Medioevo n. 235, Agosto 2016

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MEDIOEVO n. 235 AGOSTO 2016

EDIO VO M E www.medioevo.it

POSSEDUTI DAL RAGNO TARANTISMO: TRANCE E MAGIA DI UN RITO MEDIEVALE



SOMMARIO

Agosto 2016 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE «Essere al verde»

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MUSEI Capolavori in corsia

LUOGHI

CALEIDOSCOPIO

ITINERARI Salento Diversi in armonia

LIBRI Alle origini della banca pubblica Lo scaffale

di Gianluca Baronchelli

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MOSTRE Crocefisso in cerca d’autore

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ITINERARI Nella valle dei pittori APPUNTAMENTI Caccia al toro Una catena umana per san Sebastiano L’Agenda del Mese

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UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO Ma come fanno i marinai...

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20

MUSICA «Cantasi come...»

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21 26

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CIVILTÀ COMUNALE/8 Case, torri e famiglie

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di Furio Cappelli

34

COSTUME E SOCIETÀ GENTE DI BOTTEGA/6 Fra una scarpa e un brindisi LO ZAFFERANO Giallo, puro, prezioso... di Luca Pesante

106 112

STORIE, UOMINI E SAPORI Mangiare senza peccare 108

STORIE

di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci

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54

MEDIOEVO NASCOSTO Galatina

Commistione sublime

di Maria Paola Zanoboni

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Dossier

BALLANDO CON IL RAGNO di Claudio Corvino

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MEDIOEVO n. 235 AGOSTO 2016

MEDIOEVO

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12/07/16 16:04

MEDIOEVO Anno XX, n. 235 - agosto 2016 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997

Illustrazioni e immagini: Bridgeman Images: copertina (e p. 77) e pp. 88/89, 110; Pictures from History: pp. 82/83 – Shutterstock: pp. 5, 34-36, 55, 62/63, 98, 99 – manca Anteprima – Cortesia Ufficio stampa: pp. 8-9, 10 (basso), 12-13, 14 (alto) – Doc. red.: pp. 10 (alto), 37-39, 40 (alto, a sinistra), 78-81, 89, 90 (basso), 91 (basso), 101 (centro), 106-109 – Cortesia Agenzia di Promozione turistica di Domodossola: pp. 16-19 – Cortesia degli autori: pp. 20-21, 40 (alto, al centro) – Marka: Marco Scataglini: pp. 40/41; CSP_milla74: p. 41; CSP_Bepsimage: pp. 46/47; Danilo Donadoni: p. 57 – Mondadori Portfolio: The Art Archive: p. 42; Album: pp. 45, 59, 83; Leemage; pp. 48/49, 58/59, 60; AKG Images: p. 61; AGE: p. 84; Electa/Paolo e Federico Manusardi: pp. 86/87 – Foto Scala, Firenze: p. 50; The National Gallery, London: p. 44 – DeA Picture Library: pp. 54/55; G. Cigolini: p. 46; S. Vannini: pp. 50/51; A. Dagli Orti: p. 53; Archivio J. Lange: pp. 96/97, 101 (alto), 104; M. Borchi: pp. 98/99; A. De Gregorio: p. 100 – Getty Images: Filippo Monteforte: p. 56 – Gianluca Baronchelli: pp. 64/65, 66 (basso), 67-75, 102-103 – Fototeca Gilardi: pp. 84/85 – Archivio Franco Pinna, Roma: pp. 90 (alto), 91 (alto e centro), 92-95 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 66.

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l. Presidente: Federico Curti

Collaboratori della redazione:

Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

Amministratore delegato: Stefano Bisatti

Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it

Coordinatore editoriale: Alessandra Villa

Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Gianluca Baronchelli è fotografo e giornalista. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Barbara Conti è storica dell’arte medievale. Claudio Corvino è antropologo. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Mila Lavorini è giornalista. Chiara Parente è giornalista. Luca Pesante è archeologo medievista. Emanuela Porta Casucci è dottore di ricerca in storia medievale. Stefania Romani è giornalista. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com

Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6346

In copertina Virgilio e Dante guardano la donna ragno, incisione di Gustave Doré per la Divina Commedia (Inferno). 1885. Collezione privata.

Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo

Nel prossimo numero protagonisti

medioevo nascosto

Gioacchino da Fiore, abate e filosofo

L’abbazia di Santa Croce al Chienti

prato

dossier

Perché si venera la Sacra Cintola?

L’uomo e l’ambiente nell’età di Mezzo


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

«Essere al verde»

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uò capitare a volte di «ritrovarsi al verde» o di «essere al verde» e quindi in imbarazzo... Ma perché «essere al verde» significa «non avere un soldo», o «essere in miseria»? La locuzione sarebbe legata al linguaggio tecnico delle aste. All’inizio di ogni incanto pubblico, anticamente, veniva accesa, e messa bene in vista, una candela che aveva la parte inferiore tinta di verde. Rimaneva accesa per tutta la durata dell’asta, fin quando la fiamma non raggiungeva il proverbiale «verde»; a quel punto non si potevano piú fare offerte e l’asta chiudeva. Quest’uso si praticava in particolare a Firenze, dove il Magistrato del Sale era solito «subastare le tasse dell’osterie e darle al piú offerente», facendo bruciare «candele di sego, che per lo piú son tinte di verde nel piede». Cosí, nelle sue Note al Malmantile Racquistato, chiosava il letterato Paolo Minucci (1626-1695), il quale proseguiva segnalando come «consumata quella piccolissima candela di cera, tinta di piede di color verde (…) non può piú veruno offrire sopr’a quella osteria; ma

s’intende restata a colui che ha offerto il maggior prezzo: ovvero non arrivando l’offerta al dovere, l’osteria di nuovo si subasta un altro giorno con una nuova candeletta». Da questa pratica derivava, in epoca moderna, l’uso di esclamare «Chi ha che dir, dica: la candela è al verde», che un tempo era sinonimo del ben piú antico «Tempus fugit», cioè essere al verde… di tempo. Col tempo, questo essere al verde si estese anche ad altri significati, tra cui quello del denaro. E cosí essere al verde di denaro, significò non averne piú, non averne affatto. Un modo di dire analogo è «essere in bolletta», che sarebbe legato a un documento (la bolla, il cui diminutivo è appunto una bolletta), che notifica un pagamento o una consegna. Sembra che l’espressione «essere in bolletta» sia legata alla pratica di affiggere in piazza il documento della polizza dei falliti. In seguito il senso si trasformò andando a significare «essere sul bollettino – diminutivo di bolletta – di quanti avevano fatto fallimento», cioè sul documento con la lista degli sfortunati falliti.


ANTE PRIMA

Capolavori in corsia

MUSEI • L’ospedale

fiorentino di S. Maria Nuova, oltre a essere il piú antico nosocomio del mondo tuttora in attività, possiede una ricca raccolta di opere d’arte. Tesori che coprono un vasto orizzonte cronologico e che, dopo il restauro della struttura, tornano a farsi ammirare 8

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l 21 maggio 1286, papa Onorio IV emanava la bolla con cui accordava al ricco banchiere fiorentino Folco Portinari, politicamente molto influente, il permesso di permutare un piccolo appezzamento di terreno di sua proprietà – nella zona dell’attuale borgo Pinti – con un altro appartenente ai frati del convento di S. Egidio, fuori le mura, al fine di agevolare la costruzione, già avviata, di un ospedale per assistere poveri e infermi. I lavori proseguirono velocemente, tanto che, il 23 giugno di due anni dopo, il potente uomo d’affari dettò l’atto di fondazione della novella istituzione, nel centro di Firenze, con un solenne documento rogato alla presenza

del vescovo Andrea de’ Mozzi e di numerosi altri testimoni, scelti fra gli esponenti di spicco del mondo politico e sociale fiorentino.

Le ultime volontà di Folco Nel testamento, redatto pochi mesi prima, Folco dava disposizioni per la propria sepoltura, che doveva essere proprio nella cappella della «sua» casa di cura e ordinava agli eredi d’impiegare 1000 lire di fiorini piccoli, per costituire due dotazioni in beni immobili, con i cui frutti si potessero mantenere lo spedalingo, rettore della struttura, e il cappellano. Inoltre, stabiliva che il patronato spettasse per sempre ai cinque discendenti maschi che agosto

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nominava eredi universali delle sue sostanze, escludendo tutte le femmine dall’asse ereditario. Fatti, poi, numerosi lasciti a monasteri e ospizi della città, Portinari provvedeva alla moglie Cilia, lasciandole la dote, le vesti e le robe di camera insieme a un pezzo di terra come rendita, mentre alla sorella Nuta permise di restare, vita natural durante, nella propria casa, ricevendo dai nipoti gli alimenti e una modesta provvigione in denaro. A ciascuna delle figlie, ancora nubili e minorenni, lasciò una dote di 80 lire di fiorini piccoli, mentre a Bice – la Beatrice dantesca –, sposata a messer Simone de’ Bardi, ne destinò 50. Secondo la tradizione, a ispirare la nascita della nuova realtà assistenziale, il cui simbolo è una stampella, tuttora visibile in molti luoghi, sarebbe stata la governante di famiglia, Monna Tessa, alla quale si deve anche la creazione della comunità delle infermiere oblate, religiose che si occupavano dello «Spedale delle Donne» di S. Maria, poi incorporato dalla clinica voluta da Portinari, sorta nelle vicinanze e denominata S. Maria Nuova.

Un patrimonio ricchissimo Sottoposto a un lungo e delicato restauro, il piú antico nosocomio del mondo ancora funzionante vanta un eterogeneo patrimonio artistico, composto da oltre 750 opere, collezionate nel corso dei secoli, grazie a legati testamentari e donazioni, parte delle quali fruibili, adesso, in un percorso museale che si snoda in vari ambienti, collegando arte e storia della sanità. La preziosa raccolta è sopravvissuta alle varie ristrutturazioni che hanno portato, tra l’altro, alla perdita di un ciclo di affreschi realizzati da grandi nomi, come Domenico Veneziano e Piero della Francesca, o allo spostamento in altri siti di capolavori come il Trittico Portinari, firmato da Hugo Van der Goes, eseguiti per abbellire la chiesa di S.

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Egidio, intorno a cui si sviluppò il nucleo originale del complesso, poi ampliato in tre settori rappresentati da Chiostro delle Ossa, Medicherie e Cortile della Samaritana. Fra i piú antichi dipinti, troviamo una trecentesca tempera su tavola, del Maestro di San Martino a Mensola, artista di formazione fiorentina, il cui linguaggio pittorico, pur avvicinandosi ai dettami del giottesco Agnolo Gaddi, accoglie suggestioni tardo-gotiche, con morbide figure dalla linea sinuosa o dalla tenera espressione, come testimonia il piccolo Gesú che accarezza il volto della madre. Composizione elegante e curata nei dettagli è, invece, la pala eseguita da Niccolò di Tommaso, allievo di Nardo di Cione, pittore dal delicato tratto,

che ci propone una Madonna in trono con Bambino e Santi, in una ieratica rappresentazione con fondo oro.

La consacrazione dell’ospedale Lo stesso soggetto venne scelto, qualche decennio piú tardi, da Jacopo da Firenze, formatosi alla bottega di Lorenzo di Bicci, che si distingue per l’accentuato e minuzioso decorativismo. Fu poi il figlio del suo maestro, Bicci di Lorenzo, a instaurare una lunga

Nella pagina accanto Firenze, S. Maria Nuova, Sala del Consiglio. Affresco di Bicci di Lorenzo raffigurante la consacrazione della chiesa di S. Egidio. 1420. A destra tempera su tavola del Maestro di San Martino a Mensola raffigurante la Madonna con il Bambino, affiancata da san Giuliano (a sinistra, con il manto foderato di ermellino) e da sant’Antonio Abate, con la tonaca da frate. XIV sec.

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ANTE PRIMA

In alto Firenze, chiesa di S. Egidio. La tomba di Folco Portinari, al quale si deve l’istituzione dell’ospedale di S. Maria Nuova, morto il 31 dicembre 1289. In basso Madonna con Bambino e Santi, tempera su tavola di Niccolò di Tommaso. XIV sec. collaborazione con l’ospedale, per il quale dipinse anche l’affresco, ora staccato e di cui si conserva la sinopia, che decorava il lato sinistro della facciata di S. Egidio e che raffigura la cerimonia di consacrazione dell’edificio religioso del 1424, scena in cui si cita, proprio nella lunetta sul portale della chiesa, l’altorilievo in terracotta con l’Incoronazione della Vergine di Dello Delli, controverso artista che lavorò lungamente all’estero. L’opera originale, mancante della primitiva policromia e doratura e composta da cinque elementi assemblati, mostra due personaggi dal modellato aspro seppur ricoperti da elaborati e morbidi panneggi. Risale, invece, alla metà del XV secolo, il marmoreo Tabernacolo del Sacramento di Bernardo Rossellino, impreziosito da uno sportello in bronzo dorato che riproduce Dio padre benedicente, considerato l’ultimo lavoro eseguito nella bottega di Lorenzo Ghiberti

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DOVE E QUANDO

Il percorso museale di S. Maria Nuova è visitabile per gruppi (max. 20 persone) accompagnati da guida professionale. La durata di ogni singola visita è di 40/50 minuti. Prenotazioni Exclusive Connection: tel. 055 2001586 (attivo lu-ve 9,00-13,00 e 14,0018,00; sa, 9,00-13,00); e-mail: info@exclusiveconnection.it; www.fondazionesantamarianuova.it e del figlio Vittorio. Tecnicamente perfetta e curata nei dettagli, l’immagine sacra presenta affinità stilistiche con la Porta del Paradiso – allora in fase di completamento –, nonostante la fissità dello sguardo. Oltre a pitture, corredi religiosi e crocifissi lignei risalenti a epoche diverse, la collezione annovera anche una terracotta invetriata di Andrea della Robbia e numerosi ritratti degli Spedalinghi, che ricoprivano una carica molto ambita dalle principali famiglie fiorentine e rivestivano un ruolo fondamentale nella gestione dell’istituzione assistenziale. Mila Lavorini agosto

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ANTE PRIMA

Crocefisso in cerca d’autore MOSTRE • Una pregevole rappresentazione

trecentesca della Crocifissione è tornata temporaneamente a Jesolo, cittadina nella quale ne fu commissionata la realizzazione. E l’esposizione è anche l’occasione per ricostruirne le travagliate vicende

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llestita nella chiesa di S. Giovanni Battista del borgo marinaro, la mostra Crux. Il crocefisso di Jesolo ripropone cinque secoli di arte e devozione, che ruotano attorno al prezioso manufatto medievale. La tavola, databile nel XIV secolo e al centro di una vicenda attributiva ancora in divenire, torna nella sua cittadina, dopo anni di ricerche che hanno permesso di identificarla con

un’opera collocata nei depositi delle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Il Cristo è stato oggetto di una cessione chiarita di recente, grazie all’impegno di Giuseppe Artesi, il quale studiando documenti custoditi all’Archivio di Stato di Venezia, ha ricostruito il passaggio del crocefisso da Jesolo alla città lagunare. Lo studioso racconta: «L’ultima notizia scritta relativa all’opera In alto il crocefisso ligneo di Jesolo, attualmente esposto nella cittadina veneta. L’opera si data al XIV sec., ma non ne è ancora stato identificato con certezza l’autore. A sinistra e nella pagina accanto alcuni particolari del dipinto, restaurato una prima volta nel 1953 e poi nel 1995.

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risale al 1698: in occasione di una visita pastorale, il vescovo Marco Giustiniani espresse apprezzamento nei confronti della tavola, ritenendola degna di essere esposta in una città prestigiosa come Venezia, piuttosto che in una località periferica. Da allora non se ne hanno tracce, fino alla fine dell’Ottocento, quando, all’avvio dei restauri condotti nella parrocchiale, si scoprí che il crocefisso era stato nascosto, molto tempo prima, nel sottotetto, forse per sottrarlo alla minaccia napoleonica».

La mobilitazione dei parrocchiani Nel 1889 il parroco Giovanni Battista Guiotto cedette il pezzo a un commerciante milanese, scambiandolo per una pianeta. Quando emerse che il religioso aveva preso l’iniziativa, in maniera illegale, senza consultare i fabbricieri, ci fu una mobilitazione su piú fronti, come ricorda Artesi: «I parrocchiani scrissero alla stampa, il sindaco di Jesolo si rivolse al Prefetto. A quel punto il parroco incaricò un suo avvocato di fiducia di ricomprare il crocefisso, nel frattempo custodito alle Gallerie dell’Accademia, per intervento del Regio Tribunale». Con il consenso dei fabbricieri, l’opera venne periziata, rimanendo a Venezia, dove fu restaurata per la prima volta nel 1953 e poi nel 1995. La rassegna estiva di Jesolo offre ora l’occasione per ripercorrere le ipotesi relative all’attribuzione. L’anno successivo alla vendita, la commissione degli Accademici del Collegio di Venezia ricondusse la paternità del crocefisso a Niccolò di Pietro, ritenuto un innovatore della cultura figurativa veneta fra Tre e Quattrocento: guardando agli stilemi tardo-gotici, il pittore introdusse un’espressività nuova, un’attenzione al vero, un interesse per la resa della materia, una ricerca di naturalezza nelle posture dei personaggi che ne fanno un artista di primo piano. A capo di una fra le botteghe

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piú prestigiose di Venezia, nella parrocchia di S. Marina, Niccolò, che adottò una pennellata sempre piú libera, era aggiornato sulle novità d’Oltralpe, ma conosceva anche Gentile da Fabriano.

Le attribuzioni piú recenti La critica piú recente riporta invece l’opera al Maestro della Madonna del Parto, formatosi nella cerchia di Niccolò, con esiti di particolare

delicatezza. Un’altra ipotesi avvicina il pezzo a un crocefisso, custodito nella chiesa degli Eremitani a Padova e firmato nel settimo decennio del XIV secolo dal colorista veneziano Niccolò Semitecolo, attivo fra il 1353 e il 1370, un po’ prima rispetto ai due artisti precedenti. Avvalorano questa attribuzione i rapporti documentati fra Pietro De Natali, che fu vescovo di Jesolo dal 1370, e lo stesso Semitecolo,

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ANTE PRIMA DOVE E QUANDO

«Crux. Il crocefisso di Jesolo: cinque secoli di arte e devozione» Jesolo (Venezia), chiesa di S. Giovanni Battista fino al 16 ottobre Orario giorni feriali, 9,00-12,00 e 15,00-18,00; domenica, 15,00-18,00 (nel mese di agosto anche 20,30-22,30) Info www.comune.jesolo.ve.it/crocefisso che affrescò la Cappella del Volto Santo, detta dei Lucchesi, a Venezia. Il pittore, che era anche prete presso la chiesa di S. Agnese, nella Serenissima, aveva inoltre legami con una famiglia proveniente da Jesolo, i Berengo, il cui patriarca, nel 1367, lasciò indicazioni testamentarie per fare realizzare un crocefisso nel suo paese. I misteri che aleggiano attorno all’opera non sono quindi ancora del tutto svelati. Stefania Romani

A destra particolare del volto del crocefisso ligneo di Jesolo. XIV sec.

Ritorno a Finalborgo

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

Un balzo all’indietro di sei secoli. A compierlo, dal 25 al 28 agosto, sarà l’antico centro murato di Finalborgo, località fra le piú ricche del Savonese di edifici di interesse storico, entrata nel 2004 a far parte del Club dei Borghi piú belli d’Italia. Il «viaggio» che la riporterà al XV secolo, con botteghe locande popolate da avventori in costume d’epoca, vie e piazze animate da dame e cavalieri, concerti di musica celtica medievale e spettacoli di giullari, giocolieri e mangiafuoco, è organizzato dall’Associazione Centro Storico del Finale di Finale Ligure in collaborazione con gli attori della Compagnia internazionale Viv’Arte di Oliveira do Bairro (Portogallo). «Viaggio nel Medioevo» nasce da un sogno, di cui è protagonista un trovatore medievale che, dopo aver percorso tutto il Mediterraneo, torna nella sua cittadina: Finalborgo, la capitale del marchesato dei Del Carretto, riportata ai fasti del XV secolo. Nel suo viaggio, lungo un anno intero, il cavaliere errante ha raccolto attorno a sé mercenari e giullari di tutta Europa, per rendere onore alla sua terra e al suo Signore, il marchese Giovanni Del Carretto, che in una sola notte riconquistò il borgo e pose fine alla guerra contro la potente Repubblica di Genova, come narra il cronista storico Gian Mario Filelfo nel Bellum Finariensi (La Guerra del Finale), che è la fonte principale da cui l’Associazione Centro Storico del Finale trae gli spunti per rievocare le vicende finalesi. Info: www.centrostoricofinale.it

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ANTE PRIMA

Nella valle dei pittori

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aradiso naturale per escursionisti e appassionati della montagna, la Valle Vigezzo (Verbano-CusioOssola), immersa nel verde delle Alpi Lepontine, si trova all’estremità nord-orientale del Piemonte, al confine tra l’Italia e la Svizzera. Conosciuta anche come «Valle dei Pittori», per la storica presenza di paesaggisti e ritrattisti, nel Medioevo era compresa nel territorio dell’Ossola Superiore, soggetto dal 1014 al 1100 al dominio del vescovo di Novara e, dal 1100 al 1280, ai potenti conti di Biandrate. All’epoca il centro principale era già

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ITINERARI • Situata fra l’Italia

e la Svizzera, la Valle Vigezzo è uno scrigno di opere d’arte e architetture tutt’altro che «minori»

Domodossola, che, insieme alla Val Vigezzo e ad altre vallate limitrofe dal punto di vista amministrativo, formava il Comune dell’Ossola, dotato di consigli generali (le vicinanze generali), consoli e credenza, presieduti dal castellano di Mattarella, in rappresentanza del vescovo-conte.

Degagne e aleguane Le spese per l’amministrazione del Comune erano distribuite in parti uguali tra gli abitanti del contado, diviso in cinque circoscrizioni dette degagne. Nel XIII secolo

la Valle Vigezzo, nonostante la dipendenza dalla Corte di Mattarella, costituiva un’unica degagna, molto probabilmente separata in due zone, l’aleguana inferiore e l’aleguana superiore, per una migliore distribuzione dei carichi fiscali. In seguito, venne creata anche una aleguana di mezzo, che comprendeva i territori comunali di Toceno, Vocogno e Craveggia. I consigli si tenevano a Santa Maria Maggiore, nella chiesa di S. Maria Assunta, che, situata in posizione centrale rispetto ai nuclei demici della valle, rappresenta l’edificio religioso agosto

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A sinistra Re. Il santuario della Madonna del Sangue. In basso Craveggia. La «selva» di camini che caratterizza il cuore del borgo.

cristiano piú antico della zona. In origine questo luogo di culto, innalzato prima del Mille in una località isolata, ma già abitata in epoca romana – secondo quanto testimoniano alcuni ritrovamenti sepolcrali del I secolo d.C. –, aveva dimensioni simili a quelle di una modesta cappella. Ampliato in stile romanico nel XII secolo, il tempio fu ristrutturato nel Cinquecento da maestranze lombarde e rimaneggiato tra il 1733 e il 1742. A documentare la presenza della chiesa romanica sono rimasti l’alto campanile (a eccezione della cella campanaria e

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agosto

Il Circuito dei Santi In Valle Vigezzo si contano almeno una quarantina di edifici di culto, ricchi di storia e opere d’arte, compiute da maestri locali, sovente attivi anche fuori dai confini nazionali, e da pittori provenienti da altri territori. Ciò ha favorito la recente creazione da parte della Regione Piemonte, della Comunità Montana di Valle Vigezzo e del Comune di Santa Maria Maggiore di tre itinerari dedicati al Circuito dei Santi. Suddivisi in base ad aree territoriali omogenee, i percorsi sono indicati da pannelli illustrativi. Inoltre video-audioguide multimediali, scaricabili dal sito www.circuitodeisanti. it, informano sulla storia, l’arte e la devozione di ciascun luogo di culto.

della terminazione), contraddistinto da una struttura muraria in blocchi di pietra a vista e da cornici ad archetti pensili, alcune sculture ed elementi architettonici.

Il basilisco e il leone In particolare, una serie di archetti pensili, sostenuti da pilastrini decorati con motivi geometrici, che sottolineano il timpano, una formella con scolpita la figura mitologica del basilisco e un leone stiloforo, che un tempo decorava il portale d’accesso. Nel corso del Duecento e del

Trecento, la Valle Vigezzo fu dilaniata da lotte continue, insorte tra le fazioni comunali degli Spelorci e dei Ferrari. I primi, di parte guelfa, si erano stabiliti nelle terre alla destra del fiume Toce e parteggiavano per il vescovo di Novara. I secondi, ghibellini, risiedevano a Vigezzo e sostenevano il dominio del Comune di Novara. Passata nel 1381 sotto la giurisdizione del duca di Milano Gian Galeazzo Visconti, nel 1446 la valle fu concessa in feudo alla famiglia Borromeo, conti di Arona. A Coimo una chiesa dedicata a sant’Ambrogio, patrono di

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ANTE PRIMA A sinistra Re, santuario della Madonna del Sangue. L’affresco raffigurante una Madonna del Latte e considerato miracoloso dopo che, nel 1494, il volto della Vergine stillò sangue. Il dipinto si trovava in origine nella chiesa di S. Maurizio. A destra un tipico scorcio della Valle Vigezzo. da Seregno. Noti anche con l’appellativo di «Seregnesi» per l’origine lombarda, i due maestri lavorarono in Valle Vigezzo tra la seconda metà del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento. La loro residenza e la loro attività principale erano nella vicina cittadina svizzera di Lugano, ma si spostavano per brevi periodi nelle valli Cannobina e Vigezzo, per eseguire le opere loro commissionate, facendo poi ritorno in Ticino, ove hanno lasciato numerosi lavori importanti.

Emigranti in cerca di fortuna

Milano, attesta ancora la secolare subordinazione al ducato visconteo. Costruita in stile romanico, consacrata nel XII secolo dal vescovo di Novara Litifredo e piú volte restaurata, ha origini millenarie. Forse è stata edificata nel sito in cui sorgeva un piú antico luogo di culto pagano. A suggerire tale ipotesi è la presenza di un masso

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coppellato, inserito nella muratura esterna del lato sud del fabbricato. All’interno, nella cappella laterale della Beata Vergine Maria delle Grazie, si può osservare un affresco della fine del Quattrocento, che ritrae la Madonna della Misericordia. Legata alla devozione popolare, la raffigurazione viene attribuita alla bottega di Cristoforo e Nicolao

Sin dagli inizi del Trecento l’economia di sussistenza, basata sullo sfruttamento agro-pastorale e tipica del mondo alpino, costrinse molti Vigezzini a migrare. I primi a lasciare la regione furono pastori e coltivatori, che trovarono facilmente un lavoro stagionale nelle confinanti vallate della Svizzera. Poco dopo fu la volta degli spazzacamini, che iniziarono il loro esodo nel Ducato di Milano e nei Paesi del Centro e del Nord Europa. A ricordo di quel fenomeno, nel Comune di Santa Maria Maggiore, a Villa Antonia, si può visitare il Museo dello Spazzacamino. Un’esposizione permanente di attrezzi, abiti e agosto

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Pane nero e biscotti cucinati sulla pietra Rustica e povera, la cucina vigezzina ha come alimento principe il pane nero integrale, ancora prodotto con la farina di segale. In passato si preparava solo due volte all’anno e di solito costituiva il dono che Gesú regalava ai bimbi per Natale. Altri alimenti tradizionali sono gli stinchett (= dal tedesco steinkuchen, biscotto cotto sulla pietra), preparati con la farina di frumento e detti a Malesco runditt per la forma del ferro con cui si scalda l’impasto rotondo, e gli amiasc di Coimo, fatti con farina di grano saraceno. Questi cibi, preparati cuocendo sulla piastra di ghisa – una volta sulla pietra ollare – una sfoglia sottile, ottenuta impastando acqua e farina con la successiva aggiunta di burro d’Alpe cotto o fresco e sale per insaporire, accompagnavano un pasto frugale; adesso costituiscono un leggero e saporito street food. La ricetta di questa sfoglia avrebbe origini antichissime, forse celtiche. In Bretagna si confeziona ancora una pasta simile, che ricorda il pane azzimo. Tra gli insaccati, sono invece molto apprezzati il violino, prodotto con la coscia di capra o camoscio, salata e speziata, e la pancetta di capra, una specialità di Malesco. ricordi del mestiere, costantemente arricchita dai doni lasciati dagli spazzacamini, che ogni anno raggiungono la valle in occasione del raduno internazionale, fissato il primo fine settimana di settembre (l’edizione 2016 è in programma dal 2 al 5 settembre; info: www. museospazzacamino.it). La fortunata emigrazione di alcuni Vigezzini si avverte pure nel centro storico di Craveggia, ingentilito da raffinate case signorili, costruite da quanti, arricchitisi, hanno fatto ritorno al paese d’origine. Questa suggestiva località montana merita una visita anche per ammirare la selvaggia armonia di camini, che non a caso svetta sull’abitato, e il Tesoro di Craveggia. La preziosa raccolta, custodita nella parrocchiale, si è formata a partire dal Cinquecento. In mostra – oltre a pissidi, croci e paramenti sacri – ci sono il manto funebre di Luigi XIV e quello nuziale di Maria Antonietta. Con un po’ di tempo a disposizione, meritano una deviazione Crana e Buttogno, frazioni del Comune di Santa Maria Maggiore. I due piccoli nuclei rurali conservano un buon numero di pitture murali e di edifici religiosi, realizzati con il denaro dei benefattori migrati all’estero.

