nome di cocolla o cocullo, dal cucullus romano. Nel miracolo del Gargano, i pellegrini sono raffigurati scalzi in segno di penitenza, ma, nella realtà dei fatti, si indossavano i cosiddetti «panni da gamba», ossia tutti quegli indumenti intimi che comprendevano le mutande o brache, le calze-brache – forse ereditate, tramite i Galli, dai cavalieri nomadi delle steppe e tenute da appositi lacci, chiamati usolieri – e i calcetti, calzini in lino da indossare sotto alle calze o alle calze-braghe. Piú rare sono le immagini di donne «romee» (pellegrine), che deduciamo abbigliate con lunghe gonnelle (vesti), guarnacche (sopravvesti) e mantelli; la testa era coperta da un drappo, che talvolta poteva anche avvolgere il collo e il mento, chiamato glimpa, come si può vedere a Sutri nella scena in cui, ai piedi dell’arciere, marito e moglie consegnano la ricompensa alla «buona e devota persona» che si è recata in pellegrinaggio su (loro?) commissione e che, a riprova dell’avvenuto pellegrinaggio, consegna una piuma alla coppia. Sulla glimpa femminile, si posava il cappello a tesa larga oppure il cappello a punta con falda risvoltata in alto, detto «à bec» nei territori ultramontani, per proteggersi da sole e dal vento, come mostra il Trionfo della Morte di Buffalmacco (1336-40) nel Camposanto monumentale di Pisa. Come scrive Genoveffa Palumbo, «intorno al XIIXIII secolo tra coloro che effettuavano un pellegrinag-

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A destra insegna di pellegrinaggio in stagno e piombo su cui compaiono la Veronica e il Santo Volto. XV sec. Parigi, Musée national du Moyen Âge. Nella pagina accanto Ecouis (Normandia, Francia), collegiata di Notre-Dame de l’Assomption. Statua di santa Veronica che mostra il velo con il Santo Volto. XIV sec.

gio si affermò l’abitudine che durerà, in forme diverse, fino al XIX secolo, di portare vari contrassegni che apertamente dichiaravano, da un lato, il loro status di pellegrini, dall’altro qual era la meta del loro viaggio. In un primo tempo le insegne furono anche usate come una vera e propria prova che testimoniava, anche in sede eventualmente giudiziaria, che essi avevano compiuto un pellegrinaggio; poi, anche in seguito a un’inflazione di questi contrassegni, si diffonderanno altri sistemi di certificazione».

Un gesto pieno di compassione

«Veroniche» venivano comunemente chiamate sia le insegne di pellegrinaggio nelle quali era raffigurata la Veronica che sorregge il velo con il Volto Santo, sia quelle che mostravano soltanto il velo con il Volto Santo su piombo o tessuto. Queste ultime rappresentavano il drappo che secondo la narrazione piú nota, santa Veronica porse compassionevolmente al Cristo sul cammino del Calvario e sul quale Gesú lasciò l’impronta del suo volto sofferente. Le Veroniche, queste piccole pitture di pochi centimetri di altezza – su tessuto, cuoio o pergamena –, proliferavano, insieme alle altre insegne del pellegrinaggio, all’interno dei libri di preghiera quali oggetti di devozione da consegnare. Ritenute in grado di fugare una morte improvvisa senza confessione, le Veroniche potevano essere acquistate un po’ ovunque nel Medioevo. Ne esistono interessanti esempi superstiti in piombo e dipinte su pergamena, conservati entrambi a Parigi, rispettivamente al Museo Nazionale del Medioevo e in un Libro d’Ore della Bibliothèque de l’Arsenal (Ms.1176 A). Sul primo folio del secondo sono appuntate varie insegne devozionali, tra cui un piccolo «velo di Veronica» dipinto su pergamena accanto a un ricamo a punto-croce con gli strumenti della Passione di Cristo e una insegna in argento con l’effigie di santa Marta. Tali insegne in piombo, ma anche di stoffa, venivano appuntate in genere sopra i copricapi, le bisacce o i mantelli dei pellegrini. Insieme alle chiavi decussate (disposte a croce) e al-

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la testa dei santi Pietro e Paolo, i pellegrini diretti a Roma, indossavano proprio l’insegna della Veronica: appuntata sul cappello o sul manto, compare nell’iconografia tradizionale di san Rocco di Montpellier, il quale, durante il suo pellegrinaggio a Roma nel 1367-68, si fermò molte settimane ad Acquapendente a soccorrere gli ammalati di peste nella cittadina viterbese. Caratterizzati come tali dall’insegna «della Veronica», i pellegrini si recavano a Roma «per vedere quella immagine benedetta la quale Iesu Cristo lasciò a noi per essemplo de la sua bellissima figura», scrive ancora Dante, nella Vita Nova. La Veronica, che secondo la tradizione si mostrò misericordiosa verso la sofferenza di Cristo detergendone sangue e sudore, e il Volto Santo o «Vera Icon», diventano cosí figure emblematiche di quella «perdonanza universale» impossibile da attuare senza la misericordia del Padre. Misericordia alla quale papa Francesco ha voluto dedicare il Giubileo straordinario del 2016, definendola «una carezza sulle ferite dei nostri peccati»: proprio come il compassionevole gesto della Veronica. F

Da leggere Françoise Piponnier, Margareta Nockert, Gabriella Di Flumeri Vatielli, Abbigliamento, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1991; anche on line su www.treccani.it Dante Alighieri, Vita Nova, a cura di Michele Barbi. Bemporad. Firenze 1932 (Anonimo), Il Miracolo di Bolsena, Centro Studi sul teatro medioevale e rinascimentale, Viterbo, 1985. Hans Belting, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, Carocci, Roma 2001 Andrea Busto (a cura di), Il Velo tra mistero, seduzione, misticismo, sensualità, potere e religione, catalogo della mostra (Caraglio, ottobre 2007-febbraio 2008), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2007. Genoveffa Palumbo, Viaggi delle donne. Annotazioni per una ricerca di lunga durata sulle insegne di pellegrinaggio, in Viaggiare nel Medioevo (a cura di Sergio Gensini), Pacini Editore, Pisa 2000; pp.403-420. Rosita [Levi] Pisetzky, Storia del Costume in Italia, Istituto Editoriale Italiano Treccani, Milano 1964-69; Il Trecento e il Quattrocento, Vol. II (1964)

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di Giuseppe M. Della Fina

La regina della rupe Città di antica e nobile fondazione, Orvieto visse nel Medioevo una stagione di grande fioritura, affermandosi come un centro di primaria importanza. Un’età dell’oro di cui sono testimonianza eloquente il Duomo e gli altri monumenti insigni racchiusi al suo interno

Orvieto, particolare della facciata del Duomo. La prima pietra della grandiosa chiesa fu posata nel 1290, ma il completamento dei lavori si ebbe solo dopo la seconda metà del Cinquecento.


Dossier

I I

Arezzo

Pietralunga Montone

Gubbio

TOSCANA

Fabriano Tolentino

Lago Trasimeno

Perugia Assisi Deruta

Spello Foligno

Giano dell’Umbria

Orvieto Lago di Bolsena

Todi

Amelia Orte

ra

Ne

Campello sul Clitunno

Acquasparta Spoleto

Terni

Cascata delle Marmore

Narni Rieti

Viterbo Lago di Vico

Nocera Umbra

LAZIO

Norcia Cascia

ABRUZZO

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MARCHE

Città di Castello Tevere

l racconto della città di Orvieto nel periodo medievale può prendere avvio da alcune righe della Storia delle guerre redatta dallo storiografo bizantino Procopio di Cesarea († 562 o poco dopo il 565), in cui viene descritto lo scontro che oppose in Italia l’esercito dell’imperatore bizantino Giustiniano, guidato da Belisario, e i Goti: «Dal suolo si eleva solitario un colle spianato e unito nella parte superiore, a picco nell’inferiore. Delle rupi uguali formano come una cerchia intorno al colle, non del tutto prossime, ma distanti circa un tiro di pietra. Su quella collina gli antichi costruirono la città, senza cingerla di mura né fornirla di altra difesa ritenendo che quel luogo fosse per sua natura inespugnabile. Infatti al pianoro conduce una sola strada aperta nel tufo, la quale custodita che sia, gli abitanti non hanno da temere un assalto nemico». La descrizione risale al 538 d.C. ed è degna di fede, poiché l’autore ebbe modo di osservare la scena

Nella pagina accanto Orvieto nella veduta realizzata per l’opera Civitates orbis terrarum, una raccolta di mappe delle città del mondo curata dai geografi tedeschi Franz Hogenberg e Georg Braun e pubblicata tra il 1572 e il 1616. Sulle due pagine una veduta di Orvieto che evidenzia la caratteristica che ne è divenuta l’emblema, vale a dire il fatto di sorgere su una poderosa rupe di tufo.

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descritta muovendosi al seguito di Belisario, quando il comandante bizantino riuscí, dopo un lungo assedio, a conquistare la rupe di Orvieto. Il testo è divenuto il riferimento letterario di molte descrizioni della città sino al Novecento, quando pure il paesaggio era mutato profondamente, ma non aveva perduto le sue caratteristiche peculiari. L’autore, inoltre, accenna a un passato della città che la lega al

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mondo romano e che oggi possiamo retrodatare sino all’epoca etrusca, sapendo anzi che la sua crisi piú profonda coincise proprio con la traumatica fase di passaggio tra Etruschi e Romani.

