Medioevo n. 240, Gennaio 2017

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MEDIOEVO n. 240 GENNAIO 2017

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SOMMARIO

Gennaio 2017 ANTEPRIMA ANIMALI MEDIEVALI Nelle fauci del drago

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RECUPERI Un’ottima intesa

8

MUSEI Capolavori in corsia

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ACQUISIZIONI Quel magnifico banco...

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ITINERARI Tesori del tornio

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APPUNTAMENTI Una visione provvidenziale Il vino di san Vincenzo Festa sul fiume L’Agenda del Mese

20 20 21 22

COSTUME E SOCIETÀ GENTE DI BOTTEGA/10 Il corazzaio

L’uomo d’acciaio

STORIE

di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci

PROTAGONISTI

52

IMMAGINARIO

San Pietro Martire

Il cinghiale

Un inquisitore in Lombardia di Roberto Roveda e Francesca Saporiti

44

Fortuna e declino di un guerriero 32

di Domenico Sebastiani

64

UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO Un mondo di filatrici

109

LIBRI Lo scaffale

112

MUSICA Quando il profano si trasforma in sacro

112

32 LUOGHI

MEDIOEVO NASCOSTO Valle d’Aosta

Tesori e misteri

di Elena Percivaldi

94

CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Agrodolce, che passione! 106

Dossier

I «SEGUGI» DEL SIGNORE STORIE Malta Il secolo normanno

di Andreas M. Steiner

La nascita dell’Ordine domenicano 44

di Roberto Roveda e Michele Pellegrini

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20/12/16 14:50

MEDIOEVO Anno XXI, n. 240 - gennaio 2017 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma

Illustrazioni e immagini: Foto Scala, Firenze: su concessione MiBACT: copertina (e p. 55) – Shutterstock: pp. 5, 89, 90/91, 98 (basso), 104/105, 106 (basso) – U.S. Immigration and Customs Enforcement (ICE): Josh Denmark: pp. 8-9 – Cortesia Istituto degli Innocenti, Firenze: p. 10 (alto); Nicolò Orsi Battaglini: p. 10 (basso); Claudio Giusti: p. 11 (alto); Paolo De Rocco, per Centrica: p. 11 (basso), 12 (alto), 13; George Tatge: p. 12 (basso) – Cortesia Ufficio Stampa: p. 14 – Cortesia degli autori: p. 16-21 – Mondadori Portfolio: pp. 34-35, 39, 56 (sinistra), 91; su concessione MiBACT: pp. 32/33, 84/85; Archivio Magliani/Mauro Magliani & Barbara Piovan: p. 37; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 40; Electa/Sergio Anelli: pp. 42, 102/103; Electa/Bruno Balestrini: p. 56 (destra); Electa/Antonio Quattrone: p. 57; AKG Images: pp. 64/65, 68/69; Leemage: pp. 66-67, 68, 75, 86/87 (alto e basso), 106 (alto), 108; Album: pp. 70, 107; Archivio Claudia Beretta/Claudia Beretta: p. 96; AGE: p. 98 (alto) – DeA Picture Library: p. 62; Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 36; A. Dagli Orti: pp. 58 (alto), 59 (destra); G. Dagli Orti: p. 79; G. Nimatallah: pp. 80/81, 109 (alto); A. Villani: p. 85; C. Sappa: pp. 99 (alto), 102; Bardazzi: pp. 110/111 – Bridgeman Images: pp. 36/37, 58 (basso), 88/89 – Doc. red.: pp. 38, 42/43, 52/53, 54, 59 (sinistra), 61, 71, 73, 82, 92, 99 (basso), 101 (alto), 109 (basso) – Daniel Cilia: pp. 44/45, 46-53 – Archivi Alinari, Firenze: Raffaello Bencini: pp. 60/61; RMN-Grand Palais (Sèvres, Cité de la céramique)/Martine Beck-Coppola: p. 72; Archivio SEAT: p. 97 – Marka: Walter Bibikow: pp. 94/95; Fotosearch LBRF: p. 100; Fco. Javier Sobrino: p. 101 (basso) – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 83, 96.

Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Impaginazione: Alessia Pozzato

Editore: MyWay Media S.r.l.

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Barbara Conti è storica dell’arte medievale. Claudio Corvino è antropologo. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Chiara Parente è giornalista. Michele Pellegrini è ricercatore in storia medievale all’Università di Siena. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Emanuela Porta Casucci è dottore di ricerca in storia medievale. Stefania Romani è giornalista. Roberto Roveda è storico del Medioevo e giornalista. Francesca Saporiti è giornalista e storica del Medioevo. Domenico Sebastiani è cultore di tradizioni e leggende medievali. Tiziano Zaccaria è giornalista.

Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Concessionaria per la pubblicità: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it

Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

In copertina armatura di Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino. XVI sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369

Nel prossimo numero costume e società

Carnevale di guerra

clusone

Il Trionfo della Morte

medioevo nascosto

San Caprasio e le pievi della Lunigiana

dossier

Dracula, la vera storia


ANIMALI MEDIEVALI a cura di Federico Canaccini

Nelle fauci del drago

Q

uesta nuova rubrica proporrà, per ogni mese dell’anno, il «ritratto» di un animale, cosí come lo si percepiva nel Medioevo. Alcuni, lo vedremo, sono esseri di fantasia, mentre per la cultura medievale erano animali reali. Ad altri, pur essendo veri, venivano attribuite peculiarità o poteri che mai immagineremmo. Ad aprire questa carrellata è forse l’animale piú originale della cultura medievale: il drago. Per gli uomini dell’Età di Mezzo, il drago è, innanzitutto, un essere reale e non di fantasia: appartiene alla famiglia dei serpenti – di cui è il rappresentante piú grande – sebbene sia provvisto di zampe e – ma non sempre – di ali. Alcuni draghi, infatti, non volano, ma sono eccellenti nuotatori. Caratteristiche comuni sono poi le scaglie che ricoprono la pelle, una coda lunghissima e artigli potentissimi. Gli occhi, rosso fuoco, possono paralizzare chi li fissa e dalle fauci, munite di denti affilatissimi, possono uscire, oltre a una bava disgustosa, anche temibili fiamme. Questa straordinaria creatura può avere anche piú di una testa: del resto, l’idra di Lerna non era forse un drago a sette teste? Sia nel corpo dell’idra che in quello di Fáfnir, il drago ucciso da Sigfrido nel Canto dei Nibelunghi, circola un sangue dai poteri terribili: Ercole aveva infatti avvelenato le sue frecce col sangue del mostro, che venne usato anche per creare un filtro d’amore; Sigfrido, invece, diventa immortale bagnandosi proprio nel sangue del drago ucciso, tranne che per un punto della schiena su cui s’era posata una foglia di tiglio. L’eroe poi ne mangia il cuore, imparando cosí il linguaggio degli animali: secondo la mitologia norrena, infatti, i draghi conoscono ogni idioma e se ne servono per ingannare l’uomo. Infine, il sandragon (sangue di drago) sarebbe stato anche usato dai pittori medievali per dipingere la faccia del diavolo o le fiamme dell’Inferno! Secondo i bestiari, i draghi nascono in Etiopia, in India e in «Barberia», cioè nell’Africa mediterranea, per poi diffondersi in tutto il mondo. Sulla terraferma vivono in grotte, dove solitamente proteggono un tesoro, essendo particolarmente avidi; in acqua si divertono a far tracimare i laghi e, in aria, combattono con i piú temibili predatori e addirittura con gli angeli. Il nemico prediletto del drago è l’elefante che, apparentemente sconfitto dal primo – che incarna il Male –, rovesciandosi, gli cade addosso e schiacciandolo col suo peso, lo uccide a sua volta. Altri autori, però, affermano che i draghi sono esseri immortali e che, al limite, possono dormire un sonno lunghissimo da cui è bene non destarli. Il drago appartiene al mondo del soprannaturale piú che a quello del meraviglioso e perciò, al pari di altre creature metafisiche, come gli angeli, fa parte

San Giorgio e il Drago, olio su tavola di Rogier van der Weyden. 1432-1435. Washington, National Gallery of Art. Il pittore trasferisce l’episodio dalla Cappadocia del III sec. a un paesaggio belga a lui contemporaneo e fa indossare al santo, che era un soldato romano, un’armatura nera, di fattura goticheggiante. della quotidianità degli uomini del Medioevo che ne hanno conoscenza tramite pitture, sculture, racconti, miti. Ma chi può sconfiggere un drago? Non basta essere un cavaliere ardimentoso, e solo i piú grandi santi, come Michele e Giorgio – ma anche Marta e Margherita –, sono riusciti nell’impresa. Tra gli eroi invincibili, soltanto Artú, Sigfrido e Tristano sono riusciti ad avere la meglio sulla temibile creatura. E dal momento che la bestia rappresenta il Diavolo, non esiste mai un drago buono, a meno di non rivolgersi ad altre culture, come quella asiatica oppure si invochi – in caso di incendio – un piú moderno e simpatico Grisú, protagonista degli episodi a cartoni animati di un fortunato Carosello televisivo degli anni Settanta...


ANTE PRIMA

Un’ottima intesa RECUPERI • Grazie alla collaborazione delle autorità statunitensi, l’Italia ha potuto

accogliere il rientro di una splendida pagina miniata, staccata da un antifonario decorato alla metà del Trecento dal Maestro delle Effigi domenicane

U

n nuovo, importante recupero ha coronato l’attività investigativa del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale: a beneficiarne è stata una pagina superbamente miniata, staccata da un codice realizzato fra il 1335 e il 1345. Il foglio fu rimosso dal manoscritto di cui faceva parte in una data imprecisata, ma fra il 1933 e il 1952, anno in cui era stato acquistato in buona fede dal Cleveland Museum of Art, ingannato da un’etichetta che riportava indicazioni errate. La pagina miniata ritrae santa Lucia e l’immagine – realizzata, su pergamena, con inchiostro, tempera e oro – potrebbe essere opera di un importante miniatore, noto come Maestro delle Effigi domenicane, che risulta attivo a Firenze fra il 1320 e il 1350. Denominato convenzionalmente Codice D, il manoscritto originale era un antifonario appartenente alla pieve dei Ss. Ippolito e Biagio, a Castelfiorentino, ed è ora conservato

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nel Museo di Santa Verdiana della cittadina toscana. Recentemente, la direzione della raccolta statunitense era stata contattata dalla U.S. Immigration and Customs Enforcement (ICE, l’Agenzia per le dogane e l’immigrazione degli USA), dopo che un’altra pagina, verosimilmente appartenente al medesimo manoscritto e individuata sul mercato svizzero, era stata restituita all’Italia. A quel punto è apparsa

evidente l’origine della santa Lucia conservata a Cleveland ed è stata presa la decisione di consentirne il rientro in Italia. La pagina miniata è stata riconsegnata, insieme a un dipinto del pittore Consalvo Carelli (trafugato a Napoli nel 2001 e finito nella disponibilità di un mercante d’arte californiano), nel corso di una cerimonia ufficiale, alla presenza dell’Ambasciatore italiano negli Stati Uniti, che cosí ha commentato l’evento: «Questa cerimonia segna un altro passo importante nella lunga collaborazione tra i governi degli Stati Uniti e dell’Italia nel campo della promozione culturale e della protezione del patrimonio culturale. Il rimpatrio della pagina miniata e del dipinto di Carelli rientra nel Protocollo bilaterale d’intesa tra Italia e Stati Uniti, rinnovato recentemente per una terza volta, ed è stato possible grazie alla collaborazione delle autorità statunitensi e dei Musei di Cleveland e Sacramento». (red.) gennaio

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Sulle due pagine una veduta d’insieme e alcuni particolari della pagina miniata raffigurante santa Lucia. Staccato da un antifonario della pieve dei Ss. Ippolito e

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Biagio di Castelfiorentino, il foglio viene attribuito al miniatore noto come Maestro delle Effigi domenicane e fu realizzato fra il 1335 e il 1345.

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ANTE PRIMA

Capolavori in corsia MUSEI • L’Istituto degli Innocenti di Firenze ha

inaugurato il suo museo, che vanta una collezione ricca di opere di altissimo pregio, ospitata nel magnifico edificio progettato da Filippo Brunelleschi, su commissione dell’Arte della Seta

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el 1419, la potente corporazione fiorentina dell’Arte della Seta – che dal 1294 era responsabile della tutela degli orfani – decise di acquistare un terreno nelle vicinanze della piazza dei Servi per edificarvi un ospedale dedicato alla cura dei bambini abbandonati. Il progetto fu affidato all’architetto Filippo Brunelleschi, che diresse i lavori per sette anni e venne poi sostituito dal

collega Francesco della Luna. L’artista fiorentino diede vita a una delle piú raffinate espressioni di architettura rinascimentale, riconoscibile nelle forme del loggiato di accesso all’edificio, con nove archi, di ispirazione classica, sotto il quale si trovava una «pila» in pietra, nella quale venivano deposti i fanciulli, poi «protetta», nel Cinquecento, da una «finestrella ferrata» per evitare l’abbandono di quelli troppo grandi. La prima bambina, battezzata Agata Smeralda, in onore della santa del giorno, fu accolta il 5 febbraio 1445, a distanza A sinistra busto di Cione di Lapo Pollini in terracotta policromata, opera di scultore fiorentino anonimo. Seconda metà del XVI sec. Tutte le opere riprodotte in queste pagine fanno parte della collezione del Museo degli Innocenti di Firenze.

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di un mese dall’inaugurazione dell’istituto, riconosciuto come primo brefotrofio specializzato in Europa, chiamato Spedale degli Innocenti, un nome che evocava l’evento biblico della strage di Erode, poi rappresentata in un affresco del 1610 del pittore Bernardino Poccetti, all’interno del vecchio refettorio.

Vaccinazioni di massa Nel corso del XVIII secolo, l’orfanotrofio si distinse per le rivoluzionarie attività di cui fu protagonista, istituendo un laboratorio per la produzione di vaccini per tutta la Toscana che, nel 1756, portò per la prima volta in Italia, a eseguire la pratica della vaiolizzazione su 6 infanti cioè l’inoculazione del virus del vaiolo. Nello stesso periodo, lo Spedale accolse la prima cattedra in Italia di Pediatria e di Ostetricia teorica e pratica per la formazione delle ragazze alla professione di ostetriche, dove insegnarono i cosiddetti «chirurghi delle donne», con l’obiettivo di diffondere le conoscenze scientifiche e le pratiche igieniche di base sul parto e smentire i pregiudizi tradizionali. Nel 1815 aprí le porte anche alle gennaio

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cosiddette «gravide occulte», cioè le ragazze madri, tre anni dopo la prima registrazione del cognome attribuito al trovatello, operazione avvenuta nel 1812. Fino a quel momento, la prassi prevedeva di riportare solamente il nome proprio, spesso doppio. Inizialmente cognomi tipici erano Degli Innocenti, Innocenti, Nocenti, Nocentini et similia, ma in seguito si cercò di adottarne altri, lontani da un esplicito riferimento all’Istituto, per evitare di apporre «agli individui esposti indelebilmente la marca della loro disgrazia e di formare di essi una classe di persone inferiori alle altre».

Gli ultimi trovatelli La struttura fu poi sede pubblica per le pratiche di vaccinazione gratuita, «opera pia» sovvenzionata dallo Stato e, verso la fine del secolo, passò dall’assistenza alla sola cura dei bambini. La notte del 30 giugno 1875, a pochi minuti di distanza l’uno dall’altra, furono depositati attraverso la finestra «ferrata» una femmina e un maschio a cui vennero dati i nomi, rispettivamente, di Laudata Chiusuri e Ultimo Lasciati. Entrambi erano accompagnati da una mezza medaglia e da un biglietto che li indicava come già battezzati. Successivamente l’istituto assunse il titolo di Istituzione Pubblica di Assistenza e Beneficenza (IPAB), mentre nel 1893 si istituí l’archivio sanitario per cui ogni bambino aveva la propria cartella clinica, oggi conservato nell’Archivio dell’Istituto. Risale invece al 1918, l’inaugurazione del cosiddetto Aiuto Materno, scuola pratica di puericultura per

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Nella pagina accanto, in alto un particolare dell’allestimento del nuovo Museo degli Innocenti. A destra Crocifisso in legno intagliato e dipinto, opera di scultore fiorentino anonimo. 1340-1350 circa. In basso Incoronazione della Vergine con i santi Michele arcangelo e Maria Maddalena, tempera su tavola del Maestro della Madonna Straus (Ambrogio di Baldese?). 1405 circa.

giovani madri, sia «legittime» che «illegittime» in condizioni di povertà, che erano consigliate e supportate nella fase dell’allattamento, anche con la distribuzione di latte sterilizzato, preparati, indumenti e tutto ciò che poteva occorrere al neonato. Oggi l’Istituto è un ente pubblico che gestisce servizi educativi e il progetto Agata Smeralda per le adozioni a distanza. La costruzione brunelleschiana che accoglie l’ex Spedale degli Innocenti si basa su moduli geometrici in proporzione tra loro e consta di un corpo di forma a «U», con portico esterno, cortile quadrato, refettorio, chiostro degli uomini, chiostro delle donne, abituro (il dormitorio), infermeria, chiesa dedicata a santa Maria degli Innocenti e, nel seminterrato, saloni per officina e scuola. Nel 1487, tra gli archi del loggiato esterno, furono posti dieci rilievi in terracotta invetriata bianco-azzurro dell’artista fiorentino Andrea della Robbia, rappresentanti puttini in fasce che diventeranno il simbolo dell’Istituto. I 10 putti non sono tutti uguali: 7 sono avvolti dal torace alle caviglie, mentre altri 2 hanno le fasciature che si slegano al di sotto della vita o delle ginocchia. Solo un bambino, il settimo da sinistra, ha i piedi liberi e mostra le fasce slegate e cadenti. Il nuovo MUDI (Museo degli Innocenti) è un percorso multidisciplinare che racconta la storia dell’istituzione, valorizzandone gli spazi architettonici e le opere

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ANTE PRIMA d’arte in essi contenute e offrendo una continuità tra identità storica, missione e patrimonio culturale, che fu organizzato per la prima volta nel 1890. Nata da una progettazione internazionale condivisa da fondazioni pubbliche e private, la nuova realtà museale propone tre itinerari di visita tematici che riguardano appunto storia, architettura e arte, dando vita a una narrazione unitaria, in parte in maniera multimediale, lungo uno spazio espositivo di 4900 mq.

Una struttura polivalente Grazie a due nuovi ingressi aperti su piazza Santissima Annunziata e alla realizzazione di collegamenti verticali, il museo offre anche nuovi servizi, come laboratori artistici, mostre e eventi temporanei, convegni e attività di formazione. La sezione storica descrive il sistema assistenziale presente a Firenze nel XV secolo che fa risaltare proprio l’eccezionalità dell’Ospedale e, insieme, gli eventi legati agli aiuti all’infanzia in Italia, fino al 1900, passando attraverso la suddivisione in tre periodi principali che sono 1419-1580. L’Ospedale degli Innocenti dalla fondazione al priorato di don Vincenzo Borghini; 1580-1700. L’Ospedale degli Innocenti durante la Controriforma; 1700-1900. Progresso scientifico, riforme e chiusura della «ruota». Una narrazione sintetica, ma precisa, ci riporta alla vita quotidiana di

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nocentine e nocentini, dal loro ritrovamento al primo soccorso e alle successive fasi dell’esistenza, di sessanta bambini accolti dall’ente, una ricostruzione resa possibile dai documenti conservati nell’Archivio storico, custode anche di migliaia di minuscoli oggetti e messaggi scritti che venivano introdotti tra le fasce dai genitori, in segno di riconoscimento. Una selezione di queste preziose memorie, costituite da medaglie, monete, anelli, fermagli, santini, croci, chicchi di rosario, di vetro colorato, bottoni, pezzi di stoffa, è ora esposta in 140 piccole teche, accanto a cui si trovano quattro touch screen che riportano le biografie dei pargoli qui accolti. In alto testa di santo vecchio, affresco (staccato) di Giottino (Giotto di Maestro Stefano). 1350-1355. A sinistra Adorazione dei Magi, tempera e olio su tavola di Domenico Ghirlandaio. 1488-1489. In basso predella dell’Adorazione dei Magi del Ghirlandaio, con storie di santi e della Vergine, tempera e olio su tavola di Bartolomeo di Giovanni. 1488.

gennaio

MEDIOEVO


La successiva modernizzazione dell’Ospedale è ben documentata da immagini scattate per l’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Il secondo settore è improntato all’evoluzione del complesso edilizio e delle funzioni svolte nelle diverse aree, come Loggiato di facciata, Cortile degli Uomini e Cortile delle Donne, luoghi abitati dalle centinaia di trovatelli e dal personale di servizio che qui hanno trascorso molti anni della loro vita. Le due comunità maschile e femminile potevano svolgere le loro attività in zone distinte, mentre al di sopra della loggia vi era una terrazza coperta – oggi occupata

dalla Caffetteria del museo – usata per lo stenditoio dove asciugare fasce e panni lavati. Attualmente, una porzione del fabbricato, esempio del nuovo linguaggio brunelleschiano contraddistinto da una moderna impostazione planimetrica, è interessato da un imponente lavoro di restauro che riguarda anche l’abituro dei fanciulli e il cortile delle cosiddette balie di «casa» che nutrivano i trovatelli al loro arrivo.

Le grandi firme Il terzo livello ospita la parte piú rilevante del patrimonio artistico conservato dagli Innocenti, evidenziando il ruolo assegnato all’arte in tutta la storia dell’Ospedale. Nella galleria sono esposte in ordine cronologico le opere di maggiore importanza di tutto il Museo, tra cui spiccano quelle di Sandro Botticelli, presente con una Madonna col Bambino e un angelo, Bartolomeo di Giovanni, Luca della Robbia, Giovanni del Biondo e Domenico Ghirlandaio la cui pala, rappresentante l’Adorazione dei Magi, è posizionata nella sala principale. Qui trovano posto anche Piero di Cosimo con la Madonna col Bambino in trono e i santi e l’Incoronazione di Neri di Bicci. La collezione unisce pezzi di committenze dirette, altre di provenienza ignota, insieme a eredità pervenute da diverse istituzioni assistenziali come il nucleo che viene dall’Ospizio di Orbatello (il trittico di Giovanni del Biondo, il trittico di Giovanni di Francesco Toscani e la pala di David Ghirlandaio) in via della Pergola a Firenze, prima rifugio per anziane e vedove con figli piccoli e poi ricovero per le «gravide occulte», che dovevano nascondere la maternità e avevano bisogno di un luogo sicuro in cui attendere il parto. Testa di santo giovane, affresco (staccato) di Giottino (Giotto di Maestro Stefano). 1350-1355.

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Tra le altre tele esposte, di notevole interesse è la Madonna in trono col Bambino e angeli, venerata dalle nocentine del Poppi, legata alla comunità femminile dell’Ospizio dove sono raffigurate ai piedi della Vergine delle figure muliebri di varie età, che danno un volto ai diversi ruoli presenti nel brefotrofio, e un Crocifisso ligneo trecentesco, recuperato grazie al recente restauro. A lato, si trova il Coretto delle balie che conserva i manufatti realizzati dalle donne per motivi devozionali, insieme alla statua settecentesca di San Nicola, protettore delle ragazze da marito che fu donata alle fanciulle che qui vivevano. Percorrendo lo scalone di fine Ottocento, utilizzato in passato per condurre i bambini dall’Ufficio di consegna e dalla Sala di prima osservazione agli ambienti del brefotrofio, è possibile ammirare la scultura in marmo raffigurante San Giovanni Evangelista, proveniente dal tabernacolo dell’Arte della Seta posto all’esterno della chiesa di Orsanmichele. La grande figura è attribuita a Simone Talenti, architetto e scultore attivo nei principali cantieri fiorentini intorno alla metà del Trecento: di particolare bellezza sono la capigliatura, con i riccioli che si attorcigliano su se stessi e l’intensa espressività del volto. Il MUDI è stato ideato e concepito anche per essere a misura di bambino e propone didascalie e percorsi audioguidati in italiano e in inglese con testi scritti da autori di libri per ragazzi e installazioni che rievocano la vita dei fanciulli anche attraverso le loro voci. Mila Lavorini DOVE E QUANDO

Museo degli Innocenti Firenze, piazza SS. Annunziata 13 Orario tutti i giorni, 10,00-19,00 Info e prenotazioni Coop Culture, tel. 848 082380; www.istitutodeglinnocenti.it

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ANTE PRIMA

Quel magnifico banco...

MUSEI • Grazie all’intervento di un donatore che ha preferito rimanere anonimo, la

raccolta del Palladio Museum di Vicenza si è arricchita di questo prezioso disegno, realizzato dall’architetto e pittore Baldassarre Peruzzi

È

tornato in Italia uno dei piú bei disegni di architettura del Rinascimento, opera dell’architetto e pittore Baldassarre Peruzzi (1481-1536) e che rappresenta il progetto per un banco di una delle magistrature cittadine di Siena. Era conservato nella collezione privata del celebre critico d’arte inglese Brian Sewell, messa all’asta a Londra da Christie’s il 27 settembre scorso ed è stato acquisito da un donatore italiano che ha voluto restare anonimo, per essere destinato alle collezioni di disegni di architettura del Palladio Museum di Vicenza. A detta di Michelangelo, Cellini e Giorgio Vasari, Baldassarre Peruzzi fu fra i migliori architetti, disegnatori di architettura e teorici della prospettiva del suo tempo. I suoi scritti, oggi perduti, formarono la base per i trattati di Sebastiano Serlio, vale a dire i «manuali» che diffusero la nuova architettura rinascimentale in Italia e in tutta Europa. Ancora oggi possiamo ammirare diversi edifici costruiti da Peruzzi: da villa Farnesina sul Lungotevere a Roma (di cui realizzò anche gli affreschi) a interventi a Siena e Carpi sino al capolavoro, Palazzo Massimo alle Colonne a Roma, celebre per la geniale invenzione della facciata ricurva.

All’indomani del Sacco di Roma Il disegno ora acquisito dal Palladio Museum fu tracciato da Peruzzi tornato in patria dopo il Sacco di Roma del 1527. Si tratta del progetto per un banco monumentale dal quale alti funzionari del governo della Repubblica

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di Siena potessero esercitare le proprie funzioni, un elemento da collocare nel piccolo ambiente chiamato «La Cancelleria», all’interno del Palazzo Pubblico senese (un progetto planimetrico di Peruzzi per questa sala è conservato agli Uffizi). Le figure inserite nell’imponente schienale rappresentano uomini famosi (da Ercole ad Attilio Regolo), richiamando il mito dell’antico passato di Siena. Il disegno è quindi anche un ricordo del filone repubblicano della grande storia politica d’Italia. Il foglio è di grande formato, maggiore della media dei disegni di Peruzzi oggi conservati soprattutto agli Uffizi, ma anche al Louvre, al British Museum, e all’Ashmolean Museum di Oxford. «È uno dei piú bei disegni di Peruzzi – ha dichiarato lo studioso tedesco Christoph L. Frommel, accademico dei Lincei e autore delle principali monografie sull’artista – e non ho memoria che un’opera del genere sia mai apparsa sul mercato da decenni. È un foglio particolarmente prezioso perché dimostra la straordinaria abilità di Peruzzi sia come disegnatore di figure che come disegnatore di architettura». Dal canto suo, Howard Burns, presidente del Consiglio Scientifico del CISA Andrea Palladio, di cui il Palladio Museum è un’emanazione, si è detto «molto soddisfatto dell’acquisizione alle nostre collezioni, perché fra i nostri scopi abbiamo sempre avuto non solo lo studio e la valorizzazione di disegni di architettura, ma anche acquisizioni e depositi presso di noi». (red.) gennaio

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ANTE PRIMA

Tesori del tornio ITINERARI • Riunite nel magnifico Palazzo Gavotti, le

collezioni dei Musei Civici di Savona documentano la straordinaria qualità della produzione ceramica, che fu uno dei maggiori vanti della città ligure

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a produzione ceramica caratterizza da secoli l’arte, la storia e la cultura di Savona e della vicina Albisola, contribuendo a far conoscere la Liguria nel mondo. Le ricche collezioni di manufatti del Museo della Ceramica, insieme alle sculture e ai quadri della Pinacoteca Civica, documentano dunque una vicenda antica, che si è svolta dal Medioevo a oggi. Le due raccolte, che costituiscono il Museo d’Arte del capoluogo ligure, dopo piú di un secolo di sistemazioni provvisorie, hanno finalmente trovato una sede definitiva nell’elegante Palazzo Gavotti. Situato nel centro storico di Savona, in una posizione

favorevole che, grazie al passaggio aperto negli anni 1859-1863, collega il nucleo urbano piú antico ai quartieri nuovi, l’edificio è stato costruito su strutture dei secoli XIIXIII, aggiornate tra il 1570 e il 1580 in forme rinascimentali.

Lotta all’usura Recentemente ristrutturato e trasformato in spazio espositivo, il palazzo ospitava un tempo il Monte di Pietà, fondato nel 1479 dal papa savonese Sisto IV. L’istituzione, tra

In alto piatto in maiolica policroma. Prima metà del XVII sec. Già collezione del principe Boncompagni Ludovisi. In basso un prezioso esemplare di albarello in maolica policroma sul quale compare, fra le altre, la rappresentazione di san Giorgio che uccide il drago. Seconda metà del XVI sec. Tutti gli oggetti illustrati sono esposti nel Museo d’Arte di Palazzo Gavotti a Savona. le piú antiche d’Italia, esisteva già nel 1480 e serviva per combattere l’usura, consentendo il prestito ai bisognosi. Lo testimonia la lapide commemorativa dipinta a trompe l’oeil sulla parete di un’ampia

Dall’antica farmacia La storia della maiolica ligure tra il XVI e il XIX secolo è strettamente collegata a quella dei corredi usati nelle farmacie di ospedali, conventi e privati cittadini per la conservazione di unguenti, sciroppi, polveri ed erbe. La pinacoteca ospita 172 pezzi, che, datati 1666 e provenienti dall’antica farmacia dell’Ospedale di San Paolo di Savona, sono un esempio di eccellenza del modello «orientalizzante a tappezzeria». L’elegante decoro in bianco-blu è costituito da nuvolette, elementi vegetali, insetti, uccelli, castelli, borghi turriti, angioletti, animali, tra

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cui scimmie e cavalli, silhouette e «figuretti», disseminati sull’intera superficie a comporre un’elegante e raffinata tessitura. Su ciascun esemplare campeggia la figura di san Paolo avvolto in un ampio mantello, accompagnato dalla spada e dal libro, suoi consueti attributi iconografici. I contenitori si suddividono in sette forme: idrie (stagnoni) per le acque, pillolieri per le pillole, fiaschette per i semi, albarelli, vasi da elettuari e vasi troncoconici (la cui sfoggia è esclusiva di questo corredo), per le miscele grasse. La maggior parte degli oggetti riporta sotto il fondello la marca con lo stemma di Savona, a indicare il luogo della fabbricazione, gennaio

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Gli affreschi ritrovati Nel corso dei restauri di Palazzo Gavotti è riemerso un pregevole ciclo di affreschi, ascrivibile al pavese Lorenzo Fasolo, documentato dal 1463 al 1516/18 e piú volte impegnato in commesse a Savona. Le pitture a fresco comprendono l’Angelo Annunziante, la Pietà e la Madonna Annunziata, che nella caratterizzazione delle figure e nella definizione lineare dei corpi e dei panneggi sono molto vicine ad altri lavori compiuti dal maestro in Liguria nel primo decennio del Cinquecento. A lui è attribuita anche la Madonna della Misericordia, con ritratti gli Ufficiali del Monte inginocchiati ai suoi piedi. Fasolo è inoltre l’autore del Presepe e del San Giorgio esposti nella Pinacoteca Civica. sala, forse originariamente destinata al Consiglio degli Ufficiali del Monte. Non si conosce la destinazione precedente del fabbricato, ma i numerosi emblemi araldicocavallereschi, i disegni, le sigle, i monogrammi e le scritte in diverse lingue, soprattutto in francese, databili alla metà del XV secolo, suggeriscono che fosse adibito a quartier generale di truppe mercenarie straniere. Istituita nel 1868 con l’acquisizione dei beni degli Ordini religiosi soppressi, la Pinacoteca Civica si è arricchita nel corso del Novecento con donazioni, acquisti e depositi.

molto probabilmente la manifattura di Giuliano Salamone. Alla sua attività, infatti, rimandano le iniziali GS sul collo del piede di alcune ceramiche, ai lati dello stemma coronato di Savona, che sormonta la stella a cinque punte, emblema della famiglia del ceramista. Qui accanto albarello in maiolica policroma della farmacia Cavanna di Genova. Fine del XVI-inizi del XVII sec.

