Medioevo n. 234, Luglio 2016

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MEDIOEVO n. 234 LUGLIO 2016 MAREMMA ITALIA DEI COMUNI/7 ENRICO IV PARCO DELL’UCCELLINA IL DISEGNO NELL’ETÀ DI MEZZO DOSSIER SAN MARINO

EDIO VO M E



SOMMARIO

Luglio 2016 ANTEPRIMA

CALEIDOSCOPIO

ESSERE LEADER NEL MEDIOEVO/6 Enrico, imperatore tragico

IL PROVERBIO DEL MESE «Uccidere un uomo morto»

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di Renata Salvarani

RECUPERI L’annuncio che cambiò il mondo 8 MOSTRE La Stradina ritrovata Quel modo nuovo di vedere il compianto APPUNTAMENTI Medioevo oggi Francigena: una via per l’Europa Occhio al barile! 100 soldi per un artigiano L’Agenda del Mese

16

MINIERE E MONETE Il forziere della Maremma di Alessio Montagano

56

14

LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Toscana

L’abbazia del santo che non c’era di Franco Bruni

STORIE 32

Dossier

86

testi di Mimmo Frassineti e Francesco Pirani

CIVILTÀ COMUNALE/7 La riscoperta del diritto di Furio Cappelli

46

46

UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO Cangianti, inafferrabili, purissime...

108

LIBRI Lo scaffale

110

MUSICA Le cantiche del re compositore Musiche per una poetessa

111 112

Repubblica di San Marino

SUL MONTE DELLA LIBERTAS 32

100

STORIE, UOMINI E SAPORI Venezia e la geopolitica delle spezie 106

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ARTE Nel Medioevo si disegnava cosí

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MEDIOEVO Anno XX, n. 234 - luglio 2016 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352 Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Claudio Corvino è antropologo. Roberto Del Monte è storico dell’arte. Mimmo Frassineti è scrittore e fotografo. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Alessio Montagano è membro dell’Accademia Italiana di Numismatica. Francesco Pirani è ricercatore in storia medievale all’Università di Macerata. Stefania Romani è giornalista. Renata Salvarani è ricercatore di storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Università degli Studi Europea di Roma. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 5, 43 (alto), 52-53, 62 (alto) – Cortesia Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale: pp. 8, 9 (alto) – Doc. red.: pp. 9 (basso), 32, 34/35, 54, 71 (alto) – Cortesia Ente Nazionale Olandese per il Turismo: pp. 10-12 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 14-16, 17 (alto; foto Omar Villa), 17 (basso; foto Alberto Conte) – Cortesia degli autori: pp. 18-19, 36 (alto), 37-42, 43 (centro e basso), 100, 103 – Marka: Giulio Andreini: pp. 32/33; Walter Bibikow: p. 62 (basso) – Mondadori Portfolio: Leemage: p. 36 (basso); The Art Archive: pp. 46, 48; AKG Images: pp. 57, 59, 60/61, 63, 106/107; Reporters Associati & Archivi: p. 65; Luciano Pedicini: p. 109 – DeA Picture Library: pp. 50-51, 55; A. Villani: pp. 46/47; G. Dagli Orti: p. 49; A. De Gregorio: p. 60; Icas94/Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 64; Veneranda Biblioteca Ambrosiana: pp. 102, 104/105 – Getty Images: Heritage Images: p. 58 – Mimmo Frassineti: pp. 67, 68/69, 70, 71 (basso), 72, 72/73 (secondo piano), 73, 74-85 – Cortesia Ufficio del Turismo, Dipartimento Turismo e Cultura, Repubblica di San Marino: cartina alle pp. 72/73 – Cortesia Carlo Falchi: p. 87 – Franco Bruni: pp. 88, 89 (centro), 90 (basso), 90/91, 92-93, 94-96, 97 (basso), 98 – Carlo Bonazza: pp. 89 (alto e basso), 90 (alto), 97 (alto) – Da: Nicoletta Maioli, San Rabano e la Fattoria Granducale, Nardini, Firenze 2009: pianta a p. 93 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais/Bibliothèque nationale de France: image BnF: p. 101 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 34, 69, 86. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti

Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6346

In copertina Repubblica di San Marino. Una veduta della Rocca Guaita, costruita sulla roccia del monte Titano, che domina la valle sottostante.

Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1

Nel prossimo numero storie

Lo zafferano, «oro» dell’età di Mezzo luoghi

Viaggio alla scoperta del Salento

medioevo nascosto

La basilica di S. Caterina a Galatina

dossier

Posseduti dal ragno. Il tarantismo «malattia medievale»


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Uccidere un uomo morto

I

l motto di questo mese prende spunto da un evento del 1530 e ha un equivalente moderno nell’espressione «sparare sulla Croce Rossa», a intendere l’accanirsi su chi non è in grado di difendersi. La frase originaria è legata alla cocente sconfitta patita a Gavinana (un borgo del Pistoiese) da Firenze, piegata dall’assedio dell’esercito di Carlo V, ma che poi, soprattutto nel Risorgimento, venne riletta in chiave epica, con tanto di protagonisti ora valorosi (Francesco Ferrucci), ora vigliacchi (Fabrizio Maramaldo) e con un principe sfortunato (Filiberto di Chalons, principe d’Orange). Ferrucci, commissario a Empoli, aveva tentato con poche truppe di mantenere aperte le vie di comunicazione con Pisa, cosí da garantire l’approvvigionamento a Firenze. Dopo aver strappato Volterra alle truppe di Maramaldo, nel luglio del 1530 gli fu chiesto di soccorrere la città gigliata, dopo essersi riunito a Pisa con le milizie comandate da Giampaolo Orsini e avere raccolto rifornimenti. Ferrucci intendeva raggiungere il capoluogo toscano con circa 3300 uomini, passando per le montagne pistoiesi. Lo seguivano a distanza, con forze quasi uguali, i comandanti nemici Maramaldo e Alessandro Vitelli. L’azione di Ferrucci fu però ostacolata dal principe d’Orange, il quale, lasciata Firenze, intercettò con altri 3000 fanti e 1000 cavalieri la colonna nemica, che si trovò di fatto circondata. La battaglia di Gavinana fu dunque l’estremo tentativo per trovare una via d’uscita. Nel corso dello scontro, Filiberto di Chalons, nominato appena due anni prima viceré, venne ucciso da due colpi di archibugio, ma ciò non bastò a garantire la vittoria a Ferrucci, il quale, per giunta, respinse l’offerta di resa. Riuscito a forzare il blocco, riparò in un casolare – oggi ancora visibile – dove venne circondato, ferito e catturato. A questo punto sarebbe avvenuto l’episodio legato al motto: portato Francesco Ferrucci inerme in barella fuori dal casolare, Maramaldo, deciso a lavare l’onta per gli smacchi subiti, lo avrebbe ucciso a sangue freddo. Forse anche perché questi aveva fatto impiccare un suo tamburino inviato a chiederne la resa? Forse perché Maramaldo era un nobile uomo d’arme e il fiorentino un «mercatante fattosi soldato»? Fatto sta che Ferrucci avrebbe appunto esclamato contro l’avversario «Vile, tu dai a un morto». Ma chi era Fabrizio Maramaldo, il cui nome, da allora, significa «vile» per antonomasia? Fuggito da Napoli dopo aver ucciso la moglie «sforzato dall’onor suo», riparò a Mantova e combatté per i Gonzaga e per Carlo V. Fu uno dei maggiori imprenditori militari del suo tempo, celebrato già in vita come uno dei soldati e gentiluomini piú famosi. È singolare che, chi per un verso chi per l’altro, entrambi i protagonisti della vicenda legarono il proprio destino a due modi di dire: il Risorgimento rese l’uno il vigliacco per eccellenza, trasformando invece in eroe Ferrucci, celebrato persino da Goffredo Mameli nella quarta strofa del nostro inno nazionale! Firenze, Loggiato degli Uffizi. Statua che ritrae il capitano fiorentino Francesco Ferrucci, ucciso a Gavinana nel 1530 da Fabrizio Maramaldo.


ANTE PRIMA

L’annuncio che cambiò il mondo

RECUPERI • Della scoperta destinata

a farne uno dei piú celebri personaggi della storia, Cristoforo Colombo diede notizia ai suoi «armatori», il re e la regina di Spagna, con una lettera che fu poi data alle stampe a Roma. Un documento di straordinario valore, che, suo malgrado, si è trovato al centro di un vero e proprio intrigo internazionale

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ell’ultimo ventennio del Quattrocento, a Roma si stabilí un nutrito gruppo di tipografi tedeschi, grazie ai quali l’arte della stampa si diffuse nell’Urbe e nel resto della Penisola. Uno di essi, Stephan Plannck si distinse per le notevoli capacità imprenditoriali e, in pochi anni, realizzò almeno 300 edizioni, fra cui, nel 1493,

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Sulle due pagine varie immagini della copia autentica dell’Epistula de insulis nuper inventis, stampata dal tipografo tedesco Stephan

Plannck nel 1493, messa a confronto con la copia conservata presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze, che si è scoperto essere falsa.

e che aveva segnalato la presunta presenza, negli USA, di varie edizioni dell’Epistula ritenute anch’esse false. L’HSI, in particolare, aveva anche avanzato il sospetto che la copia conservata a Roma fosse stata sostituita con un documento contraffatto. Sulla scia di queste prime, e clamorose, acquisizioni, venne disposto il sequestro anche dell’edizione conservata presso la Biblioteca Riccardiana, della quale si poté accertare che si trattava di un documento realizzato grazie a riproduzioni fotografiche moderne stampate su carta antica.

La svolta decisiva Le indagini, che hanno coinvolto anche uno dei massimi esperti in materia, Paul Needham, curatore della Sezione libri antichi e manoscritti della Biblioteca dell’Università di Princeton, sono giunte a una svolta decisiva quando si è voluta verificare l’autenticità dell’Epistula conservata presso la Biblioteca del Congresso di Washington, che l’aveva acquistata in una vendita all’asta: grazie all’incrocio fra i dati acquisiti, gli investigatori hanno infatti potuto accertare che si trattava del documento originale, trafugato dalla Biblioteca Riccardiana. Di fronte alle corpose prove fornite, gli USA hanno quindi deciso di restituire all’Italia l’Epistula, che, dopo essere stata esposta a Roma insieme ad altre opere recuperate dal Comando TPC, potrà finalmente fare ritorno a Firenze. Stefano Mammini

l’Epistula de insulis nuper inventis, vale a dire la traduzione latina della lettera con cui Cristoforo Colombo aveva annunciato ai reali di Spagna la scoperta di quelle che credeva fossero le Indie. Un documento di eccezionale valore storico, dunque, del quale si conoscevano due versioni, conservate presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e la Biblioteca Riccardiana di Firenze.

Tutto cominciò con un furto

Errata corrige con riferimento all’articolo sul Complesso monumentale di Galliano di Cantú (basilica di S. Vincenzo e battistero di S. Giovanni; vedi «Medioevo» n. 226, novembre 2015) desideriamo rettificare gli orari di visita indicati, che sono i seguenti: da aprile a settembre: martedí-venerdí, 15,00-18,00 sabato e domenica, 9,30-11,30 e 15,00-18,00 da ottobre a marzo martedí-venerdí, 15,00-17,00 sabato e domenica, 9,30-11,30 e 15,00-17,00; al mattino, previo appuntamento, è prevista l’apertura straordinaria solo per le scuole; chiuso il lunedí

Nel 2012, dall’istituto romano furono trafugati alcuni volumi antichi di notevole pregio e, a seguito della denuncia, il caso venne affidato ai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale. Aveva cosí inizio una lunga e complessa inchiesta che, ben presto, riportò alla ribalta la lettera del navigatore genovese. Gli uomini dell’Arma incaricati delle indagini sequestrarono infatti l’esemplare romano, dopo aver maturato la convinzione che si trattasse di un falso. A tale conclusione si era giunti grazie alle minuziose ricerche d’archivio condotte e alla collaborazione con l’Homeland Security Investigation (HSI) statunitense, a cui il Comando TPC si era rivolto

MEDIOEVO

luglio

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ANTE PRIMA

La stradina ritrovata MOSTRE • Uno dei dipinti piú noti di Johannes Vermeer è attualmente in mostra

a Delft, città natale dell’artista. Un rientro, temporaneo, che celebra la soluzione del «giallo» sull’identificazione della via e delle case immortalate dal maestro

U

no dei capolavori di Johannes Vermeer (1632-1675), intitolato Veduta di case a Delft, ma assai piú noto come La stradina, ha solleticato per secoli la curiosità degli storici dell’arte, che hanno cercato di identificare in qualche struttura della città olandese l’abitazione del pittore, immortalata nel dipinto. Il «caso» è stato risolto lo scorso novembre da Frans Grijzenhout, che ha individuato l’edificio del quadro: secondo lo studioso, il protagonista del Secolo d’Oro ha vissuto con la famiglia in una casa di Vlamingstraat, via che si snoda dietro alla piazza centrale di Delft.

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Per divulgare la scoperta, il Museum Prinsenhof ha organizzato una mostra che ruota proprio attorno a La stradina, concessa in prestito dal Rijksmuseum di Amsterdam.

Alla scoperta della città La rassegna si apre con manoscritti, mappe, studi prospettici e multimediali, che raccontano le ricerche condotte sulla celebre opera – che Vermeer dipinse intorno al 1658 – esposta accanto ai lavori di altri protagonisti del Seicento olandese. Il museo ha anche messo a punto un circuito sulle orme dell’artista, nato nella capitale della

ceramica blu. Fra le tappe figurano la Chiesa Vecchia, dove l’artista è sepolto, e il Vermeer Centrum, che illustra il contesto in cui si muoveva l’autore de La lattaia, un crocevia commerciale che si arricchí grazie alle fabbriche di birra e alla produzione di arazzi. L’itinerario ispirato al pittore può essere inoltre l’occasione per riscoprire le tracce dell’età medievale, testimoniata da alcuni edifici rappresentativi e dall’impianto urbanistico, che conserva in parte la fisionomia definitasi fra il XII e il XIV secolo. Delft viene fondata attorno al 1100

luglio

MEDIOEVO


In alto La stradina di Johannes Vermeer messa a confronto con la Vlamingstraat, identificata con la via dipinta dall’artista.

MEDIOEVO

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In basso, sulle due pagine una veduta del centro storico di Delft; sulla destra, è l’edificio che ospita il Municipio.

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ANTE PRIMA A sinistra ancora una veduta del centro storico di Delft, con le sue case tipiche. In basso un esemplare della ceramica decorata con il «blu di Delft» che ha reso famosa la cittadina olandese. Museo Prinsenhof, legato a doppio filo a Guglielmo I d’Orange, detto il Taciturno: proprio qui, infatti, venne assassinato con un colpo d’arma da fuoco nel 1584, lui che poteva essere considerato il padre della patria, dopo che, durante la Guerra d’Indipendenza dei Paesi Bassi dagli Spagnoli, aveva portato gli Olandesi alla vittoria. Prima di diventare dimora del principe, il complesso era un monastero femminile dedicato a sant’Agata. E il suo impianto è ancora leggibile fra le sale del Museo Civico, che ripropone la storia di Delft attraverso collezioni delle caratteristiche ceramiche blu, ritratti di membri della famiglia reale, strumenti scientifici che rimandano alla tradizione di ricerca, portata avanti ancora oggi nell’università cittadina.

con la sistemazione del primo canale, attorno al quale si forma il nucleo abitato originario. Acquisito lo status di «città» nel 1246, il centro, che diventa autonomo nella gestione della giustizia e del commercio, si dota anche di una cerchia difensiva. In questo periodo comincia la costruzione della Oude Kerk, la già citata Chiesa Vecchia, nella quale, oltre a Vermeer, sono sepolti ammiragli e personaggi che hanno fatto la storia dell’Olanda. Innalzata nel Duecento, ma piú volte rimaneggiata, la basilica ha una torre, in pendenza, che conserva la struttura originaria, con bifore a sesto acuto e pinnacoli.

Sulle tracce del Medioevo

Celle e strumenti di tortura Alla stessa fase risale la torre dietro al municipio, chiamata «La pietra», utilizzata per secoli come prigione e inglobata nell’architettura rinascimentale in cui si amministrava la giustizia. Un itinerario ad hoc permette di visitare le celle dei detenuti e gli strumenti di tortura, usati anche per l’assassinio di Guglielmo d’Orange (1533-1584). A due passi dalla Oude Kerk e dal municipio, con una facciata dallo spiccato plasticismo, si snoda il

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DOVE E QUANDO

«Vermeer sta tornando a casa. La Stradina ritorna a Delft» Delft, Museum Prinsenhof fino al 17 luglio Orario tutti i giorni, 11,00-17,00 Info http://prinsenhof-delft.nl (anche in lingua inglese)

Nel cuore dell’abitato riportano al Medioevo anche il monastero di S. Barbara, riconvertito in residenza studentesca e, all’angolo fra la Chiesa Vecchia e Nieuwstraat, la chiesetta di Ippolito, ora cattolica, un tempo cappella di un monastero, poi diventato orfanotrofio femminile. Un altro edificio di culto è la Chiesa Nuova, iniziata nel 1396. Il luogo di preghiera, nel quale si sposano i membri della casa reale, si affaccia sulla Markt, la piazza del mercato, una delle piú grandi in Europa, usata appunto per il mercato dal XIII secolo. Anche diversi canali, e le strade che li costeggiano, sono medievali: è il caso di Voldersgracht, la strada su cui si apre il Vermeer Centrum, e del mercato del pesce, vicino alla cappella di S. Ippolito. Info www.holland.com; www.delft.nl Stefania Romani luglio

MEDIOEVO


Paestum: è cominciato il conto alla rovescia D

a giovedí 27 a domenica 30 ottobre 2016 è in programma a Paestum la XIX edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico: l’area adiacente al Tempio di Cerere (salone espositivo, laboratori di archeologia sperimentale, ArcheoIncontri, ArcheoVirtual), il Museo Archeologico Nazionale (conferenze, Workshop con i buyer esteri), la Basilica Paleocristiana (conferenza di apertura, ArcheoLavoro, Incontri con i Protagonisti) saranno ancora una volta le suggestive sedi della manifestazione. La BMTA si conferma un evento originale nel suo genere: sede dell’unico salone espositivo al mondo del patrimonio archeologico e di ArcheoVirtual, l’innovativa mostra di tecnologie multimediali, interattive e virtuali; luogo di approfondimento e divulgazione di temi

d’integrazione sociale e di sviluppo economico, ogni anno la Borsa promuove la cooperazione tra i popoli attraverso la partecipazione e lo scambio di esperienze. Numerose le sezioni speciali: ArcheoIncontri, per conferenze stampa e presentazioni di progetti culturali e di sviluppo territoriale; ArcheoLavoro, orientamento post diploma e post laurea con presentazione dell’offerta formativa a cura delle Università presenti nel Salone; ArcheoStartUp, in cui si presentano nuove imprese culturali e progetti innovativi nelle attività archeologiche; Incontri con i Protagonisti, nei quali il pubblico interviene con i noti divulgatori della TV; International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio, in collaborazione con la rivista «Archeo», per la scoperta archeologica dell’anno, intitolato al Direttore

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

corrige Immagini dell’edizione 2015 della Borsa di Paestum. dedicati al turismo culturale e al patrimonio;Errata occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e con riferimento al culturali, viaggiatori e appassionati; opportunità di L’umanista del di alle Palmira che (vedi ha pagato con la vita la difesa Dossier chesito andò crociate business nella splendida cornice del Museo Archeologico patrimonio culturale; laboratori di archeologia «Medioevo» n. 220,del aprile 2015) desideriamo con il workshop tra la domanda estera selezionata sperimentale la divulgazione delle tecnologie precisare che la medaglia in bronzoper riprodotta a dall’ENIT e l’offerta del turismo culturale e archeologico. antiche; PremioNovello «A. Fiammenghi», per la migliore tesi p. 93 (in basso) ritrae Malatesta (al Una formula di successo testimoniato dalle secolo prestigiose di laurea sul turismo archeologico; Premio «Paestum Domenico Malatesta, 1418-1465) signore collaborazioni di organismi internazionali quali Archeologia», assegnato di Cesena, e non Sigismondo Malatesta, comea coloro che contribuiscono alla UNESCO, UNWTO e ICCROM, oltre che dalle cifrein didascalia. valorizzazione patrimonio indicato Dell’errore cidel scusiamo con culturale. dell’ultima edizione: 10 000 visitatori, 100 espositori, salone espositivo saranno Istituzioni, Enti, l’autore dell’articoloOspiti e condel i nostri lettori. 60 conferenze e incontri, 300 relatori, 120 operatori Paesi Esteri, Regioni, Organizzazioni di Categoria, dell’offerta, 100 giornalisti accreditati. Associazioni Professionali e Culturali, Aziende e Consorzi Nel sottolineare sempre piú l’importanza del patrimonio Turistici e Case Editrici. culturale come fattore di dialogo interculturale, Info www.borsaturismoarcheologico.it


ANTE PRIMA

EDIO VO M E OGGI

R R

egione storica oggi compresa nel dipartimento della Dordogna, il Périgord, nella Francia sudoccidentale, custodisce un patrimonio ricchissimo, inserito in un paesaggio che è fra i piú belli del Paese transalpino. Celebri sono i numerosi siti preistorici, molti dei quali distribuiti lungo la valle della Vézère (primo fra tutti la Grotta di Lascaux), ma non meno importanti sono le testimonianze di epoca medievale, che comprendono un numero eccezionale di castelli. E, fra questi, particolarmente suggestivo è quello di Castelnaud-la-Chapelle, cittadina che si trova una settantina di chilometri a sud di Périgueux, capoluogo del dipartimento. La fortezza condivise le travagliate vicende storiche della regione, soprattutto fra il XIV e il XV secolo, quando si ebbero ripetuti passaggi di mano e anche Castelnaud fu coinvolto nella Guerra dei Cent’anni. In tempi piú recenti, dopo un periodo di abbandono, nel corso del quale la struttura venne perfino sfruttata come cava di materiale edilizio, il castello ha cominciato a vivere una nuova e piú lusinghiera stagione: dichiarato

A destra un particolare del ciclo dei Nove Prodi, realizzato da Pascal Fournigault nella Sala dei Dipinti del castello di Castelnaudla-Chapelle, nel Périgord (Francia sud-occidentale). Si riconoscono re Artú (a sinistra) e Carlo Magno. In basso una veduta aerea del castello di Castelnaud -la-Chapelle. Nella pagina accanto immagini che documentano il lavoro preparatorio svolto durante la realizzazione del ciclo dei Nove Prodi: 1. colori e impostazione del falso tessuto drappeggiato; 2. messa a punto del colore e dello schema scelto per lo sfondo; 3. prove di colore per le alberature, composte da meli.

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MEDIOEVO


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Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae

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3 Monumento Nazionale nel 1966, è ora sede di un Museo della Guerra nel Medioevo e, negli ultimi mesi, ha visto rinascere uno dei suoi ambienti piú belli.

Nove eroi immortali Nella Sala dei Dipinti è stato infatti realizzato un ciclo dei Nove Prodi, un tema divenuto assai popolare almeno fin dall’XI secolo, ma che ebbe la sua migliore consacrazione nell’opera Les Voeux du Paon, scritta dal poeta Jacques de Longuyon nel 1312. I personaggi incarnavano gli ideali cavallereschi e furono divisi in tre triadi: Antico Testamento, età antica, epoca cristiana. Furono dunque scelti, rispettivamente, Giosuè, Giuda Maccabeo e Davide; Ettore, Giulio Cesare e Alessandro Magno; Artú, Carlo Magno e Goffredo di Buglione. L’attuale proprietario del castello di Castelnaud, Kléber Rossillon, ha dunque voluto ridare un volto ai nove eroi e ha affidato il compito a Pascal Fournigault, docente presso l’Università di Bordeaux ed esperto in pitture murali medievali. L’opera ha preso corpo su una superficie di circa 60 mq ed è stata preceduta da un lungo lavoro preparatorio, sia sul repertorio iconografico

MEDIOEVO

luglio

a oggi noto, sia sulle tecniche di esecuzione dei dipinti. Si è cosí ottenuta una composizione che, oltre a offrire una documentazione sulle decorazioni che potevano abbellire una residenza signorile come quella di Castelnaud fra Tre e Quattrocento, ha permesso di replicare con successo i metodi adottati dai pittori del tempo. Stefano Mammini

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ANTE PRIMA

Quel modo nuovo di vedere il compianto MOSTRE • La Pinacoteca di Brera propone un

nuovo «dialogo», che vede protagonista una delle opere che hanno rivoluzionato la storia dell’arte: il Cristo morto dipinto da Andrea Mantegna sul finire del Cinquecento

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er il secondo dei suoi «Dialoghi», la Pinacoteca di Brera mette fianco a fianco, per la prima volta, il Cristo morto di Andrea Mantegna, una delle opere simbolo della Pinacoteca milanese, nonché icona universale del Rinascimento, e il Cristo morto con gli strumenti della Passione, versione dello stesso soggetto dipinta nel 1583-1585 da Annibale Carracci, proveniente dalla Staatsgalerie di Stoccarda. Un dialogo allargato anche al Compianto sul Cristo morto realizzato da Orazio Borgianni nel 1615 e proveniente dalla Galleria Spada di Roma. Emblema delle conoscenze prospettiche di Mantegna, dotato di forza espressiva e al tempo stesso compostezza

DOVE E QUANDO

«Secondo dialogo, Mantegna e Carracci: attorno al Cristo morto» Milano, Pinacoteca di Brera fino al 18 settembre Orario ma-do, 8,30-19,15; lu chiuso Info tel. 02 72263264; http://pinacotecabrera.org Prenotazioni tel. 02 92800361; www.pinacotecabrera.net In alto Cristo morto e strumenti della Passione, olio su tela di Annibale Carracci. 1583-1585. Stoccarda, Staatsgalerie. A sinistra Cristo morto nel sepolcro e tre dolenti, tempera su tela di Andrea Mantegna. 1470-1474. Milano, Pinacoteca di Brera. severa, che ne fanno uno dei simboli piú noti dell’arte italiana, il Cristo morto di Mantegna è databile intorno al 1480. L’ipotesi piú accreditata, nonostante le incertezze dovute all’esistenza di diverse varianti dello stesso soggetto, lo identifica con il Cristo in scurto ritrovato nello studio di Mantegna all’atto della sua morte, venduto dal figlio Ludovico al cardinale Sigismondo Gonzaga e inventariato tra i beni dei signori di Mantova nel 1627.

Una sequenza prestigiosa di derivazioni L’opera ebbe una notevole fortuna visiva tra Cinquecento e Seicento, documentata da una sequenza prestigiosa di derivazioni: tra queste il dipinto realizzato da Carracci, datato 1583-1585, si caratterizza per il crudo realismo evidenziato dagli strumenti del martirio, in particolare

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Francigena: una via per l’Europa I

n questo 2016, proclamato «Anno nazionale dei Cammini», la sesta edizione del Festival europeo Via Francigena Collective Project, «Festival dei Cammini», ha appunto come obiettivo la valorizzazione dei cammini storici, di fede e di natura, che rappresentano una modalità fruitiva del patrimonio naturale e culturale diffuso e l’occasione di promuovere la variegata offerta di tali territori. Un invito a goderne e una volontà sempre piú coesa di «divenire sistema organico» oltre la Via Francigena – sono infatti promosse numerose importanti vie –, con eventi, celebrazioni, feste e momenti di forte spiritualità, verso l’idea di Pace e condivisione che anima ogni genuino pellegrino. Nell’Anno dei Cammini, pertanto, viene offerta l’occasione di riflettere sulla Madre Terra e i suoi paesaggi dirompenti, con eventi euromediterranei di diversa natura e tipologia, per la grande maggioranza ad accesso gratuito, nella piú estesa infrastruttura immateriale, ma spirituale, culturale e relazionale d’Europa e che, per questa edizione, termineranno il 20 novembre, insieme al Giubileo della Misericordia. Trekking e visite guidate sono predominanti nel ricco programma dedicato all’onda crescente, anno dopo anno, dei viandanti e che, in quest’anno giubilare, hanno avuto un incremento maggiore.

In alto la via Francigena nella zona compresa fra San Quirico d’Orcia e Radicofani. In basso un tratto di strada romana presso Donnas (Aosta).

Una «maratona» sulle orme di Sigerico Fra le novità del 2016, c’è la European Francigena Marathon, la prima maratona sulla via Francigena in Italia, sull’antico itinerario di Sigerico, da percorrere solo ed esclusivamente camminando. L’iniziativa vuole far conoscere i tratti piú belli e suggestivi della Francigena del Lazio, con partenza da Acquapendente, cittadina di confine tra Umbria e Toscana. Sono previsti due arrivi intermedi, a San Lorenzo Nuovo (km 11,3) e nelle vicinanze della Basilica di S. Cristina a Bolsena (km 23,5); da qui si prosegue fino al parco naturalistico di Turona, alla sommità di Montefiascone (km 42,195), con arrivo nella storica cittadina del 100° km dalla tomba di Pietro. (red.) della corona di spine, collocati in primo piano nel capolavoro del Bolognese, a testimonianza della brutalità del supplizio, appena avvenuto. La tela del romano Orazio Borgianni sviluppa invece il tema con sfondo piú caravaggesco (l’artista, del resto, fu tra i primi e più originali seguaci di Michelangelo Merisi). Come già era

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accaduto con il confronto fra gli Sposalizi della Vergine di Raffaello e Perugino (vedi «Medioevo» n. 231, aprile 2016), il nuovo dialogo è l’occasione per il riallestimento delle sale della Pinacoteca, in una progressione a tappe che coinvolgerà in tre anni l’intero museo. (red.)

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ANTE PRIMA

Occhio al barile! APPUNTAMENTI •

Maggiora, nel Novarese, rievoca le vicende di cui fu protagonista fra Tre e Quattrocento con feste e giochi, fra i quali spicca una curiosa gara, nella quale «corrono» botti piene di ghiaia, sospinte dai rappresentanti dei quattro rioni cittadini

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el XIII secolo il centro piemontese di Muzzano finí sotto il controllo delle famiglie guelfe novaresi Brusati e Cavallazzi. Nel 1311, dopo la distruzione del vicino castello di Montalbano a opera dei ghibellini Tornielli, la popolazione locale, per motivi di sicurezza, abbandonò in parte Muzzano e si stabilí su una collina piú a est, nel borgo che prese il toponimo di Maxoria, l’odierna Maggiora, che entrò poi a far parte della signoria di Galeazzo Visconti, inserita nel territorio della Sesia. Quando il marchese del Monferrato dichiarò guerra ai Visconti e assoldò i mercenari inglesi di Alberto Stertz per assediare le terre del Novarese, nel 1361 anche Maxoria venne attaccata e devastata, ma seppe comunque tornare a vivere. Situata in una splendida cornice tra il Lago d’Orta e il Lago Maggiore, Maggiora, ogni terzo week end di luglio – quest’anno da mercoledí 13 a domenica 17 luglio – rievoca il proprio passato medievale con il Palio dei Rioni. La giornata «clou», la domenica pomeriggio, inizia con un corteo storico composto da circa duecento figuranti in costumi d’epoca per le vie del centro.

