Medioevo n. 237, Ottobre 2016

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MEDIOEVO n. 237 OTTOBRE 2016

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

GUBBIO

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Mens. Anno 20 numero 237 Ottobre 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

PAPA PASQUALE I CODICE GUARNERIANO ITALIA DEI COMUNI/9 GIANO DELL’UMBRIA DOSSIER GUBBIO

L A MADDALENA E IL SANTO GRAAL



SOMMARIO

Ottobre 2016 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE «L’uovo di Colombo» MOSTRE Oltre il recinto

CIVILTÀ COMUNALE/9 Dieci in condotte

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MUSEI Tesori di pietra

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Mirabile austerità di Franco Bruni

STORIE, UOMINI E SAPORI Un mare di salse 104

48 DANTE GUARNERIANO Il codice delle bellezze di Angelo Floramo

PROTAGONISTI Pasquale I

38

38

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CALEIDOSCOPIO

18 22 23 26

STORIE di Mimmo Frassineti

MEDIOEVO NASCOSTO Umbria

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Il papa sono io!

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LUOGHI

ITINERARI L’arte si nasconde

APPUNTAMENTI Medioevo Oggi La vendetta di un artigiano Tutti a casa di monna Tisbe L’Agenda del Mese

di Furio Cappelli

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Dossier

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UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO Il paradiso perduto

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LIBRI Lo scaffale

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MUSICA Alla corte dello Svevo Armonie papali

112 113

Gubbio IL MEDIOEVO ABITA QUI

69

testi di Federico Fioravanti, Patrizia Biscarini, Antonio Menichetti, Elvio Lunghi e Raffaella Menichetti


MEDIOEVO Anno XX, n. 237 - ottobre 2016 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352

Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa Festival del Medioevo: copertina e p. 81 – Doc. red.: pp. 5, 8 (alto), 9 (alto), 48-49, 65, 73, 92 – Andreas M. Steiner: pp. 8 (basso), 9 (centro e basso), 10-11 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 12-13 – Museo Diocesano di Teggiano: foto Tazio Ambrogi: pp. 14-16 – Cortesia degli autori: pp. 20, 22-23, 86 (basso) – Mimmo Frassineti: pp. 36/37, 38 (alto), 38/39, 40-45 – Foto Scala, Firenze: A. dagli Orti: pp. 46/47 – Cortesia Biblioteca Guarneriana, San Daniele del Friuli (Udine): pp. 50-57 – Shutterstock: pp. 58-61, 63, 72/73, 80/81, 85 (alto e basso), 86/87, 87, 89, 91 (centro) – Giorgio Albertini: disegni alle pp. 62, 78/79 – Marka: Francesco Gorup De Be: pp. 66/67; Fotosearch LBRF: p. 67; José Antonio Moreno: pp. 70/71 – DeA Picture Library: p. 75; A. Dagli Orti: pp. 74/75, 76, 77 (destra); Biblioteca Ambrosiana: p. 77 (alto); C. Sappa: pp. 84, 91 (alto e basso); M. Seemuller: p. 104 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 82/83 (e p. 69); The Art Archive: pp. 88/89; AGE: pp. 92/93; Archivio Electa/Remo Michelotti: p. 93; Leemage: p. 106 – Archivi Alinari, Firenze: p. 90 – Franco Bruni: pp. 94, 98, 99 (alto), 100-101, 103 – Cortesia Ernesto De Matteis: p. 96 – Da: Gisberto Martelli, L’abbaziale di S. Felice di Giano e un gruppo di chiese romaniche intorno a Spoleto, in Palladio, 7 (1957): p. 99 (basso) – Cortesia Archivio del Comune di Giano dell’Umbria: pp. 102/103 (e p. 95) – Bridgeman Images: pp. 105, 107 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 38, 84/85, 97. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Marco Ambrogi è direttore del Museo Diocesano di Teggiano. Patrizia Biscarini è storica del Rinascimento. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Claudio Corvino è antropologo. Federico Fioravanti è giornalista e ideatore del Festival del Medioevo di Gubbio. Angelo Floramo è incaricato per la tutela e la valorizzazione del patrimonio antico della Biblioteca Guarneriana di San Daniele del Friuli. Mimmo Frassineti è scrittore e fotografo. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Elvio Lunghi è docente di storia dell’arte medievale presso l’Università per Stranieri di Perugia. Antonio Menichetti è storico e scrittore, studioso delle istituzioni medievali di Gubbio. Raffaella Menichetti è storica delle istituzioni ecclesiastiche di Gubbio. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Stefania Romani è giornalista. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

In copertina uno scorcio di Gubbio.

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Nel prossimo numero storie

medioevo nascosto

protagonisti

dossier

Re Edgardo «il pacifico» Armando Sapori e l’economia del Medioevo

Monteleone Sabino

I Frisoni, guerrieri e mercanti del Nord


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

L’uovo di Colombo

S

i definisce «Uovo di Colombo» una cosa che apparentemente comporta molta difficoltà e che, invece, risulta facile, a patto di conoscerne il trucco. L’origine di questa espressione è riconducibile a un aneddoto popolare, probabilmente falso, e che ha per protagonista Cristoforo Colombo. Tale attribuzione si ritrova per la prima volta nella Historia del Mondo Nuovo di Girolamo Benzoni. In precedenza l’aneddoto era stato attribuito da Giorgio Vasari a Filippo Brunelleschi in relazione alla gara per la costruzione della cupola del Duomo di Firenze. Quando Colombo rientrò dalle Americhe, l’umanista Rui de Pina, in carica presso la corte portoghese di Giovanni II, segnalò che «il 6 marzo 1493 è arrivato dalle Antille di Castiglia Cristoforo Colombo, italiano». L’ammiraglio aveva portato con sé alcune prove da quelle che si ostinava a chiamare «le isole dell’India oltre il Gange», oltre a dieci «indiani che a vederli era una meraviglia»: recava infatti oro, tabacco e alcuni variopinti pappagalli da offrire ai sovrani spagnoli. Furono giorni di festa a Barcellona, dove il Genovese giunse il 20 aprile, accolto dai regnanti con grandi onori. Il ricevimento proseguí nella cappella di S. Anna per celebrare il Te Deum e infine fu consumato il pranzo. Nel corso di questi festeggiamenti Colombo sarebbe stato invitato anche a una cena offerta in suo onore dal cardinal Mendoza, uno degli ecclesiastici piú influenti della corte di Castiglia. Già vescovo di Calahorra, questi aveva ottenuto molti benefici, tra cui l’abbazia di Valladolid, dove fondò il

Collegio di S. Croce, ben presto fulcro del Rinascimento italiano in Spagna. Divenne arcivescovo di Siviglia nel 1469, e nel 1474 fu nominato cardinale da Sisto IV, ricevendo la conferma e il titolo di «cardinale di Spagna» da Isabella, per cui tanto si era battuto. Nel 1482 preferí la sede arcivescovile di Toledo, lasciando le altre cariche precedentemente accumulate. In questi anni l’arcivescovo appoggiò fortemente l’operato dei Re Cattolici, la riunificazione della Spagna contro i Mori e anche il viaggio di Colombo. L’ascendente da lui esercitato sui sovrani fece sí che i suoi tre figli venissero definiti dalla cattolica Isabella solo come «los lindos pecados del Cardenal». Nel corso del ricevimento, alcuni gentiluomini avrebbero sminuito l’impresa del Genovese, affermando che la scoperta della via per le Indie non sarebbe stata poi cosí difficile e che chiunque avrebbe potuto riuscirvi se avesse avuto i suoi mezzi. Indignatosi per l’insolenza, Colombo sfidò i nobili in un’impresa all’apparenza facile: far rimanere un uovo diritto sul tavolo. I signori spagnoli provarono a turno, ma nessuno ci riuscí e finirono per rinunciare alla sfida. Convintisi che si trattasse di un problema insolubile, pregarono Colombo di mostrare loro la soluzione. Dopo averlo ammaccato leggermente, picchiandolo contro lo spigolo del tavolo, l’uovo rimase naturalmente dritto. Quando i presenti protestarono, dicendo che in quel modo ci sarebbero riusciti anche loro, l’Ammiraglio avrebbe risposto: «La differenza è che voi avreste potuto farlo, io invece l’ho fatto!». Colombo rompe l’uovo (Cristoforo Colombo), incisione di William Hogarth. 1752. Londra, National Portrait Gallery.


ANTE PRIMA

Oltre il recinto

MOSTRE • A Palazzo Ducale di Venezia, una mostra da non perdere ricorda

l’istituzione del primo Ghetto della storia, avvenuta 500 anni fa. Con l’esposizione di capolavori d’arte, documenti inediti e una raffinata strumentazione multimediale

I

n questi giorni, da Palazzo Ducale – anzi, dagli stessi appartamenti in cui abitava il doge, situati al primo piano di questo capolavoro dello stile gotico veneziano – la città lagunare indirizza lo sguardo su un luogo distante, in linea d’aria, poco piú di un chilometro. Un luogo della storia cittadina e, insieme, di quella europea. È il Ghetto di Venezia, quel «castello» in mezzo ai canali del sestiere di Cannaregio che, secondo un decreto del Senato della Serenissima reso ufficiale il 29 marzo del 1516, sarebbe dovuto essere circondato da due alti muri e altrettante porte, munite di ponti levatoi. Le porte si sarebbero aperte la mattina, al suono della campana di S. Marco e richiuse la sera a mezzanotte. All’interno di questo «Ghetto Nuovo» dovevano essere mandati tutti i giudei di Venezia…

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In alto Venezia. Una veduta di Palazzo Ducale. A sinistra l’inizio del percorso espositivo, con, sullo sfondo, la riproduzione interattiva della celebre veduta di Venezia MD (vedi nella pagina accanto, in alto) attribuita al disegnatore e incisore Jacopo de’ Barbari (1440?-1516). La mostra «Venezia, gli ebrei e l’Europa», allestita in occasione del cinquecentenario dell’istituzione di questo «recinto» destinato agli ebrei – e della nascita stessa di un termine che, a partire da questo momento, assume, per usare le parole della curatrice della mostra Donatella

Calabi, un «carico di significati anche nelle sue declinazioni geografiche e cronologiche piú lontane» – illustra i processi che hanno portato alla realizzazione del Ghetto, il primo al mondo. Il respiro storico che segna il percorso dell’esposizione, imperdibile, ottobre

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DOVE E QUANDO

«Venezia, gli ebrei e l’Europa. 1516-2016» Venezia, Palazzo Ducale fino al 13 novembre Orario fino al 31.10: tutti i giorni, 8,30-19,00; dal 01.11: tutti i giorni, 8,30-17,30 Info call center 848 082 000 (dall’Italia); e-mail: info@fmcvenezia.it; http://palazzoducale.visitmuve.it Catalogo Marsilio Editori. è profondo: dipinti, disegni architettonici, antichi e rari volumi, documenti d’archivio, oggetti e arredi della liturgia conducono all’interno di un universo culturale che ebbe nei tre Ghetti (Vecchio, Nuovo e Nuovissimo) il suo riferimento territoriale di nascita; e che da lí si irradiò, per alimentare un intero sistema di relazioni sociali e culturali, quello degli ebrei con la società civile di Venezia e con le altre realtà ebraiche, in Italia e nel resto d’Europa.

Qui sopra e in basso pagine del volume manoscritto di Giovanni Grevembroch Gli abiti de veneziani, di quasi ogni età, con diligenza raccolti e dipinti nel secolo XVIII.

Undici sezioni tematiche Le sale dell’appartamento ducale dedicate alla mostra sono undici, quante sono le sue sezioni tematiche

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ANTE PRIMA A sinistra vetrina con esempi dell’editoria ebraica veneziana cinquecentesca e, sullo sfondo, Ecce Homo di Quentin Metsys (1465-1530). In basso, a sinistra sezioni di immobili nel Ghetto Nuovo con la minuziosa indicazione dei residenti. 1777. In basso, a destra L’ebbrezza di Noè, olio su tela di Giovanni Bellini. 1515 circa. Besançon, Musée des Beaux-Arts.

e cronologiche: lo spazio urbano corrispondente all’area del Ghetto prima della sua istituzione (fu l’area di un’antica fonderia del rame, le cui scorie venivano «gettate» nel terren del Geto, appunto) apre il percorso museale, per proseguire con approfondimenti sulla Venezia cosmopolita, il Ghetto cosmopolita, le sinagoghe, la donna nella cultura ebraica, i commerci tra XVI e XVIII

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secolo, il Ghetto raccontato da William Shakespeare attraverso l’invenzione del piú famoso ebreo veneziano, Shylock, per avviarsi ai secoli dell’età moderna, con l’apertura dei cancelli e l’assimilazione in età napoleonica e concludersi con il Novecento. Sul piano dell’allestimento museografico è doveroso sottolineare gli eccellenti espedienti multimediali

e interattivi che, insieme a oggetti e opere d’arte, scandiscono il percorso: segnaliamo, a titolo di esempio, la trasposizione multimediale della celebre pianta prospettica di Venezia attribuita a Jacopo de’ Barbari, la cui «animazione» permette al visitatore di ripercorrere, in un itinerario virtuale, i luoghi della presenza ebraica nella città dell’anno 1500. O, ancora, la fantasmagorica ottobre

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Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae

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A sinistra Il Rabbino di Vitebsk, olio su tela di Marc Chagall (1887-1985). 1914-1922. Venezia, Ca’ Pesaro, Galleria Internazionale d’Arte Moderna. In basso La distruzione del tempio di Gerusalemme, olio su tela di Francesco Hayez (1791-1882). 1867. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

proposta di un viaggio compiuto con il laser scanner lungo calli e canali, in grado di condurre lo spettatore attraverso le mura fin dentro le stesse abitazioni e gli edifici di culto del Ghetto.

Una segregazione benaccetta La mostra analizza, illustra e racconta la presenza degli ebrei in quella che è stata definita la «prima città globale del mondo moderno»: una storia che, a un certo momento, viene segnata da una segregazione che, per concludere con le parole di Donatella Calabi «sembra benaccetta a veneziani e ebrei». E che diventerà parte del «mito» di Venezia, ovvero di quell’«esempio di lungo, lunghissimo Medioevo, in cui la forza delle tradizioni stava anche nel conservare per secoli quel particolare rapporto di tutela, rispetto, controllo e diffidenza che la Serenissima aveva stabilito con le diverse minoranze etniche, religiose e professionali». Andreas M. Steiner

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ANTE PRIMA ITINERARI • Il recupero delle cave

di pietra utilizzate nel Medioevo mette a disposizione di Cagliari un nuovo e suggestivo spazio espositivo

L’arte si nasconde N

In alto Cagliari. Una veduta del quartiere Castello, edificato con la pietra proveniente dalle cave medievali oggi trasformate nel CARTEC. A sinistra un’altra veduta del capoluogo sardo, dominato dal quartiere Castello.

egli ultimi anni Cagliari, Capitale italiana della cultura 2015, è stata al centro di un progetto di riqualificazione che ne ha in parte ridisegnato l’assetto urbanistico: nell’ottica di attenuare il divario fra il centro e le periferie, un tempo «difficili», sono stati creati sistemi di collegamento fra zone diverse. Un nuovo tratto di lungomare congiunge il porto storico al quartiere di Sant’Elia, alcune aree verdi sono state ideate dal paesaggista portoghese João Nunes e vari spazi pubblici sono stati riconvertiti.

Le stratificazioni storiche In questo scenario si colloca la nascita di un polo culturale, che ruota attorno a una zona densa di stratificazioni storiche: grazie a una ristrutturazione, le cave di pietra, scavate nel corso del Medioevo, si sono trasformate nel CARTEC (Cava

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Arte Contemporanea), un ambiente destinato a mostre temporanee. Il complesso sotterraneo ha avuto in passato usi diversi: nel secondo conflitto mondiale ha accolto come rifugio antiaereo sia la popolazione che le opere d’arte, mentre piú tardi, fino agli anni Sessanta, è diventato dimora di senzatetto. Ora le grotte,

DOVE E QUANDO

CARTEC Cagliari, Giardini Pubblici, largo Giuseppe Dessí Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; chiuso il martedí Info tel. 070 6777598 www.museicivicicagliari.it ottobre

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A sinistra e qui sotto due immagini dell’allestimento del CARTEC, il polo espositivo realizzato nelle cave di pietra medievali di Cagliari.

dalle quali i Cagliaritani hanno estratto la pietra per costruire il quartiere Castello – l’area fortificata della città –, rivestono una collocazione strategica, fungendo da cerniera fra la Galleria Comunale d’Arte e la Cittadella dei Musei. Le cavità, che si trovano nella parte alta dell’abitato, sotto un costone roccioso, si aprono su un polmone verde di impronta ottocentesca. «Sono spazi di grande suggestione, che si appoggiano su un giardino che fa da scenario a incontri di approfondimento e serate musicali», racconta Anna Maria Montaldo, direttrice dei Musei Civici. Che aggiunge: «Le mostre temporanee sono ispirate ai temi della memoria, della stratificazione, e CARTEC è destinato alla sperimentazione in ambito contemporaneo, alla ricerca, al futuro, in un luogo carico di valenze storiche. Con progetti site specific, con i laboratori, con

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le residenze d’artista, nell’ottica di valorizzare un patrimonio importante».

Ambienti comunicanti Il restauro ha permesso il consolidamento di tre ambienti sotterranei, di forma e dimensioni diverse, comunicanti. Sebbene le grotte tendano a mantenere una temperatura costante, fra gli impianti sono stati aggiunti anche quelli di climatizzazione e deumidificazione, improntati a un criterio di completa reversibilità e collocati, come gli altri, sotto il nuovo pavimento in legno, posato a 1 m d’altezza dal fondo. L’alzato in acciaio industriale, con pannelli metallici e vetro, non interferisce con la struttura in pietra, valorizzando le cave e dando l’impressione di un continuum. Spiega ancora Montaldo: «Può essere che un’attività estrattiva venisse praticata anche in

precedenza, ma quella documentata in maniera certa è medievale, come suggeriscono la conformazione dello scavo e il metodo di estrazione. Fra gli ambienti ipogei recuperati c’è una cavità grande, nella quale è stata lasciata un’enorme colonna centrale, del diametro di 2 m circa, secondo una modalità tipicamente medievale. Inoltre nella parete marnosa sono visibili buchi quadrati, a intervalli regolari, in cui venivano alloggiati tronchi di legno che, una volta bagnati, aumentavano di volume, spaccando le pareti per facilitare l’estrazione. Infine il soffitto è inciso con motivi paralleli o a incrocio, fatti per evitare lo spolvero e la caduta di pietruzze». Fino al 30 ottobre, CARTEC ospita una monografica dell’artista cagliaritana Rosanna Rossi, protagonista dell’Astrazione italiana. Stefania Romani

Errata corrige con riferimento al Dossier Ballando con il ragno (vedi «Medioevo» n. 235, agosto 2016) desideriamo precisare che l’incisione di Gustave Doré pubblicata a p. 77 (e riprodotta anche in copertina), raffigurante Dante e Virgilio al cospetto della donna ragno, illustra un episodio descritto da Dante nel Purgatorio (canto XII) e non nell’Inferno della Divina Commedia. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori.

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ANTE PRIMA

Tesori di pietra

MUSEI • Il Museo Diocesano

«San Pietro», a Teggiano, raddoppia i suoi spazi espositivi con l’apertura del nuovo Lapidario Dianense

U

n dialogo storico tra una città e la pietra estratta dalle sue cave, dalla romanità all’Ottocento e rivelato attraverso una moderna esposizione; è questo, in sintesi, il filo rosso narrativo che lega Teggiano (Salerno) al suo nuovo museo, il Lapidario Dianense, inaugurato nello scorso luglio. Finanziato dalla Regione Campania e dalla Diocesi di TeggianoPolicastro, lo spazio museale raddoppia la superficie espositiva del Museo «San Pietro» e si

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colloca all’interno del complesso architettonico di S. Michele Arcangelo, che comprendeva ben quattro fondazioni ecclesiastiche: la chiesa micaelica, la confraternita con cripta-ossario, il succorpo di S. Venera e la cappella di S. Eligio.

L’accampamento di Federico Ubicato ai margini sud-orientali della cittadina di Teggiano, in prossimità delle mura, il sito religioso, guarda i rilievi montuosi su cui sorge il santuario di S. Michele

Arcangelo e la collina denominata «Poggio Reale», dal punto in cui fortificò il suo accampamento Federico d’Aragona, durante l’assedio di Diano (l’odierna Teggiano) nel 1497. Nata dall’esigenza di sistemare le opere scultoree di proprietà del Museo Diocesano, la collezione raccoglie numerose testimonianze che coprono un arco cronologico di ben diciotto secoli, con manufatti risalenti all’età repubblicana e imperiale di Tegianum romana – tra cui un telamone, una statua acefala e tre edicole funerarie – e diversi capitelli medievali, alcuni di quali di chiara impronta federiciana e assegnabili alla mano di Melchiorre da Montalbano, autore del portale e dell’ambone della cattedrale cittadina. Uno stemmario raccoglie emblemi del XV, XVI e XVII secolo delle famiglie aristocratiche locali, in cui risaltano chiari riferimenti alla massoneria, mentre altre sculture di diversa cronologia ricordano gli splendori di una città che fu un vero centro d’arte e di richiamo per l’intero Vallo di Diano, in diretto contatto con la capitale partenopea. Basti pensare alla presenza a Teggiano di opere appartenenti alla mano di Tino di Camaino, Giovanni da Nola e Andrea da Salerno.

La pietra di Teggiano Il Lapidario è un vero e proprio monumento alla «pietra di Teggiano», una compatta arenaria calcarea di tonalità biancastra con esili venature, con la quale sono state costruite tutte le architetture della cittadina, nonché le opere litiche presenti nelle chiese, nei palazzi e nelle dimore rurali. Nel tardo Quattrocento, i Sanseverino, principi di Salerno e fortemente legati a Diano, portarono alcuni blocchi in pietra a Napoli, con cui furono scolpiti i portali del loro palazzo, oggi chiesa del Gesú Nuovo. Della pietra teggianese esistevano diverse estrazioni, ubicate in piú ottobre

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punti del territorio e anche una versione in negativo (di tonalità vinaccia con venature chiare), con cui furono realizzati alcuni altari nelle chiese cittadine di S. Benedetto e S. Agostino. Il Quattrocento fu il secolo d’oro di Diano, tanto da richiamarvi mercanti e uomini d’affari da terre lontane, come i Malavolta

di Siena, che commissionarono, attraverso Orso (medico personale del re aragonese) e Ambrogino, numerose opere d’arte, tra cui il portale della chiesa di S. Pietro (ora Museo Diocesano) e la citata tomba in cattedrale, racchiusa un tempo in una cappella ornata da un maestoso arco scolpito. Lo stesso monumentale ingresso è stato

DOVE E QUANDO

Museo Lapidario Dianense Museo Diocesano «San Pietro» di Teggiano, rampa Sant’Angelo. Orario tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; chiuso il lunedí Info tel. 0975 79930 e 349 5140708; e-mail: museoteggiano@diocesiteggiano.it; www.paradhosis.it

In alto Teggiano (Salerno). Il nuovo Lapidario Dianense, compreso nel Museo Diocesano «San Pietro». Nella pagina accanto Teggiano, cripta di S. Venera. Affresco raffigurante una Madonna con Bambino, fra san Giovanni Battista e santa Veneranda. XIV-XV sec. A destra la parte sommitale dell’arco dei Malavolta, con l’iscrizione che rimanda alla sua committenza. Fine del XV sec. Teggiano, Lapidario Dianense.

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ANTE PRIMA ricollocato, dopo anni di oblio, nel Lapidario, pur essendo incompleto di alcuni pezzi. L’ornato del fronte arcuato evidenzia motivi vegetali con richiamo al Pane e al Vino Eucaristico, mentre i due blocchi centrali dell’archivolto mostrano l’iscrizione che rimanda alla committenza dei Malavolta. Non lontana cronologicamente dall’arco è la lastra aragonese, scolpita nel 1487 e collocata un tempo sulla torre campanaria della chiesa di S. Maria (l’attuale cattedrale), a richiamare la lesa maestà alla casa regnante da parte dei dianensi, mostratisi fedeli ai feudatari Sanseverino, durante la celebre Congiura dei Baroni del 1485.

Dal Museo alla cripta Il Lapidario insiste sullo spazio dell’antico ossario della chiesa di S. Michele (con basamento in roccia) e sul vano un tempo occupato dalla

cappella di S. Eligio, patrono della locale corporazione degli orefici. Da qui si può accedere alla cripta di S. Venera, un ambiente carico di fascino, con colonne monolitiche coronate da capitelli di reimpiego classici e da altri manufatti d’età medievale, scolpiti con motivi zoomorfi e fitomorfi, per poi risalire nella chiesa micaelica, una delle antiche parrocchie dianensi. Nello spazio del succorpo o cripta, al di sotto del quale si aprono alcuni passaggi segreti verso le contigue abitazioni, si ammirano affreschi del XIV e XV secolo, tra cui una Madonna con Bambino, assisa in trono e affiancata da san Giovanni Battista e santa Veneranda, mentre altri dipinti murari furono strappati alcuni decenni fa, per salvaguardarli dall’umidità e vennero spostati nel Museo Diocesano, al centro della cittadina. Marco Ambrogi

In alto uno dei capitelli nella cripta di S. Venera decorato con figure di leoni. A destra lo stemma degli Aragonesi che un tempo si trovava sulla torre campanaria della chiesa di S. Maria (l’odierna cattedrale). 1487. Teggiano, Lapidario Dianense.

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ANTE PRIMA

EDIO VO M E OGGI

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romuovere la conoscenza del patrimonio culturale longobardo e, nel contempo, permettere di maneggiare preziosi manoscritti e opere scultoree anche ai non «addetti ai lavori», senza che questo comprometta lo stato e la conservazione di testimonianze cosí fragili e antiche. È questo lo scopo del nuovo progetto editoriale «Lo Scrigno del Tempo-I Longobardi», curato da Capsa Ars Scriptoria, editore specializzato nella realizzazione di riproduzioni di pregio. L’iniziativa è partita da Enrico Chigioni, artigiano bergamasco con la passione per la cultura: collezionista egli stesso di manoscritti, per primo ha constatato quanto sia difficile (e rischioso) sfogliare

Sulle due pagine alcune immagini dell’edizione in facsimile dell’Historia Langobardorum, la cronaca redatta da Paolo Diacono che, ancora oggi, rappresenta una fonte imprescindibile per lo studio della popolazione di origine germanica. La replica è quella del manoscritto realizzato nel secondo quarto del IX sec. e oggi conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Cividale del Friuli (Udine).

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di persona volumi che hanno secoli di vita per poterli studiare e ammirare da vicino. Da qui l’idea di realizzare direttamente i facsimile. E non di codici qualunque. Oggetto della scelta sono infatti alcuni tra i testi piú importanti che siano stati prodotti tra il VI e l’XI secolo, ossia in ambito culturale longobardo: l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, ossia la storia di questo popolo, e le Leges Langobardorum, la raccolta di normative su cui per secoli hanno fondato il diritto. Accanto ai volumi, ci sono alcune opere scultoree particolarmente significative: l’altare di Ratchis, punta di diamante del Museo Cristiano del Duomo di Cividale del Friuli (Udine), e la lapide di san Cumiano di Bobbio, conservata nell’importante monastero del Piacentino.

In tutto e per tutto identici all’originale La riproduzione dei codici, realizzata su concessione esclusiva delle autorità competenti, è – come si legge nelle note tecniche – fedele all’originale, stampata su carta speciale, adatta per il trattamento di invecchiamento e con finiture di qualità. Essa mantiene i fori e le tarlature originali (grazie all’impiego del laser) e permette la percezione delle differenze tattili tra lato «pelo» e lato «carne» dei singoli fogli del manoscritto. La tiratura è limitata a 999 esemplari numerati corredati da certificato notarile e non è replicabile. I manufatti lapidei invece sono riprodotti in scala ridotta 1:4.5 mediante incisografo, utilizzando un pezzo unico di pietra dalle caratteristiche idonee per l’incisione oltre che per il colore molto simile all’originale. Accompagna ogni esemplare un ampio commentario redatto da alcuni tra i piú autorevoli studiosi di storia e cultura longobarda. Nato nel 2009, il progetto Capsa ha preso particolare slancio all’indomani dell’inserimento (25 giugno 2011) del sito seriale «Longobardi in Italia: i luoghi del

potere (568-774)» nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità UNESCO. Il piano editoriale prevede in tutto la riproduzione di tre manoscritti e tre opere scultoree. Per ora, come accennato, è già stato realizzato il facsimile del Codice Cividalese XXVIII, uno dei pezzi piú pregiati custoditi dal Museo Archeologico Nazionale di Cividale del Friuli. Il manoscritto è molto importante, perché la sua datazione al secondo quarto del IX secolo lo pone tra i piú antichi e completi testimoni della fondamentale Historia Langobardorum, la cronaca redatta dal monaco e poeta Paolo Diacono (720 circa-799) che rappresenta la

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fonte piú attendibile dell’epopea dei Longobardi, sia prima che dopo la conquista dell’Italia. Il facsimile è corredato da un commentario di oltre 800 pagine con contributi di Stefano Gasparri, Laura Pani ed Elisa Vittor.