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Il percorso di visita evidenzia le tappe fondamentali della cultura figurativa locale dal XIV al XX secolo, segnata da frequenti rapporti con l’esterno e da esperienze eterogenee.

Sotto il tallone di Genova Le testimonianze confermano l’importanza politica ed economica della Savona medievale, ma sono poche le opere d’arte sopravvissute in seguito all’assoggettamento a Genova (1528), che ha comportato la distruzione della fortezza sul colle del Priamàr, il centro religioso della città, con il conseguente abbattimento della cattedrale, del In alto Madonna con Bambino, quattro angeli e donatori, tempera su tavola di Taddeo di Bartolo, proveniente dal convento dei Domenicani di Finalborgo. 1390 circa. palazzo vescovile, degli oratori delle confraternite e del convento domenicano. Tra i dipinti piú antichi, si possono ammirare una rara Croce in legno policromo eseguita da un diretto seguace del Maestro di Santa Maria di Castello a Genova (Opizzino da Camogli?) e un dipinto di Taddeo di Bartolo; entrambi attestano l’influenza della pittura toscana nel Trecento a Savona. Il Cristo in Croce tra le Marie e San Giovanni Evangelista, firmato ai piedi della croce «Donatus Comes Bardus Papiensis pinxit hoc opus», è stato presumibilmente dipinto tra il 1430 e il 1440. Considerata un unicum nel panorama della pittura rinascimentale italiana, questa Crocifissione costituisce

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ANTE PRIMA A sinistra San Giorgio e un gruppo di disciplinati, tempera su tavola del pittore pavese Lorenzo Fasolo, già nella chiesa di S. Andrea. 1490-1500 circa.

un momento di svolta e di accrescimento nel percorso artistico di Donato De’ Bardi (pittore documentato a Pavia, Genova e Savona dal 1402 al 1450/51). Al secondo piano di Palazzo Gavotti catturano l’attenzione i «laggioni», mattonelle in maiolica, impiegate in Liguria tra il XV e il XVI secolo, per rivestire pavimenti, pareti di saloni, ingressi, scale e caminetti di abitazioni signorili. Tali manufatti venivano inizialmente indicati con il vocabolo toscano «quadrelle», che, nel Quattrocento, fu appunto sostituito dalla denominazione dialettale di «laggioni».

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Nella seconda metà del Quattrocento con l’arrivo a Savona di ceramisti provenienti dall’Italia centrale, in prevalenza pisani e toscani, all’originaria produzione in monocromia si affiancò la raffigurazione di un soggetto compiuto (cellula autonoma), in genere motivi vegetali, animali, temi araldici o mitologici, rappresentati su ciascuna mattonella.

Alla maniera degli azulejos I ceramisti liguri dipingevano a pennello, su superficie piana, anche immagini risultanti dall’unione di quattro mattonelle (cellula

Qui sopra Cristo in croce tra le Marie e San Giovanni Evangelista, olio e tempera su tela di Donato de’ Bardi. 1430-1440. dipendente), a imitazione degli azulejos ispano-islamici, realizzati a rilievo mediante stampo (cuenca). Di origine islamica è anche il decoro costituito da nastri bianchi, che formano un disegno a intrecci piuttosto complessi, al cui centro si inseriscono talora figure di ispirazione rinascimentale italiana, come per esempio cuori trafitti, testine, soggetti vegetali o animali. Particolarmente interessante è il pannello esposto al fondo della gennaio

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A sinistra una sala che ospita le collezioni del Museo della Ceramica.

sala con Guerriero, un tempo parte del rivestimento figurato del palazzo savonese Del Carretto Pavese. L’opera, composta da quarantacinque laggioni, probabilmente è di Antonio Tamagno da San Gimignano, un artista segnalato in città nei primi decenni del Cinquecento. In Liguria la produzione di laggioni si spense alla fine del XVI secolo, quando nelle dimore dell’aristocrazia tale decoro fu sostituito da marmi, affreschi, stucchi e ricche tappezzerie.

Artigiani dell’Italia centrale L’ornamentazione del pannello con Guerriero è in stretta relazione con quella del grande albarello policromo esposto nello stesso ambiente. Su questo esemplare candelabre con vasi, cornucopie ricolme di frutta, sfingi, volti ridenti, incorniciano tre medaglie che raffigurano San Giorgio, Muzio Scevola e Marco Curzio. L’esecuzione del pregevole oggetto rimanda al possibile intervento di professionisti trasferitisi in Liguria dai centri ceramici dell’Italia centrale, in particolare Pesaro e Urbino. Durante il Cinquecento, la significativa presenza di manodopera proveniente dall’Italia centrale, favorí nelle manifatture liguri la fabbricazione di vasellame con decorazione istoriata policroma, improntata a modelli del Rinascimento. Ai rivestimenti parietali e pavimentali e ai laggioni di

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Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden, Giona nella bocca della balena, La Creazione, Il giovane Giuseppe ne sono alcuni soggetti. La morfologia di un interessante gruppo di ceramiche, proveniente dalla farmacia Cavanna di Genova, rimanda invece a una tipologia tardo-manierista. Questi esemplari compongono un apparato fitomorfo «orientalizzante naturalistico», con brevi «istorie» allegoriche, derivate dall’apparato

Un’immagine molto venerata Una sala del museo è riservata all’effigie della Madonna di Misericordia. Questa figura rappresentata nelle pale d’altare, scolpita in marmo per chiese o edicole devozionali disseminate lungo le vie, cesellata dai maestri argentieri e ricamata in sontuosi paramenti, ha segnato la storia di Savona, diventando un elemento che connota il territorio. Le riproduzioni piú suggestive della «Madonna di Savona», rispondenti alla devozione colta o popolare, sono state create nell’ambito della produzione in ceramica di piccole plastiche, vasi, targhe murali e acquasantiere per luoghi di culto, palazzi nobili e umili ambienti domestici. Le statuine a tutto tondo, con le braccia appena aperte a sollevare il manto trattenuto da una testina di cherubino, ripropongono, dal Cinquecento al Settecento, l’iconografia tradizionale, fissata nel 1560 dalla scultura in marmo realizzata da Pietro Orsolino per il santuario innalzato nel luogo in cui, nel 1536, apparve la Madonna. ispirazione ispano moresca, si accompagnarono brani figurati, propri dell’istoriato rinascimentale. Verso la metà dello stesso secolo, motivi classicheggianti furono introdotti nel contesto di una decorazione di origine ottomana, contraddistinta da volute e girali ispirati al mondo vegetale, eseguiti con un tratto sottile e una marcata tendenza all’astrazione.

Episodi dell’Antico Testamento Si riferiscono a maestranze esterne quattro eccezionali idrie (stagnoni) policrome. Le immagini, che corrono senza soluzione di continuità su tutta la superficie dei grandi vasi, mostrano scene tratte dall’Antico Testamento, la cui fonte è da ricercare nelle illustrazioni delle Bibbie cinquecentesche:

iconografico di testi a stampa. In essi la decorazione in bianco blu è popolata da sirene alate dalla coda bifida, cani a tre teste, draghi, serpenti e personaggi mitologici, tratti dal repertorio delle Metamorfosi di Ovidio. Chiara Parente DOVE E QUANDO

MUSA, Civici Musei Savona Savona, Palazzo Gavotti, piazza Chabrol, nn. 1-2 Orario mercoledí, 10,00-13,30; giovedí, venerdí, sabato, 10,00-13,30 e 15,30-18,30; domenica, 10,00-13,30 chiuso lunedí e martedí Info tel. 019 8310256; e-mail: musei@comune.savona.it; www.comune.savona.it

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ANTE PRIMA

Una visione provvidenziale APPUNTAMENTI • Oltre mille anni fa, la miracolosa

apparizione di san Biagio a un sacerdote salvò Ragusa (l’odierna Dubrovnik) dai Veneziani: un intervento ricordato ogni anno con una grande festa

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a cittadina croata di Dubrovnik, adagiata sulla costa della Dalmazia meridionale, è nota anche con l’antico nome di Ragusa. Nel suo splendido centro storico, dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, ogni anno, il 3 febbraio, va in scena la spettacolare festa del patrono cittadino, san Biagio. La celebrazione si svolge senza interruzioni dal 972, sulla base

di una leggenda secondo la quale in quell’anno il santo salvò Ragusa dall’assedio della Serenissima.

Cambio di patrono Biagio sarebbe apparso a un sacerdote di nome Stojko, mentre questi pregava, chiedendogli di avvertire il Senato cittadino dell’imminente attacco dei Veneziani. La popolazione locale

riuscí cosí a preparare la difesa, costringendo i nemici al ritiro. Per ringraziare san Biagio, i Ragusani lo nominarono patrono cittadino al posto di san Sergio. E per consentire a tutti di partecipare alla nuova festa patronale, fu introdotta una normativa speciale, la Sloboština Sponza, ovvero un periodo di tempo in cui anche i detenuti e gli esiliati potevano frequentare la città, nei

Il vino di san Vincenzo

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ella regione francese della Borgogna, a ogni fine di gennaio, i vignaioli di molti villaggi si riuniscono per ringraziare san Vincenzo, il patrono della vendemmia, e chiedere la sua protezione per la futura raccolta. La festa prende il nome di Saint Vincente Tournante, perché ogni edizione si tiene in un paese diverso. Quest’anno è in programma il 28 e 29 gennaio a Mercurey, un borgo di 1500 anime situato nel dipartimento della Saona e Loira, noto per i suoi vini bianchi e rossi che si fregiano delle etichette AOC (l’equivalente della nostra DOC) e Premier Cru. La festa ha origini antiche, risalenti al Medioevo, quando nei villaggi della Borgogna apparvero le prime «società di mutuo soccorso» del vino, allo scopo di assicurare ai membri un sussidio di malattia o vecchiaia, e aiutare le famiglie dei soci defunti.

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Era un modo per consolidare l’unione della corporazione e garantire il benessere dei vignaioli, che ogni anno in gennaio allestivano una festa dedicata a san Vincenzo. Alcune di quelle antiche società di mutuo soccorso sono giunte fino ai giorni nostri, sia pure con funzioni ormai puramente accessorie. La festa, invece, era stata abbandonata per secoli, finché fu ripristinata nel 1938 dalla Confraternita dei Cavalieri del Tastevin, che organizzò il primo Saint Vincent Tournante moderno a Chambolle-Musigny. Da allora, per un intero week end, nel paese predefinito si tengono una grande processione in costumi storici seguita da una messa, un pranzo collettivo e attività che mirano a far conoscere e apprezzare i vini della Borgogna. T. Z. gennaio

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Festa sul fiume

In alto il corteo religioso che attraversa Dubrovnik durante la festa di san Biagio. due giorni precedenti e nei due successivi alla ricorrenza. Oggi le celebrazioni iniziano il giorno della Madonna della Candelora, il 2 febbraio, con la liberazione, davanti alla Cattedrale, di colombe bianche, simbolo di libertà e pace, e innalzando la bandiera di san Biagio sulla Colonna di Orlando. Il 3 febbraio, turisti e fedeli invadono il centro in occasione della processione con le reliquie del santo, al termine della quale i resti sacri vengono riportati in Cattedrale.

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Dai Bizantini agli Ottomani

Un’usanza molto antica

Dubrovnik fu fondata col nome di Ragusium nel VII secolo dagli abitanti della vicina Epidaurum. In seguito entrò sotto la protezione dell’impero bizantino, poi, nel 1204, passò sotto il dominio della Repubblica di Venezia e, nel 1358, si sottomise all’Ungheria. Iniziò a prosperare grazie all’attitudine mercantile e divenne un centro commerciale e culturale di primaria importanza nell’Adriatico. Con il dominio ottomano, iniziò un lento declino, accelerato dal devastante terremoto del 6 aprile 1667, che rase al suolo gran parte della città. Tiziano Zaccaria

Uomo Selvaggio, Leone e Grifone sono le figure simboliche di tre antiche associazioni che nel Medioevo svolgevano funzioni politiche e di sorveglianza militare nella Kleinbasel, e ancora oggi richiamano all’appartenenza della comunità di quartiere. Testimonianze di tali simboli e dei loro folcloristici cortei si rintracciano in documenti comunali a partire dal 1304. In alcune cronache del Cinquecento, il corteo dei tre personaggi – indicati come Vogel Gryff, Wild Maa e Leu – veniva già indicato come un’usanza antica. Oggi il rito prosegue all’ora di pranzo con il banchetto dei membri delle tre associazioni nella Gryffemähli, la sala da ballo della Fiera di Basilea. Ogni società conta circa 150 uomini ed è guidata da un maestro e sei superiori. Nel pomeriggio e in serata i tre personaggi danzano per le strade della Kleinbasel accompagnati da tamburini, vessilliferi e volontari che raccolgono una colletta per i bisognosi. Non mancano discorsi su temi politici e spettacoli musicali. T. Z.

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n Grifone, un Uomo Selvaggio e un Leone sono le maschere protagoniste del Vogel Gryff, un rito medievale messo in scena annualmente a Basilea, in un giorno di gennaio, alternativamente il 13, 20 e 27; quest’anno sarà il 13. La celebrazione inizia nella tarda mattinata, quando le acque del Reno sono solcate da una grande chiatta con varie figure, fra cui due tamburini, due sbandieratori e due cannonieri che sparano a ripetizione colpi di mortaretto. Il personaggio principale è però l’Uomo Selvaggio, che indossa un costume fatto da rami di abete e danza rivolto verso la Kleinbasel, la «piccola Basilea», il quartiere a destra del Reno. A mezzogiorno, nei pressi del Mittlere Brücke, il Ponte intermedio, l’Uomo Selvaggio viene accolto dal Leone e dal Grifone. I tre personaggi danzano sul ponte al ritmo di un tamburo, dando le spalle alla Grossbasel, il quartiere della «grande Basilea», come a voler esprimere il proprio sdegno.

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AGENDA DEL MESE

Mostre FIRENZE AD USUM FRATRIS… MINIATURE NEI MANOSCRITTI LAURENZIANI DI SANTA CROCE (SECC. XI–XIII) Biblioteca Medicea Laurenziana fino al 5 gennaio

L’esposizione presenta una selezione tratta dai 734 codici della biblioteca del Convento francescano di Santa Croce, pervenuta in Biblioteca Laurenziana nel 1766 per decreto del granduca Pietro

Leopoldo. Vengono presentati 53 manoscritti fra i piú antichi, miniati fra l’XI e il XIII secolo nell’Italia centro-settentrionale. Il percorso espositivo si articola in sezioni che riflettono la disposizione dei libri nella biblioteca francescana almeno a partire dal Quattrocento. Si apre quindi con una ampia selezione di testi biblici miniati che include la monumentale Bibbia in 17 volumi donata da Enrico de’ Cerchi nel 1285, e prosegue con commenti alle Sacre Scritture dei Padri della Chiesa, ma anche preziosi esemplari di libri di diritto, che riflettono l’attività del tribunale dell’Inquisizione che aveva sede presso il Convento fino dalla metà del Duecento, passionari e vite dei Santi. info tel. 055 2937911; e-mail: b-mela.mostre@beniculturali.it; www.bmlonline.it

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a cura di Stefano Mammini

FERRARA ORLANDO FURIOSO 500 ANNI. COSA VEDEVA ARIOSTO QUANDO CHIUDEVA GLI OCCHI Palazzo dei Diamanti fino all’8 gennaio

Il 22 aprile 1516, in un’officina tipografica ferrarese, terminava la stampa dell’Orlando furioso, opera simbolo del Rinascimento italiano. Per celebrare il quinto centenario dell’evento, Palazzo dei Diamanti ospita una mostra d’arte che fa dialogare fra loro dipinti, sculture, arazzi, libri, manoscritti miniati, strumenti musicali, ceramiche invetriate, armi e rari manufatti. A orchestrare questo incanto visivo è un’idea semplice: restituire l’universo di immagini che popolavano la mente di Ludovico Ariosto mentre componeva il Furioso. Cosa vedeva, dunque, il poeta, chiudendo gli occhi, quando si accingeva a raccontare una battaglia, un duello di cavalieri o il compimento di un prodigioso incantesimo? Quali opere d’arte furono le muse del suo immaginario visivo? Un lungo lavoro è stato orientato a individuare i temi salienti del poema e a rintracciare, puntualmente, le fonti iconografiche che ne hanno ispirato la narrazione. I visitatori vengono cosí condotti in un appassionante

viaggio nell’universo ariostesco, tra immagini di battaglie e tornei, cavalieri e amori, desideri e magie. A guidarli sono i capolavori dei maggiori artisti del tempo, da Paolo Uccello ad Andrea Mantegna, da Leonardo da Vinci a Raffaello, da Michelangelo a Tiziano a Dosso Dossi: creazioni straordinarie che fanno rivivere il fantastico mondo dell’Orlando furioso e dei suoi paladini, offrendo al contempo un suggestivo spaccato dell’Italia delle corti in cui il libro fu concepito. info tel. 0532 244949; e-mail: diamanti@comune.fe.it; www. palazzodiamanti.it MANTOVA ALBRECHT DÜRER: INCISIONI E INFLUSSI Complesso museale di Palazzo Ducale, Castello di San Giorgio fino all’8 gennaio

Restaurate e adeguate agli standard museali

internazionali dopo il sisma del 2012, le sale del pianterreno del Castello di San Giorgio riaprono al pubblico ospitando una mostra dedicata ad Albrecht Dürer (1471-1528) e ai suoi rapporti con l’arte italiana, con un’attenzione particolare per le incisioni di Andrea Mantegna. «Quanto freddo avrò dopo tutto questo sole?» si chiese l’artista tedesco nel 1507 tornando in Germania dopo un viaggio in Italia. Era stato a Venezia due volte, nel 1494 e nel 1506 e, sebbene non ci siano testimonianze documentate di ulteriori soggiorni nella nostra penisola, appare evidente, nelle tavole dei Trionfi commissionate dall’imperatore Massimiliano I, che Dürer conosceva la serie di incisioni Il trionfo di Cesare di Mantegna. Cosí come è possibile immaginare che le numerose rappresentazioni dell’anatomia dei cavalli che realizzò dopo il secondo gennaio

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soggiorno italiano si ispirino ai grandi monumenti equestri di Venezia e Padova o agli studi di Leonardo per una scultura equestre a Milano. info tel. 0376 224832; e-mail: pal-mn@beniculturali.it; www.mantovaducale.beniculturali.it

Neoclassicismo e questa mostra intende presentarne gli episodi piú significativi. info tel. 071 9747198 o 06 68193064; e-mail: museoanticotesoro@gmail.com; e-mail: info@artifexarte.it: www.artifexarte.it

LORETO

FIRENZE

LA MADDALENA, TRA PECCATO E PENITENZA Museo-Antico Tesoro della Santa Casa di Loreto fino all’8 gennaio

L’ALLUVIONE E GLI UFFIZI: UN RACCONTO PER IMMAGINI Gallerie degli Uffizi fino all’8 gennaio

La rassegna è uno degli appuntamenti di maggior rilievo fra quelli dedicati al Giubileo della Misericordia, soprattutto dopo l’annuncio di papa Francesco dell’istituzione, proprio nell’anno giubilare, della festa della Maddalena. Prostrata ai piedi del Signore nell’atto di ungergli i piedi con

essenze preziose, oppure dolente e piangente abbracciata al legno della croce, infine lieta di recare l’annuncio della Resurrezione agli apostoli, la figura della Maddalena ha destato l’interesse dei maggiori artisti dal Medioevo al

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Cinquant’anni fa, nella notte fra il 3 e il 4 novembre 1966, l’acqua dell’Arno invase il centro storico di Firenze, per ritirarsi ventiquattro ore piú tardi, lasciando fango e devastazione. Per ricordare quel che l’evento rappresentò per le Gallerie degli Uffizi è stata realizzata questa mostra fotografica, basata sulle istantanee scattate dagli operatori all’epoca in servizio presso il museo. Una carrellata d’immagini che trasmettono energia e amore per il patrimonio, quanto professionale e istintiva capacità di cura per le sue sventure. Le fotografie, su pellicola 6 x 6 in bianco e nero, provengono dall’Archivio

delle Gallerie degli Uffizi. I negativi furono sviluppati in condizioni di emergenza nel laboratorio alluvionato, circostanza che emerge dalle loro imperfezioni. info www.uffizi.it

scopo è appunto quello di documentare come Gerusalemme, sacra alle tre grandi religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo e Islam), sia divenuta uno dei piú importanti poli artistici dell’epoca. In quei secoli, infatti, la città accolse una quantità di culture, religioni e lingue come mai se n’erano viste prima e, nonostante i molti momenti difficili vissuti a causa di guerre e lotte intestine, questo vero e proprio melting pot ispirò realizzazioni di grande bellezza e fascino. info http://metmuseum.org

NEW YORK GERUSALEMME 1000-1400: UN PARADISO PER OGNI POPOLO The Metropolitan Museum of Art fino all’8 gennaio

Intorno al fatidico anno Mille, Gerusalemme esercitò un richiamo irresistibile e si trasformò in un luogo simbolico per genti che professavano credi diversi. Questo straordinario fenomeno diede vita a uno dei momenti piú luminosi nella storia della Città Santa ed è il filo conduttore della rassegna allestita al Metropolitan. Lo

FIRENZE LA RIVINCITA DEL COLORE SULLA LINEA. DISEGNI VENETI DALL’ASHMOLEAN MUSEUM E DAGLI UFFIZI Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe fino al 15 gennaio

L’esposizione intende dimostrare come il concetto di disegno espresso dagli artisti veneti tra la fine Quattrocento e gli inizi del Settecento non sia affatto inferiore all’idea che di esso svilupparono i toscani, ma anzi ne rappresenti una via alternativa e altrettanto valida. La contrapposizione tra Colore dei veneziani e Disegno dei toscani si affermò teoricamente nel Cinquecento, soprattutto per opera di

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AGENDA DEL MESE Giorgio Vasari. Nella Vita di Tiziano, egli scrive che molti pittori «vineziani», come Giorgione, Palma, Pordenone e altri ancora «che non videro Roma né altre opere di tutta perfezione», dovettero nascondere «sotto la vaghezza de’ colori lo stento del non saper disegnare». La mostra è allora un’occasione per comprendere a pieno le ragioni del pregiudizio vasariano sul disegno veneto, inserendole nello sfaccettato impianto ideologico delle Vite. info www.uffizi.it LOVANIO (BELGIO) ALLA RICERCA DI UTOPIA M-Museum fino al 17 gennaio

Utopia, opera emblematica di Tommaso Moro (1478-1535), il piú influente testo mai edito nei Paesi Bassi, venne stampata a Lovanio nel 1516

dall’editore Dirk Martens. La città celebra la ricorrenza, riunendo nell’M–Museum un’ottantina di opere d’arte che mettono in luce l’influenza del libro all’epoca e la sua attualità. A Lovanio sono giunti capolavori di maestri fiamminghi, come Quentin Metsys e Jan Gossaert, e, internazionali, quali Albrecht Dürer e Hans Holbein, tra cui, per la prima volta in mostra nelle Fiandre, il celebre ritratto di Erasmo da Rotterdam di Quentin Metsys, eccezionalmente concesso in prestito dalla Regina Elisabetta II. La mostra è l’evento di punta di un piú vasto programma culturale cittadino «The Future is More» che si propone, proprio come fece allora l’opera di Moro, di allargare gli orizzonti culturali dei visitatori raccontando il sogno di un mondo ideale e

temi piú che mai attuali come la diversità, la dignità umana, la tolleranza e l’uguaglianza. info www.utopialeuven.be RANCATE (MENDRISIO, SVIZZERA) LEGNI PREZIOSI. SCULTURE, BUSTI, RELIQUIARI E TABERNACOLI DAL MEDIOEVO AL SETTECENTO Pinacoteca cantonale Giovanni Züst fino al 22 gennaio

prima sezione si concentrano rari esempi di scultura lignea medievale, dal XII secolo al tardo-gotico. info tel. +41 (0)91 8164791; www.ti.ch/zuest BONN IL RENO. LA BIOGRAFIA DI UN FIUME EUROPEO Bundeskunsthalle fino al 22 gennaio

Forte dell’allestimento firmato da Mario Botta, l’esposizione riunisce una cinquantina di opere di qualità altissima e di suggestione altrettanto notevole. Provenienti, con poche eccezioni, da musei, chiese, monasteri del territorio ticinese, questi autentici capolavori giungono in mostra dopo essere stati oggetto di una revisione e talvolta di restauri. Sono Madonne, Cristi, Compianti, busti, polittici scolpiti e persino un Presepe, naturalmente ligneo, testimonianze assolute di una tradizione artistica che raggiunse spesso vertici europei. In particolare, nella

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Il Reno è ancora oggi una delle piú trafficate vie d’acqua del mondo, nel segno di una tradizione millenaria che ha visto transitare sul fiume non soltanto carbone, metalli, materiali da costruzione e persone, ma anche beni di lusso, armi, idee, racconti e miti. Il suo corso è punteggiato da città, monasteri e cattedrali, frutto di vicende succedutesi per oltre duemila anni, che l’esposizione ripercorre e documenta: dall’età romana alla fioritura del gotico, dall’avvento del romanticismo renano alla nascita della Repubblica e poi dell’Unione Europea. Tutti eventi di cui le sponde del Reno sono state teatro e che compongono la «biografia» annunciata nel titolo della rassegna. info www.bundeskunsthalle.de PERUGIA FRANCESCO E LA CROCE DIPINTA Galleria Nazionale dell’Umbria fino al 29 gennaio

Nella Sala Podiani della Galleria Nazionale dell’Umbria si vuole documentare lo sviluppo della croce dipinta, a partire dagli anni Settanta del Duecento fino al primo ventennio del secolo successivo, in cui il motivo iconografico si legò sempre piú frequentemente alla figura di san Francesco d’Assisi, spesso rappresentato ai piedi della croce stessa, in adorazione del Cristo. La mostra presenta 9 capolavori, tutti di provenienza umbra, e segue il rapido sviluppo dell’iconografia della croce in Occidente a partire dal XIII secolo attraverso l’evoluzione del Christus Patiens (Cristo morto, col capo reclinato sulla spalla e gli occhi chiusi) dal modello di

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Giunta Pisano – riletto e affinato da Cimabue – a quello giottesco. Non manca una tardiva, sebbene iconograficamente e artisticamente assai significativa, interpretazione dell’antico archetipo del Christus Triumphans (Cristo vivo, con gli occhi aperti a significare il trionfo sulla morte), realizzato in ambito spoletino dal Maestro di Cesi. info www.artiumbria. beniculturali.it CREMONA JANELLO TORRIANI, GENIO DEL RINASCIMENTO Museo del Violino fino al 29 gennaio

Il nome di Janello Torriani è quasi sconosciuto, anche se in vita era spesso affiancato a quello di Archimede. Seppe affascinare i due piú potenti sovrani del suo tempo, Carlo V e suo figlio Filippo II, che lo vollero al loro fianco, considerandolo un genio come per noi oggi è Leonardo da Vinci. A differenza del quale, Torriani non sapeva dipingere, era uomo rozzo e tutt’altro che

nobile, eppure, con le sue grosse mani da fabbro, creò meraviglie che tutta l’Europa ambiva: meccanismi sofisticatissimi, gestiti da combinazioni meccaniche elaborate che a noi oggi sono garantite dalla tecnologia piú avanzata. Dalla sua mente e dalle sue mani uscivano orologi perfetti, nelle loro decine di funzioni, e bellissimi. Automi meravigliosi, che suscitavano ammirazione e stupore. Raggiunse una fama tale da partecipare alla riforma gregoriana del calendario: nessuno come lui, infatti, conosceva la perfezione del tempo. info www.mostratorriani.it SENIGALLIA MARIA MATER MISERICORDIAE Palazzo del Duca fino al 29 gennaio

La rassegna, il cui percorso espositivo attraversa, dal Medioevo al Settecento, l’immagine della Vergine, si apre in un momento delicato per le Marche, ferite dagli eventi sismici recenti e odierni, e proprio per questo vuole essere un messaggio di speranza. Particolarmente emblematica appare la presenza della Madonna della Misericordia di Girolamo di Giovanni, eseguita nel 1463, e scelta per rappresentare la mostra. Questo capolavoro, le cui affinità formali evocano il nome di Piero della Francesca, è conservata a Camerino, città che ha subíto considerevoli danni al proprio patrimonio storicoartistico. Sono esposte, inoltre, opere dei maggiori artisti

italiani, prima fra tutte la Vergine delle Rocce di Leonardo, nonché dipinti di Perugino, Rubens, Carlo Crivelli, Lorenzo Monaco. info www.senigalliaturismo.it BASSANO DEL GRAPPA IL MAGNIFICO GUERRIERO. BASSANO A BASSANO Civici Musei fino al 31 gennaio

Il Magnifico Guerriero di Jacopo Bassano si offre all’ammirazione del pubblico grazie al comodato gratuito accordato dal suo possessore ai Civici Musei bassanesi. Il dipinto ritrae un affascinante nobiluomo dalla fulva, curatissima barba. Non un giovane ma un uomo maturo, certo aduso al comando, ma, soprattutto, a una vita raffinata lontano dai campi di battaglia. Indossa una preziosa corazza alla moda dell’epoca, che lo costringe, ma che non riesce a ingabbiarne la grazia e la flessibilità. Le lunghe dita, curate e perfette, non sembrano le piú adatte a menar fendenti, cosí come il suo spadino di ferro e oro

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AGENDA DEL MESE le principali opere giunte sino a noi della sua preziosa raccolta. Innanzitutto, gli smalti di Limoges, fra i quali spiccano il Cofano di Palazzo Madama utilizzato dal presule come baule da viaggio per gli arredi liturgici, le oreficerie e i documenti che portava con sé durante gli spostamenti; un prezioso cofanetto proveniente dal Museo Leone di Vercelli; e tre dei dodici medaglioni conservati al Musée du Louvre provenienti da un cofano di Guala Bicchieri e raffiguranti animali, creature fantastiche e scene di combattimento. info www.palazzomadamatorino.it PARIGI sembra piú da parata che da battaglia. Secondo Vittoria Romani dell’Università di Padova, studiosa alla quale va il merito di avere ricondotto a Jacopo Bassano questo autentico capolavoro già attributo a Veronese e a Pordenone, il ritratto è databile agli anni immediatamente seguenti il 1550, ovvero al momento piú altamente manierista del maestro. info tel. 0424 519.901-904; e-mail: info@museibassano.it; www.museibassano.it TORINO LO SCRIGNO DEL CARDINALE Palazzo Madama, fino al 6 febbraio