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A Crana, inoltre, si può vedere l’oratorio di S. Rocco, eretto dalla popolazione nel 1534 come ex voto per lo scampato pericolo della peste (1529-1530). A pianta rettangolare, conserva uno dei cicli pittorici piú pregevoli della vallata. Gli affreschi (1530 circa), che si sviluppano sulle due pareti del corpo dell’edificio, sono stati realizzati dall’artista Battista da Legnano e narrano la Vicenda terrena di San Rocco, suddivisa in dodici riquadri, forniti di cartiglio illustrativo.

Il sacrilegio d’un giocatore Nei pressi di Craveggia, si trova Re, ove si erge il monumentale santuario della Madonna del Sangue, dal 1998 patrona del Parco Nazionale Valgrande. La fervida fede alla Vergine si collega a un’immagine della Madonna del Latte, affrescata sotto al porticato della chiesa di S. Maurizio, nella piazzetta del paese. La sera del 29 aprile 1494 Giovanni Zuccone, dopo aver perso al gioco della «piodella», in un impeto d’ira scagliò il sasso tondeggiante, la piodella appunto, sulla raffigurazione sacra, colpendo la fronte di Maria. Pentitosi dell’atto sacrilego, si dette alla fuga. La mattina successiva un vecchietto accarezzò il volto dipinto

della Madonna e poi, baciandosi la mano con cui aveva compiuto il gesto, s’accorse che era bagnata di sangue. Secondo i racconti del tempo, tale effusione emanava un profumo soave e durò una ventina di giorni. Ben presto attorno all’effigie della Madonna del Latte aumentò la devozione popolare. Alla fine dell’Ottocento il parroco ritenne che lo spazio della chiesa non fosse piú sufficiente per garantire un’adeguata accoglienza ai tanti devoti, cosí fece costruire un santuario piú ampio e maestoso. Il grandioso progetto fu affidato all’architetto bolognese Edoardo Collamarini. Il nuovo edificio venne eretto tra il 1922 e il 1958, inglobando la primitiva chiesa intitolata a san Maurizio. Il santuario è caratterizzato all’esterno da un’ampia facciata neogotica, cupoloni bizantineggianti e archi a sesto acuto. All’interno ospita un museo nel quale si conservano numerosi ex voto, opera di pittori vigezzini. Fulcro devozionale di tutta la provincia, è tuttora meta di numerosi pellegrinaggi, soprattutto in occasione della festa del miracolo, che si svolge ogni anno dal 29 aprile al 1° maggio. Chiara Parente

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ANTE PRIMA

Caccia al toro APPUNTAMENTI • Rievocando una tradizione

attestata fin dal Quattrocento, Città della Pieve torna ad animarsi nella prima domenica dopo Ferragosto: i tre Terzieri del borgo si sfidano in una accanita competizione, che culmina in una gara di tiro con l’arco

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iccolo centro umbro di origini etrusche, Città della Pieve ebbe il suo primo vero sviluppo in epoca medievale. Documenti risalenti attorno all’anno 1000 ne indicano il nome in Castrum Plebis San Gervasi, poi ridotto nel XIV secolo a Castrum Plebis, fino a diventare l’attuale Città della Pieve nel Settecento. Nel 1250, dopo un breve intervallo di autonomia e libertà grazie

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alla protezione dell’imperatore Federico II di Svevia, il borgo venne soggiogato a Perugia. Nell’atto di sottomissione alla città del Grifo, furono nominati per la prima volta i Terzieri cittadini. L’impianto urbanistico di quell’epoca, giunto pressoché immutato ai giorni nostri, ricorda un’aquila che avanza minacciosa verso Roma. I Terzieri si identificano con tre parti dell’aquila

e corrispondono ad altrettante classi sociali ben distinte: alla testa il Terziere Castello o Classe dei cavalieri; alla pancia il Terziere Borgo Dentro (la borghesia); all’ala il Terziere Casalino o Classe dei pedoni (i contadini).

Come un dipinto del Perugino Com’è ormai tradizione, nella domenica successiva al 15 agosto, quest’anno il 21, i tre rioni si sfidano in una gara di tiro con l’arco verso sagome di tori fissate su pedane mobili, rievocando una caccia al toro con le lance che si svolgeva in città nel XV e XVI secolo. Il Palio è preceduto da un corteo storico per le strade del centro, aperto dal gruppo comunale e composto da oltre ottocento figuranti fra vessiliferi, armati, notabili, dame, cavalieri, popolani e mangiafuoco. I costumi del corteo, in stile rinascimentale, agosto

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Nella pagina accanto e qui sotto Città della Pieve (Perugia). Due momenti del corteo storico che precede la disputa della gara di tiro con l’arco denominata «Caccia del toro».

Una catena umana per san Sebastiano I

n Sicilia, il culto di san Sebastiano si diffuse in modo eccezionale nell’area iblea dopo il 1414, quando un miracoloso simulacro del santo approdò a Melilli. A Palazzolo Acreide, piccolo centro del Siracusano, la devozione per Sebastiano Martire risale a questo periodo, come testimoniava la cappella a lui dedicata nell’antica chiesa dell’Annunziata risalente al XV secolo. La festa del santo è fissata dal Vaticano al 20 gennaio, ma a Palazzolo si replica il 10 agosto, con una cornice di pubblico e di folklore ancora maggiori. La celebrazione estiva ha sostituito quella che in passato si teneva, in onore della Madonna Odigitria («che mostra la via»), in coincidenza con la raccolta del frumento. Oggi la festa si protrae per una decina di giorni, anche se i momenti piú toccanti e spettacolari si concentrano nella giornata del 10 agosto, che inizia in mattinata con la benedizione delle cuddure votive (ciambelle di pane) presso la basilica di S. Sebastiano. Poi, dopo la Messa, va in scena la suggestiva sciuta, l’uscita dalla cattedrale della statua del santo e di una sua reliquia, portati a spalla dai fedeli tra lo sparo dei mortaretti e il lancio di migliaia di nsareddi (strisce di carta multicolori lunghe un paio di metri).

Il momento clou sono ispirati ai dipinti del grande maestro Pietro Perugino, al secolo Pietro di Cristoforo Vannucci, che qui nacque nel 1448. Il corteo percorre le vie principali della città, fino a raggiungere il «campo dei giochi», nel quale si disputa il tiro dell’arco della «Caccia del toro». La gara è semplice: tre arcieri per volta, uno per ogni Terziere, mirano al proprio bersaglio suddiviso in varie aree di punteggio. Al termine di tre manche, sommati tutti i punteggi individuali, viene decretato il vincitore. Nei giorni attorno a Ferragosto, i vicoli e le piazzette di Città della Pieve ospitano anche la Fiera di San Rocco. In un’atmosfera rinascimentale, si può assistere al lavoro di armaioli, vasai, calzolai, filatrici e mercanti, fra il passeggio di madonne e cavalieri. Tiziano Zaccaria

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Al suono delle bande, i due fercoli attraversano in processione le vie principali del paese, seguiti da migliaia di devoti. Il momento piú emozionante del corteo religioso è la «catena umana» che prende forma lungo la salita di via Fiumegrande. In serata si svolge una seconda processione al chiaro di luna, seguita da un concerto e da uno spettacolo piromusicale di mezzanotte. Dal 7 al 17 agosto, a corollario degli eventi religiosi, sono in programma mostre e manifestazioni laiche. Nella serata del 17 agosto la festa si chiude con una nuova processione del reliquario e del simulacro di san Sebastiano, seguita da uno spettacolo pirotecnico finale. A Palazzolo Acreide la prima chiesa dedicata a san Sebastiano fu costruita nella seconda metà del XV secolo, nel sito in cui sorgeva in precedenza la chiesa di S. Rocco. In seguito alla crescente urbanizzazione del quartiere, la struttura fu piú volte ampliata e trasformata, grazie alla Confraternita dei Disciplinanti di San Sebastiano. Ma, nel gennaio 1693, venne distrutta dal disastroso terremoto che colpí tutta la Sicilia Orientale, causando la morte, nella sola Palazzolo Acreide, di 700 persone. Negli anni successivi la chiesa fu ricostruita in stile barocco; nel 2002 è stata inserita dall’UNESCO nella lista dei beni considerati Patrimonio dell’Umanità. T. Z.

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ANTE PRIMA

Le magnifiche cinque a giovedí 27 a domenica 30 ottobre 2016 torna a Paestum la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico. Mentre si va definendo il programma dettagliato di questa XIX edizione, sono stati annunciate le cinque scoperte che si contenderanno il secondo International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio, organizzato in collaborazione con la rivista «Archeo», intitolato al Direttore del sito di Palmira che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale. Della cinquina del 2016 fanno parte: la tomba celtica a Lavau (Francia); i 22 relitti sottomarini nell’arcipelago di Fourni (Grecia); il monumento

opportunità di business nella splendida cornice del Museo Archeologico con il workshop tra la domanda estera selezionata dall’ENIT e l’offerta del turismo culturale e archeologico. Una formula di successo testimoniato dalle prestigiose collaborazioni di organismi internazionali quali UNESCO, UNWTO e ICCROM, oltre che dalle cifre dell’ultima edizione: 10 000 visitatori, 100 espositori, 60 conferenze e incontri, 300 relatori, 120 operatori dell’offerta, 100 giornalisti accreditati. Nel ribadire l’importanza del patrimonio culturale come fattore di dialogo interculturale, d’integrazione sociale e di sviluppo economico, ogni anno la Borsa promuove la cooperazione tra i popoli. Numerose le sezioni speciali: ArcheoIncontri, per conferenze stampa e presentazioni di progetti culturali e di sviluppo territoriale; ArcheoLavoro, orientamento post diploma e post laurea con presentazione dell’offerta formativa a cura delle Università presenti nel Salone; ArcheoStartUp, in cui si presentano nuove imprese culturali e progetti innovativi nelle attività

sotterraneo nei pressi di Stonehenge (Inghilterra); la tomba etrusca a Città della Pieve (Italia); le tombe della necropoli di Khalet al-Jam’a (Palestina). Prima e dopo la consegna del premio, si susseguiranno gli altri appuntamenti che fanno della BMTA un evento originale nel suo genere: sede dell’unico salone espositivo al mondo del patrimonio archeologico e di ArcheoVirtual, l’innovativa mostra di tecnologie multimediali, interattive e virtuali; luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio; occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e culturali, viaggiatori e appassionati;

archeologiche; Incontri con i Protagonisti, nei quali il pubblico interviene con noti divulgatori; laboratori di archeologia sperimentale per divulgare le tecnologie antiche; Premio «A. Fiammenghi», per la migliore tesi di laurea sul turismo archeologico; Premio «Paestum Archeologia», assegnato a coloro che contribuiscono alla valorizzazione del patrimonio culturale. Ospiti del salone espositivo saranno Istituzioni, Enti, Paesi Esteri, Regioni, Organizzazioni di Categoria, Associazioni Professionali e Culturali, Aziende e Consorzi Turistici e Case Editrici. Info www.borsaturismoarcheologico.it

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre

FIRENZE FECE DI SCOLTURA DI LEGNAME E COLORÍ. LA SCULTURA DEL QUATTROCENTO IN LEGNO DIPINTO A FIRENZE Galleria degli Uffizi fino al 28 agosto

Avvalendosi di una quarantina di opere, la mostra documenta la vicenda della scultura in legno dipinto del Quattrocento fiorentino. In linea col primato artistico della scultura, essa costituí un modello imprescindibile per tutti gli artisti. Infatti, un tema come quello del corpo sofferente sulla croce, espresso con un nuovo naturalismo nei crocifissi di Donatello e Brunelleschi, fu oggetto di riferimento per l’espressione artistica delle successive generazioni. Il Vasari, poco incline nel tessere le lodi della scultura in legno dipinto, perché a tale materiale non «si dà mai la freschezza del marmo», nell’elenco di sculture lignee elencate nelle Vite, le classifica per la loro funzione devozionale nella quale sembra esaurirsi ogni apprezzamento. A Firenze, accanto alla qualificata

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produzione di crocifissi, si intagliarono anche statue della Madonna, di sante e santi eremiti dai corpi tormentati o preservati dal dolore, bustiritratto, statue al centro di polittici misti e statue per l’arredo liturgico. info tel. 055 23885 PARIGI GLI SMALTI DI LIMOGES A DECORO PROFANO. INTORNO ALLE COLLEZIONI DEL CARDINALE GUALA BICCHIERI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 29 agosto

Frutto di un progetto ideato e realizzato con il Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica di Torino (dove verrà ospitata nel prossimo autunno), la mostra riunisce una quarantina di opere, scelte fra la collezione permanente dello stesso Museo di Cluny e altre raccolte francesi ed europee. La presenza piú significativa è

quella del cofano del cardinale Guala Bicchieri, realizzato dalle manifatture di Limoges intorno al 12001225 e decorato con medaglioni raffiguranti combattimenti fra animali reali e fantastici, giochi cavallereschi e scene cortesi: si tratta, infatti, della prima esposizione fuori dall’Italia del manufatto, acquisito nel 2004 dal museo torinese di Palazzo Madama. Accanto a questo capolavoro, si possono ammirare candelabri, bacili, cassette e cofanetti decorati che documentano la produzione limosina profana, meno nota di quella sacra, ma non per questo meno prestigiosa. info www.musee-moyenage.fr ROMA CAPOLAVORI DELLA SCULTURA BUDDHISTA GIAPPONESE Scuderie del Quirinale fino al 4 settembre

Ventuno opere che spaziano dal periodo Asuka (VII-VIII secolo) al periodo Kamakura (1185-1333) giungono per la prima volta in Italia cosí da poter finalmente apprezzare questa parte della produzione artistica antica giapponese. Tradizionalmente considerate

come immagini di culto, sono difficilmente trasportabili e anche in Giappone non sono facilmente accessibili, perché esposte nella semioscurità di templi, santuari o protetti in collezioni di grandi musei nazionali. La scultura buddhista, insieme alla scrittura e agli insegnamenti buddhisti, fu introdotta in Giappone attraverso la penisola coreana dalla Cina tra il VI e il VII secolo; a partire dal X secolo conobbe uno sviluppo sempre piú originale rispetto ai modelli continentali, sia nei temi che nelle forme, trovando il suo culmine nell’arte del tardo periodo Heian (794-1185), l’epoca della corte imperiale di Kyoto, che esaltò la grazia come supremo valore espressivo utilizzando il legno come materia prima; in seguito, con la vittoria del potere militare sulla corte a partire dall’epoca Kamakura (11851333), si affermò una scultura realistica e vigorosa, essenziale nelle forme, che ben rispondeva agli ideali samuraici e alla filosofia legata al buddhismo zen che allora andò diffondendosi: una agosto

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ricchezza che rende la scultura di quest’epoca la summa di tutta la scultura giapponese. info www.scuderiequirinale.it

MOSTRE • Il mio nome è cavallo. Immagini tra Oriente e Occidente Milano – Studio Museo Francesco Messina

fino al 25 settembre info tel. 02 88447965

ROMA SANTA MARIA ANTIQUA. TRA ROMA E BISANZIO Foro Romano, Basilica di S. Maria Antiqua fino all’11 settembre

Dopo oltre trent’anni, riapre al pubblico S. Maria Antiqua, la basilica nel Foro Romano scoperta nel 1900 alle pendici del Palatino. La chiesa conserva sulle sue pareti un patrimonio di pitture unico nel mondo cristiano del primo millennio, databile dal VI al IX secolo, quando fu abbandonata a seguito dei crolli causati dal terremoto dell’847. Resta eccezionale testimonianza nello sviluppo della pittura non solo romana, ma di tutto il mondo greco bizantino contemporaneo:

l’iconoclastia, infatti, cancellò gran parte delle immagini sacre di quell’epoca. Chiusa dagli anni Ottanta per un complesso intervento architettonico proseguito con il restauro delle pitture, alla riapertura completa della chiesa – aperta in precedenza solo per brevi periodi con visita guidata ai cantieri – si accompagna un’esposizione

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o Studio Museo Francesco Messina, nel cuore dell’antica Mediolanum (la Milano romana) celebra l’immagine del cavallo con 20 opere di gran pregio, che vedono l’incontro di maestri d’Oriente e d’Occidente. Il progetto espositivo si è ispirato al libro Il mio nome è Rosso, di Orhan Pamuk, nel quale lo scrittore turco affronta il tema della convivenza fra culture e popoli, sullo sfondo di un paesaggio artistico condiviso e unanimemente rispettato. Protagonista del giallo, ambientato alla fine del Cinquecento alla corte del sultano, è la figura del cavallo, ritratto dai miniaturisti secondo un’iconografia occidentale, naturalistica, erede della tradizione estetica veneziana. La mostra restituisce questo ponte fra Est e Ovest, attraverso un viaggio ideale che vede proprio nella figura del cavallo un elemento di congiunzione. Il nobile quadrupede ritorna in un auriga ritratto nel mosaico pavimentale della Villa del Baccano a Roma, ma anche nella splendida testa di cavallo, di cultura sasanide, rinvenuta a Kerman, nell’Iran sud-orientale, e conservata al Louvre, da cui giunge in Italia oggi per la prima volta. Dall’Institut du Monde Arabe di Parigi, partner dell’iniziativa, proviene un cavallino scolpito su un frammento di giara scoperto a Susa, in Iran occidentale, che scalpita su un fregio ornamentale di memoria classica. Importanti sono le opere concesse in prestito dalle collezioni dei musei civici milanesi. La stampa con teste di cavallo di scuola leonardesca (Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli); una coppia di disegni anch’essi con teste di cavallo legate all’iconografia dei Dioscuri (Gabinetto dei Disegni del Castello); un’armatura da cavallo dell’impero ottomano (Mudec, Museo delle Culture), oltre a una preziosa edizione manoscritta bolognese della Pharsalia, datata 1373, con illustrazioni attribuite a Nicolò di Giacomo (Biblioteca Trivulziana). E, ancora, un Gian Giacomo Trivulzio a cavallo (Raccolte d’arte applicata del Castello), accostato al bronzetto di un Cavallo al passo, di scuola leonardesca (Cà d’Oro di Venezia). Restaurati per l’occasione, due esemplari del Museo Poldi Pezzoli, fra cui spicca il Baraki, una testiera per cavallo, di provenienza persiana, con un cartiglio che reca l’iscrizione «Il sultano». Il percorso contempla infine un capitolo moderno, punteggiato di dieci bronzetti che lo scultore Francesco Messina (1900-1995) ha dedicato al tema del cavallo, nel recupero delle fonti di ispirazione classiche.

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AGENDA DEL MESE che è «mostra» del monumento stesso, perché gravita intorno al ruolo che l’edificio, con i suoi dipinti, ha giocato nel Foro Romano postclassico cristianizzato e al rapporto con la Roma altomedievale, là dove si andavano concentrando la vita religiosa e i servizi pubblici di approvvigionamento per cittadini e pellegrini. info tel. 06 699841; prenotazioni: tel. 06 39967700; www.coopculture.it MILANO SECONDO DIALOGO, MANTEGNA E CARRACCI: ATTORNO AL CRISTO MORTO Pinacoteca di Brera fino al 18 settembre

Per il secondo dei suoi «Dialoghi», la Pinacoteca di Brera mette fianco a fianco, per la prima volta, il Cristo morto di Andrea Mantegna, una delle opere simbolo della Pinacoteca milanese, nonché icona universale del Rinascimento, e il Cristo morto con gli strumenti della Passione, versione dello stesso soggetto dipinta nel 15831585 da Annibale Carracci,

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proveniente dalla Staatsgalerie di Stoccarda. Un dialogo allargato anche al Compianto sul Cristo morto realizzato da Orazio Borgianni nel 1615 e proveniente dalla Galleria Spada di Roma. Emblema delle conoscenze prospettiche di Mantegna, dotato di forza espressiva e al tempo stesso compostezza severa, che ne fanno uno dei simboli piú noti dell’arte italiana, il Cristo morto di Mantegna è databile intorno al 1480. L’opera ebbe una notevole fortuna visiva tra Cinquecento e Seicento, documentata da una sequenza prestigiosa di derivazioni: tra queste il dipinto realizzato da Carracci, datato 1583-1585, si caratterizza per il crudo realismo evidenziato dagli strumenti del martirio, in particolare della corona di spine, collocati in primo piano nel capolavoro del Bolognese, a testimonianza della brutalità del supplizio, appena avvenuto. info tel. 02 72263264; http://pinacotecabrera.org; prenotazioni tel. 02 92800361; www.pinacotecabrera.net

MATELICA LORENZO DE CARRIS E I PITTORI ECCENTRICI NELLE MARCHE DEL PRIMO CINQUECENTO Museo Piersanti fino al 2 ottobre

Attraverso pitture e sculture che vanno dal 1490 alla metà del Cinquecento, la mostra racconta l’arte nelle Marche del Rinascimento maturo e si snoda lungo un percorso cronologico e stilistico che accosta le opere di Lorenzo de Carris a quelle dei suoi contemporanei come Luca Signorelli, Cola dell’Amatrice e Vincenzo Pagani. Lorenzo di Giovanni, che dal 1502 viene chiamato anche il Giuda, era di origine slava e nacque a Matelica tra il 1465 e il 1466. Il lavoro di ricostruzione del percorso critico ha permesso di puntualizzare la cronologia interna del pittore, anche e soprattutto in relazione alle presenze nel territorio di altri artisti con cui Giuda ha collaborato o da cui ha trovato ispirazione. All’inizio del Cinquecento Matelica diventa infatti una città cruciale per l’intero svolgimento dell’arte nelle Marche: la presenza in S. Francesco della stupenda pala di Marco Palmezzano, datata 1501, e l’arrivo della grandiosa Deposizione di Luca Signorelli, nel 1505, per S. Agostino segnano un clamoroso cambio di passo

nel gusto delle immagini per tutto il territorio. La mostra racconta l’intero percorso di Lorenzo, avendo raccolto tutte le opere mobili disponibili tra cui spicca il prestigiosissimo prestito dalla Pinacoteca di Brera di Milano che ha acconsentito alla movimentazione di una pala d’altare che era in origine a Serra San Quirico. Questa aveva la sua predella che decenni fa fu spostata al Senato della Repubblica a Palazzo Madama a Roma; per la prima volta le due opere torneranno insieme per ricomporre il complesso. info tel. 0737 84445; https:// www.facebook.com/Museopiersanti

LEIDA STORIE AFFILATE Rijksmuseum van Oudheden fino al 2 ottobre

I nuovi spazi per mostre temporanee del Rijksmuseum van Oudheden di Leida sono stati inaugurati con l’allestimento di ben quattro esposizioni, una delle quali ripercorre la storia della spada, sottolineando, in particolare, il ruolo simbolico assegnato all’arma fin dalle epoche piú antiche, che è stato forse ancor piú rilevante di quello giocato nella pratica agosto

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guerresca. Attingendo alla propria collezione permanente e grazie a importanti prestiti, il museo olandese presenta oltre 200 esemplari di spada, che includono armi cerimoniali e lame da stocco, nonché ferri di particolare valore storico. Fra gli altri, spicca una magnifica spada carolingia proveniente dal sito di Dorestad, la sola del genere a oggi nota nei Paesi Bassi, e che dovette appartenere a un personaggio di rango assai elevato. info www.rmo.nl GENOVA GENOVA NEL MEDIOEVO. UNA CAPITALE DEL MEDITERRANEO AL TEMPO DEGLI EMBRIACI

Museo di S. Agostino

fino al 9 ottobre (prorogata)

Situato nel cuore piú antico del centro storico di Genova, il complesso museale di S. Agostino ospita la prima mostra mai dedicata al Medioevo genovese. L’iniziativa rientra in un piú ampio progetto, promosso dal Comune di Genova, per diffondere la conoscenza della storia delle origini della città e del suo ruolo come grande capitale europea e del Mediterraneo. Il sottotitolo della mostra – «Una capitale

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del Mediterraneo al tempo degli Embriaci» – fa diretto riferimento a una delle piú eminenti famiglie che, nei primi secoli dopo l’anno Mille – periodo storico che coincide con l’epopea delle crociate –,

contribuirono a sviluppare e consolidare questa nuova fisionomia della città portuale. Protagonisti della rassegna sono circa 200 reperti – tra cui sculture, reliquiari, preziosissimi frammenti di tessuti, ceramiche, manoscritti miniati –, che illustrano un’epoca di grande fioritura e dinamicità politica, commerciale e culturale. Tra i numerosi capolavori esposti, il magnifico «catino» verde, in vetro traslucido, inizialmente ritenuto di smeraldo e identificato dal

frate domenicano e arcivescovo di Genova, Iacopo da Varagine (1228-1298), con il Santo Graal. Si tratta, in verità, di un tipico manufatto di produzione fatimide (la dinastia araba che dominò l’Egitto dal 973 al 1171), un genere molto apprezzato nelle corti dei califfi. Il «catino» fu saccheggiato dai crociati nella città di Cesarea nell’anno 1101, e da lí portato a Genova. info complesso museale di s. agostino: tel. 010 2511263; e-mail: museosagostino@comune. genova.it; www.museidigenova.it; call center coopculture: tel. 010 4490128 (lu-ve, 9,00-13,00 e 14,00-17,00; sa, 9,00-13,00); e-mail: msa@coopculture.it

le opere, provenienti da collezioni pubbliche e private italiane ed europee, possiamo ricordare la tavola del Museo Borgogna di Vercelli, dipinta da Bernardino de’ Donati agli inizi del Cinquecento, che mette in scena Enea alla corte di Didone e la grandiosa Adorazione dei Magi, concessa in prestito dagli Uffizi, opera di Sandro Botticelli, del 1500 circa, tra le sue ultime opere, mistica, strana e popolatissima, intrisa degli echi delle profezie del Savonarola. Quanto ai pellegrini, ne vediamo su predelle di squisita ricchezza, come quella di Lorenzo Monaco dal Museo di San Marco di Firenze, San Nicola

ILLEGIO, TOLMEZZO (UDINE)

che salva i naviganti, del 1415 circa. info tel. 0433 44445 oppure 0433 2054

OLTRE. IN VIAGGIO CON CERCATORI, FUGGITIVI, PELLEGRINI Casa delle Esposizioni fino al 9 ottobre

Viaggiare è il simbolo dell’insopprimibile desiderio dell’uomo di trovare il senso, di superare se stesso, di vivere pienamente: sensazioni che vengono raccontate visivamente nella mostra di Illegio, attraverso un percorso che comprende oltre quaranta dipinti su tela e su tavola. Fra

TIVOLI (ROMA) I VOLI DELL’ARIOSTO. L’ORLANDO FURIOSO E LE ARTI Villa d’Este fino al 30 ottobre

Organizzata in occasione del cinquecentesimo anniversario della prima edizione dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto (1516), la mostra celebra l’impatto esercitato dal poema fino ad

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AGENDA DEL MESE teatrali, conferenze, letture ariostesche. info tel. 0774 312070; e-mail: pm-laz.villadeste@ beniculturali.it www. villadestetivoli.info; www.ariostovilladeste.it SAN GIMIGNANO BENOZZO GOZZOLI A SAN GIMIGNANO Pinacoteca fino al 1° novembre

oggi sulle arti figurative. Villa d’Este, con il suo celebre giardino e i suoi ambienti affrescati, ne costituisce lo scenario ideale: il cardinale Ippolito II d’Este, infatti, che fece costruire e decorare tra gli anni sessanta e settanta del Cinquecento questa villa di delizie, non solo è citato piú volte nel poema, ma aveva avuto modo di frequentare l’Ariosto negli anni della giovinezza trascorsi presso la corte ferrarese. Le opere riunite a Villa d’Este attingono alle piú varie tipologie e tecniche artistiche (dipinti, sculture, arazzi, ceramiche, disegni, incisioni, medaglie, libri illustrati...) e vengono presentate secondo un itinerario cronologico, documentando la fortuna visiva del poema: dopo una premessa dedicata al volto e al mito del poeta (dove i ritratti cinquecenteschi dell’Ariosto dialogano con le rievocazioni ottocentesche di alcuni episodi, reali o fantastici, della sua vita), una sezione è dedicata alla storia figurativa del Furioso nel Cinquecento. A integrazione della mostra, Villa d’Este propone un ricco calendario di manifestazioni ed eventi collegati: percorsi nel territorio, concerti, proiezioni cinematografiche, spettacoli

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Di Benozzo Gozzoli (1420/211497), artista tra i piú rappresentativi e prolifici del Quattrocento italiano, la mostra celebra il triennio sangimignanese, uno dei periodi piú intensi e fecondi nella sua lunga attività. Protagonista del progetto espositivo è la tavola di

Benozzo con la Madonna col Bambino e angeli tra i santi Giovanni Battista, Maria Maddalena, Agostino e Marta, che viene ricomposta per la prima volta nella sua interezza grazie ai frammenti di predella oggi divisi tra i musei di Brera, Avignone e Madrid. Il maestro soggiornò nella città delle torri dal 1464 al 1467 e vi realizzò affreschi e pale d’altare, frutto della sua efficiente organizzazione di bottega. Riunite per l’occasione, le opere sono distribuite fra la Pinacoteca e il Museo d’Arte Sacra. Sono stati inoltre predisposti un circuito di visite dei cicli di affreschi nel

Duomo, nella chiesa di S. Agostino e nell’abbazia di Monteoliveto e un approfondimento della figura dell’artista presso il BEGOMuseo Benozzo Gozzoli di Castelfiorentino. info www.sangimignanomusei.it VENEZIA VENEZIA, GLI EBREI E L’EUROPA. 1516-2016 Palazzo Ducale, Appartamenti del Doge fino al 13 novembre

Organizzata per il cinquecentenario dell’istituzione del Ghetto di Venezia, la mostra descrive i processi che sono alla base della realizzazione e della nascita del primo «recinto» destinato agli Ebrei creato al mondo, ma, nel contempo, allarga lo sguardo alle relazioni stabilite con il contesto degli altri quartieri ebraici (e non solo) italiani ed europei. L’iniziativa intende mettere in luce la ricchezza dei rapporti tra Ebrei e Venezia, tra Ebrei e società civile nei diversi periodi della loro permanenza in laguna, in area veneta e in area europea e mediterranea.