Una dura rappresaglia

Questi ultimi, infatti, nel 265 a.C., per domare una rivolta sviluppatasi subito dopo la fine della sua indipendenza politica, assediarono per

qualche mese l’etrusca Velzna (Volsinii, in lingua latina), la conquistarono, la distrussero e trasferirono forzatamente gli abitanti superstiti sulle sponde del lago di Bolsena, in una posizione meno difendibile. Si trattò di uno degli interventi piú violenti e punitivi compiuti dai Romani nella Penisola, motivato dalla morte di un console durante l’assedio e, soprattutto, dalla necessità di terrorizzare gli Etruschi nell’anno

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Dossier A sinistra Orvieto, Duomo, Cappella Nova (o di S. Brizio). Compianto sul Cristo morto, affresco di Luca Signorelli. 1499-1502. Il maestro ha inserito nella composizione anche i santi Faustino (a sinistra) e Pietro Parenzo. Nella pagina accanto una via del centro storico con la Torre del Moro sullo sfondo.

– il 264 a.C. – in cui ebbe inizio la prima guerra punica, con Roma intenzionata a contendere a Cartagine il primato sul Mar Tirreno. Le osservazioni di Procopio suggeriscono che, all’inizio del VI secolo d.C. (ma con ogni probabilità già da qualche tempo), la vita sulla rupe era ripresa a pieno e che uomini e donne erano tornati ad abitarla, ritenendo quel luogo, «per sua natura inespugnabile», sufficientemente protetto in un mondo tornato insicuro dopo la destrutturazione del potere imperiale di Roma. Una testimonianza artistica all’incirca coeva è un pavimento in mosaico a elementi geometrici, realizzato con tessere bianche e nere e con poche altre di colore grigio, rinvenuto sotto l’attuale chiesa dei Ss. Andrea e Bartolomeo, nella centrale piazza della Repubblica. Il mosaico suggerisce la presenza di un edificio a tre navate, di cui la centrale piú ampia delle altre, dalle quali era divisa da colonne oggi non piú in situ. Dovrebbe trattarsi di una basilica avente il medesimo orientamento della chiesa superiore, ma divergente da quello delle strutture

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circostanti e piú antiche. In proposito si può ricordare che la tradizione erudita locale, sin dal Cinquecento, collocava nell’area il Foro della città e un tempio dedicato a Giunone. La scelta degli uomini e delle donne che avevano deciso di tornare a insediarsi sopra la rupe si rivelò giusta e l’abitato crebbe rapidamente, tornando a occupare gli stessi spazi frequentati dai suoi primi abitanti etruschi. La città venne chiamata Urbs Vetus, Città Vecchia, nella consapevolezza piena di riallacciarsi a quel passato, nonostante si fosse fatto nebuloso e lontano. Da Urbs Vetus, divenuto poi Orbivieto, deriva Orvieto, il nome attuale della città (il nome originario Velzna, Volsinii rimase legato a Bolsena).

Il patto con il papa

Una data importante nella storia di Orvieto medievale è il 1157 (o 1158, secondo recenti proposte interpretative): un documento redatto in quell’anno menziona infatti, per la prima volta, il Comune di Orvieto come entità politica. Si tratta di un accordo stipulato tra il pontefice Adriano IV, che aveva soggior-

nato in città nell’estate del 1155, il priore del Capitolo di S. Costanzo che svolgeva il ruolo di supplenza del vescovo, due consoli e due rappresentanti dei nobili. I consoli dichiararono di essere vassalli del papa e giurarono fedeltà a lui e ai suoi successori garantendo che il giuramento sarebbe stato osservato anche dal popolo di cui erano espressione. Essi, inoltre, assicurarono la disponibilità a rinnovare il patto, qualora fosse stato espressamente richiesto. In concreto, il Comune di Orvieto s’impegnava a fornire aiuto militare al pontefice in caso di necessità in un’area compresa tra Sutri e la Val d’Orcia e a garantire la sicurezza sua e della curia pontificia nei periodi di soggiorno in città e durante i viaggi di andata e ritorno per raggiungerla. Da parte sua, il papa s’impegnava a versare una somma di 300 lire all’atto del giuramento e a dare un contributo per risolvere i problemi con la vicina Acquapendente. Il testo dell’accordo prova che la città era cresciuta, si era data una veste istituzionale e politica ed era pronta a giocare un ruolo nelle viaprile

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

cende dell’Italia centrale e che tale voglia di potenza era stata compresa dal pontefice, intenzionato a indirizzarla e gestirla. Il desiderio di espansione del Comune orvietano è testimoniato, negli anni successivi, da una politica aggressiva, condotta inizialmente verso il contado e poi su un’area piú ampia, destinata a

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diventare il territorio di pertinenza della città medievale, seppure con confini sempre molto mobili. Nel 1168, a Orvieto si sottomise il conte Ranieri di Montorio, che controllava le terre a ovest del lago di Bolsena, e, nel 1171, il Comune acquisí il controllo di Città delle Pieve. La città era pronta per un ulte-

riore salto di qualità quando divenne la scena di un delitto con una risonanza ben piú ampia dell’ambito locale, per il contesto e le ripercussioni: nel mese di maggio del 1199 venne ucciso Pietro Parenzo, un giovane della nobiltà romana inviato dal pontefice sulla rupe per fronteggiare l’avanzata dell’eresia aprile

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Una veduta di Orvieto, dominata dal Duomo, intitolato alla Vergine Assunta.

iniziarono a fare proseliti. Il successore, Riccardo da Gaeta, comprese il rischio e fece allontanare i due predicatori. I catari non si dettero per vinti e inviarono a Orvieto due donne, Milita da Montemeato e Julitta da Firenze. Nascondendo inizialmente la loro fede, esse seppero conquistare ampi settori della città e, in particolare, numerose donne appartenenti ad alcune delle famiglie piú importanti. Riuscirono anche a ottenere la fiducia del vescovo, il quale, solo in ritardo, si rese conto delle loro reali intenzioni. A quel punto Riccardo da Gaeta decise di reagire, stabilendo pene molto severe per chi aveva abbracciato il credo cataro, compresa la condanna a morte. La sua azione venne resa meno efficace da forti tensioni politiche sorte nel frattempo tra il Comune di Orvieto e lo Stato della Chiesa per il controllo su Acquapendente: papa Innocenzo III lanciò l’interdetto sulla città e richiamò il vescovo, che venne trattenuto per nove mesi a Roma.

Fortezza degli eretici

catara. Una cronaca dettagliata – anche se di parte – dell’episodio è esposta in un testo, intitolato Passio beati Petri Parentii martiris, scritto pochi anni piú tardi, nel 1205, da un certo Giovanni, il quale aveva potuto osservare da vicino il successo del proselitismo cataro e raccogliere informazioni di prima mano.

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Egli afferma che la presenza dei catari – detti anche patari – risaliva a una trentina di anni prima, quando, intorno al 1170, erano giunti Diotesalvi e il suo compagno Gottardo, provenienti da Firenze. Il vescovo del tempo, Rustico, aveva sottovalutato il pericolo e lasciato spazio alla predicazione dei due uomini, che

Lo spazio per la predicazione catara trovò di nuovo terreno favorevole e, inoltre, giunse in città un personaggio di grande carisma, Pietro Lombardo, capace d’inserirsi nelle complesse dinamiche della politica comunale, caratterizzate dallo scontro tra guelfi e ghibellini. Si arrivò a immaginare Orvieto come una sede privilegiata per i catari, come una loro fortezza. I progetti di Pietro Lombardo si fecero sempre piú ambiziosi, tanto da allarmare vari settori della comunità orvietana che, ritrovata una qualche forma di unità, inviarono una delegazione presso Innocenzo III, per chiedere l’intervento papale e l’invio di un «rettore». La presenza catara a Orvieto, d’altra parte, preoccupava lo stesso pontefice e, di conseguenza, la proposta venne

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In alto S. Giovenale. Il primo pilastro della navata sinistra, affrescato con una Crocifissione. XIII sec. Sulle due pagine l’esterno della chiesa di S. Giovenale, fondata, secondo la tradizione, nel 1004, probabilmente su un tempio preesistente.

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recepita e Pietro Parenzo fu inviato come «rettore». L’uomo fu accolto inizialmente con favore, ma la sua decisione di proibire manifestazioni nel periodo di carnevale creò uno scontento notevole, che venne cavalcato dai catari. Si ebbero scontri di piazza e la situazione si fece molto tesa, fino a che, per fronteggiarla, si avviarono dure azioni di repressione contro gli eretici. Pietro Parenzo scelse di tornare a Roma in occasione delle festività pasquali per chiedere indicazioni sul comportamento da tenere e invocare un sostegno piú forte. Alle «calende di maggio» tornò a Orvieto e la situazione precipitò: nella notte del 20 maggio, con la complicità del servitore Radulfo, un gruppo di

catari riuscí a entrare nella sua abitazione e a farlo prigioniero. Tra i rapitori non vi era unità d’intenti, e poiché il «rettore» non accettò di ritirare alcuni provvedimenti presi, la situazione prese subito una piega tragica: il giovane venne ucciso con un colpo di martello alla testa.

