Medioevo n. 232, Maggio 2016

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ALLE ORIGINI DI UN CONFLITTO

EGIDIO DE ALBORNOZ Il cardinale guerriero

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Gregorio VII e il potere divino

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MEDIOEVO n. 232 MAGGIO 2016 ALBORNOZ GREGORIO VII GENTE DI BOTTEGA/4 CENOTAFIO TARLATI CASALE MONFERRATO DOSSIER ARABI E PERSIANI

EDIO VO M E



SOMMARIO

Maggio 2016 ANTEPRIMA

ESSERE LEADER NEL MEDIOEVO/5 Gregorio, nessuno come lui

IL PROVERBIO DEL MESE «Nel Paese di Bengodi»

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VISITIAMO INSIEME Casale Monferrato 46

di Renata Salvarani

Un esagono ricco di storia di Chiara Parente

98

MOSTRE Tutti come Piero Quando Genova dominava l’età di Mezzo

12

ARALDICA In cauda venenum

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ITINERARI Camminando s’impara

16

UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO Doni di scambio

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LIBRI Lo scaffale

112

MUSICA Canti di donne sole Oswald e il monaco

113 114

RESTAURI Devozione e didattica INCONTRI Ecco la «prima automobile»! APPUNTAMENTI Medioevo Oggi Viva il duca e viva sant’Ilaro! L’isola dei balestrieri L’Agenda del Mese

CALEIDOSCOPIO

8

18

46 COSTUME E SOCIETÀ

20 22 24 25 28

GENTE DI BOTTEGA Un merciaio previdente di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci

56

LUOGHI SAPER VEDERE Arezzo Sia gloria al vescovo guerriero!

STORIE

di Federico Canaccini

PROTAGONISTI

Dossier

66

Egidio de Albornoz

Un Castigliano di ferro di Luca Pesante

36

36 ARABI E PERSIANI Due mondi in conflitto 79

66

di Marco Di Branco


IL AR C E TA ENO ZZ RL TA O AT FIO I

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MEDIOEVO n. 232 MAGGIO 2016

MEDIOEVO

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MEDIOEVO Anno XX, n. 232 - maggio 2016 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it

Illustrazioni e immagini: Erich Lessing Archive/ Magnum/Contrasto: copertina (e p. 88) – Doc. red.: pp. 5, 37, 38 (basso), 40, 42/43, 44, 49, 53, 57, 60, 62 (sinistra), 82, 83 (alto), 87, 110-111 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 8-11, 16-17, 20-22 – Cortesia Valerio De Luca: pp. 12-13 – Cortesia Opificio delle Pietre Dure, Firenze/foto Pino Zicarelli: p. 18 – Cortesia degli autori: pp. 24-25, 102, 106-109 – Shutterstock: pp. 36/37, 39, 68, 97, 100 – Mondadori Portfolio: Album: pp. 38 (alto), 50; The Art Archive: pp. 56, 86; Leemage: pp. 79, 91 – DeA Picture Library: pp. 46-48; S. Montanari: pp. 40/41; A. Dagli Orti: pp. 52, 61; G. Dagli Orti: pp. 54/55; G. Cigolini: p. 63; S. Vannini: pp. 66/67, 70-77; C. Sappa: pp. 92/93 (alto) – Marka: CSP_milla74: p. 43 – Getty Images: Leemage: pp. 58/59 – Bridgeman Images: pp. 80/81, 93-96; Flammarion: pp. 59, 89; Photo Neil Holmes: p. 64; Pictures from History: pp. 83 (basso), 90 – Scala, Firenze: p. 69; White Images: p. 62 (destra) – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Hervé Lewandowski: pp. 92/93 (basso) – Cortesia Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Casale Monferrato: pp. 98-99, 101, 104-105 – Cortesia Consorzio Mon.D.O.: Giacomo Pasino: p. 103 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 84/85, 101. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352

Editore: MyWay Media S.r.l.

Collaboratori della redazione:

Amministratore delegato: Stefano Bisatti

Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it

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Presidente: Federico Curti

Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6346

Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Barbara Conti è storica dell’arte medievale. Claudio Corvino è antropologo. Marco Di Branco è dottore di ricerca in storia antica. Mila Lavorini è giornalista. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Chiara Parente è giornalista. Luca Pesante è archeologo medievista. Emanuela Porta Casucci è dottore di ricerca in storia medievale. Stefania Romani è giornalista. Renata Salvarani è ricercatore di storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Università degli Studi Europea di Roma. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369

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In copertina piatto istoriato in argento dorato con la raffigurazione di Senmurv, mitico animale con sembianze miste di uccello e di cane descritto nell’Avesta. VII sec. Londra, British Museum.

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo

Nel prossimo numero storie

Genova al tempo degli Embriaci

saper vedere

Santa Sofia di Benevento dossier

immaginario

L’età dell’unicorno

Arechi II. Un duca longobardo nell’Italia meridionale


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

«Nel Paese di Bengodi»

T

rovandosi dinnanzi a un banchetto imbandito, con ogni ben di Dio, può capitare ancora oggi di esclamare: «Ma questo è il Paese di Bengodi!» o «della Cuccagna!». Forse, però, non tutti sanno che il Paese di Bengodi (la cui etimologia è facilmente intuibile, essendo l’unione delle parole bene e godi) è una spiritosa invenzione di Giovanni Boccaccio, il quale lo cita nel Decamerone (VIII, 3), quando elenca una serie di luoghi fantasiosi, che comprende anche questo regno di ogni delizia. Nel Paese di Bengodi, infatti, «si legano le vigne con le sal-

sicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio Parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giú, e chi piú ne pigliava piú se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di Vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua». L’altro luogo immaginario, dal significato analogo, è il Paese della Cuccagna, anch’esso regno di abbondanza e di delizie. Sull’etimologia di questa parola, invece, le opinioni divergono. C’è chi lo fa risalire al latino cocania, che a sua volta deriverebbe dal fiammingo kokenye, cioè il dolciume fatto di zucchero e sciroppo. In tedesco, lingua imparentata con il fiammingo, la parola Kuchen indicava leccornie dolci; per i Francesi, invece, il legame sarebbe

Discritione del Paese di Chucagna, dove chi manco lavora piu guadagna, incisione colorata a pennello. Seconda metà del XVIII sec. Milano, Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli». con il termine provenzale cocanha, anch’esso utilizzato per dolcetti e chicche. Forse è il Paese della Cuccagna (o forse dell’Eldorado) il luogo immaginario, nascosto e lontano – che neppure i conquistadores hanno scoperto –, a cui allude il poeta e monaco benedettino Teofilo Folengo (1491-1577) nel suo poema Baldus. Anche qui il paesaggio non è molto differente: montagne di cacio, fiumi e laghi di brodo dal sapore squisito, colline di burro e poi gnocchi, ravioli e tagliatelle in ogni dove. Il tutto condito da felicità, spensieratezza e gran baldoria. La prima apparizione letteraria certa del Paese della Cuccagna si deve comunque a Francesco Bracciolini, un poeta del XVI secolo, che, nello Schermo degli dei, scrive: «E ramonticellatele le bagna / d’elisir vite e poi vi soffia dentro / e par che dalle piagge di Cuccagna / venga a spirar, tant’è soave, il vento». Di queste delizie rimaneva, e spesso ancora rimane, memoria nelle feste paesane in cui svettava l’Albero della Cuccagna, da cui pendevano salami e formaggi, a simboleggiare, in fondo, l’ambizione a un fantastico regno del benessere.


ANTE PRIMA

Tutti come Piero MOSTRE • Campione della pittura italiana del Quattrocento, Piero della Francesca

è protagonista di una grande esposizione a Forlí. Che documenta l’importanza e la longevità della sua lezione, fatta propria da molti maestri dell’Otto e Novecento

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ndicesima mostra promossa dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlí, l’«Indagine sul mito» di Piero della Francesca si snoda nei magnifici ambienti dei Musei San Domenico e propone ben 250 opere, scelte dagli «investigatori»

come altrettanti indizi a sostegno della loro tesi. L’idea è quella che la lezione del maestro di Sansepolcro sia stata fatta propria non soltanto dai contemporanei e dagli immediati seguaci, ma abbia avuto effetti assai piú duraturi, arrivando a influenzare,

In alto Silvana Cenni, tempera su tela di Felice Casorati. 1922. Collezione privata. A sinistra Madonna della Misericordia, olio su tavola di Piero della Francesca. 1445-1462. Sansepolcro, Museo Civico. È questo uno dei confronti suggeriti dalla mostra allestita nei Musei San Domenico di Forlí, che analizza e documenta l’importanza, e l’attualità, della lezione del maestro di Sansepolcro.

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maggio

MEDIOEVO


A sinistra L’amante dell’ingegnere, olio su tela di Carlo Carrà. 1921. Collezione Gianni Mattioli. In basso Francesco Laurana, busto in marmo di Battista Sforza. 1474 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

in particolare, molti artisti dell’Otto e Novecento. Mettere a fuoco questo assunto è indispensabile per apprezzare la rassegna, che non è stata pensata come una retrospettiva – tanto che sono soltanto quattro i dipinti dello stesso Piero –, ma assume invece le forme di un gioco di riverberazioni, riletture e citazioni, che vanno a comporre una sorta di caleidoscopio a tema.

Variazioni sul tema Un gioco al quale si è chiamati a partecipare fin dall’inizio, nella sala che pone a confronto un olio su tela di Carlo Carrà, L’amante dell’ingegnere (1921), con il busto in marmo di Francesco Laurana che ritrae Battista Sforza (1474 circa), scelti perché considerati entrambi come altrettante variazioni sul tema del ritratto della duchessa di Urbino dipinto da Piero della Francesca tra gli anni Sessanta e Settanta del Quattrocento e oggi conservato agli Uffizi. Un esordio che permette di sintonizzarsi con la frequenza scelta dai curatori della mostra e dal quale prende il via il ricco percorso espositivo. Le sezioni al piano terra offrono documenti eterogenei e anche cronologicamente molto distanti fra loro, tra i quali possiamo ricordare, per esempio, la serie dei disegni della Leggenda della Vera Croce eseguiti nel

MEDIOEVO

maggio

1855 dall’archeologo Austen Henry Layard, che fu anche direttore della National Gallery. Anche se l’opera forse piú spettacolare – e che in una certa ieraticità dei personaggi piú di altre impressiona per l’affinità con le composizioni di Piero – è La spiaggia (o La fotografia, 1937) una tela lunga ben 14 m che Massimo Campigli dipinse per la sede della Ferrania e che

si dice abbia poi ispirato Luchino Visconti nel realizzare la versione cinematografica di Morte a Venezia, il racconto di Thomas Mann.

Gli «uomini nuovi» La Leggenda della Vera Croce torna nel passaggio al piano superiore, con due tele del francese Charles Loyeux, che fanno da premessa all’incontro con le prime due opere del maestro di Sansepolcro: la Madonna con Bambino (14351439) della Alana Collection e il San Girolamo e un devoto (14581460), concesso in prestito dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Attorno a loro, nella sezione «Piero e gli “uomini nuovi” a Firenze» si concentrano molte presenze illustri: da Paolo Uccello ad Andrea del Castagno, da Filippo Lippi al Beato Angelico, solo per citare i nomi piú noti. Alle quali fanno da controcanto le opere della sezione successiva «Nella luce di Piero», che sviluppa e arricchisce l’analisi sull’influenza esercitata dall’artista nei confronti dei pittori del suo tempo e di quelli immediatamente successivi.

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ANTE PRIMA A sinistra particolare della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca in un disegno a ricalco di Austen Henry Layard. 1855. Londra, Victoria & Albert Museum. In basso Cavalieri, olio su tela di Pompeo Borra. 1948 circa. Collezione privata. concentra sull’altro elemento forte della mostra (in parte anticipato nelle sale al piano terra): la fortuna di cui Piero della Francesca ha goduto fra gli artisti dell’età moderna e, in particolare, fra quelli attivi nell’Ottocento e nel primo Novecento. Sulle prime, si può forse provare un certo spaesamento, ma, riandando con la mente a quanto appena ammirato nelle sezioni precedenti, non si fatica a ritrovare il leit motiv della mostra. Né si tratta Qui è peraltro inserita l’opera che fa da immagine guida della mostra, la Madonna della Misericordia (14451455), scomparto centrale del polittico omonimo, eccezionalmente concessa in prestito dal Museo Civico di Sansepolcro. Un dipinto che illustra al meglio il criterio ispiratore della mostra. Tanto che la sua gigantografia, affiancata a quella della Silvana Cenni (1922) di Felice Casorati, compone il manifesto programmatico della rassegna, all’ingresso dei Musei.

Il soggiorno a Ferrara I dipinti concentrati in questa sezione documentano, fra l’altro, l’influenza di Piero in ambito emiliano-romagnolo, innescata, in particolare, da un soggiorno dell’artista a Ferrara, nel 1450. A farsi interpreti e divulgatori del linguaggio del maestro toscano sono, per esempio, Marco Zoppo e i fratelli Cristoforo e Lorenzo da Lendinara, ma non meno significative sono le riletture di Ercole de’ Roberti o Melozzo da Forlí. Va peraltro sottolineato come alla riuscita della provocazione suggerita dalla mostra contribuisca, soprattutto in queste sale, l’allestimento: il blu

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scuro che fa da sfondo, unito alla disposizione delle diverse opere, esalta infatti il nitore delle cromie e favorisce l’individuazione degli elementi formali che giustificano le affinità suggerite. Poco oltre, si compie un considerevole salto temporale, in quanto il percorso si

di semplici coincidenze, poiché abbiamo notizie certe e documentate del fenomeno: per esempio, tra il 1858 e il 1871, Gaetano Bianchi fu chiamato a salvare gli affreschi di Piero ad Arezzo e realizzò un restauro che, piú tardi, il grande storico e critico d’arte Roberto maggio

MEDIOEVO


DOVE E QUANDO

«Piero della Francesca. Indagine su un mito» Forlí, Musei San Domenico fino al 26 giugno Orario ma-ve, 9,30-19,00; sa-do e festivi, 9,30-20,00; lu chiuso Info tel. 199 15 11 34 (attivo lu-ve, 9,00-18,00; sa, 9,00-12,00); e-mail: mostra pierodellafrancesca@civita.it; www.mostrapiero dellafrancesca.com «Il ‘900 guarda Piero della Francesca. Disegno e colore nell’opera di grandi maestri» Castrocaro Terme, Padiglione delle Feste delle Terme di Castrocaro fino al 17 luglio Orario fino al 26 giugno: sa-do, 10,00-19,00; dal 2 luglio al 17 luglio: sa-do, 18,00-22,00; lu-ve, su appuntamento Info tel. 0545 217595 In alto Imposizione del nome al Battista, tempera su tavola del Beato Angelico. Firenze, Museo di San Marco. A sinistra Sant’Apollonia, tempera e olio su tavola, fondo oro, di Piero della Francesca. Anni Sessanta del XV sec. Washington, National Gallery of Art. Longhi definí «magistrale». Nel corso della permanenza nel capoluogo toscano, Bianchi ricevette le visite di vari pittori macchiaioli, che, grazie al cantiere, poterono ammirare da vicino la Leggenda della Vera Croce, della quale vollero in seguito rileggere piú di un elemento.

Un finale sorprendente In una sorta di caccia al tesoro, si può dunque andare alla ricerca di Piero, la cui «presenza» è spesso piú che manifesta, da qui e sino alla fine del percorso, che si chiude con un colpo a effetto, proponendo come ultimi (ma solo temporalmente) epigoni Balthus ed Edward Hopper. La visita dell’esposizione ai Musei

MEDIOEVO

maggio

«Indagini sulla Resurrezione» Sansepolcro, Museo Civico fino al 17 luglio Orario tutti i giorni, 10,00-13,00 e 14,30-18,00; dal 15 giugno: tutti i giorni, 10,00-13,30 e 14,30-19,00 Info tel. 0575 732218; www.museocivicosansepolcro.it San Domenico può avere due significative appendici. La prima, non lontano da Forlí, è la mostra allestita nel Padiglione delle Terme di Castrocaro, che documenta la ripresa di Piero della Francesca da parte di numerosi artisti del Novecento. La seconda è invece stata organizzata nella città natale dell’artista, Sansepolcro, prendendo spunto dal restauro che ha interessato uno dei suoi capolavori: il grande affresco della Resurrezione, realizzato per il Palazzo dei Conservatori, che ospita oggi il Museo Civico. Stefano Mammini

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ANTE PRIMA

Quando Genova dominava l’età di Mezzo

MOSTRE • Una

splendida mostra, allestita all’interno di un gioiello dell’architettura gotica, racconta per la prima volta la grande epopea di Genova, capitale del Medioevo In alto una veduta dell’allestimento della mostra, nella chiesa di S. Agostino: in primo piano, il calco del grifone in bronzo di Pisa, un’opera di manifattura ispano-islamica dell’XI-XII sec. A destra arca in argento parzialmente dorato contenente le ceneri di san Giovanni Battista, detta «del Barbarossa», attribuita a orafi genovesi. 1179 circa (con restauri del XIV e XVI sec.). Genova, Museo del Tesoro della cattedrale di S. Lorenzo.

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maggio

MEDIOEVO


I

l complesso museale di Sant’Agostino è situato nel cuore piú antico del centro storico di Genova. Qui, nell’omonima chiesa del XIII secolo – uno dei piú suggestivi edifici sacri della città, la cui struttura originaria, magnificamente conservata, presenta elementi architettonici riconducibili al romanico lombardo, nonché al gotico d’Oltralpe –, è allestita la prima mostra mai dedicata al Medioevo genovese. L’iniziativa rientra in un piú ampio progetto, promosso dal Comune di Genova, per diffondere la conoscenza della storia delle origini della città e del suo ruolo come grande capitale europea e del Mediterraneo. Il sottotitolo della mostra – «Una capitale del Mediterraneo al tempo degli Embriaci» – fa diretto riferimento a una delle piú eminenti famiglie che, nei primi secoli dopo l’anno Mille – periodo storico che coincide con l’epopea delle Crociate –, contribuirono a sviluppare e consolidare questa nuova fisionomia della città portuale. Protagonisti della rassegna, davvero bellissima,

sono circa 200 reperti – tra cui sculture, reliquiari, preziosissimi frammenti di tessuti, ceramiche, manoscritti miniati –, che illustrano un’epoca di grande fioritura e dinamicità politica, commerciale e culturale. Un’epoca caratterizzata dall’intreccio di tre attori principali: Genova, Bisanzio e il mondo islamico.

Il catino misterioso Tra i numerosi capolavori esposti – ognuno dei quali meriterebbe una descrizione approfondita – citiamo, a titolo di esempio/simbolo, il magnifico «catino» verde, in vetro

In alto il Sacro Catino, denominazione attribuita a un piatto in vetro verde di probabile manifattura fatimide (IX-X sec.). Genova, Museo del Tesoro della cattedrale di S. Lorenzo. A destra un particolare dell’allestimento della mostra.

MEDIOEVO

maggio

traslucido, inizialmente ritenuto di smeraldo e identificato dal frate domenicano e arcivescovo di Genova, Iacopo da Varagine (1228-1298), con il Santo Graal. Si tratta, in verità, di un tipico manufatto di produzione fatimide (la dinastia araba che dominò l’Egitto dal 973 al 1171), un genere molto apprezzato nelle corti dei califfi. Il «catino» fu saccheggiato dai crociati nella città di Cesarea nell’anno 1101, e da lí portato a Genova. Secondo un’altra ipotesi, tuttavia – ed ecco che il mistero intorno all’affascinante oggetto si infittisce nuovamente – esso si daterebbe a un’età molto precedente, addirittura al I-II secolo d.C. Andreas M. Steiner DOVE E QUANDO

«Genova nel Medioevo. Una capitale del Mediterraneo al tempo degli Embriaci» Genova, Museo di Sant’Agostino fino al 26 giugno Orario ma-ve, 9,00-19,00; sa-do, 10,00-19,30; lu chiuso Info tel. 010 2511263


ANTE PRIMA

Camminando s’impara ITINERARI • Si fa

sempre piú ricca e attrezzata la rete dei percorsi che, sulle orme dei pellegrini medievali, si snoda nel segno della fede e della riscoperta del nostro patrimonio

I

n occasione del Giubileo della Misericordia, la Regione Veneto ha promosso la riscoperta dei vari percorsi locali della Strata Romea, il cammino lungo 1302 chilometri che collega, fin dall’età di Mezzo, l’Europa centro-orientale a Roma, attraversando anche Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna e Toscana, fino a San Miniato (Pisa), dove parte la via Francigena. Si tratta di un patrimonio legato a doppio filo alla fede: gli itinerari sono punteggiati da abbazie, antichi ospedali, ricoveri, edicole votive che testimoniano il passaggio secolare dei credenti diretti verso la tomba di Pietro, una delle destinazioni classiche del pellegrinaggio medievale, con Gerusalemme e Santiago di Compostella. Dal 2012, per valorizzare i circuiti, rendendoli piú battuti, la Regione ha investito 2 900 000 euro,

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provenienti da sanzioni per illeciti amministrativi. L’asse principale della Strata, la Romea Annia, si snoda per 200 chilometri da Concordia Sagittaria (Venezia), la Iulia Concordia di età romana, a Badia Polesine (Rovigo).

Sulla Riviera del Brenta Dal paesaggio lagunare segnato dai corsi di Piave, Livenza e Sile, il tragitto si accosta alle ville venete lungo la Riviera del Brenta, per toccare Padova, che, con la Basilica del Santo è meta privilegiata di flussi devozionali, e Monselice (Padova), dove ha sede il santuario giubilare delle Sette chiese, sotto la Rocca di Ferdinando. Una tappa ulteriore è Montagnana (Padova), un piccolo centro, raccolto e molto ben tutelato, che conserva la cinta muraria costruita dall’XI secolo, con le torri «bertesche» in legno, e terminata nel Trecento

dai Carraresi, con l’edificazione della Rocca degli Alberi. L’ultimo abitato della Annia, Badia Polesine (Rovigo), custodisce nel luogo di culto arcipretale le spoglie di san Teobaldo di Provins, pellegrino di origine francese recatosi in piú occasioni a Roma e a Santiago. Su questo tratto principale si innestano altri circuiti. Quello della Postumia, che da Verona porta a Vicenza, conta gioielli come l’abbazia benedettina di Villanova a San Bonifacio (Verona), la cui esistenza è testimoniata nei documenti scritti dal XII secolo, e l’abbazia francescana di S. Agostino, che, con la chiesa romanica, è inglobata nella periferia di Vicenza. La Romea Porciliana, fra Verona e Montagnana, è invece connotata dal carattere naturalistico dei territori attraversati dall’Adige, mentre la Vicetia, dalle Valli del Pasubio a Montagnana, ripercorre maggio

MEDIOEVO


A destra l’abside dell’abbazia di Nonantola (Modena), intitolata a san Silvestro, che costituisce una delle tappe principali della Romea Longobarda. una via particolarmente frequentata nel Medioevo (www.romeastrata.it). Accanto a questa ricca rete viaria, si dipanano i Cammini della Fede, altre vie, a tratti sovrapponibili: la Grande Rogazione di Asiago nell’Altopiano Vicentino, la Via dei Papi nel Bellunese, gli itinerari di fede in Valpolicella e il Cammino di Sant’Antonio, che da Camposampiero (Padova) raggiunge la Basilica di Padova, per proseguire, eventualmente, alla volta di Roma con sosta ad Assisi (Perugia).

A sinistra un tratto del percorso lungo il fiume Sile. In basso la chiesa dell’Assunzione della Beata Vergine Maria di Felonica (Mantova), sulla Romea Longobarda.