Emblema della «rinascenza liutprandea» Già disponibile, ma solo su prenotazione, è anche l’altare di Ratchis, tra i piú celebri capolavori artistici della cosiddetta «rinascenza liutprandea», che, come già ricordato, è oggi conservato al Museo Cristiano del Duomo di Cividale. Realizzato tra il 737 e il 744 su commissione del duca (e futuro sovrano) Ratchis, raffigura nei bassorilievi scolpiti sulle quattro facce in pietra d’Istria la Visitazione di Maria Vergine a Elisabetta, l’Ascensione di Cristo in Maestà tra gli Angeli e l’Adorazione dei Magi. Il commentario è affidato ancora a Gasparri, a Laura Chinellato e a Riccardo Belcari. Di prossima realizzazione sarà invece il Codex Legum Langobardorum, noto come Codice Cavense 4, conservato presso la Biblioteca Statale del Monumento Nazionale Badia di Cava de’ Tirreni (Salerno). Anche questo manoscritto, sebbene tardo – risale infatti ai primi anni dell’XI secolo – è di fondamentale importanza: oltre a contenere la piú ampia raccolta di leggi longobarde pervenute (tra cui l’Editto di Rotari del 643, un glossario di termini giuridici e l’Origo gentis Langobardorum, ovvero la mitica genesi del popolo longobardo utilizzata come fonte anche da Paolo Diacono), è infatti l’unico a essere corredato da miniature, di splendida fattura, che ritraggono i sovrani e illustrano con dovizia di particolari i costumi del tempo. Sempre in lavorazione è infine la lapide sepolcrale di san Cumiano, vescovo scozzese morto nel 661, custodita al Museo dell’Abbazia piacentina di S. Colombano a Bobbio. Essa commemora il quinto abate del monastero che fu fondato dal santo irlandese e compatrono d’Europa grazie alla protezione della coppia regnante Teodolinda-Agilulfo, e che divenne faro di cultura e punto di partenza per l’evangelizzazione del territorio appenninico. L’opera fu realizzata per volontà di re Liutprando e vanta una mirabile raffinatezza esecutiva. L’iscrizione latina centrale è racchiusa da una doppia cornice a motivi geometrici (serie di croci) e fitomorfi (tralci di vite) realizzati a bassorilievo e densi di significati simbolici e allegorici. Il commentario a corredo si avvale del coordinamento scientifico di Flavio Nuvolone. Il piano editoriale sarà arricchito da un ulteriore facsimile di manoscritto e da un altro manufatto lapideo, che saranno scelti anch’essi tra le testimonianze piú significative dell’eredità lasciata dai Longobardi in Italia. Per informazioni: CAPSA Ars Scriptoria s.r.l.; tel. 0363 330870, cell. 348 2935164; e-mail: info@arscapsa.com, www.arscapsa.com Elena Percivaldi

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ANTE PRIMA

I quattro giorni della Borsa

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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rende il via giovedí 27 ottobre 2016 la XIX edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, che, fino a domenica 30, «occuperà» l’area adiacente al Tempio di Cerere, il Museo Archeologico Nazionale e la Basilica Paleocristiana. Il programma si aprirà con l’incontro «Un anno di gestione autonoma dei Musei Archeologici del Sud», moderato da Alessandro Barbano, direttore de Il Mattino, con Eva Degl’Innocenti, direttore del Museo Archeologico Nazionale di Taranto, Paolo Giulierini, direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Carmelo Malacrino, direttore del Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria e Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco Archeologico di Paestum. Nell’occasione è previsto anche l’intervento del Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini. Fra gli appuntamenti di spicco della rassegna, ricordiamo anche le conferenze realizzate con il MiBACT, che patrocina la Borsa – «Archeologia e Paesaggio», «Le politiche europee per il turismo e il patrimonio culturale» e «Pubblico e privato a sistema per la promozione e la valorizzazione delle destinazioni turistico-culturali» –, la conferenza «I Musei Archeologici del Mediterraneo per il

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dialogo interculturale», nell’ambito dell’evento #pernondimenticare il Museo del Bardo, 18 marzo 2015 e la conferenza #Unite4Heritage for Palmyra. Venerdí 28 ottobre sarà consegnato l’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio alla piú significativa scoperta archeologica del 2015, promosso dalla Borsa e da «Archeo» e giunto alla seconda edizione, che verrà assegnato alla presenza di Walid Asaad, figlio dell’archeologo di Palmira che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale. Inoltre, sarà consegnato uno «Special Award» alla scoperta che avrà ricevuto il maggior consenso sulla pagina Facebook della Borsa. E, nello stesso giorno, si svolgerà la Presentazione Ufficiale dei «Blue Helmets of the Sea», moderata da Andreas M. Steiner, direttore di «Archeo», alla presenza di Anna Arzhanova Presidente CMAS Confederazione Mondiale Attività Subacquee, Ilaria Borletti Buitoni Sottosegretario di Stato ai Beni e alle Attività Culturali e al Turismo, Silvia Costa Presidente Commissione Cultura e Istruzione del Parlamento Europeo, Sebastiano Tusa Soprintendente del Mare della Regione Siciliana e Presidente Nazionale Gruppi Archeologici Subacquei d’Italia. Info www.borsaturismoarcheologico.it ottobre

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ANTE PRIMA

La vendetta di un artigiano

APPUNTAMENTI • La cittadina friulana

di Venzone rievoca ogni anno una curiosa leggenda legata alla costruzione del Duomo

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econdo un antico racconto medievale, la comunità friulana di Venzone (Udine) lavorò a lungo per fortificare il paese di mura difensive e abbellirlo del suo splendido Duomo, ma si trovò sprovvista del denaro necessario per terminare la costruzione del campanile. Per superare l’ostacolo,

Due immagini della Festa della Zucca di Venzone, che anima le vie cittadine nel quarto week end di ottobre.

il consiglio comunale decretò provvedimenti straordinari: raddoppio dei pedaggi sulle merci, obbligo per tutti i forestieri transitanti per Venzone di lasciare un’offerta, imposizione ai cittadini di giornate di lavoro gratuito. Fra non pochi malumori, si raccolsero cosí i fondi per ultimare la guglia del Duomo e fu chiamato anche un maestro di Udine, il quale coronò l’opera con una splendida sfera dorata, sormontata da una croce. Ma quando l’artista si

presentò al consiglio comunale per essere ricompensato, gli venne detto che anche lui doveva contribuire alle ristrettezze economiche del paese e gli fu liquidato soltanto un terzo della somma pattuita.

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La sostituzione nella notte L’uomo si mostrò soddisfatto e ringraziò, ma, per vendetta, la notte successiva salí sul campanile e rimpiazzò la palla d’oro lucente con una zucca, cosí ben dipinta che nessuno si accorse della sostituzione.

I Venzonesi inaugurarono solennemente il Duomo, ma, dopo alcuni giorni, si accorsero che la sfera collocata sul campanile mutava stranamente di colore, finché un giorno cadde, spappolandosi al suolo in mille pezzi gialli. Oggi la cittadina in provincia di Udine ricorda annualmente quell’episodio sospeso fra storia e leggenda con la Festa della Zucca. Si tratta di una rievocazione dai tratti goliardici, che va in scena il quarto week end di ottobre, ottobre

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quest’anno il 22 e 23. Il sabato, fin dal primo pomeriggio, e la domenica, per tutta la giornata, il centro storico di Venzone si anima di musici, giocolieri, mangiafuoco, nobildonne, cavalieri, armigeri e personaggi curiosi come l’Arciduca della Zucca e i membri della Sacra ArciConfraternita della Zucca. Al centro di tutto, troneggia sua maestà la zucca. Le Cucurbitaceae si trovano dappertutto: in piazza, nelle vetrine dei negozi, nelle locande, sulle bancarelle, cucinate in vari modi per soddisfare i palati piú curiosi ed esigenti. E ci sono perfino un concorso artistico di zucche intagliate e decorate e un premio per la piú pesante.

Dal patriarca al doge Venzone sorge alla confluenza della valle del Tagliamento e del Canal del Ferro, nel Parco Naturale delle Prealpi Giulie. Il primo nucleo urbano venne fondato durante il dominio carolingio, dall’VIII al X secolo. Nel 1077 il borgo entrò a far parte del patriarcato aquileiese, esercitando un ruolo importante per il controllo dei traffici commerciali. Nel 1200 il patriarca affidò questo feudo alla famiglia dei Mels, che ne aumentò il prestigio fino al riconoscimento giuridico di Comune nel 1247 e, nel 1258, Glizoio di Mels fece fortificare il paese con una doppia cinta muraria e un profondo fossato. Il controllo della cittadella passò poi dalle mani di un signore all’altro fino all’arrivo di Venezia, alla fine del XIV secolo, che trovò in Venzone un prezioso alleato nella lotta contro i Carraresi. L’assoggettamento del Friuli a Venezia nel 1420 pacificò sotto un solo dominio tutta la regione, ma per Venzone segnò l’inizio di un periodo di decadenza economica, dovuta alle nuove vie di traffico commerciale, che fino ad allora avevano costituito la principale fonte di reddito per la cittadina. Tiziano Zaccaria

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Tutti a casa di monna Tisbe S

abato 15 e domenica 16 ottobre torna a Martinengo il tradizionale Palio dei Cantú, rievocazione medievale che ruota attorno al periodo colleonesco. Tisbe Martinengo, moglie di Bartolomeo Colleoni, il grande condottiero del XV secolo, aveva infatti vissuto in questa cittadina, oggi in provincia di Bergamo. L’evento si apre nella giornata di sabato con il Marendí del Palio, che prevede, a partire dalle 20,00, la cena itinerante, servita sotto gli antichi porticati, nei quali vengono esposte le prelibatezze offerte dai commercianti (previo acquisto del piatto del Palio). Alcune immagini del Palio dei Cantú, che culmina con la corsa degli asinelli.

Nel corso della serata si ha l’opportunità di scoprire, fra giullari e cantastorie, «Il Medioevo in castello», il cui programma prevede spettacoli e rappresentazioni nelle piazze del centro storico. La domenica è invece il giorno dedicato al momento clou della manifestazione, il Palio dei Cantú. Al mattino in centro vengono allestiti gli accampamenti degli armigeri, che si sfidano poi in combattimenti dimostrativi. Alle 14,30 prende il via il corteo storico, con gli sbandieratori di San Secondo Parmense; seguono le sfilate storiche dei cinque Cantú cittadini, con circa cinquecento figuranti in abiti medievali. Alle 16,30 la divertente corsa degli asinelli assegna il Palio. T. Z.

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AGENDA DEL MESE

Mostre GENOVA GENOVA NEL MEDIOEVO. UNA CAPITALE DEL MEDITERRANEO AL TEMPO DEGLI EMBRIACI Museo di S. Agostino fino al 9 ottobre

Situato nel cuore piú antico del centro storico di Genova, il complesso museale di S. Agostino ospita la prima mostra mai dedicata al Medioevo genovese. L’iniziativa rientra in un piú ampio progetto, promosso dal Comune di Genova, per diffondere la conoscenza della storia delle origini della città e del suo ruolo come grande capitale europea e del

a cura di Stefano Mammini

commerciale e culturale. Tra i numerosi capolavori esposti, il magnifico «catino» verde, in vetro traslucido, inizialmente ritenuto di smeraldo e identificato dal frate domenicano e arcivescovo di Genova, Iacopo da Varagine (1228-1298), con il Santo Graal. Si tratta, in verità, di un tipico manufatto di produzione fatimide (la dinastia araba che dominò l’Egitto dal 973 al 1171), un genere molto apprezzato nelle corti dei califfi. Il «catino» fu saccheggiato dai crociati nella città di Cesarea nell’anno 1101, e da lí portato a Genova. info complesso museale di s. agostino: tel. 010 2511263; e-mail: museosagostino@comune. genova.it; www.museidigenova.it; call center coopculture: tel. 010 4490128 (lu-ve, 9,00-13,00 e 14,00-17,00; sa, 9,00-13,00); e-mail: msa@coopculture.it

in prestito dagli Uffizi, opera di Sandro Botticelli, del 1500 circa, tra le sue ultime opere, mistica, strana e popolatissima, intrisa degli echi delle profezie del Savonarola. Quanto ai pellegrini, ne vediamo su predelle di squisita ricchezza, come quella di Lorenzo Monaco dal Museo di San Marco di Firenze, San Nicola che salva i naviganti, del 1415 circa. info tel. 0433 44445 oppure 0433 2054 JESOLO (VENEZIA) CRUX. IL CROCEFISSO DI JESOLO: CINQUE SECOLI DI ARTE E DEVOZIONE Chiesa di S. Giovanni Battista fino al 16 ottobre

Allestita nella chiesa di S. Giovanni Battista di Jesolo, la mostra ripropone cinque secoli di arte e devozione, che ruotano attorno al prezioso

Crocefisso. La tavola, databile nel XIV secolo e al centro di una vicenda attributiva ancora in divenire, torna nella sua cittadina, dopo anni di ricerche che hanno permesso di identificarla con un’opera collocata nei depositi delle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Il Cristo è stato oggetto di una cessione chiarita di recente, grazie all’impegno di Giuseppe Artesi, il quale studiando documenti custoditi all’Archivio di Stato di Venezia, ha ricostruito il passaggio del Crocefisso da Jesolo alla città lagunare. La rassegna offre l’occasione per ripercorrere le ipotesi relative all’attribuzione, per la quale sono stati fatti i nomi di Niccolò di Pietro, del Maestro della Madonna del Parto e del colorista veneziano Niccolò Semitecolo. info www.comune.jesolo.ve.it/ crocefisso

ILLEGIO, TOLMEZZO (UDINE) OLTRE. IN VIAGGIO CON CERCATORI, FUGGITIVI, PELLEGRINI Casa delle Esposizioni fino al 9 ottobre

Mediterraneo. Il sottotitolo della mostra – «Una capitale del Mediterraneo al tempo degli Embriaci» – fa diretto riferimento a una delle piú eminenti famiglie che, nei primi secoli dopo l’anno Mille – periodo storico che coincide con l’epopea delle crociate –, contribuirono a sviluppare e consolidare questa nuova fisionomia della città portuale. Protagonisti della rassegna sono circa 200 reperti – tra cui sculture, reliquiari, preziosissimi frammenti di tessuti, ceramiche, manoscritti miniati –, che illustrano un’epoca di grande fioritura e dinamicità politica,

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Viaggiare è il simbolo dell’insopprimibile desiderio dell’uomo di trovare il senso, di superare se stesso, di vivere pienamente: sensazioni che vengono raccontate visivamente nella mostra di Illegio, attraverso un percorso che comprende oltre quaranta dipinti su tela e su tavola. Fra le opere, provenienti da collezioni pubbliche e private italiane ed europee, possiamo ricordare la tavola del Museo Borgogna di Vercelli, dipinta da Bernardino de’ Donati agli inizi del Cinquecento, che mette in scena Enea alla corte di Didone e la grandiosa Adorazione dei Magi, concessa ottobre

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VENEZIA LE EDIZIONI GRECHE DI ALDO MANUZIO E I SUOI COLLABORATORI GRECI (C. 1495-1515) Sale Monumentali della Biblioteca Nazionale Marciana fino al 24 ottobre

Realizzata in collaborazione con la Fondazione Aikaterini Laskaridis, la nuova mostra della Biblioteca Nazionale Marciana vuol far conoscere il contributo dato alla letteratura greca dal famoso letterato ed editore, presentando tutte le edizioni greche che pubblicò durante la sua vita. Aldo Manuzio ha inaugurato la sua attività di stampatore pubblicando Ero e Leandro di Museo (1495-1497), ritenendo che la lingua e la letteratura greca dovessero essere conosciute da un sempre maggior pubblico. Egli stesso ebbe a dire: «In che modo chi non conosce la lingua greca può imitare gli scrittori greci che sono i piú dotti in ogni campo del sapere? Da essi infatti è derivato tutto ciò che è degno di lode nella lingua latina». Per l’occasione, la Biblioteca Storica della Fondazione Laskaridis, è orgogliosa di poter esporre la sua ricca collezione di Aldine greche, che consta di 38 esemplari, alle quali ne sono state aggiunte alcune possedute dalla Marciana e altre provenienti dalla Biblioteca della Alexander S. Onassis Public Benefit Foundation. info tel. 041 2407211; e-mail: biblioteca@marciana.venezia.sbn.it; http://marciana.venezia.sbn.it TIVOLI (ROMA) I VOLI DELL’ARIOSTO. L’ORLANDO FURIOSO E LE ARTI Villa d’Este fino al 30 ottobre

Organizzata in occasione del

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cinquecentesimo anniversario della prima edizione dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto (1516), la mostra celebra l’impatto esercitato dal poema fino a oggi sulle arti figurative. Villa d’Este, con il suo celebre giardino e i suoi ambienti affrescati, ne costituisce lo scenario ideale: il cardinale Ippolito II d’Este, infatti, che fece costruire e decorare tra gli anni Sessanta e Settanta del Cinquecento questa villa di delizie, non solo è citato piú volte nel poema, ma aveva avuto modo di frequentare l’Ariosto negli anni della giovinezza trascorsi presso la corte ferrarese. Le opere riunite a Villa d’Este attingono alle piú varie tipologie e tecniche artistiche (dipinti, sculture, arazzi, ceramiche, disegni, incisioni, medaglie, libri illustrati...) e vengono presentate secondo un itinerario cronologico, documentando la fortuna visiva del poema. A integrazione della mostra, Villa d’Este propone un ricco calendario di manifestazioni ed eventi collegati: percorsi nel territorio, concerti, proiezioni cinematografiche, spettacoli teatrali, conferenze, letture ariostesche. info tel. 0774 312070; e-mail: pm-laz.villadeste@beniculturali.it www.villadestetivoli.info; www.ariostovilladeste.it SAN GIMIGNANO BENOZZO GOZZOLI A SAN GIMIGNANO Pinacoteca fino al 1° novembre

Di Benozzo Gozzoli (1420/21-1497), artista tra i piú rappresentativi e prolifici del Quattrocento italiano, la mostra celebra il triennio sangimignanese, uno dei periodi piú intensi e fecondi

nella sua lunga attività. Protagonista del progetto espositivo è la tavola di Benozzo con la Madonna col Bambino e angeli tra i santi Giovanni Battista, Maria Maddalena, Agostino e Marta, che viene ricomposta per la prima volta nella sua interezza grazie ai frammenti di predella oggi divisi tra i musei di Brera, Avignone e Madrid. Il maestro soggiornò nella città delle torri dal 1464 al 1467 e vi realizzò affreschi e pale d’altare, frutto della sua efficiente organizzazione di bottega. Riunite per l’occasione, le opere sono distribuite fra la Pinacoteca e il Museo d’Arte Sacra. Sono stati inoltre predisposti un circuito di visite dei cicli di affreschi nel Duomo, nella chiesa di S. Agostino e nell’abbazia di Monteoliveto e un approfondimento della figura dell’artista presso il BEGO-Museo Benozzo Gozzoli di Castelfiorentino. info www.sangimignanomusei.it ASSISI IL PERDONO DI ASSISI. STORIA AGIOGRAFIA ERUDIZIONE S. Maria degli Angeli, Museo della Porziuncola, Sala san Pio X fino al 1° novembre

Organizzata nel contesto delle iniziative culturali per celebrare l’VIII Centenario del Perdono d’Assisi o della Indulgenza della Porziuncola (12162016), la mostra riunisce codici e opere a stampa antiche che illustrano la storia di questa indulgenza plenaria che, sin dal XIII secolo, ha visto giungere in questo luogo moltitudini di pellegrini in occasione della festa del 2 agosto. Le vicende del Perdono d’Assisi, come fu intitolato in età moderna, hanno termini di confronto anche con due altre iniziative analoghe, quelle de L’Aquila e di Perugia. Distribuita in 10 sezioni e in 26 teche, l’esposizione è accompagnata dalla pubblicazione di una guida

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AGENDA DEL MESE divulgativa e di un catalogo edito dalla Fondazione Centro italiano di studi sull’alto Medioevo (Spoleto). I documenti, i codici e i libri a stampa provengono dalle biblioteche del Sacro Convento di Assisi e del Convento della Porziuncola e da importanti biblioteche italiane e straniere, tra cui la Biblioteca Apostolica Vaticana. Sono esposte, fra le altre, la bolla di Celestino V per la Perdonanza de L’Aquila e la bolla di Bonifacio VIII per il primo Giubileo del 1300. info tel. 075 8051419; e-mail: museo@porziuncola.org; www.assisiofm.it, www.sanfrancesco.org VENEZIA VENEZIA, GLI EBREI E L’EUROPA. 1516-2016 Palazzo Ducale, Appartamenti del Doge fino al 13 novembre

Organizzata per il cinquecentenario dell’istituzione del Ghetto di

della loro permanenza in laguna, in area veneta e in area europea e mediterranea. Dipinti, disegni, libri, documenti, ricostruzioni multimediali concorrono a raccontare una lunga storia di relazioni e di scambi culturali. Con l’obiettivo di divulgare una maggiore consapevolezza delle diversità culturali esistenti in Europa. info tel. 041 2715911; e-mail: info@fmcvenezia.it; http://palazzoducale.visitmuve.it

II la proporzione numerica si sia manifestata al suo livello piú elevato. La rassegna presenta le riproduzioni di capolavori di Botticelli, Giorgione, Giotto, Leonardo da Vinci e una planimetria di Castel del Monte e del suo portale, poste in relazione con opere di artisti contemporanei quali Alberto Biasi, Gregorio Botta, Bruno Ceccobelli, Giorgio de Chirico, Piero Guccione, Giacomo Manzú, Piero Pizzi Cannella e Oliviero Rainaldi. info tel. 0883 569997; www. casteldelmonte.beniculturali.it ROMA LA SPINA. DALL’AGRO VATICANO A VIA DELLA CONCILIAZIONE Musei Capitolini fino al 20 novembre

Venezia, la mostra descrive i processi che sono alla base della realizzazione e della nascita del primo «recinto» destinato agli Ebrei creato al mondo, ma, nel contempo, allarga lo sguardo alle relazioni stabilite con il contesto degli altri quartieri ebraici (e non solo) italiani ed europei. L’iniziativa intende mettere in luce la ricchezza dei rapporti tra Ebrei e Venezia, tra Ebrei e società civile nei diversi periodi

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CASTEL DEL MONTE MATEMATICA E BELLEZZA. FIBONACCI E IL NUMERO AUREO fino al 15 novembre

Nell’immaginario collettivo, l’arte e la matematica sembrano viaggiare su strade parallele, ma sono in realtà strettamente connesse tra loro. Dal loro connubio nasce questa mostra, che trova in Castel del Monte la sua collocazione ideale, considerando come nell’idea costruttiva di Federico

Nell’anno in cui gli occhi sono puntati su San Pietro e i piedi di tanti pellegrini attraversano via della Conciliazione, l’esposizione propone un viaggio a ritroso nel tempo nei luoghi che conducono alla basilica di S. Pietro, raccontandone le profonde trasformazioni dall’antichità fino al Giubileo del 1950, anno in cui ne venne completato l’arredo urbano. La mostra rievoca luoghi che non esistono piú, ma sono stati a lungo custodi della memoria degli avvenimenti storici che hanno portato alla

strutturazione di Roma quale è oggi, capitale dello Stato e, allo stesso tempo, centro simbolico della cristianità. Il filo conduttore della rassegna è la Spina nel doppio significato di toponimo derivante dalla forma allungata dell’isolato rinascimentale, oggi scomparso, e di «corpo estraneo» che, con le demolizioni, di fatto è stato estratto dal tessuto connettivo della città. La demolizione della Spina dei Borghi e l’apertura di via della Conciliazione materializzarono la fine del dissidio tra Stato e Chiesa grazie ai Patti Lateranensi: il pesante intervento è, infatti, giustificato dalla volontà di modificare la visuale del Vaticano anche sotto il profilo simbolico. info tel. 060608 (attivo tutti i giorni, 9,00-21,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it PERUGIA I TESORI DELLA FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI PERUGIA E IL CARAVAGGISMO NELLE COLLEZIONI DI PERUGIA Palazzo Lippi Alessandri fino al 20 novembre

L’esposizione marca i vent’anni di collezionismo della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e ne propone le opere d’arte ottobre

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acquisite. Si tratta di oltre 50 dipinti, rappresentativi non solo delle esperienze artistiche che si affermano in Umbria dal Trecento al Settecento, ma anche di altri aspetti della cultura figurativa italiana dal Rinascimento al Barocco. Nelle stesse date e negli stessi spazi è inoltre allestita la rassegna dedicata al caravaggismo nelle collezioni di Perugia. Una doppia occasione, quindi, per ammirare le opere piú importanti della collezione della Fondazione Cassa di Risparmio. info: tel. 075. 5724563; e-mail: info@fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte.it SAN BENEDETTO PO (MANTOVA) MEMORIAE MATHILDIS Ex Refettorio Monastico fino al 27 novembre

Il mito di Matilde di Canossa, signora del Medioevo, viene riletto attraverso la preziosa e unica collezione di Giuliano Grasselli, precursore e cultore della storia della grancontessa. È la prima volta che la collezione viene esposta nel monastero fondato dai Canossa e caro a Matilde che qui volle essere sepolta. Il percorso espositivo è allestito nel Refettorio Monastico di San Benedetto Po, sito cluniacense europeo per

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eccellenza, e offre al visitatore un viaggio nel tempo attraverso un’ampia serie di immagini iconografiche riportate su stampe, incisioni, libri antichi inediti, quadri e oli. Testimonianze preziose che raffigurano Matilde dai mille volti e che si si sono succedute nei secoli nell’immaginario collettivo storico e letterario, dedicando spazio anche ai grandi personaggi storici con cui si relazionò la signora di Canossa, papa Gregorio VII e i suoi successori oltre all’imperatore tedesco Enrico IV, il grande antagonista dell’incontro epocale di Canossa. info Ufficio IAT-Informazione e Accoglienza Turistica: tel. 0376 623036; iat@oltrepomantovano. eu

CUNEO ARTIERI FANTASTICI. CAPOLAVORI D’ARTEDESIGN Complesso monumentale di San Francesco fino al 27 novembre

Realizzata nell’ambito del progetto «Il cuNeo Gotico», la mostra presenta rari e fantasiosi «artefatti», accomunati dal legame con lo spirito neogotico che pervade il Cuneese. A curare la mostra è il Seminario di Arti Applicate/MIAAO di Torino e vi partecipano la Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte di Milano, nonché, per la prima volta in Italia, i Compagnons du Tour de France, una delle tre organizzazioni del Compagnonnage, dichiarata nel 2010 Patrimonio Culturale immateriale dell’UNESCO e rappresentante di un’illustre tradizione di «artigianato esoterico». La sezione «Quattro fantastici» dedica ampio spazio a

illustrazioni, fumetti e graphic novel, mentre la zona denominata «Sette cappelle per sette sorelle», propone installazioni situate appunto nelle sette cappelle della chiesa di S. Francesco, il cui numero rimanda alle eccellenze delle arti applicate nelle «sette sorelle» – Alba, Bra, Fossano, Mondoví, Saluzzo, Savigliano e Cuneo – le principali città del Cuneese. info www.ilcuneogotico.it ZURIGO L’EUROPA NEL RINASCIMENTO. METAMORFOSI 1400-1600 Museo Nazionale fino al 27 novembre

Il Rinascimento ha segnato alcune delle trasformazioni piú importanti nella storia dell’umanità, quali l’invenzione della stampa a caratteri mobili, la scoperta dell’America, nuove conoscenze mediche o il passaggio al realismo in pittura. Ma nulla di tutto ciò avrebbe potuto essere concepito e realizzato senza un intenso interscambio. Il Rinascimento è stata una cultura del dialogo, dello scambio di idee, delle metamorfosi e del transfer culturale su ampie distanze di spazio e di tempo. Da questi presupposti nasce la nuova

mostra allestita al Museo Nazionale di Zurigo, che invita a scoprire le tracce di questo transfer. Opere d’arte, strumenti e oggetti di uso quotidiano si rivelano fonti storiche di grande valore, attraverso cui è possibile osservare la diffusione di stili, motivi e idee in tutta Europa. Nuove tecniche favorirono l’acquisizione del sapere anche al di fuori delle cerchie ristrette degli studiosi, aumentando cosí il livello di istruzione generale. Ma, allo stesso tempo, quest’epoca contraddistinta da grandi innovazioni e sviluppi avveniristici segnò anche la riscoperta del mondo classico. Idee e teorie antiche furono riprese e rielaborate secondo criteri moderni. In altre parole, restituite a nuova vita. info www.nationalmuseum.ch FIRENZE AD USUM FRATRIS… MINIATURE NEI MANOSCRITTI LAURENZIANI DI SANTA CROCE (SECC. XI–XIII) Biblioteca Medicea Laurenziana fino al 5 gennaio 2017

L’esposizione presenta una selezione tratta dai 734 codici della biblioteca del Convento francescano di Santa Croce, pervenuta in Biblioteca Laurenziana nel 1766 per decreto del granduca Pietro Leopoldo. Vengono

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AGENDA DEL MESE presentati 53 manoscritti fra i piú antichi, miniati fra l’XI e il XIII secolo nell’Italia centrosettentrionale. Il percorso espositivo si articola in sezioni che riflettono la disposizione dei libri nella biblioteca francescana almeno a partire dal Quattrocento. Si apre quindi con una ampia selezione di testi biblici miniati che include la monumentale Bibbia in 17 volumi donata da Enrico de’ Cerchi nel 1285, e prosegue con commenti alle Sacre Scritture dei Padri della Chiesa, ma anche preziosi esemplari di libri di diritto, che riflettono l’attività del tribunale dell’Inquisizione che aveva sede presso il Convento fino dalla metà del Duecento, passionari e vite dei Santi. info tel. 055 2937911; e-mail: b-mela.mostre@beniculturali.it; www.bmlonline.it FERRARA ORLANDO FURIOSO 500 ANNI. COSA VEDEVA ARIOSTO QUANDO CHIUDEVA GLI OCCHI Palazzo dei Diamanti fino all’8 gennaio 2017