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100 soldi per un artigiano N

el Trecento la cittadina umbra di Amelia, oggi in provincia di Terni, era un Comune autonomo all’interno del Patrimonio di San Pietro. La sua struttura istituzionale si sosteneva in equilibrio tra la necessità d’autonomia e l’esigenza di fedeltà allo Stato dei papi, che, per la verità, in quel periodo, dal 1309 al 1377, risiedevano ad Avignone. Il potere esecutivo era nelle mani di un Podestà, nominato dal Senato romano e che, per legge, doveva essere forestiero, cosí come i suoi principali Officiales: il Guardiano, il Camerario, il Cancelliere, i notai. Il potere legislativo era invece affidato al Consiglio degli Anziani, formato da tre guelfi e tre ghibellini. A condizionare la vita politica di Amelia erano i mutevoli rapporti intrattenuti col rettore del Patrimonio, il Senato di Roma, la curia pontificia, ma anche con i Comuni limitrofi (Todi, Orvieto, Narni, Terni, Viterbo, Spoleto) e l’impero germanico. La vita sociale era quella di una vivace cittadina del

Qui sopra Amelia. Il corteo storico organizzato in occasione delle rievocazioni che prendono spunto dagli Statuti del 1346. luglio

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Seguono la gara di tiro con l’arco e la scenografica Corsa delle Botti, nella quale i rappresentanti dei quattro rioni cittadini fanno rotolare lungo i 1000 metri del percorso una botte pesante 120 chilogrammi, con 30 di ghiaia al suo interno per conferirle maggiore velocità. Si deve saper «condurre» il barile con maestria, perché in caso contrario, come un peso morto, risulta ingestibile. I piú bravi percorrono la distanza prevista in circa quattro minuti.

Rioni e colori I quattro rioni rappresentano le diversità sociali del paese. Cascine è il rione giallo, il colore del grano e dei cereali da cui si ottengono il pane e la farina: rappresenta i contadini che si sacrificavano per portare il cibo sulle

A destra e nella pagina accanto la Corsa delle Botti, che anima ogni anno le vie di Maggiora, nel Novarese.

tavole, permettendo, durante i mesi delle battaglie, il sostentamento dell’esercito e della popolazione locale. Cavaiasca è il rione blu, il colore del cielo e della libertà: rappresenta il rione nobile, il piú alto del paese, quello in cui è situato il castello, ultimo e piú importante baluardo di difesa; qui in passato si imparava l’arte della spada. Valeggia

Tardo Medioevo italiano, dove commercio, artigianato, agricoltura, allevamento e pastorizia risultavano le attività piú significative. Per incrementare la ricchezza locale, il Comune aveva inoltre deciso di assegnare 100 soldi perugini a chi si trasferiva ad Amelia per esercitare un mestiere che non fosse già svolto da alcun amerino. Queste e altre disposizioni erano meticolosamente regolate dagli Statuti Comunali.

Due settimane all’insegna delle antiche tradizioni E proprio dagli Statuti del 1346, oggi conservati nell’Archivio Storico Cittadino, prende spunto la rievocazione estiva che riporta Amelia a quei tempi, quest’anno in programma da venerdí 22 luglio a domenica 7 agosto. I primi tre giorni saranno dedicati a iniziative e convegni sul Medioevo; poi, da lunedí 25 luglio, ogni contrada aprirà la propria taverna per offrire menú a base di gastronomia locale. Sabato 6 agosto è in programma il corteo storico con l’arrivo e il giuramento del Podestà; si chiude domenica 7, con il Palio dei Colombi fra le cinque contrade cittadine di Platea, Vallis, Posterola, Collis e Burgus. Cinta da mura millenarie, Amelia si arrampica su una collina ripida ma ampia, ricca di verde e di palazzi quattrocenteschi e cinquecenteschi. Camminare per i suoi vicoli durante le due settimane della rievocazione equivale a immergersi nella vita del Medioevo, fra mercanti e artigiani che ripropongono antichi mestieri, popolani, dame e cavalieri. Partendo da Porta Busolina, oggi Porta Romana, si entra nella contrada Burgus, che

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è il rione rosso, il colore del sangue versato per difendere Maxoria, ma anche il colore del vino anticamente prodotto, che portava calore e conforto dopo le battaglie. Infine Malvirà è il rione verde, il colore della speranza e dei prati, dove un tempo cavalli e cavalieri si preparavano per combattere gli eserciti nemici. Tiziano Zaccaria

già nel Medioevo era la principale, in cui si affacciavano numerose botteghe. Salendo si arriva all’antica Platea Maior, con la Loggia del Banditore e la colonna a cui venivano legati i debitori per la fustigazione. Ancora piú in alto, si giunge alla Cattedrale e alla Torre Civica, da dove si domina la città: qui siamo nella contrada Collis, zona di nobili e potenti famiglie. Proseguendo, si può raggiungere la Porta Postèrola, uno dei quattro accessi alla città, dove i commercianti forestieri pagavano la «Postierla» per poterla attraversare e vendere le loro merci. Infine giungiamo alla Porta della Valle, con un bel panorama sulla campagna, il camminamento lungo le mura, le torri d’avvistamento e i Giardini d’inverno: qui siamo in contrada Vallis.

L’arrivo del nuovo Podestà La rievocazione culmina l’ultimo sabato con l’arrivo in città del nuovo Podestà, seguito da notai, giudici, il camerario, altri amministratori, la sua famiglia e una scorta di uomini armati. La sera seguente va in scena il Palio dei Colombi, una giostra di cavalli e balestrieri in notturna. I cinque cavalieri, uno per contrada, si affrontano due alla volta in dieci scontri diretti chiamati tornate. Il cavaliere che per primo colpisce un bersaglio posto in fondo al percorso, si aggiudica tre punti. A seguire i cinque balestrieri si sfidano due per volta: se entrambi colpiscono il bersaglio, chi si avvicina di piú al centro riceve due punti, l’altro uno. Al termine delle due competizioni, la contrada con piú punti vince il Palio. T. Z.

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ANTE PRIMA

Aspettando la marchesa INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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a cinquant’anni a Isola Dovarese (Cremona) si rievoca il legame fra la casata locale, i Dovara, e i Gonzaga. Il borgo racconterà un Quattrocento in festa, da venerdí 9 a domenica 11 settembre. Mentre le osterie offrono vini speziati – da sorseggiare accanto al braciere, accostadoli a salse, torte e formaggi –, nelle taverne delle contrade, su solidi tavolacci, alla luce del fuoco, osti e servette portano saporite pietanze che si gustano disponendo il palato a sapori inconsueti, aiutati dal canto di qualche giullare. Cambiando il denaro d’oggi con l’antico quattrino, sembrerà forse d’aver le tasche ancora piene, per comprar frittelle di pomi o altri dolciumi. Nelle vie si incontrano allora fornai, cuoiai, speziali, tessitori, ostesse e soldati un po’ truci. Sulla piazza, seduti in tribuna (gratuita e senza prenotazione), si assiste a spettacoli emozionanti: racconti, danze, strane maschere e personaggi,

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macchine sceniche, con musiche dal vivo dell’ensemble Anonima Frottolisti di Assisi. Venerdí sera si annuncia l’arrivo della marchesa Barbara di Brandeburgo, evento realmente accaduto nel 1458, a seguire giubilo delle contrade e spettacolo di fuoco. Sabato si tiene il convivio in piazza e per tutti uno spettacolo grandioso con ottanta artisti, diversi «ingegni» semoventi, effetti di fuoco e bandiere. La domenica giungono la marchesa, la figlia Dorotea e il seguito della delegazione, degnamente accolti dai nobili e dalle contrade. A seguire le gare: corsa dei galli (se a loro piacerà di correre), la corsa sui trampoli e il tipico gioco del «màgher», giocato con i sassi di fiume e un bersaglio che si assottiglia sotto i colpi andati a segno, diventando appunto «magro». La sera, ultimo spettacolare saluto degli artisti, e per finire fuochi d’artificio sul cielo della piazza che tutti accoglie calorosamente, da cinquanta edizioni!

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Sul Titano è sempre festa! C

ome è ormai consuetudine, San Marino si appresta a vivere le Giornate Medioevali. La Cava Antica, la Cava dei Balestrieri e il centro storico ospiteranno mille emozioni senza tempo: gare e battaglie di spadaccini, esibizioni musicali e teatrali, bivacchi e mercati medievali, sbandieratori, e poi il suggestivo accampamento della Cerna dei Lunghi Archi e le Celebrazioni del 60° Anniversario della Federazione Balestrieri Sammarinese con il Torneo del Tricorniolo. La Torre Guaita ospiterà la ricostruzione storica e scenica della vita quotidiana nel Medioevo, a cura dei gruppi sammarinesi I Fanciulli e la Corte di Olnano e La Compagnia dell’Istrice. Ogni sera la Torre Cesta sarà il palcoscenico di uno spettacolo multimediale sulla storia della Repubblica, con proiezioni in 3D, artisti e figuranti, effetti speciali e musiche. La manifestazione si inserisce in una programmazione ricchissima, che fa di San Marino la meta ideale fino all’autunno. Ecco alcuni degli appuntamenti principali:

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AGOSTO 4 agosto Concerto della San Marino Concert Band, con il Coro Perla Verde di Riccione, Cava dei Balestrieri 5-7 agosto SMIAF Festival dei giovani saperi Associazione Marciamela, Centro Storico 10 agosto La Notte delle stelle-Escursione e Gastronomia Associazione Tartufai/Associazione Escursionisti La Genga, Murata 13-14 agosto Nott’Arte, Associazione Il Garage, Torraccia SETTEMBRE-OTTOBRE-NOVEMBRE 9-11 settembre Mi Gusto San Marino Parade, Associazione Il Garage, Centro storico 11 settembre Parole Note, Radio Capital, Piazza della Libertà 15-16 settembre Mille Bolle Festival, Associazione Somelier, Centro Storico 17 settembre Incontro Internazionale Bande Musicali Music&Friends, Piazza della Libertà 30 settembre-2 ottobre Mercatino delle Regioni d’Italia a tavola, Arte Group, Via Eugippo 31 ottobre Halloween il gusto della zucca, Associazione Arte Magica Sammarinese, Centro storico Info www.visitsanmarino.com

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

LUGLIO 7 luglio Celebrazioni Anniversario UNESCO, Concerto della Banda Militare, Musei gratuiti, Cava dei Balestrieri 8 luglio Concerto Carmina Burana, Cava dei Balestrieri 9-10 luglio Il Medioevo nell’abbigliamento e costume Laboratori, sfilate, vestizioni, Centro Storico 16 luglio 50° Torneo Nazionale della Balestra, Federazione Balestrieri Sammarinesi, Cava dei Balestrieri 17 luglio Spettacoli di Balestre e Bandiere, con la partecipazione dei Gruppi Nazionali, Cava dei Balestrieri 16-31 luglio Rivivere la Torre Guaita, I Fanciulli e la Corte di Olnano/Compagnia dell’Istrice, Prima Torre

23-24 luglio Raduno Arcieri Storici-Campionato Italiano di Tiro con l’Arco Storico, LAM La Cerna dei Lunghi Archi, Centro Storico 29-31 luglio Giornate Medioevali e Celebrazioni per il 60° Anniversario della Federazione Balestrieri Sammarinesi, Cava dei Balestrieri


AGENDA DEL MESE

Mostre BOLOGNA BOLOGNA 1116. DALLA ROCCA IMPERIALE ALLA CITTÀ DEL COMUNE Museo Civico Medievale fino al 17 luglio

Organizzata nell’ambito delle celebrazioni per il IX centenario della nascita del Comune di Bologna, la mostra illustra alcuni aspetti sociali e artistici

a cura di Stefano Mammini

Bologna, che si opponevano al dinamismo politico ed economico della città ormai da tempo avviata ad affermare l’autonomia comunale. Mentre si consumava anche il conflitto della Lotta per le Investiture, la ribellione dei Bolognesi fu ricomposta nel 1116 dall’imperatore Enrico V, con un diploma che favorí indirettamente l’affermazione del Comune. Il documento, convenzionalmente considerato l’origine del Comune di Bologna, è esposto in mostra nell’originale rilegato nel celebre Registro Grosso. info tel. 051 2193930; www.museibologna.it; http:// nonocentenario.comune.bologna.it MILANO RESTITUZIONI 2016 Gallerie d’Italia fino al 17 luglio

della città agli esordi delle sue istituzioni politiche e culturali. Il progetto mira altresí a valorizzare il patrimonio presente in museo e alcuni importanti prestiti per portare all’attenzione dei visitatori significativi manufatti dei secoli XI, XII e XIII, tra cui sculture, armi, oreficerie, documenti, codici miniati e tessuti. Particolare rilievo viene dato alla città delle Quattro Croci e alla Rocca imperiale che i Bolognesi distrussero nel 1115 all’indomani della morte di Matilde di Canossa, signora delle città padane e toscane con vicariato imperiale. La Rocca, di cui il Palazzo Ghisilardi (sede del museo) conserva alcuni notevoli resti murari in seleníte, fu sede dei funzionari matildici, i conti di

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Dal 1989, con il progetto Restituzioni, Intesa Sanpaolo sostiene finanziariamente, con cadenza biennale, il restauro di opere d’arte appartenenti a musei pubblici, privati o ecclesiastici, siti archeologici e chiese di tutta Italia. La XVII edizione ha permesso il restauro di 54 nuclei di opere d’arte, per un totale di 145 manufatti – appartenenti ai territori di Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto –, ora presentati a Milano. Le opere coprono un arco temporale che va dall’antichità al primo Novecento, con esempi di realtà lontane, come l’imponente statua egizia naofora di Amenmes e Reshpu (dal Museo Civico Archeologico di Bologna), una rara armatura giapponese dell’Armeria Reale

di Torino o tre rilievi lignei del Monte Calvario di Banskà Štiavnica (Repubblica Slovacca). Nell’ambito della pittura figurano, tra gli altri, dipinti di Francesco del Cossa, Vittore Crivelli e un’eccezionale Adorazione del Bambino di Lorenzo Lotto, nonché la Crocifissione tra la Vergine e San Girolamo, la grande pala d’altare del Perugino. info numero verde 800167619; e-mail: info@gallerieditalia.com; www.gallerieditalia.com

Disegni e pitture dei grandi protagonisti della cultura figurativa italiana del XX secolo filtrano l’universo pierfrancescano in una mostra che indaga colore, luce, spazio e geometria, presentando copie, studi, omaggi. info tel. 0545 217595 SANSEPOLCRO INDAGINI SULLA RESURREZIONE Museo Civico di Sansepolcro fino al 17 luglio

CASTROCARO TERME IL ‘900 GUARDA PIERO DELLA FRANCESCA. DISEGNO E COLORE NELL’OPERA DI GRANDI MAESTRI Padiglione delle Feste delle Terme di Castrocaro fino al 17 luglio

Organizzata in parallelo con la mostra forlivese «Piero della Francesca. Indagine su mito», questa esposizione indaga la profonda suggestione esercitata dalla pittura dello stesso Piero sull’arte italiana del Novecento. Un’impronta indelebile, sottile ed intrigante,

che ha nutrito le poetiche dei grandi artisti esposti, quali Borra, Carrà, Casorati, Campigli, Crivelli, De Chirico, De Pisis, Funi, Garbari, Guidi, Morandi, Morelli, Rosai, Savinio, Severini e Sironi.

In quello che è stato definito l’anno di Piero e in occasione della mostra di Forlí «Piero della Francesca indagine su un mito», l’esposizione propone un confronto iconografico sul tema della resurrezione, profondamente legato all’identità stessa di Sansepolcro e magistralmente interpretato da Piero della Francesca nell’opera definita «la piú bella pittura del mondo», attualmente in restauro. La mostra presenta, attraverso tre capolavori (il Cristo Risorto di Pietro Lorenzetti, la Resurrezione di Giorgio Vasari e il Polittico della Resurrezione di Marcantonio Aquili) le soluzioni iconografiche adottate tra Trecento e Cinquecento, per cercare di comprendere l’originalità della Resurrezione di Piero della Francesca e di luglio

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agevolarne la lettura. info tel. 0575 732218; e-mail: museocivico@comune. sansepolcro.ar.it; www.museocivicosansepolcro.it

ASCOLI PICENO

NEW YORK

Inserita nel piú ampio contesto delle iniziative culturali che coinvolgono Ascoli per tutto il 2016, la mostra ricorda la figura di san Francesco in occasione dell’VIII centenario della sua venuta nel Piceno. Nelle Marche, le visite da lui effettuate, il grande seguito che ha raccolto e, soprattutto, la precoce istituzione di conventi maschili e femminili legati alla Regola francescana, nonché l’origine ascolana del primo papa francescano (Niccolò IV, 1288-1292) hanno determinato lo svilupparsi di una intensa iconografia legata alla figura del santo d’Assisi e alle sue vicende. Grazie ai prestiti concessi dai maggiori musei italiani, la mostra ripercorre l’evoluzione della figura di Francesco nella pittura dal Medioevo alla Controriforma. info tel. 0736 298213; e-mail: info@ascolimusei.it; www.ascolimusei.it

LA CORTE E IL COSMO: LA MAGNIFICA ETÀ DEI SELGIUCHIDI The Metropolitan Museum of Art fino al 24 luglio

Oltre 250 opere d’arte e d’alto artigianato ripercorrono una delle stagioni piú vivaci nella storia del Vicino Oriente, vale a dire quella che vide l’avvento della dinastia turca dei Selgiuchidi, al potere fra l’XI e il XIV secolo. Il percorso espositivo si sviluppa per temi e l’esordio è affidato ai manufatti direttamente riferibili ai sultani selgiuchidi e ai membri dell’élite dominante, come iscrizioni, monete o rilievi in stucco. Si passa quindi alla vita di corte e alle attività a essa associate, per poi sottolineare lo straordinario

FRANCESCO NELL’ARTE. DA CIMABUE A CARAVAGGIO Palazzo dei Capitani, Sala della Ragione fino al 31 luglio (prorogata)

FIRENZE FECE DI SCOLTURA DI LEGNAME E COLORÍ. LA SCULTURA DEL QUATTROCENTO IN LEGNO DIPINTO A FIRENZE Galleria degli Uffizi fino al 28 agosto

fervore registrato nel campo della scienza e della tecnica, segnato da numerose invenzioni. Merita inoltre d’essere ricordata la presenza della piú antica copia a oggi nota dello Shahnama (Libro dei Re, poema epico di Firdusi, considerato uno dei capolavori della letteratura persiana), realizzata in Anatolia nel 1217. info www.metmuseum.org

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Avvalendosi di una quarantina di opere, la mostra documenta la vicenda della scultura in legno dipinto del Quattrocento fiorentino. In linea col primato artistico della scultura, essa costituí un modello imprescindibile per tutti gli artisti. Infatti, un tema come quello del corpo sofferente sulla croce, espresso con un nuovo naturalismo nei crocifissi di Donatello e

Brunelleschi, fu oggetto di riferimento per l’espressione artistica delle successive generazioni. Il Vasari, poco incline nel tessere le lodi della scultura in legno dipinto, perché a tale materiale non «si dà mai la freschezza del marmo», nell’elenco di sculture lignee elencate nelle Vite, le classifica per la loro funzione devozionale nella quale sembra esaurirsi ogni apprezzamento. A Firenze, accanto alla qualificata produzione di crocifissi, si intagliarono anche statue della Madonna, di sante e santi eremiti dai corpi tormentati o preservati dal dolore, bustiritratto, statue al centro di polittici misti e statue per l’arredo liturgico. info tel. 055 23885 PARIGI GLI SMALTI DI LIMOGES A DECORO PROFANO. INTORNO ALLE COLLEZIONI DEL CARDINALE GUALA BICCHIERI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 29 agosto

Frutto di un progetto ideato e

realizzato con il Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica di Torino (dove verrà ospitata nel prossimo autunno), la mostra riunisce una quarantina di opere, scelte fra la collezione permanente dello stesso Museo di Cluny e altre raccolte francesi ed europee. La presenza piú significativa è quella del cofano del cardinale Guala Bicchieri, realizzato dalle manifatture di Limoges intorno al 1200-1225 e decorato con medaglioni raffiguranti combattimenti fra animali reali e fantastici, giochi cavallereschi e scene cortesi: si tratta, infatti, della prima esposizione fuori dall’Italia del manufatto, acquisito nel 2004 dal museo torinese di Palazzo Madama. Accanto a questo capolavoro,

si possono ammirare candelabri, bacili, cassette e cofanetti decorati che documentano la produzione limosina profana, meno nota di quella sacra, ma non per questo meno prestigiosa. info www.musee-moyenage.fr ROMA CAPOLAVORI DELLA SCULTURA BUDDHISTA GIAPPONESE Scuderie del Quirinale fino al 4 settembre (dal 30 luglio)

Ventuno opere che spaziano dal periodo Asuka (VII-VIII secolo) al periodo Kamakura (1185-1333) giungono per la prima volta in Italia cosí da

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AGENDA DEL MESE poter finalmente apprezzare questa parte della produzione artistica antica giapponese. Tradizionalmente considerate come immagini di culto, sono difficilmente trasportabili e anche in Giappone non sono facilmente accessibili, perché esposte nella semioscurità di templi, santuari o protetti in collezioni di grandi musei nazionali. La scultura buddhista, insieme alla scrittura e agli insegnamenti buddhisti, fu introdotta in Giappone attraverso la penisola coreana dalla Cina tra il VI e il VII secolo; a partire dal X secolo conobbe uno sviluppo sempre piú originale rispetto ai modelli continentali, sia nei temi che nelle forme, trovando il suo culmine nell’arte del tardo periodo

Heian (794-1185), l’epoca della corte imperiale di Kyoto, che esaltò la grazia come supremo valore espressivo utilizzando il legno come materia prima; in seguito, con la vittoria del potere militare sulla corte a partire dall’epoca Kamakura (1185-1333), si affermò una scultura realistica e vigorosa, essenziale nelle forme, che ben rispondeva agli ideali samuraici e alla filosofia legata al buddhismo zen che allora andò diffondendosi: una ricchezza che rende la scultura di quest’epoca la summa di tutta la scultura giapponese. info www.scuderiequirinale.it ROMA SANTA MARIA ANTIQUA. TRA ROMA E BISANZIO Foro Romano, Basilica di S. Maria Antiqua fino all’11 settembre

Dopo oltre trent’anni, riapre al pubblico S. Maria Antiqua, la basilica nel Foro Romano scoperta nel 1900 alle pendici del Palatino. La chiesa conserva sulle sue pareti un patrimonio di pitture unico nel mondo cristiano del primo millennio, databile dal VI al IX secolo, quando fu abbandonata a seguito dei crolli causati dal terremoto dell’847. Resta eccezionale testimonianza nello sviluppo della pittura non solo romana, ma di tutto il mondo greco bizantino contemporaneo: l’iconoclastia,

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guerresca. Attingendo alla propria collezione permanente e grazie a importanti prestiti, il museo olandese presenta oltre 200 esemplari di spada, che includono armi cerimoniali e lame da stocco, nonché ferri di particolare valore storico. Fra gli altri, spicca una magnifica spada carolingia proveniente dal sito di Dorestad, la sola infatti, cancellò gran parte delle immagini sacre di quell’epoca. Chiusa dagli anni Ottanta per un complesso intervento architettonico proseguito con il restauro delle pitture, alla riapertura completa della chiesa – aperta in precedenza solo per brevi periodi con visita guidata ai cantieri – si accompagna un’esposizione che è «mostra» del monumento stesso, perché gravita intorno al ruolo che l’edificio, con i suoi dipinti, ha giocato nel Foro Romano postclassico cristianizzato e al rapporto con la Roma altomedievale, là dove si andavano concentrando la vita religiosa e i servizi pubblici di approvvigionamento per cittadini e pellegrini. info tel. 06 699841; prenotazioni: tel. 06 39967700; www.coopculture.it LEIDA STORIE AFFILATE Rijksmuseum van Oudheden fino al 2 ottobre

I nuovi spazi per mostre temporanee del Rijksmuseum van Oudheden di Leida sono stati inaugurati con l’allestimento di ben quattro esposizioni, una delle quali ripercorre la storia della spada, sottolineando, in particolare, il ruolo simbolico assegnato all’arma fin dalle epoche piú antiche, che è stato forse ancor piú rilevante di quello giocato nella pratica

del genere a oggi nota nei Paesi Bassi, e che dovette appartenere a un personaggio di rango assai elevato. info www.rmo.nl ILLEGIO, TOLMEZZO (UDINE) OLTRE. IN VIAGGIO CON CERCATORI, FUGGITIVI, PELLEGRINI Casa delle Esposizioni fino al 9 ottobre

Viaggiare è il simbolo dell’insopprimibile desiderio dell’uomo di trovare il senso, di superare se stesso, di vivere pienamente: sensazioni che vengono raccontate visivamente nella mostra di Illegio, attraverso un percorso che comprende oltre quaranta dipinti su tela e su tavola. Fra le opere, provenienti da collezioni pubbliche e private italiane ed europee, possiamo ricordare la tavola del Museo Borgogna di Vercelli, dipinta da luglio

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MOSTRE • Immaginare il giardino Pallanza-Verbania – Villa Giulia

fino al 2 ottobre info tel. 0323 556621; e-mail: segreteria@museodelpaesaggio.it; www.museodelpaesaggio.it

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i colgono echi di una tradizione antica nei magnifici spazi della Villa Giulia di Pallanza, affacciati sul Lago Maggiore: fino al prossimo 2 ottobre vi è infatti allestita una mostra che ha per tema la rappresentazione del giardino e il modo in cui questi spazi verdi furono immaginati. Presupposto del progetto espositivo è la convinzione – esplicitata dal suo curatore, Michael Jakob – che ogni giardino è sottoposto a una continua mutabilità per gli effetti del lavorio del tempo, e che anche giardini importanti rimangono impressi nella mente solo grazie a documenti iconici. Muovendo da tale principio, è stato elaborato un percorso espositivo articolato, nella cui prima sezione figurano 140 incisioni – provenienti da una collezione privata di libri e materiali iconografici –, che illustrano la costruzione dell’immaginario del giardino tra il Seicento e l’Ottocento. Si possono ammirare immagini di parchi meravigliosi, come quello illustrato nella raccolta Hofstede van Clingendaal (Amsterdam, 1690 circa), sulla tenuta di Clingendael, oppure il palazzo e il giardino di Heemstede, costruiti nel 1645 e acquistati nel 1680 da Diderick van Velthuysen (1651-1716), che sopravvivono ormai soltanto nelle tavole di Isaac de Moucheron. Per l’Italia, spiccano le splendide e rarissime incisioni Otto vedute di giardini di Roma, di cui sette portano la firma di Giuseppe Vasi (1710-1782).

Bernardino de’ Donati agli inizi del Cinquecento, che mette in scena Enea alla corte di Didone e la grandiosa Adorazione dei Magi, concessa in prestito dagli Uffizi, opera di Sandro Botticelli, del 1500 circa, tra le sue ultime opere, mistica, strana e popolatissima, intrisa degli echi delle profezie del Savonarola. Quanto ai pellegrini, ne vediamo su predelle di squisita ricchezza,

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luglio

come quella di Lorenzo Monaco dal Museo di San Marco di Firenze, San Nicola che salva i naviganti, del 1415 circa. info tel. 0433 44445 oppure 0433 2054 TIVOLI (ROMA) I VOLI DELL’ARIOSTO. L’ORLANDO FURIOSO E LE ARTI Villa d’Este fino al 30 ottobre

Organizzata in occasione del

cinquecentesimo anniversario della prima edizione dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto (1516), la mostra celebra l’impatto esercitato dal poema fino ad oggi sulle arti figurative. Villa d’Este, con il suo celebre giardino e i suoi ambienti affrescati, ne costituisce lo scenario ideale: il cardinale Ippolito II d’Este, infatti, che fece costruire e decorare tra gli anni sessanta e settanta del Cinquecento questa villa di delizie, non solo è citato piú volte nel poema, ma aveva avuto modo di frequentare l’Ariosto negli anni della giovinezza trascorsi presso la corte ferrarese. Le opere riunite a Villa d’Este attingono alle piú varie tipologie e tecniche artistiche (dipinti, sculture, arazzi, ceramiche, disegni, incisioni, medaglie, libri illustrati...) e vengono presentate secondo un itinerario cronologico,

documentando la fortuna visiva del poema: dopo una premessa dedicata al volto e al mito del poeta (dove i ritratti cinquecenteschi dell’Ariosto dialogano con le rievocazioni ottocentesche di alcuni episodi, reali o fantastici, della sua vita), una sezione è dedicata alla storia figurativa del Furioso nel Cinquecento. A integrazione della mostra, Villa d’Este propone un ricco calendario di manifestazioni ed eventi collegati: percorsi nel territorio, concerti, proiezioni cinematografiche, spettacoli teatrali, conferenze, letture ariostesche. info tel. 0774 312070; e-mail: pm-laz.villadeste@beniculturali.it www.villadestetivoli.info; www.ariostovilladeste.it

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AGENDA DEL MESE SAN GIMIGNANO BENOZZO GOZZOLI A SAN GIMIGNANO Pinacoteca fino al 1° novembre

Di Benozzo Gozzoli (1420/211497), artista tra i piú rappresentativi e prolifici del Quattrocento italiano, la mostra celebra il triennio sangimignanese, uno dei periodi piú intensi e fecondi nella sua lunga attività. Protagonista del progetto espositivo è la tavola di Benozzo con la Madonna col Bambino e angeli tra i santi Giovanni Battista, Maria Maddalena, Agostino e Marta, che viene ricomposta per la

prima volta nella sua interezza grazie ai frammenti di predella oggi divisi tra i musei di Brera, Avignone e Madrid. Il maestro soggiornò nella città delle torri dal 1464 al 1467 e vi realizzò affreschi e pale d’altare, frutto della sua efficiente organizzazione di bottega. Riunite per l’occasione, le opere sono distribuite fra la Pinacoteca e il Museo d’Arte Sacra. Sono stati inoltre predisposti un circuito di visite dei cicli di affreschi nel

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Duomo, nella chiesa di S. Agostino e nell’abbazia di Monteoliveto e un approfondimento della figura dell’artista presso il BEGOMuseo Benozzo Gozzoli di Castelfiorentino. info www.sangimignanomusei.it VENEZIA VENEZIA, GLI EBREI E L’EUROPA. 1516-2016 Palazzo Ducale, Appartamenti del Doge fino al 13 novembre

Organizzata per il cinquecentenario dell’istituzione del Ghetto di Venezia, la mostra descrive i processi che sono alla base della realizzazione e della nascita del primo «recinto» destinato agli Ebrei creato al mondo, ma, nel contempo, allarga lo sguardo alle relazioni stabilite con il contesto degli altri quartieri ebraici (e non solo) italiani ed europei. L’iniziativa intende mettere in luce la ricchezza dei rapporti tra Ebrei e Venezia, tra Ebrei e società civile nei diversi periodi della loro permanenza in laguna, in area veneta e in area europea e mediterranea. Dipinti, disegni, libri, documenti, ricostruzioni multimediali concorrono a raccontare una lunga storia di relazioni e di scambi culturali.