Dipinti, disegni, libri, documenti, ricostruzioni multimediali concorrono a raccontare una lunga storia di relazioni e di scambi culturali. Con l’obiettivo di divulgare una maggiore consapevolezza delle diversità culturali esistenti in Europa.

info tel. 041 2715911; e-mail: info@fmcvenezia.it; http://palazzoducale.visitmuve.it

CASTEL DEL MONTE MATEMATICA E BELLEZZA. FIBONACCI E IL NUMERO AUREO fino al 15 novembre

Nell’immaginario collettivo, l’arte e la matematica sembrano viaggiare su strade parallele, ma sono in realtà strettamente connesse tra loro. Dal loro connubio nasce questa mostra, che trova in Castel del Monte la sua collocazione ideale, considerando come nell’idea costruttiva di Federico II la proporzione numerica si sia manifestata al suo livello piú elevato. La rassegna presenta le riproduzioni di capolavori di Botticelli, Giorgione, Giotto, Leonardo da Vinci e una planimetria di Castel del Monte e del suo portale, poste in relazione con opere di artisti contemporanei quali Alberto Biasi, Gregorio Botta, Bruno Ceccobelli, Giorgio de Chirico, Piero Guccione, Giacomo Manzú, Piero Pizzi Cannella e Oliviero Rainaldi. info tel. 0883 569997; www. casteldelmonte.beniculturali.it

PERUGIA I TESORI DELLA FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI PERUGIA E IL CARAVAGGISMO NELLE COLLEZIONI DI PERUGIA Palazzo Lippi Alessandri fino al 20 novembre

L’esposizione marca i vent’anni di collezionismo della agosto

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Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e ne propone le opere d’arte acquisite. Si tratta di oltre 50 dipinti, rappresentativi non solo delle esperienze artistiche che si affermano in Umbria dal Trecento al Settecento, ma anche di altri aspetti della cultura figurativa italiana dal Rinascimento al Barocco. Nelle stesse date e negli stessi spazi è inoltre allestita la rassegna dedicata al caravaggismo nelle collezioni di Perugia. Una doppia occasione, quindi, per ammirare le opere piú importanti della collezione della Fondazione Cassa di Risparmio. info: tel. 075. 5724563; e-mail: info@fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte.it

Signore nell’atto di ungergli i piedi con essenze preziose, oppure dolente e piangente abbracciata al legno della croce, infine lieta di recare l’annuncio della Resurrezione agli apostoli, la figura della Maddalena, esempio paradigmatico di conversione, ha destato l’interesse dei maggiori artisti dal Medioevo al Neoclassicismo e questa mostra, attraverso una selezione di capolavori che illustrano vari momenti della sua vita, intende presentarne gli episodi piú significativi. L’arte marchigiana propone una serie suggestiva di immagini della santa, a partire dalla tavola di Carlo Crivelli di Montefiore dell’Aso, nella

chiesa della Maddalena di Fabriano. Persino Antonio Canova, scultore generalmente poco attento alle tematiche religiose in linea con il laicismo prevalente nei suoi anni, ha affrontato la figura della Maddalena mostrando il momento del suo ravvedimento, a conferma che il percorso di fede della giovane peccatrice potesse rappresentare per l’affermato scultore veneto un nuovo cimento artistico. info tel. 071 9747198 o 06 68193064; e-mail: museoanticotesoro@gmail.com; e-mail: info@artifexarte.it: www.artifexarte.it BASSANO DEL GRAPPA IL MAGNIFICO GUERRIERO. BASSANO A BASSANO Civici Musei fino al 31 gennaio 2017

Il Magnifico Guerriero di Jacopo Bassano si offre all’ammirazione del pubblico grazie al comodato gratuito accordato dal suo possessore ai Civici Musei bassanesi.

Appuntamenti

LORETO LA MADDALENA, TRA PECCATO E PENITENZA Museo-Antico Tesoro della Santa Casa di Loreto fino all’8 gennaio 2017 (dal 3 settembre)

La rassegna si propone come uno degli appuntamenti d’arte di maggior rilievo fra quelli dedicati al Giubileo della Misericordia, soprattutto dopo l’annuncio di papa Francesco dell’istituzione, proprio nell’anno giubilare, della festa della Maddalena, che eleva la memoria della santa al grado di festa. Prostrata ai piedi del

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Il dipinto ritrae un affascinante nobiluomo dalla fulva, curatissima barba. Non un giovane ma un uomo maturo, certo aduso al comando, ma, soprattutto, a una vita raffinata lontano dai campi di battaglia. Indossa una preziosa corazza alla moda dell’epoca, che lo costringe, ma che non riesce a ingabbiarne la grazia e la flessibilità. Le lunghe dita, curate e perfette, non sembrano le piú adatte a menar fendenti, cosí come il suo spadino di ferro e oro sembra piú da parata che da battaglia. Secondo Vittoria Romani dell’Università di Padova, studiosa alla quale va il merito di avere ricondotto a Jacopo Bassano questo autentico capolavoro già attributo a Veronese e a Pordenone, il ritratto è databile agli anni immediatamente seguenti il 1550, ovvero al momento piú altamente manierista del maestro. info tel. 0424 519.901-904; e-mail: info@museibassano.it; www.museibassano.it

SARZANA quale l’artista veneziano la ritrae nelle vesti di una provocante ragazza dallo sguardo tentatore, mentre la fenice ricamata sulla manica dell’abito elegante evoca il suo percorso di conversione alla fede. Nell’età della Controriforma, la santa conosce un periodo di grande fortuna nell’iconografia sacra, testimoniata, ad esempio nella tela di Orazio Gentileschi della

FESTIVAL DELLA MENTE XIII EDIZIONE 2-4 settembre

La rassegna si propone di esplorare, attraverso una quarantina fra incontri, spettacoli e momenti di approfondimento culturale, la nascita e lo sviluppo delle idee e dei processi creativi, toccando anche temi di attualità sociale e scientifica per aiutarci a comprendere la realtà di oggi. Per tre giornate

grandi scienziati, scrittori, artisti, fotografi, architetti, filosofi, psicologi, storici quest’anno condivideranno la loro creatività e il loro sapere, con un linguaggio accessibile a tutti, sul tema dello spazio. «Il festival sarà come sempre dedicato all’indagine dei processi creativi, e quest’anno abbiamo scelto come filo conduttore la parola “spazio”», spiegano Gustavo Pietropolli Charmet e Benedetta Marietti, rispettivamente direttore artistico e direttore scientifico della manifestazione. «Dallo spazio urbano allo spazio interstellare, dallo spazio delle relazioni allo

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AGENDA DEL MESE APPUNTAMENTI • Giochi Medievali Altoatesini

personaggi di grande prestigio, tra protagonisti del mondo della comunicazione, della cultura, e dell’economia. Fra gli altri, nella sezione Web e Scrittura, è prevista la partecipazione dello storico Alessandro Barbero, che presenterà un intervento intitolato «Alle origini della comunicazione aziendale: gli ordini religiosi del Medioevo». info www.festivalcomunicazione.it; facebook: FestivalComunicazione; twitter: FestivalCom; Instagram: www.instagram.com/ festivalcomunicazione; Youtube: www.youtube.com/ FestivalComunicazioneit

Sluderno 19-21 agosto info www.ritterspiele.it

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Sluderno, in Val Venosta, si tengono i tradizionali Giochi Medievali Altoatesini. Nel pianoro che si estende fra Castel Coira, i resti di Montechiaro, Castel Principe e l’abbazia benedettina di Monte Maria, oltre mille rievocatori ogni giorno danno vita a tornei cavallereschi, concerti di musica medievale, esibizioni di giullari, sbandieratori, acrobati, mangiafuoco e altri artisti, spettacoli pirotecnici e un mercato dell’epoca. Nella mattinata di sabato 20 un corteo storico composto da lanzichenecchi, nobildonne, cavalieri e altri figuranti si snoderà ai piedi di Castel Coira, attraverso il borgo di Sluderno. Nei pomeriggi di venerdí 19 e domenica 21 verrà rievocata la Battaglia alla Calva del 22 maggio 1499, combattuta contro l’invasione dei Grigioni svizzeri. Nei giorni della manifestazione è possibile pernottare nell’accampamento medievale allestito ai piedi di Castel Coira.

FIRENZE MARTEDÍ SERA AL MUSEO Galleria degli Uffizi fino al 27 settembre

Per tutta l’estate, la Galleria spazio geometrico, “spazio” è un concetto che racchiude molteplici significati e può essere declinato in molti modi. È possibile così affrontare temi e campi diversi del sapere, “spaziando” dalle piú recenti scoperte scientifiche agli ambiti di pensiero artistico e umanistico, in linea con la vocazione multidisciplinare e divulgativa del Festival della Mente». info www.festivaldellamente.it CAMOGLI FESTIVAL DELLA COMUNICAZIONE III EDIZIONE 8-11 settembre

Torna a Camogli il Festival della Comunicazione: quattro giornate, con oltre un centinaio di appuntamenti tra incontri,

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laboratori, spettacoli, mostre ed escursioni e piú di 120 ospiti provenienti dal mondo della comunicazione, della letteratura, della scienza, delle imprese, della medicina e della psicologia, dell’arte, dei social network, del diritto, della filosofia. Il macrotema individuato per questa terza edizione da Umberto Eco: il world wide web. Gli ospiti che si incontreranno a Camogli – storici volti del Festival o nuovi compagni di viaggio – discuteranno le opportunità e le potenzialità di questo straordinario strumento, immaginando gli scenari futuri e le vie da seguire, a venticinque anni dalla pubblicazione del primo sito web. In occasione della manifestazione sarà inaugurata

la mostra di Tullio Pericoli “Quanti ritratti, caro Umberto”. In esposizione i disegni, gli schizzi, i giochi, scambi di ritratti e lettere in cui, nel corso degli anni e di una lunga amicizia, l’artista ha raffigurato il grande semiologo, ispiratore del Festival sin dall’inizio. La mostra, allestita nella Sala Consiliare del Comune di Camogli, sarà aperta fino ai primi di dicembre. Gli incontri, tutti visibili anche in diretta streaming sul sito del Festival, si articoleranno in sette grandi aree intorno al web, con

degli Uffizi effettua un’apertura continuata, il martedí, dalle 19,00 alle 22,00 con appuntamenti speciali dal vivo. L’ingresso è a pagamento ed è possibile prenotare la visita, tenendo presente che l’ultimo ingresso prenotabile è fissato alle 20,00. Nell’ambito dei «Martedí sera al museo», ogni settimana si svolgono attività speciali – coordinate con le opere d’arte – di musica, letteratura, danza o teatro. info e prenotazioni tel. 055 294883; www.uffizi.beniculturali.it

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Case, torri e famiglie

di Furio Cappelli

Non c’è Medioevo senza castello e non c’è castello senza torri. Vere e proprie antenate dei grattacieli, punteggiavano anche il tessuto delle città. Facendo della loro altezza un’espressione tangibile del «potere» Veduta di San Gimignano, borgo medievale in provincia di Siena, caratterizzato dal profilo delle sue alte torri. Oggi se ne contano 14, ma in origine dovevano essere circa 70.

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uando si pensa a una città medievale, si immagina un tripudio di torri sopra ai tetti delle case. Sembra piú che naturale che ve ne fossero moltissime, e si direbbe che tutti i personaggi piú eminenti fossero impegnati in una gara a costruire quella piú alta. Gli scontri tra armati, poi, secondo una visione «epica» della storia urbana, si svolgono soprattutto negli spazi aerei, tra una torre e un’altra. Ma era davvero cosí? Alle origini del fenomeno c’è sicuramente il nesso tra la presenza delle torri e un clima di diffusa irre-

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quietezza, se non di aperta ostilità. Emblematico, a tale riguardo, è il documento noto come «lodo delle torri». Siamo negli anni 1088-1092, e Pisa è dilaniata da lotte intestine: per porvi fine, il vescovo Daiberto si offre come paciere e riesce a risolvere la crisi in atto stabilendo regole di edilizia urbana che tutti i cittadini si impegnano a rispettare.

Il controllo degli spazi

A quel tempo si era diffusa la tendenza a prevaricare sui vicini: non appena le singole famiglie o le consorterie riuscivano a munire le proprie abitazioni, si sentivano in diritto di fare ciò che volevano; non era in corso una lotta politica, né c’erano scelte di campo da affermare o da difendere. Si assisteva piuttosto

a una vera e propria guerra per il controllo del territorio urbano, soprattutto quando un’area si rendeva libera a seguito della demolizione di una casa preesistente. In un simile frangente, la torre poteva eventualmente trasformarsi in uno strumento di guerra, poiché dall’alto si dominava meglio la situazione, ma il documento pisano, con i divieti che impone, lascia intendere che la lotta urbana abbondava di ogni genere di espedienti. Bastava infatti un apparato ligneo sporgente (un ballatoio o una terrazza), a un’altezza non eccessiva, per sbarrare il passaggio ai nemici e aggredirli. Quando poi dalle scaramucce si passava agli scontri di gruppo, non si poteva rimanere asserragliati dentro una o piú case,

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Piccolo glossario comunale CONSORTERIA È un’associazione tra famiglie nobiliari legate o meno da rapporti di parentela. Si diffonde in ambito urbano durante il periodo precomunale. Si prefigge una gestione comune del patrimonio e prevede una strategia di difesa imperniata su una torre o su una casa fortificata in cui tutti i suoi membri possono trovare rifugio.

alta non è strategicamente funzionale, né rappresenta un pericolo in sé. Chi ne detiene il controllo non possiede un’arma piú potente, ma una torre che si eleva troppo costituisce un problema, perché esprime la tendenza a imporsi visivamente e a spadroneggiare nel paesaggio urbano. Coloro che investono risorse considerevoli per edificarla, cercano di affermarsi in uno spazio, pretendono attenzione, vogliono essere riconosciuti, omaggiati e temuti: in sostanza, la torre troppo alta non è tanto uno strumento della lotta urbana quanto piuttosto un elemento che stimola e accelera le tensioni destinate a scatenarsi nelle strade. In alto particolare del plastico in scala 1:100 di San Gimignano, esposto nel Museo «San Gimignano 1300». A sinistra ancora una veduta del borgo toscano dalla torre Grossa (o del Comune). Sulla piazza del Duomo, a sinistra, spicca il Palazzo del Podestà, con la torre Rognosa; a destra, si apre la piazza della Cisterna.

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con o senza torre, ma occorreva organizzarsi in strada. E, a quel punto, scattava l’assalto all’edificio in muratura piú vicino e piú capiente, spesso e volentieri una casa annessa alla parrocchia piú vicina, che diveniva cosí la piazzaforte di una delle parti in lizza. Se poi lí accanto c’era una torre campanaria, punto di riferimento visivo e sonoro del quartiere, prenderne possesso, sia pure per poco tempo, equivaleva a una vittoria schiacciante. Si spiegano cosí il divieto di allestire apparati «paramilitari» nelle case, nonché quello di fare un uso «improprio» degli edifici di proprietà della Chiesa. Ma, allora, perché il vescovo pisano si preoccupa di limitare l’altezza delle torri? Dal punto di vista militare, una torre particolarmente

Cancellare il nemico

Chi costruisce le torri può essere protagonista di lotte intestine e, quando si scatenano i conflitti tra guelfi e ghibellini, la fazione vittoriosa ricorre spesso all’abbattimento delle strutture dei rivali. Ciò non significa, tuttavia, che le torri avessero una funzione essenziale nel corso dei combattimenti, né, tantomeno, che fossero pensate in funzione di un loro utilizzo militare. La ritorsione si accanisce sulle costruzioni di pari passo alla messa al bando degli sconfitti: distruggere la torre significa sradicare dallo scenario urbano l’ombra della parte avversa. L’aspetto simbolico delle torri è evidente già dal loro essere concentrate intorno alle piazze e lungo (segue a p. 42)

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Tre città delle torri: San Gimignano, San Gimignano, nel cuore della Valdelsa, è celebre per il cospicuo numero di torri nobiliari ben conservate che tuttora ne caratterizza il profilo. Ne sono rimasti integri 14 esemplari, mentre all’apice del suo sviluppo, nei primi anni del XIV secolo, doveva annoverarne una settantina. La maggiore concentrazione si nota nel settore centrale dell’insediamento, che corrisponde alla civitas vetus, e dunque all’assetto piú

antico. Lungo il percorso della via Francigena si incardinano la piazza del Duomo e la piazza della Cisterna, nei cui scenari spiccano un senso dell’ordine e un’estetica che rispecchiano bene l’orgoglio della comunità, già attenta nel XIII secolo a pianificare nuove imprese e a regolamentare l’edilizia privata. Nella prima piazza sorgono la collegiata e le residenze comunali, mentre l’elemento pubblico che risalta in piazza della Cisterna è

1. TORRI DEI SALVUCCI Situate in piazza del Duomo, appartennero a una ricca famiglia di usurai e di mercanti che si schierò con i ghibellini. Sono torri gemelle, in tutto simili, entrambe dotate di strette aperture.

Piazza della CIsterna 6 Piazza Duomo 4

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Duomo

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Palazzo Comunale 5

2. TORRI DEGLI ARDINGHELLI E DEI PELLARI Situate nella piazza della Cisterna, all’angolo della piazza del Duomo, le torri degli Ardinghelli e dei Pellari furono costruite nel XIII secolo e si differenziano per dimensioni e per la grandezza delle finestre.

3. TORRE GROSSA

Piú tarda rispetto alle storiche torri del potere politico e finanziario, la torre Grossa è la piú alta di San Gimignano (54 m) e l’unica aperta alle visite del pubblico. Venne

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ultimata nel 1311 e si trova anch’essa nell’ampia piazza del Duomo, accanto al Palazzo del Popolo.

6. TORRE DEL DIAVOLO Secondo la

4. TORRE ROGNOSA

l’edificio, adibito a carcere, era abitato da persone gravate da diverse «rogne».

Fra le piú antiche, risale ai primi decenni del Duecento. Sfiora i 51 m di altezza e svetta tuttora sopra il Palazzo del Podestà, nella piazza del Duomo. Secondo la tradizione, l’appellativo «Rognosa» si riferisce al periodo in cui

5. TORRE DEI CUGNANESI Apparteneva

leggenda medievale, deve la sua imponente altezza a un incantesimo del demonio.

alla ricca famiglia dei Cugnanesi ed è una delle torri piú alte della città. Costruita nel Duecento è situata tra via San Giovanni e via del Quercecchio.

Si affaccia su piazza della Cisterna e su via San Giovanni ed evoca il nome di un’altra facoltosa famiglia di mercanti sangimignanesi.

7. TORRE DEI BECCI

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Ascoli Piceno, Tarquinia

il pozzo centrale. Tutt’intorno, si concentra la «selva» delle torri. Accorpata al Palazzo del Podestà, la torre Rognosa, con i suoi m 50,92 di altezza stabiliva il punto massimo raggiungibile dalle costruzioni private, in base a una norma statutaria emanata nel 1255. Il limite venne poi superato dalla torre Grossa, la cui costruzione fu avviata nel 1298 presso la nuova residenza comunale (il Palazzo del Popolo), di fianco alla collegiata. In precedenza, la stessa torre Rognosa era appartenuta ai Gregorio, proprietari terrieri, e, nel 1243, prima di entrare a far parte del palazzo comunale, era stata venduta agli Oti.

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Gli Ardinghelli, a cui apparteneva la torre in piazza della Cisterna, erano mercanti che risultano attivi sia in Lombardia che negli scali orientali. Va in proposito ricordato che San Gimignano basava la propria economia proprio su una florida attività commerciale. In particolare, la città toscana si distingueva nel settore della produzione e dell’esportazione dello zafferano (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 54-63), e, grazie alla sua felice posizione su un asse viario assai frequentato, aveva una vasta attività di trasporto merci. I suoi vetturali lavoravano spesso al servizio di commercianti pisani, senesi e lucchesi.

In alto una veduta d’insieme del plastico in scala 1:100 di San Gimignano, che mostra la cittadina cosí come doveva presentarsi in epoca medievale. San Gimignano, Museo «San Gimignano 1300».

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Qui sopra Ascoli Piceno. La torre degli Ercolani (XIII sec.), annessa alla casa nota come Palazzetto Longobardo, di cui la foto in alto mostra una delle bifore.

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Di fianco alla proprietà Ardinghelli si presenta la torre Pellari, caratterizzata dalle ampie aperture ad arco ribassato che ingentiliscono la severità tipica di queste costruzioni. In origine, al pianterreno si trovava la bottega gestita dai primi proprietari, i Gimignalli, che poi vendettero torre e casa annessa nel 1251. Sulla piazza del Duomo prospetta un palazzo affiancato da due torri abbinate gemelle, intitolate ai Salvucci, usurai, mercanti e titolari di varie altre proprietà. Nel 1248 possiedono la torre piú vistosa tra quelle che svettano tra piazza del Duomo e la retrostante altura di Montestaffoli. Nel 1332 risultano risiedere all’estremo opposto della città, presso il convento di S. Domenico, ma possiedono ancora tre torri e un casolare nella zona centrale, in contrada Piazza.

Ascoli Piceno, nel Sud delle Marche, laddove correva il confine tra lo Stato della Chiesa e il Regno, segna sul versante adriatico dell’Appennino l’avamposto delle tipiche città comunali dell’Italia centrale e, non a caso, lega la propria immagine storica a una fitta presenza di torri. Secondo la tradizione sarebbero state 150, o ancor di piú. Come spesso avviene, il dato non è del tutto attendibile, ma una ricognizione condotta sul tessuto urbano ha comunque riconosciuto la presenza di 70 unità. Solo 5 strutture sono state integralmente tramandate e, tra queste, spicca la duecentesca torre degli Ercolani. Si è perfettamente mantenuta insieme alla casa annessa, nota come Palazzetto Longobardo, per via del carattere «barbarico» che veniva attribuito alle sue decorazioni nell’Ottocento. E proprio l’aspetto decorativo, riscontrabile qui come in altri casi della città, attrae l’attenzione ed è motivo di interesse. Tre delle bifore che si aprono al primo piano sono ingentilite da bassorilievi che disegnano sul travertino decori e figure di vario genere, in un caso poste a comporre una probabile scena imperniata su un castello. Lungo il coronamento corre poi un esile motivo a treccia. Sembra quasi che gli scultori abbiano adottato gli stessi temi e gli stessi stili delle decorazioni che venivano realizzate con la tecnica della stampigliatura a secco su oggetti di prestigio come scrigni, custodie o cassette in cuoio. Molto singolare è poi la pusterla (piccola porta) su strada della

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torre annessa, con un massiccio apparato di blocchi romani di reimpiego, su cui spicca una piattabanda di pura valenza decorativa, con un triangolo modanato al centro. Si tratta di uno stile ripreso in modo lampante dalla porta su Piazza Arringo del battistero ascolano di S. Giovanni (1150-1180 circa), secondo una logica di «appropriazione» dei motivi dell’edilizia sacra. Tra le «città delle torri», Tarquinia (in provincia di Viterbo) è forse la meno nota, anche perché il suo prezioso centro storico è messo in ombra dalla celebrità della necropoli etrusca. Eppure la presenza di ben 18 strutture integralmente tramandate merita da sola una menzione d’onore. Corneto (cosí era nota la città nel Medioevo) si giovava della navigabilità del fiume Marta e della vicinanza del Mar Tirreno. Era cosí divenuta una delle realtà commerciali piú vivaci della Tuscia, arrivando a stabilire rapporti con Pisa (1173) e con Genova (1177). Le sue chiese piú importanti, come S. Maria di Castello, ricca di apporti dei maestri cosmati (i famosi marmorari di Roma), S. Martino, con una decorazione di

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A destra Tarquinia. Una delle torri medievali che tuttora punteggiano l’area del Palazzo comunale. In primo piano, si riconoscono le absidi della chiesa di S. Pancrazio (XIII sec.). In basso, sulle due pagine una veduta di Tarquinia. Al centro, si riconosce la chiesa di S. Maria di Castello (1121-1207), costruita nell’area del castrum Corgnetum, già attestato nell’852.

«marca» pisana basata sulla bicromia, o la SS. Annunziata, con un portale di schietta suggestione arabo-normanna, rendono bene la ricchezza di un paesaggio urbano in cui le torri si inseriscono con efficacia. Come di consueto, anche in questo scenario esse si trovano concentrate nell’area di maggiore importanza, nel fulcro della città antica. Il Palazzo dei Priori è tuttora caratterizzato da ben quattro torri private preesistenti che sono state inglobate nella nuova struttura.

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civiltà comunale/8 San Gimignano (noto anche come Geminiano, vescovo di Modena), tiene il modellino dell’omonima città toscana, particolare della pala d’altare di San Gimignano. Tempera su tavola di Taddeo di Bartolo, 1401-1403 circa. San Gimignano, Pinacoteca Civica.

le vie di maggiore importanza. A dispetto di ogni regola dell’architettura militare, non sfruttavano posizioni di spicco e si trovavano letteralmente accorpate le une alle altre. Tale addensamento le rendeva del tutto inutili in caso di combattimenti a distanza, mentre i legami di famiglia e di vicinanza potevano rafforzarsi proprio grazie alla loro prossimità. In molte città, come per esempio a Bologna, tra una torre e un’altra si gettavano ballatoi lignei che risultavano quanto mai significativi se attraversavano una strada importante da un lato all’altro. Questa «colonizzazione» degli spazi aerei permetteva a un gruppo di famiglie di asserire la propria preminenza in un settore urbano di spicco, e, in caso di pericolo, offriva vie di collegamento e di fuga preziose e inaccessibili agli estranei.

Come una cassaforte

D’altronde, dal punto di vista pratico, la torre, in tempo di pace, svolgeva proprio la funzione di cantina e di magazzino, oltreché di «cassaforte». E lo sviluppo in altezza delle torri era in tal senso assai prezioso per via della ristrettezza dei lotti edificabili, tanto che le case si sviluppavano in profondità, offrendo il lato minore sull’affaccio in strada. La torre stessa poteva essere collegata a un gruppo di abitazioni, in origine appartenenti a uno stesso gruppo familiare o a una consorteria, e perdeva senso e valore quando il legame con la casa si interrompeva. Ad Ascoli Piceno, per esempio, in pieno XIII secolo, le torri erano suddivise in particelle, e ogni loro «segmento» faceva corpo con la proprietà di una casa. In pratica, ogni

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ri anche in area urbana. La città, comproprietario aveva la disponibiin sostanza, non aspetta la prolilità di un piano interno o di un suo ferazione dei castelli per dotarsi di comparto, e tale suddivisione non strutture del genere e il fenomeno aveva alcun senso dal punto di visi sviluppa in area urbana e in camsta «militare», ma aveva invece un pagna in perfetta sincronia. valore strettamente immobiliare. Si può anzi dire che la città, per La torre era il complemento il perdurare della sua importanza necessario dell’abitazione, poiché come sede di potere, può vantare, quest’ultima, il piú delle volte svisin dall’inizio, la costruzione di ediluppata su un solo piano, non offrifici fortificati in pietra, a beneficio va spazi sufficienti allo stivaggio: il del vescovo, del grande feudatario o pianterreno era occupato dalla staldello stesso imperatore, sicché sarà la, dal ripostiglio degli oggetti di uso la città a dettare legge al territorio quotidiano o dalla bottega, qualora in materia di fortilizi. La diffusioil proprietario fosse un commerne nel contado di edifici fortificati ciante. Tutto il piano sovrastante, in pietra – e non, quindi, in legno che poteva essere costituito da un o in tecnica mista – si ebbe molto semplice «camerone» suddiviso da piú tardi. Frattanto, sia pur regretramezzi di legno, era assorbito dadite rispetto all’età antica, le città si gli spazi per il riposo e per la preparazione e il consumo dei pasti. Per i beni importanti, che Da leggere non potevano essere custoditi in una semplice cassapan Aldo A. Settia, «Erme torri». Simboli di potere fra ca, e per le riserve alimentari città e campagna, Società per gli Studi Storici, (olio e vino, in particolare), Archeologici ed Artistici della Provincia di Cuneoun comparto della torre era Società Storica Vercellese, Cuneo-Vercelli 2007 cosí utilissimo e necessa Claudio Meli, San Gimignano, in Storia dell’arte rio. In certi casi, per giunta, italiana, 8. Inchieste sui centri minori, Einaudi, quando la superficie dispoTorino 1980; pp. 107-132 nibile lo consentiva, gli spazi Paola Rossi, Tarquinia, in Enciclopedia dell’Arte interni potevano essere abiMedievale, Fondazione Treccani, Roma 2000; tabili. Si spiega cosí come le anche on line su www.treccani.it torri potessero rientrare in complesse suddivisioni eredidotano di questo genere «avanzato» tarie e in azioni di compravendita. di edilizia e mantengono o ricostruA San Gimignano, una famiglia iscono le cinte murarie. davvero eminente era quella che Le torri urbane proliferano nei poteva esibire la proprietà di un momenti chiave dello sviluppo precerto numero di torri con case ancomunale e comunale, tra la seconnesse, meglio ancora se distribuite da metà dell’XI e gli inizi del XIV in zone distinte della città. secolo, e si basano su esperienze Sincronia perfetta pregresse. Le modalità di costruzioSi è pensato a lungo che la torre urne delle cinte murarie, con le loro bana fosse il risultato di una traslatorri di rinforzo, fanno da modello, zione del castello del contado nello e se l’architettura sacra domina lo scenario della città. In realtà, come scenario, persino certe modalità di ha puntualizzato di recente Aldo A. chiese e torri campanarie possono Settia, il boom altomedievale delle essere «rubate» dai costruttori delle fortificazioni, particolarmente legatorri private. to alla crisi del Regno italico (IX-X Se la bellezza della città era desecolo), vede la presenza di palazzi terminata dal circuito delle antiche fortificati, di aree munite e di tormura, non dobbiamo perciò mera-

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vigliarci se la densa fioritura delle torri private fosse spesso esaltata come motivo di vanto della città. Nelle sintesi pittoriche di San Gimignano orgogliosamente esibite dai santi patroni urbani, le chiese sono pressoché assenti. La città sembra fatta di sole torri. Il mercante-cronista Giovanni Villani (1280 circa-1348) annovera con enfasi le 150 torri di Firenze, grazie alle quali la città si annuncia trionfalmente da lontano. E concetti in tutto analoghi si ritrovano nella descrizione di Pavia offerta negli stessi anni da Opicino de Canistris (1330 circa).