A novecento anni dalla riconferma della Magna Charta, siglata a Bristol l’11 novembre 1216 grazie all’iniziativa del cardinale Guala Bicchieri, Palazzo Madama celebra il prelato vercellese, figura chiave dello scacchiere diplomatico europeo nel primo Duecento, nonché appassionato collezionista di arte gotica. Il percorso espositivo illustra

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L’ETÀ DEI MEROVINGI Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 13 febbraio

quelli franchi, che in parte si rifacevano all’impero romano e che però subirono le influenze determinanti delle culture dell’area germanica. Parallelamente, la diffusione del cristianesimo fece emergere nuove credenze, come il culto delle reliquie, pur senza cancellare del tutto le tradizioni pagane, che furono in parte «cristianizzate». Andò cosí definendosi un universo nuovo e originale, di cui la produzione artistica merovingia è specchio eloquente. info www.musee-moyenage.fr ROMA CAPOLAVORI DELL’ANTICA PORCELLANA CINESE DAL MUSEO DI SHANGHAI. X-XIX SECOLO D.C Museo Nazionale di Palazzo Venezia fino al 13 febbraio

Forte di oltre centocinquanta opere – che comprendono sculture, manoscritti miniati, oreficerie, monete, tessuti e documenti d’archivio – la mostra ripercorre gli eventi che maggiormente segnarono i trecento anni che intercorrono tra la battaglia dei Campi Catalaunici (451) e la fine del regno dei sovrani merovingi, ingloriosamente ribattezzati «fannulloni» (751). Fu un’epoca in cui videro la luce numerosi reami, fra cui

(960-1368), passando per quelle della dinastia Ming (1368-1644) delle fornaci di Jingdezhen che produssero in particolare per la corte imperiale, fino ad arrivare alle piú recenti di epoca Qing (1644-1911), che rappresentano il momento del massimo splendore e della piena maturità. info www. capolavoriporcellanacinese.it WASHINGTON L’ARTE DEL CORANO: TESORI DAL MUSEO DI ARTI TURCHE E ISLAMICHE Smithsonian’s Freer Gallery of Art and Arthur M. Sackler Gallery fino al 20 febbraio

Grazie ai prestiti concessi dal Museo di Arti turche e islamiche, le gallerie della Smithsonian Institution hanno potuto riunire oltre 60 preziose edizioni manoscritte del Corano, realizzate in laboratori della regione araba, della Turchia, dell’Iran e dell’Afghanistan. Celebrati per le loro magnifiche calligrafie, questi volumi abbracciano un orizzonte cronologico di piú di mille anni – si va da un esemplare prodotto a Damasco nell’VIII a un Corano trascritto nel XVII secolo a Istanbul – e rappresentano un

Le sale quattrocentesche di Palazzo Venezia espongono, per la prima volta in Italia, le ceramiche cinesi della collezione del Museo di Shanghai, una delle istituzioni museali piú importanti della Cina. La mostra è l’occasione per ammirare una settantina di preziose porcellane, riferibili a diverse epoche: dalla grande varietà e prosperità delle pregiate ceramiche prodotte durante le dinastie Song e Yuan gennaio

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corpus di testimonianze essenziali per conoscere e apprezzare l’antica arte libraria. La mostra permette anche di osservare il processo che fece delle rivelazioni di Maometto un patrimonio non piú tramandato oralmente, ma affidato alla parola scritta, corredata da miniature e confezionata in preziose rilegature. info www.asia.si.edu ROMA DALL’ANTICA ALLA NUOVA VIA DELLA SETA Palazzo del Quirinale fino al 26 febbraio

bibliotecarie e museali europee e italiane, affiancati da una ventina di opere moderne provenienti dalla Cina e realizzate da artisti cinesi contemporanei. Gli oggetti testimoniano la varietà e la ricchezza degli scambi, l’abilità degli artigiani nella produzione delle sete, delle ceramiche, delle pietre e dei metalli preziosi e la perizia con cui i cartografi dell’antichità hanno rappresentato il mondo a loro noto, integrando le nuove conoscenze geografiche in un quadro sempre piú ampio e complesso. info www.palazzo.quirinale.it

aveva casa. Di tutto questo si dà conto dipanando storie diversissime, che abbracciano oltre quattromila anni di profumi, anche attraverso i loro contenitori: da quelli prodotti nelle regioni del Mediterraneo orientale e risalenti al XX secolo a.C., ai preziosissimi in vetro o ceramica, dell’età greca e romana. E poi ancora libri, antichi formulari e farmacopee, poster e oggetti Liberty, ai quali fanno da supporto didattico anche strumenti multimediali ed esperienze sensoriali. info tel. 0425 668523 FIRENZE GIOVANNI DAL PONTE (1385-1437/38). PROTAGONISTA DELL’UMANESIMO TARDO GOTICO FIORENTINO Galleria dell’Accademia fino al 12 marzo

Il progetto espositivo abbraccia nella sua complessità, ricchezza e spessore cronologico la storia dei rapporti tra l’Oriente e l’Europa, e in particolare con l’Italia. Basti pensare ai viaggi in Cina di Marco Polo e dei gesuiti Matteo Ricci e Martino Martini, il cui ricordo è ancora vivo tra i Cinesi di oggi. L’esposizione propone 80 capolavori provenienti da istituzioni archivistiche,

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FRATTA POLESINE (ROVIGO) STORIA DEL PROFUMO, PROFUMO DELLA STORIA Museo Archeologico Nazionale fino al 26 febbraio

Il profumo è stato ed è, strumento di seduzione, medium per subliminali messaggi, fragranza in grado di avvicinare alla divinità, ma anche modo per occultare l’odore di corpi mai lavati e di ambienti dove l’igiene non

Forte di una cinquantina di opere, la mostra è la prima rassegna monografica dedicata a Giovanni dal Ponte (1385-1437/38) e vuole favorire una classificazione critica piú adeguata di questa forte personalità artistica del primo Quattrocento. La formazione artistica del pittore – nato Giovanni di Marco e ricordato come Giovanni dal Ponte nelle Vite del Vasari per il fatto di essere abitante e aver avuto bottega a Firenze

nella parrocchia di S. Stefano al Ponte – si svolse probabilmente in una bottega di tradizione trecentesca, anche se un’influenza fondamentale la esercitò ben presto Gherardo Starnina, che – al suo ritorno dalla Spagna nei primissimi anni del Quattrocento – introdusse a Firenze un’interpretazione esuberante e profana della pittura tardo-gotica, risultata decisiva per Giovanni e per la formazione del suo stile. info www.giovannidalponte.it SAINT-DIZIER (FRANCIA) AUSTRASIA, IL REGNO MEROVINGIO DIMENTICATO Espace Camille Claudel fino al 26 marzo

La dinastia merovingia visse il suo apogeo fra il VI e l’VIII secolo, avendo come teatro delle proprie gesta l’Austrasia, regione dell’antica Francia ora protagonista della mostra di Saint-Dizier. Il progetto espositivo porta all’attenzione del pubblico il caso di un’identità che prese forma da una significativa diversità culturale e, nel segno di questa scelta, invita a scoprire, soprattutto grazie ai reperti archeologici, la singolarità e la ricchezza che caratterizzarono la vita quotidiana e l’organizzazione del regno merovingio. Fra gli altri, sono stati riuniti per l’occasione il corredo della tomba del piccolo principe di Colonia, l’anello del vescovo Arnolfo di Metz e i gioielli della signora di Grez-Doiceau. info www.austrasie-expo.fr BERLINO L’EREDITÀ DEGLI ANTICHI SOVRANI. CTESIFONTE E LE FONTI PERSIANE DELL’ARTE ISLAMICA Pergamonmuseum fino al 2 aprile

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AGENDA DEL MESE APPUNTAMENTI • Medioevo in libreria, XV Edizione: «Scienza e innovazione nel Medioevo» Milano – Civico Museo Archeologico di Milano, Sala Conferenze

fino all’8 aprile 2016 info tel. 02 45329840; e-mail: info@ italiamedievale.org; www.italiamedievale.org; http://medioevoinlibreria.blogspot.it

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orna «Medioevo in Libreria», con l’ormai consolidata formula, che prevede visite guidate al mattino, proiezioni video e conferenze al pomeriggio. Questa XV edizione è dedicata al tema «Scienza e innovazione nel Medioevo», con l’intento di smentire i luoghi comuni che mostrano un Medioevo immobile, buio, barbaro. Le visite guidate hanno come mete le meraviglie medievali di Milano, sviluppando un percorso volto a riscoprire il rapporto che i Milanesi hanno con il loro passato e le sue testimonianze, selezionando e trattando singolarmente luoghi ricchi di suggestione, arte e cultura. La durata prevista per ogni visita varia da un massimo di circa due ore a un minimo di 45 minuti circa. Tutti gli incontri pomeridiani hanno luogo, con inizio alle ore 15,30, presso la Sala Conferenze del Civico Museo Archeologico di Milano (ingresso da via Nirone, 7), con la proiezione del filmato Medioevo Movie-Viaggio nel Medioevo, a cui fanno seguito le conferenze. Qui di seguito, l’elenco dei prossimi appuntamenti: ✓ 14 gennaio. Ore 11,00: visita guidata alla basilica di S. Vincenzo in Prato, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Flavio Crippa, storico e archeologo industriale: Il torcitoio circolare da seta: inizio dell’industrializzazione in Occidente. ✓ 11 febbraio. Ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Antonio Abate, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Laura Malinverni, scrittrice e medievista: Nuova medicina per la donna nel Medioevo: Trotula, «sanatrix» e quasi magistra. ✓ 11 marzo. Ore 11,00: visita guidata alla basilica di S. Maria della Passione, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Riccardo Rao. Università degli Studi di Bergamo: Un mondo nuovo: le innovazioni nell’agricoltura medievale. ✓ 8 aprile. Ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Maria Bianca, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Francesca Roversi Monaco, Università degli Studi di Bologna: Sperimentazioni del potere nell’Italia padana: il comune come laboratorio politico.

Al pari della religione, anche l’arte islamica affonda le sue radici nelle culture del Vicino Oriente antico ed è da questo presupposto che nasce il progetto espositivo incentrato su Ctesifonte (i cui resti si trovano nell’odierno Iraq, a sud di Baghdad) e che analizza l’eredità persiana recepita dall’Islam. Dominata dalle monumentali volte del palazzo reale – il Taq-i Kisra (Arco di Cosroe) –, la città è l’emblema della grandezza e del declino dell’impero sasanide, che fu capace di rivaleggiare a lungo con Roma e Bisanzio. Nel VII secolo, la conquista araba rivoluzionò gli equilibri di potere e si produsse anche una trasformazione sul piano culturale. Ma, come spiega la mostra, le manifestazioni esistenti non scomparvero e sopravvissero nelle nuove espressioni artistiche. info www.smb.museum

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MONTEFALCO (PERUGIA) ANTONIAZZO ROMANO E MONTEFALCO Complesso museale di S. Francesco fino al 7 maggio

Il progetto espositivo mette a confronto, per la prima volta, due opere di Antoniazzo, Romano (nome con il quale è meglio noto Antonio di Benedetto Aquili, nato fra il 1435 e il 1440 da una famiglia di pittori e morto dopo il 1508), simili ma diverse: una custodita a Montefalco (San Vincenzo da Saragozza, Santa Illuminata, San Nicola da Tolentino), l’altra nella Pinacoteca della basilica di S. Paolo Fuori le Mura (Madonna col Bambino, tra i Santi Paolo, Benedetta, Giustina e Pietro), che permettono di comprendere meglio il percorso artistico e la versatilità di questo grande maestro. Le due tavole sono accomunate dalla provenienza

romana delle chiese d’origine (rispettivamente, S. Maria del Popolo e S. Paolo fuori le Mura), dalla forma quadrangolare della pala di gusto rinascimentale, che abbandona quella del trittico a scomparti, e dall’utilizzo del medesimo cartone preparatorio. info www.sistemamuseo.it

PARIGI CHE C’È DI NUOVO NEL MEDIOEVO? Cité des sciences et de l’industrie fino al 6 agosto

In Francia, la pratica dell’archeologia preventiva è gestita dall’INRAP (Institut national de recherches archéologiques preventives), che è fra gli ideatori di questo gennaio

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nuovo progetto espositivo e grazie alle cui ricerche è stato possibile riunire i materiali presentati. Si tratta di un repertorio in molti casi inedito, che permette di inserire nel racconto dei mille anni del Medioevo molte novità importanti, accomunate da un dato ormai inconfutabile: quei dieci secoli furono ricchi di storia, ma anche di innovazioni e invenzioni e nessuno piú, ormai, si lascerebbe andare a definirli «bui». La descrizione di questa età di Mezzo (almeno in parte) inaspettata si sviluppa in due grandi sezioni: nella prima, vengono messi a punto i riferimenti cronologici essenziali, corredati da alcuni manufatti particolarmente rappresentativi del periodo; nella seconda, si passa invece ai materiali scaturiti dagli scavi condotti dall’INRAP. info www.cite-sciences.fr

fino all’8 gennaio, in Sala Alessi si potrà ammirare uno dei massimi capolavori del Rinascimento, la Madonna della Misericordia di Piero della Francesca, pala centrale dell’omonimo polittico conservato al Museo Civico di Sansepolcro, città natale del Maestro toscano. info www.comune.milano.it AOSTA FIERA DI SANT’ORSO Centro storico 30-31 gennaio

ESPOSIZIONE STRAORDINARIA DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI PIERO DELLA FRANCESCA Palazzo Marino, Sala Alessi fino all’8 gennaio

Anche quest’anno il Comune di Milano rinnova il tradizionale appuntamento natalizio con la grande arte a Palazzo Marino:

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FIRENZE PROFILI DI ARTISTI NEI MONUMENTI DELL’OPERA DI SANTA MARIA DEL FIORE (SECONDO CICLO) Centro Arte e Cultura fino al 14 febbraio

Appuntamenti MILANO

lavorazione della pietra ollare, del ferro battuto e del cuoio tessitura del drap (stoffa in lana lavorata su antichi telai di legno), merletti, vimini, oggetti per la casa, scale in legno, botti… La festa popolare culmina nella «Veillà», la veglia nella notte fra il 30 e 31 gennaio, che vede le vie del centro cittadino illuminate e animate fino all’alba. info www.regione.vda.it, www.lovevda.it

Ogni anno, il 30 e 31 gennaio, artisti e artigiani valdostani rinnovano questo storico appuntamento, giunto alla sua 1017a edizione, ed espongono i frutti del proprio lavoro lungo le vie del centro di Aosta. Nel Medioevo la fiera si svolgeva nell’area circostante la collegiata di S. Orso. Racconti leggendari narrano che tutto ha avuto inizio proprio di fronte la chiesa dove il santo sarebbe stato solito distribuire ai poveri indumenti e «sabot», tipiche calzature in legno ancora oggi presentate alla fiera. Ora è tutto il centro cittadino a essere coinvolto nella manifestazione, all’interno e a fianco della cinta muraria romana. In fiera sono presenti tutte le attività tradizionali: scultura e intaglio su legno,

Ai monumenti del Duomo di Firenze lavorarono i maggiori artisti italiani del Medioevo e del Rinascimento, ai quali l’Opera di Santa Maria del Fiore dedica un ciclo di incontri a cura di Francesco Gurrieri e Bruno Santi. Questi i prossimi appuntamenti: 10 gennaio, ore 17,00 Donatello (1386-1466) (Francesco Caglioti); 17 gennaio, ore 17,00 Paolo Uccello (1397-1475) (Annamaria Bernacchioni); 24 gennaio, ore 17,00 Luca della Robbia (1400-1482) (Giancarlo Gentilini); 31 gennaio, ore 17,00 Baccio Bandinelli (1493-1560) (Timothy Verdon); 7 febbraio, ore 17,00 Giorgio Vasari (1511-1574) Alessandro Cecchi; 14 febbraio, ore 17,00 Federico Zuccari (1542-1609) (Antonio Pinelli). Le conferenze si tengono presso il Centro Arte e Cultura (piazza San Giovanni 7); L’ingresso è gratuito, senza prenotazione, fino a

esaurimento posti. info tel. 055 2302855; e-mail: opera@operaduomo.firenze.it; www.operaduomo.firenze.it BASSANO DEL GRAPPA MONACI. DAL TARDOANTICO AI CAROLINGI XIX Ciclo di conferenze del Centro Studi Medievali «Ponzio di Cluny» Istituto Scalabrini fino al 25 marzo

Gli incontri intendono indagare le origini del monachesimo, per comprendere la nascita e le prime fasi di vita di un fenomeno millenario, oggi in crisi, ma forte e vitale nei secoli centrali della nostra storia e ben presente oggi grazie a una fitta rete di studi. Questi i prossimi appuntamenti: 14 gennaio, ore 17,30 Le origini dell’architettura cristiana in Italia (Simone Caldano); 28 gennaio, ore 17,30 Il monachesimo femminile: origini, sviluppo e spazi di culto (S. Ferrari); 11 febbraio, ore 17,30 Monaci e potere politico: il monachesimo tra Longobardi e Franchi (Elena Percivaldi); 25 febbraio, ore 17,30 Monasteri e territorio: l’esempio della Novalesa (Marco Ferrero); 11 marzo, ore 17,30 Scrivere nei monasteri: scriptoria e circolazione libraria nell’Europa carolingia (A. Puglia); 25 marzo, ore 17,30 Il monachesimo in epoca carolingia: la riforma di Benedetto d’Aniane (Giancarlo Andenna). info tel. 0444 1801049; e-mail: info@ponziodicluny.it, segreteria@ponziodicluny.it; www.ponziodicluny.it

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personaggi san pietro martire

Un inquisitore in Lombardia di Roberto Roveda e Francesca Saporiti

Il 6 aprile del 1252, in una zona boscosa sulla strada che va da Como a Milano, il frate domenicano Pietro da Verona, incaricato dal papa di «estirpare gli eretici», cade vittima di un agguato: un sicario lo uccide, conficcandogli una roncola nel cranio. In breve tempo, papa Innocenzo IV plasma la figura del defunto e lo trasforma in san Pietro Martire, alfiere della lotta all’eresia

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ietro Rosini nacque a Verona, da una famiglia di modeste condizioni, intorno al 1205. Piú che la situazione economica, fu la fede dei suoi parenti a influenzarne l’infanzia: egli venne alla luce, infatti, in un ambiente eretico da genitori catari. Tuttavia, l’agiografia di Pietro da Verona tiene a sottolineare che i suoi natali eterodossi non poterono scalfire in lui il dono della vera fede, neppure durante la fanciullezza, tanto che, già a soli sette-otto anni, era in grado di tenere testa a interlocutori molto piú anziani di lui nelle dispute teologiche in cui era coinvolto. In particolare le cronache narrano che un giorno, tornato da scuola, il ragazzino dovette fronteggiare lo zio, che lo provocò, chiedendogli cos’avesse imparato quel giorno. Diligente Pietro iniziò a recitare il Credo, ma presto lo zio lo interruppe per correggerlo: secondo la dottrina catara, infatti, era il Diavolo, e non Dio, il creatore di tutte le cose visibi-

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Polittico di san Pietro Martire tempera e oro su tavola della Bottega di Agnolo e Bartolomeo degli Erri. XV sec. Parma, Galleria Nazionale. La tavola centrale raffigura il santo secondo l’iconografia tradizionale, la testa trapassata da una roncola mentre regge in mano un libro e la palma del martirio, quella immediatamente sottostante – di dimensioni maggiori delle altre – lo rappresenta in conversazione con il Crocifisso. Tutti gli altri pannelli illustrano episodi della vita del santo con una narrazione suddivisa in tre registri, che procede da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso. Il polittico era in origine dotato di una carpenteria lignea, oggi perduta, che incorniciava e raccordava gli elementi dell’insieme.

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personaggi san pietro martire li. Il piccolo Pietro non si lasciò scoraggiare. Né lo sguardo minaccioso, né le argomentazioni dello zio lo spinsero a rinnegare i fondamenti della vera fede, tanto che l’uomo, indignato, lo trascinò dal padre, dicendosi certo che un giorno il giovane sarebbe stato la rovina del movimento cataro. Nonostante questa profezia, a Pietro fu concesso di recarsi a studiare all’Università di Bologna, dove ben presto indossò il saio bianco e nero dei Frati Predicatori e fece voto di «morire per la fede in Cristo». Come vedremo, né i timori dello zio, né le speranze del giovane frate andarono delusi.

Sulle tracce dell’eresia

I Frati Predicatori erano chiamati piú spesso Domenicani e amavano giocare sull’origine del proprio nome, definendosi e rappresentandosi come Domini canes, ossia i «cani» o i «segugi del Signore», capaci di stanare le vulpecolas: le volpi dell’eresia che, rifacendosi all’immaginario evangelico, erano la rovina della vigna del Signore (vedi, in questo numero, il Dossier alle pp. 79-93). Fin da giovane, frate Pietro da Verona dovette dimostrare grande fiuto e capacità nel seguire le tracce e contrastare il diffondersi delle dottrine eterodosse. Ricevette incarichi sempre piú prestigiosi, mentre le sue abilità di predicatore lo portavano in giro per l’Italia: a Milano, Piacenza, Firenze, Roma, Venezia, Rimini. Dove ebbe modo di fermarsi piú a lungo, o trovò terreno piú fertile, fondò società di fedeli o stimolò il loro costituirsi. Tali società erano spesso intitolate alla Beata Vergine e i loro membri erano laici che si impegnavano, come veri soldati di Cristo, alla difesa della fede dal pericolo dell’eresia. Cosí facendo, Pietro chiamava a raccolta e serrava le fila dei fedeli che rappresentavano il robusto braccio laico della lotta contro gli eretici.

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Milano, basilica di S. Eustorgio, Cappella Portinari. Il miracolo della falsa Madonna, particolare dell’affresco delle Storie di san Pietro Martire di Vincenzo Foppa. 1464.

A sinistra Milano, basilica di S. Eustorgio, Cappella Portinari. Il miracolo di Narni, particolare dell’affresco delle Storie di san Pietro Martire di Vincenzo Foppa. 1464.

Nei lunghi anni trascorsi in viaggio lungo la Penisola, Milano rappresentò un punto fermo per il frate veronese. La città, infatti, fu teatro di alcune delle vicende piú importanti della sua vita e, come vedremo, anche di quelle posteriori alla sua morte. Frate Pietro arrivò per la prima volta nel capoluogo lombardo nel 1232 come inviato pontificio, per volere di papa Gregorio IX, con la missione di contrastare il diffondersi della dottrina catara, già largamente radicata in città e nei territori circostanti, tanto da meritare a Milano la fama di fovea haereticorum, ossia cloaca di eretici.

Il primo inquisitore

Il predicatore veneto fu tra i primi a ricoprire un incarico di inquisitore, prima ancora della nascita nel capoluogo lombardo dell’Ufficio inquisitoriale vero e proprio, come spiega Grado Giovanni Merlo, nel suo libro Inquisitori e Inquisizione del Medioevo:

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«Prima dell’Inquisizione esistono inquisitori delegati dal papato alla repressione giudiziaria dell’eretica pravità: il cui operare via via sarà definito sul piano giuridico, organizzativo e burocratico» Non sappiamo in che modo frate Pietro da Verona svolgesse il suo incarico al servizio del pontefice per contrastare il pericolo dell’eresia. Tuttavia, è certo che in quegli anni Milano, e il suo contado, diventarono un luogo non sicuro per gli eretici che cercarono spesso rifugio in zone meno controllate dalle autorità laiche ed ecclesiastiche. Solo cosí si poteva sfuggire alla morsa della repressione organizzata dalle istituzioni comunali in unione con l’Ordine dei Predicatori (che avevano quartier generale presso la chiesa di S. Eustorgio). Dello zelo nella lotta all’eresia del Comune e del Podestà dell’epoca, Oldrado da Tresseno, rimane ancora oggi traccia nell’epigrafe alla base dell’edicola a lui dedica-

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personaggi san pietro martire A tutto campo in difesa della Chiesa

Sinibaldo Fieschi dei conti di Lavagna (1195-1254) salí al soglio pontificio nel 1243, con il nome di Innocenzo IV, e si impegnò nell’intero corso del suo papato per rafforzare la Chiesa nello scontro con i suoi avversari politici e religiosi. I primi anni di pontificato, in particolare, furono caratterizzati dallo scontro con l’imperatore Federico II, che scomunicò nel 1245 e con il quale fu in conflitto fino alla morte dello svevo. Non trascurò il fronte orientale, indicendo nel 1249 una nuova crociata per la riconquista dei Luoghi Santi. A questa spedizione, che non ottenne alcun risultato, non parteciparono figure di spicco, se si eccettua il sovrano francese Luigi IX, detto il Santo. La politica «estera» non gli fece però perdere di vista il fronte interno: per contrastare la dissidenza e l’eresia, Innocenzo IV promulgò una serie di provvedimenti per rendere sempre piú efficace l’Ufficio inquisitorio, dando maggior potere agli Inquisitori da lui direttamente nominati e, tramite la bolla Ad extirpanda del 1252, avallando l’utilizzo di qualunque mezzo, compresa la tortura, per ottenere la confessione dei sospettati di eterodossia. Non è un caso, probabilmente, che la bolla segua di pochi mesi l’assassinio dell’inquisitore papale frate Pietro da Verona.

Ritratto di papa Innocenzo IV, al secolo Sinibaldo Fieschi dei Conti di Lavagna, olio su tela di Giuseppe Franchi. XVII sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

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ta nella Loggia dei Mercanti (nei pressi di piazza del Duomo a Milano) che, nel tesserne le lodi, cosí recita in conclusione: «Catharos ut debuit uxit», ossia «Bruciò, come doveva, i Catari». Le repressioni comunali ed ecclesiastiche degli anni Trenta del Duecento non bastarono a estirpare del tutto il movimento eretico milanese. Dopo alcuni anni di assenza dal capoluogo, frate Pietro fu nuovamente chiamato in città con un incarico ufficiale: papa Innocenzo IV nel 1251 lo nominò Inquisitore per la Lombardia, con responsabilità in particolare per i territori di Milano e Como. Il mandato era chiaro, condiviso con gli altri inquisitori che operavano nei territori della cristianità: abolire, purgare, estirpare e sterminare la piaga dell’eresia. Gli avversari di questi campio-

ni della vera fede venivano allora dipinti come mostri, veri e propri ministri del Diavolo. Un episodio chiarificatore in tal senso è raffigurato tra gli affreschi della Cappella Portinari in S. Eustorgio e narrato anche nelle vite dedicate a Pietro da Verona dopo la sua canonizzazione. I fedeli che si rechino, oggi come allora, in preghiera presso la cappella possono scorgere l’inquietante immagine di una Madonna con Bambino, entrambi con orrende corna demoniache. Com’era stata possibile una visione tanto orribile? Vuole la leggenda che frate Pietro da Verona avesse appreso che, nel contado milanese, una setta di catari si riuniva intorno alla figura di un negromante in grado di far apparire la Vergine Maria secondo il suo volere. L’inquisitore si presentò a una di queste riunioni e, dopo aver

atteso che l’eretico compisse il suo maleficio facendo apparire la falsa Madonna, estrasse da sotto la veste un ostensorio con un’ostia consacrata. Davanti alla potenza dell’eucarestia, la visione svelò la sua natura demoniaca: alla Vergine e al Bambino spuntarono corna e piedi caprini e l’edificio iniziò a tremare e franare con un terribile boato, nonché una gran puzza di zolfo.

Da cacciatore a preda

L’aspetto miracoloso della storia cela una realtà molto piú prosaica in cui gli eretici – catari, albigesi, cristiani dualisti, ecc. – vivevano emarginati e perseguitati, braccati dal potere degli inquisitori e dal braccio secolare del Comune. Sacche di resistenza si raccoglievano nelle campagne e nelle zone piú lontane dalla città, protette da pic-

Raniero Sacconi

Da eretico a inquisitore Non solo dopo la morte, ma già in vita, frate Pietro da Verona era riuscito a strappare dalle file degli eretici validi elementi per rafforzare la lotta all’eresia. Tra questi, Raniero Sacconi da Piacenza che, dopo aver vissuto per quasi vent’anni tra i buoni cristiani dualisti (volgarmente chiamati catari) scelse di seguire il futuro martire ed entrare nell’Ordine dei Frati Predicatori. Secondo alcune fonti scampò, per caso, all’attentato in cui fu ucciso il santo. Inoltre, insieme a Guidone da Sesto, fu l’inquisitore incaricato di istruire il processo contro gli organizzatori dell’agguato al frate veronese, suo maestro. Raniero Sacconi mantenne la carica di inquisitore in Lombardia fino al 1259, quando lasciò Milano, forse per il troppo zelo dimostrato. Fu autore di una Summa de Catharis et Leonistis seu pauperibus de Lugduno, esposizione degli errori delle varie sette catare e valdesi, strumento importante per conoscere e screditare le dottrine eterodosse. Qui sopra la bolla papale di Innocenzo IV contro gli Albigesi. 1254. Parigi, Centre Historique des Archives Nationales. In alto, a destra Milano, chiesa di S. Maurizio al Monastero

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Maggiore. Particolare della decorazione ad affresco di Bernardino Luini, raffigurante san Pietro Martire in abito domenicano, con gli attributi della roncola, del libro e della palma. 1522-1524.

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personaggi san pietro martire la cappella portinari

Quando un sepolcro diventa un’opera d’arte A pochi giorni dal terribile assassinio, le spoglie di frate Pietro da Verona vennero tumulate nei pressi del convento dei Frati Predicatori di Milano, nella basilica di S. Eustorgio, in un elegante sarcofago donato dall’abate di S. Simpliciano, che, in origine, aveva previsto di trascorrervi il suo riposo eterno. L’onore cosí ricevuto non fu reputato sufficiente dai confratelli, i quali, a seguito della beatificazione di Pietro Martire, si prodigarono affinché il sepolcro del santo fosse degno della crescente devozione di cui era sempre piú oggetto. Tra il 1336 e il 1339 lo scultore Giovanni di Balduccio lavorò all’arca marmorea destinata a ospitare definitivamente il corpo di san Pietro Martire, che vi fu traslato nel 1340, alla presenza di Giovanni e Luchino Visconti, signori di Milano, e delle piú alte cariche dell’Ordine e del clero milanese. La preziosa arca si ispira a quella realizzata da Giovanni Pisano per san Domenico, ma la supera in complessità arrivando a rappresentare non solo la vita e i miracoli del santo, ma il trionfo dell’intero Ordine dei Predicatori. Il nuovo sepolcro fu collocato nella quinta

campata della navata sinistra della basilica di S. Eustorgio, proprio di fronte all’ingresso principale che all’epoca si apriva nella navata di destra. Circa un secolo dopo avvenne un nuovo cambiamento: nel 1462 Pigello Portinari, direttore della filiale milanese del Banco Mediceo (vedi anche «Medioevo» n. 180, gennaio 2012), commissionò la realizzazione di una sontuosa cappella come sepoltura privata e reliquario per la testa di san Pietro Martire. Realizzata in stile rinascimentale, la cappella fu affrescata da Vincenzo Foppa, il quale, dipingendo scene della vita e del martirio del santo frate Predicatore, diede vita ad alcune immagini che rimangono ancora oggi nell’immaginario comune. Pensiamo, per esempio, al ritratto dell’inquisitore che, prima di esalare l’ultimo respiro, scrive con il dito intinto nel proprio sangue le prime parole del Credo, testimoniando cosí la fede per cui era disposto a morire. Nel corso del XVIII secolo il sepolcro del santo fu trasferito all’interno di questa meravigliosa cappella (di recente restaurata), dove è possibile ammirarlo ancora oggi.