Con l’obiettivo di divulgare una maggiore consapevolezza delle diversità culturali esistenti in Europa. info tel. 041 2715911; e-mail: info@fmcvenezia.it; http://palazzoducale.visitmuve.it CASTEL DEL MONTE MATEMATICA E BELLEZZA. FIBONACCI E IL NUMERO AUREO fino al 15 novembre

Nell’immaginario collettivo, l’arte e la matematica sembrano viaggiare su strade parallele, ma sono in realtà strettamente connesse tra loro. Dal loro connubio nasce questa mostra, che trova in Castel del Monte la sua collocazione ideale, considerando come nell’idea costruttiva di Federico II la proporzione numerica si sia manifestata al suo livello piú elevato. La rassegna presenta le riproduzioni di capolavori di Botticelli, Giorgione, Giotto, Leonardo da Vinci e una planimetria di Castel del Monte e del suo portale, poste in relazione con opere di artisti contemporanei quali Alberto Biasi, Gregorio Botta, Bruno Ceccobelli, Giorgio de Chirico, Piero Guccione, Giacomo Manzú, Piero Pizzi Cannella e Oliviero Rainaldi. info tel. 0883 569997; www. casteldelmonte.beniculturali.it

PERUGIA I TESORI DELLA FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI PERUGIA E IL CARAVAGGISMO NELLE COLLEZIONI DI PERUGIA Palazzo Lippi Alessandri fino al 20 novembre

L’esposizione marca i vent’anni di collezionismo della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e ne propone le opere d’arte acquisite. Si tratta di oltre 50 dipinti, rappresentativi non solo delle esperienze artistiche

che si affermano in Umbria dal Trecento al Settecento, ma anche di altri aspetti della cultura figurativa italiana dal Rinascimento al Barocco. Nelle stesse date e negli stessi spazi è inoltre allestita la rassegna dedicata al caravaggismo nelle collezioni di Perugia. Una doppia occasione, quindi, per ammirare le opere piú importanti della collezione della Fondazione Cassa di Risparmio. info: tel. 075. 5724563; e-mail: info@fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte.it luglio

MEDIOEVO


Appuntamenti

BASSANO DEL GRAPPA

BELLARIA (RIMINI)

IL MAGNIFICO GUERRIERO. BASSANO A BASSANO Civici Musei fino al 31 gennaio 2017

SARACENI 15-17 luglio

Il Magnifico Guerriero di Jacopo Bassano si offre all’ammirazione del pubblico grazie al comodato gratuito accordato dal suo possessore ai Civici Musei bassanesi. Il dipinto ritrae un affascinante nobiluomo dalla fulva, curatissima barba. Non un giovane ma un uomo maturo, certo aduso al comando, ma, soprattutto, a una vita raffinata lontano dai campi di battaglia. Indossa una preziosa corazza alla moda dell’epoca, che lo costringe, ma che non riesce a ingabbiarne la grazia e la flessibilità. Le lunghe dita, curate e perfette, non sembrano le piú adatte a menar fendenti, cosí come il suo spadino di ferro e oro sembra piú da parata che da battaglia. Secondo Vittoria Romani dell’Università di Padova, studiosa alla quale va il merito di avere ricondotto a Jacopo Bassano questo autentico capolavoro già attributo a Veronese e a Pordenone, il ritratto è databile agli anni immediatamente seguenti il 1550, ovvero al momento piú altamente manierista del maestro. info tel. 0424 519.901-904; e-mail: info@museibassano.it; www.museibassano.it

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Torna la rievocazione che anima il centro balneare romagnolo per tre giorni, da venerdí 15 a domenica 17 luglio. L’evento rievoca le antiche gesta degli abitanti locali, impegnati a difendere le coste adriatiche dalle invasioni saracene avvenute nel Cinquecento, quando furono erette delle torri sul litorale per avvistare le barche dei conquistatori in arrivo. La manifestazione in costume si apre venerdí 15, alle 21,00, col tradizionale «Sbarco»: dieci imbarcazioni storiche a vela con trecento personaggi attraccheranno al porto canale, dando poi vita a un corteo che si snoderà sul lungomare e nelle vie del centro di Bellaria. Nelle serate di sabato 16 e domenica 17 l’evento si concentrerà nel parco del Comune di via Pavese, dove saranno presenti arti e mestieri antichi, danzatrici del ventre, musiche, combattimenti, sputafuoco, fachiri e un banchetto. Domenica 17, chiusura con la Giostra Saracena a Cavallo. info www.comune. bellaria-igea-marina.rn.it PAOLA (COSENZA) LA VOLATA 23 luglio

La cittadina calabrese rievoca

l’assedio turco del 1555, capitanato dall’ammiraglio e corsaro ottomano Dragut Rais. Il corteo storico sfila dal centro al quartiere della Rocchetta, dove, tra balli, giochi e libagioni, dà vita a un vero e proprio carosello fiabesco. info www.guiscardo.com CITTÀ DEL VATICANO NOTTURNI Musei Vaticani fino al 29 luglio

I Musei Vaticani rinnovano l’appuntamento con le

aperture notturne. I Notturni vogliono in primo luogo confermare l’attenzione per il pubblico romano. L’invito, infatti, oltre che ai turisti provenienti da ogni parte del mondo, è rivolto principalmente a tutti i cittadini che desiderano contemplare gli inestimabili tesori custoditi nelle gallerie pontificie ma non ne hanno occasione, durante i consueti orari di apertura, perché impegnati nelle attività familiari e lavorative del giorno. L’apertura serale dei Musei del Papa diventa, dunque, un’imperdibile occasione per visitarli illuminati da una luce inconsueta, nell’agio di spazi meno affollati e lontano dalle ore piú calde del giorno. Anche quest’anno, le aperture serali sono accompagnate dalla rassegna musicale La Musica dei Musei, frutto della collaborazione tra i Vaticani, l’Accademia di Santa Cecilia e il Comitato Nazionale Italiano Musica (CIDIM). info www.museivaticani.va SIENA «IVI DIMANDO MISERICORDIA»: SCOPERTURA STRAORDINARIA DEL PAVIMENTO DEL DUOMO fino al 31 luglio

«Ivi dimando Misericordia» è il testo dell’iscrizione, significativa per la tematica giubilare, che corre nella tarsia collocata dietro l’altare maggiore del Duomo e si unisce ai quattro tondi allegorici raffiguranti le virtù cardinali. L’Opera della Metropolitana di Siena ne ha tratto ispirazione per la scopertura straordinaria del Pavimento del Duomo (che si aggiunge a quella consueta dal 18 agosto fino al 26 ottobre). Si tratta della prima

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AGENDA DEL MESE APPUNTAMENTI • Offerta dei Censi Abbadia San Salvatore (Siena) 8-10 luglio info tel./fax 0577 778324 oppure 0577 775221; e-mail: info@cittadellefiaccole.it; www.cittadellefiaccole.it

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on l’Offerta dei Censi, una delle piú suggestive rievocazioni storiche italiane, Abbadia San Salvatore riscopre le sue origini di castrum medievale e dà vita a una grande festa in costume, che offre un singolare spaccato della vita di quel tempo. Il cuore del borgo si popola di dame e cavalieri, mercanti e soldati, fanciulle danzanti e giovani atleti. Dall’8 al 10 luglio, i cittadini smettono gli abiti contemporanei e tornano a vestire quelli dei loro avi. Le piazze e le strade si trasformano in un palcoscenico naturale capace di accogliere taverne e botteghe di arti e mestieri, mentre per le vie si muovono musicanti e giocolieri. Viene anche ricostruito un accampamento militare dove si susseguono tenzoni e duelli, che culminano nella gara a giochi tra Terzieri chiamati a misurarsi con l’arco, le portantine e tante altre specialità. Per tre giorni e tre notti si prepara l’Offerta dei Censi recuperando una «pratica» spesso descritta nella ricca documentazione del XIII secolo, relativa ad Abbadia San Salvatore. Le carte parlano dei «censi in natura» (ovvero prodotti locali) che venivano offerti al monastero di S. Salvatore dagli abitanti, a sancire lo stretto rapporto tra la comunità del borgo e l’imponente struttura monastica, ancora oggi una delle meraviglie di Abbadia. Ed è proprio in memoria di questo antico legame che la comunità badenga oggi riscopre la sua storia con questa celebrazione collettiva.

occasione di visita al pavimento anche nei giorni del Palio dedicato alla Madonna di Provenzano, un’ulteriore opportunità per i numerosi visitatori presenti in città per la festa senese. L’iniziativa arricchisce il percorso giubilare Maria Mater Gratiae, Mater Misericordiae, già attivo presso il Complesso museale del Duomo di Siena e che vede come opera simbolo la

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Madonna col Bambino e quattro cherubini di Donatello. info e prenotazioni tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com

ALTARE (SAVONA) ARCHEOLOGIA DEL VETRO NEL MEDIOEVO E AGLI INIZI DELL’ETÀ MODERNA (IX-XVI SEC.). CORSO DI FORMAZIONE SPECIALISTICA 17-18 settembre

In linea con i propri scopi istituzionali di formazione e divulgazione delle conoscenze sul vetro, il Comitato Nazionale italiano AIHV (Association Internationale pour l’Histoire du Verre), in collaborazione con il Museo dell’Arte vetraria Altarese e con l’ISVAV-Istituto per la Storia del Vetro e dell’Arte Vetraria di Altare, organizza un corso di formazione specialistica sull’Archeologia del vetro nel Medioevo e agli inizi dell’Età Moderna. Il corso è aperto a studenti laureandi, laureati e specializzandi in archeologia e in discipline storico-artistiche. Data la natura del corso, che prevede una forte interattività, si stabilisce un minimo di 15 e un massimo di 20 partecipanti, che verranno selezionati in base all’ordine di arrivo delle domande e al curriculum formativo. Ai partecipanti verranno forniti

materiale didattico e una copia di una pubblicazione curata dal Comitato. I partecipanti potranno inoltre acquistare a prezzi di favore le pubblicazioni del Comitato. Le richieste di partecipazione, corredate da curriculum vitae et studiorum, vanno indirizzate a: segreteria@storiadelvetro.it info www.storiadelvetro.it FIRENZE MARTEDÍ SERA AL MUSEO Galleria degli Uffizi fino al 27 settembre

Per tutta l’estate, la Galleria degli Uffizi effettua un’apertura continuata, il martedí, dalle 19,00 alle 22,00 con appuntamenti speciali dal vivo. L’ingresso è a pagamento ed è possibile prenotare la visita, tenendo presente che l’ultimo ingresso prenotabile è fissato alle 20,00. Nell’ambito dei «Martedí sera al museo», ogni settimana si svolgono attività speciali – coordinate con le opere d’arte – di musica, letteratura, danza o teatro. info e prenotazioni tel. 055 294883; www.uffizi.beniculturali.it

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miniere e monete

Il forziere della

di Alessio Montagano

Maremma A destra Montieri (Grosseto). Una veduta panoramica del centro abitato, che si sviluppò grazie al benessere assicurato dalle miniere del suo comprensorio, il cui sfruttamento, iniziato già in età antica, si protrasse piú a lungo che in altri insediamenti minerari della regione. A sinistra ricostruzione grafica ipotetica di una zecca medievale.

A lungo conteso tra i vescovi di Volterra e la Repubblica di Siena, il territorio maremmano oggi identificato con le «Colline Metallifere» era noto sin da tempi remoti per le sue ricchezze minerarie. Solo tra il XII e il XIII secolo, però, la crescente domanda di metallo monetabile, dettata dalle piú ricche e potenti città toscane, accrebbe la febbre... «dell’argento»

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e Colline Metallifere corrispondono a un’ampia area geografica che include le attuali province di Grosseto, Livorno e Pisa. Caratterizzata da rilievi montuosi e da piú dolci colline coperte da boschi, questa zona costiera della Toscana centro-occidentale è costellata da borghi di impronta medievale, spesso ancora circondati dalle mura e sormontati da una rocca o da un castello, il cui epicentro urbano piú importante è Massa Marittima, chiamata anche Massa Metallorum in età comunale per la vocazione mineraria del suo territorio. Molti di questi nuclei nacquero e si svilupparono grazie allo sfruttamento commerciale delle risorse del sottosuolo nel periodo compreso tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, in concomitanza con la crescente domanda di metallo monetabile da parte delle zecche che operavano per conto delle piú potenti autorità politiche dell’intera Toscana. luglio

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Le miniere maremmane erano note già in antico per la ricchezza dei minerali – tra cui oro e argento – e furono intensamente sfruttate dagli Etruschi. Poi, sotto il dominio di Roma, caddero in disuso, fino a essere totalmente abbandonate nel periodo imperiale, quando si preferí ricorrere alle risorse coloniali, tra cui le ricche miniere della Gallia. La proclamazione di Carlo Magno a imperatore e l’introduzione del nuovo sistema monetario a base argentea riaccesero un graduale interesse per la ricerca di vene argentifere ancora inesplorate.

La scoperta di Pietro Gallari

Curioso, a tal proposito, è l’episodio, vero o leggendario che sia, narrato nel diario dell’erudito senese Girolamo Gigli (1660-1772): un certo «Pietro Gallari dei grandi di Siena, cacciando per quei monti s’avvenne in una pietra di color argento; ed argomentando del paragone che ne fece, che qualche

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nascosta miniera vene fosse, comprò certa parte di quel territorio ad uso di pascoli, facendovi lavorare, e ritrovando la miniera (…). Questo argento in tanta copia trovato somministrò alla magnificenza de’ nostri maggiori». Dagli inizi del XII e sino al XV secolo, si scoprirono nuovi giacimenti produttivi di argento e rame, mentre molti altri, precedentemente abbandonati in età classica, furono riattivati. Un altro diario, quello del naturalista senese Simone di Jacopo Tondi – che racconta il suo viaggio avvenuto a Grosseto e Massa nel 1334 in veste di consulente della viabilità stradale del Governo dei Nove – fornisce un elenco dettagliato delle località estrattive piú rilevanti a quel tempo: «Ivi è il Monte Argentaio luogo di molta stima. Sono in questo monte miniere d’oro, e vi si vedono le fosse, dalle quali è fama, che anticamente si cavasse molta copia d’oro, meschiato non con altro che con argento. Vi sono vene d’argento, dalle quali il monte il piglia il nome suo, ed il

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miniere e monete PROVINCIA DI PISA PROVINCIA DI SIENA

Didascalia Monterotondo aliquatur Marittimo adi odis Montieri que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur Massa Marittima PROVINCIA tendamusam Roccastrada DI LIVORNO consent, perspiti PARCO NAZIONALE conseque nis COLLINE METALLIFERE DELLE maxim eaquis GROSSETANE earuntia cones Follonica Gavorrano apienda.

I castelli «minerari»

Scarlino

Toscana Follonica

sale minerale. (...) Montieri, cosí detto, perché genera tutti i metalli, di che fanno fede profondissime fosse, donde gli antichi nostri trassero notabilissima somma d’argento (...) Monterotondo produce il zolfo, il salnitro, l’antimonio e l’oro: e Prata ha le cave del rame e la vena del ferro e dell’argento: Roccastrada l’argento e la pece navale, dove dal molto cavare sono fatte vie e buttini che penetrano il monte da ogni parte. (...) Nel Monteciriota è l’oro e il piombo. A Fiorini il rame, l’argento».

PROVINCIA DI GROSSETO

L’indagine archeologica voluta e intrapresa da Riccardo Francovich in collaborazione con il Dipartimento di Archeologia Medievale dell’Università di Siena a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo e ancora in corso sotto la guida di Giovanna Bianchi, ha analizzato una nutrita serie di località a vocazione mineraria che oggi permette di individuare le realtà estrattive piú rilevanti di tutta l’area delle Colline Metallifere. Tali ricerche, essenziali per mettere a fuoco tasselli fondamentali di un piú generale

MAR M AR A TI TIRRENO

LA SCOPERTA DEI GIACIMENTI 896 Montieri 1066 Isola d’Elba 1164 Scerpenna 1177 Montebeccari 1178 Miranduolo e Montebinco 1215 Batignano 1230 Boccheggiano 1250 Montepescali e Rocchette Pannocchieschi 1267 Tatti 1270 Sassoforte 1284 Selvena 1289 Montepozzoia 1297 Cugnano 1301 Roccastrada 1304 Mazzetta 1310 Perolla 1318 Gerfalco 1323 Sala e Roccatederighi 1326 Montorsaio 1328 Gavorrano e Giuncarico 1329 Radi 1334 Frosini 1355 Monteciriota 1370 Campiglia Marittima 1394 Prata 1437 Monteargentario XV sec. Roselle

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Nella pagina accanto cartina che mostra l’estensione geografica e le principali località del Parco Nazionale delle Colline Metallifere Grossetane. Sulle due pagine disegno ricostruttivo del borgo fortificato di Rocca San Silvestro (presso Campiglia Marittima), cosí come doveva apparire tra il X e il XIV sec.

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contesto politico ed economico del territorio, hanno evidenziato come i castelli nati in corrispondenza di risorse minerarie di metallo monetabile – per esempio, Rocca San Silvestro, Rocchette Pannocchieschi e Cugnano – rappresentino il frutto di una scelta consapevole dei loro fondatori, che intendevano gestire a pieno il processo produttivo finalizzato alla monetazione. Tali castelli, dunque, non ebbero solo una funzione insediativa e difensiva, ma furono soprattutto uno strumento di organizzazione delle attività produttive. Lo scavo di questi contesti ha mostrato che gli impianti necessari al trattamento metallurgico del minerale erano posti nelle vicinanze delle mura, direttamente sotto il controllo del signore. Solo nel pieno Duecento, l’affermazione dei Comuni nella gestione

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LA ROCCA DI SAN SILVESTRO A Nella cinta muraria si apre la porta di ingresso al castello, con portale ad arco preceduto da una scalinata in pietra. B La via principale unisce la porta di accesso alla chiesa, dedicata a S. Silvestro, e al cassero. C Il frantoio è in grado di produrre fino a 6000 litri d’olio l’anno. D In un cortile è situato il forno da pane, di uso comunitario. E Il forno da ceramica serve alla produzione di vasellame da cucina. F Nel punto piú alto del castello si erge la torre di guardia. G In posizione dominante sorge la dimora signorile. H Cisterne di raccolta dell’acqua piovana garantiscono l’approvvigionamento idrico. I Area di trasformazione metallurgica dei minerali. L Bassofuoco.

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miniere e monete il codice massetano

Il sottosuolo appartiene alla comunità Il Codice minerario di Massa Marittima, inserito nello Statuto grosso del Comune di Massa degli anni 1311-1325, è uno dei piú antichi testi di questo genere in Europa assieme a quello di Trento, fatto redigere dal vescovo nel 1208, ai privilegi concessi nel 1227 dal signore di Sauve ai minatori di Hierle, in Linguadoca, e a quelli conferiti nel 1249 dal re di Boemia Venceslao I alla città di Iglau. Esso garantiva la libertà di ricerca estrattiva ai privati e imponeva che ogni fase dell’attività produttiva fosse seguita da appositi magistrati comunali. Il Codice massetano è la prima costituzione mineraria europea che illustri la regolamentazione complessiva di un intero distretto, sia sotto il profilo della disciplina delle attività estrattive che di quella delle lavorazioni metallurgiche. Il suo merito principale è stato quello di avere sconvolto il concetto di proprietà del sottosuolo che il diritto romano riconosceva al proprietario del suolo. Si sanciva infatti che il sottosuolo era della comunità, che, con propri atti, ne autorizzava lo sfruttamento, riservandosi il diritto in quanto facente parte del patrimonio collettivo. In alto la prima pagina del Codice minerario di Massa Marittima, tratto dal corpo degli Statuti del Comune toscano. XIV sec. Firenze, Archivio di Stato. A sinistra un minatore raffigurato in un’illustrazione

realizzata per una edizione del trattato De Re metallica. 1621. Carcassonne, Biblioteca Municipale. Nella pagina accanto Massa Marittima, chiesa di S. Agostino. Lo stemma dell’Arte degli argentieri.

della produzione minerario-metallurgica, come testimoniano i regolamenti di Massa Marittima sulle miniere (vedi box in questa pagina), determinò la crisi e spesso l’abbandono dei castelli, talvolta ridotti a insediamenti minori, legati alla sola silvicoltura e all’allevamento.

Il ruolo delle grandi famiglie

Nel contesto storico fin qui descritto, alcune famiglie magnatizie stabilitesi nel contado, tra cui gli Aldobrandeschi, i Gherardeschi e i Pannocchieschi, ebbero un ruolo preminente nell’accaparramento e nell’organizzazione dello sfruttamento delle risorse. Agendo direttamente o attraverso istituzioni religiose, riuscirono ad affermare il proprio controllo sui territori minerari, imprimendo un deciso impulso all’incastellamento, sino alla concentrazione verticale del sistema produttivo, che soppiantò le preesistenti forme di sfruttamento e di lavorazione metallurgica di piccole dimensioni. Un esempio di straordinaria importanza è Rocca San Silvestro (Campiglia Marittima, Livorno), villaggio me-

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dievale fortificato situato nella diocesi toscana di Massa e Populonia. Fondato tra il X e l’XI secolo per iniziativa dei conti della Gherardesca, ha rappresentato sino a tutto il XIV secolo, periodo nel quale è andato in disuso, uno dei centri piú grandi e organizzati di sfruttamento dei giacimenti di rame e piombo argentifero dell’area. La divisione del lavoro, attestata nelle fasi produttive, ha costituito una novità rispetto alla situazione altomedievale e un punto di svolta nella lavorazione dei metalli in ambito pre-industriale. Un intero settore del castello era infatti adibito alla lavorazione dei metalli «nobili», tra cui, in particolare, l’argento destinato perlopiú alle zecche di Pisa e Lucca, mentre la lavorazione del ferro per gli utensili avveniva al di fuori delle mura; queste fasi, compresa quella estrattiva, erano attentamente sorvegliate dai «signori» del castello, i quali, oltre a controllare le strutture urbane, si occupavano della gestione imprenditoriale dell’intero ciclo di produzione metallurgica. I prodotti finali di ogni ciclo passavano pertanto a quello successivo o al consumo, direttamente o attraverso la commercializzazione. È possibile quindi che il metallo da monetare venisse commercializzato sotto forma di pani o lingotti pronti già a essere adoperati dalle officine monetarie.

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Degno di nota è anche il castello minerario di Rocchette Pannocchieschi (Massa Marittima, Grosseto). Controllato dai Pannocchieschi tra l’XI e il XIII secolo, e poi dal Comune di Massa (XIV secolo), presenta una topografia di notevole interesse, perché intrinsecamente connessa con l’attività produttiva della struttura, che sorse presso una faglia sui lati della quale erano concentrate quattro doline ricche di giacimenti di piombo, rame e argento. L’indagine archeologica ha evidenziato modalità insediative analoghe a quelle di Rocca San Silvestro e dei castelli minerari della costa toscana.

Un insediamento di lunga durata

Nell’XI secolo, anche Montieri (Grosseto) era uno dei numerosi castelli edificati nell’area dai diversi membri dell’aristocrazia che avevano acquisito il diritto di sfruttare i ricchi giacimenti minerari. A differenza di altri insediamenti, il castrum de Monterio, però, sopravvisse alla crisi scoppiata alla fine del Medioevo per diventare uno dei nuclei odierni di popolamento delle Colline Metallifere, seppur ridimensionato nella sua importanza. Un esito spiegabile con le principali differenze tra Montieri e gli altri siti minerari. Innanzitutto, la qualità della materia prima: la grande quantità di castagno presente

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miniere e monete «LE FONDERIE» DI MONTIERI A destra pianta del centro storico di Montieri con, in evidenza, l’edificio detto Le Fonderie, che ospitava la zecca. In basso planimetria dell’edificio con l’individuazione delle strutture originali e la ricostruzione di quelle perdute.

Strutture originali sopravvissute in elevato

Strutture individuate nelle campagne di scavo

Strutture ipotizzate


sul suo poggio forniva ai forni fusori la migliore essenza possibile, in grado cioè di produrre fuoco a elevatissima temperatura con una minima quantità di legna impiegata e una capacità di durata senza eguali. La qualità del minerale cavato era poi decisamente superiore a quella degli altri siti, dove, stando alle notizie documentali, si estraevano soprattutto piombo argentifero, rame e ferro, mentre Montieri sembra avere avuto i giacimenti piú copiosi, che restituivano il miglior argento (Galena argentifera) di tutto il comprensorio delle Colline Metallifere. In secondo luogo, influí la collocazione topografica: a differenza di altri centri, Montieri era ben collegata dalla rete viaria con le potenti città di Siena e Volterra, a nord, e Massa, a sud.

Un solo edificio per tutte le lavorazioni

In alto l’edificio de Le Fonderie come si presenta oggi. Sulle due pagine, in basso ricostruzioni virtuali dell’aspetto interno ed esterno dell’edificio originale.

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Da ultimo, ma non per importanza, l’esistenza all’interno delle sue mura di un edificio, oggi denominato «Le Fonderie» e ancora visitabile nella via omonima: qui veniva finalizzato il ciclo dei metalli monetabili, procedendo, con ogni probabilità, alle operazioni di coniazione delle monete. La sua costruzione, con l’officina al piano terreno caratterizzata da grandi locali areati dalle arcate ornate con laterizi decorati e i piani superiori, probabilmente destinati agli uffici commerciali, si colloca tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, momento che potrebbe coincidere con la comparsa nella documentazione scritta della domos moneta, fino ad allora mai citata, la cui prima menzione risale al 20 luglio 1216, quando il vescovo volterrano Pagano impegnò alcuni beni a garanzia di un suo prestito, a eccezione del palazzo, della zecca e della vigna. La presenza nel tessuto urbano di un edificio della zecca è confermata da altri documenti successivi. In un lodo pronunciato il 9 giugno

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miniere e monete I conii

Corpo di ferro e faccia d’acciaio Il procedimento per ottenere le monete medievali consisteva nella coniazione di tondelli di svariati metalli, avvalendosi del cosiddetto conio di incudine, generalmente fissato a una incudine o a un ceppo di legno, e del conio di martello, che era mobile e di forma cilindrico-conica e sul quale veniva vibrato, con un martello, il colpo necessario perché fossero impressi i caratteri sulla moneta. I due conii, preparati per ottenere rispettivamente il diritto e il rovescio della moneta, erano gli strumenti incisi in negativo che imprimevano in positivo e in rilievo il tipo sulla moneta. Le loro superfici venivano cesellate dagli incisori con perizia e raffinatezza, attraverso l’utilizzo di bulini e punzoni di diverso tipo e forma, dopo 1218 il conte Gherardo da Prata e Usimbardo da Picchena risolsero la vertenza sorta tra il vescovo Pagano e i domini montis et monete de Monterio, ovvero la società fiorentina Cambi-CavalcantiGiugni, che lamentava la crescita smisurata del credito vantato nei confronti del presule. Da un arbitrio a favore dei banchieri, incaricati secondo la consuetudine delle argentiere super monetam et alios redditus de Monterio, che ottennero il pagamento di determinate somme dovute, si apprende anche che, in cambio, il vescovo avrebbe ricevuto 257 lire e 13 soldi sulle due parti reddituum Monterii Cece. In un documento del 30 giugno 1221, in seguito all’appalto della zecca a una società di mercanti senesi e volterrani, ai quali Pagano concesse anche l’uso delle argentiere a soddisfacimento dei loro crediti, il vescovo protestò per farsi restituire de lucro montis de Monterio et moneta et argenteria, fecimus contra nostrum velle.

Dall’estrazione alla coniazione

Ma come veniva organizzato l’intero ciclo di lavorazione dei metalli monetabili? Quando e dove si concludeva? Innanzitutto è utile ricordare che tutte le attività, dall’estrazione alla coniazione, coinvolgevano per intero il poggio di Montieri e la popolazione che risiedeva nell’abitato. Dopo l’estrazione, realizzata nelle numerose miniere

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In alto ancora una tavola tratta dal De Re metallica che raffigura la marcatura dei pani d’argento. 1621. Carcassonne, Biblioteca Municipale. A sinistra impronta di sigillo di Pagano Pannocchieschi, vescovo di Volterra (1212-1239), protagonista delle vicende legate allo sfruttamento del sito di Montieri.

scavate sul fianco della collina, il minerale subiva vari processi di riduzione (frantumazione e arrostimento) nei forni fusori costruiti in prossimità dei fossi che, dalla vetta, scendevano a valle. In seguito il metallo estratto – in prevalenza argento, ma anche rame, altrettanto importante per il conio –, esito finale del processo, veniva portato all’interno del borgo, mentre gli scarti o scorie, piú comunemente chiamate «loppe», venivano accumulate immediatamente a valle del borgo. I pani di metallo, sia d’argento che di rame, erano infine portati nell’edificio della zecca, dal quale, al termine di un lungo ciclo di lavorazione, uscivano sotto forma di monete, pronte per essere immesse nel circuito economico. I pani, in particolare, dopo il processo di coppellazione – grazie al quale si separava l’argento dal piombo –, veluglio

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essere state sgrossate con una lima per ottenere una superficie piana lavorabile. Il conio di martello (detto torsello o puntello nelle fonti medievali italiane), soggetto alla pressione diretta dei colpi, si rompeva prima del conio di incudine (pila): per questo, in fase di preparazione dei conii, venivano predisposte un numero maggiore di copie del primo rispetto al secondo. I conii medievali erano apparentemente costituiti da un corpo unico, ma, in realtà, formati generalmente da due parti, con la faccia in acciaio su corpo in ferro. Per questo motivo nelle zecche medievali è documentata una produzione dei conii in due fasi da parte di maestranze diverse: nella prima si preparavano i «ferri» e nella seconda questi venivano consegnati agli incisori, per il lavoro piú delicato dell’incisione. I vecchi conii non piú riutilizzabili venivano distrutti e se ne recuperava

pertanto il corpo di ferro per realizzare nuovi conii, asportando l’estremità di acciaio che portava inciso il tipo e preparando una nuova incisione. Come i metalli preziosi, e forse ancor piú preziosi di questi, i conii erano custoditi gelosamente: il loro furto, infatti, implicava il pericolo di frodi e falsificazioni. In qualche circostanza i conii potevano essere scambiati anche per realizzare monete simili in regime di accordi tra zecche diverse oppure essere prodotti in regime accentrato, per essere poi distribuiti alle officine periferiche. In alto e a sinistra esemplari di conii di Massa Marittima, conservati nel Museo Archeologico della stessa Massa Marittima e nel Museo Civico di Volterra.

l’effigie desiderata (vedi box in queste pagine): i pezzi battuti venivano per un’ultima volta controllati, saggiati e pesati dai saggiatori e, infine, consegnati a chi aveva portato il metallo nella zecca.