Il 22 aprile 1516, in un’officina tipografica ferrarese, terminava la stampa dell’Orlando furioso, opera simbolo del Rinascimento italiano. Per celebrare il quinto centenario dell’evento, Palazzo dei Diamanti ospita una mostra d’arte che fa dialogare fra loro dipinti, sculture, arazzi, libri, manoscritti miniati, strumenti musicali, ceramiche invetriate, armi e rari manufatti. A orchestrare questo incanto visivo è un’idea semplice: restituire l’universo di immagini che popolavano la mente di Ludovico Ariosto mentre componeva il Furioso. Cosa vedeva, dunque, il poeta, chiudendo gli occhi, quando si accingeva a raccontare una battaglia, un duello di cavalieri

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o il compimento di un prodigioso incantesimo? Quali opere d’arte furono le muse del suo immaginario visivo? Un lungo lavoro è stato orientato a individuare i temi salienti del poema e a rintracciare, puntualmente, le fonti iconografiche che ne hanno ispirato la narrazione. I visitatori saranno cosí condotti in un appassionante viaggio nell’universo ariostesco, tra immagini di battaglie e tornei, cavalieri e amori, desideri e magie. A guidarli saranno i capolavori dei piú grandi artisti del periodo, da Paolo Uccello ad Andrea Mantegna, da Leonardo da Vinci a Raffaello, da Michelangelo a Tiziano a Dosso Dossi: creazioni straordinarie che faranno rivivere il fantastico mondo cavalleresco dell’Orlando furioso e dei suoi paladini, offrendo al contempo un suggestivo spaccato dell’Italia delle corti in cui il libro fu concepito. info tel. 0532 244949; e-mail: diamanti@comune.fe.it; www. palazzodiamanti.it MANTOVA ALBRECHT DÜRER: INCISIONI E INFLUSSI Complesso museale di Palazzo Ducale, Castello di San Giorgio fino all’8 gennaio 2017 (dall’8 ottobre)

Restaurate e adeguate agli standard museali internazionali dopo il sisma del 2012, le sale del pianterreno del Castello di San Giorgio riaprono al pubblico ospitando una mostra dedicata ad Albrecht Dürer (1471-1528) e ai suoi rapporti con l’arte italiana, con un’attenzione particolare per le incisioni di Andrea Mantegna. «Quanto freddo avrò dopo tutto questo sole?» si chiese l’artista tedesco nel 1507 tornando in Germania dopo un viaggio in Italia. Era stato a Venezia due volte, nel 1494 e nel 1506 e, sebbene non ci siano testimonianze documentate di ulteriori soggiorni nella nostra penisola, appare evidente, nelle tavole dei Trionfi commissionate dall’imperatore Massimiliano I, che Dürer conosceva la serie di incisioni Il trionfo di Cesare di Mantegna. Cosí come è possibile immaginare che le numerose rappresentazioni dell’anatomia dei cavalli che realizzò dopo il secondo soggiorno italiano si ispirino ai grandi monumenti equestri di Venezia e Padova o agli studi di Leonardo per una scultura equestre a Milano. info tel. 0376 224832; e-mail: pal-mn@beniculturali.it; www.mantovaducale.beniculturali.it LORETO LA MADDALENA, TRA PECCATO E PENITENZA Museo-Antico Tesoro della Santa Casa di Loreto fino all’8 gennaio 2017

La rassegna è uno degli appuntamenti di maggior rilievo fra quelli dedicati al Giubileo della Misericordia, soprattutto dopo l’annuncio di papa Francesco dell’istituzione, proprio nell’anno giubilare, della festa della Maddalena. Prostrata ai piedi del Signore

nell’atto di ungergli i piedi con essenze preziose, oppure dolente e piangente abbracciata al legno della croce, infine lieta di recare l’annuncio della Resurrezione agli apostoli, la figura della Maddalena ha destato l’interesse dei maggiori artisti dal Medioevo al Neoclassicismo e questa mostra intende presentarne gli episodi piú significativi. info tel. 071 9747198 o 06 68193064; e-mail: museoanticotesoro@gmail.com; e-mail: info@artifexarte.it: www.artifexarte.it NEW YORK GERUSALEMME 1000-1400: UN PARADISO PER OGNI POPOLO The Metropolitan Museum of Art fino all’8 gennaio 2017

Intorno al fatidico anno Mille, Gerusalemme esercitò un richiamo pressoché irresistibile e si trasformò in un luogo simbolico per genti che professavano credi diversi, dall’Islanda all’India. Questo straordinario fenomeno diede vita a uno dei momenti piú luminosi nella storia della Città Santa ed è stato scelto come filo conduttore della rassegna allestita al Metropolitan. Lo scopo è appunto quello di documentare come Gerusalemme, sacra alle tre grandi religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo e Islam), sia diventata uno dei piú importanti poli artistici dell’epoca. In quei secoli, infatti, la città accolse una quantità di culture, religioni e lingue come mai se n’erano viste prima e, nonostante i molti momenti difficili vissuti a causa di guerre internazionali e lotte intestine, questo vero e proprio melting pot ispirò realizzazioni di grande bellezza e fascino. info http://metmuseum.org ottobre

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LOVANIO (BELGIO) ALLA RICERCA DI UTOPIA M-Museum fino al 17 gennaio 2017 (dal 20 ottobre)

Utopia, opera emblematica di Tommaso Moro (1478-1535), il piú influente testo mai edito nei Paesi Bassi, venne stampata a Lovanio nel 1516 dall’editore Dirk Martens. La città celebra ora la ricorrenza, riunendo nell’M–Museum un’ottantina di opere d’arte che mettono in luce l’influenza del libro all’epoca e la sua attualità. A Lovanio sono giunti capolavori di maestri fiamminghi, come Quentin Metsys e Jan Gossaert, e, internazionali, quali Albrecht Dürer e Hans Holbein, tra cui, per la prima volta in mostra nelle Fiandre, il celebre ritratto di Erasmo da Rotterdam di Quentin Metsys, eccezionalmente concesso in prestito dalla Regina Elisabetta II. La mostra è l’evento di punta di un piú vasto

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programma culturale cittadino «The Future is More» che si propone, proprio come fece allora l’opera di Moro, di allargare gli orizzonti culturali dei visitatori raccontando il sogno di un mondo ideale e temi piú che mai attuali come la diversità, la dignità umana, la tolleranza e l’uguaglianza. info www.utopialeuven.be RANCATE (MENDRISIO, SVIZZERA) LEGNI PREZIOSI. SCULTURE, BUSTI, RELIQUIARI E TABERNACOLI DAL MEDIOEVO AL SETTECENTO Pinacoteca cantonale Giovanni Züst fino al 22 gennaio 2017 (dal 16 ottobre)

Forte dell’allestimento firmato da Mario Botta, l’esposizione riunisce una cinquantina di opere (alcune delle quali inedite) di qualità altissima e di suggestione altrettanto notevole. Provenienti, con poche eccezioni, da musei, chiese, monasteri del territorio

ticinese, questi autentici capolavori giungono in mostra dopo essere stati oggetto di una revisione e talvolta di restauri eseguiti grazie all’importante collaborazione dell’Ufficio dei beni culturali del Cantone Ticino. Sono Madonne, Cristi, Compianti, busti, polittici scolpiti e persino un Presepe, naturalmente ligneo, testimonianze assolute di una tradizione artistica che raggiunse spesso vertici europei. In particolare, nella prima sezione si concentrano rari esempi di scultura lignea medievale, dal XII secolo al tardo-gotico. info tel. +41 (0)91 8164791; www.ti.ch/zuest CREMONA JANELLO TORRIANI, GENIO DEL RINASCIMENTO Museo del Violino fino al 29 gennaio 2017

Il nome di Janello Torriani è quasi sconosciuto, anche se in vita era spesso affiancato a quello di Archimede. Seppe affascinare i due piú potenti sovrani del suo tempo, Carlo V e suo figlio Filippo II, che lo vollero al loro fianco, considerandolo un genio come per noi oggi è Leonardo da Vinci. A differenza del quale, Torriani non sapeva dipingere, era uomo rozzo e tutt’altro che nobile, eppure, con le sue grosse mani da fabbro, creò meraviglie che tutta l’Europa ambiva: meccanismi sofisticatissimi, gestiti da combinazioni meccaniche elaborate che a noi oggi sono garantite dalla tecnologia piú avanzata. Dalla sua mente e dalle sue mani uscivano orologi perfetti, nelle loro decine di funzioni, e bellissimi. Meravigliosi automi che suscitavano ammirazione e stupore. Raggiunse una fama tale da partecipare alla riforma

gregoriana del calendario: nessuno come lui, infatti, conosceva la perfezione del tempo. info www.mostratorriani.it BASSANO DEL GRAPPA IL MAGNIFICO GUERRIERO. BASSANO A BASSANO Civici Musei fino al 31 gennaio 2017

Il Magnifico Guerriero di Jacopo Bassano si offre all’ammirazione del pubblico grazie al comodato gratuito accordato dal suo possessore ai Civici Musei bassanesi. Il dipinto ritrae un affascinante nobiluomo dalla fulva, curatissima barba. Non un giovane ma un uomo maturo, certo aduso al comando, ma, soprattutto, a una vita raffinata lontano dai campi di battaglia. Indossa una preziosa corazza alla moda dell’epoca, che lo costringe, ma che non riesce a ingabbiarne la grazia e la flessibilità. Le lunghe dita, curate e perfette, non sembrano le piú adatte a menar fendenti, cosí come il suo spadino di ferro e oro sembra piú da parata che da battaglia. Secondo Vittoria Romani dell’Università di Padova, studiosa alla quale va il merito di avere ricondotto a Jacopo Bassano questo autentico capolavoro già attributo a Veronese e a Pordenone, il ritratto è databile agli anni immediatamente seguenti il 1550, ovvero al momento piú altamente manierista del maestro. info tel. 0424 519.901-904; e-mail: info@museibassano.it; www.museibassano.it PARIGI L’ETÀ DEI MEROVINGI Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 13 febbraio 2017 (dal 26 ottobre)

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AGENDA DEL MESE Forte di oltre centocinquanta opere – fra sculture, manoscritti miniati, oreficerie, monete, tessuti e documenti d’archivio – la mostra ripercorre gli eventi che maggiormente segnarono i

trecento anni che intercorrono tra la battaglia dei Campi Catalaunici (451) e la fine del regno dei sovrani merovingi, ingloriosamente ribattezzati «fannulloni» (751). Fu un’epoca in cui videro la luce numerosi reami, fra cui quelli franchi, che in parte si rifacevano all’impero romano e che però subirono le influenze determinanti delle culture dell’area germanica. Parallelamente, la diffusione del cristianesimo fece emergere nuove credenze, come il culto delle reliquie, pur senza cancellare del tutto le tradizioni pagane, che furono in parte «cristianizzate». Andò cosí definendosi un universo nuovo e originale, di cui la produzione artistica merovingia è specchio eloquente. info www.musee-moyenage.fr SAINT-DIZIER (FRANCIA) AUSTRASIA, IL REGNO MEROVINGIO DIMENTICATO Espace Camille Claudel fino al 26 marzo 2017

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La dinastia merovingia visse il suo apogeo fra il VI e l’VIII secolo, avendo come teatro delle proprie gesta l’Austrasia, regione dell’antica Francia ora protagonista della mostra di Saint-Dizier. Il progetto espositivo porta all’attenzione del pubblico il caso di un’identità che prese forma da una significativa diversità culturale e, nel segno di questa scelta, invita a scoprire, soprattutto grazie ai reperti archeologici, la singolarità e la ricchezza che caratterizzarono la vita quotidiana e l’organizzazione del regno merovingio. Fra gli altri, sono stati riuniti per

PARIGI CHE C’È DI NUOVO NEL MEDIOEVO? Cité des sciences et de l’industrie fino al 6 agosto 2017 (dall’11 ottobre)

In Francia, la pratica dell’archeologia preventiva è gestita dall’INRAP (Institut national de recherches archéologiques preventives), che, non a caso, è fra gli ideatori di questo nuovo progetto espositivo e grazie alle cui ricerche è stato possibile riunire i materiali presentati. Si tratta di un repertorio in molti casi inedito, che permette di inserire nel racconto dei mille anni del

definirli «bui». La descrizione di questa età di Mezzo (almeno in parte) inaspettata si sviluppa in due grandi sezioni: nella prima, vengono messi a punto i riferimenti cronologici essenziali, corredati da alcuni manufatti particolarmente rappresentativi del periodo; nella seconda, si passa invece ai materiali scaturiti dagli scavi condotti dall’INRAP. info www.cite-sciences.fr

Appuntamenti

BERGAMO BERGAMOSCIENZA XIV EDIZIONE 1-16 ottobre

Torna l’ormai tradizionale appuntamento con BergamoScienza, l’affermato festival di divulgazione scientifica ideato e organizzato dall’associazione omonima. La rassegna animerà la città con 16 giornate di eventi aperti gratuitamente al pubblico: laboratori, conferenze, mostre, spettacoli e incontri con scienziati di fama mondiale, tra cui il Premio Nobel Dan Shechtman. info www.bergamoscienza.it l’occasione i materiali di corredo della tomba del piccolo principe di Colonia, l’anello del vescovo Arnolfo di Metz e i gioielli della signora di Grez-Doiceau. info www.austrasie-expo.fr

Medioevo molte novità importanti, accomunate da un dato ormai inconfutabile: quei dieci secoli furono ricchi di storia, ma anche di innovazioni e invenzioni e nessuno piú, ormai, si lascerebbe andare a

ROMA VISITE GUIDATE ALL’AULA GOTICA DEL MONASTERO DEI SS. QUATTRO CORONATI 18-19 ottobre

È finalmente visibile a studiosi, turisti e a tutti gli appassionati ottobre

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E-LEARNING • Archeologia e valorizzazione, Didattica nei musei e nel patrimonio culturale Università di Ferrara

info http://sea.unife.it; e-mail: tutoratosea@unife.it; tel. 0532

2935.26-28

D

all’Università di Ferrara, due nuove proposte didattiche che saranno attivate nel prossimo anno accademico, 2016/2017. La prima è il Corso Intensivo «Archeologia e valorizzazione culturale», che – in modalità didattica on line – permetterà di acquisire conoscenze approfondite sulle tecniche di scavo e sulle piú moderne tecnologie applicate all’archeologia e fornire una solida preparazione nella valorizzazione e promozione dei beni archeologici. Il corso si avvarrà di docenti qualificati, sia provenienti dall’ambito accademico, sia di professionisti di comprovata esperienza. Il

Master di I livello in «Didattica, educazione e mediazione nei musei e nel patrimonio culturale», attivato anch’esso in modalità didattica on line, intende formare professionisti nell’ambito della didattica, della valorizzazione e promozione dei siti archeologici, dei musei e dei beni culturali. (1455-1515), insigne condottiero del Rinascimento, viene ricordato con un ciclo di conferenze sui momenti decisivi della sua vita. Questi i prossimi appuntamenti: Rocca di Alviano, 29 ottobre, ore 16,30: La Repubblica di Venezia nelle guerre d’Italia

d’arte uno straordinario ciclo di affreschi della metà del Duecento, fondamentale per la storia della pittura italiana delle origini. Il complesso dei Ss. Quattro Coronati è uno dei monumenti piú ricchi di storia, arte e spiritualità di Roma e ora è possibile ammirarne l’Aula Gotica, magnificamente affrescata. L’Aula era l’ambiente piú prestigioso del palazzo cardinalizio eretto da Stefano Conti: vi si svolgevano banchetti, ricevimenti e vi si amministrava la giustizia.

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Mirabile esempio di architettura in stile gotico, eccezionale per la città di Roma, il salone colpisce per lo straordinario ciclo pittorico che adorna le sue pareti, attribuito al Terzo Maestro di Anagni e a Giunta Pisano. Rimaste per secoli nascoste sotto strati di tinte successive, le meravigliose decorazioni sono tornate a risplendere grazie a un lungo restauro. L’Aula viene aperta due volte al mese in date prefissate e le visite si possono prenotare

telefonicamente o per posta elettronica. info tel: 335 495248; e-mail: archeocontesti@gmail.com; www. aulagoticasantiquattrocoronati.it ALVIANO (TERNI) «IMPAZIENTE DELLA QUIETE». BARTOLOMEO D’ALVIANO, LE FORTUNE DI UN CONDOTTIERO NELL’ITALIA DEL RINASCIMENTO (1455-1515) Rocca di Alviano e altre sedi fino al 12 novembre

A cinquecento anni dalla morte, Bartolomeo d’Alviano

(Walter Panciera, Università degli Studi di Padova); Bartolomeo d’Alviano al servizio di Venezia (Lucio Pezzolo, Università Ca’ Foscari di Venezia); Rocca di Alviano, 12 novembre, ore 17,30: Bartolomeo d’Alviano e gli ambienti culturali del primo Cinquecento (Elena Valeri, «Sapienza» Università di Roma). info tel 0744 904421; e-mail: bartolomeo500anni@gmail.com; www.comune.alviano.tr.it

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protagonisti pasquale i

Il papa sono io! di Mimmo Frassineti

Eletto pontefice per acclamazione nell’817, Pasquale I viene ricordato per il recupero e l’identificazione di migliaia di reliquie dei primi martiri cristiani, ma anche, e soprattutto, per la realizzazione di magnifici mosaici, caratterizzati da un particolare curioso: la presenza costante di un ritratto del committente stesso, riconoscibile per l’aureola quadrata

T T

ra i papi che hanno arricchito Roma di monumenti insigni ce n’è uno che non appartiene ai tempi di Michelangelo o Bernini, non è famoso come Giulio II, Paolo III, Urbano VIII o Alessandro VII, ma visse in pieno Medioevo e diede alle arti un impulso formidabile, mentre a Oriente si riaccendeva la fiamma dell’iconoclastia. È Pasquale I, novantottesimo titolare della Cattedra di Pietro, del quale conosciamo anche l’aspetto, poiché di sé ha voluto lasciare tre ritratti, a figura intera, fra martiri e santi, nelle tre basiliche erette durante il suo pontificato. Il 24 gennaio 817 moriva il suo predecessore, Stefano IV, dopo un regno di pochi mesi, durante il quale si era recato a Reims a incoronare il re dei Franchi Ludovico il Pio (quarto figlio di Carlo Magno) imponendogli sul capo una presunta corona di Costantino. Lusingò in questo modo l’imperatore, ricordandogli anche i suoi Roma, basilica di S. Prassede. Una veduta dell’area absidale in cui si trova il mosaico con il Cristo dell’Ultimo Avvento attorniato dagli apostoli Pietro e Paolo, che gli presentano le sante Prassede e Pudenziana. Sono poi visibili papa Pasquale I (contrassegnato dall’aureola quadrata) e un giovane (forse il fratello, Novato).

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protagonisti pasquale i Qui sotto Roma, basilica di S.Prassede. Particolare della decorazione a mosaico che riveste l’intradosso dell’arco trionfale.

I due festoni vegetali si incontrano sotto la chiave di volta nell’elegante monogramma di Pasquale I, che si scioglie in «PASCAL».

obblighi verso la Chiesa, sanciti dalla Donazione (il documento, poi riconosciuto come un falso realizzato nell’VIII secolo, secondo il quale l’imperatore cristiano avrebbe donato nel 314 a papa Silvestro I la giurisdizione civile su Roma, sull’Italia e sull’intero Occidente; vedi «Medioevo» n. 188, settembre 2012).

Una successione fulminea

Ca vo ur

Il 25 gennaio – non erano trascorse nemmeno ventiquattro ore – il clero romano scelse per acclamazione il nuovo papa, un uomo rispettato per virtú morali, dottrina e conoscenza della liturgia. Mai s’era vista una simile urgenza, probabilmente motivata dal rischio di ingerenze imperiali, che potevano trovare una sponda in settori della nobiltà romana. Certo è che il primo atto del nuovo pontefice fu quello di inviare al re dei Franchi il legato Teodoro per spiegargli come la fulminea elezione,

A destra Roma, basilica di S. Prassede. Particolare del mosaico del catino absidale, in cui sono ritratti santa Prassede e Pasquale I. Il papa ha un’aureola quadrata, a indicare che è ancora vivente, e presenta il modello della basilica.

Largo di Torre Argentina RIONE VII REGOLA

Vi a

RIONE IX PIGNA

Piazza Venezia

S. PRASSEDE

Campidoglio Foro Romano Colosseo

S. CECILIA IN TRASTEVERE

RIONE XIX CELIO

S. MARIA IN DOMNICA

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senza averlo consultato, intendesse evitare disordini tra opposti schieramenti. Ludovico mostrò di credere alle scuse e confermò, con il Pactum Ludovicianum, i privilegi concessi alla Chiesa dai suoi predecessori. Normalizzate le relazioni con l’impero carolingio, Pasquale si dedicò alla missione che piú lo appassionava: il rafforzamento e la difesa della fede. In mente aveva un progetto: organizzò – cosa mai prima avvenuta – una campagna sistematica per attribuire un nome alle reliquie dei martiri, e quindi trasferirle dalle catacombe suburbane. I corpi traslati furono duemilatrecento, come ricorda una lapide nella basilica di S. Prassede. Intanto avviava la ristrutturazione o la costruzione ex novo di luoghi di culto e la loro decorazione con grandiosi cicli musivi, per alimentare la fede e insieme arginare l’onda iconoclasta che veniva da Costantinopoli.

La condanna dell’iconoclastia

Se i rapporti con Ludovico e, in seguito, con il figlio Lotario, non furono sempre idilliaci, quelli con l’altro imperatore, il bizantino Leone V, volsero subito al peggio. Il generale armeno Leone, salito sul trono di Costantinopoli l’11 luglio 813, aveva ripristinato l’iconoclastia, che era stata abolita nel 787 dall’imperatrice Irene, sulla scorta del II Concilio di Nicea – convocato da papa Adriano I su richiesta della basilissa –, in occasione del quale era prevalsa la tesi, peraltro non nuova, di un ruolo didattico delle immagini, per il quale la materialità dell’icona è tramite all’idea che essa contiene. Le icone annunciano verità teologiche: raffigurare Cristo equivale a proclamare il dogma dell’Incarnazione. L’iconoclastia fu condannata e gli iconoclasti scomunicati. I padri riuniti vollero anche ribadire il pieno controllo da parte della Chiesa: «La raffigurazione d’immagini religiose non è lasciata all’iniziativa degli artisti, ma va eseguita secondo principi dettati dalla Chiesa cattolica e dalla tradizione della nostra religione». Un decreto che fu rigorosamente applicato lungo tutti i secoli del Medioevo. Leone convocò un sinodo nell’815 a Costantinopoli che sconfessò il Concilio. Inviò quindi un’ambasceria al papa appena eletto sperando di portarlo sulle sue posizioni. Pasquale rispose in greco, con una lettera che è stata parzialmente tramandata, confutando sul piano teologico gli argomenti dell’imperatore bizantino e condannando l’iconoclastia. Quindi si adoperò ad accogliere i monaci greci perseguitati che si rifugiavano a Roma. Espresse solidarietà a Teodoro Studita, l’abate bizantino piú volte imprigionato perché si era opposto all’editto iconoclasta di Leone. Ma soprattutto, incoraggiando il fervore religioso e realizzando grandi opere architettoniche e decorative, Pasquale trovò il modo di testimoniare la sua opposizione all’eresia iconoclasta. Nell’817 costruí l’oratorio dei Ss. Processo e Martiniano in S. Pietro, nel quale trasferí le reliquie dei due

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protagonisti pasquale i A sinistra Roma, basilica di S. Prassede, oratorio di S. Zenone. Particolare della decorazione a mosaico della nicchia della parete sinistra, raffigurante Maria Vergine tra le sante Prassede e Pudenziana, e Teodora, madre di Pasquale I. In basso particolare della finestra sopra all’ingresso della cappella, incorniciata da medaglioni a mosaico con il busto del Cristo, degli apostoli e dei martiri. A destra uno scorcio dell’interno della cappella decorato a mosaico. Alle pareti sono raffigurate varie figure, tra cui, sulla destra, santa Agnese, santa Pudenziana e santa Prassede.

martiri da un cimitero sulla via Aurelia. La cappella e i mosaici che la ornavano sono andati perduti con la distruzione dell’antica basilica. Tra la fine di quell’anno e l’agosto dell’818 riedificò la basilica di S. Prassede all’Esquilino, che versava in condizioni fatiscenti. Il titulus Praxedis, secondo la tradizione, ebbe origine nella casa in cui santa Prassede nascondeva i cristiani perseguitati. L’abitazione era quella del padre, il senatore Pudente, tra i primi a essere convertito dall’apostolo Paolo con le figlie Prassede e Pudenziana. L’intera famiglia subí il martirio e i corpi furono deposti nelle catacombe di Priscilla, sulla via Salaria. Nella nuova chiesa il papa fece traslare le reliquie e realizzare un grandioso ciclo musivo, ispirato all’A-

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pocalisse. Sull’arco trionfale, la Gerusalemme celeste è cinta da mura coperte di gemme. Gesú veste una tunica rossa; gli sono accanto Maria, Giovanni Battista, santa Prassede, i dodici apostoli, Mosé e il profeta Elia. Una folla di martiri e santi è guidata da angeli verso le porte della cittadella: si riconoscono gli apostoli Pietro e Paolo, i vescovi con casula (antico nome della pianeta sacerdotale, n.d.r.) e pallio (una fascia di lana bianca, usata come stola, n.d.r.), i martiri recanti la corona, gli ufficiali con la clamide. Figure femminili indossano vesti sontuose. Altri eletti agitano rami di palma. Dietro, nel catino absidale, il Redentore, con un’aureola dorata dove campeggia una croce azzurra, leva la destra per mostrare le ferite dei chiodi. La mano di Dio ottobre

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padre, sporgendosi fra le nuvole, gli impone la corona della gloria. San Pietro e san Paolo presentano a Cristo santa Prassede e santa Pudenziana, poggiando loro con familiarità la mano sulla spalla. E papa Pasquale, contraddistinto dal nimbo quadrato che indica i viventi, offre a Gesú un modello della chiesa. Indossa anche lui la casula e il pallio, è sbarbato, piuttosto giovane (non conosciamo la data di nascita, che si colloca nella seconda metà dell’VIII secolo) ha i capelli neri, porta uno zucchetto che copre l’incipiente calvizie. Ai lati due palme richiamano il paradiso: su quella a sinistra è raffigurata la fenice, simbolo della resurrezione. Nel registro inferiore Cristo, agnello pasquale, è rappresentato su una piccola altura da cui sgorgano i

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quattro fiumi del paradiso. Dodici agnelli, gli apostoli, guardano verso di lui. A sinistra sorge Betlemme, a destra Gerusalemme. Sette candelabri rappresentano le Chiese dell’Asia. In un’iscrizione il pontefice si augura che l’offerta a Cristo del nuovo edificio e lo zelo con cui ha raccolto sotto le sue mura i corpi dei santi gli abbia meritato di «limen adire polorum», «accedere alla soglia dei cieli». In alto, fra tralci fioriti, spicca l’elegante monogramma del papa. Le modifiche apportate al presbiterio in epoche successive non facilitano il godimento di un’opera tanto complessa, soprattutto a causa dell’ingombrante ciborio, che si frappone tra lo spettatore e il catino absidale, fatto erigere nel 1730 dal cardinale Ludovico Pico della

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Roma, S. Maria in Domnica. Il mosaico del catino absidale raffigurante Maria in trono, con il Bambino in braccio e tra due schiere di angeli, mentre papa Pasquale, inginocchiato, è in procinto di baciarle il piede, calzato in una pantofola arancione.

Mirandola, che non dimostrò grande acume, a dispetto del cognome illustre. Non esistono piú le finestre che in origine inondavano di luce i mosaici, ai quali la maggioranza dei visitatori non presta grande attenzione. Anche perché tutti sono calamitati da un’autentica meraviglia che si trova in una delle cappelle laterali. Ancora di mosaici si tratta, ancora opera di Pasquale.

L’oratorio delle meraviglie

Nel settembre dell’818 il papa decise di creare nella basilica appena ultimata un piccolo mausoleo, destinato a sua madre Teodora, forse anche su sollecitazione della donna, all’epoca ancora in vita. L’oratorio di S. Zenone (dal nome del martire che pure vi è seppellito, ma del quale non si hanno notizie) si apre a metà della navata destra in uno spazio ridotto, quasi intimo: un prezioso scrigno, un hortus paradisi, come subito fu chiamato, capace di affascinare il piú raffinato degli intellettuali e di lasciare a bocca aperta il piú rozzo degli ignoranti. L’ingresso è ornato da un doppio giro di medaglioni con Cristo e gli Apostoli, la Madonna col Bambino, e vari santi fra cui Prassede e Pudenziana. L’interno, a croce greca, è coperto da una volta a crociera, nella quale il Salvatore è rappresentato entro un clipeo sorretto da quattro angeli di estrema avvenenza, sia pure temperata di spiritualità. Nelle lunette e sulle pareti, immersi nell’incandescenza degli ori, i santi Giovanni Evangelista, Andrea e Giacomo, la Madonna con Bambino in trono, san Giovanni Battista, santa Agnese, le sante Prassede e Pudenziana. In una lunetta, accanto alla Vergine e due sante, Teodora episcopa, viva, con il nimbo quadrato, la madre a cui il figlio papa dona lo speciale privilegio. Nello stesso periodo Pasquale ricostruí completamente la chiesa di S. Maria in Domnica, al Celio, ornando anch’essa di superbi mosaici. Sopra l’arcata dell’abside, Cristo è raffigurato in un medaglione tra due angeli e i dodici apostoli. Nel catino absidale, sullo sfondo di un paradiso fiorito e verdeggiante, Maria siede in trono con il Bambino in braccio, tra due schiere di angeli, mentre Pasquale, inginocchiato, è in procinto di baciarle il piede, calzato in una pantofola arancione. In questo secondo ritratto, identici sono l’abbigliamento e i tratti del volto, a produrre l’impressione che si tratti dell’unica persona in carne e ossa accolta in una comunità puramente spirituale. Come in S. Prassede, spicca al sommo dell’abside il monogramma del pontefice, mentre alla base una scritta in lettere d’oro ne rimarca la devozione. Dal settembre dell’820 all’agosto dell’821, Pasquale ricostruí la basilica di S. Cecilia, fondata già verso la

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protagonisti pasquale i fine del IV secolo sul luogo di una casa romana, che la tradizione identifica con quella di Valeriano, marito della donna, patrizia romana ai tempi di Marco Aurelio. L’uomo, che Cecilia aveva convertito, subí il martirio per non aver voluto sacrificare agli dèi. La moglie, mentre i suoi persecutori erano intenti a strangolarla, cantava a piena voce inni alla fede, per cui divenne la patrona dei musicisti. Poiché sopravvisse, fu condannata alla decapitazione: il boia la colpí tre volte senza riuscire a darle la morte, che la colse piú tardi, non prima di avere operato molte altre conversioni. La santa apparve in sogno a Pasquale, indicandogli il suo luogo di sepoltura nelle catacombe di S. Callisto. Secondo un’altra versione, il pontefice sarebbe caduto in trance mentre celebrava la messa e avrebbe rivelato il punto esatto della sepoltura di Cecilia e Valeriano, i cui corpi furono rinvenuti con abiti ricoperti d’oro. Pasquale I fu dichiarato santo proprio grazie alla miracolosa inventio (festa il 14 maggio).