Cifre esagerate?

I numeri offerti da Villani non sono esagerati: un’indagine sul tessuto urbano di Firenze ha per l’appunto localizzato 150 torri, a cui si devono aggiungere 30 strutture non identificabili, ma attestate dalla documentazione. Nel caso di Bologna, i primi studiosi ne hanno stimate ben 240, ma in realtà dovevano esservi 70, al massimo 100 costruzioni con apparati difensivi, e, tra questi edifici, due su tre erano case-torri. Si trattava cioè di quelle case strutturate su due o tre piani che si svilupperanno sempre piú in direzione del palazzo nobiliare e che finirono per rendere inutile l’erezione della torre di corredo. Un caso particolare è Venezia, dove l’assoluta mancanza di torri private è compensata dallo sviluppo precoce della tipologia del palazzo, con un’elaborazione estetica delle facciate che preannuncia, già in età romanica, l’eleganza inconfondibile dello stile locale, come si può vedere per esempio nel Fondaco dei Turchi sul Canal Grande, realizzato intorno al 1230 dal fuggitivo Giacomo Palmieri da Pesaro. F

NEL PROSSIMO NUMERO ● L’acqua: condotti, fontane e mulini

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Fra una scarpa e un brindisi di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci

L’inventario dei beni presenti nella bottega di Nicolò di Bonino, artigiano di San Casciano Val di Pesa, documenta una scelta al tempo piuttosto diffusa: quella di proporsi come fabbricante di zoccoli e, allo stesso tempo, come produttore di botti. Due specializzazioni solo all’apparenza lontane fra loro: entrambe, infatti, presupponevano competenze tecniche affini, la cui padronanza poteva dunque garantire un considerevole aumento dei guadagni

E È

il 24 novembre 1497 quando gli Ufficiali dei Pupilli accettano la tutela dei tre figli minorenni dello zoccolaio Nicolò di Bonino di Nicolò da San Casciano Val di Pesa, comunità a 15 km a sud di Firenze, fra le valli dei fiumi Pesa e Greve: Vincenzo di tredici anni, Tommaso di sette e Bonino di sei. Era stato probabilmente lo stesso artigiano a predisporre l’intervento, dimostrando lungimiranza e piena fiducia nella Magistratura dei Pupilli, come molti altri Toscani dell’epoca, indotti dalla facoltà che gli Ufficiali avevano di riscuotere dai debitori insolventi, di provvedere alla vendita o all’amministrazione dei beni e di difendere i minori da possibili soprusi. Nel documento che lo riguarda si legge, infatti, che lo zoccolaio si era preoccupato di redigere il proprio testamento tre anni e mezzo prima, il 12 marzo 1494, al

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cospetto del notaio fiorentino Ser Ugolino di Vieri, e il passaggio viene registrato all’atto della successione.

Un impegno gravoso

L’8 marzo 1497 gli Ufficiali affrontano la trasferta verso San Casciano per visionare e trascrivere gli averi del defunto. La fase dell’inventariazione di tutte le masserizie contenute in abitazioni e botteghe era un impegno gravoso per la Magistratura, richiedeva tempi lunghi e a volte faticosi spostamenti. Per evitarli, soprattutto a partire dalla seconda metà del XV secolo, gli Ufficiali si facevano spedire direttamente alla sede fiorentina elenchi compilati da parenti o colleghi del defunto, vidimati da un notaio locale. Nel caso dello zoccolaio, invece, si recano sul posto e redigono l’inventario della bottega, unica proprietà di Nicolò insieme agli

Nella pagina accanto Ritratto dei coniugi Arnolfini, olio su tavola del pittore fiammingo Jan van Eyck. 1434. Londra, National Gallery. Nel dipinto si possono notare gli zoccoli della consorte, rossi, in secondo piano, e, sulla sinistra, quelli del marito, minuziosamente definiti (vedi anche il particolare qui sopra).

strumenti lí contenuti: a suo nome non appaiono masserizie casalinghe, né immobili o terreni agricoli da cui avrebbe potuto trarre qualche sostentamento. Proprio le condizioni economiche modeste lo hanno presumibilmente portato a testare con largo anticipo, e la richiesta di intervento ai Pupilli deve essergli apparsa la soluzione per salvaguardare non tanto inesistenti beni, quanto i propri discendenti, di cui – visto che il documento non accenna a una presenza materna – era, forse, il solo responsabile. agosto

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gente di bottega/6 l’inventario

Una bottega ben attrezzata Ecco un estratto dell’inventario dei beni presenti nella bottega dello zoccolaio Nicolò di Bonino. Inventario di ferramenti e masserizie di bottegha e delle robe di Nicholò di Bonino da San Chasciano fatto a dí 8 di marzo 1497 ✓3 seghe chol telaio mezane ✓1 pialla da doghe e 1 pialla da conmettere ✓4 choltella da pulire zoccholi ✓1 pialla sotto mano ✓2 chaperuzinatoi da barili ✓1 paio di tanaglie e

1 marchietto e 2 ascie 1 sfenditoio da cierchi ✓2 choltegli ritti da cierchi ✓2 choltegli da tagliare ghuigie ✓4 martellini da chonfichare ✓3 schonfichatoi da zoccholi ✓1 dirizatoia da dirizare legniame ✓2 ascie grande da chonciare ✓4 schure grande ✓1 segha grande chon l’armadura ✓1 segha da rifendere chon l’armadura ✓6 segherelle da rincidere tra pichole e grande ✓

3 pialle sotto mano 4 schuricine a 1 mano ✓ 1 ronchonciello da peruni ✓ 1 paletto di ferro ✓ 4 ascie usate ✓ 3 ascialini da zocholi ✓ 2 succhi grossi e 6 succhietti da channelle e 10 da aghuti ✓ 3 punteruoli e 5 schuffine tra grande e pichole ✓ 4 lime di ferro e 4 lime da segherelle ✓ 1 lima da seghe grosse chon una allicciaiuola ✓ ✓

(Archivio di Stato di Firenze, Pupilli avanti il Principato 180, cc. 143 r / 144 v) In alto veduta del borgo di San Casciano Val di Pesa. A sinistra pelli per tomaie e attrezzi da calzolaio.

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San Casciano Val di Pesa

Una fortezza imprendibile

Oltre al brevissimo accenno familiare relativo ai tre minori, l’aspetto della vita di Nicolò che torna alla luce è quindi solo l’attività di zoccolaio, un’inedita finestra sulla dimensione produttiva dell’artigiano, che si inserisce nel generale contesto culturale e artistico sancascianese della seconda metà del Quattrocento, come un tassello modesto, ma significativo (vedi box qui accanto).

Per proteggersi dal fango

Le calzature di legno prodotte da Nicolò venivano largamente utilizzate dai contadini, che le portavano sia nei campi che in casa, e dai cittadini, che le utilizzavano come soprascarpe, per proteggere le suole di pelle dal fango delle strade. Avevano una forma simile a quella delle versioni moderne della scarpa: una suola di legno piú o meno alta e incavata, su cui veniva inchiodata

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San Casciano, già San Casciano a Decimo, fra la Val di Greve e la Val di Pesa, nel Chianti fiorentino, si sviluppò in posizione strategica all’altezza del X miglio romano sulla via Cassia, alla prima stazione di posta partendo da Firenze per Siena. Come ricorda Emanuele Repetti, nel monumentale Dizionario geografico, fisico e storico della Toscana, edito nella prima metà del XIX secolo, le piú antiche memorie documentarie della comunità potrebbero risalire all’XI secolo, quand’era un borgo raccolto attorno alla chiesa omonima e provvisto di una sede per il Podestà. Nel primo Trecento, durante gli scontri per l’indipendenza del Comune di Firenze, fu sede dell’accampamento dell’imperatore Arrigo VII e, successivamente, venne occupato e distrutto dal condottiero Castruccio Castracani. Fu ricostruito nel 1343 dal duca d’Atene, nella sua breve dittatura fiorentina: resosi conto della sua importanza strategica avviò la costruzione di una prima cerchia muraria. Il recinto delle mura, ancora in parte ben conservato, fu ultimato nel 1356 dopo altre vicissitudini belliche e racchiuse tutto l’abitato. Da allora, San Casciano si impose come una fortezza imprendibile, cessarono i saccheggi e potenziò il proprio ruolo di contatto e scambio fra le due scuole pittoriche toscane piú importanti dell’epoca, la fiorentina e la senese, già avviato nel secolo precedente. Una delle prime testimonianze è la tavola con La leggenda di San Michele Arcangelo che il fiorentino Coppo di Marcovaldo eseguí tra il 1255 e il 1260 per la chiesa di S. Angelo a Vico l’Abate, nei dintorni di San Casciano, oggi conservata nel locale museo. Nella chiesa di S. Maria al Prato, edificata nel 1304 all’interno del borgo, rimangono un Crocifisso del senese Simone Martini, databile attorno al 1321-25, e tavole del concittadino Ugolino di Nerio, discepolo di Duccio di Boninsegna, un tempo parte di polittici smembrati di varia provenienza. Presso la sezione di Arte Sacra del museo sancascianese sono conservati altri dipinti che testimoniano l’influenza fra le scuole: una Madonna col Bambino di Lippo di Benivieni, vissuto a Firenze nella prima metà del Trecento, e un’altra del senese Ambrogio Lorenzetti, datata 1319.

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Titoletto box da fare In alto: ehent, estorem aliqui res doluptatio te non eiundus dolupta tiorit eos amet explabo. Iquis et lacil int utem con rehenisque lam la doluptatem sinto beriorere. A sinistra: ehent, estorem aliqui res doluptatio te non eiundus dolupta tiorit eos amet explabo. Iquis et lacil int utem con rehenisque lam la doluptatem sinto beriorere.

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iconografia

Fra realismo e immagini simboliche La presenza di zoccoli nei dipinti del XV secolo è giustificata talvolta dalla volontà di una raffigurazione realistica oppure da una valenza simbolica dell’oggetto, un tempo esplicita per chiunque si ponesse davanti a un quadro. Per esempio, nel famoso Ritratto dei Coniugi Arnolfini – eseguito da Jan van Eyck nel 1434, per celebrare le nozze del mercante e banchiere lucchese Giovanni Arnolfini con Giovanna Cenami – ogni oggetto della camera nuziale allude al matrimonio, alla sua sacralità e al suo valore giuridico e l’insieme dell’arredo costituisce un’allegoria del legame coniugale. I due zoccoli di legno dalla forma allungata in primo piano, sul pavimento, sono simbolo di vita virtuosa e laboriosa, indispensabile per un’unione felice. Anche nel Trittico Portinari uno zoccolo è in evidenza: dipinto a Bruges da Hugo Van der Goes, nel 1478, su commissione del fiorentino Tommaso Portinari – banchiere a capo della filiale del banco mediceo –, il trittico ne rappresenta la famiglia e i santi protettori al cospetto di Gesú appena nato. Nel pannello centrale, davanti alla Sacra Famiglia e al Bambino, lo zoccolo ricorda l’umiltà necessaria alla presenza del divino, rimandando al passo dell’Antico Testamento nel quale Dio ordina a Mosè davanti al roveto ardente di togliersi i sandali «perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa» (Esodo 3,5). Il ricco borghese di Bruges Pieter Bladel – committente nel 1450 del Trittico Middelburg, del fiammingo Rogier Van der Weyden, che lo raffigura nella parte centrale, in adorazione del Bambino – sceglie di vestire elegantemente in nero, ma con gli zoccoli ai piedi, in segno di rispetto; un significato analogo hanno probabilmente anche gli zoccoli allacciati saldamente alle scarpe dei bambini in processione, che accompagnano Gesú nella Presentazione al Tempio dipinta dal tedesco Stefan Lochner nel 1447 per il Duomo di Colonia (ora al Museo di Darmstadt): la suola scavata, piuttosto alta per isolare il piede dal terreno, li rende somiglianti a calzature orientali. Semplicemente raffigurati per quello che erano, sono invece gli zoccoli dipinti da Domenico di Bartolo nel 1442-43 nella Cura degli infermi, affrescata nel pellegrinaio dell’ex ospedale di S. Maria della Scala a Siena, visibili ai piedi di un giovane inserviente dalle calze rosse che trasporta una bara; e quelli indossati da contadini o borghesi in numerose miniature di scene domestiche, come per esempio quella contenuta nella traduzione inglese dei Ruralia Commoda, un calendario di agricoltura e tecniche di coltivazione scritto da Pietro Crescenzi nel XIV secolo, che mostra un uomo al caldo davanti a un camino; o quella del Libro d’Ore alla Morgan Library di New York, che immagina la Sacra Famiglia in un interno, intenta a pasteggiare: in entrambi i casi sono documentate forme e diffusione delle soprascarpe di legno. Adorazione dei pastori, pannello centrale del Trittico Portinari, olio su tavola di Hugo van der Goes. 1475. Firenze, Galleria degli Uffizi. Sul pavimento, in basso, a sinistra, si può notare uno zoccolo, la cui presenza può essere spiegata con l’intenzione di esprimere simbolicamente l’atteggiamento di umiltà che si deve assumere al cospetto del Figlio di Dio.

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una tomaia di pelle per proteggere il piede; in inverno lo copriva interamente e ne riparava almeno la parte anteriore, mentre d’estate lo lasciava scoperto. Per fabbricarle, lo zoccolaio sgrossava il legno – solitamente pioppo o ontano che non sono troppo pesanti – con una sorta di falcetto, appoggiandosi a un

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gente di bottega/6 banco o a un grosso ceppo; poi lo scavava con una raspa, rimuovendo le asperità con una lima; e, infine, con martello e chiodi, fissava alla suola la tomaia di pelle. Lo zoccolaio di San Casciano aveva in bottega tutto l’occorrente: accette e seghe grandi e piccole per sbozzare le calzature; coltelli da pulire zoccholi, che utilizzava per incavare la materia prima e adattarla alla forma della pianta di un piede; pialle, ascialini da zocholi, punteruoli e schuffine – un tipo di lima – per lisciare la superficie del legno. Nicolò disponeva inoltre degli attrezzi per riparare strumenti di lavoro danneggiati: 3 lime di ferro e 4 lime da segherelle, oltre alla lima da seghe grosse chon una allicciaiuola, con cui raddrizzare le lame piegate dall’uso, in modo da ripristinarne il taglio.

Le fasi finali

Le guiggie, ovvero le parti in pelle che formavano la tomaia dello zoccolo, venivano aggiunte alla fine e, a volte, decorate; nel caso in cui fossero state dotate di una fibbia per regolarne l’apertura, permettevano una maggiore aderenza al piede e, conseguentemente, una camminata piú comoda. Il pella-

A destra La cura degli infermi, affresco di Domenico di Bartolo. 1440-1441. Siena, Complesso museale S. Maria della Scala. Molti dei personaggi indossano zoccoli di legno. In basso particolare di una miniatura che propone un’allegoria del mese di Agosto, identificato con un bottaio intento a preparare i tini, dal codice Officium beatae Mariae virginis, attribuito a un artista padano del XIV sec. Forlí, Biblioteca Civica.

me utilizzato, di vitello o agnello, era tagliato con trincetti definiti nell’inventario choltegli da tagliare guig[g]ie, e veniva inchiodato alla suola di legno con martellini da chonfichare. Quando la tomaia andava rimossa – perché rotta o per altra ragione –, Nicolò usava gli schonfichatoi da zoccholi per togliere i chiodi – gli aguti – e procedere alla sostituzione. L’attività di zoccolaio deve essere stata la principale per l’artigiano,

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visto che gli Ufficiali la indicano nell’intestazione dell’inventario; ma, scorrendo il documento, insieme agli strumenti per fabbricare gli zoccoli se ne individuano anche molti altri per l’attività di bottaio e cerchiaio, che evidentemente Nicolò portava avanti. Pur sembrando oggi due categorie merceologiche poco attinenti fra loro, erano tuttavia accomunate da un certo numero di arnesi e competenze tecniche, che potevano giusti-

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ficare la scelta di dedicarsi a procedimenti e produzioni cosí differenti.

Legni selezionati

La realizzazione di botti richiede prima di tutto la selezione di legni adatti alla conservazione degli alimenti: quercia e rovere per vino e distillati, talvolta anche castagno, ciliegio o mandorlo; gelso o ginepro per gli aceti. Nicolò disponeva di materia prima in quantità: vi si accenna al termine dell’inventario

in modo sommario, dicendo che è stata fatta una stima dei legniami sodi e lavorati, ossia interi o già parzialmente trasformati, senza però precisarne la specie. Un bottaio capace deve ancora oggi essere in grado di applicare tecniche di taglio specifiche: per realizzare una botte solida, non solo è necessario che il legno sia sano, ma occorre calcolare che lo spessore della doga sia pari al 4% circa della sua lunghezza. Secondo che si usi la

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gente di bottega/6 L’inquadramento giuridico

Le Arti di riferimento Gli zoccolai appartenevano alla corporazione dei Calzolai, una delle 14 Arti Minori di Firenze, costituitasi nel 1273; nel 1293, con l’entrata in vigore degli Ordinamenti di Giustizia, fu temporaneamente ammessa tra le Arti Maggiori, sicuramente per il grande numero degli iscritti, che, secondo alcune fonti, arrivavano fino a 4500, comprendendo quelli che esercitavano la propria attività in città e quelli che vivevano nel contado. Le numerose norme che ne regolamentavano l’attività, miravano a difendere il prestigio dell’Arte, stabilendo innanzitutto il periodo di apprendistato, che doveva durare 3 anni, con la stipula di un apposito contratto. Al termine, ogni nuova matricola poteva aprire una propria bottega, a patto che questa si trovasse a non meno di 1000 braccia (600 m circa) da quella del maestro. Particolare attenzione era riservata alle materie prime impiegate durante la produzione: la corporazione stabiliva la qualità del cuoio da usare per i vari sega o l’ascia, si ottiene un prodotto con caratteristiche diverse: nel primo caso, la doga trattata rimane molto porosa e le fibre del legno, segate in lunghezza, danno luogo a botti che potrebbero gemere. Per avere doghe con fibre ininterrotte e resistenti è preferibile, quindi, spaccare il tronco con l’ascia prima in spicchi e poi in tavole, selezionando fusti di piante di diametro notevole che non presentino nodi. Il procedimento comporta un grande spreco di materiale e tavole a sezione irregolare da rifinire, con conseguenti costi elevati; una via di mezzo è rappresentata dalla cosiddetta segatura di quarto, in cui prima si spacca il tronco in quattro parti con l’ascia e poi si effettua il taglio radiale con la sega. La bottega di Nicolò era ben rifornita di attrezzi per queste fasi iniziali di lavorazione del legno: fra le prime voci dell’inventario appaiono 3 seghe chol telaio mezane, 2 ascie grande da chonciare, 1 mannaia da chonciare chorrenti, 4 schure grande, 6 coni di ferro, utilizzati presumibilmente

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tipi di calzature e la durata della concia; vietava di vendere articoli confezionati con cuoio di qualità diversa da quella prevista o mescolare diverse qualità di cuoiame; proibiva di sporcare le vie cittadine con gli scarti delle lavorazioni e stabiliva l’apertura di domenica mattina, fino al suono delle campane della messa solenne, per consentire a chi era occupato durante la settimana di andare a ordinare o acquistare le calzature. Nel Cinquecento, Cosimo I de’ Medici incorporò l’Arte prima con quella dei Galigai e Correggiai, poi con i Vaiai e Pellicciai, fino a quando, nel 1770, il granduca Pietro Leopoldo di Lorena soppresse tutte le antiche corporazioni e istituí la Camera di Commercio. I bottai, e i cerchiai erano invece iscritti all’Arte dei Legnaioli, insieme ai fabbricanti di tini, bigonce, barili, pevere (vasi bislunghi usati come imbuti per mettere il vino nelle botti), legnaioli all’ingrosso, cassettai, cofanai, realizzatori di forzieri, scrigni, lettiere, deschi, madie, bare.

come cunei per spaccare il tronco, una segha grande con l’armatura – un telaio di legno con staffe che la tiene tesa – per tagliare lunghe tavole. Due quartabuoni di legno – squadre a «L» per riquadrare il lavoro – e 2 paia di seste di legnio assicuravano la realizzazione di tavole dritte. Le pialle servivano a tagliarne i bordi in obliquo, dando a ciascuna la forma di due trapezi uniti per la base maggiore cosí che, poste una accanto all’altra, curvate e unite, non restassero fessure fra l’una e l’altra.

La stagionatura

Le doghe cosí ottenute vanno lasciate stagionare dai 18 mesi, per le piú sottili, ai 5 anni, per quelle piú spesse, in modo che il legno si depuri da sostanze potenzialmente dannose per il contenuto della futura botte; scartate poi quelle difettose, si sottopongono le restanti a curvatura con fuoco e vapore, legandole per un’estremità a un cerchio da botte provvisorio, sollevandole sopra a un braciere e bagnandole all’interno per ammorbidirle. At-

torno alle estremità senza cerchio si applica intanto una fune che, stretta lentamente via via che fuoco e vapore plasmano il legno, incurva le doghe, facendole combaciare fino a raggiungere la caratteristica forma panciuta della botte. I cerchi provvisori vengono allora sostituiti con quelli definitivi, incastrandoli a forza esternamente alle doghe con martello, mazza e punzone: a questo scopo Nicolò conservava in bottega 1 martello grande e 1 marchietto pic[c]holo, 2 chani e 1 chagnia da botte e 1 sfenditoio da cierchi, 2 choltegli ritti da cierchi, per scalzare e stringere i cerchi intorno alle doghe, garantendone la perfetta aderenza tra loro, elemento fondamentale per la tenuta della botte. Al termine del lavoro, si pareggiano le tavole in lunghezza e si incastrano i fondi in un incavo detto «capruggine»: usando la dizione del tempo, gli Ufficiali dei Pupilli definiscono caperuzinatoi gli strumenti per scavarlo, presenti in bottega. Le superfici interne ed esterne della botte si levigano con strumenti di agosto

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Ancora una miniatura raffigurante la fabbricazione delle botti nel mese di agosto, dal Breviario di Ercole I d’Este. 1502-1506. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

forma curva come i 3 pialletti da botte e i 15 pialletti da scor[n]iciare, presenti nell’inventario. Forando il fondo della botte con uno dei 6 succhietti da channelle, probabilmente di misure diverse, il bottaio inseriva infine il rubinetto per la fuoriuscita controllata dei liquidi, mentre, per introdurli, praticava un’apertura nel punto del diametro massimo della botte, il cosiddetto «foro di cocchiume», tappato solitamente con un turacciolo in sughero.

Arnesi polivalenti

Produttore anche di mastelli, tini e secchi per il trasporto di materiali vari, il bottaio disponeva di utensili

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che erano in parte gli stessi con cui fabbricava zoccoli: asce, martelli, pialle, sgorbie, lime, succhielli piú o meno grandi. Incontrandoli nella bottega di Nicolò, gli Ufficiali li raggruppano, per comodità di inventario, e li descrivono insieme: cosí accade, per esempio, per un gruppo di strumenti da forare, formato da 2 succhi grossi e 10 da aghuti, che unisce succhielli per i larghi fori delle botti e altri utilizzati, invece, per bucare pelle e legno degli zoccoli e farvi passare chiodi sottili. La zona di San Casciano Val di Pesa è storicamente dedita alla produzione agricola e vinicola: la destinazione dei manufatti realizzati nel

Da leggere Giampiero Maracchi, L’arte di fabbricare gli zoccoli, Polistampa Firenze 2005 Gian Bruno Ravenni, Firenze fuori le mura. Da Firenze verso il Chianti, il Mugello, la Valdelsa, il Montalbano, Giunti, Firenze 1993

XV secolo da un artigiano del legno come Nicolò rispondeva dunque sia alle necessità personali della popolazione rurale, che a richieste piú impegnative, in termini di competenze, integrate al tessuto produttivo locale rivolto al vasto mercato delle città toscane.

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costume e società zafferano

Giallo, puro, di Luca Pesante

I fiori viola del croco celano un tesoro esile, ma preziosissimo: è lo zafferano, che nel Medioevo divenne il bene di scambio piú richiesto, capace di garantire ricavi davvero astronomici

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prezioso...S

e l’età di Mezzo avesse un odore, sarebbe quello dello zafferano. La vita dell’uomo medievale, infatti, è stata accompagnata quasi quotidianamente dal profumo e dal sapore della spezia piú preziosa e ricercata del mondo occidentale, di gran lunga piú del pepe o dello zucchero. Pregiata e raffinata come pochi altri ingredienti del buon vivere, è uno dei prodotti italiani che meglio rappresenta le nostre origini e le nostre tradizioni culturali. Unico ed essenziale elemento dello zafferano sono i tre lunghi e rossi stimmi del bellissimo fiore del A sinistra riproduzione dell’affresco che raffigura il «raccoglitore di zafferano», da Il palazzo di Minosse a Cnosso, di sir Arthur Evans. Londra, 1921. La composizione è frutto di una delle fantasiose intepretazioni di Emile Gilliéron figlio (che, insieme al padre, collaborò con Evans), poiché studi recenti hanno accertato che, in realtà, la figura in azzurro è quella di una scimmia. In basso fiori di Crocus sativus, dai cui stimmi si ricava lo zafferano.

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costume e società zafferano San Gimignano

Dalle terre di Toscana

Tra le migliori varietà di zafferano vi è senza dubbio quello toscano, in particolare quello coltivato nel territorio di San Gimignano. Per evitare frodi e adulterazioni del prodotto, il Comune di Firenze emanava norme precise che avrebbero dovuto colpire i malfattori: per esempio chi avesse osato acquistare o vendere «feminellas [germogli] a croco divisas». Nel Duecento, i mercanti sangimignanesi avevano il monopolio del commercio non solo del prodotto locale, ma anche di quello forestiero, rivendendolo a Lucca, Pisa, Genova, in Francia e persino in Medio Oriente. Molti Sangimignanesi si arricchiscono grazie a tale commercio (e a quello dei ricercati vini Greco e Vernaccia), al punto da aprire fondachi a Firenze, Lucca o Pisa, trasformandosi in cittadini ricchi ed esigenti, attivi anche nei prestiti di denaro. Il piccolo centro a economia prevalentemente agraria figura dunque come attivissimo luogo di origine di mercanti attivi in affari lungo tutto il Mediterraneo. Oggi lo zafferano di san Gimignano è un prodotto a «Denominazione di origine protetta», che è possibile coltivare esclusivamente nel territorio del Comune toscano. In alto i minuti filamenti dei pistilli dei fiori di croco, dalla cui lavorazione si ottiene lo zafferano. A tutta pagina San Gimignano. Un momento della raccolta.

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croco (Crocus sativus) raccolto all’alba, prima che i petali si aprano con il calore del sole, poi essiccati davanti al focolare. Utilizzato in medicina, in cucina e nell’industria tintoria, per i suoi principi attivi e aromatici e per la capacità di colorare di giallo intenso cibi, pomate e lozioni, lo zafferano sembra trarre le proprie origini dal Sud-Ovest dell’Asia, ma già nel XVI secolo a.C. entra come parte integrante della farmacopea egiziana insieme all’assenzio, al cedro, alla mandragora, al nasturzio, al papavero. Qualche secolo piú tardi fa la sua comparsa tra le piante coltivate in Iran e in India, perlopiú per le sue virtú coloranti.