Una miniera, molti interessi

nivano valutati dai saggiatori per determinarne il giusto valore intrinseco. In seguito i fonditori li fondevano insieme al rame per creare barre di mistura con la percentuale necessaria per il conio voluto. Le barre venivano battute, ridotte in lastre e passate ai tagliatori, i quali, servendosi di grosse cesoie, le tagliavano in strisce e successivamente in quadrelli; questi passavano nelle mani degli affilatori, che li stondavano, ricavandone i tondelli, che venivano poi rifiniti per ottenere un nominale del peso voluto. I saggiatori verificavano poi che il peso e la lega dei tondelli rispettassero il contratto d’appalto e in seguito li passavano agli imbianchitori, che ne ravvivavano il colore della superficie con il tartaro o l’allume. Se i tondelli non erano idonei, venivano scartati e quindi rifusi. Nell’ultimo passaggio, i tondelli venivano consegnati ai monetieri, che li coniavano a martello con

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Quando la Repubblica di Siena coniò la sua prima moneta, il denaro, la cui esistenza è attestata nelle fonti scritte dal 1181, l’argento proveniva sostanzialmente da Montieri. Già qualche anno prima, però, tra il 1177 e il 1178 – periodo che coincide con l’organizzazione dell’apertura di un’officina della zecca –, il governo senese aveva intensificato le ricerche di nuove miniere nell’area metallifera, soprattutto nei siti di Miranduolo, Batignano, Montorsaio e Montebeccari. Sforzi senza dubbio dettati dalla necessità di coniazione. Tuttavia, a quel tempo, gran parte delle miniere dell’area erano in mano ai vescovi di Volterra, che ne avevano acquisito la proprietà sin dal IX secolo, per volere di Alberto, marchese di Toscana. Siena poté rilevarne una parte solamente nel 1137, quando il vescovo volterrano Aldemaro cedette, in cambio di alcune pievi, metà del castello e le annesse argenterie al vescovo senese Ranieri; nel 1177 poi, il popolo senese, rettosi a Repubblica, ottenne dal conte Tedici di Frosini anche le miniere di Montebeccari e altre limitrofe. Queste acqui-

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miniere e monete sizioni accrebbero le brame dei Senesi su quel territorio, innescando una lunga lotta che, nel corso del XIII secolo, portò al razionamento della proprietà dei vescovi volterrani su Montieri a vantaggio della confinante Repubblica senese. In particolare, due episodi garantirono il possesso ai Senesi di quelle miniere. Nel 1243, l’imperatore Federico II era in viaggio presso Viterbo e, avendo necessità di denaro, tolse al vescovo di Volterra le miniere di Montieri e le cedette in appalto per due anni a un mercante fiorentino, Bentivegna d’Ugolino; quest’ultimo, in cambio della somma di 11 000 lire di denari pisani minuti, avrebbe avuto la licenza di coniare in tale luogo monetam miliarensium, sul modello di quella che si batteva nella zecca di Pisa. La parte delle miniere detenuta dai Senesi, il cui possesso era stato confermato dal nonno dello Stupor mundi, Federico I Barbarossa, non fu invece toccata dall’imperatore. Effetti ancor piú rilevanti ebbero poi gli ingenti prestiti di denaro concessi da alcune famiglie senesi ai vescovi volterrani; somme che in breve tempo raggiunsero entità impressionanti e sempre piú soffocanti. Quando

divenne vescovo di Volterra Ranieri I degli Ubertini, i castelli, le terre e le stesse miniere non erano già piú nelle disponibilità di quella diocesi: tutti i beni erano stati infatti ceduti o sequestrati dalle compagnie mercantili senesi degli Arzocchi e dei Cittadini, e per una parte anche dalla badía di S. Galgano, come pegno dei loro crediti precedentemente contratti col vescovo Ildobrandino.

Il castello e le cave come garanzia

Nel 1253, quindi, per cercare di riscattare parte dei territori sequestrati, il vescovo – con l’autorizzazione di papa Innocenzo IV – contrasse un mutuo di 6000 marche d’argento dalle società bancarie dei Bonsignori e Tolomei, concedendo loro quale garanzia la gestione del castello e delle cave d’argento di Montieri. Resosi conto dopo poco che non sarebbe piú riuscito a onorare l’impegno, si vide costretto a cedere molte proprietà della diocesi volterrana nel contado, tra cui anche il borgo e le argentiere di Montieri che passarono definitivamente in mano ai Tolomei. Dalla metà del XIII secolo in poi, le relazioni tra la Repubblica di Siena e i vescovi di Volterra non furono

le monete di montieri

Al tempo del «denaro lucchese» Nel periodo in cui è attestata una zecca a Montieri, cioè dal 1216 secondo le fonti, i vescovi di Volterra controllavano gran parte del distretto minerario delle Colline Metallifere. Secondo recenti e plausibili interpretazioni, i presuli ricoprivano diversi ruoli nel ciclo produttivo dell’argento: imprenditori delle miniere controllate, concessionari delle attività minerarie, collettori di metallo monetabile e autorità emittenti moneta. In quest’ultima veste essi avrebbero fatto battere moneta sul modello di quella in auge in quel momento, ovvero il «denaro lucchese», piuttosto che introdurre un nuovo tipo a nome proprio. L’atelier monetale lucchese, infatti, è l’unico presente sul mercato all’inizio del XII secolo ed è anche il produttore della valuta ufficiale di tutta l’Italia centrale, almeno fino all’ultimo quarto del secolo successivo, quando fanno

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la comparsa i prodotti delle officine di Pisa e Siena. In realtà, sembra che Pisa, ricevuto il diritto di battere moneta nel 1155 dall’imperatore, abbia prodotto a sua volta denari a imitazione di quelli di Lucca sino al 1181. La notizia che quella città non fosse l’unica nella regione a emettere moneta sul tipo lucchese in quel periodo la ricaviamo dalle parole minacciose di papa Adriano IV, che arrivò addirittura a proibire omnibus civitatibus Tusciae, sub fortissimo anathemate, monetam Lucensem cudere. Non sappiamo se il riferimento papale fosse diretto anche ai vescovi di Volterra che coniano a Montieri: siamo però certi che la

moneta volterrana fece la prima apparizione sul mercato già nel 1165, svariati anni prima della concessione imperiale di battere moneta (1189). Sebbene allo stato attuale non si sia arrivati a identificare i denari volterrani tra le tipologie lucchesi note in numismatica, l’indagine archeometrica su quattro monete lucchesi provenienti dallo scavo del castello di Montemassi, località non molto distante da Montieri (condotta dal Dipartimento di Scienze della Terra di Firenze in collaborazione con quello di Archeologia dell’Università luglio

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A destra Volterra. La facciata del Palazzo dei Priori. Qui sotto un grosso senese. Nella pagina accanto un gruzzolo di denari lucchesi.

di Siena), ha attestato che il contenuto metallico di questi esemplari è compatibile con quello proveniente dai giacimenti delle Colline Metallifere. Ciò permette di affermare con ragionevole certezza che il metallo estratto in quest’area raggiungesse almeno due atelier: quello di Lucca e quello dei vescovi di Volterra, che rappresentavano le autorità emittenti moneta. È tuttavia importante sottolineare che, nel caso in cui i vescovi volterrani fossero stati unicamente i concessionari minerari, ovvero i gestori delle miniere e collettori di metallo monetabile, la destinazione finale dell’argento sarebbe spettata nella totalità all’autorità emittente lucchese in qualità di unico committente.

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piú turbate a causa delle miniere di questa località che, una dopo l’altra, furono prese in gestione da alcune delle piú importanti famiglie magnatizie senesi. La Repubblica, infatti, non si occupava direttamente dell’estrazione dei metalli preziosi, ma, sviluppando efficienti sistemi di gestione e controllo, preferiva appaltarla a privati, riuscendo cosí ad assicurarsi proventi sicuri e totalmente esenti da spese. Ne è un esempio il caso citato da un documento del 1262, secondo il quale Pellegrino di Martino e il mercante senese Fetto di Bencivenne ricevono in affitto dal Comune di Siena, per 810 lire, la metà dei proventi del castello di Cugnano e un terzo di quelli di Monte Ciriota. I due, in realtà, sono intermediari che operano per conto di una società di capitale della quale fa parte Neri di Palmerio Raynoni, che fornisce la metà della somma da anticipare al Comune, mentre l’altra metà è assicurata per un quarto da un gruppo di soci e per il restante da altri due soggetti. Qui sopra un grosso fiorentino. Al dritto, l’insegna cittadina del giglio; al rovescio, san Giovanni Battista.

Leggi e regolamenti

I lavori minerari erano normati secondo statuti. Massa Marittima, in particolare, nel Duecento, fu la prima città italiana a redigere alcune leggi, o piú precisamente regolamenti, inerenti le modalità di estrazione dei minerali, gli Ordinamenta super arte fossarum rameriae et argenteriae civitatis Massae, che costituivano la IV distinzione degli Statuti della città. Anche Siena, quando ebbe sotto la sua giurisdizione un discreto numero di distretti

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miniere e monete minerari, ne seguí l’esempio, tra il 1322 e il 1334. A differenza di quanto accadeva nel XII secolo – quando i conti, i marchesi e i vescovi investiti del feudo estraevano per proprio conto i metalli nei territori assegnati su concessione imperiale –, queste leggi stabilivano alcune regole per tutti coloro che avessero voluto ricercare metalli preziosi nel territorio della Repubblica: la proprietà non si estendeva al sottosuolo; il proprietario della superficie aveva diritto a un risarcimento per i danni provenienti da tale attività; una parte del minerale estratto era riservata di diritto allo Stato. Si assistette, cosí, alla liberalizzazione dello sfruttamento dei giacimenti a favore di soggetti legati ai Comuni cittadini, come Siena e Massa Marittima, che gestirono la produzione nel sito per poi rivendere a loro volta il minerale nei luoghi dove veniva completato il ciclo.

Gli anni del declino

L’abbandono di molti castelli minerari e l’inizio del tracollo delle attività estrattive della Maremma, a partire dalla metà del XIV secolo, vanno verosimilmente ricondotti a piú fattori convergenti. Il primo fu la pesante crisi demografica che si verificò in Europa dal 1347, e un anno dopo anche in Italia, a causa dello scoppio della terribile epidemia di peste. Contestualmente, la diffusione in Toscana dell’uso dell’energia idraulica nelle lavorazioni metallurgiche determinò la paralisi dell’attività delle aree che ancora avevano nel lavoro umano la fonte primaria di energia. Da ultimo vi furono l’esaurimento dei filoni minerari e la crescente concorrenza delle miniere tedesche, come Goslar nello Harz e Freiber in Sassonia, che potevano produrre quantitativi superiori d’argento a minor costo. Da questo momento e fino al XV secolo, l’attività estrattiva in Toscana sembrò affievolirsi e pochi furono i nuovi giacimenti scoperti. È possibile che, nel 1472, Lorenzo il Magnifico avesse patrocinato la conquista di Volterra anche perché direttamente interessato all’acquisizione dei giacimenti di allume e alle miniere metallifere del suo contado, in quanto membro di una società che operava nei siti di Poggio Guicciardino e Pietrarossa, presso Campiglia Marittima. Il Magnifico inoltre, nel 1488, si preoccupò di estendere la propria influenza anche sulla produzione siderurgica, acquistando la «Magona» di Pietrasanta, vale a dire l’impresa commerciale che riforniva di minerale ferroso gli opifici siderurgici di Versilia, Lunigiana e Garfagnana. Tuttavia, soltanto con l’avvento di Cosimo I i Medici perseguirono un progetto di controllo sistematico su tali attività, giudicate di grande rilevanza strategica per la politica militare ed economica del granducato. Con il dicembre 1555, quando le sorti della guerra con la Repubblica di Siena volgevano a favore di Cosimo I, a Campiglia Marittima venivano poste le basi del pas-

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saggio da una iniziativa pionieristica e sostanzialmente modesta a una impresa mineraria paragonabile, per l’elevato numero di addetti e la modernità degli impianti, a quelle coeve allestite nei distretti argentiferi dell’Europa centrale. Entro il 1561 le iniziative condotte nel terriorio massetano non furono piú rivolte esclusivamente alla produzione di allume, come già sperimentato in passato, ma anche a quella piú tradizionale del vetriolo (un solfato idrato di rame che veniva trattato per ricavarne il metallo nativo, n.d.r.). Rimangono tuttavia ancora da indagare gli sviluppi di queste manifatture, nonché le ripercussioni di tali attività sulla società locale, che caratterizzarono questa nuova stagione mineraria rispetto a quella ben documentata degli ultimi secoli del Medioevo. Ringrazio l’archeologo Jacopo Bruttini e l’assessore del Comune di Montieri, Mariaelena Signorini, per la disponibilità dimostrata in occasione della stesura del presente lavoro. F

Da leggere Giovanna Bianchi, Jacopo Bruttini, Luisa Dallai, Sfruttamento e ciclo produttivo dell’allume e dell’argento nel territorio delle Colline Metallifere grossetane, in Risorse naturali e attività produttive: Ferento a confronto con altre realtà (Atti del II Convegno di Studi in memoria di Gabriella Maetzke, 27-28 aprile 2010), Università di Studi della Tuscia-DISBEC, Viterbo 2011 Jacopo Bruttini, Francesca Grassi, Archeologia urbana a Montieri: lo scavo dell’edificio de «Le Fonderie» in via delle Fonderie, on line: www.fastionline.org/docs/ FOLDER-it-2010-199.pdf Roberto Farinelli, Riccardo Francovich (a cura di), Guida alla Maremma medievale. Itinerari archeologici nella provincia di Grosseto, Nuova Immagine, Siena 2000 Roberto Farinelli, La produzione di vetriolo e allume a Massa Marittima nel XVI secolo, in Mélanges de l’École française de Rome-Moyen Age 121/1, Roma 2009; pp. 69-82 Massimo Sozzi, L’agontano di Massa di Maremma, in Lucia Travaini (a cura di), L’agontano. Una moneta d’argento per l’Italia medievale (Convegno in ricordo di Angelo Finetti, 11-12 ottobre 2001), Centro Stampa della Regione Umbria, Perugia 2003; pp. 111-140 Massimo Sozzi, Alcune figure storiche del Terziere di Cittanuova, in Giulia Galeotti (a cura di), Cittanuova. Frammenti di Storia, Debatte Editore, Livorno 2015; pp. 92-108 Beatrice Paolozzi Strozzi, Giuseppe Toderi, Fiorenza Vannel Toderi, Le monete della Repubblica Senese, Monte dei Paschi, Siena 1992 Lucia Travaini, Alessia Bolis (a cura di), Conii e scene di coniazione, Quasar, Roma 2008 luglio

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La riscoperta del diritto

di Furio Cappelli

Lo studio del sistema giurisprudenziale romano non fu un fenomeno soltanto accademico: notai e doctores furono infatti fra gli artefici principali dell’evoluzione della società comunale e ne divennero spesso anche i cronisti

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a civiltà comunale è strettamente legata a un’istruzione diffusa, che consente il largo impiego della scrittura su ogni fronte. Si sviluppa cosí una cultura dello scritto che spazia dagli aspetti pratici all’elaborazione letteraria piú complessa, dall’atto notarile sino alla compilazione che racconta la storia della città. Lo sviluppo degli studia (plurale di studium; vedi box a p. 48), sul gradino piú alto dell’istruzione, si legò alla riscoperta del diritto romano, in base alle esigenze sempre piú vive di rafforzare l’attività legislativa e giudiziaria delle città. Attraverso lo studio del diritto, non si mirava soltanto a risolvere questioni di natura pratica, ma a plasmare le istituzioni cittadine sul modello della res publica romana.

Un corpus monumentale

Fondamentale fu la sempre piú ampia diffusione del Corpus Iuris Civilis, curato dall’imperatore Giustiniano negli anni 533-554. Tra le quattro parti di questa enorme raccolta di leggi, il Digesto, in particolare, venne molto studiato, poiché presentava in modo sistematico estratti di sentenze, particolarmente utili per affrontare l’applicazione delle norme. Già nel 1070 un manoscritto del Digesto è presente a Pisa, che fu l’apripista nel rinnovamento degli studi giuridici. Bologna acquisí ben presto un ruolo di primo piano in questo set-

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Nella pagina accanto illustrazione che raffigura una lezione di diritto all’Università di Bologna, da un manoscritto italiano del XV sec. Bologna, Museo Civico Medievale.

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In alto la cosiddetta Pietra della Pace, un rilievo in marmo scolpito per ricordare la riconciliazione tra il Comune bolognese e gli studenti. 1322. Bologna, Museo Civico Medievale.

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civiltà comunale/7 Piccolo glossario comunale TUDIUM il termine veniva S adottato per indicare un’attività di istruzione superiore. Quando lo studium assumeva un assetto istituzionale, con un’organizzazione regolata da uno statuto e aperta a un ampio numero di studenti, anche forestieri, si adottava l’espressione studium generale o universitas.

Particolare di una miniatura raffigurante un notaio, dal Libro della Corporazione dei Notai. XIV sec. Bologna, Museo Civico Medievale.

A destra pietra tombale del sepolcro di Bonandrea de’ Bonandrei, raffigurante gli studenti all’Università di Bologna. 1333. Bologna, Museo Civico Medievale.

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tore grazie all’opera del giudice Irnerio, attivo negli anni 1112-1125, del quale ci rimangono le sole glosse, ossia le annotazioni apposte al margine dei testi legislativi. Era un professionista che si prestava agli studi giuridici, ma ben presto si formarono doctores in materia di diritto che anteponevano l’insegnamento all’attività sul campo. Tali furono i «quattro dottori» (Bulgaro, Martino, Ugo, Jacopo) che, in occasione della dieta di Roncaglia (novembre 1158), formularono un parere a favore di Federico Barbarossa in merito alle sue pretese fiscali (iura regalia) sulle città padane. I doctores si appellarono al diritto romano come a uno ius commune, che doveva cioè essere riconosciuto da tutti, il che comportava la sua superiorità sullo ius proprium, vale a dire sul diritto esercitato dalle città sulla base delle proprie consuetudini. Il consiglio fornito all’imperatore fruttò un privilegio che pose le premesse per lo statuto dell’Università di Bologna. Questa posizione di principio

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cosí netta venne poi progressivamente superata grazie a un’elaborazione sempre piú attenta delle leggi e dei regolamenti, in modo che le norme locali (presto raccolte negli statuti municipali) fossero indirizzate verso livelli di qualità degni di un codice.

I centri di studio

D’altronde, sin dagli anni Trenta del XII secolo, una realtà come Milano, sia pure sprovvista di una università, poteva vantare legislatori che si basavano sul Corpus giustinianeo, dapprima per la risoluzione dei processi, e in seguito per elaborare le norme statutarie. La già citata Pisa ma anche Pavia, a loro volta, avevano una tradizione di studi di diritto romano sviluppata prima dell’affermarsi di Bologna. Centri eminenti di studio del diritto sorsero a Modena, Piacenza e Mantova, mentre Federico II in persona fondò, nel 1224, l’Università di Napoli con l’intento di spezzare l’egemonia felsinea. Di fianco alla presenza «dotta» dei giudici, va poi rimarcata l’atti-

vità «tecnica» dei notai, presenti in misura davvero considerevole. Alla fine del Duecento se ne contavano mediamente 8/10 ogni 1000 abitanti. La matricola dei notai di Bologna registra 300 iscritti nel 1219, che diventano 1200 alla fine del secolo. Per essere cosí numerosi, essi non si limitavano a redigere gli atti privati, ma svolgevano diverse mansioni nei quadri dell’amministrazione pubblica. Potevano assumere una forte visibilità sul piano politico e presentarsi anche come letterati. Per esempio, il notaio Rolandino da Padova, dopo aver conseguito una formazione professionale di base, si recò a Bologna per apprendere l’ars dictaminis (ossia la specializzazione nel comporre lettere e documenti di cancelleria) sotto l’autorevole guida di Boncompagno da Signa. Tornato nella sua città, assunse il ruolo di cancelliere comunale, insegnò grammatica e retorica alla facoltà delle Arti e proseguí nel 1260 una cronaca iniziata dal padre (notaio anch’egli), nella qua(segue a p. 55)

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Bologna, città universitaria La Piazza Maggiore individua il punto focale di Bologna, là dove si incrociavano le arterie principali della città romana: all’antico cardo maximus corrisponde l’attuale via Indipendenza, su cui prospetta la cattedrale di S. Pietro; al decumanus maximus, che faceva da percorso alla via Emilia, corrisponde via Rizzoli, in fondo alla quale, dopo molteplici trasformazioni urbanistiche, campeggiano isolate le due celebri Torri (dei Garisendi e degli Asinelli). Proprio in quel punto si situava un altro fulcro della città

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medievale, il carrobbio, vale a dire l’incrocio tra quattro strade di spicco, e lí si situava il mercato. L’estensione originaria del nucleo urbano, cosí come venne tramandata ai secoli del pieno Medioevo, era assai ridotta rispetto a quella conseguita tra il 1240 e il 1327, con la realizzazione dell’ultima cinta muraria (la circla). Per la verità, la città altomedievale sembrava un piccolo tassello anche a confronto con la superficie racchiusa dalla cinta intermedia dei torresotti (cosí venivano chiamate le sue porte-torri), realizzata tra il 1177 e il 1205. Nell’assetto antico, l’isolato dell’attuale Piazza Maggiore e i suoi dintorni occupavano tutta la superficie disponibile. Basti pensare che proprio dove sorgono le due torri era presente, fino al XII secolo, una porta urbica, la Porta

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Sulle due pagine disegni del centro storico di Bologna. In alto, uno scorcio del Palazzo del Podestà; a sinistra, Piazza Maggiore e Piazza del Nettuno.

Ravegnana (rivolta cioè verso Ravenna). La città terminava in quel punto. Secondo una tradizione, per «fortificare» le quattro porte della cinta originaria, sant’Ambrogio in persona avrebbe innalzato altrettante croci in pietra. In ricordo di quelle originali, ancora in età napoleonica erano presenti quattro edicole a forma di ciborio, con un tetto piramidale su colonne, ciascuna delle quali racchiudeva una croce scolpita. L’esemplare di Porta Ravegnana, in pietra calcarea e tuttora conservato nella basilica di S. Petronio, sostituí una croce già attestata nel 1041. Scolpita su entrambi i lati, è un pregevole lavoro realizzato nel 1159 da Pietro di Alberico in collaborazione con il padre, come informa l’iscrizione di corredo. Risale a un momento di svolta nella storia cittadina, quando Bologna, grazie ai suoi esperti di diritto, si apprestava ad assumere una posizione di alto prestigio. Tradizionalmente legata alla memoria di sant’Ambrogio, la croce di Porta Ravegnana è oggi custodita nel sito di una chiesa dedicata proprio all’illustre presule milanese. La basilica di S. Petronio occupa infatti l’area della curia sancti Ambroxii.

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Era la prima sede della magistratura comunale: lí, infatti, si riuniscono i consoli della città nel 1123, come risulta dalla piú antica testimonianza che li ricorda. La piazza era ancora di là da venire, ma era già ben chiara la volontà di appropriarsi di uno spazio alternativo all’area di pertinenza del vescovo. S. Ambrogio continuò a essere un fulcro di «religiosità civica» finché non venne sostituita in questa funzione proprio dalla basilica di S. Petronio, iniziata nel 1390 in onore del primo vescovo della città, un patrono prescelto dal popolo per essersi coraggiosamente contrapposto alle prepotenze del potere imperiale. Frattanto, nel 1178 il Comune trasferí la propria sede nell’area dell’attuale Archiginnasio, a sud della piazza, utilizzando le case appartenute al giurista Bulgaro, uno dei quattro dottori intervenuti a Roncaglia vent’anni prima. Dato che le case dei docenti, in origine, erano anche il luogo dove essi impartivano le lezioni, il Comune bolognese occupò cosí un’antica sede «protouniversitaria». Per assistere alla nascita del Palazzo Comunale e alle premesse della piazza occorre attendere l’anno 1200. La prima sede definitiva del Comune fu l’attuale Palazzo

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Uno scorcio del cortile interno dell’Archiginnasio (1561-1563), che fu sede universitaria fino al 1803 e sorge sul luogo in cui erano ubicate le case del giurista Bulgaro, già adattate nel 1178 a sede del Comune.

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del Podestà, che nonostante le molteplici trasformazioni, conserva le componenti essenziali del primo assetto. Il portico su piazza, in origine ad archi acuti su colonne, fu immediatamente punteggiato dai banchi su cui i notai redigevano i loro atti. La piazza stessa fu ideata anche in funzione delle esigenze del mercato, che gli spazi del carrobbio – sia pure estesi a tutta la direttrice dell’attuale via Rizzoli (chiamata in precedenza via del Mercato Vecchio) – non riuscivano piú a contenere. Proprio nell’ambito del palazzo, nel 1208, alcuni spazi vengono dati in affitto per la vendita di generi alimentari. Nel mezzo della struttura, come si vede tutt’oggi, correva un passaggio voltato, lungo le cui pareti si snodavano i banchi dei commercianti e dei cambiatori. Il sottopasso consentiva il collegamento diretto della piazza con il mercato del carrobbio, passando sotto la Torre dell’Arengo, forse in origine coronata da una struttura lignea. La torre attuale, edificata

nel 1252, racchiude il grande campanazzo in bronzo, piú volte rifuso, da ultimo ricollocato dall’illustre ingegnere comunale Aristotele Fioravanti (1453; vedi «Medioevo» n. 205, febbraio 2014). Al primo piano, cui si giungeva in origine da due scale esterne ad aggetto sui lati corti dell’edificio, era presente la tipica grande sala «polifunzionale» (65 x 15 m), con i banchi dei giudici alle pareti e gli spazi preposti alle adunanze dei consigli (generale e speciale). Un balcone sporgente a metà facciata era destinato agli oratori che intendevano rivolgersi al pubblico, riunito all’occorrenza nella piazza sottostante. Con il passare degli anni, il moltiplicarsi degli uffici richiese un ampliamento dell’edificio. Nel 1245-46 risulta cosí terminato il palatium novum, che si compone degli edifici oggi noti come Palazzo di re Enzo (dove fu imprigionato il figlio di Federico II, dal 1249 al 1272) e Palazzo del Capitano del Popolo. Quest’ultimo, addossandosi alla Torre dell’Arengo, venne ad arricchire lo schema del passaggio voltato, che assunse cosí una

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conformazione a croce (a quattro bracci) con la torre stessa al centro. Nelle nuove sale trovarono sistemazione il Consiglio del Popolo, il Collegio degli Anziani e Consoli, i tribunali del Capitano del Popolo. Gli ambienti minori furono destinati, tra l’altro, alle residenze degli ufficiali forestieri e del loro seguito. Nel 1293-94 si realizza in piazza l’attuale Palazzo Comunale, chiamato in origine «delle Biade», perché lí venivano custodite le scorte pubbliche di grano, da immettere nel mercato «a prezzo politico» in caso di carestie o di speculazioni. L’edificio è oggi detto «d’Accursio», dal momento che lí sorgeva in origine la residenza degli Accursi. A questa famiglia apparteneva il giurista Accursio (1182-1258), oriundo della campagna fiorentina, la cui Magna glossa, dedicata al Corpus giustinianeo, ebbe grande diffusione. Celebrato come autorità somma in materia, come pure bersaglio di critiche

feroci da parte di taluni suoi colleghi, ebbe una reputazione solidissima, pur macchiata dall’onta di aver fatto ricorso all’usura e alla corruzione con i suoi studenti. Suo figlio Francesco, anch’egli giurista, eresse per sé e per il padre il solenne monumento funebre presso il convento locale di S. Francesco (1291-93). L’opera rientra in un gruppo di sepolture illustri di stile tipicamente bolognese, in forma di edicola o tempietto,

Qui sotto veduta esterna dell’abside della basilica di S. Francesco con, in primo piano, una delle Tombe dei Glossatori, quella di Odofredo Denari. 1268.

A sinistra particolare della tomba di Rolandino dei Romanzi, appartenente anch’essa al gruppo dei sepolcri dei Glossatori. 1284.

