Medioevo n. 233, Giugno 2016

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MEDIOEVO n. 233 GIUGNO 2016 GENOVA ITALIA DEI COMUNI/6 GENTE DI BOTTEGA/5 CENTAURI S. SOFIA DI BENEVENTO DOSSIER ARECHI II

EDIO VO M E



SOMMARIO

Giugno 2016 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE «Fare le cose alla carlona»

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MOSTRE Collaborazioni eccellenti

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ITINERARI Nel «vero mezzo di Milano»

COSTUME E SOCIETÀ

CALEIDOSCOPIO

GENTE DI BOTTEGA/5 Lame, catini e pennelli

CARTOLINE Cracovia, Italia

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UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO All’ombra del noce

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LIBRI Non erano solo «angeli del focolare» Lo scaffale

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MUSICA Ai tempi dell’Ars Nova Dal Saladino al Poverello

111 112

di Barbara Conti ed Emanula Porta Casucci

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APPUNTAMENTI È arrivato l’imperatore... La devozione fa spettacolo Nel ricordo di un’immagine miracolosa L’Agenda del Mese

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STORIE

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MOSTRE Genova, porta del Mediterraneo

testi di Colette Dufour Bozzo, Gabriella Airaldi, Gianluca Ameri, Giustina Olgiati, Loredana Pessa 28

IMMAGINARIO Centauro Fra demonio e santità di Domenico Sebastiani

CIVILTÀ COMUNALE/6 Nella penisola dei mercanti di Furio Cappelli

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LUOGHI SAPER VEDERE Benevento

Una stella per la Sapienza di Elena Percivaldi

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Dossier

Arechi II L’ULTIMO LONGOBARDO 85 di Tommaso Indelli


di tradizioni e leggende medievali. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

MEDIOEVO Anno XX, n. 233 - giugno 2016 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 44/45, 46 (alto, a sinistra), 74 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 5, 52/53, 56, 66 (alto); The Art Archive: pp. 46 (basso), 49, 88/89; Album: p. 54; Archivio Magliani/Mauro Magliani & Barbara Piovan: p. 58 (sinistra); Electa/Foto Studio Saporetti: p. 62; Electa/ Sergio Anelli: pp. 64/65 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 8-12, 28 (foto Stefano Goldberg), 32, 35 (alto) – Cortesia Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale: p. 13 – Cortesia degli autori: pp. 14-15, 18 – Doc. red.: pp. 28/29, 42, 45 (basso), 50/51, 58 (destra), 66 (basso), 70/71, 73, 78, 80-83, 85, 88, 93, 94 (alto), 95, 96, 97 (alto), 98-101, 106-107, 108 – Studio Leoni: pp. 30, 30/31 (alto), 35 (basso) – Valerio De Luca: pp. 30/31 (basso), 33, 34, 36-39 – DeA Picture Library: pp. 48 (basso), 53, 91; J.E. Bulloz: pp. 40/41; G. Dagli Orti: pp. 43, 62/63, 72 (destra, centro/basso), 92 (alto); M. Borchi: pp. 46/47; A. Dagli Orti: pp. 48 (alto), 92/93 (basso); G. Sosio: p. 75; L. Romano: p. 94 (basso); A. De Gregorio: pp. 102-103 – Stefano Suozzo: p. 47 – Bridgeman Images: pp. 52, 55, 57, 60, 90/91 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/ Daniel Arnaudet: pp. 60/61; RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Michèle Bellot: p. 67; RMN-Grand Palais (Domaine de Chantilly)/René-Gabriel Ojéda: p. 68; Folco Quilici: p. 72 (sinistra, in alto); Archivio SEAT: pp. 76/77; Raffaello Bencini: p. 79 – Castello Reale del Wavel, Cracovia: pp. 104-105 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 87, 97.

Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Gabriella Airaldi è professore emerito di storia medievale all’Università degli Studi di Genova. Gianluca Ameri è ricercatore all’Università degli Studi di Genova. Vito Bianchi è scrittore e archeologo. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Barbara Conti è storica dell’arte medievale. Claudio Corvino è antropologo. Colette Dufour Bozzo è professore emerito di storia dell’arte medievale all’Università degli Studi di Genova. Tommaso Indelli è assegnista in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Mila Lavorini è giornalista. Giustina Olgiati è storica e funzionario dell’Archivio di Stato di Genova. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Loredana Pessa è conservatore delle collezioni tessili e raccolte ceramiche dei Musei Civici di Genova. Emanuela Porta Casucci è dottore di ricerca in storia medievale. Stefania Romani è giornalista. Domenico Sebastiani è dottore in giurisprudenza, cultore

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

In copertina uno dei due leoni marmorei, opere ottocentesche di Carlo Rubatto, posti in cima alla scalinata della cattedrale di S. Lorenzo a Genova.

Editore: MyWay Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6346 Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1

Nel prossimo numero storie

medioevo nascosto

costume e società

dossier

L’argento della Maremma L’arte del disegno

L’abbazia di Giano

Il paesaggio nel Medioevo


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Fare le cose alla carlona

P

rotagonista del detto di questo mese è niente meno che Carlo Magno: e, a ben pensarci, è piuttosto paradossale che a un imperatore tocchi un modo di dire che significa «far le cose grossolanamente, senza cura e in modo trasandato». Il reggitore del Sacro Romano Impero veniva affettuosamente chiamato «re Carlone» dagli autori dei poemi cavallereschi, a motivo della sua bonarietà e semplicità nei modi, che però, stando ad alcuni brani dei suoi biografi, rasentavano la grossolanità. Il monaco e scrittore Notkero Balbulo (840-912) – che nei Gesta Caroli ornò la figura di Carlo Magno di elementi propri dell’epica – narra che una domenica, dopo la messa, l’imperatore volle andare a caccia con il suo seguito, montando subito a cavallo, senza cambiarsi d’abito. Carlo avrà vestito «alla franca», con le brache, le calze e una tunica, lunga sino alle ginocchia e stretta in vita da una cintura, da cui pendeva la spada. Era il costume tipico del popolo franco e i nobili – primo fra tutti il sovrano – si distinguevano dai contadini per il colore, il pregio della stoffa e i galloni. Certamente il re avrà anche indossato un mantello e – all’occorrenza – un pellicciotto di ratto, lontra o agnello. Quel giorno Carlo avrebbe indossato appunto una semplice pelliccia di agnello, di scarso valore, mentre i nobili del suo seguito sfoggiavano gli abiti del giorno di festa e – ad aggravare il divario, trovandosi in Italia – avevano arricchito il loro assortimento di porpore e sete preziose.

Miniatura raffigurante Carlo Magno con il figlio Pipino, re d’Italia, da una copia delle Leges barbarorum redatta nel X sec. Modena, Biblioteca Estense. La battuta si protrasse per qualche ora, tra i rovi e i cespugli del bosco, tra il fango e la pioggia battente, finché, rientrati a palazzo, Carlo avrebbe ordinato di asciugarsi davanti al camino, senza spogliarsi. A cose fatte, l’imperatore mostrò ai suoi fedelissimi come fossero malconci quegli abiti preziosi per i quali avevano speso tanti denari, e come il suo modesto pellicciotto d’agnello fosse invece ancora utilizzabile. Notkero, ma anche Eginardo, altro biografo di Carlo, ricorrevano a simili aneddoti per esaltare la semplicità, la frugalità dell’imperatore, magnificando i bei tempi andati e stigmatizzando cosí il presente, sempre piú opulento e corrotto. Tuttavia, non furono la parsimonia e l’oculatezza a giungere ai posteri. Questo modo di fare un po’ troppo semplice per un sovrano, unito all’inclinazione per le spacconate da parte di Carlo Magno, sembra confermato da piú episodi. Tra i tanti, ve n’è uno, riportato ancora da Notkero, che ricorda come d’inverno l’imperatore usasse un mantello lungo fino ai piedi. Quando la moda iniziò ad accorciarlo, «Carlone» avrebbe esclamato, nella sua semplicità, che, dovendosi appartare per i propri bisogni, con i mantelli corti i piedi si sarebbero congelati!


ANTE PRIMA

Collaborazioni eccellenti

MOSTRE • Nella Firenze del Quattrocento fioriva la

creazione di opere in legno policromo: un’attività dominata da alcune botteghe a conduzione familiare e nella quale si cimentarono con profitto anche i piú grandi pittori dell’epoca

È

un racconto raffinato e inedito quello proposto dall’esposizione «Fece di scoltura di legname e colorí», che affronta il tema della scultura in legno dipinto del Quattrocento fiorentino, attraverso una cinquantina di opere riunite agli Uffizi: alcune appena restaurate, altre riscoperte in modo fortuito o «liberate» da sistemazioni che ne avevano finora precluso la fruizione e la valorizzazione. Il legno diventò materia preferita per le immagini di culto tridimensionali per un piú stretto contatto con la divinità a partire dal XIII secolo. Nella Firenze rinascimentale, la scultura policroma occupava una posizione preminente, ponendosi come modello espressivo imprescindibile, soprattutto per la produzione di crocifissi destinati sia alla devozione privata che conventuale, affiancati da icone della Madonna, santi, busti-ritratti e arredi liturgici. I laboratori

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di maggior successo erano a conduzione familiare, come quelli gestiti dai Sangallo o dai Del Tasso, spesso letteralmente sommersi dalle committenze.

Come una catena di montaggio La bottega rappresentava una vera e propria «impresa», al cui interno la precisa ripartizione dei compiti poteva garantire l’efficienza del lavoro, di natura eclettica. Al maestro spettavano organizzazione e definizione dell’opera nel suo complesso unitario, il controllo del risultato e la realizzazione delle parti principali. Punto di riferimento anche per l’attività delle successive generazioni di artisti furono la linea vigorosa di Donatello e la composta In alto Crocifisso in legno intagliato e dipinto, opera di uno scultore tedesco prossimo a Giovanni Teutonico. 1460-70 circa. Firenze, S. Jacopo Soprarno.

In basso San Rocco, scultura in legno intagliato di Veit Stoss. 1523. Firenze, basilica della Santissima Annunziata. Vasari lo definí un «miracolo di legno».


A destra il Tabernacolo di San Sebastiano dalla chiesa fiorentina di S. Ambrogio. La struttura e la statua, entrambe in legno intagliato e dipinto, sono opera dei Del Tasso e databili al 1497-1500; si devono invece a Filippino Lippi e alla sua bottega la nicchia dipinta, la coppia di angeli reggicorona e l’Annunciazione, realizzate intorno al 1500. postura dell’amico Brunelleschi, maestri dell’intaglio, ma anche perfetti esecutori coloristici, che perseguirono e raggiunsero l’apice del naturalismo nel corpo sofferente di Cristo sulla Croce, come testimoniano i loro due capolavori, conservati rispettivamente nelle basiliche fiorentine di Santa Croce e S. Maria Novella.

Dal tronco di un salice La maggior parte degli scultori, invece, per dipingere i propri manufatti, si rivolgeva a «veri» pittori che, talvolta, acquistavano fama in questo specifico settore, diventando molto richiesti, come Neri di Bicci, a capo di un’avviata bottega nel centro cittadino, che collaborò, tra gli altri, con Benedetto da Maiano e Desiderio da Settignano, coautore della Maddalena nella chiesa di Santa Trinita, terminata da Giovanni d’Andrea, allievo del Verrocchio, pregevole esempio di arte polimaterica, tecnica impareggiabilmente adottata dallo stesso Donatello per la sua Maddalena penitente, attualmente visibile nel Museo dell’OPA (vedi «Medioevo» n. 228, gennaio 2016). Menzionata da Vasari come «bella quanto piú dir si possa», la statua fu ricavata da un tronco di salice, ma la parte posteriore venne eseguita in sughero e i capelli modellati in gesso. E d’altronde, la partnership tra scalpello e pennello dette vita anche a polittici misti, caratterizzati da composizioni scenografiche, che risaltavano negli spazi liturgici, come dimostra il Tabernacolo di San Sebastiano, proveniente dalla chiesa

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ANTE PRIMA A destra Sacra Famiglia con san Giovannino, dipinto su tavola di Michelangelo Buonarroti, meglio noto come Tondo Doni. 1507 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi. La cornice intagliata e dorata, disegnata dal maestro stesso, è opera di Francesco Del Tasso. di S. Ambrogio, nato dalle abili mani di Leonardo Del Tasso e Filippino Lippi. Uno dei casi piú ragguardevoli di collaborazione rimane comunque quello voluto da Michelangelo, che disegnò la cornice del suo Tondo Doni, affidandone poi l’esecuzione a un esponente di spicco dell’intaglio, Francesco Del Tasso.

Il contributo degli stranieri Protagonista della vitale stagione artistica rinascimentale, la statuaria toscana assorbí influenze d’oltralpe, assumendo connotati cosmopoliti, grazie anche alla presenza nella città gigliata di artisti stranieri, come Giovanni Teutonico, autore di un

A sinistra angelo reggicandelabro in legno intagliato e dipinto, attribuito alla cerchia di Antonio Rossellino. 1450-1475 circa. Firenze, Museo Bardini.

Crocifisso proveniente della chiesa di S. Jacopo Soprarno, oppure come Veit Stoss, il cui San Rocco della Santissima Annunziata fu definito da Vasari come «miracolo di legno (…) senza alcuna coperta di colore», dove gesto e movimento si rivestono di originale suggestione. Secondo il pensiero classicista cinquecentesco, l’arte scultorea lignea era infatti chiamata a presentare il materiale allo stato naturale, senza addizioni policrome, quasi a voler far risaltare la potenza espressiva della forma nella sua essenzialità, dove la figura «debbe parimente esser ritonda, morbida e dolce nell’aria e per tutto unitamente concordata». Mila Lavorini DOVE E QUANDO

«Fece di scoltura di legname e colorí. La scultura del Quattrocento in legno dipinto a Firenze» Firenze, Galleria delle Statue e delle Pitture degli Uffizi fino al 28 agosto 2016 Orario martedí-domenica,8,15-18,50; chiuso il lunedí Info www.gallerieuffizimostre.it giugno

MEDIOEVO


Nel «vero mezzo

di Milano» ITINERARI • La città ambrosiana ritrova un monumento di straordinaria

importanza: la cripta della chiesa del Santo Sepolcro. Un luogo di culto suggestivo, realizzato là dove pulsava di vita, in epoca antica, il Foro della Mediolanum romana

D

opo cinquant’anni di chiusura, ha riaperto nel cuore di Milano la cripta della chiesa del Santo Sepolcro, nella quale si intrecciano due millenni di vita civile e religiosa della città. Il luogo di culto si trova accanto al complesso che racchiude la Biblioteca e la Pinacoteca Ambrosiana, nell’area che Leonardo da Vinci, nel Codex Atlanticus, indica come «il vero mezzo di Milano». Del resto in età romana, nei pressi dell’attuale piazza Pio XI, non lontano dalla zecca, si apriva il Foro, testimoniato da tracce archeologiche piuttosto limitate, ma indicative: le lastre in marmo bianco di Verona, usate per la pavimentazione

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dell’antica struttura furono in parte reimpiegate, con la stessa finalità, nella cripta del Santo Sepolcro, che è stata oggetto di restauri avviati all’inizio del 2015 su progetto di Gaetano Arricobene e finanziati da MiBACT, Regione Lombardia e Fondazione Cariplo.

Qui pregavano i patarini Le prime notizie sul tempio risalgono al 1030, quando un monetiere, Rozzone, volle erigere una basilica con una chiesa ipogea. Il documento di fondazione descrive una struttura a croce, con nartece fiancheggiato da due torri e coro a tre absidi. L’arcivescovo Ariberto da Intimiano

In alto Milano. Uno scorcio della cripta della chiesa del Santo Sepolcro, riaperta al pubblico dopo una lunga chiusura. decise di dedicare alla Santissima Trinità il luogo di preghiera, che fu teatro delle lotte legate alla pataria, il movimento nato nell’XI secolo proprio a Milano, con l’intento di contrastare la simonia e il concubinato ecclesiastico. La storia del complesso si intreccia anche con quella delle crociate: dopo la riconquista di Gerusalemme, l’arcivescovo di Milano Anselmo IV da Bovisio, il 15 luglio 1100, dedicò al Santo Sepolcro l’edificio nel quale ha trovato spazio anche la devozione

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ANTE PRIMA della Biblioteca Ambrosiana e la campagna edilizia che conferí alla chiesa l’attuale stile barocco. A proposito delle vicende del Santo Sepolcro, Antonella Ranaldi, che ha seguito gli interventi nella cripta come soprintendente di Belle Arti e Paesaggio, sottolinea che «la chiesa inferiore ripercorre quella che c’era sopra in origine, mentre la basilica superiore è stata rifatta con Carlo Borromeo e la facciata è il risultato dei restauri ottocenteschi».

Il valore simbolico dell’evento

In alto una veduta d’insieme della cripta della chiesa del Santo Sepolcro. A sinistra il monumento a san Carlo Borromeo.

a Santa Maria Maddalena, la prima persona a cui apparve il Risorto. «L’eccezionalità della chiesa ipogea è nella sua storia millenaria», racconta Marco Navoni, dottore della Biblioteca Ambrosiana, che continua: «È lastricata con le pietre del Foro di Augusto, le stesse pietre su cui i carri romani hanno lasciato i loro solchi e sulle quali camminarono gli imperatori Costantino, Teodosio e poi sant’Ambrogio e sant’Agostino. Nell’atto di fondazione della Santissima Trinità, nel 1030, è chiara l’intenzione di farne un frammento di Terra Santa a Milano, un luogo di memoria trapiantato in città». Navoni sottolinea quindi i tre momenti storici nei quali emerge la consapevolezza che «qui siamo nel Forum di Mediolanum». Nell’atto di riconsacrazione del 1100,

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l’arcivescovo indica la basilica che sorge «in medio civitatis»; piú tardi, come già ricordato, Leonardo, nella mappa cittadina a volo d’uccello del Codex Atlanticus, identifica il luogo come «vero mezzo di Milano»; e san Carlo Borromeo, quando stila gli Statuti degli Oblati, definisce il Santo Sepolcro «umbilicus civitatis».

Gli interventi dei Borromeo La struttura superiore subí rimaneggiamenti architettonici significativi proprio con i Borromeo, che introdussero nuove forme di devozione: nel 1584, san Carlo, al quale si deve la festa dell’Invenzione della croce, affidò il complesso agli Oblati, che incentivarono il culto della Passione, della Morte e della Sepoltura di Cristo. Sono invece riconducibili a Federico Borromeo la fondazione

La soprintendente mette quindi in luce l’importanza, anche simbolica, della riapertura di uno scrigno che due generazioni di Milanesi non hanno mai visto. Dal canto suo, l’autore del progetto, Gaetano Arricobene, spiega: «Per restaurare la pavimentazione, con la pulitura di diversi strati, prima sono stati applicati impacchi a effetto emolliente, poi è stato rimosso il particellato depositatosi nel tempo, anche con interventi a bisturi; infine sono stati consolidati alcuni frammenti. Questo ha consentito la rilettura delle lastre». Gli altri restauri hanno riguardato il risanamento delle murature e la deumidificazione, ottenuta allontanando e convogliando le acque meteoriche. Sono stati messi a norma gli impianti elettrico e di illuminazione e sono state eseguite le prime operazioni per mettere in sicurezza le superfici decorate, che in futuro dovranno essere restaurate. Infine è stato ripristinato l’accesso esterno alla cripta, indipendente sia da quello della chiesa superiore che da quello dell’Ambrosiana. Stefania Romani DOVE E QUANDO

Cripta del Santo Sepolcro Milano, piazza Santo Sepolcro. Orario tutti i giorni, 12,00-20,00 Info tel. 02.806921; www.milantourismpoint.com giugno

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Cold case con lieto fine

RECUPERI • La tenace attività investigativa dei Carabinieri TPC ha permesso di

rintracciare tre splendidi dipinti quattrocenteschi, «scomparsi» da oltre mezzo secolo

T

re importanti dipinti del XV secolo, dei quali si erano perse le tracce da quasi settant’anni, sono stati recuperati dai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale di Monza, al termine di una complessa attività investigativa, coordinata dalla Procura della Repubblica di Milano. La vicenda aveva avuto inizio nel 1938, a seguito del regio decreto che obbligava gli Ebrei stranieri a lasciare il territorio italiano. In vista di tale allontanamento, il Ministero dell’Educazione diffuse una circolare a difesa del patrimonio artistico nazionale nella disponibilità degli Ebrei, e, nel 1939, fu istituito l’Ente di Gestione e di Liquidazione Immobiliare (E.G.E.L.I.), per acquisire, gestire e rivendere i beni loro sottratti. Con l’ingresso dell’Italia in guerra, l’Ente estese la competenza ai sequestri dei beni degli stranieri di nazionalità nemica e, l’8 agosto 1940, il Prefetto di Lucca, fece requisire i beni della famiglia Borbone-Parma, tra cui una Madonna con Bambino, attribuita a Cima da Conegliano, una Trinità, attribuita a Alesso Baldovinetti e una Circoncisione/presentazione di Gesú al Tempio, firmata «Jeronimus ex libris», Girolamo Dai Libri. Nel 1944, dopo il sequestro, le truppe di occupazione tedesche della 16ª

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Divisione Corazzata SS avevano prelevato le tre opere, con altri oggetti d’arte, dalla Villa delle Pianore a Camaiore, di proprietà del principe Felice di Borbone-Parma.

L’intervento dei Monuments Men I beni furono quindi collocati nel Castello di Dornsberg, presso Merano – residenza del Generale Wolff, capo delle SS in Italia –, da dove sarebbero stati trasportati in Germania. Nel 1945, numerose opere asportate dai Tedeschi furono recuperate proprio in quel castello dai Monuments Men statunitensi, e, tra queste, quelle di Felice di Borbone-Parma, al quale furono restituite nel 1949. Tutte, a eccezione di tre, non ancora ritrovate, per le quali il Ministero del Tesoro dispose un indennizzo. I dipinti dovettero finire sul mercato, poiché, nel 2014, sono stati rintracciati dai Carabinieri in collezioni private: sequestrati poiché posseduti in violazione delle norme che obbligano alla restituzione dei beni sottratti, con violenza, dal territorio degli Stati facenti parte dell’ONU, a opera delle truppe tedesche nel secondo conflitto mondiale, sono stati affidati alla Pinacoteca di Brera. (red.)

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ANTE PRIMA

È arrivato l’imperatore...

APPUNTAMENTI • Pietro Antonio Sanseverino, principe di Bisignano, fu uno degli

alleati piú fedeli del regno di Spagna. E per questo Carlo V, recandosi in visita nella sua cittadina, volle ricompensarlo nominandolo cavaliere del «Toson d’Oro»

B

isignano, ai piedi dell’altopiano della Sila, nel Cosentino, ha rappresentato per secoli un centro di cerniera fra il mondo latino e quello greco. Nel 1020 fu elevata a Città Libera, condizione che mantenne fino al 1056, quando cadde sotto il dominio dei Normanni. Nel 1461 Luca Sanseverino, duca di San Marco, la acquistò e ne divenne il primo principe per concessione di Ferrante d’Aragona, re di Napoli. Nel secolo successivo Pietro Antonio Sanseverino, quarto principe di Bisignano, ne resse le sorti dal 1515 al 1559, fino alla sua morte, avvenuta a Parigi. Pietro Antonio fu un vero principe rinascimentale, liberale e magnanimo, oltre che il primo membro della casa a seguire fedelmente la politica dei re di Spagna. L’imperatore Carlo V d’Asburgo, re di Spagna e delle Due Sicilie, fu legato a lui da profonda amicizia, soprattutto per i molti aiuti militari e finanziari ricevuti. Nel novembre 1535, in occasione del suo viaggio nell’Italia meridionale, Carlo V fece visita a Bisignano.

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Per l’occasione furono approntati solenni e sfarzosi festeggiamenti regali. Pietro Antonio gli tributò vari onori con tornei cavallereschi e battute di caccia e, nella circostanza, l’imperatore avrebbe insignito il principe dell’onorificenza iberica del «Toson d’Oro», iscrivendolo in questo corpo di cavalieri.

Una cavalla bianca per il papa Ogni anno Bisignano organizza il Palio del Principe, che ricorda appunto la storica visita di Carlo V. Le celebrazioni iniziano la terza domenica di giugno, con il corteo storico degli otto rioni cittadini. Durante la sfilata viene rievocata la donazione della «Chinea bianca», una cavalla che nel periodo rinascimentale i Sanseverino allevavano a Bisignano, donandola poi al pontefice dell’epoca. Oggi questa cavalla bianca è il simbolo municipale di Bisignano. Il palio si disputa nell’ultima domenica di giugno fra Borgo di Piano, Rione Piazza, Rione San Simone, Rione Giudecca,

Rione Santa Croce, Rione San Pietro, Rione San Zaccaria, Rione Cittadella/Coscinale. Dopo il sorteggio effettuato dalla giuria che sovrintende alla gara, gli otto cavalieri rionali scendono in campo due per volta e, dopo il via segnato dal suono di una campana, percorrono al galoppo un percorso a forma di «L», con l’obiettivo di infilare con la propria lancia anelli di varia grandezza (a ognuno dei quali è attribuito un determinato punteggio) fissati ad alcune torri. Alla fine del percorso i cavalieri devono colpire lo scudo del saracino. Le sfide fra i rioni si svolgono sul Campo del Sole e sul Campo del Muro. Al rione vincitore viene assegnato il drappo del palio, dipinto ogni anno da un diverso artista locale. Al cavaliere vittorioso vanno invece una spada di Toledo e un premio in denaro. Nei giorni che precedono il palio, la cittadina è animata da feste rionali, spettacoli di sbandieratori, concerti musicali, sagre e convegni. Tiziano Zaccaria giugno

MEDIOEVO


Sulle due pagine il campo di gara del Palio del Principe di Bisignano. In basso Sankt Margarethen. Due momenti della Passione di Cristo.

La devozione fa spettacolo L

e profonde radici cattoliche dell’Austria si esprimono attraverso celebrazioni religiose diffuse soprattutto nei piccoli centri abitati. Ogni cinque anni, nei mesi estivi, uno di essi, Sankt Margarethen, un tipico villaggio nella regione del Burgenland, mette in scena la Passione di Cristo, quest’anno dal 18 giugno al 21 agosto. Sul grande palco all’aperto del Römersteinbruch (letteralmente «vecchia carriera»), seicento attori dilettanti recitano con dedizione in abiti d’epoca, secondo un antico testo arricchito da canzoni religiose di origini medievali intercalate fra le scene.

Le tappe salienti di un’esistenza straordinaria Nella sua prima parte, lo spettacolo propone gli episodi piú significativi della vita di Gesú: la cura di un cieco, il Sermone sulla montagna, la benedizione dei bambini, i dibattiti con i Farisei... Nella seconda parte vengono proposte le vicende finali: l’Ultima Cena, la scena nell’orto degli ulivi, l’interrogatorio da parte dei sacerdoti supremi, la sua condanna a morte, il Calvario, la Crocifissione, la messa al sepolcro, la Resurrezione e infine l’apparizione alla Maddalena, ai discepoli e agli apostoli. Allestito presso una cava romana, il Römersteinbruch può accogliere 3500 spettatori e permette di vivere la Passione in modo realistico. A organizzare l’evento è la parrocchia

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di Sankt Margarethen, che con i profitti dell’iniziativa sostiene progetti benefici e missionari. Julika Bachmann curerà la regia della Passione 2016; responsabile delle musiche sarà il maestro Thomas Steiner. Queste le date: 18, 19 e 25 giugno; 2, 3, 9, 10, 16, 17, 23, 24, 30 e 31 luglio; 6, 7, 13, 14, 20 e 21 agosto. L’antica città mercato di Sankt Margarethen im Burgenland si trova 70 km a sud est di Vienna ed è raggiungibile tramite l’eccellente rete autostradale austriaca. La cava romana che ospita il teatro Römersteinbruch è posta a 9 km dal casello «Eisenstadt Süd». Per autobus e auto è disponibile un ampio parcheggio. La Passione può essere una buona occasione per trascorrere un week end nella zona: Vienna e Bratislava sono raggiungibili in meno di un’ora. Info per biglietti, alloggi, ristorazione e visite nelle vicinanze: Ufficio Turistico di St. Margarethen, tourismus@ st-margarethen.at, www.st-margarethen.at T. Z.

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ANTE PRIMA

Nel ricordo di un’immagine miracolosa APPUNTAMENTI • Ripristinata sul finire dell’Ottocento, la Festa dell’Incoronazione

di Tongeren affonda le sue radici nel XIV secolo, quando un dipinto della Vergine conservato in città cominciò ad attirare schiere sempre piú numerose di pellegrini

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el Medioevo, il piccolo centro di Tongeren, nella regione belga del Limburgo, fu sede di pellegrinaggi religiosi in omaggio a un’immagine della Madonna ritenuta miracolosa, oggi andata persa. A partire dal 1390 e ogni sette anni, il dipinto e un piccolo tesoro conservati nella basilica cittadina (reliquiari, corone e altri oggetti preziosi) venivano esposti per 16 giorni alla venerazione dei fedeli. Nel 1608 i festeggiamenti furono arricchiti con una solenne processione, finché, nel 1790, il rito venne interrotto dall’occupazione francese. Il culto per la Madonna tornò in auge solo verso la fine dell’Ottocento: nel 1889 il vescovo di Liegi, con una lettera a papa Leone XIII, chiese di poter effettuare una cerimonia di incoronazione dell’immagine miracolosa e una processione per le strade e le piazze addobbate di Tongeren.

Il pontefice diede il proprio consenso e, nel 1890, l’antica usanza venne ripristinata e celebrata, come un tempo, ogni sette anni.

Il riconoscimento dell’UNESCO La tradizione è stata mantenuta viva fino ai giorni nostri e l’UNESCO l’ha riconosciuta come bene del Patrimonio immateriale dell’Umanità. Dopo l’edizione del 2009, la Festa dell’Incoronazione torna quest’anno nella settimana dal 3 al 10 luglio. In particolare, sono in programma quattro processioni: domenica 3 e 10, alle 15,00, martedí 5 e venerdí 8, alle 19,00. Piú di tremila figuranti daranno vita al fastoso corteo: diciotto gruppi in abiti d’epoca rappresenteranno varie scene storiche, inframmezzate da musiche medievali. Sempre il 3, 5, 8 e 10 luglio, alle 22,30, si svolgerà una suggestiva cerimonia religiosa notturna nella cornice Tongeren. Una delle processioni organizzate in occasione della Festa dell’Incoronazione.

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della piazza del Mercato, sede del Municipio e della basilica in stile gotico dedicata alla Vergine. Inoltre, alle 10,00 delle domeniche 3 e 10 luglio verrà celebrata una Messa pontificale, accompagnata dal coro dell’Incoronazione. Durante la settimana sono in programma anche concerti, spettacoli di intrattenimento e mostre. Fra l’altro quest’anno il prezioso tesoro della chiesa locale troverà una nuova destinazione al piano superiore del chiostro romanico che si appoggia alla basilica. Qui sono conservati anche antichi manoscritti, inventari e altri documenti medievali, molti dei quali risalgono a prima dell’anno 1000.