Una tradizione molto sentita Lungo i circuiti, che sono anche di arte e natura, in ogni tappa ai pellegrini vengono rilasciati i timbri della credenziale Ad limina Petri, che servono per ricevere, una volta arrivati a destinazione, il Testimonium, che documenta l’avvenuto pellegrinaggio. «In Veneto – racconta padre Alberto Tortelli, dei Frati Minori conventuali di Padova – è molto radicata la tradizione del viaggio a piedi sulle orme del santo. Proprio nel solco di questa tradizione, una quindicina di anni fa, abbiamo deciso di organizzare un appuntamento pensato per i giovani, il pellegrinaggio notturno, che si svolge l’ultimo fine settimana di maggio, regalando un’esperienza piú incisiva, con un significato piú profondo, spirituale. Le adesioni registrano un crescendo, tanto che abbiamo raggiunto gli oltre 1300 partecipanti. Si parte il sabato sera da Camposampiero, si cammina per tutta la notte, seguendo un itinerario di preghiera, lode, canti, segni, con una fermata all’Arcella, dove Antonio volle morire. La domenica mattina c’è la messa in Basilica, a Padova. La via è però percorribile tutto l’anno ed

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è battuta da gruppi, scolaresche, catechisti, scout, che raggiungono in treno Camposampiero, per rifare il viaggio del santo e ritirare a Padova l’attestato dell’avvenuto pellegrinaggio».

Il percorso di 24 chilometri da Camposampiero all’Arcella è detto «ultimo cammino», perché ripercorre appunto quello fatto da Antonio nell’ultimo giorno di vita, il 13 giugno 1231: quando si sente male all’eremo di Camposampiero, il santo, presentendo la fine, chiede di essere portato al conventino padovano dedicato alla Madonna; viene quindi messo su un carro e trasportato verso la città. Muore all’Arcella, alla periferia di Padova. L’itinerario può anche essere prolungato, continuando per i luoghi del santo, come Monselice, Rovigo, Montepaolo (Forlí), il santuario della Verna (Arezzo), da dove si può procedere per Assisi. Il tratto fra Padova e la Verna è stato valorizzato grazie all’intervento dei frati, che, con l’aiuto dei pellegrini, hanno collocato una segnaletica stradale ad hoc (www.camminidellafede.org). Stefania Romani

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ANTE PRIMA

Devozione e didattica

RESTAURI • La versione in miniatura del

Cristo di Benedetto da Maiano aveva la duplice funzione di oggetto di culto e di supporto all’insegnamento del catechismo

A

lle porte di Firenze, in località Castello, sorge in posizione panoramica la villa medicea La Petraia. Tra le opere d’arte che si custodiscono al suo interno, troviamo un piccolo crocifisso ligneo (41,5 x 40 x 6,5 cm), miniatura del grande Cristo conservato sotto la cupola del Brunelleschi nel Duomo fiorentino, entrambi attribuiti a Benedetto da Maiano e bottega. Restaurata dall’Opificio delle Pietre Dure, la piccola scultura si distingue dalla «sorella maggiore» per essere snodabile, con le braccia articolate alle spalle, cosí da poterla

mettere in posizione di deposto durante le celebrazioni del Venerdí Santo. Le braccia e la testa mobili, infatti, ben si adattavano al rito collettivo sacro, quando, schiodati piedi e mani, il corpo veniva distaccato dalla croce per essere adagiato su un cataletto, con gli arti superiori ruotati e distesi lungo i fianchi. Questa tipologia di manufatto rimanda alla sacra rappresentazione, in cui attori

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e pubblico interagivano in una commossa coralità. È inoltre ipotizzabile che l’opera fosse stata usata non solo come oggetto di culto, ma anche come strumento didattico, utile per educare i piccoli in campo religioso, potendo essere facilmente maneggiato.

A beneficio dei piú piccoli La ripulitura – che ha rivelato la preziosa policromia naturalistica al di sotto delle sovrastrutture pittoriche tese, in passato, a imitare il bronzo e l’oro – sembrerebbe confermare questa ipotesi, poiché

Due immagini del Cristo in legno policromo attribuito a Benedetto da Maiano e conservato nella villa La Petraia, presso Firenze. Le foto evidenziano la possibilità di disporre le braccia in posizioni diverse. ha messo in luce un colore consunto, derivante dal contatto diretto dovuto a un uso quotidiano. D’altronde, sull’opportunità di circondare i bambini con pitture e sculture di argomento religioso, si era già espresso favorevolmente

il domenicano Giovanni Dominici nella sua Regola del governo di cura familiare, al principio del Quattrocento. Entrato nell’ordine a diciassette anni, il monaco fu lettore di teologia, e attese con gran zelo alla riforma dei conventi domenicani, mirando al profondo rinnovamento della vita religiosa e avversando la cultura umanistica. Mila Lavorini maggio

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ANTE PRIMA

Ecco la prima «automobile»!

INCONTRI • Medico e studioso attivo nella prima

metà del Trecento, Guido da Vigevano ideò un carro da guerra decisamente avveniristico, ora al centro di un progetto multidisciplinare che ne svela i sorprendenti dettagli

L

a prima automobile della storia ha settecento anni ed è stata progettata da un italiano. Risale infatti al 1335 il Texaurus, un manoscritto realizzato per il re di Francia Filippo VI di Valois dal medico e studioso Guido da Vigevano (1280 circa-post 1350), il quale nel testo descrive e disegna «un veicolo in grado di muoversi da solo, senza l’intervento di forza muscolare animale o umana». Guido, in realtà, pensava a un carro da guerra, che le truppe crociate potessero utilizzare nello scontro con i musulmani, sia per il trasporto dei soldati sia per spaventare l’avversario. La «macchina» avrebbe dovuto essere provvista di un mulino a vento, in grado di fornire energia all’intera struttura, che andava manovrata

attraverso un asse sterzante, a sua volta guidato da un timone. Il progetto, senza dubbio ambizioso, soprattutto se messo in relazione all’epoca, non fu mai portato a termine, ma presuppone un’intuizione geniale, che un’iniziativa con solide basi scientifiche sta valorizzando su piani diversi. Si tratta di «Guido da Vigevano-The first car», nel cui ambito si colloca la costruzione di un modello della «prima automobile», che viene presentato il 21 maggio, in un convegno in programma a Vigevano (info: tel. 340 8525313 o 339 6159184; e-mail: info@enderlin.it). Entro il 2017 sarà invece allestita una mostra permanente, sempre nella cittadina pavese, per avvicinare il pubblico alla vita del ricercatore medievale: il prototipo sarà affiancato dal multimediale Vigevano nel tempo, di Carlo Stagnoli, e dal video The wind wagon. Guido da Vigevano, già trasmesso negli Stati Uniti nel 2010.

Precursore di Leonardo Come spiega Serafino Bona, dell’Associazione DucualiA onlus: «Guido disegna e progetta diverse macchine, alcune delle quali mi hanno colpito, soprattutto se

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In alto la pagina del Texaurus di Guido da Vigevano nella quale si vede il disegno del carro da guerra. Sulle due pagine rendering del modello del carro, visto da varie angolazioni.

pensiamo che vive oltre un secolo prima di Leonardo. Ho trovato interessanti, per esempio, il soldato in sella a un cavallo con attorno un ciambellone, che doveva servire per attraversare un corso d’acqua galleggiando. Oppure l’uomo che indossa una ciambella tonda per lo stesso motivo. Ma a sbalordirmi, perché sotto il profilo ingegneristico spalanca un vero e proprio mondo, è stato il carro da guerra». Non è un caso che, nell’ambito di «Guido da Vigevano-The first car», siano state finora elaborate varie tesi di laurea: otto presso il Polo universitario di Pavia-Politecnico di Milano e tre presso il Politecnico di Torino. Sulla base delle indicazioni di Guido e grazie ai dati emersi dalle ricerche, è stato costruito un prototipo, in legno e metallo, e la scala del modello definitivo è 1:8. «Il carro – continua Bona – doveva avere dimensioni pari a circa 9 m di lunghezza, 8 di altezza e

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6 di profondità: misure che lo avvicinano alla piú grande fra le mietitrebbie mai costruite finora; ed era in grado di muoversi, come testimonia il filmato andato in onda negli USA: in quella simulazione, il carro, semplificato e in scala 1:2, trasportava un crociato, ed era affiancato da un combattente dello schieramento opposto. La macchina procedeva con la sola forza del vento e, alla fine di un lungo tratto, il soldato che scendeva dal carro era pronto al combattimento, mentre il nemico aveva già speso molte energie nell’inseguimento».

L’esilio in Francia Guido da Vigevano aveva comunque anche altri interessi. Medico dell’imperatore Enrico VII, viaggiò molto, per passione e per ragioni politiche: nel 1323 venne colpito da una scomunica e trascorse vari anni in Savoia. Proprio in Francia scrisse due opere importanti, il già citato

Texaurus e il Liber Notabilium. Il primo si divide in due parti, una sulla medicina e sulla salute, l’altra sulle macchine da guerra, pensate come strutture smontabili, tali da poter essere trasportate dall’Europa alla Terra Santa. Il Liber Notabilium, dedicato all’anatomia, conta ben diciotto illustrazioni, che presuppongono la pratica della dissezione, testimoniata da fonti scritte solo dal 1439, ovvero cent’anni dopo la morte di Guido. A proposito dell’iniziativa The first car, Bona aggiunge: «Per quest’anno proseguiamo nell’iter di validazione scientifica del progetto, mentre l’anno prossimo saremo impegnati con l’allestimento della mostra permanente a Vigevano. E si sono detti interessati a esporre il modello del carro anche il Museo dell’Auto di Torino e il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica Leonardo da Vinci di Milano». Stefania Romani

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ANTE PRIMA

EDIO VO M E OGGI

M M

ontelupo Fiorentino, uno dei maggiori centri di produzione della ceramica in Italia e sede di uno dei tre musei a essa dedicati, insieme a Faenza e Deruta, propone, fino al prossimo 30 giugno, la rassegna «Materia Prima. La ceramica dell’arte contemporanea» (www. museomontelupo.it), che si articola in varie sezioni, due all’interno del Palazzo Podestarile e una, denominata «Sculture in città», con opere collocate all’esterno, a segnare un percorso itinerante urbano. Quest’ultima comprende il progetto ideato da Lucio Perone, che fa «rivivere» il Pozzo dei Lavatoi, un contesto venuto casualmente alla luce nel 1973 – in occasione dei lavori di demolizione di alcuni vecchi lavatoi pubblici per realizzare una piazza – e che, da allora, grazie alle indagini archeologiche che lo hanno interessato, ha offerto una documentazione di eccezionale importanza sulla storia della ceramica di Montelupo.

Montelupo, «capitale» della ceramica Il contenuto del pozzo ha infatti rappresentato un’autentica rivelazione, in grado di cambiare molte conoscenze apparentemente acquisite sulla storia della ceramica rinascimentale di area fiorentina. I reperti finora restituiti dagli scavi provano che Montelupo era un centro di produzione di fondamentale importanza, assumendo inaspettatamente la fisionomia di luogo specializzato per la fabbricazione della maiolica, capace non soltanto di soddisfare le esigenze del mercato di Firenze, ma anche di animare cospicue correnti di esportazione. Dall’esplorazione del pozzo è emerso un quadro storico di grande interesse, grazie al quale la storia della comunità montelupina poteva essere ricostruita nella sua reale consistenza e nel suo effettivo significato. Il pozzo fu probabilmente abbandonato all’inizio degli anni Trenta del Trecento, ma la sua colmatura con scarti di fornace iniziò assai piú tardi, nel 1420 circa. L’imponente struttura, costruita nel corso del Duecento, ha una profondità di oltre 31 m dal piano di campagna e un diametro interno di 2,20 m (che diventano 2,80 con l’anello esterno in bozze di pietra). Esso fu costruito nell’area sommitale della collina (detta del «castello»), per assicurare alla popolazione, in caso d’assedio, la necessaria riserva idrica. Lucio Perone ha voluto riprodurre nell’opera il racconto del recupero della storia della ceramica di Montelupo, cosí come narrata nel Museo della cittadina toscana, riproducendo una figura umana a grandezza naturale che recupera oggetti in ceramica. L’opera è installata direttamente sul Pozzo dei Lavatoi, e si compone di una figura umana in terracotta smaltata e di diversi vasi che coprono la superficie del pozzo. (red.)

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A sinistra, in alto una foto delle prime esplorazioni del Pozzo dei Lavatoi di Montelupo Fiorentino. A destra, dall’alto immagini del Pozzo dei Lavatoi affiancate ai bozzetti elaborati da Lucio Perone per il progetto che ha interessato la struttura, inserito nella sezione «Sculture in città» della rassegna «Materia prima», in corso a Montelupo Fiorentino fino al prossimo 30 giugno. maggio

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ANTE PRIMA

Viva il duca e viva sant’Ilaro! A

dagiato nella pianura romagnola, Lugo è un centro storicamente dedito al commercio. Nell’VIII secolo, il suo territorio cadde sotto il dominio della Chiesa e piú tardi, nel 1437, papa Eugenio IV lo cedette agli Este, che vi tennero il proprio dominio fino al 1598, anno in cui la città tornò sotto lo Stato Pontificio. Gli Este fecero di Lugo il capoluogo della provincia della Romagna Ferrarese. Vi insediarono il proprio governo, guidato da un commissario ducale, rinforzarono il castello, bonificarono vari territori e incrementarono i commerci, in particolare il già fiorente mercato che si teneva ogni mercoledí in piazza della Fiera. Oggi quel florido periodo viene celebrato annualmente, nei giorni intorno al 15 maggio, con la

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Contesa Estense, una rievocazione storica che ha una data di riferimento precisa, il 13 e 14 marzo 1471, quando Borso d’Este, mentre stava recandosi a Roma per ricevere da papa Paolo II il titolo di duca di Ferrara, soggiornò nel castello di Lugo insieme alla sua corte. Per i cittadini furono due giorni di festa.

APPUNTAMENTI •

Torna la Contesa Estense di Lugo, rievocazione che vanta ormai oltre cinque secoli di storia Sulle due pagine, da sinistra due immagini della Contesa Estense di Lugo e un balestriere in gara a Rab, in Croazia.

Tutti in festa per il patrono Ma vi è anche un altro aggancio storico: il manoscritto custodito negli archivi dei Frati Carmelitani che riporta la cronaca dei festeggiamenti per il patrono cittadino, sant’Ilaro, avvenuti nel 1484. Il testo dà conto di messe solenni con musica e canti, processioni religiose, addobbi, baldorie con spari e botti, giochi e corse di cavalli nel Prato della Rocca. maggio

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Dunque, intorno al 15 maggio, festa del patrono sant’Ilaro, va in scena la Contesa Estense, una sfida fra i quattro quartieri cittadini di Rione Madonna delle Stuoie, Rione Brozzi, Rione Cento e Contrada del Ghetto. La competizione si svolge in pieno centro storico, nel Pavaglione, un grande quadriportico costruito sul finire del Cinquecento dagli Este a uso del mercato del baco da seta.

Al ritmo del «parlatore» Le gare in programma sono il Palio dei Musici, il Palio degli Sbandieratori e il Palio della Caveja. Quest’ultimo, il piú importante e sentito, è un tiro alla fune disputato in contemporanea da quattro squadre di sei tiratori. Al centro del campo viene posto un tavolo, sormontato dalla ruota di un carro, nel cui mozzo è infilata una caveja, ovvero un perno di ferro che tratteneva il giogo dei buoi. Dalla ruota partono quattro corde, che i portacolori delle squadre iniziano a tirare, cercando di far cadere la caveja dal proprio lato. Gli sforzi sono coordinati dallo zarladòr (parlatore), che impartisce direttive, consigli e incitamenti. Il rione che ottiene il miglior piazzamento complessivo nelle tre gare vince il Drappo della Contesa Estense. Tiziano Zaccaria

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L’isola dei balestrieri N

el Medioevo gli abitanti dell’isola croata di Rab (Arbe in italiano), si difesero piú volte con le balestre. E, nel 1364, crearono un importante torneo con l’arma da lancio, che si teneva due volte all’anno, in onore di san Cristoforo, il protettore cittadino: il 9 maggio, in occasione del Dies Victoriae, e il 27 luglio, per il Dies Natalis. Ancora oggi il torneo si svolge nelle due giornate prestabilite, aprendosi con l’arrivo del Rettore e della sua scorta nella loggia cittadina, dove attendono i balestrieri, i musicisti e gli alfieri. Accompagnati dal suono dei tamburi e delle campane, tutti i figuranti in costume si dirigono poi verso la Cattedrale, dove ricevono la benedizione; quindi, in piazza San Cristoforo, di fronte alla porta cittadina, il Rettore apre la competizione. Secondo un ordine prestabilito, dodici balestrieri tendono le loro armi e rilasciano le frecce verso il bersaglio. Al termine, il Rettore consegna al vincitore il premio «Felix». Fondata dai Romani, Arbe passò nel VI secolo sotto i Bizantini, per poi sottomettersi nell’anno 1000 alla Repubblica di Venezia. Dal XII al XV secolo cadde anche sotto il dominio del Regno d’Ungheria, prima di tornare, nel 1409, in mano al Doge, restandovi fino al 1797, quando la Repubblica venne assoggettata da Napoleone.

Un patrimonio da scoprire Oggi l’isola è frequentata dai turisti per le vacanze di mare e per i numerosi monumenti. Fuori delle mura cittadine merita una visita il convento francescano di S. Eufemia, che si trova nella parte inferiore della suggestiva baia di Rab. La chiesa omonima risale al XIII secolo, mentre il complesso monastico con chiostro e biblioteca è sorto tutto attorno nei secoli successivi. All’interno delle mura, è da vedere la Torre di San Cristoforo, un punto panoramico sopra l’omonima piazza, da cui si gode di una vista magnifica e dove si trovano la fontana della pastorella Draga e la statua di Kalifront, due personaggi leggendari. Meritano una visita anche la chiesa di S. Giovanni Evangelista, con un campanile dell’XI secolo; S. Giustina, edificata alla fine del XVI secolo, che ospita un museo di arte sacra e la reliquia del teschio di san Cristoforo (XIII secolo); e la cattedrale romanica di S. Maria, consacrata nel 1177 da papa Alessandro III. T. Z.

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre

dei piú importanti protagonisti della pittura del primo Rinascimento italiano, come Mantegna Filippo Lippi, Andrea del Castagno, Paolo Uccello, oltre ai pittori veneziani. Si possono ammirare, eccezionalmente riuniti per l’occasione, dipinti come il polittico di Antonio dalla basilica Eufrasiana di Parenzo – prima opera firmata e datata dal capostipite della bottega –, e tavole realizzate

‘S-HERTOGENBOSCH (PAESI BASSI) JHERONIMUS BOSCH. VISIONI DI UN GENIO Noordbrabants Museum fino all’8 maggio

In occasione del cinquecentenario della morte, la città di Hieronymus Bosch ospita l’evento clou delle celebrazioni in programma. Nato Hieronymus van Aken e ribattezzato Bosch proprio dal nome della località in cui era nato, ‘s-Hertogenbosch, l’artista è riconosciuto come la personalità piú complessa e singolare della pittura fiamminga. Con sottigliezze da miniatore e capacità pittorica ricca di sensibilità coloristica, dipinge quadri gremiti di figure grottesche e allucinanti, spesso mostruose, di uomini e di animali, nei quali sono rappresentati in modo simbolico antichi proverbi, episodi biblici o evangelici, testi mistici medievali, credenze astrologiche o alchimistiche. Una tematica che non può comunque essere interpretata in chiave di pura fantasia o di mero divertimento, ma che ha forse la sua radice nell’aspirazione a contribuire al rinnovamento dei costumi religiosi e a combattere la corruzione. info www.hnbm.nl LISBONA IL DIRITTO IN MOVIMENTO NELL’EUROPA MEDIEVALE: MANOSCRITTI GIURIDICI EUROPEI NELLE BIBLIOTECHE PORTOGHESI Biblioteca Nazionale del Portogallo fino al 31 maggio

Organizzata in collaborazione con alcune delle maggiori biblioteche europee (fra cui quella senese degli Intronati),

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la rassegna riunisce una selezione dei piú pregiati manoscritti giuridici miniati oggi conservati nei fondi portoghesi. Documenti attraverso i quali viene ribadito il pieno inserimento della nazione lusitana nelle dinamiche politiche e nella cultura del Medioevo europeo. Rapporti che furono particolarmente intensi con gli altri regni della Penisola iberica, con la Francia del Sud e con l’Italia e di cui è testimonianza, fra le altre, la diffusa presenza di studenti e docenti portoghesi in molti degli atenei che andavano allora costituendosi, come per esempio quelli di Parigi, Bologna o Salamanca. info www.bnportugal.pt CONEGLIANO (TV) I VIVARINI. LO SPLENDORE DELLA PITTURA TRA GOTICO E RINASCIMENTO Palazzo Sarcinelli fino al 5 giugno

Prima esposizione mai dedicata ai Vivarini, la rassegna presenta un prezioso nucleo di opere fortemente rappresentative del loro percorso artistico e della loro diffusione al di qua e al di là dell’Adriatico. Capolavori che testimoniano altresí i contatti e gli influssi di Antonio, Bartolomeo e Alvise con alcuni

per committenti pugliesi, come la pala da Capodimonte e quella dalla basilica di S. Nicola di Bari (entrambe di Bartolomeo), tra i primissimi e piú originali esempi di pala con Sacra Conversazione a spazio unificato. Prestiti eccezionali per la delicatezza e la qualità delle opere e per il significato che rivestono nell’excursus pittorico dei Vivarini e nel cruciale passaggio dal Gotico al Rinascimento. info tel. 0438 1932123; www.mostravivarini.it, www.civitatrevenezie.it

ZURIGO CONRAD GESSNER 1516–2016 Museo Nazionale Svizzero fino al 19 giugno

Si celebra quest’anno il cinquecentenario della nascita, Conrad Gessner, uno dei maggiori naturalisti elvetici, la cui opera piú famosa, l’Historia animalium, consta di quattro volumi e descrive per la prima volta tutti gli animali allora conosciuti. Punto di riferimento essenziale per generazioni di studiosi, fu un primo passo nel lungo percorso che conduce verso la zoologia moderna. Gessner fu una personalità autorevole anche nel campo della botanica, delle scienze della terra, della medicina, della teologia e della linguistica. Nel complesso, pubblicò oltre 70 opere. Nato nel marzo del 1516, Conrad Gessner fu anche medico municipale. Prendendosi cura delle persone deboli e malate che vivevano a Zurigo fu colpito dalla peste, che lo portò alla morte nel 1565. La mostra realizzata dal Museo Nazionale è allestita in collaborazione con la Biblioteca centrale di Zurigo, che conserva parte del lascito di Gessner. info www.gessner500.ch; www.nationalmuseum.ch

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FORLÍ PIERO DELLA FRANCESCA. INDAGINE SU UN MITO Musei San Domenico fino al 26 giugno

Vede la luce a Forlí un progetto davvero ambizioso: riunire un nucleo adeguato di opere di Piero, artista tanto sommo quanto «raro», è stata infatti un’operazione complessa. E non meno impegnativo si è rivelato l’intento di proporre un confronto con i piú grandi maestri del Rinascimento, tra cui Beato Angelico, Paolo

Uccello, Andrea del Castagno, Filippo Lippi, Francesco Laurana. L’esposizione, inoltre, documenta l’influsso di Piero sulle generazioni di artisti a lui successiva – Marco Zoppo, Francesco del Cossa, Luca Signorelli, Melozzo da Forlí, Antoniazzo Romano e Bartolomeo della Gatta, ma anche Giovanni Bellini – e si spinge oltre, fino a indagare il mito del genio di Sansepolcro quando esso rinasce, dopo i secoli dell’oblio, nel moderno – nei macchiaioli –, e ad analizzare il fascino che la sua pittura ha esercitato su molti maestri europei: da Johann Anton Ramboux o Charles Loyeux, fino alla fondamentale riscoperta inglese del primo Novecento, legata in particolare a Roger Fry, Duncan Grant e al Gruppo di Bloomsbury. info Call Center: tel. 199 15 11 34 (attivo lu-ve, 9,00-18,00; sa, 9,00-12,00); e-mail: mostrapierodellafrancesca @civita.it; www. mostrapierodellafrancesca.com

ASCOLI PICENO FRANCESCO NELL’ARTE. DA CIMABUE A CARAVAGGIO Palazzo dei Capitani, Sala della Ragione fino al 30 giugno

Inserita nel piú ampio contesto delle iniziative culturali che coinvolgono Ascoli per tutto il

2016, la mostra ricorda la figura di san Francesco in occasione dell’ottavo centenario della sua venuta nel Piceno. Nelle Marche, le visite da lui effettuate, il grande seguito che ha raccolto e, soprattutto, la precoce istituzione di conventi maschili

MOSTRE • Primo dialogo, Raffaello e Perugino attorno a due Sposalizi della Vergine Milano, Pinacoteca di Brera, Sala XXIV

fino al 27 giugno info tel. 02 72263.264/229; http://pinacotecabrera.org; prenotazioni: tel. 02 92800361; www.pinacotecabrera.net

L’

accostamento tra la pala con lo Sposalizio della Vergine (1500-1504) del Perugino e la tela con lo Sposalizio della Vergine (1504) di Raffaello, esposto alla Pinacoteca di Brera, compare nella maggior parte dei libri di storia dell’arte, ma, fino a oggi, non era mai stato realizzato «dal vero». L’occasione viene ora fornita dal Primo Dialogo, proposto dalla Pinacoteca milanese, che permette di ammirare lo straordinario confronto tra i due seducenti capolavori, per la prima volta, ed eccezionalmente, posti fianco a fianco. Nell’occasione, si può anche ammirare lo Sposalizio della Vergine (1825) del francese Jean-Baptiste Wicar, incaricato, tra l’altro, della requisizione delle opere in Italia durante l’età napoleonica. Scoprire da vicino l’eccezionale «dialogo» tra il Perugino e Raffaello, che si tiene nella sala XXIV, permette inoltre di vedere il riallestimento delle quattro sale precedenti. Dotate di una nuova illuminazione, nuove tinte alle pareti, un rinnovato sistema di sedute e un nuovo apparato di didascalie, condividono con il pubblico il senso del racconto e dell’ordine della collezione.