Come se il tempo non fosse passato...

Durante restauri effettuati nel 1599 da Clemente VIII furono aperti il sepolcro in marmo e la cassa di legno di cipresso, al cui interno il corpo della santa apparve quasi integro, con i segni delle ferite sul collo, avvolto in un abito bianco. All’evento assisteva Stefano Maderno, che eseguí uno schizzo da cui trasse in seguito una toccante scultura, divenuta oggetto di devozione fra i piú amati. Collocata sotto l’altar maggiore, la statua è sovrastata da un grandioso mosaico, dove troviamo il terzo ritratto del pontefice, simile ai due precedenti, in atto di reggere il modello della chiesa. Al centro, il Redentore benedicente, attorniato da san Paolo, san Pietro, sant’Agata, i santi

A destra Roma, basilica di S. Cecilia. Una veduta del mosaico del catino absidale, di soggetto analogo a quello osservabile in S. Prassede. IX sec. In basso Roma, basilica di S. Cecilia. La statua raffigurante la santa, commissionata a Stefano Maderno nel 1599 dal cardinal Sfondrati. Secondo il racconto dell’artista, la scultura ritrae il corpo della martire cosí come fu trovato, miracolosamente intatto, in occasione della ricognizione del sepolcro.


Valeriano e Cecilia e papa Pasquale. I piedi dei personaggi poggiano su un prato fiorito. Le palme sono cariche di datteri tanto che questi cadono a terra. Una rossa fenice è posata su quella a sinistra. Piú in basso il gregge simbolico guidato dal mistico Agnello si distende fra le due città sante. In questo, come nei mosaici di S. Maria in Domnica e di S. Prassede, è certo che l’impianto dottrinale e decorativo sia stato approvato, se non addirittura dettato personalmente, dal papa. Vediamo Cristo che impartisce la benedizione alla greca, unendo pollice e anulare, al mo-

do dei sacerdoti bizantini, forse affinché il pensiero di chi guarda vada alle vicende della Chiesa orientale. Con un gesto particolarmente affettuoso Cecilia cinge con un braccio le spalle del papa, quasi traendolo a sé. In meno di quattro anni Pasquale rinnovò a Roma l’arte e l’architettura. La fine del suo pontificato fu segnata da contrasti con l’impero carolingio. Nell’823 scoppiarono disordini fomentati da una parte della nobiltà, filofranca e ostile al papato. Guidata dall’ex nunzio apostolico Teodoro e da suo genero Leone, la rivolta fu repressa dalle truppe papaline e i due capi vennero accecati e decapitati. Ludovico sospettò che a ordinare la crudele condanna fosse stato lo stesso Pasquale, e inviò a Roma due commissari per accertare come fossero andate le cose. Ma il papa rifiutò di essere inquisito dai giudici imperiali, limitandosi a giurare solennemente di essere estraneo all’esecuzione dei rivoltosi, pur ritenendoli colpevoli. Morí pochi mesi dopo, l’11 febbraio 824.

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dante guarneriano

codice delle bellezze

Il

di Angelo Floramo

Un manoscritto della Biblioteca Guarneriana di San Daniele del Friuli offre una testimonianza preziosa della fortuna di cui le opere di Dante godettero già presso i contemporanei. E ora, la riproduzione in facsimile dell’opera permette di riscoprirne e apprezzarne anche le splendide miniature che corredano i testi, eseguite da Bartolomeo di Fruosino

I

l codice Fontaniniano 200 (fine del XIV-inizi del XV secolo), conservato nella Biblioteca Guarneriana Antica di San Daniele del Friuli (Udine), appartenne a monsignor Giusto Fontanini (16661736), bibliofilo e poligrafo, storico e letterato, che visse a Roma dove rivestí importanti cariche ecclesiastiche e culturali. Appassionato cultore di Dante, del quale scrisse ampiamente nel secondo volume della sua opera piú famosa, Della Eloquenza Italiana (stampata a Roma nel 1736), è possibile che abbia acquistato tale pregevolissimo manoscritto direttamente in Toscana: infatti, dal 19 aprile all’ottobre del 1717, si trovava a Firenze, Siena e in altre città, durante un viaggio di rientro in Friuli da Roma. Si tratta, in verità, di un codice-laboratorio, complicato, organizzato su diversi piani: quello testuale, quello – estrema-

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L’incontro di Dante e Virgilio con Cerbero, il terribile cane a tre teste, episodio contenuto nel canto VI dell’Inferno.


mente ampio – delle glosse, e quello iconografico, in una intersezione che permette di contemplare non solo la bellezza dell’opera in sé, ma aiuta anche a comprendere gli strumenti e i modi in cui Dante, a pochissimi anni dalla sua morte, veniva studiato.

Inchiostro rosso

Salvo diversa indicazione, tutte le immagini sono tratte dal codice Fontaniniano 200, conservato presso la Biblioteca Guarneriana di San Daniele del Friuli, miniato da Bartolomeo di Fruosino e allievi. Fine del XIV-inizi del XV sec.

Ogni canto dell’Inferno è preceduto da una rubrica generalmente scritta in volgare e piú raramente in latino, vergata in inchiostro rosso, attraverso la quale si riassume l’argomento trattato. Dal canto IV, la parte destra delle pergamene presenta anche la traduzione delle terzine dantesche in esametri latini, 506 versi in tutto: un pregio straordinario del codice sandanielese, che sembra essere uno dei pochissimi esemplari al mondo ad averne conservata la tradizione. La mano del copista si può identificare con quella di Matteo Ronto, che, fra il 1427 e il 1430, fu un celebre traduttore di Dante. Ser Paolo di Jacopo di Guido Puccini, «notaro» fiorentino, è invece il copista che ha trascritto il testo della Commedia, mentre l’ampio commento è attribuibile al collega Pietro Bonaccorsi: entrambi erano grandi appassionati dell’Alighieri.


dante guarneriano

Un tesoro ancora in parte inesplorato La Biblioteca Guarneriana nasce nel 1466 come una fra le prime biblioteche pubbliche d’Europa, grazie al lascito testamentario dell’umanista friulano Guarnerio d’Artegna (1410 circa-1466), che donò la sua impareggiabile collezione alla Magnifica Comunità di San Daniele. Tale patrimonio, che annovera fra i suoi tesori una Bibbia miniata bizantina – nata in ambiente gerosolimitano e anteriore al 1187 –, conserva una documentazione codicologica, libraria e documentaria cosí copiosa che molti suoi repertori risultano ancora tutti da esplorare. A tale primo nucleo si aggiunge nel 1743 il fondo Fontaniniano, dono del sandanielese monsignor Giusto Fontanini, che consta tanto di codici quanto di libri a stampa; questi ultimi, cinquecentine, secentine e settecentine, sono custoditi nella splendida cornice della sala lignea che porta il nome del suo donatore. La maggior parte dei manoscritti fontaniniani è rappresentata da miscellanee in parte ricavate dall’assemblaggio di documenti di varie epoche, in prevalenza nel periodo compreso fra il X e il XVIII secolo.

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Alcune carte risultano particolarmente preziose, in quanto autografe, in molti casi scritte di pugno dagli stessi autori dei testi, collazionati con acribia dal loro proprietario, altre invece sono copie vergate dallo stesso Fontanini, costellate di interpolazioni, glosse e divagazioni erudite di grandissimo interesse per una ricostruzione dei metodi di lavoro, compilativo, comparativo e di ricerca, di un intellettuale che visse e operò fra la fine del Seicento e i primi trent’anni del secolo successivo. Un intellettuale il cui profilo, di straordinario livello, fu sempre caratterizzato da una inesausta sete di sapere e di conoscenza, e dunque stimolato da appetiti assai eterogenei, per quanto fra loro interpolabili, in un gioco di intersezioni multidisciplinari ancora da indagare. I testi riguardano perlopiú i suoi interessi antiquari, ma spesso toccano argomenti di tipo letterario, glottologico, linguistico, archeologico, geografico, medico, scientifico o naturalistico, assecondando gli interessi e le curiosità che accendevano la mente fervida e febbrile del porporato sandanielese. ottobre

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Nella pagina accanto San Daniele del Friuli (Udine). La sala della Biblioteca Guarneriana nella quale è conservato il fondo donato da monsignor Giusto Fontanini (1666-1736), il cui ritratto è appeso sopra l’ingresso. In basso Angelo Floramo mostra una tavola astronomica del Tresor di Brunetto Latini, maestro di Dante, conservato nel manoscritto Fontaniniano 238, del 1364.

Le splendide miniature, opere d’arte senza pari, vengono invece attribuite alla maestria di Bartolomeo di Fruosino e alla sua scuola. Nato a Firenze nel 1366, dal 1386 Bartolomeo risulta essere registrato alla corporazione dei medici e speziali e nel 1394 alla Compagnia dei pittori. Discepolo di Agnolo Gaddi, frequentò la scuola camaldolese di S. Maria degli Angeli, attiva a Firenze verso la fine del Trecento, nei cui registri il suo nome ricorre spesso, fino al 1438, anche se non ne vengono specificati sempre i lavori. I caratteri dello stile di mastro Bartolomeo sono ben riconoscibili: i tratti marcati del volto, l’angolosità dei panneggi, l’espressione sdegnata dei volti, rimarcata ancor piú da espressioni di meraviglia che con-

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La nuova edizione in facsimile

Quando il Medioevo è «fresco di stampa» Il codice Fontaniniano 200 è tornato a «nuova vita» grazie alla realizzazione di una copia in facsimile che porta i tipi di Roberto Vattori, editore friulano raffinato e non nuovo a imprese di questo tipo. L’iniziativa ha coronato un progetto interdisciplinare di elevato livello scientifico, volto a valorizzare uno degli esemplari piú antichi dell’Inferno dantesco, arricchito da splendide miniature nonché da ben due commenti: il primo, in latino, di Graziolo de’ Bambaglioli, autore considerato fra i piú importanti glossatori del poeta; il secondo, in volgare, composto fra il 1324 e il 1334 e che sta riservando molte sorprese per quanto concerne la sua attribuzione, configurandosi come un inedito assoluto. Il codice è stato riproposto sia nella fedele riproduzione fotografica integrale di ogni sua carta, rispettandone dimensioni e formato, sia nell’esame delle sue parti operato secondo un principio di analisi stratigrafica e tesa a evidenziarne tutte le peculiarità piú rilevanti e degne di nota. Dalla ricognizione della fortuna di Dante in Friuli, curata da Matteo Venier, dell’Università di Udine, si passa all’analisi dello splendido e articolato repertorio iconografico che il manoscritto restituisce in tutta la sua bellezza grazie allo studio comparativo firmato da Carlo Venuti. Mario D’Angelo si è occupato della descrizione del manoscritto da un punto di vista tecnico, sia codicologico che paleografico, offrendo una disamina del manoscritto inteso come laboratorio testuale totale. Chi scrive ha studiato il commento latino di Graziolo de’ Bambaglioli, di cui il codice è depositario assieme ad altri due manoscritti al mondo soltanto, offrendone una traduzione in lingua italiana, affinché ci si possa accostare alla bellezza di un testo ricco di fascino e di vivace erudizione. Fabio Valerio, che ha riprodotto fotograficamente il codice ad altissima definizione, ha infine curato la trascrizione semidiplomatica di tutti i testi assieme alla comparazione delle varianti grafiche fra i versi di Dante tramandati dal codice Fontaniniano e la versione universalmente accreditata come testo della Divina Commedia. L’impaginazione della trascrizione è stata fedelmente speculare alla «mise en page» del manoscritto, in modo tale da rendere godibile il raffronto con la copia anastatica. Nella sua veste grafica definitiva, l’opera è contenuta in un cofanetto di cui fanno parte la riproduzione anastatica del manoscritto (vol. 1) e la raccolta di studi monografici d’accompagnamento (vol. 2). Oltre alle valenze scientifiche, l’operazione editoriale si configura altresí come stimolo e sollecitazione al turismo culturale italiano e internazionale, che certamente troverà motivo di attrazione e di interesse anche attraverso la consultazione di un simile pregiatissimo biglietto da visita, capace di attrarre turisti e studiosi che non si lasceranno certo mancare l’occasione di accostarsi, dal vivo, a un’opera d’arte, di storia e di letteratura assoluta qual è il Dante Guarneriano 200. Per ulteriori informazioni sull’opera e sulle sue modalità di acquisto si può consultare il sito web dell’editore: http://www.robertovattorieditore.it

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dante guarneriano dante e il friuli

Il Paradiso in una campana Il primo a lasciare una testimonianza scritta sul presunto soggiorno di Dante in Friuli è stato l’erudito Giovanni Candido nei suoi Commentariorum Aquileiensium libri octo, del 1521. Nel Settecento la notizia fu ripresa dal letterato Gian Giuseppe Liruti, al quale parve di ravvisare piú di venticinque lemmi friulani nella Commedia, spiegandone la presenza proprio con il soggiorno alto-adriatico dell’Alighieri, ospite del patriarca di Aquileia Pagano della Torre. Una notizia avvalorata anche da una secolare tradizione orale, che vorrebbe il poeta accolto nella rocca patriarchina di Tolmino (oggi Tolmin, in Slovenia), rapito dalle forre e dai dirupi del luogo nell’immaginarsi l’abisso infernale. Ma se tale è la leggenda, ben piú certa risulta l’attestazione di importanti codici della Divina Commedia custoditi nelle biblioteche di nobili famiglie friulane: si tratta dei manoscritti Bartolini, Cernazai, Claricini Florio, Fontanini, Torriani. A tali testimonianze si dovrebbe anche aggiungere l’iscrizione sulla campana della chiesa di S. Maria, a Gemona del Friuli, risalente al 1423, sulla quale si può ancora leggere la prima terzina del Canto XXXIII del Paradiso: «Virgine Madre Figla del tuo Figlo / Humile e alta piú che creatura / Termene fíxo delo eterno conseglo», le cui connotazioni linguistiche sono decisamente riconducibili alla tradizione orale piú che alla trasmissione manoscritta. Nella pagina accanto il commento al canto II. Nella miniatura, l’incontro tra Dante e Virgilio nella Selva.

tornano occhi dilatati, nasi marcati e bocca piegata in una smorfia.

Un’arte redditizia

Caratteristiche riassunte anche nelle miniature e nelle tavole acquerellate del codice dantesco di San Daniele e confrontabili con quelle di altri due codici della Commedia attribuibili per la parte illustrata allo stesso Bartolomeo: il manoscritto It. 74 della Biblioteca Nazionale di Parigi e il Ricc. 1004 della Riccardiana di Firenze. Grazie all’eccezionale bellezza delle sue opere, l’artista accumulò un patrimonio ragguardevole, indice di quanto fosse ben remunerata la sua professione. Morí il 17 dicembre 1441. Un ulteriore pregio del manoscritto Fontaniniano 200 è quello

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Capolettera miniato, «N», dell’incipit della Commedia. All’interno della composizione è raffigurato Dante Alighieri nell’atto di comporre il poema.

Graziolo de’ Bambaglioli

Il notaio che amava le immortali terzine Graziolo de’ Bambaglioli nacque a Bologna intorno al 1291, da una famiglia notarile molto in vista nella città. Avviato fin da subito alla carriera degli uffici pubblici, il 10 giugno del 1311 venne nominato «notaro» ed esercitò il suo ufficio con grandissima perizia, universalmente riconosciutagli. Tanto che, il 26 luglio del 1321, assunse l’incarico di secondo cancelliere, con il ruolo, fra gli altri, di insegnamento di carattere letterario per i cancellieri transitori. Il 7 luglio del 1326 sposò Giovanna di Lorenzo Bonacati, da cui ebbe il figlio Giovanni. Quando il potente cardinale Bertrando del Poggetto venne cacciato da

Bologna il 28 marzo del 1334, al seguito della costituzione di un governo comunale, la famiglia de’ Bambaglioli, legata al potente curiale, andò incontro a un progressivo processo di decadenza che culminò con l’espulsione di Graziolo dalla città il 2 giugno del 1334. Trovò rifugio a Napoli, dove già dallo stesso 1334 figura come vicario di Manfredo, conte di Sartiano, capitano della città di Napoli per re Roberto. Sono questi gli anni in cui anche Giovanni Boccaccio frequenta la corte angioina e, data la comune passione per Dante, non è inverosimile credere che i due si siano conosciuti. La morte lo colse certamente prima del 1343. ottobre

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dante guarneriano spigolature

Gli incanti di Herico Riportiamo qui di seguito una delle glosse di Graziolo de’ Bambaglioli, nella quale il notaio ed erudito bolognese analizza uno dei piú celebri versi della Divina Commedia, «lasciate ogni speranza voi ch’entrate» (Inferno, canto III). Raramente accade che qualche spirito che si trova nel primo cerchio possa giungere in questo luogo dell’Inferno, eppure è accaduto che lo stesso Virgilio, trascorso un certo periodo di tempo dalla sua morte, sia disceso in questo luogo profondo e tenebroso in virtú delle trame e degli incanti di una certa maga e di una intelligentissima donna che si chiamava Herico, la quale sapeva evocare gli spiriti e i demoni; cosí lo stesso Virgilio, soggetto a tale evocazione, giunse in prossimità di questo luogo, che è il piú profondo dell’abisso dell’Inferno, e da tale profondità evocò un certo spirito; qui si tormenta l’anima di Giuda, lo scelleratissimo traditore; in verità tale Herico fu esperta nell’arte della negromanzia e avulsa dalle consuetudini femminili e umane, e la sua vita era tutta volta agli incanti e all’evocazione dei demoni; dimorava nelle selve, nei boschi, e nei luoghi solitari, spesso indugiava presso i sepolcri dei morti, dal momento che, secondo il suo costume, mangiava le cervici e le ossa degli uomini morti. Costei visse al tempo di Pompeo e di lei scrive Lucano, nel capitolo sesto, che il figlio di Pompeo, compiendo indagini sul suo conto, la trovò e avendola scoperta cominciò a esaltarla con celebri lodi ed esaltazioni di fama, affinché la potesse consultare e gli predicesse ciò che doveva accadere in merito a una qualche guerra futura fra lui e i suoi nemici; resa lieta da tali lodi, di lei non poco si parla nel sesto libro: «L’empia si rallegra, venuta a sapere della sua fama».

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fin dalla prima circolazione della Commedia: sono ben note, infatti, le pesanti riserve espresse da figure molto in vista fra la cerchia dei letterati felsinei, primo fra tutti Giovanni del Virgilio, chiosatore di Ovidio, e gli accesi attacchi dottrinali rivolti con asprezza da Cecco d’Ascoli, sia contro il poeta che contro il suo commentatore e collocabili proprio fra il 1322 e il 1324, anni in cui il dotto professore insegnava in qualità di lettore di astrologia presso lo Studium bolognese.

Volontà di riabilitazione?

In alto Dante e Virgilio al cospetto di Plutone. Le anime dannate sono quelle degli avari e dei prodighi, condannati a sospingere enormi macigni (Inferno, canti VI-VII). Nella pagina accanto il commento al canto III. La miniatura raffigura Dante e Virgilio di fronte al fiume Acheronte. Sulla riva opposta corre la torma degli Ignavi, mentre Caronte traghetta le anime dannate.

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di essere uno dei tre esemplari al mondo a oggi noti che tramandano ampia versione del commento latino all’Inferno di Dante di Graziolo de’ Bambaglioli: gli altri due sono rispettivamente il ms. 7 5 40, conservato alla Biblioteca Colombina di Siviglia, che risulta essere il piú completo, e il ms. I VI 31, della Biblioteca Comunale di Siena. Le glosse del manoscritto sandanielese si estendono da Inferno 5.1-3 a Inferno 34.73-111: risultano dunque mancanti, rispetto all’architettura generale dell’opera, i commenti ai primi sessantaquattro passi e gli ultimi tre. La datazione dell’opera, il 1324, è desumibile da una nota posta nel testo dall’autore stesso. Non c’è alcuna giustificazione per presumere che il progetto del commento si dovesse estendere anche alle altre cantiche. Probabilmente il commento nasce con l’intento precipuo di difendere le posizioni di Dante, al quale Graziolo si dichiara particolarmente devoto, nell’ambito del contesto intellettuale e universitario bolognese, che si era espressamente dichiarato ostile al poeta fiorentino

La scelta della lingua latina e la struttura incline alla prassi argomentativa accademica, erede di una certa rigida schematicità scolastica, lasciano dunque pensare che Bambaglioli stesse cercando di percorrere gli stessi canali comunicativi dei suoi avversari, per una sorta di riabilitazione apologetica di Dante, basata su di una strategia precisa, capace di mettere in campo un apparato di fonti a sostegno delle argomentazioni addotte. Le sue chiose sono sostenute da una biblioteca personale che spazia dunque dai testi sacri (Genesi, Re, Maccabei, Salmi, Ecclesiaste, Iob, Ezechiele, Apocalisse) ai Padri della Chiesa (oltre alle citazioni esplicite di Agostino e di Boezio si intuisce anche una certa frequentazione di Girolamo e di Origene), dagli autori classici come Virgilio, Ovidio e Lucano, noti a Bambaglioli anche attraverso l’ampia tradizione degli scholia e dei commenti che ebbe enorme diffusione tra grammatici e glossatori fra XII e XIV secolo, all’Almagesto di Tolomeo, fino ad alcuni testi medievali che ebbero particolare diffusione nell’ambito dei commentatori, tra cui probabilmente i Mitografi Vaticani e l’interessantissimo Opus de proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico. Particolarmente insistenti risultano anche i riferimenti al filosofo per eccellenza, quell’Aristotele di cui

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dante guarneriano si citano in particolare la Fisica e le Meteore e che denuncia come il retaggio culturale di Bambaglioli fosse ancora fortemente improntato a una dimensione piú propriamente scolastica e universitaria.

Cultura enciclopedica

Oltre agli interventi piú specificamente mirati a illustrare situazioni e personaggi citati da Dante nella sua opera, risultano particolarmente interessanti le digressioni a carattere mitologico, tese a ricostruire le narrazioni secondo i parametri della tradizione medievale. Degne di nota sono quelle, estesissime, a carattere astronomico e teologico, nelle quali si squaderna tutta la cultura dottrinale di un Medioevo attento alle ragioni ultime delle cose, capace di dialogare con una molteplicità interessante di riferimenti culturali, siano essi letterari, scientifici, empirici o, ovviamente, teologici. Si ricorda, a tal proposito, la lunga digressione sulla Fortuna e sul Libero Arbitrio, che poté godere di un’ampia circolazione, anche al di fuori della tradizione ai commenti danteschi. Bambaglioli la

In alto L’incontro con Minosse, che sorveglia l’ingresso del secondo cerchio infernale (Inferno, V). Qui sopra I due poeti giungono ai piedi di una torre, mentre di fronte a loro le anime degli iracondi e degli accidiosi sono immerse nella palude stigia (Inferno, VII). A destra Dante e Virgilio nel Limbo. Il personaggio con la spada è il poeta Omero. (Inferno, IV)

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Dante e Virgilio di fronte alle acque della palude stigia, su cui saranno traghettati dal demonio Flegías per approdare alla città di Dite (Inferno, VIII).

utilizzò anche per commentare un suo stesso opuscolo, e fu l’oggetto della già ricordata disputa con Cecco d’Ascoli. Le glosse di Bambaglioli conservano tracce di una certa frettolosità di esecuzione, forse dovuta all’urgenza di contrastare le posizioni antidantesche della cultura ufficiale bolognese E, in effetti, il periodare eccessivamente ampio – tanto da far smarrire l’ordito narrativo non solamente al lettore, ma talvolta anche all’autore – è spesso ridondante, cade sovente nella prolessi, nell’ellissi e nell’anacoluto, esagera nella profusione delle forme implicite.

Emozione e meraviglia

Ma è anche vero che l’atmosfera brillante e la viva voce dell’esegeta riemergono e si impongono proprio nei passi piú ardui e nelle imprese ermeneutiche piú ardite, ove è indispensabile riavvicinare autore e lettore, maestro e discepolo. In questi casi Bambaglioli riesce a rendere il meglio di sé, abbandonando il registro scolastico – piuttosto rigido, schematico, ripetitivo e formale –, per lasciarsi prendere da un trasporto emotivamente molto forte, sottolineato, per esempio, dal ricorso alla prima persona singolare, che denota l’esplicita volontà di un coinvolgimento emotivo. Cosí come l’abbondanza di aree semantiche connotative, che appartengono ai vibrati dell’anima di Bambaglioli, il quale, dismessi i grigi e impersonali panni del severo commentatore, lascia trasparire tutta l’emozione e la meraviglia per il pensiero di Dante, considerato maestro amatissimo e autore prediletto. Particolarmente significativa a riguardo è la glossa in cui egli stesso, quasi scusandosi per gli ardori intellettuali di una mente ancora

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giovane e intemperante, difende a spada tratta il suo maestro contro quei vecchi pedagoghi che ben conosciamo, impolverati nelle loro sclerotizzazioni accademiche: nel 1324 Cecco d’Ascoli aveva già compiuto 55 anni, età ragguardevole per l’epoca, avendo superato di gran lunga il discrimine del «mezzo del cammin di nostra vita», segnalato dallo stesso Dante sui 35 anni; Graziolo, essendo nato nel 1391, è ancora nettamente al di sotto di quella linea, quindi può a ragione definirsi una giovane mente che si contrappone a vecchi brontoloni. E lo fa «a difesa e preservazione dell’onore e del nome di codesto venerabile autore, affinché attraverso una nota di taluni maldicenti o detrattori non avvenga che si posa fare a meno della sua vera scienza e del suo vero valore, secondo il giudizio della mia giovinezza aggiungerò ancora qualcosa su tali argomenti».

Un acuto osservatore

Graziolo inventa inoltre uno stile molto particolare, in cui il discorso indiretto libero consente di rendere freschissimi taluni passaggi, evidenziandone in tal modo sia gli aspetti comici che quelli drammatici. Dotato di una certa profondità analitica, Bambaglioli è anche il pri-

mo ad attribuire al Virgilio dantesco il significato metaforico di «ragione», ovvero quell’intelletto pronto a sovvenire l’uomo nei momenti di massima difficoltà, combattendo sia contro le sue paure che contro gli istinti e gli appetiti volti al male. Il che denota nel glossatore una capacità di interpretazione, e non solo di analisi, di un certo interesse. Cosí come quando nel passaggio del celeberrimo «tu vuo’ ch’i’ rinovelli disperato dolore» del conte Ugolino, intuisce la traslazione degli esametri virgiliani con cui Enea, profugo e sconsolato, narra alla regina Didone le sue traversie e i suoi dolori. In alcuni casi, poi, Bambaglioli si rivolge direttamente a noi lettori del suo commentario, ricorrendo a una formula squisitamente romanzesca del tipo: «Devi sapere, caro lettore…», che quasi trasforma la glossa nel frammento di una novella. E questo rivela un gusto del tutto particolare per la narrazione che libera ser Graziolo da un ruolo strettamente filologico, per trasmettergli accenti letterari del tutto inediti, che andrebbero meglio investigati per una piú approfondita conoscenza del primo vero grande commentatore della Divina Commedia di Dante.

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Dieci in condotte

di Furio Cappelli

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L’approvvigionamento idrico è sempre stato un imperativo primario per le comunità umane. E, in epoca medievale, venne assecondato con opere spesso grandiose, figlie della scienza idraulica messa a punto già dai Romani, ma rese ancor piú efficienti con innovative soluzioni ingegneristiche

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n un passo del suo Viaggio in Italia, Johann Wolfgang Goethe cosí rievoca la sensazione provata a Spoleto, di fronte al Ponte-acquedotto delle Torri. Al momento in cui scrive si trova a Terni, ed è la sera del 27 ottobre 1786: «Mi sono recato sull’acquedotto che fa anche da ponte tra una montagna e l’altra. Le dieci arcate che scavalcano la valle se ne stanno tranquille nei loro mattoni secolari, e continuano a portar acqua corrente da un capo all’altro di Spoleto. Per la terza volta vedo un’opera costruita dagli antichi, e l’effetto di grandiosità è sempre lo stesso. Una seconda natura, intesa alla pubblica utilità: questa fu per loro l’architettura, e in tal guisa ci si presentano l’anfiteatro, il tempio e l’acquedotto. Soltanto ora avverto come avevo ragione nell’esecrare tutte quelle stravaganze, quali per esempio il Winterkasten sul Weissenstein, un nulla destinato al nulla, un gigantesco trofeo zuccherino; e cosí dicasi di mille altre cose. Tutta roba nata morta, perché ciò che è privo di vera esistenza interiore è materia senza vita, non può avere né raggiungere la grandezza». Spoleto. Uno scorcio dell’imponente Ponte delle Torri. Realizzato alla fine del XIII sec., alloggia una condotta idrica che portava in città l’acqua delle sorgenti di Cortaccione e di Vallecchia.