Sede di mercato e poi di diocesi Adagiata sulle rive del fiume Jeker, Tongeren conta attualmente circa 30 000 abitanti. Nel 15 a.C. l’area fu occupata da un insediamento gallo-romano denominato Atuatuca Tungrorum, e, nel II secolo d.C., il centro ottenne i diritti di mercato, per poi divenire, nel IV secolo, sede della prima diocesi dei Paesi Bassi. In questo periodo il piú famoso vescovo di Tongeren fu Servatius, oggi sepolto a Maastricht. Nel Medioevo la cittadina fu uno dei 23 Comuni del principato di Liegi, conoscendo un buon periodo di prosperità economica grazie alla sua posizione centrale. T. Z. giugno

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre

riscoperta inglese del primo Novecento, legata in particolare a Roger Fry, Duncan Grant e al Gruppo di Bloomsbury. info Call Center: tel. 199 15 11 34 (attivo lu-ve, 9,00-18,00; sa, 9,00-12,00); e-mail: mostrapierodellafrancesca @civita.it; www. mostrapierodellafrancesca.com

ZURIGO CONRAD GESSNER 1516–2016 Museo Nazionale Svizzero fino al 19 giugno

Si celebra quest’anno il cinquecentenario della nascita, Conrad Gessner, uno dei maggiori naturalisti elvetici, la cui opera piú famosa, l’Historia animalium, consta di quattro volumi e descrive per la prima volta tutti gli animali allora conosciuti. Punto di riferimento essenziale per generazioni di studiosi, fu un primo passo nel lungo percorso che conduce verso la zoologia moderna. Gessner fu una personalità autorevole anche nel campo della botanica, delle scienze della terra, della medicina, della teologia e della linguistica. Nel complesso, pubblicò oltre 70 opere. Nato nel marzo del 1516, Conrad Gessner fu anche medico municipale. Prendendosi cura delle persone deboli e malate che vivevano a Zurigo fu colpito dalla peste, che lo portò alla morte nel 1565. La mostra realizzata dal Museo Nazionale è allestita in collaborazione con la Biblioteca centrale di Zurigo, che conserva parte del lascito di Gessner. info www.gessner500.ch; www.nationalmuseum.ch MILANO PRIMO DIALOGO, RAFFAELLO E PERUGINO. ATTORNO A DUE SPOSALIZI DELLA VERGINE Pinacoteca di Brera, Sala XXIV fino al 27 giugno

L’accostamento tra la pala con lo Sposalizio della Vergine (1500-1504) del Perugino e la tela con lo Sposalizio della Vergine (1504) di Raffaello, esposto alla Pinacoteca di Brera, compare nella maggior parte dei libri di storia dell’arte, ma, fino a oggi, non

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era mai stato realizzato «dal vero». L’occasione viene ora fornita dal Primo Dialogo, proposto dalla Pinacoteca milanese, che permette di ammirare lo straordinario confronto tra i due seducenti capolavori, per la prima volta, ed eccezionalmente, posti fianco a fianco. Nell’occasione, si può anche ammirare lo Sposalizio della Vergine (1825) del francese Jean-Baptiste Wicar, incaricato, tra l’altro, della requisizione delle opere in Italia durante l’età napoleonica. Scoprire da vicino l’eccezionale «dialogo» tra il Perugino e Raffaello, che si tiene nella sala XXIV, permette inoltre di vedere il riallestimento delle quattro sale precedenti. Dotate di una nuova illuminazione, nuove tinte alle pareti, un rinnovato sistema di sedute e un nuovo apparato di didascalie, condividono con il pubblico il senso del racconto e dell’ordine della collezione. info tel. 02 72263.264/229; http://pinacotecabrera.org; prenotazioni: tel. 02 92800361; www.pinacotecabrera.net FORLÍ PIERO DELLA FRANCESCA. INDAGINE SU UN MITO Musei San Domenico fino al 26 giugno

Vede la luce a Forlí un progetto davvero ambizioso: riunire un nucleo adeguato di opere di Piero, artista tanto sommo

quanto «raro», è stata infatti un’operazione complessa. E non meno impegnativo si è rivelato l’intento di proporre un confronto con i piú grandi maestri del Rinascimento, tra cui Beato Angelico, Paolo Uccello, Andrea del Castagno, Filippo Lippi, Francesco Laurana. L’esposizione, inoltre, documenta l’influsso di Piero sulle generazioni di artisti a lui successiva – Marco Zoppo, Francesco del Cossa, Luca Signorelli, Melozzo da Forlí, Antoniazzo Romano e Bartolomeo della Gatta, ma anche Giovanni Bellini – e si spinge oltre, fino a indagare il mito del genio di Sansepolcro quando esso rinasce, dopo i secoli dell’oblio, nel moderno – nei macchiaioli –, e ad analizzare il fascino che la sua pittura ha esercitato su molti maestri europei: da Johann Anton Ramboux o Charles Loyeux, fino alla fondamentale

ASCOLI PICENO FRANCESCO NELL’ARTE. DA CIMABUE A CARAVAGGIO Palazzo dei Capitani, Sala della Ragione fino al 30 giugno

Inserita nel piú ampio contesto delle iniziative culturali che coinvolgono Ascoli per tutto il 2016, la mostra ricorda la figura di san Francesco in occasione dell’ottavo centenario della sua venuta nel Piceno. Nelle Marche, le visite da lui effettuate, il grande seguito che ha raccolto e, soprattutto, la precoce istituzione di conventi maschili e femminili legati alla Regola francescana, nonché l’origine ascolana del primo papa francescano (Niccolò IV, 1288-1292) hanno determinato lo svilupparsi di una intensa iconografia legata alla figura del santo d’Assisi e alle sue vicende. E non è un caso che, proprio nella chiesa giugno

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di S. Gregorio, nella stessa Ascoli Piceno, si conservi un affresco del XIII secolo nel quale, per la prima volta, viene illustrata la Predica agli uccelli, un tema piú volte rappresentato nei secoli successivi, fino ad assumere la caratteristica di un vero e proprio topos. Grazie ai prestiti concessi dai maggiori musei italiani, la mostra ripercorre l’evoluzione della figura di Francesco nella pittura dal Medioevo alla Controriforma info tel. 0736 298213; e-mail: info@ascolimusei.it; www.ascolimusei.it

BOLOGNA BOLOGNA 1116. DALLA ROCCA IMPERIALE ALLA CITTÀ DEL COMUNE Museo Civico Medievale fino al 17 luglio

miniati e tessuti. Particolare rilievo viene dato alla città delle Quattro Croci e alla Rocca imperiale che i Bolognesi distrussero nel

MILANO RESTITUZIONI 2016 Gallerie d’Italia fino al 17 luglio

COLLEFERRO (ROMA) IL «TESORO» DEI CONTI Museo Archeologico del Territorio Toleriense fino al 30 giugno

Realizzata nell’ambito delle manifestazioni per gli 80 anni dalla nascita del Comune di Colleferro e per l’VIII centenario della morte di Innocenzo III, la mostra espone i risultati degli scavi nel castello di Piombinara e, in particolare, i materiali provenienti dalla necropoli individuata intorno e all’interno della chiesa castellana, probabilmente dedicata a S. Nicola. Si tratta (per ora) di 113 sepolture che hanno restituito arredi-corredo databili perlopiú al XIII-XV secolo, ma con presenze, almeno in due sepolture, coeve al primo impianto della chiesa, di monili altomedievali (VII secolo). info tel 06 9781169; e-mail: museo@comune.colleferro.rm.it

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ricomposta nel 1116 dall’imperatore Enrico V, con un diploma che favorí indirettamente l’affermazione del Comune. Il documento, convenzionalmente considerato l’origine del Comune di Bologna, è esposto in mostra nell’originale rilegato nel celebre Registro Grosso. info tel. 051 2193930; www.museibologna.it; http:// nonocentenario.comune.bologna.it

Organizzata nell’ambito delle celebrazioni per il IX centenario della nascita del Comune di Bologna, la mostra illustra alcuni aspetti sociali e artistici della città agli esordi delle sue istituzioni politiche e culturali. Il progetto mira altresí a valorizzare il patrimonio presente in museo e alcuni importanti prestiti per portare all’attenzione dei visitatori significativi manufatti dei secoli XI, XII e XIII, tra cui sculture, armi, oreficerie, documenti, codici

1115 all’indomani della morte di Matilde di Canossa, signora delle città padane e toscane con vicariato imperiale. La Rocca, di cui il Palazzo Ghisilardi (sede del museo) conserva alcuni notevoli resti murari in seleníte, fu sede dei funzionari matildici, i conti di Bologna, che si opponevano al dinamismo politico ed economico della città ormai da tempo avviata ad affermare l’autonomia comunale. Mentre si consumava anche il conflitto della Lotta per le Investiture, la ribellione dei Bolognesi fu

Dal 1989, con il progetto Restituzioni, Intesa Sanpaolo sostiene finanziariamente, con cadenza biennale, il restauro di opere d’arte appartenenti a musei pubblici, privati o ecclesiastici, siti archeologici e chiese di tutta Italia. La XVII edizione ha permesso il restauro di 54 nuclei di opere d’arte, per un totale di 145 manufatti – appartenenti ai territori di Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto –, ora presentati a Milano. Le opere coprono un arco temporale che va dall’antichità al primo Novecento, con esempi di realtà lontane, come l’imponente statua egizia naofora di Amenmes e Reshpu (dal Museo Civico Archeologico di Bologna), una rara armatura giapponese dell’Armeria Reale di Torino o tre rilievi lignei del Monte Calvario di Banskà Štiavnica (Repubblica Slovacca). Nell’ambito della pittura figurano, tra gli altri, dipinti di Francesco del Cossa, Vittore Crivelli e un’eccezionale Adorazione del Bambino di Lorenzo Lotto, nonché la Crocifissione tra la Vergine e

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AGENDA DEL MESE San Girolamo, la grande pala d’altare del Perugino. info numero verde 800167619; e-mail: info@gallerieditalia.com; www.gallerieditalia.com

SANSEPOLCRO INDAGINI SULLA RESURREZIONE Museo Civico di Sansepolcro fino al 17 luglio

CASTROCARO TERME IL ‘900 GUARDA PIERO DELLA FRANCESCA. DISEGNO E COLORE NELL’OPERA DI GRANDI MAESTRI Padiglione delle Feste delle Terme di Castrocaro fino al 17 luglio

Organizzata in parallelo con la mostra forlivese «Piero della Francesca. Indagine su mito», questa esposizione indaga la

profonda suggestione esercitata dalla pittura dello stesso Piero sull’arte italiana del Novecento. Un’impronta indelebile, sottile ed intrigante, che ha nutrito le poetiche dei grandi artisti esposti, quali Borra, Carrà, Casorati, Campigli, Crivelli, De Chirico, De Pisis, Funi, Garbari, Guidi, Morandi, Morelli, Rosai, Savinio, Severini e Sironi. Disegni e pitture dei grandi protagonisti della cultura figurativa italiana del XX secolo filtrano l’universo pierfrancescano in una mostra che indaga colore, luce, spazio e geometria, presentando copie, studi, omaggi. info tel. 0545 217595

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In quello che è stato definito l’anno di Piero e in occasione della mostra di Forlí «Piero della Francesca indagine su un mito», l’esposizione propone un confronto iconografico sul tema della resurrezione, profondamente legato all’identità stessa di Sansepolcro e magistralmente interpretato da Piero della Francesca nell’opera definita «la piú bella pittura del mondo», attualmente in restauro. La mostra presenta, attraverso tre capolavori (il Cristo Risorto di Pietro Lorenzetti, la Resurrezione di Giorgio Vasari e il Polittico della Resurrezione di Marcantonio Aquili) le soluzioni iconografiche adottate tra Trecento e Cinquecento, per cercare di comprendere l’originalità della Resurrezione di Piero della Francesca e di agevolarne la lettura. info tel. 0575 732218; e-mail: museocivico@comune. sansepolcro.ar.it; www.museocivicosansepolcro.it FIRENZE FECE DI SCOLTURA DI LEGNAME E COLORÍ. LA SCULTURA DEL QUATTROCENTO IN LEGNO DIPINTO A FIRENZE Galleria degli Uffizi fino al 28 agosto

Avvalendosi di una quarantina di opere, la mostra documenta la vicenda della scultura in legno dipinto del Quattrocento fiorentino. In linea col primato artistico della scultura, essa costituí un modello imprescindibile per tutti gli artisti. Infatti, un tema come quello del corpo sofferente sulla croce, espresso con un nuovo naturalismo nei crocifissi di Donatello e Brunelleschi, fu oggetto di riferimento per l’espressione artistica delle successive generazioni. Il Vasari, poco incline nel tessere le lodi della scultura in legno dipinto, perché a tale materiale non «si dà mai la freschezza del marmo», nell’elenco di sculture lignee elencate nelle Vite, le classifica per la loro funzione devozionale nella quale sembra esaurirsi ogni apprezzamento. A Firenze, accanto alla qualificata produzione di crocifissi, si intagliarono anche statue della Madonna, di sante e santi eremiti dai corpi tormentati o preservati dal dolore, bustiritratto, statue al centro di polittici misti e statue per l’arredo liturgico. info tel. 055 23885

PARIGI GLI SMALTI DI LIMOGES A DECORO PROFANO. INTORNO ALLE COLLEZIONI DEL CARDINALE GUALA BICCHIERI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 29 agosto

Frutto di un progetto ideato e realizzato con il Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica di Torino (dove verrà ospitata nel prossimo autunno), la mostra riunisce una quarantina di opere,

scelte fra la collezione permanente dello stesso Museo di Cluny e altre raccolte francesi ed europee. La presenza piú significativa è quella del cofano del cardinale Guala Bicchieri, realizzato dalle manifatture di Limoges intorno al 1200-1225 e decorato con medaglioni raffiguranti combattimenti fra animali reali e fantastici, giochi cavallereschi e scene cortesi: si tratta, infatti, della prima esposizione fuori dall’Italia del manufatto, acquisito nel 2004 dal museo torinese di Palazzo Madama. Accanto a questo capolavoro, si possono ammirare candelabri, bacili, cassette e cofanetti decorati che documentano la produzione limosina profana, meno nota di quella sacra, ma non per questo meno prestigiosa. info www.musee-moyenage.fr giugno

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ROMA SANTA MARIA ANTIQUA. TRA ROMA E BISANZIO Foro Romano, Basilica di S. Maria Antiqua fino all’11 settembre

Dopo oltre trent’anni, riapre al pubblico S. Maria Antiqua, la basilica nel Foro Romano scoperta nel 1900 alle pendici del Palatino. La chiesa conserva sulle sue pareti un patrimonio di pitture unico nel mondo cristiano del primo millennio, databile dal VI al IX secolo, quando fu abbandonata a seguito dei crolli causati dal terremoto dell’847. Resta eccezionale testimonianza nello sviluppo della pittura non solo romana, ma di tutto il mondo greco bizantino contemporaneo: l’iconoclastia, infatti, cancellò gran parte delle immagini sacre di quell’epoca. Chiusa dagli anni Ottanta per un complesso intervento architettonico proseguito con il restauro delle pitture, alla riapertura completa della chiesa – aperta in precedenza solo per brevi periodi con visita guidata ai cantieri – si

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accompagna un’esposizione che è «mostra» del monumento stesso, perché gravita intorno al ruolo che l’edificio, con i suoi dipinti, ha giocato nel Foro Romano postclassico cristianizzato e al

rapporto con la Roma altomedievale, là dove si andavano concentrando la vita religiosa e i servizi pubblici di approvvigionamento per cittadini e pellegrini. info tel. 06 699841; prenotazioni: tel. 06 39967700; www.coopculture.it

LEIDA

VENEZIA

STORIE AFFILATE Rijksmuseum van Oudheden fino al 2 ottobre

VENEZIA, GLI EBREI E L’EUROPA. 1516-2016 Palazzo Ducale, Appartamenti del Doge fino al 13 novembre (dal 19 giugno)

I nuovi spazi per mostre temporanee del Rijksmuseum van Oudheden di Leida sono stati inaugurati con l’allestimento di ben quattro esposizioni, una delle quali ripercorre la storia della spada, sottolineando, in particolare, il ruolo simbolico assegnato all’arma fin dalle epoche piú antiche, che è stato forse ancor piú rilevante di quello giocato nella pratica guerresca. Attingendo alla propria collezione permanente e grazie a importanti prestiti, il museo olandese presenta oltre 200 esemplari di spada, che includono armi cerimoniali e lame da stocco, nonché ferri di particolare valore storico. Fra gli altri, spicca una magnifica spada carolingia proveniente dal sito di Dorestad, la sola del genere a oggi nota nei Paesi Bassi, e che dovette appartenere a un personaggio di rango assai elevato. info www.rmo.nl

Organizzata per il cinquecentenario dell’istituzione del Ghetto di Venezia, la mostra descrive i processi che sono alla base della realizzazione e della nascita del primo «recinto» destinato agli Ebrei creato al mondo, ma, nel contempo, allarga lo sguardo alle relazioni stabilite con il contesto degli altri quartieri ebraici (e non solo) italiani ed europei. L’iniziativa intende mettere in luce la ricchezza dei rapporti tra Ebrei e Venezia, tra Ebrei e società civile nei diversi periodi della loro permanenza in laguna, in area veneta e in area europea e mediterranea. Dipinti, disegni, libri, documenti, ricostruzioni multimediali concorrono a raccontare una lunga storia di relazioni e di scambi culturali. Con l’obiettivo di divulgare una maggiore consapevolezza delle diversità culturali esistenti in Europa. info tel. 041 2715911; e-mail: info@fmcvenezia.it; http://palazzoducale.visitmuve.it

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AGENDA DEL MESE CASTEL DEL MONTE

PERUGIA

MATEMATICA E BELLEZZA. FIBONACCI E IL NUMERO AUREO fino al 15 novembre

I TESORI DELLA FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI PERUGIA E IL CARAVAGGISMO NELLE COLLEZIONI DI PERUGIA Palazzo Lippi Alessandri fino al 20 novembre

Nell’immaginario collettivo, l’arte e la matemetica sembrano viaggiare su strade parallele, ma sono in realtà strettamente connesse tra loro. Dal loro connubio nasce questa mostra, che trova in Castel del Monte la sua collocazione ideale, considerando come nell’idea costruttiva di Federico II la proporzione numerica si sia manifestata al suo livello piú elevato. La rassegna presenta le riproduzioni di capolavori di Botticelli, Giorgione, Giotto, Leonardo da Vinci e una planimetria di Castel del Monte e del suo portale, poste in relazione con opere di artisti contemporanei quali Alberto Biasi, Gregorio Botta, Bruno Ceccobelli, Giorgio de Chirico, Piero Guccione, Giacomo Manzú, Piero Pizzi Cannella e Oliviero Rainaldi. info tel. 0883 569997; www. casteldelmonte.beniculturali.it

L’esposizione marca i vent’anni di collezionismo della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e ne propone le opere d’arte acquisite. Si tratta di oltre 50 dipinti, rappresentativi non solo delle esperienze artistiche che si affermano in Umbria dal Trecento al Settecento, ma anche di altri aspetti della cultura figurativa italiana dal Rinascimento al Barocco. Nelle stesse date e negli stessi spazi è inoltre allestita la rassegna dedicata al caravaggismo nelle collezioni di Perugia. Una doppia occasione, quindi, per ammirare le opere piú importanti della collezione della Fondazione Cassa di Risparmio. info: tel. 075. 5724563; e-mail: info@fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte.it

Appuntamenti

SIENA LAUDETUR, FESTIVAL MUSICALE III EDIZIONE Cattedrale 9 giugno

Ultimo appuntamento della rassegna organizzata nella Cattedrale senese. Il 9 giugno, Angelo Branduardi presenta il suo Da Francesco a Francesco-Il cantico di Frate Sole, un progetto musicale nato per il Giubileo nel Duemila e che trae ispirazione dal Cantico delle Creature. info http://operaduomo. siena.it

del tiro alla fune, il mercato medievale, aderiscono il piú possibile alla filologia medievale. Momento culminante della festa è senz’altro la Giostra dei Bastoni, una gara a cavallo tra i cavalieri delle quattro Contrade, il cui scopo è colpire un elmo sorretto su un palo con un bastone. La contrada vincitrice si aggiudica la Spada

SAN GIMIGNANO FERIE DELLE MESSI 17-18-19 giugno

Il terzo fine settimana di giugno di ogni anno i Cavalieri di Santa Fina rievocano le tradizionali Ferie Messium, stabilite con rubriche statutarie dal titolo De Ferriis Ponendis del 1255 (II, 29) e del 1314 (II, 11). Uno degli elementi costitutivi della Ferie delle Messi è il grande corteo, in cui i colori, gli oggetti e numerosi personaggi esprimono simbolicamente il rapporto tra terra e fertilità. Il rituale della benedizione dei cavalli delle quattro contrade, la giostra dei bastoni, il gioco

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d’Oro, consegnata in piazza del Duomo dal Podestà e il Drappellone. Inoltre, nei giorni di sabato e domenica, le piazze della Cisterna e delle Erbe ospitano un mercato medievale, a cui partecipano giugno

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vari artigiani, e un mercato di antichi mestieri tra cui pellicciai, vasai, fabbri, tenuto dall’associazione Antichi Mestieri di Medicina. L’associazione che promuove l’evento, «I Cavalieri di Santa Fina», è nata nel 1993 con lo scopo di riproporre alla città di San Gimignano antichi avvenimenti della sua storia medievale. Il suo nome onora Fina dei Ciardi, la giovinetta morta in odore di santità il 12 marzo 1253 e diventata compatrona di San Gimignano, insieme all’omonimo santo. info www.cavalieridisantafina.it SIENA IL PIACERE DELLA SCOPERTA. DENTRO IL CANTIERE CON GLI STUDIOSI E I RESTAURATORI DI LORENZETTI fino al 26 giugno

L’allestimento del cantiere di restauro di alcune opere di Ambrogio Lorenzetti è un’occasione unica di conoscenza della pittura dell’artista da parte del pubblico, ma è anche un ideale «cantiere di ricerca» per gli studiosi del settore. Tutti i sabati, alle 10,30, il Santa Maria della Scala offre ai visitatori l’opportunità di

incontrare i restauratori degli affreschi che illustrano al pubblico i risultati del lavoro in corso e lo accompagneranno nella visita al cantiere alla scoperta delle opere. info tel. 0577 286300; e-mail: ambrogiolorenzettisms@ operalaboratori.com FIRENZE MARTEDÍ SERA AL MUSEO Galleria degli Uffizi fino al 27 settembre

Per tutta l’estate, la Galleria degli Uffizi effettua un’apertura continuata, il martedí, dalle 19,00 alle 22,00 con appuntamenti speciali dal vivo. L’ingresso è a pagamento ed è possibile prenotare la visita, tenendo presente che l’ultimo ingresso prenotabile è fissato alle 20,00. Nell’ambito dei «Martedí sera al museo», ogni settimana si svolgono attività speciali – coordinate con le opere d’arte – di musica, letteratura, danza o teatro.

infatti, oltre che ai turisti provenienti da ogni parte del mondo, è rivolto principalmente a tutti i cittadini che desiderano contemplare gli inestimabili tesori custoditi nelle gallerie pontificie ma non ne hanno occasione, durante i consueti orari di apertura, perché impegnati nelle attività familiari e lavorative del giorno. L’apertura serale dei Musei del Papa diventa, dunque, un’imperdibile occasione per visitarli illuminati da una luce inconsueta, nell’agio di spazi

info e prenotazioni tel. 055 294883; www.uffizi.beniculturali.it

CITTÀ DEL VATICANO NOTTURNI Musei Vaticani fino al 29 luglio e dal 2 settembre al 28 ottobre

I Musei Vaticani rinnovano l’appuntamento con le aperture notturne. I Notturni vogliono in primo luogo confermare l’attenzione per il pubblico romano. L’invito,

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meno affollati e lontano dalle ore piú calde del giorno. Anche quest’anno, le aperture serali sono accompagnate dalla rassegna musicale La Musica dei Musei, frutto della collaborazione tra i Vaticani, l’Accademia di Santa Cecilia e il Comitato Nazionale Italiano Musica (CIDIM). info www.museivaticani.va

ALVIANO (TERNI) «IMPAZIENTE DELLA QUIETE». BARTOLOMEO D’ALVIANO, LE FORTUNE DI UN CONDOTTIERO NELL’ITALIA DEL RINASCIMENTO (1455-1515) Rocca di Alviano e altre sedi fino al 12 novembre

A cinquecento anni dalla scomparsa, Bartolomeo d’Alviano (1455-1515), uno dei piú insigni condottieri del Rinascimento, viene ricordato con un ciclo di conferenze che ripercorrono i momenti decisivi della vita di un personaggio che volle essere protagonista di un’epoca di grandi trasformazioni. Questi i prossimi appuntamenti: Acquasparta, Palazzo Cesi, 18 giugno, ore 16,30: L’affare delle armi. Le condotte militari tra Medioevo ed età moderna (Manuel Vaquero Piñeiro, Università degli Studi di Perugia); Le donne dei condottieri: Isabella d’Alviano e la complessa storia di un’eredità (Nadia Bagnarini, Università degli Studi di Siena); Rocca di Alviano, 25 giugno, ore 17,30: Garigliano, Agnadello, Marignano: tre battaglie che cambiarono la storia d’Italia (Marco Pellegrini, Università degli Studi di Bergamo). info tel 0744 904421; e-mail: bartolomeo500anni@gmail.com; www.comune.alviano.tr.it

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mostre genova

Genova, porta del Tra l’XI e il XIII secolo la città ligure fu una delle maggiori potenze del Medioevo. Una parabola straordinaria, ora ripercorsa dalla prima, grande rassegna allestita nel complesso museale di Sant’Agostino

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enova è una città singolare, una città originale. Una città diversa, che deve essere analizzata per ciò che è – o è stata –, senza il pregiudizio di omologarla ad altre realtà in apparenza analoghe o affini, o similmente posizionate in quel grande, meraviglioso e articolato contesto che è il Mediterraneo. O, meglio, al confine settentrionale di quell’ambito multiforme, in cui esso si congiunge all’Europa. Su questo confine, che unisce e non separa le culture e le civiltà, Genova si pone come un varco aperto, un luogo di rielaborazione dialettica, o – già nel Medioevo tale nozione vigeva, ben precisa, nella mentalità e nella pratica tanto dei mercanti quanto dei soldati, dei pellegrini, degli artigiani e degli artisti genovesi – una «porta». Una Ianua. Proprio in questo panorama complesso, un grande mosaico di culture coniugate con altre culture, si forgia, a partire dalla fine dell’XI secolo, quella che si può e si deve chiamare l’identità genovese. Un’identità che si definisce proprio nella sua relazione e nel suo confronto con altre spinte culturali, venute quasi sempre simultaneamente dal Settentrione e dal Meridione, dall’Oriente e dall’Occidente. 28

Colette Dufour Bozzo

In alto veduta aerea della Genova odierna. A destra xilografia raffigurante la città ligure verso la fine del Medioevo, con il porto in evidenza, tratta dalle Cronache di Norimberga di Hartmann Schedel. 1493.


Mediterraneo

testi di Colette Dufour Bozzo, Gabriella Airaldi, Gianluca Ameri, Giustina Olgiati, Loredana Pessa


mostre genova

Genova tra XI e XII secolo di Gabriella Airaldi

Incardinata in un territorio di frontiera, Genova, la piú «atlantica» delle città italiane, diventa, fin dal Mille, il caposaldo di un’azione internazionale intesa a fare del Mediterraneo la plaque tournante di un’espansione europea in cui nuove forme di alleanza tra i sistemi politici dell’area continentale e dell’area mediterranea danno vita a una potente ed efficace sintesi operativa. Infatti, puntando sul loro porto e sulla loro antica funzione di tramite tra Oriente e Occidente, Mediterraneo e Europa, i Genovesi aggiungono ora al loro antico e solido profilo guerresco una netta fisionomia mercantile, inaugurando una politica degli «orizzonti aperti» che si rivelerà determinante nella costruzione di un sempre piú ampio concetto di Occidente. Facendo della rivoluzione comunale e di quella commerciale un progetto politico basato sul mercato e sul sistema repubblicano, danno vita a un progetto in cui l’espanA sinistra la Torre degli Embriaci, edificata agli inizi del XII sec. nell’antico quartiere di Castello.

sione diventa il preludio di una globalizzazione di cui saranno i protagonisti piú precoci. Operazioni commerciali e guerresche precedono la partecipazione alla Prima Crociata che essi, fedeli alla loro identità europea, collegano abilmente a un «mito delle origini» identificato con la nascita del Comune, la nuova formula politica che ora li contraddistingue. Tuttavia, il primo cronista ufficiale, Caffaro di Caschifellone (1080 o 1081-1166), non ricorda solo le spedizioni che danno vita al tessuto dell’azione genovese nel Vicino Oriente, dove essi inanellano una serie di presenze tra il 1099 e il 1110, ma sottolinea anche le operazioni condotte su Almeria e Tortosa, altrettanto importanti e decisive, segnalando con vigore il carattere monopolistico della loro azione nell’Europa occidentale, nel Mediterraneo occidentale e nel Marocco atlantico. In ogni caso, tanto a Oriente come a Occidente, la celebrazione degli episodi guerreschi non cancella la ben documentata, continua e pacifica azione di contatto con il mondo islamico arabo e turco destinata a durare fino ai tempi moderni. Per raggiungere i loro scopi però, i Genovesi devono essere liberi di agire e di negoziare con chiunque e dappertutto. Per questo, alla fine del Mille, aderiscono a una rivoluzione di carattere politico che, in un’epoca dominata dall’immobilismo delle istituzioni europee, guarda invece al mercato e al denaro come strumenti di crescita individuale e sociale. Senza venir meno sul pia-

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A sinistra la facciata della chiesa di S. Agostino, la cui costruzione è databile al XIII sec., sede della mostra sulla Genova medievale. In basso calco del grifone in bronzo di Pisa, un’opera di manifattura ispano-islamica dell’XI-XII sec.

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no formale al modello cavalleresco su cui si incardina l’Europa è necessario riconoscere al mercato e all’uomo d’affari un ruolo socio-politico piú alto di quello che essi rivestono nella statica società di matrice agraria dominante in area europea.

Per la libertà del fare

Per questo, alla fine del Mille, in armonia con quanto accade nell’area geografica tra le Alpi e il Tevere, i Genovesi scelgono di dar vita alla formula politica della città-stato, l’unica che nell’Europa dei poteri monocratici nasca fondata sul concetto di libertà, non la libertà dei filosofi, ma la libertà del fare. L’economia monetaria contribuisce a frazionare l’ordinamento feudale, che ama tenersi i tesori e non sa o non vuole investire. Solo l’aria della città può rendere liberi se questa città è guidata da chi, scegliendo la libertà, rivoluziona – sia pure negli stretti lacci dell’epoca – i tradizionali ruoli sociali. Perlopiú non si ricorre a quella lotta armata antifeudale descritta da Caffaro e poi ripresa nell’Ottocento; prevalgono invece le politiche di carattere pattizio,

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mostre genova Le ragioni del successo

I Genovesi, uomini diversi Tra i contemporanei di Dante, ben pochi avrebbero potuto contestare le definizioni da lui date ai Genovesi nella celebre invettiva (Inferno, XXXIII, 151-153): uomini insofferenti di ogni regola, pieni di difetti e – forzando un po’ il testo – abituati a viaggiare in ogni parte del mondo. Con mirabile sintesi, ma con intento tutt’altro che celebrativo, il poeta colse i tratti distintivi della società genovese, che si riflettono nella documentazione, privata e pubblica, che consente oggi di tracciarne la storia. La capacità di aggirare gli ostacoli e di sfruttare le circostanze a proprio vantaggio, lo spirito di intraprendenza, l’apertura e la tolleranza – non di rado l’ammirazione – nei confronti

di altre civiltà coesistono infatti con l’individualismo, l’estrema instabilità politica, l’apparente mancanza di un superiore senso dello Stato, luci e ombre di un modus vivendi che ha comunque assicurato ai Genovesi un governo autonomo fino agli albori dell’età napoleonica. La mancanza quasi totale di fonti documentarie permette di ricostruire ben poco delle vicende precedenti la nascita della Compagna. Nella città che Caffaro descrive come priva di concordia, tanto da rendere impossibile la nomina di consoli, appaiono già affermate le famiglie che ne comporranno il ceto dirigente e la loro grande forza sul mare, manifestata in occasione di spedizioni navali condotte in alleanza

mentre le forti contrapposizioni che nascono da questo sistema repubblicano sono la culla della formazione politica dei futuri ceti dirigenti. Si assiste dunque a un grande cambiamento: l’uomo d’affari comincia a costruire su di sé e sulla città un’identità e una cultura nuova. In effetti, l’Europa medievale riabilita il mercante e l’aristocrazia terriera, diversamente da ciò che accade in Oriente, non recupererà piú il suo ascendente, anche se allora, e soltanto nell’Italia centro-settentrionale, si ha una vittoria decisiva del modello mercantile, tanto che una parte della nobiltà ne viene attratta.

Fedeli alle tradizioni

Dalla fine del Mille, le grandi famiglieazienda al vertice di una rete internazionale che vuole ampliarsi si danno una regola di fondo necessaria a garantire la maggiore libertà d’azione e la maggior sicurezza di movimento. Mantenendo intatta anche nell’esercizio degli affari la centralità della famiglia patriarcale, ricca di uomini da diramare per il mondo e vertice di una piramide umana che essi portano con sé dappertutto, scelgono di rimanere fedeli all’uso di modelli tradizio-

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con altre città costiere contro alcune basi saracene; l’attività commerciale è testimoniata fin dalla metà dell’XI secolo su mercati distanti come l’Egitto. Non a caso, le discordie cessano con il ritorno degli Embriaci dalla Crociata. Le lettere di Goffredo di Buglione e del patriarca Daiberto, che chiamano in soccorso del Santo Sepolcro, aprono ai Genovesi un nuovo mercato, di cui il bottino dei due fratelli vittoriosi lascia ben intravvedere le ricchezze. La misura dei primi successi militari sarà la cattura o la distruzione delle navi nemiche, l’ammontare del bottino – in moneta e libbre di pepe –, il numero dei prigionieri ridotti in schiavitú. Giustina Olgiati

Sigillo del Comune di Genova. Su una faccia vi è il ritratto di san Siro, vescovo e primo patrono della città; sull’altra si nota la riproduzione di alcuni monumenti dell’antico abitato. XI-XII secolo. Collezione privata.

nali per loro natura stabili e solidali, decidendo, inoltre, di usare l’alleanza matrimoniale come strumento fondante il patto tra clan. Questa formula, che assume presto un carattere strutturale e trasporta membri delle stesse famiglie in realtà lontanissime tra loro, dal Mar Nero alla Penisola Iberica alle Americhe, renderà moltissimo all’élite del principale porto del Mediterraneo, che con le forme duttili del network stringerà qualunque tipo di accordo con i titolari delle centinaia di cellule di potere che costituiscono il mosaico internazionale. Anche le decisioni di carattere istituzionale sono prese nelle residenze private e sono privati gli attracchi delle navi e le flotte stesse dei clan che reggono le sorti del Comune che, attraverso le «compere», ne avranno in mano le imposte. Già all’epoca della spedizione su Almeria e Tortosa del 1146-1148, i membri o gruppi di clan, che finanziano le imprese del Comune, si fanno pagare gli interessi con le «compere» giugno

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Mercanti e usurai genovesi raffigurati nel Codice Cocharelli, manoscritto ligure del XIV sec. Londra, British Library. Durante il Medioevo, la città della Lanterna fu uno dei centri italiani in cui si registrava il maggior movimento di capitali.

ovvero con la cessione delle entrate derivanti dalle imposte indirette, di cui esistono quote a cui tutti possono accedere. Ciò dà origine a un imponente movimento di capitali. Infatti, oltre ai patrimoni privati che fanno di Genova il maggior centro di «capitale caldo», la gestione del debito pubblico mette in movimento un sistema partecipativo molto interessante. Da ciò nascerà il Banco di san Giorgio, non casualmente definito da Niccolò Machiavelli «uno Stato nello Stato». Con il denaro è facile comprare chiunque: pontefici, imperatori o re, che amano tesaurizzare invece che investire, vivono un’economia di consumo e sono sempre bisognosi di denaro per le loro guerre.