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AGENDA DEL MESE e femminili legati alla Regola francescana, nonché l’origine ascolana del primo papa francescano (Niccolò IV, 1288-1292) hanno determinato lo svilupparsi di una intensa iconografia legata alla figura del santo d’Assisi e alle sue vicende. E non è un caso che, proprio nella chiesa di S. Gregorio, nella stessa Ascoli Piceno, si conservi un affresco del XIII secolo nel quale, per la prima volta, viene illustrata la Predica agli uccelli, un tema piú volte rappresentato nei secoli successivi, fino ad assumere la caratteristica di un vero e proprio topos. Grazie ai prestiti concessi dai maggiori musei italiani, la mostra ripercorre l’evoluzione della figura di Francesco nella pittura dal Medioevo alla Controriforma info tel. 0736 298213; e-mail: info@ascolimusei.it; www.ascolimusei.it

a S. Nicola. Si tratta (per ora) di 113 sepolture che hanno restituito arredi-corredo databili perlopiú al XIII-XV secolo, ma con presenze, almeno in due sepolture, coeve al primo impianto della chiesa, di monili altomedievali (VII secolo). info tel 06 9781169; e-mail: museo@comune.colleferro.rm.it BOLOGNA BOLOGNA 1116. DALLA ROCCA IMPERIALE ALLA CITTÀ DEL COMUNE Museo Civico Medievale fino al 17 luglio

COLLEFERRO (ROMA) IL «TESORO» DEI CONTI Museo Archeologico del Territorio Toleriense fino al 30 giugno (prorogata)

Realizzata nell’ambito delle manifestazioni per gli 80 anni dalla nascita del Comune di Colleferro e per l’VIII centenario della morte di Innocenzo III, la mostra espone

i risultati degli scavi nel castello di Piombinara e, in particolare, i materiali provenienti dalla necropoli individuata intorno e all’interno della chiesa castellana, probabilmente dedicata

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Rocca imperiale che i Bolognesi distrussero nel 1115 all’indomani della morte di Matilde di Canossa, signora delle città padane e toscane con vicariato imperiale. La Rocca, di cui il Palazzo Ghisilardi (sede del museo) conserva alcuni notevoli resti murari in seleníte, fu sede dei funzionari matildici, i conti di Bologna, che si opponevano al dinamismo politico ed economico della città ormai da tempo avviata ad affermare l’autonomia comunale. Mentre si consumava anche il conflitto della Lotta per le Investiture, la ribellione dei Bolognesi fu ricomposta nel 1116 dall’imperatore Enrico V, con un diploma che favorí indirettamente l’affermazione del Comune. Il documento, convenzionalmente considerato l’origine del Comune di Bologna, è esposto in mostra nell’originale rilegato nel celebre Registro Grosso. info tel. 051 2193930; www.museibologna.it; http:// nonocentenario.comune.bologna.it MILANO

Organizzata nell’ambito delle celebrazioni per il IX centenario della nascita del Comune di Bologna, la mostra illustra alcuni aspetti sociali e artistici della città agli esordi delle sue istituzioni politiche e culturali. Il progetto mira altresí a valorizzare il patrimonio presente in museo e alcuni importanti prestiti per portare all’attenzione dei visitatori significativi manufatti dei secoli XI, XII e XIII, tra cui sculture, armi, oreficerie, documenti, codici miniati e tessuti. Particolare rilievo viene dato alla città delle Quattro Croci e alla

RESTITUZIONI 2016 Gallerie d’Italia fino al 17 luglio

Dal 1989, con il progetto Restituzioni, Intesa Sanpaolo sostiene finanziariamente, con cadenza biennale, il restauro di opere d’arte appartenenti a musei pubblici, privati o ecclesiastici, siti archeologici e chiese di tutta Italia. La XVII edizione ha permesso il restauro di 54 nuclei di opere d’arte, per un totale di 145 manufatti – appartenenti ai territori di Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia,

Marche, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto –, ora presentati a Milano. Le opere coprono un arco temporale che va dall’antichità al primo Novecento, con esempi di realtà lontane, come l’imponente statua egizia naofora di Amenmes e Reshpu (dal Museo Civico Archeologico di Bologna), una rara armatura giapponese dell’Armeria Reale di Torino o tre rilievi lignei del Monte Calvario di Banskà Štiavnica (Repubblica Slovacca). Nell’ambito della pittura figurano, tra gli altri, dipinti di Francesco del Cossa, Vittore Crivelli e un’eccezionale Adorazione del Bambino di Lorenzo Lotto, nonché la Crocifissione tra la Vergine e San Girolamo, la grande pala d’altare del Perugino. info numero verde 800167619; e-mail: info@gallerieditalia.com; www.gallerieditalia.com CASTROCARO TERME IL ‘900 GUARDA PIERO DELLA FRANCESCA. DISEGNO E COLORE NELL’OPERA DI GRANDI MAESTRI Padiglione delle Feste delle Terme di Castrocaro fino al 17 luglio

Organizzata in parallelo con la mostra forlivese «Piero della Francesca. Indagine su mito», questa esposizione indaga la profonda suggestione maggio

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esercitata dalla pittura dello stesso Piero sull’arte italiana del Novecento. Un’impronta indelebile, sottile ed intrigante, che ha nutrito le poetiche dei grandi artisti esposti, quali Borra, Carrà, Casorati, Campigli, Crivelli, De Chirico, De Pisis, Funi, Garbari, Guidi, Morandi, Morelli, Rosai, Savinio, Severini e Sironi. Disegni e pitture dei grandi protagonisti della cultura figurativa italiana del XX secolo filtrano l’universo pierfrancescano in una mostra che indaga colore, luce, spazio e geometria, presentando copie, studi, omaggi. info tel. 0545 217595 SANSEPOLCRO INDAGINI SULLA RESURREZIONE Museo Civico di Sansepolcro fino al 17 luglio

In quello che è stato definito l’anno di Piero e in occasione della mostra di Forlí «Piero della Francesca indagine su un mito», l’esposizione propone un confronto iconografico sul tema della resurrezione, profondamento legato all’identità stessa di Sansepolcro e magistralmente interpretato da Piero della Francesca nell’opera definita «la piú bella pittura del mondo», attualmente in restauro. La mostra presenta,

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attraverso tre capolavori (il Cristo Risorto di Pietro Lorenzetti, la Resurrezione di Giorgio Vasari e il Polittico della Resurrezione di Marcantonio Aquili) le soluzioni iconografiche adottate tra Trecento e Cinquecento, per cercare di comprendere l’originalità della Resurrezione di Piero della Francesca e di agevolarne la lettura. info tel. 0575 732218; e-mail: museocivico@comune. sansepolcro.ar.it; www.museocivicosansepolcro.it FIRENZE FECE DI SCOLTURA DI LEGNAME E COLORÍ. LA SCULTURA DEL QUATTROCENTO IN LEGNO DIPINTO A FIRENZE Galleria degli Uffizi fino al 28 agosto

Avvalendosi di una quarantina di opere, la mostra documenta la vicenda della scultura in legno dipinto del Quattrocento fiorentino. In linea col primato artistico della scultura, essa costituí un modello imprescindibile per tutti gli artisti. Infatti, un tema come quello del corpo sofferente sulla croce, espresso con un nuovo naturalismo nei crocifissi di Donatello e Brunelleschi, fu oggetto di riferimento per l’espressione artistica delle successive

generazioni. Il Vasari, poco incline nel tessere le lodi della scultura in legno dipinto, perché a tale materiale non «si dà mai la freschezza del marmo», nell’elenco di sculture lignee elencate nelle Vite, le classifica per la loro funzione devozionale nella quale sembra esaurirsi ogni apprezzamento. A Firenze, accanto alla qualificata produzione di crocifissi, si intagliarono anche statue della Madonna, di sante e santi eremiti dai corpi tormentati o preservati dal dolore, busti-ritratto, statue al centro di polittici misti e statue per l’arredo liturgico. info tel. 055 23885 PARIGI GLI SMALTI DI LIMOGES A DECORO PROFANO. INTORNO ALLE COLLEZIONI DEL CARDINALE GUALA BICCHIERI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 29 agosto

Frutto di un progetto ideato e realizzato con il Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica di Torino (dove verrà ospitata nel prossimo autunno), la mostra riunisce una quarantina di opere, scelte fra la collezione permanente dello stesso Museo di Cluny e altre raccolte francesi ed europee. La presenza piú significativa è quella del cofano del cardinale Guala Bicchieri, realizzato dalle manifatture di Limoges intorno al 1200-1225 e decorato con medaglioni raffiguranti combattimenti fra animali reali e fantastici, giochi cavallereschi e scene cortesi: si tratta, infatti, della prima esposizione

fuori dall’Italia del manufatto, acquisito nel 2004 dal museo torinese di Palazzo Madama. Accanto a questo capolavoro, si possono ammirare candelabri, bacili, cassette e cofanetti decorati che documentano la produzione limosina profana, meno nota di quella sacra, ma non per questo meno prestigiosa. info www.musee-moyenage.fr ROMA SANTA MARIA ANTIQUA. TRA ROMA E BISANZIO Foro Romano, Basilica di S. Maria Antiqua fino all’11 settembre

Dopo oltre trent’anni, riapre al pubblico S. Maria Antiqua, la basilica nel Foro Romano scoperta nel 1900 alle pendici del Palatino. La chiesa conserva sulle sue pareti un patrimonio di pitture unico nel mondo cristiano del primo millennio, databile dal VI al IX secolo, quando fu abbandonata a seguito dei crolli causati dal terremoto dell’847. Resta eccezionale testimonianza nello sviluppo della pittura non solo romana, ma di tutto il mondo greco bizantino contemporaneo: l’iconoclastia, infatti, cancellò gran parte delle immagini sacre di quell’epoca. Chiusa dagli anni Ottanta per un

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AGENDA DEL MESE complesso intervento architettonico proseguito con il restauro delle pitture, alla riapertura completa della chiesa – aperta in precedenza solo per brevi periodi con visita guidata ai cantieri – si accompagna un’esposizione che è «mostra» del monumento stesso, perché gravita intorno al ruolo che

guerresca. Attingendo alla propria collezione permanente e grazie a importanti prestiti, il museo olandese presenta oltre 200 esemplari di spada, che includono armi cerimoniali e lame da stocco, nonché ferri di particolare valore storico, come le armi di fabbricazione vichinga provenienti dal sito di Dorestad, sulle quali è possibile leggere il nome dall’artigiano che le forgiò. info www.rmo.nl VENEZIA VENEZIA, GLI EBREI E L’EUROPA. 1516-2016 Palazzo Ducale, Appartamenti del Doge fino al 13 novembre (dal 19 giugno)

l’edificio, con i suoi dipinti, ha giocato nel Foro Romano post-classico cristianizzato e al rapporto con la Roma altomedievale, là dove si andavano concentrando la vita religiosa e i servizi pubblici di approvvigionamento per cittadini e pellegrini. info tel. 06 699841; prenotazioni: tel. 06 39967700; www.coopculture.it LEIDA STORIE AFFILATE Rijksmuseum van Oudheden fino al 2 ottobre

I nuovi spazi per mostre temporanee del Rijksmuseum van Oudheden di Leida sono stati inaugurati con l’allestimento di ben quattro esposizioni, una delle quali ripercorre la storia della spada, sottolineando, in particolare, il ruolo simbolico assegnato all’arma fin dalle epoche piú antiche, che è stato forse ancor piú rilevante di quello giocato nella pratica

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Organizzata per il cinquecentenario dell’istituzione del Ghetto di Venezia, la mostra descrive i processi che sono alla base della realizzazione e della nascita del primo «recinto» destinato agli Ebrei creato al mondo, ma, nel contempo, allarga lo sguardo alle relazioni stabilite con il contesto degli altri quartieri ebraici (e non solo) italiani ed europei. Obiettivo dell’iniziativa è quello di mettere in luce la ricchezza dei rapporti tra Ebrei e Venezia, tra Ebrei e società civile nei

diversi periodi della loro permanenza in laguna, in area veneta e in area europea e mediterranea. Dipinti, disegni, libri, documenti, ricostruzioni multimediali raccontano una lunga storia di relazioni e di scambi culturali. L’obiettivo è quello di divulgare una maggiore consapevolezza delle diversità culturali esistenti in Europa e della commistione di saperi, conoscenze, abitudini che ne costituiscono il principale patrimonio. info tel. 041 2715911; e-mail: info@fmcvenezia.it; http://palazzoducale.visitmuve.it CASTEL DEL MONTE MATEMATICA E BELLEZZA. FIBONACCI E IL NUMERO AUREO fino al 15 novembre

Nell’immaginario collettivo, l’arte e la matemetica sembrano viaggiare su strade parallele, ma sono in realtà strettamente connesse tra loro. Dal loro connubio nasce questa mostra, che trova in Castel del Monte la sua collocazione ideale, considerando come nell’idea costruttiva di Federico II la proporzione numerica si sia manifestata al suo livello piú elevato. La rassegna presenta le riproduzioni di capolavori di

Botticelli, Giorgione, Giotto, Leonardo da Vinci e una planimetria di Castel del Monte e del suo portale, poste in relazione con opere di artisti contemporanei quali Alberto Biasi, Gregorio Botta, Bruno Ceccobelli, Giorgio de Chirico, Piero Guccione, Giacomo Manzú, Piero Pizzi Cannella e Oliviero Rainaldi. info tel. 0883 569997; www. casteldelmonte.beniculturali.it PERUGIA I TESORI DELLA FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI PERUGIA E IL CARAVAGGISMO NELLE COLLEZIONI DI PERUGIA Palazzo Lippi Alessandri fino al 20 novembre

L’esposizione marca i vent’anni di collezionismo della Fondazione Cassa di

Risparmio di Perugia e ne propone le opere d’arte acquisite. Si tratta di oltre 50 dipinti di grande rilievo, rappresentativi non solo delle esperienze artistiche che si affermano in Umbria nell’arco di quattro secoli, dal Trecento al Settecento, ma anche di altri aspetti della cultura figurativa italiana dal Rinascimento al Barocco. Nelle stesse date e nello stesso spazio espositivo, è inoltre allestita la rassegna dedicata al caravaggismo nelle collezioni di Perugia. Una maggio

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doppia occasione, quindi, per ammirare le opere piú importanti della collezione della Fondazione Cassa di Risparmio e una mirata selezione di dipinti caravaggeschi appartenenti a collezioni pubbliche e private del capoluogo umbro. info: tel. 075. 5724563; e-mail: info@fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte.it BASSANO DEL GRAPPA IL MAGNIFICO GUERRIERO. BASSANO A BASSANO Civici Musei fino al 31 gennaio 2017

Il Magnifico Guerriero di Jacopo Bassano si offre all’ammirazione del pubblico grazie al comodato gratuito accordato dal suo possessore ai Civici Musei bassanesi. Il dipinto ritrae un affascinante nobiluomo dalla fulva, curatissima barba. Non un giovane ma un uomo maturo, certo aduso al comando, ma, soprattutto, a una vita raffinata lontano dai campi di battaglia. Indossa una preziosa corazza alla moda dell’epoca, che lo costringe, ma che non riesce a ingabbiarne la grazia e la flessibilità. Le lunghe dita, curate e perfette, non sembrano le piú adatte a menar fendenti, cosí come il suo spadino di ferro e oro sembra piú da parata che da battaglia. Secondo Vittoria Romani dell’Università di Padova, studiosa alla quale va il merito di avere ricondotto a Jacopo Bassano questo autentico capolavoro già attributo a Veronese e a Pordenone, il ritratto è databile agli anni immediatamente seguenti il 1550, ovvero al momento piú altamente manierista del maestro. info tel. 0424 519.901-904; e-mail: info@museibassano.it; www.museibassano.it

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Appuntamenti

Giunta alla sua sesta edizione, l’iniziativa apre al pubblico oltre 250 fra le piú affascinanti residenze d’epoca italiane. Oltre a ribadire l’importanza della conservazione dei beni culturali privati soggetti a vincolo, la rassegna pone quest’anno l’accento sulla conoscenza delle eccellenze eno-gastronomiche, quali vini e olii di grande pregio e tradizione, che spesso negli stessi luoghi, in tenute e cantine storiche, vengono prodotti. In ogni regione il programma del fine settimana dedicato all’arte e alla cultura si arricchisce anche di numerosi eventi culturali, quali concerti, convegni, mostre d’arte e spettacoli teatrali. info www.adsi.it

FERRARA EDITOR ED EDITING NELLA DIVULGAZIONE: DAL TESTO ALL’EDITORIA DIGITALE. CORSO INTENSIVO Università degli Studi 7-22 maggio

Offrire competenze di base per svolgere l’attività di editor in una rivista di divulgazione. A questa professione è orientato il Corso Intensivo organizzato con modalità didattica on line dall’Università di Ferrara. Al termine del corso, tramite una panoramica sulla lavorazione di un articolo – revisione, ricerca iconografica, correzione di bozze, impaginazione – gli studenti saranno in grado di individuare le fasi del processo attraverso le quali un testo diventa una pubblicazione editoriale, e conosceranno sia le norme redazionali e tipografiche piú comuni per la correzione delle bozze, sia le tecniche di base dell’impaginazione. info tel. 0532 2935.26-28; http://sea.unife.it; e-mail: tutoratosea@unife.it ROMANS D’ISONZO (GORIZIA) ROMANS LANGOBARDORUM, IV EDIZIONE «AI CONFINI DEL REGNO» 20-22 maggio

La rievocazione storica verte quest’anno sulla vita e gli avvenimenti nella fara di Romans e nel ducato del Friuli: una scelta con cui si vuole dare risalto al trentesimo anniversario dalla scoperta

della grande necropoli longobarda rinvenuta nelle campagne di Romans, nel 1986. Come negli anni passati, la rassegna si svolge presso i laghetti FIPSAS di Romans d’Isonzo, dove saranno anche allestiti un’area conferenze, un’area ristoro e un’area didattica. È prevista la partecipazione di 12 gruppi di rievocazione storica, provenienti dall’Italia e dall’estero. info www.invictilupi.org

PISTOIA DIALOGHI SULL’UOMO 27-29 maggio

Evento ormai consolidato, il festival di antropologia del contemporaneo pistoiese è giunto alla sua settima edizione, che ha come filo conduttore «L’umanità in

ITALIA GIORNATE NAZIONALI A.D.S.I. Sedi varie 21-22 maggio

gioco», tema che verrà sviluppato nei tre giorni della rassegna in 25 appuntamenti, tra incontri, spettacoli, conferenze e dialoghi. Lo storico Johan Huizinga scrisse che «la cultura sorge in forma ludica» (Homo ludens) e, dunque, come ha detto Umberto Eco «il gioco è il momento della piú grande e piú preoccupata serietà». Il gioco non è solo una sopravvivenza di epoche

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AGENDA DEL MESE APPUNTAMENTI • Il Piacere della scoperta. Dentro il cantiere con gli studiosi e i restauratori di Lorenzetti Siena, Santa Maria della Scala

fino al 26 giugno info tel. 0577 286300; e-mail: ambrogiolorenzettisms@operalaboratori.com

ALVIANO (TERNI)

L’

allestimento del cantiere di restauro di alcune opere di Ambrogio Lorenzetti rappresenta un’occasione unica di conoscenza della pittura dell’artista da parte del pubblico, ma è anche un ideale «cantiere di ricerca» per gli studiosi del settore. Accanto ai restauratori, è stato infatti istituito un gruppo di lavoro formato da giovani studiosi di storia dell’arte medievale dell’Università di Siena, coordinati dai curatori scientifici del progetto su Ambrogio Lorenzetti. Il gruppo di lavoro ha il compito di studiare le opere di Ambrogio Lorenzetti da molteplici punti di vista (linguaggio figurativo, iconografia, committenza, ricostruzione di contesti perduti, conservazione delle opere, loro fortuna storiografica, ecc.) e, al termine del lavoro di ricerca, redigerà i testi del catalogo scientifico che accompagnerà la mostra programmata per il 2017. Tutti i sabati, alle 10,30, il Santa Maria della Scala offre ai visitatori l’opportunità di incontrare i restauratori degli affreschi di Ambrogio Lorenzetti che illustrano al pubblico i risultati del lavoro in corso e lo accompagneranno nella visita al cantiere alla scoperta delle opere.

antiche e neppure solo un’attività da bambini. Il gioco è al centro della cultura perché è attraverso la simulazione, la finzione, il prefigurare situazioni che si costruisce umanità. Appositamente per i Dialoghi, Ferdinando Scianna realizzerà la mostra fotografica personale «In gioco», ispirata al tema del festival, che si terrà dal 27 maggio al 3 luglio presso le sale affrescate del Palazzo Comunale di Pistoia. info www.dialoghisulluomo.it BRISIGHELLA (RAVENNA) FESTE MEDIOEVALI Rocca di Brisighella 2-5 giugno

La rocca che domina il borgo di Brisighella rivive le sue origini medioevali in quattro intense giornate, nelle quali si tornerà indietro nel tempo grazie a un ricco programma di animazioni, intrattenimenti, spettacoli a tema. Fra le molte attrazioni previste, vi saranno laboratori per attività artigiane e un accampamento militare

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SIENA LAUDETUR, FESTIVAL MUSICALE III EDIZIONE Cattedrale 6 maggio, 9 giugno

tardo-medievale ai piedi delle mura; un’esposizione di armi medievali; animazioni e intrattenimenti con giullari, cantastorie e musici; duelli e scontri d’armi fra compagnie di rievocazione storica. Giovedí 2 e venerdí 3 giugno l’evento ospiterà anche il primo Torneo d’arme Castrum Gypsi, premio di singolar tenzone che vedrà i partecipanti cimentarsi in duelli rievocativi e non solo, al ritmo incalzante dei Tamburi Medioevali di Brisighella. info tel. 0546 81166; e-mail: iat.brisighella@racine.ra.it; www.brisighella.org

Sole, un progetto musicale nato per il Giubileo nel Duemila e che trae ispirazione dal Cantico delle Creature. info http://operaduomo.siena.it

Proseguono gli appuntamenti organizzati nella Cattedrale senese, spaziando dalla musica sacra al repertorio classico. Il 6 maggio è di scena Jordi Savall, il quale, insieme a Hesperion XXI e a La Capella Reial de Calalunya, esegue Canti e danze in onore della Vergine Nera dal monastero di Monserrat dal Llibre Vermell de Montserrat. Il 9 giugno toccherà invece ad Angelo Branduardi, che presenterà il suo Da Francesco a Francesco-Il cantico di Frate

«IMPAZIENTE DELLA QUIETE». BARTOLOMEO D’ALVIANO, LE FORTUNE DI UN CONDOTTIERO NELL’ITALIA DEL RINASCIMENTO (1455-1515) Rocca di Alviano e altre sedi fino al 12 novembre

A cinquecento anni dalla scomparsa, Bartolomeo d’Alviano (1455-1515), uno dei piú insigni condottieri del Rinascimento, viene ricordato con un ciclo di conferenze che ripercorrono i momenti decisivi della vita di un personaggio che volle essere protagonista di un’epoca di grandi trasformazioni. Questi i prossimi appuntamenti: Todi, Palazzo Comunale, 28 maggio, ore 17,30: Bartolomeo d’Alviano, Todi e l’Umbria tra XV e XVI secolo (Filippo Orsini, Archivio storico comunale di Todi);

Acquasparta, Palazzo Cesi, 18 giugno, ore 16,30: L’affare delle armi. Le condotte militari tra Medioevo ed età moderna (Manuel Vaquero Piñeiro, Università degli Studi di Perugia); Le donne dei condottieri: Isabella d’Alviano e la complessa storia di un’eredità (Nadia Bagnarini, Università degli Studi di Siena). info tel 0744 904421; e-mail: bartolomeo500anni@gmail.com; www.comune.alviano.tr.it maggio

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protagonisti egidio de albornoz

Un Castigliano di ferro di Luca Pesante

Nel 1353, per decisione di papa Innocenzo VI, Egidio de Albornoz viene nominato legato in Italia e vicario generale della Chiesa. Forte di quella veste, il cardinale spagnolo si trasforma in un vero e proprio braccio armato dello Stato Pontificio e si impegna nella ÂŤriconquistaÂť dei suoi possedimenti

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ersonaggio emblematico della storia medievale, il cardinale Albornoz è una figura a molti «familiare», soprattutto per chi vive in una delle numerose città dell’Italia centro-settentrionale – un tempo appartenenenti allo Stato della Chiesa –, di cui il prelato castigliano rimodellò il volto. Luoghi nei quali la sua memoria sopravvive nel nome di una rocca o di una fortificazione. Alla metà del XIV secolo – nel pieno della crisi economica, politica e sociale causata dalla peste del 1348 –, Egidio de Albornoz, spesso visto come il secondo «fondatore» dello Stato ecclesiastico e il vero creatore della monarchia pontificia in Italia, viene incaricato da un papa residente ad Avignone, Innocenzo VI (Étienne Aubert, 1282-1362), di riconquistare lo Stato della Chiesa, ormai dissolto e sottrattosi al controllo del suo sovrano, per ricondurlo sotto l’autorità pontificia. Il papa Sulle due pagine Assisi. La Rocca Maggiore, ricostruita per volere di Egidio de Albornoz alla metà del XIV sec. A destra copia del ritratto di Egidio de Albornoz realizzato da Matías Moreno Gonzaléz. 1878. Madrid, Museo del Prado.