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Affascinato e rapito dalla mole del ponte spoletino, Goethe si convince che sia un’opera dell’antichità classica, e la inserisce al culmine di una triade che si è venuta componendo proprio grazie all’immediato contatto visivo con simili meraviglie: l’anfiteatro (l’Arena di Verona), il tempio (il santuario di Minerva ad Assisi, nella Piazza comunale), e ora, appunto, il grandioso acquedotto. Rileva che è costruito in mattoni, come le simili costruzioni di epoca romana, quando in realtà il Ponte delle Torri è tutto edificato in pietra calcarea, tranne alcuni punti in cui appare risarcito o ripristinato. Il poeta tedesco offre poi un severo parallelo con un’opera del suo tempo, che aveva visitato pochi anni prima (1783), rimanendo evidentemente assai po-

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co coinvolto: si tratta dell’Oktogon, un grande edificio ottagonale sormontato da una statua colossale di Ercole, realizzata su direzione di Giovanni Francesco Guerniero tra il 1701 e il 1717, e che spicca sulla cima di un’altura nel parco del castello di Wilhelmshöhe, presso Kassel, in Germania. Lí un elaborato sistema di giochi d’acqua compone una cascata artificiale, che parte dall’edificio culminante.

Un’affinità solo apparente

Siamo agli antipodi dell’opera osservata a Spoleto, poiché se la grande profusione di mezzi e il senso delle ampie dimensioni sembrano accomunare le due realtà, le loro premesse sono ben diverse, cosí come gli effetottobre

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In alto Perugia. Uno scorcio odierno dell’area della Conca, con l’antico acquedotto, oggi riadattato a camminamento percorribile. A sinistra Perugia. La Fontana Maggiore. L’opera fu ultimata nel 1278 da Nicola e Giovanni Pisano.

ti sull’osservatore. A Kassel si impone la ricerca di un effetto fine a se stesso, mentre a Spoleto una necessità pubblica concreta, ossia il bisogno di disporre di acqua nel centro abitato, ha motivato l’impresa, facendo in modo che si integrasse al meglio nel paesaggio. L’opera dell’uomo non ha perciò niente di artificioso, pur asserendo una sua grandezza, e si presenta come una «seconda natura», che si compone perfettamente con i profili delle alture. Forse sorto sul luogo di una preesistente struttura di età romana, il Ponte delle Torri è comunque pienamente ascrivibile alla fine del Duecento e proprio il fatto che un intenditore di antichità come Goethe lo avesse assegnato al mondo classico è indice della grande competenza

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acquisita dagli ingegneri che, in piena età comunale, misero in atto cospicui lavori di attraversamento, conduzione e sfruttamento dell’acqua.

La lezione di Vitruvio

Ponti, acquedotti, cisterne e mulini appartenevano a un patrimonio di saperi e di abilità tecniche che godettero di ampia diffusione nell’antichità, ma nel Medioevo le esigenze legate alle città piú importanti e ai centri di riferimento territoriale meglio organizzati (i monasteri) stimolarono il recupero di una scienza idraulica, con una sperimentazione graduale sempre piú agguerrita. Si partiva dalla trattatistica antica (da Vitruvio, in particolare), base imprescindibile per ogni conoscenza approfondita della materia, ma i numerosi sistemi di conduzione di età romana ancora funzionanti consentivano di ricavare direttamente nozioni preziose. In età comunale molti esperti di idraulica provengono dagli ambienti monastici e, non a caso, la rinascita di questa scienza e di questa tecnica ci conduce proprio in quelle oasi di contemplazione, che erano anche centri pulsanti di vita economica e culturale. Come osserva lo studioso Giuliano Romalli, l’uso al modo dei Romani delle tubature in piombo, per esempio – che consentiva di allestire condotte forzate di buona tenuta –, era già attestato nell’Europa monastica alla metà dell’XI secolo. Occorre tuttavia attendere un’opera di grande impegno come l’acquedotto perugino di Montepacciano, cosí come venne configurato in via definitiva nel 1277, per assistere a un’applicazione di tale accorgimento su vasta scala. Le imprese dell’età comunale, in sostanza, proprio per effetto delle esigenze di potenziamento dei centri urbani, creano fortissime premesse per ampliare il

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civiltà comunale/9 raggio d’azione della scienza idraulica. Non sempre le opere intraprese arrivano a buon fine e talvolta si deve procedere a ripristini se non a totali rifacimenti, segno evidente di una procedura che si affida esclusivamente all’esperimento se non all’azzardo, in assenza di adeguate capacità pregresse. Tuttavia, ogni impresa determina comunque un avanzamento, i problemi vengono affrontati con sempre maggiore successo, e la tenuta di tanti sistemi idraulici fino a epoche recentissime, se non fino al giorno d’oggi, basta da sola a lasciarci ammirati di fronte alle abilità degli operatori e degli amministratori dell’epoca, viste le enormi difficoltà che dovettero affrontare. Lo stesso Ponte delle Torri a Spoleto è assai eloquente al riguardo. Per condurre in città l’acqua delle

Nemmeno una goccia vada sprecata Disegno ricostruttivo di una fonte pubblica, costituita, secondo un modello assai diffuso in epoca medievale, da vasche comunicanti di altezza decrescente. Nella piú alta, l’abeveratorium, si raccoglieva l’acqua potabile: il doccio è riservato all’uso umano (1), mentre gli animali si «servivano» dalla vasca (2). Nella seconda, il lavatorium (3), si lavavano i panni, mentre l’ultima, il guazzatorium (4), era destinata ai lavori «sporchi» come il risciacquo degli animali macellati.

sorgenti di Cortaccione e di Vallecchia, si dovette superare l’ampia valle del fiume Tessino, incastonata tra le alture di Monteluco e di S. Elia (il colle che costituisce il punto piú alto del centro storico umbro, sul quale sorge la Rocca albornoziana). Il ponte rispondeva proprio a questa esigenza, con dimensioni davvero sorprendenti: si superano i 230 m di lunghezza e, se si conta il muraglione che alloggia la condotta, i 76 di altezza. La struttura era fortificata su entrambi i lati (il ponte era infatti chiamato inter turres, «tra le torri», da cui la denominazione attuale), e il presidio dell’imbocco esterno comprendeva un mulino alimentato dall’acqua della condotta, attivo fino al XIX secolo.

Omaggio agli Orsini

All’interno della città, poi, non dovettero mancare le fontane monumentali poste a esaltare il funzionamento di una rete idrica cosí ardita. Una di esse sorgeva in via dell’Arringo, in asse al celebre Duomo. Uno scavo, nel 1997, ne ha individuato il basamento di pianta circolare, mentre lo storico dell’arte Bruno Toscano, nel 2005, ha pubblicato un elemento che le era forse inerente: un catino scultoreo originariamente collocato su una colonna centrale, decorato da figure di telamoni affiancate dai fori di uscita dell’acqua, che zampillava cosí nella vasca sottostante. Il catino reca lo stemma della potente fami-

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San Gimignano. Una veduta della cisterna, collocata scenograficamente al centro dell’omonima piazza cittadina.

glia Orsini, dominatrice della vita politica romana nel secondo Duecento, e questo ha permesso di sottolineare un nesso significativo. Nel 1278 l’acqua della condotta di Vallecchia rifornisce un nuovo sistema idrico esteso all’intera Spoleto, il che suscita il tripudio degli abitanti, e per l’anno successivo viene nominato podestà Orso di Gentile Orsini, probabile committente della fontana. Ancora in territorio umbro, occorre poi soffermarsi sul già citato acquedotto perugino di Montepacciano, la cui lunga e tormentata storia è davvero appassionante. L’apice dell’impresa è rappresentato dalla Fontana Maggiore di Nicola e Giovanni Pisano, che esalta il traguardo e il funzionamento della condotta nel fulcro di Perugia,

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accanto alla Cattedrale (vedi «Medioevo» n. 218, marzo 2015). La bellezza di questo complesso figurativo mette in ombra l’opera idraulica di cui fa parte, ma, d’altronde, l’acquedotto è di importanza fondamentale non solo perché rifornisce la fontana, ma proprio perché quest’ultima ne è il coronamento simbolico.

Un notevole impatto ambientale

Tra l’avvio della condotta e il completamento dell’opera dei Pisano scorrono ben ventiquattro anni (12541278). Nella prima fase dei lavori il progettista è un religioso, fra’ Plenerio, affiancato in cantiere dall’impresario Bonomo da Orte, e sin da questo momento il

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Una fonte unica al mondo Di fianco alla cattedrale di S. Cerbone di Massa Marittima (Grosseto), se dalla piazza si volge lo sguardo su via Ximenes, sul fondo si può notare la facciata del Palazzo dell’Abbondanza. Il suo nome deriva dal fatto che forse già nel Trecento si aggiunse un piano all’edificio per depositarvi le scorte pubbliche di grano, ma sin dall’origine si trattava semplicemente di una tipica fonte pubblica, con uno schema a tre campate che si ricollega alle analoghe costruzioni senesi, come Fontebranda. Un’epigrafe informa che la fonte di Massa venne realizzata nel 1265 mentre era podestà Ildebrandino da Pisa, illustre cavaliere di fede ghibellina. Nel 1999 è emerso un affresco assai singolare sulla parete di fondo della campata sinistra, con ogni probabilità collegato a un ciclo che si doveva prolungare nei due spazi contigui. Si tratta di un’opera messa in atto tra il periodo di costruzione della fonte e i primi decenni del Trecento. Vi si osserva un bellissimo albero in veste primaverile dai cui rami pendono, qua e là, 25 falli completi di testicoli, collocati sui rami come se fossero nidi o frutti della pianta. La scena si completa con un nugolo di aquile in volo (una delle quali di probabile allusione araldica) e con due gruppi di donne. A sinistra, due di queste, infiammate da un diabolico furore (la loro capigliatura

punto d’arrivo è stabilito nel luogo stesso in cui sorse la fontana. Il progetto prevedeva una grande cisterna di raccolta nel punto di partenza e un complicato saliscendi della condotta, ideato per affrontare le molteplici differenze di quota. Il sistema doveva avere un impatto notevole sul paesaggio, poiché si componeva di un acquedotto sviluppato su cento arcate, con una resa assai scrupolosa dell’apparato murario, in conci di pietra ben squadrati e ordinati, tale da suggerire l’idea di un’opera dell’antichità classica. L’acqua scorreva «a pelo», nella canalina predisposta al di sopra delle arcate, senza l’uso di tubature, ma con la semplice adozione di un materiale di rivestimento interno (forse il cocciopesto) per assicurare la tenuta stagna. In alcuni tratti la condotta era sotterranea, ed erano state quindi predisposte apposite gallerie (bottini).

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è increspata sulla fronte), si accapigliano tirandosi vistosamente i capelli l’un l’altra, per contendersi uno dei «frutti» dell’albero. Lí accanto un’altra donna, con l’ausilio di una fiocina, è intenta a farne cadere uno dai rami. Le figure del gruppo di destra sembrano intente ad atti di autoerotismo, cosí come la donna che si trova all’estremo opposto, dietro la quale, per giunta, un fallo fluttuante nell’aria indica un’esperienza di sodomia. Come interpretare una scena del genere? Si è parlato dell’Albero dell’Abbondanza, in relazione al nome tardivo dell’edificio, come se il dipinto fosse un inno gioioso alla vita e alla fecondità, complice l’acqua su cui le immagini si specchiavano, ma è da escludere che in un edificio pubblico si potesse fare un ricorso cosí smaccato alla sessualità senza un intento moralistico o infamante. Le aquile, magari dipinte poco dopo la disfatta di Manfredi a Benevento (1266), quando Massa si schiera con i guelfi, alludono forse alle malefiche forze imperiali? Di certo, l’albero è un prodigio «contronatura» che svia dalla rettitudine. In due esempi individuati dallo storico dell’arte Valentino Pace, uno figurativo, l’altro letterario, l’albero dai cui rami pendono falli è una fonte di delizie a cui attinge una monaca dissoluta, oppure è una «riserva» di peni rubati, gestita da una strega.

Un grande apparato, dunque, la cui realizzazione conobbe purtroppo una clamorosa battuta d’arresto (1255). Le opere allestite non funzionavano, poiché le differenze di quota da affrontare erano tali e tante che lo sfruttamento delle pendenze, per ottenere la spinta necessaria, finiva con il costituire un problema piú che un espediente: la pressione dell’acqua, inoltre, era eccessiva e doveva aver creato seri danni alla muratura. Si dovette cosí attendere l’intervento risolutivo di Boninsegna da Venezia, ventidue anni dopo (1277).

Si ricomincia da zero

L’ingegnere si convinse che bisognava rifare tutto da capo e solo pochi elementi già realizzati potevano tornare utili, come la cisterna del punto di partenza. Le nuove strutture dovevano aggirare gli ostacoli realizzativi con ottobre

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l’uso di materiali e di accorgimenti di alto magistero. In primo luogo era necessario utilizzare le tubature in piombo, che assicuravano la tenuta delle condotte forzate, ma con le pressioni da gestire occorreva anche dotare e articolare il percorso con tutte le opere che permettevano il controllo dei flussi. In particolare bisognava fare ricorso agli sfiatatoi, cosicché l’aria in eccesso che si accumulava durante il percorso potesse trovare sfogo all’esterno. Le tratte in pendenza dovevano essere poi intervallate da torri idrauliche e da cisterne di compensazione per consentire all’acqua di transitare nei tubi con un afflusso costante. Grazie a questo raffinato sistema di regolazione, il nuovo impianto funzionò. D’altronde Boninsegna aveva dato prova di grande abilità nel settore grazie all’impianto idrico di Orvieto, e fu proprio il successo riportato in quell’impresa a con-

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Massa Marittima, Palazzo dell’Abbondanza. L’affresco scoperto nella campata sinistra dell’edificio, che in origine era una fonte pubblica, e detto «dell’Albero dell’Abbondanza». XIII-XIV sec.

durlo a Perugia. Nel precedente incarico, infatti, l’ingegnere fece in modo che le acque dell’Alfina, dopo aver percorso un tunnel rivestito di solidi blocchi di pietra, risalissero tutto il dislivello grazie a una massicciata a tratta unica. I problemi di approvvigionamento idrico di una città collinare come Orvieto, pressoché isolata sulla propria rupe, furono cosí brillantemente risolti. Nel 1276 l’acqua poteva zampillare nella perduta fontana monumentale allestita in Piazza Maggiore (oggi Piazza del Comune), con una vasca in marmo rosso e un catino di bronzo innestato su una colonna centrale. Il prezioso liquido fuoriusciva dal catino finendo nella vasca sotto-

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stante, secondo lo stesso schema di base riscontrabile in seguito a Perugia e a Spoleto. L’intervento di Boninsegna nel capoluogo umbro non fu definitivo. Vi fu un lungo periodo in cui l’acqua cessò di sgorgare dalla Fontana Maggiore. A porvi rimedio intervenne Lorenzo Maitani, tra il 1317 e il 1322. Capomastro del Duomo di Orvieto, attivo a Perugia nel cantiere del Palazzo dei Priori, l’architetto dovette porre in atto una variante, senza comunque introdurre tecniche o principi innovativi. In seguito, fin verso il XVII secolo, l’acquedotto medievale di Montepacciano continuò a svolgere il suo ruolo. Al di là degli illustri casi umbri, il fervore delle re-

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alizzazioni nel settore dell’idraulica interessò in varia misura l’intera Italia comunale. Il caso della Piazza della Cisterna di San Gimignano evidenzia bene in una piccola realtà urbana il valore scenografico della presa d’acqua, come baricentro dello spazio comunitario, punto di riunione e di attrazione.

L’acqua in Piazza del Campo

D’altro canto, Siena, a lungo angustiata dalla penuria d’acqua, mette ripetutamente in campo grandi energie, come si vede nell’intricato sistema dei suoi tunnel (bottini), in gran parte realizzati nel Medioevo per captare numerose fonti del circondario: una rete che già alla fiottobre

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Siena. Una veduta della Conca di Vallechiara, sopra cui campeggia la mole della basilica di S. Domenico. In basso, a destra, si distingue la Fonte di Fontebranda, merlata, a tre arcate.

Qui sopra Siena, Fonte di Fontebranda. Un’immagine dell’interno della copertura della vasca, realizzata a volta e articolata in tre campate. XIII sec.

Nei paesaggi delle città di pianura, dove l’acqua invece abbonda, si sviluppano, già nel XII secolo, ambiziosi progetti di canalizzazione. I grandi centri mercantili e industriali possono cosí dotarsi di efficienti vie di comunicazione per il traffico navale, e il convogliamento dell’acqua permette l’alimentazione non solo dei mulini ma anche delle gualchiere, macchine di compressione fondamentali per la produzione dei tessuti. La presenza dei canali nel vivo della realtà urbana si legge bene a Mantova, con il canale del Rio (1190), o a Milano, con il Naviglio Grande completato nel 1239, mentre a Bologna, in pieno centro, rimane scoperto un solo tratto del cospicuo Canale di Reno, derivazione del fiume omonimo.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Le due Italie ne del XIV secolo totalizzava 25 km. Il «bottino grande», costruito con tecniche avanzatissime su un considerevole dislivello, tanto da sembrare realizzato in tempi ben piú avanzati, fu avviato nel 1334, proprio durante il regime «mercantile» dei Nove, poco prima che Ambrogio Lorenzetti affrescasse le Allegorie del Buono e del Cattivo Governo. Negli stessi anni, e con grande fatica, viene rifornita una fontana in Piazza del Campo, laddove Jacopo della Quercia, nel 1408, realizzò la sua Fonte Gaia. Ma già nel 1246 risulta attiva la condotta di Fontebranda, che culmina nell’ampia fonte-lavatoio, a quell’epoca nell’immediato suburbio, assai preziosa per i lavoratori della lana che hanno le loro botteghe nei dintorni.

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Da leggere Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, traduzione di Emilio Castellani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1986 Bruno Toscano, Fontana Orsini, in Vittoria Garibaldi, Bruno Toscano (a cura di), Arnolfo di Cambio. Una rinascita nell’Umbria medievale, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2005; pp. 236-237 Giuliano Romalli, L’acquedotto medievale di Perugia e l’adduzione idrica nelle realtà comunali centroitaliane, in Vittorio Franchetti Pardo (a cura di), Arnolfo di Cambio e la sua epoca. Costruire, scolpire, dipingere, decorare, Viella, Roma 2006; pp. 317-327

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testi di Federico Fioravanti, Patrizia Biscarini, Antonio Menichetti, Elvio Lunghi e Raffaella Menichetti

Gubbio

Il Medioevo abita qui Nella cittadina umbra si rinnova l’appuntamento con il Festival del Medioevo: un’occasione da non mancare per scoprire una delle località italiane in cui le tracce dell’età di Mezzo sono straordinariamente ben conservate: offrendo cosí una vera e propria «fotografia» della vita vissuta in quei secoli Particolare della pianta di Gubbio realizzata da Joan Blaeu per il Theatrum civitatum et admirandorum Italiae (vedi immagine intera alle pp. 82-83).


Dossier

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ella pietra dei palazzi di Gubbio sembra essersi fissata per sempre l’anima stessa del Medioevo italiano». È difficile non essere d’accordo con Marcel Brion, scrittore francese del Novecento, appassionato cultore della storia e dell’arte italiana, folgorato, al pari di tanti altri illustri viaggiatori, dalla visione della città trecentesca. Gli Eugubini ne sono da sempre consapevoli. Cosí, una frase lapidaria accoglie i turisti che accorrono alle pendici del Monte Ingino: «La piú bella città medievale». Affermazione orgogliosa e certo anche dettata dal campanile. Ma suffragata da pareri autorevoli. Come quello dello storico Franco Cardini, il quale, a piú riprese, ha ricordato come Gubbio, a differenza di altre iconiche e celeberrime città, sia «una vecchia signora che non ha avuto mai bisogno del chirurgo estetico». L’architettura medievale è ancora quella originale. E la gente vive e lavora, da generazioni, in case e palazzi che per la maggior parte risalgono al XIV secolo. Non a caso, la città è anche sede del Festival del Medioevo, la manifestazione internazionale che ogni anno, nella prima settimana di ottobre, racconta al grande pubblico dieci secoli fondamentali della storia d’Europa (vedi box alle pp. 80-81).

Alle falde dell’Ingino

Invasa dagli Eruli, rasa al suolo dai Goti nel 552, fu ricostruita da Narsete, generale bizantino di Giustiniano in una zona piú alta e protetta, alle falde dell’Ingino, già monte sacro («okri») degli antichi Umbri, il favoloso popolo che aveva abitato quei territori mille anni prima della nascita di Roma. Nel 772 la città fu occupata dai Longobardi e, in età carolingia, Pipino il Breve e Carlo Magno, attraverso due distinte donazioni, la cedettero alla Chiesa. Piú tardi, la fazione nobiliare ghibellina, per emanciparsi dalla

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Gubbio. Una veduta del centro cittadino. L’edificio merlato sulla sinistra è il Palazzo del Popolo, oggi dei Consoli, eretto nel XIV sec.

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Dossier La facciata del Palazzo dei Consoli.

tutela vescovile, trasformò Gubbio in un libero Comune, impegnato in continue e sanguinose lotte con le città vicine per il controllo strategico della via Flaminia. La città arrivò a controllare piú di cento castelli, cosicché lo scontro con la potente e organizzata Perugia divenne inevitabile. E la guerra segnò per quasi duecento anni, tra alterne e tormentate vicende, la storia dell’Umbria medievale. Molti personaggi dell’età di Mezzo hanno scolpito in modo indelebile l’identità cittadina. A partire dal santo vescovo patrono Ubaldo (1080-1160), carismatica guida

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popolare, capace di mediare tra le agguerrite fazioni cittadine. Fu protagonista di una miracolosa vittoria militare contro una lega formata da undici città, capeggiate da Perugia e che, nel 1151, si erano unite per distruggere Gubbio. Ma l’esercito formato dai cittadini resistette, contrattaccò e spazzò via i suoi nemici.

Supremazia effimera

Altre battaglie, contrassegnate da altrettante sconfitte, rafforzarono però l’autorità del papato, a favore della fazione guelfa che nel 1250, dopo la morte di Federico II, acquistò nuovo vigore e prese il potere nel

1263. I guelfi governarono Gubbio fino al 1350, tranne brevi parentesi. La piú importante, nel 1350, vide il trionfo delle truppe di Uguccione della Faggiuola e di Uberto Malatesta, conte di Ghiacciolo, ma il potere dei ghibellini durò solo pochi mesi. I guelfi tornarono al governo per restarci e l’operazione non fu indolore: le famiglie ghibelline vennero ripetutamente censite. Fino a che lo statuto cittadino, promulgato nel 1338, stabilí che per assumere una carica pubblica si dovevano rispettare due fondamentali condizioni: disporre di un censo adeguato ed essere di famiglia guelfa. Gli oppoottobre

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In alto la corte interna del Palazzo Ducale, fatto costruire per volontà di Federico da Montefeltro, al cui interno si trovava anche lo studiolo del duca. XV sec.

sitori piú autorevoli furono costretti a lasciare Gubbio e le loro abitazioni vennero demolite, come ricordano «gli orti ghibellini» che, ancora oggi, sono visibili in vari punti della città. La relativa pace con le città limitrofe, assicurata dalle epurazioni, consentí al Comune di investire in grandi opere pubbliche, come la prima costruzione del Palazzo dei Consoli. Poi la città cadde sotto la signoria di Giovanni Gabrielli. Nel 1354 Gubbio fu assediata ed espugnata dal cardinale Albornoz, che l’assoggettò alla Chiesa, ma promise di salvare gli antichi privilegi e gli statuti cittadini. Cosí però non av-

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venne. Gubbio imboccò ancora la strada della ribellione e, nel 1376, instaurò un autogoverno che però, alla prova dei fatti, dimostrò tutta la sua fragilità. Ne approfittò il vescovo Gabriello Gabrielli, il quale, forte dell’appoggio del papa, si autoproclamò «signore di Agobbio». La guerra civile continuò, nei fatti, fino a una nuova rivolta popolare: nel 1384, stremati dalla crisi economica e ridotti alla fame, gli Eugubini presero le armi contro il loro dispotico vescovo, il quale però non si rassegnò a cedere il potere. La sanguinosa lotta tra le fazioni portò allora le chiavi della città a un pacificatore interessato: Gubbio si consegnò «spontaneamente» ad Antonio da Montefeltro (1348-1404) che per lungo tempo aveva appoggiato la fazione avversa ai Gabrielli.

Un legame profondo

La testimonianza piú evidente lasciata a Gubbio dalla dinastia durante il lungo dominio sulla città (1384-1632) è l’elegante Palazzo Ducale, fatto costruire sopra la piazza pubblica da Federico di Monte-

feltro, il condottiero, umanista e mecenate, duca di Urbino, che proprio a Gubbio nacque nel 1422. Un rapporto, quello tra Federico e la sua città, intimo e profondo: eugubino era anche il suo fratello naturale Ottaviano Ubaldini della Carda. A Gubbio nacquero i suoi figli Agnese e Guidobaldo, unico figlio maschio e futuro duca. E qui morí l’amatissima moglie Battista Sforza. Una replica perfetta del celebre studiolo di Federico (dal 1939, l’originale è conservato al Metropolitan Museum di New York) si può ammirare in un’ala del Palazzo Ducale: uno spazio segreto, abbellito da meravigliose tarsie, nel quale il duca si ritirava per studiare e pensare, circondato dalle immagini che gli erano piú care. Fra gli altri protagonisti illustri del Medioevo eugubino, vi è poi Francesco d’Assisi, il quale, nel Testamento, scrisse che proprio a Gubbio maturarono la sua conversione e la sua scelta radicale di vita. Nel gelido inverno del 1207 il Poverello cercò rifugio presso la famiglia degli Spadalonga, dopo es-

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Dossier Le Tavole Eugubine

La scoperta di Presentina Nel 1444, nello stesso anno in cui Federico da Montefeltro diventava il signore di Urbino e a Gubbio moriva il celebre miniatore Ottaviano Nelli, una contadina di nome Presentina, scoprí, in modo fortuito, nei pressi del Teatro Romano, sette misteriose lastre di bronzo. Composte in epoche differenti e da mani diverse, dal III al I secolo a.C., le Tavole Eugubine riportano testi che risalgono a tremila anni fa. Oggi sono esposte in

una sala del Palazzo dei Consoli, sede del Museo Civico. Preziosa testimonianza sulla lingua, gli usi e i costumi degli antichi Umbri, sono il piú importante testo rituale dell’età classica giunto fino ai nostri giorni. Giacomo Devoto, il massimo glottologo italiano del Novecento spiegò che «non possediamo nulla di simile né in lingua latina né greca: per trovare paralleli, bisogna ricorrere a letterature del vicino o lontano Oriente».

sere stato malmenato dai briganti e gettato in un fossa innevata a Caprignano, lungo il percorso che oggi è ricordato come il «Sentiero della Pace». L’abito rozzo che gli fu donato dagli amici eugubini fu, di fatto, il primo saio francescano. A Gubbio, Francesco curò per tre mesi i lebbrosi prima di tornare ad Assisi e iniziare la sua predicazione. La tradizione (I Fioretti di San Francesco, capitolo XXI) vuole che presso l’attuale chiesa di S. Maria della Vittoria, detta «La Vittorina», il santo ammansisse il lupo feroce.

setta ereticale dei «fratelli del libero Spirito», che negava l’Inferno, non riconosceva l’autorità ecclesiastica e predicava rapporti carnali fuori dal matrimonio. Una lettera, andata perduta, vergata a Gubbio «il 28 gennaio dell’anno dell’incarnazione del Salvatore 1240», rappresenta l’atto di nascita di Castel del Monte, il piú celebre dei castelli di Federico II. A quasi ottocento anni dalla sua stesura, la missiva, indirizzata a Riccardo di Montefuscolo, Gran Giustiziere di Capitanata, continua a dividre gli storici. Federico sollecitava la costruzione o la ristrutturazione del castrum che tanto gli stava a cuore. In ogni caso, aveva fretta. E voleva che i lavori fossero conclusi «senza indugio». Fu poi l’eugubino Cante Gabrielli, podestà di Firenze, a condannare all’esilio perpetuo dalla sua città Dante Alighieri (1302), con le infamanti accuse di concussione e baratteria. Forse è proprio lui, che come gli altri suoi parenti aveva i capelli rossi, il diavolo Rubicante, mischiato alla truppa di demoni nella bolgia dei barattieri, citato nel canto XXII dell’Inferno: «“O Rubicante, fa che tu li metti / li unghioni a dosso, sí che tu lo scuoi!”, / gridavan tutti insieme i maladetti» (vv. 40-42).