La nascita degli «alberghi»

Appalti di navi con personale tecnico appropriato e prestito di capitali sono una caratteristica esclusiva dell’azione privata genovese. Le Corone europee vi accedono e cosí pure bizantini e islamici. Quando, alla fine del Duecento, nascono gli «alberghi», parentele artificiali che radunano sotto un unico, grande cognome una ragnatela di famiglie meno importanti e filtrano cariche pubbliche, alleanze matrimoniali e affari, l’incidenza del privato sul pubblico è definitiva. Genova sarà famosa per i continui, violenti scontri tra clan dotati ognuno di una forte valenza internazionale e legati a forze internazionali interessate al porto e ai loro capitali, ma il

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clan familiare resterà sempre il modello organizzativo di una società che, a partire dall’età medievale, ne ha fatto il fulcro del sistema politico ed economico. Tra l’XI e il XIII secolo Genova, cuore di una decisa e costante politica di attenzione verso gli spazi atlantici e centro di controllo dei punti strategici del mercato levantino, crea una rete intesa al sostegno di una libera circuitazione di uomini e mercanti tra l’Oriente e l’estrema parte occidentale dell’Europa, dando vita a domini diretti solo in caso di stretta necessità, preferendo invece, per quanto possibile e in qualunque ambito, la costante ricerca di privilegi e monopoli. È noto che rami dei diversi clan si installano dappertutto, anche in area islamica e non solo in Europa o a Bisanzio, naturalizzandosi, prendendo altri cognomi e inquartandosi con nobiltà locali. I Genovesi spostano i loro uomini senza mai limitarne l’operatività, ottenendo quartieri e privilegi mercantili, controllando le rotte dal Levante mediterraneo fino all’estremo Occidente. Essi scelgono dunque di applicare sistemi di contatto variabili e questo comportamento, aperto ad alleanze che superano ogni frontiera fisica o ideologica, è la ragione prevalente dei loro successi e della loro amplissima presenza nel mondo. Il modello di gestione politico-economica e i modelli relazionali e espansivi anticipano le formule degli Olandesi e degli Inglesi, diventando l’elemento fondante di un’economia-mondo che condurrà infine alla globalizzazione.

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mostre genova A sinistra lastra in marmo raffigurante un grifone, realizzata da uno scultore originario di Genova. XIII sec. Qui accanto Madonna col Bambino in trono, scultura forse di produzione genovese. 1180 circa. Santa Margherita Ligure (Genova), Convento dei Frati Cappuccini.

Gli Embriaci di Gabriella Airaldi

«La città era assediata da un mese, quando giunsero a Giaffa Guglielmo Embriaco genovese e suo fratello Primo e, per timore dei saraceni di Ascalona, non poterono tenerle; perciò le distrussero e tutto il legname delle galee, utile alla costruzione delle macchine da assedio per la conquista della città, fecero portare a Gerusalemme. I cristiani, che si erano molto rallegrati per l’arrivo dei genovesi, li ricevettero con onore e si consigliarono con loro sul modo di assalire la città. I genovesi costruirono le macchine e tutto il necessario». Con un improvviso fascio di luce, Caffaro illumina la nuova inclinazione mediterranea di un’Europa in cui l’icona di Guglielmo Embriaco viene ad allinearsi con naturalezza accanto alle immagini dei cavalieri che illustrano canzoni di crociata e facciate di chiese. Uomo giusto al posto giusto, l’Embriaco è il simbolo del cavaliere che, messi da parte i tornei, sa impegnarsi, con uguale baldanza e uguale disinvoltura, in operazioni marittime e commerciali, piratesche o di guerra. È questo il momento in cui il Comune genovese ha bisogno di costruire il suo «mito delle origini» e, per consacrare la nascita di un sistema repubblicano in un mondo di istituzioni monocratiche, Caffaro, primo cronista ufficiale di una città-stato ormai in piena affermazione, sceglie di legarla all’evento che tutta Europa celebra, la Prima Crociata. Passando per un asse ideale che collega Genova, Roma e Gerusalemme, il Mediterraneo entra dunque per la prima volta prepotentemente nella storia dell’Europa, rivelando di esserne componente essenziale. Questa è la grande novità, colta da un genovese

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un primato indiscusso

I tessuti d’oltremare I tessuti hanno costituito il principale oggetto dei traffici commerciali genovesi nel Medioevo. I Liguri seppero dapprima intercettare la fortissima domanda di tessuti pregiati, in particolare quelli di seta, espressa dall’Occidente, diventando tra i principali importatori dei manufatti creati in ambito bizantino e islamico (che, peraltro, essi smerciavano anche nel mondo musulmano) e, in un secondo tempo, all’incirca dalla metà del XIII secolo – quando alcune tra le botteghe orientali entrarono in crisi – piazzarono in Sicilia, Spagna

e Oltremare prodotti di lusso come le seterie lucchesi, la cui nascita era stata da loro favorita in tutti i sensi. Contemporaneamente, tra le mani di questi intraprendenti viaggiatori si concentravano i panni di lana e le telerie fabbricate nell’Europa del Nord, in Francia, Inghilterra, Paesi fiamminghi, Germania, a loro volta oggetto di una rete di scambi che coinvolgeva l’Africa settentrionale, la Sicilia, la Spagna, i regni crociati e i territori soggetti a Bisanzio. Loredana Pessa

In alto frammento di arazzo in sete policrome su tela di lino di provenienza egiziana. Manifattura fatimide, XI-XII sec. Genova, Collezione privata. A destra particolare del capitello di un palazzo medievale in piazza Luxoro, nel centro storico di Genova.

che, pur essendo un guerriero, non vuole stendere solo la cronaca di una crociata; pur essendo un cavaliere, non intende scrivere una memoria di baroni e teste coronate; pur essendo un uomo d’affari, non può celebrare il mercato e i mercanti. La formula ha successo: da allora in poi, ogni volta che dovranno dichiarare la loro identità ufficiale, utile a travestire comportamenti in realtà assai piú elastici, i Genovesi riproporranno la stessa ricetta. Quattrocento anni dopo, Colombo affermerà, infatti, che il fine ultimo della sua avventura è il recupero di Gerusalemme.

Il recupero del «mare nostrum»

Per costruire l’epopea dei Genovesi, Caffaro adotta una formula storiografica nuova per forma e contenuti. Stendendo gli Annales Ianuenses e unendo, per la prima volta nella storiografia, la vicenda della città e il Mediterraneo in armonia con un Occidente europeo inteso al recupero del «medium terre tenens», il «mare nostrum» della Roma imperiale e cristiana, egli può rendere al meglio il profilo di una storia in cui l’individuo e il clan familiare, che ne esprimono la sostanza, si identificano con la voce di una collettività, di un «popolo eletto» destinato a svolgere un

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mostre genova il sacro catino

Un tesoro di Crociata Il Catino in vetro verde di tonalità smeraldina, eccezionalmente prestato per la mostra dal Museo del Tesoro di San Lorenzo, è un oggetto per molti versi unico. Lo è in assoluto, per le sue proprietà compositive e formali, entro la classe di manufatti cui sembra di poterlo annettere; lo è relativamente agli altri «tesori di crociata» che hanno traversato il Mediterraneo, raramente investiti di altrettanto peso simbolico; lo è di certo a Genova, dove non ha uguali né sul piano tipologico – per appartenenza culturale e caratteri fabbrili –, né su quello storico, per la capacità di riflettere le vicende che segnano la nascita del Comune narrate da Caffaro negli Annales. Nella sua «alterità» culturale e nella sua storia di oggetto «viaggiante» risiedono, fin dalle origini, le ragioni capaci di sollecitare

una mitopoiesi collettiva, che, almeno dalla fine del Duecento, lo vorrà «sacro», altissima reliquia cristologica e diretta espressione della potenza creatrice di Dio. La sua matericità affascina gli osservatori di oggi quanto era capace di confondere gli spettatori medievali; la nostra mentalità storicistica e analiticotassonomica ci fa interrogare sulla sua origine, la sua datazione, le ragioni della sua presenza nel Tesoro della Cattedrale; la lettura delle fonti ci dice che chi nel Medioevo poteva vederlo o ne conosceva l’esistenza doveva porsi domande non troppo diverse – ma diversissime erano le risposte, in rapporto a modi di guardare gli oggetti, percepirne la natura e

concepirne la funzione determinati da tutt’altre esigenze. La questione delle origini del Catino è già adombrata dalla prima fonte che lo riguarda: la Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo, arcivescovo di Tiro dal 1175, il quale racconta la nascita del regno latino di Gerusalemme e i fatti di crociata fino al 1184. L’autore, che nella città santa era nato intorno al 1130, probabilmente da una nobile di famiglia franca, è ritenuto uno dei piú affidabili storici della Prima Crociata, dal momento che fu vicino ad alcune personalità centrali dell’élite ecclesiastica e politica di Terra Santa (discepolo del patriarca Folco d’Angoulême, fu amico stretto del re Amaury I d’Anjou e precettore del figlio Baldovino IV), e che, cancelliere del regno dal 1174, ebbe accesso agli atti Il Sacro Catino, piatto in vetro verde di probabile fattura araba, databile tra il IX e il X sec. Genova, Museo del Tesoro di San Lorenzo.

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ufficiali; mentre la sua preparazione culturale – affinata in Italia, forse anche in Francia – e la conoscenza del greco, dell’arabo e di altre lingue mediorientali gli permisero di utilizzare una varietà notevole di fonti. Dunque, nel narrare la presa di Cesarea – antica e nobile città costiera della Palestina, adorna di bei palazzi e giardini, ricca d’acque e molti beni – nel 1101, Guglielmo ricorda le stragi perpetrate dai crociati per impadronirsi di «vasa, domus et quaelibet eius desiderabilia»; e si sofferma sul ritrovamento, in un «oratorium» dedicato da Erode ad Augusto, di un «vas coloris viridissimi, in modum parapsidis formatum», che i Genovesi, credendolo di smeraldo, trattennero a gran prezzo per farne ornamento della loro Cattedrale, dove ancora ai suoi tempi lo mostravano come tale ai piú illustri viaggiatori. Gianluca Ameri

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In alto arca in argento parzialmente dorato contenente le ceneri di san Giovanni Battista, detta «del Barbarossa», attribuita a orafi genovesi. 1179 circa (con restauri del XIV e XVI sec.). Genova, Museo del Tesoro di San Lorenzo.

ruolo decisivo in ambito internazionale. In effetti qualsiasi ragione abbia portato i due fratelli e le loro galee nel Mediterraneo orientale, Caffaro, sottolineandone il carattere non ufficiale, dimostra una frequentazione commerciale della sua sponda meridionale, confermata da scarne ma sicure notizie fornite da testimonianze ebraiche e arabe già alla metà dell’XI secolo.

La «porta» dell’Europa

In questa vicenda, in cui individui, clan familiari e cittadini fondono le loro sorti, si colloca la sapiente ma concreta scelta della figura di Guglielmo Embriaco. Un’operazione magistrale per illustrare un contesto politico locale e internazionale, di cui l’autore stesso, Guglielmo e la sua famiglia sono da piú di mezzo secolo parte essenziale. Nelle età successive, molti Europei avranno buon gioco nel tacciar di «mercanti» e «usurai» quegli incomprensibili individui e quei clan e i loro uomini che, artisti della guerra per mare e per terra, sanno anche far fruttare i loro capitali nel commercio e nella finanza, sfidando la sorte in ben calcolati rischi, reinvestendo i profitti in modi, tempi e spazi diversi, senza disperderli mai nel magnifico, ma sterile consumo. Il fatto è che le galee, gli uomini e i capitali dei Genovesi sono sempre piú necessari alla gente di un Occidente

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mostre genova Qui accanto croce-reliquiario d’altare. 1240 circa. Savona, Tesoro della Cattedrale di Nostra Signora Assunta.

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di fronte al quale si aprono continuamente nuove prospettive. Ed è su questa domanda che Caffaro gioca tutte le sue carte, inventando un puzzle, atto a dimostrare che Genova è davvero la «porta» dell’Europa. Celebrare la vicenda di gente chiusa, aggressiva, ma attenta a dissimulare le sue scelte piuttosto che a esaltarle è faccenda quanto mai delicata. Caffaro, uomo dell’élite, sa che il Comune genovese è ammesso tra i «grandi» solo in ragione della sua potenza. Sa che, nel fondo della loro scostante, taciturna antropologia, i Genovesi sono fedelissimi al modello archetipico europeo; sa che il loro successo nel mondo si misura sulla loro capacità di mantenersi rigorosamente devoti, entro e fuori le mura della città, alla «grande famiglia» e alle sue alleanze. Non per nulla il Comune s’innerva sulla «Compagna», istituzione laica, formata dai capi delle famiglie che contano e naturale alleata della Chiesa locale. Una Chiesa a sua volta rinnovata nel solco della «lotta per le inve-

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stiture» che sa farsi parte attiva nell’azione internazionale, come si vede al tempo della prima espansione e come dimostra la dignità metropolitana acquisita nel 1133; alla quale non a caso si aggiungerà, trent’anni dopo, la legazia oltremarina.

Sotto le mura di Cesarea

Nel luglio del 1101 incontriamo Guglielmo Embriaco sotto le mura di Cesarea nelle vesti ufficiali di «console» dell’esercito genovese. Ancora una volta Caffaro, che gli è compagno in quell’avventura, disegna per lui il profilo del «miles christianus», che ora completa e arricchisce di altre, importanti sfumature. È con il riferimento a Cesarea che Caffaro apre gli Annali, sorvolando sulla presa di Gerusalemme, che pure altrove indica come l’atto di «consacrazione» della nascita del Comune. È Cesarea la vera epifania dell’eroe e della nuova Genova. Nessuno meglio di Caffaro – che era presente – può raccontare il momento fatale, in cui Guglielmo Testadimaglio, conquistando la città, fa compiere a GeGrifone in marmo bianco, opera del Maestro di Giano (1307-1312). La scultura era un tempo collocata nella cattedrale di S. Lorenzo.

nova il salto di qualità necessario a inserirla definitivamente nel quadro internazionale. È questa la prima spedizione oltremarina voluta dal nuovo governo genovese; ed è un’operazione promettente, nella quale i Genovesi intendono proporsi non solo come mercanti, ma anche come «braccio armato» del Regno. I nomi di Guglielmo Embriaco e di Gerusalemme sono indissolubilmente intrecciati a quello di Cesarea. E su di lui, ancora una volta, Caffaro getta un fascio di luce improvvisa. Non si conoscono la fisionomia e la storia di quest’uomo, del quale tuttavia l’amico suggerisce, attraverso l’appellativo Testadimaglio – «Caputmallei» –, la prestanza fisica e l’attitudine guerriera. La conquista di Cesarea, con tutto quello che seguirà, è opera dell’armata genovese voluta dal Comune e approvata dalla volontà popolare, manifestatasi per ben due volte, prima a Genova e poi sotto le mura della città oltremarina. Qui Caffaro manifesta l’orgoglio di essere «civis», cittadino di un Comune di cui ha seguito il rinnovamento istituzionale; la crescita portuale e mercantile; il rinascimento della fisionomia urbana; la promozione al rango arcivescovile. Al termine di questa spedizione Guglielmo Embriaco, eponimo di una celebre famiglia di Genova e dell’Oltremare, diventa console della città. Fa anche molte altre cose, che Caffaro non ricorda e che sono tramandate dai documenti raccolti nel Liber Iurium e in atti privati. Egli, che pure ha deciso di farne l’uomo del cambiamento, lo ritrae, invece, soltanto nelle gesta guerresche proprie dell’affascinante «aventure» di un cavaliere cristiano che, superate molte vicende, darà vita a un nuovo lignaggio, diventando il capostipite di una casata celebre al di qua e al di là del mare. Ma Guglielmo sarà anche il patriarca di una collettività, che sceglierà di identificare in lui le ragioni della propria gloria. F

Dove e quando «Genova nel Medioevo. Una capitale del Mediterraneo al tempo degli Embriaci» Genova, Museo di Sant’Agostino fino al 26 giugno Orario ma-ve, 9,00-19,00; sa-do, 10,00-19,30; lu chiuso Info Complesso Museale di Sant’Agostino: tel. 010 2511263;

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e-mail: museosagostino@ comune.genova.it; www.museidigenova.it Call center di Coopculture: tel. 010 4490128 (lu-ve, 9,00-13,00 e 14,00-17,00; sa, 9,00-13,00); e-mail: msa@coopculture.it Catalogo SAGEP EDITORI

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civiltà comunale/6

Nella penisola dei mercanti di Furio Cappelli

Fra i suoi tratti distintivi, l’Italia comunale ebbe la vocazione per i commerci. Rapporti che si estesero ad ampio raggio, portando i nostri connazionali ai quattro angoli del mondo e facendone ben presto anche i detentori pressoché esclusivi delle attività di credito 40

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uando si rievoca la figura del mercante italiano nel Medioevo viene istintivo pensare al veneziano Marco Polo e alla vicenda che lo condusse nel cuore della Cina (1271-1295). La sua esperienza segna la punta estrema del raggio d’azione dei viaggiatori italiani dell’epoca, ma fu un’iniziativa isolata: era ben raro, infatti, che i mercanti della Penisola si spingessero verso l’Estremo Oriente – piú facilmente in direzione dell’India –, perché i costi della spedizione erano tali e tanti che le merci importate, se tutto fosse andato bene, avrebbero fruttato guadagni modesti. Ciò non significa che le porte dell’Asia fossero precluse al commercio nostrano: il traffico degli Italiani sulla millenaria direttrice della via della Seta era intenso, ma la loro presenza, in misura costante e significativa, si faceva notare fino allo snodo di Tabriz (Iran), tappa iniziale del lungo cammino verso Samarcanda (Uzbekistan). Si preferiva infatti fare scalo in quel grande emporio intercontinentale, piuttosto che spingersi oltre, verso contrade sempre piú ignote e inospitali.

Il «lago italiano»

Miniatura raffigurante lo scarico delle merci nel porto indiano di Khambhat, dall’edizione del Livre des merveilles du monde di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazzarina. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Per contro, nella regione mediterranea, la ramificazione dei mercanti italiani era decisamente piú forte, poiché il mare nostrum rappresentava il loro naturale bacino d’azione e, nel XIII secolo – debellata la concorrenza dell’Islam e al culmine della potenza di Venezia e di Genova –, può essere definito un «lago italiano», secondo l’efficace espressione dello storico francese François Menant. Lo scompaginamento dell’impero islamico sotto la pressione dei Mongoli aveva consentito di creare avamposti anche in contrade che fino a pochi decenni prima erano a malapena conosciute: i Genovesi si insediarono addirittura in una colonia sulla sponda settentrionale del Mar Nero, a Caffa (l’antica Teodosia, oggi in Ucraina).

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civiltà comunale/6 D’altronde, gli operatori italiani si erano radicati da tempo nelle terre dell’impero bizantino e la conquista latina di Costantinopoli, nel corso della IV Crociata (1204), favorí non poco questa presenza costante e ramificata. Tuttavia, le consuetudini commerciali con le città marinare d’Italia, in particolare Venezia e Genova, risalivano a molto tempo prima. E la presenza dei Veneziani e dei Genovesi nelle piazze bizantine non tardò a innescare una forte rivalità tra le due «repubbliche marinare» (vedi box alle pp. 44-47), che, all’indomani della nascita dell’impero latino d’Oriente, presero per giunta possesso di interi territori. Questo protagonismo dei mercanti italiani nello scenario mediterraneo aveva richiesto molto tempo e molto impegno da parte delle città che si erano «votate» all’economia marittima, confidando solo sulle proprie forze e sulla propria intraprendenza. Dopo il fulgido esempio di Amalfi, ben presto messo in ombra da una concorrenza sempre piú agguerrita, Pisa, Genova e Venezia lottarono duramente per strappare Piacenza, Cattedrale. Due formelle della serie detta dei paratici (le associazioni professionali), inserita nei pilastri della navata centrale. In alto, la formella della corporazione dei carradori; a destra, quella dei mercanti di stoffe. XII sec.

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all’Islam il predominio sul mare, e i mercanti-pirati che infestavano il Mediterraneo nell’Alto Medioevo, i Saraceni, avevano insegnato molto agli operatori della Penisola. Questi ultimi avevano ben presto imparato che, per mettersi in mare, non occorreva soltanto dotarsi di senso degli affari, ma dovevano saper maneggiare le armi, anche per depredare. E i Pisani, gli apripista di questa avventurosa storia della nostra economia mercantile, fondarono il loro prestigio su vere e proprie campagne militari. La preponderanza islamica sul mare fu cosí debellata e persino il celebre Saladino, artefice di importanti vittorie sui crociati (basti pensare alla riconquista di Gerusalemme), contava su una flotta assai esigua, se paragonata alle forze navali delle città italiane del tempo.

Nuove prospettive

Il nesso tra economia commerciale e attività bellica conobbe importanti sviluppi sin dalla I Crociata, ma già da tempo si erano costituite relazioni ed erano stati stabiliti approdi in Spagna e in Africa settentrionale. Dopo la conquista di Gerusalemme, per i mercanti italiani si aprirono nuove prospettive in Siria: lo scalo di Lajazzo (oggi Yumurtalik, nella Turchia meridionale), in particolare, spalancò la porta dell’Asia, e il Duecento segnò, su questo versante del Mediterraneo, un’«età dell’oro» del commercio. Questa vitalità, comunque, aveva modo di esprimersi anche laddove non erano giunte le imprese militari dei crociati, come per esempio in Egitto. I prodotti importati dall’Oriente erano perlopiú gli stessi che si commerciavano fin dai tempi dell’antica Roma: spezie, tessuti preziosi (soprattutto in seta istoriata), cotone, frumento. Particolarmente richiesto dagli opifici italiani era l’allume, un minerale di grande utilizzo nella lavorazione della lana e reperibile solo sulle piazze «esotiche» (si dovette

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attendere il 1462, perché venissero scoperte le ricche cave di allume di rocca nei pressi di Allumiere, nell’entroterra di Civitavecchia).

Un ponte naturale

Ma come nasceva questa vocazione alla mercatura? Dall’assetto stesso della Penisola, ponte naturale tra l’Europa centrale e il Mediterraneo. Gli Italiani si prestavano a stabilire rapporti con genti e con luoghi diversi e arrivarono cosí a operare come intermediari su tutti i mercati esteri di maggiore peso, fino a costituire una vasta rete di gestione del credito bancario: una loro rivoluzionaria «invenzione», scaturita da una lunga pratica di transazioni e dall’accumularsi di risorse finanziarie sempre piú cospicue. D’altro canto, l’artigianato e la mercatura sono alla base dell’economia, ma anche della politica e della stessa civiltà comunale italiana. Il «boom» economico delle città della Penisola è infatti un fenomeno di largo raggio, ampiamente ramificato, e i casi illustri delle «repubbliche marinare» sono solo gli esempi piú efficaci e autorevoli di un sistema

produttivo e commerciale che integrava montagna, pianura e mare negli innumerevoli mercati disseminati ovunque. Tra le tante città «interne» che si possono menzionare, un caso emblematico è Piacenza, situata in posizione di fulcro tra il corso del Po e l’asse della via Francigena. Le numerose attività artigianali sono coinvolte nella realizzazione della cattedrale e il loro protagonismo nel finanziamento del grande cantiere è reso esplicito dalle formelle istoriate che punteggiano i pilastri interni (1122-1150 circa). Le formelle dei paratici (le associazioni professionali) celebrano un’ampia (segue a p. 49)

Incisione raffigurante un mercante veneziano, da Abiti Antichi e Moderni di tutto il mondo, opera di Cesare Vecellio. 1589.

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Tre regine dei mari: Venezia,

Chiunque visiti Venezia, attraversa il Ponte di Rialto, per poi riversarsi nei mercati che si svolgono tuttora nella zona omonima, con le storiche infrastrutture commerciali e amministrative (tutte ricostruite o realizzate a partire dal Cinquecento). E proprio lungo la centrale ruga degli Orefici viene spesso ignorata la chiesa di S. Giacomo di Rialto (S. Giacometto), tutt’altro che imponente e schermata da un portico che, già nel XIV secolo, era destinato ai banchi dei mercanti. Caratterizzata da una struttura a croce greca iscritta con cupola, che si lega bene alle piú antiche tradizioni architettoniche locali, è l’unica sopravvivenza del primo tessuto urbanistico della zona.

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Sfoggia sulla parete esterna dell’abside un’eloquente iscrizione incisa su pietra, con il testo che si sviluppa su una croce centrale e su un lungo fascione di base: «La tua croce, o Cristo, sia vera salvezza per questo luogo. Attorno a questo tempio sia equo il diritto ai mercanti, non si pieghino i pesi né sia irregolare il contratto» (nella traduzione di Wladimiro Dorigo). Siamo all’epoca del doge Domenico Selvo (1071-1084), e ci si augura che tutte le attività economiche si svolgano rettamente, senza ricorrere ad artifici (le bilance non tarate) o a falsità. Pochi anni prima, all’epoca del doge Domenico Contarini (1043-1070), nel 1063, si posa la

Sulle due pagine Venezia. Due immagini della chiesa di S. Giacomo di Rialto. In alto, la facciata, dotata di un portico per proteggere i banchi dei mercanti; a destra, l’esterno dell’abside, con un’iscrizione relativa all’attività mercantile.

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Genova

e Ancona

prima pietra della nuova basilica di S. Marco – gigantesca «cappella» annessa al Palazzo Ducale –, ponendo le premesse del fulcro amministrativo e rappresentativo della città. Come sottolineò lo storico dell’arte Sergio Bettini (1905-1986), il complesso cosí costituito dal palazzo, dalla chiesa e dalla piazza faceva riemergere il concetto tardo-antico del centro del potere, laddove la residenza del sovrano si correla al santuario, al mausoleo di Stato e allo spazio di adunanza pubblica, come nel cuore della stessa Costantinopoli. Ma non si deve dimenticare che un altro importante fulcro già da tempo si era formato al capo estremo del canale di S. Marco. Lí, in posizione isolata,

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sorge la cattedrale di S. Pietro di Castello (che ha mantenuto la sua funzione di chiesa vescovile fino al 1807), e, a breve distanza, si impone all’attenzione il complesso dell’Arsenale (vedi «Medioevo» nn. 156 e 174, gennaio 2010 e luglio 2011). La struttura era organizzata direttamente dallo Stato almeno sin dal XIII secolo: qui infatti, potenziando, mantenendo e ampliando la flotta, si creava la fortuna della Serenissima. Punto di forza di Genova è la cattedrale di S. Lorenzo, il cui fianco con l’alta torre campanaria spicca sull’asse viario che conduce al porto. Il Palazzo dei Capitani del Popolo, sorto nell’area retrostante alla fine del Duecento, e destinato a divenire la residenza dei dogi, costituisce una realtà tutto sommato tardiva e priva di un risalto comparabile. S. Lorenzo, invece, vera e propria «chiesa del Comune»,

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della Ripa, che in origine si affacciava quasi direttamente sull’acqua: una formidabile teoria di residenze nobiliari, alcune delle quali ancora distinte da una struttura a torre, che formano al pianterreno un lunghissimo portico, in funzione delle attività commerciali. Nonostante distruzioni e rifacimenti, il complesso, definitosi tra il XII e il XIII secolo, segna ancora oggi il paesaggio urbano.

Qui sopra Ancona. L’Arco di Traiano e la chiesa di S. Ciriaco. A destra Ancona. Uno scorcio dell’ingresso del Duomo. Nella pagina accanto, a sinistra Genova. la facciata della cattedrale di S. Lorenzo. Nella pagina accanto, in basso papa Pio II giunge ad Ancona per benedire la partenza della Crociata, affresco del Pinturicchio (al secolo Bernardino Betti). XV sec. Siena, Libreria Piccolomini.

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è un emblema civico perfetto, anche sotto l’aspetto funzionale, visto che, per lungo tempo, il capoluogo ligure – cosa assai singolare – non ebbe una residenza civica. Le suggestioni dell’Oriente, cosí come i calibrati reimpieghi di sculture romane, rendono bene la volontà di competere con l’autorevolezza della cattedrale di Pisa. Non a caso, entrambe le chiese sono consacrate lo stesso anno, nel 1118. Era in atto una vera e propria gara tra le due potenti città marinare, che coinvolgeva inevitabilmente i cantieri degli edifici di massima rappresentanza. All’interno della cattedrale ligure, come rivelano ancora pochi brani superstiti, si potevano addirittura ammirare gli affreschi che celebravano le vittoriose campagne militari dei Genovesi contro i presidi islamici di Minorca, Almeria e Tortosa (1146-1148). È ben visibile, poi, la testa di Giano, che occhieggia dall’alto della navata centrale: l’antica divinità pagana era stata «recuperata» per magnificare con una falsa etimologia le origini della città. Volgendo lo sguardo al porto, l’attenzione non è tanto catturata dalla prima residenza comunale, il Palazzo di S. Giorgio (iniziato nel 1260), quanto dall’ampia «palazzata»

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Ancona ebbe rapporti sia con Venezia che con Genova. Esempio illustre di città marinara «minore», il capoluogo marchigiano stabilí lunghe consuetudini con la Serenissima, alternando collaborazioni e dissidi, vista l’inevitabile concorrenza dei rispettivi mercanti sullo stesso «campo» del Mare Adriatico. Snodo d’obbligo tra l’Italia centrale, la costa dalmata e l’Oriente, Ancona era presente su molte importanti piazze commerciali: esportava vino, cereali, sapone (di produzione propria), carta di Fabriano, olio, lana, pelli. Dalle coste slave giungevano, tra l’altro, argento, piombo e rame. Sue colonie erano presenti a Costantinopoli e a Famagosta (Cipro). La realtà storica del porto si limita oggi alla presenza isolata dell’Arco di Traiano, ma il paesaggio urbano è ancora caratterizzato dal Colle Guasco, dominato dalla cattedrale di S. Ciriaco. Nella sua ultima importante fase costruttiva, essa ha assunto una pianta a croce greca e si è dotata di un soffitto ligneo a forma di carena di nave, come si conviene a un edificio che si affaccia autorevolmente sullo scenario adriatico. La ricchezza del nuovo portale (1230-40), d’altronde, evoca le molteplici archeggiature che, negli stessi anni, contornano i portali di S. Marco a Venezia. La tendenza a incastonare sculture di reimpiego che si osserva nel Duecento veneziano, trova poi un precedente nella deliziosa facciata di S. Maria della Piazza. Una Madonna orante a bassorilievo, di sicuro procurata a Costantinopoli (forse grazie ai saccheggi del 1204), è racchiusa in un’edicola che sormonta il portale, firmato dal maestro Filippo nel 1210.

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civiltà comunale/6 Piccolo glossario comunale ARSENALE il termine deriva da una parola di origine araba che significa «officina» e indica i cantieri navali nei quali le imbarcazioni vengono costruite oppure riparate. Tutte le principali città marinare italiane ne erano dotate già nel XII secolo. BANCHI cosí come le tavole, i banchi indicano le strutture lignee con cui si esponevano le merci. Quando i mercanti piú agiati impiegarono le loro risorse come prestatori, banchi e tavole divennero luogo di attività finanziaria. Il termine «banchi» si trova utilizzato in tal senso per la prima volta a Genova nel 1150. Nasce cosí il concetto di «banca». COMPAGNIA le «compagnie» designano le prime forme di società in campo economico e finanziario. Si costituiscono grazie a un gruppo di associati, perlopiú a base familiare, che investono tempo e denaro nella gestione di un’attività, per poi accedere a una percentuale dei profitti conseguiti. Queste società nascono alla fine del XIII secolo, e trovano particolare diffusione a Firenze, città in cui le quattro compagnie dei Bardi, Peruzzi, Acciaiuoli e Bonaccorsi acquisiscono uno straordinario protagonismo. In alto l’Arsenale di Venezia in una pianta prospettica della città. XVII sec. Venezia, Museo Correr. A destra due banchieri in un particolare dalle Storie di San Matteo, ciclo di affreschi opera di Niccolò di Pietro Gerini. XV sec. Prato, Chiesa di S. Francesco, Cappella Migliorati.