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aveva probabilmente conosciuto il cardinale già ai tempi in cui insegnava diritto a Tolosa, dove l’Albornoz compí i suoi studi universitari, ma ebbe modo di apprezzarne le doti militari in occasione delle guerre contro i Saraceni in Andalusia, in particolare ad Algeciras (1344) e Gibilterra (1350). Il 30 giugno 1353, dunque, dal Palazzo dei Papi di Avignone, Innocenzo VI nominò Egidio de Albornoz legato in Italia e vicario generale dei domini della Chiesa: con tale incarico, nelle sue mani si concentrava un potere mai prima raggiunto da un cardinale.

L’azione del cardinale mirava, in realtà, alla definizione e al riconoscimento degli innumerevoli potentati disseminati nello Stato, esigendo in cambio (molto spesso ottenendolo con la forza) una sottomissione almeno formale – e fiscale – al governo pontificio e un giuramento di fedeltà al papa. Non si trattò di un’operazione semplice, e non erano molti gli uomini in possesso di doti militari e diplomatiche tali da permettere loro di adattarsi a situazioni di volta in volta differenti.

Mai a Roma

L’Albornoz non mise mai piede a Roma e ciò darebbe credito alla tesi di chi sostiene che egli non volle, né poté ideare uno Stato unitario e accentrato in vista di un ritorno del pontefice a Roma. Il periodo avignonese (1308-1377) fece registrare un forte declino nello Stato della Chiesa: di fatto, i rettori e i vicari nominati dal papa esercitavano un potere solo apparente.

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protagonisti egidio de albornoz Dopo l’intervento dell’Albornoz, Viterbo e Orvieto prima, Spoleto, Assisi, Narni e infine Todi – per restare nell’Italia centrale – mostrarono quelle rocche che, simbolo del nuovo e restaurato potere, dominavano le città, sia metaforicamente che materialmente. All’indomani della morte del cardinale, la situazione politica cambiò nuovamente e quei presidi furono in parte abbandonati, fino al secolo successivo, quando i papi tornarono a fortificarli, adibendoli a funzioni nuove, adatte a un mutato scenario. L’azione del cardinale fu ostacolata, fra gli altri, dagli intrighi orditi presso Innocenzo VI da Bernabò Visconti (1323-1385), signore di Milano, il quale nutriva la speranza di riottenere il vicariato di Bologna, all’epoca detenuto da Giovanni di Oleggio, offrendo in cambio la propria mediazione contro gli Ordelaffi, signori di Forlí e Cesena. Il papa si lasciò ingannare e, nell’autunno 1357, dopo non pochi tentennamenti, inviò da Avignone un biglietto all’Albornoz – che questi ricevette il 17 marzo 1358 –, nel

UOMO DI FEDE E D’AZIONE 1310 Nasce a Cuenca (Nuova Castiglia), da una famiglia della piccola nobiltà spagnola. 1338 Viene investito arcivescovo di Toledo. 1344 Partecipa alla battaglia di Algeciras. 1350 Partecipa alla battaglia di Gibilterra. Viene investito cardinale di S. Clemente da papa Clemente VI. 1352 Il 18 dicembre subentra al neoletto papa Innocenzo VI a capo della Penitenzieria apostolica. 1353 Il 30 giugno Innocenzo VI lo nomina legato in Italia (escluso il Regno di Sicilia) e vicario generale nei domini della Chiesa. 1354 Scontrandosi con Giovanni di Vico ottiene Viterbo, Corneto (l’odierna Tarquinia) e Orvieto. Convoca in Montefiascone il parlamento provinciale. 1355 Con un’offensiva contro i Malatesta, ottiene Spoleto, Gualdo e Bettona, sottraendole all’influenza di Perugia. 1356 Sottomette Faenza, sconfiggendo il signore locale Guido Manfredi. In dicembre diviene cardinale vescovo di Sabina. 1357 Il 29 aprile convoca a Fano il parlamento generale di tutte le province della Chiesa e promulga il Liber constitutionum sanctae matris Ecclesiae. Sollevato dalla carica di legato, in settembre si sposta ad Avignone, dove regge la Penitenzieria apostolica. 1358 Il 18 settembre viene nuovamente incaricato della legazione in Italia. 1359 In aprile Innocenzo VI lo nomina legato nel Regno di Sicilia. Sconfigge Francesco Ordelaffi, signore di Forlí e Cesena, sottomettendo i suoi domini.

In alto stemma cardinalizio di Egidio de Albornoz. A sinistra una miniatura dal Regestum recognitionum et iuramentorum fidelitatis civitatum sub Innocentio VI. L’Albornoz riceve le chiavi delle città che ha sottomesso, al cospetto del suo esercito vittorioso. Roma, Archivio Segreto Vaticano.

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1360 Il 15 marzo Bologna issa le insegne della Chiesa. L’Albornoz entra ufficialmente in città il 2 ottobre. 1362 In settembre muore Innocenzo VI e gli succede Urbano V. 1364 Istituisce a Bologna il collegio di S. Clemente o Collegio di Spagna, istituzione tuttora attiva. 1365 In agosto si reca nel Regno di Sicilia in veste di legato. 1366 Informato della minaccia rappresentata da Giovanni Acuto per lo Stato della Chiesa, il 7 luglio rientra velocemente ad Ancona. 1367 Sottrae definitivamente al controllo di Perugia i centri di Assisi, Nocera e Gualdo. Il 4 giugno papa Urbano V può rientrare in Italia e sbarca a Corneto, per poi stabilirsi nella rocca di Viterbo. 1367 Il 23 agosto muore nella bastita di Buonriposo presso Viterbo. Viene seppellito ad Assisi nella chiesa inferiore di S. Francesco. 1372 Le sue spoglie vengono traslate a spalla d’uomo da Assisi a Toledo e deposte in un sarcofago nella cattedrale cittadina.

Forlimpopoli. Veduta del castello. Fu edificato dal 1360 al 1365 sulle rovine di edifici preesistenti, tra cui l’antica cattedrale, fatti demolire dall’Albornoz dopo la riconquista della città.

tura amministrativa provinciale e le rocche divennero i cardini del nuovo ordinamento territoriale. Il governo centrale della provincia era affidato al rettore, rappresentante diretto del pontefice, mentre, a livello locale, l’esercizio del governo era affidato ai castellani, inviati in tutti i centri nei quali si esercitava il dominio diretto della Chiesa. I rettori erano di nomina pontificia (si trattava perlopiú di ecclesiastici) e, incaricati della piena funzione giudiziale civile e criminale, avevano la responsabilità del mantenimento dell’ordine nella provincia e della sua fedeltà a San Pietro. Li assistevano di regola quattro giudici, per le materie ecclesiastiche, per le cause di appello, per i processi criminali e per quelli civili di prima istanza, e un certo numero di consiglieri, scelti fra gli abitanti della provincia.

Duplice funzione quale si preannunciava l’arrivo, in missione speciale, di Androino della Rocca, abate di Cluny.

Il ritorno ad Avignone

In realtà, la missione consisteva nel sospendere l’attività del cardinale castigliano, sostituendolo con qualcuno piú favorevole ai Visconti, come in effetti era l’abate. Il quale, però, si rivelò ben presto pressoché incapace di comprendere la complessità dei meccanismi della riconquista messa in moto dal legato. L’Albornoz lasciò l’Italia, nonostante il pontefice lo avesse incaricato di istradare il sostituto al difficile compito, e il 24 ottobre giunse ad Avignone, dove tornò a reggere la Penitenzieria apostolica.

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Bastarono pochi mesi perché le conquiste del cardinale risultassero compromesse, al punto che, allo scadere di un anno, il 18 settembre 1358, Innocenzo VI decise di riassegnare al castigliano l’incarico di legato in Italia. Molte delle rocche «albornoziane» esistevano in realtà già prima dell’arrivo del cardinale spagnolo; oltre a ospitare un presidio armato, fungevano anche come sede del rappresentante del papa (chiamato castellano oppure vicario) e testimoniavano la forza della Chiesa di Roma all’interno del vasto territorio che essa rivendicava al suo dominio. Dal pontificato di Innocenzo III (1161-1216), i domini ecclesiastici erano stati inquadrati nella strut-

Le fortezze albornoziane dovevano servire anche al controllo dell’ordine pubblico, soprattutto nel caso delle frequenti ribellioni causate dal malcontento per la pressione fiscale e organizzate dai nemici della Chiesa. La loro posizione era dunque funzionale anche a tale scopo: sorsero generalmente nei punti di sommità, nel caso di centri di altura, o accanto alle porte di accesso principale delle città, come per esempio a Viterbo. Se per buona parte del Duecento furono i contrasti fra papato e impero ad accendere rivolte di questo tipo, nel secolo successivo furono l’aspirazione all’autonomia dei Comuni e i loro progetti di espansione territoriale ad accentuare la tensione con il governo centrale. Le guarnigioni di stanza nelle rocche erano

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protagonisti egidio de albornoz Le rocche albornoziane Forlimpopoli detta rocca Salvaterra, viene edificata fra il 1361 e il 1363 sulle rovine della città di Forlimpopoli, rasa al suolo per rappresaglia. Viterbo edificata dal 1354 al 1361. Orvieto edificata a partire dal 1359. Spoleto realizzata dal 1362 fino al 1367. Piediluco rocca preesistente fatta rinforzare a partire dal 1364. Sassoferrato edificata nel 1365. Fabriano edificata nel 1365. Assisi viene riadattata nel 1367 su un castello preesistente. Todi costruita a partire dal 1367. Narni eretta a partire dal 1367. Particolare del monumento equestre a Bernabò Visconti, opera in marmo di Bonino da Campione. 1363. Milano, Castello Sforzesco.

perciò molto attive nel controllo dei diritti e ancor piú dei doveri dei cittadini, come per esempio il corretto pagamento delle imposte. Tuttavia, non sempre riuscivano nel loro intento. Nel dicembre del 1351 gli abitanti di Montefiascone, sede del rettore e della curia provinciale, proprio quando l’offensiva di Giovanni di Vico contro i domini pontifici era segnata da una serie di inarrestabili successi, pensarono di passare dalla parte di quest’ultimo e, nella notte, cambiarono tutte le serrature della rocca, in modo da impedirne l’uscita al rettore e ai suoi uomini.

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Orvieto, la rocca albornoziana. Nei secoli successivi alla sua costruzione, la fortezza fu piú volte rimaneggiata. Nel corso del XVI sec., Clemente VII ne affidò la fortificazione a Antonio da Sangallo, il quale vi realizzò anche il noto pozzo artesiano di San Patrizio.

In occasione della campagna condotta dall’Albornoz, la rocca di Montefiascone, oltre che sede del rettore della Provincia, era un enorme deposito di armi: per la riconquista delle terre occupate da Giovanni di Vico, vi transitarono oltre 67 000 verrettoni da balestra acquistati a Perugia, Siena, Pistoia e Firenze. E lí erano custodite anche le macchine ossidionali, come i trabucchi.

Un fine stratega

L’impresa dell’Albornoz fu preceduta dai fallimentari tentativi di vari legati pontifici di ricondurre sotto il potere della Chiesa le città e i signori ribelli. Egidio de Albornoz, invece – che si era formato alla cancelleria del re Alfonso XI di Castiglia (1311-1350) e sui campi di battaglia della crociata contro i musulmani –, riuniva in sé abilità diplomatica e talento militare. E lo dimostrò già dai primi momenti quando, appena nominato, non si diresse verso il Patrimonio, dal quale sarebbe dovuta iniziare la sua opera di riconquista, bensí a Milano, dove andò a cercare l’appoggio di Giovanni Visconti nella guerra con Giovanni di Vico. Dopo Milano fece tappa nei tre Comuni della Lega guelfa (Firenze, Siena e Perugia): la città del giglio gli concesse 150 cavalieri e il capi-

Ugolino da Montemarte

Il braccio destro del cardinale Nato probabilmente a Orvieto, nel 1325, Ugolino era figlio di Petruccio, conte di Montemarte, uno dei protagonisti delle lotte tra fazioni che dilaniavano la città umbra nella prima metà del XIV secolo. Fin da giovanissimo, venne inviato per conto degli Orvietani in missioni nelle vicine città della Provincia e nel 1353, quando si trovava a Firenze come capitano di una guarnigione al

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servizio del Comune, venne notato dal cardinale Egidio de Albornoz, che subito ne fece uno dei suoi collaboratori piú fidati. Negli anni seguenti, la sua attività si svolse interamente nel quadro delle azioni condotte dal legato pontificio nello Stato della Chiesa. Nominato piú volte vicario e rettore entro l’ordinamento territoriale dello Stato (vicario di Ancona, di

Faenza, rettore del Ducato di Spoleto, vicerettore della Romagna), Ugolino risulta spesso impegnato anche come architetto e sovrintendente alla costruzione delle rocche albornoziane. Al contempo, si adoperò per incrementare le proprietà fondiare di famiglia, acquisendo, tra gli altri, i centri di Fabro, Cetona, San Casciano, Montegabbione. Morí a Corbara, il 19 febbraio 1388.

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protagonisti egidio de albornoz Montefiascone. Una veduta della rocca dei papi. Sede del rettore del Patrimonio di San Pietro e fortezza inespugnabile, la rocca fu anche il principale arsenale delle milizie papali impiegate dall’Albornoz.

tano Ugolino da Montemarte (1325 circa-1388) – destinato a diventare uno dei suoi collaboratori piú fidati –, i Senesi gli affiancarono 100 cavalieri e 200 i Perugini. Il cardinale dimostrava di conoscere bene le vicende della politica interna italiana e di sapere come regolare i rapporti di forza a suo favore. Nei confronti dei signori ribelli, cercò sempre l’accordo, a differenza dei suoi predecessori, piú orientati alla repressione. In alcuni casi molti di loro furono riconfermati nelle loro posizione di potere. L’Albornoz era infatti ben consapevole di come, nell’Italia della metà del XIV secolo, il municipalismo comunale fosse in piena crisi di fronte all’avanzata del modello di governo signorile, ampiamente diffuso nelle terre della Chiesa, e come pertanto ciascun Comune fosse legato alla Chiesa da rapporti di volta in volta diversi.

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Nel progetto del cardinale, il ruolo delle rocche andava quindi inquadrato in un rinnovato rapporto di forze, in cui il potere centrale e l’amministrazione provinciale avrebbero dovuto avere un peso maggiore.

Fortificare per umiliare

Nella provincia del Patrimonio, i registri del tesoriere degli anni 13531362 sono fitti di spese per lavori edilizi: restauri, fortificazioni, ricostruzioni, e opere ex novo. I lavori riguardano non solo i territori posti sui confini delle province, ma anche le zone interne, dove i poteri locali rendevano necessaria una forte struttura difensiva, oppure lungo i passi appenninici, come nel caso della fortificazione di Casteldurante (oggi Urbania). Non si deve tuttavia dimenticare che, oltre alla forza militare, tali strutture esprimevano

un fortissimo significato simbolico. Quando una comunità opponeva una forte resistenza al potere centrale della Chiesa, la costruzione della rocca divenne un forte segno di umiliazione. Il caso di Forlimpopoli è emblematico: nel 1359, l’Albornoz sventò un attentato ordito ai suoi danni dagli abitanti della città; l’anno successivo iniziò la costruzione di un’imponente rocca e, per farle posto, distrusse il palazzo vescovile. Nel 1361 il popolo si schierò con Francesco Ordelaffi, il potente signore di Forlí e Cesena – piú volte scomunicato –, contro il quale la Chiesa aveva bandito una durissima crociata. A quel punto, il cardinale castigliano decise di radere al suolo la città e deportare altrove i suoi abitanti: fu demolita dapprima la cattedrale, le reliquie di san Ruffillo vennero trasportate a Forlí, poi maggio

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giovanni di vico

Un avversario irriducibile Assunta la carica di prefetto di Roma alla morte del padre, nel 1337, Giovanni di Vico, postosi a capo di una banda di Ghibellini, approfittò dell’estrema debolezza delle istituzioni comunali per imporre la propria autorità nella provincia del Patrimonio. Nel 1338, a Viterbo, uccise il fratello Faziolo, che era invece rimasto fedele al pontefice: divenne signore della città e fu nominato vicario dell’imperatore Ludovico nelle terre del Patrimonio. Giovanni cercò quindi di estendere il proprio dominio, costruendo fortezze nel territorio circostante o appoggiando fazioni ghibelline contrarie al dominio della

Chiesa. Nel 1345 intervenne a Orvieto, nella dura lotta contro il rettore e le famiglie a lui alleate. Nel 1347 fu chiamato da Cola di Rienzo in Campidoglio, per rendere conto del proprio operato e dei tributi da versare alla Chiesa sulla base dei suoi possedimenti. Giovanni rifiutò ogni accordo e fu quindi deposto dalla carica di prefetto, nuovamente scomunicato e attaccato da un esercito di fanti e cavalieri provenienti da tutto il Patrimonio: Viterbo fu assediata e il ribelle costretto alla resa. Ma la sua attività di usurpazione ai danni dei territori della Chiesa non si fermò: nel 1352 conquistò la

seconda città piú importante della provincia, Orvieto. Con l’avvento di Egidio de Albornoz, Giovanni ridimensionò le proprie ambizioni. Su pressione dei Visconti, signori di Milano, fece atto di omaggio al cardinale, impegnandosi a restituire le terre occupate. Tuttavia, non si arrese subito e, dopo altri tentativi di opporsi all’Albornoz, soltanto il 5 giugno del 1354, con il trattato firmato a Montefiascone (dopo una guerra finanziata con denari giunti da Avignone) Giovanni riconsegnò Viterbo e il resto della provincia del Patrimonio alla Chiesa e fu nominato governatore di Corneto (oggi Tarquinia). Morí nell’aprile del 1366, vittima di una congiura.

fu la volta di case e palazzi, e, con le pietre ottenute – narrano alcune fonti –, si costruí il collegio di S. Clemente a Bologna. Al posto della città venne edificata una fortezza, chiamata Salvaterra, che doveva vigilare sulla via Emilia.

Baluardi di fede

Probabilmente, per descrivere i significati del moto edificatorio di quest’epoca, non esiste testimonianza migliore – sebbene posteriore ai fatti fin qui rievocati – delle parole pronunciate da papa Niccolò V sul letto di morte la sera del 23 marzo 1455. Per il pontefice le rocche di pietra dovevano rappresentare immobili baluardi di fede e di devozione agli occhi del popolo minuto (vedi box a p. 45). Di fatto Egidio de Albornoz riuscí a ricondurre molti Comuni sotto la sovranità della Chiesa, facendo

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Qui sopra Viterbo. Veduta della Rocca Albornoz. Costruita tra il 1354 e il 1361

per proteggere la città, oggi è sede dell’omonimo Museo Nazionale Etrusco.

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protagonisti egidio de albornoz monio –, fu la popolazione stessa a chiedere l’intervento dell’Albornoz per costruire una rocca in grado di difenderli da Giovanni di Vico, che aveva occupato la città, facendone il centro del suo principato. La rocca fu iniziata nel 1354 e, una volta terminata, divenne la sede della curia provinciale. A Orvieto, invece, dopo la sconfitta della signoria di Giovanni di Vico, furono i funzionari del papa a sollecitare la costruzione di una fortezza per difendersi dagli abitanti, che mal sopportavano il governo pontificio. Raccontano le cronache che nel 1358 «il Capitano del Patrimonio e il tesoriere non si fidavano di restare in Orvieto, che in Orvieto non ci era cassaro per la Chiesa, né meno fortezza nulla». La costruzione della rocca ebbe inizio nel 1364, sotto la direzione dell’architetto Ugolino da Montemarte. Nel 1367, alcuni muratori e carpentieri furono inviati a Viterbo a osservare l’antiporta cum ponte levatorio della rocca, affinché ne facessero una simile a Orvieto. Nel 1370 i lavori furono ultimati, ma dopo appena vent’anni, nel 1390, la rocca fu rasa al suolo, nel corso delle feroci lotte tra fazioni cittadine.

Nel Ducato di Spoleto Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa inferiore. Affresco di Andrea de’ Bartoli raffigurante il cardinale Albornoz inginocchiato al cospetto dei santi Sabino, Clemente e Francesco. 1367-1368.

leva anche sulla minore pressione economica, ma soprattutto politica, che questa avrebbe esercitato rispetto ai signori. Tuttavia, con la raccolta di leggi promulgata a Fano nel 1357, prima della partenza per Avignone, il Liber constitutionum sanctae matris Ecclesiae – nota anche con il nome di Costituzioni egidiane e rimasta in vigore fino alla riforma del cardinale Consalvi nel 1816 –, viene riconfermata e ulteriormente con-

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solidata la ripartizione dello Stato nelle cinque province: Patrimonio di San Pietro, Ducato di Spoleto, Marca Anconitana, provincia Romandiolae, provincia di Campagna e Marittima.