Pietro, martire e santo

Il ritrovamento del corpo, avvenuto all’alba, e gli eventi miracolosi che sarebbero accaduti nelle ore e nei giorni immediatamente successivi portarono alla durissima reazione della cittadinanza contro i catari, riconosciuti quali responsabili del rapimento e dell’assassinio. La rupe di Orvieto non si trasformò in una fortezza catara e Pietro Parenzo divenne

un martire e un santo, al quale sono attribuiti diversi miracoli. È ancora oggi uno dei patroni della città. Nel quadro cittadino dell’epoca una chiesa aveva un ruolo speciale: dedicata a san Giovenale, era posta sul bordo della rupe quasi a controllare la valle. Una tradizione la vuole fondata nel 1004, ma probabilmente si trattò di una rifondazione, poiché l’esistenza di un edificio sacro precedente sembra suggerita dalla presenza di reperti lapidei di spoglio con tipici motivi a treccia risalenti all’età carolingia. In ogni caso, la documentazione di archivio indica che la chiesa era definita parrocchiale nel 1028 e che, dalla fine del XII secolo, era sottoposta al patronato dell’Ordine di San Guglielmo.

A destra affreschi della navata destra di S. Giovenale: Madonna in Trono del Maestro di San Lorenzo de’ Arari (XIV sec.; a sinistra) e Madonna con Bambino (1305).

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La facciata di S. Giovenale è del tipo a capanna ed è sormontata da una torre campanaria sviluppata intorno a una struttura precedente eretta con una funzione di controllo. L’interno si presenta suddiviso in tre navate separate da colonne di tufo con capitelli ad anello, su cui s’impostano archi a tutto sesto. Osservando le strutture, ci si può rendere conto che la chiesa venne ampliata nell’ultimo quarto del XIII secolo e l’intervento modificò sensibilmente la zona presbiteriale. Fasi diverse si colgono anche nella decorazione pittorica, verso la quale – visitando la chiesa – si viene attratti: non a caso, lo studioso Pericle Perali (1884-1949) la descrisse come il «vero malversatissimo museo storico della pittura in Orvieto nel secolo XIV». Il «malversatissimo» non era un aggettivo a effetto: gli affreschi della chiesa hanno

Qui sotto veduta esterna del lato sud-est del Duomo, con, in primo piano, il complesso dei Palazzi Papali, oggi sede del MODO (Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto).

Nella pagina accanto la facciata del Duomo, scandita da quattro pilastri, le cui basi sono decorate da altrettanti rilievi. Il primo, da destra (vedi foto qui a sinistra), ha per tema il Giudizio Universale. Come quello del pilastro di destra, il pannello è riconducibile all’avvento di Lorenzo Maitani, nel 1310. A destra una veduta della navata centrale del Duomo. In primo piano, sulla sinistra, si riconosce il fonte battesimale realizzato tra il 1390 e il 1407 da Luca di Giovanni, Pietro di Giovanni da Friburgo e Sano di Matteo.

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Dossier Palazzo Soliano, la piú vasta e imponente delle residenze pontificie orvietane, costruita su sollecitazione di papa Bonifacio VIII. Già sede storica del Museo dell’Opera del Duomo, ospita oggi spazi di servizio e parte delle collezioni del MODO.

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subíto nei secoli ripetute aggressioni e addirittura una mano di calce bianca, stesa nel 1632 per ordine del priore, intenzionato a rimodernare la chiesa – ormai fatiscente nella descrizione che ne fece al suo vescovo – e a tenerla al passo con le nuove tendenze artistiche. In anni recenti (2010-2014), le pitture sono state interessate da un intervento di restauro, che ha portato una luce nuova sulle pareti affrescate. La prima fase decorativa della chiesa viene fatta risalire agli anni 1250-1275 e vide impegnati artisti rimasti anonimi: il Maestro della Maestà dei Servi, il Maestro dei Santi Severo e Martirio e altri pittoStatua di Bonifacio VIII originariamente collocata sulla Porta Maggiore di Orvieto e attribuita alla bottega di Ramo di Paganello. 1297. Orvieto, Museo Civico Archeologico.

ri che risultano influenzati da loro due. La seconda fase è vicina cronologicamente ed è riferibile agli anni a cavallo tra il Duecento e il Trecento: diversi dipinti sono attribuibili a maestranze attive nella bottega del Maestro della Madonna di San Brizio, il cui stile risulta aggiornato rispetto alle novità artistiche maturate a Roma e Oltralpe. In questa temperie stilistica e cronologica s’inseriscono un raro Lignum Vitae, dipinto in controfacciata; un gigantesco San Cristoforo, raffigurato sulla parete sinistra; un San Guglielmo di Malavalle, il fondatore dell’Ordine dei Guglielmiti, posizionato a destra dell’abside; una Conversione di San Paolo, rappresentata sul pilastro proprio di fronte.

Fasi e linguaggi

Il terzo momento decorativo si colloca nella prima metà del Trecento, quando operarono pittori che mostrano di avere assimilato il linguaggio figurativo di Simone Martini e Lippo Memmi, come, per esempio, nel San Ludovico di Tolosa; o di Pietro Lorenzetti in una Crocifissione che si può osservare in apertura della parete di sinistra. La quarta fase, databile tra la seconda metà del Trecento e i primi anni del Quattrocento, è dominata dalla figura di Ugolino di Prete Ilario: ai suoi collaboratori e continuatori possono essere ascritti il maggior numero degli affreschi tuttora presenti nella chiesa. In tale temperie particolarmente attivo risulta Piero di Puccio. Nel periodo successivo, riferibile alla prima metà del Quattrocento, vanno inseriti i dipinti assegnati di recente a Pietro di Nicola Baroni,

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In alto lastra sulla quale corre un’iscrizione riferibile alle leggi statutarie del Comune di Orvieto. 1209.

come la Santa Caterina di Alessandria, che risulta l’unico dipinto conservatosi della decorazione dell’abside. Un intervento ulteriore, che interessò il registro superiore della navata centrale, venne portato avanti negli anni iniziali del Cinquecento per volontà del canonico Antonio Alberi, l’erudito che collaborò con Luca Signorelli nella scelta dei temi da dipingere nella Cappella Nova del Duomo di Orvieto e che dotò la Cattedrale di una libreria anch’essa restaurata di recente. Si è accennato alle chiese dei Ss. Andrea e Bartolomeo e di S. Giovenale e quindi a due zone diverse della città. Ma come si presentava l’area dove, a partire dal 1290, venne eretto il Duomo? A oggi, non è possibile fornire una risposta certa, ma nuove ricerche nella ricca documentazione di archivio o prospezioni geofisiche e scavi archeologici mirati potrebbero offrire un quadro piú completo e attendibile. Sappiamo con certezza che nell’area si trovavano due chiese: S. Costanzo, dotata di un chiostro e con spazi e botteghe dei canonici, e S. Maria de episcopatu (denominata successivamente S. Maria Prisca) che fungeva da Cattedrale. Non lontano da quest’ultima si trovava il Palazzo Vescovile, ampliato all’incirca tra il 1225 e il 1230. Negli anni 1955-1956, durante i lavori per la ripavimentazione del Duomo, vennero ritrovati alcuni muri di fondazione. La scoperta non venne seguita da una campagna di scavo, ma le strutture furono

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Dossier studiate da Renato Bonelli – uno dei maggiori storici italiani dell’architettura nel Novecento –, il quale, sulla base di quei resti, disegnò la pianta di un edificio con una lunghezza di 31,5 m e una larghezza di 15,20, compreso all’interno dell’attuale navata centrale del Duomo. L’edificio cosí ricostruito, con la fronte posta in coincidenza con quella attuale della Cattedrale, è stato interpretato in maniera diversa, ma tutti gli studiosi hanno ritenuto che si trattasse di una delle chiese ricordate nella documentazione archivistica: S. Costanzo per Enzo Carli, Renato Bonelli e Alberto Satolli e S. Maria Prisca per Lucio Riccetti, solo per menzionare coloro che piú si sono interessati all’architettura della Cattedrale e alle vicende del cantiere del Duomo. In alcune ricostruzioni, inoltre, le due chiese sarebbero state parallele, in altre orientate diversamente.

Da chiesa a palazzo

In questo quadro, che appariva consolidato, si è inserito uno studio degli architetti Valentina e Alberto Satolli, incentrato sul vicino Palazzo di Bonifacio VIII che rientra nel complesso dei Palazzi Papali della città umbra. I due studiosi hanno ipotizzato che il palazzo costruito per il pontefice sia stato edificato al di sopra della chiesa di S. Maria Prisca e che anzi ne abbia utilizzato i muri laterali sino a una certa altezza. Ci troveremmo di fronte al reimpiego di un edificio accompagnato da un radicale cambiamento di uso: da chiesa a residenza papale. Valentina Satolli, in particolare, ha notato che nel paramento murario dell’edificio i conci di tufo hanno un’altezza diversa: sino a 7,65 m, misurano 19 cm circa; al di sopra, sono invece alti 27,5 cm. La differenza sembra rinviare a interventi edilizi effettuati a distanza di tempo. Può apparire strano il «cambiamento d’uso» di una chiesa alla fine del Duecento all’interno di un cen-

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Qui accanto S. Domenico. Il monumento funebre per il cardinale Guglielmo de Braye, realizzato da Arnolfo di Cambio. 1283-1285. Nella pagina accanto la chiesa di S. Domenico, la cui costruzione venne avviata nel 1242. In basso la facciata della chiesa di S. Francesco, innalzata nel punto piú alto della rupe di Orvieto.