Alle terme e nei banchetti

Grazie ai Fenici prima, e poi ai Greci e ai Romani, il turchino croco orientale entra nel bacino del Mediterraneo impiegato soprattutto nella produzione dei cosmetici, ampiamente utilizzati nella cura del corpo in età romana. Non vi sono banchetti o terme le cui sale non siano cosparse di fragranti fiori di croco, ma è anche il fiore piú in vista nelle solenni cerimonie pubbliche. È, al contempo, l’ingrediente di farmaci e colliri, grazie alle sue virtú diuretiche e decongestionanti, e di molti vini aromatici. Piana di Navelli, L’Aquila. La raccolta dei fiori di croco.

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Non c’è unguento o profumo a Roma che non contenga zafferano. Apicio (gastronomo romano dell’età di Augusto e Tiberio) ne parla a lungo nel trattato che gli viene attribuito, il De re coquinaria, prescrivendolo spesso come ingrediente nella cucina domestica. Il commediografo Plauto (250 a.C. circa-184 a.C.) cita invece gli infectores crocota-

ri, ovvero tintori specializzati che, attraverso gli estratti dello zafferano, erano in grado di ottenere vari colori, dal rosso al giallo vivo. Nell’età antica non mancavano coltivazioni di zafferano sia nella Penisola che in Sicilia, tuttavia le quantità maggiori erano importate, grazie alla rete commerciale dell’impero, direttamente dall’India

l’aquila

Il tesoro della Piana di Navelli Nel XIV secolo lo zafferano era diffusamente coltivato in Abruzzo e numerosi documenti parlano del croco all’Aquila, che sembra fosse soltanto «secondo [al] toscano». Veniva spedito dal capoluogo abruzzese prima a Firenze e poi, grazie a mercanti fiorentini, raggiungeva il mercato di Ginevra o di Lione. Tuttavia, sebbene fosse un’area produttiva di grande rilievo, essa non sviluppò mai una cultura culinaria legata allo zafferano: non esisteva e non esiste tuttora un piatto tradizionale che ne preveda l’uso. Nel 1376, grazie a un privilegio della regina Giovanna I, L’Aquila diveniva una zona franca, esente da tasse nel commercio dello zafferano prodotto in tutta la regione. I Veneziani agivano solitamente come intermediari nelle compravendite con i mercanti tedeschi, tra i maggiori acquirenti dell’epoca, ma, nel secolo successivo, un console tedesco si trasferí all’Aquila proprio per evitare figure intermedie con gli acquirenti nord-europei. La Corona d’Aragona (sotto il cui controllo ricadeva la città abruzzese) intuí il possibile guadagno derivante da un’eventuale imposizione fiscale sul commercio del prezioso zafferano, cercò pertanto di imporre alla città le condizioni a essa piú favorevoli. Si consideri che la costruzione della basilica di S. Bernardino (eretta tra il 1454 e il 1472) fu finanziata in gran parte con la gabella dello zafferano. Oggi lo zafferano dell’Aquila, prodotto a «Denominazione di origine protetta» tutelato da un consorzio creato ad hoc, è coltivato specialmente nella Piana di Navelli.

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costume e società zafferano

Miniatura raffigurante un medico (al centro), tra uno speziale che pesta nel mortaio uno dei suoi preparati e un erbolaio che raccoglie piante officinali, da un’edizione de L’antidotaire di Bernard de Gordone. 1461. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

e dall’Africa. In Europa il fiore era coltivato anche nei prati della Cilicia, in Lidia, Licia e in qualche isola delle Cicladi. La fortuna dello zafferano nel Medioevo si deve al suo odore e al suo colore. Agli occhi di uomini raffinati esso era sinonimo di luce e di ricchezza. In un’epoca in cui la bellezza era misurabile secondo canoni ben precisi – proporzione, integrità e luminosità –, l’ingrediente in

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grado di infondere una piccola luce perfino ai cibi, oltre che ai tessuti, doveva essere considerato con la massima attenzione.

Indice di benessere

Nelle fonti scritte altomedievali (trattati, erbari, ricettari), lo zafferano è generalmente assente, se si escludono brevi citazioni in un testo medico longobardo del VII secolo e in un trattato di Crispo, vescovo di Milano, di poco successivo. Per ritrovare menzioni piú frequenti sulla sua coltivazione e sul suo impiego, occorre attendere l’XI secolo, quando le città iniziano a ripopolarsi, i commerci con l’Oriente si intensificano, il tenore di vita migliora e l’agricoltura torna a essere la base,

insieme al commercio, di una rinnovata civiltà urbana. Molti ricettari dell’XI secolo prescrivono lo zafferano nella cura delle malattie degli occhi, per il mal di testa, per le febbri e le fistole, all’incirca gli stessi usi già sperimentati nell’antichità. Non tutto, dunque, era andato perduto del sapere greco-romano e proprio in ambito medico alcune fondamentali opere antiche sopravvivono grazie alla traduzione dal greco in arabo, per poi rientrare nell’Europa occidentale attraverso la Spagna, la Sicilia e la grande Scuola medica di Salerno. Peraltro la cultura araba non soltanto conservò (e fece di nuovo conoscere) i grandi autori perduti, ma fu anche alla base di una nuova agosto

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A destra miniatura raffigurante la raccolta dello zafferano, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), redatto a Baghdad nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

agricoltura che da Sicilia, Calabria e Puglia andò a innovare i tradizionali sistemi agricoli della Penisola. Seppure già note nel mondo antico, la consuetudine della coltivazione di piante come miglio, dattero, carrubo e dello stesso zafferano si deve proprio alla presenza degli Arabi. Cosí come per il limone e l’arancio amaro che dal XIII secolo, dalla Sicilia, iniziano a risalire tutta la Penisola. E il nome stesso, zafferano

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(dall’arabo safran), e non croco, come lo chiamavano i Romani, indica l’origine della sua diffusione.

Dall’Italia alla Francia

Nella Toscana del Duecento lo zafferano è coltivato specialmente nei dintorni di Siena e di Volterra. E sembra che fosse di particolare pregio se i Francesi, pur avendo anch’essi coltivazioni proprie, preferivano comprarne in Italia o diret-

tamente dai mercanti italiani che avevano fondachi in Francia. I maggiori centri di smercio coincidono con le principali città mercantili italiane dell’epoca: Genova, Pisa, Venezia. Da qui la preziosa spezia partiva per giungere fino nel nord Europa: Fiandre, Inghilterra, Normandia. Dall’altra parte del Mediterraneo, verso sud, i mercanti toscani e veneziani la esportano ad Alessandria d’Egit-

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costume e società zafferano medicina e cura del corpo

Una panacea per (quasi) tutti i mali Uno degli impieghi principali della preziosa droga dorata si ebbe nella cura delle infermità del corpo e nella cosmesi. Nel Thesaurus Pauperum, un’opera composta intorno alla metà del XIII Particolare di una miniatura dal Liber notabilium Philippi septimi francorum regis, a libris Galieni extractus, opera di Guido da Vigevano, che raffigura un medico che visita un malato. 1345. Chantilly, Musée Condé.

secolo, forse a Siena, da un medico originario di Lisbona, Pietro Ispano (destinato a diventare papa con il nome di Giovanni XXI), lo zafferano è presente in alcuni medicamenti contro l’epilessia (frenesia) per la sua virtú di provocare il sonno e come antidolorifico; è ricorrente nelle cure contro l’itterizia, e come rimedio per provocare le mestruazioni. Il testo conosciuto col titolo di Macer o Macer floridus e che venne probabilmente redatto dallo scrittore francese Oddone di Meung nell’ultimo quarto dell’XI secolo, prescrive lo zafferano insieme al papavero e al latte di donna per la cura della podagra infiammata, ma già l’erudito latino Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) ne aveva individuato precise proprietà medicamentose contro le ulcere dello stomaco, to, Tunisi, Damietta, Acri, Tripoli, Aleppo; mentre i Genovesi sembrano orientati verso il Mediterraneo occidentale. La richiesta di zafferano si è fatta ormai elevatissima, essendo parte fondamentale tra gli ingredienti di numerosi medicamenti, preparazioni di cibi, e perfino dei colori per la pittura; tuttavia, continuava a essere una merce costosissima e non facilmente reperibile: a Firenze, nel 1202, si riusciva con piú facilità a ottenere denaro in prestito offrendo in pegno due libbre di zafferano piuttosto che impegnando terreni o servi. Con lo zafferano si fanno doni ai re: come accadde a San Gimignano, nel 1267, per rendere omaggio a Carlo d’Angiò, e con la preziosa spezia si pagavano perfino le spese di guerra. Il vescovo di Volterra se ne serve nel 1257 addi-

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infiammazioni del petto e dei polmoni e malattie degli occhi, nonché come afrodisiaco ed eccitante. In effetti ancora molti secoli dopo troviamo tracce di tradizioni popolari in cui l’acqua di zafferano era cosparsa sul letto dei novelli sposi per favorire il buonumore e la passione d’amore. La Scuola Medica Salernitana ne consiglia l’uso per le malattie del fegato. Il medico del grande mercante di Prato, Francesco Datini, in una delle meticolose prescrizioni che avrebbero dovuto regolare la dieta dell’illustre paziente, scrive (siamo nel 1404): «Nella scodella delle carni, le quali io v’ò lodate usate il pretisemolo, o ‘l brodetto con un poco d’aceto o la peverada chiara, ma ben mi piacerebe rittura per corrompere i consiglieri della Curia romana. Ma l’indicatore piú interessante dell’importanza dello zafferano nella società medievale si trova nella miniera di notizie contenuta negli statuti che regolano la vita di ogni giorno dei nostri Comuni. In molti di essi, come a Firenze, Pisa o Piacenza, diversi capitoli sono consacrati alle punizioni e alle pene da infliggere a chi adulterava o, meglio, falsificava la spezia dorata: la contraffazione del sofranum entra nella legislazione cittadina per essere perseguita come molti altri reati che mettono a rischio il bene comune. Lo statuto cittadino di Viterbo del 1251 dedica una speciale rubrica ai furti dei bulbi e dei fiori di zafferano; è dunque probabile che esso fosse coltivato entro le mura della città all’interno di giardini e negli orti posti a ridosso di palazzi, conventi, monasteri. Alcuni documenti di ar-

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Una pagina di un’edizione araba del De materia Medica di Dioscoride. X sec. Si vedono un vaso in cui brucia il kyphi (un composto profumato simile all’incenso) e, in basso, tre fiori di croco.

molto, se grande dispiacere non vi fosse al gusto, che in ogni vostra scodella voi usaste il çaferarano, perché v’è molto apropriate...». Tra gli impieghi piú comuni rientra in chivio descrivono le società nate per la coltivazione dello zafferano nella città della Tuscia: avevano durata quadriennale, dunque il doppio del normale ciclo di coltura di due anni.

Il ciclo produttivo

Il bulbo veniva piantato tra giugno e agosto, mentre i fiori iniziano a comparire tra settembre e ottobre, a seconda del clima. Tuttavia, la maggiore produzione si ha nel secondo anno, tanto che, solitamente, dopo due anni i bulbi vengono tolti dal terreno. I contratti prevedevano che il proprietario del terreno fornisse i bulbi e il letame necessario per la concimazione. Dopo essere stati raccolti, i fiori venivano lasciati a essiccare davanti al focolare o al sole al riparo dai venti nel mese di novembre. Era considerato un elemento cosí importante e necessario nella vita di ogni giorno che, alla fine del Duecento, figura tra i beni che ogni

cosmesi l’uso della spezia per le sue straordinarie proprietà odorifere. L’unica citazione dello zafferano all’interno della Bibbia si trova nel Cantico dei Cantici, in quel vortice di paragoni e metafore che celebrano il corpo e lo spirito della donna: «O sposa mia (…) i tuoi germogli sono un giardino di melagrani e d’alberi di frutti deliziosi, di piante di cipro e di nardo; di nardo e di croco, di canna odorosa e di cinnamomo, e d’ogni albero da incenso, di mirra e di aloe e d’ogni piú squisito aroma». sabato i monaci della basilica di S. Paolo fuori le Mura ricevevano dal cellerario insieme a legna, olio, lardo, ceci, sale e pepe. Nel Trecento troviamo lo zafferano dappertutto, è la spezia – piú del pepe e dello zucchero – maggiormente consumata: in cucina, nella tintura dei panni di lana e di lino e per la cura del corpo, diffuso in gran parte dei Paesi europei. In tempo di pestilenza si consigliava di condirci ogni pietanza, in modo da tenere il piú possibile lontana l’epidemia; e normalmente era l’ingrediente per ravvivare il colorito della pelle del volto e dei capelli, per rimettere in moto la funzione dell’intestino, per le infezioni della gola, e molto altro... Di pari passo con l’aumento vertiginoso della richiesta, la coltivazione del croco andò diffondendosi sempre piú: dalla Toscana si estese a Marche, Abruzzo, Lombardia, Sar-

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costume e società zafferano In cucina

Le ricette dell’imperatore

Didascalia aliquatur adi odis Riportiamo que vero ent qui qui di seguito doloreium alcuneconectu ricette in cui è utilizzato rehendebis eatur tratte dal Liber de lo zafferano, tendamusam coquina (Libro di cucina), un ricettario consent, perspiti medievale che, secondo la tradizione, conseque sarebbenis stato scritto dall’imperatore maxim eaquis Federico II di Svevia (1194-1250). earuntia cones COME PREPARARE I FINOCCHI apienda.

prendi finochio intero bullito cotto con cinnamo et pepe et çaffarano, e mettevi ove perdute et carne di polli o altra carne per lo dí che tu vuoli. COME PREPARARE I CECI IN TEMPO DI QUARESIMA

prendi i ceci rotti o interi pone a cocere con olio sale et pesci menuçati overo bactuti e distemperati nel mortaio e messovi spetie et çaffarano dà a mangiare.

friggere con cipolle e lardo et acqua abbastanza e quando siranno quasi cotti prendi erbe odorifere tritale bene col çaffarano pepe garofani cennamo e çençovo e distempera col brodo predetto e mesta ogni cosa insieme poi prendi ova debattute e mettivi un poco d’acqua fredda e aggiungivi di quel brodo e mesta e pone a fuoco. Et quando cominciarà a bullire levala dal fuoco e mangia. COME PREPARARE LA SPALLA DI CASTRONE RIPIENA

prendi spalla di castrone e leva la carne dall’osso e prendi ventresca di porco e tutte insieme tritale e battile col coltello su la taola. E prendi erbe odorifere in buona quantità peste con

spetie e çaffarano e mesta colla dicta carne et ventresca, giongivi cascio fresco bene pesto con ova in bona quantità. E distempera con sia troppo spesso né molle, poi prendi una rette di porco o di castrone e stendila su la taola e prendi la meità de la dicta carne e stendila supra la dicta rette, poi prendi l’osso della spalla e pollu su la dicta carne. COME PREPARARE LA BRUSTENGA

prendi cascio grasso e taglialo minuto e prendi rete di porco queste cose mesta con farina e ova e distempera et messovi çaffarano poni nelle croste a cocere e falla biancha o tu la colore come tu vuoli.

COME PREPARARE I FIORI DELLE FAVE

cuoci i fiori de fave col capone intero e al fine de la cocitura mettivi lacte d’amandole e ova debattute pepe çaffarano et sale e cochansi in buono vaso. COME PREPARARE LE FAVE

prendi fave fresche novelle bullite e gittatane via l’acqua mettile a cocere con cipolla sofritta in oglio e herbe odorifere pestate agiunte e con pepe e çaffarano. COME PREPARARE I FAGIOLI AL MODO TREVIGIANO

metti i fasolibulliti descachati a cocere con carne insalata e con pepe e çaffarano. E possonsi dare soffricti con oglio postovi dentro un poco d’aceto amino e sale. COME PREPARARE IL BRODO DI POLLO

prendi polli smembrati e metti a

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COME PREPARARE LE CRESPELLE O FRITTELLE UBALDINE

prendi farina netta biancha et distempera con ova e fermento uno poco mettivi çaffarano e poi metti a cocere con lardo disfatto da poi mettivi çuccaro o mele e mangia. Come preparare la gelatina di pesce prendi buono vino con un poco d’aceto e schiumato che fia quando bolle mettivi dentro il pescio e cotto cavalne e fa bullire il vino tanto che torni la terça parte poi mettivi dentro çaffarano e altre spetie con alloro, opi colato il vino mettivi spico e lassa che sia fredo poi metti sopra il pescio nel catino.

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degna; nel Quattrocento si coltivava anche nel Padovano, nel Bresciano e nel Monferrato. La richiesta dunque è tale che molti, soprattuto Toscani, fiutando l’affare, si spingono ben oltre i confini del proprio paese per andare a venderlo; del resto le compagnie mercantili del Trecento avevano empori e corrispondenti in grado di coprire un territorio esteso dal Portogallo fino al Mar Nero.

Guadagni favolosi

Il fiorentino Bonaccorso Pitti racconta di un suo amico mercante che, nel 1376, comprò a Venezia 1000 ducati di zafferano per andare a rivenderlo in Ungheria con un guadagno di 1000 ducati, cioè il 100% del valore della merce. È il momento di fioritura della borghesia tedesca e mitteleuropea, famiglie sempre piú ricche modificano il loro stile di vita richiedendo oggetti, vestiti, palazzi, gioielli, cibi, in grado di mostrare come simboli del proprio status la ricchezza raggiunta. I facoltosi mercanti di Salisburgo e di Monaco di Baviera scendono a Venezia per acquistare lana, seta, pepe e zafferano. Ma i piú intraprendenti non esitano ad acquistare la preziosa spezia direttamente nei pressi dei luoghi di produzione: mercanti tedeschi si incontrano nel XV secolo a L’Aquila cosí come a Barletta, Trani, Bari, Lecce. Nella città abruzzese si insedia un console della comunità germanica con il compito di preparare e favorire le compravendite (vedi box a p. 57). Verso la fine del Medioevo si producevano in Europa 500 some circa di zafferano l’anno (1 soma era composta da due balle del peso di 80 kg circa ciascuna). Italia, Spagna e Francia erano i principali Paesi produttori, seguivano in misura minore l’Austria, l’Ungheria e la Moravia. Il migliore zafferano d’Europa era senza alcun dubbio quello abruzzese e toscano, a seguire quello pugliese. È stato spesso ripetuto che il

principale organo del gusto non sia la lingua, né il palato, ma il cervello. Quest’ultimo, infatti, elabora impressioni, suggestioni, conoscenze, pregiudizi, nel momento del mangiare, e infiniti fattori concorrono al risultato finale, cioè la sensazione di bontà o meno del cibo che stiamo consumando. Uno di questi fattori, forse il piú importante, è il colore, non soltanto del cibo, ma persino delle stoviglie che impieghiamo a tavola: la grande moda della ceramica bianca che, a partire da Faenza, dal 1540 circa, si diffonde in tutta Europa venne favorita proprio dall’idea che, se mangiato in un piatto bianco e pulito, il cibo sembra piú buono. Si può spiegare in modo analogo la fortuna dello zafferano nella cucina del Medioevo. Colorare un cibo col riflesso dorato dello zafferano era come infondere il calore del sole alla tavola della mensa, cosí come i pittori medievali che usavano la medesima spezia per dare quella claritas (luminosità) necessaria a conferire la bellezza alle loro opere. Purezza, pulizia, luminosità, salubrità, era l’impressione che suscitava un cibo colorato con il giallo dorato dello zafferano. Nel ricettario (Libro de Arte Coquinaria) di Maestro Martino, il piú importante cuoco europeo del XV secolo, l’uso dello zafferano viene raccomandato «per fare gialla la vivanda», come del resto accade per il risotto giallo milanese, la cui tradizione ha origine in questo ambito culturale. E ritroviamo lo stesso riso giallo anche sulle tavole fiamminghe, come ci mostra Pieter Bruegel il Vecchio nella rappresentazione delle Nozze contadine (dipinto intorno al 1568): il giallo è il riflesso o un’anticipazione di un giallo piú prezioso, come recita un proverbio dei Paesi Bassi ancora oggi tramandato, in cui riso e zafferano sono concessi a chi vive nel mondo terreno, in attesa di riso e oro, destinati invece a chi popola il mondo dell’aldilà.

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Diversi in armonia

di Gianluca Baronchelli

Propaggine estrema dello «stivale», il Salento è stato, fin dalla preistoria, una terra di contatti e di scambi. E fu cosí anche nel Medioevo, quando al centro del confronto ci furono soprattutto visioni diverse del rapporto con il divino: una pluralità vissuta armoniosamente e mirabilmente espressa dai cicli pittorici che ancora oggi possiamo ammirare

I I

n Salento l’Occidente e l’Oriente si sfiorano, si guardano, si annusano, si cercano. Qui il Mare Adriatico si fa stretto e invita al viaggio. E qui arte, cibo, lingua, religione e tradizioni di terre diverse si sono fuse, creando un autentico melting pot. Quasi non si contano le testimonianze artistiche legate al culto e alla celebrazione greco-bizantina, che si intrecciano con quelle legate al rito latino in un percorso ricco di suggestioni e rimandi. Il punto di partenza del viaggio che vi proponiamo in queste pagine non si trova sulla costa, ma nell’interno, e lo si scopre seguendo ulivi secolari, muretti a secco e l’odore della sintína, il residuo della spremitura delle olive. Si deve partire da Soleto, cuore della Grecía salentina, che conta nove Comuni nei quali ancora si parla il grico (un dialetto

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Soleto, chiesa di S. Stefano. Particolare degli affreschi dell’abside, raffiguranti l’Agia Sofia nelle sembianze di Cristo benedicente.

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San Cataldo ataldo ttaldo aaldo o

SS 613

SP 364

LLecce ecce

SS 16 SS 101

Nardò

Carpignano

SS 367

Soleto

Galatina

SS 16

Maglie Gallipoli

Casarano

Otranto

Giurdignano Vaste

SS 275

Santa Maria di Leuca Torre dell’Orso

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A sinistra cartina del Salento, con, in evidenza, le località citate nel testo. Nella pagina accanto Soleto, S. Stefano. Particolare degli affreschi del registro inferiore della parete sud raffigurante san Nicola di Myra (a sinistra) e sant’Antonio abate in atteggiamento benedicente: il primo tiene le dita secondo la tradizione latina, il secondo alla maniera greca. In basso gli affreschi della controfacciata della chiesa soletina.

neogreco), ma che nel Medioevo abbracciava un lembo di Salento molto piú esteso: tra il VI e l’XI secolo, durante la dominazione bizantina, con alterne vicende in tutta la Terra d’Otranto lingua e cultura erano essenzialmente italo-greche.

Equilibrio di culture

La chiesa di S. Stefano (inizialmente intitolata anche a santa Sofia) rappresenta la sintesi perfetta dell’equilibrio tra le due culture qui dominanti in quel periodo, quella latina e quella bizantina. Riconducibile tra la metà e la fine del XIV secolo e la metà del XV, questa piccola chiesa, voluta dai conti del Balzo Orsini nel tentativo di affermare la cultura latina a scapito di quella plurisecolare ellenica, si presenta a singola aula quadrata, con una facciata tipicamente romanica, nella quale si inseriscono elementi gotici, come gli archetti a sesto acuto e il campanile a vela, mentre sono andati perduti il protiro con due colonnine e due leoni stilofori ai lati.

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itinerari salento L’interno svela l’unicità del monumento e la mirabile convivenza di due stili e due culture: risulta piú arcaico e orientale il ciclo dell’abside, del San Simone, della Crocefissione e del San Giovanni Battista, mentre le altre pitture sono opera dei pittori gotici che, contemporaneamente, lavoravano con ogni probabilità a Galatina, alla realizzazione di S. Caterina d’Alessandria (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 96-104). L’abside rappresenta una rarità assoluta in Occidente e in Oriente: l’immagine di Santa Sofia attesta la grande libertà teologica raggiunta dai Bizantini nella Grecía; per la sua originalità, S. Sofia è stata poi riprodotta nella chiesa privata del Collegio Greco di S. Anastasio a Roma, dove ancora oggi si formano i futuri officianti cattolici di rito bizantino. Nella porzione absidale immediatamente superiore, la rappresentazione della Vergine di Gerusalemme con gli Apostoli – cronologicamente posteriore e anch’essa bizantineggiante – e la Discesa dello Spirito Santo ci riportano alla tradizione latina, evidenziando la maggiore differenza dogmatica tra cattolici e ortodossi, che oltre al primato del papa, si esprime nell’idea che lo Spirito Santo discenda dal Padre e dal Figlio e non già solo dal primo (Filioque).

CHIESA DI CASARANELLO

Qui sotto particolare della facciata della chiesa di S. Maria della Croce. In basso una veduta interna della chiesa, con le decorazioni originali ad affresco sulle volte del transetto, raffiguranti l’Empireo e l’Eden. X sec.

Scambio di benedizioni

Tuttavia, sarebbe un errore vedere nei diversi cicli affrescati una mera contrapposizione tra i due riti: se spostiamo lo sguardo sulla parete meridionale, ci accolgono, nel registro inferiore, Sant’Antonio Abate e San Nicola di Myra. Il primo, santo copto eremita, è raffigurato in abiti orientali, nell’atto di benedire alla maniera latina; il secondo, in abiti latini, lo fa secondo la tradizione greca. Nulla meglio di questa scena ci fa capire la vicinanza, la convivenza di queste due tradizioni religiose nel Salento, nonostante lo scisma del 1054 (la separazione fra la Chiesa romana di lingua e rito lati-

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no e il Patriarcato di Costantinopoli, con tutte le diocesi a esso sottoposte o collegate, causata dai contrasti tra papa Leone IX e il patriarca di Costantinopoli, Michele Cerulario, n.d.r.). Nel registro superiore della stessa parete, troviamo un’originale Vita di Santo Stefano, ispirata da una «Fabulosa vita Sancti Stephani protomartirys», di tradizione apocrifa orientale, con scene ispirate alla passione e al martirio del santo. Sulla parete nord, nel registro superiore, si succedono i quadri con la Vita e la Passione di Gesú Cristo: pur pregevolissima, è forse la parte meno originale del ciclo pittorico della chiesa, avvicinandosi molto alle raffigurazioni della basilica galatinese di S. Caterina d’Alessandria.

Le vie della salvezza

Merita uno sguardo attento la parete ovest, e, in particolare, il Giudizio Universale: i peccatori sono infatti raffigurati attraverso gli strumenti del loro lavoro, con un chiaro intento moralizzatore; non si finisce all’Inferno solo per peccati gravi, ma la salvezza eterna va conquistata attraverso la pratica e la condotta quotidiana. E la presenza del diavolo è resa ancor piú pressante dalla Particolari degli affreschi di S. Maria della Croce: Santa Barbara (in alto), ritratta in abiti bizantini, e l’Ultima Cena. X sec. Nel secondo, adottando una soluzione inconsueta, Cristo compare in posizione defilata, all’estrema sinistra della tavola.

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tecnica a rilievo: una sorta di 3D ante litteram, incombente, reale e per nulla lontano da noi. Il viaggio prosegue, a ritroso nel tempo, battendo vie sempre interne, verso sud, fino a raggiungere la chiesa di S. Maria della Croce, meglio nota come Chiesa di Casaranello, perché situata nel borgo omonimo, oggi inglobato nella cittadina di Casarano. Lo storico dell’arte e archeologo olandese Arthur Haseloff (1872-1955) la definí «il monumento piú antico e importante dell’epoca cristiana primitiva nel Sud-Est dell’Italia Meridionale». La prima fondazione risale al V secolo, ma, dal XIII secolo, il tempio venne piú volte rimaneggiato e ampliato. Risalgono all’impianto originario gli splendidi mosaici paleocristiani che ricoprono la volta absidale e il presbiterio. I motivi geometrici della volta absidale sono arricchiti da motivi floreali e zoomorfi di tradizione cristiana; nella cupola a campana compare la rappresentazione del modello tolemaico, con i

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nove cieli, costituito da una croce dorata su campo celeste contornata da un cielo stellato a fasce concentriche monocromatiche, sui toni del blu, mentre quella piú esterna richiama tutti i colori dell’iride.

Coesistenza di stili

Furono i Bizantini, intorno al X secolo, a decidere sostanziali modifiche al ciclo iconografico della chiesa di Casaranello, sostituendo il mosaico con un ciclo di affreschi ancora oggi visibile nella navata centrale e databile tra il X e il XIII secolo. Anche qui, come abbiamo già visto a S. Sofia e S. Stefano a Soleto, le pitture bizantine coesistono con altre di stampo tardo-bizantino e gotico, realizzate a partire dal XIV secolo. Tra le prime opere, collocabili appunto nel X secolo, una ieratica Madonna con Bambino e una Santa Barbara in abiti bizantini. Molto interessante risulta l’Ultima Cena, una delle scene del Nuovo Testamento, che troviamo sulla parete di sinistra: oltre al movimento di Giuda,

CARPIGNANO

Cripta di S. Cristina. In alto, uno scorcio dell’ambiente ipogeo e della decorazione affrescata, in cui emergono i tre gruppi pittorici detti, dai nomi degli esecutori, di Teofilatto, di Eustazio e di Costantino. X-XI sec. A destra l’Arcangelo Gabriele annunciante in un particolare del gruppo di Teofilatto.

unico senza aureola, e ai nomi scritti in greco, va notata la posizione defilata del Cristo, dipinto all’estrema sinistra della composizione. I cicli con i martiri di Santa Margherita e Santa Caterina, sono di epoca tardosveva, mentre è databile al XV secolo una seconda Madonna col Bambino, profondamente differente per abiti, postura e prospettiva rispetto a quella bizantina. Avvicinandosi al mare, si possono scoprire tre autentici gioielli: tre cripte adibite al rito greco che, oltre a svolgere le funzioni di culto, rivestivano all’epoca un’importante agosto

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VASTE

funzione di incontro e punto di riferimento in occasione di fiere, pellegrinaggi, festività e, piú in generale, momenti di aggregazione.