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civiltà comunale/7

A destra e in basso due immagini della tomba di Rolandino dei Passaggeri, in piazza San Domenico. 1300. Sulla lastra tombale (in basso) si distingue il rilievo con una scena di lezione universitaria.

con un tetto piramidale che sormonta l’arca ed è retto da una o due serie di colonnine. Era la forma prediletta proprio per eternare le figure dei doctores, tant’è che le arche oggi osservabili dietro l’abside di S. Francesco (dove c’era il cimitero conventuale, ora trasformato in una piazza), sono note come Tombe dei Glossatori. Il gruppo degli illustri defunti, di fianco ad Accursio e Francesco, annovera Odofredo (1268), giurista, e Rolandino dei Romanzi (1284), giureconsulto. La scelta di S. Francesco come sfondo per questo gruppo di mausolei era connessa all’importanza del luogo sotto ogni riguardo. In particolare, il convento dei Minori individuava a Bologna uno studium teologico di tutto rispetto e creava quindi un nesso naturale tra religiosità, orgoglio cittadino e cultura. La chiesa stessa era stata finanziata dal Comune, e i Francescani collaboravano spesso con le autorità cittadine in veste di archivisti e tesorieri. La grandezza e la particolare eloquenza architettonica dell’edificio alludevano peraltro allo stile delle cattedrali dell’Île-de-France, prima fra tutte Notre-Dame di Parigi, in modo da ribadire l’autorità di Bologna come città universitaria per eccellenza. Nell’altro illustre cimitero conventuale, a S. Domenico, il canonista Egidio Foscarari (1285) optò per una forma piú semplice, ma volle impreziosire la propria tomba con una lastra di reimpiego, un arco di ciborio di età carolingia, secondo un gusto per l’antichità che suggeriva rimandi alle tombe illustri della Roma papale. Sempre nell’attuale piazza S. Domenico si segnala poi l’arca di Rolandino Passaggeri (1300), la piú grande del gruppo. Notaio e docente di arte notarile, rivestí un ruolo rimarchevole anche nella vita politica cittadina: in particolare, Rolandino rese possibile la tenuta di un accordo tra il popolo e la fazione filoguelfa dei nobili Geremei, consentendo la cacciata dei Lambertazzi (1274) e l’adozione di una severa politica antimagnatizia. Di fianco a un potente beccaio, Giovanni Somma, controllava peraltro

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una milizia, la Società della Croce, organizzata per fare muro contro le forze ghibelline dei fuoriusciti. Ma nel ricordo da affidare alla tomba, egli ritenne prioritario sottolineare la sua immagine di docente, ed è per questo che i rilievi del sarcofago lo ritraggono in vita solo e soltanto nel «semplice» atto di insegnare a un gruppo di allievi. Le sepolture trecentesche dei doctores, di cui si osserva una significativa serie nel Museo Civico Medievale, sviluppano proprio l’aspetto figurativo della memoria e si attengono essenzialmente a due schemi. Secondo una modalità che lo storico Giuliano Milani definisce «piú umile», il professore si rivolge direttamente alla schiera dei suoi allievi e, in tal caso, si trova a lato della scena ed è ritratto di profilo, come nel citato sarcofago del Passaggeri. Ma vi sono numerosi esempi di «grandigia» (ossia di ostentazione di autorità), nei quali il doctor si staglia al centro, seduto sullo scranno come se fosse un sovrano in trono, rivolto direttamente allo spettatore. Gli allievi si dispongono ai lati, e la convergenza delle linee dei banchi da sinistra e da destra accentua la centralità dell’impostazione. Ancora in tema di università e sempre restando nelle sale del Museo di Palazzo Ghislardi-Fava, un documento assai eloquente è la Pietra della Pace, realizzata nel 1322. Questa volta a occupare la posizione centrale è la tipica raffigurazione della Madonna in trono con il Bambino. Le fanno da ala due gruppi di studenti che si mostrano in ginocchio nell’atto di riverirla. Le iscrizioni individuano distintamente ogni personaggio: non si tratta, infatti, di studenti genericamente intesi, ma dei rappresentanti della categoria. Essi furono nell’occasione protagonisti di una dura contrapposizione con il Comune, per via di una condanna a morte eseguita a danno di un collega. La lastra istoriata celebra la cessazione di ogni ostilità grazie a un accordo di pace stabilito tra il Comune e gli studenti bolognesi. Mettendo in pericolo l’esistenza stessa dell’università, essi ottennero una memorabile vittoria.

In alto studenti ascoltano e trascrivono le lezioni del maestro in un particolare di una formella marmorea dalla tomba di Giovanni da Legnano, celebre giurista morto nel 1383. Opera di Jacobello e Pierpaolo delle Masegne. Fine del XIV sec. Bologna, Museo Civico Medievale.

le si registrano gli eventi di spicco nella storia della città e che venne presentata sotto forma di pubblica lettura di fronte ai docenti universitari, in modo da ottenere un suggello solenne di autenticità. D’altra parte cento anni prima, a Genova, i notai furono addirittura incaricati di scrivere la storia della città. Il nobile Caffaro – che fu console, ambasciatore, capitano della flotta – compose una cronaca che partiva dall’anno 1100 (Annales Ianuenses). Anche nel suo caso vi fu una presentazione pubblica dell’opera, nel 1152, di fronte al consiglio comunale. La cronaca fu adottata come compilazione storica ufficiale, e se ne dispose la continuazione affidandone la cura proprio ai notai comunali, che se ne occuparono fino al 1293.

Da leggere François Menant, L’Italia dei comuni (1100-1350), Viella, Roma 2011 Franco Franceschi, Ilaria Taddei, Le città italiane nel Medioevo. XII-XIV secolo, Il Mulino, Bologna 2012 Giuliano Milani, Bologna, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2012 Francesca Bocchi, Per antiche strade. Caratteristiche e aspetti delle città medievali, Viella, Roma 2013

NEL PROSSIMO NUMERO ● Case, torri e famiglie

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essere leader nel medioevo/6

Enrico,

di Renata Salvarani

imperatore

tragico S S

calzo, con indosso un saio, al gelo, chiuso fuori dal castello di Canossa per tre giorni e tre notti a implorare il perdono da Gregorio VII: cosí, nella Vita Mathildis, Donizone ritrae l’imperatore Enrico IV, sottolineandone l’impotenza e l’umiliazione, in quel gennaio del 1077, che lo vide protagonista di un episodio destinato a diventare la rappresentazione emblematica della sottomissione al papato. Il testo, in realtà, ebbe una circolazione molto limitata, ma anche in altre fonti il fatto assunse una valenza che andava ben oltre le implicazioni della penitenza pubblica a cui Enrico si era sottoposto, con la mediazione della contessa Matilde, di Ugo abate di Cluny e di buona parte della corte. Cosí, in un processo di lunghissimo periodo, finí per cristallizzarsi come discrimen simbolico nella percezione dell’imperatore nell’Europa occidentale. Quei piedi nudi nella neve divennero il simbolo della progressiva desacralizzazione del potere imperiale, avviata proprio con la riforma romana gregoriana. Enrico IV non ne fu soltanto un rigido oppositore, ma anche l’oggetto, il centro. In questo sta la drammaticità della sua persona. Egli incarnava la visione della Reichskirche (letteralmente, «Chiesa del regno»), retta dal sovrano, garante dell’unità e della purezza della cristianità; era convinto che sulle spalle, avvolte dal manto imperiale, gravasse l’onere morale di garantire l’ordine e la concordia del mondo, sanciti da Dio e mantenuti grazie a vincoli di autorità e subordinazione. Il fulcro dello scontro fu la leadership. In quali modi ed entro quali limiti l’imperatore poteva e doveva esercitarla? Come si andarono definendo i poteri? A chi spetta conferire e trasmettere il comando? Quali sono le fonti della sua legittimità?

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Sebbene sia passato alla storia soprattutto per l’umiliazione patita a Canossa, nel 1077, Enrico IV cercò di far valere con decisione le sue prerogative di sovrano del Sacro Romano Impero. Tuttavia, dopo essersi logorato nella lotta contro il papato, finí i suoi giorni in circostanze drammatiche, ingannato e abbandonato al suo destino dal figlio

Enrico IV succedette al padre quando aveva sei anni, nel 1056, ma già a quattro aveva ricevuto la corona di re di Germania: personalità e regalità in lui dovettero compenetrarsi, con una difficile presa di coscienza emersa già durante l’infanzia, quando sua madre, Agnese di Poitiers, mantenne la reggenza. Nel tentativo di non inimicare il figlio ai principi e ai grandi feudatari, cedette loro ampie prerogative e margini di manovra politico-militare. Tale scelta innescò un’accesa rivalità fra i vertici dell’aristocrazia.

Un arcivescovo per tutore

Ottone di Nordheim, in pieno accordo con Annone, arcivescovo di Colonia, arrivò a decidere d’impadronirsi della persona del giovane re per concentrare nelle proprie mani il governo effettivo dell’impero. L’agguato riuscí: nel 1062 Enrico IV fu rapito e portato a Colonia, dove lo stesso arcivescovo curò la sua educazione. Mentre l’imperatrice si ritirava a condurre un’esistenza religiosa, rinunciando a qualsiasi ruolo politico, fu ancora lui ad assumere il governo, prima da solo, poi insieme ad Adalberto, arcivescovo di Brema. Dopo avere compiuto i quindici anni, il giovane prese gradualmente il controllo delle decisioni. Chi lo circondava, e gli stessi prelati di cui si liberò faticosamente, lo giudicavano deciso e spregiudicato. Dopo che la sua Enrico IV a Canossa, 1077, olio su tela di Eduard Schwoiser. 1862. Monaco, Stiftung Maximilianeum. L’artista ha immaginato l’imperatore, vestito solo di un saio, fuori dal castello di Canossa; dopo tre giorni di attesa, papa Gregorio VII infine lo ricevette e cancellò la scomunica comminata nei suoi confronti. luglio

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essere leader nel medioevo/6

Gli imperatori ottoniani e salici Enrico I di Sassonia

l’Uccellatore (876-936) Re di Germania dal 919

Editta = (1) Ottone I (2) il Grande d’Inghilterra (912-973) Re di Germania dal 936 e imperatore dal 962

= Adelaide di Borgogna

=

Enrico I Duca di Baviera

=

Enrico II Duca di Baviera

Liudolfo Duca di Svevia

Matilde

Giuditta di Baviera

Bruno I Arcivescovo di Colonia († 965)

Gerberga (1) = Gilberto di Lotaringia (2) = Luigi IV

Re di Francia

Gisella di Borgogna

Enrico II

lo Zoppo (o il Santo) (973-1024) Imperatore dal 1002

Ottone II

(955-983) Imperatore e re di Germania e Italia dal 973

=

Liutgarda

Teofano di Bisanzio

Ottone III = Adelaide

Enrico di Spira

Berta di Savoia

=

= Corrado il Rosso Duca di Lorena

Ugo Capeto († 996) Re di Francia dal 987

Bruno (papa Gregorio V dal 996) († 999)

Corrado

Guglielmo Vescovo di Strasburgo

Corrado II

=

Agnese di Poitou

=

Ugo il Grande

Ottone di Worms Duca di Svevia e Carinzia

(980-1002) Re di Germania dal 983 e imperatore dal 996

Gisella di Svevia

Edvige

il Salico (990-1039) Re di Germania dal 1024, re d’Italia dal 1026 e imperatore dal 1027

=

Enrico III

il Nero (1017-1056) Imperatore dal 1039

Enrico IV

(1050-1106) Imperatore dal 1056

Enrico V

(1081-1125) Re di Germania dal 1106 e imperatore dal 1111

A destra l’albero genealogico della dinastia salica in un’illustrazione dell’abate benedettino tedesco Ekkehard di Aura. XII sec. Berlino, Staatsbibliothek. Vi compaiono i ritratti di Corrado II, Enrico III, Enrico IV, della sua consorte Eufrasia di Kiev e di Enrico V.

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Convenienze e clientele

Sottomettersi e non pretendere Un testo anonimo, creato nell’abbazia di Farfa, sempre vicina alle posizioni imperiali, pone la questione della lotta per la libertas Ecclesiae sul piano delle convenienze, dimostrando, cosí, come la leadership di Enrico IV si sia basata anche sulla rete delle clientele vassallatiche: «Non è forse una piú saggia concezione della dignità della Chiesa quella di godere della protezione imperiale e di esserle sottomessi con la dovuta devozione, invece di pretendere cose insolite e inaudite, che fanno sorgere liti e contese, nascere odi e contrasti mortali, compiere giuramenti falsi e spargimenti di sangue, vanificando tutti gli sforzi della cristianità? – vi si legge –. Agli inizi della fede cristiana le chiese non avevano beni, ma soltanto di che mangiare e di che vestirsi e questo bastava loro. Oggi, invece, con il diffondersi della religione cristiana, i possessi sono

cresciuti di numero e le chiese hanno cominciato ad avere sotto di sé ai loro ordini clientele armate, conti e uomini di potere». In altre parole, si era creato un vero e proprio sistema che doveva essere difeso. Prosegue infatti: «Se costoro rifiutassero di obbedire al re o all’imperatore questi riceverebbero danni incalcolabili per il loro potere. È giusto quindi che i prelati della chiesa che hanno ricevuto dalle clientele armate il giuramento di fedeltà per concessione dell’autorità regale o imperiale giurino a loro volta fedeltà al re o all’imperatore per sé e per le proprie clientele». In questa prospettiva, la difesa di Enrico IV altro non era che la salvaguardia di interessi diffusi che costituivano la struttura della società.

forza e la sua volontà erano state compresse troppo a lungo, attuò, come in un’esplosione di energia, comportamenti che avrebbero dovuto avvicinarlo alla politica di suo padre, la cui memoria doveva essere stata una sorta di baluardo psicologico e identitario, durante gli anni nei quali era stato sottoposto a tante pressioni. Enrico III, infatti, aveva dimostrato un forte senso del potere monarchico, esercitato in modo accentrato, anche nei confronti della Chiesa: nel 1046 era intervenuto direttamente per porre fine alla compresenza di tre papi, sottraendo l’elezione alle famiglie potenti di Roma e rivendicando per sé il ruolo di garante dell’unità della cristianità. Quella di suo figlio andò affermandosi da subito come leadership politica, connotata idealmente in senso morale e basata su capacità di comando militare. Si definí attraverso eventi che assunsero via via anche valenze simboliche e furono accompagnati da teorizzazioni, polemiche, contrapposizioni ecclesiologiche. Nella sua narrazione Ottone di Frisinga attribuisce il radicamento della riforma gregoriana alle divisioni che laceravano l’impero, sottolineando come Enrico IV fosse stato costretto ad agire su piú fronti, mettendo

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Mosaico policromo raffigurante la Chiesa di Roma, dall’abside della basilica di S. Pietro in Vaticano. XII sec. Roma, Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco.

in atto capacità di comando diversificate: «Il regno era completamente diviso, la maggior parte dei nobili era in aperta ribellione e quasi tutto il territorio era messo a ferro e fuoco». In un sinodo convocato a Worms nel gennaio 1076 aveva fatto dichiarare dai vescovi e principi tedeschi Gregorio VII indegno della tiara. Il papa rispose con un provvedimento che dava la misura dell’insanabile contrasto tra l’ideale della libertas Ecclesiae, quale la concepiva Gregorio VII (vedi «Medioevo» n. 232, maggio 2016), e le strutture dell’impero legate alla Chiesa feudale: Enrico IV fu scomunicato e interdetto dal governo dei regni di Germania e d’Italia.

Una forma estrema di mediazione

La penitenza di Canossa fu una forma estrema di mediazione, che gli permise di riacquistare le proprie prerogative. Le sue intenzioni di quei giorni di gennaio restano sepolte nell’intimo della sua coscienza, ma è certo che poco dopo riprese a combattere. Scontri e battaglie si susseguirono in Germania, dove i principi e parte del clero riformatore gli opposero come re Rodolfo di Svevia. Lo batté sul campo, lasciandolo senza

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essere leader nel medioevo/6 scampo, invece di sottoporsi all’arbitrato del papa, come aveva promesso. Nuovamente scomunicato nel 1080, il sinodo da lui convocato a Bressanone nello stesso anno marcò la rottura piú profonda rispetto a Gregorio VII. «In quella cerimonia gli animi di tutti i presenti si inclinarono facilmente contro la chiesa di Roma, e dal momento che i laici erano stati pungolati con una considerazione sull’onore secolare e i vescovi erano stati spinti dal consiglio dei loro chierici, ai quali da poco lo stesso pontefice aveva proibito il concubinato, seguirono con ardore la volontà del sovrano – racconta ancora Ottone di Frisinga –. Quindi per acclamazione generale annullarono la precedente elezione papale e Guiberto, arcivescovo di Ravenna, chiamato Clemente, tramutato poi in Demente, fu nominato vescovo di Roma col consenso del re. Gregorio VII, dichiarato

falso monaco e stregone fu destituito. Poi, per decisione unanime osarono inviare al vecchio pontefice una lettera piena di insulti e detrazioni, tra i quali si annota: “Come fino a ora dicevi che nessuno di noi è degno di essere vescovo, cosí sappi, che d’ora in poi per nessuno di noi sei degno di essere un apostolo”».

Gli attacchi in Italia

Il 15 ottobre sulle colline di Volta Mantovana, a sud del Lago di Garda, le milizie dei vescovi e dei nobili che sostenevano l’antipapa Guiberto sconfissero le truppe di Matilde di Canossa, che cercava di difendere le posizioni dei gregoriani e aveva deciso di lasciare i suoi beni al Patrimonio di San Pietro. Nel 1083 Enrico IV scese in Italia e marciò su Roma, ma non riuscí a penetrarvi col proprio esercito fino all’anno successivo. Gregorio

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i nemici dell’imperatore

Contro Gregorio e i suoi alleati La difesa di Enrico IV elaborata dal giurista ravennate Pietro Crasso (attivo nella seconda metà dell’XI secolo), come altri testi contemporanei, rimarca il preteso fondamento scritturistico del potere imperiale, ma assume una particolare vivacità perché lo declina rispetto ai nemici dell’imperatore: i patarini, i vescovi riformatori, i Sassoni, tutti aizzati da Gregorio VII, «monaco della sinagoga di Satana». «Che dunque volete, Patarini? – scrive –. Che il regno gli venga da Dio è testimoniato dal profeta Daniele: Il regno appartiene a Dio che lo può dare a chi vuole. Notate bene che non ha detto che appartiene al vostro papa, ma a Dio. Offendendo Enrico l’arroganza del vostro papa ha offeso anche colui che ha creato la pace e tutti quegli uomini che la proclamarono e la difesero». Alla ribellione armata nella Germania settentrionale non viene riconosciuta alcuna dimensione politica: è presentata come una rottura all’interno di un dominio sancito una volta per tutte: «Sono dunque le leggi stesse, o sassoni, a incolparvi, giacchè voi, seguendo la follia di un monaco, avete invaso con le armi il regno, ponendovi cosí contro le leggi di Dio e degli uomini, il diritto delle genti, il diritto civile, le giuste norme e ogni forma di giustizia umana». I vescovi gregoriani non sono considerati tali, poiché si sono ribellati all’auctoritas che li ha nominati. Ne deriva la liceità dell’uso delle armi contro di loro e contro il papa: «Il re convochi i vescovi A sinistra miniatura raffigurante l’imperatore Enrico IV ai piedi della contessa Matilde, con a fianco l’abate di Cluny, da un’edizione della Vita Mathildis di Donizone copiata agli inizi del XIV sec. e illustrata con dieci disegni a penna. Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi. A destra xilografia tedesca ottocentesca che raffigura la sottomissione dei principi sassoni a Enrico IV, a Spira, il 25 ottobre 1075. luglio

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timorati di Dio – scrive ancora Pietro –. In questo sinodo sarà opportuno, secondo la ragione, bandire la guerra, come prescrivono i canoni, al pastore di Roma e intimargli di presentarsi davanti all’assemblea. Le leggi della chiesa richiedono, infatti, anche l’uso della forza». Le parole piú pesanti sono sempre per papa Gregorio VII, tacciato addirittura di rinnegare il cristianesimo: «Dove vuoi arrivare, o apostata? Sappi che l’affermazione dell’apostolo: “Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite, poiché non c’è autorità se non da Dio” va riferita al re Enrico, non al monaco Ildebrando».

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VII dovette ritirarsi in Castel Sant’Angelo, chiuso in un assedio che non gli avrebbe lasciato vie d’uscita se non fossero intervenuti i Normanni di Roberto il Guiscardo, che gli garantirono la fuga verso l’esilio a Salerno, segnando, con il saccheggio che sarebbe seguito di lí a poco, una delle pagine piú tragiche della storia della città. L’incoronazione, celebrata dall’antipapa Clemente, fu una piena vittoria agli occhi dei piú. Eppure la lacerazione aperta dalla lotta per le investiture nella società medievale e nelle strutture del suo pensiero politico non poteva lasciare prefigurare un ritorno tout court ad assetti precedenti. Si impose, invece, una ricomposizione su presupposti diversi. Per questo Enrico IV rimase, anche dopo quei momenti di gloria, un protagonista orgogliosamente solitario e sconfitto.

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essere leader nel medioevo/6 Spira

La cattedrale «imperiale»

Fino agli Ottoni, con la morte del sovrano finiva anche il regno, che veniva in qualche modo restituito alla grande nobiltà. Con la dinastia dei Salii, invece, si assiste alla definizione di una linea di regalità legittimata dalla successione dinastica, accompagnata da una serie di atti simbolici. Fra questi, la scelta di Spira come luogo di sepoltura è emblematica. La cattedrale della città, uno dei cantieri piú grandi dell’intera stagione medievale, avrebbe dovuto essere un manifesto del lignaggio che si stava creando e, al contempo, dell’idea di potere che ne stava alla base. Il suo complesso programma scultoreo e figurativo, nelle intenzioni dei committenti, aveva lo stesso valore propagandistico della libellistica filo imperiale. Il cuore dell’edificio erano le tombe imperiali. Enrico IV morí il 7 agosto 1106, dopo che suo figlio Enrico V lo aveva imprigionato e deposto. Questi, nonostante le pressioni dei vescovi e dei suoi sostenitori che avrebbero voluto vederlo sepolto in una cappella non consacrata in quanto scomunicato, lo depose invece a Spira. Emanò un diploma in cui chiedeva di pregare per lui e ne fece

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In alto Spira. L’esterno della cattedrale vista dal lato dell’abside. Qui sopra la cripta che accoglie le tombe degli imperatori salici, inclusa, per espresso volere di Enrico V, quella del padre. luglio

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In basso panoramica aerea della cattedrale di Spira. Negli intenti dei sovrani salici, la chiesa avrebbe dovuto essere un manifesto del lignaggio che si stava creando e, al contempo, dell’idea di potere che ne stava alla base.

incidere il testo in lettere d’oro sul portale della cattedrale, accanto al proprio ritratto, perché rimanesse per le generazioni future. La stabilità stessa, il perdurare sono stati l’obiettivo dell’impero di Enrico IV, impegnato a costruire una genealogia di potere a partire da Corrado II (che non era nemmeno un suo antenato biologico) e in circostanze spesso drammatiche di incertezza di governo. Il vescovo Benzone di Alba († 1090 circa), che considerava l’ereditarietà fonte del possesso legittimo del potere, dichiarò Enrico IV non solo erede legittimo di suo padre, ma di tutti gli imperatori del passato, ai quali era legato da un rapporto ancor piú forte di quello derivato da relazioni parentali. Prefigurava cosí una continuità tra la regalità biblica, l’impero romano, la creatura politica di Costantino e l’impero medievale cristiano, che necessitava di essere restaurato, rafforzato e difeso dalle minacce che gli si presentavano. Fra queste, la desacralizzazione indotta dalla riforma romana gregoriana era forse la piú pericolosa, poiché puntava di fatto a limitare – se non a negare – la funzione provvidenziale dell’impero nella storia della Salvezza e l’intangibilità del ruolo del sovrano. Nelle sue lettere, Enrico IV scrisse che Gregorio VII e i gregoriani avevano messo in atto una persecuzione peggiore di quella di Decio, il quale privava i cristiani soltanto della vita terrena: il papa invece toglieva all’imperatore e ai suoi fedeli anche la vita eterna, con lo strumento della scomunica. Dal suo punto di vista, i risultati erano la divisione e il disordine del mondo. Tanto che, piú tardi, scrisse a papa Pasquale II di volere la pace fra impero e sacerdozio nel nome della unitas Ecclesiae di cui il sovrano deve essere garante, secondo una visione cristiana delle istituzioni, fondata sull’idea dell’unità dell’intero genere umano. Gli stessi concetti stanno alla base dei cicli plastici della cattedrale di Spira e del simbolismo complessivo dell’edificio.

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La conclusione della sua vita è un dramma nel dramma. Dopo aver concentrato sforzi ed energie per creare la dinastia salica, affermando l’ereditarietà della corona, fu spodestato da suo figlio Enrico V, imprigionato, delegittimato, escluso dalla nobiltà. Le sue stesse parole, grondanti di amarezza e delusione, ricostruiscono gli eventi, presentandoli come un’ignobile catena di inganni. In una lettera al re Filippo I di Francia racconta che «il suo Assalonne» fu sobillato dai sostenitori di Gregorio VII. «Non solo lo istigarono contro di me – scrive –, ma gli misero addosso tanta esaltazione che egli, violando prima di tutto il giuramento di fedeltà che come cavaliere aveva prestato al suo signore, invase il mio regno, depose i miei vescovi e i miei abati sostituendoli con i miei persecutori. Da ultimo, e non vorrei proprio doverlo dire o non vorrei che fosse vero, egli, incurante di ogni affetto naturale, indifferente a tutto, attentò alla mia incolumità e alla mia anima e, con tutti i mezzi, con la violenza e con la frode, volle raggiungere il massimo della sua rovina e della sua vergogna».

Un afflato ingannevole

Per lui, nell’intimo delle sue convinzioni, i riformatori avevano sovvertito l’ordine del mondo e di quel capovolgimento contro la natura delle relazioni umane suo figlio era stato, al contempo, vittima e carnefice. Durante l’Avvento l’aveva invitato a Coblenza per un colloquio «come un figlio che voglia parlare col padre della salvezza e dell’onore comuni». O cosí, almeno, lui aveva pensato. L’accoglienza fra i due fu reciprocamente festosa: si gettarono l’uno ai piedi dell’altro. Enrico V si mise a chiedere perdono per il passato e, piangendo, promise fedeltà e obbedienza per il futuro, ma a patto che il padre si riconciliasse con la sede apostolica. Questi acconsentí. Allora il figlio si impegnò a portarlo per la festa del Natale a Magonza, dove si sarebbe impegnato per il pieno riconoscimento della sua dignità. Quando, entrambi con il proprio seguito, arrivarono nei pressi di Bingen, il numero degli armati del figlio era aumentato considerevolmente. Quest’ultimo andò da Enrico IV e gli disse: «Padre, dovete ritirarvi in un castello qui vicino perché il vescovo di Magonza rifiuta di accogliervi in città finchè perdura la scomunica che pende su di voi; trascorrerete lí il Natale, in pace e con ogni onore». Cosí lo rinchiuse nella fortezza, accompagnato soltanto da tre persone di tutte quelle che facevano parte del suo corteo. È lo stesso sovrano deposto a dare conto delle angherie a cui fu sottomesso: «I carcerieri assegnatimi furono i miei piú implacabili nemici – si legge sempre nella lettera

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essere leader nel medioevo/6 Particolare di una miniatura raffigurante lo scontro tra gli eserciti di Enrico IV e di Enrico V, da un’edizione della Chronica sive Historia de duabus civitatibus (Cronaca delle due città) di Ottone di Frisinga. XII sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

al re di Francia –. Nel giorno santissimo del suo Natale, quando il Bambino, il santo dei santi, nasce per tutti coloro che ha redento, a me soltanto non fu dato quel Figlio. C’è una cosa che non potrò mai dimenticare. E non voglio parlare del disonore, delle minacce, delle spade sguainate contro il mio corpo se non ubbidivo a tutti i loro ordini, né della fame e della sete che mi facevano sopportare, né del ricordo dei giorni in cui in passato

ero stato felice. La cosa di cui non cesserò mai di lamentarmi con ogni cristiano è che in quel santissimo tempo dovetti restare in quel carcere privo della santa comunione!». Poco dopo andò a parlargli uno dei principi, che gli intimò di consegnare le insegne imperiali. Enrico IV comprese che il rifiuto gli sarebbe costato la vita e cosí inviò a Magonza la corona, lo scettro, la croce, la lancia e

Gli Ebrei e il «privilegio» di Worms

A tutela delle minoranze La gestione dei rapporti con le minoranze è un elemento cardine della leadership di Enrico IV. Fra i gruppi inclusi nei domini della corona di Germania, gli Ebrei avevano una loro dimensione specifica, sia per la forza della loro identità, sia perché iniziavano ad assumere una certa importanza nei contesti urbani. Per la prima volta il loro status fu codificato e normato per iscritto. Con

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un privilegio del 1090, Enrico fissò i diritti degli Ebrei di Worms, attuando una dinamica basata sulle azioni di proteggere e discriminare. La comunità locale si vedeva tutelare prima di tutto la vita (il che, evidentemente, non era scontato), insieme con la proprietà e la libertà economica e religiosa. Gli Ebrei potevano avere servitori di religione cristiana, avevano una

legislazione interna propria e le sentenze dei tribunali rabbinici sarebbero state riconosciute. Veniva invece fissata una procedura vincolante per le liti fra ebrei e cristiani, con alcuni passaggi marcatamente favorevoli a questi ultimi. La codificazione dei rapporti contenuta nel privilegio avrebbe segnato per secoli relazioni e percezioni reciproche dei due gruppi. luglio

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dal teatro al grande schermo

La «finta» follia di un nobile del Novecento La drammaticità della figura di Enrico IV ha ispirato, soprattutto negli ultimi due secoli, artisti, compositori e drammaturghi. Fra le molte riletture del personaggio, spicca quella proposta nel capolavoro teatrale di Luigi Pirandello. In essa, un nobile del primo Novecento partecipa a una cavalcata in costume nella quale impersona Enrico IV. Nella messa in scena intervengono anche Matilde Spina, donna della quale è innamorato, e il suo rivale in amore Belcredi. Quest’ultimo lo disarciona provocandogli un trauma cranico. Dopo la caduta, il protagonista si convince di essere davvero il personaggio storico che stava impersonando. La sua follia viene assecondata dai servitori che il nipote Di Nolli mette al suo servizio per alleviare le sue sofferenze. Dopo dodici anni, però, Enrico guarisce e comprende che Belcredi lo ha fatto cadere intenzionalmente per rubargli l’amore di Matilde. Decide cosí di fingersi ancora pazzo, di immedesimarsi nella sua maschera per non voler vedere la realtà dolorosa. Dopo vent’anni dalla caduta, Matilde, Belcredi, la loro figlia, Di Nolli e uno psichiatra vanno a trovarlo. Lui continua, a loro insaputa, la sua finzione e dice che per farlo guarire si potrebbe provare a ricostruire la stessa scena della cavalcata e ripetere la caduta. Viene riallestita la parodia storica, ma al posto di Matilde recita la figlia di lei e di Belcredi. Il finto Enrico IV si ritrova cosí di fronte la ragazza, che è uguale alla madre da giovane, la donna che aveva amato e che ama ancora. Ha cosí uno slancio che lo porta ad abbracciare la ragazza, ma Belcredi si oppone. Enrico IV sguaina cosí la spada e trafigge a morte il rivale. A quel punto il protagonista per sfuggire definitivamente alla realtà (e al processo che sarebbe seguito), decide di fingersi pazzo per sempre. «Preferii restare pazzo e vivere con la piú lucida coscienza la mia pazzia (...) questo che è per me la caricatura, evidente e volontaria, di quest’altra mascherata, continua, d’ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontari quando senza saperlo ci mascheriamo di ciò che ci par d’essere». Al dramma è ispirato l’omonimo film di Marco Bellocchio del 1984, in cui un magistrale Marcello Mastrioanni dà un volto ai dubbi e alle emozioni della maschera pirandelliana. la spada. Dopo averlo fatto condurre nel villaggio di Engelheim, il giovane Enrico V fece portare il padre alla sua presenza, fra i nobili che avrebbero dovuto deciderne la sorte. Il legato papale presente all’incontro disse che non gli sarebbe stata risparmiata la vita se non avesse pubblicamente confessato di aver ingiustamente perseguitato Ildebrando di Sovana e di averlo illegittimamente sostituito con l’antipapa Guiberto, e di avere colpevolmente combattuto la sede apostolica e tutta la Chiesa.