Manca ancora uno studio storicoartistico che li inquadri compiutamente, ma potrebbero risalire agli anni Venti del Duecento, quando sappiamo che il vescovo Raniero fece affrescare la chiesa in occasione di un sinodo che si tenne al suo interno nel 1228. Satolli ritiene che si possa individuare anche l’architetto che seguí i lavori: Fra’ Bevignate, il quale – con Boninsegna da Venezia – aveva già realizzato l’acquedotto di Orvieto ed era stato nominato dapprima operarius (nel 1295) e poi «soprastante» (nel 1300), del cantiere del Duomo. Recentemente, la ricercatrice Sabina Bordino ha inoltre scoperto e valorizzato un documento nel quale si indica che la chiesa di S. Maria Episcopatus era in piedi e agibile ancora nel dicembre del 1292, e quindi dovrebbe essersi trovata al di fuori dell’area individuata per il Duomo. Lo sviluppo vertiginoso di Orvieto durante il Duecento mutò in profondità il paesaggio urbano, non solo in quest’area. È sufficiente elencare anche soltanto le maggiori chiese allora edificate: S.

tro urbano, ma va valutato che nella stessa area – dal novembre del 1290 – erano iniziati i lavori per erigere la nuova Cattedrale, sempre dedicata alla Vergine Maria. Sulla scelta potrebbe avere influito inoltre la necessità, a partire dalla primavera del 1297, di erigere in tutta fretta un palazzo per il papa.

Scoperte d’archivio

Oltre alla menzione nei documenti, esisterebbero altre testimonianze relative alla chiesa di S. Maria Prisca. Secondo Alberto Satolli, a essa andrebbero riferiti alcuni conci di tufo affrescati e ritrovati proprio durante i lavori di consolidamento (1989-1991) delle volte del palazzo costruito per Bonifacio VIII. Gli affreschi superstiti, ora restaurati, mostrano, tra l’altro, una Madonna in trono e una Santa Maria Egiziaca.

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Domenico nel 1242, S. Francesco nel 1244, S. Agostino nel 1253, S. Maria dei Servi nel 1291. Questa intensa attività edilizia si configura, di fatto, come un cantiere su scala urbana che interessò anche le strutture legate al potere politico laico, come il Palazzo del Popolo – il Palatium Populi –, attestato per la prima volta nei documenti nel 1281 e concepito inizialmente con una loggia porticata al pianterreno – che fu presto chiusa – e un grande salone per le adunanze al primo piano. In un secondo momento venne aggiunta la sala «caminata», la torre e, con ogni probabilità, fu posizionato diversamente lo scalone di accesso. Nel Palazzo aveva sede il Capitano del Popolo (una carica istituita a Orvieto, come a Firenze, nel 1250) e vi furo-

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no poi ospitati temporaneamente i podestà e i governatori. La costruzione dell’edificio si accompagnò alla demolizione di case e torri per creare la piazza antistante che doveva esaltarne la mole. Si possono ricordare anche la costruzione del Palazzo del Comune e la realizzazione dell’acquedotto. Lo stesso patrimonio edilizio privato si ampliò e fu investito da un profondo rinnovamento.

Maestranze cosmopolite

Dal 1290 divenne attivo, inoltre, il cantiere del Duomo che portò alla costruzione della nuova Cattedrale, destinata a divenire uno dei monumenti simbolo dell’architettura sacra italiana. I primi anni, vivacizzati dalla presenza di maestranze cosmopolite, furono di lavoro intenso,

In alto il Palazzo del Popolo, ultimato nei primi anni del Trecento. L’edificio si ispira al modello dei broletti, ma con materiali e decorazioni rielaborati secondo i canoni dell’architettura locale. Nella pagina accanto la Cappella del Corporale nel Duomo dell’Assunta. Al centro, in alto, si riconosce il tabernacolo in cui è custodita la reliquia legata al miracolo di Bolsena.

al punto che, nel giro di un ventennio, si riuscí a innalzare le navate e il transetto, seguendo il progetto ideato da un architetto di cui non conosciamo il nome (alcuni storici dell’architettura hanno pensato, comunque, ad Arnolfo di Cambio, o a Fra’ Bevignate) e noto convenzionalmente come il «Maestro del Duomo di Orvieto». Nel 1310 si ebbe un mutamento aprile

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d’indirizzi, di cui fu protagonista il senese Lorenzo Maitani divenuto – dopo anni di apprendistato – universalis caputmagister della Fabbrica del Duomo. Egli apportò modifiche al progetto originario, risolvendo alcuni problemi statici e aggiornandolo secondo i nuovi dettami stilistici. Dette, inoltre, un contributo decisivo al superamento di una fase di

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crisi quando la città – lacerata dagli scontri politici – iniziò a dubitare di riuscire a portare a termine un’impresa tanto ambiziosa. Alla sua morte, l’impostazione definitiva era stata data e il cantiere proseguí secondo le sue indicazioni progettuali: tra il 1350 e il 1356 venne costruita la Cappella del Corporale, affrescata poi da Ugolino di Prete

Ilario e altri nel 1357-1364, mentre, tra il 1408 e il 1444, fu eretta la Cappella Nova, in cui lavorarono il Beato Angelico e Benozzo Gozzoli (1447-1449) e poi Luca Signorelli (1499-1504). Nel 1532 venne terminato il frontespizio della facciata, mentre le ultime due guglie – quelle laterali, piú basse – vennero portate a termine rispettivamente nel 1590 aprile

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Sulle due pagine affreschi facenti parte della decorazione della Cappella del Corporale, realizzati da Ugolino di Prete Ilario e aiuti, che li ultimarono nel 1364: a sinistra, il Miracolo del bambino ebreo; in alto, il Miracolo di Bolsena.

(quella di destra) e nel 1605-1607. Il Duomo di Orvieto è legato a un miracolo avvenuto a Bolsena e alla base dell’istituzione della festa del Corpus Domini. Un prete «forestiero» – secondo la tradizione – dubitava che nell’ostia si trovasse il corpo di Cristo e, proprio per questo, si era messo in viaggio verso Roma. Sulla via del ritorno, accadde l’evento mi-

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racoloso: dall’ostia consacrata caddero alcune gocce di sangue mentre diceva messa nella chiesa di S. Cristina a Bolsena.

Un tema delicato

Il corporale macchiato con il sangue di Cristo venne portato al papa, Urbano IV, che in quei giorni si trovava a Orvieto. Il tema della tran-

sustanziazione, ovvero della trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo nel sacramento dell’Eucaristia, era molto dibattuto al tempo e costituiva uno dei punti di divisione con i catari. Urbano IV era molto sensibile all’argomento e già nel 1246 – in qualità di arciprete della Cattedrale di Liegi – aveva promosso, insieme al vescovo della città, l’inserimento della festa del Corpus Domini nel calendario liturgico. A Orvieto si trovò a gestire un miracolo che alla transustanziazione faceva riferimento e, con la bolla Transiturus de mundo, emanata nel 1264, estese la festività a tutta la cristianità. Al suo fianco nell’interpretazione e nella valorizzazione del miracolo ebbe il grande filosofo e teologo Tommaso d’Aquino, che aveva voluto presso di sé e che risiedeva nel convento di S. Domenico. Per quel che riguarda le vicende politiche del Comune di Orvieto che accompagnarono e condizio(segue a p. 100)

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Dossier visitiamo insieme

Una città da scoprire Oltre al Duomo, al Pozzo di San Patrizio e a vari musei, Orvieto possiede numerosi monumenti di pregio. Un itinerario ideale può partire dall’incontro con la fase piú antica della città che risale all’epoca etrusca. La necropoli di Crocifisso del Tufo è nota per l’impianto urbanistico regolare, segno di un potere centrale in grado di emanare norme e di farle rispettare, e per l’alto numero d’iscrizioni, indice del notevole interesse per la scrittura nella Velzna del VI e V secolo a.C. Le tombe contenevano ricchi corredi, che si possono ammirare nei due musei archeologici cittadini: il Museo Archeologico Nazionale e il Museo «Claudio Faina», entrambi in piazza del Duomo. Nel primo spiccano gli affreschi staccati delle tombe Golini I e Golini II e una serie di terrecotte provenienti da diversi edifici della città-stato etrusca. Vi sono inoltre esposti reperti rinvenuti negli scavi condotti negli ultimi anni in località Campo della Fiera, dove probabilmente era ubicato il Fanum Voltumnae, il santuario federale degli Etruschi. Nel Museo «Claudio Faina» si trovano invece le testimonianze del collezionismo illuminato dei conti Mauro ed Eugenio Faina, i quali, tra gli anni Sessanta e Ottanta dell’Ottocento, riunirono una collezione archeologica di prima grandezza, con reperti provenienti sia dalla città che da altri centri dell’Etruria. La raccolta fu donata alla città di Orvieto dal conte Claudio junior nel 1954. Tra i vasi attici, spiccano tre anfore attribuite a Exekias, il maggior ceramista ateniese nella tecnica a figure nere. Interessanti sono anche le ceramiche etrusche, nel cui ambito si possono segnalare i vasi del cosiddetto Gruppo di Vanth. Un’attenzione particolare merita il ricco monetiere, con pezzi romani di epoca repubblicana e imperiale. Palazzo Faina ospita anche il Museo Civico Archeologico, nel quale fanno bella mostra di sé alcuni autentici capolavori: un cippo a testa di guerriero dalla necropoli di Crocifisso del Tufo, la «Venere» di Cannicella e la testa di vecchio in terracotta dal tempio di Belvedere, i cui resti sono visibili in piazza Cahen, presso il Pozzo di San Patrizio, del quale non si deve mancare la visita. La struttura, realizzata tra il 1527 e il 1537, fu commissionata da papa Clemente VII ad Antonio da Sangallo il Giovane, al fine di garantire l’acqua agli abitanti in caso di assedio.