A ciascuno il suo spazio

➤ GIURDIGNANO

A Carpignano Salentino si visita la cripta di S. Cristina, all’interno della quale è conservata la piú antica testimonianza di pittura parietale sacra di questo periodo: il gruppo di Teofilatto, risalente al 959, cosí chiamato dal nome dell’autore. Ci troviamo, in questa cripta, di fronte all’estrema sintesi dell’arte bizantina. L’impianto originale a due navate e tre absidi può essere ulteriormente suddiviso in tre aree ben distinte: il nartece, riservato ai catecumeni, ovvero coloro che non avevano ancora ricevuto il sacramento del battesimo; il naos, dal quale potevano assistere alle funzioni i fedeli battezzati; e il bema, luogo accessibile solo agli officianti, che era diviso dal naos dall’iconostasi. Sulle pareti compaiono – e si tratta di una rarità assoluta – oltre ai nomi dei santi e dei committen-

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Chiesa dei Ss. Stefani. Un particolare della lunetta absidale, affrescata con il Sogno di San Giovanni, tratto dai libri dell’Apocalisse. X-XV sec. Cripta di S. Salvatore. Uno scorcio dell’area presbiteriale, in cui si possono apprezzare le possenti volte e la vivacità coloristica della decorazione superstite. VIII-X sec. Nella lunetta absidale centrale, sulla destra, si scorge l’affresco raffigurante la Vergine col Bambino affiancata da due angeli. XIV sec.

ti, anche quelli di tre pittori: il già citato Teofilatto, Eustazio e Costantino. Il gruppo di Teofilatto ritrae, nell’abside di destra, un Cristo vestito di oro e porpora, seduto su un trono. Alla sua destra Maria, mentre la figura piú interessante è certamente quella alla sua sinistra, un Arcangelo Gabriele, che spezza i canoni della staticità bizantina ripreso di trequarti, con le gambe e le ginocchia flesse, nell’atto di raggiungere

Maria. Il gruppo di Eustazio, del 1020, ritrae sull’altare di sinistra la Vergine col Bambino dal nimbo crucifero, il Cristo in trono e l’Arcangelo Michele con il loros, la stola lavorata con perline e pietre preziose usata dagli imperatori bizantini. Il terzo gruppo, quello di Costantino, è datato 1050-1055 e risulta il piú danneggiato: si riconoscono, tra le altre, due immagini di Santa Cristina, Sant’Agata e San Paolo. agosto

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Giunti a Vaste troviamo la chiesa rupestre dei Ss. Stefani, edificio a tre navate scavato nella roccia, che però è stato fortemente rimaneggiato rispetto alla struttura originaria bizantina, anche e soprattutto a causa di un riutilizzo, a partire dal XVIII secolo, con funzioni di stalla, essiccatoio e rimessaggio agricolo. È dunque andato perduto il pronao, cosí come svariate nicchie interne, mentre sono state aperte alcune fi-

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nestre per favorire l’entrata di luce e aria. Dal periodo normanno, la cripta venne utilizzata con ogni probabilità per celebrazioni con il doppio culto, greco e latino.

Tre ritratti per un santo

Sebbene non in perfetto stato di conservazione, è ancora oggi possibile riconoscere tre successivi cicli di affreschi, che coprono un periodo che va dalla fine del X se-

colo al 1376. Tra questi, tre diverse rappresentazioni di Santo Stefano, primo martire della fede cristiana, dalle quali potrebbe derivare il nome della chiesa. Nella porzione absidale della navata centrale si è conservata una pregevole rappresentazione del Sogno di San Giovanni, tratto dai libri dell’Apocalisse. La penultima tappa ci porta a pochi chilometri da Otranto: Giurdignano, già capitale del megalitismo

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itinerari salento

salentino per i numerosi dolmen e menhir disseminati tra l’abitato e le campagne circostanti, ospita anche la cripta di S. Salvatore, una delle maggiori espressioni dell’architettura bizantina in Salento. A lungo celata, fu riscoperta solo a seguito del cedimento di una porzione del pavimento della soprastante chiesa di S. Vincenzo. Scese le scale, accedervi oggi, attraverso l’ingresso originario, significa trovarsi proiettati in un tempo e in un’atmosfera carichi di fascino, fede e misticismo. Presenta una pianta classica a tre navate, divisa in nove campate da quattro possenti pilastri cruciformi.

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Davanti a ciascuno dei tre absidi, si trova un altare ricavato da un unico blocco di pietra.

Pigmenti e madreperla

Gli affreschi meglio conservati sono quelli del bema, la zona riservata all’officiante. Tra questi, una Madonna con Bambino e due Arcangeli, tre Apostoli e alcune figure forse interpretabili come i committenti dell’opera. Colpiscono la vivacità e la brillantezza dei colori, impreziositi con inserti di madreperla. Ciò che però rende unica questa cripta è la possente volta dell’ipogeo, variamente scolpita: vi troviamo una

scala, simbolo di purificazione e mezzo per raggiungere la salvezza, oltre a motivi con crociere a vela, a cassettoni e a croce greca. Il viaggio si chiude a Otranto, fisicamente e idealmente: siamo nel punto geografico piú a oriente d’Italia, e nulla è per caso. Qui, seguendo suggestivi vicoli lastricati in salita, raggiungiamo la chiesetta di S. Pietro, databile tra la fine del IX e la prima metà del X secolo, che funzionò come basilica fino al completamento della cattedrale dell’Annunziata. La pianta, a croce greca, è divisa da quattro colonne in tre navate che terminano in absidi agosto

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semicircolari. Altre quattro colonne sono inglobate, per metà, nelle pareti laterali. Tra gli affreschi superstiti, nella volta di sinistra troviamo l’Ultima Cena e la Lavanda dei Piedi, risalenti al X secolo, mentre gli altri sono databili alla fine del XII secolo; nell’abside centrale gli affreschi originari sono stati coperti nel 1540 con scene ispirate alla Genesi, alla Pentecoste, alla Natività e all’Anastasis (resurrezione) e con le immagini dei quattro Evangelisti.

Gli Alberi della Vita

OTRANTO

A sinistra e in alto uno scorcio della chiesa di S. Pietro e una veduta dell’interno, nella zona absidale, dove è sopravvissuta la decorazione ad affresco. IX-X sec. In basso cattedrale dell’Annunziata. Il ritratto di re Artú nel mosaico pavimentale realizzato dal presbitero Pantaleone su commissione del vescovo Gionata. XII sec. Il programma figurativo della composizione si stende su tutto il pavimento dell’edificio e si presenta di non sempre facile interpretazione per gli studiosi, data la varietà e la molteplicità delle rappresentazioni in esso comprese.

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Il cerchio si chiude alla cattedrale dell’Annunziata. Consacrata nel 1088, insiste su resti riferibili a un villaggio messapico, a una domus romana e a un tempio paleocristiano: mescolanza di stile arabo, romanico, gotico e barocco, si staglia improvvisa, giungendovi dal castello e da via Cenobio Basiliano. Ben quattordici colonne la dividono in tre navate, ma lo sguardo viene subito calamitato verso il basso dall’opera del presbitero Pantaleone: il mosaico pavimentale che ricopre l’intera superficie dell’edificio, con i suoi tre Alberi della Vita, allegoria del genere umano secondo lo spirito della letteratura greca e latina. Realizzato nel XII secolo su commissione del vescovo Gionata, presenta mostri, animali, figure mitologiche, raffigurazioni dei mestieri e scene ispirate alle Sacre Scritture. Piú ci si avvicina alla cima degli alberi e piú la rappresentazione si fa esoterica, con infinite spiegazioni tentate dagli studiosi; particolarmente significativa è la porzione presbiteriale, in cui la storia di Adamo ed Eva si intreccia con re Artú, Caino e Abele, e animali vari. Un esempio grandioso di sincretismo suggella dunque un viaggio lungo oltre cinque secoli, che ci lascia in dono tradizioni, figure, abiti, gesti greco-bizantini e latini in un clima di multireligiosità e multiculturalità dal quale, ancora oggi, avremmo molto da imparare. F

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di Claudio Corvino

BALLANDO CON IL RAGNO

Musica, ritmo ossessivo, danze sfrenate e trance. Ancora fino alla prima metà del Novecento, nel mondo agricolo dell’Italia meridionale era diffusa una pratica magico-terapeutica, nota come «tarantismo». Nelle pagine seguenti, l’antropologo Claudio Corvino ci guida alla scoperta delle origini di questo misterioso e affascinante complesso rituale Virgilio e Dante guardano la donna ragno, incisione di Gustave Doré, per la Divina Commedia (Inferno). 1885. Collezione privata.


Dossier

A A

nche quest’anno, per la diciannovesima volta, il Salento ospita il Festival «Notte della Taranta» (vedi box a p. 89) che, come racconta già il nome, si ispira a un piccolo animale, citato dalle culture popolari con caratteristiche vaghe dal punto di vista zoologico, ma piú precise da quello simbolico. La taranta e tutta la sua «famiglia» di ragni, vermi et similia sono state al centro, nei secoli, di una fitta rete di credenze, pratiche e rituali di guarigione, in qualche modo sopravvissuti fino alla metà del Novecento e recuperati negli ultimi anni in un movimento di riappropriazione locale che ha trovato un buon riscontro da parte del pubblico, soprattutto giovanile. Rituali e pratiche oggi privi, però, delle valenze religiose e terapeutiche che storicamente li connotavano. Quando l’antropologo e storico delle religioni Ernesto De Martino (1908-1965) giunse in Salento nel 1959 con la sua équipe per studiare il fenomeno, si trovò di fronte al fatto – o, piú propriamente – al dato etnografico, che alcune donne, chiamate «tarantate», raccontavano di essere state morse da un aracnide mentre lavoravano nei campi. Ciò provocava loro particolari crisi psichiche che ciclicamente ritornavano, «rimordevano», nel periodo estivo e all’approssimarsi della festività di san Paolo (29 giugno), santo che presiedeva e proteggeva dai morsi di questi animali velenosi.

L’importanza dei suoni

A fare da baluardo contro le crisi era una sorta di terapia musicale durante la quale venivano proposte alla tarantata, spesso in una condizione d’inerzia, varie melodie, fino a che non ne fosse stata individuata una capace di spingerla alla danza. Secondo le osservazioni fatte all’epoca dall’etnomusicologo Diego Carpitella (1924-1990), il rapporto tra la crisi e i suoni aveva un forte carattere di reciprocità, nel senso

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che «il tarantato in crisi richiede “i suoni” e d’altra parte “i suoni” possono far precipitare una crisi latente e immettere nella vicenda terapeutica», primo passo concreto verso la risoluzione della crisi.

Facendo un salto nel tempo e nello spazio, molte cronache medievali mitteleuropee testimoniano di turbe di uomini e donne in preda a «crisi di danza» coincidenti con feste dedicate a san Vito o a san agosto

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Nella pagina accanto particolare di una tavola illustrata raffigurante la tarantola pugliese che si mostra al suono della musica, dalle Observationum rariorum medicarum anatomicarum chirurgicarum centuria prior, edizione in latino dell’opera Hondert Seldzame Aanmerkingen... del medico olandese Cornelis Stalpart van der Wiel. Leida, 1687. A sinistra particolare di una tavola illustrata che mostra l’Antidotum tarantula, da Magia universalis naturae et artis, opera del gesuita e scienziato tedesco Gaspar Schott. Herbipoli, 1657.

Giovanni o che avvenivano nei loro santuari. Talvolta potevano scatenarsi anche durante la notte di Natale, come nel 1021 presso la chiesa del monastero di Cölbigk (nei pressi di Bernburg, in Germania), dove

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diciotto persone cominciarono a danzare suscitando il risentimento del prete locale – i testi lo chiamano Ruprecht – che li maledisse, condannandoli a ballare incessantemente per un anno. Tra loro alcu-

ni morirono, altri conservarono un tremore degli arti finché vissero. Nel 1237, oltre duecento ragazzi andarono da Arnstadt a Erfurt, in Turingia, danzando e saltando fino al totale spossamento fisico.

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Dossier A sinistra disegno raffigurante la leggenda del pifferaio magico. XVI sec. L’illustrazione è una copia di quella sulla vetrata della chiesa del Mercato a Hamelin, risalente al XIII sec. Nella pagina accanto l’Apulia, personificazione della regione Puglia, dal trattato Iconologia di Cesare Ripa. 1593.

Secondo le cronache, alcuni morirono dopo essere ritornati a casa, mentre altri ebbero queste crisi per tutta la vita. Piú tardi, il 17 giugno del 1278, secondo la Cronaca di Maastricht, una folla di oltre duecento danzatori fece crollare un ponte sulla Mosella, a Utrecht, poiché non riusciva a fermarsi. Possiamo osservare, quasi a titolo di curiosità, che il celebre caso del pifferaio di Hamelin, ambientato nel Trecento, avvenne a meno di duecento chilometri da Erfurt e racconta ancora di ragazzi che danzavano e seguivano per motivi ignoti una musica come fossero in trance (o era la musica che seguiva i ragazzi?). La sostituzione dei ragazzi con i topi è, in realtà, un’aggiunta del XVI secolo e, inoltre, un’iscrizione trovata sulla facciata di una casa, risalente al principio del Seicento, pare descrivesse un «pifferaio, vestito di ogni colore» che il 26 giugno (giorno dei santi Gio-

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vanni e Paolo) del 1284 «ingannò» centotrenta bambini.

Una pratica «turpe»

Certo la danza non era ben vista da alcuni settori del clero, come ricordano il Dottore della Chiesa Giovanni Crisostomo (344 circa-407), quando scriveva «Dio non ci ha dato i piedi perché li usiamo in modo turpe, ma per camminare rettamente» e, piú lapidariamente, il vescovo Giacomo da Vitry (1170 circa-1240): «La danza è un cerchio al cui centro sta il diavolo». Ma tutte le voci contrarie e le condanne ecclesiastiche dovettero restare di fatto inascoltate se, ancora alla fine del Seicento, il parroco di Santena, in Piemonte, Giovan Battista Chiesa, venne processato per aver compiuto esorcismi al suono di violini e danzando in onore di sant’Antonio. E, come abbiamo ricordato all’inizio, la «terapia» musicale è perdurata fino ai tempi di De Martino e

Carpitella. A differenza del tarantismo pugliese, non risulta, però, che queste danze medievali coinvolgessero insetti ballerini, ma certamente furono presenti strumenti musicali, anche se non possiamo dire molto sulle melodie o i ritmi coinvolti. Gli Annales Ecclesiastici riportano che, nel 1374, ad Aquisgrana, folle deliranti si abbandonavano per ore e ore alle danze per le strade e, tenendosi per mano, facevano qualcosa di molto simile ai nostri girotondi, fino a che non cadevano a terra spossati. Senza alcuna vergogna, aggiungono i testi, che sottolineano come le loro movenze non apparissero divertenti o briose, ma tristi e deprimenti, ai limiti di un’ebetudine stuporosa a cui seguivano uno stato simile alla possessione e allucinazioni con visioni di fantasmi, dei quali balbettavano appena i nomi. Nello stesso anno questa sorta di epidemia si diffuse anche nei vicini Paesi Bassi, dove altri «posseagosto

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duti», danzatores o chorisantes, vennero esorcizzati in massa. Questa daemoniaca pestis pareva colpire in particolar modo «poveri» e «deboli di mente»: persone innocue, ma potenzialmente pericolose, soprattutto perché sostenevano che, dopo poche settimane, i demoni sarebbero entrati anche nei corpi dei principi, dei potenti e dei rappresentanti del clero. Sembra chiaro quindi che persino questi incorporei spiriti demoniaci scegliessero le loro vittime in base a pregiudizi di classe. Inoltre, e si tratta di un elemento ricorrente a tutte le latitudini, questi danzatores prediligevano o avevano in odio alcuni colori, primo fra tutti il rosso, che pare li facesse diventare furiosi. Dopo Aquisgrana fu la volta di Colonia, dove circa cinquecento ballerini cominciarono a roteare vorticosamente per le strade, e di Metz, dove se ne contarono mille e cinquecento: gli artigiani abbandonavano la propria bottega, i bambini le loro famiglie, i contadini l’aratro, i servi i loro padroni e le donne il proprio focolare per unirsi a quelle «turbe selvagge». Il linguaggio, il registro linguistico e la riprovazione che trasudano dai testi ricordano la retorica utilizzata parlando di altre «turbe selvagge» che abbandonavano la «civiltà» e il focolare domestico per unirsi alle schiere di streghe e stregoni danzanti in quelli che si chiamarono sabba.

L’eros precluso

In entrambi i casi, nei testi si allude ad aspetti che definiremmo erotici: le donne partecipavano a queste danze per soddisfare le loro voglie, altrimenti chiuse e bloccate all’interno dei corpi e delle case. Si tratta del fenomeno che De Martino, nel suo studio La terra del rimorso, de-

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finí eros precluso: «Gli esorcismi accennanti alla taranta che morde il pube, i denudamenti e le esibizioni oscene, e infine alcune figure al suolo durante la danza del piccolo ragno che potevano valere come posizioni e ritmi di un amplesso immaginario, costituivano un ordine di possibili orizzonti simbolici di ripresa e di deflusso, entro i quali le tarantate cercavano di dar voce e gesto di sogno alla oscura pulsione libertina che le travagliava». Tornando alle nostre città medievali, sarebbe impossibile stilare

un elenco completo di tutte quelle colpite da simili fenomeni coreutico-musicali. Sappiamo però che sia i danzatores sia i loro osservatori erano concordi nel collegare l’origine e la risoluzione di questi mali a qualche figura di santità, soprattutto a san Giovanni e a san Vito. Il primo, festeggiato il 24 giugno, rimanda subito al famoso episodio di Salomé, figlia di Erodiade, la quale, in cambio di una danza particolarmente

ben eseguita durante un banchetto di Erode Antipa, su istigazione della madre chiese la testa di san Giovanni Battista, inviso perché aveva biasimato l’unione incestuosa tra quest’ultima ed Erode. E non è forse inutile ricordare che Erodiade era una delle mitiche conduttrici notturne che si diceva guidassero turbe di donne che volavano la notte per raggiungere i soliti sabba.

Maledizioni terribili

Invece, il nesso con san Vito (vedi box a p. 83), che pure risolse magicamente varie «epidemie» coreutiche non è immediatamente percepibile. Il Ballo di san Vito era cosí noto che nel 1485 espressioni come «Gott geb dir Sankt Veit» («Dio ti mandi san Vito»), era penalmente perseguibile e, nel 1528, il teologo Johann Agricola (1494-1566) inserí nella sua raccolta di proverbi tedeschi un «Dass dich Sanct Veitstanz ankomme» («Che ti venga il male di san Vito»). Maledizioni temibili, viste le irrefrenabili conseguenze e patologie a cui davano luogo: solo la musica o un pellegrinaggio a una sua cappella o santuario potevano risolverle. Ancora, nel 1518, a Strasburgo una folla di persone cominciò a danzare al suono di pifferi e tamburi, costringendo la municipalità a istituire posti di ballo nei locali delle corporazioni e nei mercati, procurando anche suonatori e ballerini in numero sufficiente per dare il cambio a coloro che stramazzavano al suolo sfiancati. Il medico Gregor Horst (15781636), l’«Esculapio germanico», fu testimone diretto di un rito che si svolgeva nel Seicento presso la cappella di S. Vito a Drefelhausen, nel territorio di Ulm. Qui alcune donne danzavano giorno e notte sino a ca-

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Sulle due pagine I danzatori di san Giovanni a Molenbeek (particolare), olio su tela di Pieter Bruegel il Giovane, basato su un disegno di Pieter Bruegel il Vecchio. 1592. Collezione privata. L’opera raffigura il pellegrinaggio degli epilettici verso la chiesa di Molenbeek-Saint-Jean nel giorno in cui ricorre la festa del santo.

dere in estasi, «nel qual modo sembra che guariscano, sí da non avvertire quasi disturbi per tutto l’anno». Allo scadere del quale, però, i sintomi ritornavano e gli ammalati erano costretti a tornare alla cappella all’epoca della festa del santo, il 15 giugno. Il dotto medico riporta anche l’utile informazione riguardante una donna costretta a ballare ogni anno nella

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cappella per vent’anni, e un’altra per trentadue. Anche per costoro, dunque, esisteva una ciclicità del male, come per le tarantate pugliesi che, all’avvicinarsi della stagione di san Paolo, venivano «rimorse» dal loro aracnide, e anche per quelle antiche donne esisteva un sollievo transitorio dal male, o una terapia, che faceva leva sulla musica e sul ritmo, vista la costante presenza dei «pifferi e tamburi».

La variante del rospo

Non c’è il ragno o la taranta, certo, ma in qualche modo anche qui fece la sua comparsa un piccolo animale che, almeno simbolicamente, gli somiglia: il rospo. Come in un varie-

gato carosello simbolico, ancora oggi, nei Paesi di lingua tedesca, si usa dire di una donna che soffra di dolori al basso ventre che «le si muove il rospo», in memoria di una ippocratica fisiologia che voleva l’utero mobile all’interno dei corpi femminili. Fino al Novecento, inoltre, erano noti ex voto a forma di rospo che le donne portavano in alcune chiese tedesche, austriache o ungheresi come devoto ringraziamento per un parto felice o la risoluzione di problemi all’utero. Un rospo che, come la taranta, può mordere le donne, ma dall’interno del loro corpo, come una belva o «a guisa d’alcuna fiera selvatica [che] hor qua, hor la ne va vagando», secondo il medico cinquecentesco Giovanni agosto

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san vito

Un santo «polivalente»

Marinello. Chi ha detto, infatti, che una «fiera selvatica» e pericolosa debba essere di grandi dimensioni? Fin qui abbiamo detto del legame tra san Vito e la danza, ma non di quello con i pericolosi morsi o punture. Ritroviamo questo esile nesso nella parte finale di una passio medievale del santo, là dove si racconta che, prima di morire, egli fece a Dio una singolare richiesta: «per dies quatuor natalis mei musca non apparebit», cioè «che non apparisse la musca per i quattro giorni della sua ricorrenza». Perché questa insolita richiesta?

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Martirizzato nel 303, Vito «è il santo di cui non si conosce nulla», scrisse uno dei maggiori agiografi del Medioevo, Albert Dufourcq (1872-1952), eppure è uno dei piú noti dell’età medievale, patrono di città e paesini, ma anche di intere regioni come la Sassonia, la Boemia, la Pomerania. In Italia sono un centinaio i Comuni o le frazioni a lui dedicati e innumerevoli le chiese. Tra i suoi trentaquattro patronati, oltre a quelli della «corea di san Vito», nel Medioevo ci furono anche quelli contro l’epilessia, l’isteria, la rabbia canina, il colera, l’avvelenamento, le malattie oftalmiche, la sterilità, l’incontinenza urinaria e i crampi. Patronati del corpo che si mescolano a patronati dei mestieri: farmacisti, osti, minatori, pentolai e quindi fabbri, birrai e quanti usavano il corpo in modo «improprio», come i ballerini e gli attori. C’erano inoltre i patronati dei sordomuti, dei lanzichenecchi e dei soldati di ventura. Secondo l’agiografia, Vito nacque in Sicilia dove, all’età di sette anni cominciò a fare miracoli, dopo essere stato educato al cristianesimo dal precettore Modesto e dalla nutrice Crescenza. Questo fino a quando non fu tradotto in carcere dal preside Valeriano. Liberato da un angelo insieme agli altri martiri Modesto e Crescenza, dopo un viaggio in mare approdò in Lucania, presso il Sele, dove continuò a fare miracoli, fino a che non venne richiamato a Roma da Diocleziano, che aveva il figlio ossesso. Vito lo guarí, ma l’imperatore lo fece rinchiudere nuovamente in carcere, e qui fu ancora una volta liberato da un angelo, il quale, insieme ai suoi amici, lo riportò sul fiume Sele, dove i tre morirono. A sinistra statua lignea di san Vito. XVI sec. Il martire è ritratto nel calderone di pece bollente in cui, secondo una versione agiografica della sua passio, sarebbe stato immerso per ordine dell’imperatore Diocleziano, deciso a fargli abiurare il cristianesimo, nonostante avesse miracolosamente guarito suo figlio.

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Dossier Incantesimi

Scongiuri e incantatori di serpenti Documenti d’archivio hanno tramandato un incantesimo contro la taranta del 1222 (vedi, nel testo, a p. 87), del quale esiste una versione ancor piú antica di area italiana, ritrovata in un codice scritto verso la fine del XII secolo. Anche qui lo scopo è quello di «incantare» gli animali dal morso pericoloso: oltre a ragni e serpenti, troviamo il toporagno e il pipistrello. Lo scongiuro riporta anche un dato del massimo interesse: invece della formula «Ego te incanto» del 1222, appare un «Ego te marso», utilizzando quindi un ipotetico verbo marsare, che deriverebbe da marsus, cioè il maneggiatore di serpenti per antonomasia del mondo classico. Parliamo dei Marsi, cosí famosi per la loro specializzazione che già nelle Passioni dei martiri

e nelle Vite dei santi, quando entra in gioco il serpentarius per le sue torture, il termine viene tradotto con marsus, l’abitante della Marsica. Già nell’Alto Medioevo, il nome aveva perso ogni caratteristica etnica e indicava l’«incantatore» di serpenti: un operatore rituale specializzato, al quale si attribuivano i poteri utili in società pastorali che dividevano il proprio spazio con i serpenti. Martin Del Rio, nelle Disquisitiones magicae, parla dei Saludadores spagnoli, guaritori tradizionali, e dei Sanpaolari, mitici discendenti di san Paolo, che avrebbero anch’essi virtú di guarire dai morsi dei serpenti. Un potere derivante da un episodio degli Atti degli Apostoli, in cui il santo, a Malta, risultò immune dall’attacco di una vipera. A sinistra un ragno Hogna radiata, al cui morso veniva attribuito il tarantismo. A destra illustrazione raffigurante una scena di tarantismo, dal trattato Phonurgia nova di Atanasius Kircher. 1673.

Il luogo in cui san Vito spirò, la piana del Sele in Lucania, era conosciuto dalla letteratura classica, come leggiamo nelle Georgiche di Virgilio, per essere infestato da «un insetto che vola, il cui nome romano è assillo e presso i Greci estro. Insistente e con aspro ronzio, per cui tutti gli armenti fuggono atterriti nei boschi». E non solo gli armenti: Io, nella mitologia greca figlia di Inaco, dio fluviale e re di Argo, dopo essere stata trasformata in giovenca, fugge incessantemente inseguita da un tafano. Questa musca, asilus o óistros è un insetto dalla potente dimensione simbolica: è l’animale dalla puntura incalzante, senza tregua, che punge

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e ripunge ripetutamente, spingendo chi ne è vittima, come la povera Io, a una fuga continua, una fuga che nei testi classici è spesso raccontata come una mania collettiva e tipica di alcune donne, soprattutto vergini, soggette a crisi psichiche caratterizzate da furore, mania coribantica, angoscia e talvolta da un forte impulso al suicidio.

Cantare per Apollo

Il filosofo Aristosseno di Taranto (attivo nel IV secolo a.C.) scriveva che crisi coribantiche colsero donne della Magna Grecia e che i sacerdoti di Locri e di Reggio, con-

sultato il debito oracolo, prescrissero allora di cantare per quattordici giorni consecutivi i peana, inni in onore di Apollo, il dio guaritore, che in genere venivano accompagnati da lire o flauti. Le crisi coribantiche nel mondo classico venivano trattate con tecniche diagnostico-terapeutiche che, come il tarantismo, si basavano sulla musica. Nello Ione, il filosofo Platone scrive che i coribanti «sono sensibili e rispondono solo a quella melodia che è del dio dal quale sono posseduti (…) mentre sono insensibili a tutte le altre». Testimonianze che ci fanno comprendere meglio il desiderio di agosto

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san Vito morente: imporre nuove modalità di guarigione, di salvezza, a precedenti cure catartiche che la tradizione magno-greca legava all’oistros, alla musca. Non c’era piú bisogno di peana o danze, visto che la potenza di san Vito sarebbe bastata da sola ad allontanare questo insetto, già definito dal citato Crisostomo stimulum diabolicum. Il legame con san Vito sopravvisse per secoli e fu suggellato dalla medicina, quando il fisiologo Thomas Sydenham (1624-1689) definí la malattia che da lui prese nome, la chorea Sydenham, come chorea sancti Viti, il Ballo di san Vito.