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Due fiorini d’oro della Repubblica di Firenze realizzati dal maestro di Zecca Jacopo di Angelo Acciaiuoli. 1486.

schiera di mestieri e non si limitano a illustrarli per comporre un quadro della vita urbana, ma rendono conto del tangibile apporto dei redditi delle imprese artigianali a quel senso di magnificenza collettiva che la cattedrale deve rappresentare. Nel contempo, il finanziamento dei lavori di questa impresa aiuta gli stessi imprenditori ad assumere un ruolo sempre piú evidente nella vita politica. Il commercio si sviluppa di pari passo: al culmine della sua attività mercantile, la città emiliana vanta una base a Genova e i suoi operatori sono disseminati in un ampio circuito, che coinvolge le fiere della Champagne, con una considerevole attività di gestione del

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credito. Fin verso il 1260, Piacenza è la prima città bancaria in assoluto. Grazie all’ampiezza e alla qualità delle sue produzioni, l’artigianato italiano può essere talvolta assunto nel concetto di «protoindustriale». Le attività piú diffuse si concentravano nel settore tessile: la produzione dei panni di lana, la lavorazione del cotone e del lino, la realizzazione di robusti tessuti in fustagno (spesso richiesti per l’abbigliamento militare). Spiccano talvolta la produzione e la lavorazione della seta. Si assiste a un’intensificata attività mineraria nei bacini metalliferi, soprattutto nelle Prealpi, e ovunque si attua un’attività edilizia di alto livello professionale, che rappresenta senz’altro la voce piú cospicua dell’attività economica della Penisola. Molto proficui sono i settori del legno e dei cordami, del cuoio e delle pelli, e di alta specializzazione sono gli opifici che producono la carta a Fabriano o gli arsenali preposti alla realizzazione delle navi in tutte le sue fasi, fino alla delicata e decisiva opera di calafataggio, per rendere gli scafi impermeabili.

Rinascita e sviluppo

Una simile operosità era connessa in modo radicale alla rinascita e allo sviluppo delle città dopo la stagnazione altomedievale. Come ha efficacemente sottolineato lo storico Roberto Sabatino Lopez, le città sono i «centri motori della rivoluzione commerciale». Esse garantiscono sin dall’inizio spazi di autonomia e di intraprendenza assai preziosi. Le difficoltà iniziali sono enormi, proprio per la mancanza protrattasi nel tempo di una cura e di una gestione efficiente delle infrastrutture. Ma questa mancanza era il frutto di una vacanza dei «poteri forti». In uno scenario privo di un rigido controllo statale, oltre che estraneo agli interessi della grande aristocrazia,

Da leggere Roberto S. Lopez, La rivoluzione commerciale del Medioevo, Einaudi, Torino 1975 Joachim Felix Leonhard, Ancona nel basso Medioevo. La politica estera e commerciale dalla prima crociata al secolo XV, Il Lavoro Editoriale, Ancona 1992 Wladimiro Dorigo, Venezia romanica. La formazione della città medievale fino all’età gotica, Cierre, Sommacampagna (Verona) 2003 François Menant, L’Italia dei comuni (1100-1350), Viella, Roma 2011 Franco Franceschi, Ilaria Taddei, Le città italiane nel Medioevo. XII-XIV secolo, Il Mulino, Bologna 2012 Paola Guglielmotti, Genova, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2013

ormai arroccatasi nel contado, le città diventano il «regno» degli artifices e dei commercianti. Cosí, nonostante le difficili premesse, si innesca comunque un moto inarrestabile e graduale di ripresa, che si avvale del progressivo aumento demografico e dello sviluppo dell’agricoltura, mentre il commercio in sé è favorito dal permanere di una rete strategica di strade e di rotte marittime, grazie a una consuetudine di rapporti condizionata dai caratteri fondamentali del territorio italiano. Si innesca cosí quella dinamica virtuosa che produce eccedenze da immettere nei mercati, sviluppi tecnologici, accumuli fondiari. È quella portentosa economia dei Comuni italiani che si riassume bene nelle monetesimbolo delle città piú rappresentative: il genovino, il fiorino (1252) e il ducato d’oro di Venezia (1284), noto in seguito come zecchino.

NEL PROSSIMO NUMERO ● La rinascita del diritto

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gente di bottega/5 Nel salone di un barbiere medievale non si andava solo per «farsi belli»: fino a quando, infatti, non si riconobbe la necessità di consentire la pratica medica solo a chi vi si fosse adeguatamente preparato, molti interventi «chirurgici» venivano effettuati... fra una rasatura e un taglio di capelli!

Lame, catini e pennelli

di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci

L

a figura del barbiere quattrocentesco è molto vicina e al tempo stesso lontanissima da quella odierna: se la strumentazione e i procedimenti per radere e tagliare i capelli sono rimasti inalterati nel tempo, dall’epoca degli Etruschi al Settecento, quanti si dedicavano alla professione nel XV secolo non si limitavano però a rasare le guance e a occuparsi dei parassiti che infestavano le capigliature, a causa delle cattiva igiene. Essi, infatti, praticavano anche interventi di chirurgia minore, medicavano le piaghe, preparavano unguenti e tisane, salassavano, eseguivano clisteri, incidevano ascessi e cavavano denti. Specia-

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Un barbiere chirurgo interviene su un paziente, particolare di un olio su tela attribuibile a un pittore spagnolo o francese. XVII-XIX sec. Londra, Wellcome Library. Sulla fronte dell’uomo sembra di poter riconoscere un cataplasma, applicato per sanare una ferita o un’infezione. giugno

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gente di bottega/5 In basso particolare di una miniatura raffigurante un barbiere in piena attività, dal Le livre du gouvernement des princes. XIV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

lizzazioni molto diverse fra loro e progressivamente differenziatesi in epoca moderna, fino a richiedere, oggi, professionisti sanitari con una specifica formazione alle spalle e che invece, all’epoca, venivano lasciate nelle mani di praticanti improvvisati, fattisi esperti con un po’ di apprendistato direttamente sulla pelle dei pazienti.

A tutela dei tre orfani

Questa volta, il Fondo Pupilli et Adulti dell’Archivio di Stato di Firenze ci porta appunto nella bottega di un barbiere della città di Pescia, capoluogo della Val di Nievole (oggi in provincia di Pistoia), che nel XIV secolo era un vicariato fiorentino (filza n. 175, cc. 178, r e v). I documenti descrivono gli strumenti del mestiere e i locali in cui esercitava un certo Gaspare di Pasquale da Certaldo, detto Puntormo, insieme con la vicina dimora, nella quale abitava con la moglie Bionda e i figli Zanobi di sei anni, Francesco di cinque e Ginevra di appena due. Ed è proprio per la presenza dei tre bambini che, al momento della morte di Gaspare, nell’estate del

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A sinistra replica moderna del Barbiere, una delle carte per il gioco dell’Hofämterspiel, la cui pratica è attestata a partire dal XV sec. In basso stemma dell’Arte dei Barbieri e dei Dentisti. 1492. Siena, Palazzo Piccolomini, Archivio di Stato.

1477, la successione fu presa in carico dai Magistrati dei Pupilli, a seguito della rinunzia della vedova e degli zii, che il barbiere aveva indicato come tutori dei figli nel proprio testamento. Fino alla metà del XV secolo gli incaricati della magistratura raggiungevano di persona tutte le località del territorio dominato da Firenze su cui esercitavano la giurisdizione tutelare dei minori, delle vedove e dei minorati mentali, per redigere gli inventari direttamente

nei locali interessati dalle successioni, descrivendo ambienti e oggetti quasi in maniera fotografica e restituendo cosí la condizione sociale e lavorativa dei defunti, storie di vissuto familiare, ambienti abitativi, officine e botteghe, sia da un punto di vista architettonico, sia riguardo agli arredi, alle suppellettili, al vestiario, agli ornamenti e agli strumenti di lavoro. In seguito, invece, prevalse l’uso di farsi spedire presso la sede fiorentina copia degli inventari,

a firenze e nel suo territorio

Una realtà sfaccettata Nel contado e nel distretto di Firenze, corrispondenti nel XV secolo alla Toscana centro-settentrionale, alla costa pisana e livornese a occidente e al Senese a sud, i barbieri sottostavano agli Statuti dell’Arte dei Medici e Speziali. Vi erano affiliati fin dai primissimi anni del Trecento, apparentati e all’ombra dell’arte medica dalla loro azione di terapia marginale circoscritta a parti esterne del corpo e completabile solo con applicazione di sostanze e la rigorosa esclusione dalla somministrazione di medicamenti per bocca. A quell’epoca, dunque, per medici fisici, chirurghi, cerusici e barbieri valevano le stesse norme. Lo statuto di questa potente corporazione, che aveva un ruolo preminente nella Firenze comunale, recitava comunque che «tucti e ciascuni barbieri, o arte o vero ministero di barbieri in alcun modo exercitanti, s’intendino medici e per medici sieno avuti e reputati, e devano giurare et essere sottoposti all’arte predetta», sia pure senza accesso alle cariche direttive e privi di rappresentanza politica. Nessuno, però, poteva esercitare senza essere stato esaminato da una commissione di medici delegati dall’Arte, che rilasciava licenze, sempre temporanee e circoscritte territorialmente. La categoria dei barbieri si distinse per autonomia solamente nel 1378, quando, a seguito del Tumulto dei Ciompi, furono istituite tre nuove arti minori, una delle quali fu proprio quella dei barbieri. Con la

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reazione oligarchica del 1383 l’Arte dei Barbieri fu cancellata, insieme a quella dei Farsettai e dei Pizzicagnoli, e la categoria rientrò nell’Arte dei Medici e Speziali, nei cui registri, attorno al 1450 si contavano 32 immatricolati. Scarse e frammentarie sono le notizie sulle immatricolazioni nel contado e nel territorio, dove l’attività era probabilmente svolta fuori regola. Molto forte era la concorrenza fra barbieri, tanto che, nel XV secolo, il periodo di garzonato era stato portato da 3 a 5 anni e la distanza minima fra un esercizio e l’altro da 100 a 200 m. E molto diffusa fu anche l’attività pirata, spesso ospitata in botteghe di tutt’altra categoria, contro cui l’Arte reagí inasprendo le pene e le multe, senza un effetto determinante sul fenomeno.

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gente di bottega/5 Le funzioni paramedicali

Divieti papali L’ingresso dei barbieri accanto ai medici nelle pratiche terapeutiche si deve, piú che a requisiti di professionalità, all’irrigidimento delle direttive ecclesiastiche che allontanarono il clero da ogni forma di esercizio curativo laddove, specie nelle campagne, l’esercizio del culto si sposava con pratiche popolari di conoscenza e utilizzo delle erbe curative e con riti pagani residuali. Il primo Concilio Lateranense, nel 1123, vietò al clero di assistere al letto dei malati, se non esclusivamente come ministri di culto. Il Lateranense II, nel 1139, minacciò tutti i sacerdoti che avessero persistito nell’esercitare la medicina, anche perché moralmente incompatibile compilati in maniera sommaria da parenti o colleghi dei defunti, forse per l’impegno che i viaggi comportavano. Ed è questo il caso anche del barbiere pesciatino: il documento che lo riguarda presenta una lista di oggetti fatta per detti zii dei pupilli e altri, di chose apartenenti a detta redità, chome fu mandato al nostro uficio (…) trascritto il 21 agosto 1477.

Abiti e lenzuola

La descrizione della casa di abitazione, articolata stanza per stanza, non è quindi riportata; gli Ufficiali trascrivono sul loro registro un inventario misto di arredi, corredo domestico e indumenti, scarno, ma che lascia intuire un certo benessere in seno alla famiglia. La vedova segnala che il marito le ha lasciato il corredo di 4 paia di lenzuola nuove, mentre sul resto dei beni elencati non sembra rivendicare alcun possesso, neppure su una cioppa (cappa), su una gamurra (veste da donna solitamente ampia e lunga, aperta

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con la dissezione anatomica, eseguita di nascosto dai medici a fini di conoscenza e considerata alla stregua della stregoneria. Nel Concilio di Tours del 1163, papa Alessandro III pubblicò analoghe proibizioni. Nel 1215, infine, Innocenzo III, con il quarto Concilio Lateranense, emanò un editto in cui si vietava a sacerdoti e diaconi di praticare operazioni in cui fosse presente il sangue. E se, soprattutto durante le pandemie del tardo Medioevo e della prima età moderna, erano spesso presenti fino a 6 frati al capezzale di un moribondo, un’analoga disponibilità di medici risultava impossibile. Crebbe, pertanto, la funzione paramedicale dei barbieri, accreditata anche dalla pratica di bottega.

Nella pagina accanto Il dentista, incisione di Lucas Van Leyden. 1523. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

davanti, da infilare sopra la tunica o il vestito, foderata di pelliccia o d’altra stoffa, con o senza maniche), su una mantellina nera a buchi ricamata, su un mantellino bigio francescho doppio di bianchetta e sui gioielli: due anelli, un cerchietto, una cintura e un vezzo chon uno pendente. I mobili non sono di particolare pretesa, a parte 1 armadio di faggio fatto in montagna, 1 tavola da mangiare con 2 trespoli di noce con II deschetti di noce intagliato intorno. Nella casa sono stivate le tradizionali riserve di vino, olio e aceto, ma non in quantità considerevoli, né vi è traccia di farina, granaglie o altri alimenti usualmente immagazzinati come scorta alimentare. Di uno libro di ricette altro non è dato sapere: potrebbe trattarsi di un ricettario per la cucina co-

Qui sotto capolettera miniato con scena di estrazione dentale, dal codice manoscritto Omne Bonum. 1360-1375 circa. Londra, British Library.

me dei medicamenti ammessi per l’esercizio di barberia, a cui forse erano destinati anche 1 mortaio e 1 grattugia presenti fra gli attrezzi di cucina. Sempre in casa si trovano 56 sciughatoi di piú ragione a uso della botegha vecchi e nuovi, da sempre in uso in quantità presso i barbieri.

Un ricco strumentario

La bottega appare dotata di tutta l’attrezzatura indispensabile per esercitare la professione barbitonsoria nella sua accezione rinascimentale: lavare i capelli – sono elencati secchi e bacili di rame di varie dimensioni e caldaie per scaldare l’acqua –; tagliarli e radere la barba – vi si enumerano forbici e rasoi, alcuni mantelletti per coprire gli abiti dei clienti e uno specchio –; curare i denti e svolgere le piccole operazioni – nella strumentazione elencata, si riconosce il corredo di specilli, cannule, pinze e ferri per estrazioni –. In questo caso l’elenco asciutto degli oggetti di cui si serviva ci permette di immaginare Gaspare nel pieno esercizio della sua professione. Leggendo le varie voci dell’elenco, possiamo infatti «vederlo» mentre scalda l’acqua per lavare i capelli e radere i clienti utilizzando un paio di chaldaie di rame e le sechie da lavare el chapo, i bacini da barbieri, 3 grandi e 1 piccholo, dopo aver affilato uno dei 13 rasoi da barbiere e tenendo sempre in attività le 5 paia di forbicine presenti in bottega con la ruota da arotare chol manicho di ferro. Le vesti dei clienti venivano protette grazie al corredo di 9 mantiletti, e nella bottega si rinvengono 4 panniciegli nuovi da sciughare chapo. Per il gesto finale tuttora praticato in ogni salone, il barbiere pesciatino possedeva un unico spechio grande, sul quale far controllare ai clienti i risultati del taglio e della rasatura. Gaspare esercitava prevalentemente nella sua bottega, ma non mancava di effettuare all’occorrenza servizi a domicilio, trasportando la dotazione necessaria in una borsa di cuoio da

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gente di bottega/5 viaggio, ovvero uno fornimento d’una scarsella da barbieri. Alla descrizione degli utensili per la barberia segue l’inventario degli strumenti chirurgici necessari per l’attività di cavadenti: le definizioni riportate nel documento non sono sempre comprensibili e riconducibili al lessico moderno, ma conosciamo le forme dei ferri utilizzati perché sono rimaste a lungo invariate nel tempo. Per l’estrazione, Gaspare disponeva di tre leve non meglio descritte e di uno schalzatoio d’ottone, una sorta di asta con impugnatura per sradicare il dente, oggi detta «elevatore»; di un paio di tanaglie da chavar denti e di un pulichano senza ruota, oltre che di uno integro: si allude al pellicano dentale, uno strumento utilizzato per l’estrazione odontoiatrica fino alla fine del XVIII secolo, e cosí chiamato perché nella forma ricordava il becco del grande uccello marino.

Come un artiglio

Dotato di un’impugnatura simile a quella di un cavatappi, aveva due parti in metallo che fuoriuscivano dal manico: la prima rotonda, detta ruotino, si appoggiava anteriormente al dente da estrarre, per fare perno; la seconda, simile a un artiglio, agganciava il dente, che veniva sollevato e fatto saltare con un colpo. L’azione violenta e dolorosa e la frequente successiva frattura della corona dentale non impedí che il pellicano rimanesse in uso per piú di trecento anni. Solo alla metà del XIX secolo venne sostituito da pinze anatomiche che ancora oggi permettono di estrarre l’elemento integro. Il barbiere pesciatino possiede anche un ghagnolo, che troviamo descritto nelle Opere Chirurgiche del medico Girolamo Fabrizi d’Acquapendente, scritte alla fine del XVI secolo: «Il gagnolo o cane, cosí chiamato perché non dissomigliante da un forte morso di cane, vaglia a cavar quei denti ai quali non arriva l’operatione (…) dei pellicani e che meglio d’essi s’adatta». Una sorta

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il salasso

Il sangue e il bastone Nell’antichità, estrarre sangue era ritenuto salutare in quanto si pensava che alcuni malanni – come per esempio febbre e infarto – derivassero da ristagni anomali, ai quali si poteva appunto rimediare con un salasso. Ma il clero era oggetto della proibizione di esercitare attività di cura fisica (vedi box alle pp. 54-55) e i chirurghi ritenevano il salasso una pratica da poco, non all’altezza dei loro studi, e non volevano occuparsene, affidando ai barbieri tutti coloro che a loro parere, necessitavano di un prelievo. giugno

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Cosí la categoria dei barbieri si ritrovò delegata a tale pratica e i clienti si rivolgevano a loro anche se le condizioni delle botteghe lasciavano spesso a desiderare. Sembra che proprio il salasso sia il motivo per cui l’insegna del barbiere, ancora oggi, è un palo a strisce oblique bianche e rosse: riprende il colore del sangue e ricorda il bastone che veniva fatto stringere nelle mani del paziente per dilatare le vene e tenere il braccio orizzontale.

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In alto l’esecuzione di un salasso, in un’illustrazione dal Tractatus de Pestilencia. XV sec. Collezione privata. Nella pagina accanto illustrazione raffigurante le influenze astrologiche sul corpo umano e le zone su cui eseguire salassi per porvi rimedio. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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gente di bottega/5 Pescia

Una storia travagliata Situata nell’incantevole Val di Nievole, in provincia di Pistoia – ma al di là del passo di Serravalle e già protesa verso la Lucchesia e il Mar Tirreno –, Pescia è stata una città comunale a lungo contesa, nel XIV secolo, fra Lucca e Firenze, come dire fra Ghibellini e Guelfi,

Qui sopra una veduta di Pescia. A sinistra sant’Apollonia, particolare di un affresco di Bernardino Luini. XVI sec. Milano, S. Maurizio al Monastero Maggiore.

di tronchese, dunque, utilizzata ancora una volta per l’avulsione dentaria, che nel Medioevo era la soluzione piú comune in caso di carie e mal di denti. Tale operazione era allora praticata senza anestesia, accompagnandola con impiastri locali, qualche bicchiere di vino o di acquavite oppure pozioni a base di erbe. Già nel XIV secolo venivano eseguite semplici otturazioni, con una tecnica araba esportata in Occidente, basata sull’uso di mastice e allume (o piretro) e, dalla metà del Quattrocento, per i clienti facoltosi,

iconografia

La patrona dei dentisti Patrona dei dentisti, igienisti e odontotecnici, santa Apollonia, visse ad Alessandria d’Egitto dove, secondo la tradizione, fu catturata e torturata durante una sommossa popolare contro i cristiani nel 248, per avere svolto opera di apostolato. I denti le furono strappati violentemente con le tenaglie e venne preparato un rogo per bruciarla viva, se non avesse abiurato. Apollonia, pur di non commettere un peccato grave, si lanciò da sola tra le fiamme, con un gesto che suscitò una grande ammirazione fra i suoi contemporanei. Dal Medioevo in poi si moltiplicarono i denti-reliquie miracolosi della santa, venerati dai fedeli in chiese e oratori; nel XVIII secolo papa Pio VI, contrario a queste forme di culto, li fece raccogliere in tutta Italia, riempí un sacco di ben 3 kg e li fece buttare nel Tevere.

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nel secolare scontro che oppose la Chiesa di Roma agli imperatori germanici. Documentata già nel X secolo come corte imperiale affidata all’episcopio pistoiese da Ottone III, la città passa al vescovado di Lucca nel XII secolo, atto confermato nel 1355 dall’imperatore Carlo IV di Boemia. Incendiata per rappresaglia nel 1281 dai Guelfi lucchesi, alleati dei Fiorentini, poiché si era dichiarata libero Comune alleato dell’impero, fu dagli stessi ricostruita per affrontare nel corso del XIV secolo, alterne vicende nelle lotte fra Firenze, Pisa e Lucca, passando sotto le signorie di Uguccione della Faggiola e di Castruccio Castracani; e nella lotta fra Firenze e gli Scaligeri di Verona fu ceduta a Firenze da Mastino della Scala, nel 1339. Ne divenne un vicariato, ovvero una guarnigione fortificata nel distretto della città e governata direttamente da un podestà fiorentino. si impose l’uso della foglia d’oro per disinfettarle. Alcune voci dell’inventario fanno intuire che Gaspare producesse gli unguenti utilizzati per tonificare la pelle dopo la rasatura o come lenitivi dopo le estrazioni e per la medicazione di altre ferite: scaldando varie sostanze naturali, come le peghole – resine – col chalderotto di rame da fare unghuenti e poi raccogliendole nella sechietta overo chiusetta d’ottone da tenere unghutoi, curava ferite e piaghe, ascessi ed escrescenze. Le pomate utilizzate dal barbiere, forse contenenti anche droghe potenzialmente venefiche o stordenti, erano chiuse in alcune chassette, una cho[n] lla chiave, perché nessuno vi accedesse se non autorizzato. Il raschiatoio serviva a raschiare la superficie dei denti, per la rimozione di placca e tartaro, operazione necessaria in un’epoca in cui l’igiene orale era effettuata solo con strofinacci e stecchini da denti. Un ghamave da tagliare malori potrebbe essere la tronchese per decoronare i denti, ma anche la lama per tagliare ascessi o effettuare salassi. Come accennato, infatti, i barbieri del Quattrocento seguivano quest’ultima pratica, sia come profilassi che come terapia per molti disturbi, ma anche come consuetudi-

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Nel 1341 e nel 1362 i Ghibellini fuorusciti, appoggiandosi a Lucca e Pisa, tentarono inutilmente di riprenderla. Anche nel XV secolo la fortificazione di Pescia fu oggetto di dispute: nel 1430 fallí l’assedio antifiorentino degli Sforza e nel 1468 vi ebbero luogo trame del partito antimediceo. Piú volte restaurata a spese dei Fiorentini nel corso dei secoli, fino al definitivo trionfo di Cosimo I de’ Medici fu parte in gioco nella contesa fra la fazione medicea e i loro nemici, prima fra tutti la famiglia Strozzi. Con l’instaurarsi del solido governo granducale della Toscana la cittadina venne riconosciuta fra le terre piú fedeli del dominio e fu pesciatino il segretario di Cosimo I de’ Medici, Lorenzo Pagni. Con i granduchi inizia per Pescia un periodo di pace, culminato nel riconoscimento di città sede di cattedrale nel XVIII secolo.

ne depurativa da effettuarsi a ogni cambio di stagione. Il salasso veniva praticato incidendo con un bisturi o pungendo con un grosso ago una delle vene che si trovano nella piega del gomito, oppure applicando delle sanguisughe al corpo del paziente e lasciandovele per un certo tempo.

Svenire fa bene

Lo svenimento conseguente al salasso era considerato benefico, e molte sessioni di cura venivano concluse solamente quando il paziente cominciava a perdere i sensi. La misura di sangue da togliere era determinata dalla capienza del recipiente collettore, formato da un vaso con la bocca larga, il cholatoio, presente anche nella bottega del barbiere pesciatino. L’inventario dei beni non manca di elencare, infine, anche i debitori di Gaspare, fra i quali il suocero Giovanni di Bertino, fabbro di professione – che gli deve 28 denari chome apare a libro di Puntormo a c. 19 – il conterraneo Bartolomeo di Domenico da Certaldo, come comprova la scrittura privata in mano al suocero del barbiere per la cifra di Lire xxjjj, denari jjjj e soldi 2. Sulle colline nei dintorni di Pescia i tre pupilli ereditano anche una piccola vigna con olivi luogho detto

alla chapella che il defunto chomperò da Chosimo di Pierfrancesco de Medici, al prezzo di 35 fiorini su cui aveva collocato piú piantoni di vite e olivo. La tutela non fornisce altre informazioni sul destino di beni mobili e immobili, probabilmente messi in vendita per il mantenimento dei tre orfani, ma ci auguriamo che resti loro almeno la piccola vigna di cosí illustre provenienza, forse garanzia di una utile entratura alla vita. Desideriamo ringraziare il dottor Valerio Burello per la cortese consulenza prestata nella redazione dell’articolo.

Dove e quando useo di odontoiatria M Torino, via Nizza 230 Orario il museo è visitabile su appuntamento Info tel. 011 6708361; www.museodonto.unito.it

Da leggere Franco Lorenzi, Rasoi e lame, barba e baffi, Silvana Editoriale, Milano 2003 Alberto Maria Onori, Pescia dalle origini all’Età Comunale, Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia 1998

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immaginario centauro

Fra demonio e santità di Domenico Sebastiani

Uno degli ibridi piú celebri della mitologia antica è la curiosa creatura a cui toccò un corpo per metà umano e per metà equino. La sua popolarità non venne meno nel Medioevo e, anzi, si arricchí di interpretazioni e riletture in chiave religiosa ampiamente documentate dalla produzione artistica e letteraria

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reature mostruose, per metà uomini e metà cavalli, i centauri sarebbero nati da una nuvola e molti sono stati i tentativi di interpretare l’origine del loro mito. Già nell’antichità classica si cercava di spiegarlo razionalmente e anche in pieno Medioevo, Isidoro di Siviglia, nelle sue Etimologie, cercò di fornire una spiegazione plausibile al fenomeno: «C’è chi dice che si trattasse dei cavalieri tessali, i quali, per come correvano da ogni parte in guerra, davano l’impressione di un unico corpo formato di cavalli ed esseri umani, donde, a quanto sostengono, sarebbe nata l’immagine dei centauri». Questo tipo di approccio non è cessato neppure in tempi moderni, se è vero che studiosi contemporanei hanno ritenuto che i popoli della steppa, e in particolare gli Sciti, – che erano soliti combattere a cavallo – abbiano influenzato la nascita del mito presso gli antichi Greci, abituati a combattere ancora a piedi A sinistra frammento di osso con raffigurazione di centauro, da Akhmim (Egitto). VI-VII sec. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.

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Placca in smalto champlevÊ su rame con l’immagine di un centauro a caccia. Il quadretto fa parte di una serie di dodici, probabilmente pertinenti a un arredo liturgico. XII sec. Parigi, Museo del Louvre.

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immaginario centauro o sui carri. È in ogni caso piuttosto diffusa l’idea che si abbia a che fare con una figura mitologica indoeuropea, vista la forte somiglianza tra centauri greci e gandharvas vedici: lo storico francese delle religioni Georges Dumézil (1898-1986) affermava, per esempio, che la forma sànscrita gandharva e quella greca kéntauros avrebbero etimologicamente una comune origine.

I centauri greci

Il problema dell’esistenza in natura dei centauri affaticò non poco i pensatori classici. In un dialogo del Politico, Platone dava a intendere che di norma nuove creature non potessero derivare da unioni tra umani e animali, e lo stesso Aristotele, molto cauto a proposito dell’ibridazione, in un passo della Historia animalium in cui parla degli animali prodigiosi dell’Africa, ne giustifica l’esistenza sulla base di accoppiamenti interspecifici, dovuti a condizioni ambientali e climatiche estreme, a cui devono aggiungersi il medesimo periodo di gestazione e la stessa taglia tra le diverse razze di animali che si accoppiano. Nel De generatione animalium, però, esclude che incroci tra uomo e animali possano generare nuove razze. Aristotele, dunque, per, esclude che i centauri possano esistere in natura, affermazione ribadita poi da Galeno. In seguito, Plinio il Vecchio, pur dichiarandosi un fedele seguace e continuatore del pensiero aristotelico, nella sua Naturalis Historia, narrò di avere visto un ippocentauro: l’animale apparteneva all’imperatore Claudio, che lo aveva ricevuto in dono dall’Egitto e lo esibiva a corte, conservato nel miele. Piú tardi, Claudio Eliano (170-235) portò alle estreme conseguenze tale ragionamento, adducendo come prova tangibile l’esistenza reale di un essere imparentato al centauro e a esso

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In basso Rossano, abbazia di S. Maria del Patire. Particolare di un mosaico pavimentale con un centauro che suona il corno. XII sec. Secondo la mitologia, i centauri erano frutto di relazioni sessuali abnormi e devianti e ciò spiegava la mostruosità del loro aspetto fisico. Issione, re dei Lapiti, attratto da Era, cercò di violentarla: per salvare la propria consorte, Zeus mise dunque alla prova il re, creando una nuvola perfettamente identica alla dea. Issione si uní alla nube, che generò un uomo di nome Centauro; questi, poi, preso da un desiderio insano per alcune giumente, si accoppiò con esse e diede vita alla stirpe dei centauri, esseri mostruosi semiequini.

molto simile, l’onocentauro, per metà uomo e per metà asino, di cui descrisse l’aspetto e le abitudini.

Una presenza diffusa

Il punto di non ritorno era segnato: centauri e onocentauri entrarono cosí a pieno titolo nell’immaginario della tarda antichità e poi del Medioevo. Queste creature non risultarono meno reali di leoni o cammelli, di sirene, basilischi o unicorni e divennero presenze tangibili e concrete, popolando i portali delle chiese, le pitture e i bestiari, ma soprattutto la mente dell’uomo medievale.

Caratterizzati da un retaggio mitico fatto di violenza, barbarie e lascivia, i centauri non potevano essere considerati positivamente nell’età di Mezzo. La parte superiore del corpo, in forma umana, veniva a indicare la parte razionale, quella inferiore di cavallo rappresentava invece l’istinto ferino, che rende l’uomo simile a una bestia. Se questo valeva per il cavallo, nonostante fosse un animale «nobile», si può immaginare quanto disvalore venisse attribuito alla variante dell’onocentauro, da un lato metà uomo, dall’altro metà asino, ossia l’animale piú degradante. Il Fisiologo, nella versione greca, evidenzia che la duplice natura giugno

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Qui accanto Termeno (Bolzano), chiesa di S. Giacomo in Castellaz. Affresco raffigurante un centauro in lotta con le sirene. XIII sec.

dell’ippocentauro indica le persone indecise, ma soprattutto quelle che peccano di falsità, dal momento che si comportano in modo umano quando stanno in chiesa, ma si lasciano andare ai piú bassi istinti e si mutano in bestie nel momento in cui vi si allontanano, ovvero, in altra versione, gli eretici ingannatori.

La versione «malvagia»

Nella redazione latina del Fisiologo (versio «Bis», risalente all’VIII secolo circa) comincia invece ad apparire l’onocentauro, che nel Medioevo finí con il rimpiazzare il normale centauro. Se ne rimarca in primo luogo la natura «molto selvatica» della parte inferiore asinina e, con il rimando a citazioni bibliche e alle definizioni tratte dalle già citate Etimologie di Isidoro di Siviglia, l’onocentauro viene comparato all’uomo cattivo e deforme – che maschera l’interiore malvagità sotto una pietà apparente –, all’uomo dalla lingua biforcuta – che, invece di camminare con la postura eretta degna di un

Miti e leggende

Le nozze di Piritoo e altre storie Un episodio della mitologia mette i centauri a confronto con il popolo dei Lapiti, il cui re, Piritoo, invita alle sue nozze con Ippodamia anche gli uomini/cavallo. Durante il banchetto, uno di loro, Eurito, ebbro di vino, cerca di rapire la futura sposa e farle violenza e altrettanto fanno gli altri centauri, che, ubriachi, si lanciano sulle donne lapite. Il banchetto si trasforma in un sanguinoso campo di battaglia, fino a sfociare in una vera e propria guerra fra le due stirpi. I Lapiti vengono soccorsi da Teseo, che nel mito greco incarnava l’eroe osservante delle regole, il leggendario fondatore della democrazia ateniese. Alla fine, la sua schiera ha la meglio sui centauri, la razionalità prevale quindi sugli istinti ferini.

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Meno noto è invece l’episodio che mette in relazione sirene e centauri. In un commento a Licofrone (poeta ed erudito greco del IV-III secolo a.C.) si legge: «Eracle era ospite a Foloe del centauro Folo e questi gli versò un vino buonissimo attingendo a un vaso di proprietà comune dei centauri. I centauri accorsero e avendo scoperto quanto era accaduto dall’odore del vino si infuriarono. Allora Eracle, preso l’arco, ne uccise alcuni (tra i quali, senza volerlo, anche Chirone, avendolo colpito al ginocchio) e inseguí gli altri che fuggendo trovarono la rovina nell’isola delle sirene». Il tema del combattimento tra sirene e centauri fu ampiamente ripreso nelle miniature medievali, ricollegandosi alla loro coesistenza nel Fisiologo o in altre raccolte di bestiari.