A sinistra Pigello Portinari venera san Pietro Martire, tempera e oro su tavola attribuita a Benedetto Bembo. 1460 circa. Milano, S. Eustorgio, Cappella Portinari. Nella pagina accanto Milano, S. Eustorgio, Cappella Portinari. Una veduta dell’Arca di san Pietro Martire, opera di Giovanni di Balduccio. 1336-1339.

coli signori locali dissidenti. Lo zelo inquisitorio di Frate Pietro da Verona riscosse tanto l’approvazione papale, quanto scatenò la furia dei suoi nemici, alcuni dei quali, messi alle strette dalla sua azione investigativa e persecutoria, ordirono un piano per fermare definitivamente l’inquisitore. Conosciamo i membri della congiura dagli atti dei processi per l’assassinio di Pietro che si svolsero nella seconda metà del Duecento. A essere incriminato come mandante fu Stefano Confalonieri, di famiglia nobiliare, piú volte condannato per eresia, ma vissuto tra varie ritrattazioni per oltre

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quarant’anni dopo la morte di Pietro da Verona, fino alla condanna definitiva, nel 1295. Al complotto parteciparono anche Giacomo de Laclusa, cittadino milanese, incarcerato e condannato nel 1253, e i due fratelli Enrico e Roberto, detto Patta, di Giussano. Quest’ultimo, scomunicato in contumacia e catturato dopo un anno di latitanza, fu costretto all’abiura. Questi quattro membri della nobiltà milanese, cittadina e rurale, appartenevano alla fazione filoimperiale e quindi antipapale ed è quindi probabile che la loro eterodossia fosse politica piú che religiosa, ma non per questo meno perseguibile dagli inquisitori lombardi.

Le trame dei congiurati

Non sappiamo se i cospiratori si riunissero con discrezione in qualche palazzo milanese, né se scegliessero di trovarsi sotto la copertura di battute di caccia nei boschi brianzoli o se, in alternativa, si rigennaio

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Firenze, S. Maria Novella. Particolare dal ciclo di affreschi con le Storie di san Pietro Martire, di Andrea di Bonaiuto, raffigurante pellegrini e ammalati che pregano e invocano la guarigione presso il sepolcro del santo. 1365-1367.

fugiassero nel castello di Gattedo, di proprietà dei signori di Giussano e distrutto nel 1254, per ordine di Innocenzo IV. Sappiamo, però, che decisero di affidare la missione omicida a due sicari: Pietro da Balsamo, detto Carino – ed esecutore materiale dell’omicidio –, e Albertino Porro di Lentate.

Come agnello tra i lupi

Il 6 aprile 1252, alla vigilia della domenica in Albis (quella successiva alla Pasqua), frate Pietro da Verona, insieme al confratello Domenico, furono sorpresi da un sicario, nella contrada di Farga, presso Barlassina. I killer avrebbero dovuto essere due, ma, all’ultimo momento, Albertino Porro, colto da paura o rimorso, si era tirato indietro. Nascosto tra la boscaglia, l’assassino non ebbe difficoltà a pedinare a distanza di sicurezza i due frati, che elevavano i loro inni al Signore, né ad assalirli a una svolta poco frequentata della strada. Carino aveva portato a termine l’incarico nel modo piú cruento, colpendo Pietro da Verona al capo con una roncola, per poi finirlo, mentre questi mormorava le parole del Credo, con un coltello nel petto. Per la fretta di fuggire, non fu altrettanto scrupoloso nell’accoltellare frate Domenico, che lasciò ferito e sanguinante in mezzo alla strada, condannandolo a un’agonia di sei giorni prima della morte. Vuole la leggenda agiografica che per l’omicidio di frate Pietro il sicario avesse ricevuto 30 lire pavesi, un chiaro riferimento ai 30 denari per i quali Giuda tradí Cristo. Se Domenico di Guzmán (11701221), fondatore dell’Ordine dei Predicatori, aveva dovuto pazien-

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tare ben tredici anni prima di poter essere proclamato santo nel 1234, al confratello Pietro da Verona bastarono undici mesi, grazie a una bolla di Innocenzo IV del 24 marzo 1253, in cui si annunciava la notizia della santificazione a tutta la cristianità e si fissava la festività del martire il 29 aprile. È proprio Innocenzo a delineare in modo definitivo il nuovo profilo di san Pietro Martire, operando una vera e propria metamorfosi. È ancora Grado Giovanni Merlo a sintetizzare questa trasformazione: «Il carattere necessariamente violento della coercizione all’ortodossia di Frate Pietro, in quanto titolare dell’ufficio inquisitoriale per diretto mandato pontificio, passa dall’inquisitore all’eretico suo assassino. Frate Pietro diviene l’agnello vittima del lupo». Cosí l’inquisitore diventa martire e, con il sacrificio del suo sangue, rinnova l’impegno cristiano di difesa ed esaltazione della Chiesa cattolica, reiterando la professione di fede prima di morire. La santificazione fa di frate Pietro da Verona il campione della vera fede. Diventa inoltre punto di riferimento per il costituendo ufficio inquisitoriale e per la lotta all’eterodossia. La forza del sacrificio del frate predicatore emerge dalle fonti, prima ancora della sua santificazione. Tra gli effetti miracolosi del martirio del santo, la Chiesa tiene a sottolineare come, attraverso la sua morte, san Pietro avesse convertito molti eretici. Primo fra tutti, Carino da Balsamo, il suo assassino. Acciuffato nei pressi del luogo del delitto, il sicario era riuscito a fuggire, mentre veniva condotto nelle carceri milanesi in attesa del processo. Dopo alcune peripezie, l’uomo trovò rifugio nel convento dei Frati Predicatori di Forlí e lí si convertí e morí in odore di santità. Infatti, tra gli affreschi che ritraggono santi e beati domenicani nella Cappella Portinari di S. Eustor-

gio a Milano, appare anche una sua immagine, con tanto di aureola. Perfino tra le fila dei congiurati si verificarono inaspettate conversioni. Daniele di Giussano, della stessa famiglia nobiliare che avrebbe partecipato alla macchinazione contro frate Pietro da Verona, scelse di indossare l’abito dei Frati Predicatori poco dopo il delitto. Inoltre, proprio Daniele assunse l’incarico di inquisitore, svolgendo egregiamente tale ruolo, dato che conosceva bene la realtà eterodossa a cui era appartenuto e che doveva ora combattere.

Alle glorie degli altari

Miracoli e conversioni entrarono ben presto nel corpus di leggende che andarono a consolidare la fama di san Pietro Martire. Nessun dettaglio venne lasciato al caso, ma ogni particolare fu utilizzato per delineare il ritratto del santo sotto l’attenta sorveglianza del pontefice che lo aveva elevato alle glorie degli altari. Sempre Innocenzo IV concesse anche un’indulgenza di tre anni, a chi avrebbe vendicato il nefando omicidio. Se i promotori dell’attentato al frate avevano sperato, con l’assassinio, di colpire al cuore il sistema repressivo inquisitoriale del papato, avevano in realtà fatto male i loro conti. Con il loro gesto, infatti, avevano piuttosto fornito un’arma molto potente ai propri avversari, e questo episodio di violenza antiinquisitoriale rafforzò la Chiesa, fornendole nuovi consensi e un forte alibi per giustificare modalità coercitive spesso cruente. Il martirio di san Pietro, sepolto in S. Eustorgio con tutti gli onori, fu ricostruito e raccontato ai fedeli secondo un modello cristomimetico. Nel racconto, il frate riviveva la passione del Signore e, come il sacrificio di Cristo aveva condotto molti alla fede, cosí il supplizio dell’inquisitore aveva permesso la conversione di numerosi eretici. Le leggende

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personaggi san pietro martire agiografiche, le celebrazioni della festa del santo e le immagini del martire, raffigurato con il coltello confitto nel capo e la palma del martirio in mano, non fecero altro che fissare e amplificare questa visione, consacrando definitivamente questo campione della fede.

Un santo dai molti volti

«Quasi per omnes ecclesias est passio eius depicta», cosí lo storico milanese del Duecento Goffredo da Bussero commenta il moltiplicarsi delle testimonianze relative alla devozione nei confronti di san Pietro Martire, testimonianze che si potevano ammirare in Milano e nell’intera diocesi ambrosiana. Proprio le immagini furono il principale veicolo del messaggio che si voleva trasmettere attraverso la figura del santo: un messaggio elaborato «in alto», tra le alte sfere del clero romano e milanese, e trasmesso in modi differenti, nonché condizionato dal filtro della devozione. Dalle miniature nei libri di preghiera, dagli affreschi nelle chiese o dalle statue della tomba del santo emerge l’immagine di una tripli-

Fra devozione e superstizione

Rimedi contro il mal di testa I fedeli milanesi si affezionarono fin da subito alla figura di san Pietro Martire e svilupparono nei suoi confronti una profonda devozione, che non si è spenta ancora oggi. Tra le persone piú anziane, infatti, è ancora vivo l’uso di andare, in occasione della sua festa «a pestà el cò in Sant’Ustorg», ossia poggiare il capo sulla tomba del martire presso la Cappella Portinari in S. Eustorgio. Secoli e secoli di testate hanno scavato una piccola cunetta nel punto di impatto, ma il problema

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In alto Milano, basilica di S. Eustorgio, Cappella Portinari. Il martirio di san Pietro, particolare delle Storie di san Pietro Martire affrescate da Vincenzo Foppa. 1464.

piú grosso è rappresentato dalla tecnologia: in quanto prezioso capolavoro del gotico trecentesco, l’arca in cui è riposta la salma del frate è oggi protetta da allarmi che scattano inevitabilmente appena essa viene sfiorata. Questa singolare tradizione nasce dalle raffigurazioni del santo con il gennaio

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ce identità che trova il suo punto d’incontro nella figura del nuovo santo. Innanzitutto, quella del papato e dell’Ordine dei Predicatori, al fine di proporre un modello di apostolato attivo, che rispondesse alle esigenze di una società in trasformazione. Vi è poi l’immagine fatta propria dal clero secolare, in particolare milanese, con l’arcivescovo Leone da Perego in testa. Egli apparteneva all’Ordine dei frati Minori, era «uomo nuovo» e potente taumaturgo, ma anche molto distante dai fermenti eterodossi passati cosí caratteristici nella Chiesa milanese. Aveva quindi bisogno di un «campione» della vera fede da ostentare ai fedeli della sua diocesi. Infine, l’identità propria di san Pietro Martire: quella a cui guardavano i fedeli laici, che si riconoscevano nella sua esperienza di sofferenza e lo invocavano per i suoi poteri di esorcista e guaritore. Costoro facevano benedire in suo nome rami e palme, come protezione dai fulmini e dagli spiriti maligni, o invocavano miracoli, toccando la terra consacrata con il sangue del martirio di Pietro (vedi box alle pp. 42-43). La santità di Pietro sembrava A sinistra Milano, S. Eustorgio, Cappella Portinari. Particolare di uno dei bassorilievi scolpiti sull’Arca di san Pietro Martire, raffigurante l’episodio del martirio di Pietro da Verona. 1336-1339.

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fatta apposta per dare vita a eccessi che trascendevano nel fanatismo. Nel 1291, papa Nicolò IV fu costretto a condannare il frate predicatore Tommaso di Aversa a sette anni di sospensione dalla predicazione e dall’insegnamento, per aver sostenuto, in occasione della festa di san Pietro Martire, che solo frate Pietro aveva portato su di sé le piaghe di Cristo vivo, mentre san Francesco solo le ferite di Cristo morto. E, per supportare la sua ardita tesi, si era servito proprio di quelle immagini del santo che in quegli anni erano sotto gli occhi di tutti.

Il derisore ammutolito

Insomma, Pietro da Verona – o san Pietro Martire, come venne chiamato dopo la sua canonizzazione – rappresentava un’icona forte, molto caratterizzata, difficile da gestire in mani meno sapienti di quelle dei pontefici. Una figura, quella del grande inquisitore veneto, che continuava soprattutto ad accendere gli animi anche dopo la morte e che non tutti amavano. Nelle Vitae fratrum di Gerardo di Frachet (seconda metà del XIII secolo), per esempio, si narra di un giova-

capo diviso in due da un coltello, che dovettero stimolare la simpatia di chi soffriva di feroci mal di testa, ma le fonti agiografiche raccontano anche un’altra storia. Vuole la tradizione che l’arcivescovo di Milano Giovanni Visconti (1290-1354), particolarmente devoto al santo martire, ne fece staccare il capo dal corpo, per riporlo in un prezioso reliquario da custodire nella sua cappella privata in S. Gottardo in Corte. Come punizione per il proprio egoismo, il prelato aveva però dovuto presto restituire la reliquia, perché era tormentato da tremende emicranie che cessarono solo quando la testa del santo tornò in S. Eustorgio.

Da leggere Gerardo di Frachet, Storie e leggende medievali, ESD-Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1988 Grado Giovanni Merlo, I signori di Giussano, gli eretici e gli inquisitori, Giussano 2004 Grado Giovanni Merlo, Inquisitori e Inquisizione del Medioevo, Il Mulino, Bologna 2008 Gianni Festa (a cura di), Martire per la fede. San Pietro da Verona, domenicano e inquisitore, ESD-Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2007

ne eretico che, trovatosi con amici nella chiesa di S. Maria Novella in Firenze, davanti a una tavola raffigurante il martirio di san Pietro, ne aveva deriso le sofferenze, vantandosi che, se fosse stato presente, avrebbe potuto contribuire all’assassinio, colpendo con maggior forza. Immediata fu la punizione: il giovane divenne muto e non riacquistò la parola, finché non si pentí e si convertí, consentendo ai frati predicatori di raccontare la sua vicenda come monito per altri eretici. L’episodio non rappresentò un fatto isolato: sempre in una cronaca dell’epoca si narra che, vedendo un affresco raffigurante Pietro Martire, un uomo si mise a sostenere che: «i frati fanno dipingere questo frate Pietro come se fosse morto martire in difesa della chiesa cristiana, ma io so per certo che fu ucciso non per fede, ma per via di qualche donna». I compagni dell’uomo non approvarono le sue parole, ma lui insistette: «Se mento possa morire di spada come il martire». All’udire parole tanto gravi, i compagni cercarono di tagliare la lingua blasfema dell’uomo, il quale, nel divincolarsi, rimase ucciso accidentalmente «Iusto Dei iudicio» conclude il cronachista a sottolineare l’implacabilità di Pietro da Verona nei confronti dell’eresia anche da morto. F

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di Andreas M. Steiner, fotografie di Daniel Cilia

Il secolo normanno Dopo oltre due secoli di dominio musulmano, l’arcipelago maltese viene conquistato dai Normanni di Ruggero d’Altavilla. Per la storiografia tradizionale, l’episodio segna il ritorno delle isole sotto il vessillo della cristianità. Ma le cose andarono veramente cosí?

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el 1091 il gran conte Ruggero d’Altavilla occupò Noto, completando cosí la conquista della Sicilia, iniziata esattamente trent’anni prima, con lo sbarco di Ruggero e Roberto il Guiscardo nei pressi di Messina. Caduto l’ultimo bastione musulmano, la piú grande isola del Mediterraneo era, in quel momento, interamente sotto dominio normanno. Nello stesso anno, però, un gruppo di isole di dimensioni decisamente minori vengono prese di mira dal conte d’Altavilla: quelle dell’arcipelago maltese, distanti appena 50 miglia dalla costa siciliana.

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Se osserviamo una cartina geografica del Mediterraneo centrale, appare evidente che la conquista delle isole maltesi dovesse rappresentare un passo quasi obbligato verso la futura costituzione di un’«Africa normanna», un progetto alla cui realizzazione avrebbe, in seguito, ambito il figlio e successore del conte, Ruggero II, divenuto re di Sicilia nel 1130. È però altrettanto inevitabile considerare la sottomissione delle isole maltesi, proprio per la loro vicinanza geografica e culturale alla Sicilia, come il doveroso atto conclusivo di una conquista trentennale da parte della cristianità gennaio

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Sulle due pagine i bastioni delle mura settentrionali dell’antica capitale maltese, Mdina. La torre in primo piano, di impianto tardo-medievale, contiene i resti di una precedente fortificazione databile al XII sec. A destra l’entrata a Mdina di Ruggero d’Altavilla, in seguito alla conquista dell’isola nel 1091 (disegno InkLink Firenze/Midsea Books Ltd).

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storie malta latina, che, proprio nel 1091, aveva conseguito la vittoria definitiva sul plurisecolare dominio arabo nell’isola. La conquista di Malta da parte di Ruggero d’Altavilla si iscrive, dunque, all’interno del piú ampio quadro di avvenimenti che segnano la storia della lotta per la supremazia del Mediterraneo nel IX secolo. Sembra che il progetto di sbarcarvi fosse nelle intenzioni di Ruggero già nel 1071, in pieno periodo di conquista della Sicilia, forse – come sostiene il medievista Graham Loud citato dallo storico maltese Charles Dalli – per umiliare i musulmani di Sicilia o, anche, per fronteggiare la potenziale minaccia della dinastia berbera degli Ziridi, giunti sulle coste dell’Ifriqiya (l’odierna Tunisia) insidiando il potere dei Fatimidi. Quello sbarco, però, verosimilmente non ci fu. La rilevanza di quanto accadde nel 1091, invece, supera di gran lunga le dimensioni stesse del luogo fisico in cui si verificò: per Malta segnò l’inizio del «secolo normanno», insieme alla fine (o forse sarebbe meglio dire «l’inizio della fine»?) della presenza musulmana nell’arcipelago, iniziata nell’870 con la conquista delle isole da parte degli Arabi della dinastia africana degli Aghlabidi. In un precedente articolo, dedicato proprio ai secoli della presenza islamica a Malta (vedi «Medioevo» n. 223, agosto 2015) abbiamo sottolineato la difficoltà, incontrata dagli storici del Medioevo, dovuta alla estrema scarsità di fonti documentarie disponibili per quelli che, a torto o a ragione, sono stati definiti i «secoli bui» della storia dell’arcipelago. Per quanto riguarda i 221 anni di dominio arabo (a loro volta preceduti da oltre tre secoli

di presenza bizantina nelle isole) vale, tuttavia, ancora quanto aveva scritto, nel 1996, lo storico dell’architettura maltese, Leonard Mahoney: «Da quel periodo oscuro della storia di Malta, gli isolani, forse appena cinquemila di numero, emersero parlando una lingua araba e adottando costumi arabi. Sembra che avessero scordato l’arte di costruire e, anche dopo l’espulsione dei musulmani, per un lungo periodo ancora, molti maltesi continuarono a celebrare i loro riti religiosi nelle catacombe o nelle grotte; a riprova del fatto che solo pochi, se ve ne erano, furono in grado di costruirsi un luogo di culto all’aperto».

La versione di Goffredo Malaterra

In un contesto storiografico tanto caratterizzato dall’assenza di fonti, assume un ruolo del tutto eccezionale la testimonianza di Goffredo Malaterra, cronista normanno (e forse monaco benedettino) vissuto nell’XI secolo e autore del De rebus gestis Rogerii et Roberti Guiscardi, in cui narra le imprese del conte di Altavilla in Sicilia e nel Mediterraneo. Secondo il già citato Dalli «il resoconto di Malaterra rappresenta in assoluto la piú importante menzione di Malta mai scritta da un cronista medievale latino». Ma vediamo in che modo il resoconto di Malaterra – riportato da Dalli – illustri questo significativo accadimento. Appare fuori dubbio, dal racconto, che il conquistatore della Sicilia abbia voluto usare lo sbarco a Malta come segnale conclusivo del suo potere. Sembra, addirittura, che, a questo proposito, il non piú giovane condottiero (aveva compiuto i sessant’anni) abbia A sinistra la Sicilia e, piú a sud, l’arcipelago maltese con, a ovest, parte della costa dell’Ifriqiya, nome con cui, in età medievale, gli Arabi chiamarono i territori dell’odierna Tunisia, dell’Algeria orientale e della Tripolitania. Nella pagina accanto pianta dell’isola di Malta, del cartografo Giovanni Francesco Camocio, metà del XVI sec. Mdina, Museo della Cattedrale.

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storie malta litigato con il figlio Giordano, intenzionato a guidare egli stesso la spedizione contro Malta. Comunque sia, Ruggero salí a bordo al suono di trombe e una «prospera brezza» riempí le vele, cosí da permettere ai cavalieri di raggiungere l’arcipelago «il secondo giorno». Giunti sulla costa, il conte, accompagnato da tredici fedeli, dovette fronteggiare la resistenza di un gruppo di indigeni che vennero rapidamente neutralizzati. I Normanni si accamparono sulla spiaggia e, all’alba del giorno dopo, si diressero verso Mdina (l’antica capitale al centro dell’isola) e iniziarono l’assedio. Gli abitanti della città, capeggiati dal loro gaytus (il governatore locale), intendevano negoziare la pace, poco abituati com’erano alle attività belliche. Dopo lunghe trattative offrirono perciò a Ruggero il rilascio di tutti i prigionieri cristiani, trattenuti all’interno delle mura cittadine. In piú, cedettero al conte muli e cavalli, nonché una consistente somma di denaro. Venne quindi definito il tributo annuo da versare al nuovo padrone dell’isola, al quale i musulmani furono costretti a giurare fedeltà. La resa fu coronata dal rilascio dei prigionieri cristiani, i quali, piangendo per la gioia, uscirono dalla città brandendo rudimentali croci realizzate con rametti e, intonando il Kyrie eleison, si gettarono ai piedi del conte liberatore (la scena è ricostruita nel disegno in apertura dell’articolo). I Normanni proseguirono allora per la seconda isola dell’arcipelago, Gozo (o Golsa, secondo il toponimo riportato da Malaterra), dove le cose si svolsero meno pacificamente (i Gozitani, evidentemente, non erano cosí facilmente disposti a cedere ai nuovi padroni): l’isola venne messa a ferro e fuoco e i suoi abitanti costretti a soccombere.

In alto veduta aerea della torre medievale nei bastioni di Mdina. A destra la statua del conte Ruggero d’Altavilla nella piazza di Rabat (Mdina).

Qui accanto la rappresentazione del mondo secondo al-Idrisi, il geografo arabo alla corte palermitana del re Ruggero II d’Altavilla, dove realizzò la raccolta di carte geografiche note come Il libro di Ruggero.

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In ricordo di Maimuna Alla fine dell’Ottocento fu rinvenuta, sull’isola di Gozo, una straordinaria stele funeraria, ricavata da un frammento di marmo di epoca romana. Finemente decorata e iscritta, la pietra reca la dedica a una giovane donna di nome Maimuna, della famiglia di as-Susi, morta il 21 marzo 1174. Conservata nel Museo Archeologico della Cittadella di Gozo, la stele testimonia la presenza di una comunità musulmana nell’isola ben dopo la conquista normanna del 1091.

Fin qui il racconto di Malaterra. Un resoconto che ebbe una fortuna insperata proprio in età moderna, per una ragione ben precisa. A partire dal Cinquecento, l’epopea di una popolazione cristiana liberata dal giogo musulmano venne accolta dagli studiosi – tra cui il padre della storiografia maltese, Gian Francesco Abela (1582-1655) – come la riprova «medievale» di una continuità della presenza cristiana nelle isole, presenza che venne fatta risalire allo sbarco di san Paolo, che la tradizione vuole sia avvenuto sulla costa orientale di Malta nel primo secolo. Secondo questa «visione» della storia religiosa di Malta – in voga tra gli storici fino a tempi recenti e, per lunghi secoli, parte della communis opinio dei Maltesi – a Ruggero I era spettato il compito di riportare il vessillo della cristianità nell’arcipelago, liberandolo dall’occupazione musulmana. È stato Godfrey Wettinger (1930-2015), il decano degli storici maltesi recentemente scomparso, a gettare le basi per una visione radicalmente diversa della questione: negli anni Settanta del secolo scorso sostenne, per la prima volta, che non vi era alcuna prova stori-

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storie malta ca a favore di una continuità cristiana nell’arcipelago durante gli oltre duecento anni di occupazione musulmana. Secondo Wettinger era, invece, assai piú probabile che, con la conquista araba, i cristiani fossero stati interamente sterminati. Alcuni sopravvissuti, semmai, avrebbero scelto di convertirsi. Per «l’identità cristiana» di Malta, dunque, il periodo tra la fine del IX secolo e l’avvento dei Normanni costituirebbe una cesura drastica e irrecuperabile, alla quale la stessa impresa del conte Ruggero, per quanto decantata dal Malaterra, non avrebbe potuto porre rimedio. In proposito, aggiunge ancora Charles Dalli: «Non esiste alcun documento che possa dare sostanza alla pretesa rinascita cristiana di Malta a opera del conte Ruggero; anzi, paradossalmente potrebbe essergli attribuita la responsabilità di aver rafforzato l’Islam a Malta, visto che portò via con sé tutti i cristiani! Inoltre, il saccheggio di Gozo non aveva certo convinto gli indigeni della bontà della fede cristiana». Che cosa ne fu, dopo il 1091, delle isole dell’arcipelago? I Maltesi rispettarono gli accordi pattuiti con il conte normanno? E quale fu, dal 1091 in poi, l’atteggiamento della corte palermitana verso le isole? Considerata la pressoché totale assenza di fonti, la risposta non è facile da formulare. Sicuramente le cose non cambiaro-

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no da un giorno all’altro, con l’arcipelago appena entrato a far parte della nuova koinè del cristianesimo latino. E se la compagine religiosa e sociale non subí modifiche sostanziali neanche nell’isola madre (in Sicilia la popolazione rimase composta da musulmani, ebrei e grecocristiani, mentre la cristianità latina restò appannaggio di una minoranza), le cose dovrebbero essere andate in modo analogo nel piccolo arcipelago meridionale. Per lo storico inglese Anthony Luttrell, dopo il 1091 Malta ricadde nella sfera d’influenza africana, grazie anche alla ripresa delle antiche e consolidate rotte commerciali.

Coloni cristiani

Nel 1127 era toccato al figlio e successore del conte Ruggero, Ruggero II re di Sicilia, sedare un moto di rivolta nelle isole. Ne riferiscono alcuni autori arabi e il cronista Alessandro di Telese, vissuto nella prima metà del XII secolo, il quale scrive che Ruggero II aveva invaso e occupato altre isole del Mediterraneo, «tra cui una di nome Malta». L’impresa era forse da mettere in rapporto con il conflitto divampato tra la Sicilia e l’Africa, con i musulmani di Malta che forse avevano smesso di pagare i tributi annui in segno di protesta. A questo proposito si possono citare, tra le rare testimonianze archeolo-

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A destra due pagine del Codex Evangeliorum Melitensis, il piú antico codice miniato maltese, verosimilmente realizzato a Palermo. Prima metà del XII sec. Mdina, Museo della Cattedrale. In basso, sulle due pagine Il bellissimo apiario di Xemxija, Malta. Molti autori arabi medievali indicano la produzione di miele tra le principali risorse alimentari dell’arcipelago.

giche datate al XII secolo e di recente scoperta, un’imponente struttura in pietra, costruita lungo i bastioni della capitale Mdina sopra i resti di precedenti strutture difensive di epoca bizantina e poi araba. Durante il regno di Ruggero II e in seguito alla nascita di un dominio normanno in Africa settentrionale, Malta assunse, grazie alla sua posizione geografica, un ruolo diverso: l’arcipelago accolse numerosi coloni cristiani, come risulta anche dalla toponomastica dei rahal (tenute agricole), i cui suffissi, da arabi, diventano, progressivamente, latini. A un estraneo, però, come l’inviato di Federico Barbarossa alla corte del Saladino, Burcardo di Strasburgo, che nel 1175 approdò nell’arcipelago, i Maltesi apparivano ancora come «Saraceni»; e un poeta greco, esiliato a Malta per la durata di cinque anni, ebbe ampia occasione per «detestare i figli di Hagar»… Due straordinari reperti, conservati rispettivamente nel Museo archeologico della cittadella di Gozo e in quello della Cattedrale di Mdina, sono i testimoni silenti di un secolo segnato dalla non facile convivenza tra musulmani e cristiani: si tratta della stele funeraria, ricavata da un antico marmo romano, appartenuta a una giovane donna musulmana di nome Maimuna, morta il 21 marzo del 1174; e del piú antico codice miniato conservato nell’arcipelago, il Codex Evangeliorum Melitensis, forse realizzato proprio in uno scriptorium monastico della Palermo normanna. F (1 – continua)

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L’uomo d’acciaio di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci


gente di bottega /10 L’armatura è il «vestito» per antonomasia del cavaliere medievale ed elmi e corazze furono sempre molto richiesti. Una popolarità che fece la fortuna di una folta schiera di artigiani, come dimostra la considerevole eredità lasciata ai suoi cari dal corazzaio Giovanni Ciantellini, titolare di un avviato laboratorio nel cuore di Firenze

N N

Firenze, Galleria degli Uffizi. L’officina di un armaiolo in uno degli affreschi realizzati da Ludovico Buti per l’Armeria, una sezione della Galleria voluta dal granduca Ferdinando I alla fine del Cinquecento per esporre le armature di proprietà della famiglia. 1588.

el 1430 la città di Prato, una ventina di chilometri a nord-ovest di Firenze, è ormai da ottant’anni sotto la potestà del Comune fiorentino, al quale era stata venduta nel febbraio 1350 – per 17 000 fiorini – da Niccolò Acciaioli, plenipotenziario degli Angiò, i quali, in cerca di denaro, la cedettero per sostenere le spese di guerra della contestata successione angioina nel Regno di Napoli. Nello stesso anno, fra le successioni riguardanti orfani in età minorile aperte presso gli Ufficiali dei Pupilli del Comune di Firenze, troviamo quella di Giovanni di ser Piero Ciantellini, di mestiere corazzaio, con ogni probabilità originario di Prato, ma residente a Firenze nel quartiere di S. Giovanni (Archivio di Stato di Firenze, Pupilli Avanti il Principato, 155, maggio 1430, cc. 109r-112r). Nel Catasto fiorentino del 1427, lo stesso corazzaio elenca nella propria dichiarazione fiscale gli immobili urbani di cui dispone: 2 case nell’antica parrocchia di S. Pancrazio – tradizionale area d’insediamento per gli immigrati dal contado fiorentino nord-occidentale e dalla città di Prato – accanto al monastero omonimo, contigue e affacciate su via del Sole e sulla piazzetta al chanto al pozzo a San Sisto, affittate a due fiorentini, uno dei quali calzaiolo; una casa con bottega affittata a un cimatore nel popolo di S. Lorenzo, in via Santa Maria drieto la

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gente di bottega /10 L’acciaio

Una lunga catena operativa L’acciaio è una lega di ferro e carbonio, ma se quest’ultimo componente supera il 2% le proprietà del materiale cambiano e si parla di ghisa. Meno carbonio è presente, piú l’acciaio è duttile e malleabile, flessibile e resistente agli urti: molto adatto quindi per realizzare corazze e lame taglienti. Anticamente era estratto con un metodo molto rudimentale da minerali come l’ematite e la magnetite, frantumati in piccoli pezzi, coperti con carbone e cotti in piccole fornaci di argilla o di pietra che venivano accese e mantenute a una temperatura costante con mantici, azionati manualmente. Durante la permanenza nella fornace il carbonio incombusto presente nel carbone di legna si combinava con il ferro e il metallo che ne scaturiva, molle e spugnoso, era quindi acciaio, che via de’ Porci, in campo Corbolini, oggi via Faenza. Il sessantenne Giovanni e la famiglia – la moglie quarantenne, monna Diana, e i 4 figli, Niccolosa, Bernardo, Lorenzo e Iacopo, in età variabile dai 2 ai 15 anni – non abitavano, invece, in una casa di proprietà, ma erano affittuari di una casa-bottega situata nel chorso de Chorazzai, oggi via de’ Pucci, nella parrocchia di S. Michele Visdomini, gonfalone Vaio del quartiere di S. Giovanni. Il canone locativo dell’immobile, appartenente a un altro corazzaio, veniva coperto dai proventi degli edifici di proprietà. Sostanzioso è l’ammontare delle proprietà fondiarie del Ciantellini, perlopiú situate nel contado pratese, fra le comunità di Iolo e Montemurlo, nella piana fra Prato e Pistoia, alle pendici della catena cosiddetta dell’Acquerino, che fanno supporre la provenienza familiare da queste zone (vedi box a p. 61). La parte principale del patrimonio consiste in un podere con casa e terreni sparsi nella pianura di Iolo, affidati a un contadino locale; a ciò si aggiungono un altro podere con casa e terreni a Montemurlo di cui si cura

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un contadino locale, un poderello sulla montagna e otto appezzamenti – prese di terra, secondo il gergo in uso in area pistoiese – a Iolo, facenti parte della dote di monna Diana e dati in gestione a un gruppo di uomini, probabilmente parenti della moglie. A corollario, altre piccole proprietà disseminate per il contado di Prato e una minuscola vigna sulle colline fiorentine di San Martino La Palma, da cui il corazzaio sembra trarre esclusivamente vino di tipo piú pregiato rispetto a quello prodotto nella piana pratese.