La fine di un mondo

Di fronte a queste accuse, l’anziano imperatore vide frantumarsi la stessa idea del mondo in cui aveva creduto e per cui aveva vissuto. Davvero era convinto di essere innocente: «Con l’animo afflitto, prostrato a terra, mi misi a implorare in nome di Dio e della giustizia che mi si desse l’opportunità di discolparmi davanti a tutti i principi e sentendo

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Marcello Mastroianni in una scena del film Enrico IV (1984, regia di Marco Bellocchio), tratto dall’omonimo testo teatrale di Luigi Pirandello (1921).

il parere di tutti – scrive ancora –. Per i peccati di cui mi fossi ritenuto colpevole avrei chiesto la penitenza e la riparazione nel modo che loro mi avrebbero imposto. Ma il legato mi negò il giorno e il luogo, dicendo che tutto avrebbe dovuto risolversi allora, o non avrei avuto alcuna speranza di salvezza». Poco dopo chiese se, ammettendo tutto quanto gli veniva richiesto, la confessione gli avrebbe procurato il perdono e l’assoluzione. Il legato rispose che questo non era in suo potere: avrebbe dovuto andare a Roma e dare soddisfazione alla sede di Pietro. Da solo, privo di tutto, fu abbandonato nel villaggio. Da lí iniziò a peregrinare fra i castelli e le città che restavano in mano ai suoi pochi fedeli, cercando un riscatto e una comprensione che non ebbe. Con lui finí una intera concezione dell’impero e della Chiesa, un sistema di valori per cui non restava piú spazio nella prospettiva di riconciliazione con il papato che Enrico V perseguí di lí a poco.

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di Mimmo Frassineti, con un contributo di Francesco Pirani

Sul monte della Libertas Una veduta della Rocca Guaita, costruita sulla roccia del monte Titano, che domina la valle sottostante.

Terzo Stato piú piccolo d’Europa, la Repubblica di San Marino vanta una storia ormai plurisecolare, che prende le mosse intorno al X secolo, quando sulla vetta del monte Titano si sviluppa un primo abitato. Da quel momento in poi, il borgo – che la leggenda vuole fondato da un santo scalpellino – sperimenta una delle prime forme di gestione democratica della cosa pubblica. Attraverso ordinamenti e leggi che ancora oggi ne scandiscono la vita politica e sociale


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el paesaggio dolcemente ondulato, il massiccio del Titano sembra appartenere a un altro mondo. Forse perché l’alto bastione di roccia, su cui le torri di San Marino disegnano un suggestivo skyline, è arrivato fin qui da lontano. I geologi hanno potuto ricostruire il sommovimento che ebbe luogo 20 milioni di anni fa, quando gran parte della penisola italiana era ancora sommersa: in una conca fra il Tirreno e l’Adriatico, una vasta placca calcarea – formata dalla sedimentazione di sabbie, conchiglie e resti fossili di animali – si frantumò in frammenti colossali. Questi si spostarono, scivolando sull’argilla sottostante, per dare origine, una volta emersi, al monte della Verna,

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al Fumaiolo, al monte di San Leo e al Titano. Si spiegano cosí l’isolamento di quest’ultimo (749 m) nella valle del Marecchia, nonché il ritrovamento sulla sua sommità, nel 1897, del fossile di una balenottera.

In fuga da Arbe

Poiché il calcare di cui è composto si presta ottimamente alla lavorazione, il monte, già in epoca romana, divenne una cava di pietra per il territorio circostante. Verso la fine del III secolo d.C. lo scalpellino dalmata Marino, originario dell’isola di Arbe (oggi Rab, di fronte alla costa croata) approdò a Rimini con il compagno Leo per lavorare alla ricostruzione della cinta muraria e per sfuggire alle persecuzioni contro

i cristiani poste in atto dall’imperatore Diocleziano – anch’egli dalmata – nella sua terra natale. Secondo la Vita Sancti Marini, un testo agiografico redatto intorno all’anno Mille, i due scalpellini si trattennero per un periodo sul monte Titano a cavare la pietra. Quindi Leo si trasferí sul monte Feretrio (oggi San Leo), mentre Marino tornò in città. A Rimini, affiancò al lavoro sulle mura un fervente apostolato nella diffusione della parola di Cristo e nella conversione degli abitanti. Trascorse cosí dodici anni, quando un imprevisto venne a sconvolgere la sua operosa quotidianità: si presentò, giunta dalla Dalmazia, una donna invasata, che pretendeva di essere la sua moglie legittima.

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Sulle due pagine una panoramica della pianura orientale di San Marino ripresa dalla Rocca Guaita.

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Dopo vani tentativi di sedurlo, lo accusò presso le autorità romane di averla abbandonata e di diffondere in città la parola di Cristo. Il pio scalpellino decise di scomparire: s’incamminò lungo il fiume Marecchia, risalendo la vallata fino alle balze di Acquaviva, sulle pendici, che gli erano familiari, del monte Titano, dove trovò rifugio in una grotta «menandovi angelica vita». Ma alcuni pastori, che l’avevano notato, sparsero la voce. Cosí la «rea femmina» lo rintracciò, con l’intenzione di riprendere il suo assedio. L’uomo allora si rinserrò nella caverna, pregando e digiunando. Dopo sei giorni, fortificato nello spirito, abbandonò il suo rifugio e scacciò il diavolo dall’invasata. Lei, redenta,

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In alto la grotta in cui san Marino si sarebbe rifugiato. A sinistra san Marino in un polittico di Francesco Menzocchi. XVI sec. San Marino, Museo di Stato. Nella pagina accanto, in basso lapide con le rocche Guaita, Cesta e Montale sormontate da tre piume, sopra l’iscrizione «libertà». San Marino, Museo di Stato.

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fece ritorno a Rimini «dove si adoperò a esaltare la virtú e la gloria del santo». Marino, con alcuni seguaci, ascese il Titano per innalzarvi un sacello dedicato a san Pietro. La montagna apparteneva a Felicita, o Felicissima, matrona di una ricca famiglia riminese, forse vedova o figlia di un Felix che firma (Felix fecit) alcune pietre miliari rinvenute sulla via Flaminia (la consolare che collega Roma a Rimini) ricavate dalla pietra del Titano. Felicita ebbe un figlio, Verissimo, che non gradiva la presenza sul suo territorio di Marino e dei suoi seguaci e un giorno, imbattendosi nel santo, si apprestò a trafiggerlo con una freccia. Ma, nell’atto d’incoccare il dardo, rimase paralizzato. Felicita invocò allora la pietà di Marino, che risanò il giovanotto. In segno di gratitudine la donna gli regalò il luglio

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Titano e si convertí alla fede cristiana con l’intera famiglia, composta di cinquantatré persone. Sul letto di morte il santo affidò alla piccola comunità raccoltasi sul Titano i fondamenti morali di quell’indipendenza che è stata fieramente salvaguardata fino a oggi: «Relinquo vos liberos ab utroque homine», «Vi lascio liberi da entrambi gli uomini», intendendo il papa e l’imperatore. Gli studiosi ritengono che una tale formulazione non appartenga a quella fase storica, ma rispecchi una visione politica prettamente medievale. Lo spiegò Giosuè Carducci nel discorso pronunciato per l’inaugurazione del nuovo Palazzo Pubblico il 30 settembre 1894: quelle parole «non le poté Marino aver pronunziate: troppo era aliena l’idea barbarica del doppio feudalesimo nell’impero e nella chiesa dal concetto della romanità pur cristiana del secolo quarto. Ma verissime elle sonavano nel decimo o undecimo quando al santo moriente le diede lo scrittore».

La bandiera e lo stemma

Torri, piume e libertà La bandiera di San Marino è a due fasce colorate, bianca quella superiore e azzurra quella inferiore. Al centro campeggia lo stemma della Repubblica, composto da uno scudo in cui sono raffigurate le tre Penne del monte Titano e, sulla sommità, tre torri piumate. Le torri richiamano le tre poderose fortificazioni sammarinesi, che ancora oggi conferiscono un fascino particolare allo sperone roccioso a strapiombo sulla valle sottostante: sono la torre «della Guaita», la piú antica (risale all’XI secolo), inclusa nella possente Rocca; piú recenti, risalgono entrambe al XIII secolo, sono quelle «della Cesta», che si eleva superba sul punto piú alto del monte Titano (756 m), e la torre isolata detta «Montale». Lo stemma è ornato all’esterno da due rami verdi annodati in basso con un nastro ed è sormontato da una corona, simbolo di sovranità. Non poteva mancare per completare l’opera un cartiglio col motto «Libertas», posto appena sotto lo stemma.

Dall’Arengo ai Capitani

Un documento dell’885, il Placito Feretrano, relativo alla disputa tra Deltone, vescovo di Rimini e Stefano, abate del monastero di San Marino, enumera le terre assegnate alla comunità sammarinese; si tratta di alcuni fondi che si estendono per circa 4 kmq. In quest’epoca il governo è esercitato dall’Arengo, l’assemblea di tutti i capi famiglia. Verso la metà del XIII secolo, il territorio copre 26 kmq, con una popolazione di 1500 abitanti. L’Arengo si evolve in Consiglio Grande e Generale, composto di 60 membri ed esprime le figure dei due Capitani Reggenti – i primi si chiamavano Oddone Scarito e Filippo di Sterpeto – con la funzione di capi di Stato. Questo è tuttora l’assetto della Repubblica. Da allora San Marino ha subíto tre brevi occupazioni, dopo le quali l’indipendenza è stata prontamen(segue a p. 74)

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Dossier Una Repubblica e i suoi tesori Qui accanto la porta San Francesco. A destra una veduta della torre Montale. Nella pagina accanto, nel riquadro busto reliquiario di san Marino, conservato nella Basilica del Santo.

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In alto la nicchia scavata nella roccia che la tradizione vuole essere stata il giaciglio di san Marino, ancora visibile all’interno della cripta della chiesa di S. Pietro. A sinistra la chiesa di S. Pietro vista dal pronao colonnato della Basilica del Santo. Nella pagina accanto rilievo raffigurante san Marino nell’atto di modellare una pietra. San Marino, chiesa di S. Pietro.

te recuperata: nel 1503 da parte di Cesare Borgia, nel 1739 quando il cardinale Giulio Alberoni tentò di annetterla allo Stato della Chiesa, nel 1944 per il passaggio delle truppe tedesche in ritirata e quindi degli Alleati. La Repubblica non ha sbocco al mare, ma rifiutò l’offerta del Bonaparte di estendersi fino alla costa romagnola. Cosí parlò l’allora Capitano Reggente Antonio Onofri: «La Repubblica di San Marino, contenta della sua piccolezza, non ardisce accettare l’offerta generosa che le viene fatta, né entrare in viste di

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ambizioso ingrandimento che potrebbero col tempo compromettere la sua libertà».

Le magnifiche nove

Con 61 kmq e 39 km di frontiera fra Marche ed Emilia-Romagna, la Serenissima Repubblica di San Marino è oggi il terzo Stato piú piccolo d’Europa, dopo il Principato di Monaco e il Vaticano. È suddiviso in nove municipalità, chiamate Castelli: Acquaviva, Borgo Maggiore, Chiesanuova, Domagnano, Faetano, Fiorentino, Montegiardino,

Serravalle e la città di San Marino. Gli abitanti sono 32 000. Nella bandiera bianca e azzurra campeggia lo stemma con il monte Titano e le tre rocche di Guaita, Cesta e Montale sormontate da una piuma (vedi box a pag. 71). Il centro storico, vietato alle auto, è cinto da tre gironi di mura difensive. Il governo ha sede nel Palazzo Pubblico, in stile neogotico, progettato dall’architetto romano Francesco Azzurri (1827-1901) per sostituire il vecchio palazzo, non piú adeguato alle esigenze amluglio

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ministrative e all’immagine della Repubblica. La facciata, retta da tre archi a sesto acuto, con al centro il balcone dal quale vengono annunciati i nomi dei nuovi Capitani Reggenti, reca scolpiti gli stemmi dei vari castelli. Un trittico, sulla torretta, rappresenta i santi protettori Marino, Quirino e Agata. Nell’atrio, fitto di stemmi, trofei, fregi e iscrizioni, il busto bronzeo di Giosuè Carducci è opera dello scultore Tullio Golfarelli (1852-1928).

Il santo benedicente

Il cuore del Palazzo Pubblico è la Sala del Consiglio Grande e Generale, anch’essa riccamente decorata, che accoglie il duplice trono dei Capitani Reggenti, i 58 seggi dei Consiglieri (assimilabili ai parlamentari) eletti a suffragio universale, e i dieci seggi dei Segretari di Stato (i mini-

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stri). Sopra il trono l’intera parete è occupata da un grande dipinto a tempera di Emilio Retrosi (18581911), che celebra l’ideale di libertà che ha improntato nei secoli la vita della Repubblica: rappresenta san Marino onorato dal suo popolo – composto da magistrati, guerrieri, popolani, donne e bambini – sullo sfondo del Titano, mentre benedice con la mano destra e nella sinistra tiene un libro aperto dove si legge il già ricordato motto fondativo della Repubblica: «Relinquo vos liberos ab utroque homine». Di fronte al Palazzo Pubblico, al centro della piazza, si leva la Statua della Libertà, opera di Stefano Galletti (1832-1905), donata dalla contessa berlinese Otilia Heyroth Wagener, effigiata in un medaglione sul piedistallo. Rappresenta una (segue a p. 80)

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Dossier DIECI SECOLI DI STORIE E... LEGGENDE Il racconto della vita del santo scalpellino presenta molti lati inverosimili: scritto molto piú tardi (la prima redazione nota risale alla prima metà del X secolo), riporta date inaccettabili: il 257, per esempio, in riferimento all’impero di Diocleziano, narra di personaggi leggendari e situazioni favolose, popolate di donne indemoniate e orsi addomesticati. Ma quel racconto, pur con le sue incongruenze, dovette rappresentare nei secoli successivi un’importante fonte di legittimazione per l’autonomia del territorio sammarinese, un testo bell’e pronto da utilizzare all’occorrenza. Facciamo un salto nel tempo. Nel luglio 1296 troviamo quindici uomini di San Marino nel vicino monastero di S. Anastasio della Valle convocati dall’abate Ranieri, delegato della Curia romana, per respingere le pretese giurisdizionali dei podestà del Montefeltro sulla comunità del Titano. Fra le deposizioni dei testimoni spicca, per acutezza di argomentazioni, quella di Pagano, rettore della chiesa sammarinese di S. Giovanni sotto le Penne. Nella sua testimonianza, Pagano sosteneva che la comunità sammarinese era esente da qualunque ingerenza esterna da tempo immemorabile, ma ciò non doveva soddisfare appieno gli inquisitori, che si ostinavano a voler conoscere con piú precisione il momento in cui tale stato di cose aveva avuto inizio. Pagano, allora, non esitò nella risposta: secondo lui l’autonomia di San Marino discendeva direttamente dal privilegio di Felicissima, che concedeva al tagliapietre e agli abitanti del castello il territorio del monte Titano libero da ogni vincolo. Per di piú giurava (spergiurava, aggiungiamo noi con il senno di poi) di aver visto e letto il privilegio a cui si riferiva con tanta sicumera. Quando poi fu chiesto a Pagano che cosa significasse per lui il termine libertas, egli rispose precisamente: «Non essere sottoposti all’autorità di nessuno». Queste parole, pronunciate da un chierico alla fine del XIII secolo, racchiudono il valore di una testimonianza emblematica: attraverso il consapevole utilizzo strumentale di una leggenda agiografica, il mito della «libertà perpetua» San Marino, benedicente, regge un libro con il motto «Relinquo vos liberos ab utroque homine», particolare del dipinto murale L’apparizione di san Marino al popolo di Emilio Retrosi. 1894. San Marino, Palazzo Pubblico, Sala del Consiglio Grande e Generale.

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Dossier A sinistra uno scorcio di Piazza della Libertà con, in primo piano, la Statua della Libertà e, sullo sfondo, il Palazzo Pubblico. Nella pagina accanto La Repubblica, terracotta policroma di Vittorio Pochini. 1899. San Marino, Museo di Stato.

poteva dirsi già delineato. Ma in che cosa consisteva effettivamente la «libertà», ancora oggi vessillo di tante guerre, per un uomo sammarinese del Basso Medioevo? Le parole pronunciate da Pagano non alludono affatto a un sentimento o a un ideale moderno, bensí precisano i contorni di un’autonomia tutta medievale, intesa cioè come assenza di vincoli imposti da autorità esterne. Rimandano al concetto di libertas già formulato dai giuristi delle città comunali italiane: un concetto attraverso il quale legittimare l’avvenuta sottrazione di fondamentali ambiti giurisdizionali da parte di una comunità locale ai danni dell’autorità sovraordinata, cioè l’imperatore o il papa o ancora un potente signore. La comunità di San Marino fu tenacemente impegnata nel raggiungimento di tale

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obiettivo per tutto il XIII secolo, a metà del quale, con un certo ritardo rispetto ad altre realtà urbane, fecero la loro comparsa le istituzioni comunali. Nella complessa trama di poteri giurisdizionali dell’area compresa fra Romagna e Marche, gli uomini del monte Titano seppero costruire nel Basso Medioevo gli spazi della loro autonomia, destinata a durare fino a oggi, grazie a un sottile gioco di alleanze con i piú importanti potentati locali. La prima mossa in questo delicato scacchiere si compí nel 1243, allorché in un atto sono attestati i primi due consoli del castrum di San Marino, Oddone di Scarito e Filippo da Sterleto, nomi che il turista può leggere oggi sulle vie cittadine sammarinesi. Nel documento i due rappresentanti della comunità, unitamente al vescovo del Montefeltro Ugolino,

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acquisivano da un signore locale, Guido da Cerreto, tutti i diritti di passaggio da esigere da coloro che si recavano alla fiera che si teneva annualmente in settembre, nel borgo del castello: il territorio di San Marino era infatti un importante luogo di transito per i commerci fra la zona appenninica e la costa adriatica. Dieci anni piú tardi, un altro documento cita per la prima volta un consiglio comunale che si riuniva nella pieve del castello. Poi, nel secondo Duecento, toccò alla giurisdizione civile del vescovo del Montefeltro essere intaccata dagli uomini del monte Titano, i quali, alla fine del secolo, anche grazie a testimonianze come quella resa dal prete Pagano, si rifiutarono definitivamente di riconoscere l’autorità del podestà o vicario del Montefeltro, un’autorità laica che era emanazione dell’ordinario diocesano. Cosí la comunità di San Marino, che contava in quel periodo appena un migliaio di anime, poteva promulgare i propri statuti (redatti fra il 1295 e il 1302) e imboccare una importante svolta istituzionale: la sostituzione dei consoli con una magistratura composta da due reggenti, il Capitano e il Difensore. E sul terreno istituzionale non si può far a meno di notare l’originalità di tale governo «duumvirale» rispetto al modello podestarile, che allora dominava nell’Italia comunale. Quella dei reggenti, designati entrambi come Capitani dopo la metà del Trecento, era la magistratura cittadina piú importante, destinata, con lievi modifiche, a guidare il governo del piccolo Stato fino a oggi. Perfino nell’odierno calendario sammarinese, il primo giorno di aprile e il primo giorno di ottobre ricorre ancora la festa per la Cerimonia di Investitura dei Capitani Reggenti. Nel tardo Medioevo i Capitani, che dovevano aver compiuto almeno vent’anni per poter essere eletti, avevano un mandato semestrale, amministravano la giustizia civile e penale e ricevevano un salario mensile di appena 40 soldi ravennati. L’autonomia di San Marino, gettate le proprie basi durante il XIII secolo, si consolidava cosí a rapidi passi. Nel Tre e nel Quattrocento la comunità, grazie alla solida alleanza con una potente famiglia signorile della zona, i Montefeltro, poté respingere le mire espansionistiche dei Malatesta. Nel 1462, al termine di numerosi conflitti, San Marino poté giovarsi di un allargamento dei propri confini, occupando il territorio che rimase immutato fino a oggi. Nello stesso periodo, a un livello ancora piú alto, la comunità riuscí a imporre come un dato di fatto la propria autonomia

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all’interno dello Stato della Chiesa. L’ordinamento dello Stato Pontificio finiva infatti con l’accettare la peculiare posizione della comunità del Titano nel quadro delle potenze regionali dell’epoca, naturalmente per motivi di opportunità politica e non su basi giuridiche. Cosí, in uno Stato come quello pontificio – in cui i rapporti fra centro e periferia erano regolati da scarsa uniformità e coerenza –, il caso di San Marino non doveva costituire, in fondo, un’eccezione al criterio generale. Una «libertà» conquistata, dunque, quella di San Marino: costruita con tenacia e perseveranza, pietra su pietra, dagli uomini del monte Titano. Per dirla con le parole di uno dei piú impegnati studiosi moderni di storia sammarinese, lo svizzero Paul Aebischer (1897-1977), quell’autonomia non fu altro che «la magnifica conseguenza degli sforzi testardi della diplomazia plurisecolare di un piccolo gruppo di montanari». Una lenta conquista, dunque, non certo un dono elargito una volta per tutte da un santo leggendario del III secolo. Francesco Pirani

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Dossier A sinistra alcuni pezzi d’armatura esposti in una vetrina del locale Museo delle Armi. Nella pagina accanto uno scorcio della corte interna della Rocca Guaita con, in primo piano, il pozzo. In basso una veduta della Cava dei Balestrieri. Un tempo utilizzata per la pietra da costruzione del Palazzo Pubblico, è oggi sede del tradizionale torneo annuale di tiro con la balestra.

giovane donna che brandisce una lancia, con il capo cinto da una corona muraria, secondo un modello proprio dell’araldica medievale dei Comuni italiani, sulla quale svettano le tre torri piumate. Fu inaugurata nel 1876, dieci anni prima della Statua della Libertà a Manhattan, ultimata con dieci anni di ritardo rispetto alla data che intendeva celebrare, il centenario della Dichiarazione di Indipendenza del 1776. In piazza della Libertà, all’ombra della statua, il 1° aprile e il 1° ottobre vanno in scena le cerimonie istituzionali dell’investitura dei Capitani Reggenti, il cui incarico dura sei mesi (è il piú breve al mondo per un capo di Stato) che guidano la Repubblica con reciproco diritto di veto. È d’obbligo, a evitare sanzioni, rivolgersi a loro col titolo di Eccellentissimi. Raggiungono ogni

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giorno il Palazzo Pubblico in auto blu, ma, alla scadenza del mandato, sono tenuti a tornare a casa a piedi. La cerimonia si ripete identica da secoli confermando a San Marino la vitalità della tradizione e l’attualità del passato.

L’ingresso in città

Si entra nella città storica attraverso la porta di San Francesco, ricavata nel terzo girone delle mura, la cinta piú esterna. Eretta nel 1361 come ingresso all’attiguo convento di S. Francesco, e sopraelevata con un coronamento di merli nel 1451, la struttura è costituita da un arco a sesto acuto sormontato dallo stemma della Repubblica. Era verosimilmente munita di ponte levatoio e, in passato, sempre chiusa dopo il tramonto. Sotto la volta due iscrizioni specificano le norme per luglio

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l’ammissione in città: «Mai i custodi lasceranno che dei forestieri entrino dalle porte del nostro paese con qualche arma di qualsiasi genere ma le faranno deporre e terranno presso di sé sotto buona custodia… fino a che detti forestieri rimarranno nel nostro paese». Una targa di bronzo commemora l’iscrizione, avvenuta nel 2008, del monte Titano e dei centri storici di San Marino e di Borgo Maggiore nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’UNESCO: «San Marino e il monte Titano costituiscono una testimonianza eccezionale dell’istituzione di una democrazia rappresentativa fondata sull’autonomia civica e l’autogoverno, avendo esercitato con una continuità unica e senza interruzione il ruolo di una Repubblica indipendente dal XIII secolo».

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In alto figuranti in costume nel ghetto ebraico. A destra un vicolo dell’antico ghetto ebraico. Sullo sfondo si scorge il campanile della Domus Parva Comunis.

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In alto la sala del Consiglio Grande e Generale all’interno del Palazzo Pubblico. Sulla parete di fondo campeggia l’affresco ottocentesco L’apparizione di san Marino al popolo. I 60 scranni che circondano la sala sono stati realizzati in occasione del restauro del 1996, curato da Gae Aulenti.

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Tuttavia, la tradizione vuole che la vera data di nascita risalga al 3 settembre 301, quando lo scalpellino dalmata raccolse la sua comunità intorno al sacello sul Titano, intitolato a san Pietro. Della minuscola chiesa, in origine a pianta cruciforme, rimane oggi soltanto uno dei bracci, con l’altare addossato al costone roccioso, nel quale sono ricavate due nicchie che la tradizione identifica come i letti di san Marino e san Leo. Un bassorilievo mostra san Marino, con martello e scalpello, nell’atto di modellare una pietra. Accanto si leva la neoclassica Basilica del Santo, preceduta da un pronao con otto colonne corinzie. Edificata nel 1825 abbattendo l’antica pieve medievale, contiene due distinti reliquiari con le ossa e parte del cranio di san Marino. San Marino è sempre stata con-

siderata imprendibile, almeno fino all’impiego dell’artiglieria. Una passeggiata sul camminamento del secondo girone delle mura, che cavalca il crinale del Titano, lascia percepire il profilo verticale della rupe, la cui altezza vanifica l’impiego delle macchine da guerra tradizionali, come torri semoventi, arieti e catapulte.

Il primo insediamento

La Rocca Maggiore, o Castello della Guaita, risalente al X secolo, è quella che vide aggregarsi il primo nucleo abitativo di San Marino. Da essa si spazia a 360° sulla riviera adriatica e sul Montefeltro. Una campana dava l’allarme in caso di pericolo. Oggi annuncia ai Sammarinesi la riunione del Consiglio Grande. Fino agli anni Sessanta la Guaita fu utilizzata come prigione,

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In alto uno scalpellino al lavoro nella propria bottega. A sinistra il volto sbalzato nella roccia alla base della seconda cinta di mura, realizzato negli anni Sessanta dallo scalpellino Aldo Volpini.

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A destra una delle vie che attraversano il centro storico di San Marino. Il nucleo piú antico dell’abitato si sviluppò nell’area occupata dalla Rocca Maggiore (o Guaita), intorno al X sec.

famosa per la sua durezza e per il gelo invernale. Nelle celle si conservano singolari graffiti dei detenuti. La seconda torre, o Castello della Cesta, occupa la punta piú elevata della Repubblica, a 756 m di altezza. Avamposto militare fin dagli inizi del Trecento, era presidiata da una guarnigione di balestrieri. Ospita oggi il Museo delle Armi Antiche, una collezione di oltre duemila pezzi che racconta l’evoluzione delle armi bianche e delle armi da fuoco negli ultimi cinque secoli. La terza torre, o Montale, appare oggi come un avamposto isolato avvolto dalla vegetazione. Eretta nel XIII secolo, fu collegata nel 1320 alla seconda da una muraglia – con relativo camminamento –, della quale restano però poche tracce, perché sfruttata in seguito come cava di pietra per la costruzione delle case del centro storico.

Balestra, che passione!

La Federazione Balestrieri Sammarinesi nacque nel 1956 per riportare in auge il tiro con la balestra, un’arma considerata simbolo della libertà e dell’indipendenza della Repubblica. Il Torneo Nazionale della Balestra ha luogo alla metà di luglio, nello spazio protetto della cava di pietra per la costruzione del Palazzo Pubblico, battezzata Cava dei Balestrieri. In una cornice affascinante si confrontano i tiratori, capaci di centrare da 50 m un bersaglio di 3 cm. Il Medioevo è sentito come l’epoca in cui l’identità della Repubblica si è consolidata. Numerosi sono gli eventi che offrono al visitatore la possibilità di immergersi in atmosfere medievali. L’attuale direttore artistico è Rob Budde, olandese: «La prima manifestazione che ho organizzato a San Marino fu nel 1988,

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ed era già legata alla storia. Negli anni Novanta, insieme alla Federazione Balestrieri, ho creato le Giornate Medioevali, che sono diventate la manifestazione dedicata alla storia del Medioevo piú grande al mondo, con 1500 tra attori e figuranti e un pubblico che ha toccato le 140 000 presenze nell’arco della settimana». «Cercavamo – prosegue Budde – il rigore filologico: abbiamo creato un Centro Studi Nuovo Medioevo con il professor Franco Cardini, per studiare ogni dettaglio nei costumi, nei cibi che proponevamo, negli allestimenti. Oggi mi piace molto giocare con il Medioevo. Ferma restando l’attendibilità della ricostruzione, amo introdurre effetti e tecnologie proprie di un mondo proiettato verso il futuro. Per le prossime Giornate Medioevali, stiamo preparando uno spettacolo in 3D sulla seconda torre. Rispetto alle edizioni iniziali, oggi sperimentiamo un approccio piú libero e creativo». L’Università di San Marino van-

ta, fra gli altri, un apprezzato corso di laurea in design. Dare forma alle cose sembra essere una vocazione antica, che trovò nella pietra del Titano il suo primo campo di applicazione. La pietra è uno dei simboli forti della Repubblica. Un volto sbalzato nella roccia alla base della seconda cinta di mura è opera di un famoso scalpellino, Aldo Volpini, che lo scolpí negli anni Sessanta del secolo scorso. Come ogni cosa in città, abitazioni, edifici pubblici, mura, porte, strade, stemmi, la pietra è quella cavata dal Titano, di una tonalità beige chiara, che regala una particolare coerenza al panorama urbano. Tutto quanto a San Marino si restaura o si costruisce ex novo è fatto di questo materiale. Il mestiere di scalpellino, quello del santo fondatore, è sempre stato vivo attraverso i secoli ed è tuttora assai richiesto e praticato con l’orgoglio di chi si riconosce nell’identità e nella storia della piccola nazione.

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L’abbazia del santo che non c’era

di Franco Bruni

Immerso nei boschi dell’Uccellina, nel Parco della Maremma, il complesso intitolato a san Rabano è una testimonianza architettonica di notevole pregio. Qui si sviluppò un ampio insediamento monastico, che divenne anche un importante sito strategico, tanto da essere trasformato in fortezza. Fra le sue mura si sono avvicendati, tra gli altri, Templari e cavalieri dell’Ordine di San Giovanni. Lo abbiamo visitato, dopo oltre due ore di un cammino che si snoda in un paesaggio suggestivo e incontaminato

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isitare la Maremma toscana – e in particolare il versante costiero dominato dalle colline dell’Uccellina – è un’esperienza davvero suggestiva, grazie al connubio fra arte a natura che, seppur comune a molte altre realtà italiane, è qui piú che mai affascinante, anche per merito di un’attenta politica di tutela del territorio. Nel contesto boschivo dell’Uccellina si celano i resti di S. Maria Alborense, meglio conosciuta come S. Rabano, un’abbazia che, nel tempo, fu piú volte contesa tra i Comuni di Grosseto e Siena e teatro di vicende che videro protagonisti i potenti Aldobrandeschi, i monaci benedettini, i Templari e i Gerosolimitani. Le alterne vicende del complesso abbaziale – che, come il vicino abitato di Alberese, prende nome dal bosco in cui è stato edificato – l’hanno visto passare, fra l’XI e il XV secolo, sotto diverse giurisdizioni. Non si hanno informazioni sulla fondazione del cenobio, intitolato ai santi Maria e Benedetto, e la prima attestazione del monasterium S. Mariae in monte Alborensi positum risale al 1101, in occasione della rinuncia alle decime delle proprietà monastiche da parte del vescovo di Roselle, Ildebrando, a favore dell’abbatem alborensem Domenico. Dalla documentazione successiva si apprende che il complesso dipendeva dalla sede apostolica, come con-

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Nella pagina accanto veduta aerea del complesso abbaziale di S. Rabano, situato nelle colline dell’Uccellina, all’interno del Parco della Maremma, nei pressi del borgo di Alberese (Grosseto).