Religiosi illustri

Altri famosi uomini di fede percorsero le strade del territorio. Nella vicina abbazia di Fonte Avellana, che dipendeva dall’episcopio eugubino, visse a lungo san Pier Damiani (1007-1072), dottore della Chiesa, citato da Dante nel XXI canto del Paradiso: «Quivi al servigio di Dio mi fei sí fermo, / che pur con cibi di liquor d’ulivi / lievemente passava caldi e geli, / contento ne’ pensier contemplativi». Erano eugubini il beato Bartolomeo Baroni, che diede vita al Terzo Ordine regolare di San Francesco e Santa Sperandia (1216-1276), patrona della città di Cingoli. Fra Bentivegna da Gubbio, già seguace di fra Dolcino, fondò la

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Bosone dei Raffelli, campione del partito ghibellino, autore dell’Aventuroso Ciciliano, fu invece amico e protettore del poeta, tanto da ospitarlo nel 1318 nel castello di Colmollaro. Lí, secondo Cesare Balbo, Dante compose molti versi della sua Commedia. Nel canto ottobre

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In alto una delle Tavole Eugubine. Bronzo, III-I sec. a.C. Gubbio, Palazzo dei Consoli. A destra Ritratto di Federico da Montefeltro con il figlio Guidobaldo, tempera su tavola attribuita a Giusto di Gand (circa 1430-circa 1480) e Pedro Berruguete (1450-1504). XV sec. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.

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Dossier oderisi da gubbio

Un miniatore celebre, eppure misterioso Un celebre passo della Divina Commedia di Dante Alighieri, nel canto XI del Purgatorio, vede coinvolto un artigiano eugubino, a fronte di tanti nobiluomini toscani che ne condividono la sorte nel girone dei superbi. Dante gli si rivolse chiamandolo col nome di Oderisi e dicendolo «l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte ch’alluminar chiamata è in Parisi»: cioè il campione della decorazione libraria «gotica». A questo Oderisi venne affidato il compito di proporre un paragone tra le arti sorelle e fu scelto come testimone del ricambio generazionale avvenuto tra Guido Guininzelli e Guido Cavalcanti, tra Cimabue e Giotto, e, naturalmente, tra Oderisi e il suo antagonista Franco Bolognese. Quindi tra un Medioevo che si chiude e l’età moderna che avanza e che portò nel

XI del Purgatorio, Alighieri ricorda Oderisi da Gubbio, il piú famoso miniatore medievale, «superbo» perché, come Dante stesso, era consapevole della sua grandezza d’artista: «Non se’ tu Oderisi, / l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’ arte / ch’alluminar chiamata è in Parisi?». Era di nascita eugubina anche il Gattapone (1300-1383), uno dei piú importanti architetti civili e militari

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campo delle lettere alla poesia dello «stil novo» e in quello dell’arte alla maniera moderna di Giotto, in concorrenza con la vecchia «maniera greca» di Cimabue. È naturale, persino ovvio, che il nome di Oderisi abbia resistito all’oblio che stese una coltre di silenzio sulla decorazione libraria nel secolo di Dante. Col tempo il suo nome venne speso per qualsivoglia forma di eccellenza riconosciuta nel campo della miniatura: fosse a Roma, o a Bologna, in Toscana o in Sicilia. Di Oderisi da Gubbio non si conoscono opere firmate o documentate. Ma non fu un personaggio d’invenzione, bensí un uomo in carne e ossa al quale è stata restituita una precisa identità grazie ai documenti rintracciati da Filippini e Zucchini negli archivi di Bologna. Documenti dai quali veniamo a sapere come fosse attivo nella città emiliana negli anni 1268-1271, impegnato nella produzione di codici giuridici destinati al mercato parigino, o per aver decorato con lettere «de penello de bono azurro» le pagine di un antifonario del quale s’ignora la sorte. Nelle carte Oderisi viene accompagnato dalla qualifica di miniatore, mentre al padre Guidone di Pietro «de Gubio», che compare accanto al figlio nell’agosto 1268 e che risulta già morto nel marzo 1271, viene attribuita quella di pittore. Questa chiara distinzione dei ruoli lascia credere che Oderisi si sia limitato a decorare a penna o a pennello le pagine scritte dal notaio Paolo di Iacopino dell’Avvocato – altro nome ritrovato nei documenti bolognesi – e che il padre Guidone sia stato coinvolto per la loro eventuale decorazione figurata. La vicenda umana di Guidone di Pietro trova una perfetta corrispondenza nel percorso del «Maestro dei crocifissi francescani»: un pittore del quale si conosce un’attività tra Assisi, Fabriano, Imola, Faenza e Bologna; che fu un seguace di Giunta Pisano e al quale si può restituire l’esecuzione della decorazione di un Messale conservato nella Biblioteca del Sacro Convento di Assisi e databile all’anno 1254.

del Trecento italiano, artefice della Rocca di Spoleto e di altre fortezze a Terni, Urbino e Perugia, oltre che di altre celebri costruzioni, come la Loggia del Palazzo dei Priori di Narni e il chiostro della chiesa di S. Giuliana a Perugia. Tra tanti artisti eccelsi vanno ricordati Mello da Gubbio (1330-1360) e Ottaviano di Martino Nelli (1375-1444), due tra i piú noti esponenti del movimento

artistico che oggi definiamo «goticointernazionale». Visse ai piedi dell’Ingino anche Cleofe Borromeo Gabrielli (14401495), una delle piú importanti poetesse del XV secolo. E Pietro Bembo (1470-1547), il raffinato umanista che amò Lucrezia Borgia e che per primo regolò la lingua italiana, fondandola sull’uso (segue a p.80) ottobre

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Al contrario, Oderisi da Gubbio non può essere riconosciuto con sicurezza in alcun codice miniato. La qualifica di «miniatore» che lo identifica, lascia tuttavia pensare a un ruolo di editore nell’industria del libro bolognese, piuttosto che a quello di pittore di iniziali figurate. Un’attività che lo portò in contatto con un lettore avido di libri, quale doveva essere il «ghibellin fuggiasco» lontano dall’amata Firenze. Elvio Lunghi Nella pagina accanto particolare di una miniatura tratta da un corale, con iniziale istoriata, opera di Oderisi da Gubbio. XIII sec. In alto illustrazione ad incisione opera di Gustave Doré (1832-1883), per l’edizione del 1869 della Divina Commedia. Dante cammina chinato

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assieme a Oderisi da Gubbio, posto tra i superbi costretti a trasportare pesanti macigni sulla schiena (Purgatorio, XI). A destra particolare di una miniatura tratta da un corale, raffigurante Cristo nell’orto degli ulivi entro una iniziale «I» istoriata, opera di Oderisi da Gubbio. XIII sec.

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Dossier La piazza comunale di Gubbio

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1. La scenografica piazza pensile di Gubbio (oggi Piazza Grande) sorse, con i suoi palazzi pubblici, in un’area adiacente a tutti i rioni della città. Iniziata nel Trecento, la sistemazione della piazza fu portata a compimento solo nel XV sec.

2. La costruzione del Palazzo del Popolo (oggi dei Consoli) fu decretata dal Comune eugubino nel 1321, ma i lavori si svolsero nel decennio seguente. È un edificio possente, tutto in conci, coronato da merli; dall’angolo sinistro si leva un’agile torretta. 3. Il Palazzo del Podestà, consegnato all’autorità nel 1349, si compone di due edifici: uno «nuovo», eretto di fronte al Palazzo del Popolo, e una palazzina già appartenente ai Gabrielli (la piú potente famiglia eugubina), restaurata per essere adibita a residenza degli officiales al seguito del Podestà; i due corpi di fabbrica vennero collegati tra loro da una struttura a ponte e da un porticato in legno.

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Dossier Festival del Medioevo

L’Europa e l’Islam Dal 4 al 9 ottobre, il Festival del Medioevo, rassegna di cui «Medioevo» è media partner, riunisce a Gubbio storici, saggisti, filosofi, scrittori e giornalisti, chiamati a cimentarsi in una vera e propria sfida: quella di raccontare, in modo chiaro e coinvolgente, i dieci secoli dell’età di Mezzo. «Europa e Islam» è il titolo scelto per la seconda edizione della rassegna, la cui sede principale è il Centro Convegni Santo Spirito, una imponente costruzione medievale a pochi passi dal parcheggio della centrale piazza Quaranta Martiri. Attrezzato con una moderna sala conferenze, l’edificio ospiterà gli incontri con gli autori e la prima Fiera del Libro Medievale. Le strade e le piazze di Gubbio fanno inoltre da sfondo anche a decine di altri eventi collaterali: mostre, film, rievocazioni, spettacoli, concerti, laboratori per bambini e visite dei massimi scrittori toscani del Trecento, fu vescovo della città per quattro anni.

«Monotonia sublime»

La storia si respira ancora lungo le strade di Gubbio. E anche nel carattere, passionale e insieme ombroso dei suoi abitanti. Nel suo Viaggio in Italia, scritto nel 1950, Guido Piovene scrisse che a Gubbio ognuno vive «chiuso nel suo mondo, come in un’armatura». La città di pietra gli apparve di una «monotonia sublime: una bellezza scolpita nei grigi blocchi di calcare, cui solo nel Rinascimento si uní in sordina l’arenaria». Lo stupore che si prova alla vista dell’acropoli, si rinnova anche in altre città dell’Umbria, per il critico d’arte Cesare Brandi «asserragliate

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Dove e quando Festival del Medioevo Gubbio 4-9 ottobre Info Associazione Festival del Medioevo, tel. 340 5218017; segreteria organizzativa, e-mail: info@festivaldelmedioevo.it www.festivaldelmedioevo.it; www.facebook.com/ FestivalDelMedioevo

guidate. Tra i principali possiamo ricordare: il Mercato Medievale, curato dai quattro quartieri storici di Gubbio (San Martino, San Giuliano, San Pietro e Sant’Andrea); l’appuntamento con la Puglia imperiale, arricchito da due mostre dedicate alle strade e ai castelli di Federico II di Svevia; l’evento quotidiano dedicato ai Miniatori dal mondo, animato da alcuni tra i piú importanti calligrafi italiani e europei. A sinistra Gubbio. Uno scorcio del centro storico, con, in primo piano, uno dei ponti sul torrente Camignano. In alto e qui sopra due immagini della sezione Arti e Mestieri allestita all’interno del Festival del Medioevo, importante fiera locale che si tiene con cadenza annuale.

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come castelli in cima ai poggi, come ostensori d’argento». Ma sul selciato di Piazza Grande, il visitatore ha l’improvvisa e meravigliosa percezione di camminare attraverso la storia, nel cuore di una città di pietra, sospesa e leggera. La città verticale si scala, salendo piano per vicoli stretti e suggestivi. E lo sguardo, rivolto di continuo verso il cielo, soppesa spesso, incantato, l’audacia architettonica degli spettacolari Arconi di via Baldassini: spazi svuotati che sostengono, in modo quasi miracoloso la piazza «arcigna e insieme gentile» in cui il Palazzo dei Consoli e il Palazzo del Comune troneggiano l’uno di fronte all’altro. Gabriele D’Annunzio parlò con i suoi versi a Gubbio, ferma tra passato e futuro, nelle Città del silenzio:

«Ma ne’ tuoi bronzi arcani il tuo destino / resiste alla barbarie che ti strazia». Una «città della poesia per eccellenza» agli occhi di Mario Luzi, proclamato Eugubino onorario nel 2005. Lo scrittore Hermann Hesse, nel 1907, ne ricavò un ricordo indelebile: «La grandiosa, quasi temeraria audacia di questa architettura produce un effetto assolutamente sbalorditivo e ha qualcosa di inverosimile e conturbante. Si crede di sognare o di trovarsi di fronte a uno scenario teatrale e bisogna continuamente persuadersi che invece tutto è lí, fermo e fissato nella pietra». Hesse, di colpo, capí che a Gubbio si può tornare a «sentire con i propri sensi il passato come presente, il lontano come vicino, il bello come eterno». Federico Fioravanti

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Dossier DIECI CARTE PER LEGGERE UNA MAPPA, TRA LA PIETRA E IL CIELO

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a Gubbio medievale si può raccontare attraverso dieci documenti. Le fonti scritte piú significative, conservate presso gli archivi cittadini, aprono finestre sorprendenti su una storia millenaria e propongono ai visitatori un itinerario insolito, tra le carte, il cielo e le pietre della città umbra. Il primo documento è la Biografia del vescovo Ubaldo (1085-1160), uomo di profonda fede, punto di riferimento non solo spirituale, ma anche civile per la comunità, riformatore della vita ecclesiastica dell’antica diocesi eugubina (ante 416). La sua vita, narrata dal successore Tebaldo, tranne brevi soggiorni a Fano, Ravenna e Roma, si snoda prevalentemente tra la canonica dei Ss. Mariano e Giacomo e quella di S. Secondo e l’eremo di Fonte Avellana, ora in terra marchigiana, ma un tempo sotto l’episcopio eugubino.

Sulla cima del monte

Il corpo incorrotto del santo vescovo è visibile ancora oggi nell’urna conservata nella basilica a lui dedicata, meta della devozione popolare, costruita sulla cima del monte Ingino. Venerato come guida e patrono, sant’Ubaldo è invocato dagli Eugubini in ogni situazione di pericolo. In suo onore si svolge la Festa dei Ceri, travolgente manifestazione popolare che dal 1160 si rinnova ogni 15 maggio, giorno della vigilia della morte del santo (vedi box alle pp. 88-89). Nel 1163, a soli tre anni dalla morte di Ubaldo, il Diploma da Federico I di Svevia, il Barbarossa, riconosce a Gubbio una serie di diritti

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che sanciscono l’appartenenza della città alla sfera ghibellina, in cambio di inevitabili doveri da ottemperare e tributi da versare all’imperatore.

Tra i destinatari dell’atto, da molti interpretato come frutto tardo dell’incontro tra Ubaldo e Federico (1155), c’è l’abate della chiesa e ottobre

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monastero di S. Pietro, che riceve la giurisdizione su alcuni luoghi strategici del territorio. La vicinanza di Gubbio alla poli-

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tica imperiale è confermata dal terzo documento preso in esame, il Diploma di Enrico VI, inviato ai consoli di Gubbio, ormai riconosciuti come

Pianta della cittĂ di Gubbio realizzata da Joan Blaeu per il Theatrum civitatum et admirandorum Italiae. XVII sec.

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Un gesto clamoroso

A pochi passi di distanza, intorno al 1240, viene edificata, fuori dalle mura appena erette, la chiesa di S. Francesco, sulla proprietà degli Spadalonga. Nell’inverno del 1207, la famiglia di ricchi mercanti accoglie il giovane Francesco, che ha appena iniziato il suo cammino di conversione con il gesto drammatico e clamoroso della rinuncia ai beni paterni e con l’abbandono di Assisi. Ai pellegrini che si recano a pregare nella chiesa nei giorni in cui si festeggiano i beati Francesco, Antonio e Chiara e nelle rispettive

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ottave, il papa, nel 1256, concede 100 giorni d’indulgenza. Questa importante Lettera di Alessandro IV è conservata presso l’Archivio del convento di S. Francesco ed è uno dei due documenti presentati, non custoditi come tutti gli altri nella ricchissima e completa Sezione eugubina dell’Archivio di Stato. Nella seconda metà del XIII secolo, Gubbio sconfitta, dopo rovinose guerre contro la guelfa Perugia e i suoi alleati, entra nell’orbita della Chiesa. Da allora le istituzioni politiche ormai mature e la sempre piú solida struttura economica, garantiscono al Comune un lungo periodo di prosperità. E nei primi decenni del secolo seguente, una serie di interventi urbanistici cambia il volto della città: l’ampliamento della cerchia muraria, con i relativi elementi architettonici a garanzia dell’accesso, della guardia e della custodia della popolazione (1301), ancora visibili in alcuni tratti; la ristrutturazione dell’acquedotto di origine tardo-romana che attinge le acque dal Bottaccione, fondamentale opera idraulica per l’approvvigionamento idrico della città; la costruzione dei maestosi palazzi pubblici, simbolo della grandezza e della potenza raggiunte.

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organo politico affermato e pienamente operante. Con questa pergamena, nel 1191, il figlio di Federico consolida il legame con gli Eugubini e consente la ricostruzione della città alle pendici del monte Ingino su un livello piú alto del precedente. Paradigma dello spostamento è la nuova cattedrale, dedicata ai protomartiri cristiani Mariano e Giacomo, eretta nella parte piú alta della città. Nell’area del duomo precedente, verrà innalzata la duecentesca chiesa di S. Giovanni Battista, per secoli unico fonte battesimale del centro cittadino.

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Gubbio 1. Palazzo dei Consoli 2. Piazza Grande 3. Palazzo del Podestà 4. Palazzo Ranghiasci Brancaleoni 5. Palazzo del Capitano del Popolo 6. Chiesa di S. Francesco 7. Basilica di S. Ubaldo 8. Palazzo Ducale 9. Duomo 10. Chiesa dei Muratori (S. Francesco della Pace) 11. Chiesa di S. Marziale 12. Teatro Romano 13. Porta Vehia 14. Chiesa di S. Maria Nuova 15. Chiesa di S. Agostino 16. Chiesa di S. Pietro 17. Chiesa Vittorina 18. Palazzo del Bargello 19. Casa di S. Ubaldo 20. Chiesa di S. Secondo 21. Mausoleo 22. Chiesa della Madonna del Prato 23. Chiesa di S. Domenico 24. Logge dei Tiratori ottobre

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in alto una veduta di Porta S. Agostino (Porta Romana) dal lato interno delle mura. XV-XVII sec. La torre ospita al suo interno il Museo della Ceramica a lustro.

In alto, a sinistra la facciata della chiesa di S. Giovanni. XIII sec. A destra una panoramica esterna della chiesa di S. Pietro con annesso convento. XI sec.

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Dossier In questi anni il massiccio impiego di pietre cavate dai monti circostanti e conciate dalle abili mani dei maestri scalpellini fa assumere a Gubbio l’affascinante aspetto di «città di pietra, scolpita, piú che murata».

Governo popolare

La fase di massimo splendore economico sociale e politico vissuto dalla comunità si specchia nel quinto documento, lo Statuto del Comune e del Popolo (1338), fondamentale fonte del diritto cittadino che contempla e regola ogni aspetto della vita comune. L’ordito delle norme statutarie tende ad assicurare alla città pace e benessere. Ma l’esclusione dei nobili dal governo, che è nelle mani del popolo, costituisce una continua e latente minaccia alla concordia cittadina. L’economia fiorente è attestata dal proliferare delle Corporazio-

La Lettera Decretale La diocesi eugubina conserva un fondamentale documento della storia del cattolicesimo: si tratta della Lettera Decretale del 19 marzo 416 di Innocenzo I al vescovo Decenzio. È il primo testo con il quale un pontefice detta le norme da rispettare nella liturgia, riguardo la cresima, l’unzione degli infermi, il digiuno, l’assenza di celebrazione di sacramenti il venerdí e il sabato santo e la collocazione del segno della pace.

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ni di arti e mestieri: sono ben 14 quelle approvate dallo Statuto. Alcune comprendono piú categorie di artigiani e lasciano intendere la presenza di un’organizzazione produttiva piú articolata. Per il lavoro serve l’acqua: cosí molte manifatture cominciano a nascere lungo il Camignano, il principale torrente che attraversa la città. I ponti in pietra dell’antico quartiere offrono ancora oggi all’occhio del visitatore uno degli scorci piú suggestivi di Gubbio. Le attività di ogni arte sono regolate da un Breve, un libro aperto che contiene minuziose disposizioni relative agli organi istituzionali, alle loro competenze e alle modalità di elezione delle corporazioni medievali. Norme specifiche garantiscono la qualità dei prodotti, regolano i diritti e i doveri dei lavoratori, danno ordine alle matricole degli iscritti e alle delibere dei consigli. Tra i documenti di questo tipo giunti fino ai (segue a p. 90) ottobre

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A sinistra un’immagine dell’interno del chiostro della basilica di S. Ubaldo. XVI sec. A destra un’immagine dell’interno della basilica di S. Ubaldo, dove viene venerato il corpo incorrotto del santo conservato nella teca.

La Regula di Ubaldo

I doveri del clericus Intorno al 1117, quando divenne priore della canonica di S. Mariano, Ubaldo si trovò a gestire una comunità di chierici che vivevano separati tra loro, ormai lontani dall’ideale evangelico, non disprezzando gli agi e i piaceri del mondo. Cercò allora una soluzione e ritenne di averla trovata nella Regula Clericorum, scritta per il monastero di S. Maria in Porto, presso Ravenna, da Petrus clericus, da molti ritenuto un membro della famiglia degli Onesti. Nel 1116 la Regula aveva ricevuto l’approvazione papale. Ubaldo si trasferí a Ravenna e vi rimase tre mesi, sperimentando personalmente l’applicabilità e l’efficacia delle sue norme. Provata la validità della Regola portuense, tornò dai suoi confratelli a Gubbio, dove però solo in tre

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lo seguirono. Il severo stile di vita proposto spaventò gli altri, che non colsero subito il profondo rispetto per l’unicità di ogni persona a cui la Regola era ispirata: a ogni confratello i compiti erano assegnati in base a salute e forze, esperienze e competenze. Grazie all’impegno quotidiano e perseverante di Ubaldo, nonostante le incomprensioni e gli ostacoli, la piccola comunità di canonici, stretta intorno a lui, rappresentò un esempio che, lentamente, richiamò tutti i confratelli, illuminando anche la vita degli Eugubini. Fu probabilmente per questo che Ubaldo si meritò l’appellativo di

«riformatore della Chiesa» e in tale veste è rappresentato nella teoria di statue di santi che coronano il colonnato del Bernini. La Regula è divisa in 3 libri. I 36 capitoli del primo delineano la figura del clericus nel suo modo di essere e di agire nella comunità, anche in base al ruolo ricoperto; i 28 del secondo si soffermano sulle necessità materiali, morali e spirituali dei chierici; i 34 del terzo analizzano la ripartizione del tempo liturgico giornaliero e annuale e l’organizzazione degli spazi comunitari. Raffaela Menichetti

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Dossier Sulle due pagine la tradizionale Corsa dei Ceri raffigurata in una stampa ottocentesca. Gubbio, Museo Civico di Palazzo dei Consoli. Nella pagina accanto una veduta di Piazza Grande durante lo spettacolo degli sbandieratori, in occasione della Festa dei Ceri.

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la festa dei ceri

Un brivido lungo un giorno

La Festa dei Ceri si celebra in modo ininterrotto il 15 maggio di ogni anno dal 1160, anno della morte di Ubaldo Baldassini, vescovo e patrono della città. Ma tracce delle sue origini si scorgono anche nelle Tavole Eugubine e richiamano riti ancestrali dei popoli italici connessi con l’arrivo della primavera. È una delle feste tradizionali piú antiche e spettacolari del mondo. Sacro e profano si mescolano in una prorompente gioia di vivere che coinvolge l’intera città. I Ceri, divenuti nel 1973 il simbolo ufficiale della Regione Umbria, sono tre alte e massicce torri di legno e di ferro, del peso di 300 kg ciascuna. Sulla loro cima sono saldamente fissate le statue di sant’Ubaldo (patrono della città oltre che della corporazione dei muratori e degli scalpellini) di san Giorgio (merciai) e sant’Antonio (contadini e studenti). Issati su una barella, vengono portati da dieci ceraioli a spalla, di corsa, lungo le vie della città. Tutti gli Eugubini sono ceraioli e partecipano all’avvenimento – atteso con ansia, per mesi –, vestiti con colori vivaci, tra i canti, gli abbracci e lo sventolio di fazzoletti. Al crepuscolo, annunciata dagli squilli di tromba, la festa di popolo diventa una corsa forsennata ed entusiasmante: raggruppati in mute, i ceraioli si danno il cambio, tra spettacolari e pericolose «birate» lungo le vie della città. Poi il trafelato fiume di folla accompagna la Corsa dei Ceri sull’erto stradone che porta fino alla basilica di S. Ubaldo, sulla sommità del monte Ingino, a 827 m di altezza, attraverso 300 m di dislivello. Dieci minuti, un lungo brivido di passione collettiva, vissuto con il fiato in gola. Non ci sono vinti, né vincitori: l’ordine di arrivo deve essere sempre lo stesso: prima sant’Ubaldo, poi san Giorgio e infine sant’Antonio. Quel che conta è il comportamento durante la corsa (pendute, cadute o distacchi tra un cero e l’altro). E alla sera, tornando a casa, le emozioni della giornata si stemperano in un abbraccio collettivo, nel quale la città si riconosce da secoli.

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nostri giorni, spicca il piú antico: il Breve dell’Arte dei falegnami del 1334. Ogni arte ha una sede, anche destinata a scopi assistenziali, e un luogo di preghiera e di culto. L’Arte della lana, considerata tra le piú fiorenti, è ubicata, per esempio, nello spazio urbano nel quale venne in seguito inglobato l’ospedale di S. Spirito. La prospera convivenza di numerose categorie di lavoratori con i ceti sociali piú agiati è resa possibile grazie all’esistenza di regole condivise, che tutelano gli interessi di tutti. L’ideale equilibrio tra le parti si concretizza con la costruzione di quello che, ancora oggi, è il luogo simbolo della città: il Palazzo dei Consoli, progettato da Angelo di Orvieto e edificato in Piazza Grande, al centro di un’area equidistante dai quattro quartieri storici della città: Sant’Andrea, San Pietro, San Giuliano e San Martino.

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Di fronte all’ardito Palazzo pubblico svetta quello del Podestà, che nei piani originari doveva essere gemello del primo. L’edificio, rimasto incompiuto, racconta in modo plastico l’improvvisa e devastante crisi economica che colpisce la città alla metà del Trecento: nel giro di pochi anni, le carestie, l’epidemia di peste, il calo demografico e l’involuzione economica soffocano le energie vitali di Gubbio.

Una stagione tormentata

Negli anni Cinquanta del XIV secolo si assiste cosí alla degenerazione delle istituzioni comunali con il tentativo di instaurare il potere signorile da parte di Giovanni, nobile esponente della famiglia dei Gabrielli. Una traccia preziosa di quel tormentato periodo si trova nella Lettera del Legato apostolico Egidio Albornoz, inviata il 15 agosto 1354

Veduta di uno dei ponti sul Camignano, sullo sfondo del Monte Foce. 1890 circa. Firenze, Archivio Alinari.

alle massime cariche del Comune eugubino. Il documento annuncia il ripristino delle istituzioni comunali, ma, di fatto, le sovverte, legittimando la preminenza di azione e di giudizio del vicario papale. Il progetto albornoziano a Gubbio è comunque di breve durata, tanto che, nel 1377, un altro Gabrielli, il vescovo Gabriele di Necciolo, prova invano a instaurare un’altra signoria cittadina. In questi tempi confusi e difficili, la popolazione, provata dalla crisi economica, trova in parte soccorso e sostegno nei numerosi monasteri, nei conventi, negli ospedali e grazie all’opera incessante delle confraternite. La rete di solidarietà e di assistenza cerca di tamponare ottobre

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Memorie francescane

Sulle orme del santo e... del lupo «Proseguí verso Gubbio, dove fu riconosciuto e accolto da un antico amico, che gli diede anche una povera tonachella, che egli indossò come poverello di Cristo». Con queste parole Bonaventura da Bagnoregio, nella Leggenda maggiore, delinea il singolare rapporto che la comunità eugubina stabilisce con Francesco, attraverso gli amichevoli gesti di un mercante, che un tardivo documento identificherebbe in Federico Spadalonga. Fuori dalla sua città natale, coperto di un misero camiciotto, privo del sostegno della famiglia, il giovane affronta in solitudine il travagliato viaggio che lo porta da Assisi a Gubbio, passando per le località

A destra la statua di San Francesco e il lupo posta di fronte alla chiesa di S. Maria della Vittoria, in ricordo dell’incontro.

situate lungo l’odierno Sentiero francescano. Nella città di sant’Ubaldo viene accettato con dignità, nonostante l’aspetto trascurato, accolto con amicizia e assistito nelle sue necessità. Gubbio diventa per Francesco il luogo dell’accoglienza, dove sperimentare l’umiltà nel quotidiano servizio agli ultimi: «Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare cosí a far penitenza, poiché essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia». Cosí scrive Francesco, nel suo testamento, confermando di aver iniziato la sua conversione in

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In alto uno scorcio della chiesa di S. Maria della Vittoria. IX sec. A sinistra veduta panoramica della vallata di Gubbio.

un lebbrosario; probabilmente a S. Lazzaro o in quello del Grimo. In quest’ultimo, una fonte autorevole quale lo Statuto eugubino del 1338, attesta la presenza di un frater Egidius, forse da identificare con Egidio da Assisi, il terzo compagno di Francesco. A poca distanza dai lebbrosari, sorge la chiesetta di S. Maria della Vittorina, che secondo la tradizione, nel 1213, per volontà dei vescovo Villano è affidata alla nascente fraternita francescana. Il legame tra Gubbio e Francesco si rafforza con il celebre ammansimento del lupo. Tanti hanno descritto l’episodio, ma pochi hanno colto la funzione di garante svolta da Francesco nell’atto di pace stretto tra la comunità spaventata e il feroce, ma solitario lupo. L’episodio non trova riscontro nelle fonti scritte, coeve al santo, ma nella raccolta trecentesca de I Fioretti. La tradizione, tuttavia, indica varie tracce in città che ne ripropongono la storia: il toponimo «trivio Morlupo», la chiesetta di S. Francesco della Pace, sotto la quale si può vedere il sarcofago in pietra di un lupo, le innumerevoli fonti visive prodotte nell’arco dei secoli, che testimoniano l’attaccamento degli Eugubini a questo straordinario incontro. A pochi anni dalla morte di Francesco, sulla proprietà degli Spadalonga sorge una delle prime chiese dedicate al santo, con annesso il convento, disposto intorno a due chiostri, detto delle «cento celle», segno della potente fioritura di vocazioni suscitate dall’esempio di Francesco. Il complesso viene ultimato nel 1240 e diventa la nuova e prestigiosa sede eugubina dei Francescani. Patrizia Biscarini

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Dossier A destra una veduta del centro cittadino con in primo piano le Logge dei Tiratori. L’ambiente, coperto, serviva per far asciugare le stoffe, tese nella dimensione desiderata. In basso Gubbio, Cattedrale. Santa Maria Maddalena, particolare di una pala d’altare, attribuita a Timoteo Viti (1469-1523) e Giuliano Presutti (Giuliano da Fano, 1490-1554). XVI sec.