Un patrimonio bilanciato

Come ogni Fiorentino, il corazzaio possiede titoli del Monte Comune per un importo pari a 278 fiorini, piú o meno l’equivalente del valore del podere di Iolo, ovvero circa l’8% del patrimonio complessivo di 3331 fiorini dichiarato in vita al Comune di Firenze: patrimonio ben bilanciato, formato da un 55% di investimenti societari, guadagni lavorativi, merci e attrezzature relative alla propria attività, e da un 45% di beni immobili. L’uomo ha debiti con fornitori

In alto miniatura raffigurante il corazzaio, dalla prima copia a stampa del Tractatus de sphaera mundi, un compendio di nozioni astronomiche scritto dallo studioso inglese John Holywood. 1472. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

e lavoranti, in prevalenza residenti intorno a Prato – Montemurlo, Montale e Agliana – ed è vincolato al versamento annuale di una sorta di vitalizio pari a 57 fiorini nei confronti di una donna che potrebbe essere la madre o la suocera. Ma quel che maggiormente ci interessa, riportandoci al contesto del vissuto, sono le attestazioni di diritti creditizi per attività commerciali in corso: nei confronti di un armaiolo per trafficho fra armaiuoli, verso due corazzai per iniziative d’impresa e, infine, per la gestione dell’eredità di un armaiolo, apparentemente non legato a Giovanni da legami di parentela. Quella del Ciantellini è quindi un’attività fiorente, sancita dai 5 fiorini annui di iscrizione alla propria Arte, della quale ha lo stemma in bottega – I insegnia di San Giorgio –, i cui arredi, attrezzature e merci sono elencate nell’Inventario di merchagennaio

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doveva essere sottoposto alla battitura con i martelli cosí da poter raggiungere la giusta consistenza. Già dal XIII secolo molti artigiani cominciarono a utilizzare forni piú grandi e alti che, a differenza dei precedenti, avevano un tiraggio meccanico prodotto da ruote idrauliche; l’utilizzazione dell’energia idraulica permise di raggiungere temperature piú elevate e rese possibile la produzione di ghisa fusa, che, per ottenere l’acciaio, si amalgamava al ferro con un procedimento artigianale: si intrecciavano barre dei due metalli e si batteva il «pacchetto» per diffondere il carbonio dalla ghisa al ferro, fino a saldare assieme i due materiali in un acciaio con la percentuale di carbonio desiderata; operazione molto lunga che richiedeva grande esperienza e dalle 120 alle 200 ore di lavorazione, ma che garantiva la flessibilità e la robustezza necessarie a una spada o a un’armatura. Per aumentare tali caratteristiche del materiale, era poi indispensabile temprarlo con un paio di immersioni in acqua e altre sostanze (tenute segrete dagli artigiani). tanzie si truova in bottegha e in chasa di detto Giovanni, stimate nel mese di maggio 1430 per Francescho di Puccino di ser Andrea e Lucha di Pangnio armaiuoli. Evidentemente il corazzaio è deceduto da poco e gli Ufficiali dei Pupilli si trovano a gestirne il patrimonio residuo, mettendo in vendita attrezzi e mercanzie ammassate nel locale al pianterreno, che presumibilmente si apriva sulla strada e fungeva da laboratorio-bottega, e nelle camere della soprastante abitazione, dove si trovano chassoni e chassoncelli, uno pieno di libri di ragioni, uno pieno di armi dissono erano d’altri.

Per spessore e grandezza

Nella bottega sono rintracciabili tutti gli elementi dell’equipaggiamento da difesa in uso nel XV secolo per proteggere il corpo durante uno scontro e l’inventario è una sorta di «vetrina» delle varie componenti delle armature: colpiscono innanzitutto le moltissime maglie di filo di ferro, in tutto circa 1300 libbre (ben 4,5 q) conservate in borse o su vassoi che, secondo lo spessore e la grandezza, hanno evidentemente un valore diverso,

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Armatura di Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino. XVI sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.


gente di bottega /10 arte dei corazzai e spadai

Sotto l’egida di san Giorgio L’Arte dei Corazzai e Spadai fu una delle arti minori fiorentine, con sede nel corso dei Corazzai intorno alla chiesa di S. Cristofano degli Adimari, fra il Duomo e via Calzaioli, dove, agli inizi del XIV secolo, si concentrò il primo nucleo di botteghe. Il protettore, san Giorgio, fu raffigurato da Donatello nella nicchia dell’Arte a Orsammichele come un fiero soldato che indossa l’armatura. Nel Tre e Quattrocento le botteghe si concentrarono nelle parrocchie di S. Reparata e S. Lorenzo, dove erano albergati molti soldati di ventura. In ogni compagnia di fanteria di popolo, armata a spese dei singoli gonfaloni in cui era suddivisa la città, dovevano esserci almeno 80 armati di corazza, mentre il resto del popolo si dotava alla meglio, con residuati e materiali di seconda e terza mano. Agli inizi del XV secolo corazzai e spadai, in precedenza membri dell’Arte dei Fabbri, erano già unificati in un’unica corporazione. Erano propriamente gli armaioli (Arte di Por Santa Maria) a commerciare in armature complete e in armi di complemento; i corazzai fornivano perlopiú le parti componenti e provvedevano alla riparazione di quelle danneggiate. Nel XVI secolo l’arte fu riunita a quella dei maestri legnaioli.

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A sinistra Firenze, basilica di Santa Croce, Cappella Bardi di Vernio. Un soldato con indosso il camaglio, una sorta di cappuccio in maglia di ferro che si allungava a proteggere la testa e le spalle, particolare del Sogno di Costantino con la visione di San Pietro e San Paolo, affresco di Maso di Banco. 1340.

da 15 denari il centinaio a 18 denari la libbra a 6 soldi il migliaio. Questi anellini metallici venivano legati insieme a formare gli indumenti difensivi che si portavano sotto la corazza, come le III giacchette di maglia di peso di libbre XIII, valutate 2 denari, o i cappucci da indossare sotto l’elmo – i cosiddetti camagli – che si allungavano a proteggere la testa e le spalle.

L’expertise dei colleghi

Nella pagina accanto, a sinistra Siena, Palazzo Pubblico, Sala dei Nove (o della Pace). Un corazzaio raffigurato nell’affresco Allegoria ed Effetti del Cattivo Governo realizzato da Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339.

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Nella pagina accanto, a destra il tabernacolo dell’Arte dei Corazzai, con la statua di san Giorgio, che si trovava in origine all’esterno della chiesa di Orsammichele. 1415-1417. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

Di camagli ve ne sono in quantità nell’inventario: i magistrati dei Pupilli li elencano a peso (probabilmente quando si tratta di quelli vecchi, da rottamare) oppure a numero, in tutto circa 850 libbre (quasi 3 q) e 112 esemplari, tutti con la valutazione data dagli armaioli a cui i magistrati si erano rivolti: chamagli da barbuta di ferro sodi per soldi II [e] denari VI la libbra (…) II chamaglietti da elemetti di ferro a 2 denari e 10 soldi. Sopra al camaglio, si calzava la celata oppure il bacinetto, elmo privo di protezione per la faccia o anche la barbuta, copricapo senza visiera ma con un nasale, realizzato con un’unica lastra metallica che si allungava sulla nuca e intorno alle gote, in voga tra il XIV e il XV secolo. Tutte varianti di copricapi da difesa presenti alla rinfusa nei locali lavorativi e abitativi del corazzaio, dove si trovano in tutto una novantina di pezzi: XXXIII barbute chon chanali – il canale sull’orlo del girocollo consentiva la rotazione della testa – per s XXX l’una, XIII cielate chattive, denari 3 soldi 10, I cielata cho’ la choda, denari, XX elmetti forniti all’anticha tristi, denari 20. Il documento strappa un sorriso laddove elenca II bacinetti e I cielata entrovi XX migliaia di maglie,

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gente di bottega /10 A destra celata all’italiana dell’armatura appartenuta a Gian Galeazzo D’Arco, realizzata nella bottega milanese dell’armaiolo Tommaso Missaglia. XV sec. In basso usbergo di produzione europea. XV sec. Cleveland, Cleveland Museum of Art. L’usbergo era un indumento protettivo del corpo, utilizzato per la difesa personale del guerriero: consisteva in una veste di maglia di ferro, a forma di lunga camicia, variamente lavorata, talvolta completata da calzoni, anch’essi realizzati in maglia, e munita di

cappuccio e di maniche; era diffuso in Occidente e caratterizzò l’abbigliamento del cavaliere prima dell’avvento della corazza. Nella pagina accanto, al centro particolare di una miniatura raffigurante la fabbricazione delle armature, da una traduzione anonima francese del De claris mulieribus di Giovanni Boccaccio. 1440 circa. Londra, British Library. Nella pagina accanto, a destra corazza a maglie di ferro con celata a becco di passero. 1410 circa. Milano. Sluderno (Bolzano), Castel Coira, Armeria Trapp.

La maglia

Da un fil di ferro Risale al X secolo l’invenzione della trafila, una piastra in ghisa con fori di varie grandezze attraverso i quali veniva fatta passare una barra metallica scaldata, tirando dalla parte opposta con una pinza per ridurne progressivamente il diametro e ottenere un filo della misura desiderata. Il filo poteva servire, fra le altre cose, a realizzare gli anelli da legare insieme a formare una sorta di robusto tessuto metallico che, sagomato, si indossava sotto l’armatura come rinforzo per la difesa del corpo, a coprire dalla testa alle gambe. Questa maglia, abbastanza flessibile, inizialmente era una sorta di tuta intera, poi, dalla fine del XIII secolo venne suddivisa in varie parti – per la testa, il torso, le gambe –, cosí da offrire una maggiore libertà di movimento. Per evitare lo sfregamento della pelle col ferro, si indossava sopra una tunica di cuoio che proteggeva ancor di piú il combattente. Le migliaia di anellini di filo di ferro, tutti delle stesse dimensioni, necessari per fabbricare le varie parti di una protezione completa si ottenevano avvolgendo un filo attorno a una barra tonda del diametro desiderato, cosí da formare una sorta di molla. Tagliando longitudinalmente con uno scalpello si riusciva a separare gli anelli. I due capi di ognuno venivano poi accostati e uniti tra di loro mediante saldatura o battitura, facendo in modo di legare ogni anello ad altri 4 per rendere l’insieme impenetrabile ai colpi di lancia o spada. Il «tessuto» cosí ottenuto veniva via via modellato come fosse un lungo maglione, un cappuccio o una calza. Non abbiamo notizie su costruttori e botteghe che si occupavano di questi capi, perché, a differenza di armi

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svelando che il disordinato Ciantellini usava alcuni copricapi da difesa come contenitori. Nella lista sono menzionati anche numerosi collari per proteggere la gola come le XIIII baviere al’anticha, per tutto libbre XXX, [am]montano denari 3, o i XII ghorgierini d’acciaio, o ancora la farsata da barbuta. Per coprire il torace sono presenti XVI chorazze di piastre vecchie in un chassone in sala in chasa, di stima di denari 88, VIII petti cho’ gli altri e piastre dinanzi

per d 8 l’uno denari 64, I petto cholle reni denari 3, II panziere d’acciaio l’uno di stima di f 17 e XXVII frangie d’ottone da panziere d’acciaio da piè di botta cacciata: un insieme di 78 corazze intere, circa 45 petti (a cui si aggiungono 381 libbre di petti da rottamare, pari a circa 130 kg) e piú di 50 panziere. Numerosi sono anche gli elementi per salvaguardare giunture e arti: una trentina di paia di pezi di ferro da ghambiera buoni, denari 4, 4 fianchali di boze d’aciaio, 26 fal-

e armature, sulla superficie della maglia di ferro era impossibile apporre marchi di riconoscimento o provenienza, che ci aiuterebbero a catalogare o datare con precisione i pezzi giunti fino a noi. L’elevato costo di questi indumenti da difesa, dovuto sia alle materie prime sia alla mano d’opera, fa ipotizzare che venissero tramandati di padre in figlio, anche con successive modifiche e riadattamenti, e usati da piú generazioni fino a che era possibile.

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gente di bottega /10 Trionfo di Cosimo I a Montemurlo, affresco di Giorgio Vasari e Giovanni Stradano. 1556. Firenze, Palazzo Vecchio, Sala di Cosimo I.

de – parti dell’armatura per proteggere il ventre sotto la vita –, I paio di chosciali al’anticha, tristi, I paio di stivali tristi, LXVIII paia di ghuanti a l’anticha, denari 12, LXVII paia di dita di piú ragioni di ferro e di maglie per soldi 4 il paio, II spalliere, I bracciale, I ghuanto, I ispalla mancha, denari 12. Ogni parte del corpo, insomma, era ricoperta da piastre d’acciaio specifiche, spesso realizzate da specialisti diversi, esperti anche in una sola lavorazione, nella quale raggiungevano l’eccellenza, come per esempio i milanesi Negruolo, ricercati per i bracciali.

Recupero e riciclaggio

Dai prodotti presenti nell’inventario dei Pupilli, invece, Giovanni Ciantellini sembra si dedicasse non tanto alla creazione di pezzi nuovi, bensí all’assemblaggio e al restauro di armature e alla fornitura di armaioli, ripristinando o sostituendo le parti rovinate, recuperando il metallo e fondendo nuovamente ciò che non si poteva restituire a nuova vita: come dimostra l’enorme quantità di piastre rotte triste, pez[z]ame bruno, bandelle e altri ferrami, piastrame di clora[z]e, disfatte, ghuanti disfatti e altri fer[r]amenti, pez[z]ame minuto di ferro che –sommando le varie voci– ammonta a 3800 libbre (quasi 13 q) e i numerosissimi strumenti – piccole tenaglie, martelli, incudini, punteruoli e lime – non adatti a una fucina, ma utili per le riparazioni. Spesso, infatti, visti gli alti costi di un’armatura, i pezzi rovinati si aggiustavano finché possibile; spesso se ne aggiungeva qualcuno secondo esigenze e disponibilità del momento, prendendo in considerazione anche quelli usati. Il mercante pratese Francesco di Marco Datini annota varie volte

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iolo, montale e montemurlo

Storie di castelli La località di Iolo (Aiolo), con la pievania di S. Pietro e le quattro parrocchie dipendenti, fu una postazione bizantina e successivamente longobarda nei secoli VI e VII. Nel X secolo era ancora un castello fortificato in dotazione ai conti Alberti, annesso al sistema difensivo sud-occidentale formato dalle fortificazioni di Agliana-Iolo-Prato, in direzione di Pistoia e, nel XII secolo, veniva definito dall’episcopato pistoiese una enclave di Longobardi truffatori e usurpatori di proprietà a esso pertinenti. Nel XIII secolo, il giudice messer Rinaldo di Ranuccio Rinaldeschi, capostipite della potente famiglia pratese a cui ancora oggi è intitolata una via, viene indicato come originario di Iolo e proprietario di molti beni nel paese, ancora rivendicati dal vescovato di Pistoia. Un lessico di origine germanica è ancora in uso nel XV secolo per indicare le località, come il luogo detto Chafaggio, dove il corazzaio Ciantellini possiede il podere da cui, probabilmente, origina la propria famiglia. Montale fu un castello fortificato fra Prato e Pistoia, a 6 miglia da questa, sul tracciato antico della via Cassia pedemontana, al bivio con la valle del fiume Agna, affluente dell’Ombrone pistoiese e dotato di ricchi impianti molitori sia a Montale che a Montemurlo. Edificato agli albori del XIII secolo dal Comune di Pistoia contro il castello di Montemurlo appartenente ai conti Guidi, feudatari del Mugello, ebbe un ruolo importante nelle vicende politiche e militari del Due e Trecento, anche contro l’espansionismo fiorentino che aveva acquistato nel 1245 il castello di Montemurlo dai conti Guidi. Distrutto completamente nelle fortificazioni nel 1303 come baluardo nero nelle lotte fra Guelfi Bianchi e Neri, fu ridotto a insediamento civile e la campana del Comune fu portata a Firenze come trofeo insediato sulla torre del palazzo del Podestà. Montemurlo fu un castello fortificato fra Montale e Prato, parte del contado di Pistoia fino al XII secolo, poi di proprietà dei conti Guidi di Mugello e da essi venduto al Comune di Firenze nel XIII secolo, come baluardo verso la conquista di Pistoia

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Firenze. Una veduta della torre del palazzo del Podestà, in cui è conservata la cosiddetta Montalina o Montanina, la campana portata come trofeo della conquista del castello di Montale.

e sede di un podestà. Separato dal contado pratese dal fiume Agna, vi si trovava il dazio per le derrate e le merci in transito fra Firenze e Pistoia, in località La Catena. Assediato da Castruccio Castracani nel 1325, divenne particolarmente noto nel XVI secolo quando si trasformò nel rifugio del partito repubblicano, avversario dell’ascesa della dinastia Medici e capeggiato dalle famiglie Salviati e Strozzi. Traditi dal pistoiese Bracciolini, i repubblicani furono consegnati all’esercito mediceo e il castello non ebbe piú funzioni militari. Durante il XV secolo queste terre fra Prato e Pistoia furono il teatro della lunga guerra che si sviluppò, con il pretesto della posizione filo- e antimedicea, fra le fazioni pistoiesi dei Cancellieri e dei Panciatichi, per l’egemonia della politica cittadina ormai in mano alla dominante Firenze. I castelli di Montale, Tobbiana, Iolo, Agliana furono luogo di agguati e contese, che indebolirono sempre piú la condizione economica della città di Pistoia e la sua sudditanza verso Firenze.

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gente di bottega /10

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Un esempio di armatura quattrocentesca è quella dipinta da Andrea del Castagno indosso al condottiero Pippo Spano, raffigurato in uno degli affreschi del Ciclo degli uomini e donne illustri nella villa Carducci di Legnania. 1448-1451. Firenze, Galleria degli Uffizi.

nei propri libri contabili il trasporto di parti di seconda mano, che commercializzava attraverso la sua rete estesa in tutta Europa. Tali ricambi erano possibili grazie alla tipologia di armatura, composta da piastre di ferro e acciaio collegate le une alle altre da giunture in cuoio – nella bottega di Giovanni vi erano a questo scopo piú mazzi di fibie vecchie e ghangheri, II grosse di fibbie da chorazze, I grossa di fibbie da bracciali – e legate alla maglia di ferro sottostante, che irrobustiva la difesa del corpo fra una piastra e l’altra, soprattutto sul petto: dove si aggiungevano ulteriori rinforzi, i 246 choretti di ferro di filo, nella bottega del corazzaio. Non per questo la qualità dei prodotti era lasciata al caso: sia per i pezzi nuovi che per quelli riparati, il Comune di Firenze aveva stabilito standard per lo spessore dell’acciaio e le rifiniture, in modo da evitare truffe e salvaguardare chi poi avrebbe indossato la protezione. Probabilmente, il mazzuolo con 6 timbri scambiabili che si trova nella bottega fiorentina del Ciantellini serviva a certificare la «classe» dei vari prodotti che uscivano dal suo laboratorio, indicandone al contempo la provenienza. Pochissime sono le armi che il corazzaio pratese tiene nel suo magazzino: 2 stocchi, uno tristo e uno nuovo, spade dalla lama affusolata e robusta adatte ai colpi di punta; I mazza ferrata da chombattere, arma contundente con una testa pesante in cima a un manico; I picchone e I acietta, un paio di manesche minute, tipo di lance non tanto lunghe. Armi e armature sono state consegnate dai curatori della successione al cugino del defunto,

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anch’egli armaiolo, sperando in una vendita a beneficio dei figli del corazzaio. Nell’enorme quantità di prodotti e materiale metallico, spuntano nell’inventario anche II toppe chon chiavi a stanghetta e XXII libbre – ovvero quasi 8 kg – di toppe e chiavi. L’unione ufficiale dei fabbricanti di chiavi all’Arte dei Corazzai e Spadai avvenne solo nel 1534 per ordine di Alessandro de’ Medici: Giovanni Ciantellini, già un secolo prima, tratta questi oggetti, che non sono certamente la voce principale dei suoi introiti, ma che ripara o realizza con il metallo di vecchie armature.

La spartizione dei beni

Il confronto fra la documentazione catastale e quella della successione, mostra che, nei tre anni che intercorrono, il patrimonio immobiliare degli eredi è rimasto intatto per quanto riguarda gli immobili cittadini, mentre risulta alleggerito delle proprietà fondiarie di terre e prese: non solo i terreni della vedova a Iolo, valutati piú di 400 fiorini, sono probabilmente rientrati nella restituzione dotale alla famiglia dei suoceri, ma non fanno parte dell’asse ereditario censito neanche poderi e poderelli che costituivano un terzo del patrimonio fondiario dichiarato al Catasto, per una quota di 329 fiorini, quasi l’equivalente sia di quanto rimasto in asse sia della dote materna. La produzione granaria denunziata al fisco nel 1427 dal corazzaio proveniva sia dalle proprietà a Iolo sia dal reticolo di terre diffuse negli altri Comuni, che rendevano entrambe alla famiglia almeno 80 staia annue di grano, mentre il vino bianco e le biade davano risultati significativi solamente a Iolo. Nel 1427, nelle confinazioni fornite per i vari appezzamenti e poderi, ritornano a piú riprese i nomi di importanti famiglie pratesi, fiorentine e pistoiesi: Adimari nel Montalese, Panciatichi nel Monte-

murlese, Caccini a Iolo, Gualdimari e il notaio ser Francesco di messer Lapo da Prato nel Pratese. Tre anni piú tardi, in chasa Ghuccio Adimari a Prato, sono conservate 431 staia di grano e 370 sono in chasa di Tieri di Michele Migliorati da Prato: la somma riporta 791 staia di grano di quello di detta rede, laddove la somma della produzione frumentaria di tutte le proprietà del corazzaio per i 3 anni dal 1427 al 1429 ammonterebbe a circa 738 staia di grano. Tenuto conto del consumo alimentare degli eredi e dei resti di raccolte precedenti, ciò significa che grande cura e cautela hanno caratterizzato il lavoro dei conduttori dei terreni di Giovanni e del curatore degli eredi, tale Ottaviano [Adimari?], negli anni in cui si inquadra la scomparsa del corazzaio. Le derrate agricole, consegnate di preferenza a Prato piuttosto che a Firenze, e là conservate insieme a vari tini che sono nelle case dei lavoratori dei diversi appezzamenti di terra, potrebbero indicare l’avvenuto rientro della vedova e degli eredi presso parenti e affini pratesi. Ma se non compare nella successione, a chi è andata la cospicua fetta di terreni rurali a vocazione granaria il cui prodotto è stivato e gestito in nome e conto degli eredi per il riscontro degli Ufficiali dei Pupilli? F

Da leggere Claude Blair, Lionello Giorgio Boccia, Armi e armature, Fabbri, Milano 1982 Lionello Giorgio Boccia, Eduardo T. Coelho, L’arte dell’armatura in Italia, Bramante, Milano 1967 Luciana Frangioni, Armi e mercerie fiorentine per Avignone, 1363-1410, in Studi di storia economica Toscana nel Medioevo e nel Rinascimento: in memoria di Federigo Melis, Pacini, Pisa Ospedaletto 1987; pp. 145-171

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immaginario il cinghiale

Fortuna e di Domenico Sebastiani

declino di un

guerriero

In età antica e poi nel Medioevo, il cinghiale era ritenuto uno dei piú temibili inquilini della foresta e la sua caccia ebbe spesso la connotazione di un’autentica prova di coraggio. Anche se, ad accrescere la fama del cugino selvatico del maiale, contribuí in maniera decisiva il suo apprezzamento da parte di cuochi e buongustai...

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domeneo (…) li attese, come sui monti un cinghiale, che nella forza confida, / attende l’impeto rumoroso dei cacciatori incalzanti, / in luogo solitario: e sulla schiena drizza le setole, / gli occhi lampeggiano fuoco, aguzza i denti, / pronto a difendersi dai cani e dagli uomini». Tale mirabile similitudine tra il guerriero e il cinghiale, contenuta nell’Iliade di Omero (XIII, 470 ss.), rispecchia bene le caratteristiche guerresche e virili riconosciute al suide fin dalla civiltà greco-micenea. Infatti, pur appartenendo a un’unica specie – essendo tra loro interfecondi –, il maiale domestico e il selvatico cinghiale appaiono contraddistinti fin dall’antichità da valenze simboliche molto differenti. Il primo, apprezzato per la sua carne, vive nel branco ed è considerato – oltre che corrispettivo di voracità alimentare e sessuale e sinonimo di sporcizia – l’animale stolto per eccellenza, grossolano e tardo di comprendonio; la sua versione selvatica, invece, rappresenta uno degli animali piú temuti e ammirati nelle epoche arcaiche e classiche. Sacro ad Artemide e al dio della guerra Ares, nell’epica dell’antica Grecia il cinghiale ha una caratterizzazione fortemente «maschile» e compare spesso come termine di comparazione per l’eroismo del guerriero, in questo secondo solo al leone. Il cinghiale, inoltre, si pre-

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Miniatura raffigurante una battuta di caccia al cinghiale con i cani, dal Livre de Chasse di Gaston Phoebus. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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lessico

Da aper a cinghiale Il termine cinghiale è un nome volgare che appare attorno al XIII-XIV secolo. I Romani chiamavano il cinghiale con il termine di aper, mentre il maiale con quello di sus o porcus. Talvolta i cinghiali venivano definiti feri sues. Dato che il cinghiale ama vivere appartato, venne designato come singularis, per cui nel latino volgare si trova singularis porcus e anche singlare, da cui è derivato il termine francese sanglier. Nel tempo, con assimilazione della consonante liquida, singularis diventò singulalis, poi singhiale, nome che poi venne incrociato con cinghia, per il collare di setole che distingue il cinghiale. Da qui il nome che attualmente identifica l’animale. senta come un animale «armato», visto che è dotato di un’arma corta e di uno scudo: la prima è costituita dalle zanne, simili a sciabole taglienti, che gli permettono di procurare agli avversari ferite profonde e spesso letali, il secondo è la corazza di callo che i maschi hanno sulle spalle e che si forma nel periodo degli accoppiamenti. In definitiva, il cinghiale incarna l’aristocratico e valoroso eroe il quale, spinto dalla foga guerriera, fronteggia da solo gli avversari, massacrandoli o terrorizzandoli.

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Nondimeno la bestia è ammirata, e cacciare il cinghiale rappresenta un passatempo amato dai signori e nobili romani. Le battute, che si praticano a piedi e con l’aiuto di reti e cani per stanare la preda, si concludono spesso con uno scontro corpo a corpo, nel quale l’uomo, armato di spiedo, cerca di abbattere l’animale colpendolo alla gola o tra gli occhi. In caso di esito positivo, la selvaggina finisce spesso sulla tavola dei signori, come ci è stato tramandato da numerose ricette, quali, per esempio, quelle di Apicio nel De re coquinaria.

Un «animale di civiltà»

Nell’Alto Medioevo, sotto la spinta delle invasioni barbariche, si assiste a una profonda modificazione degli stili alimentari: se l’antico mondo greco-romano basava il suo sostentamento sulla triade «pane-olio-vino», le popolazioni celto-germaniche amano mangiare carne. Massimo Montanari ha osservato che è vano ricercare tra Celti e Germani una «pianta di civiltà», per usare un’espressione dello storico Fernand Braudel, che sia fondante come lo è stato il grano nella civiltà In alto Piazza Armerina (Enna), Villa Romana del Casale. Particolare dal mosaico della Sala della Piccola Caccia raffigurante due cacciatori che trasportano un cinghiale. IV sec. Nella pagina accanto diverse tecniche di caccia al cinghiale illustrate nelle miniature di un manoscritto rinascimentale. 1551. Parigi, Bibliothèque nationale de France. gennaio

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immaginario il cinghiale A destra scena di caccia raffigurante un cinghiale spinto in trappola, particolare di una miniatura dal Livre de Chasse di Gaston Phoebus. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

In alto la scuoiatura del cinghiale, particolare di una miniatura dal Livre de Chasse di Gaston Phoebus. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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greca e latina; si potrebbe invece parlare di un «animale di civiltà» per il maiale, protagonista incontrastato del mondo e della mitologia celtica, «primo e indispensabile sostentamento dell’uomo». Se, come già ricordato, nel mondo classico era oggetto di profonda disistima sotto il profilo culturale, presso le popolazioni germaniche, e ancor prima celtiche, il suino è invece animale sacro, simbolo di abbondanza e fertilità. Strabone riferiva che i Celti amavano particolarmente la carne di maiale fresca e salata, e che in Gallia i maiali erano grandi e feroci; testimonianze archeologiche provenienti da tombe dell’età del Ferro rinvenute in Britannia e nell’Europa continentale attestano la pratica di festini funerari a base di carne suina. Del resto, i racconti mitologici irlandesi narrano di un largo uso del maiale, quale cibo divino, durante i banchetti terreni, come durante il periodo di Samain. Diodoro Siculo attesta che durante i convivi scoppiavano spesso risse tra i guerrieri per accaparrarsi la parte migliore dell’animale. Si può citare il caso del Festino di Bricriu, uno dei racconti appartenenti alla saga irlandese di Cú Chulainn – ovvero la disputa durante il banchetto di Mac Da Thó, re del Leinster –, ove si ha a gennaio

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Nella pagina accanto particolare dall’Allegoria dell’udito, del tatto e del gusto, olio su tela di Jan Brueghel il Vecchio. 1618. Madrid, Museo del Prado. A destra miniatura raffigurante la macellazione del maiale e del cinghiale, da un’edizione del Theatrum Sanitatis. XIV sec. Roma, Biblioteca Casanatense.

che fare con un maiale enorme, nutrito per sette anni dal latte di tre ventine di mucche. La carne di maiale trionfava pure nei banchetti dell’aldilà: la mitologia celtica prevedeva che ogni bruidhen od «ostello dell’oltretomba» fosse governato da un dio che presiedeva il banchetto, raffigurato come un uomo con un maiale sulla spalla. In tali banchetti i maiali venivano uccisi e mangiati ogni giorno in magici calderoni per poi nascere di nuovo ed essere consumati il giorno seguente, come quelli del dio Manannán mac Lir. Immaginario analogo si trova nella mitologia norrena: il maiale appare come nutrimento perenne nella Valhalla di Odino, ove viene cotto ogni giorno dal cuoco Andhrímnir e consumato, ma è di nuovo intero la sera. Noto è il legame tra il dio Freyr e il cinghiale: egli possiede Gullinbursti, verro dalle setole d’oro, capace di correre piú di qualsiasi destriero sia in aria che in acqua, sia di giorno che di notte. La stessa Freyja, sua sorella, dea dell’amore, della fertilità e della guerra, cavalca Hildisvíni – un cinghiale dal petto dorato – ed è una dea

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«scrofa». Verri e cinghiali venivano offerti in sacrificio alle divinità, o sacrificati in concomitanza con la festa di metà inverno dello jól, periodo in cui si riteneva che i morti tornassero sulla terra. Maiale e cinghiale, quali simboli di fecondità e potenza, erano legati alla stirpe dei re svedesi Ynglingar, discendenti di Freyr, che avevano come beni preziosi e segni distintivi elmi e anelli che richiamavano nel nome la componente suina (maiale di battaglia, verro di battaglia e cosí via).