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Da piazza del Duomo, dopo averne ammirato la straordinaria facciata, si accede alla Cattedrale e, una volta entrati, si può raggiungere la Cappella Nova (o di S. Brizio), la cui decorazione ad affresco fu iniziata dal Beato Angelico, proseguita da Benozzo Gozzoli e ultimata da Luca Signorelli. Proprio all’intervento di quest’ultimo si deve la fama odierna del ciclo pittorico. Merita ugualmente una visita l’altra Cappella, detta del Corporale, con affreschi di Ugolino di Prete Ilario e di suoi aiuti, nella quale si conserva, all’interno di un tabernacolo in marmo, la testimonianza del miracolo di Bolsena a seguito del quale è stata istituita la festività del Corpus Domini. Uscendo, non si deve tralasciare il gruppo scultoreo della Pietà, scolpito da Ippolito Scalza e, lungo la navata, il magnifico affresco della Madonna col Bambino, opera di Gentile da Fabriano. Nel Museo dell’Opera del Duomo sono custodite altre opere di straordinaria rilevanza: una Madonna con Bambino in marmo e sei angeli reggicortina in bronzo posti originariamente sulla lunetta del portale centrale del Duomo; alcuni pannelli di due polittici di Simone Martini; i resti del coro ligneo trecentesco; il reliquario di Ugolino di Vieri, un capolavoro dell’oreficeria italiana; una tavola di Luca Signorelli e dei suoi allievi; alcune tele di Cesare Nebbia e Girolamo Muziano; e – nella sede distaccata della chiesa di S. Agostino, nel quartiere medievale – l’Annunciazione realizzata da Francesco Mochi. Dalla chiesa di S. Agostino si può raggiungere agevolmente la vicina chiesa di S. Giovenale, di fatto un museo della

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Nella pagina accanto San Michele Arcangelo, statua in bronzo realizzata dal maestro fonditore di campane Matteo di Ugolino da Bologna e in origine collocata nella facciata del Duomo (dove è stata sostituita da una replica). 1356. Orvieto, MODO. In basso il Pozzo di San Patrizio.

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pittura del Duecento e del Trecento. Altre tappe di sicuro interesse sono la chiesa di S. Domenico, con il monumento al cardinale de Braye realizzato da Arnolfo di Cambio; la chiesa di S. Andrea, di cui si possono visitare i sotterranei; la chiesa dei Servi di Maria; la Torre del Moro, da cui si può godere una vista di Orvieto dall’alto; il Teatro «Luigi Mancinelli»; il Pozzo della Cava; i cunicoli e le grotte della città sotterranea; la possibilità di una passeggiata ai piedi della rupe compresa all’interno del Parco Archeologico e Ambientale dell’Orvietano.

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Dossier A sinistra la Tribuna del Duomo di Orvieto, per la quale il pittore e mosaicista orvietano Ugolino di Prete Ilario realizzò, avvalendosi di aiuti, un grandioso ciclo pittorico con Storie della Vergine. 1370-1384. In uno degli spicchi della volta a crociera campeggia l’Incoronazione di Maria (vedi foto a destra).

narono le scelte e le trasformazioni urbane fin qui riassunte, il centro della scena risulta occupato da due famiglie: i Monaldeschi e i Filippeschi e poi dal confronto, altrettanto duro, tra rami diversi della famiglia risultata vincitrice. Visioni ideologiche diverse e interessi divergenti opponevano i Monaldeschi e i Filippeschi: i primi, provenienti dal mondo dei mercanti, erano schierati a favore delle posizioni guelfe, mentre i secondi, di origine nobiliare (anche se studi recenti sembrano suggerirne la provenienza dal mondo della mercatura), sostenevano le tesi ghibelline. Inoltre, le proprietà terriere dei Monaldeschi si estendevano verso sud-est nella Val di Lago, mentre quelle dei Filippeschi in direzione nord, verso l’area d’interesse di Siena. Lo scontro fu vinto dai Monaldeschi, che seppero comprendere meglio gli assetti politici e istituzionali comunali. Essi, inoltre, riuscirono a sfruttare a proprio vantag-

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gio la forte influenza che la Chiesa esercitava in città per la prossimità geografica con Roma e per i frequenti soggiorni del papa e della curia pontificia. È stato calcolato che, dal 1157 alla fine del Duecento, Orvieto dette ospitalità a una decina di papi e che, nell’ultimo quarantennio del Duecento, ospitò la curia pontificia per circa dieci anni. La vicinanza poi, in talune fasi, dei Filippeschi alle istanze dei catari, considerati potenziali alleati, complicò ulteriormente il quadro.

Famiglie in guerra

I contrasti tra le due famiglie ebbero inizio nel 1241, ma la situazione precipitò nel 1272, quando il sentimento antiguelfo portò all’uccisione di quattro personaggi legati ai Monaldeschi. La vendetta fu immediata e un Filippeschi venne ucciso dal figlio di uno degli assassinati. La sua morte portò a una battaglia vera e propria tra le due famiglie e i loro alleati, che si concluse con l’allontanamento dei

Filippeschi piú coinvolti dalla città. Un equilibrio tra le parti venne ritrovato nel 1280, con l’elezione di Ranieri Della Greca a Capitano del Popolo: Ranieri era un esponente del partito ghibellino, ma venne sostenuto anche da quello guelfo su un programma di rinnovamento e autonomia della città. Una nuova fortissima crisi si ebbe nel 1313: il partito ghibellino, rafforzato dal peso crescente del ghibellinismo in Umbria e dalla viaprile

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cinanza dell’imperatore Enrico VII – che nel 1310 era disceso in Italia –, provò a prendere il potere. Dal 16 al 20 agosto, per cinque giorni, guelfi e ghibellini si scontrarono per le strade con estrema violenza e le sorti della battaglia furono incerte sino al termine. Alla fine, i guelfi ebbero la meglio e i Filippeschi e i loro alleati dovettero lasciare la città. Ermanno Monaldeschi, l’uomo forte del momento, chiese e ottenne che i Filippeschi fossero dichiarati ribelli e

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fuorilegge, che le loro case venissero abbattute e le altre proprietà confiscate. Solo nel 1315 i provvedimenti furono attenuati e alcuni ghibellini poterono fare ritorno in città.

L’impotenza del governo

Da lí a poco, le divisioni penetrarono tra gli stessi Monaldeschi, poiché non tutti i componenti della famiglia erano disposti a riconoscere la supremazia di Ermanno e questo provocò tensioni e scontri che il go-

verno cittadino, indebolito dalle rivolte accese nel contado, non riuscí a frenare. Napoleone Monaldeschi si oppose apertamente a Ermanno: nel 1333, Ugolino Della Greca, un sostenitore di Ermanno, venne ucciso da un uomo vicino a Napoleone. Nel gennaio dell’anno successivo, Napoleone Monaldeschi venne assassinato da Corrado Monaldeschi, figlio di Ermanno. La drammatica situazione venutasi a creare fu gestita politicamen-

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Dossier A sinistra Madonna in trono con il Bambino e due angeli, tempera su tavola con ridipinture a olio tradizionalmente attribuita a Coppo di Marcovaldo, da S. Maria dei Servi. 1265-1270. Orvieto, MODO. Qui accanto particolare del gruppo scultoreo raffigurante la Madonna con il Bambino e due angeli, opera di Andrea e Nino Pisano, dal Duomo. 1346-1347. Orvieto, MODO.

te da Ermanno, che, nel maggio del 1334, si fece nominare Gonfaloniere del Popolo e della Giustizia a vita: lo storico Claudio Regni ha osservato che, con quell’atto, «il libero Comune di Orvieto aveva cessato di esistere e la città conosceva il suo primo Signore». Lo conobbe per poco, poiché Ermanno morí nel 1337. La sua morte venne seguita da un nuovo periodo di lotte che vide contrapposti i quattro rami in cui la famiglia Monaldeschi si era divisa: Cervo, Vipera, Cane e Aquila. Il risultato finale, anche in conseguenza della peste del 1348, fu che Orvieto, come ha scritto ancora Regni, divenne «facile preda nel 1352 prima dell’arcivescovo Visconti poi, nello stesso anno, del signore di Viterbo, il prefetto Giovanni di Vico. Da questo momento la città conoscerà solamente signorie esterne e non avrà piú alcun rilievo politico». E la grande stagione dell’Orvieto medievale poté dirsi conclusa. V

Da leggere Daniel Waley, Orvieto medievale, Multigrafica Editrice, Roma 1985 Renato Bonelli, Il Duomo di Orvieto e l’architettura italiana del Duecento e Trecento, Quattroemme, Perugia 2003 Donatella Scortecci, Corpus della scultura altomedievale. La Diocesi di Orvieto, Fondazione CISAM, Spoleto 2003 Alessandra Cannistrà (a cura di), Le stanze delle meraviglie, catalogo della mostra (Orvieto, aprile 2006-gennaio 2007), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2006 Giuseppe M. Della Fina, Corrado Fratini (a cura di), Storia di Orvieto. Medioevo, Orvieto Arte Cultura Sviluppo srl, Orvieto 2007 Lucio Riccetti, Opera Piazza Cantiere. Quattro saggi sul Duomo di Orvieto, Edicit, Foligno 2007 Giuseppe Mearilli, Duomo. Cattedrale dell’Assunta, Quattroemme, Perugia 2010