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immaginario centauro chirone

Un’eccezione celebre Secondo il mito, non tutti i centauri erano malvagi. L’eccezione è incarnata da Chirone: immortale «animale divino» (ther théios), egli, quale maestro di saggezza e giustizia, si distingue nettamente dalla razza selvatica e semiferina dei centauri, dei quali condivide soltanto l’aspetto fisico, ma non i valori bestiali. Chirone, infatti, ha un retaggio nobile, dal momento che la tradizione lo vuole figlio di Crono e di Filira, a sua volta figlia di Oceano e Teti. Già Omero ci fornisce dati e informazioni sulla sua figura: Chirone vive sul monte Pelio, nella parte orientale della Tessaglia, in una regione isolata e distante dalla civiltà. È esperto di medicina, maestro del piú famoso medico della mitologia greca, ossia Asclepio, che trasmise poi le sue conoscenze ai due figli, Polidario e Macaone, ricordati nell’Iliade come i due medici piú valenti dell’esercito acheo. Fu Apollo in persona ad affidare Asclepio al centauro fin dalla nascita, affinché acquisisse una grande perizia nel guarire da ferite, piaghe, eccessi febbrili e assideramenti. Altri passi omerici lo ricordano come amico di Peleo, al quale dona un’asta fabbricata con il legno del monte Pelio, e che potrà essere brandita soltanto dal di lui figlio, Achille. Se in Omero si intravedono le due qualità principali di Chirone – la natura irreprensibile da un punto di vista etico e la sua funzione di educatore, anche se limitata al campo medico –, i mitografi greci arricchirono le competenze del divino centauro: egli appare precettore e pedagogo di quasi tutti gli eroi greci, da Peleo a Giasone, da Achille a Diomede, da Atteone a Teseo... Egli è valente non solo nell’arte della medicina, ma anche nella caccia, nella musica, nella disciplina della ginnastica e nell’arte profetica. Fondamentale risulta il suo ruolo nell’educazione del giovane Achille, riguardo al quale il centauro – nelle varie versioni giunte sino a noi – assurge a ruolo non solo di dispensatore di precetti tecnici, ma ne cura la formazione sia fisica che psicologica fin dalla tenera età. essere umano – incede come un asino stupido e senza senno. Una posizione simile assunse Filippo di Thaon (attivo all’inizio del XII secolo): nel suo Bestiaire – in cui l’onocentauro viene trattato separatamente dalla sirena –, rimarca l’opposizione tra la parte umana della creatura, simbolo di razionalità, e la parte asinina, indice invece di rozzezza e di bassi istinti. L’autore conclude affermando che mentre Dio è la verità, a Lui si contrappone l’uomo «asino», il quale, nel momento in cui la nega, non può che identificarsi nell’infimo animale. Non solo i bestiari etichettano in maniera negativa la figura del centauro/onocentauro: fin dai primi se-

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coli, pensatori come Origene (II-III secolo) e san Basilio (IV secolo) la considerano simbolo di Satana, e il medesimo significato ci consegnano le raffigurazioni dell’epoca, in cui il centauro diventa incarnazione delle passioni malvage, cosí che Adamo ed Eva – talvolta rappresentati come centauri – integrano la degradazione della dignità di cui godevano nel Paradiso terrestre.

Creature voluttuose

Allo stesso modo, attorno al XII secolo, comincia a diffondersi, nelle sculture delle chiese e abbazie romaniche, il motivo della «centauressa», con corpo di giumenta e viso di donna, rappresentazione della

donna voluttuosa e seduttrice, in questo accomunata alle sirene. La polisemia del centauro e la contrapposizione tra onocentauro – prevalentemente negativo – e ippocentauro – talvolta anche positivo – si ritrovano anche in campo agiografico. In alcuni episodi – molto celebri nel Medioevo – della vita di Antonio Abate, oggi protettore degli animali, il santo si imbatte nelle mitiche creature. Nato in Egitto da una famiglia agiata attorno al 250, le sue vicende vengono narrate per la prima volta nella Vita Antonii, scritta dopo la metà del IV secolo dal colto Atanasio, vescovo di Alessandria e suo discepolo. L’opera ebbe un successo straordinario, tanto da essere giugno

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tradotta in numerose varianti, tra cui quella di Evagrio, molto libera e piú accessibile, che finí quasi per soppiantare l’originale. Antonio mostra subito la sua propensione per la vita eremitica, prima fuori della sua città, poi nel deserto, anzi, sembra addirittura che il santo tenti – talvolta invano – di raggiungere luoghi sempre piú inaccessibili. Altro tratto distintivo della sua esistenza è la lotta contro il Diavolo, che cerca di insidiarlo ripetutamente, attraverso i ricordi del proprio passato, la tentazione della lussuria, l’offerta di ricchezze o con attacchi di demoni sotto le sembianze di animali aggressivi e feroci. Antonio viene quindi incitato

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dal Signore a stabilirsi in un forte disabitato, presso la località di Pispir e, pur aspirando alla solitudine estrema, non si trova piú da solo, perché il deserto comincia a essere frequentato da monaci e asceti che seguono il suo esempio e giungono alla sua dimora per chiedere consigli o impetrare miracoli.

In cerca di Paolo

La Vita si conclude con Antonio che, informato da una visione circa l’avvicinarsi della morte, si congeda dai propri compagni e dispone che il suo corpo venga seppellito senza alcun tributo, in un luogo che deve rimanere segreto. Poche decine di anni piú tardi,

Roma, Palazzo Spada, Stanza di Achille. Affresco raffigurante Teti che affida Achille al centauro Chirone. XVI sec.

san Girolamo stese la Vita di Paolo di Tebe, nel 374 o nel 375, il cui vero protagonista è però ancora Antonio. In questo caso il santo viene descritto non piú come un eremita chiuso in se stesso e in continua lotta con il demonio, ma come un anacoreta aperto al dialogo, un viaggiatore che affronta le asperità del deserto per incontrare il vecchio monaco Paolo. La storia prende infatti le mosse dal momento in cui Antonio, già novantenne, pecca di superbia, in quanto crede di essere l’eremita perfetto e piú antico del

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immaginario centauro Iconografia

Un incontro fatidico Il motivo dell’incontro di Antonio con il satiro e il centauro ha avuto ampia diffusione nell’iconografia medievale: si può pensare a molte miniature, come quella realizzata tra il 1480 e il 1485 e oggi conservata a Parigi, nella Bibliothèque nationale de France, Les Secrets de l’histoire naturelle

(Les Merveilles du Monde; ms fr. 22971, f. 16v), nonché al ciclo di affreschi recentemente riportato in auge presso la cappella absidale della trecentesca chiesa di S. Maria al Sepolcro (Le Campora), presso Firenze. Nella cappella dedicata a sant’Antonio, all’interno del ciclo, è raffigurato anche

l’incontro dell’eremita con il satiro e il centauro, non in successione, ma come se avvenisse nello stesso istante. D’altra parte, l’anonimo pittore tratteggia il centauro in modo alquanto diverso dalla descrizione di Girolamo, dipingendolo secondo gli stilemi classici antichi, con volto pienamente umano, barbuto e con lunga capigliatura. deserto. Cosí non è. In una visione viene avvertito che nel deserto c’è un altro anacoreta, migliore di lui, e che ivi risiede da piú tempo. Il giorno seguente, fiducioso nel Signore, Antonio decide di mettersi alla ricerca di Paolo.

Il pane portato dal corvo

Durante il cammino incontra strane creature, che gli indicano la via, fino a raggiungere la spelonca di Paolo, che si presenta come un luogo paradisiaco, un autentico Eden in pieno deserto, nel quale crescono palme e frutti in ogni periodo dell’anno. Antonio e Paolo dunque si incontrano e si abbracciano, e convivono,

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Nella pagina accanto, in alto miniatura raffigurante un ippocentauro che indica a sant’Antonio la via per la caverna di Paolo di Tebe, da un’edizione del Livre des merveilles. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto, in basso Un centauro e un satiro indicano a sant’Antonio Abate la via per andare da san Paolo eremita, tempera su tavola di anonimo fiorentino. XV sec.

Sant’Antonio e il centauro, disegno a sanguigna di Bernardino Luini. XVI sec. Parigi, Museo del Louvre.

Sant’Antonio incontra un onocentauro, che, alla sua vista, fugge, cade e infine muore

cibandosi del pane che ogni giorno porta loro un corvo, fino a quando Paolo stesso non morirà. Il confronto tra la Vita di Antonio e la Vita di Paolo evidenzia l’angolatura differente con cui viene trattato l’incontro tra l’eremita e le creature fantastiche a metà tra l’umano e il bestiale. In Atanasio, infatti, Antonio si trova al cospetto di un onocentauro, per metà uomo e per metà asino: appena lo vede, il santo si fa il segno della croce, affermando di essere servo di Cristo. In questo caso, la creatura ibrida ha connotazioni demoniache: nel vedere l’eremita impavido e armato di croce, fugge e cade, andando incontro alla morte.

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Secondo la studiosa Adele Monaci Castagno, l’evento, nel racconto di Atanasio, andrebbe inquadrato nella prospettiva per cui il deserto è divenuto la città dei monaci, un territorio ormai bandito per il diavolo, il quale, da parte sua, non può che ammettere la propria sconfitta e la propria debolezza.

Ascesi e redenzione

Atanasio, probabilmente, voleva anche dire che se il deserto, fino a quel momento, era stato il regno di demoni e creature maligne, da quando l’asceta Antonio vi si stabilisce, le prospettive cambiano: le lande desertiche diventano luogo di

ascesi e redenzione – nell’ottica della loro progressiva idealizzazione – e per i demoni non c’è piú spazio. Nella Vita di Paolo, invece, Antonio, nel corso del viaggio alla ricerca del «collega», incontra tre creature che lo aiuteranno a ritrovare la dimora del piú vecchio eremita: le prime due, un centauro e un satiro, appartengono all’immaginario classico e fantastico, la terza è un animale reale, una lupa che accompagna il santo per l’ultimo tratto, fino al raggiungimento della spelonca in cui abita Paolo di Tebe. Si può quindi affermare che, in questo caso, i tre esseri assolvono a una funzione di «guida», nel solco tracciato dagli studi del filologo Carlo Donà. La descrizione dell’incontro tra Antonio e le figure mitologiche si sviluppa e acquista una valenza nuova rispetto al racconto di Atanasio: Girolamo narra che il santo si imbatte dapprima in un centau-

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immaginario centauro ro e poi in un satiro. Questa volta, il primo possiede gli attributi tradizionali – è per metà uomo e per metà cavallo – e Antonio, ritenendo di trovarsi di fronte a un demonio, si fa il segno della croce. Il centauro non si dimostra aggressivo, anzi, si sforza di essere gentile ed è capace di comprendere ciò che Antonio gli dice, non altrettanto di rispondere: tenta di parlare, ma dalla sua bocca escono suoni sommessi e incomprensibili e vi pone rimedio indicando a gesti la via per proseguire il cammino. Il successivo incontro con il satiro definisce la valenza positiva del centauro: il primo, infatti, appare nella valle rocciosa con le sembianze tipiche dell’iconografia grecoromana, che lo vuole mezzo uomo e mezzo capra. Antonio è ancora confuso e attonito per la vista del mostro, pronto a difendersi con lo scudo della fede, quando il satiro, in segno di pace, gli offre addirittura alcuni datteri per il viaggio e – dichiarandosi ambasciatore di creature come fauni, satiri e incubi – prega il santo affinché interceda per loro favore presso il Signore. Se, ad avviso di Patricia Cox Miller, la figura del centauro potrebbe rappresentare in questo contesto l’asceta stesso, che rischia sempre di cadere in una condizione di selvatichezza, piú appropriata sembra l’interpretazione della studiosa Laura Fenelli, secondo la quale i mostri

della Vita di Paolo sono un relitto del mondo classico e pagano in genere che, grazie all’azione evangelizzatrice degli eremiti del deserto, si sta convertendo al cristianesimo.

Anche gli ibridi hanno un’anima

Nell’ascoltare le parole del satiro, infatti, il santo si commuove e versa lacrime di gioia in gloria del Signore, proprio perché la strana creatura, chiedendogli di pregare per lui e per i suoi compagni, dimostra – e questo è cruciale nella narrazione di Girolamo – di possedere un’anima che può essere salvata dalle preghiere dell’eremita. A prescindere dalle interpretazioni teologiche degli episodi raccontati da Atanasio di Alessandria, si impone una riflessione sulla presenza delle creature incontrate da sant’Antonio nel deserto, in quanto, come abbiamo visto, Girolamo non solo aggiunge particolari nuovi alla storia, ma ne stravolge il significato. Nella Vita di Antonio, Atanasio mette il santo al cospetto di un «uomo-asino», che rientra tra le creature demoniache incontrate dall’anacoreta durante il suo eremitaggio. Nella Vita di Paolo, Girolamo sostituisce l’onocentauro con il centauro e ne inverte i valori: non demone, ma creatura benigna che indica al santo il cammino da seguire. Forse Girolamo aveva presente la figura di Chirone, il piú saggio

dei centauri (vedi box a p. 64), e il ruolo positivo che lo stesso poteva incarnare nell’ambito della cristianità. Possiede una parte ferina, ma si distingue dagli altri centauri per senso etico e bontà. Al contrario, sarebbe stato francamente improbabile che una creatura benigna potesse presentarsi ad Antonio Abate con fattezze asinine. Nell’opposizione tra centauro e onocentauro riemerge ancora la polarità del simbolo ed è sempre la componente dell’asino ad avere la peggio.

Da leggere Pietro Li Causi, L’invasione dei mostri e il dibattito sull’esistenza dei centauri, in Fabio Gasti e Elisa Romano (a cura di), Buoni per pensare. Gli animali nel pensiero e nella letteratura dell’antichità, Ibis, Como-Pavia 2003; pp. 183-206 Angela Giardino, Essere un mostro in Grecia, ovvero come gli ibridi creano identità, in Simone Beta, Francesca Marzari (a cura di), Animali ibridi e mostri nella cultura antica, I quaderni del ramo d’oro, 9, Fiesole 2010; pp. 111-121 San Girolamo, Vita di San Paolo primo eremita, in Vite di Paolo, Ilarione e Malco, a cura di Giuliana Lanata, Adelphi, Milano 1975 Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, a cura di Lisa Cremaschi, Edizioni Paoline, Milano 2007

Miniatura raffigurante alcuni centauri, da un’edizione trecentesca della Divina Commedia. Chantilly, Musée Condé.

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saper vedere benevento

Una stella per la Sapienza

di Elena Percivaldi

La chiesa beneventana di S. Sofia sorse per volere di Arechi II, duca e poi principe della città del Sannio. Il monumento ha vissuto una storia travagliata e solo in età moderna ha ritrovato le parti superstiti della sua fabbrica originaria, che ne fanno, in ogni caso, un capolavoro dell’arte e dell’architettura longobarde

Benevento, S. Sofia. Zaccaria muto davanti al popolo, particolare dell’affresco facente parte del ciclo delle Storie di Cristo, opera di un artista di probabile formazione siro-palestinese, che forse la portò a termine entro il 768, anno che segna la fine della costruzione della chiesa, fondata intorno al 758 per volere di Arechi II, duca di Benevento.

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hi entri oggi nella piccola chiesa di S. Sofia di Benevento e abbia una certa familiarità con l’architettura longobarda non può non provare l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di unico. E a ragione, perché la chiesa ha una struttura a dir poco originale. Disorienta la facciata, che non è quella voluta da Arechi II, duca di Benevento dal 758 e poi suo principe (vedi, in questo numero, il Dossier alle pp. 85-103): danneggiata da un rovinoso terremoto nel 1688, S. Sofia venne infatti ricostruita seguendo l’estetica del tempo, ossia in forme squisitamente barocche. Ma lo stupore prosegue anche all’interno: la chiesa ha pianta centrale (con un diametro di 23,50 m), che dall’esterno si può solo intuire perché i muri, interrotti da tre absidi sul retro, mantengono un andamento circolare soltanto fino alla zona presbiteriale; poi, all’improvviso, si «frastagliano», assumendo una forma quadrangolare a blocchi. L’aspetto «bizzarro» della struttura si deve alle scelte operate da Antonino Rusconi nell’impegnativo restauro condotto per conto della Soprintendenza ai Monumenti di Napoli tra il 1951 e il 1957 a seguito dei danneggiamenti causati dalla guerra. Il funzionario decise di ristabilire, per quanto possibile, quello che a suo avviso doveva essere l’aspetto originario, eliminando la maggior parte degli elementi introdotti in occasione dei ripetuti rifacimenti che interessarono l’edificio. E, nel farlo, poté anche compiere – come leggerete piú avanti – una scoperta di eccezionale importanza, riportando alla luce gli straordinari affreschi con le Storie di Cristo.

Arrivano i Longobardi

Alcuni contingenti longobardi erano stati in Italia già prima dell’invasione del 568-569: avevano partecipato alla guerra greco-gotica come alleati dei Bizantini ed erano risultati decisivi nella battaglia di Tagina (Gualdo Tadino, in Umbria), che nel 552 mise l’ipoteca sulla riconquista della Penisola da parte di Narsete. Il comandante bizantino aveva anche cercato di trattenere almeno una parte dei guerrieri, potenzialmente utili in caso di ulteriori interventi militari, dirottandoli nel Beneventano, ma la componente giudicata pericolosa – lo storico Procopio di Cesarea la definisce «indisciplinata, violenta e dai costumi indegni» – fu allontanata. Quando Alboino e i suoi, nel 568-569, invasero la Penisola, conquistando la maggior parte dell’Italia centrosettentrionale, questi contingenti «alleati» furono utilizzati da Costantinopoli – al pari di quelli che nel 575 con Faroaldo diedeto vita al ducato di Spoleto – come ausilio nella ristrutturazione del sistema difensivo, nella speranza, se non di ricacciare, almeno di contenere i Longobardi nel Nord. Tuttavia, nel confuso quadro storico, non si può nemmeno escludere che il ducato di Benevento, che nacque intorno al 575-576 con Zottone (per alcuni studiosi invece nel 570-571), non fosse espres-

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saper vedere benevento necropoli marchigiana di Castel Trosino e, a Benevento, dai ritrovamenti emersi nel 1927 nelle contrade Pezza Piana e San Vitale: la prima, in particolare, ha restituito un sepolcreto databile fra la metà del VI e l’inizio del VII secolo, con un discreto numero di cavalieri arimanni longobardi armati, inumati accanto a donne mediterranee autoctone.

Origine antichissima

Benevento, del resto, aveva tutte le carte in regola per diventare il centro di attrazione della neonata compagine territoriale. Di antichissima origine, posta tra due fiumi, arroccata e fortificata, era attraversata da un sistema stradale – costituito dall’Appia e dalla Traiana – eredità dei tempi antichi e ancora utilizzabile. Con Arechi I (590-640), Romualdo I (671-687) e, soprattutto, Gisulfo I (689-706) la consistenza territoriale del ducato raggiunse dunque la massima espansione, arrivando a comprendere i territori situati tra l’Abruzzo e il Lazio meridionale e il Molise, la Calabria settentrionale e il Salento. Restavano fuori solo le città costiere campane (Napoli, Amalfi, Gaeta) e il resto della Puglia, ancora in mano ai Bizantini. Il momento di massimo splendore della città fu l’epoca di Aresione di un semplice rovesciamento di fronti con la rottura dell’alleanza tra i piú antichi nuclei longobardi e l’impero. Sulle origini del ducato, comunque, non esiste ancora concordia tra gli storici. È però certo che, a differenza di quanto avvenne nel Centro-Nord, l’occupazione longobarda del Mezzogiorno non si fondò sulle fare – gruppi familiari allargati migrati in massa, stretti intorno al carisma di un re –, ma su molto piú sgranati e numericamente meno consistenti drappelli di guerrieri già presenti sul territorio che, una volta stanziatisi, si fusero presto con la popolazione indigena. Lo ha dimostrato l’archeologia: gli Appennini hanno restituito un gran numero di armi compatibili con il modello merovingico-orientale in uso in Oltralpe, mentre le necropoli di Vicenne e di Morrione a Campochiaro, presso Boiano nel Molise, conservano 19 sepolture con cavallo che rimandano al costume funerario dei popoli delle steppe. Come ha evidenziato Marcello Rotili, il legame è con gli Àvari o con i Bulgari, il cui duca Alzeco, intorno al 665, ottenne da re Grimoaldo I di potersi insediare con i suoi nella zona, ma nel contempo i reperti denunciano evidenti rapporti con la componente autoctona mediterraneo-orientale. Una circostanza confermata dalla

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In alto una veduta aerea della chiesa di S. Sofia e del chiostro adiacente. A destra e sopra due esemplari di croce aurea. Dalla necropoli longobarda di Benevento. VII sec.

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chi II, duca di Benevento dal 758 fino al 774 e poi, dopo la caduta del regno longobardo in mano franca, principe fino alla sua morte. Egli rifondò Salerno, dove si trasferí nella reggia che aveva costruito e dotato di una cappella palatina dedicata ai santi Pietro e Paolo. Ma prima aveva rinnovato la stessa Benevento edificando nella zona orientale, piú elevata rispetto al resto della città, la Civitas Nova e il Sacrum Palatium con la cappella di S. Salvatore, che aveva eletto a sua residenza. Soprattutto, decise l’edificazione di S. Sofia, che fu completata nei primi due anni di governo e destinata a diventare tempio nazionale e sacrario della stirpe longobarda. Secondo il cronista Erchemperto, vissuto nel IX secolo, fu lo stesso Arechi a intitolarla, «in lingua greca», alla Santa Sapienza (Aghian Sophia). Altre fonti attribuiscono l’idea a Paolo Diacono, il che è plausibile. Il grande storico longobardo si era infatti stabilito sin dal 768 a Benevento e dimorava, assai stimato, sotto l’ala protettiva del duca e della moglie Adelperga, figlia del re Desiderio, alla quale aveva fatto da precettore. Fine intellettuale e conoscitore del greco, poteva a ragione aver suggerito al duca, a sua volta cultore delle arti e delle usanze bizantine, di imitare Giustiniano, che due secoli prima, nel 527, aveva edificato a Costantinopoli il grande tempio dedicato alla Santa Sapienza (Hagia Sophia), summa dell’ideologia del suo governo. Il ruolo di primissimo piano che nelle intenzioni di

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In alto una veduta di Benevento in epoca medievale.

Arechi la «sua» chiesa doveva rivestire, ossia quello di santuario pubblico e nazionale, fu subito chiarito dalle parole del duca stesso: nei due Praecepta oblationis e nel Praeceptum concessionis del novembre 774 (redatti a Benevento, «in palatio») si legge di misure a favore della chiesa «quam a fundamentis edificavi pro redemptione anime mee seu pro salvatione gentis nostre et patrie» (ossia «che edificai per la redenzione della mia anima e per la salvezza della nostra gente e della nostra patria»). Questo ruolo di primaria importanza fu percepito immediatamente anche dai contemporanei. E al medesimo ambiente sensibile all’arte e alla cultura orientali si ricollega, come vedremo tra breve, anche il ciclo di affreschi riemersi in S. Sofia, realizzati con ogni probabilità entro il 768 da un anonimo artista siro-palestinese.

Le reliquie dei XII Fratelli martiri

Danneggiata da almeno due terremoti e, in tempi moderni, dal bombardamento del 1943, la chiesa ha subíto continui restauri e rifacimenti, che, fino alla restituzione in tempi recenti, ne hanno compromesso l’aspetto originario. Un dato sembra comunque certo: sappiamo che S. Sofia fu ultimata intorno al 762, perché nel maggio di quell’anno Arechi II vi fece traslare le reliquie dei XII Fratelli martiri che aveva fatto recuperare in varie

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saper vedere benevento In basso la facciata della chiesa di S. Sofia, in cui si nota chiaramente l’impronta dei rifacimenti in epoca barocca.

città italiane, collocandole nell’abside maggiore. A esse si aggiunsero, nel 768, quelle di san Mercurio e di altri trentuno santi martiri e confessori, che il duca portò da tutta la Penisola e inserí in una serie di altari opportunamente disposti attorno a quello maggiore. Continuando il processo di conversione al cristianesimo del suo popolo – già iniziato, non senza intoppi, da Romualdo I (671-687) e dalla sua consorte cattolica Teoderada –, nel 774 Arechi aggregò alla chiesa un monastero femminile, affidandolo alla sorella Gariperga, che ne divenne la prima badessa. Il complesso, con attiguo xenodochio, fu sottoposto alla giurisdizione dei Benedettini di Montecassino. Ed eccoci, circa un secolo dopo, al primo evento catastrofico: il sisma che nel 968 rase al suolo il convento. Nulla si sa circa eventuali danni a S. Sofia, ma possiamo presumere che fossero ingenti. La ricostruzione, promossa subito dopo, portò alla realizzazione del chiostro, che si presenta composto da quattordici quadrifore e una trifora, con l’ampio utilizzo di materiale di recupero nella decorazione scultorea. Le prime notizie documentate di un restauro della chiesa risalgono al XII secolo, quando l’abate Giovanni IV volle adattarla alle nuove esigenze dettate dalla

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DA ARECHI ALL’UNESCO 758

A rechi II diventa duca di Benevento. Rimane tale fino al 774, poi assume il titolo di principe fino alla morte, avvenuta il 26 agosto 787. 762, maggio La chiesa è ultimata con la traslazione delle reliquie dei XII Fratelli martiri e loro collocazione nell’abside maggiore. 768 Traslazione delle reliquie di san Mercurio e di altri 31 santi martiri e confessori, collocate in altari disposti attorno a quello maggiore. 774 Arechi II aggrega alla chiesa un monastero femminile, affidandolo alla sorella Gariperga. 968 Un disastroso terremoto rade al suolo il convento. Si ignora l’entità dei danni subiti dalla chiesa. XII secolo Primo intervento decisivo sulla chiesa. L’abate Giovanni IV adatta S. Sofia alla liturgia benedettina riformata: costruisce la schola cantorum, fa ampliare la facciata, edifica un pronao quadrangolare una lunetta con Cristo in trono, san Mercurio Martire e un personaggio inginocchiato indentificabile con Giovanni (o Arechi II). 1038-1056 Mentre è abate Gregorio II, si realizza il campanile quadrangolare. XII-XIV secolo Momento di massimo splendore della chiesa e del convento, testimoniato dalle donazioni private, dalle attività artigianali e commerciali e dagli immobili e terreni gestiti. Piena attività dello scriptorium, centro di produzione della scrittura beneventana. 1495 Costruzione del recinto merlato, poi abbattuto nel 1809. 1595 Il convento viene posto alle dipendenze dei Canonici Regolari Lateranensi della Congregazione del Santissimo Salvatore. 1688, 5 giugno Un altro rovinoso terremoto colpisce Bevenento, compromettendo gravemente la struttura di S. Sofia. Crollano il campanile e la cupola, la facciata è danneggiata. 1694, L’abate Horatio Minimi compie un 26 maggio sopralluogo per verificare i danni. giugno

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1696 L’arcivescovo Vincenzo Maria Orsini, futuro papa Benedetto XIII, ordina la ricostruzione della chiesa, mantenendo intatta la sola parte centrale. I lavori vengono eseguiti dall’architetto Carlo Buratti. 1701, 19 marzo Riconsacrazione dell’edificio in forme mutate. Ora presenta una facciata barocca, la cupola si trova su un tiburio piú alto, gli affreschi sono stati coperti da inconaco, le tre absidi chiuse, gli altari spostati. Inoltre la pianta è trasformata da stellata in circolare. 1702, 14 marzo Nuovo terremoto. Crolla il campanile che verrà riedificato piú distante dalla chiesa. 1806 Soppressione del convento. 1809 Il principe di Talleyrand decide di intervenire per demolire le mura del recinto razionalizzando il complesso. 1941 La Soprintendenza ai Monumenti di Napoli inizia un rilievo della chiesa, interrotto a causa degli eventi bellici. 1943 Benevento è bombardata. La cattedrale viene sventrata; S. Sofia, colpita di striscio, riporta danni alla copertura. 1947 Il soprintendente di Napoli, Giorgio Rosi, scopre l’esistenza delle absidi, con ciò che resta degli affreschi. 1951-1957 Restauri da parte di Antonino Rusconi. 1960 Resituzione della chiesa alla cittadinanza. 1967 Termine di un’altra campagna di scavi. 2005-2010 Interventi di pulitura e risistemazione da parte del Comune e della Soprintendenza in occasione della candidatura UNESCO. 2011, 25 giugno Iscrizione nel sito seriale UNESCO «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)».

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In alto uno scorcio dell’interno della chiesa di S. Sofia, scandito dalle colonne centrali. Sullo sfondo si scorge l’abside trilobato.

riforma monastica benedettina. Alla facciata originaria, parzialmente abbattuta e ricostruita piú ampia, fu anteposto un pronao quadrangolare sorretto da quattro colonne; in alto fu aggiunta la lunetta romanica che rappresenta Cristo in trono con san Mercurio Martire, le cui reliquie, come detto, già riposavano nella chiesa. All’interno, nell’esagono centrale, fu inserita una «schola cantorum», che comportò la sostituzione dei due pilastri d’ingresso con altrettante colonne. Il profilo del complesso si faceva via via piú composito con l’aggiunta, da parte di Gregorio II, abate tra il 1038 e il 1056, del campanile quadrangolare, evento testimoniato dall’iscrizione murata nella parete occidentale.

Nasce la «beneventana»

Monastero e chiesa vissero in quest’epoca il periodo di maggiore floridezza, testimoniato dalle molte donazioni ricevute (anche dai pontefici), dalle numerose attività artigianali e commerciali controllate e dagli immobili e dai terreni gestiti. Notevole era inoltre lo scriptorium del monastero, partecipe del processo di elaborazione e produzione della scrittura detta «beneventana», che ebbe un ruolo di primo piano nella storia artistica eu-

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saper vedere benevento Particolare della lunetta del portale maggiore della chiesa di S. Sofia.

Il monumento in sintesi

Un emblema della cultura longobarda Perché è importante La chiesa beneventana di S. Sofia rappresenta un unicum architettonico per la sua originalissima pianta stellata, scoperta solo in occasione dei restauri degli anni Cinquanta del Novecento. Sebbene sia stata pesantemente rimaneggiata nel corso dei secoli, innanzitutto per rimediare ai danni causati dai frequenti terremoti, è uno dei piú suggestivi monumenti altomedievali dell’intera Langobardia Minor. S. Sofia nella storia Santuario emblema dei Longobardi, la chiesa fu voluta da Arechi II come simbolo del suo potere e quindi arricchita

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con le reliquie di molti santi. Anche dopo la fine del regno longobardo a opera di Carlo Magno, rimase un luogo fondamentale per Benevento, divenuto principato, e in generale per la Langobardia Minor. Il cenotafio nell’arte Gli affreschi sopravvissuti ai rifacimenti di secoli sono una delle pochissime testimonianze di pittura longobarda e altomedievale che si siano conservate a Benevento. Lo stile pittorico rivela forti connessioni con l’arte orientale: il richiamo a Bisanzio e ai suoi canoni estetici ed espressivi era fondamentale per garantire ai committenti autorevolezza e prestigio.

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ropea. A tanta ricchezza, però, non corrispose sempre un’oculata amministrazione, cosicché, dal Trecento in poi S. Sofia e il suo convento si avviarono a una progressiva decadenza, testimoniata anche dall’isolamento del complesso in un recinto merlato (costruito prima del 1495) di dimensioni molto inferiori a quello che doveva essere il perimetro originario.

Terremoti e bombardamenti

Planimetria della chiesa di S. Sofia. Impostata a pianta centrale, tre sporgenze sui lati conferiscono alla pianta una forma «stellare» davvero unica.