Intuizioni vincenti

L’abilità principale del cardinale risiedeva dunque proprio nell’intelligenza politica che gli permise, innanzitutto, di comprendere la realtà prima di altri: ogni Comune – come già detto – presentava rapporti di potere peculiari, da affrontare pertanto con approcci specifici. Per esempio, a Viterbo – la principale città della provincia del Patri-

Mentre il Patrimonio andava pacificandosi sotto il controllo del governo della Chiesa, l’attenzione dell’Albornoz si spostò verso la provincia del Ducato di Spoleto. La costruzione delle rocche di Narni, Spoleto e Assisi iniziò subito dopo la sottomissione delle città. Una in particolare, quella di Spoleto, terminata nel 1367, rivestiva un ruolo decisivo: posta sulla via Flaminia, essa fungeva da punto di controllo del passaggio tra Roma e la Marca. Fu certamente la piú imponente tra tutte le rocche albornoziane. Anche qui i lavori di edificazione furono avviati da Ugolino di Montemarte e proseguirono (dall’aprile 1362) sotto la guida di un altro celebre architetto militare, l’eugubimaggio

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Il testamento di Niccolò V

Quegli edifici «pressoché eterni, quasi fabbricati da Dio»... Sebbene posteriori di un secolo ai fatti, le parole pronunciate sul letto di morte da papa Niccolò V (1397-1455) risultano illuminanti sull’azione di Egidio de Albornoz: «Ascoltate, ascoltate, vi dico, venerabili fratelli, considerate quelle che mi sembrano essere le ragioni e le motivazioni che ci hanno spinto a dedicarci con tanto impegno all’edilizia e alle costruzioni. Vogliamo che voi sappiate e comprendiate quali sono state le due motivazioni principali della nostra attività edilizia. C’è da dire innanzitutto che soltanto coloro che hanno appreso attraverso lo studio l’origine e lo sviluppo della Chiesa romana possono capire che la sua autorità è grandissima e suprema. Quanto all’intera folla delle altre persone, invece, illetterata e profondamente ignorante, anche se sembra spesso ascoltare gli uomini dotti ed eruditi quando parlano di questi argomenti e dà l’impressione di essere convinta delle loro verità, se tuttavia non è colpita da alcune cose straordinarie viste con i propri occhi, quel suo generale convincimento, basato su fondamenti estremamente deboli, si cancella a poco a poco col passare del tempo, al punto da ridursi il piú delle volte a nulla. no Matteo Gattapone (1300-1383). Da decenni sotto il controllo dei Perugini, che ne nominava i podestà, Spoleto passò sotto il pieno controllo della Chiesa proprio mentre anche la potente Perugia veniva recuperata all’autorità pontificia. Anche la costruzione della rocca di Assisi (1362), che vide ancora una volta l’intervento di Ugolino di Montemarte, doveva in parte soddisfare la necessità di contrastare l’egemonia di Perugia. Il fortilizio sorse sui resti di una rocca di cui si ha notizia fin dai tempi di Innocenzo III (1161-1216), poi demolita nel 1316. Nella Historia della vita... del cardinale, Giovanni Genesio Sepulveda (1490-1573) scrive che quando l’Albornoz pensava «d’havere horamai ridotta a stato tranquillo, e quieto tutta l’Italia» mandò a chiamare il papa ad Avignone e questi potè tornare in Italia. Raggiunto l’Albornoz

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Al contrario, quando quell’opinione comune, fondata sul racconto degli uomini dotti, viene rafforzata e confermata di giorno in giorno per mezzo di grandi edifici, in qualche modo monumenti perpetui e testimoni pressoché eterni, quasi fabbricati da Dio, fino a tal punto da essere trasmessa ininterrottamente a coloro che guardano ora – e nel futuro guarderanno – quelle meravigliose costruzioni, si conserva e si accresce per tale via e poi, cosí conservata e accresciuta, viene in qualche modo consolidata e acquisita per mezzo di una meravigliosa devozione. Le opere di fortificazione di borghi e di città, che servono alla sicurezza degli abitanti e incutono paura ai nemici, contribuiscono alla devozione del popolo cristiano verso la Chiesa romana e la Sede apostolica. Queste opere accrescono meravigliosamente la capacità di difesa dai nemici esterni e da quelli interni (...), che cospirano ogni giorno (...). Per questo abbiamo costruito molti edifici eccezionali, che intendevano espressamente servire a un tempo a scopi di devozione e di fortificazione, a Gualdo, Fabriano, Assisi, Civitavecchia e Civitacastellana, Narni, Orvieto, Spoleto, Viterbo e in molti altri luoghi della nostra Chiesa».

a Viterbo, il papa «istigato dall’invidia d’alcuni, domandò a Egidio conto della sua passata amministrazione, e dell’entrate di quindici anni; a cui Egidio presentò il tutto con l’istesse chiavi di tutte le fortezze in un carro, che a pena le poteva capire (contenere). Onde il papa meravigliatosi della grandezza, e costanza dell’animo suo, gli disse. Per certo [o Egidio] noi confessiamo, che tu ci hai racquistato lo stato Ecclesiastico con pochissima spesa».

Cinquantamila messe

Ma – come ha sottolineato lo storico Alberto Satolli – non dovette sfuggire al momento del rendiconto la grande spesa morale dell’operazione, se il fine e accorto cardinale sentí la necessità di disporre e ordinare, nel proprio testamento, la celebrazione di ben 50 000 messe, post mortem, in suffragio della sua anima (vedi box in questa pagina).

Due anni dopo la morte del cardinale, un anonimo cronista orvietano scrive: «De l’anno mille e trecento sessanta sette, a dí ventidoi di agosto, la domenicha a notte, venendo lunidí, a dí ventitre di agosto, si morse messer Gilio cardinale di Spagna, cioè il legato in Italia per il papa (…) Et reggiemmoci sotto la sua signoria tredici anni et doi mesi. Il qual signore fu il piú avventurato et il piú temuto et che piú honore havesse di tutte le imprese che esso fece, che nullo che fosse mai in questo paese per la Chiesa di Roma. Il quale col suo ardire acquistò per la Chiesa ciò che era perduto dal mare di Ancona fino al mare di Corgneto (Tarquinia), cioè la Romagna et la Marcha, il Ducato et il Patrimonio: chè tutti questi paesi erano occupati da Tiranni, gentili homini delle cittade di questi paesi. Et in questo tempo che esso fu legato per il Papa, in questo paese fece le magior condutte delle gente et oste grandissime».

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Gregorio, al di sopra di tutti I I di Renata Salvarani

Salito al soglio di Pietro nel 1073, Ildebrando da Sovana, si fa interprete delle aspirazioni di rinnovamento morale e, soprattutto, di supremazia della Chiesa sul potere temporale. Istanze raccolte nelle ventisette enunciazioni del Dictatus Papae e che portano al duro scontro con l’imperatore Enrico IV

Miniature tratte dalla Chronica sive Historia de duabus civitatibus (Cronaca delle due città) di Ottone di Frisinga. Metà del XII sec. Jena, Universitätsbibliothek. Nel registro superiore, da sinistra: l’antipapa Clemente III insieme a Enrico IV; la cacciata di Gregorio VII da Roma; nel registro inferiore, da sinistra: Gregorio VII discute con i vescovi della scomunica di Enrico IV; la morte di Gregorio VII.

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l pontificato di Gregorio VII (1073-1085) si colloca sotto la cifra della divisione, della violenza e della contrapposizione. La sua profonda riforma della Chiesa e della società europea suscitò reazioni, lacerazioni e polemiche sia fra i potenti e nelle istituzioni, sia nella vita dei fedeli. Da una parte si diceva: «Egli ha provocato grandi sciagure: per questo motivo è sorta una grande discordia e ogni giorno si uccidono cristiani e i luoghi sacri di Dio sono sporcati e contaminati di sangue umano, le chiese sono rase al suolo e i cittadini di Cristo sono espulsi dalle loro case, castelli, villaggi e tenute sono consumati dalle fiamme ardenti» (Ugo di Fleury). Dall’altra lo si difendeva cosí: «La guerra scoppiò in conseguenza dei princípi che egli sostenne, non perché l’avesse voluta» (Guido da Ferrara.

Le origini divine del potere

La sua è una leadership forte, che punta al rinnovamento, a partire dall’idea stessa della Chiesa nel mondo, nei suoi rapporti con il potere e con i fedeli. Presuppone il senso della libertas ecclesiae, che si giustifica per la sua istituzione da parte di Gesú Cristo stesso. Si traduce in un programma di eliminazione di vincoli e legami imposti dai laici, insieme con il rafforzamento intorno al primato di Pietro, alla figura del papa e alla sede di Roma. Inizia con la presa di coscienza delle contraddizioni del suo tempo. La mentalità medievale, infatti, attribuiva al potere un’origine e un fondamento divini. Eppure, tra l’XI e il XII secolo l’Europa visse una tale contrapposizione tra impero e papato, che i due poteri universali finirono per delimitarsi e limitarsi a vicenda, ponendo cosí le premesse per la distinzione fra ambito laico e ambito religioso che è propria dell’Occidente moderno e contemporaneo.

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A partire dall’età carolingia, gli ordines dalla società – il laico e l’ecclesiastico – si erano compenetrati, erano cresciuti insieme, in una generale ambiguità delle istituzioni. Da una parte, i vescovi e la Chiesa avevano supplito al vuoto politico e organizzativo della dissoluzione dell’impero romano nella sua pars Occidentis; dall’altra, la Chiesa si trovò spesso in balia dei laici. Questa commistione senza distinzioni si era protratta per secoli e investiva tutti gli aspetti della società.

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Per questo la riforma romana fu una vera e propria rivoluzione. Venne attuata fra scontri, tumulti, incendi, ma, soprattutto, con la forza delle idee, delle dispute, dei trattati e delle polemiche. Chiesa imperiale e Chiesa romana si contrapponevano e non si riconoscevano: esprimevano due modi distinti in cui il popolo di Dio avrebbe dovuto prendere forma sulla terra, in vista della salvezza eterna. Una svolta era stata segnata già nel 1046, quando l’imperatore Enrico III era intervenuto maggio

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Ritratto di Gregorio VII (al secolo Ildebrando Aldobrandeschi), olio su tela attribuito a Giuseppe Franchi. 1608. Milano, Pinacoteca Ambrosiana. Nella pagina accanto miniatura raffigurante sant’Ugo il Grande di Cluny con l’imperatore Enrico IV che implora Matilde di Canossa, da un’edizione della Vita Mathildis di Donizone. 1111-1115 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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essere leader nel medioevo/5 per porre fine, con un sinodo convocato a Sutri, a una situazione che vedeva presenti contemporaneamente tre papi. Si era imposto il tentativo di sottrarre il papato all’influenza delle famiglie romane, riconoscendogli un respiro piú ampio e una responsabilità universale. Ma fu l’elezione sulla cattedra di Pietro di Ildebrando di Sovana, nel 1073, a fare sí che la contrapposizione tra due visioni diverse diventasse piú radicale e manifestasse la sua violenza. Il nuovo pontefice proveniva dal mondo monastico, di cui aveva assimilato gli ideali dell’ascesi e una salda preparazione umanistica. Entrato nella curia romana, fece propria la cultura canonistica e giuridica dell’epoca e condivise, da subito, volontà di riforma e l’idea di primato dell’episcopato universale quale autorità superiore per tutte le Chiese locali: già durante il pontificato di Leone IX, come legato papale, si era fatto portatore di queste posizioni in Francia.

il dictatus papae

Un’autorità universale e ingiudicabile

Vescovi simoniaci

Durante il suo papato, lo scontro con la «Chiesa imperiale» raggiunse l’apice a fronte dell’azione politica di Enrico IV, che rappresentava la sintesi dell’idea germanica e imperiale del potere. Al centro della questione erano i vescovi. Il papa proibí ai sovrani e ai laici l’investitura, cioè l’attribuzione ai vescovi e agli ecclesiastici delle prerogative legate alla loro carica (terre, benefici, rendite); dichiarò che l’investitura equivaleva alla simonia e vietò cosí ai laici di intromettersi nelle realtà sacramentali. Solo il papa era arbitro del sacro e della legittimità religiosa. Si poneva, quindi, anche la questione di chi avrebbe dovuto Busto reliquiario in legno scolpito e dipinto di Gregorio VII. Scuola castigliana, primo terzo del XVII sec. Monforte de Lemos, Museo de Arte Sacro de las Clarisas de Monforte.

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Le ventisette asciutte proposizioni che costituiscono il Dictatus Papae enunciano le prerogative e i privilegi della Chiesa di Roma e del suo princeps. Risalgono alla primavera del 1075. Si tratta, probabilmente, di altrettanti titoli dei capitoli di un testo canonico, che non ha mai visto la luce, ma che doveva dare fondamento – non solo teologico, ma anche giuridico – alla concezione ecclesiologica di Gregorio VII. Secondo alcuni studiosi, sarebbero invece una sorta di memorandum personale, non destinato alla pubblicazione, ma a improntare il programma di riforma e a basarne gli interventi. In ogni caso, il papa ne è certamente l’autore e vi ha espresso un preciso disegno. Il presupposto è la natura divina della Chiesa (la prima asserzione stabilisce che è «fondata solo da Dio»). Essa non può sbagliare, né mai ha sbagliato; chi non concorda non è considerato cattolico, si pone al di fuori. Tuttavia, il vero protagonista delle affermazioni è

il pontefice: ben ventidue proposizioni lo riguardano, quasi a sottolineare l’eccezionalità della sua auctoritas sul piano istituzionale. Egli, infatti, è l’unica autorità universale. Solo a lui spettano l’uso delle insegne imperiali e il bacio del piede. Solo il suo nome, unico in tutto il mondo, può essere pronunciato nelle chiese e, per i meriti di san Pietro, è santo. I suoi legati presiedono i concili, indipendentemente dal loro grado gerarchico. Appare evidente come queste affermazioni puntassero a limitare le aspirazioni universalistiche dell’impero. Tanto che si afferma il diritto del pontefice di deporre l’imperatore. Se questi, infatti, è all’interno della Chiesa, la cui unica guida, preposta da Dio stesso, è il successore di Pietro, allora è dall’autorità di lui che dipendono tutti i poteri terreni, nonché la facoltà di sospenderli. Tali decisioni si fondano su un giudizio di carattere morale: il papa poteva infatti sciogliere i sudditi dal vincolo di fedeltà «verso gli iniqui».

scegliere i vescovi e, maxime, di chi giudicare idoneo a eleggere il successore di Pietro. L’azione di Gregorio VII si inseriva in una situazione di profonda incertezza interna alla Chiesa e risultò dirompente. Il papa si faceva interprete di volontà diffuse di riforma. Da una parte, il monachesimo aveva rafforzato un modello di cristianesimo svincolato dalle logiche della politica, improntato a ideali di rigore morale, alla scelta rigida del celibato e a una netta distinzione fra laici e religiosi. Dall’altra, le violenze commesse dai patarini a Milano contro i preti simoniaci e ammogliati dimostravano che i fedeli pretendevano una Chiesa diversa, piú consona alla sensibilità che stava crescendo soprattutto nelle città.

Deposizioni reciproche

Tanto che, su impulso dell’imperatore e dei teologi che sostenevano la necessità di una «Chiesa imperiale», il pontefice venne deposto dai vescovi tedeschi riuniti a Worms il 24 gennaio 1076. Subito dopo, il vicario di Cristo scomunicò Enrico IV e,a sua volta, lo depose. Entrambe le auctoritates universali su cui poggiava l’ordine del mondo si ritrovarono delegittimate.

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Il pontefice riservava per sé anche la facoltà di nominare e deporre vescovi e abati, ponendosi cosí in grado di intervenire in tutte le istituzioni ecclesiastiche. Si rivela qui il progetto di Gregorio VII di smontare l’organizzazione e l’impianto di una Chiesa imperiale, con interventi caso per caso, che furono poi effettivamente attuati, in parte da lui, in parte dai suoi successori. Il Dictatus Papae fissava anche le procedure giudiziarie che ponevano il papa al di sopra dell’ordinamento e gli consentivano di scardinare il sistema di garanzie utilizzato dai vescovi per rafforzare le proprie immunità. Il papa può deporre gli assenti, è ingiudicabile e rappresenta l’istanza suprema di appello per tutte le chiese. Quest’ultima affermazione pone le basi per attuare la libertas ecclesiae nelle varie aree della cristianità: chiunque avrebbe potuto appellarsi a Roma, alla prima sedes, anche contro le ingerenze e le volontà di sovrani e potenti locali.

Quale leadership esercitò Gregorio in questa situazione? Riuscí a catalizzare le volontà e le azioni degli altri riformatori presenti nella curia romana, nei monasteri e in molte diocesi, pur non vedendo mai alcun frutto delle sue scelte, né una realizzazione del suo programma. Anzi, continuò a raccogliere opposizioni, dissidi, attacchi militari, assumendo quasi il ruolo di un profeta dal destino tragico. Il 25 agosto dello stesso anno scrisse una lettera a Ermanno, vescovo di Metz, nella quale delineava la sua visione ecclesiologica e la sua idea dei rapporti fra la Chiesa e l’imperatore, rispondendo alla questione relativa alla facoltà del papa di scomunicare il sovrano. Sostenne che i principi che operano contro la giustizia sono membra dell’Anticristo. Se poi si confronta la loro autorità con quella episcopale, si converrà che quest’ultima viene da Dio, mentre l’autorità politica deriva dalla superbia umana. Citando sant’Ambrogio, chiarí che «l’una è oro, l’altra piombo». A fronte della chiarezza di posizioni che emerge dai testi del pontefice, la penitenza pubblica a cui l’imperatore decise di sottoporsi al castello di Canossa, per essere reintegrato nella pienezza dei suoi poteri, avvenne in

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essere leader nel medioevo/5 Canossa, 1077

Era un inverno freddo e nevoso... La penitenza pubblica a cui Enrico IV si sottopose a Canossa nel gennaio del 1077 è un episodio che si è impresso con forza nella memoria collettiva dei contemporanei, cosí come in quella delle epoche successive. Le modalità dell’incontro tra l’imperatore e Gregorio VII, in uno degli snodi viari e politici cruciali per il contesto subalpino – nella sua duplice interazione con il mondo germanico e con la città di Pietro – riproducono i gesti, le parole e la sequenza di atti della liturgia

della penitenza solenne, traslandone lo svolgimento nel castello di Matilde e facendo passare in secondo piano, nell’elaborazione cronachistica sia imperiale che papale, l’importanza della mediazione svolta dalla contessa stessa, da Ugo di Cluny e da Adelaide, suocera del sovrano. Sono infatti i contenuti penitenziali, sacramentali e pastorali a prevalere, infine, nella sofferta decisione del papa, rispetto alle ragioni politiche. Sappiamo che l’imperatore,

una volta riammesso nella Chiesa e ritornato nella pienezza delle proprie prerogative, di lí a poco riprese gli attacchi militari contro i sostenitori della riforma con maggiore veemenza. Tuttavia, l’assoluzione e il perdono dovettero prescindere da valutazioni di carattere tattico e Gregorio VII agí da pastore, da vescovo, che si trovò di fronte un peccatore il quale manifestava il proprio pentimento in modo pubblico, esplicito. Lo precisa Ottone di Frisinga nel Chronicon, mettendo in evidenza I resti del castello di Canossa (Reggio Emilia), teatro dell’incontro del gennaio 1077 tra l’imperatore Enrico IV e papa Gregorio VII.

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l’eccezionalità della scomunica, che aveva soltanto due precedenti: la breve sospensione di Filippo da parte del vescovo di Roma, nella Chiesa delle origini, e la negazione dei sacramenti a Teodosio da parte di Ambrogio. Lo racconta, con malcelato compiacimento, Donizone, nella Vita Mathildis: quell’inverno fu particolarmente abbondante di neve, Enrico rimase per tre giorni e tre notti a piedi nudi fuori dal castello implorando di potere entrare; una volta che il papa gli concesse di entrare e di stare davanti a lui, si gettò a faccia a terra con le braccia aperte a croce ripetendo a voce alta: «Perdonami, beato padre!». Gregorio, quando lo vide piangere, lo giudicò degno di misericordia e lo riammise alla comunione. Soprattutto, è lo stesso Gregorio VII a motivare la sua scelta con la lettera di revoca della scomunica, indirizzata «omnibus archiepiscopis, episcopis et universis tam clericis quam laicis». Dapprima ricorda che il sovrano aveva comunicato la sua volontà di emendare la propria vita e promesso obbedienza, mandando i propri legati, e quindi descrive gli atti della penitenza pubblica. Il papa precisa poi di avere ritirato l’anatema vinto dalla «instantia compunctionis eius» e dalla supplica dei presenti, quasi a giustificare la sua scelta, di fronte al giudizio quantomeno critico dei suoi sostenitori, che continuavano a vedere in Enrico IV una minaccia per la riforma e per la Chiesa. Gli eventi degli anni successivi diedero loro ragione, ma il comportamento di Gregorio VII si poneva oltre il piano della politica e della contingenza per esercitare una guida universale, orientata alla salvezza di tutte le anime.

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Qui sopra miniatura raffigurante, in alto, Enrico IV in trono (a sinistra) e Gregorio VII, in preghiera e poi cacciato da un soldato; in basso, il papa attorniato da alcuni prelati e poi adagiato nel sepolcro. XIII sec. Milano, Biblioteca Ambrosiana.

un drammatico caos istituzionale. Infine, papa Gregorio ricevette Enrico nella grazia della comunione e in seno alla Chiesa (vedi box alle pp. 52-53). Il perdono ottenuto non modificò la politica dell’imperatore, né impedí a Gregorio VII di continuare ad affermare la superiorità dell’autorità papale romana su qualsiasi potere terreno. L’apparente contraddizione della sua scelta si spiega se non la si legge sul piano politico, bensí su quello della pastorale: Gregorio è il pastore delle anime che gli sono state affidate e deve accogliere quella che ritorna pentita. Con questo gesto afferma la superiorità del ministero petrino rispetto agli uomini e alle loro logiche. Il Dictatus papae (vedi box alle pp. 50-51), inserito due anni prima nel registro degli atti del pontefice, di fatto, era arrivato a negare la sacralità del potere imperiale di ogni autorità laica: la sacralità è connessa solo con

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La Reconquista

Le chiamate alle armi La consapevolezza di Gregorio VII di rappresentare un’autorità universale si tradusse anche in una serie di interventi rivolti alle periferie della cristianità, in una prospettiva che andava oltre il piano politico, per risolversi in azioni missionarie e in un generale allargamento dell’annuncio del Vangelo. In quest’ottica si iscrive l’impulso manifestato alla Reconquista della Spagna musulmana. In una lettera inviata il 28 giugno 1077 a tutti i conti, re e principi della penisola, scrisse che la riacquisizione di vasti territori ancora in mano agli Arabi era diventata un obiettivo comune di tutti i popoli dell’area. Il papa ricorda ai destinatari che devono compiere sempre ciò che è giusto: difendere la libertà della Chiesa, mettere le armi al servizio di Dio. Il supporto all’impresa militare appare evidente,

cosí come la prospettiva di porre i nuovi domini in relazione con Roma e con il papato, affermando un vincolo di giurisdizione. Dopo qualche anno, nel 1085, Toledo tornò in mano cristiana. Al contempo, vengono incoraggiate e organizzate azioni a largo raggio verso l’Europa del Nord, in particolare nei confronti del regno di Danimarca e del regno di Irlanda, mentre missionari vengono inviati in Norvegia. Si instaurano rapporti con la Croazia e la Serbia, attraverso i rispettivi sovrani. Una relazione privilegiata viene mantenuta con il re di Ungheria: Gregorio VII lo esorta a difendere con le armi la libertà della Chiesa, le vedove, gli orfani, i beni delle chiese e dei monasteri, lo invita a obbedire al papa, cioè a san Pietro come un «figlio libero».