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Grosseto Marina di Grosseto PARCO REGIONALE DELLA MAREMMA

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Abbazia di S. Rabano

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Abbazia di S. Rabano

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fermano alcuni giuramenti prestati dagli abati Sinibaldo e Lamberto nel XIV secolo. Il cambio di intitolazione del complesso a Rabano avviene in epoca piú tarda, nel XVI secolo, come rivela l’epigrafe del 1587, posta sulla facciata della chiesa di S. Giovanni Battista ad Alberese, che menziona il nome del suo precettore: REV[erendu] S FR[ater]FABRIC[iu]S CARRET[iu]S EX MARCH[ion]US FINARIJ S[ancti]RABANI PRÆCEPTOR… Già dal IX secolo, l’area grossetana era sotto l’inluglio

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medioevo nascosto toscana il parco della maremma e la tenuta di alberese

Natura, cultura ed eccellenze enogastronomiche Le colline dell’Uccellina, nel cui comprensorio si trova l’abbazia di S. Rabano, costituiscono la parte costiera meridionale dell’ampio Parco naturale della Maremma, istituito nel 1975 e distribuito tra i Comuni di Orbetello, Grosseto e Magliano in Toscana. Poste all’interno della Tenuta Regionale di Alberese e da essa gestite, le colline rappresentano tra l’altro una delle aree boschive e a macchia mediterranea tra le piú belle e meglio preservate della Penisola. Un paesaggio unico e ricco di testimonianze storiche, tra cui spiccano le antiche torri di avvistamento: Torre di Poggio Raso, Torre delle Cannelle, Torre di Capo d’uomo, Torre del Molinaccio, Torre del Talamonaccio, Torre dell’Uccellina, solo per citarne alcune. Collocate

a distanze regolari, tra il Medioevo e l’età moderna assicuravano il controllo delle coste spesso oggetto – fino al XVIII secolo – delle razzie dei Saraceni e della pirateria turca. L’Ente Parco della Maremma ha predisposto vari itinerari che permettono di apprezzare questi luoghi. I percorsi sono adatti a ogni esigenza: accanto al trekking, si può infatti optare per passeggiate a cavallo o in bicicletta. Punto di partenza per la visita di S. Rabano è il Centro Visite di Alberese (via del Bersagliere, 7/9; tel. 0564 407098; e-mail: centrovisite@parco-maremma.it). Nell’abitato di Alberese è compresa la Villa Granducale fatta edificare dal priore dei Gerosolimitani Beuccio Capacci In alto Alberese. Il complesso composto dalla villa granducale e dalla chiesa di S. Giovanni Battista. A sinistra la torre detta «dell’Uccellina» e, in secondo piano, la torre campanaria del complesso abbaziale.

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nella seconda metà del XV secolo e trasformata in una villa-fattoria nel Settecento dai granduchi di Lorena. Annessa alla villa è la chiesa di S. Antonio Abate, del XVI secolo, costruita in seguito all’abbandono

del complesso di S. Rabano. Anche il complesso della Villa Granducale appartiene alla Tenuta di Alberese, proprietaria di una vasta parte del territorio su cui insiste il parco. Oltre a offrire la possibilità di pernottare nella villa stessa, la Tenuta – che con oltre 4000 ettari è una delle piú grandi aziende agricole in Europa – si distingue per l’impegno nel recupero delle antiche tradizioni, che hanno fra i loro punti di forza la coltivazione biologica e l’allevamento allo stato brado del bovino e del cavallo maremmano. Per godere di queste eccellenze si segnala la possibilità di effettuare escursioni di lavoro con i butteri a cavallo e la «degustazione ambientale», oltre che l’acquisto di prodotti dell’azienda presso la Bottega di Alberese (tel. 0564 407265, tra cui la carne di bovino maremmano-Presidio Slow Food e il vino Morellino DOCG. Info tel. 0564 407180; e-mail: agriturismo@alberese.com; www.alberese.com luglio

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A sinistra ancora una veduta panoramica dell’abbazia. Qui sotto un tratto della prima cinta muraria, che conserva alcune mensole per sostenere il camminamento di ronda.

In basso veduta da est: sulla destra, i resti della sala capitolare e della torre circolare; sullo sfondo, la chiesa con la torre campanaria.

fluenza diretta degli Aldobrandeschi, famiglia longobarda originaria di Lucca e che in Maremma, in particolare a Sovana, aveva stabilito la propria contea, di cui facevano parte decine di fortilizi sorti in funzione di controllo territoriale (vedi «Medioevo» n. 230, marzo 2016). È dunque probabile che la fondazione del monastero benedettino, prima del XII secolo, si debba a una committenza aldobrandesca. Agli Aldobrandeschi sarebbe anche riconducibile la fondazione della torre circolare e di quelle parti del complesso abbaziale che, con essa, formano il nucleo piú antico e potrebbero aver costituito, in origine, un fortilizio aldobrandesco. Da un contratto di vendita stipulato nel 973 da Lamberto figlio di Ildebrando III degli Aldobrandeschi, ri-

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medioevo nascosto toscana San Rabano

L’eremita misterioso e le reliquie senza nome A causa della dispersione degli archivi dell’abbazia di S. Maria Alborense è difficile risalire ai motivi per i quali la chiesa venne re-intitolata a san Rabano. La prima attestazione è piuttosto tarda e consiste nell’epigrafe del 1587, scritta in lingua latina e tuttora leggibile sulla facciata della chiesa di S. Giovanni Battista nell’abitato di Alberese; tradotto in italiano, il testo cosí recita: «Il Rev. Frà Fabrizio del Carretto marchese di Finale, precettore di san Rabano, edificò questa chiesa in onore del beato di Dio Giovanni Battista per la salvezza delle anime anno del Signore 1587».

Qui accanto e in alto la navata della chiesa prima degli interventi di restauro (a sinistra) e come si presenta oggi con l’integrazione in metallo e resina della copertura a crociera. A sinistra, in basso Alberese. La targa in cui compare la prima attestazione della dedica dell’abbazia a san Rabano (1587).

sulta, tra i 45 castelli di loro possesso, anche la curtis di Astiano, nei pressi di Alberese, e quindi prossima al complesso di Rabano.

Testamenti preziosi

Se incerte sono l’origine del primo insediamento e la sua destinazione d’uso, è comunque provato che, nel 1101, un cenobio benedettino era già stato istituito e, con esso, il complesso monastico, nel quale i monaci risiedettero sino agli anni Settanta del XIII secolo. Anche altri testamenti confermano l’appartenenza del monastero alla famiglia longobarda, come quelli di Ildebran-

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Alcune delle leggende che si tramandano sul complesso di S. Rabano hanno per protagonista un eremita omonimo, che viveva nei pressi dell’abbazia e che, dopo la beatificazione, diede nome al sito; si parla anche di un antico romitorio nel quale avrebbe abitato il santo di cui si conservavano le reliquie nella chiesa abbaziale. In realtà, nei pressi dell’abbazia si conservano i resti di un preesistente edificio, collocato sull’antica via di accesso (detta «via regina»)

e oggi definito «romitorio»: tuttavia, come ha ipotizzato Nicoletta Maioli, dovette piú probabilmente trattarsi di un presidio difensivo. Incerta è anche l’attribuzione delle già citate reliquie della chiesa abbaziale, che un tempo si credeva fossero appartenute a Rabano Mauro, abate di Fulda e arcivescovo di Magonza, vissuto a cavallo tra l’VIII e il IX secolo, in un periodo, quindi, precedente il cambio di dedicazione dell’abbazia, attestato, come già detto, nel 1587.

dino VIII, del 1208, e di Ildebrandino XII, che risale al 1284; documenti che, tra l’altro, ribadiscono anche il profondo legame della famiglia con i Templari, di cui si parlerà piú avanti. Numerose controversie segnarono la vita del complesso nel XII secolo. Nel 1122 papa Callisto II intervenne a favore dell’abbazia, intimando al vescovo di Roselle di cessare ogni molestia nei confronti del monastero; nel 1199 vi ebbe luogo una lite tra Lotario abate dell’Alberese e Vernaccio, abate di san Bartolomeo di Sestinga (Castiglione della Pescaia, Grosseto), causata dalla fuga di un monaco che, dall’Alberese, si

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rifugiò alla Sestinga, trafugando alcuni beni appartenenti all’abbazia di S. Maria Alborense. Del 1205 è una lettera di Innocenzo III che rivela un legame privilegiato tra il monastero di S. Agostino di Monte Alto, nei pressi di Montalto di Castro (Viterbo), e quello di S. Maria Alborense. Il documento riferisce di una lamentela da parte dell’abate di S. Maria nei confronti dei monaci di S. Agostino, i quali, nell’eleggere il nuovo abate Andrea, avevano omesso di chiedere l’approvazione dell’abate di S. Rabano, come previsto dalle consuetudini confermate anche da un privilegio di Innocenzo II. Il monastero di S. Maria viene poi menzionato in un’altra epistola di Gregorio IX, datata 14 febbraio 1231, nella quale compaiono i nomi di tre arbitri – tra cui l’abate di S. Maria Alborense – designati per risolvere una lite intercorsa tra il monastero cistercense di S. Anastasio alle Tre Fontane di Roma e il vescovo di Sovana. Tra il 1276 e il 1277 si colloca l’ultima testimonianza sulla presenza benedettina a S. Maria Alborense: si tratta dell’elenco degli enti ecclesiastici, dal quale risulta che l’abbazia era esentata dall’obbligo di pagamento delle decime alla Sede Apostolica. Al XIII secolo risale anche un particolare istituto adottato dalla Chiesa di Roma, la commenda, con il quale venivano ceduti a usufruttuari – in questo caso componenti dell’Ordine Templare – territori o beni ecclesiastici le cui rendite erano destinate alla difesa della Terra Santa.

La presenza templare

Il provvedimento interessò anche S. Maria Alborense, che fu costituita in commenda da Bonifacio VIII, come suggeriscono alcuni documenti in cui il complesso risulta essere di pertinenza della chiesa, oggi non piú esistente, di S. Benedetto a Grosseto di proprietà dell’Ordine del Tempio. La presenza templare a S. Maria Alborense dovette protrarsi almeno fino agli ultimi decenni del XIII secolo – periodo per il quale la documentazione è particolarmente lacunosa – come lasciano ipotizzare la presenza di emblemi in alcuni elementi architettonici e i reperti rinvenuti durante gli scavi: per esempio, la croce cosmogonica entro cerchio – oggi distrutta ma visibile in foto d’archivio – incisa sull’architrave del portale della chiesa abbaziale, alcune teste di «bafometh» scolpite nei capitelli delle colonnine del chiostro e i numerosi frammenti ceramici sui quali compare la croce patente (a bracci uguali). Il controllo dell’abbazia fu quindi assunto dall’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni (detti anche Gerosolimitani), come attesta un atto di papa Niccolò III del 30 aprile 1280 che menziona una domus hospitalis Ierosolimitani de Albereso, poi unita al Gran Priorato di S. Giovanni di Pisa, in seguito alla soppressione dell’Ordine Templare.

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medioevo nascosto toscana Un complesso vasto e articolato 1. Torre circolare; 2. Sala capitolare; 3. Sala con volta a botte; 4. Antico ingresso dell’abbazia (poi tamponato); 5. Mensole del camminamento di ronda; 6. Sala con volta a botte; 7. Navata centrale della chiesa abbaziale; 8. Sagrestia; 9. Biblioteca; 10. Transetto;

Il passaggio incontrò non poche difficoltà, tanto che il complesso fu al centro di ripetuti scontri tra Grossetani e Senesi negli anni Trenta del Trecento, quando il territorio passò sotto le mani dei secondi e con esso l’abbazia, che per anni venne occupata e successivamente depredata dalla famiglia grossetana degli Abati (in lotta contro i Senesi) subentrati agli Aldobrandeschi nel controllo del territorio. Con ogni probabilità e come sembrano confermare le evidenze architettoniche, durante il periodo di occupazione degli Abati l’abbazia venne fortificata e nei documenti dell’epoca è infatti definita anche come «fortezza». Il capitolo provinciale del priorato di Pisa e la città di Siena avevano raggiunto un accordo per effetto del qua-

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Qui sopra il tiburio e, piú in basso, i resti della torre circolare databile al X-XI sec.

11. Portale della chiesa; 12. Chiostro; 13. Torre campanaria; 14. Lavatoio; 15. Dispensa; 16. Refettorio dei monaci; 17. Cucina dei monaci; 18. Scala esterna alla torre circolare; 19. Cucina degli inservienti; 20. Ospedale; 21. Cucina dell’ospedale; 22. Torre detta «dell’Uccellina».

In alto il lato orientale della chiesa, preceduto dalle strutture identificate con la biblioteca e con la sagrestia.

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Un particolare del transetto della chiesa abbaziale.

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A sinistra il portale della chiesa. A destra i resti della struttura per l’accoglienza e l’assistenza ai pellegrini e, in secondo piano, la torre «dell’Uccellina».

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le la seconda aveva preso possesso del monastero, che era però gestito dal priore pisano per l’amministrazione ordinaria e gli uffici divini. Tutto ciò accadeva nel 1337, ma solo pochi anni piú tardi, nel 1344, nuovi scontri tra Grosseto e Siena coinvolsero il complesso, che fu riconquistato dal Comune senese. Il monastero era di fatto controllato dal priorato di Pisa e da Siena, in una situazione piuttosto complessa e conflittuale, che determinò gradualmente la perdita parziale del patrimonio territoriale da parte dei frati Gerosolimitani. A partire dal XV secolo la progressiva decadenza del complesso, alla quale contribuirono le razzie piratesche sulla vicina zona costiera, spinse i Gerosolimitani a trasferire la commenda in pianura: nel 1474, nei pressi

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dell’attuale abitato di Alberese, fondarono la chiesa di S. Antonio Abate e la cosiddetta Villa Granducale per conto del priore dell’Ordine Beuccio Capacci. Nel 1629 il complesso passò definitivamente sotto la proprietà del granducato di Toscana.

Sul modello dei monasteri benedettini

Nei primi anni Trenta del XIV secolo, il complesso monastico – i cui edifici sono distribuiti secondo il tipico modello benedettino – fu interessato da vari interventi di fortificazione, di cui restano tracce nel muro perimetrale che circonda la chiesa e nella torre d’avvistamento (detta «dell’Uccellina») posta all’esterno, nell’angolo sud del perimetro abbaziale. Scavi condotti nel sito luglio

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In alto la muratura esterna delle absidi, decorata da archetti ciechi di tradizione pisano-lombarda. A sinistra una veduta d’insieme dell’esterno delle absidi.

le, che indicano la preesistenza di un protiro, mentre il portale è sormontato da un archivolto decorato con tralci di vite e che poggia su un architrave sul quale compaiono tre croci patenti – quella centrale è andata perduta – circondate da una cordonatura. Al di sopra del protiro si nota una bertesca – una sorta di torretta con funzioni difensive solitamente inserita nelle mura di cinta – che fu verosimilmente aggiunta nel XIII secolo, all’epoca in cui il complesso venne fortificato e la facciata della chiesa rialzata rispetto al tetto a spiovente ancora leggibile sulla struttura muraria.

Maestranze comacine

hanno rivelato il sistema di approvvigionamento idrico (un condotto in cotto) che dall’esterno del complesso arrivava sino al chiostro, alcune fosse-silos (XIV secolo) per conservare gli alimenti e due forni. Il monumento principale – che è anche quello meglio conservato insieme alla torre campanaria e a quella «dell’Uccellina» – è la chiesa. Si tratta di un edificio a navata unica, coperto da un originale tetto a spiovente, che presenta all’altezza del transetto una cupola emisferica raccordata alla base quadrata da un tiburio ottagonale esterno: una soluzione che riporta ad analoghe costruzioni del Grossetano, come l’abbazia di S. Bruzio (Magliano in Toscana) e la cattedrale di Sovana. La facciata è arricchita dalla presenza di due menso-

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L’interno della chiesa era in origine coperto da tre volte a crociera con costoloni incrociati: ne rimangono poche tracce, ma il loro profilo è stato ripristinato, in occasione delle recenti campagne di restauro, con una struttura in ferro zincato e resina. Il transetto è invece voltato a botte e presenta tre absidi che, come il tiburio, sono decorate all’esterno, con archetti ciechi in stile pisanolombardo; aggiunte forse riconducibili al passaggio del complesso nelle mani del Priorato dei Cavalieri gerosolimitani di Pisa. Saggi di scavo effettuati in quest’area hanno evidenziato che l’originale livello pavimentale era collocato 70 cm piú in basso; alla quota attuale sono presenti, tra l’altro, i resti di un’interessante decorazione pavimentale a mosaico che riconduce a maestranze comacine affini a quelle che lavorarono nella chiesa di S. Maria in Castello a Tarquinia, nel Viterbese. Sul lato absidale esterno si possono vedere i resti della grande cinta muraria merlata del XIII secolo, a cui si ricongiunge anche l’alta torre campanaria (31 m). Quest’ultima si differenzia stilisticamente dalla chiesa, rispetto alla quale sorse con ogni probabilità piú tardi, intorno alla metà del XII secolo. Al suo interno, scale rampanti conducono al primo livello e, nella parte inferiore,

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La facciata e il campanile della chiesa abbaziale. Nella facciata è ben leggibile l’originale tetto a spiovente, successivamente rialzato.

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si aprono quattro monofore; piú in alto vi sono quattro bifore, fino alla sezione superiore, caratterizzata da grandi aperture ad arco in corrispondenza della campana, secondo una tipologia assai diffusa all’epoca. Come già accennato, durante la fortificazione del complesso venne innalzata, con funzioni di avvistamento, la torre detta «dell’Uccellina», sull’angolo sud-orientale: alta 22 m, ha un’entrata posta a 3 m dal livello di calpestio ed è coronata, come la torre campanaria, da una merlatura. Una terza torre, a pianta circolare, sorge sul lato nord-est della chiesa. È il piú antico manufatto del complesso, ma su di essa sono addossati edifici posteriori, che ne impediscono una lettura adeguata. Peraltro, la tecnica muraria utilizzata l’avvicina all’originaria cinta muraria, suggerendo la presenza di maestranze specializzate attive in Maremma dal X secolo, in concomitanza con la fase di incastellamento dell’area. Una delle parti superstiti della torre presenta uno stipite e la parte iniziale di un

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In questa pagina due immagini dell’interno della torre campanaria. Nella foto in basso si vedono le scale rampanti che garantivano il passaggio tra un livello e l’altro della struttura.

arco (forse una porta). Il livello inferiore del manufatto è tuttora accessibile e si presenta con una volta a cupola, mentre il secondo livello, parzialmente crollato, è a cielo aperto. Nella struttura furono ricavate due feritoie, oggi tamponate, il cui orientamento, verso la chiesa, ne conferma l’anteriorità rispetto a quest’ultima.

Da campanile a discarica

La torre reca le tracce di tre fasi costruttive, nella piú recente delle quali furono tamponate le aperture. Ipotizzando l’esistenza di una chiesa preesistente – di cui però non esistono tracce – si è anche supposto che la torre fosse in origine utilizzata come campanile. Col tempo, avendo comunque perduto la sua funzione originaria, la torre venne affiancata da una scala esterna e trasformata in una discarica («pozzo di butto»): qui sono stati ritrovati, tra l’altro, resti di vasellame, utensili e ferri di cavallo oggi esposti al Museo di Grosseto. La torre circolare è resa ancor piú interessante dalla rarità di testimonianze simili nell’area toscana; per le sue caratteristiche, infatti, è comparabile alle torri dell’area ravennate, di cui si conoscono repliche anche ad Arezzo, Firenze

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In alto la struttura identificata come sala capitolare del monastero; sulla sinistra si conserva parte della volta a botte che copriva l’ambiente.

A destra, in alto i resti del forno di cui era dotata la cucina annessa alla struttura che veniva verosimilmente utilizzata per dare accoglienza ai pellegrini.

e Pisa (X-XI secolo). Una circostanza che permette di stabilirne la datazione intorno all’XI secolo. Alla destra della chiesa, i resti delle strutture murarie antistanti il chiostro sono verosimilmente riferibili agli ambienti di servizio legati alla prima fase dell’insediamento benedettino: tre locali voltati a botte (parzialmente franati) identificabili con la sagrestia, la biblioteca e con un corridoio di accesso al transetto. Proseguendo sulla destra della torre circolare, si trovano la sala capitolare, altri ambienti di incerta destinazione e un lavatoio. Alcuni lacerti murari conservano tracce di volte a botte, e la presenza diffusa di fori nei muri indica l’utilizzo di travi di sostegno per i piani superiori, che dovevano ospitare le celle dei monaci. Sul lato opposto alla chiesa, nel versante sud-orientale, la struttura perimetrale di una sala piuttosto lunga è identificabile con il refettorio, mentre il piccolo ambiente attiguo doveva essere la cucina. La sala piú grande, edificata al lato sud-occidentale del complesso, accanto a un forno, ha costituito sicuramente il luogo di accoglienza

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A destra, in basso le murature riferibili al piano superiore della torre circolare, uno dei manufatti piú interessanti del complesso, affine a modelli ravennati.

dei pellegrini: una testimonianza eloquente della vocazione hospitaliera dei cavalieri gerosolimitani durante la loro permanenza nell’abbazia.

La rinascita

Dopo la dispersione degli archivi, i saccheggi e l’abbandono, S. Maria Alborense è tornata a «rivivere» solo negli ultimi anni. Gli scavi condotti dalla Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio di Siena e Grosseto tra il 1970 e il 2003, nonché i complessi interventi di restauro diretti tra il 1998 e il 2003 dall’architetto Nicoletta Maioli – sua è l’eccellente monografia sull’abbazia di cui questo articolo è ampiamente debitore – hanno infatti permesso il consolidamento e la pulizia delle strutture, fornendo una messe di informazioni fondamentali per la ricostruzione della storia del sito. Parafrasando l’antico proverbio, si potrebbe dire che «Scripta volant, petra manent»: cancellata la memoria scritta, restano le pietre a raccontarci le vicissitudini di un complesso davvero straordinario. F luglio

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CALEIDO SCOPIO

Nel Medioevo si disegnava cosí ARTE • In termini quantitativi, il corpus dell’arte grafica medievale è piuttosto

limitato. In compenso, le testimonianze che si sono conservate sono di estremo interesse non soltanto per gli aspetti estetici, ma anche per le implicazioni filosofiche

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utti abbiamo in mente gli studi di anatomia di Leonardo, gli splendidi nudi di Michelangelo o i progetti di Filippo Brunelleschi per la cupola del Duomo di Firenze: il Rinascimento ci ha lasciato un bagaglio formidabile di disegni, e il tema del disegno ha conseguentemente conosciuto una grande fortuna critica. Al contrario, sono rare le attestazioni riferibili all’età medievale, tanto che gli studiosi si sono spesso divisi circa l’effettiva esistenza di un disegno autonomo nel Medioevo. Tuttavia, la scarsità di disegni non è dovuta soltanto all’ampio lasso di tempo che ci separa dal mondo medievale, ma anche a ragioni di ordine tecnico. Per esempio, molti dei disegni prodotti dal Medioevo (in particolare

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quelli progettuali) sono andati perduti perché realizzati su materiali deperibili (legno, cera, talvolta persino sabbia); spesso, inoltre, il disegno di progettazione dell’opera d’arte – dalla creazione iniziale alla fissazione finale dei dettagli – veniva eseguito unicamente sul supporto destinato all’opera finita. A questo si aggiunga l’atteggiamento mentale dell’uomo medievale, per il quale, a differenza di quanto accadde nei secoli che seguirono, il concetto di disegno dal vero fu sostanzialmente sconosciuto.

Il realismo medievale Il processo creativo dell’artista era infatti affidato alla copia di modelli o exempla, spesso in diretta relazione con la cultura antica. La ripetizione

In alto illustrazione del Salmo 44 del Salterio di Utrecht, opera realizzata intorno all’830, probabilmente su commissione dell’arcivescovo Ebbone, nella città francese di Reims o nei suoi dintorni. Utrecht, University Library. Nella pagina accanto raffigurazione di un leone, dal taccuino di Villard de Honnecourt, la piú celebre raccolta di disegni medievali a oggi nota. 1230. Parigi, Bibliothèque nationale de France. infinita implicava la progressiva semplificazione delle forme, traducendo in termini calligrafici la natura e i fatti quotidiani. Questo nuovo linguaggio apparve comunque idoneo alla rappresentazione artistica di un mondo, quello cristiano, che voleva porsi in diretta antitesi rispetto al passato pagano. luglio

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puntando piuttosto sulla reale sostanza delle cose. Elemento formale ideale per ottemperare a queste nuove idee fu la linea. Nell’antichità, come sostenne Plinio il Vecchio, la linea aveva avuto la funzione primaria di suggerire la reale esistenza delle forme che essa racchiudeva; il Medioevo cristiano recupera questo concetto, per affidare alla linea di puro contorno l’effettivo esserci delle cose, trascurando ogni altro dato formale. Non solo: influenzata dagli stili barbarici di ornamentazione, la linea diventa strumento per infinite fantasmagorie e circonvoluzioni capricciose. Il discorso intorno alla linea, in ogni caso, non si esaurisce nell’apporto della tradizione classica e della produzione barbarica: essa determina il suo senso profondo nel rapporto con gli ideali mistici del cristianesimo e nell’espressione di una trascendenza che aborrisce, senza mezze misure, il dato sensibile e sensuale.

Le influenze barbariche Lo stile dell’arte barbarica deriva dall’antico artigianato delle diverse tribú, molte delle quali di origine orientale, che si impadroniscono del Nord Europa e della Scandinavia durante l’Alto Medioevo. Nonostante abbia peculiarità ben definite per ciascuno dei popoli a cui ci riferiamo, quest’arte presenta alcuni caratteri ricorrenti, come l’interesse per le forme animali fantastiche e la Inoltre, l’influenza delle nuove culture barbariche (in particolare quelle insulari, si pensi al caso dell’Irlanda celtica) condusse alla realizzazione di immagini non solo belle, ma capaci di trasmettere il senso di trascendenza dalla realtà tipico dell’atteggiamento religioso del Medioevo occidentale. Nel contempo, la filosofia neoplatonica dei primi secoli del cristianesimo scoraggiò sempre di piú la fedele trascrizione dell’apparenza fisica,

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Errata corrige con riferimento all’articolo Cracovia, Italia, inserito nel Caleidoscopio del mese scorso (vedi «Medioevo» n. 233, giugno 2016) desideriamo rettificare la didascalia del dipinto riprodotto a p. 105 (in basso) che, naturalmente, non è una Madonna col Bambino di Vittore Crivelli, ma Giove pittore di farfalle, Mercurio e la virtú (1523) di Dosso Dossi. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori.

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CALEIDO SCOPIO A sinistra disegno raffigurante Ercole, opera del PIsanello (al secolo Antonio di Puccio Pisano). XIV-XV sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Nella pagina accanto disegno da un’edizione manoscritta della Psychomachia di Prudenzio, opera del monaco benedettino francese, nonché poeta e grammatico, Ademaro di Chabannes (988-1034). XI sec. Leida, Universiteitsbibliotheek. riduzione di ogni elemento figurativo a un intreccio geometrico di elementi fitomorfi. Espressioni principali di questa appassionata inventiva sono i manoscritti irlandesi dei secoli VII e VIII. Scompare ogni accenno alla realtà e tutto è trasfigurato come se si guardasse a un mondo magico: le figure richiamano gli intarsi e gli smalti, riecheggiando la bizzarra relazione tra esseri viventi e cose inanimate, tramandata da piú d’una leggenda irlandese. I disegni nei Vangeli di Armagh, o quelli di Lichfield sono straordinariamente minuziosi, caratterizzati da una sottigliezza quasi metallica e da un’inventiva complicata, che trae origine dall’arte fantastica e anticlassica del passato barbarico.

La cultura bizantina Naturalmente la tradizione classica non si estinse con la caduta dell’impero romano d’Occidente nel V secolo: depositaria della conoscenza antica, in particolare durante i secoli altomedievali, fu Bisanzio, non solo dal punto di vista giuridico (si pensi al Codice Giustinianeo), ma anche artistico, nella conservazione dei temi pagani e nella resa naturalistica della figura umana. Allo stesso tempo, contaminati anch’essi dall’iconismo orientale e dal ritualismo rigoroso della corte, i disegni bizantini presentano la figura umana come uno spettro adimensionale in un mondo senza spazio. In Occidente la tradizione classica venne riscoperta in età carolingia

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(VIII-IX secolo). L’ideale di rinnovamento dell’impero romano, portato avanti da Carlo Magno, non riguardò solo gli aspetti giuridici, politici e amministrativi. Conscio del ruolo imprescindibile dell’arte nella propaganda politica, l’imperatore auspicò un ritorno alle forme classiche: ne sono prova numerosi manoscritti (si pensi all’Evangelario di Ebbone), in cui la marcata esecuzione delle figure degli evangelisti e il trattamento impressionistico del paesaggio rappresentano una chiara volontà di richiamarsi all’antica tecnica illusionistica. Una delle piú straordinarie serie di disegni medievali si può trovare tra le pagine del Salterio di Utrecht, che illustrano con incredibile vividezza grafica i Salmi. È facile immaginare che lo stile si rifaccia a illustrazioni della tarda antichità, eppure il dinamismo del disegno trasforma il modello classico in un linguaggio

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nuovo. Contro ogni aspettativa (nell’ambito dell’epoca che stiamo trattando), l’artista si lascia trasportare dalle proprie possibilità decorative ed emozionali. I colpi di penna non realizzano soltanto una piena coerenza tra tutte le parti, ma producono un’idea straordinaria di moto turbinoso e di energia, traducendo in forme nuove l’idea di spazio e di luce dell’antica tecnica illusionistica.