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Arriviamo cosí al 5 giugno 1688, quando un altro rovinoso terremoto colpí Bevenento e compromise gravemente l’intera struttura. È possibile farsi un’idea dei danni leggendo la relazione della Visita urbana compiuta il 26 maggio del 1694 dall’abate Horatio Minimi e l’anonima Bulla readificationis seu restaurationis, del 1701: di intatto, si evince, erano rimaste solo la struttura portante e la Cappella delle Reliquie, che si trovava sulla destra; il campanile e la cupola esagonale a spicchi erano crollati, coinvolgendo parte del resto dell’edificio, tra cui la facciata. Per l’estetica del tempo, la chiesa, fatta salva la sua incontestabile antichità e importanza, era – parole della Bulla – asimmetrica, irregolare e trascurata: a questo punto un intervento radicale di restauro fu praticamente inevitabile. A ordinarlo fu, nel 1696, l’arcivescovo Vincenzo Maria Orsini e futuro papa Benedetto XIII, che intendeva cogliere l’occasione per ricostruire l’edificio valorizzandone la sola parte centrale ed eliminando tutto il resto. Il prelato incaricò dei lavori l’architetto Carlo Buratti. Un documento dell’8 febbraio 1708, citato da Rotili, dà conto dell’entità delle operazioni: «Nell’anno 1696 [l’arcivescovo Orsini] fece incominciare a riparare la (…) Chiesa, e a ridurla alla dovuta simetria, col fare buttare a terra parte di essa, come superflua, e irregolare». Non erano però affatto d’accordo i Canonici Regolari Lateranensi della Congregazione del Santissimo Salvatore, dai quali, dal 1595, l’abbazia dipendeva e che, fedeli alla storia del complesso, auspicavano invece un’opera di riedificazione e ripristino il piú possibile «filologica» e limitata alle sole parti crollate o gravemente lesionate senza interventi troppo drastici. Quando l’edificio fu riconsacrato, il 19 marzo 1701, dovette sembrare molto diverso da quello tanto familiare ai Beneventani: la facciata era stata completamente rifatta in base all’estetica contemporanea, la cupola ricostruita su un tiburio molto piú alto di quello originario, gli affreschi coperti da un fitto strato di intonaco ristuccato, le tre absidi chiuse, gli altari spostati. La pianta stellata originaria era stata inoltre trasformata in circolare. Ma il travaglio del monumento non era ancora terminato. Meno di un anno piú tardi, il 14 marzo 1702, un nuovo terremoto fece crollare ancora una volta il campanile, peraltro non ancora terminato: per evitare ogni ulteriore rischio si decise allora di ricostruirlo dove sorge

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attualmente, ossia a «distanza di sicurezza» dalla chiesa. Il vuoto lasciato fu riempito da una nuova cappella simmetrica a quella già esistente. Chiuse l’intervento di ripristino una rielaborazione generale dell’interno, condotto eliminando alcuni tratti del muro perimetrale e smussando i capitelli di base delle colonne, giudicati troppo invadenti. Il convento fu soppresso nel 1806 e rischiò la spoliazione. Lo salvò il governo del principe di Talleyrand che, nel 1809, fece demolire le mura del recinto, razionalizzando l’intero complesso. Ma nessuno pensava che, sotto la veste tardo-barocca, potesse essersi conservato qualcosa dell’antica struttura longobarda, a parte il portale e il doppio circuito di colonne interne. I primi sospetti furono sollevati, all’alba del nuovo secolo, da Emile Bertaux, subito seguito da Pietro Toesca: a loro giudizio sotto la veste rinnovata si celava ben altro e sarebbe bastato scavare per riportarlo alla luce. Tuttavia, se si eccettuano alcuni interventi nel chiostro, i lavori approdarono a un nulla di fatto. Si dovette aspettare il 1941 e la Soprintendenza ai Monumenti di Napoli per iniziare un altro rilievo della chiesa, ma, ancora una volta, i lavori procedettero a rilento, in questo caso per via della guerra in corso. Il conflitto ebbe conseguenze pesanti per la città, che nel 1943 subí un bombardamento che sventrò la cattedrale. Di S. Sofia, colpita di striscio, venne fortunatamente danneggiata solo la copertura.

Due scoperte sensazionali

La mancanza di una chiesa metropolitana in cui officiare costrinse a un intervento d’urgenza. I lavori portarono nel 1947 a una prima importante scoperta: durante alcuni saggi a destra del presbiterio, l’allora soprintendente di Napoli, Giorgio Rosi, si imbatté in un’abside completamente ricoperta da affreschi e stucchi seicenteschi. Si intuí che potevano celare ben altro e furono prontamente rimossi. L’indagine continuò e portò alla luce altre due absidi e i resti di un ciclo di affreschi altomedievali che, in origine, doveva sontuosamente ricoprire tutte le pareti. Ma quando era stato dipinto? I primi studiosi interpellati datarono l’opera al IX-X secolo, non cosí lo storico dell’arte Ferdinando Bologna, che li assegnò invece alla seconda metà dell’VIII, ritenendoli contemporanei all’edificazione della chiesa da parte di Arechi. Le scoperte non erano finite. Il già citato Antonino Rusconi, che succedette a Rosi, giunto a fine mandato, lavorò nei dieci anni successivi, ordinando altri sondaggi, rilievi e scavi sull’intero complesso e pubblicando i risultati, non senza polemica, solo nel 1967, cioè oltre un decennio dopo il termine. I suoi interventi, che compresero tra l’altro il rifacimento totale del tetto, riportarono però alla luce tutte le strutture piú antiche. L’eli-

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Sulle due pagine altri particolari delle Storie di Cristo: la Visitazione di Maria (qui sopra), con l’abbraccio fra la Vergine ed Elisabetta, e l’Annuncio a Zaccaria (da parte dell’Arcangelo Gabriele; nella pagina accanto) della prossima nascita del Precursore e il suo Silenzio.

minazione totale dell’intonaco dalle mura, per esempio, fece riemergere la tessitura originaria, che consisteva in un’opera listata, formata da due file di mattoni, spessi circa 3 cm, e un filare di tufelli squadrati irregolarmente: una tecnica poco utilizzata nella Benevento della seconda metà dell’VIII secolo, ma presente invece a Roma. Ciò suggerí il possibile ricorso da parte di Arechi, vista anche l’importanza simbolica e politica della chiesa che stava costruendo, a maestranze fatte giungere apposta dalla città papale. La copertura a volta era confrontabile, secondo Rusconi, con la tecnica usata nel VI secolo per le grandi cisterne di Costantinopoli, mentre altri elementi furono riconosciuti come longobardi. Le integrazioni che operò sulla trama muraria sono ben visibili anche oggi perché, pur essendo come quella originaria condotte in tufelli e mattoni, vi è stato adottato un passo diverso. Ulteriori ricerche portarono al ritrovamento di tombe, di basi di colonne e di una lunga porzione di muro sulla piazza, che però non furono ulteriormente indagate. Altre sepolture e una fossa comune, piú tarda, emersero invece dentro la chiesa, lungo il perimetro in prossimità delle tre absidi. Dopo gli affreschi, la seconda, grande scoperta fu la

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saper vedere benevento Alla scoperta di una città «longobarda» La cripta di S. Marco dei Sabariani, un patrimonio longobardo a rischio È un autentico tesoro, ma si sta letteralmente sgretolando. Si trova nella cripta di quella che un tempo era la chiesa di S. Marco dei Sabariani, nell’omonima piazza beneventana, anch’essa distrutta nel fatidico terremoto del 1688: un ciclo di affreschi del IX-XI secolo con le Storie di Cristo e della Vergine, una delle rarissime testimonianze di pittura longobarda in città, visto che gli unici esemplari rimasti sono alcuni lacerti nella pseudocripta del Duomo e, appunto, il ciclo frammentario di S. Sofia.

Dedicata a san Marco di Eca, di cui forse custodiva le reliquie, la chiesa è documentata a partire dal 1018, ma è precedente. A partire dal 1280 fu rifondata dal cavaliere provenzale Ermengano Shabran, uomo del seguito di Carlo d’Angiò, che si stabilí nel palazzo di fronte all’edificio. La sua famiglia ne esercitò il patronato per secoli, dotandola di ricche rendite. Ma il 5 giugno 1688 il terremoto che compromise S. Sofia decretò anche la rovina di S. Marco, da allora abbandonata e la cripta, rasa al livello del terreno, fu colmata di detriti e dimenticata. Nel 2007 la scoperta casuale: durante uno

scavo effettuato dall’ENEL, affiorò un’apparente cisterna: gli affreschi però qualificarono il ritrovamento come «eccezionale». Gli scavi intrapresi dalla Soprintendenza hanno portato alla riapertura della cripta e ai primi interventi sugli affreschi, subito ricoperti con carta di riso. Ma i lavori si sono improvvisamente interrotti. Per tre anni, fino al 2010, il sito è rimasto coperto solo da lamiere, che non hanno frenato le intemperie. Il restauro, auspicato da larga parte della cittadinanza, non si è ancora realizzato. L’ultimo sopralluogo della Soprintendenza di Caserta e Benevento, avvenuto nel dicembre scorso, ha lanciato l’allarme: o si interviene subito o gli affreschi saranno perduti. Alcuni enti e associazioni, tra cui il FAI, Delegazione Benevento e il gruppo Facebook «Sei di Benevento se...», hanno allora avviato una petizione per chiedere alle istituzioni di reperire i finanziamenti necessari e intervenire prima che sia troppo tardi, tanto piú che il costo del restauro è stimato in soli 20 mila euro. Per informazioni si può consultare il sito: http://seidibeneventose.it SS. Salvatore e S. Ilario Tra le chiese longobarde beneventane piú interessanti c’è sicuramente quella del SS. Salvatore. Documentata dal 926 è però di fondazione longobarda: lo hanno dimostrato gli scavi condotti tra il 1997 e il 1999, grazie ai quali sono tornate alla luce l’originaria forma quadrangolare e alcune sepolture del VII secolo, una delle quali, del presbitero Auderisio, corredata di iscrizione. Anche in questo caso l’impianto e la facciata sono stati stravolti a seguito dei terremoti del 1688 e del 1882. Da citare è anche la chiesa di S. Ilario a Port’Aurea, posta lungo l’attuale via San Pasquale,

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In alto uno scorcio del ciclo di affreschi nella cripta di S. Marco dei Sabariani. IX-XI sec. A sinistra pianta della città in età longobarda.

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che costituiva in antico il tratto in uscita della via Traiana (e infatti sorge proprio nei pressi dell’Arco, inserito nel Medioevo nella cinta muraria con il nome di Porta Aurea). La chiesa, anch’essa di fondazione longobarda, conserva nell’attiguo prato le rovine dell’annesso monastero forse del XII secolo. Restaurata per l’ultima volta nel 2003, è oggi sede del videomuseo dell’Arco, dipendente dal Museo del Sannio, e al suo interno si proietta un filmato multimediale sulla storia e l’iconografia del vicino monumento traianeo. Il chiostro di S. Sofia e il Museo del Sannio Quello che un tempo era il chiostro dell’antico monastero annesso alla chiesa di S. Sofia ospita, dal 1929, le collezioni d’Archeologia, Medievalistica e Arte del Museo del Sannio (il settore dedicato alla Storia è invece nel torrione della Rocca dei Rettori). Riorganizzato secondo criteri moderni da Mario Rotili negli Anni Sessanta, fu ampliato nel 1973 e si impose, sotto la direzione di Elio Galasso, come polo culturale di livello nazionale. Dopo il restauro terminato nel 1999, il Museo ospita oggi un lapidario, reperti dal Paleolitico all’età romana. La collezione medievale è incentrata intorno alle Sale della «Langobardia Minor», che espongono frammenti architettonici, iscrizioni, armi, utensili da lavoro, gioielli e monete che testimoniano il passato longobardo della città. Dove e quando Museo del Sannio, piazza Santa Sofia, Benevento; info: tel. 0824 774763; e-mail: info@museodelsannio.it; www.museodelsannio.it

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A sinistra la facciata e il portale della chiesa del SS. Salvatore. VII sec. In basso uno scorcio interno del chiostro di S. Sofia, parte dell’antico monastero omonimo, oggi sede del Museo del Sannio.

presenza, in pianta, di una struttura murale «a zig zag» che creava una stella, una soluzione originalissima e unica nel suo genere di cui, come già ricordato, si era ormai da secoli perduta completamente ogni traccia. Dopo averla riportata alla luce, Rusconi rilevò anche che i pilastri non erano disposti secondo un allineamento radiale, come sarebbe stato logico in un edificio a pianta centrale, bensí parallelamente alle pareti perimetrali, attribuendo l’innovazione alle precise direttive dello stesso costruttore.

La rinascita

Il restauro di Rusconi riportò quindi alla luce la struttura originaria della chiesa. In tutte e tre le abisdi fu aperta, non senza critiche, una finestrella arcuata (ne era stato trovato un indizio nella sola abside di sinistra). Per quanto riguarda la facciata, si mantenne la lunetta (anche se in posizione arretrata) e vennero chiusi gli archi laterali, le finestre e il rosone di epoca barocca. Fu invece lasciato al suo posto il tiburio che racchiude la cupola, ricostruita dai canonici con dimensioni circa raddoppiate rispetto all’originaria: il suo aspetto precedente si può però ricavare, come ha rilevato ancora Rotili, da una miniatura del Chronicon Sanctae Sophiae (il codice Vat. Lat. 4939 della Biblioteca Apostolica Vaticana, datato agli inizi del XII secolo) che raffigura Arechi II mentre, in trono, presiede alla costruzione della chiesa. Rusconi ordinò infine di ricoprire le parti «moderne» con un intonaco neutro, per non «disturbare» troppo con uno «sgradevole contrasto» le forme originarie. Nel 1960, la chiesa venne definitivamente ultimata e riconsegnata alla comunità dei fedeli. Altri scavi furono condotti fino al 1967, ma senza fornire ulteriori elementi significativi: il settore preso in considerazione è stato però soltanto quello sul lato destro, dal quale oggi si accede al Museo del Sannio; il lato confinante con il chiostro, indagato di recente dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici per le Province di Salerno, Avellino e Benevento, ha invece restituito tratti di mura romane e le tracce della probabile abside di una chiesa piú antica di S. Sofia con alcune tombe. L’area della piazza dove oggi si apre la chiesa era un sepolcreto sotterraneo coperto con una volta a botte: probabilmente, come fanno supporre anche altri elementi tra cui i resti di alcune colonne, questo ambiente faceva parte della chiesa del XII secolo crollata durante il sisma seicentesco. Tra il 2005 e il 2010 il Comune e la Soprintenden-

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saper vedere benevento Appuntamento a Benevento

La capitale del ducato ritrova il suo principe Rivivere le vicende e le suggestioni del ducato di Benevento: è questo l’obiettivo che si pone la quinta edizione di «Benevento Longobarda», la rassegna – curata dall’associazione omonima – incentrata sulla figura di Arechi II, ultimo duca e primo principe, a cui sono legati eventi fondamentali della storia cittadina. Dal 23 al 26 giugno andrà dunque in scena la Contesa di Sant’Eliano, che ricorda un importante episodio storico: il recupero nel 763, da parte del gastaldo di Arechi II, delle reliquie del martire Eliano, che si trovavano a Bisanzio. Giunte in città, furono contese tra le fare cittadine, che volevano aggiudicarsi i benefici derivanti dalla loro custodia. La Contesa ripropone quello «scontro», con gare di forza, coraggio e destrezza: la fara che avrà ottenuto il maggior numero di vittorie avrà il privilegio di custodire le reliquie per un anno, fino alla Contesa successiva. Il programma degli eventi, come sempre molto ricco di attività per grandi e piccini, prevede, oltre ai vari palii, concerti, spettacoli e visite guidate. La parte didattica è affidata ai banchi dedicati alla vita quotidiana e curati dai

vari gruppi di rievocazione presenti: Benevento Longobarda, Tempora Medievalis, Fortebraccio Veregrense, Gens Langobardorum, Vita Antiqua. La novità del 2016 è il ciclo di conferenze «I Longobardi nel Mezzogiorno: una storia da riscoprire». Curati da Elena Percivaldi, gli incontri si terranno nella chiesa del SS. Salvatore. Giovedí 23 il protagonista sarà Paolo Diacono, il grande storico dei Longobardi, la cui vicenda verrà ripercorsa nella conferenza «Da Cividale a Montecassino: sulle tracce di Paolo Diacono», a cui partecipa il padre francescano Luigi Carillo. Venerdí 24 si terrà la tavola rotonda «Benevento tra Longobardi e Normanni: alla ricerca di un’identità», alla quale partecipano, tra gli altri, Claudio Azzara, Marcello Rotili e Tommaso Indelli. A seguire, sono in programma un concerto e la presentazione dell’articolo su S. Sofia pubblicato in queste pagine, con l’intervento di Andreas M. Steiner, direttore di «Medioevo». Sabato 25 sarà invece la volta di «Lo Scrigno del Tempo: i tesori dei Longobardi», in cui l’editore Enrico Chigioni illustrerà il suo progetto di edizione in facsimile di manoscritti longobardi, tra cui il Codice Cavense 4

za hanno infine realizzato alcuni interventi tra cui la pulitura delle superfici murarie, il rifacimento della pavimentazione e l’adeguamento degli impianti in vista dell’iscrizione nella World Heritage List dell’UNESCO, avvenuta il 25 giugno 2011: da allora il complesso monumentale di S. Sofia fa parte del sito seriale «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)» che comprende anche l’area della Gastaldaga e il complesso episcopale di Cividale del Friuli, il complesso di S. Giulia e S. Salvatore di Brescia, il castrum e la chiesa di S. Maria foris portas di Castelseprio e la torre di Torba, il Tempietto di Campello sul Clitunno e la Basilica di S. Salvatore di Spoleto, e il santuario garganico di S. Michele di Monte

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di Cava de’ Tirreni, che comprende, tra gli altri, l’Editto di Rotari. Domenica 26 si chiude con un focus sulla vita quotidiana al tempo dei Longobardi: a mostrarne i vari aspetti, dall’abbigliamento all’armamento, dalla scrittura alla medicina, saranno ancora una volta i rievocatori. Informazioni, aggiornamenti e programma completo su: www.beneventolongobarda.it

Sant’Angelo. Oggi è al centro di numerose iniziative di valorizzazione. Ma, probabilmente, su questo splendido monumento resta ancora molto da scoprire.

Visitiamo insieme

Prima di entrare in S. Sofia per il portale che si apre nella facciata barocca, si incontra subito quel che resta del pronao medievale, crollato nel 1688: due colonne sorreggono una lunetta romanica che raffigura Cristo in trono tra la Vergine, san Mercurio e un altro personaggio inginocchiato. Chi sia quest’ultimo è difficile dirlo. I piú lo identificano con Giovanni IV, l’abate dei primi importanti restauri del XII secolo, ma altri ipotizzano giugno

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Miniatura raffigurante la mensa del re longobardo Rotari, dal Codex Legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni, Archivio dell’Abbazia della SS. Trinità.

che possa trattarsi di Arechi II in persona, ritratto ai piedi della Divina Sapienza a cui è intitolata la chiesa: tra di loro vi è Marcello Rotili, che sottolinea come il ricordo del sovrano fosse molto vivo nel Seicento, quando la chiesa conservava una sua statua, mentre un secolo dopo venivano ancora celebrate funzioni in suo suffragio. Passando all’interno, si nota subito come lo spazio sia suddiviso secondo una composizione complessa e concentrica: un decagono nel quale è inscritto un esagono, sormontato da un’ampia cupola con tiburio. Il decagono è delimitato da otto pilastri a sezione quadrata, di epoca medievale, e da due colonne di riuso antiche che, come le sei che compongono l’esagono, conservano ancora i capitelli classici originari: inoltre, queste ultime poggiano su altri capitelli antichi rovesciati, alcuni dei quali scalpellati durante la sistemazione sei-settecentesca. È stato possibile ipotizzare, sulla base di confronti, che le sei colonne centrali con elementi di gusto egittizzante provengano dal tempio di Iside, mentre molti capitelli erano identici a quelli utilizzati altrove in città, in Port’Arsa, all’ingresso della via Appia. L’intera struttura, chiusa da una copertura a capanna, è sorretta da un fitto sistema di archi. Il risultato della composizione è dinamico e suggestivo: come ha scritto efficacemente ancora Rotili, «l’impianto centrale, il frastagliamento della struttura perimetrale, il profilo delle volte su co-

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giugno

lonne e pilastri e la cavità della cupola danno l’impressione di una grande, variopinta tenda mossa dal vento». La testimonianza forse piú suggestiva del complesso è quel che rimane degli affreschi che un tempo coprivano interamente le tre absidi e che rimasero nascosti per secoli sotto un pesante strato di intonaci, stucchi e tamponature. Rusconi fece togliere queste aggiunte: tornarono cosí alla luce i frammenti di un vasto e splendido ciclo pittorico dedicato alle Storie di Cristo: nell’abside di sinistra le Storie di S. Giovanni Battista, impaginate seguendo l’ordine che si legge nel Vangelo di Luca, in quella di destra le Storie della Vergine. Del primo ciclo sono rimaste due scene, l’Annuncio a Zaccaria della prossima nascita del Precursore e il suo Silenzio, con il santo colto mentre mentre fa cenno a un gruppo di fedeli di essere stato privato da Dio della parola per non aver creduto all’annuncio dell’Angelo. Del secondo ciclo si vedono l’Annunciazione a Maria e la Visitazione, con l’abbraccio tra la Vergine ed Elisabetta. Pur frammentari e mutili, questi affreschi di autore ignoto, ma molto probabilmente di formazione siro-palestinese, rappresentano, per dirla ancora una volta con Rotili, «il punto d’inizio della pittura beneventana e il caposaldo di una cultura che nello stesso periodo ebbe nella formazione della scrittura beneventana l’altro essenziale perno».

Da leggere Ferdinando Bologna, La pittura italiana delle origini, Editori Riuniti, Roma, 1962 Mario Ferrante, Chiesa e chiostro di Santa Sofia in Benevento, in Samnium, XXV, n. 2-3 (1952); pp. 73-96 Elio Galasso, Il chiostro di Santa Sofia a Benevento. Il simbolico, il mostruoso, l’ambiguo, Museo del Sannio-Gennaro Ricolo Editore, Benevento 1993. Marcello Rotili, La chiesa di Santa Sofia a Benevento, in Benevento Le Chiese del Fondo Edifici di Culto del Sannio, Edizioni L’Orbicolare, Milano 2011 Marcello Rotili, La necropoli longobarda di Benevento, Università di Napoli, Istituto di storia medioevale e moderna, Napoli 1977 Antonino Rusconi, La chiesa di Santa Sofia di Benevento, estratto da «XIV Corso di cultura nell’arte ravennate e Bizantina». Ravenna 1967, Faenza, Stab. Grafico F.lli Lega, Faenza 1967; pp 339-359. Errico Cuozzo e Mario Iadanza (a cura di), Il Ducato e il Principato di Benevento. Aspetti e problemi (secoli VI-XI), Atti del convegno di studi, Museo del Sannio, 1° febbraio 2013, La Provincia Sannita, Benevento 2014

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di Tommaso Indelli

Dopo averne assunto la guida, Arechi II trasformò il ducato di Benevento in una realtà politica di primissimo piano. Tanto da suscitare la violenta reazione della Chiesa che, appellandosi a Carlo Magno, cercò con ogni mezzo di ridimensionarlo

Arechi II, principe longobardo di Benevento, raffigurato in una miniatura tratta dal Codex Legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni, Archivio dell’Abbazia della SS. Trinità.

L’ultimo

Longobardo


Dossier

N N

el 773, Carlo, re dei Franchi e futuro imperatore (768814), invase l’Italia, su richiesta di papa Adriano I (772-795), che temeva l’espansione del regno longobardo in direzione del Lazio (vedi box a p. 91). Due eserciti scesero nella Penisola: uno al comando dello stesso Carlo e l’altro guidato dallo zio del re, Bernardo. Colti alla sprovvista, i Longobardi furono sconfitti presso Susa e ripiegarono su Pavia, capitale del regno, dove trovarono rifugio il re Desiderio (756-774) e la moglie Ansa. Mentre venivano occupati i centri minori della Pianura Padana, il grosso dell’esercito franco pose l’assedio a Pavia, che capitolò solo nel giugno del 774. Nella primavera dello stesso anno, durante l’assedio, re Carlo si recò a Roma per trascorrervi la Pasqua insieme al pontefice e per regolare ogni questione ancora in sospeso circa la sorte dei territori conquistati dai Franchi. Nel corso della liturgia pasquale in S. Pietro – 6 aprile del 774 – il papa ottenne dal re, con solenne giuramento, la cessione di tutti i territori posti al di sotto di una linea immaginaria che andava da Luni, in Liguria, a Monselice, nel Veneto, passando sopra l’Appennino emiliano e lambendo, a Monselice, i territori del ducato di Venezia, ancora in mano bizantina.

Un impegno solenne

La «promessa solenne» del 774 ridisegnò la geografia politica italiana e stabilí l’annessione dei territori ubicati a nord della linea Luni-Monselice al dominio franco come Regnum Langobardorum. Carlo ne cinse la corona e Pavia, già capitale longobarda, divenne sede della cancelleria e degli uffici dell’amministrazione franca. Tutti i territori a sud della suddetta linea, già appartenuti all’esarcato bizantino, rientrarono nella sovranità del papa: i ducati d’Emilia, di Perugia, di Tuscia, di Roma, la Pentapoli marittima e la Pentapoli urbana. Nei possedimenti

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QUANDO L’ITALIA DIVENNE LONGOBARDA 568-574 Provenienti dai Balcani e guidati dal re Alboino, i Longobardi entrano in Italia e prendono Vicenza, Treviso, Milano, Verona, Pavia. Sotto il suo successore, Clefi, eliminano la classe dirigente senatoria e si impadroniscono di ampie ricchezze fondiarie. 579-590 Per dieci anni senza re, i Longobardi vengono guidati dai duchi. Intanto, la conquista della Penisola fa progressi: si segnalano duchi longobardi a Spoleto e a Benevento. 590-626 Vengono prese Padova, Monselice, Cremona e Mantova; i Bizantini riconoscono lo status quo. Con Agilulfo e sua moglie Teodolinda, la monarchia longobarda assume una fisionomia cattolica. 626-653 Regno di Rotari e conquista della Liguria e del Veneto orientale (Oderzo). Editto di Rotari (643). 653-712 Abolizione dell’arianesimo (653) e fine dello scisma dei «Tre Capitoli» (698): con i re della cosiddetta «dinastia bavarese» la fisionomia cattolica della monarchia longobarda si consolida e la fusione con la popolazione romanica è pressoché completata. Con Grimoaldo, i ducati di Spoleto e Benevento sono ricondotti sotto l’autorità del re. 744-757 Con Ratchis e Astolfo, si apre il periodo «friulano» della monarchia longobarda: è conquistata Ravenna; Roma è sottoposta a tributo. Leggi di Astolfo (750) per la mobilitazione contro la minaccia franca. Vittoria dei Franchi guidati dal re Pipino (755 e 756); cessione delle ultime conquiste longobarde ai papi, alleati dei Franchi. 757-774 L’ultimo re longobardo indipendente, Desiderio, cerca di riprendere una politica aggressiva, approfittando delle difficoltà interne dei Franchi. Ma, nonostante la sua alleanza con i Bavari e con lo stesso Carlo Magno, figlio di Pipino, quando Carlo, scomparso il fratello Carlomanno, rimane unico re dei Franchi e non esita a invadere il Regno longobardo, Desiderio viene sconfitto. Carlo Magno si impadronisce del regno, assumendo egli stesso il titolo di rex Langobardorum. Il Regno longobardo continuerà la sua storia all’interno della dominazione franca che di lí a poco diventerà un impero.

del papa furono inclusi anche il ducato longobardo di Spoleto e quello di Benevento, un tempo parte del regno e definiti Langobardía minor (vedi box alle pp. 92-93). Nel 774, a Benevento, si era verificato un evento destinato a condizionare la storia del Mezzogiorno italiano: dopo la caduta della capitale longobarda, Arechi II – genero di re Desiderio e duca della città del Sannio – si autoproclamò princeps Langobardorum («principe dei Longobardi»), a indicare che, da quel

L’assetto geopolitico della penisola italiana nei duecento anni in cui venne quasi interamente controllata dai Longobardi, che riuscirono a conquistare anche la Pentapoli (la provincia comprendente le città di Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona), strappandola ai Bizantini.

giugno

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CONQUISTE E RICONQUISTE DEI LONGOBARDI Conquiste iniziali (568-590)

Aquileia

Milano

Territori contesi fra Longobardi e Bizantini

644

Brescia

Venezia

Pavia

Torino

Conquiste del VII secolo (con data) (Agilulfo 590-616; Rotari 636-652; Grimoaldo 662-671)

Conquiste al tempo di Liutprando (712-744)

502

603

Parma Genova

Bologna

643

Pisa

Conquiste al tempo di Astolfo (749-756)

Pe

Ravenna

nt

ap o

li

Firenze

Dominio bizantino nel 774

Rimini

Ducato di Spoleto

Confini attuali

Ancona Fermo 640 circa

Spoleto

605

650 circa

Roma

Ducato romano

662

Bari

Benevento Napoli Salerno

Ducato di Benevento

Potenza

645 circa

Cagliari

Cosenza

Palermo

Agrigento

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Lecce

Reggio Calabria

Siracusa

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Dossier

momento, crollata la compagine statale nel Nord, la continuità politica, dinastica, civile e culturale della sua gens si radicava nel Mezzogiorno della Penisola, nel ducato di Benevento, elevato a principato. Con la proclamazione a principe, Arechi II affermava la sua sovranità su una compagine territorialmente molto vasta, i cui confini si estendevano su buona parte del Mezzogiorno, dal Garigliano-Liri, a nord ovest, al fiume Pescara, a nord est, fino alla Puglia e alla Calabria settentrionale, rispettivamente a sud est e a sud ovest, mentre il Salento, il resto della Calabria e la Sicilia rimanevano sotto il controllo dell’impero d’Oriente. Il principato di Benevento lambiva, a nord ovest, i confini del ducato romano, con i centri di Aquino, Arce, Sora e Arpino, mentre a nord-est, incorporando il Chietino, toccava i confini del ducato di Spoleto. A sud-est, il principato sfiorava il Salento, fino alle città di Taranto e Brindisi, che gli erano sottomesse, a sud-ovest inglobava la Lucania, fino ad Acerenza, e si spin-

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geva in Calabria, occupando i centri di Cassano, Cosenza e Crotone (vedi box alle pp. 96-97).

Una biografia lacunosa

Ma chi era il novello principe? Arechi II reggeva le sorti del ducato di Benevento dal 758, cioè da quando era stato imposto come duca, a seguito di un intervento militare di re Desiderio, che ne aveva deposto il predecessore, Liutprando (751758), accusato di intese con i Bizantini. Quest’ultimo, dopo una breve sosta a Otranto, che faceva parte dell’impero d’Oriente, fuggí a Costantinopoli. In quell’anno, o poco tempo prima, Arechi aveva sposato Adelperga, figlia di Desiderio e della regina Ansa, che gli aveva dato quattro figli – Romualdo, Grimoaldo, Adalgisa e Teodenanda – e morí, molto probabilmente, agli inizi del IX secolo. Donna energica, Adelperga fu esperta consigliera del marito e animatrice di importanti iniziative culturali (vedi box alle pp. 98-99). Non si hanno invece notizie sulla famiglia d’origine del principe, il

In alto la cosiddetta Croce di Desiderio. VIIIIX sec. Brescia, Museo di Santa Giulia. Nel tondo figura un Cristo Pantocratore. A destra Carlo Magno incoronato rex Langobardorum a Milano da papa Adriano I, olio su tela, di Claude Jacquand. 1837. Versailles, Museo del Castello.

cui nome, di etimo germanico, doveva presumibilmente significare «signore dell’esercito» – harja reiks –, né sono noti i nomi dei suoi genitori, ma sembra avesse una sorella, Gariperga, designata badessa del cenobio beneventano di S. Sofia, fondato dallo stesso Arechi. Anche la data di nascita del principe è sconosciuta, ma dovrebbe collocarsi tra il 730 e il 740 e, al di là dell’indubbia giugno

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importanza del personaggio, sono poche le notizie certe sul suo conto. Anche le origini friulane – sulle quali molto si discute – sono solo presunte, poiché non risultano suffragate dalle fonti, sebbene il principe continui a essere considerato «friulano» nella memoria collettiva. Non si possono escluderne né l’origine beneventana – potrebbe essere stato un ufficiale regio impiegato

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nella cancelleria del suo predecessore Liutprando –, né un’ipotetica provenienza da Brescia, proprio come Desiderio, suo suocero.

Era davvero friulano?

Il mito dell’«origine friulana» di Arechi potrebbe essere frutto di un fraintendimento dovuto all’omonimia con un suo predecessore – il duca Arechi I (590-641), di certa ori-

gine friulana –, ma non è del tutto inverosimile, se si considerano i legami politici e dinastici tra i lignaggi del ducato del Friuli e di quello di Benevento, fin dall’inizio del regno longobardo. La proclamazione di Arechi II a principe non lasciò indifferente papa Adriano I, il quale, rivendicando la sovranità sul ducato beneventano, la considerò come un’insubor-

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Dossier

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Adriano I

Nel segno della politica Il pontificato di Adriano I (772-795) fu ben piú lungo dell’esistenza terrena di Arechi, suo acerrimo nemico. Adriano apparteneva a una delle piú importanti famiglie dell’aristocrazia romana e, morto il padre Teodoro, funzionario pontificio, venne affidato allo zio, Teodoto, ufficiale preposto alla cancelleria pontificia e capo della schola dei notai. Il giovane intraprese la carriera ecclesiastica all’epoca di Paolo I (757-767), diventando suddiacono, e, poi, sotto Stefano III (768-772), cardinale diacono. Nel 772, dopo la morte di Stefano III, venne eletto pontefice e volle subito pacificare una Roma lacerata dalla lotta tra le fazioni filolongobarde e filopapali: emanò pertanto un’amnistia generale e si liberò del cubicularius (letteralmente, «addetto alla camera da letto», era il cameriere segreto del pontefice, n.d.r.) Paolo Afiarta – esponente di spicco della fazione filolongobarda –, il quale, sotto il suo predecessore, aveva fatto assassinare i capi della fazione avversaria, Cristoforo e Sergio. I loro corpi furono riesumati e solennemente traslati in S. Pietro, mentre Afiarta fu inviato a Pavia, in missione diplomatica, ma lungo il percorso venne arrestato dall’arcivescovo di Ravenna, Leone (771-777), per ordine del papa, e giustiziato. Adriano fu molto «amico» di Carlo Magno, che, alla sua morte, ne fece comporre l’epitaffio, In alto ritratto di papa Adriano I. A sinistra miniatura raffigurante l’incontro tra Carlo Magno e papa Adriano I, da un’edizione delle Chroniques de France. XV sec. Torino, Biblioteca Nazionale.