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Alberto Satolli, Il Duomo mascherato ovvero l’antica Cattedrale di Orvieto, Provincia di Terni, Terni 2010 Giuseppe M. Della Fina, Guido Barlozzetti, Orvieto, Adda Editore, Bari 2011 Vittorio Franchetti Pardo, La cattedrale di Orvieto: origine e divenire. Scritti editi e inediti, Deputazione di Storia Patria per l’Umbria-Opera del Duomo di Orvieto, Orvieto-Perugia 2014 Ferruccio Della Fina (a cura di), La chiesa di San Giovenale in Orvieto, Itaca, Castel Bolognese 2014 Lucio Riccetti, «Un viluppetto di taffettà crimisino». Storia di una festa dal Corporale al Corpus Domini, Intermedia Edizioni, Orvieto 2014 Laura Andreani e Agostino Paravicini Bagliani (a cura di), Il «Corpus Domini». Teologia, antropologia e politica, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, Firenze 2015 aprile

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CALEIDO SCOPIO

Storie, uomini e sapori

In (modesta) difesa del garum I

l garum e i suoi derivati (liquamen, allec e muria) hanno goduto per secoli di una pessima fama. Il solo nome di queste salse di pesce, prodotte artigianalmente o addirittura su scala industriale, richiama alla mente un costoso condimento ottenuto dalla fermentazione di pesci o di loro interiora in presenza di abbondante sale. Il nome potrebbe derivare da quello del garòn, un pesce da alcuni studiosi identificato nello sgombro. A trattare con disdegno il garum furono per primi alcuni importanti scrittori classici, come, per esempio, Plinio il Vecchio, il quale lo descrive come una «secrezione di materia putrefatta», salvo poi definirlo «liquoris exquisiti genus» e indicarlo «costoso come i profumi piú ricercati». Lo stesso Plinio segnala che Clazomene, Leptis Magna, Antipoli e Turi erano rinomati centri di produzione di garum, assieme a Pompei. Qui, a ovest dell’anfiteatro, è venuta alla luce l’«officina del garum» appartenuta ad Aulus Umbricius Scaurus. In un ambiente aperto del laboratorio, ventilato ed esposto al sole, questo ricco commerciante in precipitosa fuga dall’eruzione vesuviana del 79 d.C. lasciò ai posteri sette anfore contenenti residui di garum. L’esame dei resti ha permesso di risalire alla tipologia dei pesci usati da Aulus: le boghe (o vope), di cui il golfo di Napoli è particolarmente ricco in estate. Un’altra notevole testimonianza

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è emersa dagli scavi di Baelo Claudia, poco a ovest di Gibilterra. Si tratta di uno stabilimento «industriale», piú o meno coevo di quello pompeiano. Nelle fosse di salagione e fermentazione finivano triglie, orate, alici, cascami di tonno, ma soprattutto sgombri. Il piú pregiato era proprio quest’ultimo, il garum sociorum («degli alleati», cioè i Cartaginesi, perché questi impianti in Spagna erano gestiti da una società di origine fenicia) richiestissimo a Roma in epoca augustea e venduto a peso d’oro in preziosi vasetti di alabastro.

Piú abbordabile, ma scadente Nel tardo impero non tanto il garum, quanto il liquamen (la parte liquida della salsa, quella piú usata dal popolo), il gallec (o allec, la parte semisolida, piú greve) e la muria (probabilmente una diluizione di allec in acqua usata come salamoia) divennero accessibili sul mercato anche ai meno abbienti, seppure con un rilevante decadimento della qualità. Il gusto del garum affascinò anche i Bizantini, che gli restituirono l’antico nome greco garòn e lo diffusero in tutto il loro impero, «contagiando» anche parte dell’Oriente islamico. Liutprando da Cremona, ambasciatore del re d’Italia Berengario II a Costantinopoli, descrisse nella sua Antapodosis la magnificenza dei costumi bizantini e la calorosa accoglienza riservatagli dal basileus

nel 949. Di famiglia ed educazione longobarda, Liutprando sapeva poco dei fasti di Roma antica e non aveva familiarità con lo sfarzo bizantino, né con i profumi d’Oriente. Fu colpito dalla bontà dei vini resinati, dalle verdure e dai pesci cotti nell’olio d’oliva e rimase senza parole di fronte a un agnello arrosto ripieno di aglio, porri e cipolle e ricoperto di un denso e dorato garòn. La repulsione ispirata dal solo nome di questa salsa suppostamente «marcia» è stata in qualche modo attenuata solo negli ultimi decenni, cioè da quando qualche autore ha fatto notare che parlare di garum non significa far rivivere un condimento scomparso, nauseabondo e misterioso, poiché altri intingoli a base di pesce salato e fermentato sono di uso comune un po’ in tutto il Sud-Est Asiatico; su tutti, il nuocmam vietnamita e le sue varianti indocinesi e tailandesi nam pla, ngan byar yay, teuk trei, aek jeot, padaek, budu o patis. Anche la cucina araba fa largo uso di una salsa di origine aprile

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A sinistra Baelo Claudia (Spagna). L’impianto per la produzione del garum. I sec. d.C. In basso mosaico pompeiano che raffigura un vasetto per il garum, dalla casa di Umbricius Scaurus, imprenditore arricchitosi grazie alla produzione della salsa. I sec. d.C.

bizantina ottenuta con pesce salato e fermentato: si chiama al-muri e la sua etimologia rimanda al greco halmuris, da cui deriva a sua volta il latino salmuria, ovvero salamoia. In Italia, a Cetara e a Pisciotta, due piccoli centri rivieraschi tra il Cilento e la Costiera Amalfitana, si producono e consumano da tempo immemorabile le «colature» rilasciate spontaneamente delle alici fermentate in barile sotto sale.

Un equivoco culturale L’aura di ripugnanza suscitata in Occidente dal presunto odore del garum è dunque frutto di un equivoco di tipo culturale che porta a confondere il fermentato dal putrefatto. La fermentazione è il risultato dell’azione di microorganismi – batteri, lieviti, enzimi o muffe – che scindono le sostanze proteiche e i composti chimici dei tessuti in assenza di ossigeno; il controllo di questo processo (detto autolisi) permette di ottenere prodotti preziosi e grati

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al naso e al palato: lo yogurt, il formaggio, i salumi, il vino, la birra, la vaniglia, il caffè e il cioccolato. Un eccessivo prolungamento dell’autolisi, l’intervento di batteri indesiderati o l’assenza di coadiuvanti tecnologici che limitano la proliferazione batterica (nel caso delle conserve di pesce, il sale) porta alla putrefazione, cioè al disfacimento dei tessuti con la produzione di sostanze tossiche e di parassiti oltre a provocare l’emanazione di gas solforati dall’odore sgradevole, come la putrescina e la cadaverina. Non esiste una ricetta univoca di garum, ma molte enunciazioni, spesso difformi, talvolta parziali e frammentarie i cui denominatori comuni sono sempre il sale e il pesce (sgombri, alici, latterini, triglie, menule, alici) ed eventualmente le interiora degli stessi. Le variabili caratterizzanti consistevano soprattutto in erbe: origano, aneto, coriandolo, finocchio, sedano, menta, pepe, zafferano;

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CALEIDO SCOPIO Miniatura raffigurante la marinatura del pesce, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

qualche autore riporta anche l’uso del vino o addirittura dell’aceto. La combinazione aromatica risultante era qualcosa di simile a ciò che oggi possiamo ottenere mescolando poche gocce di salsa Worchester a un cucchiaio di pasta d’acciughe. Quanto di questo condimento usare è solo questione di equilibrio e ragionevolezza. Ciò che i Romani non potevano sapere è che le proteine animali o vegetali sono composte da 23 amminoacidi naturali. Uno di questi è l’acido glutammico, di cui sono ricchi, per esempio, il latte, i funghi, molte alghe e i pesci che di queste si nutrono. L’acido glutammico si combina col sale e dà origine al glutammato monosodico, che altri non è che il principale costituente del dado da brodo, ma anche il responsabile del particolare gusto/aroma del Parmigiano Reggiano e di altri formaggi stagionati. I Giapponesi lo hanno scoperto nel 1908 e lo hanno chiamato «umami» (saporito),

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facendo entrare il termine in tutti i dizionari come nome del «quinto gusto», che cosí si è aggiunto agli altri quattro: al dolce, amaro, salato e acido. Una piccola aggiunta di umami nel cibo – come il cacio sui maccheroni – ha il potere di esaltare la sapidità, di aumentare la salivazione e di «tirar fuori» il gusto delle pietanze. Sotto questo punto di vista il garum è decisamente umami.