Particolare di una miniatura raffigurante le truppe cristiane impegnate in una delle battaglie della Reconquista, da un’edizione delle Cántigas de Santa Maria. XIII sec. San Lorenzo de El Escorial, Real Biblioteca del Monasterio.

il sacerdozio. In uno dei numerosi testi elaborati nelle accese polemiche di questi anni, si legge: «I re non sono sacri. Se lo fossero, ci si rivolgerebbe loro per la remissione dei peccati: ma chi l’ha mai fatto? Se fossero sacri potrebbero amministrare l’Eucarestia e il Battesimo, ma non possono. Non solo i re sono come tutti gli altri uomini, ma essi si pongono sopra gli altri uomini, li dominano, li conducono alla morte. Chi li ha autorizzati a ergersi cosí sui loro pari, sugli uomini? Il diavolo. Il potere, nelle sue forme violente ed estreme, viene dal diavolo. Sono figli del diavolo, corpo del diavolo, quei re che si rifiutano di prestare obbedienza alla Chiesa e anzi, cercano di sottometterla».

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A fronte di queste posizioni, «gli si oppose il mondo intero, il popolo cristiano si divise in due». Allora, l’appoggio di Matilde di Canossa fu determinante: epigona di una delle famiglie feudali piú potenti d’Europa, la comitissa forní al papa e alla causa della riforma supporto militare, denaro, protezioni nei castelli e nei monasteri da lei controllati.

La nuova frattura

Nel concilio di Roma, il 7 marzo 1080, Enrico IV fu nuovamente deposto dal papa; «Nel nome di Dio gli interdico di nuovo il regno di Germania e d’Italia, lo privo del potere regio e della dignità annessavi, vieto a ogni uomo di obbedirgli come re, prosciolgo dalle promesse di giuramento tutti coloro che gli hanno prestato o gli presteranno giuramento di obbedirgli come re». Nello stesso anno, il concilio dei vescovi filoimperiali riuniti a Bressanone ricusò maggio

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la successione

Dopo Gregorio: una pacificazione

Gregorio VII ed elesse papa Wiberto, con il nome di Clemente III. Lo scisma sarebbe durato altri vent’anni. Gli atti formali lasciarono presto il campo alle armi. Enrico IV arrivò in Italia nel 1081, assediò e prese Roma. Gregorio VII dovette lasciare la città, devastata e incendiata dagli imperiali e dai Normanni che aveva chiamato in suo aiuto, per rifugiarsi a Salerno, dove morí nel 1085. Aveva lasciato dietro di sé morte, distruzione, divisioni. Era morto in solitudine, inviso a molti, forse carico di rimorsi. Eppure anche gli amari anni finali rafforzarono la convinzione che la Chiesa romana, libera da ingerenze, fondata da Cristo e incentrata sulla figura del successore di Pietro, principe degli apostoli, fosse la sola via per assicurare l’annuncio del Vangelo e la realizzazione della città di Dio in mezzo agli uomini. Il motivo dell’Anticristo e della lotta fra la Chiesa e

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maggio

I successori di Gregorio VII, Desiderio di Montecassino-Vittore III e il monaco di Cluny Urbano II confermarono la linea della riforma romana e dell’autonomia della Chiesa dall’impero. La posta in gioco, l’ordine della società, era cosí alta che, tra il 1090 e il 1092, l’imperatore e i suoi sostenitori avviarono nuove azioni militari. Gli imperiali batterono Matilde di Canossa e la contessa perse alcuni caposaldi del suo sistema territoriale, tra cui Mantova. Dopo la deposizione di Enrico IV, al quale successe il figlio Enrico V, e dopo l’elezione di papa Pasquale II, in un clima mutato, si faceva strada la distinzione fra i due ambiti, papale-ecclesiastico e imperiale-laico. Si diffuse la consapevolezza che due erano i poteri concessi ai vescovi: il primo spirituale o divino, l’altro temporale. Quest’ultimo veniva conferito loro dagli

uomini del secolo ed era soggetto a re e imperatori. Si ponevano cosí le basi teoriche per l’accordo di Sutri e per il concordato di Worms, che, nel 1122, mise fine alla controversia per le investiture: «Le investiture di imperatori e re riguardano solo i beni terreni, non le sacre mura e gli altari, che non appartengono a loro». La concordia siglata nella città tedesca prevedeva che ordinazione episcopale e investitura fossero quindi due momenti ben distinti. Per raggiungere un compromesso nella prassi, si fissò una diversificazione d’area: a sud delle Alpi la prima era propedeutica alla seconda, in area germanica avveniva il contrario. Si mantenevano cosí, di fatto, la scelta dei vescovi da parte dei papi per l’Italia (e altre zone) e un’indicazione forte da parte degli imperatori nell’Europa centrosettentrionale. Tuttavia, sul piano del principio, veniva acquisita la separazione fra l’altare e lo scettro.

Satana è una costante di tutto il pontificato di Gregorio VII. Nell’ultima sua lettera, rivolta a tutti i fedeli, a fronte di eventi che dovevano apparirgli come un trionfo del male, ebbe la forza di affermarne la durata effimera e l’illusorietà: proprio l’apparente sconfitta del papato era invece un segno dei tempi che stavano per aprirsi. Un’epoca nuova della quale il papa non poté vedere alcuna manifestazione: in questo sta la drammaticità eroica – e per molti incomprensibile – della sua leadership.

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gente di bottega/4 Titolare di una bottega situata a Firenze, a pochi passi da piazza Signoria, Stefano Naldi conduceva un’esistenza tranquilla e agiata, quando cadde gravemente malato ed ebbe giusto il tempo di dettare le ultime volontà. Quel testamento e il successivo inventario dei suoi beni sono oggi una miniera di informazioni preziose, rivelatesi capaci di «fotografare» la sua attività professionale con una resa dei particolari davvero straordinaria Stampa settecentesca raffigurante un merciaio ambulante: si può osservare l’eterogeneità delle mercanzie, che comprendono bottoni, spille, nastri colorati, ma anche una maschera e perfino una piccola racchetta, simile a quelle usate per il volano.

Un

merciaio previdente di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci 56


N N

el 1427 si attua a Firenze la rivoluzione fiscale del Catasto, che introduce la pratica dell’autodichiarazione dei redditi e del patrimonio da parte dei cittadini, con la descrizione delle rendite immobiliari, delle attività fonte di cespiti e dei carichi familiari in detrazione per ogni capofamiglia, in un’ottica di assoluta modernità e innovazione. Nel mese di aprile, come tutti i cittadini, anche il merciaio Stefano Naldi, residente nel quartiere di Santa Croce, presenta la propria dichiarazione: un imponibile valutato 2497 fiorini fra case, investimenti e l’attività di merciaio nel centro storico, e una famiglia di 4 bocche da mantenere. Sei mesi dopo, il 19 ottobre, il pover’uomo cade improvvisamente ammalato e ha giusto il tempo di redigere un accorato testamento, conservato, unitamente all’inventariazione dei suoi beni, presso l’Archivio di Stato di Firenze (Fondo Pupilli avanti il Principato 45, cc. 144r-149v). Il 29 dicembre 1427 si apre la successione per la tutela della figlioletta Margherita, ancora lattante, e della vedova Caterina, nuovamente in stato interessante. Sono le ultime volontà di un uomo a cui stanno molto a cuore il rispetto della propria memoria e del rango sociale raggiunto, sia nelle esteriorità del funerale e della sepoltura nella chiesa parrocchiale di S. Pier Maggiore – vi destina 4 fiorini di spesa e dà disposizione che la moglie e la sorella vi partecipino entrambe velate e vestite di panno monachino –, sia nello stabilire l’annuale celebrazione di una messa in suffragio, alla ricorrenza della propria morte, per i 10 anni successivi.

Per la dote di 10 fanciulle

Uomo di fede, raccomanda l’anima a Dio e alla sua gloriosa Madre e a tutta la celestial corte del Paradiso, e stabilisce, inoltre, l’elargizione di 500 fio-

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rini, da prelevare sull’asse ereditario, per costituire la dote di 10 fanciulle povere, miserabili, vergini e honeste. Alla moglie Caterina, di origini benestanti, figlia di un pellicciaio che l’aveva dotata di 400 fiorini, lascia la restituzione della dote e un ulteriore legato di 200 fiorini; alla nutrice della figlioletta Margherita, per tutta la durata dell’allattamento della bambina e per ogni anno che resterà con lei in armonia e dedizione, 72 lire di moneta corrente e un benservito di 5 fiorini d’oro quando se ne andrà, raccomandando che essa

Qui sotto Firenze, basilica di S. Marco. Stemma dell’Arte di Por Santa Maria, alla quale i merciai appartenevano prima di confluire in quella dei Medici e Speziali.

mento del diciottesimo anno d’età. Un quadro che sembra smentire, almeno nel merciaio, la considerazione accreditata che il senso di genitorialità sia un’acquisizione di epoca moderna: Stefano prospetta anche che il nascituro possa essere di sesso femminile e ne predispone la dote, affidando la sconosciuta nascitura al sentimento e volontà del suocero o del cognato, insieme a una sistemazione alternativa del patrimonio.

Ai parenti e al socio

bene governi e nutrischa la piccina. Alla piccola Margherita destina 1500 fiorini d’oro come dote, se si sposerà, o come vitalizio per il proprio mantenimento. Affronta poi con estrema precisione, quasi in un desiderio di permanenza nella famiglia, il problema della nomina del proprio erede universale, che sarà l’eventuale figlio maschio postumo o il bisnipote Antonello, discendente del fratello Michele abitante a Napoli, in caso di decesso del figlio entro il compi-

Assegna inoltre generosi legati ad altri parenti e al socio in affari Simone del fu ser Antonio Fazi e, consapevole delle difficoltà aziendali che quest’ultimo incontrerà, gli concede un prestito di 200 fiorini per i 3 anni seguenti, restituibile agli eredi nei 14 successivi. Su questa base fiduciaria gli Ufficiali dei Pupilli restituiscono al merciaio Simone le chiavi della bottega – nel frattempo posta sotto sequestro e custodita dai famigli degli Ufficiali, a cui lo stesso Simone pagherà per la guardiania e l’inventario 2 lire e 30 soldi –, autorizzandolo a riaprirla per riprendere l’attività di vendita, con il vincolo di segnare gli introiti percepiti fino al giorno in cui la vedova Caterina partorirà, e con il mandato di procedere all’esazione dei crediti, al pagamento dei debiti e alla conservazione degli incassi. Una volta registrate le disposizioni testamentarie per la famiglia, gli Ufficiali passano all’operazione di tutela vera e propria della pupilla Margherita, procedendo all’inventario della casa di famiglia, in via Ghibellina, sull’angolo con via del Fico, e, successivamente, della merchatanzia della bottegha della merciaria di detto Stefano, posta in Firenze, in Porta Sancta Maria tra’ martiri.

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gente di bottega/4 Le entrature di bottega

Un diritto gelosamente difeso Nel XIV secolo, a Firenze, l’urbanizzazione accentuata e lo sviluppo industriale e manifatturiero resero sempre piú difficile per gli artigiani e i piccoli imprenditori cercare, trovare e mantenere le proprie botteghe. Tanto piú centrali erano gli esercizi, come nel caso della merceria di Stefano Naldi, tanto maggiore era il rischio di violenze e sopraffazioni; in un’area popolata di famiglie magnatizie e di potenti popolani in perenne conflitto fra loro per il controllo della città, poteva accadere facilmente che interi isolati di case andassero a fuoco, perdendosi anche le botteghe in essi comprese. Seguivano bandi e confische delle zone interessate ed era importante, per l’esercente danneggiato, poter dimostrare la permanenza del proprio esercizio per avere rimborsi e il diritto a rioccupare i propri spazi, una volta effettuata la ricostruzione. Entrò in vigore la consuetudine di pagare il diritto di entratura per case e botteghe che l’Arte dei Medici e Speziali disciplinò nei propri Statuti del 1349, ribadendola periodicamente, poiché entrature troppo vecchie erano spesso oggetto di liti e contenziosi che dovevano essere risolti dal tribunale dell’arte. L’entratura rimase in vigore nei secoli successivi e ancora oggi vige l’uso di pagare il diritto di subentro al precedente gestore di un’attività. L’entratura riconosceva che nessuno potesse occupare un fondaco o una bottega condotti da un altro artefice dell’arte, se non dietro rogito notarile convalidato dai consoli dell’arte e dall’occupante precedente al subentrante, con specifiche agevolazioni per sbanditi e/o vittime di incendi e distruzioni. Si tratta di una casa grande, con una sala al terreno e una cantina con il pozzo, una cucina e una cameretta di servizio, mentre al piano superiore si apre la camera padronale, arredata con un letto matrimoniale, un lettino da bambini, 2 armadi con serratura, 2 cassoni decorati con leoni e un forziere contenenti coperte, lenzuola, asciugamani, tovaglie e copritavola, abiti da uomo e da donna in velluto, raso, lana e lino, accessori d’argento, mantelli e cappucci foderati, una spada e calzature. Candelieri e torcieri in bronzo, un tabernacolo con la Vergine, cati-

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A destra particolare della Pianta della Catena, attribuita a Francesco di Lorenzo Rosselli (1448-ante 1513). Nel riquadro, il centro di Firenze e, nel tratto alle spalle del Palazzo della Signoria, la zona detta di Mercato Vecchio, dove Stefano Naldi teneva bottega. maggio

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i merciai a firenze

Il gonfalone conteso Nel XIII secolo, i mercatores communes facevano ancora parte della composita Arte di Por Santa Maria, coacervo di attività mercantili piccole medie e all’ingrosso presenti in città. I merciai se ne distaccarono alla fine del secolo, unificandosi all’Arte dei Medici e Speziali, sia pure in una posizione subordinata, che contestarono per decenni, simboleggiata dal ricorso al giudizio del Consiglio comunale dei Priori nel 1296, per poter custodire il gonfalone dell’arte, impedito dai medici e dagli speziali. La sentenza dei Priori, motivata con l’unità nel popolo da mantenersi a ogni prezzo, soprattutto con gli «artifices» – pubblicamente riconosciuti come uomini ricchi, onorevoli e idonei alla vita pubblica – assegna la custodia annuale del simbolo a rotazione fra medici, speziali e merciai. Questi ultimi continuarono a prevalere numericamente e, nel quinquennio 1425-29, su 283 iscritti all’arte, ne costituirono da soli il 20%, contro il 15% degli speziali e il 10% dei medici. Maggioritario era il numero complessivo delle molte altre attività annesse all’arte ma tutte, fra loro, divise e nemiche. A differenza di quelli degli altri Comuni italiani, i merciai fiorentini raccoglievano sia le attività di vendita al minuto che i grandi ingrossi, soddisfacendo i bisogni del mercato locale, ma anche, come nel caso di Stefano Naldi, approvvigionando di materie prime, lavorati e semilavorati i mestieri organizzati in produzioni di tipo industriale come fabbri, vetrai, armaioli e spadai, ottonai e calderai. ni e brocche di ottone accessoriano una stanza che denota benessere e confortevolezza. Un’immagine analoga si desume dai numerosi serviti di piatti di stagno, tazze e bicchieri in ceramica, paioli e pentole, padelle e catini, mestolame vario e posateria, gli attrezzi per la cottura al caminetto, e le tovaglie bianche ricamate a traforo per le tavole e le sedie che occupano la sala. Qua e là, nelle stanze, sono disseminati sacchi di orzo, fave secche e granaglie, l’asse e la madia da pane, il forziere per la farina, orci di olio e, nella cantina, barili di vino rosso e bianco, e di aceto. So-

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In alto miniatura raffigurante un mercante di abiti in seta, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. 1390-1400 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella vignetta compaiono oggetti che si potevano acquistare in una merceria, come le forbici o gli aghi da cucito.

no nelle disponibilità del merciaio anche un podere fuori città, dove fa allevare il tradizionale suino, nonché 2 case nelle vicine vie del Fico e via del Cocomero, sotto le cui volte conserva botti di vino proprio e di parenti e amici. Masserizie e suppellettili della casa, nonostante la presenza di una

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Ferrara, Palazzo Schifanoia, Salone dei Mesi. Donne intente alla tessitura e al ricamo, particolare

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dell’allegoria di Marzo nel Trionfo di Minerva, affrescato da Francesco del Cossa. 1470 circa. maggio

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Qui sotto valva di scatola in avorio per specchio con il Dio Amore assediato nel suo castello. Manifattura francese, fine del XIV sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Accessori da toletta come questo potevano essere venduti in una merceria.

vedova, di una figlia e di un nascituro, verranno vendute dagli Ufficiali una settimana dopo l’inventario a un rigattiere, ricavandone 1818 lire di conto (l’equivalente di circa 100 fiorini): la vedova, con la piccola Margherita e la balia Lisa, sono probabilmente rientrate nella casa del suocero mentre, fra il gennaio e il febbraio 1428, si provvede al recupero dei crediti di Stefano, all’arresto dei debitori insolventi, allo svincolo delle merci presso i fornitori.

la presenza dell’entratura di detta botegha, oggi diremmo della concessione all’esercizio di merciaio da parte dell’Arte dei Medici e Speziali a cui i Merciai afferivano (vedi box a p. 58). Quindi stilano il consueto elenco, puntuale e ordinato, di materiali perlopiú di piccole dimensioni, stipati in molti contenitori: un armario di 120 cassette con 2 chassini di sotto e un armario di 24 chassette, su 9 mensole appese alle pareti, una decina fra ceste e cestelli, 2 cassapanche e 4 cassoni dotati di doppie e triple scansie e 6 grossi barili che costitui-

L’inventario

Gli incaricati degli Ufficiali dei Pupilli si dedicano quindi all’inventario della centralissima bottega di merceria, posta in via Por santa Maria a due passi dal Mercato Vecchio (oggi Loggia del Porcellino), cuore dello smercio locale di carni e prodotti caseari, nonché punto di riferimento della cittadinanza per l’acquisto di vettovaglie, accessori domestici e attrezzature da lavoro. Piú che una rivendita di complementi di abbigliamento in senso moderno, la merceria è un grande emporio di mesticheria, un magazzino fornitissimo, che stupisce per la quantità e la varietà dei prodotti offerti, tale da accontentare clienti con disponibilità di denaro e acquirenti piú modesti, destinata a incuriosire anche compratori casuali o produttori di beni artigianali e servizi alla persona, dagli armaioli ai sarti e ai barbieri, ai cartolai e agli scrivani. Gli Ufficiali iniziano dalla prima e piú importante voce dell’inventario:

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Per l’illuminazione degli ambienti la merceria ha a disposizione dei clienti una novantina di candelieri di stagno o bronzo a due e una candela, ai quali si aggiungono 28 lanterne veniziane e 15 lucerne stagnate tra quadre e tonde. Degno di nota è il gruppo di oggetti destinati alla scrittura: 12 dozzine di calamai a ampolluzze di bufola – ricavati quindi dalle corna di tali animali; 16 dozzine d’anella a suggellare per timbri a ceralacca; piú di 11 lib[b]re di spagho da lettere, 400 penne, lisime –ovvero risme – e 9 quaderni di fogli da Fabriano fini. Non mancano gli oggetti da toletta: centinaia di pettini di legno, di pero, di bosso piccoli e mezzani e 1 specchio grande a fighure d’osso, 24 specchi veniziani piccholi, 2 dozzine di specchi argentati tedeschi piccholi, 1 dozzina di specchi argentati grandi.

Aghi e bottoni

scono l’arredo della bottega, dotata di un’insegna nuova. L’abbondanza di minuteria elencata nella bottega del merciaio induce a valutarne la merce per raggruppamenti: fra gli utensili domestici si contano, per esempio, ben undicimila cholineruzzi d’ottone, una quarantina di miscirobe tedesche a bocca largha mezzane e picchole, alcune delle quali decorate a draghi, probabili terracotte prodotte a Montelupo Fiorentino. Sono presenti inoltre stoviglie indicate come 395 lib[b]re di stagno di Fiandra – dal luogo di provenienza – e 155 libre di stagno tra schodelle e schodellini.

Moltissimi sono quindi gli strumenti e materiali destinati al cucito: aghi, spilli, bottoni, tessuti e nastri in quantità tale che vengono raggruppati a migliaia, specificando ogni volta la provenienza o le svariate destinazioni d’uso: 10 M[igliaia] d’aghora di piú ragioni (dimensioni) d’acciaio e di ferro, 400 M[igliaia] d’aghora da puntare panni, 3 ½ M[igliaia] di spilli gialli parigini. Vi sono inoltre 14 centinaia di bottoni di setta dorati, 23 centinaia di bottoni bianchi da manichini, per decorare le maniche degli abiti, molte spolette di filo di lana o canapa, e tessuti e nastri, fra cui 5 libre di nastri pisani bianchi e 21 pezi di nastro schacchato milanese. Nell’inventario della merceria fiorentina grande spazio è dedicato alla coltelleria, di diverso tipo e uso, in prevalenza lame per difesa o da caccia e solo una piccola parte per la tavola o la cucina. Sono circa 1500 i coltelli del primo tipo, che

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gente di bottega/4 gli Ufficiali dei Pupilli distinguono talora per dimensione o per caratteristiche fisiche oppure per destinazione d’uso. In altri casi ne indicano la provenienza: 23 coltellini tedeschi, 23 coltellini genovesi sanza guaina, 46 coltel[l]esse bolognesi colla guaina, con evidente riferimento ad alcuni dei maggiori centri di produzione dell’epoca. Sono invece solo una novantina i coltelli da tavola, a cui si aggiungono 12 dozzine di chucchiai d’ottone, 6 forchette d’ottone. La scarsa quantità di questi oggetti rispecchia l’abitudine, ancora medievale – nonostante si sia negli anni Venti del XV secolo –, di disporre sulla mensa

poche posate: qualche cucchiaio e pochissimi coltelli, visto che spesso gli invitati usavano il proprio per portare alla bocca i cibi dal piatto comune, al posto della forchetta, ancora assente dalle apparecchiature sino alla fine del Trecento.

Abruzzo, terra di forbici

Altra voce consistente nell’inventario di lame è quella relativa alle forbici, su cui gli Ufficiali dei Pupilli si dilungano, distinguendone le tipologie e le destinazioni: da barbiere e da mezzo barbiere, da smoccolare, da pannaiuolo – che non potevano mancare in una zona di negozi di

stoffe – centinaia delle quali provenienti dall’Abruzzo, ove persiste ancora oggi una secolare tradizione di forgiatura. Sorprende trovare nella merceria alcuni dei giochi piú popolari dell’epoca: 3 giuochi di tavole grosse e i 6 giuochi grossi di tavole – ovvero tavolieri probabilmente per il Tric Trac, gli scacchi o la dama; e circa 300 mazzi di carte, definiti con il nome arabo di naib: 4 paia di naibi fini d’oro, 57 paia di naibi mezzani. Il fatto che i mazzi siano menzionati a paia si riferisce presumibilmente all’usanza di unirne uno con le 56 carte dei quattro semi – bastoni, spade, denari e coppe – a un altro di 21 carte illustrate con figure umane, mitologiche, animali e il Matto: i cosiddetti Trionfi. I due mazzi insieme formavano i Tarocchi, gioco molto di moda nei ceti abbienti fra il XIV e il XV secolo. Numerosi anche gli strumenti musicali, soprattutto zufoli di stagno o di canna.

Dalle preghiere ai giochi da tavolo In alto miniatura raffigurante un monaco che fabbrica rosari, dal primo tomo dell’Hausbuch der Mendelschen Zwölfbrüderstiftung. 1426-1549. Norimberga, Stadtbibliothek. A destra miniatura raffigurante una giovane donna intenta ad affilare un coltello. XIV sec. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale. Nella pagina accanto Milano, Bicocca degli Arcimboldi, Sala delle Dame. Affresco raffigurante alcune donne che giocano a dama. XV sec.

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gente di bottega/4 Una coppia di cani tenuti al guinzaglio, particolare di una vetrata quattrocentesca oggi conservata nella chiesa di St Mary, a North Tuddenham (Norfolk). Collari simili a questi facevano parte delle merci giacenti nella bottega di Stefano Naldi al momento della morte.