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trascritto su lapide e posto all’ingresso della basilica vaticana, mentre la corrispondenza ufficiale tra i due, raccolta e ordinata dallo stesso Carlo nel Codex Carolinus (791), è uno strumento importantissimo per lo studio del suo pontificato. L’opera di Adriano è fondamentale nella storia della Penisola e dell’Europa occidentale. Grazie alla collaborazione con i Franchi, egli pose le premesse per la nascita di quella vasta compagine statale – Sancta Romana Respublica – destinata a condizionare la storia italiana per altri dieci secoli e per ciò che il suo successore, Leone III (795-816), realizzò cinque anni dopo la sua morte: la restaurazione dell’autorità imperiale nell’Occidente europeo.

dinazione nei confronti della Santa Sede. Il pontefice cominciò perciò a tessere alleanze per consolidare il potere della Chiesa nella Penisola e divenne il principale nemico di Arechi, dal quale intendeva ottenere un atto di completa sottomissione, se non l’esautorazione.

Una scelta strategica

Per isolare Benevento, Adriano attirò nell’orbita della Santa Sede il ducato longobardo di Spoleto, il cui ultimo duca, Teodicio, era morto nella guerra contro i Franchi. Una delegazione di nobili spoletini si recò a Roma, fece atto di sottomissione e chiese al papa di designare

alla carica di duca un uomo valido, che fu individuato nel nobile Ildeprando (773-789 circa). Fino alla morte e privo di discendenza – il che consentí ai Franchi di annettere il ducato di Spoleto, ponendovi a capo il franco Guinigi –, Ildeprando si mantenne fedele al papa, rompendo ogni rapporto con Arechi che, diplomaticamente isolato, poté contare solo sulle risorse del suo principato per contrastare le aspirazioni egemoniche del pontefice. Ottenuta una certa influenza su Spoleto – grazie alla nomina di un uomo di fiducia –, la Sede Apostolica conseguiva un risultato importante, perché il ducato garantiva il

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Dossier Il Mezzogiorno dei Longobardi

Minor, ma solo di nome Il ducato di Benevento sorse intorno al 570 (o, secondo alcuni studiosi, tra il 575 e il 576), per opera di Zottone (570-590 circa), condottiero longobardo di cui si conosce poco o nulla. L’occupazione del Mezzogiorno avvenne nello stesso periodo in cui il resto dei Longobardi, varcando le Alpi orientali, penetrarono nell’Italia settentrionale e, sotto la guida del re Alboino (568-572), occuparono i territori bizantini dell’esarcato. Il capoluogo del ducato fu fissato a Benevento, castrum collocato alla confluenza dei fiumi Sabato e Calore e nodo stradale nevralgico, poiché nella città confluivano e ne partivano quattro importanti arterie: la via Latina e la via Appia antica, la via Egnazia e la via Traiana, detta Appia nuova. La scelta del sito non fu casuale, dal momento che il castrum era situato in una

In alto e qui intorno orecchini e braccialetto in oro provenienti dalla necropoli longobarda di Benevento. VI-VII sec. Benevento, Museo del Sannio.

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valle protetta e circondata da fiumi e montagne e, dunque, ben difendibile. Tranne rari casi, il ducato di Benevento fu una realtà sostanzialmente autonoma da Pavia e politicamente dinamica, che andò espandendosi ai danni dei domini bizantini fino alla fine del VII secolo. In quel periodo, il duca Arechi I (590-641), di origine friulana e imposto dal re Agilulfo (590-616), già conquistatore di Capua (594), occupò Salerno (635640 circa), dando al ducato il suo sbocco sul mare. Alcuni anni dopo, Romualdo (671-687) conquistò tutto il Mezzogiorno fino alla valle del Crati e al Salento, impose la conversione definitiva della sua stirpe al cattolicesimo, favorendo l’apostolato di san Barbato († 683 circa) – vescovo di Benevento – e contribuí alla diffusione del culto di san Michele, ampliandone in chiave monumentale il santuario di Monte Sant’Angelo. Con Romualdo il ducato raggiunse la massima estensione, rimasta invariata fino all’epoca di Arechi. Nel 774, infine, la

proclamazione di Arechi a princeps segnò, ufficialmente, l’atto di nascita della Langobardía minor come entità politica indipendente, che però, un secolo piú tardi, dopo una lunga guerra civile (839-849), si divise in due principati distinti: Benevento e Salerno. Nel IX secolo, i due principati continuarono a scontrarsi, mentre la situazione politica generale si complicava a causa di una terza forza – l’Islam –, che faceva la sua comparsa nel Mezzogiorno. Ben presto, a Benevento e Salerno si aggiunse Capua che, capoluogo di contea appartenente al principato di Salerno, divenne totalmente indipendente (metà del IX secolo), costituendosi in un terzo principato (900). Solo nella seconda metà dell’XI secolo, al momento della conquista normanna – che semplificò la geopolitica del Mezzogiorno italiano –, i tre principati cessarono di essere indipendenti e furono inglobati nelle compagini statali normanne – principato di Capua e ducato di Puglia prima, Regno normanno poi – e nello Stato Pontificio.

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controllo dell’importantissima via Flaminia, che da Roma, tagliando l’Appennino, giungeva fino a Rimini, consentendo le comunicazioni con i restanti possedimenti pontifici, cioè la Pentapoli urbana, la Pentapoli marittima e i ducati di Perugia e di Emilia. Poiché, come già ricordato, Adriano intendeva ottenere la sottomissione del principe o la sua destituzione, si rivolse ai Franchi – protettori della Santa Sede – come aveva già fatto per annientare Desiderio. A partire dal 775, re Carlo fu letteralmente tempestato di richieste di aiuto dal papa, che invocava l’intervento militare contro Benevento, denunciando l’esistenza di complotti, veri o presunti, orditi da Arechi contro il papato e i Franchi.

Le pretese del papa

In alto fibula circolare aurea con cammeo antico, proveniente da Benevento. VI sec. Oxford, Ashmolean Museum.

Sulle due pagine tre cuspidi di lancia provenienti da Benevento. VI-VII sec. Benevento, Museo del Sannio.

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L’insistenza del pontefice era facilmente comprensibile, perché la distruzione del principato di Benevento avrebbe reso piú sicuri i confini del Patrimonio di S. Pietro, ponendo fine alle incursioni che, dal VI secolo, i Longobardi effettuavano nel Lazio meridionale, ai danni di Terracina, Gaeta, Fondi e Formia. Inoltre, Adriano non escludeva che una campagna dei Franchi contro Arechi potesse produrre anche un significativo incremento dei possedimenti pontifici, con nuove annessioni territoriali. Nel 776, Carlo intervenne in Italia per schiacciare una ribellione promossa dal duca del Friuli, Rotgaudo, in accordo con altri esponenti dell’aristocrazia longobarda, come il duca di Chiusi, Reginaldo, e il duca di Treviso, Stabilino. Non era improbabile che la ribellione fosse stata sobillata dall’impero d’Oriente, né si può escludere il coinvolgimento di Arechi, che il papa accusava di infedeltà, indicando Bene-

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Dossier

vento come uno dei luoghi dove, fisicamente, avvenivano le riunioni dei congiurati. I ribelli furono sconfitti in battaglia sulla Livenza, dove trovò la morte lo stesso Rotgaudo, dopodiché Carlo ritornò in Francia, senza marciare su Benevento, come chiedeva il papa. Da quel momento e fino al ritorno di Carlo a Roma, nel 781, i rapporti tra Adriano e Arechi II peggiorarono.

Una controversia lunga un secolo

Nel 778, Arechi aggredí il Lazio, compiendo razzie di schiavi, in accordo con Stefano II (755-799), duca bizantino di Napoli. In questo caso, le accuse rivoltegli dal pontefice non erano calunnie, poiché il principe aveva effettivamente occupato Gaeta e Terracina, anche se poi ne aveva ceduto la disponibilità ai Bizantini, ritirando le milizie. A complicare le cose intervenne la «controversia iconoclasta», riguardante la legittimità della venerazione delle immagini sacre, che deteriorò le relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e il patriarcato di Costantinopoli. La controversia teologica durò quasi un secolo – fino al VII concilio ecumenico costantinopolitano, che dichiarò ortodosso il culto delle immagini (787) – e avvicinò i Bizantini

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In alto e nella pagina accanto i plutei detti «di Teodote», dal presbiterio di S. Maria Teodote. VIII sec. Pavia, Musei Civici. Riccamente decorati con motivi naturalistici, il primo raffigura due pavoni che bevono da un calice sormontato da una croce, il secondo, l’albero della vita tra draghi alati.

Duchi di Benevento ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ●

571-590? 591–641 641–642 642–647 647–662 662/663–687 687–687 689–706 706–731 731–732 732 732–739 739–742 742–751 751–758 758–774

Zottone Arechi I Aione I Radoaldo Grimoaldo I Romualdo I Grimoaldo II Gisulfo I Romualdo II Gisulfo II Audelais Gregorio Godescalco Gisulfo II Liutprando Arechi II A sinistra recto di moneta con effigie del principe longobardo Arechi. Oro. VIII sec.

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Principi di Benevento

Anche Principi di Capua dal 900 al 981 ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ●

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774–787 Arechi II 788–806 Grimoaldo III 806–817 Grimoaldo IV 817–832 Sicone 832–839 Sicardo 839–851 Radelchi I 851–853 Radelgario 853–878 Adelchi 878–881 Gaiderisio 881–884 Radelchi II 884–891 Aione II 891 Orso 891-895 Leone VI di Bisanzio (imperatore bizantino) 895–897 Guido (anche duca di Spoleto) 897 Pietro (vescovo di Benevento e reggente) 897-899 Radelchi II 900-910 Atenolfo I 910-943 Landolfo I in coreggenza con il fratello Atenolfo II, risiedé a Benevento 910-940 Atenolfo II coreggente, risiedé a Capua 943-961 Landolfo II coreggente con il fratello Atenolfo III, che infine spodestò 943-961 Pandolfo I Testadiferro associato al trono 959-968 968-981 968-981 981-1014 987-1033 1011-1053 1038-1077

dal padre, Landolfo I

P andolfo I e Landolfo III coreggenti P andolfo I Testadiferro Landolfo IV associato al trono da Pandolfo I Pandolfo II Landolfo V associato al trono dal padre, Pandolfo II Pandolfo III associato al trono dal padre, Landolfo V Landolfo VI coreggente fino al 1053 con il padre, Pandolfo III

La lista qui riportata è stata semplificata, soprattutto per quanto riguarda gli ultimi anni di vita del principato, cosí da renderne piú chiara la consultazione. Sono stati omessi personaggi – come, per esempio, alcuni usurpatori – la cui salita al potere fu solo una breve parentesi.

MEDIOEVO

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ad Arechi, in funzione antipapale e anticarolingia. Per tutelare i suoi interessi e quelli del papa, nel 781 Carlo Magno si recò a Roma e vi soggiornò per l’intero periodo pasquale. Dopo aver fatto incoronare in S. Pietro i due figli – Ludovico († 840), re d’Aquitania, e Pipino († 810), re d’Italia – formulò una nuova promessa a favore del papa, che determinò un sostanziale mutamento dell’assetto politico e territoriale della Penisola rispetto a quello del 774. Adriano dovette piegarsi.

Patti e spartizioni

Mentre i territori posti a nord della linea Luni-Monselice continuarono a far parte dei possedimenti franchi, le modifiche riguardarono i territori posti a sud della predetta linea: il papa conservava il ducato romano, l’Emilia, la Romagna e parte del territorio marchigiano e umbro non compreso nel ducato spoletino. Ildeprando, duca di Spoleto, cedette (segue a p. 98)

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Dossier il principato

Linguaggio e simbologia del potere Dopo la caduta di Pavia, Arechi assunse il titolo ufficiale di Dominus Arichis piissimus atque excellentissimus princeps gentis Langobardorum e si fece ungere e incoronare dai vescovi nel corso di una solenne cerimonia svoltasi nel santuario di S. Sofia, che aveva fatto costruire a Benevento. Alla cerimonia presenziarono i vescovi Davide di Benevento († 796) e Radoperto di Salerno († 788), suoi consiglieri politici. Si deve considerare che Arechi – pur potendo farlo – si incoronò principe e non re dei Longobardi, non rivendicando mai alcuna regalità. Probabilmente la predilezione per il titolo di principe fu determinata da una duplice ragione. La prima, prettamente politica, consisteva nel non voler urtare la suscettibilità di Carlo Magno, che aveva assunto il titolo di «re dei Longobardi», la seconda era di carattere strettamente personale. Arechi, genero di

Desiderio, non intendeva assumere un titolo che avrebbe potuto porlo in conflitto con le legittime aspirazioni dinastiche di Adelchi († 788 circa), figlio di Desiderio, associato al trono già dal 759, e che, caduta Pavia, aveva trovato rifugio a Costantinopoli, presso l’imperatore d’Oriente. Inoltre, invece di appellarsi «primo» – essendo primo principe di Benevento –, Arechi conservò l’ordinale «secondo», per ribadire la continuità dinastica con i duchi suoi predecessori, in particolare con Arechi I. Nel 774, il cambiamento istituzionale ebbe i suoi riflessi anche nella monetazione del principato, che iniziò a ispirarsi a un linguaggio e a una simbologia imperiali – tardo-romani e bizantini –, come è possibile notare dai tremissi e solidi raffiguranti, sul retto, l’effigie principesca, e, sul verso, la leggenda princeps e l’iniziale del nome, una «A», accompagnata da una croce. A sinistra miniatura raffigurante Arechi II tra due dignitari, dal Codex Legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni, Archivio dell’Abbazia della SS. Trinità. Nella pagina accanto, in basso cartina che illustra l’estensione del ducato di Benevento nell’VIII sec.

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L’atto liturgico dell’unzione vescovile, invece, richiamava concezioni di tipo franco, ispirate alle Sacre Scritture. L’unzione rendeva il principe il prescelto da Dio – novello Davide o Salomone – e i suoi Longobardi un nuovo Israele, popolo eletto votato alla conquista e difesa della nuova terra promessa, il Mezzogiorno d’Italia. La sacra unzione non rendeva il principe un ecclesiastico, alla stregua di colui a cui fosse stato impartito il sacramento dell’ordine. Il principe restava laico, ma, grazie all’unzione, era prescelto – fra tutti gli uomini – per l’adempimento di una missione divina: guidare il gregge dei fedeli, con mano ferma e sicura, nel rispetto della giustizia, della Chiesa e della vera fede. Nel caso di Arechi II si può dunque parlare dell’elaborazione di una vera e propria «teologia del potere», sull’esempio dell’imperiale «cristomimesi» bizantina, richiamata dalla scelta di dedicare il «santuario longobardo» di Benevento – edificato dal principe – a DUCATO DI SPOLETO

Ortona

MARE

DUCATO ROMANO

ADRIATICO

Larino

Siponto Lucera

Bojano

Venafro

Canne

Alife

Bari

BENEVENTO

Capua

Consa Potenza

Salerno

MARE Velia

TIRRENO

IL DUCATO DI BENEVENTO

Buxentum

DUCATO DI CALABRIA

Santa Sofia, alla «Santa Sapienza». Al di là del riferimento alla chiesa giustinianea di Costantinopoli (VI secolo), la Sancta Sophia si identificava, secondo le Sacre Scritture, con la seconda persona della Trinità, il Verbo – Logos – attraverso il quale il Padre celeste aveva plasmato l’universo e continuava a reggerlo come divina provvidenza. Nella «teologia politica bizantina» – richiamata dal principe –

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In alto miniatura raffigurante Arechi II mentre offre la chiesa di S. Sofia, costruita a Benevento a somiglianza della basilica di Costantinopoli, dal Chronicon Sanctae Sophiae. Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana.

l’imperatore era il massimo rappresentante del Logos in terra, ne imitava le funzioni e, come il Logos aveva plasmato il mondo e ne sorreggeva l’ordine, cosí il sovrano reggeva lo Stato, dando a esso ordine e disciplina, con la legge e il comando. Quindi, anche a livello simbolico e ideologico, Arechi completò la trasformazione – avviata all’epoca del regno – da una concezione della sovranità guerriera e tribale, di stampo germanico, a una di stampo cristiano e «romano». Ciò è MARE dimostrato anche dalla sua intensa attività IONIO legislativa tradottasi nella promulgazione di 17 capitoli integrativi dell’editto di Rotari (VII secolo) e dalle splendide miniature del Chronicon Sanctae Sophiae e dei codici delle Leges Langobardorum (Cavensis 4 e Matritensis 413). La raffigurazione di Arechi con le insegne del potere principesco – diadema, sceptrum, sella plicatilis – conferma, anche a livello iconografico, il raggiungimento della piena maturazione delle forme rappresentative del potere pubblico, esito del lungo processo di contaminazione di elementi tardo-romani e costumi barbarici.

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Dossier alla Santa Sede la Sabina, con il gastaldato di Rieti e l’abbazia di Farfa, e giurò fedeltà a Carlo, prendendo le distanze dal papa. Il ducato di Tuscia fu assegnato ai Franchi, eccetto alcune località – Populonia, Roselle, Bagnoregio, Tuscania, Viterbo e Sovana – affidate al papa. Riguardo al principato beneventano, Carlo costrinse Adriano a riconoscerne l’indipendenza, rinunciando a ogni annessione, fatta eccezione per le «giustizie di San Pietro», cioè alcune città – Capua e Teano, in Campania, Sora, Arce e Aquino, nel Lazio – attribuite al papato. Non sappiamo se tali concessioni avessero effettivamente per oggetto le suddette città, con relative pertinenze, o solo i beni ecclesiastici, compresi nei loro distretti. Trascorsa la Pasqua, Carlo tornò in Francia, senza predisporre misure adeguate affinché le nuove disposizioni fossero osservate. Il principato di Benevento era momentaneamente salvo, ma Arechi si astenne dal cedere al papa quanto dovuto e ciò provocò nuovi conflitti.

Il tradimento del Bavaro

Nonostante le continue richieste del papa di un intervento nel Mezzogiorno, dovettero trascorrere altri cinque anni perché re Carlo muovesse contro Benevento per esigere un formale atto di sottomissione dal principe. Tra il 781 e il 787, fu impegnato a nord, dove si occupò di alcune importanti questioni: la sottomissione della Sassonia (785), la repressione di una rivolta in Turingia (786) e il tradimento del duca di Baviera, Tassilone III (748-788). Dopo aver domato i Sassoni e aver schiacciato i Turingi, il re franco si preparò a fronteggiare il duca bavaro. Tassilone era accusato di tradimento per le intese con gli Avari e con Arechi, suo cognato, avendo sposato Liutperga, sorella di Adelperga, moglie del principe beneventano. Dopo la scomunica del papa, il Bavaro venne deposto e inviato in

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Paolo Diacono e gli altri

La cultura alla corte di Arechi

La Benevento arechiana non fu solo un’importante capitale politica, ma anche culturale. La città fu sede di un importante «cenacolo», riunito intorno agli esponenti piú in vista della corte che, oltre al principe e alla consorte Adelperga, comprendeva lo storico Paolo Diacono, il suo allievo Ilderico – autore di un’Ars grammatica e dell’epitaffio in onore di Paolo – e Davide, vescovo di Benevento, oltre che letterato, poeta e consigliere del principe, autore dell’epitaffio in onore di Romualdo, primogenito di Arechi. Tra questa élite, spicca senz’altro Paolo Diacono, autore dell’Historia Langobardorum, in sei libri, fonte ancora oggi indispensabile per conoscere la storia dei Longobardi dalle origini fino all’VIII secolo. esilio, mentre la Baviera fu annessa ai domini franchi. Intanto Adriano continuava a lamentare l’aggressività di Arechi, le sue intese con emissari bizantini, le spoliazioni perpetrate ai danni di monasteri, diocesi e del patrimonio ecclesiastico, e il mancato rispetto delle concessioni del 781. Nelle lettere di Adriano al re franco, Arechi appariva come il grande avversario della missione provvidenziale di cui il pontefice si era fatto carico, cioé la riunificazione, sotto un’unica potestà, del gregge italico oppresso da due potenze ugualmente demoniache: l’eretico impero iconoclasta e il nefando e barbaro principe. Il conflitto tra Adriano e Arechi assumeva

le tinte di una guerra «apocalittica», che si apprestava a essere combattuta non solo sul terreno politicomilitare, ma anche su quello della «propaganda» ideologica.

Denigrazione sistematica

La lotta assumeva i caratteri di una contrapposizione di valori, istanze e mondi opposti, in cui i due avversari apparivano come strumenti di un «piano divino»: il trionfo della «civiltà», della christianitas e, quindi, del papato, sulla «barbarie» della gens Langobardorum. La lettura delle lettere rivela l’uso sistematico di un lessico aggressivo verso i Longobardi, sempre definiti con epiteti quali pessimi, nefandissimi, horribiles. giugno

MEDIOEVO


L’opera è incentrata prevalentemente sulle vicende del regno pavese, cioè dell’Italia longobarda centro-settentrionale, ma non mancano importanti riferimenti agli eventi politici riguardanti il ducato beneventano, da Zottone fino al duca Gisulfo II (742-751). Nativo di Cividale del Friuli (720 circa-799), figlio di Warnefrido, allievo a Pavia del grammatico Flaviano, Paolo insegnò retorica e grammatica a corte, e fu precettore di Adelperga, figlia di Desiderio. Quando Adelperga sposò Arechi, Paolo la seguí a Benevento (768 circa), dove, molto probabilmente, rimase fino al 781. In quell’anno, si spostò in Francia, alla corte di Carlo Magno, per perorare la causa del fratello, Arechi, fatto prigioniero dai Franchi nel 776, dopo la rivolta di Rotgaudo, a cui aveva partecipato. Tornato a Benevento intorno al 787, Paolo si fece monaco e, poco dopo, si ritirò nel cenobio di Montecassino, dove morí intorno al 799. Oltre alla Storia dei Longobardi, Paolo scrisse molte opere in prosa e versi: carmi, agiografie, epistole, una biografia di papa Gregorio Magno, una storia dell’episcopato di Metz – Gesta episcoporum Mettensium –, un omiliario a uso liturgico e, su invito di Adelperga, una Historia romana in 16 libri, che andava da Augusto a Giustiniano. A Paolo è attribuibile l’epitaffio in memoria di Arechi, poi trascritto su una lapide funeraria andata perduta che era posta nel duomo di Salerno, in cui il principe fu sepolto. Dopo la morte di Arechi, Benevento continuò a rivestire un ruolo di avanguardia culturale in tutta la Langobardía minor: si pensi alla «littera beneventana», la caratteristica «grafia» di uso monastico, e non solo, utile alla confezione di documenti ufficiali, atti legali e preziosi manoscritti, tra cui i famosi Exultet liturgici, nella cui produzione le officine monastiche beneventane furono all’avanguardia in tutto il Mezzogiorno longobardo. Risulta facile comprendere come la propaganda pontificia riuscisse a mascherare, dietro l’alibi della difesa della cristianità minacciata, i reali interessi della politica espansionistica del papato verso il Mezzogiorno. Una simile operazione appare oggi ben leggibile, se si considera che, all’epoca, i Longobardi erano cristianizzati, ossequienti all’obbedienza romana e ampiamente acculturati, dopo circa due secoli di permanenza in Italia, ai valori della romanità. Pertanto, dipingere i Beneventani e il loro principe alla stregua di un’orda germanica primitiva – come i Longobardi all’epoca dell’invasione della Penisola – non corrispondeva alla realtà dei tempi,

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Nella pagina accanto l’incipit del IV libro dell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono. VIII sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale. A destra miniatura che ritrae il monaco e scrittore longobardo Paolo Diacono, da un manoscritto latino. XI sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

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Dossier benevento e salerno

Le «capitali» del principe L’intensa attività urbanistica di Arechi rientrava nella concezione della sovranità fatta propria dal principe e si tradusse in interventi edilizi imponenti, soprattutto nelle città piú importanti del principato, come la capitale, Benevento, e Salerno, dove il principe trovò rifugio nel 787 e che non abbandonò fino alla morte. Già colonia latina (268 a.C.) e poi castrum bizantino, Benevento fu interessata da un programma di rinnovamento che ampliò e rinnovò la cinta muraria, aprendovi nuove porte: Porta Aurea a nord; Porta Rufina a sud; Porta S. Lorenzo, Porta del Sacramento, Porta Gloriosa e Porta Arsa a ovest; Porta Somma a est. Quattro di esse erano ubicate agli estremi degli assi viari principali dell’epoca romana. Le mura furono realizzate con materiali di spoglio e di reimpiego e vi furono inglobati l’Arco di Traiano, divenuto Porta Aurea, e l’arco situato nei pressi del Foro, detto del Sacramento (e poi Porta del Sacramento). Il palazzo principesco era probabilmente ubicato presso l’attuale Rocca dei Rettori e doveva identificarsi con il praetorium romano, in una voluta continuità politica e ideologica. Arechi promosse anche l’edificazione di S. Sofia (758-768), vero e proprio «santuario» della gens Langobardorum del Mezzogiorno (per la sua descrizione, si veda, in questo numero, l’articolo alle pp. 70-83), teatro delle solenni incoronazioni dei principi longobardi, nucleo identificativo dell’identità longobarda nel Sud, sullo stesso piano, per intendersi, del santuario di S. Michele Arcangelo sul Gargano. Nata come colonia romana (197 a.C.) e affermatasi come importante scalo portuale – la città deve il suo nome all’essere collocata tra il mare, salum, e il fiume Irno –, Salerno fu rinnovata totalmente da Arechi. L’abitato si sviluppò in un’area territorialmente difficile, stretta tra le pendici del colle Bonadies e il mare, il corso dei fiumi Fusandola, a ovest, e Rafastia, a est, su un territorio morfologicamente in discesa, ricco di falde acquifere, facilmente franabile. La città era ubicata lungo il percorso della via Popilia, che da Capua, passando per Napoli e Salerno, si spingeva fino a Reggio Calabria. All’epoca di Arechi, Salerno conservava solo in parte l’assetto topografico romano e si presentava piuttosto come un reticolo di vie e di viuzze – i cosiddetti «anditi» –, con pochissime piazze e molte case, spesso inframezzate da cortili e da orti, edificate in legno e pietra, con, al massimo, due piani tra loro comunicanti attraverso rampe di accesso, in genere esterne alle abitazioni. Le strade principali erano dette «platee» e prendevano il nome dalla porta a cui conducevano,

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dalle botteghe che presso di esse erano ubicate o dalle specifiche attività produttive che, all’interno delle stesse botteghe, erano svolte. Le dimore signorili erano edificate prevalentemente in pietra o laterizi, di solito raggruppate intorno a uno spazio aperto comune, la «corte». Le quattro platee principali, Nocerina, Respizzi, Rotese ed Elina, partendo dalle rispettive porte, convergevano tutte verso l’antico Foro bizantino, a nord dell’attuale duomo, creando una sorta di slargo – la Platea Maior – che ospitava il mercato. Le platee erano le principali strade cittadine che attraversavano il centro urbano, secondo l’asse ovest-est, mentre non vi erano assi viari altrettanto importanti in senso inverso, cioè da nord verso sud, se si escludono i Lavinai. Questi ultimi, tra l’altro, non erano unicamente strade, ma veri e propri «percorsi fluviali», che fungevano da scolo per le acque putride, le giugno

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acque piovane e per una miriade di piccoli torrenti e ruscelli che, dal colle Bonadies, si spingevano fin dentro le mura urbane, riversandosi poi nel mare. I Lavinai – piú importanti furono Lama, Vallone, Subtinicio e Labinario – si avviavano a nord della città, presso la fascia settentrionale delle mura, dove apposite aperture, i «defusori», consentivano l’ingresso delle acque che, percorrendo la singola strada, sfociavano piú a sud, a mare, attraverso ulteriori varchi nelle mura. Arechi fece anche edificare il palazzo principesco che si sviluppava in senso nord-sud, degradando verso il mare, dove erano il porto e gli arsenali. Al palazzo era annessa la cappella palatina, dedicata ai santi Pietro e Paolo, edificata su una chiesa paleocristiana e

ancora oggi aperta al pubblico. La chiesa, che comunicava direttamente con la reggia ed era privata, sorgeva a nord del complesso palaziale, aveva l’aspetto di un’aula absidata e si sviluppava in senso longitudinale ovest-est. La pavimentazione era realizzata in opus sectile, cioè in tasselli marmorei policromi che formavano schemi decorativi fantasiosi, raggiere e scacchiere, circondati da petali e rotae, alternati a bianchi tasselli esagonali calcarei. Non è Invece attribuibile ad Arechi, nonostante ne porti il nome, il castello ubicato sulla sommità del colle Bonadies che domina la città. La fortezza venne edificata – su una preesistente torre bizantina – nell’XI secolo, quando fa la sua comparsa nella monetazione di Gisulfo II (1052-1077). Sul rovescio delle monete del principe, Salerno è raffigurata con una planimetria triangolare, delimitata dalle mura prospicienti il mare e, con vertice, il castello in cima alla collina.

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In alto Salerno. Uno scorcio del complesso architettonico di S. Pietro a Corte, che mantiene le vestigia della cappella palatina voluta da Arechi II. A sinistra Salerno. La Port’Arsa. X sec. Nella pagina accanto vedute di Benevento: in alto, la Rocca dei Rettori; in basso, uno scorcio della torre di avvistamento longobarda detta de Simone.

ma la falsava, piegandola a esigenze chiaramente politiche. Tra il 783 e il 786, ad aggravare la situazione, intervenne la guerra combattuta tra Benevento e Napoli, causata dell’aggressione di Arechi ad Amalfi, che apparteneva al ducato napoletano. Lo scontro accrebbe le preoccupazioni di Adriano, perché minacciava i confini del Lazio, e cosí, ancora una volta, il papa non poté fare altro che rivolgersi a Carlo, sollecitandolo a intervenire. Alla fine, il re si piegò e discese in Italia, mentre Arechi concludeva una frettolosa pace con Napoli (786).

Una campagna fulminea

Nella primavera del 787, il re fu a Roma, dove trascorse la Pasqua con Adriano e, in aprile, marciò alla volta di Benevento. A dispetto di ogni previsione, la campagna fu rapida e si risolse senza grandi resistenze. Le truppe franche – guidate dal re e da Pipino, suo figlio – raggiunta Montecassino, marciarono alla volta del Sannio e occuparono Benevento, deviando poi su Capua, anch’essa facilmente occupata. Fuggito a Salerno di fronte all’avanzata franca, Arechi inviò a Capua una delegazione – di cui facevano parte Grimoaldo, suo figlio, e due importanti ecclesiastici, Radoperto, vescovo di

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Dossier Salerno, e Davide, vescovo di Benevento – che offrí totale sottomissione. Il trattato di pace vero e proprio fu ratificato poco dopo, a Salerno, alla presenza del principe, dagli ambasciatori inviati da Carlo. In base al trattato, Arechi conservava la corona, facendo atto di sottomissione a Carlo e impegnandosi a consegnare una parte del tesoro regio, quale indennità di guerra, e a incidere il monogramma carolingio sulle monete. Inoltre, accettò di consegnare come ostaggi il figlio piú giovane, Grimoaldo, e la figlia Adalgisa, assieme ad altri dodici nobili giovani beneventani, in cambio della restituzione del primogenito Romualdo, che Carlo aveva catturato durante la guerra. Il re franco pretese che Arechi si impegnasse, verso il papa, a non aggredire il Lazio, a rispettare le tradizionali linee di confine e a non usurpare diritti, prerogative e beni del patrimonio ecclesiastico nei suoi domini.

Vincitori e vinti

L’esito della spedizione e delle trattative deluse Adriano: dopo aver tanto sollecitato l’intervento dei Franchi nel Mezzogiorno, non aveva ottenuto l’eliminazione del pericoloso avversario, né le agognate concessioni territoriali ai danni del principato di Benevento. Arechi, invece, poteva considerarsi il vincitore del conflitto: i Franchi lo avevano infatti confermato nel titolo di principe, salvaguardando l’indipendenza dell’ultima roccaforte dell’eredità politica longobarda in Italia, e aveva conservato l’integrità territoriale del suo Stato, anche se, sottomettendosi a Carlo, si era piegato ad accettare un regime di «protettorato» che limitò la sovranità di Benevento, soprattutto in politica estera. Stipulata la pace, Arechi si mantenne formalmente fedele all’impegno con i Franchi, ma ciò non escluse ambiguità nella sua politica estera, che avrebbe potuto avere seri sviluppi se non fosse stata in-

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Due immagini degli Exultet di Bari. A sinistra, la resurrezione di Cristo; in alto, il momento liturgico dell’accensione del cero e del canto dell’Exultet. Miniatura. XI sec. Bari, Museo Diocesano.

terrotta dalla sua morte. Il principe, infatti, scelse una strategia filoimperiale, inviando un’ambasceria a Costantinopoli per chiedere di stipulare un patto di amicizia con l’impero. L’accordo venne siglato e Arechi, in cambio, ottenne dall’imperatrice Irene (780-802) – reggente per il figlio Costantino VI (780797) – la concessione del titolo di «patrizio imperiale».