Trombe come teste di cinghiale

Nel mondo germanico, celtico e slavo, il cinghiale è emblema di guerra e di caccia. Esso veniva raffigurato in statuette o nelle monete celtiche con la criniera eretta, quale simbolo di aggressività, mentre in battaglia si usavano trombe con padiglioni a forma di testa di cinghiale, cosí come gli elmi erano sormontati da immagini dell’animale come cimieri. Analogamente, scudi e insegne di guerra ritraevano spesso l’effigie del cinghiale. Per il guerriero celto-germanico, l’animale ha una

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immaginario il cinghiale Leggende

La caccia al cinghiale bianco La mitologia celtica ci ha lasciato numerosi episodi di re o principi che partono per una caccia a un cinghiale, in particolare un cinghiale bianco, che li condurrà in mondi fatati o addirittura oltremondani. Il medievista Philippe Walter ha evidenziato come re Artú, il cui nome è costruito sulla radice indoeuropea art-, la stessa dell’orso, rappresenti il sovrano archetipico che caccia senza fine la femmina o il maschio del cinghiale. Molto famoso è l’episodio del gigantesco cinghiale oltremondano Twrch Trwyth che, nel racconto gallese Culhwch e Olwen (databile attorno all’XI secolo), Artú insegue per tutta l’Irlanda, il Galles e la Cornovaglia fino a sconfiggerlo, a impossessarsi delle sue magiche zanne e a recuperare

tre oggetti magici che si trovano tra le orecchie, ossia il pettine, il rasoio e le forbici necessarie per rasare Yspaddalen, capo dei giganti. Ad avviso dello studioso francese il tema della caccia al mostruoso cinghiale ricorda molto quella del cinghiale Erimanto nel mito di Eracle, episodi indipendenti ma derivati da una comune tradizione indoeuropea. Anche molti testi francesi e anglo-normanni del XII e XIII secolo, attingendo a tale ricca mitologia celtica del maiale selvatico, narrano le avventure di eroi – Guingamor, Aubri le Bourguignon, Tristano – che, cacciando il cinghiale bianco, vengono portati a varcare le porte dell’Altro Mondo. Esemplare, in questo senso, è la storia del lai anonimo Guingamor in cui il protagonista, nipote del re di Bretagna, dopo aver respinto l’amore per la regina del sovrano, è indotto a partire per la pericolosa caccia al blanc porc, che ha già visto valorosi cavalieri della corte

partire e mai piú tornare. Inoltratosi nella foresta, Guingamor avvista il cinghiale. Durante l’inseguimento, si imbatte in uno splendido castello disabitato, ove viene accolto da una ragazza, appartenente al mondo delle fate, la quale lo invita a rimanere ospite nella dimora, dove trascorre il tempo in modo paradisiaco incontrando i cavalieri scomparsi. Al terzo giorno Guingamor esprime il desiderio di tornare dal suo re per mostrargli la testa del cinghiale catturato, ma la dama lo avverte che nel frattempo sono passati ben trecento anni. Ciononostante, il cavaliere si incammina e dopo aver incontrato un carbonaio, che gli riferisce che il re di Bretagna è effettivamente morto da secoli, contravviene a un divieto alimentare – si ciba infatti di tre mele selvatiche – e diviene vecchio all’istante, ma viene soccorso da giovani ragazze a cavallo, che lo portano indietro, al di là del fiume. Guingamor è salvo, ma non potrà piú tornare nel mondo reale.

Il cinghiale è anche il soggetto di elaborati soprammobili come questo esemplare in porcellana. Sèvres, Cité de la céramique.

duplice valenza: da un lato, figura selvaggia e indomita con cui il guerriero stesso tende a immedesimarsi; dall’altro, fiero avversario nelle battute di caccia. Non bisogna dimenticare, infatti, che la mentalità delle popolazioni barbariche influenzò profondamente la cultura del nobile altomedievale. Egli è, allo stesso tempo, guerriero e cacciatore.

Un passatempo irrinunciabile

La caccia medievale è un elemento strutturale e irrinunciabile della mentalità del guerriero e, insieme al combattimento, al banchetto e al torneo, è un tratto costitutivo della sua «autocoscienza». Dal momento che l’intera esistenza del guerriero è improntata alla propria esaltazione fisica, alla valorizza-

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La bestia a sette teste dell’Apocalisse venerata da un ipocrita mentre schiaccia un santo, miniatura dal manoscritto La Somme le Roy. XIII sec. Parigi, Bibliothèque Mazarine. Una delle teste è riconoscibile come quella di un cinghiale.

zione del corpo tramite l’esercizio della forza, il riposo del nobile non è inattività, ma è improntato all’azione. Nella caccia medievale le componenti ludiche sono secondarie, poiché essa assumeva i connotati di una battaglia vera e propria. Questo spiega la ragione per cui i nobili adulti si lanciassero con foga e senza risparmiarsi nello scontro diretto, corpo a corpo, con le belve, in primis orsi e cinghiali. La nobiltà guerriera amava alternare campagne militari con periodi, anche di molti mesi, in cui si ritirava nelle proprie riserve per dedicarsi all’attività cinegetica. Tali esercizi venatori sembra fossero quasi ritualizzati nel periodo della dinastia carolingia – basti pensare alle campagne venatorie di Carlo Magno e Ludovico il Pio nelle foreste delle Ardenne – e forse ancor prima. Dal momen-

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to che la pericolosità doveva essere un carattere insito dell’attività venatoria, i nobili sceglievano come periodi migliori per le battute l’autunno e l’inverno, cioè quando animali come i cinghiali, nella stagione degli accoppiamenti, divenivano piú feroci; a ciò si aggiungeva la difficoltà, nei Paesi settentrionali, delle condizioni atmosferiche, del freddo e delle piogge, che rendevano il terreno piú accidentato, teatro ideale per la riproduzione in piccolo della guerra reale – il che spiega anche l’alto numero di morti che si registravano tra i cacciatori. Nel Settentrione europeo, la caccia agli animali considerati piú feroci e pericolosi – e quindi piú nobili – ossia l’orso e il cinghiale, seguiva una particolare modalità: la battuta iniziava a cavallo, ma terminava sempre a piedi, in un corpo a corpo che vedeva fronteggiarsi il guerriero – munito solo di spada o pugnale – e la bestia feroce. Lo scontro diretto con il cinghiale non ammetteva facilitazioni e si presentava, allo stesso tempo, come una prova iniziatica per i giovani guerrieri, alla pari con quella all’orso. Lo stesso lessico tedesco conferma la parentela simbolica tra i due animali: i termini Bär (orso) ed Eber (cinghiale) etimologicamente si ricollegano entrambi alla radice germanica *bero, il cui significato è «combattere» e «colpire». Solo dopo aver affrontato e ucciso in uno scontro diretto un orso o un cinghiale, il giovane guerriero medievale veniva ammesso nella società degli adulti.

Il valore simbolico della carne

La caccia ha come naturale prolungamento il banchetto. Se nel mondo classico il pane era l’alimento per eccellenza, nel Medioevo la scala di valori si inverte: il medico e scrittore Aldobrandino da Siena, nel XIII secolo, scrive che «fra tutte le cose che danno nutrimento all’uomo, la carne è quella che lo nutre di piú, e l’ingrassa e gli dà forza». Da un punto di vista simbolico, la società – soprattutto quella altomedievale – associa al consumo

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immaginario il cinghiale di carne una certa immagine sociale e politica. Se la Nella pagina accanto miniatura raffigurante sant’Uberto, dalle Grandes Heures d’Anne de Bretagne di Jean Bourdichon. XV sec. carne è l’alimento che piú di tutti conferisce forza, essa Parigi, Biblothèque nationale de France. sarà l’alimento tipico del potere; potente è il guerriero, che trae il suo sostentamento dalla carne e che, in virtú della sua forza fisica, prevale sugli altri, legittimando milmente il vescovo di Ferrara (1182) aveva il diritto cosí la sua supremazia. Per una semplice proprietà di ricevere le interiora dei cinghiali cacciati nel bosco transitiva che associa la carne alla vigoria fisica e al po- di Glazano. In alcuni casi cinghiali erano dovuti come tere (chi mangia e beve moltissimo esprime e impone tributo a monasteri femminili: la badessa del convento la propria superiorità animalesca nei confronti dei suoi di Monticelli Senese riceveva da altro monastero, come riconoscimento del proprio primato, un cinghiale simili), la carne diventa il cibo dell’aristocrazia euroben carnoso, ma «sine capite et cruribus et interioribus», pea, ossia dei nobili guerrieri di stampo germanico. Come insegna Massimo Montanari, l’ideale del no- parti che non si addicevano alla destinataria, donna e bile guerriero che prende piede nell’Europa dei nuovi religiosa allo stesso tempo. Tuttavia, la fortuna dell’animale a un certo moceti dominanti di impronta barbarica è quella «di un uomo capace di ingurgitare quantità enormi di cibo e di mento comincia a offuscarsi. Infatti, a partire dal XIIIbevande: questo è l’eroe, quale ce lo descrivono la mito- XIV secolo, come si può dedurre da varie fonti – tratlogia germanica e i poemi cavallereschi», un consuma- tati cinegetici, rendiconti contabili di principi e signori – sembra che la caccia al cinghiale non sia piú ricercata tore forte, ingordo e insaziabile. Il suo cibo preferito è la selvaggina, soprattutto quella costituita da animali fero- come una volta, sebbene documenti piuttosto tardi, ci che lo stesso ha ucciso nelle battute di caccia. Orsi, uri come l’anonimo componimento inglese Sir Gawain e e – appunto – il cinghiale sono per tutto l’Alto Medioevo il Cavaliere Verde (fine XIV secolo), tratteggino ancora battute memorabili. Sono però i trattati di caccia ini cibi per eccellenza sulla tavola dei nobili. Mentre mangiare la carne dell’orso – di per sé mol- glesi e francesi, tra i quali in primo luogo il celebre Livre de chasse (1387-1389) le, insipida e molto oleosa Gaston Phoebus, con– è un atto rituale piú che Benché anziano e afflitto dalla di te di Foix, l’Art de vénerie gastronomico, in quanto importante non è assaporare la gotta, Carlo Magno non si privò (1315-1320) di William e, soprattutto, il carne, ma assimilare la forza mai della caccia e degli arrosti Twich Livres du roy Modus et de la dell’animale, per il cinghiale royne Ratio (1360-1379) di i due concetti si fondono. La carne del suide, dal sapore forte e gustoso e apprezzata Henri de Ferrières a mettere in disparte la figura del fin dall’antichità, diventa la pietanza regale per eccel- cinghiale e a svalutarlo quale selvaggina. Nel primo, il conte di Foix riconosce una certa dilenza, in quanto coniuga al massimo grado la componente gastronomica e il valore simbolico del valoroso gnità e fierezza al nostro animale, considerandolo come animale cacciato. Inoltre, la carne deve essere mangiata l’unico al mondo capace di uccidere l’uomo all’istante cotta direttamente sul fuoco, allo spiedo, senza bisogno («È la bestia al mondo che ha piú forti zanne e che rapidamente di alcuna intermediazione: la carne arrostita propende uccide un uomo o un animale; non c’è nessuna fiera in grado di per il brutale e il selvatico, per nozioni di violenza e di uccidere in combattimento da solo a solo piú velocemente di lui, bellicosità, a differenza del lesso che si accosta a un’idea né il leone né il leopardo (…) infatti né il leone né il leopardo del domestico estranea alla mentalità guerriera. Eginar- uccidono un uomo o una bestia di colpo (…) il cinghiale uccide do, biografo di Carlo Magno, ci racconta come il grande di colpo, come farebbe un coltello»), ma allo stesso tempo sovrano, benché anziano e malato di gotta, non volesse lo annovera tra le bestie di taglia grossa, che mordorinunciare né alle battute di caccia, né ai suoi amati ar- no, puzzolenti e nere, preferendogli il cervo. Ma è soprattutto Henri de Ferrières a essere molto severo con il rosti, a cui era assuetus (abituato). La fortuna del cinghiale, quale indomito avversa- cinghiale, di cui enumera le dieci caratteristiche morali, rio, come ambita pietanza nelle mense aristocratiche e accostandole ai dieci comandamenti dell’Anticristo. Altra spia che denota il lento declino della caccia al come trofeo della caccia stessa, continua per un lungo periodo. Lo testimoniano una serie di obblighi-diritti cinghiale, rinvenibile dalle raccolte contabili dei signofeudali, presenti anche in Italia. Attorno al 1015 il doge ri inglesi e francesi dell’epoca, è la netta diminuzione dell’acquisto di mute di cani specializzati – che spesso Ottone Orseolo esigeva dagli abitanti di Eraclea la testa e i piedi di ogni cinghiale adulto catturato e la spalla di venivano uccisi nelle battute e dovevano essere contiogni cervo. Nel Comune di Sambuca Pistoiese (1291) nuamente rimpiazzati – o addirittura la diffusione della il primo capriolo dell’anno, la testa del primo orso e la prassi di prendere in prestito le mute, ormai non piú spalla del primo cinghiale spettavano al vescovo; si- esistenti in pianta stabile.

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immaginario il cinghiale Ad avviso dello storico e antropologo francese Micugino maiale – comincia a essere associato a diversi chel Pastoureau tale declino – che si manifesta in prima peccati mortali, fino ad arrivare a essere personificabattuta in Francia e in Inghilterra, mentre è di almezione di ben sei peccati su sette, con la sola eccezione no un secolo piú tardo nei Paesi germanici e in Italia dell’avarizia. Di converso, nelle miniature o negli arazzi – sarebbe dovuto non solo ai cambiamenti delle tecnitedeschi del XV secolo che raffigurano la lotta tra vizi e che venatorie, ma, soprattutto, all’atteggiamento della virtú in forma di giostra, il cinghiale diviene la cavalcaChiesa nei confronti della caccia stessa e nei confronti tura ideale per la maggior parte dei vizi capitali. dell’animale. Un atteggiamento, quest’ultimo, risalente L’avvento del leone e del cervo ai primissimi secoli dell’era cristiana. Se, infatti, l’antica In definitiva, sia l’orso (antico re degli animali) che il ripugnanza e avversione nei confronti del maiale ne fa cinghiale (la piú regale delle selvaggine) finiscono per talvolta un’icona demoniaca, in quanto – quale bestia essere accomunati da un processo di progressiva deimmonda che gode del fango e della sporcizia –, è simile gradazione simbolica, venatoria e alle schiere dei demoni che si nutrono alimentare, a causa del loro legame del sangue delle bestie e della morDa leggere troppo stretto con il mondo pagate dell’uomo – cosí come predicano no. A loro si cominciano a preferiAmbrogio e Girolamo – un tratta Michel Pastoureau, Cacciare il re animali caratterizzati da valenmento ancor piú duro viene riservacinghiale. Dalla selvaggina regale ze piú compatibili con l’ortodossia to al suo feroce parente, il cinghiale. alla bestia impura: storia di una cristiana, come l’esotico leone e il svalutazione, in Id., Medioevo Immagine di Satana mite cervo. Quest’ultimo ha valore simbolico, Laterza, Roma-Bari Nella Bibbia esso viene nominato sacrale presso quasi tutte le culture 2007 (ed.or. 2005); pp. 56-68. una sola volta, laddove si lamenta del mondo euroasiatico. Paolo Galloni, Il cervo e il lupo. la devastazione della «vigna Israele» Animale profondamente timido, Caccia e cultura nobiliare nel a opera degli eserciti nemici: «l’ha esso è una vittima designata e non Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1993 devastata un cinghiale dalla foresta, una presenta nessuna di quelle caratte Massimo Scheggi, La Bestia Nera. fiera solitaria se ne è cibata» (Ps 79,14). ristiche di aggressività e ferocia che Caccia al cinghiale fra mito, storia Ciò basta e avanza. Dal significato caratterizzano lo scontro con orso e attualità, Editoriale Olimpia, storico si passa a quello figurato: e cinghiale tanto amato dai nobili. Firenze 1999 la vigna è l’immagine tipica usata Anche se la caccia al cervo comporta Massimo Montanari, Alimentazione dalla Bibbia per indicare il popolo di una certa dose di violenza, essa non e cultura nel Medioevo, Laterza Dio, ma viene poi estesa alla Chiesa prevede il corpo a corpo con l’aniRoma-Bari 2010 (ed. or.1988). e all’anima cristiana. Come predicamale, ma un lungo inseguimento a Francesco Maspero, Bestiario no piú autori, da Agostino a Esichio cavallo fino alla cattura. È una cacantico. Gli animali-simbolo e il di Gerusalemme, il solitario e feroce cia, in base al pensiero cristiano, piú loro significato nell’immaginario cinghiale diventa l’immagine stessa gestibile e che comporta meno spardei popoli antichi, Piemme, Casale della superbia del principe di questo gimento di sangue. Monferrato 1997 mondo, ossia di Satana stesso. Del resto il cervo è sempre valuL’opera demonizzante dei Padri tato positivamente nelle Sacre Scritdella Chiesa trova degni eredi anche successivamenture, basti pensare alle parole iniziali del Salmo 42 di te – basti pensare a Rabano Mauro che nel IX secolo David e agli ultimi versi del Cantico dei Cantici attribuito inserisce l’animale nel bestiario del Diavolo – e ciò ina Salomone. Tale circostanza conferisce all’animale una cide profondamente sul simbolismo del cinghiale. Nel forte dimensione cristologica, amplificata dalla grande Basso Medioevo, l’animale acquista una valenza del fortuna degli episodi agiografici riguardanti Eustachio tutto opposta a quella posseduta nell’Alto, gli stessi e Uberto, i quali, inseguendo un cervo crucifero nel folto aggettivi che lo caratterizzavano un tempo in senso della foresta, si convertono alla fede cristiana. In pieno positivo – la selvatichezza, la ferocia, la violenza, il Medioevo, il cervo diviene una preda regale e la pietancoraggio – divengono ora attributi negativi, e le sue za piú ambita e preziosa nella tavola dei potentes, come caratteristiche esteriori, come il pelame scuro, le sue decreta Gaston Phoebus nel citato trattato cinegetico abitudini notturne, gli occhi e le zanne che sembraLivre de chasse. Piú tardi, nel Rinascimento, i nobili conno emanare scintille, lo rendono un animale che pare tinuarono ad amare la selvaggina, ma i loro gusti mutauscito dall’Inferno per sfidare Dio. rono ulteriormente: dalle bestie di grossa taglia si passò A partire dal XIII secolo, nelle summae teologiche, a preferire i volatili, che esprimevano un concetto di ponelle raccolte di exempla e nei bestiari letterari o iconotere non piú basato simbolicamente sulla forza fisica, grafici associati ai vizi capitali, il cinghiale – insieme al ma sull’abilità intellettuale. F

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di Roberto Roveda e Michele Pellegrini

Ottocento anni fa, con le bolle del 22 dicembre 1216 e del 21 gennaio 1217, papa Onorio III approvò solennemente la forma di vita di Domenico di Caleruega e dei suoi compagni. Fu l’atto di nascita ufficiale dell’Ordine dei Frati Predicatori

I «segugi» del Signore La nascita dell’Ordine domenicano

San Domenico intento nella lettura, particolare dell’affresco del Cristo deriso di Fra’ Giovanni da Fiesole, detto il Beato Angelico. XV sec. Firenze, Museo di San Marco.


Dossier

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cavallo fra il XII e il XIII secolo, il papato di Innocenzo III (1198-1216) segnò l’inizio di una fase decisiva nella lotta contro gli eretici, ma anche nell’organizzazione e nella disciplina dei molti movimenti religiosi che stavano nascendo un po’ ovunque in quel periodo in Europa. Di queste molteplici esperienze i vertici della Chiesa di Roma seppero cogliere gli aspetti e le novità utili al consolidamento della dimensione politica del cristianesimo occidentale. La strategia del papa era in effetti chiara: contemplare l’assimilazione di chi era comunque disposto a farsi assimilare e intervenire duramente contro coloro che, invece, rimanevano fedeli alle proprie posizioni considerate ereticali. Pensare alle realtà che accettarono di essere assimilate e di trasformarsi in strumenti della Chiesa del Duecento, significa rivolgere innanzitutto lo sguardo agli Ordini religiosi che la tradizione fa risalire a Francesco d’Assisi e a Domenico di Caleruega. Già nel 1234, nella bolla Fons sapentiae – con cui Domenico veniva canonizzato –, papa Gregorio IX accomunò non certo a caso la nascita di questi due nuovi Ordini in un disegno provvidenziale di salvezza della Chiesa e sconfitta dell’eresia. Tuttavia, occorre sottolineare come le due vicende religiose, sebbene si siano sviluppare nello stesso momento, abbiano avuto origini e caratteri che si rifanno ad aspirazioni e vocazioni assai diverse. Questa distanza tra l’esperienza «domenicana» e quella «francescana» traspare nel racconto delle origini dell’Ordine legato a san Domenico, origini molto differenti da quelle dei Frati Minori. Gli studi sugli inizi dell’Ordine dei Frati Predicatori (o Domenicani) non dispongono di una fonte straordinaria come il Testamento di Francesco d’Assisi, poiché Domenico ha lasciato un numero assai limitato di scritti e nessuno assume un valore

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di rievocazione dei primi passi della fraternità. Sappiamo che Domenico di Guzmán di Caleruega, nato intorno al 1170, era un chierico, canonico del capitolo cattedrale di Osma (oggi piccolo centro, ma importante sede vescovile della Castiglia al tempo degli eventi). Non era quindi un laico come Francesco d’Assisi. È inoltre certo che a una posizione di sicuro prestigio nel clero della cattedrale di Osma, Domenico preferí un’esistenza ben piú precaria.

San Domenico e le storie della sua vita (particolare), polittico di Francesco Traini, oro, tempera e olio su tavola. 1344-1345. Pisa, Museo di San Matteo.

In viaggio col vescovo

Incaricato intorno al 1203 di viaggiare al seguito del suo vescovo Diego d’Acebo verso il Nord Europa, egli inizialmente pensò di poter raggiungere la perfezione cristiana rifacendosi all’antica tradizione del martirio presso genti pagane. Il suo originario intento, però, si modificò quando Domenico entrò in contatto con le popolazioni del Mezzogiorno di Francia, dove erano numerosi i «buoni cristiani dualisti», conosciuti come Catari (o anche Albigesi, perché presenti nella città francese di Albi) e contro i quali stava per essere lanciata la crociata (vedi box alle pp. 82-83). A quel punto, Domenico scelse dunque di combattere il nemico interno alla cristianità piuttosto che dedicarsi alla conversione di popoli lontani. I Catari, infatti, forse piú di ogni altra eresia del XII-XIII secolo, costituivano una minaccia anche concreta per la Chiesa di Roma poiché a una teologia alternativa a quella cattolica essi affiancavano, grazie anche al sostegno dei signori laici del Mezzogiorno di Francia, istituzioni religiose parallele a quelle «ufficiali». Per questo motivo, nel 1209, papa Innocenzo III bandí contro di loro la prima crociata interna alla cristianità; e sempre per far fronte alla «minaccia» catara, Domenico e i suoi primi compagni scelsero di dedicarsi alla predicazione come attività principale. Convinto che le armi migliori gennaio

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I Catari

Il dualismo dei «puri» Scarse sono le notizie sul movimento cataro e quelle di cui possiamo disporre sono state tramandate da coloro che combatterono la loro dottrina, cioè pontefici e inquisitori. Sappiamo che con la parola «catari» (di derivazione greca e che significa «puri») già i Padri della Chiesa indicavano dualisti e manichei

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e che, tra il XII e il XIII secolo, si cominciò a chiamare cosí i seguaci di diverse dottrine dualiste e gli adepti di vere e proprie Chiese, diffuse in area mediterranea e contrapposte alla Chiesa di Roma. Tale contrapposizione al cattolicesimo ha fatto pensare a lungo che il catarismo fosse legato ad altre esperienze di gennaio

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Nascono i Predicatori

eresia interne al cristianesimo come i Valdesi. In realtà, il movimento cataro si basava su una concezione dualistica che vedeva il bene e il male come forze in continuo conflitto. Derivava inoltre direttamente dalle religioni orientali e dal bogomilismo diffuso nei Balcani. Le dottrine catare trovarono molti seguaci tra mercanti, chierici e cavalieri e si propagarono soprattutto nel sud della Francia (Albi) e nell’Italia settentrionale. Qui i Catari si fecero portatori delle istanze di rinnovamento e di moralizzazione della Chiesa che avevano

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Ritorno a Roma

Alla morte di Innocenzo III, Domenico tornò a Roma, tra la fine del 1216 e i primi mesi del 1217, e ottenne dal successore Onorio III la conferma del proposito di vita dei Predicatori. Il pontefice sottolineò nella bolla Gratiarum omnium del 21 gennaio 1217

Parigi

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Tolosa Caleruega Prouille

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Nel 1213 su invito del vescovo Folco di Tolosa, Domenico e i suoi seguaci si stabilirono nella locale chiesa di S. Romano, dove sperimentarono la loro grande efficacia nella predicazione antiereticale. Qui vennero poste le basi per la trasformazione della primitiva comunità itinerante in un Ordine religioso dalla peculiare vocazione alla predicazione. Domenico e i suoi primi frati percorrevano scalzi, a due a due, le vie della Provenza senza possedere nulla e senza accettare denaro. Con l’esempio di una severa ascesi personale diffondevano lo stesso messaggio degli

Cartina nella quale sono riportati i luoghi in cui san Domenico nacque (Caleruega), operò (Osma, Palencia, Tolosa, Prouille, Parigi) e finí i suoi giorni (Bologna).

probabilmente legato alla volontà di limitare la proliferazione di nuovi Ordini. Ciononostante, da quell’anno, l’impegno di Domenico e dei suoi seguaci si intensificò anche perché il IV Concilio Lateranense stabilí, sempre nel 1215, l’istituzione di gruppi di specialisti della predicazione capaci di affiancare i vescovi in ogni diocesi della cristianità, facendosi carico anche di compiti di cura d’anime.

AT LA NT IC O

contro l’eresia fossero un comportamento irreprensibile e una vita ascetica esemplare, Domenico, dopo aver dato vita a Prouille (ai piedi dei Pirenei) a una comunità femminile, organizzò un piccolo nucleo di sacerdoti attratti dal suo proposito di vita modellata su quella degli apostoli. Con loro Domenico si dedicò alla predicazione itinerante nel cuore della Provenza, rimanendovi anche durante la crociata anti-catara e fondandovi un istituto femminile, a testimonianza del successo che le proposte pauperistico-evangeliche stavano ottenendo in quel primo scorcio del XIII secolo tra le donne.

eretici contro cui combattevano e dai quali, almeno in origine, anche esteticamente non dovevano essere poi molto diversi. Cosí facendo questi primi frati agevolarono la riconquista di larghi settori della società del Mezzogiorno francese da parte della Chiesa ufficiale. Domenico e questo iniziale gruppo di compagni trovarono per questa ragione conferma della bontà del loro operato nell’approvazione espressa dal legato pontificio Pietro di Benevento. Nel 1215, forte del sostegno del legato e del vescovo di Tolosa, Domenico si recò a Roma, per ottenere l’approvazione del suo proposito di vita e del suo programma pastorale. A questa prima proposta, Innocenzo III oppose però un iniziale rifiuto,

OCE AN O

Nella pagina accanto particolare di una miniatura raffigurante san Domenico che brucia i libri degli Albigesi, da un’edizione de Le miroir historial di Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé.

animato, già dagli inizi dell’XI secolo, vari gruppi fautori della povertà volontaria e della vita evangelica. A rendere il catarismo particolarmente inviso al Papato fu il suo organizzarsi in Chiese distinte e parallele, dotate di loro struttura e loro gerarchia, e che, oltre ad avere un buon seguito popolare, rifiutavano molti elementi di base della dottrina cattolica. Per questa ragione la repressione attuata nei confronti dei Catari fu spietata e portò alla loro scomparsa già nella prima metà del XIII secolo.

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Dossier A destra san Domenico cosí come appare nella Madonna delle Ombre, affresco di Fra’ Giovanni da Fiesole, detto il Beato Angelico. 1395/1400-1455. Firenze, Museo di San Marco. Nella pagina accanto particolare di uno dei rilievi dell’arca di san Domenico di Nicola Pisano e allievi, raffigurante l’approvazione dell’Ordine domenicano da parte di papa Innocenzo III. XIII sec. Bologna, basilica di S. Domenico.

la missione specifica del nuovo Ordine: la predicazione. Inoltre, il papa pose l’accento sull’innovazione che il nuovo Ordine introduceva nella Chiesa, poiché sino a quel momento la predicazione era stata compito esclusivo del clero secolare e in particolare dei vescovi. Le iniziali difficoltà nei rapporti con le Chiese locali – gelose delle loro prerogative legate alla diffusione del messaggio evangelico – furono superate con una nuova bolla del 1218, che impose a tutti gli ordinari diocesani di prestare la dovuta assistenza al nuovo Ordine, indicato per la prima volta come Ordine dei Predicatori.