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

scoperte d’archivio

La Maddalena e il Santo Graal Una pala cinquecentesca dedicata a Maria Maddalena, ordinata da un committente che di cognome si chiamava Santo Graal: il facoltoso cittadino eugubino Lorenzo Sangradali senior. È la storia curiosa, svelata da uno studio dello storico Ettore Sannipoli e nascosta da cinque secoli nella Cattedrale cittadina. La pala eugubina fu dipinta nel 1521 dal pittore fanese Giuliano Presutti, collaboratore dell’artista urbinate Timoteo Viti. L’immagine della Maddalena fu ospitata nella cappella di famiglia del celebre ceramista e lustratore Giorgio Andreoli, conosciuto come Mastro Giorgio. Una recente ricerca curata nell’Archivio di Gubbio da Fabrizio Cece ha appurato che gli Andreoli entrarono in possesso dell’altare della Maddalena verso la fine del Cinquecento, grazie al matrimonio tra Terisio Andreoli e Caterina Sangradali, erede di una nobile famiglia eugubina. L’originario soprannome Sangradale, attribuito a un antenato che prese parte alla prima crociata, insieme ad altri cavalieri di Gubbio, con il tempo si trasformò nel cognome Sangradali. Già nel corso del Quattrocento uno

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l’impotenza decisionale del potere politico. Lo certifica l’ottavo documento, il Liber Fraternitatis (XIV secolo) di S. Maria della Carità, detta del Mercato, conservato presso l’Archivio Vescovile. La chiesa, poi chiamata S. Maria dei Laici, era detta «dei Bianchi» e sorgeva nella parte inferiore del complesso oggi noto come le Logge dei Tiratori, innalzate nel XVII secolo, dove si «tiravano», per asciugarli, i panni, tesi in modo da far loro assumere le dimensioni volute. Uomini e donne della confraternita, di ogni classe sociale, raccolgono offerte per alleviare l’indigenza del popolo. Gli interventi proposti però non sono

sufficienti ad arginare la miseria sempre piú dilagante. Nel 1384 una Gubbio povera, affamata, con istituzioni ormai incapaci di governarla e di regolare le discordie interne, è consegnata ad Antonio da Montefeltro, conte di Urbino. Attraverso i Patti di dedizione con l’autorità comitale, il nono documento preso in esame, il territorio eugubino entra a far parte dello Stato urbinate, a cui appartenne, seguendo le successive sorti della dinastia feltresca, con l’innesto dei Della Rovere, fino al 1631. Il documento prevede la sottomissione politica della città al conte, rappresentato dal luogotenente, ma garantisce ancora alle istituzioni locali una serie di privilegi e un’ampia autonomia amministrativa. Il piú antico segno visivo della presenza dei Montefeltro a Gubbio è impresso nelle volte della loggetta di Palazzo Beni: si tratta dello stemma e del monogramma del conte Guidantonio, al potere dal 1404.

L’epoca feltresca sconosciuto scrittore toscano aveva volgarizzato l’Estoire de Saint Graal come la Storia del San Gradale. Nella pala, Maria Maddalena mostra un giglio e il calice contenente l’unguento con cui si massaggiò i piedi di Cristo. Fa riflettere anche lo sviluppo della storia: pochi anni dopo, i discendenti degli Andreoli e dei Sangradali, cedettero la cappella alla Compagnia del Santissimo Sacramento. Rimane una curiosità: perché Lorenzo Sangradali senior volle che l’altare della sua famiglia fosse intitolato alla santa di Magdala? In uno dei luoghi piú sacri di Gubbio, a pochi passi dalle reliquie dei santi martiri Giacomo e Mariano, qualcuno volle rendere comprensibile in modo esoterico, solo a poche persone, un messaggio iconologico diverso da quello apparente.

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In alto coppetta abborchiata con decorazione a raggiera e al centro profilo di S. Maria Maddalena. Maiolica. Manifattura di Gubbio. 1530 circa. Mantova, Palazzo Ducale.

La Cronaca di Ser Guerriero, il decimo e ultimo documento, è la voce narrante che magnifica l’operato dei conti e duchi di Urbino, in particolare del grande condottiero e mecenate Federico da Montefeltro (14221482), nato a Gubbio nel castello di Petroia. A lui si deve l’ultima splendida costruzione medievale che domina dall’alto il centro cittadino: il Palazzo Ducale, magnifico emblema del potere con sorprendenti giardini pensili, residenza ufficiale del duca durante i suoi soggiorni in città, eretta proprio davanti alla Cattedrale, sulle fondamenta del Palazzo della Guardia, già antica sede del Comune. Con il ducato di Guidubaldo (1472-1508), ultimo discendente dei Montefeltro, viene infine ultimata la straordinaria piazza pensile che lega e insieme separa il Palazzo dei Consoli e il Palazzo del Podestà. Patrizia Biscarini e Antonio Menichetti

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medioevo nascosto umbria

Mirabile

di Franco Bruni

austerità S «S

ur un colle solingo, in faccia a Giano, tra le montane d’Umbria e la pianura non ampia (…) sta un tempio antico, tutto in se raccolto»: cosí, nel suo Trittico (1915), il missionario don Amilcare Rei descrive l’abbazia di S. Felice, situata a pochi chilometri da Giano dell’Umbria (Perugia). Peculiare è la sua storia, che l’ha vista, a partire dalla fondazione benedettina, passare sotto l’Ordine agostiniano, i Padri Passionisti sino all’attuale Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue; una vicenda durante la quale il complesso abbaziale ha subito ripetute spoliazioni, nonché la perdita delle sue forme barocche, cancellate dai restauri che l’hanno riportato alla sua originale e quasi disarmante semplicità. Ancor piú complessa è la storia del santo titolare, Felice, un personaggio dai contorni biografici vaghi e quanto mai oggetto di contesa da parte dei comuni di Todi, Spello, Massa Martana, Pavia e, come se non bastasse, anche Siviglia e Spalato. Casi di omonimia, cronache agiografiche discordanti e interpretazioni a volte dettate da interessi campanilistici piú che da fondamenti storici, hanno portato a vedere in san Felice il vescovo titolare dell’una o dell’altra diocesi.

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L’identità e la biografia di san Felice sono da sempre dibattute: dubbi che non hanno però impedito la realizzazione di un’abbazia in suo onore. E che oggi è uno dei gioielli dell’architettura romanica dell’Umbria

A Spoleto, un antico Lezionario della Cattedrale, menziona un Felice, martire e vescovo, celebrato il 18 maggio. Piú precisamente, il documento lo cita sia come vescovo di Todi che del Vicus Martis (Massa Martana). Peraltro, nella lista dei presuli tudertini non risulta alcun Felice in carica nel III secolo, cioè all’epoca in cui il santo è vissuto.

Notizie contraddittorie

Contraddittorie risultano anche le notizie forniteci dal gesuita Giovanni Battista Possevino (1552-1622), il quale, in una biografia in latino dedicata al santo e pubblicata a Perugia nel 1597, dichiara Felice vescovo martire di Martana; la stranezza è che, in un’altra sua opera, pubblicata nello stesso anno, Vite de’ santi et beati di Todi, lo indica come vescovo di Todi. Spostandoci a Spello, il noto Martyrologium del monaco benedettino Usuardo († 877 circa) narra di san Felice quale vescovo di Spello e martire sotto l’imperatore Massimiano, festeggiato il 18 maggio. Indicazioni analoghe provengono da una fonte di Pavia, databile al XIII-XIV secolo e andata dispersa, ma di cui esiste una versione a stampa del 1523, il Leottobre

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Nella pagina accanto Giano dell’Umbria, Perugia. Una panoramica del complesso abbaziale di S. Felice. In questa pagina particolare del dossale di S. Felice raffigurante

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Cristo in trono con la Madonna, Santi e Profeti, opera del Maestro di S. Felice di Giano (vedi anche il box alle pp. 102-103). Tempera su tavola, XIII sec. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.

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medioevo nascosto umbria giano dell’umbria

Autonomia a corrente alternata Probabilmente legato alla presenza di un tempio dedicato al dio Giano, dell’antico pagus romano restano testimonianze scarse, mentre è a partire dal 760 che si ha notizia dell’esistenza di un «loco qui nominatur Jane», grazie a un Placito nel quale vengono definiti i confini tra Spoleto e Todi. Nel corso dei secoli esso fu assoggettato alternativamente all’impero o alla Chiesa. Nel XII secolo, il castrum Iani è guidato dai Nobili Signori di Giano, mentre nel secolo successivo (1247) viene incorporato dal Comune di Spoleto. Con la Repubblica del 1798, venne riconosciuta l’autonomia

del Comune di Giano e, con essa, la sua giurisdizione sui vicini castelli di Montecchio, Castagnola, Morcicchia ecc. Il nuovo status cambiò ancora una volta nel 1927, quando la cittadina venne nuovamente inglobata nel Comune di Spoleto, riottenendo però l’autonomia nel 1930. Arroccato su una collina, il borgo, si presenta nelle sue originali fattezze medievali, circoscritto da due cerchie murarie (XIII-XV secolo) e tre porte d’accesso. Tra le testimonianze di maggior rilievo, troviamo, all’interno dell’area racchiusa dalle mura, il Palazzo del Municipio (XII-XIII secolo), la chiesa

gendarium sanctorum…: qui il santo figura come vescovo di Spello, contraddicendo però la notizia contenuta in un codice farfense del IX secolo – la piú antica fonte sulla passio di san Felice –, che lo dice vescovo del Vicus Martis, e sepolto a Giano. Peraltro, già prima del suddetto Legendarium, la biografia del santo era stata oggetto di una trascrizione in volgare da parte di Cola de’ Passeri da Spello, nel 1390; il testo ricalca fedelmente la storia narrata nel codice farfense, se non che l’autore sostituisce il Vicus Martis con Hispellum (Spello), compiendo – come ha scritto Felice Santini – un atto di «disonestà letteraria». Molti storici hanno sostenuto la tesi di san Felice

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della Madonna delle Grazie, databile al XIV secolo, ma rimaneggiata alla fine del XVIII, e la duecentesca chiesa di S. Michele, nella quale si possono vedere frammenti di affreschi risalenti ai primi anni del XVI secolo. All’esterno delle mura sorge il complesso conventuale con l’annessa chiesa di S. Francesco, della seconda metà del XIII secolo: l’interno assunse forme barocche nel Seicento, ma la Cappella del Crocifisso conserva un ciclo pittorico di Giovanni di Corraduccio (XIV secolo) e altre testimonianze pittoriche trecentesche sono tuttora visibili nell’abside.

Il borgo di Giano dell’Umbria, immerso nella rigogliosa vegetazione delle colline umbre.

quale vescovo del Vicus Martis e, oltre al codice farfense, un’altra fonte manoscritta vaticana della fine dell’XI secolo, la Bibbia di Todi (BAV, Vat. Lat. 10405), riporta un inno e una preghiera in cui il santo è definito Martanensis episcope. Piú fantasiose risultano notizie come quelle che ci portano, per esempio, a Spalato: nella città dalmata, verosimilmente a causa di assonanze e omonimie (Spello, Spalato, Spoleto), alcuni storici locali sono stati indotti a rivendicare il san Felice di Spello, identificandolo con un san Felice di Spalato.

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MARCHE

Città di Castello Arezzo

Da convertito a evangelizzatore

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Montone

Gubbio

TOSCANA

Fabriano Tolentino

Lago Trasimeno

Perugia Assisi Deruta

Spello Foligno

Giano dell’Umbria Todi Orvieto Lago di Bolsena

Amelia Orte

Nocera Umbra

ra

Ne

Campello sul Clitunno

Acquasparta Spoleto

Terni

Norcia Cascia

Cascata delle Marmore

ABRUZZO

Un profilo biografico attendibile si deve al già citato Felice Santini, secondo il quale Felice nacque tra il 241 e il 247 nel Vicus Martis da una famiglia patrizia. L’incontro con la fede cristiana lo spinse a farsi battezzare da Ponziano, vescovo di Todi, e, nel 295 fu a sua volta eletto vescovo del Vicus Martis, iniziando cosí la sua attività di evangelizzazione. Nei primissimi anni del IV secolo pose le fondamenta di un oratorio nei pressi di Giano. A seguito di alcuni editti emanati da Diocleziano nel 304-305, la persecuzione contro i cristiani investí anche il Vicus Martis e il prefetto Tarquinio fece condannare a morte Felice. Le fonti agiografiche narrano in vario modo la passio del santo, che, in ogni caso, si concluse con la sua decapitazione. Il corpo di Felice venne infine trasportato dai suoi fedeli nell’oratorio di Giano, dove, nel V-VI secolo, il vescovo Giovanni di Todi consacrò un altare in suo nome. In realtà, come afferma Santini, tale consacrazione potrebbe aver avuto luogo nel 1032, per iniziativa di un omonimo vescovo tudertino. Ancora nel V secolo la salma del santo fu esumata e ricollocata nell’attuale sarcofago, oggi conservato nella cripta della chiesa abbaziale. La presenza nell’abbazia di Giano dell’antica arca, datata tra il V e il IX secolo, suggerisce che, prima della fondazione dell’abbazia benedettina nel XII secolo, esistesse un piú antico edificio di culto – forse lo stesso fondato da san Felice –, oggetto, nel tempo, di ripetuti rifacimenti e ampliamenti. I primi a risiedervi furono verosimilmente i Benedettini, riuniti in una piccola comunità a partire dal IX-X secolo: a loro si deve, nel XII secolo, la costruzione della chiesa romanica e del convento. Piú certe sono le notizie relative al XIV secolo: si conoscono i nomi di alcuni abati e, soprattutto, sappiamo che nel 1373 papa Gregorio XI assoggettò l’abbazia a quella benedettina di S. Croce di Sassovivo di Foligno. Sconosciute sono invece le ragioni per le quali, nel 1450, i Benedettini furono espulsi, mentre il convento venne affidato inizialmente al capitolo della collegiata di S. Gregorio di Spoleto e poi agli Agostiniani della Congregazione di Perugia, a seguito della bolla di Niccolò V del 29 agosto 1450. Negli anni immediatamente successivi, a causa dello stato di degrado del complesso, il cenobio fu interessato da importanti lavori di ristrutturazione, protrattisi sino al 1481, quando Sisto IV concesse a pieno titolo l’abbazia agli Agostiniani che la mantennero, con alterne vicende, fino al 1790.

Pietralunga

Tevere

Leggende, cronache, tradizioni agiografiche di varia provenienza hanno cosí alimentato le ipotesi piú disparate sulla vita di Felice il cui attributo, piú che ricorrente, di vescovo del Vicus Martis, lascia comunque perplessi, poiché, a oggi, non si conoscono testimonianze che citino Massa Martana come sede di diocesi episcopale.

Narni Rieti

Viterbo Lago di Vico

LAZIO

Scontri con la diocesi per la condotta immorale di alcuni Agostiniani e con il Comune di Giano per ragioni fiscali ebbero come conseguenza l’allontanamento dei monaci, nel 1798, e la successiva acquisizione del complesso, delle sue suppellettili e della biblioteca da parte del Comune di Spoleto. Dopo una breve permanenza dei Padri Passionisti, tra il 1803 e il 1810, questi furono costretti a lasciare il cenobio in seguito alle leggi francesi. L’abbazia poté ritrovare la sua tranquillità all’indomani della concessione del monastero al sacerdote romano Gaspare del Bufalo, che qui fondò la Congregazione del Preziosissimo Sangue, la cui permanenza, interrotta dal 1862 al 1937, dura sino ai nostri giorni.

Indizi convergenti

Tornando alle prime fasi di vita del complesso, la presenza di un edificio di culto paleocristiano eretto nei pressi di Giano per conservare il sarcofago contenente le spoglie di san Felice è indiziata da vari reperti del VII-VIII secolo oggi murati nell’androne di accesso all’abbazia. Lo storico Ludovico Iacobilli (1598-1664) afferma che una chiesa venne edificata

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medioevo nascosto umbria intorno al 950, per poi essere ricostruita – secondo lo storico Gisberto Martelli – in stile romanico, negli anni Trenta del XII secolo. Piuttosto austera nel suo aspetto generale, la chiesa romanica si presenta all’esterno con tetto a capanna; in verità, osservando con attenzione i conci della facciata e la loro diversa colorazione, è ben visibile la presenza di un precedente doppio spiovente, che corrisponde alla tripartizione interna e riconduce allo stile romanicolombardo; la facciata venne modificata nel XVI secolo. Il portale d’accesso è sormontato da una trifora ingentilita da due colonnine, una delle quali tortile e databile al IV-V secolo. La trifora fu in parte nascosta da un balconcino costruito nel XVII secolo, poi rimosso con i restauri del XX secolo (1955-1957). Come il resto della facciata, anche il portale, con strombatura a tre incassature, appare piuttosto sobrio e l’unico elemento decorativo è l’architrave, ornato da elementi fitiformi. La chiesa è divisa in tre navate, di cui la centrale, piuttosto slanciata rispetto alle laterali, ha la volta a botte, mentre le laterali sono coperte da volte a crociera.

Secondo un modello architettonico caratteristico della zona e che ritroviamo, per esempio, in edifici religiosi di Spoleto e Bevagna, colpisce la notevole sopraelevazione del presbiterio rispetto all’aula dei fedeli, a cui si accompagna un altro elemento tipico dell’architettura locale: una bifora posta sopra l’arco trionfale.

Volute appena abbozzate

Accedendo all’area presbiteriale attraverso l’ampia scalinata – nel rifacimento barocco questa era formata da due scale rampanti con, al centro, l’accesso alla cripta – l’ambiente si presenta della stessa larghezza della chiesa e scandito da colonne, due delle quali di spoglio. Nell’insieme, l’aula dei fedeli e il presbiterio manifestano una evidente semplicità architettonico-decorativa, con capitelli di tipo scantonato, caratterizzati da volute appena abbozzate e, in rari casi, decorati da palmette. Tutt’altra atmosfera si respira nella cripta sottostante il presbiterio, il luogo piú santo di tutto l’edificio. Ripristinati, con i restauri del XX secolo, gli accessi originali che dalle navate laterali immettevano all’ambiente

Ritorno all’antico Uno scorcio della navata centrale della chiesa di S. Felice, ripresa dalla

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sommità del presbiterio. L’edificio subí ripetuti rifacimenti e ha recuperato le

forme romaniche originarie con i restauri condotti alla metà del Novecento.

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A sinistra una veduta della navata centrale della chiesa di S. Felice con la scalinata che sale al presbiterio, ripristinata durante i restauri del 1955-1957. In basso sezione longitudinale della chiesa: si possono notare il dislivello del presbiterio rispetto all’aula, e la cripta.

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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ipogeo, quest’ultimo, come l’edificio sovrastante, si articola in tre navate absidate, di cui la centrale tripartita da due file di colonne; l’intero ambiente conta, dunque, otto colonne, due pilastri cruciformi e dieci semicolonne addossate alle pareti. Ma ciò che concorre a dare maggior importanza e sacralità al luogo è la presenza di numerosi elementi decorativi nei capitelli che, pur nella loro rozzezza espressiva, testimoniano della volontà di impreziosire l’ambiente che accoglie il sarcofago con le spoglie di san Felice. I

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capitelli recano innumerevoli raffigurazioni zoomorfe, tra cui quadrupedi e volatili dai contorni non ben identificabili, e due sole immagini che si discostano da questo bestiario immaginario: un orante con le braccia rivolte verso l’altro – tema iconografico molto diffuso nell’architettura dell’epoca –, e una croce astata. Nell’abside centrale, dietro l’altare, è collocato il già citato sarcofago del santo, in travertino, con copertura a spiovente, sostenuto da cinque colonnette. Anche qui ritornano decorazioni zoomorfe con la presenza di ottobre

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In alto un capitello della cripta di S. Felice decorato con la figura di un volatile bipede non meglio identificabile. A sinistra il sarcofago di san Felice, posto nella zona tra l’altare e l’abside della cripta.

due volatili, posti ai lati, non dissimili da quelli che ritroviamo nei capitelli. Il sarcofago presenta anche cornici geometriche, con al centro una tabula ansata anepigrafe, mentre una iscrizione, oggi quasi illeggibile, corre nel displuvio del coperchio.

I momenti chiave

Il complesso abbaziale sorto attorno alla chiesa si è andato espandendo nei secoli, cosí da poter distinguere, come nota Felice Santini, tre fasi principali:

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Al centro della cassa, si vede la tabula ansata, al cui interno non fu però incisa alcuna iscrizione. In basso veduta frontale della navata centrale della cripta, con l’altare.

benedettina, agostiniana e complementare. Nel corso della prima, collocabile nel XII secolo, i Benedettini fecero costruire sul versante sud (la facciata della chiesa è, come da tradizione, rivolta verso ovest) la prima struttura del complesso, a forma di «U», mentre alla fase agostiniana risalgono vari ampliamenti, come la costruzione del primo e secondo loggiato del chiostro (1516), della torre campanaria (1544) del refettorio (1553); nel XVIII secolo, gli stessi Agostiniani ampliarono l’ala nord del complesso. Agli anni Venti

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Il dossale di san Felice

Vita e morte del martire, quasi un «fotoromanzo» Tra le suppellettili superstiti appartenute alla chiesa abbaziale di S. Felice, vi è un interessante dossale ligneo del XIII secolo, ora conservato a Perugia, nella Galleria Nazionale dell’Umbria, che ricopriva in origine il lato frontale dell’altare. Il dossale, che ripercorre

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le tappe del martirio di san Felice, è organizzato su tre registri narrativi. In posizione dominante, al centro della composizione, è collocato, in una mandorla, il Cristo in trono e, sotto di lui, il simbolo dell’agnello pasquale circondato da quelli dei quattro evangelisti.

Nel registro superiore vi sono gli arcangeli Michele e Gabriele e un gruppo di apostoli; in quello centrale compaiono dieci profeti con i relativi cartigli, mentre nel registro inferiore è rappresentata la passio di Felice secondo la leggenda spoletina che, a differenza del codice farfense, ottobre

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A sinistra veduta integrale del dossale di san Felice. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. In alto Giano dell’Umbria, Spoleto, chiesa di S. Felice.

include anche la fustigazione e l’immersione nell’olio bollente. La descrizione si sviluppa senza soluzione di continuità, da sinistra verso destra, e inizia con l’interrogazione del santo, la fustigazione, l’immersione nell’olio bollente, la collocazione sulla graticola ardente, infine la decapitazione.

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Particolare di un affresco del XVI secolo raffigurante la Crocifissione, recuperato con i restauri del 1955-1957 nella navata laterale sinistra.

del secolo scorso risale la terza fase, con un ampliamento voluto dal Comune di Giano per ospitare la propria Azienda agricola di S. Felice. Interessante è il chiostro del XIV secolo (al piano terra), che nelle lunette accoglie affreschi che ritraggono la vita e la passione di san Felice, opera dell’agostiniano Giuseppe Maria Franciosi d’Antrodoco, presente nell’abbazia dal 1665. Altri affreschi, databili al XVIII secolo e dedicati alla passione e alla glorificazione del santo, si trovano nelle volte del «Cappellone», che originariamente costituiva la sagrestia. Come già ricordato, negli anni Cinquanta del XX secolo, l’abbazia è stata oggetto di interventi che ne hanno modificato l’aspetto. Tra il Sei e il Settecento, infatti, assecondando i gusti estetici dell’epoca, i severi ambienti della chiesa e della cripta erano stati ricoperti di stucchi, decorazioni a finto marmo e affrescati, stravolgendo l’antica austerità delle forme romaniche. Tutte le sovrapposizioni barocche furono dunque rimosse nel corso dei restauri effettuati tra il 1955 e il 1957, venne ripristinato lo scalone di accesso al presbiterio e la chiesa e la cripta furono riportate al loro splendore originario. F

Da leggere Felice Santini, L’abbazia di S. Felice presso il Castello di Giano, Congregazione del Preziosissimo Sangue, Roma 1999

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CALEIDO SCOPIO

Storie, uomini e sapori

Un mare di salse D

al disfacimento dell’impero romano si salvò il commercio delle spezie. Grandi consumatori ne furono, dal V all’VIII secolo, i Merovingi di Francia, che ricevevano a Marsiglia grosse partite importate da mercanti ebrei e siriaci. Anche i Bizantini amavano molto le salse drogate e ne utilizzavano soprattutto una verde che serviva ad accompagnare legumi, verdure e carne bollita. Sui piatti di pesce la cucina bizantina aggiungeva un intingolo di garon (greco per garum, la salsa a base di pesce, n.d.r.), aglio, olive, capperi, senape, pepe, noce moscata e cannella. Salse e condimenti simili si ritrovano nelle cucine cremonese e veneta, che si ispirano ancora agli insegnamenti da Bisanzio. In Italia, dai tempi di Alboino († 572) fino all’VIII secolo, la potenza egemone fu quella dei Longobardi. Ai loro re e duchi pagavano gabella gli abitanti di Comacchio, centro bizantino di smistamento

delle spezie e, soprattutto, del pepe, che giungeva in Adriatico dalle rotte orientali per essere poi venduto nell’entroterra. Nel IX secolo Venezia tolse con la forza delle armi a Comacchio la prerogativa del commercio del pepe con i padani e il mercato principale di pigmenta (da cui il nome pimiento dato dagli Spagnoli nel XVI secolo al vigoroso pepe usato nelle salse ispano-americane) divenne Pavia.

L’egemonia araba Nel corso del Medioevo buona parte del trasporto marittimo delle spezie dall’Oriente ai porti italiani, provenzali e spagnoli era gestito dagli Arabi, che tenevano in grande considerazione i piaceri della tavola

e caratterizzavano i loro piatti e intingoli con un uso massiccio di spezie e droghe, soprattutto zenzero, noce moscata, cannella, chiodi di garofano, canfora e, ovviamente, pepe nero. Molte di queste pietanze e salse entrarono largamente nelle abitudini culinarie delle popolazioni mediterranee – Spagna e Sicilia in primis –, che, per ragioni geografiche e storiche, erano piú esposte alla penetrazione islamica. Ancora oggi la «Salsa Kofta» (cipolle, aglio, zenzero, coriandolo, cumino, nocciole e pepe) con cui l’emiro di Palermo accompagnava le polpette di montone, viene servita nel Mezzogiorno iberico con qualche variazione e l’aggiunta di pomodoro e peperone. Dopo gli Arabi calarono nel bacino mediterraneo i Normanni, invasori nordici convertiti al cristianesimo e francesizzati, le cui cucine si arricchirono di numerosi arabismi adattati ai gusti occidentali, conservando sia la predilezione per gli arrosti germanici, sia la dedizione latina ai cereali, ai legumi e alle verdure. Di questo sincretismo gastronomico si trova ampia traccia sia nei piú antichi ricettari inglesi, sia nel celebre Liber de coquina, redatto nell’ambito della corte dell’imperatore Federico II. Il commercio e l’uso delle droghe ebbero nuovo impulso con le Miniatura raffigurante un mercante di noce moscata, dal De Materia Medica di Dioscoride. XV sec. Modena, Biblioteca Estense.

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crociate, quando si aprirono lungo la costa libanese, palestinese e siriana, molti fondachi commerciali gestiti dalle maggiori potenze europee. Insieme alla seta, le spezie divennero il principale oggetto dei lucrosi traffici tra Oriente ed Europa.

Nasce l’arte culinaria Il XIII ed il XIV secolo segnarono quel vivace sviluppo dell’arte culinaria che culminò piú tardi nei pranzi rinascimentali e nei banchetti del Seicento e Settecento francese e veneziano. Il Trecento ci ha regalato preziosi e ponderosi ricettari di cucina in cui si ripeteva agli amanti della buona tavola come monotono ritornello la raccomandazione di «usare spetie in bona quantitade». La corte ferrarese degli Estensi, quella pontificia di Avignone e quella parigina di Carlo VI di Francia erano, allora, le capitali del lusso, delle stranezze e della vitalità dell’arte culinaria. Messer Azzo Novello d’Este, signore di Ferrara, qualificava le salse «lusso e piacere della tavola» ed egli stesso, si narra, aizzava i cucinieri di palazzo a inventarne sempre di nuove, contribuendo cosí a rendere proverbiale in Italia e in Europa – fino alla seconda metà del XVII secolo – la prodiga raffinatezza conviviale degli Estensi. La conoscenza delle qualità terapeutiche delle spezie in Italia e in Francia spinse molti potenti del Medioevo a chiamare nelle loro cucine personaggi estremamente competenti in materia, molti dei quali si erano formati sul Regimen Sanitatis Salernitanum, un trattato a carattere didattico-didascalico in versi latini redatto nell’ambito della Scuola Medica Salernitana nel XIIXIII secolo e conosciuto anche come Flos Medicinae Salerni. Ciò spiega

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perché, nel 1305, il magister cochorum di papa Clemente V fu il grande medico ed alchimista Armand de Villeneuve, paladino delle salse a base di brodi di carne ristretti; a lui si deve l’introduzione dell’uso di servire il bollito di carni secondo stagione: in estate con una salsa a base di verjus (succo di uva acerba), pampini di vite, succo di limone e di melograno, zucchero, aceto e acqua di rose, e, in inverno, con una poivrade realizzata con un battuto

Il commercio delle spezie nelle Molucche, una delle mappe disegnate di Guillaume Le Testu per la sua Cosmographie universelle. 1556. Vincennes, Service historique de la Défense, Bibliothèque. alla preparazione delle salse», ruolo in cui si distinse su tutti il grande Guillaume Tirel (alias Taillevent), che, scrivendo il suo Viandier, gettò le basi della grande tradizione delle salse francesi – fondate sui due pilastri della besciamella e della maionese, legate rispettivamente con farina e con olio – che rappresentano oggi il piú ricco e raffinato repertorio di salse del mondo.