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Se nell’Europa centrale non vediamo apparire ragni o tarantole legate a simili danze, non è certo per una questione di habitat o di nicchia ecologica. Gli Aracnidi hanno da sempre accompagnato la vita del Vecchio Continente, dove erano visti, simbolicamente, come animali che imprigionano gli uomini nella tela dell’eresia e sono essi stessi peccatori, come scriveva Ildeberto di Lavardin (1056-1133), o ipocriti, come li definí Gregorio Magno (540 circa-604). Cecco d’Ascoli (12691327) voleva che il ragno fosse il simbolo dell’inganno, perché tesse una tela cosí fine che una mosca,

volando, vi incappa e viene uccisa. Piú umanamente, Rabano Mauro (780-856), nel De Universo, vedeva nella tela il simbolo stesso della fragilità umana. Interessante è la rappresentazione proposta dal domenicano Tommaso da Cantimpré (1201-1270 o 1272) nel suo Opus de naturis rerum, della metà del Duecento: parlando dell’eccellenza dei sensi degli animali, attribuisce al ragno quello del tatto, come si può d’altronde vedere in un dipinto nella Torre di Longthorpe a Peterborough, dove una rotonda ragnatela lo rappresenta (vedi l’immagine a p. 89). Solo verso il

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Dossier

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1577 Paolo Veronese poté mostrare nel Palazzo Ducale di Venezia la ragnatela come simbolo dell’Industria, ma per tutto il Medioevo, in genere, il ragno aveva valenze prevalentemente negative.

Un intruso nel calice

In particolare tutti i rappresentanti della specie dei ragni erano considerati velenosi, un po’ come i serpenti, anche quando non lo sono affatto: è quanto si può leggere, per esempio, nelle vite di san Norberto, del beato William abate di Chiaravalle e, soprattutto, di san Corrado di Costanza. Costui un giorno, mentre officiava la messa di Pasqua, «scorse immerso nel sacrosanto licore [del calice] uno di que’ Ragni stimati ivi per alcune cagioni mortiferi», come è raccontato in Meraviglie di Dio (1705). Corrado rimase perplesso, ma, pensando che il corpo di Cristo aveva vinto ben altri veleni, bevve il contenuto del calice con tutto l’animale. Inutile dire che, poco dopo, il velenoso ragno gli uscí dalla bocca, senza arrecargli alcun male. Per questo, nell’iconografia, san Corrado ha un ragno che esce dal calice che regge nella mano. Piú o meno la stessa storia si ripete nella vita di William e di Norberto. Apparentemente, ma potremmo sbagliarci, sembra che nel Nord Europa queste malattie coreutiche non fossero legate a ragni o ad animali «specializzati». Nei Paesi Bassi, per esempio, sul finire del Quattrocento c’erano monaci «posseduti» che correvano in giro come cani, saltavano su rami degli alberi imitando gli uccelli o miagolando e graffiando come gatti. Scendendo verso il Sud, invece, le cose cambiano e s’incontrano sempre piú tarante e tafani, il cui morso era molto pericoloso, non solo perché mortale, anzi non tanto per questo, ma perché veicolavano «strane malattie», che spingevano o si guarivano con la musica e la danza. In Italia meridionale questo corteo di sintomi aveva un’unica causa, la taranta.

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Industria (o Dialettica), olio su tela di Paolo Veronese. 1575-1577. Venezia, Palazzo Ducale. Protagonista dell’allegoria è una donna che solleva una tela di ragno: dopo il Medioevo, il ragno, cosí come il tessere e, di conseguenza, la ragnatela, divenne simbolo del lavoro meticoloso e quindi dell’industria.

È pur vero, però, che sotto questo nome andavano anche altri animali. Nel suo De rebus gestis, il cronista normanno Goffredo Malaterra (XI secolo) ricorda per l’anno 1064 lo stanziarsi delle truppe a Palermo su di un monte chiamato Tarantino per la presenza di tarante e specifica: «La taranta è un verme della specie dei ragni ma con un aculeo velenoso dalla dolorosa puntura e riempie coloro che punge di una diffusa e venefica flatulenza e questa ventosità, che fuoriesce disonestamente e crepitando dall’ano, senza che vi sia modo di lenirla».

«Nel nome del Padre...»

Certamente non furono vere tarante anche quelle descritte da Alberto d’Aix nella sua Historia Hierosolymitana del XII secolo, dei «serpenti» «quos vocant Tarenta» («che chiamano tarante»). Che la taranta fosse diffusa, temuta e pericolosa lo sappiamo anche grazie a un incantesimo del 1222: «In nomine patris et filii et spiritus sancti, amen. Ego te incanto ad honorem Dei et virginis domine sancte Marie de serpe, de scorpione, de tarantola, de cesaro (biscia d’acqua), de saiton (Colubro di Esculapio), de laxerton (ramarro), de stras (da strias, civetta?)». Ma la testimonianza piú antica che abbiamo del tarantismo per come oggi lo intendiamo è, al momento, quella del Sertum papale de venenis attribuito al padovano Guglielmo De Marra e composto verso il 1362. Il documento era già stato analizzato ne La terra del rimorso di De Martino, ma è stato riportato alla luce integralmente dall’antropologo Gabriele Mina. Dalla traduzione dell’inedito brano proposta dallo stesso

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Dossier La Notte della Taranta

Fra tradizione e contaminazione La XIX edizione de «La Notte della Taranta» è in programma dall’8 al 27 agosto. Nato nel 1998 su iniziativa dell’Unione dei Comuni della Grecía Salentina e dell’Istituto «Diego Carpitella», il festival si è ormai accreditato come una delle piú significative manifestazioni sulla cultura popolare in Europa. Si svolge in Salento ed è dedicato, nello specifico, alla riscoperta e alla valorizzazione della musica tradizionale salentina e alla sua fusione con altri linguaggi musicali, dalla world music al rock, dal jazz alla musica sinfonica. La formula della rassegna, che culmina nel Concertone finale di Melpignano (Lecce) si caratterizza in maniera del tutto originale e innovativa per la presenza di un Maestro Concertatore, invitato a reinterpretare i «classici» della tradizione musicale locale avvalendosi di un gruppo di circa trenta tra i migliori musicisti di riproposta del Salento, assieme a ospiti della scena nazionale e internazionale. L’edizione 2016 del Concertone di Melpignano è dedicata a Rina Durante, scrittrice e intellettuale salentina che con la sua opera di ricerca e divulgazione ha permesso di valorizzare la cultura popolare del Salento. Info www.lanottedellataranta.it Mina sappiamo che chi è morso dalla Tarantola «è fissato in quella fantasia nella quale era immerso al tempo del suo morso sino alla morte, o alla completa guarigione. Infatti se immaginava di cantare continuamente canterà, se immaginava di cacciare continuamente eserciterà l’azione della caccia» e cosí via, riprendendo quello che si può definire «il morso che blocca».

I poteri del lupo

Lo stesso Leonardo da Vinci (14521519) esemplificava cosí, nel suo Bestiario: «Il morso della taranta mantiene l’omo nel suo proponimento, cioè quello che pensava quando fu morso», in una sorta di congelamento, fissazione che incontriamo in diverse mitologie, dalla Gorgone allo stupor dovuto a incantesimo, dal potere del basilisco (re dei serpenti) di pietrificare con lo sguardo e fino alla credenza circa il fatto che se il lupo guarda per primo un essere umano lo blocca, lo immobilizza. Una credenza, quest’ultima, che ritorna nel diuturno modo di dire

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lupus in fabula, che, in origine, non significava affatto «lupo “nella storia”», come intendiamo oggi, ma «nella parola», alludendo proprio al fatto che l’uomo resta immobile e muto alla vista dell’animale. Un mito presente anche dietro il contiguo lupo mannaro, bloccato nella sua ferina forma dagli influssi della luna piena, astro che presiede a un altro complesso di immagini legate all’epilessia e a un lungo corteo di mali psichici. Il senso profondo di questo blocco è stato ben raccontato, letterariamente, in un passo dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese (1908-1950): «Gli dèi non ti aggiungono né tolgono nulla. Solamente, d’un tocco leggero, t’inchiodano dove sei giunto. Quel che prima era voglia, era scelta, ti si scopre destino. Questo vuol dire, farsi lupo». Il Sertum, certamente frutto di un dibattito piú antico, riconduce la malattia provocata dal morso dell’aracnide alle piú ampie rappresentazioni mediche della malinconia: il agosto

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morso causa «una perturbazione mentale, infatti il detto veleno estremamente nocivo e melanconico corrompe tutto il corpo e tutti gli umori e li altera, soprattutto la melanconia assimilando anche gli altri umori alla sua natura». Anche il «morso che blocca» è «notorio fra coloro che hanno conoscenza di quei luoghi in cui suole abbondare quell’animale, e specialmente in Puglia vicino alla città che è chiamata Taranto». Per quanto riguarda la terapia, oltre le applicazioni classiche di impiastri e unguenti, in cui rientra anche il corpo della stessa tarantola tritata, l’opera accenna alla terapia musicale: «Come insegna l’esperienza, da certi suoni traggono tanto diletto e giovamento da apparire guariti; per questo si dice in Puglia che è necessario suonare cosí a lungo e con tanti diversi suoni davanti al malato fino al momento in cui si identifica il suono della tarantola, lo stesso suono simile al suono o al canto che la taran-

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In alto illustrazione raffigurante la Vergine col Bambino tra i santi Corrado e Pelagio, dal Missale Constantiense. 1505. Augusta, Archivio Diocesano Arcivescovile. Sul calice che Corrado regge nelle mani si vede un ragno. A sinistra Peterborough, Longthorpe Tower. Particolare di un affresco raffigurante La ruota dei cinque sensi. XIV sec. Il tatto è simboleggiato dalla ragnatela (in alto, a sinistra).

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Dossier tola emetteva al tempo del morso». De Marra sostiene inoltre che i tarantati gradivano in modo particolare arie musicali note all’epoca, come la Pelandra e la Dama di Provenza.

L’esorcismo nella cappella di S. Paolo

Le armonie del mondo

Le funzioni terapeutiche della musica erano ben conosciute, l’abbiamo visto, nell’antichità e furono trasmesse al Medioevo occidentale in primo luogo da Boezio (480 circa-524) e Cassiodoro (485-580 circa) e in seguito all’affermarsi, tra il XII e il XIII secolo, del pensiero scolastico, che elesse le autorità per eccellenza in materia: Aristotele e Platone. I secoli dell’età di Mezzo furono attraversati dal principio che l’armonia universale (musica mundana) è ricapitolata dall’armonia del corpo (musica humana). Già nella Puglia del Trecento esisteva quell’esplorazione musicale di fronte alla quale si trovò l’antropologo De Martino quasi seicento anni piú tardi, quando i suonatori – armati di violino, chitarra, organetto e tamburello (oltre la voce e il battito delle mani) – cercavano di scoprire

la favola di leonardo

Il morso della tarantola La sterminata produzione di Leonardo da Vinci comprende varie favole, una delle quali sul morso della tarantola: «Un contadino stava vangando il suo campo, quando da una zolla scappò fuori una grossa tarantola. “Che brutto ragno!”, esclamò il contadino tirandosi indietro. “Se mi tocchi, ti mordo”, sibilò inferocita la tarantola. “E ti avverto che il mio morso è velenoso e ti farà morire tra dolori atroci”. Il contadino la guardò e capí subito che mentiva, perché parlava troppo. Fece un passo avanti e la pestò col piede scalzo dicendo: “O vediamo un po’ se mi farai morire per davvero!”. La tarantola, schiacciata, aveva fatto in tempo a morderlo, ma il contadino rimase nel suo convincimento, continuando a pensare che le minacce di quel ragno erano vane: e il morso, difatti, non gli dette che un po’ di bruciore».

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Le immagini pubblicate in queste pagine (e in quelle che seguono) sono state scattate dal fotografo Franco Pinna, che nel 1959 accompagnò l’antropologo Ernesto De Martino nel Salento, quando lo studioso decise di documentare etnograficamente le sopravvivenze moderne del fenomeno del tarantismo. Protagonista di questa prima sequenza è una donna che, dopo avere indossato gli stessi abiti che aveva nel momento in cui era stata morsa dalla taranta, si reca nella cappella di S. Paolo, a Galatina (Lecce), affinché possa essere liberata dalla possessione. In basso tavole anatomiche raffiguranti alcuni aracnidi dissezionati. dal De tarantulae anatome et morsu, trattato scritto dal medico Nicola Caputi, che fu membro dell’accademia delle scienze del Regno di Napoli. 1741.

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quale tipo di tarantola fosse coinvolta nel «morso»: «libertina», se la crisi si presentava con manifestazioni erotiche; «canterina», se con una preferenza per il canto; «tempestosa», se dava luogo a manifestazioni agonistiche o «guerresche»; «tristi e mute», se apparivano stati depressivi. Ognuna preferiva una tipologia di musica. Il complesso rituale poteva durare anche diversi giorni e riproporsi per molti anni, all’avvicinarsi della canicola o della festa di san Paolo, il quale, in un momento molto tardo della storia del tarantismo, è divenuto il santo esclusivo preposto a questo tipo di male.

La risposta della Chiesa

Il santo non appare invece nelle testimonianze medievali, come nei Sermones medicinales (1380 circa) di Niccolò Falcucci, il quale sostiene che la taranta «fa perseverare interamente l’uomo in qualunque disposizione nella quale egli si trovasse nel momento della puntura, sino alla guarigione o alla morte»; neanche nel De venenis (1426 circa) di Sante Ardoini, dove è riportato che l’uomo o la donna morsicati dal ragno divengono malinconici e fissi nel pensiero che avevano in quel momento. Anche qui la causa non è mitica o simbolica, ma segue la fisiologia dell’epoca secondo «la qualità e la complessione melanconica

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Alla ricerca della melodia «giusta»

Le foto in queste pagine hanno come protagoniste due giovani donne. Le tarantate vengono sottoposte a una «terapia» basata sull’esecuzione di ritmi frenetici, fino a che non se ne individui uno che le induca a ballare e possa cosí guarirle. Il rito si svolge in ambienti domestici e, a potenziarne l’efficacia, vi sono in un caso (vedi la foto in alto), immagini sacre dei santi Pietro e Paolo e una boccetta contenente l’acqua miracolosa di san Paolo, attinta dal pozzo di Galatina.

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dello stesso veleno della tarantola, comunicata alla fine al cervello». Solo molto piú tardi, con l’avanzare del mondo moderno, appare la figura di san Paolo, il quale diviene mediatore, protettore e causa di questa particolare malattia, in un progetto ecclesiastico teso a rimuovere forme di credenze, terapie e istituti culturali non consoni ai dettami della Chiesa. Cosí, secoli di rituali coreutico-musicali cominciarono a restringersi intorno all’unica figura di san Paolo e a svolgersi nella sua cappella di Galatina, al cui interno pazienti e guaritori tentavano di ricomporre e ridurre il rituale domiciliare come meglio potevano, perdendo la molteplicità e la ricchezza dei rimedi, delle cause e della varietà delle possibili patologie.

Una «rete» infinita

Dai testi si evince che la terapia coreutico-musicale del tarantismo, e dei fenomeni analoghi, veniva utilizzata per una molteplicità di mali che noi oggi non riusciamo a concepire. Già De Martino notava che

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Dossier Da leggere

La «ricostruzione» della tarantella

Justus Friedrich Karl Hecker, La Danzimania, malattia popolare nel medioevo, Ricordi, Firenze 1838 (anche on line: https://books. google.it/) Angelo Turchini, Morso, Morbo, Morte. La tarantola fra cultura medica e terapia popolare, Franco Angeli, Milano 1987 Gabriele Mina (a cura di), Il morso della differenza, Besa Editrice, Nardò (LE) 2000 Sergio Torsello, Gabriele Mina, La tela infinita. Bibliografia degli studi sul tarantismo meridionale, Besa Editrice, Nardò (LE) 2005 Francesco Marco Attanasi, La musica nel tarantismo. Le fonti storiche, ETS, Pisa 2007 Ernesto De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano 2008

il tarantismo era un’«ideologia» che riusciva a comprendere al suo interno sindromi svariate e differenti, comprese coliche epatiche, otiti o casi di epilessia. Anche se il ragno, apparentemente, sembra essere il solo agente patogeno, le culture popolari hanno moltiplicato le combinazioni e le interazioni tra mali e rimedi in modo da costruire una «rete» di terapia potenzialmente infinita. Cosí, alla varietas dei ragni (ognuno dei quali preposto a un differente tipo di male) e dei veleni (con proprietà fisiche differenti) che potevano essere implicati nell’eziologia, corrispondeva la varietas dei tarantati, ciascuno legato a un proprio vissuto particolare e personale. Moltiplicando le varietates, otteniamo quindi una molteplicità terapeutica che, simbolicamente, ricapitola tutte le possibili crisi psichiche che l’umanità subalterna meridionale si trovava ad affrontare.

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Queste foto furono scattate da Franco Pinna quando, per Ernesto De Martino (qui sopra e in basso) e Diego Carpitella (che compare, seduto sul letto, nella foto alla pagina accanto, in alto a destra) fu organizzata una sorta di «lezione».

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Donne di Muro Leccese riproducono alcuni momenti del ciclo coreutico della tarantella che veniva impiegata nell’esorcismo musicale: la corsa intorno alla sedia, con le braccia flesse all’altezza della testa, tenendo un panno colorato all’altezza della testa; dalla posizione seduta, rovesciamento e lateralità del corpo all’indietro; oscillazione ritmica del panno.

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Il tarantismo diviene quindi un istituto culturale in grado di comprendere e guarire il piú ampio spettro di patologie e di mali. Inoltre, al mutare della terapia, nei secoli, hanno corrisposto variazioni delle stesse malattie e delle crisi. Perché, come scriveva lo storico inglese Edward Shorter, anche i sintomi hanno una storia che cambia nei secoli. Perché gli uomini plasmano continuamente in cultura ciò che la natura offre loro, compresi i morsi, i ri-morsi e le tele dei ragni. Qualcosa del genere pensò anche Tommaso d’Aquino quando, scrivendo i suoi commenti alla Fisica di Aristotele, mise a confronto la monotona creatività del ragno nel fare la sua stessa, identica tela con la produzione incessante di nuove forme, tipica dell’essere umano.

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Commistione di Maria Paola Zanoboni

sublime

Tutte le immagini che corredano l’articolo raffigurano opere d’arte e particolari architettonici della basilica di S. Caterina d’Alessandria a Galatina (Lecce). Particolare del ciclo di affreschi con Scene dell’Apocalisse, raffigurante la donna seduta sul drago a sette teste. XV sec.

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La basilica di S. Caterina d’Alessandria, a Galatina, è considerata una sorta di Assisi del Salento. Al suo interno, infatti, si conservano cicli affrescati di straordinario pregio, nei quali la spiritualità bizantina si fonde con la freschezza tipica dello stile francescano

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ituata nel cuore del Salento (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 64-75), Galatina custodisce da quasi sette secoli un capolavoro della pittura paragonabile soltanto alle basiliche di Assisi: la basilica di S. Caterina d’Alessandria. Nel XIV secolo la città faceva parte della contea di Soleto, governata da Ugo del Balzo: un suo discendente, Raimondello del Balzo Orsini († 1406), fece edificare alla fine del Trecento la basilica, mentre il di lui figlio, Giovanni Antonio, principe di Taranto e noto per il grande mecenatismo, ne portò a termine la costruzione. Giovanni Antonio aveva alle spalle una solida formazione culturale che gli proveniva sia dalla nobiltà romana degli Orsini, da cui discendeva, sia dalla madre Maria d’Enghien, contessa di Lecce, principessa di Taranto, nonché regina di Napoli, Ungheria e Gerusalemme, avendo sposato in seconde nozze il re di Napoli Ladislao di Durazzo. Si spiegano cosí molti dei motivi ispiratori della basilica, tra cui, in particolare, la decorazione pittorica, voluta da Maria d’Enghien, e l’ampliamento del tempio, con la costruzione del coro, a opera di Giovanni Antonio († 1463).

La reliquia dal Sinai

Il culto della santa (una fanciulla di sangue reale martirizzata nel 327 d.C. per aver convertito al cristianesimo un gruppo di sapienti che, per ordine imperiale, avrebbero dovuto avvicinarla all’idolatria) era legato all’universo bizantino: fu Raimondello del Balzo Orsini, crociato in Terra Santa alla fine del XIV secolo, a sottrarre dal santuario di S. Caterina d’Alessandria presso il Monte Sinai una reliquia che portò a Galatina e per ospitare la quale fondò la basilica insieme al convento e all’ospedale. Sia dal punto di vista architettonico che da quello iconografico, il complesso – ultimo avamposto europeo in Occidente ed estrema propaggine d’Oriente in Europa – segna il passaggio dalla spiritualità bizantina a quella cattolico-romana. L’edificio sorse su una preesistente chiesa bizantina di rito greco risalente al IX-X secolo, le cui tracce sono visibili nel muro esterno della navata destra in cui è stata inglobata l’abside. In un clima religioso di forte tensione, che aveva appena visto il ritorno dei papi da Avignone (1378), contornato da ulteriori scandali, scismi e lotte intestine all’interno della Chiesa, la nuova istituzione venne affidata ai Francescani, protetti da Martino V – il papa che aveva posto fine allo scisma d’Occidente (1417) e che era imparentato con i del Balzo Orsini –, nella speranza di preservarla dal malcostume dilagante. Nell’azione dei frati Minori molti vedevano, infatti, l’avverarsi delle profezie di Gioacchino da Fiore (1135 circa-1202): san Francesco, sorgente della vita religiosa del Duecento e creatore di un movimento in espansione, costituiva la

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medioevo nascosto galatina nella controfacciata della navatella sinistra), la statua di san Francesco e numerosi altari. Nel 1597 agli Osservanti subentrarono i Riformati che, nel 1657, furono costretti a far ricostruire il convento, che minacciava di crollare. Dell’originaria struttura trecentesca i frati conservarono soltanto l’ex refettorio (ora adibito a museo), che venne abbellito, tra Sei e Settecento, con i motivi geometrici della volta a botte e con affreschi (alcuni dei quali di frate Giuseppe da Gravina) raffiguranti scorci paesaggistici di Vienna e Budapest, le Nozze di Cana, l’Ultima Cena e numerosi episodi della vita di Francesco d’Assisi.

La fusione di linguaggi diversi

Il ciclo pittorico principale è però quello quattrocentesco (1416-1443) che adorna completamente la chiesa, facendone un gioiello per il quale è stato chiesto il riconoscimento di Patrimonio dell’Umanità. In questa imponente impresa decorativa, massima espressione della corrente tardo-gotica d’inizio Quattrocento, si trova-

figura del santo moderno che, attraverso i suoi atti, aveva dato origine al rinnovamento della Chiesa. I Francescani Osservanti di una congregazione proveniente dalla Bosnia amministrarono il convento e l’annesso ospedale fino al 1494, anno in cui l’istituzione passò agli Olivetani per volontà di Alfonso II d’Aragona, fatto che diede origine a una controversia tra i due ordini protrattasi per 13 anni. Soltanto il 1° giugno 1507, sotto il regno di Ferdinando il Cattolico e il pontificato di Giulio II, si venne a un compromesso: i Francescani sarebbero rientrati in possesso del convento e della chiesa, mentre agli Olivetani sarebbe spettata la gestione dell’ospedale, previo versamento di un canone annuo ai confratelli. Tuttavia, i motivi di attrito però rimasero perché gli Olivetani non pagavano quanto dovuto. Oltre che luogo di preghiera, spazio fondamentale della vita sociale e religiosa galatinese, la chiesa divenne lo specchio dell’operosità degli Osservanti, che vi fecero realizzare il presepe in pietra policroma (oggi collocato

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In alto particolare della decorazione dell’architrave del portale maggiore, raffigurante la Vergine in trono tra gli apostoli. Nella pagina accanto particolare dello stipite sinistro del portale maggiore. A sinistra la facciata della chiesa.

no accostate l’eredità estrema della pittura bizantina, tendenze neogiottesche, nonché un linguaggio gotico legato all’area umbro-emiliano-marchigiana (mediato dall’interpretazione francescana), unito all’eleganza del gotico cortese. Due sono i livelli di lettura degli affreschi, legati al tipo di committenza: di carattere popolaresco quello voluto dai Francescani; piú raffinato quello legato alla corte. L’interno era stato affrescato sul finire del Trecento da artisti locali, ma la decorazione non era di elevata qualità, per cui la committente, Maria d’Enghien, fece interamente riaffrescare l’edificio da maestranze di scuola giottesca e senese, tra cui un certo Francesco d’Arezzo. Le influenze giottesche sono visibili soprattutto nelle vele della seconda campata, nelle quali compaiono i Sette Sacramenti. Gli elementi di scuola senese sono riscontrabili, invece, in alcune scene dell’ambulacro sinistro come l’Annunciazione. L’unico affresco firmato «Franciscus De Arecio» è ubicato nell’ambulacro destro e riporta un’immagine di sant’Antonio Abate. Accanto al nome dell’artista viene riportata la data del 1435.

Come una lezione

Il ciclo pittorico si sviluppa da sinistra a destra, raggiungendo l’apice nella navata centrale. Lungo le pareti della prima campata sono affrescate le Scene dell’Apocalisse (la caduta di Babilonia, l’agnello del Monte Sion, il Giudizio Universale), che costituiscono il ciclo piú vasto e introducono la narrazione delle vele della prima campata. Il linguaggio pittorico di questa sezione è movimentato, vivace, immediato, popolare, con un intento didascalico che si rivolge soprattutto ai ceti piú umili. Le pareti laterali della seconda campata accolgono le

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A destra un primo piano del cenotafio di Raimondello del Balzo Orsini, collocato sul lato sinistro dell’altare maggiore, nel presbiterio. XIV sec. Nella pagina accanto veduta d’insieme del mausoleo di Giovanni Antonio del Balzo Orsini, realizzato nel coro della basilica. XIV sec.

A sinistra ancora un particolare, dalle Scene dell’Apocalisse, ciclo di affreschi realizzato nella navata centrale. XV sec.

Storie della Genesi: la Creazione del mondo, dell’uomo, degli animali e dei vegetali; Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre; la separazione della luce dalle tenebre, delle terre dalle acque. Sulla volta sono raffigurati i Sette Sacramenti; nella vela centrale si riconosce il già citato papa Martino V (m.1431). La terza campata ospita le gerarchie angeliche nella volta, mentre la Vita di Gesú si dispiega sulle pareti, raccontata secondo il Vangelo di Luca. Alla Vita di santa Caterina d’Alessandria è dedicato, sulle pareti del presbiterio, un ciclo di diciassette affreschi che si apre con la scena in cui la santa, circondata dai filosofi pagani, ne confuta pregiudizi e calunnie contro i cristiani. Da questo episodio scaturiscono quelli successivi, fino alla condanna e al martirio. Nella volta sono dipinti gli Evangelisti e i Dottori della Chiesa. Nel coro, dove è raffigurata una serie di stemmi

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Planimetria della basilica di S. Caterina di Alessandria a Galatina.

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gentilizi, si innalza il cenotafio di Giovanni Antonio del Balzo Orsini, mentre quello di Raimondello (raffigurato col saio francescano) è ubicato sul lato sinistro dell’altare maggiore, nel presbiterio. Sia il ciclo pittorico della navata centrale che le Storie della Vergine nella navata destra furono commissionati da Maria d’Enghien, e sono perciò databili fra il 1416 e il 1443, essendo quest’ultimo l’anno di morte della principessa. Dietro l’altare maggiore si apre l’abside, gioiello

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dell’architettura gotica, la cui pianta ottagonale, contornata da cinque enormi finestre, consente il riversarsi nella chiesa di un’ondata di luce. Venne fatta edificare nel 1460 da Antonio del Balzo Orsini, affinché completasse la chiesa ospitandone il monumento funebre, che lo rappresenta, come il padre, vestito col saio francescano. Il cenotafio è situato al centro dell’abside, in cima a un baldacchino sorretto da quattro colonne alla base delle quali sono scolpiti altrettanti leoni; il sarcofago è agosto

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In alto veduta di una delle pareti della navata centrale, affrescata con Storie della Genesi. XV sec. A sinistra veduta della volta della basilica, decorata con il ciclo di affreschi delle Storie della Vergine. XV sec.

quale si sviluppò l’attuale basilica) sorgeva il cenotafio di Maria d’Enghien, poi fortemente rimaneggiato fino a renderne irrintracciabile la connotazione originaria. La volta, affrescata con la vita della Vergine, è cosparsa degli stemmi dei del Balzo, degli Orsini, dei d’Enghien e dei Colonna. Al centro della navata destra si apre la cappella Orsini, sulla cui volta si staglia l’immagine del Cristo benedicente: lo schema compositivo vorrebbe richiamare la statica ieraticità bizantina, ma la freschezza del linguaggio pittorico denuncia la matrice popolaresca francescana. Sulla parete sono raffigurati, con lo stesso stile, alcuni santi, e nello zoccolo e sulle ante della cappella altri episodi della Vita di Maria, tra cui l’incoronazione, che denotano anch’essi la freschezza del linguaggio francescano.