I primi anni dell’Ordine

Rispettando le direttive del Concilio Lateranense del 1215, i frati predicatori assunsero la Regola agostiniana, la piú elastica tra quelle a disposizione, che fu quindi adattata da Domenico alle esigenze dell’apostolato e della predicazione. Nel contempo i religiosi incrementarono l’attività di studio, che affiancò e supportò quella di diffusione della dottrina cattolica. È questo il momento in cui la già originale esperienza di Domenico subí un radicale mutamento in direzione dello studio e dell’insegnamento, anche in virtú della spinta data in questa direzione da papa Onorio III. Probabilmente già all’inizio del 1217, da Tolosa, i compagni di Domenico, da lui stesso indirizzati, si trasferirono a Parigi e Bologna, convertendo al loro movimento presti-

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san domenico, una vita leggendaria

Il santo con la stella sulla fronte Le notizie sulla vita di Domenico di Caleruega sono poche. Tuttavia, molte leggende, create dopo la sua morte, ne arricchiscono la scarna biografia. Per esempio si racconta che la nascita di Domenico sia stata preceduta da una visione della madre. La donna avrebbe sognato di portare in seno un cane che teneva in bocca una fiaccola destinata a incendiare il mondo. Un chiaro presagio delle doti di predicatore del bimbo che aveva in grembo. Alla nutrice del piccolo Domenico parve, invece, di vedere una stella sopra la fronte del futuro santo mentre veniva portato al battesimo. Per questo Domenico viene spesso rappresentato con una stella in fronte. Secondo la tradizione, il santo, intorno al 1191, sul modello di Francesco di Assisi, avrebbe venduto tutto quanto in suo possesso, compresi i suoi preziosissimi libri in pergamena, per aiutare i poveri durante una carestia. Avrebbe accompagnato il gesto con le parole «Come posso studiare su pelli morte, mentre tanti miei fratelli muoiono di fame?». Forte è anche il legame tradizionale tra Domenico e la Vergine Maria. Stando al racconto di un suo agiografo, il beato Alano della Rupe, nel 1212 Domenico ebbe una visione della Vergine che gli consegnò il Rosario. Era la risposta della Madonna alla richiesta del santo di una preghiera con cui combattere l’eresia: per questo san Domenico è considerato l’istitutore del Rosario. Sempre secondo Alano della Rupe, qualche anno dopo questi fatti, Domenico venne rapito dai pirati mentre predicava in Spagna. La notte dell’Annunciazione di Maria (25 marzo) scoppiò una terribile tempesta e la nave corsara fu sul punto di naufragare. La Vergine apparve a Domenico e annunciò che l’unica speranza di salvezza per i malviventi era il loro ingresso nella Confraternita del Rosario. I pirati accettarono e il mare si calmò immediatamente.

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Dossier giosi maestri e studenti delle due università. Pochi anni piú tardi, il successore di Domenico, Giordano di Sassonia, già studente parigino, visitò le sedi antiche e recenti di università per reclutare membri qualificati per il suo Ordine. Non è certo un caso che nei primi anni Venti del Duecento un importante cronista francese, Giacomo di Vitry, abbia scritto di una «nuova religione e predicazione di canonici bolognesi» certamente identificabile con l’Ordine dei Predicatori, che aveva precise caratteristiche universitarie e che egli non esitò a chiamare «congregazione di scolari del Cristo».

Lotta all’eresia

Prima del 1220, tornato a Roma, Domenico vi organizzò una nuova comunità femminile e un convento maschile. Nello stesso tempo lavorava a ulteriori modifiche della Regola, che la rendessero sempre piú funzionale alle necessità pratiche dell’apostolato urbano in cui essenzialmente si risolveva la predicazione di fede e di lotta all’eresia propria del suo Ordine. Tra il 1220 e il 1221 Domenico predicò nell’Italia centro-settentrionale e presiedette personal-

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

mente i due capitoli di Bologna. Questi ultimi definirono le prerogative del nuovo Ordine, che a questa data era già cresciuto enormemente, tanto da richiedere la divisione in province: Lombardia, Spagna, Provenza, Francia e romana, a cui si aggiunsero nel giro di pochi anni Ungheria, Germania e Inghilterra. Impegnato nell’organizzazione di nuove missioni, Domenico morí il 6 agosto 1221 proprio a Bologna, nel convento di S. Nicola delle Vigne, luogo in cui sorse di lí

a poco la basilica di S. Domenico, sede dell’Ordine. Domenico di Caleruega dovette attendere ben 13 anni prima di essere canonizzato, nel 1234, da papa Gregorio IX, e piú ancora perché il suo Ordine, nel tentativo di ricostruire il proprio mito delle origini, ne promuovesse il culto in modo organico. Questa promozione avvenne in un momento in cui i Domenicani erano molto coinvolti nelle attività dell’Inquisizione e il culto di Domenico si trovò a svi-

In queste pagine scene della vita di san Domenico dipinte dal Beato Angelico sulla predella della pala dell’Incoronazione della Vergine. 1434-1435. Parigi, Museo del Louvre. In alto, da sinistra: il sogno di papa Innocenzo III; l’apparizione di san Pietro e san Paolo a san Domenico; la resurrezione di Napoleone Orsini. Qui accanto, da sinistra: la disputa di san Domenico, san Domenico e i compagni, la morte di san Domenico.

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lupparsi parallelamente a quello di un confratello, l’inquisitore Pietro da Verona, assassinato nel 1252 tra Como e Milano (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 32-43). Proprio il collegamento con la promozione del culto del nuovo santo inquisitore proiettò per inevitabile riflesso sull’immagine del fondatore i cupi bagliori dell’ufficio inquisitoriale, come se anche Domenico fosse stato in qualche in qualche modo legato all’Inquisizione. Ciò determinò forme di netta repulsione popolare

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al culto di san Domenico, rivestito dai suoi stessi eredi degli abiti posticci di primo inquisitore.

In cerca di memorie

Gli anni successivi videro i frati domenicani impegnati nella ricerca e nella scrittura di memorie legate alla vita e ai miracoli del nuovo santo e alle origini dei Predicatori (vedi box a p. 85). Domenico divenne allora un’icona necessaria del nuovo Ordine religioso e l’illustre capostipite del rinnovato ufficio

inquisitoriale, in una prospettiva di guerra santa contro l’eresia. Molti studiosi sono oggi concordi nel rilevare come il relativo ritardo della promozione del culto di Domenico e l’oscillazione, nei primi testi agiografici, tra santità individuale del fondatore e collettiva dei primi seguaci siano da collegarsi alla consapevolezza dei frati della prima metà del Duecento di quale fosse l’origine vocazionale del loro Ordine: non l’innovativo messaggio di un singolo (come era stato per Francesco e per

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In alto Firenze, S. Maria Novella. Uno scorcio della facciata in cui si può notare la lunetta sopra il portale d’ingresso in cui è raffigurato san Domenico. A sinistra miniature raffiguranti l’approvazione dell’Ordine domenicano da parte di papa Innocenzo III (in alto) e l’apparizione dei santi Pietro e Paolo a san Domenico, da un’edizione de Le miroir historial di Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé.

i Minori), ma l’impresa collettiva di un ceto di chierici e intellettuali, che non avevano mai attribuito particolare importanza alla venerazione del primo animatore della loro singolare vocazione. In san Domenico, i Predicatori celebravano soprattutto l’eccellenza della propria vocazione regolare e l’originalità della propria missione. L’immagine del santo, la cui figura e la cui vita reale erano già piuttosto sbiadite nella memoria al tempo della canonizzazione, venne costruita a posteriori, modellandone vita e intenti su ciò che l’Ordine da lui ispirato era divenuto a partire dagli anni Trenta del Duecento.

Un nuovo monachesimo

La formazione religiosa ispirata da Domenico di Caleruega si connetteva dunque con la tradizione dei canonici regolari (da cui lo stesso fondatore proveniva) nei suoi aspetti

piú spiccatamente evangelici e pastorali. Tuttavia, al pari dei frati Minori, anche i Predicatori non si sostenevano piú su proprietà fondiarie e su proventi di diritti signorili come accadeva con il monachesimo benedettino o la tradizionale esperienza canonicale variamente ispirata alla Regola di sant’Agostino, di cui, rappresentando il superamento, i Domenicani marcavano la crisi. Gli Ordini per questo detti «mendicanti» vivevano di offerte in denaro; necessitavano di una economia monetaria e di una società in cui il denaro fosse disponibile e circolante. Il nuovo monachesimo del Duecento, di cui Predicatori e Minori sono stati la piú compiuta espressione, si rivolgeva alle città, quelle città che la cultura chiericale dei secoli precedenti aveva faticato a collocare in schemi concettuali e pastorali. I Predicatori, chierici divenuti

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Dossier L’architettura

Che ogni convento abbia un chiostro e non ecceda in ornamenti I Domenicani dedicavano particolare attenzione a che i conventi in cui vivevano fossero viles domos et parvas, cioè case austere e umili, sul modello dell’architettura dei Cistercensi e dei Minori. Per questa ragione, fin dalle origini, arrivarono a prevedere precise limitazioni alla presenza di pitture e sculture che deformavano l’originario concetto di povertà e di ascetica purezza dell’Ordine. Inoltre, stabilirono l’istituzione in ogni convento di un comitato di tre frati, incaricato di vigilare sulla costruzione degli edifici. Dal punto di vista dello stile architettonico, si inserirono comunque nelle correnti del gotico e, nelle loro nuove chiese, puntarono su strutture agili, luminose e spaziose, soprattutto dopo la morte del fondatore.

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Di particolare rilievo, inoltre, è l’interesse, manifestato già dallo stesso Domenico, a che i conventi, anche i piú antichi sorti nei pressi di chiese preesistenti, disponessero di un chiostro. Occorre anche chiarire che gli edifici eretti dai Domenicani non rispondevano soltanto a esigenze pratiche di avere edifici nei quali vivere, studiare e predicare. Rispondevano, soprattutto, a un preciso programma ideologico e religioso. L’incarnazione architettonica dell’ideologia domenicana è certamente S. Maria Novella, a Firenze, ideata da due Frati Predicatori, fra Sisto e fra Ristoro, nel 1278. Per comprendere la grande chiesa fiorentina e tutta l’architettura dei Predicatori, dobbiamo pensare che l’Ordine è il depositario della

dottrina di Tommaso d’Aquino, una dottrina che vuole realizzato sulla Terra l’ordine gerarchico e razionale del pensiero creativo di Dio. Tale ordine si traduce in S. Maria Novella in una chiesa grande e disadorna, realizzata con materiali poveri come la pietra e il cotto. «Non per amore della povertà ma della chiarezza venivano usati questi materiali – ha scritto Giulio Carlo Argan nella sua Storia dell’Arte Italiana – Ogni elemento deve valere non per sé stesso ma per ciò che manifesta, per il significato che ha nel sistema. Lo spazio è vasto; vuole essere (…) la rappresentazione che la mente umana, finita, può farsi dello spazio infinito. Ogni elemento, ogni segno deve dunque situarsi al limite; indicare il termine ideale cui la mente umana, gennaio

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Sulle due pagine Firenze, S. Maria Novella. Due immagini dell’interno della basilica. A sinistra una veduta della navata centrale in cui campeggia il grande Crocifisso di Giotto. A destra una veduta della decorazione delle pareti e del soffitto del cosiddetto Cappellone degli Spagnoli, la sala capitolare affrescata da Andrea di Bonaiuto intorno al 1365.

nella sua finitezza, arriva tuttavia a concepire l’infinito, il Divino. Questo spiega la ricerca della gittata massima degli archi, dell’ampiezza massima delle campate. (…) Le volte sono illuminate da finestre tonde; gli archi larghissimi consentono la veduta simultanea delle tre navate e anche le minori sono illuminate da proprie sorgenti: nel sistema tutto deve essere ugualmente chiaro. L’equilibrio del sistema è dato dal fatto che gli stessi elementi del sostegno diventano elementi di spinta: infatti la pianta dei pilastri è perfettamente simmetrica. Le forze sono equilibrate nell’atto stesso del loro definirsi; e nessuno sforzo o tensione è apparente, perché lo sforzo e la tensione sono a priori risolti in un pensiero che, pensando la razionalità di Dio, è insieme logica rigorosa e contemplazione mistica».

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Mendicanti, si insediarono cosí progressivamente nelle maggiori città italiane ed europee, polarizzando intorno ai conventi gli interessi devozionali e politici dei laici. I conventi sorgevano spesso nei borghi, vale a dire negli spazi in cui si stava compiendo la nuova espansione urbana del Duecento e dove maggiori erano le tensioni fra vecchi e nuovi ceti dirigenti, tra aristocrazia di sangue e aristocrazia legata al denaro. Quasi come nuovi evangelizzatori delle città, i Predicatori esplicavano anche sul piano politico la loro azione di emissari della politica papale. La vittoria della Chiesa roma-

na sull’eresia del XII e XIII secolo, infatti, non passò esclusivamente attraverso gli strumenti della coercizione violenta. Questi strumenti si giustificavano quando non si trovavano altre vie di conciliazione e quando la presenza ereticale veniva giudicata come violazione delle norme che regolavano la convivenza tra gli individui. La repressione portò con sé anche una pastorale che mirava a conformare i comportamenti dei fedeli a modelli, che dovevano riconoscere l’identità tra Cristo e fede della Chiesa cattolico-romana. La stretta connessione di Domenicani e anche dei Francescani delle

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Nella pagina accanto Autodafé presieduto da San Domenico di Guzmán, olio su tavola di Pedro Berruguete. 1493-1499. Madrid, Museo del Prado.

origini con il papato orientò e piegò alle esigenze pontificie i due nuovi Ordini, avviando anche pericolosi processi di omologazione e concorrenza tra loro. I frati Predicatori si strutturarono (al pari dei Minori) in modo centralizzato e vennero guidati da un maestro generale; come i Minori, riunivano periodicamente i rappresentanti di tutti i conventi in capitoli generali e provinciali. Soprattutto, grazie ai due nuovi Ordini, il papato poteva disporre di uomini non eccessivamente condizionati dalle realtà locali, assai mobili e liberi, pronti a essere utilizzati a beneficio della Chiesa universale.

Fervore religioso

In questo processo di trasformazione dei Mendicanti in uno strumento della politica papale, risultarono decisivi gli anni Trenta del XIII secolo, quando esplose il movimento dell’Alleluja. Si trattava in origine di un fenomeno di fervore religioso popolare, che si trasformò ben presto sia in un’azione moralizzatrice e pacificatrice all’interno di varie realtà cittadine comunali, sia in una vera e propria azione antiereticale. Il movimento culminò nel 1233, con una grande campagna di predicazione volta a pacificare le tensioni politiche e sociali delle città dell’Italia centro-settentrionale e vide il contributo fondamentale di Minori e Predicatori. Le paci raggiunte nelle città non furono durature, ma costituirono il banco di prova del successo degli Ordini mendicanti nelle società urbane. Queste diventarono rapidamente il principale luogo di reclutamento dei frati e, nel contempo, manifestarono il loro consenso attraverso una crescente quantità di lasciti e donazioni in favore dei Mendicanti. Con il movimento dell’Alleluja

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si crearono anche le premesse per la sconfitta degli eretici nell’Italia settentrionale. Dopo il ristabilimento dell’ordine religioso e socio-politico nel Mezzogiorno francese, i frati Predicatori e, in misura minore, i Figli di San Francesco si mobilitarono per estirpare la «mala pianta» dell’eresia anche in altre regioni della cristianità. I primi anni Trenta del Duecento videro impegnati chierici e frati nel Nord della Francia e nella Germania renana, sino alla nomina a delegati pontifici di alcuni membri dell’Ordine dei Predicatori in veste di inquisitori. L’originario impegno antiereticale di Domenico e dei suoi seguaci, infatti, rese inevitabile che essi, nei decenni centrali del Duecento, diventassero gli strumenti privilegiati per rendere esecutivo e funzionale l’apparato repressivo fondato sull’ufficio inquisitoriale. Affiancati ai Minori (per i quali, tuttavia, questa scelta comportò un non facile esame di coscienza individuale e collettivo rispetto al messaggio di Francesco) nel ruolo di inquisitori dell’eresia, i Domenicani ne divennero simbolo a tal punto che, giocando sul loro stesso nome, vennero rappresentati come «cani del Signore», posti a difesa del gregge dei fedeli minacciato dalla volpe dell’eresia. Contemporaneamente, ai vertici dell’Ordine, i piú grandi pensatori della scolastica, come Tommaso d’Aquino, portarono il loro contributo di altissimi intellettuali a tutto l’apparato filosofico e dottrinale della Chiesa. La peculiare associazione dei Predicatori alle realtà urbane e all’ufficio inquisitoriale, condusse alla nascita, attorno ai conventi, di associazioni che assunsero spesso caratteristiche religioso-militari, come le molte milizie di Cristo o della Vergine di cui nel Duecento i Predicatori favorirono la costituzione in nome di una idea di difesa armata della fede; a questi gruppi si affiancarono però anche confraternite di devozione, strutture comu-

nitarie dedite al consolidamento di vincoli di solidarietà e mutua difesa da parte dei cittadini. L’incontro di queste esigenze laiche con l’operato dei Predicatori creò però non pochi attriti con il clero secolare, che cercò di contenerne il successo, escludendoli dalla cura d’anime.

Scontri e contrasti

Nei decenni seguenti lo scontro tra Mendicanti e clero secolare coinvolse tutti gli ambiti possibili, da quelli intellettuali e universitari all’esercizio quotidiano della pastorale cittadina, poiché i nuovi Ordini erano spesso sostenuti da concessioni e privilegi pontifici sovente in contrasto con le tradizionali autonomie episcopali. Superate le tensioni piú profonde, negli ultimi decenni del Duecento si avviarono forme di collaborazione spesso fondate sulla spartizione dei compiti: i Mendicanti rimasero gli specialisti della predicazione, della direzione di coscienza, della cultura teologica su base cittadina, ma nell’ambito di circoscrizioni che non corrispondevano a quelle diocesane, pievane o parrocchiali; la cura d’anime, invece, rimase nelle mani del clero secolare alle dipendenze del vescovo. Una divisione destinata a durare per secoli e a forgiare e a forgiare a lungo gli indirizzi degli Ordini mendicanti. V

Per saperne di piú Daniele Penone, I domenicani nei secoli: panorama storico dell’Ordine dei frati predicatori, ESD, Bologna 1998 Giovanni Bertuzzi (a cura di), L’origine dell’ordine dei predicatori e l’università di Bologna, ESD, Bologna 2006 Pietro Lippini, La vita quotidiana di un convento medievale, ESD, Bologna 2008 www.domenicani.it, www.op.org

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Tesori e misteri di Elena Percivaldi

Il complesso di S. Orso, ad Aosta, è un autentico scrigno: nella chiesa omonima e negli altri edifici che ne fanno parte si conservano rare e preziose testimonianze dell’arte medievale, tra le quali spiccano le porzioni superstiti degli affreschi fatti realizzare in epoca ottoniana e un magnifico coro ligneo, impreziosito da vivaci figure intagliate. Opere squisite, alle quali fa da corollario un’iscrizione inserita in un quadrato, dal significato ancora oggi ignoto...

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el cuore di Aosta, da quasi cinquecento anni un tiglio maestoso domina un luogo oggi centrale, ma un tempo situato poco al di fuori delle mura cittadine: piazzetta Sant’Orso. L’antico albero risalirebbe alla prima metà del Cinquecento (compare in un dipinto del 1514) e avrebbe preso il posto di un vecchio olmo, caduto per il vento. La leggenda però lo vuole piantato da Orso, il santo che, pur non essendo patrono di Aosta, è sicuramente il piú celebre dentro e fuori i confini regionali, non foss’altro che per la fiera artigianale – la Foire de Saint-Ours – che da secoli anima ogni fine gennaio il centro cittadino (vedi, nell’Agenda del Mese di questo numero, a p. 29). Sulla piazza sorge anche il complesso dedicato a questo santo vissuto nel VI secolo, composto dalla Collegiata, dall’attiguo Priorato e dall’antistante chiesetta di S. Lorenzo, oggi sconsacrata. Insieme alla Cattedrale, è l’insieme di edifici religiosi piú importante della Valle d’Aosta perché conserva almeno due gioielli risalenti all’età romanica: un raro, sebbene frammentario, ciclo di affreschi e la complessa serie di capitelli del suo suggestivo chiostro, densi di significati simbolici. La lunga storia del complesso di S. Orso è riemersa grazie agli scavi archeologici che, dal 1976 a oggi, hanno interessato l’area, che fa parte del terziere omonimo, ma che in origine sorgeva al di fuori di Augusta Praetoria, la

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Aosta. Uno scorcio del campanile romanico della chiesa collegiata di S. Orso, verso il quale si allungano i rami del tiglio secolare presente nella piazzetta antistante fin dal Cinquecento.

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Dove e quando Parrocchia di Sant’Orso Aosta, piazzetta Sant’Orso Orario il chiostro e la Collegiata sono aperti con ingresso gratuito tutti i giorni, dalle 9,00-17,30; per la visita agli affreschi del sottotetto e alla cappella del Priorato si consiglia di contattare l’Ufficio del Turismo di Aosta (tel. 0165 236627). Info tel. 0165 26202 Basilica di S. Lorenzo Orario 01.10/31.03: tutti i giorni, 10,00-12,00 e 13,30-17,00; 10.04/30.09: tutti i giorni, 9,00-19,00 La facciata della chiesa e il campanile del complesso monastico di S. Orso.

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In alto cartina di Aosta con i monumenti piú importanti della città e l’indicazione delle strutture riferibili alla sua fase romana, quando era nota come Augusta Praetoria.

città fondata nel 25 a.C. da Augusto dopo aver sconfitto la tribú celtica dei Salassi. Lí accanto passava la strada romana che proveniva da Eporedia (Ivrea) e poi, entrando in Augusta attraverso la porta monumentale eretta dal suo conquistatore, si trasformava nel decumano massimo. All’epoca nella zona era stata impiantata una necropoli, che verosimilmente insisteva su un prece(segue a p. 100) gennaio

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Aosta, chiesa collegiata di S. Orso. Cristo benedicente tra san Pietro e sant’Orso, affresco di Bernardino Fererio dipinto sulla facciata esterna, entro una nicchia sopra la porta d’ingresso. 1676-1677.

Chi era sant’Orso?

Mite, semplice e sempre pronto ad aiutare i piú bisognosi Le fonti sulla biografia di Orso sono scarse e contraddittorie, ma soprattutto ricche di spunti leggendari che derivano dalla tradizione orale. Tra le principali si annovera l’anonima Vita Beati Ursi, pervenuta in due redazioni, una piú antica e breve (VIII secolo-inizi del IX) e la seconda piú ampia ed elaborata (seconda metà del XIII secolo). Se ne desume che Orso fosse un presbitero vissuto ad Aosta fra il V e il VI secolo e che avesse il compito di custodire e celebrare nella chiesa di S. Pietro (la futura Collegiata, dunque), all’epoca fuori dal centro storico cittadino. Le Vite lo descrivono come un uomo semplice, pacifico e altruista che alla preghiera affiancava le opere di carità, l’assistenza ai malati, ai poveri, alle

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vedove e agli orfani. Viveva grazie al suo orto, i cui prodotti suddivideva in tre parti tra sé, gli indigenti e gli uccellini, che grati gli si posavano sulla testa e sulle spalle (e cosí lo rappresenta l’iconografia tradizionale). Altre vicende di sant’Orso sono raccolte nella Chronique curieuse scritta nel 1549 dal canonico Jean-Ludovic Vaudan e nella Vie de saint Ours di Nicolas-Joconde Arnod pubblicata a Chambéry nel 1668. A Vaudan risale la leggenda di una sua presunta origine irlandese (probabilmente un’invenzione dello stesso erudito): un particolare che però ha permesso di suggerire un’interpretazione sincretistica della sua figura con riferimento al mondo pagano (che sarà argomento di un articolo di prossima pubblicazione).

Tra le leggende piú diffuse c’è quella illustrata nel capitello n. 32 del chiostro: nella scultura si vede il santo che prevede la morte del malvagio vescovo Plocéan – reo di aver torturato a morte un suo servo versandogli sulla testa della pece bollente –, strangolato nel suo letto da due diavoli, e quella secondo la quale, per far fronte alla siccità, colpendo una roccia col suo bastone, fa scaturire una sorgente a Busséyaz. L’anno della morte di Orso è incerto: potrebbe essere il 529, il 1° febbraio, che poi divenne la sua festa. Le reliquie del santo si trovano in una grande cassa d’argento sbalzato, fatta eseguire nel 1359: alla metà del Quattrocento furono traslate dall’altare della cripta all’altare maggiore dove sono visibili tuttora.

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medioevo nascosto valle d’aosta Visitiamo insieme A sinistra uno scorcio dell’area absidale della chiesa di S. Orso in cui si può cogliere la ricchezza della decorazione del coro ligneo. In basso, a sinistra particolare del bracciolo di uno degli stalli del coro, raffigurante un monaco assorto nella lettura.

L’interno

Dopo aver varcato il portale tardo-gotico, aperto da Giorgio di Challant in occasione della ricostruzione della facciata, si rimane colpiti dall’aspetto austero della Collegiata. La chiesa, cosí come fu concepita dal priore verso il 1499, presenta volte a crociera, con costoloni decorati da motivi vicini all’estetica del castello di Issogne. Alla stessa maestranza si devono anche gli unici affreschi normalmente visibili: quelli, restaurati nel 2009, dell’altare di San Sebastiano in fondo alla navata destra. La parte piú interessante dell’interno è però il coro ligneo, autentico capolavoro dell’ebanisteria rinascimentale. Riccamente decorato a intaglio, presenta due diversi «registri» di lettura, uno piú formale e uno piú giocoso: nella parte alta, infatti, campeggiano santi e angeli, mentre sotto i sedili, in corrispondenza della parte «bassa» degli stalli e dei braccioli, troviamo il pittoresco mondo popolato di belve, mostri e figure

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grottesche e irriverenti, già ben noto ai bestiari medievali. Forse gli anonimi intagliatori vollero ingentilire e vivacizzare alcune parti del coro, le cosiddette «misericordie», che permettevano ai canonici di appoggiarsi rendendo piú confortevole i momenti di preghiera che prevedevano invece l’obbligo di mantenersi in posizione eretta. Davanti all’altare vediamo il notevole mosaico pavimentale di forma quadrata emerso durante gli scavi condotti nel coro nel 1999: databile alla metà del XII secolo, quindi un secolo dopo l’ampliamento operato da Anselmo, rappresenta Sansone che uccide il leone, probabile prefigurazione di Cristo che sconfigge il maligno. Delle due scritte presenti, la piú interna compone la frase ROTAS OPERA TENET AREPO SATOR: si tratta di un palindromo, leggibile cioè in entrambi i sensi, che compare in molte altre iscrizioni antiche e medievali (noto come «Quadrato del Sator») diffuse in varie parti d’Europa e il cui vero significato è ancora oscuro. Proseguendo gennaio

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verso l’abside si incontrano le vetrate rappresentanti San Pietro, la Madonna col Bambino, la Crocifissione, il Buon Pastore e Sant’Orso, che Challant fece realizzare tra il 1494 e il 1503 affidandole a ottime maestranze di scuola nordica. La visita dell’interno (ma attraverso i vetri collocati sul pavimento si possono vedere anche le parti dell’edificio messe in luce dagli scavi archeologici) si conclude nella cripta costruita da Anselmo, un tempo separata in due zone distinte. Nel basamento dell’altare, dove un tempo erano deposte le reliquie di sant’Orso, si apre un cunicolo (il «musset») attraverso il quale i fedeli passavano (e passano ancora oggi) carponi: leggenda vuole che il santo guarisca dai reumatismi e dal mal di schiena chi si sottopone al «rito».

Il chiostro

Tornando all’esterno e attraversando l’androne sulla destra della facciata, si raggiunge il cuore pulsante della Collegiata, il superbo chiostro, che rappresenta il In questa pagina ancora due immagini dell’interno di S. Orso: in alto, la cripta; in basso, il mosaico del XII sec. raffigurante Sansone che uccide il leone.

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luogo di maggior suggestione dell’intero complesso. Il primo impianto, romanico, fu realizzato da maestranze provenzali o lombarde e risale a poco prima del 1132, quando fu adottata, adempiendo a una bolla di papa Innocenzo II, la Regola agostiniana: l’evento è ricordato sul capitello n. 36 da un’iscrizione latina («ANNO · AB INCARNATIO[N]E D[OMI]NI M · C · XXX · III · IN H[OC] · CLAUSTRO · REGVLAR[I] S · VITA INCEPTA · EST»: poiché si usava lo stile pisano, l’anno 1133 va retrodatato di uno). Scolpiti in marmo di Carrara, i capitelli erano in origine 52 e narrano vari episodi tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento nonché dalla vita di sant’Orso e presentano un vasto apparato di animali fantastici ed

elementi decorativi diversi. Una loro originalissima caratteristica è l’aspetto scuro: in epoca imprecisata ma antica, infatti, il marmo fu rivestito di un composto colloso trasparente misto a cenere, forse per conservarlo dalle intemperie; col tempo, ossidandosi, avrebbe annerito i capitelli. In origine, però, come hanno accertato i restauri, i capitelli erano colorati con pigmenti rossi cosí come le colonne che li sorreggono, semplici e binate ma con forme diverse a spezzare la scansione monotona degli spazi. Sono invece scomparsi gli affreschi contenenti le scene della vita del santo, menzionate come già fatiscenti nelle visite pastorali del XV secolo. Gli archi e le volte, infine, sono stati aggiunti ancora una volta da Giorgio di Challant. Un ultimo sguardo alla piazza permette di apprezzare il complesso nel suo insieme: oltre a S. Orso, la chiesa sconsacrata di S. Lorenzo (sono visibili gli scavi archeologici al suo interno), il Priorato (non visitabile), l’antico tiglio e, in posizione isolata, il bel campanile romanico altro 44 m: fu eretto nel XII secolo (anche se l’aspetto attuale risale al Duecento) come parte di un piú ampio sistema difensivo costituito da una cinta muraria e da una seconda torre. La parte bassa, visibilmente diversa dal resto, è formata da grossi massi ricavati da preesistenti edifici romani che sorgevano in zona: riutilizzo intelligente di risorse, certo, ma anche ricetta infallibile per donare ai monumenti personalità e bellezza.

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medioevo nascosto valle d’aosta A sinistra una suggestiva veduta del chiostro di S. Orso, in cui si possono notare i capitelli che coronano le colonne e i pilastri del porticato.

dente sito funerario protostorico riferibile ai Salassi. E proprio perché si trattava di un luogo sacro, ancorché legato ai pagani (o forse proprio per questo motivo), quando iniziò a diffondersi il cristianesimo, nel V secolo, esso fu scelto per ospitare due chiese diverse, poste l’una di fronte all’altra: le future S. Orso e S. Lorenzo.