Fra i clienti del merciaio fiorentino, vi erano anche cacciatori e pescatori: a loro erano destinate le 5 M[igliaia] d’ami da pesci, 45 ½ dozzine di fischi da tordi e circa 56 borse di fustame, usate come tascapane, 120 lib[b]re di corda di lana da ragna, per fabbricare cioè la rete da uccelli da tendere fra i cespugli per imprigionare i volatili che vi sbattevano contro. Le 5 dozzine di chatene da chani col collare e sanza, le 7 dozzine e 4 chatene da mastini servivano ai molti battitori impiegati durante le cacce, per tenere a freno i cani. Nell’inventario sono citati anche 46 chappelli da sparvieri, ovvero i cappucci che servono per addestrare e trasportare i rapaci, e circa 200 sonagli da falconi e da sparviere, sia inargentati, che dorati, da mettere addosso all’animale per individuarne la posizione anche nel folto del bosco. Per gli allevatori erano pronte 5 dozzine di campanelle da porci, 11 libbre di campanelle da vacche triste, 8 grosse d’anella da cavezze, 2 grosse di sonagli da mula e 15 dozzine di pettini da chavalli. Le disparate merci presenti in bottega comprendevano migliaia di grani da rosario, occhiali – all’epoca destinati soprattutto a uomini

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di chiesa e studiosi aristocratici – e poi dozzine di daghe, punteruoli, pennati e falci da potare, centinaia di speroni da giostra, da paggi o da preti, chiodi e bullette da mastello o da finestra impannata, fibbie, ferri da lancia, corde, varie toppe da forzieri, scope, una certa quantità di limatura d’acciaio, migliaia di brocchi da calzolaio – elementi decorativi per sandali, dal francese broche – e ferri di choltelle da calzolaio sanza maniche, e persino 679 berrette di vari colori e 22 paia di pianelle fratesche tra bianche e nere.

Una vita serena e operosa

L’ampia e documentata vicenda legata all’inventario dei beni del merciaio Stefano Naldi fornisce l’impressione di una vita serena e operosa, arricchita da una profonda religiosità, allietata da una piccola famiglia e da una certa agiatezza, dovuta alla conduzione di un’impresa commerciale di notevole valore e grandezza, su cui improvvisamente si è abbattuta la malattia del capofamiglia, a cui, come conseguenza, sarebbe seguita la dissoluzione della famiglia e del patrimonio. Nonostante i tentativi di Stefa-

no di preservare i propri cari dalla povertà e dall’oblio dei sentimenti, nulla si saprà piú della vedova Caterina e della figlioletta Margherita. È intuibile che la nascita postuma sia stata di una femmina: il 30 marzo 1428, infatti, la successione viene chiusa con il mandato agli Ufficiali dei Pupilli da parte dei 3 eredi alternativi all’auspicato figlio maschio – l’ospedale di S. Maria Nuova, il nipote napoletano Antonello e il cognato del merciaio – di vendere tutti i beni mobili e immobili del defunto, convertendone l’introito in denari sul Monte delle Doti del Comune di Firenze, per assicurare la dote delle fanciulle, per quando saranno in età nubenda.

Da leggere Guido Carocci, Il Mercato Vecchio di Firenze. Ricordi e curiosità di storia e di arte, Tipografia della Pia Casa di Patronato, Firenze 1884 Raffaele Ciasca, L’arte dei Medici e Speziali nella storia e nel commercio fiorentino dal sec. XII al XV, Olschki, Firenze 1927, ristampa 1977 maggio

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saper vedere arezzo Arezzo, Duomo. La formella del cenotafio di Guido Tarlati che ne raffigura la nomina a vescovo. L’opera fu commissionata dopo la morte del presule, avvenuta nel 1327, agli scultori senesi Agostino di Giovanni e Agnolo di Ventura, i quali la ultimarono nel 1330.

IL CENOTAFIO DI GUIDO TARLATI

Sia gloria al vescovo

guerriero! di Federico Canaccini

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Il Duomo di Arezzo custodisce il magnifico monumento funebre realizzato per Guido Tarlati. Un’opera giudicata fra le espressioni piú insigni dell’arte gotica italiana e che, nonostante la scomparsa di alcuni degli elementi originariamente compresi nel suo apparato decorativo, offre una vivida biografia illustrata del personaggio per il quale venne realizzata. Pur con alcune scelte (e censure) che ne tradiscono l’intento agiografico

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saper vedere arezzo

I I

l 21 ottobre 1327, nel castello di Montenero in Val d’Orcia, muore, all’improvviso, Guido Tarlati di Pietramala, vescovo e signore di Arezzo. Non ancora cinquantenne, il presule guerriero stava rientrando in città con il suo contingente, dopo un incontro non del tutto amichevole, nei pressi di Pisa, con Castruccio Castracani e Ludovico il Bavaro, che lui stesso aveva incoronato imperatore a Milano, meritando cosí la scomunica di papa Giovanni XXII (vedi box alle pp. 70-71). A Pisa, proprio dinnanzi all’imperatore, Guido aveva infatti avuto uno scontro con Castruccio, grande signore ghibellino e già signore di Lucca. Giovanni Villani (1276 circa-1348), nella Nuova cronica (pubblicata postuma nel 1537), riporta che volarono insulti: «Guido Tarlati (…) si partí da Pisa dal Bavaro assai male contento, per grosse parole e rimprocci avuti da Castruccio dinanzi al detto signore». Tra i vari rimproveri, Castruccio diede all’Aretino del traditore «dicendo che quand’egli sconfisse i Fiorentini ad Altopascio, e venne con Azzo Visconti a Pere-

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In basso il Duomo di Arezzo, intitolato ai santi Donato e Pietro. Il cantiere del grandioso edificio fu avviato nel 1278, ma la costruzione si protrasse fino ai primi anni del XVI sec.

Il monumento in sintesi

Arte e propaganda Perché è importante Il monumento funerario di Guido Tarlati spicca per le sue dimensioni (12,90 x 4,50 m) ed è il piú grande monumento funebre del gotico italiano. Il cenotafio è un magnifico esempio di glorificazione del vescovo-signore di una città agli inizi del Trecento, quando l’immagine e l’arte sono elementi irrinunciabili per la propaganda politica. Esso ci fornisce, inoltre, informazioni preziose su numerosi edifici e castelli dell’area aretina, in molti casi scomparsi o distrutti. Il cenotafio nella storia L’opera fu completata nel 1330, per volere dei fratelli del vescovo,

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morto tre anni prima. Dopo la cessione a Firenze (1337), siglata da Pier Saccone Tarlati, la nobile famiglia cadde in disgrazia e il popolo aretino, nel 1341, durante una sommossa, rivolse la propria ira contro il monumento, distruggendolo parzialmente. Molte statue e numerose formelle furono private delle teste, per essere restaurate solo nel 1783 da Angelo Bini. Il cenotafio nell’arte Il cenotafio del vescovo Tarlati fu affidato al lavoro dei piú famosi scultori senesi dell’epoca, Agostino di Giovanni e Agnolo di Ventura. L’opera è assai complessa e composta da piú sezioni, tra cui spiccano le sedici formelle che scandiscono la vita e le imprese del presule aretino. A destra veduta d’insieme del cenotafio, con, in alto, lo spazio vuoto nel quale doveva verosimilmente trovarsi una statua del vescovo; al di sotto, la tomba vuota e le formelle che raffigurano gli episodi salienti della vita di Guido Tarlati.

Una vita in sedici capitoli 1. Fatto vescovo 2. Chiamato signore (nel 1321) 3. Il Comune pelato 4. Comme in Signoria 5. El Fare de le Mura 6. Lucignano 7. Chiusci 8. Fronzola 9. Castel Focognano 10. Rondine 11. Bucine 12. Caprese 13. Laterina 14. Il Monte San Savino 15. La Coronazione 16. La morte di Misere

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saper vedere arezzo tola, se ‘l vescovo d’Arezzo fosse venuto colle sue forze verso Firenze per la via di Valdarno, la città di Firenze non si potea tenere, e in parte si potea appressare al vero». Tarlati replicò accusandolo di tirannia, poiché aveva cacciato da Pisa e da Lucca tutti i grandi ghibellini, e di arroganza per aver provocato la guerra contro Firenze che, senza i suoi aiuti militari, non avrebbe potuto mai sostenere. A sua volta, Castracani diede del bastardo fiorentino a Tarlati, essendo sua madre una Frescobaldi.

La fatale traversata della Maremma

Agitato da pensieri contrastanti, Guido puntò su Arezzo, evitando i territori nemici: da Pisa prese la via del mare, entrando in Maremma e poi inoltrandosi in territorio senese. Sulle cause della sua morte le fonti parlano di «febbre maligna», di «malattia», aggravata dal fatto che il vescovo fu «da Castruccio offeso e ferito». Non fu certo il solo a essere colpito da questo male, probabilmente febbre malarica: gli Annali Aretini registrano infatti che «multi ibi infirmati sunt». Del resto, le terre di Maremma, in quei decenni non brillavano per salubrità: Dante stesso le ricorda, assieme alla Val di Chiana e alla Sardegna, come ricettacolo di bisce, di zanzare e di acque stagnanti e maleodoranti. Sembra che prima di morire – come narra ancora Villani –, circondato da frati e chierici, Tarlati si pentisse dei suoi peccati, riconoscendo che «papa Giovanni era giusto e santo, e ’l Bavaro, che si facea chiamare imperadore, era eretico e fautore d’eretici, sostenitore di tiranni e non giusto né degno signore, promettendo e giurando (e di ciò a piú notai fece fare solenni carte), che se Dio gli rendesse sanitade, che sempre sarebbe obbediente a Santa Chiesa e al Papa, e nimico de’ suoi

ribelli. E con molte lacrime domandò penitenzia e misericordia; ebbe i sagramenti di Santa Chiesa e colla detta contrizione morí» (Nuova cronica, Libro XI, XXXVI). L’episodio suscitò un certo clamore in Toscana: Guido aveva infatti accresciuto notevolmente sia il territorio diocesano che

Guido Tarlati di Pietramala

Un pastore della fede con l’animo del condottiero Guido era membro della nobile famiglia ghibellina dei Tarlati, detti da Pietramala, dal nome del castello di cui pochi resti sopravvivono sui monti, ad appena 8 km da Arezzo. Era una famiglia di origine longobarda discesa da Teuzone dei marchesi di Colle. Ne sarebbe stato capostipite un Adalberto, vissuto attorno al Mille. Guido era canonico della cattedrale quando fu eletto vescovo della città e consacrato nel 1312 da papa Clemente V, ad Avignone. Il suo episcopato seguiva quelli di Guglielmo Ubertini e di Bandino dei conti Guidi;

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contro il secondo, di simpatie guelfe e filofiorentino, combatterono sia i Tarlati che gli Ubertini. Il giovane vescovo incentivò le istituzioni monastiche e dette la sua autorizzazione al nuovo ordine degli Olivetani. Pochi anni dopo l’elezione, si preoccupò di abbellire la propria città, avviando numerose opere urbanistiche e architettoniche: nel 1318, «elevata et alzata est turris Comunis de mattonibus», l’anno seguente, iniziarono i lavori del nuovo circuito murario, che furono completati intorno

al 1321, non casualmente lo stesso anno in cui Guido fu eletto signore a vita di Arezzo. Nel 1320, venne avviata la ristrutturazione del vecchio Palazzo del Comune e, nel 1322, edificato, «in civitate», il palazzo per il suo alleato, Federico da Montefeltro. Cercò di pacificare la città, divisa fra Guelfi e Ghibellini, anche con metodi spregiudicati. Sospese la politica di contrapposizione diretta con Siena e Firenze, attuando invece una strategia che puntava all’autonomia di Arezzo, svincolandosi quindi dalla città del giglio. Assieme a maggio

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CHIAMATO SIGNORE (nel 1321) La scena si riferisce alla decisione di nominare Guido Tarlati signore a vita della città di Arezzo, presa nello stesso anno in cui furono portati a compimento i lavori di costruzione della nuova cinta muraria.

Uguccione della Faggiuola, Federico da Montefeltro e Castruccio Castracani, Guido fu a capo di tutte le imprese militari della Parte ghibellina di Toscana: era a Montecatini, quando Firenze fu sconfitta da Uguccione (1315), e ad Altopascio, dove Castracani ebbe la meglio sui Guelfi (1325). Per questo incorse nell’interdetto e poi nella scomunica, fino a essere sospeso e poi deposto dalla cattedra vescovile (1325, 1326) e rimpiazzato da Boso Ubertini. Nello scontro armato con i conti Guidi di Romena, di parte guelfa, riuscí a

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IL COMUNE PELATO La scena è una rappresentazione in chiave allegorica del malgoverno dei predecessori del Tarlati: vi si vede un uomo a cui altri tirano la barba, che trova riscontro in un perduto affresco di Giotto.

strappar loro numerosi castelli, tra cui la grande fortezza di Fronzola, oggi diruta. Un proverbio locale ancora ne ricorda la potenza: «Quando Fronzola fronzolava, Poppi e Bibbiena tremava». Condusse invece una politica espansionistica nella zona meridionale e orientale. Nel 1323, con l’aiuto di Francesco Ordelaffi, signore ghibellino di Forlí, prese Città di Castello. Questa attività militare verso i territori del Patrimonio di San Pietro, assieme all’adesione al partito di Ludovico il Bavaro gli attirarono le ire di papa Giovanni

XXII, che lo scomunicò nel 1326. Ciononostante, Guido proseguí la sua attività e, l’anno seguente, incoronò il Bavaro in Milano, coadiuvato da altri due vescovi: ma fu lui a porre la corona ferrea sul capo dello scomunicato imperatore. Giunto a Pisa per partecipare all’assedio della città, ebbe un feroce diverbio con Castruccio Castracani, al cospetto dell’imperatore e, ferito dagli insulti, decise di tornare ad Arezzo. Colpito probabilmente da malaria in Maremma, morí presso il castello di Montenero in Val d’Orcia il 21 ottobre 1327.

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saper vedere arezzo COMME IN SIGNORIA La formella allude al ristabilimento dell’autorità del Comune per opera di Guido Tarlati. EL FARE DE LE MURA La scena illustra l’innalzamento della cerchia muraria, promosso da Tarlati e realizzato tra il 1319 e il 1321; al termine dei lavori, Arezzo si trovò racchiusa nella cinta piú ampia di cui avesse mai potuto disporre, il cui circuito si snodava per 5000 m ed era scandito da una decina di porte.

quello comitale di Arezzo, portando poi la città a dimensioni sino ad allora mai viste. Il corpo del vescovo, che era stato anche eletto signore a vita della città nel 1321, vi fu trasportato con un triste corteo sino ad Arezzo e qui gli furono tributati funerali solenni. Alla morte del carismatico prelato, il potere passò in modo quasi naturale al fratello, Pier Saccone, il quale, però, non ne aveva le stesse doti politiche e, comunque, non appena insediatosi, si preoccupò di glorificare la memoria di Guido, alla cui ombra tentò di vivere la propria, in realtà ingloriosa, ascesa.

posaldo fondamentale per la storia della scultura gotica italiana» e che è il piú grande monumento funebre del gotico italiano. Iniziato presumibilmente nel 1327, fu commissionato da Pier Saccone e Bico Albergotti ai celebri scultori senesi Agostino di Giovanni e Agnolo di Ventura (vedi box a p. 74), che ultimarono il lavoro nel

Il cantiere del Duomo

Quasi mezzo secolo prima, nel 1278, grazie ai 30 000 fiorini d’oro elargiti da papa Gregorio X morente in città, era stato aperto il cantiere del Duomo di Arezzo. I lavori, però, erano stati interrotti piú volte e subirono una brusca battuta d’arresto nel 1289, dopo il disastro militare di Campaldino. Nel 1320, proprio al tempo di Guido Tarlati, ripresero alacremente, per essere interrotti nuovamente nel 1327, alla notizia della sua morte. Furono quindi nuovamente avviati da Pier Saccone e dai Tarlati, i quali dovettero certamente finanziare il portale laterale con le statue realizzate da Niccolò Spinelli nel 1380, poco prima che Arezzo perdesse per sempre la sua autonomia. Negli stessi anni venne anche commissionata un’opera che, per la sua originalità, è stata definita «un ca-

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la cuspide che sovrasta un ampio vano, oggi vuoto, nel quale si ritiene dovesse trovarsi una grande statua del vescovo defunto e di cui qualche frammento si conserva oggi nel Museo Archeologico di Arezzo. Tra questi frammenti, spicca in particolare una «nobilissima testa di guerriero riferibile ad Agostino di Giovanni», che è una sorta di ritratto realistico, psicologico e sublimato del vescovo-signore.

Come un vincitore

1330. Si tratta di un cenotafio, cioè un monumento funebre privo di sepoltura, che, nel 1783, dalla Cappella del Sacramento, sua posizione originale, fu trasferito presso la porta della sagrestia del Duomo di Arezzo, dove tuttora si trova. Il cenotafio è costituito da una sorta di enorme tabernacolo, sormontato da un timpano con

Probabilmente distrutta nel 1341, al tempo della cacciata da Arezzo di Pier Saccone e dei Pietramala, la statua era seduta o equestre, come aveva desunto Anna Maria Maetzke (1942-2004) che cosí motivava la sua ipotesi: «La torsione del volto di tre quarti che guarda di fronte dalla destra, volgendo con una forzatura impercettibile il mento a sinistra, sembra proprio essere determinata da una posizione perfettamente di profilo del corpo, forse a cavallo, per rendere visibile al massimo il volto dal basso». Cosí come per le statue degli Scaligeri a Verona, anche qui il signore della città aretina viene scolpito «per affermare la propria perennità, mostrando ai sudditi il loro padrone in veste di vincitore», come ha scritto Georges Duby (1919-1996) a proposito di Cangrande. Nel tabernacolo si trova poi la camera funebre, in cui si può scorgere l’immagine del vescovo giacente, ma che, in realtà, non contiene il cadavere del Tarlati. Sotto di essa si apre quella che è la grande innovazione dell’opera, prodotta dal genio architettonico e scultoreo dei due artisti senesi: è la storia che sostituisce in modo evidente l’allegoria. Rimane però ancora qualcosa di que(segue a p. 76)

LUCIGNANO Il borgo della Val di Chiana, nella Toscana meridionale, fu tra quelli conquistati da Guido Tarlati nell’ambito della politica espansionistica che questi perseguí nei primi anni Venti del Trecento. CHIUSCI La scena illustra l’assedio di Chiusi della Verna, nel Casentino. Nel piccolo borgo, famoso perché comprende il santuario nel quale san Francesco avrebbe ricevuto le stimmate, la contessa Caterina Tarlati fece erigere la cappella di S. Maria Maddalena, nella quale si conserva la pietra su cui si sarebbe seduto Gesú quando apparve al santo di Assisi.

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FRONZOLA La formella mostra gli uomini del vescovo guerriero che espugnano l’omonimo castello, situato nei pressi di Poppi. La conquista fu portata a termine nel 1322, nel quadro delle lotte contro i conti Guidi di Romena.

gli autori

Un capolavoro a quattro mani Agostino di Giovanni, figlio di un magister, viene ricordato da Giorgio Vasari, con molte ma inattendibili notizie, insieme con il suo collega, Agnolo di Ventura. La piú antica informazione su Agostino risale all’11 settembre 1310 e concerne il matrimonio contratto con Lagina di Nese. Nel 1329, mentre lavorava al cenotafio di Guido Tarlati, venne compensato dal Comune di Siena per aver portato una lettera a Pier Saccone ad Arezzo. Come recita la dedica, Hoc opus fecerunt magister Augustinus et magister Angelus de Senis MCCCXXX, il monumento funebre del vescovo guerriero fu ultimato nel 1330. Negli anni seguenti sono attestati suoi lavori a Siena,

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ad Arezzo, a Massa Marittima, dove intervenne sulla fortezza, e ancora a Orvieto. Agostino fu molto attivo a Siena, dove lavorò per far arrivare l’acqua alla fonte del Campo o per costruire la facciata del palazzo Sansedoni. Nel 1340, il figlio Giovanni, con cui collaborò piú volte, fu introdotto dal padre alla carica di capomastro dell’Opera del Duomo. Morí probabilmente intorno al 1347. Quanto ad Agnolo di Ventura, sembrerebbe identificabile con l’Angelus de Senis che compare nell’iscrizione posta sul cenotafio. A lui vengono attribuiti i progetti per la Porta S. Agata, costruita nel 1325, e per la Porta Romana di Siena. Nel 1333, dopo il cenotafio, è ancora nella città del Palio, dove, con

altri maestri, esegue una stima dei grandiosi lavori del Duomo, e poi a Grosseto e a Massa Marittima, dove si occupò della costruzione delle rispettive fortificazioni. Secondo la distinzione delle due mani, proposta da Werner Cohn-Goerke, nel cenotafio sarebbero opera di Agnolo i rilievi delle due fasce centrali del monumento, perlopiú relativi a imprese di guerra (Costruzione delle mura di Arezzo, Assedio di Chiusi, Presa del castello di Fronzola, di Castel Focognano, di Rondine, di Caprese); alcuni inserti nelle formelle con la Resa di Lucignano e la Resa di Bucine; undici delle quindici statuette raffiguranti il vescovo, poste fra le formelle. maggio

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CASTEL FOCOGNANO Il castello, situato all’estremità meridionale del Casentino, cadde nelle mani di Guido Tarlati nel 1322, dopo sei mesi di assedio, ma solo grazie alla realizzazione di «un camminamento sotterraneo».

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CAPRESE Ancora un episodio legato al conflitto con i conti Guidi di Romena: il 7 gennaio 1324, dopo un assedio protrattosi per tre mesi, il vescovo di Arezzo espugna il castello di Caprese, conquistandone tutto il territorio.

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sto modo espressivo oramai al tramonto: nella cuspide, infatti, compare una grande aquila, il simbolo ghibellino e dell’impero, la fazione a cui Guido era legato e di cui fu strenuo promotore. Lo stemma della famiglia, sei dadi d’oro su campo azzurro, è infatti sormontato dal capo dell’impero, l’aquila nera ad ali spiegate. Ma le sedici formelle a rilievo, disposte su quattro file, sono altrettanti episodi storici e realistici della vita di Guido. Esse sono intervallate da statuette del vescovo (tutte decapitate nel 1341 e poi successivamente restaurate) e hanno iscrizioni esplicative scolpite nelle cornici, probabilmente rifatte verso la fine del XVIII secolo. Le

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formelle scandiscono i momenti salienti della vita del Signore della città, dalla sua elezione sino alla morte (vedi box e foto a p. 69 e alle pp. seguenti).

La possibile spartizione dei rilievi

Alcuni studiosi, tra cui Werner Cohn-Goerke, hanno tentato di distinguere le mani dei due collaboratori attribuendo ad Agnolo di Ventura una visione spaziale piú organica e un modellato piú nitido, anche se talvolta un po’ rigido, volto a rendere effetti di profondità nella netta scansione dei piani, ben visibili nelle rappresentazioni dei castelli. maggio

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LA MORTE DI MISERE Il 21 ottobre 1327, Guido Tarlati di Pietramala muore nel castello di Montenero in Val d’Orcia, forse per aver contratto la malaria in Maremma, che aveva attraversato nel viaggio di rientro ad Arezzo, dopo l’incontro con Castruccio Castracani e Ludovico il Bavaro nei pressi di Pisa. LA CORONAZIONE La scena evoca l’incoronazione a imperatore di Ludovico il Bavaro, avvenuta nel Duomo di Milano, il 16 giugno 1327, per mano di Guido Tarlati.