Il primo ricettario della storia In merito all’origine, gli storici ravvisano nel garum di Greci e Romani una radice orientale molto antica. Sono confortati in questo dagli studi del grande assiriologo francese Jean Bottéro (1914-2007) su alcune tavolette cuneiformi provenienti dalla Mesopotamia meridionale. Scritte nel 1600 a.C. in lingua accadica, sono note come le «Yale culinary tablets» e rappresentano il piú antico ricettario giunto «in originale» fino a noi. Da queste apprendiamo che gli Assiri insaporivano i loro piatti con

un intingolo molto sapido a base di pesce fermentato (anche con l’aggiunta di molluschi e cavallette), che era chiamato «siqqu». Aveva la funzione di sostituto del sale e tale fu anche quella del garum in Grecia, a Roma e perfino a Bisanzio. Il sale condizionò profondamente lo sviluppo delle società antiche. Onnipresente in natura, di vitale importanza per l’organismo e soprattutto indispensabile per la conservazione dei cibi, fu uno dei primi prodotti a essere sottoposti a monopolio statale, acquisendo cosí un importante ruolo strategico e politico. In Italia, il monopolio del sale – gravato di un’imposta pari al 70% del prezzo di vendita –, cessò solo nel 1975 e questo spiega perché, per millenni, le salamoie usate per conservare i cibi, fossero considerate un bene da tesaurizzare, un vero e proprio sale-liquido, con il quale condire le pietanze. Il siqqu, il garum e i suoi derivati nacquero dunque all’interno di una logica di parsimonia e buonsenso, a cui si aggiungeva l’ulteriore possibilità di riutilizzo degli scarti del pesce. E non è da credere, come verrebbe spontaneo leggendo Apicio, che fosse usato in quantitativo spropositato sulle vivande. Se ne mettevano poche gocce, confidando nell’azione combinata dell’acido glutammico e del sale per esaltare il gusto di piatti scipiti o sconditi. Oggi ricerchiamo l’umami in dadi da brodo di dubbia fattura, nella pasta d’acciughe di cui ignoriamo gli ingredienti, in formaggi grattugiati di prezzo sospettosamente basso ma anche nella salsa di soia o nelle alghe orientali che appartengono ad altre culture e di cui avevamo fino a ora fatto a meno. E se invece tornassimo al garum? Sergio G. Grasso aprile

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UN ANTROPOLOGO NEL

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n questi giorni, a Bonito, paese dell’Irpinia in provincia di Avellino, rivive la cerimonia delle «Tre ore di agonia», che rientra nelle celebrazioni cattoliche del Triduo pasquale e in occasione della quale gli strumenti musicali tacciono, come nel resto della cristianità. Ancora oggi alle tre del mattino del Venerdí, una cinquantina di fedeli vanno in processione per le vie del borgo, cantando le lamentazioni quaresimali. In origine, doveva trattarsi di una vera rappresentazione drammatica: gli uomini, secondo le informazioni locali, rappresentavano i soldati del sinedrio che cercavano Gesú, mentre le donne lo cercavano perché già agli arresti. «Un tempo», dicono i Bonitesi, si andava in giro e si bussava alle porte con mazze di legno. Oggi assente, questo battere veniva percepito come qualcosa di realmente spaventoso: qui si dice che «s’aggrissavano le carni», cioè veniva la pelle d’oca.

Tre ore che sconvolsero il mondo Tutto in questo giorno rimanda alla mestizia e al dolore, tutto conserva un che di spaventoso e tetro, che fa rivivere anche con i sensi e i corpi quegli eventi fondanti legati alla morte di Cristo. La cerimonia delle «Tre ore d’agonia» si svolge nella chiesa di S. Domenico, dove, al pomeriggio, i fedeli si raccolgono per il rito, in memoria della crocifissione e morte di Cristo sul Calvario, che la tradizione vuole sia durata appunto tre ore. Tutto è in penombra e sull’altare sono poste sette candele, che vengono spente, una alla volta, dopo ognuna delle «Sette Parole» che Gesú, secondo la tradizione, pronunciò sulla Croce. A ogni spegnimento corrisponde un tocco argentino di campanella, seguito dal canto dei fedeli. Pendenti dal soffitto, in un binario sono inserite due carrucole, sulle quali scorrono altrettanti dischi di legno raffiguranti il sole e la luna: dopo la sesta candela, la

dida da scrivere miniatura raffigurante il gioco dei dadi, da un’edizione manoscritta delle opere sull’etica di Aristotele tradotte da Nicola d’Oresme. 1455. Digione, Bibliothèque municipale. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un banchetto, scena associata al mese di gennaio ne Les Très riches Heures du Duc de Berry, Libro d’ore illustrato dai celebri fratelli Limbourg. 1413 circa. Chantilly, Musée Condé.

L’innalzamento della Croce, olio su tavola di Peter Paul Rubens. 1620 circa. Parigi, Museo del Louvre.

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Ondas. MartĂ­n Codax, Cantigas de Amigo Vivabiancaluna Biffi, Pierre Hamon Arcana (A390), 1 CD www.outhere-music.com

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CALEIDO SCOPIO sesta «Parola», un fedele fa scontrare le effigi del sole e della luna, simulando l’eclissi che seguí la morte di Cristo: «Dall’ora sesta si fece buio per tutta la terra fino all’ora nona» (Mt 27, 45). Spenta l’ultima candela, un rumore di tamburo (una grancassa), basso e profondo, inquietante e penetrante, risuona per tutta la chiesa, mentre in vari punti si vede la luce accecante di un flash, che simula il temporale che sarebbe scoppiato alla morte di Cristo. Quella di fare rumori percussivi, in genere con oggetti e strumenti di legno, è un’usanza della Chiesa molto antica. Al posto di campane e campanelli si utilizzano strumenti lignei come il crepitaculum, la tabula o il crotalum: gli «strumenti delle tenebre» descritti dal grande antropologo Claude Lévi-Strauss (1908-2009). Tale tradizione risale almeno alle Istituzioni cenobitiche di Cassiano (IV-V secolo) e alla congregazione cluniacense. Di fatto, in tutta l’Europa premoderna e moderna, in chiesa, al termine del Triduo o dei Mattutini delle Tenebre (svolti di sera e al lume di candela), si assisteva a qualcosa di analogo a quanto ora avviene a Bonito: si batteva con bastoni sui banchi della chiesa, sui muri, persino sull’altare, ma anche nelle case e per le strade. Questa pratica era variamente definita: in Romagna, batar i pché (battere i peccati), sparare la divozzione a Roma, mazàr baraba o bat barabàn (ammazzare o battere Barabba) a Pavia, mentre a Zara, in Croazia, barabàn indicava il rumore che i ragazzini facevano con le verghe di legno.

E la Quaresima divenne un secondo Capodanno Ad accomunare tutti i rumori rituali era proprio il fatto che fossero prodotti con strumenti di legno. In Sicilia i ragazzini andavano in giro con una verga di vite a sette nodi, battendo porte e finestre e gridando «Sciú, sciú, porco diavolu». Esistono inoltre molti antichi documenti sinodali che lamentano degli eccessi commessi durante i Mattutini, diventati spesso sarabande di Capodanno in cui si distruggevano oggetti, porte e persino arredi sacri. Al di là degli eccessi e delle diverse interpretazioni antropologiche di questi strepiti – dall’allontanamento dei mali all’accompagnamento sonoro del «periodo di margine» che segue la morte di Cristo –, nei secoli vediamo opporsi un rumore ligneo a uno ferreo. Ma perché nella liturgia viene permesso e prescritto proprio il legno? Forse perché per la cultura antica e

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Aquisgrana, Cattedrale, Cappella Palatina. Scultura lignea raffigurante un angelo che suona i tamburi. medievale il legno fu un materiale di enorme pregnanza simbolica e di primaria importanza: la stessa parola materia indicava il legno da costruzione, in opposizione a lignum, la legna per il fuoco. Inoltre questo è un materiale «vivente», che si oppone agli altri due principali, entrambi «morti», il metallo e la pietra e, pur meno resistente, è puro, nobile e vicinissimo all’uomo.

Anche gli alberi soffrono nella «carne» Alberto Magno, nel suo duecentesco De animalibus, nota che il legno ha difetti, anomalie della crescita e, come l’uomo, può soffrire, essere ferito e deteriorarsi. La carne dell’uomo è spesso paragonata a quella dell’albero, che possiede humores, si anima per lo scorrere della linfa, incorpora una grande quantità d’acqua e segue il ritmo delle stagioni. Per questo, forse, il lignorum sonus, scrive il vescovo francese Amalarius (IX secolo), è il piú adatto alla Chiesa nel periodo pasquale. Piú tardi un altro maestro di liturgia, Onorio d’Autun (1080-1154), scrisse che il silenzio delle campane procede dalla loro identificazione con i predicatori, che non solo tacquero nei tre giorni della Passione, ma negarono la verità. I legni, invece, risuonarono in memoria del terrore che i Giudei impressero sui discepoli. Il legno (materiale) e i legni (strumenti) compongono dunque una complessa geografia simbolica in cui l’ago della bussola è Cristo. I termini possono essere intercambiabili, ma Ruperto di Liegi (1075-1129) utilizza un verbo straordinariamente interessante, tympanizare, che significa «suonare il tamburo» nel latino classico, ma che, nel Medioevo, si arricchisce di un senso passivo: «essere teso come la pelle di un tamburo». Certamente Ruperto ha presente anche sant’Agostino, il quale, nel Commento al Salmo 33, fonda l’analogia tra Cristo in croce e la pelle distesa su di un tamburo. Se per Johan Beleth (1135 circa-1182) «Tabula lignea Christum significat» («la tavola lignea rappresenta Cristo»), inchiodato a un legno dal quale gridò e pregò a beneficio degli uomini, lo stesso Cristo può allora diventare uno Strumento per vincere le tenebre. Claudio Corvino aprile