I tesori della sagrestia

sormontato da un’edicola gotica finemente cesellata. Sulla cupola, divisa in otto spicchi, sono affrescati altrettanti stemmi nobiliari, mentre all’esterno dell’abside sono scolpiti altri stemmi, oltre a un fregio che incorona la cupola ottagonale. All’esaltazione della stirpe dei del Balzo Orsini sono deputate anche la navata destra e la cappella di famiglia. In fondo alla navata destra (nella quale si scorge l’impianto originario della chiesa preesistente sulla

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La navata sinistra si apre con il già ricordato presepe cinquecentesco in pietra policroma, dello scultore Nuzzo di Barba, seguito dall’altare di S. Caterina (seconda metà del XV secolo), adorno di un gruppo statuario della stessa epoca, e da quello di S. Leonardo (1580). Merita di essere ricordata anche la sagrestia, posta in fondo alla navata sinistra, che custodisce lo splendido affresco della Madonna della Mela, un armadio-reliquiario settecentesco in noce, mentre la volta venne decorata nel Settecento con motivi geometrici. Nel Museo della basilica (situato, come si è detto, nell’ex refettorio) sono esposte reliquie e reliquiari, icone, un mosaico del XIII secolo raffigurante Cristo Pantocrator, proveniente da Costantinopoli, arredi sacri, una Madonna col Bambino in marmo.

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medioevo nascosto galatina Ancora un particolare dalle Scene dell’Apocalisse con demoni e personaggi

maschili. Il linguaggio pittorico del ciclo risulta movimentato, vivace, immediato e popolare.

Da leggere

Un ciclo pittorico (risalente alla Su questa base, Giuseppe da Domenica Specchia, Basilica di S. fine del Seicento) adorna anche il Gravina dipinse scene che si possoCaterina d’Alessandia. Galatina. chiostro. La sua esecuzione fu affino ritenere la logica continuazione Gli affreschi del chiostro, Editrice data dai Frati Riformati al loro condell’Antico e del Nuovo TestamenSalentina, Galatina 2007 fratello Giuseppe da Gravina, già to, rappresentando la missione di Padre Antonio Febbraro, Guida di affermato come autore di numerose san Francesco come restauratore Santa Caterina, Basilica di Santa altre tele e affreschi. Il filo condutdella Chiesa militante e raggiunCaterina d’Alessandria, Frati Minori, tore della decorazione è il pensiero gendo l’apice del pathos nella narGalatina 2013 filosofico francescano, impregnarazione pittorica dell’episodio delle Padre Antonio Febbraro, Santa to della dottrina di Gioacchino da stimmate. Altri episodi salienti soCaterina in Galatina. Assisi Fiore, secondo il quale Francesco no quelli del viaggio del santo nei salentina, Basilica di Santa avrebbe inaugurato l’età della Chieterritori musulmani e dell’opera di Caterina d’Alessandria, Frati Minori, sa spirituale, ovvero la terza delle conversione pacifica attuata da lui e Galatina 2013 tre epoche in cui Gioacchino ritedai suoi seguaci. Alcune scene sono neva fosse divisa la storia dell’umadedicate a sant’Antonio da Padova e nità (età del Padre, corrispondente ad altri santi francescani. Sulla conall’Antico Testamento; età del Figlio, corrispondente trofacciata della porta d’ingresso è raffigurata, infine, al Nuovo Testamento; età dello Spirito Santo, cioè, apsanta Caterina d’Alessandria nell’atto di ricevere l’apunto, della Chiesa spirituale). nello nuziale da Gesú Bambino.

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CALEIDO SCOPIO

Alle origini della banca pubblica

LIBRI • La genesi delle moderne casse di risparmio

si può collocare tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo ed è legata alle dinamiche che regolavano l’erogazione dei prestiti da parte degli Ebrei

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copo del volume è quello di analizzare le dinamiche creditizie ebraiche e cristiane per comprendere il processo di genesi della banca pubblica (ovvero della cassa di risparmio cittadina), l’istituzione di governo piú originale inventata in Italia tra il Medioevo e l’età

Giacomo Todeschini La banca e il ghetto. Una storia italiana (secoli XIV-XVI) Laterza, Roma-Bari, 252 pp. 22,00 euro ISBN 9788858124697 www.laterza.it

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moderna, che nella ricchezza cristiana dello Stato vedeva la manifestazione piú alta del potere e dell’amministrazione civica. Una genesi approssimativamente collocabile all’inizio del Trecento. Fino a tutto il Duecento, infatti, l’usuraio – ebreo o cristiano – era una figura dalla connotazione decisamente negativa, ma, tra la fine del XIII secolo e l’inizio del successivo alcuni prestatori cristiani di Padova, Bologna e Firenze, legati per motivi di interesse ai relativi governi cittadini, si trasformarono in banchieri, cioè in figure di spicco, il cui rilievo civico era pari al significato politico della loro attività finanziaria. Tale processo agosto

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Nella pagina accanto Venezia. Il campo del Ghetto Nuovo, zona nella quale la comunità ebraica fu costretta a trasferirsi nel 1516, poiché si trattava di un quartiere piú facilmente controllabile. A destra veduta di Venezia di Jacopo de’ Barbari, con al centro il sestiere di Cannaregio e l’area del futuro Ghetto Nuovo. 1500. Venezia, Museo Correr.

Enzo Ciconte, Vincenzo Macrí, Francesco Forgione Osso, Mastrosso, Carcagnosso. Immagini e misteri della ‘ndrangheta prefazione di Nino Buttitta, illustrazioni di Enzo Patti, Rubbettino, Soveria Mannelli, 96 pp., ill. col. 25,00 euro ISBN 978-88-498-2762-0

era la conseguenza delle dottrine giuridiche del mondo cristiano (XIII-XVI secolo), che, pur condannando l’usura, promuovevano le transazioni creditizie utili allo Stato, in quanto funzionali alla costruzione del «bene comune».

Profitto, politica e religione In questo scenario, l’iniziativa economica ebraica – finora poco considerata –, intrecciandosi a quella cristiana, la modificò e ne determinò le reazioni, in una prospettiva orientata da logiche di profitto indistinguibili dalle scelte politiche e religiose. Quello che l’autore rimprovera alla storiografia tradizionale è, soprattutto, la mancanza di intersezione tra i due ambiti: le storie dei banchi ebraici e quelle dei prestatori cristiani sono cioè sempre rimaste parallele. Se gli Ebrei, a differenza dei cristiani, rimasero sempre legati al piccolo prestito su pegno, senza potersi elevare al rango di banchieri e concedendo sovvenzioni ai governi cittadini, fu soprattutto per la loro concezione strettamente personale dell’erogazione del credito, che doveva essere garantito esclusivamente da chi lo aveva ricevuto. Ciò rendeva impossibili qualsiasi transazione legata ai passaggi di credito da un soggetto all’altro, nonché i rimborsi mediante la riscossione di dazi (prassi comune per le sovvenzioni all’autorità pubblica). In ogni caso, il piccolo prestito al consumo erogato dagli Ebrei fu sempre bene accetto in Italia e risultò fondamentale per lo

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sviluppo delle attività economiche di tutte le comunità in cui si erano stabiliti. Tale fattore produceva un rafforzamento delle dinamiche economiche a livello locale, con continue transazioni tra cristiani ed Ebrei, solo a tratti gestite da poteri governativi cristiani. Un’altra differenza importante era l’impossibilità, per gli Ebrei, di ottenere la cittadinanza, e quindi il loro rimanere stranieri.

Denaro e viveri per i bisognosi Le prime discussioni per l’istituzione di una banca pubblica che erogasse piccoli prestiti al consumo per sostituire i prestatori ebrei si tennero presso il Comune di Siena nel 1420: il risparmio pubblico accumulato per via creditizia sarebbe stato utilizzato per prestare denaro o viveri ai piú bisognosi. Proprio la necessità di

costituire organismi di questo tipo, funzionali alla crescita economica delle città-stato, determinò, nel corso del Quattrocento, l’insorgere nella Penisola di politiche antiebraiche del credito. Durante il XV secolo, i Monti di Pietà, di fondazione francescana, ma collegati alle élite di governo cittadine, andarono progressivamente sostituendo i banchi ebraici: il ruolo di questi nuovi istituti nella genesi della banca pubblica in Italia, come la loro importanza nell’economia territoriale e a livello politico – sottolinea l’autore – non sono stati ancora adeguatamente studiati. L’istituzione dei ghetti (tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo) seguí di poco quella dei Monti di Pietà, ed è in stretta relazione col declino dei banchi ebraici. Maria Paola Zanoboni

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Storie, uomini e sapori

Mangiare senza peccare B

isanzio continuò, in parte, la tradizione romana di cui era diretta erede. Tonni, storioni, triglie, orate e dentici venivano serviti bolliti o arrostiti, sulle mense dei patrizi, spesso farciti con le loro stesse uova e serviti in intingoli senapati o semplicemente conditi con un «umor salso», erede del garum e della moria d’epoca romana. Si tramanda che l’imperatore bizantino Niceforo Foca (X secolo) fosse golosissimo di triglie marinate in una speciale salsa, o zimino, che Liutprando, vescovo di Cremona e ambasciatore di Berengario II a Bisanzio, considerava un’autentica delizia. Nel Medioevo, la pescosità di fiumi e laghi rendeva il pesce una merce popolare, facilmente reperibile e decisamente meno costosa dei prodotti ittici di mare e della carne, quasi sempre prerogative delle

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classi agiate. Generalmente si consumava molto piú pesce di acqua dolce rispetto a quello marino, che, fuori dalle aree costiere, risultava penalizzato dalle rudimentali tecniche di conservazione. Laghi e fiumi erano molto ricchi di fauna ittica, che si poteva catturare anche senza imbarcazioni o attrezzature complesse e per la quale non si presentava il problema del trasporto.

Nascono le peschiere E proprio le difficoltà legate alla conservazione e al trasporto del pesce incentivarono la nascita delle peschiere e dei vivai medievali. Fin dal IV secolo, un ruolo fondamentale nella diffusione del pesce sulle tavole fu giocato dal suo aspetto simbolico/ cristologico nel cristianesimo e dall’impulso che ne diede la filosofia manicheista, che lo indicava come

alimento «puro», magro, frugale, quasi ascetico, da contrapporre ai peccati, alla lussuria e alle tentazioni rappresentati dalla carne. Le regole canoniche del IX secolo decretavano per i cristiani almeno 120 giorni di magro l’anno, che salivano a 170 per il clero: da qui la necessità e l’opportunità, soprattutto da parte dei monaci, di costruire i vivai. Non è un caso, dunque, che la diffusione delle «peschiere» aumentasse con l’avanzata del cristianesimo in Europa e che gran parte delle abbazie siano state costruite in prossimità di corsi d’acqua. Poco dopo il Mille i principi polacchi punivano chi trasgrediva all’astensione dalla carne in quaresima, vigilia e al venerdí, facendogli strappare i denti; poca cosa rispetto alla pena capitale decretata due secoli prima da Carlo agosto

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Magno nel Capitulatio de partibus Saxoniae per quanti – monaci o secolari – avessero trasgredito alle regole ecclesiastiche. Per secoli, dunque, il pesce d’acqua dolce fu comune non solo nelle cucine popolari, ma anche in quelle nobiliari. Nell’XI secolo un anonimo gourmet toscano vergò un ricettario contenente prescrizioni per cuocere anguille, tinche, per fare gelatina di pesce e per friggere pesci d’Arno.

Un banchetto di magro Nel 1360, in occasione di un banchetto offerto da Galeazzo Visconti, vennero servite diciotto portate, tra cui lucci e trote fritti, trote arrosto, storioni lessati, un pasticcio di anguille, nonché pesci diversi in salamoia. Il 25 marzo del 1436, nel giorno dell’Annunciazione, i Fiorentini organizzarono in onore del pontefice Eugenio IV uno spettacoloso convivio che fece scalpore perché totalmente di magro, con «moltissima abbondanza di storioni freschi, capitoni, lamprede, pesci d’Arno, lucci, tinche e pesci di piú sorte». Preludendo i fasti gastronomici dei Medici, la cucina toscana ebbe nel XIV e XV secolo un periodo di notevole splendore. Diventarono cosí famose le tinche marinate che la madre badessa di S. Pier Maggiore inviava il giorno di san Niccolò di ogni anno alla potente famiglia fiorentina degli Albizzi, rivale tradizionale dei Medici. Sul finire del Quattrocento, le ricette francesi per preparare l’anguilla rivaleggiavano con quelle ferraresi, che trovavano squisita materia prima negli «artifizi di canne dentro le valli» di Comacchio. In effetti, il contributo della Francia alla gastronomia mondiale del pesce d’acqua dolce fu enorme e raffinatissimo. La valle della Loira andava già orgogliosa delle sue trote farcite, del luccio al burro fuso e delle anguille in umido; nelle Landes girondine si producevano il caviale e le anguille saltate alla bordolese; il luccio al

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A destra miniatura raffigurante una rivendita di pesca, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische NationalBibliothek. Nella pagina accanto Asciano (Siena), Chiostro Grande dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore. San Benedetto a tavola con i monaci, particolare del ciclo affrescato sulla vita del santo, iniziato da Luca Signorelli e ultimato nel 1505 dal Sodoma. burro bianco trionfava in Bretagna e le carpe alla lionese erano il simbolo della cucina d’acqua nella valle del Rodano; nella Franca Contea si cucinava la meurette, un civet di pesce di fiume, e in Alsazia si produceva la poutargue (bottarga di muggine), si cuocevano la coutriade (zuppa dei pescatori), il salmone della Saône, le truites-au-bleu, i lucci brasati allo champagne e le anguille al Cognac.

Una presenza costante Anche in Italia nobili e principi non si facevano mancare il pesce di lago o di fiume. Un Anonimo toscano del XIV secolo ci tramanda due ricette che potrebbero ben figurare anche sulle nostre tavole «stellate»: un pastello d’anguilla e un coppo di luccio. Ma è soprattutto nel Cinquecento, il secolo dei fasti gastronomici per eccellenza, che si raffina la scuola italiana delle imbandigioni e dei poemetti conviviali, dei ricettari mensili e delle grandi figure di

scalchi. Bartolomeo Scappi disserta sul modo migliore di preparare la crostata di alici e il Messisbugo detta ricette sulla «casonada» di pesce, sulla cottura dei cefali e delle orate. Nel 1513, al pranzo offerto da Lucrezia Borgia a Prospero Colonna, dominarono ancora i pesci d’acqua dolce: gli storioni alla gratella, le anguille in salsa verde, le carpe lessate e guarnite di melarancia e olive, i lucci in gelatina. Nel 1529 Ercole d’Este offrí alla marchesa di Mantova e all’arcivescovo di Milano le anguille in pasta reale (tipo d’impasto dolce a base di farina di mandorle), le orate e i rombi fritti e zuccherati accompagnati da spicchi di arancia, le carpe in aceto caldo, le orate fritte nel burro fortemente speziato. Ed è questa cultura gastronomica orgogliosamente italiana che la Francia, da Caterina de’ Medici in poi, prese per esempio per costruire la sua Grande Cuisine. Sergio G. Grasso

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UN ANTROPOLOGO NEL

MEDIOEVO Ma come fanno i marinai...

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eduti sulla spiaggia o su uno scoglio scrutiamo il mare d’agosto, in attesa: di un pesce, una nave lontana o di qualunque cosa possa dare senso a un orizzonte spesso affollato di natanti, bagnanti, apparecchi a motore vicini alla riva, troppo vicini, troppo chiassosi... Certamente un uomo o una donna di tanti secoli fa non avrebbe visto, né sentito ciò che noi vediamo e sentiamo, né, probabilmente, avrebbe provato i nostri stessi sentimenti. Forse un uomo o una donna del Medioevo non si sarebbero nemmeno fermati in riva a questo mare, perché ne avrebbe avuto paura. «Loda il mare e tieniti a terra», si sentiva ripetere a quell’epoca oppure, come nella marittima Olanda, «meglio stare sulla landa con una vecchia carretta che sul mare in una nave nuova». Smisurato, imprevedibile, sempre pericoloso, anche se calmo (lo sapevano bene i marinai in bonaccia al largo della costa), il Mediterraneo sarebbe stato per loro un luogo di paura e di immagini funeste. Il mare non era fatto per essere osservato o contemplato,


scriveva Agostino nelle sue Confessioni (X, 8, 15), ma per essere temuto. Le genti descritte nel libro della Genesi raccontavano di un Grande Abisso senza punti di riferimento, un caos primordiale, luogo di misteri impenetrabili sul quale aleggiava solo lo spirito di Dio. Da questa materia informe nacque il cosmo conosciuto, che però – e questo l’uomo del Medioevo lo sapeva bene – non sarebbe stato mai stabile o eterno, perché un giorno sarebbe ritornato al suo stato primitivo. Anzi, lo stesso ondeggiare del mare rimandava all’incompiutezza della creazione: nel giardino dell’Eden non ci fu mare, perché era considerato un’imperfezione che mal si accordava con il dolce paesaggio «chiuso» del paradiso.

Il ricordo di un’antica punizione Quell’enorme massa liquida, il Mediterraneo, cos’altro fu, invece, se non la ribollente reliquia della piú dura punizione che Dio inflisse agli umani, quel Diluvio che tutto cancellò sulla terra? Ogni tempesta, ogni brontolio dei marosi, ogni onda anomala erano lí a ricordare le colpe dei primi uomini e l’agguato del caos: le stesse isole, le coste frastagliate e irregolari, le rumorose caverne sottomarine erano il frutto di quella punizione. Questo pensavano teologi e scienziati, almeno fino a The Theory of the Hearth di Thomas Burnet (1681), quando scriveva che «La faccia della Terra prima del diluvio era dolce, regolare e uniforme, senza montagne e senza mare (...) aveva la bellezza della Giovinezza e della Natura in fiore, fresca e feconda, non una ruga, cicatrice o incrinatura sull’intero corpo, non rocce né montagne, non antri cavernosi né fenditure spalancate (...). L’aria era calma e serena». Forse, lo stesso atto di osservare il mare, per il nostro uomo medievale, avrebbe significato meditare sui peccati degli uomini e sulla potenza di Dio: tra i quindici segni premonitori dell’«avvento di Nostro Signore» delle artes moriendi (diffusi a partire dal Quattrocento), le acque ebbero sempre un ruolo devastante. Al mare era meglio rivolgere una preghiera, allora, oppure scongiurarlo con il segno della croce, come era d’uso tra i marinai e come fece Colombo durante un suo viaggio per «tagliare» una tromba d’aria con una piccola croce. Un gesto magico-religioso che ancora residua intatto sulle coste italiane. Imbarcarsi, tentare la «fortuna di mare», era un’impresa rischiosissima che ogni marinaio poteva pagare con la perdita dell’anima, oltre che della vita: in San Nicola salva una nave dal mare in tempesta, particolare della predella del Polittico Quaratesi di Gentile da Fabriano. 1425. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana.

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caso di morte in mare, senza sacramenti né unzioni, che fine avrebbe fatto la sua anima? La mutua confessione dei peccati tra marinai – analogamente al sesso – era tollerata, ma non aveva alcun valore canonico e, inoltre, i riti religiosi non venivano celebrati a bordo. Tranne quando a richiederli non fosse un re, per giunta santo, come Luigi IX, che su di una nave volle celebrare una messa. Quale liturgia sacra poteva infatti aver luogo là dove insicurezza e instabilità, sessuale e religiosa, erano di casa? Là dove risuonavano bestemmie e imprecazioni? Eppure sul mare la contrizione e l’attrizione, le preghiere urlate ai marosi, il lancio tra i flutti delle reliquie per placarlo erano la norma, e anche le messe vi venivano celebrate, ma «messe secche», anche dette «nautiche», senza consacrazione del pane e del vino.

Uomini-pesce e vascelli fantasma Luogo oscuro abitato da esseri ambigui, la navigazione non avveniva in mare aperto, ma nella timida forma del cabotaggio: nel 1369 una missione diplomatica impiegò ottantuno giorni da Genova ad Alessandria d’Egitto, dei quali solo una notte su tre fu passata in un’angosciosa navigazione. Un mare cosí poco frequentato poteva ben diventare un fosco regno abitato da uomini-pesce o da pesci che ingoiavano uomini, da isole-balene che ospitavano ingenui marinai per rapirli in altri mondi, mostri, sirene e leggende come quelle legate alle navi dei morti e ai vascelli fantasma. Navigli perennemente in navigazione come il gigantesco The Merry Dun of Dover, dall’albero maestro cosí alto che una volta il giovane marinaio che vi si arrampicò per andare in coffa ne ridiscese con i capelli bianchi; il piú noto Olandese volante avvolto da luce, la Rothramhach, destinata a navigare fino alla fine del mondo con a bordo i suoi mille letti, ognuno dei quali ospitava mille marinai, la Naglfar, nave fatta con le unghie dei morti e sempre in costruzione... Se, come scrive Esiodo, «è terribile morire tra le onde», è ancor piú terribile per chi è nato lontano dalla costa, là dove è sconosciuta la rassegnata fedeltà ai gesti e ai riti dell’ars moriendi del mare, dove nessuna storia o leggenda potrà accompagnare i corpi e le anime verso la pace eterna. Per costoro morire è morire due volte: la prima tra le onde, senza neanche l’effimera gioia del ritrovamento del corpo, e la seconda nel dolore dei sopravvissuti, che non avranno neanche la consolazione di alcun rituale. Forse per questo il nostro uomo immaginario che un tempo sedette sulla riva del mare gli si rivolse come a una liquida tomba, elevando una mesta preghiera al suo Dio, essere unico, ma dai molti nomi e dalle molte case: Roma, Gerusalemme, La Mecca. Ma in cuor suo sapeva bene che i corpi di coloro che morivano in mare, come rondini addormentate tra le correnti, non avrebbero mai piú badato ai punti cardinali. Claudio Corvino

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Lo scaffale Lorenzo Tanzini Firenze

Il Medioevo nelle città italiane 9, Centro Italiano Studi sull’Alto Medioevo, Firenze 288 pp., ill.

15,00 euro ISBN 978-88-6809-079-1 www.cisam.org

La vita politica, le fonti documentarie e il paesaggio urbano – poli sui quali si articolano i volumi di questa collana – costituiscono un terreno particolarmente

fecondo per la storia di Firenze, permettendo di ottenere un quadro unitario di aspetti profondamente concatenati fra loro. Il profilo storico viene dunque affrontato nella prima parte del volume, a partire dall’Alto Medioevo, per soffermarsi poi soprattutto sull’XI secolo – un periodo cruciale nel quale il potere vescovile risultò

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determinante sia nei rapporti col territorio che col ceto dirigente urbano – e poi sul XIV, fase in cui l’iniziativa pubblica assunse maggiore centralità nella storia cittadina. Parallelamente all’evoluzione politica e alla contemporanea crescita della documentazione che permette di delinearla, andò arricchendosi il paesaggio urbano, col moltiplicarsi dei cantieri quattrocenteschi, civili e religiosi, per la costruzione delle maggiori opere della città. Partendo dallo scorcio che si offre al visitatore da piazzale Michelangelo e dalla collina di San Miniato, dominata dall’aquila simbolo dell’Arte di Calimala (ovvero del potere politico, oltre che economico dei grandi mercanti), che dal 1288 sovrasta la basilica e la città di Dante, l’autore ci conduce dunque alla scoperta paesaggistica e storico-artistica di Firenze, narrandone anche le vicende urbanistiche che condussero alla distruzione ottocentesca di buona parte della struttura medievale. Esamina quindi il rapporto della città coi suoi ceti dirigenti e col

territorio circostante, la cui progressiva conquista raggiunse l’apice nel Trecento, con l’assoggettamento delle altre città toscane e l’aggregazione diretta a Firenze dei loro contadi; gli aspetti demografici; le vicende politiche fiorentine a partire dall’età tardo-antica. La parte centrale del volume è occupata da un’accurata rassegna delle fonti sulla storia di Firenze e degli archivi e biblioteche in cui reperirle, mentre la terza sezione è dedicata al paesaggio urbano e alle opere d’arte. Completa il lavoro una vasta bibliografia finale, a supporto di quella tematica posta alla fine di ogni capitolo. Maria Paola Zanoboni Vito Bianchi Otranto 1480 Il sultano, la strage, la conquista

Editori Laterza, Roma-Bari, 314 pp.,

20,00 euro ISBN 978-88-581-2450-5 www.laterza.it

Ha il pregio di catturare l’attenzione fin dalle prime pagine questa ultima fatica di Vito Bianchi, che ha scelto di ripercorrere le vicende della presa di Otranto da parte delle truppe turche, inviate da Maometto

II il Conquistatore e guidate da Gedik Ahmed Pascià, che nell’agosto del 1480 si affacciarono sulle coste pugliesi, seminando terrore e morte. In realtà, e il dato emerge con evidenza, quei fatti si tradussero in un evento ben piú complesso della semplice conquista di una città, tanto che, nella storiografia piú recente, si parla ormai di una vera e propria «Guerra di Otranto», che si protrasse fino al 1481. I primi capitoli sono riservati all’inquadramento del contesto storico e dei protagonisti degli eventi, che furono numerosi: dalla Repubblica di Venezia a Lorenzo il Magnifico, dalla Chiesa di Roma ai Cavalieri di San Giovanni. Si tratta, come è facile intuire, di un intreccio assai articolato di interessi e ambizioni (non soltanto politiche, ma anche, e forse soprattutto economiche),

che Bianchi riesce a dipanare brillantemente, permettendo al lettore di orientarsi e di cogliere l’importanza delle relazioni, amichevoli e ostili, che legavano i diversi attori di quegli episodi. Si arriva dunque ben preparati alle pagine centrali, nelle quali viene dato conto della strage che costituí il momento piú drammatico della conquista di Otranto e che vide soccombere centinaia di prigionieri, destinati poi a essere considerati come martiri della cristianità. È tuttavia apprezzabile la scelta di non indugiare in proposito – le citazioni di alcuni brani di autori dell’epoca sono piú che sufficienti a dare un’idea della violenza che si scatenò in quei giorni nella città pugliese -, per concentrarsi maggiormente sugli sviluppi successivi. Come già accennato, obiettivo primo del libro è infatti quello di approfondire gli sviluppi del conflitto e l’autore lo coglie con efficacia, offrendo una ricca bibliografia per ulteriori approfondimenti. Stefano Mammini agosto

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«Cantasi come…» MUSICA • Nonostante il termine che li

designa sembri evocarlo, i contrafacta non erano mere repliche, ma riletture ragionate e spesso concepite a mo’ di omaggio nei confronti delle composizioni originali

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a riutilizzazione di composizioni già esistenti è un fenomeno ricorrente nella storia della musica, già dal Medioevo. Le modalità cambiano secondo i periodi storici e, in quelli piú antichi, tale prassi si configura come una sorta di omaggio musicale, mentre in tempi piú recenti risponde all’esigenza di soddisfare una committenza pressante, tanto da indurre il compositore a riproporre proprie opere sotto altre vesti. Quali che siano le motivazioni e i contesti, il «prestito» musicale è una pratica interessante, soprattutto in manifestazioni come quelle indagate dall’antologia Alma, svegliate ormai. Contrafacta devozionali nella musica italiana tra XV e XVI sec. Il termine contrafactum indica solitamente un genere di composizioni, in auge fra tardo Medioevo e Rinascimento, la cui versione originale profana veniva riproposta con minime modifiche su un testo devozionale e/o viceversa; ma non mancano composizioni devozionali su testo latino, riproposte su versi di analoga natura, ma in lingua vernacolare. Questo fenomeno del «cantasi come…» testimonia anche come il successo di un brano fosse un motivo piú che sufficiente ad autorizzare il compositore ad appropriarsene, riproponendolo sotto nuove vesti e ampliandone, cosí, la popolarità e la diffusione, a dispetto di un concetto di authorship ben lontano dal nostro.

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Eccellente si rivela la scelta dell’Anonima Frottolisti nel proporre musiche generalmente d’ambito profano, affiancandole al loro corrispettivo contraffatto devozionale. Si tratta, in questi casi, di musiche polifoniche colte, riesposte nella loro veste devozionale, su testo vernacolare, secondo una prassi che vede privilegiare la parte melodica superiore, mentre le altre voci vengono eseguite da uno strumento polifonico come il liuto, oppure affidate a strumenti a fiato.

L’originale e il suo doppio L’antologia include numerosi brani anonimi intercalati ad alcuni nomi eccellenti: per esempio, il celebre mottetto In te domine speravi di Josquin Desprèz (XV secolo), che riascoltiamo nel suo corrispettivo A te, Virgo, ognor clamavi; mentre un altro famoso fiammingo, Antoine Busnoys, ci riporta all’ascolto di una sua nota composizione, Fortuna desperata, che diventa Poi che t’ebi nel core. In molti casi si conoscono i nomi degli autori dei testi del contrafactum devozionale, tra i quali spiccano esponenti della produzione poetica tre-quattrocentesca come Francesco degli Albizzi, Leonardo Giustinian, Feo Belcari e altri ancora.

Alma, svegliate ormai. Contrafacta devozionali nella musica italiana tra XV e XVI sec. Anonima Frottolisti (TC400006), 1 CD www.tactus.it Nell’adottare un tono quasi popolaresco e una vocalità «bassa», l’Anonima Frottolisti privilegia il carattere popolare di queste musiche, calandole in una dimensione tipica del repertorio di trasmissione orale. Ciononostante, il gruppo non si priva dell’aulica compagine strumentale del Quattro e Cinquecento, con ricorsi alla «cappella alta» costituita da un ensemble di tromboni rinascimentali, come anche viola ad arco e da braccio, flauto, dulcimelo, bombarda, dulciana, ghironda, oltre alle immancabili percussioni: una variopinta scenografia sonora, in cui ogni brano riceve la sua giusta connotazione grazie a scelte musicali e interpretative oculate. Franco Bruni

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