Un virtuoso degli intingoli

di ruchetta, prezzemolo, zenzero, aglio, salvia, menta, pepe, cannella, garofano e mostarda, legati con vino cotto, aceto e sugo grasso di carne. Nello stesso periodo, anche alla corte parigina il capo delle cucine era un medico e speziale, tale Aldobrandino da Firenze che, tra l’altro, creò una particolare salsa verde per le anguille e una salsa agrodolce per la cacciagione. A lui si deve l’istituzione della carica di «capo sovraintendente alla distribuzione delle spezie ed

Tra i suoi intingoli di maggior successo vi sono una salsa verde che assomiglia molto sia a quella dei nostri giorni, sia a certe salse di Apicio e Catone, nonché una salsa per accompagnare il pesce nella quale entra abbondantemente lo zafferano, come ancora oggi si usa in molte zone dell’Europa meridionale. Tra le salse «bollite» di Taillevent primeggiavano la «salsa al pepe nero», la «salsa al pepe giallo» e tutta una serie di salse al latte, all’aglio, allo zenzero e al vino cotto. Nella ricca Toscana, intanto, venditori ambulanti giravano di casa in casa, per vendere pepe, noce moscata, cannella e chiodi di garofano per le salse. Fu quello il tempo nel quale ebbe inizio la fioritura delle tradizionali osterie in cui oltre al vino si servivano «lenticchie condite con salsa d’ova battute, cacio grattugiato, cipolle, spetie, amido e aceto» e dove veniva servito brodetto di pesce con l’aggiunta di una «salsa di mandorle mondate, pepe, zafferano ed altre specie elette, ben trite e stemperate con vino ed aceto». Sergio G. Grasso

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UN ANTROPOLOGO NEL

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Il paradiso perduto

I

l 12 ottobre del 1492 Cristoforo Colombo sbarcò con le sue caravelle su un’isola dell’arcipelago delle Bahamas, che chiamò San Salvador e ne incontrò gli abitanti. Cominciò allora un lento e difficoltoso processo di riconoscimento reciproco: gli Spagnoli vestiti, i Taino nudi, gli uni avevano la polvere da sparo, gli altri quella d’oro, gli invasori avevano le armature, mentre i Taino non conoscevano il ferro, né le spade e quando Colombo gliele mostrò, uno di loro ne afferrò una per la lama e si tagliò. Dopo essersi vicendevolmente osservati e studiati, questi due gruppi umani, cosí diversi tra loro, diedero inizio a una sorta di «demonizzazione» reciproca, che finí con il fare dell’altro il nemico per eccellenza: un demonio per gli occidentali e una sorta di falsa divinità per gli indigeni. Quando gli Europei videro per la prima volta il

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In alto La prima Messa in America, dipinto di Henri-Pierre-Léon Pharamond Blanchard. 1850. Digione, Musée des Beaux-Arts. Nella pagina accanto statuetta in pietra raffigurante uno zemi seduto. Cultura Taino. Santo Domingo, Museo del Hombre Dominicano. I Taino definivano zemi (o cemí) sia le loro divinità, sia il principio spirituale di tutto ciò che è vivente. Nuovo Mondo, ne restarono estasiati: vegetazione lussureggiante, acque abbondanti, animali variopinti e esseri umani gentili. Lo stesso Colombo scrisse: «Vanno tutti nudi come la madre li partorí, comprese le donne (…) sono tutti assai ben fatti, bellissimi di corpo e di graziosa fisionomia. Hanno capelli grossi quasi come i crini della coda dei cavalli, corti e cadenti sulle ciglia, salvo qualche ciuffo che gettano indietro e conservano lungo senza mai accorciarlo. Taluni si tingono di grigio (…) altri di bianco o di rosso o d’altro colore; taluni si ottobre

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dipingono la faccia, altri tutto il corpo, o solo gli occhi, o solo il naso (…) Non portano armi, e nemmeno le conoscono». Soprattutto, li descrisse come esseri miti che parlavano una lingua dolcissima, che il frate «traduttore» Roman Pané tentava di comprendere. D’altro canto, purtroppo, gli abitanti delle isole non hanno lasciato documenti: perché non avevano una scrittura e perché non fecero in tempo a trasmetterci alcuna testimonianza, neanche attraverso fonti indirette. Sappiamo però che la loro principale categoria religiosa era il cemí o zemi, termini con i quali indicavano sia le loro divinità sia il principio spirituale di tutto ciò che è vivente. E appunto a un cemí, a una divinità, equipararono l’uomo dalla bianca pelle venuto da un altro mondo su di una gigantesca capanna galleggiante. La sua stessa brama d’oro, che Colombo chiedeva instancabilmente a chiunque gli capitasse a tiro, era la caratteristica principale dei loro dèi, esigenti esattori di offerte. D’altronde questo metallo aveva una forte connotazione sacra, al punto che gli indios antillani osservavano una rigorosa astinenza sessuale per tutto il periodo dedicato alla sua estrazione.

Ribattezzare per possedere Colombo e tutti i conquistadores, nel tempo, rinominarono tutto ciò che vedevano, in un processo che possiamo definire di interpretatio ispanica: «Alla prima da me incontrata ho dato il nome di San Salvador, in onore dell’Alta Maestà (…) la seconda l’ho chiamata Santa Maria de la Concepciòn, la terza Fernandina, la quarta Isabela e la quinta Juana». Colombo sapeva che ogni isola aveva un suo nome, ma non (glie)lo riconosceva: doveva ribattezzarle tutte, come un novello Adamo, per poterle percepire, per poterle fare sue concettualmente. La sua furia nominatrice era tale che l’11 gennaio 1493 «navigò verso est, verso un capo che chiamò “Bel Prado”, a quattro leghe di distanza. Da qui verso sud-est c’è una montagna che chiamò “Monte de Plata”». Non contento, a volte diede due nomi diversi allo stesso luogo, come il 6 dicembre dell’anno precedente, quando un porto battezzato «Maria» all’alba, al tramonto era già diventato «San Nicolàs». Come in un gioco di specchi, anche gli indios tentavano di assimilare velocemente Ondas. Martín ciò Codax, che era diverso da loro, soprattutto in campo religioso: Cantigas de Amigo la Vivabiancaluna molteplicità deiBiffi, santi cristiani ben Pierre Hamon si Arcana poteva (A390), adattare1alle CD diverse figure diwww.outhere-music.com zemi che adoravano. Ovviamente, nessuna delle due parti in gioco comprese questi meccanismi reciproci: Bartolomeo (fratello di Cristoforo) puní

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con la pena capitale l’uso indio di seppellire immagini di santi cattolici negli orti dove si era urinato. Quello che per lui era un sacrilegio per gli indios invece era un sacro rito di fertilità che consacrava le immagini cattoliche al piú alto grado del loro pantheon. Gli stessi piccoli furti commessi ai danni dei marinai europei – puniti con il taglio delle orecchie – non erano altro che un impossessarsi di un oggetto «santo» che avrebbe portato bene e fertilità, al pari di una qualsiasi reliquia cristiana.

Un mutamento repentino Come già accennato, questo meccanismo speculare era destinato a involversi, fino a diventare odio reciproco. Nel giro di pochi mesi, gli dèi con i piedi d’argilla crollarono e già Ramon Pané, nel 1496, registra nella sua Relazione la credenza indigena che gli Spagnoli fossero i distruttori annunciati dalle locali profezie. Ma che cosa aveva portato a questi repentini cambiamenti? L’impresa colombiana non sembrava dare i frutti sperati e i costi per la corona erano troppo alti, cosí Colombo dovette accelerare i piani per l’imposizione dei tributi, per far quadrare i bilanci. I rapporti tra le due etnie si inasprirono, al punto che l’Ammiraglio, di ritorno dal viaggio in Giamaica e Cuba, decise di sedare con una vera e propria guerra i malumori e la ribellione dei Taino. Guerra che ebbe come risultato finale non solo il massacro di numerosi indios, ma anche l’imposizione pro capite ai superstiti maggiori di quattordici anni di un recipiente colmo di polvere d’oro ogni tre mesi. Tuttavia, da sempre, la prima regola per schiacciare l’altro, renderlo schiavo o ucciderlo, è quella di levargli l’umanità, relegandolo a livello di una belva o, peggio, di un demone. Cosí, nella Historia General di Gonzalo Fernández de Oviedo, leggeremo che non solo «Dio li avrebbe dovuti castigare e quasi distruggere in queste isole, essendo tanto viziosi e perché facevano sacrifici al diavolo e riti e cerimonie», ma che certamente «Dio li sterminerà assai presto». Parole profetiche, che, probabilmente, avrebbero proferito anche tutte le etnie americane, se gli Europei gliene avessero dato il tempo. Per quanto terribile e mostruosa possa sembrare, anche questa è una prova dell’unità antropologica e culturale della famiglia umana, che si sposta, vive e soffre, assecondando le stesse esigenze e gli stessi bisogni. Una unità che, tuttavia, non basta per progredire verso una libera, pacifica e solidale convivenza. Claudio Corvino

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Lo scaffale Daniela Mondini San Lorenzo fuori le mura Storia del complesso monumentale nel Medioevo Viella, Roma, 216 pp.,

con fascicolo ft contenente

196 ill. b/n, 27 tavv. col.

45,00 euro ISBN 978-88-6728-571-6 www.viella.it

Roma è uno dei piú straordinari osservatori sullo sviluppo urbanistico di una città. Se l’epoca imperiale e, molto piú tardi, quella rinascimentale-barocca costituiscono le fasi che maggiormente hanno condizionato, trasformandolo, il panorama urbano dell’Urbe, le presenze medievali risultano piú sacrificate e, spesso, isolate dal contesto architettonico che le circonda. Ciononostante, alcuni superbi esempi pervenutici – principalmente nel campo dell’edilizia religiosa – offrono una ricca mole di dati e informazioni. Ne è un esempio l’oggetto di questo volume, la basilica di S. Lorenzo fuori le Mura, uno dei complessi monumentali piú ricchi della Roma medievale. Una basilica che si presenta, oggi, come un vero e proprio

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palinsesto, nel quale le tracce delle radicali trasformazioni architettoniche e decorative subite nei secoli rivelano una storia complessa, di cui sono protagonisti papi, committenti illustri e, con loro, le varie tendenze artistiche succedutesi nei secoli. Come si evince dallo studio di Daniela Mondini, particolarmente complessa è stata l’evoluzione di questa basilica, che ospita le reliquie dei martiri Lorenzo e Stefano, e che, in origine – nel VI secolo, al tempo di papa Pelagio II (570-590) –, era orientata verso occidente, a ridosso del colle Verano. Tra il 1194 e il 1254 avvengono le trasformazioni piú importanti. Durante il pontificato di Onorio III viene cambiato l’orientamento, con l’aggiunta di un’ampia navata che porta al raddoppio della chiesa primitiva e il conseguente riadattamento dell’edificio pelagiano in transetto della nuova basilica onoriana. Al XIII secolo risale anche la costruzione del monumentale portico. Nei secoli successivi, vengono effettuati

altri interventi, meno drastici, sino ad arrivare ai restauri ottocenteschi di Virginio Vespignani e Giovanni Battista De Rossi operati principalmente nel settore «pelagiano». Ultimo capitolo, il piú tragico nella storia del complesso, è quello costituito dal disastroso bombardamento del 1943 che ha provocato la distruzione del portico,

quella interna, con i suoi arredi, la cripta, i vari sepolcri, sino ad arrivare al complesso conventuale annesso, fornendo un quadro dettagliato delle singole fasi storiche. Il volume è corredato da un ricco apparato iconografico, formato da foto d’archivio, mappe e disegni. Franco Bruni Antonella Fiorentino Il commercio delle pelli lavorate nel basso Medioevo Risultati dall’Archivio Datini di Prato Firenze, Firenze University Press, 136 pp.

16,90 euro ISBN 978-88-6655-909-2 www.fupress.com

del cleristorio, del tetto e dell’intero pavimento della basilica onoriana, successivamente restaurati da Richard Krautheimer e Wolfgang Frankl. Appassionante è la narrazione dell’autrice, che traccia con dovizia di particolari, ma senza appesantimenti, la storia del complesso, analizzato in tutti i suoi aspetti, a partire della struttura esterna, passando a

L’Archivio Datini è una fonte inesauribile, che non cessa mai di stupirci e i risultati di questa ricerca sul commercio delle pelli lavorate ne ribadiscono le enormi potenzialità. Le indagini dell’autrice hanno consentito di ricostruire, partendo dall’osservatorio privilegiato della Avignone di fine Trecento, tutte le fasi di commercializzazione e lavorazione delle pelli, dal reperimento delle materie prime e di quelle accessorie alla realizzazione di prodotti finiti di ogni genere, al loro collocamento

sul mercato. Sono stati individuati i mercati di produzione delle pelli grezze immediatamente dopo il macello degli animali, quelli dei semilavorati, le vie terrestri e marittime del commercio, e i costi precisi di ognuna di queste fasi. Ne emerge l’immagine di un flusso continuo di pelli provenienti da tutto il Mediterraneo e con destinazioni principali i porti di Genova (e quindi l’area lombarda) e di Pisa (ovvero il distretto toscano, particolarmente qualificato per la concia). Al termine del processo di lavorazione, i prodotti finiti riprendevano, in genere, la via inversa, e sempre attraverso la mediazione di aziende del sistema Datini, venivano riesportate e collocate dove le materie prime erano state acquistate: la Catalogna, l’isola di Maiorca, la Provenza (di cui ottobre

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analogo e frutto di seminari organizzati dall’Università di Cagliari, affronta un argomento molto dibattuto negli ultimi anni: quello dell’ascesa, discesa e chiusura sociale, nell’Italia dei secoli XII-XV, sia a livello dei singoli individui, sia di interi settori della società. Nella fase ascendente di questo processo rivestirono un ruolo determinante le conoscenze, sia tecniche che intellettuali, che rappresentano appunto il fulcro del volume, articolato in quattro sezioni: tecnici, maestranze e mondo del lavoro; ceti urbani e poteri regi nell’Italia catalano-aragonese; uomini del diritto e della diplomazia; stranieri in Italia e italiani all’estero. Vengono cosí presi in esame il mondo Lorenzo Tanzini del lavoro urbano e Sergio Tognetti e rurale nell’Italia (a cura di) centro-settentrionale; La mobilità sociale il rapporto tra i ceti nel Medioevo cittadini e il potere italiano regio e le forme di Competenze, mobilità individuale conoscenze e saperi nel meridione; le tra professioni e ruoli strategie di ascesa sociali (secc. XII-XV) Ondas. Roma , Viella,Martín 2016, Codax, sociale all’interno Cantigas de Amigo del notariato e delle 460 pp. 44,00 euro Vivabiancaluna Biffi, Pierre Hamon giuridiche, professioni ISBN 9788867285976 Arcana (A390), 1 CD della mercatura e www .viella.it www.outhere-music.com della diplomazia; i Il volume, primo di una percorsi ascendenti serie di argomento o discendenti dei Avignone costituiva il maggior sbocco). Uno dei risultati piú sorprendenti è appunto l’iter delle pelli ovine catalane o provenzali, trasformate nell’area fiorentina nei piú diversi prodotti per l’abbigliamento, la selleria o l’armamento, per poi riprendere il mare e tornare sui mercati spagnoli o provenzali da cui la materia prima era partita. Le botteghe Datini di Avignone, al centro di una rete commerciale che univa la Penisola Iberica con quella italiana, mediante la loro corrispondenza con le altre sedi dell’universo datiniano rappresentano la chiave di accesso all’analisi strutturale, quantitativa e qualitativa di questo commercio. Maria Paola Zanoboni

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mercanti catalani in Sardegna, di quelli italiani in Andalusia, dei Tedeschi a Firenze e le strategie di promozione sociale degli uomini d’affari toscani attraverso l’acquisto di opere da artisti fiamminghi. Dal complesso degli studi emerge una notevole difficoltà di ascesa sociale, dal Trecento in poi, al di fuori del ceto di appartenenza, piú marcata in quelle città – come Firenze – nelle quali il potere politico

esempio nella Milano quattrocentesca). Nell’ambito invece delle professioni, quella del notaio in particolare si rivela un caleidoscopio ad «alta potenzialità sociale», perché poteva aspirare a ricoprire vari ruoli, in patria e all’estero. Soprattutto nel Trecento andò affievolendosi il suo ruolo politico, mentre aumentarono le sue possibilità lavorative, parallelamente alla specializzazione richiesta dalle

era ancora di stampo comunale-corporativo, e dove i ricchi imprenditori tessili al governo tendevano a negare nuovi spazi di affermazione agli individui di livello anche di poco inferiore al loro. Fanno i mestieri legati all’artigianato del lusso, i cui artefici furono protagonisti di strabilianti carriere (per

sempre piú sofisticate istituzioni economiche e della burocrazia pubblica. Le reti di conoscenze acquisite con l’attività rendevano inoltre il notariato un trampolino di lancio verso occupazioni piú remunerative. Dagli studi sull’area catalano-aragonese emerge una notevole differenza tra un centro e l’altro nelle

dinamiche della mobilità sociale, dovuta alla diversa percezione a livello locale del rapporto col potere centrale e con la monarchia: dove maggiore era la distanza (L’Aquila, Cagliari, città siciliane), maggiore era la possibilità di affermazione e di ascesa degli imprenditori locali. Viceversa, la prossimità del potere regio (Napoli) aveva come conseguenza il forte influsso dei legami con la corte come condizione indispensabile per un’ascesa patrimoniale e sociale. Un caso particolare è costituito dalla promozione culturale e sociale vicendevole provocata nella seconda metà del XV secolo, dall’affermarsi della moda del ritratto, una moda che sembrerebbe aver instaurato legami profondi tra artisti e committenti, con la conseguente promozione reciproca. I pittori fiamminghi, infatti, venivano in qualche modo nobilitati dalle committenze altolocate di mercanti-banchieri spesso in contatto con la corte; questi ultimi, a loro volta, aumentavano il

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Lo scaffale prestigio del proprio lignaggio di fronte ai loro concittadini mediante il ritratto alla moda fiamminga o borgognona. Nel complesso, emerge il ruolo fondamentale delle reti di relazione con i vertici del potere nel determinare l’ascesa sociale ed economica dei singoli individui. M. P. Z. Monika Antes Giovanni Boccaccio e le donne

Fiammetta, il Decamerone e il Corbaccio. La trattazione si dipana con ritmo vivace e linguaggio brillante, rendendo la lettura assai gradevole e ricca di spunti di grande interesse. Antes utilizza episodi diversi, sottolineando – al di là delle considerazioni di carattere letterario – le implicazioni dei testi, che, per esempio, possono essere utilmente lette anche

Mauro Pagliai Editore, Firenze, 104 pp.

10,00 euro ISBN 978-88-564-0327-5 www.leonardolibri.com

Lo studio di Monika Antes punta a dimostrare la superficialità dei giudizi che, nel tempo, hanno attibuito la fama di autore licenzioso, quando non addirittura osceno, a Giovanni Boccaccio. Per farlo, la studiosa propone una trattazione articolata in tre parti principali: nella prima viene velocemente tratteggiato il contesto sociale in cui il poeta visse e nel quale ambientò le sue opere; nella seconda, se ne ripercorre la vicenda biografica; nella terza, infine, si passa all’analisi di brani tratti da tre componimenti, l’Elegia di madonna

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la specularità fra l’Elegia di madonna Fiammetta e il Corbaccio, opere che ruotano entrambe intorno a una pena d’amore, vissuta nel primo caso da una donna e nel secondo da un uomo. Nell'Appendice, viene quindi proposta una bibliografia delle opere del poeta, con brevi commenti. Stefano Mammini Giuliano Briganti La riconquista dell’Olimpo nel Rinascimento italiano

Skira editore, GinevraMilano, 76 pp.

10,00 euro ISBN 978-88-572-2540-1 www.skira.net

in chiave psicologica o perfino psicanalitica. Un’operazione che ci consegna un Giovanni Boccaccio nell’inedita veste di «classificatore»... inconsapevole, dal momento che, per esempio, l’autrice ritiene di potergli attribuire – nel Decamerone – la definizione di quattro tipi ben precisi di donna: sottomessa, impertinente, intelligente ed eroica e sovrumana. Cosí come sottolinea

Il 17 novembre 1992, Giuliano Briganti (1918-1992), uno dei piú autorevoli storici dell’arte italiani, fu invitato a tenere una conferenza all’Accademia di Spagna di Roma, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico

dell’istituto. Lo studioso scelse come tema «La Riconquista dell’Olimpo nel secolo XV in Italia» e il suo testo, per chi non aveva avuto l’opportunità di presenziare all’evento, rimase inedito fino al 1995, quando venne pubblicato, ma in soli 600 esemplari. La possibilità di conoscerlo viene ora offerta dall’editore Skira, che lo ha inserito nella collana MiniSaggi. Un’iniziativa lodevole, sia per il fascino del tema trattato, sia per il valore di testimonianza dell’acutezza con cui Briganti era solito affrontare i temi di volta in volta prescelti. Una sorta di vera e propria lezione, dunque, che nella presente edizione viene integrata dalle considerazioni di Emanuele Pellegrini. S. M.

PER I PIÚ PICCOLI Arianna Capiotto, Elena Sala, illustrazioni

Luca Tagliafico Un re venuto dal Nord di

I CercaStoria, Ante Quem, Bologna, 48 pp. ill. col.

9,50 euro ISBN 978-88-7849-099-4 www.antequem.it

Due ragazzini esuberanti e curiosi, Miriam e Adam, una mamma restauratrice, Cecilia, e poi un misterioso antenato, Lord Ossius… Sono questi i personaggi principali della vicenda raccontata in questo nuovo titolo della serie dei CercaStoria. Grazie al Saltacronos, un amuleto dai poteri magici, Miriam e Adam vengono catapultati all’indietro nel tempo, fino all’epoca dei Vichinghi: un prodigio

che permette loro (e di conseguenza ai piccoli lettori del libro) di conoscere «in diretta» gli usi e i costumi di questa antica popolazione, che tanta parte ha avuto nelle vicende dell’Europa medievale. A corollario del racconto, è inserita anche una scheda del pezzo degli scacchi (databile fra il XII e il XIII secolo) che ne è uno degli elementi essenziali. S. M. ottobre

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Alla corte dello Svevo MUSICA • Michael Popp e l’ensemble

Estampie rievocano le sonorità che dovettero allietare Federico II e del quale egli stesso fu promotore. L’imperatore, infatti, fu anche un grande mecenate e volle intorno a sé i migliori ingegni del suo tempo, compresi quelli di compositori e musicisti

D

edicato all’ambiente musicale della corte palermitana di Federico II, questo Amor Lontano offre una straordinaria silloge della sofisticata e ricca produzione che andò sviluppandosi attorno alla figura dello Svevo. Poliglotta, autore di versi e del celebre trattato sulla falconeria De Arte Venandi, nonché grande promotore della scuola poetica siciliana, lo stupor mundi si circondò dei piú grandi letterati, scienziati e artisti del tempo, di provenienza araba, ebraica, normanna, germanica e siciliana. A questo singolare ambiente internazionale e multiculturale si è ispirato Michael Popp, direttore dell’ensemble Estampie, proponendo musiche del XIII secolo di derivazione siciliana, provenzale e araba. Sono questi, infatti, i principali filoni lirico-musicali che hanno allietato la corte federiciana e che, inevitabilmente, hanno finito con l’influenzarsi reciprocamente.

Repertori a confronto Nell’accostare i repertori occidentali a quelli arabi, Popp compie un’ulteriore operazione di fusione dei due generi: brani che iniziano nella loro versione «occidentale» e che, senza soluzione di continuità, si trasformano in brani arabeggianti con testi, evidentemente, tratti

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dalla letteratura araba in voga presso la corte palermitana. Una contaminazione, questa, che se può lasciare a un primo impatto interdetti, trova una sua ragione di essere proprio alla luce della poliediricità culturale della corte di Federico II.

Trovatori illustri Tra i compositori noti, proposti nell’antologia, figurano Thibaut IV, conte di Champagne, che fu anche un esponente importante della musica trobadorica, e Falquet de Romans, un altro celebre trovatore, di cui è nota la permanenza presso la corte federiciana. Accanto a loro, abbiamo anche un testo musicato con versi dello stesso Federico II, Dolze la morte, e due brani tratti dal Laudario di Cortona dedicati alla figura di san Francesco. Tra i poeti della celebre scuola siciliana vi è Giovanni da Lentini, con il brano che dà il titolo alla raccolta. A questi nomi, si intercalano le musiche, spesso anonime, di letterati arabo-siculi come Ibn Hamdis, Ali Al-Billanûbî, Ibn Arabi, nelle cui liriche abbondano le tematiche dell’amore cortese tanto care alla scuola poetica siciliana e alla letteratura trobadorica.

Amor lontano Estampie, GLM (FM 215), 1 CD www.glm.de Brillante risulta la resa musicale di queste liriche, rivestite da Michael Popp e dall’ensemble Estampie con le sonorità tipiche delle differenti tradizioni musicali: ai classici strumenti occidentali, vengono contrapposti e/o combinati quelli della tradizione orientale: l’oud (liuto arabo), cosí come strumenti d’origine turca, tra cui il saz (chitarra saracena), e l’iklig (cordofono), di origine iraniana, come il santur (famiglia delle cetre), e quelli d’origine indiana, come il sitar e il dilruba. Il tutto genera una fantasmagoria di sonorità e colori che si avvale, in questo progetto, della collaborazione di alcuni validissimi strumentisti arabi. A loro si accompagnano le voci di Sigrid Hausen, Sarah M. Newman e quelle della cantante marocchina Iman Kandoussi, capace di trasportarci perfettamente in questa dimensione arabeggiante. Franco Bruni ottobre

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Armonie papali MUSICA • Eletto papa a poco meno di quarant’anni, Leone X nutrí una profonda

passione per la musica, cimentandosi anche come compositore. Ma, soprattutto, chiamò a Roma i piú celebri maestri attivi fra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento: un’esperienza che il gruppo La Morra ha voluto rivivere confezionando un’antologia ricca e variegata

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eone X, al secolo Giovanni de’ Medici (1475-1521), fu il secondogenito di Lorenzo il Magnifico e, come tale, destinato sin dalla giovane età alla carriera ecclesiastica. Nel 1492 si trasferí a Roma, dove iniziò la scalata al soglio pontificio, coronata con l’elezione a papa, a 38 anni, nel marzo del 1513. A lui è dedicata l’antologia The Lion’s Ear, un tributo musicale che raccoglie quanto di meglio si è prodotto tra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del secolo successivo, tenendo conto dell’entourage artistico del papa mediceo. La raccolta testimonia, tra l’altro, la particolare passione che Leone X nutrí per la musica, essendo egli stesso musicista e compositore.

a servizio di Lorenzo il Magnifico e si trovò a stretto contatto con il futuro Leone X. Due i mottetti firmati dal grande fiammingo, tra cui il celebre Fortuna disperata/Sancte Petre, composto su un noto brano di autore anonimo, Fortuna Desperata – anch’esso inserito nella tracklist dell’antologia –, che ebbe grande diffusione nel Quattrocento.

Note sacre e profane Molte testimonianze dell’epoca ci descrivono delle attività in cui fu coinvolto. Innanzitutto, il legame profondo con la musica liturgica, eseguita dalla cappella papale, alla quale faceva seguito una diffusa pratica in ambito profano con musiche strumentali e vocali che – raccontano le cronache – erano eseguite nel corso di banchetti in presenza della corte pontificia. Tra i numerosi protagonisti della seconda metà del XV secolo che costellano questa silloge «medicea» non poteva mancare il grande Heinrich Isaac che, tra l’altro, lavorò

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The Lion’s Ear La Morra, Ramée (RAM 1403), 1 CD www.outhere-music.com Tra i franco-fiamminghi attivi in Italia nel Quattrocento e di cui le cronache testimoniano il legame con il pontefice, vi è Josquin Desprèz, del quale si può ascoltare il magnifico Salve Regina, e il Jerusalem, un convertere del francese Carpentras,

che Leone X volle alla guida della cappella papale; completano la cerchia dei franco-fiamminghi Nicolaus Craen e Jean Mouton.

Un compositore di talento Seguono brani strumentali per liuto e/o tastiera di Rossino Mantovano, Francesco da Milano e Marco Antonio Cavazzoni che provano, già dagli inizi del Cinquecento la progressiva diffusione del linguaggio strumentale. Tra gli altri, ascoltiamo anche tre brani attribuiti allo stesso Leone X: Spem in alium, Cela sans plus e un canone strumentale a tre voci, brani che dimostrerebbero la padronanza di una tecnica compositiva probabilmente appresa negli anni giovanili. Straordinaria è l’interpretazione del gruppo La Morra diretto da Corina Marti e Michał Gondko che conta la presenza di cinque cantanti, flauti, clavicembalo, liuto, viola da mano e da gamba. Perfettamente calati nella dimensione, sacra, profana e strumentale, i brani offrono una testimonianza egregia del fare musica dalla seconda metà del Quattrocento agli inizi del Cinquecento. Il progetto si è avvalso inoltre della preziosa collaborazione del musicologo Anthony Cummings, autore di una monografia sulla musica alla corte papale di Leone X che porta il titolo dell’antologia. F. B.

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