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Lo scaffale celebrativa. Ne risulta una vasta panoramica sull’epoca e su alcuni temi di lunga durata, che affondano il Mulino, Bologna, le loro premesse 728 pp. proprio nell’humus 55,00 euro del secondo e terzo ISBN 978-88-15-25463-4 decennio del IV www.mulino.it secolo: la regalità Roma, Gerusalemme sacralizzata e le idee e Costantinopoli sono di impero cristiano, la città emblematiche definizione delle mete del ruolo assunto di pellegrinaggio, la dagli spazi sacri nei codificazione delle mutamenti che hanno liturgie memoriali, segnato il mondo la diffusione delle tardo-antico e che devozioni per Elena si sono catalizzati e per la reliquia intorno alla figura della Croce. Nella dell’imperatore storiografia recente, Costantino, ponendo le perlopiú legata premesse per alcune all’ultima celebrazione idee portanti del centenaria, l’opera Medioevo cristiano. dà un contributo A partire dalla fisicità specifico. La categoria di santuari, martyria, dello spazio/luogo sepolture e contesti sacro emerge come urbani, il tema viene efficace strumento affrontato in questa epistemologico, aperto raccolta curata da a una pluralità di Tessa Canella e definizioni, a seconda divisa in sei sezioni delle diverse comunità: tematiche. La prima è templi, luoghi pubblici, dedicata alle premesse ambienti privati, in età antica. Seguono chiese, santuari, le trattazioni dedicate sinagoghe, spazi di a Roma e all’Occidente cripto-paganesimo, latino, all’Oriente, agli grotte, boschi sacri. sviluppi dell’agiografia La società imperiale fra culti e leggende, tardo-antica si al mito costantiniano profila cosí nella e alla sua «fortuna», sua dimensione Ondas. Martín Codax, pluralistica. In tale fino al centenario deleAmigo delCantigas 1913 con sue prospettiva gli stessi Vivabiancaluna Hamoncostantiniani ripercussioni sulle Biffi, Pierre interventi Arcana (A390), rivendicazioni di 1 CD a favore dei cristiani www.outhere-music.com spazi memoriali in vengono riletti in Terra Santa e sulla relazione ad altri rivolti committenza artistico ai pagani e ai giudei, Tessa Canella (a cura di) L’Impero costantiniano e i luoghi sacri

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proprio a partire dagli edifici, dalle committenze e dalla rifunzionalizzazione degli spazi. Lo studio dei luoghi sacri si fa anche cartina di tornasole per il tema della tolleranza/intolleranza: la definizione di una pluralità di gruppi di fedeli presenti nelle città e ben attivi nella cultura dell’impero ridimensiona il sostegno del sovrano ai cristiani, rilevandone, piuttosto, le implicazioni politiche e l’importanza per il raggiungimento di difficili equilibri locali e generali. Nella nuova mappa mentale tardoantica l’imperatore intervenne sia con edificazioni imponenti e monumentali, sia incoraggiando viaggi e pellegrinaggi (anche sull’esempio di quello di Elena), creando una nuova mobilità all’interno dell’impero, incrementata dalla traslazione delle reliquie. Questo processo si è inserito nella mentalità e nell’immaginario dell’epoca, strutturato intorno a elementi tradizionali, pagani e giudaici che fanno perno proprio sui luoghi del sacro. Ecco, quindi, che altri aspetti della società tardo-antica vengono

illuminati a partire dall’approccio spaziale. Luigi Canetti riconduce lo stesso sogno di Costantino prima della vittoria di Ponte Milvio a un humus comune fra i diversi gruppi religiosi, nel quale è possibile assistere a una vera e propria guerra di sogni e oracoli fra paganesimo e cristianesimo: la conquista dell’immaginario onirico diventa vettore per la conquista dello spazio fisico, urbano e cultuale. La svolta iconica vissuta dal cristianesimo si è alimentata di questi elementi e la stessa auctoritas del visionario ha «certificato» l’identità del nuovo Dio, in forme che resteranno fisse nei secoli successivi ed entreranno a far parte del patrimonio simbolico cristiano medievale. Allo stesso modo, quella che le narrazioni cristiane riportano come» ri-fondazione» di Drepanum, ribattezzata Elenopoli, viene ascritta a un piú generale fenomeno di riconoscimento imperiale dello status di città chiesto da centri già esistenti. Il contributo di Mar Marcos ipotizza che, come spesso avveniva, le autorità locali

presentarono alla corte una richiesta, corredata da alcune motivazioni. In questo caso, dovettero evidenziare che gli abitanti erano in gran parte cristiani e questo aspetto forse attirò il favore dell’imperatore. Solo in seguito Costantino ed Elena ordinarono di costruire (o adornare) il martyrium di Luciano, al quale già prima era dedicato un oratorio, nel quale si conservavano reliquie.

Il cambiamento del nome si spiega non con il fatto che vi fosse nata la madre del sovrano, ma è semplicemente come un onore a lei tributato (come in diversi altri casi). Solo successivamente, in ambienti ariani, questi passaggi saranno raccordati in una sequenza retorica destinata a perdurare a lungo in epoca medievale e oltre. Renata Salvarani

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CALEIDO SCOPIO Il CuNeo gotico Temi e itinerari nella provincia di Cuneo

Testi di Lorenzo Mamino e Daniele Regis, Atlante negotico di Daniele Regis, Sagep Editori, Genova, 272 pp., ill. col. e b/n

18,00 euro ISBN 978-88-6373-453-9 www.ilcuneogotico. fondazionecrc.it

Il volume esce a coronamento dell’omonimo progetto triennale, nato

con l’intento di far conoscere e valorizzare un patrimonio straordinario e ancora poco noto. Nel territorio di Cuneo si concentra, infatti, un numero eccezionalmente elevato di edifici pensati come imitazione e rivisitazione dell’architettura gotica. Il fenomeno

viene inizialmente inquadrato nel suo divenire, illustrandone i presupposti e l’humus nel quale maturò, e vengono altresí tratteggiati i profili dei personaggi che ne furono gli artefici principali. Seguono gli approfondimenti sulle espressioni piú significative del Neogotico cuneese, non a caso indicate

come «Beni faro» (Parco e Castello del Roccolo di Busca, architetture neogotiche

di Dogliani, tenuta reale di Pollenzo e Parco di Racconigi), alle quali fanno da naturale complemento le proposte degli itinerari alla scoperta delle realizzazioni che contornano quelle «magnifiche quattro». Di prim’ordine (e notevole suggestione) il ricco corredo iconografico dell’opera. Stefano Mammini

I magnifici otto LIBRI • Allo straordinario patrimonio architettonico di

Ravenna è dedicato un nuovo e brillante studio che, forte di un ricco corredo iconografico, fa luce anche su monumenti insigni eppure relegati spesso in secondo piano dalle grandi basiliche della città

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apitale dell’impero romano d’Occidente (402-476), del regno ostrogoto (493-553) e dell’esarcato bizantino (568-751), Ravenna, con il suo patrimonio architettonico, rappresenta quanto di meglio si sia prodotto sul territorio italico durante le fasi tardo-antica e altomedievale. Un dato di fatto che, solo per citare qualche esempio, trova riscontro nelle straordinarie basiliche di S. Vitale o S. Apollinare in Classe. Tuttavia, proprio l’esuberanza

A destra, al centro della pagina Ravenna in un’incisione realizzata per il Liber chronicorum di Hartmann Schedel, pubblicato nel 1493. Qui accanto il cosiddetto Palazzo di Teodorico, struttura che andrebbe invece identificata con l’atrio-porticato antistante la chiesa di S. Salvatore ad Calchi.

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In basso Ravenna, basilica di S. Apollinare in Classe. Il ciborio marmoreo eretto all’inizio del IX sec. in onore del terzo vescovo della città, sant’Eleucadio.

Paola Novara Ravenna medievale. Chiese e altri edifici di culto. Note di storia e archeologia Supernova, Venezia, 168 pp., 149 ill. b/n. 15,00 euro ISBN 978-88-6869-094-6 www.supernovaedizioni.it di queste presenze eccellenti ha in qualche modo precluso, in passato, l’interesse da parte degli storici dell’arte nei confronti delle testimonianze tardo-medievali, che, seppure meno eclatanti rispetto alla grandezza dei monumenti tardo-antichi, sono parte integrante della storia medievale della città.

L’evoluzione urbanistica Con questo volume, Paola Novara intende sopperire a questa lacuna, facendo il punto della situazione su quanto è stato fatto, studiato e pubblicato sul Medioevo ravennate. Partendo dalla ricognizione dei principali studi effettuati in passato, la ricerca si sofferma inizialmente sulla tipologia delle fonti storiche – archivistiche, cartografiche, archeologiche – che hanno dato e continuano a offrire spunti importanti, fornendo nuove prospettive e permettendo, tra l’altro, di correggere e perfezionare alla luce dei nuovi dati l’evoluzione urbanistica medievale di Ravenna. Ai capitoli introduttivi fanno seguito tre ampie sezioni che

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approfondiscono il XII, il XIII e il XIV secolo, periodi che l’autrice esamina con dovizia di particolari, ribadendo, o in taluni casi smentendo, le ipotesi fin qui formulate, grazie all’esame di nuove testimonianze. Completano il volume i capitoli dedicati alla storia di otto monumenti ecclesiastici che rappresentano altrettanti casi emblematici nel contesto ravennate. Nel lungo excursus è interessante constatare come alcuni fenomeni, tra cui la diffusione dei complessi monastici, degli Ordini Mendicanti, dell’attività «ospitaliera» e

assistenziale, abbiano lasciato tracce significative del proprio passaggio. Grazie al ricco apparato iconografico e alle puntuali osservazioni dell’autrice, il panorama storicoarchitettonico medievale ravennate viene svelato e analizzato in maniera esemplare, facendo altresí ricorso a uno stile narrativo che rende questo studio apprezzabile anche ai non addetti ai lavori. A corollario del volume sono l’ampia bibliografia, nonché l’indice dei nomi, dei luoghi e degli edifici esaminati. Franco Bruni

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