Le sepolture dei primi vescovi

Per lungo tempo, fino all’incendio che nell’VIII secolo la distrusse totalmente, la basilica piú importante rimase la seconda: ampia e sontuosa, S. Lorenzo presentava una pianta cruciforme simile alle prestigiose chiese volute a Milano da Ambrogio, la Basilica Apostolorum e S. Simpliciano. Inoltre, ricevuta la denominazione di «Concilium Sanctorum», vi trovarono sepoltura alcuni dei primi vescovi della diocesi aostana (le lapidi sono ancora oggi visibili su uno dei muri): Grato (il patrono di Aosta), Agnello († 528) e Gallo († 546). La seconda chiesa, eretta sul lato opposto, era invece ad aula unica e con una sola abside, anche se via via fu ingrandita e dotata di un porticato destinato ad accogliere sepolture privilegiate. Secondo le testimonianze agiografiche, qui Orso prestò la sua opera come presbitero e poi, dopo la sua morte – sopraggiunta forse nel 529 –, venne sepolto. Alla fine dell’VIII secolo, la basilica vive l’evento traumatico appena ricordato: un vasto incendio la divora quasi totalmente. La sua ricostruzione, avviata in età carolingia, offrí però l’occasione per un ripensamento generale dell’intero complesso, che comportò per i due edifici (l’altro era intatto) uno scambio di ruoli: mentre il Concilium Sanctorum veniva ridotto a poco piú di una cappella a sola navata e unica abside (e tale rimase fi-

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Leggende e storia dei capitelli

Un’opera al passo coi tempi I capitelli romanici della collegiata di S. Orso ritraggono le scene bibliche con una vivacità e una ricchezza di particolari davvero unica. Risulta infatti difficile trovare accostamenti convincenti, sebbene, dal punto di vista stilistico, i manufatti aostani presentino alcune affinità con altri capitelli attestati in area lombarda (basilica di S. Michele Maggiore a Pavia) e, soprattutto, provenzale (chiostro di Saint-Trophime ad Arles e battistero di Saint-Martin d’Ainay a Lione). Sembra comunque probabile che l’anonima maestranza a cui si deve questo capolavoro abbia portato con sé i moduli espressivi elaborati nella zona del medio Rodano, contribuendo a diffondere al di qua delle Alpi un linguaggio artistico no ai rimaneggiamenti seicenteschi, che l’adattarono al gusto barocco), la chiesetta presso la quale sant’Orso aveva prestato servizio si ingrandiva, passando a tre navate in concomitanza con l’introduzione del suo culto. Come avvenne un po’ ovunque in Europa a ridosso dell’anno Mille, il fervore edilizio che, secondo l’ormai celebre definizione del cronista Rodolfo il Glabro, portò il continente a rivestirsi di un bianco manto di cattedrali, regalò alla «nuova» chiesa, ora intitolata a sant’Orso, un ulteriore ampliamento, dopo la torre campanaria già aggiunta nel 989. Artefice dei lavori fu il vescovo Anselmo (994-1025): complici le favorevoli gennaio

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che stava rivestendo un ruolo decisivo nell’elaborazione dell’arte romanica europea. Tra i capitelli piú originali segnaliamo il n. 32 con le «Storie di sant’Orso». Il santo è rappresentato mentre dona gli zoccoli (i «sabot») ai poveri, fa scaturire una sorgente dalla roccia e difende un servo dalle angherie del vescovo Plocéan, con la conseguente morte di quest’ultimo, strangolato da due diavoli. Importanti dal punto di vista documentario sono poi il capitello n. 35, che rappresenta i santi Pietro, Orso e Agostino, il priore Arnolfo e il vescovo Erberto, e il n. 36, con l’iscrizione che fissa la data dell’adozione della Regola agostiniana da parte dei canonici. In questa pagina particolari dei capitelli del chiostro. In alto, il n. 18, binato, raffigurante il gregge di Rachele al pascolo; a destra, il manufatto raffigurante un profeta che regge un cartiglio.

condizioni determinate dalla parallela ascesa al potere del feudatario borgognone Umberto Biancamano, capostipite dei Savoia, il prelato diede peraltro impulso a un profondo rinnovamento artistico e spirituale non solo ad Aosta, ma all’intera diocesi. Anselmo riservò alla basilica ursina un trattamento speciale: la ingrandí, le diede il classico aspetto romanico a tre navate e tre absidi, fece realizzare una copertura

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medioevo nascosto valle d’aosta A sinistra Aosta, complesso di S. Orso. Uno scorcio del Priorato. XV sec.

gli affreschi ottoniani

Pitture vivaci e di immediata lettura Visibili soltanto su richiesta grazie a un’apposita passerella nel sottotetto (vi si accede attraverso una scala a chiocciola), gli affreschi fatti realizzare da Anselmo durante il suo priorato sono di stupefacente bellezza e rappresentano, insieme a quelli di poco posteriori realizzati dalle stesse maestranze in Cattedrale, il documento pittorico piú antico risalente al fulgido periodo ottoniano. Lo stile presenta tratti affini ad altri esempi noti di ambito «lombardo», con immediati confronti con i cicli della basilica di S. Vincenzo in Galliano a Cantú (vedi «Medioevo» n. 226, novembre 2015) e del battistero del Duomo di Novara. Solo poche scene si sono conservate: lungo la parete Nord, alcuni frammenti di un Giudizio Universale e le Nozze di Cana; nella parete Sud, le storie degli Apostoli (Sant’Andrea a Patrasso, San Giovanni Evangelista a Efeso, San Giacomo Maggiore condannato a morte a Gerusalemme) e due miracoli di Gesú sul lago di Genezareth; sulla parete Ovest, in controfacciata, due scene di martirio: una di fustigazione (forse di sant’Erasmo) e una in cui un aguzzino conficca chiodi nella pianta del piede di un santo non identificabile. Al di sopra corre un fregio a greca, interrotto da riquadri con figure di uccelli, vasi, corone e un pesce. Come ha rilevato la storica dell’arte Sandra Barberi, «la rappresentazione è molto semplificata, le figure hanno volti dai lineamenti stilizzati e gesti ripetitivi, i contorni sono spessi e scuri, come disegnati a pennarello, i colori hanno mantenuto la vivacità originale». Come si usava all’epoca, gli affreschi dovevano rendere comprensibili gli episodi delle Sacre Scritture e delle vite dei santi alla popolazione illetterata, ma, essendo collocati in registri alti, potevano essere letti chiaramente anche stando in basso, grazie ai contorni marcati e ai colori vivaci che conferivano un particolare risalto alle scene.

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Sulle due pagine Aosta, chiesa di S. Orso. Un particolare dell’affresco con le storie degli Apostoli. XI sec.

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lignea a capriate, spostò in avanti la facciata e volle edificare una cripta per ospitare alcune importanti sepolture (tra cui le reliquie di Orso). L’opera piú notevole ordinata dal prelato fu però lo splendido ciclo di affreschi con scene bibliche e storie degli Apostoli che adornava la chiesa (vedi box a p. 102).

Il fondatore della chiesa

Per la portata e l’importanza dei suoi interventi, Anselmo – che, sia detto per inciso, non va confuso con l’omonimo e celebre teologo aostano vissuto qualche decennio piú tardi – è ricordato dal Necrologium della Collegiata come il vero «fondatore» della chiesa: «Anselmus

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Episcopus Augustiensis qui nostram construxit ecclesiam». Poco dopo, venne aggiunto anche un convento maschile che doveva raccogliersi intorno a un primo chiostro. Non si sa esattamente quando, ma sicuramente prima del 1132: a quella data, infatti, risale un’iscrizione visibile su un capitello che testimonia l’introduzione nel convento ursino (che quindi già esisteva) della Regola agostiniana. La riforma voluta dal vescovo Eriberto obbligò alla scelta di un priore, anch’esso ricordato nell’iscrizione, Arnolfo d’Avise, e la co-intitolazione del priorato stesso a san Pietro, che veniva cosí ad affiancarsi a Orso nel culto. L’adozione della Regola rese inoltre subito necessaria la costruzione di una serie di edifici adatti al-

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medioevo nascosto valle d’aosta Aosta. I resti del teatro romano di Augusta Praetoria, con, in secondo piano, il campanile del complesso di S. Orso.

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la vita canonicale, ma, soprattutto, la ridefinizione concettuale del chiostro: destinato alla meditazione e alla preghiera, accolse a questo punto nei capitelli delle sue colonne le raffigurazioni di episodi biblici e le storie di Orso che dovevano stimolare le riflessioni dei religiosi. Dopo questa lunga e splendida stagione, la Collegiata conobbe una nuova «fioritura» artistica nella seconda metà del Quattrocento, quando Giorgio di Challant, priore dal 1469 al 1509, volle ridisegnare l’intero complesso secondo i dettami tardo-gotici allora in voga. Per quanto concepito per aumentarne il decoro e il prestigio, l’intervento fu molto invasivo: la facciata venne interamente rifatta, abbattendo il campanile fino a un’altezza di 15 m e inserendo un portale a ogiva sormontato da una originale e altissima ghimberga (frontone), impreziosita da pinnacoli in cotto. Il priore fece inoltre arricchire l’abside con cinque vetrate policrome, per realizzare le quali furono chiamati i «magistri verreriarum» (maestri vetrai) Jean Baudichon e Pietro Vaser, e ordinò la costruzione dell’altare maggiore (oggi non piú esistente) commissionandolo al borgognone Antoine de Lonhy, il piú importante artista allora attivo presso la corte sabauda.

Gli affreschi sacrificati

L’adeguamento all’estetica gotica comportò la rimozione del soffitto ligneo e la sua sostituzione con piú «moderne» volte a costoloni, i cui sottarchi furono affrescati dalla bottega di pittori del Maestro Colin, attivo in quegli anni anche nel castello di Issogne. L’intervento determinò cosí l’abbassamento del soffitto e il danneggiamento, irreparabile, del prezioso ciclo di affreschi anselmiani, rimasto praticamente intatto fino ad allora. Nei pressi della chiesa, Giorgio di Challant fece anche costruire, il nuovo Priorato (1468), realizzato in stile rinascimentale e in un’inusuale (per la Valle d’Aosta) fabbrica decorata, secondo la moda lombarda e piemontese, con elementi in cotto, e lo dotò di una cappella affrescata in cui si fece rappresentare inginocchiato ai piedi di una Madonna con Bambino. Anche il chiostro fu parzialmente rimaneggiato. L’eredità piú preziosa lasciata dal priore fu però il magnifico coro ligneo intagliato, destinato ad accogliere i canonici durante le funzioni e ricco di favolistiche rappresentazioni che ricordano i bestiari medievali. Quella di Challant fu, per la Collegiata, l’ultima età di splendore. I secoli successivi videro il progressivo declino della vita comunitaria dei canonici con il conseguente abbandono, uno dopo l’altro, dei vari edifici e del chiostro, nel frattempo ulteriormente alterato. All’inizio dell’Ottocento alcuni dei capitelli (che in tutto erano 52) furono rimossi: quattro vennero recuperati e portati al Museo Civico di Torino, dove si trovano tuttora, gli altri purtroppo sono andati dispersi. F

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Storie, uomini e sapori

Agrodolce, che passione! L

a cottura del mosto per concentrare e mantenere intatta l’intensa dolcezza del succo d’uva è una pratica di cui l’assiriologo Jean Bottero (1914-2007) trovò traccia in tavolette sumere e accadiche risalenti al III millennio a.C. La bollitura prolungata del mosto non serviva soltanto a far evaporare gran parte dell’acqua, ma anche a impedire la fermentazione, capace di trasformare gli zuccheri dell’uva in alcool. Il risultato pratico fu un economico sostituto del miele, sotto forma di denso sciroppo zuccherino a cui era possibile ridurre la torbidità e l’acidità aggiungendo cenere di sarmenti di vite. Per i Romani era la sapa, di cui esisteva anche una versione piú liquida e meno costosa, il defrutum o «mosto muto», utilizzato

A destra illustrazione da un trattato botanico ottocentesco raffigurante la senape bianca, Sinapis alba. In basso alcuni grani di senape nera (Brassica Nigra).

per millenni come addolcitore di vini asprigni, dolcificante e condimento. Mescolata con aceto o agrestum (succo d’uva acerba), la sapa diventava uno sciroppo agrodolce in cui conservare a lungo olive, prugne, cornioli e ortaggi.

Mode orientali Nel I secolo d.C. Columella nomina per la prima volta il mustaceum, una gustosa salsa a base di sapa resa sferzante dall’aggiunta di farina di semi di senape, secondo un costume appreso dai Romani grazie ai commerci con

l’Oriente. Un’antica sopravvivenza di questo uso si ritrova nei chutney indiani, ottenuti per marinatura di frutta o verdura in sciroppo di acqua, miele, senape e altre spezie. Noti già in epoca biblica e coltivati in Medio Oriente fin dal V secolo a.C., i semi e le foglie di senape (Brassica nigra, Brassica juncea e Sinapis alba, in ordine decrescente di piccantezza) erano popolari sia nella Grecia antica che a Roma; Ateneo di Naucrati giudicava superiore a tutte le altre la senape di Cipro, mentre Plinio preferiva quella che cresceva sulle sponde del Nilo, suggeriva di cuocerne le foglie in padella, e gennaio

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Miniatura raffigurante la spremitura dell’uva per ottenere l’agrestum, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

raccomandava cataplasmi di semi di senape contro i morsi velenosi, le affezioni della bocca e dei polmoni. Apicio prescriveva semi di senape macinati e stemperati nell’aceto sui piedini di maiale, sulle salsicce, alle carni di cinghiale, di maiale e di camoscio. Di maggiore interesse sono però alcune salse indicate da Apicio per la murena, che vedevano la senape amalgamata con sapa e aceto, secondo una tradizione già riportata da Nicandro di Colofone, nel II secolo a.C., che conservava le rape in uno sciroppo realizzato con mosto, miele e aceto addizionato di semi di senape, sale e uva passa.

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Dopo il buio gastronomico dell’Alto Medioevo, la senape tornò sulle tavole tra la fine dell’età feudale e l’inizio di quella comunale.

Un aroma nuovo ed esclusivo A far scuola furono soprattutto i senapieri francesi che, alla fine del Duecento, sfruttavano l’abbondanza di vino e aceto per produrre le prime salse-forti a denominazione d’origine controllata; una di queste, citata nel 1288, è chiamata «mustum ardens», cioè «mosto» reso «ardente» dall’aggiunta di farina di senape, che regalava al palato un aroma nuovo, esclusivo e poco aggressivo.

Il nome si francesizzò in moutarde (da cui l’inglese e lo spagnolo mostaza) e tale rimase fino ai giorni nostri per indicare le senapi in crema o in polvere, passando anche nella lingua inglese (mustard) e spagnola (mostaza). Tuttavia, in Francia questo tipo di giulebbe senapato non ebbe lo stesso successo delle rinomatissime e robuste moutardes alsaziane, di Orléans, Digione e Meaux. Trovò miglior fortuna in Italia, al punto da meritare una accurata descrizione nel piú importante manuale per cuoco del Trecento, il Liber de coquina apparso anonimo presso la corte angioina nel 1304:

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CALEIDO SCOPIO «Cosí preparerai il mosto per fare la mostarda: prendi del mosto nuovo, fallo bollire fino a che non ne rimanga che la quarta parte o la terza, controllane il fumo e fallo schiumare per bene. Poi trita finemente il seme della senape con il suddetto mosto stemperandolo. Ponilo poi in un barile dove si potrà conservare per quattro mesi. È ideale per carni di maiale e tinche marinate. Potrai utilizzare il mosto per altre vivande». All’alba del XV secolo la mostarda «all’italiana» era una presenza comune nelle dispense e nelle cucine di ricche e nobili famiglie italiane a cui era particolarmente gradita la senape francese: i Visconti a Cremona, i Gonzaga a Mantova, gli Estensi a Ferrara, i Pio di Savoia a Carpi, gli scaligeri a Vicenza. Fu certamente qualche ignoto ma perspicace cuoco o dispensiere di corte a intuire che quello sciroppo semiliquido poteva dare lunga vita alla frutta irreperibile fuori stagione.

Nel XVI secolo ogni corte aveva già sviluppato una sua idea di mostarda. A Cremona vi si immergevano fichi, arance e ciliegie intere candite, a Mantova solo mele cotogne, a Carpi la frutta mista veniva tagliata a dadini e lessata direttamente nello sciroppo, mentre a Vicenza i cuochi scaligeri tritavano a purea mele, pere, limoni e cedri canditi

Soluzioni piú economiche

Una notizia infondata Le istruzioni per preparare il mosto ardente divennero sempre piú frequenti; se ne occupò Maestro Martino da Como nel suo Libro de arte coquinaria, stampato nel 1460 e, nel 1475, il cremonese Bartolomeo Sacchi, detto Il Platina, ne diede conto nel De honesta voluptate et valetudine. La notizia che vorrebbe Caterina de’ Medici prima ambasciatrice della mostarda italiana alla corte di Francia è invece destituita di ogni fondamento storico, cosí come molte altre leggende di ispirazione gastronomica riferite alla giovane figlia di Lorenzo de’ Medici che andò in sposa al futuro re di Francia Enrico II di Valois.

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sciroppo senapato sulle mele cotogne speziate al garofano e cannella; in Molise l’«acrodòce» perde la senape, ma acquista noci, mandorle, uvetta, pinoli, arancia e cannella; la mostarda siciliana d’uva o fichidindia si presenta come una crema ispessita da amido e farina di mandorle, mentre lascia anch’essa la nota piccante a favore della cannella per divenire «mustucuttu», «panicutti» o «mustopía».

Vaso da mostarda in ceramica. 1790. Nevers, Musée Frederic Blandin. che venivano poi mescolati con il mosto piccante. Nell’Ottocento comparvero nella Langa piemontese le prime mostarde (detta «cugnà», contrazione di cotognata) realizzate con mosto di Barbera, zucche, cotogne, noci e nocciole tostate. Il Centro e il Meridione d’Italia condivisero questa moda golosa, pur con sostanziose modifiche. Ancora oggi abruzzesi e toscani colano lo

In gran parte delle odierne mostarde il mosto cotto è stato sostituito dal piú economico (e stabile) sciroppo di zucchero e l’aggiunta di senape si è ridotta, o è addirittura scomparsa, per assecondare il gusto contemporaneo, «devoto» solo ai gusti dolce e salato. Tuttavia, l’esegesi della mostarda nel Medioevo ci ricorda il debito, non solo gastronomico, con la cultura araba. In molte mostarde riecheggiano ancora le influenze arabe sedimentate in Sicilia e in Spagna a cavallo dell’anno Mille. Tipicamente orientali sono il gusto per il colore, la tecnica della canditura in zucchero e il contrasto dolce-acido; ben piú arabo è l’uso di uno sciroppo (dall’arabo sharap per bevanda) derivato dell’uva non trasformata in vino, il cui consumo era ed è severamente proibito agli islamici. Al di là della funzione digestiva del mustum ardens e senza tener conto degli aspetti storiografici relativi alla mostarda e alle sue mutevoli interpretazioni/contaminazioni, resta da considerare che il consumo della senape riveste anche una precisa funzione scaramanticopropiziatoria, la stessa sollecitata per secoli dai contadini italiani, che spargevano i semi di Sinapis alba sull’uscio di casa come protezione contro il maleficio e le disgrazie. Sergio G. Grasso gennaio

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UN ANTROPOLOGO NEL

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Un mondo di filatrici I

ntorno al Capodanno una schiera di donne volanti appaiono nelle tradizioni popolari del Vecchio Continente con nomi diversi ma aspetti comuni: dalla «Luca» (Lucia) della Repubblica Ceca alla modenese Barbàsa, dalla Redodesa delle Alpi italiane, fino alle Frau Holda e Frau Berchta delle campagne tedesche. Tutte figure che sembrano avere almeno un tratto che le accomuna: il filare. Girano nelle «dodici notti» – quelle da Natale alla Befana – e controllano che le ragazze abbiano ben filato o, al contrario, che si siano astenute dal farlo. Per natura generose, diventano furiose quando trovano una casa disordinata o un telaio sporco: non sopportano il caos, e si dice premino le ragazze «ordinate», filando In alto Roma, basilica di S. Maria Maggiore. Particolare dei mosaici dell’arco trionfale, raffigurante l’incarnazione del Verbo. V sec. La Vergine è rappresentata nell’atto di filare la lana.

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Qui sopra Monreale, Cattedrale di S. Maria Nuova. Particolare dei mosaici con il ciclo della Creazione: Eva fila la lana mentre Adamo dissoda la terra. XII-XIII sec.

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tutta la notte al loro posto, e castighino invece quelle disordinate, bruciandogli la rocca o maledicendole: «Per ogni capello un cattivo anno».

In principio fu Eva Andando a ritroso nel tempo, la prima nota figura femminile collegata al filare è certamente Eva. Sappiamo poco di lei e delle sue occupazioni preferite, ma già nei magnifici mosaici del Duomo di Palermo la vediamo sconsolata con una spola da tessitura nella mano, mentre Adamo zappa la terra. Tra le Notizie della Santa Casa della grande Madre di Dio Maria Vergine adorata in Loreto (1722), inoltre, leggiamo che a destra della porta centrale è raffigurata «la maledizione dei primi genitori dopo trasgredito

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il precetto, con Adamo, che con la zappa lavora la terra, ed Eva che fila con la rocca». Un utilizzo diverso del filo si ebbe nell’isola di Creta, con Arianna, che, sbrogliando e dipanando il suo gomitolo, riuscí a portar fuori l’amato Teseo dal labirinto, mostruosa figura architettonica simbolo di caos e disordine almeno quanto il mostro che era al suo interno, il Minotauro. Arianna aiuta Teseo a uccidere il mostro e a uscire dall’impossibile labirinto: «Infatti l’entrata del labirinto – scrive Ovidio nelle Metamorfosi –, cosí difficile a individuarsi e mai da nessuno varcata due volte, fu ritrovata dal figlio di Egeo, che raccolse il filo prima dipanato, grazie all’aiuto della vergine Arianna». Questa riportò l’ordine a Creta, un «ordine» legato a doppio filo – e non solo etimologicamente – con il suo gennaio

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Arianna dà a Teseo il filo per uscire dal labirinto, olio su tela di Pelagio Palagi. 1814. Bologna, Museo di Arte Moderna. al termine della quale Aracne vinse, ma la dea la umiliò a tal punto che la povera fanciulla decise di impiccarsi. A quel punto, però, Atena volle salvarla: «Vivi pure, ma continua a restare sospesa, scellerata!» e, conclude Ovidio, «cosí continua come ragno a tessere tele come prima». Ritornando ai mostri, sappiamo che la letteratura medievale è piena di eroi, santi e cavalieri che trionfano su questi esseri ibridi e orridi. Dalla Vita Mercurialis (VIIIIX secolo), in cui i santi Mercuriale e Ruffillo «legano» per la gola un ingens draco per trascinarlo fuori dalla grotta, al piú famoso episodio di san Giorgio, l’ammazza-draghi per eccellenza. Come si può vedere nel dipinto di Paolo Uccello (1456 circa), il santo fa il suo lavoro, ma Jacopo da Varagine nella Legenda aurea aggiunge un particolare interessante. Scrive che il santo disse alla fanciulla, novella Arianna: «Gettagli al collo la tua cintura, bambina, senza aver paura! – lo fece e il drago si mise a seguirla come una cagnolina mansuetissima».

Un filo sottile come la seta

«ordito»: dipanando il gomitolo il mostro sarà ucciso, o portato fuori, forse legato proprio a quel filo. Plutarco racconta che la Signora del Labirinto non sarebbe stata poi abbandonata in Nasso dall’amato, ma avrebbe posto fine ai suoi giorni pendendo da un filo, impiccandosi.

La sfida fra Aracne e Atena E il ciondolare da un filo fa venire alla mente il ragno e, tra questi, il primo ragno della storia mitica, quello creato da Atena. Aracne era una fanciulla abilissima nel tessere, cosí brava che tutti pensavano avesse imparato direttamente dalla dea Atena, mentre la giovane sosteneva che fosse stata la dea ad aver imparato da lei. Si venne a un’inevitabile sfida di tessitura tra lei e Atena,

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Per quanto sottili, questi fili sono impossibili da recidere perché indistruttibili, se non da chi ha avuto per mandato divino il compito di farlo. Come spiegare altrimenti che il potente lupo Fenrir della mitologia nordica – il figlio stesso di Loki –, l’animale che incarna il caos distruttivo dell’intero universo, nella medievale Edda islandese sia stato legato da un filo sottile come la seta al tatto? O forse era una catena, ma dall’apparenza di un nastro di seta costruito dagli Elfi neri con il rumore del passo di un gatto, alcuni peli di barba di donna, radici di montagna, un tendine di orso, un po’ di respiro di pesce e un po’ di sputo di uccello. Per quanto sottili e impalpabili, questi fili possono salvare anche da altre forme di labirinto: se questo è tutto chiuso in se stesso, funzioni analoghe può avere il mare, apertamente infinito. Cosí in un’antica saga irlandese, Le avventure di Bran, figlio di Febal, mentre questi vagava alla ricerca dell’Isola della felicità, una regina gli gettò un gomitolo, che gli rimase attaccato alla mano. La regina teneva l’altra estremità del filo e cosí tirò l’eroe con tutta la sua nave verso la riva. Quelle fin qui ricordate sono alcune delle molte donne della mitologia che filano, lavorano all’arcolaio e legano (anche magicamente), e nulla conta, poi, che Plinio abbia scritto che l’inventore del fuso sia stato un uomo, Clostere, perché questi, in realtà, era solo il figlio della mitica donna-ragno. Forse queste filatrici leggendarie che appaiono d’inverno nel nostro emisfero sono – non piú vergini, non piú giovani – le vere ordinatrici/orditrici del mondo, di un mondo che in questa stagione astronomica sembra capovolgersi, finire e tornare nel caos. Claudio Corvino

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Dario Internullo Ai margini dei giganti La vita intellettuale dei romani nel Trecento (1305-1367 ca.) Viella, Roma, 531 pp., 8 tavv. b/n, tavv. col. f.t.

49,00 euro ISBN 978-88-6728-569-3 www.viella.it

Correva l’anno 1309, quando una serie di circostanze – la morte improvvisa di papa Benedetto XI nel 1304, il sofferto conclave perugino con l’elezione

dell’arcivescovo di Bordeaux Clemente V nel 1305, la precaria situazione romana in balia delle continue ostilità tra le varie baronie, gli aspri conflitti con il re di Francia – spinse Clemente V a stabilire temporaneamente la sede papale ad Avignone. Aveva cosí inizio il periodo della «cattività avignovese», prolungatosi fino al 1377 e durante il

quale Roma rimase orfana dei suoi rappresentanti piú autorevoli: il papa e la curia. Su quel momento storico si incentra l’ampio studio di Dario Internullo sulla vita intellettuale della Roma trecentesca, in un tentativo, ben riuscito, di far luce su un panorama culturale che la passata storiografia, con qualche pregiudizio, ha

voluto connotare negativamente proprio a causa dell’allontanamento oltralpe della curia papale. L’autore affronta la complessa questione avvalendosi di un

vasto repertorio di fonti d’archivio e di scoperte inedite che dimostrano quanto, in realtà, Roma abbia conosciuto nel corso del Trecento un certo fermento culturale, che ha coinvolto le diverse classi sociali: dalle baronie ai nobiles, fino alla categoria dei commercianti e dei notai. Nel discorso riveste un ruolo importante la fondazione dello

Quando il profano si trasforma in sacro MUSICA • Le splendide messe scritte dal compositore fiammingo Guillaume

Du Fay attingevano al patrimonio della musica di ispirazione pagana: una fusione piú che riuscita, ora riproposta da una ricca antologia incisa dall’ensemble Cut Circle, sotto la direzione di Jesse Rodin

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ra il 1545 e il 1563, in occasione delle adunanze del Concilio di Trento, una delle molte questioni affrontate riguardò la musica liturgica e, in particolare, le sue contaminazioni con elementi profani. Addirittura si arrivò quasi a negare l’ortodossia della pratica contrappuntistica sulla quale, sino ad allora, si era basata tutta la produzione sacra occidentale. Fortunatamente lo stile polifonico venne infine salvaguardato, pur fissando alcune norme ferree, tra cui il divieto di utilizzare stilemi

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d’origine profana in ambito liturgico. Con lo sviluppo della polifonia franco-fiamminga del XV secolo, infatti, sempre piú spesso i compositori avevano scelto di utilizzare melodie o brani polifonici profani – ma anche liturgici – come modello di ispirazione per le proprie messe polifoniche.

Il Tenor come elemento portante È il caso, per esempio, delle messe-parodia, che ricalcavano in maniera piuttosto fedele una chanson polifonica profana, oppure

delle composizioni che avevano come elemento portante la melodia profana in una delle voci, solitamente quella del Tenor. In questo aspetto particolare della produzione sacra si distinse Guillaume Du Fay (o Dufay), nato alla fine del XIV secolo a Chimay (Belgio) e morto nel 1474 a Cambrai, compositore fiammingo dalla vita straordinaria, attivo in alcune delle piú importanti corti dell’epoca (Savoia, Malatesta, corte papale). Nel cofanetto che il gruppo Cut Circle gli dedica, sono appunto le «messe a gennaio

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Studium Urbis, promossa alla fine del XIII secolo da papa Bonifacio VIII, affiancato anche da altri importanti centri di formazione, come le scuole annesse ai conventi degli Ordini mendicanti, le cui collezioni librarie, anche desunte dagli antichi inventari, forniscono una testimonianza tangibile della ricchezza di questi fondi.

Un aspetto importante, tra quelli esaminati, è la produzione libraria locale che, seppur limitata, non conobbe battute d’arresto. Molto interessanti risultano poi i capitoli dedicati alle pratiche intellettuali dei Romani impegnati nella ricerca, anche all’estero, di codici manoscritti; ai modi di fruizione degli stessi, con particolare attenzione alla pratica di annotare i volumi

tenore» a offrirci un saggio della sua maestria. L’antologia si apre con la piú nota delle sette messe integrali di Du Fay pervenuteci, la Missa Se la face ay pale, basata sull’omonima chanson profana da lui composta circa un ventennio prima (la Missa risale a metà del XV secolo). L’eccezionalità di questa partitura sta nel fatto di essere anche il primo esempio di messa polifonica costruita su un tema profano, dando, dunque l’input a una prassi ampiamente diffusasi sino a tutto il XVI secolo. L’ensemble offre in questa incisione sia la chanson polifonica, sia la messa a essa ispirata, permettendo un raffronto diretto della contaminazione tra sacro e profano.

Sul tema dell’Uomo in armi La seconda messa proposta è basata su un altro famoso motivo anonimo di origine profana, l’Homme armé, la cui popolarità è testimoniata dalle decine di messe (una quarantina circa) che ne riprendono il tema, in particolar modo nel secondo Quattrocento. Ancora nell’ambito delle «messe a tenore»,

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con commenti, glosse e osservazioni varie: i marginalia, che molto rivelano degli orizzonti culturali di coloro che fecero uso di questi manoscritti e del loro modo di accostarsi alle fonti classiche. Dal fabbisogno di cultura, testimoniato da grandi personaggi – quali, per esempio, Landolfo Colonna, suo nipote Giovanni, Giovanni Cavallini –, il discorso si estende anche alla produzione letteraria

di questi protagonisti della vita intellettuale romana, che fu vasta e variegata e comprese cronache cittadine, scritti di natura politica, teologica e giuridica, storie universali, genealogie, senza dimenticare la produzione epistolare, modellata secondo i dettami dell’ars dictaminis, e la produzione in volgare romanesco. Internullo affronta con competenza magistrale

Guillaume Du Fay, Les messes à teneur Cut Circle, Jesse Rodin (direzione artistica) Musique en Wallonie, MEW 1577-1578, 2 CD www.musiwall.ulg.ac.be il secondo disco offre l’ascolto di due composizioni dal tono piú intimistico, la Missa Ecce ancilla Domini/Beata es Maria, e la Missa Ave regina caelorum, i cui temi sono tratti, questa volta, dal repertorio monodico liturgico. Anche in questo

gli aspetti piú reconditi della storia della vita intellettuale romana trecentesca, fornendo un quadro esaustivo della complessa materia. Particolarmente apprezzabili sono, tra l’altro, l’esemplare chiarezza espositiva e l’approccio divulgativo che fanno di questo volume una lettura adatta non solo agli specialisti ma anche al grande pubblico. Franco Bruni

caso emerge il talento di Du Fay, capace di esprimersi al meglio nel genere della messa, e non solo, sfruttando genialmente il materiale melodico preesistente affidato alla voce del Tenor, con sottigliezze ritmico-compositive di fattura squisita e sorprendente. A dirigere queste superbe partiture, arricchite dalla presenza di due mottetti sul testo dell’Ave Regina Caelorum, è Jesse Rodin, musicologo della Stanford University, nonché direttore dell’ensemble vocale Cut Circle. Le otto voci dimostrano un buon impasto sia nei momenti di assieme, sia nei passaggi a due e tre voci. L’interpretazione è tecnicamente perfetta, anche se, a tratti, poco «chiaroscurata» e la scelta di eliminare la naturale riverberazione del suono ha evocato un contesto sonoro poco consono a quello di una chiesa-cattedrale in cui queste musiche risuonarono. In ogni caso, l’antologia è un buon punto di partenza per avvicinarsi all’arte di un esponente illustre della scuola franco-fiamminga quattrocentesca. Franco Bruni

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