I libri di modelli In età medievale, come abbiamo già detto, copiare modelli era il punto di partenza per la propria creazione artistica: non era perciò infrequente che un maestro di bottega conservasse, per sé e per i suoi apprendisti, raccolte di questi modelli. Uno dei libri di modelli piú famosi è il Prudentius di Ademaro di Chabannes (XI secolo), che, pur rifacendosi a originali della

tarda antichità, rivela quanto l’artista si interessasse ai prototipi classici in questa sua nuova ricerca dell’espressione puramente lineare. I disegni di un libro di modelli bizantino databile ai primi del XIII secolo presentano schizzi convenzionali della Vergine e persino uno di san Francesco: oltre a mostrare somiglianze con esempi di pittura romanica e bizantina in Italia, rivelano il tradizionale canone bizantino della testa, basato su un cerchio e simmetricamente bilanciato sulla linea mediana. Lo storico dell’arte tedesco Bernhard Degenhart (1902-1999) ha diviso i disegni medievali in due grandi insiemi: da una parte i disegni con finalità pratica (zweckgebundene Zeichnungen), come il commento a un testo, il supporto visivo per gli artisti o, piú semplicemente, il disegno progettuale; dall’altra, i disegni autonomi (autonome

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Disegno raffigurante un gruppo di donne con un neonato, attribuibile alla bottega del Pisanello. XIV-XV sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Zeichnungen), privi di finalità pratiche, individuabili nei disegni marginali nei manoscritti (e che per questo vengono chiamati marginalia), indipendenti dal testo. Si tratta in genere di disegni di piccole dimensioni, in realtà semplici schizzi o addirittura scarabocchi, svincolati dal contenuto del testo che accompagnano (se ne trovano perfino negli atti notarili), quasi che l’autore, stanco delle ore passate chino sullo scrittoio, si sia preso una pausa dal lavoro scarabocchiando le prime cose che gli venivano in mente: piccole mani, croci, figure, ritratti, talvolta anche immagini erotiche a dir poco volgari. Tra i molti esempi possibili, vi sono casi celebri, come i piccoli schizzi eseguiti da Francesco Petrarca sulla sua copia personale della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio.

Il taccuino di Villard La piú famosa raccolta di disegni medievali è il taccuino di Villard de Honnecourt, databile al XIII secolo. Si tratta di un documento irripetibile, non solo per la completezza con cui ci è pervenuto, ma perché offre uno spaccato unico sulle tecniche costruttive e, in generale, sulla mentalità di un artista del Duecento. Il taccuino contiene progetti architettonici, come la torre della cattedrale di Laon, figure umane desunte dall’antico e dalla scultura gotica, disegni di numerosi animali, eseguiti con uno stilo a punta di piombo e in seguito ripassati a penna. Molti presentano annotazioni che ci permettono di inquadrare l’immagine in un contesto storico e culturale preciso.

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Interessante è la didascalia che accompagna la figura di un leone e che ci informa che il disegno è stato fatto dal vero: eppure è evidente come l’artista, pur ammettendo di avere effettivamente visto un leone, abbia poi trasposto mentalmente questa forma naturale nel suo ricordo di un animale araldico e nella cornice abituale di forme geometriche. Uomini e animali sono sempre costruiti, infatti, su figure geometriche, che nella loro purezza eliminano ogni accidentalità, presentando ciò che Tommaso d’Aquino definisce come la piú alta natura spirituale delle cose di questo mondo perfezionata nell’anima. Se dunque si può affermare che molti dei disegni di Villard sono stati eseguiti dal vero (come nel caso delle statue o della veduta della torre della cattedrale di Laon), è pur vero che ogni volta la fonte sensibile viene standardizzata, in accordo con proporzioni geometriche e convenzioni calligrafiche.

I nuovi maestri italiani Con i disegni dei maestri italiani del Trecento, quali Pisanello o Altichiero, si entra in una nuova visione del mondo, basata in senso filologico sulla conoscenza dell’antichità classica e su un marcato interesse per la natura, scevro dalla copia di modelli preesistenti. È un linguaggio nuovo che potremmo leggere in parallelo con lo sviluppo del dolce stil novo, ugualmente dipendente dalla tradizione poetica latina e dall’attenzione al dato naturale. Le composizioni di Giotto possono ancora dipendere da schemi iconografici fissi, ma le forme considerate in se stesse conseguono un’apparenza scultorea attraverso la costruzione organica delle parti e il ricorso all’ombreggiatura. Non solo: espressioni, gestualità e sentimenti introducono nuove qualità drammatiche ed emotive, cogliendo in termini umani la vita e il mondo. Roberto Del Monte

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Storie, uomini e sapori

Venezia e la geopolitica delle spezie Come affrontare lo studio dell’umanità analizzando costumi, vizi e politiche alimentari? Inizia con questo numero una nuova rubrica curata da Sergio G. Grasso, studioso degli aspetti storico-sociali dell’alimentazione e della psicologia dei consumi. Partendo dagli affari di una grande potenza mercantile del Medioevo…

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l 19 luglio 992 l’imperatore bizantino Ottone III, su richiesta degli ambasciatori del doge Pietro II Orseolo a Bisanzio, emanò una crisobolla (letteralmente, «bolla d’oro») che riconosceva una drastica riduzione delle tasse doganali per le navi commerciali in ingresso e in uscita dai Dardanelli, in cambio del trasporto delle truppe bizantine dalla Grecia all’Italia. Fu il primo di una serie di accordi politico-strategici, di privilegi mercantili ed esenzioni doganali grazie ai quali Venezia riuscí a stabilire nei principali porti dell’impero romano d’Oriente quelle colonie commerciali che le garantirono per secoli il monopolio mediterraneo sulle merci provenienti dal Levante. Dopo aver occupato l’Istria e la Dalmazia e aver spazzato via i pirati «schiavoni», nel 1002 l’armata del doge sconfisse i Saraceni che avevano tolto Bari ai Bizantini. Quattro anni piú tardi, nel 1006, Giovanni Orseolo, figlio e

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co-reggente di Pietro II, sposò la nipote di Basilio II Bulgaroctono imperatore di Bisanzio.

Un’alleanza di breve durata Pur sancita dal matrimonio, l’alleanza non durò a lungo e, nel 1200, la Serenissima volle sfruttare la situazione determinata dall’inattesa ma provvidenziale presa di Costantinopoli durante la

quarta crociata (1204), assumendo il controllo commerciale dei porti del Mar Nero e iniziando a dettar legge in quelli mediorientali. Decine di navi salpavano ogni giorno da Venezia con imponenti carichi di legname, ferro, sale di Comacchio, vetri prodotti nelle fornaci di Murano e schiavi slavi destinati ai porti di Levante, dove venivano venduti indifferentemente luglio

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Miniatura raffigurante la raccolta del pepe, da un’edizione del Livre des merveilles, traduzione in francese del Milione di Marco Polo. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. a Bizantini e Turchi con altissimi profitti. A Salonicco, Rodi, Sidone e Beirut le stive si riempivano di sete, cotone, olio, profumi, oggetti d’arte e, soprattutto, pepe, cannella, chiodi di garofano, noce moscata

e zafferano raccolti dalle carovane arabe nei porti del Golfo Persico. Un servizio regolare di galere fu creato tra Venezia e Alessandria d’Egitto per il trasporto delle merci che giungevano con altre carovane dai porti del Mar Rosso, mentre allo scalo di Trebisonda faceva capo un’altra «via delle spezie e della seta», quella terrestre che percorreva le carovaniere dell’India,

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del Turkestan, della Persia e dell’Asia Minore. All’alba del XIV secolo, nel porto e nei fondachi di Venezia affluivano mercanti e uomini d’affari da tutta Europa per acquistare non solo e non tanto le vetrerie, i ricami e gli oggetti d’arte quanto le sete e le spezie che la concorrenza genovese insidiava solo marginalmente.

Un impero economico Priva di preoccupazioni provenienti dalla terraferma e saldamente concentrata sui traffici marittimi, la Repubblica di San Marco era divenuta in due secoli una formidabile potenza marinara, un vero e proprio impero economico e un punto di passaggio obbligato per le merci destinate ai mercati dell’Europa centro-settentrionale. Non di marginale importanza fu la spregiudicata amministrazione del sale di Cervia, di Comacchio e di Chioggia, richiestissimo (e pagatissimo) oltralpe per la concia delle pelli e la conservazione del pesce e delle carni. Il piú importante e lucroso mercato delle spezie del mondo si trovava a Rialto (l’antica Civitas Rivoalti, nucleo originario della città lagunare), dove i «Messeri del pepe», cioè i sensali delle droghe, pubblicavano i bollettini giornalieri con le quotazioni delle spezie. Vi si svolgevano aste pubbliche per l’aggiudicazione delle diverse partite, ma molte trattative avvenivano sottobanco, sussurrando il prezzo all’orecchio dei clienti piú importanti. La tradizione delle «aste all’orecchio» è ancora viva in molti mercati ittici dell’Alto Adriatico, anche se oggi a bisbigliare non è piú il venditore, ma il compratore. È stato calcolato che tra il XIV e il XV secolo i mercanti veneziani importarono spezie per 5 milioni di sterline-oro inglesi, ricavandone profitti 50/80 volte superiori. La definitiva caduta di Costantinopoli nel 1453, per mano di Maometto II, con la chiusura agli

Europei delle carovaniere ottomane, non danneggiò la Serenissima, mentre molti Paesi del Vecchio Continente iniziarono a cercare altre vie per raggiungere l’Oriente. I Portoghesi tentarono una rotta verso le Indie, scendendo lungo le coste dell’Africa – dove trovavano schiavi e oro –, finché Bartolomeo Diaz, nel 1487, raggiunse il Capo di Buona Speranza e aprí la nuova via verso le Isole delle Spezie. Anche Cristoforo Colombo, per conto della corona di Spagna, nel 1492 partí alla ricerca di pepe, cannella e noce moscata, ma dovette accontentarsi solo del peperoncino. Nel 1498 Vasco Da Gama, finanziato dal re del Portogallo, arrivò a Calicut, il piú importante centro commerciale dell’India meridionale, dove stipulò accordi commerciali con i rajah di Cochin e di Cananor. L’ambasciatore di Venezia a Lisbona, Messer Querini, riferisce che il pepe acquistato in India dai Portoghesi si rivendeva a Lisbona a un prezzo sette volte maggiore, la cannella otto volte, i chiodi di garofano nove volte, lo zenzero diciotto volte, la canfora quaranta volte e la noce moscata addirittura ottanta volte il prezzo d’acquisto. Dal canto loro, gli Spagnoli, grazie a Magellano, circumnavigarono l’America Meridionale e, attraversando l’Oceano Pacifico, raggiunsero le Molucche, madrepatria di noce moscata, macis (detto anche mace o fiore della noce moscata), chiodi di garofano e del piú pregiato e costoso pepe. Furono però gli Olandesi a ottenere il monopolio del commercio delle spezie indonesiane, che durò per oltre 200 anni. La diffusione dell’uso delle spezie nel Vecchio Mondo e, in special modo, nell’Europa centrale, in Inghilterra e in Germania, fece di Anversa il maggior mercato europeo delle droghe. Ebbe allora inizio il declino di Venezia, geograficamente troppo eccentrica rispetto ai nuovi mercati. Sergio G. Grasso

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UN ANTROPOLOGO NEL

MEDIOEVO Cangianti, inafferrabili, purissime... S

tanchi di un inverno umido e uggioso, in questi giorni di luglio abbiamo voglia di spazi aperti, di sole, di cieli costellati da bianche nuvolette estive. Soffici e misteriosi oggetti cangianti, queste hanno da sempre attirato la nostra curiosità e attenzione, accogliendo nelle loro forme cotonate ogni pensiero o proiezione che l’uomo abbia saputo creare. Le nuvole sono perfette per quest’attività, tutta umana, del proiettare: tanto lontane da non poter essere toccate, ma talmente visibili da essere vive e presenti nel nostro linguaggio, nelle nostre costruzioni mentali e, soprattutto, nelle nostre divinazioni meteorologiche. Inoltre, le nuvole sono duttili, plasmabili, mai le stesse per piú di un istante: ossimori celesti che ben si prestano ad accogliere le storie e i desideri degli uomini. Secondo l’ipotesi «di KantLaplace», la nascita stessa delle galassie è in qualche modo legata a una nube primordiale o nebulosa solare. Come qualsiasi altro aspetto o paesaggio del mondo medievale, le nuvole vanno inserite nel contesto culturale a cui appartengono, in primo luogo teologico. Altrimenti si rischia di commettere lo stesso errore di coloro che oggi vedono nelle nuvole della pala di Masolino (1383-1440), la Fondazione di Santa Maria Maggiore, altrettante «navicelle spaziali», non piú comprendendo quel senso di irreale atmosfera, di immutabilità temporale che l’artista voleva comunicare descrivendo quel solenne momento di fondazione.

Proprietà esclusiva degli dèi Se gli aborigeni australiani credevano nell’esistenza di uomini-nuvola che salivano al cielo per provocare la pioggia, per i Greci le nuvole erano barriere impenetrabili che nascondevano gli dèi alla vista degli uomini, oppure veloci mezzi di trasporto. Erano comunque cose a esclusivo appannaggio delle divinità, che ne erano gelosissime, se Plutarco, nel suo Ad un governante incolto,

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scriveva che «Dio si adira contro coloro i quali imitano il romoreggiare del tuono e il lanciarsi dei fulmini e dei raggi». Nel mondo ebraico, nelle Scritture, la presenza di Dio è ancora annunciata da una nuvola, luogo evanescente dal quale parlò a Mosé e guidò gli Israeliti nel deserto per quarant’anni. La stessa forma cangiante delle nuvole poté diventare segnale dalle opposte caratteristiche quando costoro si trovarono incalzati dagli Egiziani, e «la nube era tenebrosa per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte; cosí gli uni non poterono avvicinarsi agli altri durante tutta la notte» (Esodo, 14, 19-20). I libri sacri sono pieni di voci, presenze, luci divine accolte in cumulonembi dai diversi significati: se il Signore disse a Mosé «Ecco, io sto per venire verso di te in una densa nube, perché il popolo senta quando io parlerò con te e credano sempre anche a te» (Esodo, 19, 9), nell’Apocalisse di Giovanni (14, 14) si parla di «una nube bianca e sulla nube uno stava seduto, simile a un Figlio d’uomo; aveva sul capo una corona d’oro e in mano una falce affilata». L’interpretazione medievale rese queste morbide dimore piú affollate, non solo da divinità, ma anche da esseri misteriosi e, soprattutto, da diavoli. Dove altro poteva vivere infatti Satana (e i suoi accoliti) dopo avere tentato di farsi simile all’Altissimo e ascendere al cielo? Punito per il suo peccato, il diavolo fu precipitato dal cielo, ma non poté piú condividere neanche la bassezza degli uomini che – sostiene Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) – con la loro umiltà fanno penitenza dei peccati. Poveri diavoli, che da una parte tentano di risalire orgogliosamente al cielo e dall’altra si tuffano costantemente sulla terra per rapire anime! In questo movimento vorticoso e incessante, quale miglior mezzo di locomozione, se non le nuvole? Queste infatti sono molto appropriate ai demoni, scrive Michele Psello (1018-1096), perché sono esseri capaci di adattarsi a prendere ogni forma, proprio come le nuvole, luglio

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Fondazione di Santa Maria Maggiore, tempera su tavola di Masolino da Panicale. 1423 (o 1428). Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. Al centro della composizione, si possono notare le nuvolette dipinte dall’artista per cercare di ottenere una sorta di «fuga» prospettica. «che figurano ora orsi, ora anche draghi o qualunque altro aspetto». Cosí come le nubi formano figure diverse spinte dal vento, cosí i demoni si trasformano, «si contraggono come nella diminuzione di un rigonfiamento o si estendono in lunghezza», potendo anche cambiare «figura e colori in vari modi». Perché, spiega Psello, il loro corpo è molto cedevole.

Dal misterioso paese di Magonia Ma tali credenze circolavano da secoli tra le genti piú o meno cristianizzate d’Europa se già Agobardo (779-840), arcivescovo di Lione, si sentí costretto a scrivere un Liber contra insulsam vulgi opinionem de grandine et tonitruis, in cui raccontava un episodio insolito, che può anche essere letto come una delle piú antiche testimonianze di «caccia alle streghe». Si trovava nei paraggi di Lione, quando vide tre uomini e una donna che stavano per essere lapidati, perché – cosí dicevano gli abitanti – erano caduti da una nave che navigava tra i nembi. Proveniva da una terra chiamata Magonia e aveva il compito di distruggere il raccolto inviando la grandine, a meno che qualcuno non li avesse pagati per portarsi altrove. Agobardo riuscí a convincere la folla a lasciar andare quei poveri sventurati, sostenendo che non solo quella era un’insulsa opinione, ma che i beni dati ai truffatori erano senz’altro tolti alle decime che si dovevano alla Chiesa. La nuvola fu però anche un modo per conoscere Dio in via indiretta, simbolo dell’imperscrutabilità della mente divina: essa è caligo, nubes ignorantiae, che diviene preghiera nella Teologia mistica dello Pseudo Dionigi l’Aeropagita (V-VI secolo): «Guidaci verso la cima (…) dove i misteri semplici, assoluti e immutabili della teologia vengono svelati nella tenebra luminosissima del silenzio». Questa caligo, questa tenebra dell’ignoranza è però un mezzo per giungere a colui che è intoccabile, invisibile, ma che si rivela facendo «cessare ogni conoscenza», momento in cui finalmente «si conosce al di sopra della conoscenza».

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Questa «nube oscura», questa «tenebra divina» di cui parla Dionigi è luce inaccessibile abitata da Dio, destinata ai poveri di spirito e a coloro che «proprio perché non vedono e non conoscono, si trovano veramente al di sopra della visione della conoscenza». Diverrà, nel Trecento, La nube della non conoscenza, come recita il titolo di una guida spirituale in cui la nube diviene tramite del rapporto con l’essenza divina: «Non c’è né mai ci sarà in questo mondo un essere tanto puro e tanto in alto rapito a contemplazione e amore della divinità senza che vi sia tra esso e il suo Dio un’alta e meravigliosa nube di non conoscenza». Claudio Corvino

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Lo scaffale Alberto Di Santo Guerre di torri Violenza e conflitto a Roma tra 1200 e 1500 collana La corte dei papi,

28, Viella, Roma, 372 pp.

32,00 euro ISBN 978-88-6728-504-4 www.viella.it

Da sempre radicato nella natura umana, l’istinto violento ha assunto nelle varie epoche le manifestazioni piú diverse, esternandosi in fenomeni che, da circoscritti, potevano arrivare alla faida organizzata e ai ben piú ampi conflitti tra fazioni rivali. Alberto Di Santo affronta in maniera egregia questo scottante (e attuale) argomento, grazie alla ricca documentazione letteraria offerta dalle cronache dell’epoca, che forniscono un’ampia quanto pittoresca testimonianza sui fenomeni violenti e sulle modalità in cui le fazioni si organizzano e si aggregano, mettendo in luce un livello di concorrenzialità assai elevato nella Roma tardo-medievale. Molteplici sono gli aspetti «violenti» su cui l’autore si sofferma. Con la loro componente altamente aggressiva, i ludi cavallereschi e le varie simulazioni di battaglie

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(tornei, giostre, bigordi, quintane, ecc.) – che a Roma appaiono solo nella seconda metà del XV secolo – non sono altro che modi per veicolare un evidente

carattere intimidatorio, che si realizza anche attraverso la progressiva militarizzazione del ceto medio. Altra forma «violenta» diffusa è il duello giudiziario, basato sul principio ordalico, in cui il risultato finale è connesso con la volontà di Dio e che, gradualmente, si trasforma in duello d’onore. Le razzie o cosiddette azioni di «guasto» rappresentano un altro fenomeno diffuso a Roma sin dal XIII secolo per imporre l’egemonia sulle terre circostanti: una pratica che cresce progressivamente nel XV secolo e che si manifesta con furti di bestiame, rapimenti

per estorsione, furto dei beni materiali come ricompensa a chi partecipa a uno scontro. Vi possono quindi essere violenze su case, animali e persone: nei primi due casi, tali atti si trasformano in una sorta di personificazione del nemico, ai danni del quale la violenza diventa una damnatio memoriae all’ennesima potenza. Esemplare è il caso di Cola di Rienzo, a cui l’autore dedica un ampio spazio, in cui ogni fase della sua detronizzazione e uccisione, derisione ed eliminazione del cadavere avviene seguendo un rituale ben preciso. Accanto alle varie modalità dei fenomeni violenti, descritte con dovizia di particolari, un elemento interessante è costituito dalle trasformazioni urbanistiche determinate dalla cultura «faidale» (alimentata da scontri tra baronie e lignaggi opposti) attraverso la costruzione di case-torri, fortificate a scopo difensivo, che sono, ancora una volta, la testimonianza eloquente di una società in cui il

conflitto e la violenza restano centrali alla risoluzione dei problemi e al mantenimento dei delicati equilibri tra i vari poteri locali. Franco Bruni Marialuisa Bottazzi, Paolo Buffo, Caterina Ciccopiedi, Luciana Furbetta, Thomas Granier (a cura di) La società monastica nei secoli VI-XII. Sentieri di ricerca École française de Rome-CERM, Roma-Trieste, 464 pp., ill. b/n e col.

34,00 euro ISBN 978-88-95368-2 www.cerm-ts.org

Frutto di un convegno svoltosi a Roma nel 2014, il volume affronta l’«universo monastico», dalla sua fase nascente, nell’Alto Medioevo, fino alla grande fioritura del XII secolo. I 19 contributi analizzano il fenomeno del monachesimo nelle sue varie sfaccettature, toccando i momenti piú salienti della sua storia: dalla fase anacoretica, passando per la grande rinascita carolingia, sino ad arrivare alla riforma dell’XI secolo e alla successiva espansione del movimento cistercense. Uno dei pregi del volume è quello di oltrepassare

i limiti «europei», proponendo studi dedicati alle realtà greca, egiziana, etiope e palestinese. Al tempo stesso, il tema monastico viene indagato sia nelle sue realtà piú circoscritte – i monasteri di Conques (Gallia carolingia), Lorvão (Portogallo), Peristerai (Grecia), San Silvestro di Nonantola –, sia in un’ottica geografica piú ampia. Varie sono le tematiche su cui si imperniano i saggi: dalla storia dell’arte al diritto, dalla produzione scritta all’economia, senza tralasciare il rapporto tra potere e realtà monastiche e il monachesimo femminile. Grazie a un approccio comparativo tra le varie esperienze e realtà monastiche emerge un panorama articolato, delineando un fenomeno che ha rappresentato una «parte integrante della storia della Chiesa». F. B.

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Le cantiche del re compositore MUSICA • Alfonso X, detto il Saggio,

sedette sul trono di León e di Castiglia in un momento particolarmente turbolento e, forse anche per questo, preferí spesso coltivare le arti e le scienze. Si circondò di musicisti, poeti, filosofi e storici, e, oltre a proporsi come illuminato mecenate, volle cimentarsi in prima persona nella composizione

U

no dei piú straordinari repertori lirico-musicali del XIII secolo, che ci è fortunatamente pervenuto integralmente attraverso tre preziosi codici, ci riporta alla Spagna di Alfonso X, detto el Sabio (il Saggio), re di Castiglia e di León dal 1252 al 1284. Si tratta delle cantigas, componimenti poetico-musicali la cui paternità è ascrivibile all’entourage del sovrano, un mecenate di prim’ordine sia nelle arti che nelle scienze. Personaggio talentuoso e dai molteplici interessi, Alfonso contribuí in prima persona alla stesura di alcuni dei testi e delle musiche delle cantigas, un corpus che conta ben 419 brani su testi in galiziano-portoghese accompagnati dalla notazione musicale. Fra l’altro, si tratta, a oggi, della piú vasta raccolta di liriche in testo volgare con notazione musicale del Duecento – la sua compilazione è databile fra il 1264 e il 1284 –, superata soltanto, in termini di

quantità, dalla vasta produzione in lingua provenzale di cui furono artefici i trovatori.

Le grazie e i miracoli della Vergine Incentrato su questo repertorio, la pregevole raccolta Cantigas de Santa Maria riesce a cogliere con maestria il

Cantigas de Santa Maria Martin Novák, Margit Übellacker, Barbora Kabátková, Hana Blažiková Outhere Music (LPH017), 1 CD www.outhere-music.com

Gli interpreti della raccolta dedicata alle cantigas di Alfonso il Saggio: da sinistra, Hana Blažiková, Margit Übellacker, Barbora Kabátková e Martin Novák.

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CALEIDO SCOPIO fascino di queste musiche, incentrate sulla figura della Vergine Maria quale dispensatrice di grazie e di miracoli. Il carattere narrativo delle scene descritte in queste liriche, come piccoli quadri di vita quotidiana, ci svela un variopinto tessuto sociale, narrato mediante una struttura metrico-musicale semplificata, che si basa sul ritornello (refrain) – in cui si commenta l’azione salvifica della Madonna –, mentre gli interventi prodigiosi vengono esposti nelle varie strofe. Nel disco sono presenti sia le cantigas de miragres, dedicate ai miracoli, sia le cantigas de loor, che invece esaltano le qualità della Madre del Signore. I brani si contraddistinguono per il loro melodismo semplice e, perciò, di grande comunicativa, in cui trapelano d’un canto l’influenza della monodia gregoriana e, dall’altro, peculiarità ritmiche tipiche della tradizione arabo-andalusa.

Caratteri arabeggianti Diverse sono le soluzioni interpretative adottate in questa registrazione. Di alcune cantigas i musicisti hanno infatto scelto di proporre una versione strumentale, che mette in risalto l’affascinante carattere arabeggiante dei brani proposti; in questo caso sono stupendamente eseguiti dall’arpa gotica e dal salterio di Barbora Kabátková e Hana Blažiková, affiancati dal dulcimer di Margit Übellacker e dalle percussioni di Martin Novák. Sia Kabátková che Blažiková si esibiscono anche come soliste di canto con una vocalità pura, essenziale, particolarmente consona a questo repertorio antico. Da notare peraltro, sempre nelle voci, l’interessante uso del contrappunto per quinte parallele, dal forte sapore arcaico, e utilizzato in taluni casi a mo’ di elemento improvvisativo, secondo una prassi filologica piú che giustificabile. Franco Bruni

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Musiche per una poetessa MUSICA • Quello di Christine de Pizan è uno dei rari

casi di «donne in carriera» del Medioevo. Formatasi alla corte di Francia, coltivò numerosi interessi, dedicandosi con particolare estro alla poesia. E ora, sui suoi versi, è stato costruito un progetto musicale davvero pregevole

N

ella società medievale, dominata da una cultura prettamente maschilista, sono rari i casi in cui la donna sia riuscita a elevarsi dalla condizione di subalternità. Quando ciò è accaduto, si è trattato di personaggi generalmente riconducibili all’ambiente ecclesiastico, con figure di primo piano, tra le quali spicca, per esempio, la mistica tedesca Ildegarda di Bingen. Va dunque considerata come un’eventualità piuttosto rara quella di una donna di estrazione non ecclesiastica che abbia raggiunto fama e fortuna in ambiti normalmente riservati alla sfera maschile.

Figlia di un astrologo E tanto piú eccezionale, in questo senso, è la figura di Christine de Pizan, scrittrice francese di origine italiana – nasce a Venezia intorno al 1364 –, che poté formarsi intellettualmente grazie al padre Tommaso da Pizano, medico e astrologo dell’Università di Bologna, che si guadagnò una fama tale da essere chiamato dal re di Francia Carlo V, nel 1368. Nell’ambiente di corte francese, Christine ebbe dunque modo di

Christine de Pizan. Chansons et Ballades VocaMe Berlin Classics (0300699BC), 1 CD www.vocame.de studiare e affermarsi – soprattutto dopo la morte del marito, il notaio e segretario del re Étienne du Castel (che l’aveva impalmata quando la giovane aveva solo 15 anni) –, come poetessa e scrittrice dedita all’evocazione di un universo lirico visto da una prospettiva tutta al femminile, ma anche cimentandosi luglio

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Particolare di una miniatura raffigurante Christine de Pizan nel suo studio. XV sec. Nata a Venezia intorno al 1364, seguí il padre Tommaso, medico e astrologo, alla corte di Francia, dove poté studiare e dedicarsi alle arti, mettendosi in luce soprattutto come poetessa. in saggi di filosofia, di etica e perfino di arte militare! Alla sua straordinaria figura è dedicata l’antologia Christine de Pizan. Chansons et Ballades, che si sofferma sulla produzione lirica amorosa della poetessa, con un assaggio di due dei generi poetici piú in voga nel Trecento. In realtà, benché, come apenna accennato, avesse ricevuto una vasta educazione, Christine de Pizan non si cimentò mai nella composizione musicale.

Un’operazione ineccepibile Da qui nasce la brillante idea di Michael Popp, direttore dell’ensemble femminile VocaMe, di adattare alcuni dei suoi poemi ad altrettante musiche dell’epoca, secondo la tipica prassi del contrafactum, che consiste nel prendere a prestito partiture altrui adattandovi nuovi versi. Un’operazione, dunque, filologicamente ineccepibile e che trova riscontro in un progetto artistico di grande pregio. La tematica amorosa qui presentata riflette molto della biografia della poetessa, la quale, a un certo punto della sua vita, si ritrovò a essere vedova e con scarse possibilità economiche; difficoltà che però riuscí a superare grazie al talento letterario e alla incredibile intraprendenza. Nel delicato accostamento tra testo e musica, Michael Popp ha compiuto un’operazione egregia, scegliendo musiche del Trecento e Quattrocento firmate da compositori francesi e franco-fiamminghi – gli autori sono Bernardt de Ventadorn, Machaut, Gilbert de Berneville, Binchois –, nonché di Giovanni Pierluigi da Palestrina (con il quale, quindi, si

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spazia fino alla seconda metà del Cinquecento), capaci di incarnare al meglio lo spirito dei versi. Tornano dunque melodie dal sapore trobadorico, cosí come brani in cui la vivacità contrappuntistica ci riporta alla grande stagione arsnovistica trecentesca, toccando, con A Dieu, mon ami, le vette del contrappunto palestriniano.

Oltre la filologia Ben riuscita, dunque, l’idea di utilizzare i poemi di Christine e di adattarvi musiche che lei stessa ascoltò e apprezzò… Poemi che, del resto, compositori piú tardi potrebbero aver ammirato e messo

in musica. Siamo insomma di fronte a un esperimento che va ben oltre la filologia e che ricrea una dimensione sonora che copre circa tre secoli e in cui il comune denominatore resta la grande arte di Christine de Pizan. Il progetto artistico vede brillare il quartetto VocaMe, un’eccellenza tutta al femminile, formato dai mezzisoprani Sigrid Hausen e Petra Noskaiová, e dai soprani Sarah M. Newman e Gerlinde Sämann, magistralmente dirette da Michael Popp, che si cimenta anche nell’accompagnamento strumentale con il flauto, la viella, l’arpa e l’oud (antesignano arabo del liuto). F. B.

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