La spada e i barbieri

Poco dopo, l’imperatrice inviò una delegazione a Benevento, incaricata di comunicare formalmente, secondo l’ordinaria prassi diplomatica, l’accettazione delle proposte di Arechi e il conferimento del patriziato, titolo che cooptava il principe nei ranghi piú alti dell’aristocrazia bizantina. Guidata dallo stratega Teodoro e dagli spatari Isauro e Leone, la delegazione recava con sé una spada, dono dell’imperatrice e segno visibile del nuovo rango assun-

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to da Arechi, nonché alcuni barbieri, incaricati di acconciare il principe secondo i canoni della moda imperiale, al fine di costituirlo patrizio, non solo nella sostanza, ma anche nella forma. Quando la delegazione giunse a Salerno, alla fine del 787, trovò che il Longobardo era già morto, il 26 agosto del 787. La dinastia fondata da Arechi II ebbe vita breve. Morto il primogenito, Romualdo (maggio 787), la successione toccò al secondogenito, Grimoaldo III (787-816), il quale, alleatosi con l’impero d’Oriente, causò varie guerre con i Franchi, che si protrassero fino all’812, quando una pace generale confermò lo status quo. Maggior fortuna ebbe la costruzione politica arechiana – il principato –, che, seppur diviso in tre compagini distinte, sopravvisse fino alla conquista normanna (XI secolo). Adriano I morí dieci anni piú tardi, ma non cessò mai di sollecitare, invano, ulteriori spedizioni dei Franchi nel Mezzogiorno, al fine di ottenere dal successore di Arechi l’adempimento integrale della promessa carolingia del 781, cosa che non riuscí mai realizzare.

Da leggere Claudio Azzara, I Longobardi, Il Mulino, Bologna 2015 Alessandro Barbero, Carlo Magno. Un padre dell’Europa, Laterza, Roma-Bari, 2000 Nicola Cilento, Italia meridionale longobarda, Riccardo Ricciardi Editore, Milano 1971 Stefano Gasparri, I Duchi longobardi, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma 1978 Tommaso Indelli, Arechi II. Un principe longobardo tra due città, Gaia Editrice, Salerno 2011 Michelangelo Schipa, Il Mezzogiorno d’Italia anteriormente alla monarchia: Ducato di Napoli e Principato di Salerno, Ripostes, Salerno 2002

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CALEIDO SCOPIO

Cracovia, Italia CARTOLINE • Nel Castello reale del Wavel si concentra una straordinaria raccolta

di dipinti, firmati dai piú bei nomi dell’arte tardo-medievale e rinascimentale italiana. Opere riunite con passione dalla nobile famiglia Lanckoronski

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embri dell’aristocrazia polacca, i Lanckoronski nutrirono una grande passione per le arti figurative, che li portò ad assemblare un patrimonio inestimabile. Tra i gioielli della loro collezione figurano numerosi capolavori della pittura italiana medievale e rinascimentale, miracolosamente sopravvissuti a guerre e spoliazioni e che, alla fine del Novecento, hanno trovato la loro definitiva collocazione nel Castello del Wawel di Cracovia. Oltre ai dipinti, la splendida raccolta annovera anche reperti antichi di arte egizia, etrusca, greca e romana, oggi esposti, invece, nel Palazzo reale di Varsavia.

Un palazzo stracolmo di reperti e opere d’arte Intorno alla fine del XIX secolo, Karol Lanckoronski (1848-1933) – storico dell’arte, mecenate, nonché dignitario di fiducia dell’impero austriaco – volle ordinare in maniera sistematica le opere, collocandole nei locali di un sontuoso palazzo di Vienna, che egli stesso aveva progettato, nel Landstraße, il terzo distretto della capitale. Costruito come residenza privata, l’edificio, secondo alcune testimonianze, «era cosí pieno di reperti archeologici, quadri, sculture, arazzi e altre opere d’arte, che la famiglia riusciva a starci a malapena». A sinistra Sant’Agostino, tempera e doratura su tavola di pioppo di Bartolo di Fredi Cini, la cui attività è documentata dal 1353. Qui accanto San Francesco, tempera e doratura su tavola di pioppo di Taddeo di Bartolo. 1395-1400.

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DOVE E QUANDO

Castello reale del Wavel Cracovia Orario gli orari variano stagionalmente Info http://wawel.krakow.pl (anche in inglese) A destra San Pietro, tempera e doratura su tavola di pioppo del Maestro del San Paolo Perkins. 1340-1360. In basso Madonna col Bambino, tempera e doratura su tavola di pioppo di Vittore Crivelli. 1480 circa. Accanto agli oggetti di arte antica, spiccavano due quadri di Rembrandt – la Ragazza con il cappello e Saggio alla scrivania – e vari dipinti italiani tardo-medievali e rinascimentali, tra cui Le avventure di Odisseo di Apollonio di Giovanni, Orfeo di Jacopo del Sellaio, Giove pittore di farfalle, Mercurio e la virtú di Dosso Dossi, Sant’Andrea di Masaccio, San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, Angelo di Simone Martini, Madonna del Maestro di Pratovecchio e Ritratto di un giovane uomo, attribuito ad Annibale Carracci. Il nobile polacco era affascinato dall’erudizione degli artisti italiani del XV e XVI secolo, che si esprimeva nella rappresentazione di scene antiche, bibliche e mitologiche. La sua morte coincise con l’ascesa al potere del nazionalsocialismo in Germania. Poi, nel 1938, quando, all’indomani dell’Anschluss, l’Austria divenne territorio tedesco, la preziosa raccolta Lanckoronski finí nelle mani degli occupanti e mise addirittura l’uno contro l’altro Adolf Hitler e il Reichsmarschall Hermann Göring, entrambi grandi appassionati d’arte, che rivendicavano la proprietà dei pezzi piú pregiati.

alcuni pezzi ai piú importanti musei austriaci, pur di ottenere il nulla osta al trasferimento. Un accordo, alla fine, venne trovato e costò il sacrificio del Giove pittore di farfalle, Mercurio e la virtú (1523) di Dosso Dossi, donato al Kunsthistorisches Museum di Vienna, un capolavoro tuttora di controversa interpretazione, denso di significati allegorici ed esoterici. La raccolta approdò in Polonia nell’ottobre del 1994 e, nello stesso anno, l’erede unica della collezione, Karolina Lanckoronska, decise di donare le opere in suo possesso allo Stato e dispose di destinarle a Cracovia e a Varsavia. Nella capitale, nel Palazzo reale, furono collocati i reperti antichi, insieme ai due quadri di Rembrandt, mentre i dipinti italiani – pezzo forte della collezione – trovarono posto nello splendido Castello reale del Wawel di Cracovia e sono ora visibili in un’esposizione permanente. Che oggi rappresenta la piú grande raccolta polacca di pittura italiana antica. Nel 1999 tornò a farne parte anche il Giove pittore di farfalle, grazie a un accordo con il Kunsthistorisches

Una miniera come rifugio In seguito, per scongiurare il rischio di danni durante i bombardamenti alleati, molte opere vennero trasferite nelle gallerie della miniera di Altaussee, nelle vicinanze di Salisburgo. Al termine del conflitto, la raccolta, presa in consegna dalle autorità austriache, fu subito rivendicata dagli eredi di Karol Lanckoronski, che ingaggiarono una lunga battaglia legale per riscattarla. Negli anni successivi la famiglia, determinata a portare la collezione in Polonia, si dichiarò disposta a cedere

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Museum di Vienna. Il Sant’Andrea di Masaccio e il San Giorgio di Paolo Uccello vennero invece perdute dai Lanckoronski e sono custodite rispettivamente nel J. Paul Getty Museum di Los Angeles e nella National Gallery di Londra. Francesco Colotta

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UN ANTROPOLOGO NEL

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All’ombra del noce F

este e rievocazioni storiche non sono eventi in cui la «tradizione» viene conservata intatta dai tempi in cui «la Berta filava». Al contrario, sono i momenti piú adatti per inventare, rinnovare, censurare «tradizioni» giudicate obsolete o non piú utili agli scopi che una comunità si prefigge o alla visione che ha di se stessa. L’Italia e l’Europa sono piene di cerimonie «antichissime» nelle quali le musiche, i testi di un canto o di una processione, le gesta di una disfida medievale risalgono al maestro di scuola locale, al farmacista o al notaio del periodo tra le due guerre mondiali o, ancor piú recentemente, ai funzionari delle pro loco. Simili episodi non sono necessariamente indizi di una «falsificazione», perché, in realtà, non esiste un modello «originale»: anche al tempo dei Romani o dei Longobardi qualcuno «inventò», rimosse, cambiò quella che a suo tempo era considerata una sacra tradizione.

Un fenomeno di portata europea Da qualche decennio (in Italia almeno dalla pubblicazione, nel 2003, del volume L’Unesco e il campanile di Berardino Palumbo) l’antropologia si interessa sempre piú dei rapporti tra le rappresentazioni in costume (anche medievale) e le forme del potere politico, le strategie di costruzione dell’identità e della memoria. Non a caso, il fenomeno del neomedievismo Bozzetto raffigurante il noce di Benevento, realizzato per il balletto omonimo. XIX sec. Milano, Museo Teatrale alla Scala. Ai lati dell’albero stanno le streghe Martinazza e Canidia.

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Figuranti in costume nel corso dell’edizione 2015 «Benevento Longobarda», la rievocazione storica che torna quest’anno dal 23 al 26 giugno (vedi a p. 82).

investe l’intera Europa: è un processo di riutilizzazione e ritualizzazione della storia che diviene utile a fini turistici, economici e, ovviamente, spettacolari, ma non solo. Ciò che rende ancor piú interessanti per un antropologo feste e rievocazioni medievali è il fatto che in questi allegri spazi festivi si mettano in gioco e si assista alla costruzione «dal vivo» di identità locali in cui le comunità decidono e scelgono come considerarsi e come essere viste dal «di fuori».

Fortuna moderna delle streghe In questi giorni, per esempio, a Benevento si svolge «La Contesa di Sant’Eliano», un ciclo di rievocazioni incentrate sulla figura di Arechi II (vedi, nell’articolo sulla chiesa beneventana di S. Sofia, il box a p. 82). Ancora una volta, nel Sannio torna alla ribalta il Medioevo, epoca con cui ha negoziato per secoli la sua identità. Basterebbe pensare all’utilizzo culturale che ha avuto in queste zone il mito, o fenomeno, della stregoneria, riutilizzato fino ai giorni nostri, diventando testimonial di ottimi liquori e torroni di successo, nonché co-protagonista della letteratura locale e ultimamente del cinema, con la produzione di un film dal suggestivo titolo di Janara (diretto dal regista Roberto Bontà Polito e distribuito nelle sale nel 2015), il modo locale di dire strega. Perché il Medioevo? Per vari motivi, il primo dei quali è nel fatto che quest’epoca, pur realissima, documentabile e presente nei monumenti sparsi in abbondanza nel Sannio, è abbastanza lontana da potervi proiettare tante fantasie, bisogni, racconti contemporanei senza un’eccessiva preoccupazione storiografica. E perché, invece, i Longobardi, le streghe, il noce? Le attestazioni sannite di alberi di noce e di streghe che vi si riunivano intorno sono molto antiche. Secondo Pietro Piperno si parla di una «Nucem dicta ianaram» in un

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documento del 1273, e alla prima metà del Quattrocento risalgono l’adagio confessato da una presunta strega, Matteuccia («Unguento, unguento / mandame alla noce de Benevento, / supra acqua et supra ad vento et supra ad omne maltempo», per giungere al suo «sabba») e la testimonianza di Bernardino da Siena, che in una sua predica parla di uno strano raduno di donne danzanti nelle campagne della stessa città. Che il noce fosse una pianta dalle caratteristiche ambigue e «superstiziose» doveva essere noto, se, in un’altra predica trecentesca, Giordano da Pisa sosteneva che «è uno arbore molto uggioso (…) il noce è detto da nuocere, perché molto nuoce».

Una leggenda creata a tavolino Nel saggio Il culto degli alberi presso i Longobardi e il Noce di Benevento (1938), lo studioso di letteratura latina medievale Filippo Ermini (1868-1935) identificava con un noce l’albero sacro sotto il quale si svolgeva un complesso rito longobardo cui pose fine san Barbato, sradicandolo. Ma fu un’illazione dello studioso di cui non si trova traccia nella Vita di San Barbato del IX secolo. La leggenda del noce è stata raccontata in opere di scrittori, artisti e persino nei canti popolari: le Disquisitiones magicae (1599) di Martin Del Rio, il De Nuce maga Beneventana del già citato Piperno (1635), una sua riduzione per il teatro dal titolo La noce maga di Benevento estirpata da San Barbato (1665) e un racconto popolare messo a stampa nell’Ottocento con il titolo Storia della famosa noce di Benevento, continuamente ristampato. Un corteo di storie imperniate su luoghi fisici e immaginari, che servirono e servono ancora ad affermare la propria identità di fronte a un mondo che si globalizza sempre di piú, rischiando un’alienazione geografica che fa perdere i punti di riferimento necessari: un campanile, una piazza, un albero, un racconto «potente». Tutte «storie» che sembrano difendere Benevento da una perdita di senso, dall’invasione monotematica della globalizzazione: attraverso di esse, i Sanniti contemporanei scelgono in modo creativo una «loro» storia da condividere, da far diventare bene comune e da rappresentare all’esterno come cultura locale, una cultura nobile e antica, ma di un localismo scelto liberamente tra i documenti di una secolare storia longobarda. Claudio Corvino

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Non erano solo «angeli del focolare»... LIBRI • Che anche le donne del Medioevo si occupassero della casa e della prole è

certo, ma, a dispetto di facili stereotipi, la loro presenza era diffusa anche nel mondo del lavoro. Spesso con ruoli ben piú importanti della mera manovalanza

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irma ben nota ai lettori di «Medioevo», Maria Paola Zanoboni ha consacrato la sua ultima fatica editoriale a uno dei suoi ambiti di studio prediletti, quello della condizione femminile e, soprattutto, del ruolo rivestito dalle donne nell’ambito del sistema produttivo. Per farlo, ha selezionato alcuni casi di studio o, per dirla con le sue stesse parole «di microcosmi», attraverso le cui analisi cercare di tracciare un quadro generale, utile a fornire le coordinate essenziali del fenomeno. Che, come emerge anche dalla lettura del volume, ebbe una rilevanza straordinaria, non soltanto dal punto di vista economico, ma anche rispetto all’assetto sociale delle comunità – grandi e piccole – d’Italia e d’Europa.

Diverse, ma non subalterne Nell’Introduzione vengono definite le linee guida dell’opera, cercando altresí di sgomberare il campo da stereotipi e convinzioni che le piú recenti ricerche storiografiche hanno sconfessato. Pur trattandosi di un filone di studi ancora giovane, sono molte, infatti, le acquisizioni che hanno imposto una diversa considerazione del lavoro femminile. Prima fra tutte, il riconoscimento della sua specificità rispetto a quello maschile – in termini di consuetudini e di norme –, troppo spesso scambiata con una presunta

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Properzia de’ Rossi, in un’incisione tratta dall’opera di Isaac Bullart, Académie des Sciences, et des Arts... 1682. Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio. Properzia è la sola scultrice («femina schultora» come dicono i documenti) di cui si abbia notizia per il XV-XVI sec. e la prima nell’Europa moderna.

Maria Paola Zanoboni Donne al lavoro nell’Italia e nell’Europa medievali (secoli XIII-XV) Editoriale Jouvence, Sesto San Giovanni (Milano), 178 pp. 16,00 euro ISBN 978-88-15-13338-0 www.jouvence.it

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subalternità. L’attività svolta dalle donne, insomma, era forse meno visibile di quella degli uomini, ma non per questo meno importante. Dopo quello che l’autrice definisce «Uno sguardo d’insieme» sulla realtà italiana ed europea, un’ampia trattazione viene riservata a uno degli aspetti piú significativi nell’organizzazione del lavoro in epoca medievale: l’apprendistato, sottolineandone alcuni degli elementi salienti, come, per esempio, la rigidità delle clausole inserite nei contratti che potevano regolarlo

e la conseguente diffusione dei contenziosi, innescati dal loro mancato rispetto.

Da operaie a imprenditrici Nei capitoli successivi, Maria Paola Zanoboni getta luce sui molti settori nei quali le donne operavano – dal comparto tessile all’edilizia, dalla produzione della foglia d’oro a quella dei veli, solo per fare qualche esempio –, spesso elevandosi dal rango di operaie a quello di imprenditrici, esaminando le affinità e le differenze

che potevano caratterizzare l’esercizio delle medesime funzioni in località diverse. Un accenno è anche riservato a personaggi divenuti celebri grazie alla propria attività, come Properzia de’ Rossi, la «femina schultora», né mancano approfondimenti che potranno senz’altro risultare sorprendenti ai non addetti ai lavori, come quelli sulle donne medico o sui lavori svolti all’interno dei monasteri femminili, nei quali, fra le altre, era assai diffusa la produzione della pasta! Stefano Mammini

Lo scaffale Pedro García Martín L’immaginario delle crociate Dalla liberazione di Gerusalemme alla guerra globale Edipuglia, Bari, 292 pp., ill. b/n

40,00 euro ISBN 978-88-7228-772-9 http://edipuglia.it

Pedro García Martín affronta un argomento di cui si fa – e spesso si è fatto – un uso improprio: di riferimenti alle crociate e agli scontri di civiltà fra Islam e cristianità (intesa come Occidente) abbondano oggi molte cronache e appelli alle armi che, disinvoltamente, pretendono di rifarsi ad antichi percorsi storici e a contese secolari. In realtà, la terminologia e l’immaginario della crociata si sono strutturati lentamente e certo non da subito, non dalla conquista

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di Gerusalemme da parte dei cavalieri europei nel 1099, travisando a proprio personalissimo appannaggio le parole pronunciate da papa Urbano II a Clermont Ferrand. In ogni caso, il libro fa giustizia di molti degli equivoci stratificatisi nel tempo e, attraverso tre fasi temporali cronologicamente conseguenti, prende in esame i pellegrinaggi in armi dell’XI-XII secolo, prosegue con l’espansionismo ottomano e giunge agli estremismi terroristici dei nostri giorni. La carrellata di visioni, interpretazioni e metafore si sviluppa con dovizia di descrizioni e documenti iconografici e letterari, compresa un’incursione nell’ideale del cavaliere errante

e, quindi, del Don Chisciotte ispanico: del resto Miguel de Cervantes, l’inventore del personaggio piú popolare della letteratura iberica, dovette vivere in pieno la battaglia di Lepanto del 1571 e le carceri algerine, in un momento di scontro violento fra l’impero spagnolo e il corrispondente sultanato turco. Nel Mediterraneo, che fungeva da palcoscenico acqueo dello scontro in atto

fra le superpotenze del XVI secolo, si muovevano peraltro anche le flotte dei Cavalieri di Malta, a cui è dedicato un apposito capitolo. In un caleidoscopio di città e di uomini in movimento si dipana una lunga storia che si riverbera da Bisanzio a Gerusalemme, dalle sponde nordafricane alle atmosfere mitteleuropee fino alla New York dell’11 settembre 2001, senza nulla tralasciare, nemmeno le meravigliose figurine Liebig, i fumetti per adulti o i video-giochi sulla lotta fra Croce e Mezzaluna. Il tutto, per un immaginario che, talora, distorce la realtà. Tocca allo storico, dunque, fare chiarezza, far capire: anche e soprattutto in questi anni cosí difficili. Vito Bianchi

Silvia Diaccianti e Lorenzo Tanzini (a cura di) Lo Statuto di San Gimignano del 1255 contributi di Enrico Faini e Tomaso Perani,

Leo S. Olschki Editore, Firenze, 164 pp.

28,00 EURO ISBN 978-88-222-6411-4 www.olschki.it

Il volume contiene la riedizione (dopo quella ottocentesca di Luigi Pecori) del piú antico testo statutario sangimignanese pervenutoci, risalente al 1255, con l’aggiunta di alcune rubriche del 1292. Le norme legislative anteriori, risalenti al 1228, infatti, non ci sono rimaste. Lo statuto si articola in 4 libri: il primo sugli uffici pubblici, il secondo sulle cause civili, il terzo su quelle criminali, e il quarto, il piú interessante, sugli aspetti materiali della

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vita cittadina. Il divieto per le donne di filare mentre vendono il pane, la regolamentazione della costruzione degli edifici (che non dovevano superare in altezza la torre principale di San Gimignano), precise norme anti-incendio, una corretta sistemazione e manutenzione delle fognature, la possibilità di scavo di nuove fonti e pozzi e di costruzione di mulini, la regolamentazione dell’accesso al borgo da parte dei lebbrosi, quella del prezzo di vendita del legname, le norme igieniche relative alla cottura del pane, la disciplina della presenza di animali all’interno delle mura, sono soltanto alcuni tra gli aspetti che emergono da quest’ultima sezione. Corredano il volume

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due saggi introduttivi, l’uno volto a illustrare lo statuto sangimignanese (Lorenzo Tanzini) e l’altro relativo al contesto normativo toscano nei secoli XII-XIII (Enrico Faini), che collocano il testo statutario in una prospettiva assai complessa di storia documentaria e politica i cui tratti consentono di collegare la fonte normativa con la varietà di testimonianze superstiti della vita pubblica del borgo. Maria Paola Zanoboni

i fasti vissuti dalla Langobardía minor al tempo di Arechi II, che era stato duca e principe di Benevento circa duecento anni prima. Questo effimero rinascimento ebbe per artefici Pandolfo

Seguono quindi la narrazione degli eventi che accompagnarono la fine della loro stagione e il bilancio che oggi possiamo trarre da quelle esperienze. Stefano Mammini

Tommaso Indelli Il tramonto della Langobardía minor Longobardi, Saraceni e Normanni nel Mezzogiorno (X-XI sec.)

prefazione di Claudio Azzara, Editrice Gaia, Angri (Salerno), 212 pp.

20,00 euro ISBN 978-88-97741-49-7 www.editricegaia.it

Tommaso Indelli racconta nel volume una sorta di canto del cigno: tra la metà del X e la fine dell’XI secolo, il Mezzogiorno d’Italia fu infatti teatro della transizione fra Longobardi e Normanni, nel corso della quale, però, vi fu un ultimo sussulto, capace di far rivivere, seppur brevemente,

I Capodiferro di Capua (961-981) e Guaimario IV di Salerno (1027-1052). Dopo aver brevemente riepilogato i secoli che precedettero l’avvento dei due principi, l’autore ne ripercorre le rispettive vicende biografiche, concentrandosi, naturalmente, soprattutto sul significato politico della loro azione.

Claudio Azzara I Longobardi

Universale Paperbacks Il Mulino, Bologna, 124 pp.

11,00 euro ISBN 978-88-15-25989-9 www.mulino.it

Quella dei Longobardi è una vicenda complessa e articolata, che Claudio Azzara riepiloga e sintetizza in uno strumento agile e prezioso per chiunque voglia avvicinarsi alla conoscenza di questo

popolo. La trattazione si sofferma su tutti gli aspetti piú importanti: dall’origine delle genti longobarde all’eredità che esse hanno lasciato nelle culture che progressivamente le rimpiazzarono. Pur nella brevità dell’esposizione, si riescono a cogliere la vivacità e la dialettica interna dei Longobardi che in Italia, per esempio, dettero vita a esperienze fra loro diverse e non soltanto per via della differente area di insediamento. E c’è anche spazio per tratteggiare i contorni dell’arte e dell’architettura, cosí come per ricordare la straordinaria esperienza di Paolo Diacono, la cui Historia Langobardorum costituisce ancora oggi una fonte ineludibile per lo studio del popolo longobardo. Spunti che potranno essere poi approfonditi e sviluppati grazie all’ampia bilbiografia che correda il manuale. S. M. giugno

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Al tempo dell’Ars Nova MUSICA • Fra il XIV e il XV secolo, fiorirono numerosi generi, ma a riscuotere i

consensi piú vasti furono soprattutto il madrigale e la ballata. Protagonisti di due raccolte dedicate a Guillaume de Machaut e Paolo da Firenze

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urante la grande fioritura di stili che ha caratterizzato la produzione poetico-musicale del XIV secolo – definito dai teorici del tempo come l’epoca dell’Ars Nova – un ruolo fondamentale fu svolto da due generi, il madrigale e la ballata, protagonisti assoluti del nuovo clima culturale, ora al centro di altrettante registrazioni dedicate, rispettivamente a Guillaume de Machaut (1300 circa-1377) e Paolo da Firenze (1355 circa-1436). Legata a una pratica coreutica, la ballata – insieme ad altri generi tipici del Trecento, come il rondeau, il virelai, il motet, e la caccia – ci viene proposta in un raffinato ascolto dall’Orlando Consort nel disco Machaut. The Dart of Love.

Passaggi briosi Letterato, musicista, ma anche uomo di chiesa a servizio di importanti personaggi della storia trecentesca, Guillaume de Machaut ha lasciato una ricca produzione ampiamente testimoniata nelle fonti dell’epoca. In questa antologia, le raffinate voci maschili del noto quartetto inglese si dilungano in sottili disquisizioni amorose in brani a 2, 3 e 4 voci, in cui le stesse alimentano contrappunti dall’affascinante sapore arcaico e che lasciano, a tratti, spazio a passaggi briosi, come nella caccia Si je chant mains que ne suelh. Limpide e calde sono le voci dell’Orlando Consort, a loro agio nella frequentazione del repertorio tre-quattrocentesco, al quale hanno

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dedicato numerose e importanti incisioni. Esemplare risulta l’equilibrio sonoro, frutto di un approfondito lavoro interpretativo, che i quattro solisti offrono interagendo con preziosi melismi e un approccio vocale consono a questo repertorio.

Un personaggio eclettico A qualche decennio piú tardi – siamo a cavallo tra il XIV e il XV secolo – ci riconduce la musica del benedettino Paolo da Firenze, noto personaggio pubblico della città gigliata. Impegnato tanto nella carriera ecclesiastica quanto in quella diplomatica, fu altrettanto prolifico nell’ambito musicale, con una produzione che ci è pervenuta quasi integralmente, grazie a un codice conservato a Parigi, presso la Bibliothèque nationale de France (Fonds Italien 568). Notevole è il fascino che la produzione musicale di Paolo da Firenze è in grado di suscitare, soprattutto considerando che, a dispetto del suo status di ecclesiastico, si tratta principalmente di musica profana, con una particolare predilezione per i generi della ballata e del madrigale di cui l’antologia Paolo da Firenze. Amor, tu solo ‘l sai. Ballate e madrigali ci

Machaut. The Dart of Love The Orlando Consort Hyperion(CDA68008), 1 CD www.hyperion-records.co.uk

Paolo da Firenze. Amor, tu solo ‘l sai. Ballate e madrigali Clubmediéval, Thomas Baeté MusicaFicta (MF8017), 1 CD www.musica-ficta.com

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CALEIDO SCOPIO offre un ampio saggio, con l’ascolto di 11 ballate e tre madrigali. Brani straordinariamente raffinati, intrisi di un rigoglioso melodismo virtuosistico che rammenta un certo gusto tardo-gotico. Concepiti per un organico che varia dalle due alle tre voci, queste musiche rivelano una personalità musicale di altissimo

livello, alla stregua dei piú grandi rappresentanti della stagione arsnovistica italiana e non solo. La realizzazione di questa antologia vede, peraltro, protagonista l’ottimo ensemble ClubMediéval diretto da Thomas Baeté, che nel riproporre questi brani, si affida a cinque voci soliste, nonché

all’accompagnamento di organetto, arpa gotica, salterio e vielle. Mutevoli sono le combinazioni strumentali/vocali utilizzate, come anche di particolare pregio le differenti vocalità che negli assoli e nei passaggi d’insieme coinvolgono con la loro capacità comunicativa. Franco Bruni

Dal Saracino al Poverello

MUSICA • Tradizione orale e fonti scritte, composizioni sacre e brani popolari

profani... Da queste e altre commistioni – che sembrano quasi anticipare la moderna moda del crossover – nascono due antologie di grande interesse

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n una straordinaria compagine di sonorità popolareggianti, con una vocalità che rimanda alla tradizione orale e un uso di forme polifoniche la cui semplice struttura rispecchia modalità nate dall’improvvisazione, il disco Laude, ballate, saltarelli e villanelle rivela in tutta la sua esuberanza il ricco patrimonio musicale italico sviluppatosi tra il XIV e gli inizi del XVI secolo dalla commistione fra ciò che veniva tramandato oralmente e le fonti scritte. D’altronde, nella storia della

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musica, è stata fortissima l’influenza dell’elemento popolare anche sull’espressione aulica e le musiche presentate in questa registrazione ne sono una eloquente testimonianza.

Al suono delle zampogne Dei 14 brani, 11 ci riportano alla tradizione profana e devozionale del XIV secolo e comprendono veri e propri successi dell’epoca, come Li saracin’ adorano lo sole (n. 1), i tre Saltarelli (nn. 2, 6 e 8), ovvero la bellissima Crapareccia, una sonata

In alto il Rose Ensemble, gruppo fondato nel 1996 da Jordan Sramek, che ne è tuttora il direttore artistico. tradizionale eseguita al passo delle capre (n. 4) e le «ballarelle» (n. 11), entrambe affidate alle zampogne. A queste composizioni profane, nelle quali il travolgente elemento ritmico incita all’azione coreutica, si accompagnano canti paraliturgici, in particolare alcune laudi, concepite sul modello della ballata, tratte dal Laudario di Cortona e dal giugno

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Magliabechiano (XIII-XIV secolo). Queste ultime sono l’espressione piú felice di un atteggiamento devozionale che ha trovato nell’attività delle compagnie dei laudesi, sviluppatesi nel Centro Italia dal XIII secolo, la migliore manifestazione di una religiosità autentica, nata dal «basso» e capace di grande comunicativa. Al XV e XVI secolo ci riconducono la Lauda Aquilana (n. 13), l’inno processionale Madonna di Canneto di fra Serafino Razzi, infine una seconda versione de Li saracin’ adorano lo sole, piú aulica rispetto al primo ascolto, di Giulio Bonagiunta da San Ginesio, compositore, nonché editore musicale di origine marchigiana del Cinquecento. In questo fruttuoso dialogo tra tradizione orale e scritta, risulta straordinaria la performance dell’Aquila Altera Ensemble, che da anni si dedica al repertorio antico, con una dedizione particolare per il Medioevo e il primo Rinascimento. Un plauso va alle voci di Maria Antonietta Cignitti (voce, arpa, tamburello, tamorra) e Anna Bessi (canto), accompagnate da Le Cantrici di Euterpe, a cui si aggiungono Daniele Bernardini (flauti, bombarda, ciaramella), Gabriele Pro (viella, violino), Antonio Pro (liuto, chitarra), Cristina Ternovec (arpa, viole da brazzo e da gamba), Giordano Ceccotti (viella, ghironda) Piergiorgio Del Nunzio (organo portativo) e l’immancabile zampogna di Marco Cignitti.

Costanzo e Tommaso, frati compositori Un clima musicale analogo si ritrova nell’antologia Poverello. Medieval and Renaissance Music for Saint Francis of

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Il Poverello Medieval and Renaissance Music for Saint Francis of Assisi The Rose Ensemble (ROSE 00010), 1 CD www.roseensemble.org

Laude, ballate, saltarelli e villanelle Tradizione scritta e tradizione orale tra Medioevo e Rinascimento Aquila Altera Ensemble Tactus (TC 300004), 1 CD www.tactus.it

Assisi, che ripercorre appunto il panorama musicale ispirato a san Francesco tra Medioevo e Rinascimento, con una selezione che spazia da brani strumentali del XIV secolo ad altri della tradizione gregoriana, passando per il repertorio laudistico (XIII secolo) e sino a toccare il Cinquecento, con una scelta di partiture riconducibili a due francescani, nonché compositori, Costanzo Porta e Tommaso Graziani, ai quali si aggiunge Jerónimo de Aliseda. Completano il quadro i mottetti di due importanti rappresentanti della scuola polifonica fiamminga, Johannes Ciconia e Guillaume Dufay, attivi tra la fine del XIV e la prima metà del XV secolo. La scelta di proporre queste musiche senza rispettarne la sequenzialità cronologica si rivela vincente, dando all’ascoltatore la possibilità di immergersi nei piú variegati stili musicali – si passa dalla monodia, a forme di improvvisazione polifonica sino ad arrivare al contrappunto maturo del Rinascimento – e stimolando l’attenzione a ogni nuovo ascolto. Egregia è la direzione del direttore Jordan Sramek, tenore e appassionato studioso del repertorio antico, alla guida del Rose Ensemble, un gruppo americano che si caratterizza per una bellissima fusione vocale, la purezza delle singole voci, a tratti utilizzate solisticamente. Notevoli sono anche gli interpreti dei brani strumentali che, con la loro esuberanza ritmica, completano questo straordinario paesaggio sonoro dedicato a musiche ispirate a san Francesco. Franco Bruni

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