La scelta degli episodi scolpiti nel cenotafio merita qualche considerazione. La vita di Guido Tarlati, infatti, è scandita nel monumento da eventi che ruotano attorno al microcosmo comitale e diocesano aretino con rappresentazioni di castelli anche molto verosimili, come attesta, per esempio, la raffigurazione della fortezza di Rondine, ancora visibile e ben riconoscibile nella formella scultorea: ci si concentra sull’espansione della città, ricordando l’enorme impresa di costruzione del circuito murario, edificato con l’aiuto della «parte ghibellina di Milano che gli mandò quattrocento muratori e denari», come ricorda Giorgio Vasari (il piú ampio che Arezzo eb-

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be nella sua storia, raggiungendo un perimetro di circa 5000 m, lungo il quale si aprivano almeno dieci porte), con la rappresentazione della torre campanaria del Palazzo del Comune.

Celebrazioni e censure

Si esaltano poi le imprese a nord del Casentino, con la conquista di Fronzola, Chiusi, per passare a quelle in Val di Chiana, con Lucignano e Monte San Savino, ma non si dà il giusto risalto, anzi si tacciono completamente eventi ben piú grandi dei quali Guido è stato protagonista. Al di là dell’incoronazione a imperatore di Ludovico il Bavaro, avvenuta in S. Ambrogio, a Milano, il 26 giugno 1327, i due scultori senesi non ebbero evidentemente la richiesta di raffigurare la guerra contro Città di Castello e Perugia, la cavalcata d’Altopascio o i gloriosi Parlamenti imperiali. Dietro il disegno primigenio del cenotafio, dietro l’oculata scelta delle «imprese» da raffigurare si scorge allora la politica successiva alla morte di Guido, proiettata non piú su scala internazionale, ma su ciò che piú realisticamente si poteva prospettare per la città aretina. Non fu probabilmente Pier Saccone a proporre una simile visione, ma il piú pragmatico Bico Albergotti il quale, pur guelfo, collaborò con Guido Tarlati in qualità di vicario, in un governo di ampie vedute che coinvolse membri di ambo le fazioni.

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di Marco Di Branco

ARABI E PERSIANI

Due mondi in conflitto

Le tensioni e le violenze che tuttora dilaniano l’universo islamico hanno radici remote: gli eventi dei quali siamo oggi testimoni, infatti, rinnovano una rivalità manifestatasi fin dal tempo del Profeta Maometto. E nella quale si intrecciano in maniera inestricabile questioni politiche e religiose Particolare di una miniatura raffigurante una battaglia tra Iraniani e Turaniani. tratta da un’edizione del poema epico Shah-Nameh (Libro dei re) di Firdusi. XVI sec. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.


Dossier

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recenti avvenimenti legati al duro scontro politico tra la Repubblica islamica dell’Iran e gli esponenti del regno dell’Arabia Saudita vanno letti nel quadro dell’attuale e intricatissima situazione internazionale, ma hanno anche profonde radici storiche, che ci riportano indietro di molti secoli, all’epoca dell’incontro – e dello scontro – tra il grande impero persiano al tramonto e il califfato arabo-islamico agli albori: il VII secolo d.C., il periodo della straordinaria epopea delle conquiste islamiche. Si tratta, in apparenza, di una sfera molto lontana dalle vicende odierne, eppure proprio simili vicende dimostrano come le scienze storiche – anche in una società tecnologica e globalizzata come la nostra – conservino un ruolo sociale e politico estremamente importante, perché offrono chiavi di lettura preziose di una realtà sempre piú complessa e perché possono contribuire a fornire soluzioni ai sempre piú pressanti problemi di convivenza interculturale e interreligiosa della società contemporanea.

Nascita di una dinastia

Nel I secolo d.C., l’impero dei Parti, che era stato per lungo tempo il grande avversario di Roma, cominciò a indebolirsi a causa di continue lotte dinastiche scoppiate all’interno della famiglia reale. La poligamia praticata dai re arsacidi generava un gran numero di eredi, sempre in lotta per la conquista del trono. I Romani passarono decisamente all’offensiva con Traiano, il quale conquistò e trasformò in provincia l’Armenia nel 114, e, l’anno successivo, occupò l’intera Mesopotamia, fino al Golfo Persico. I Parti non opposero alcuna resistenza. L’ultimo scontro di una certa rilevanza avvenne in occasione del regno dell’imperatore Settimio Severo (193-211 d.C.), e si risolse

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Iran, Naqsh-iRustam, presso l’antica Persepoli. Rilievo raffigurante l’investitura del sovrano achemenide Artaserse I (465-425 a.C.). III sec. d.C. Scolpita su una parete rocciosa, la scena mostra il re (a sinistra) che riceve dal dio Ahura Mazda il simbolo della regalità. Ai piedi dei cavalli giacciono i nemici sconfitti.



Dossier con un’altra vittoria per i Romani, che espugnarono e saccheggiarono la capitale partica, Ctesifonte, nel 197. Per i Parti era la fine: nel 224, la dinastia venne rovesciata da Ardashir, sovrano del piccolo regno del Fars, l’antica Perside che un tempo aveva dato i natali a Ciro e Dario. Ardashir fondò quindi una nuova dinastia persiana, quella dei Sasanidi (da Sasan, il capostipite della famiglia), che, in pochi anni, si impadroní di Iran e Mesopotamia, e, in nome dell’antica eredità achemenide, contestò efficacemente a Roma il dominio sul Vicino Oriente. Il rinnovato vigore con cui i Sasanidi riuscirono ad affermarsi in Oriente era dovuto principalmente alle riforme politiche e militari che caratterizzarono la nascita e lo sviluppo dell’impero sasanide. A differenza dei Parti, i Persiani organizzarono lo Stato in maniera molto piú accentrata, imponendo il culto di Ahura Mazda (o mazdeismo; vedi box a p. 87) come religione ufficiale.

Cavalieri corazzati

L’esercito sasanide si distingueva per l’impiego sistematico della cavalleria corazzata, che cominciò a utilizzare anche armature di maglia, piú flessibili e leggere; l’introduzione di nuovi reparti, come gli elefanti da guerra e, soprattutto, per lo sviluppo di una valida tecnica d’assedio. Quest’ultima modifica si rivelò di fondamentale importanza, perché sanò la grave lacuna che sempre aveva impedito ai Parti di condurre offensive su larga scala contro i numerosi centri fortificati della Siria romana. Al VI secolo risale, infine, la comparsa di una fanteria pesante in grado di affrontare con successo anche la storica controparte romana. Era reclutata fra i Dailamiti, un popolo iranico abitante i monti a sud del Mar Caspio. Questi fanti

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combattevano con un equipaggiamento che ricordava molto da vicino quello dei legionari, essendo dotati di grandi scudi ovali, una coppia di giavellotti pesanti, un’ascia o una daga corta per il combattimento ravvicinato. Fieri e rudi come qualsiasi altro popolo di montanari, i Dailamiti non furono mai conquistati dagli Arabi e, in epoca islamica, divennero fra i mercenari meglio pagati e piú ricercati per le loro doti guerresche.

Classi e ceti

In alto piatto in argento dorato raffigurante un re che abbatte un toro. Arte sasanide, IV sec. Londra, British Museum. Il sovrano porta una corona del tipo di quella attestata al tempo di Shapur II (370-379). A destra testa di cavallo in argento dorato, da Kerman (Iran). Arte sasanide, IV sec. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto testa in argento dorato, verosimilmente raffigurante Shapur II. Arte sasanide, IV sec. New York, Metropolitan Museum of Art.

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La società sasanide era divisa in modo fortemente gerarchico in quattro classi «professionali» e in quattro ceti sociali, i cui mutui rapporti non ci sono ben noti. Le classi «professionali» sono quelle degli «ecclesiastici», dei «guerrieri», dei «segretari» e del «popolo» (comprendente agricoltori e artigiani). I ceti sociali sono quelli dei «principi» (i grandi vassalli dell’imperatore persiano), dei «capi» (membri delle maggiori famiglie persiane e grandi proprietari (segue a p. 87)

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Nascita della dottrina islamica a opera di Maometto (610-622) Impero romano d’Oriente all’inizio dell’espansione araba Impero persiano-sasanide all’inizio dell’espansione araba CONQUISTE ARABE Territori unificati da Maometto (622-632) Unificazione dell’Arabia con Abu Bakr (632-634)

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Battaglie decisive per l’esito delle prime due guerre civili arabe (656-661 e 680) Rivolta abbaside (terza guerra civile). Fine della dinastia omayyade e inizio dei califfati abbasidi (750)

SAHI Nascita delle dinastie autonome 830 del califfato abbaside e data Altre grandi battaglie del mondo arabo durante l’espansione e i conflitti interni Principali campi militari dell’esercito arabo-islamico Impero carolingio in sfacelo ai tempi di Carlo il Grosso (887) Impero bizantino

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l’avesta

Il libro sacro della Persia Qual è l’origine dell’uomo e delle cose create, quale il loro destino, quale logica regge il tutto? A queste domande rispondono i testi iranici che conosciamo col nome di Avesta (Il fondamentale), scrittura sacra dell’antichissima religione monoteista che onora Ahura Mazda («Signore che crea col pensiero») e i suoi divini collaboratori (tra i quali Mitra, divenuto celebre in epoca romana) e combatte il malvagio Ahriman («Spirito del Male»). Tramandata per secoli oralmente o, come vuole un’altra tradizione, subito dettata dal profeta Zoroastro (forma grecizzata di Zarathustra) ai suoi discepoli, questa Parola, o rivelazione divina, è stata canonizzata in una raccolta di testi che costituisce tutt’ora il libro sacro dei Mazdei. L’opera si è accresciuta nel tempo: la sua presumibile prima stesura del X secolo a.C. ha trovato compimento solo alle soglie dell’era islamica. Al messaggio zoroastriano originario, l’Avesta piú antico, si sono via via aggiunti nuovi inni, nuove disposizioni liturgiche e rituali, nuove regole e relativi commenti esegetici e teologici, che costituiscono l’Avesta piú recente. Particolare di una miniatura raffigurante Maometto che guida i suoi discepoli alla battaglia di Badr contro l’esercito pagano della Mecca, da un manoscritto turco. 1368. Istanbul, Museo del Palazzo Topkapi.

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terrieri), dei «grandi» (i piú alti rappresentanti della burocrazia) e dei «nobili» (la piccola nobiltà e la burocrazia provinciale).

Il «re dei re»

Al ceto dei «principi» appartenevano i governatori delle grandi province, che spesso detenevano il titolo di shah («re»): per questo il re sasanide era lo shahanshah (il «re dei re»); nel ceto dei «nobili» sono particolarmente importanti i «capivillaggio», possessori ereditari delle piccole amministrazioni locali e nerbo dell’iranismo anche in epoche posteriori alla conquista islamica. Accanto al re c’era il Gran Vizir (originariamente il «capo della guardia»), mentre il capo dell’amministrazione religiosa era il moba-

Doppia pagina di un’edizione del Videvdad, un testo dell’Avesta sui rituali di purificazione. Il manoscritto fu copiato nel 1323 a Navsari, Gujarat, dallo scriba Mihraban Kaykhusraw. Londra, The British Library.

danmobad, cioè il «mago dei magi». Responsabile dell’imposta fondiaria (che consisteva in una tassa oscillante tra 1/6 e 1/3 del raccolto, secondo la fecondità della terra) era il ministro delle finanze. Il comando dell’armata sasanide era affidato a un «generale in capo», che aveva anche le funzioni di ministro della guerra. Molto importanti erano i «segretari», tenuti a conoscere il difficile sistema di scrittura aramaico-iranico utilizzato dai Sasanidi e costituivano il nucleo fondamentale della burocrazia imperiale. Il quadro amministrativo era infine completato dai «governatori delle province», che sostituirono i satrapi dell’epoca achemenide. Il ceto sociale e la proprietà erano dunque i pilastri su cui poggiava

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Dossier tutta la società persiana. A impedire ogni tipo di mobilità sociale erano anche precetti religiosi: il mazdeismo raccomandava infatti il matrimonio fra parenti stretti, considerava la ricchezza un bene assoluto e prescriveva la strenua difesa della proprietà.

Bagliori di rivolta

Tuttavia, tra la fine del V e l’inizio del VI secolo d.C., per vari motivi – compreso l’indebolimento delle istituzioni –, la società iranica subí una forte scossa a opera di un movimento che, dal nome del suo leader, Mazdak, prese il nome di «movimento mazdakita». I suoi seguaci affermavano che l’origine di tutte le ingiustizie del mondo era la «brama» che invoglia al possesso di cose e di donne e che pertanto «i ricchi e i potenti sono uguali ai poveri dalle mani vuote di beni» e «non è giusto che qualcuno abbia ricchezze superflue»; «donne e beni bisogna dunque metterli in comune». Fonti persiane e bizantine affermano che, durante una carestia che metteva a dura prova la pace sociale, Mazdak riuscí a convincere di queste sue teorie «comuniste» il sovrano persiano Kavadh (488-531) e, all’interno della corte nacquero due partiti avversi, uno favorevole e uno contrario alle dottrine mazdakite. Dopo alterne vicende, Kavadh fu deposto, e quando ritornò al potere, grazie all’aiuto degli Unni Eftaliti, si liberò di Mazdak, facendolo assassinare. Il movimento non sopravvisse al suo fondatore, ma le sue idee non morirono con lui e minarono alla base la tenuta sociale dell’impero persiano, che, anche per questo motivo, davanti alle forti e coese armate arabe, non seppe reagire come avrebbe dovuto. In una monografia dedicata alle

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conquiste dell’Islam, il grande arabista italiano Francesco Gabrieli (1904-1996) riassunse con estrema chiarezza lo sconcerto degli studiosi davanti alla rapidità e durevolezza del fenomeno: «Le conquiste arabe nel VII-VIII secolo dell’era nostra costituiscono uno dei piú appassionanti e imbarazzanti problemi della storia. La loro rapidità e durevolezza, la vastità dei territori su cui si estesero, e soprattutto la sproporzione tra i mezzi impiegati

e i risultati conseguiti, han sempre provocato lo stupore e sollecitato l’ingegno degli storici nella ricerca di una spiegazione adeguata. Lo spettacolo di un’accozzaglia di nomadi, senza alcuna tradizione militare né esperienza di guerra se non scaramucce e guerriglie di rapina nel deserto, che a un dato momento si irradiano di là in tutte le direzioni, affrontano e sconfiggono eserciti regolari di grandi imperi, e in esili colonne avanzano

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In alto piatto istoriato in argento dorato raffigurante l’ultimo sovrano sasanide, Yadzagard III. VII sec. Parigi, Bibliothèque Nationale. Il re sta cavalcando al galoppo, mentre tende l’arco verso un branco di animali in fuga. In basso sono raffigurate le numerose prede già abbattute. A sinistra piatto istoriato in argento dorato raffigurante Senmurv, mitico animale con sembianze miste di uccello e di cane. VII sec. Londra, British Museum. L’Avesta descrive Senmurv come un essere che vive su un albero di cui sparge sulla terra i semi salutiferi sbattendo le ali.

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«Le conquiste arabe nel VII-VIII secolo dell’era nostra costituiscono uno dei piú appassionanti e imbarazzanti problemi della storia» (Francesco Gabrieli) 89


Dossier In basso cavalieri di Maometto alla carica durante la battaglia di Badr, da un’edizione del Siyer-i Nebi (Vita del Profeta). 1388 circa. Parigi, Museo del Louvre.

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur Le fonti islamiche mostrano che i tendamusam califfi di Medina esercitavano un notevole controllo sugli eserciticonsent, delle perspiti conquiste e forniscono conseque nis destituzione di governatori esempi dell’invio di truppe da un luogo all’altro, della maxim autori di conquiste e della loro sostituzione con eaquis uomini di fiducia. Gli eserciti cones musulmani erano composti in prevalenza earuntia da uomini adulti, senza famiglie o greggi e mandrie; la migrazione delle tribúapienda. seguiva la conquista. Le armi usate

Gli eserciti delle conquiste

Ben equipaggiati e mobilissimi

erano la spada e la lancia; c’erano anche arcieri e alcuni di loro indossavano

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probabilmente cotte di maglia ed elmi in ferro. Esistevano sia reparti di fanteria, che di cavalleria, ma i fanti venivano a volte trasportati sul campo di battaglia a dorso di cavallo o di cammello. Quest’ultimo veniva ampiamente utilizzato per qualunque tipo di trasporto. Le truppe arabe erano estremamente mobili, soprattutto nelle terre semidesertiche, ed erano dunque in grado di colpire dove volevano per poi ritirarsi in luoghi sicuri. Sin dalla fase iniziale delle conquiste, agli Arabi si unirono gruppi di combattenti non arabi, che introdussero nell’esercito islamico nuove tattiche e nuove tecniche militari.

A destra busto in bronzo di regnante sasanide. V-VI sec. Parigi, Museo del Louvre.

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irresistibilmente sino a migliaia di chilometri dalla loro terra d’origine, accampandovisi in stabile dominio. Questo fenomeno, tante volte raffigurato in questi termini da farli apparir triti e banali, serba tuttora qualcosa di inspiegabile e misterioso» (in Maometto e le grandi conquiste arabe, Roma 1996).

Fu vero «miracolo»?

La tentazione è quella di considerare le conquiste arabe come una sorta di «miracolo», soprattutto se si svaluta la natura delle prime incursioni degli eserciti musulmani, spesso erroneamente ritenute dagli studiosi alla stregua di azioni brigantesche o piratesche. In effetti, almeno nella loro fase iniziale, sia le prime spedizioni militari guidate dal Profeta, sia quelle capitanate dai generali musulmani inviati dai califfi a occupare la Siria e l’Iraq non sono altro che scorrerie. In particolare, la celeberrima battaglia di Badr (624), considerata da storici, tradizionisti e giuristi islamici come l’archetipo classico della «guerra santa» (jihad), fu poco piú di una razzia ai danni di una carovana meccana. Ugualmente, le prime sortite arabe contro la Siria cominciarono già negli ultimi anni di vita di Maometto, su piccola scala e senza molto successo, nella forma di attacchi improvvisi a villaggi e carovane finalizzati all’acquisizione di bottino, e quelli alla regione mesopotamica ebbero inizio, sotto la guida di alMutanna b. al-Haritha, come scorribande e saccheggi portati a termine non per insediarsi o conquistare, ma semplicemente per affermare il diritto dei nomadi a esigere un tributo. Proprio il carattere apparentemente «estemporaneo» delle prime conquiste isla-

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miche ha portato alcuni studiosi contemporanei a porre l’accento sui fattori incidentali che le caratterizzano: il movimento non avrebbe avuto alcuna coerenza, né avrebbe obbedito a principi dettati da un’autorità centrale, ma sarebbe consistito essenzialmente in razzie accidentalmente coronate dal successo; l’idea di una conquista pianificata sarebbe stata dunque una sorta di mito inventato dagli storici e dai tradizionisti musulmani almeno un secolo dopo gli eventi in questione. Tale approccio appare per molti versi infondato: numerosi indizi suggeriscono infatti che la conquista fosse stata organizzata ideologicamente e strategicamente dal potere centrale (cioè dai cosiddetti

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«califfi ben guidati») e che anche gli apparenti piccoli raid tribali fossero stati, in realtà, accuratamente pianificati dall’élite del nuovo Stato islamico, secondo una strategia ben precisa.

Un’autentica missione

Per i membri della comunità (umma) fondata dal profeta Maometto che componevano gli eserciti inviati dai califfi in Persia, in Siria, in Egitto e in Nord Africa, la guerra costituiva una vera e propria missione esercitata per conto di Dio. Tale missione è a volte definita come jihad, un termine piú volte utilizzato nel Corano e derivante dalla radice araba jahada, che ha il senso di «esercitare uno sforzo». La parola esprime

un ampio spettro di significati, dalla lotta interiore esercitata dal mistico per attingere una perfetta fede, fino al combattimento difensivo o offensivo «sulla via di Dio». Il concetto di jihad è comunque indissolubilmente legato a quello di umma, l’insieme dei credenti nel messaggio profetico. A distinguere il jihad dalla classica solidarietà tribale vigente fra gli Arabi non era l’idea di combattere per la comunità, ma la natura della comunità per la quale si combatteva.

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Il jihad, ovviamente, facilitava l’espansione e forse anche la coesione della comunità islamica, ma si trattava comunque di un prodotto della nascita dell’Islam, non di una sua causa; e, piú precisamente, di un prodotto dell’impatto del nuovo concetto di comunità sulla vecchia idea del combattere fino alla morte per la comunità stessa. Tuttavia, sino alla fine dell’VIII secolo, fra gli intellettuali dei maggiori centri musulmani si registra un notevole disaccordo sull’idea di jihad: tale dissonanza concerne fondamentalmente il problema della natura del dovere stabilito dal jihad (è un dovere che spetta a tutti? Spetta a ciascun individuo?), ma coinvolge anche la questione della sua essenza (guerra offensiva o solo difensiva?).

«Sulla via di Dio»

In alto Ctesifonte (oggi al-Mada’in, Iraq). I resti del palazzo imperiale del sovrano sasanide Cosroe I (530-579). In basso spada sasanide inguainata nel fodero. Argento e ferro. VI-VII sec. Parigi, Museo del Louvre.

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Al contrario, a partire dall’inizio del IX secolo, il jihad può essere senz’altro definito come la forma assunta dalla guerra di conquista agli occhi della comunità musulmana: un’azione bellica diretta contro gli «infedeli» (e non contro altri musulmani), sentita e/o presentata dai suoi promotori e partecipanti come un combattimento «sulla via di Dio», finalizzato a estirpare l’empietà dal mondo e favorire l’espansione della comunità dei credenti, dai cui rappresentanti – che si tratti del califfo di Baghdad o del comandante di un reparto militare in una remota provincia di frontiera, piú o meno autorizzato dall’autorità centrale – esso è portato avanti. Un contributo decisivo a questa evoluzione dell’idea di jihad è stato dato dai cosiddetti «studiosi guerrieri», esperti di religione che si impegnarono in prima persona nella

guerra contro gli «infedeli» nelle zone di frontiera del mondo islamico fra il VII e l’VIII secolo, e la cui attività militare, unita alla speculazione giuridico-religiosa, costituí un vero e proprio atto fondante del jihad. A partire da questa nuova elaborazione, che ebbe un ruolo chiave nella sistematizzazione della dottrina del jihad come «obbligo collettivo» (fard ‘alà ’l-kifaya), dall’inizio del IX secolo si procedette a una rilettura complessiva della storia islamica sotto il segno del jihad.

Lettera che si ipotizza scritta da Maometto a Cosroe II per esortarlo alla conversione. Pergamena. VII sec. Collezione privata.

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Ciò non significa che, prima del IX secolo, il jihad non fosse un elemento centrale della prassi politica islamica (le prime conquiste arabe sono inseparabili dal tema del jihad), ma è solo da questo momento in poi che esso viene storicizzato e inserito in un quadro concettuale preciso e congruente. Punto di partenza di una simile analisi furono da un lato le imprese militari di Maometto, considerate, da allora in avanti, come veri e propri esempi prototipici di pratiche del jihad da tutta la tradizione storica e giuridica islamica (sebbene mai definite come tali nelle fonti piú antiche), dall’altro le grandi campagne del VII-VIII secolo, modello ineludibile di ogni futura guerra di conquista della comunità musulmana.

Attacco alla Persia

Subito dopo la morte del Profeta, le truppe islamiche si riversarono in Siria, Palestina, Egitto, Mesopotamia e Persia, cioè nei territori di due imperi – quello bizantino e quello sasanide – che, fino a poco tempo prima, si erano spartiti il dominio sul mondo e che, tra il 614 e il 628, si erano scontrati in una

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guerra senza quartiere, che aveva dapprima visto prevalere i Persiani (l’imperatore Cosroe II Parviz era giunto a occupare e devastare la stessa Gerusalemme) e successivamente dispiegarsi la veemente reazione bizantina, in seguito alla quale l’impero sasanide era precipitato nell’anarchia. Attaccando la Persia, le truppe arabe si erano cosí trovate alle prese con un Paese nel caos, che fece avvicendare sul trono nel giro di pochi anni un gran numero di sovrani, ivi compresa una regina. L’ultimo dei re sasanidi fu Yazdagard III, figlio di Cosroe II: fu lui a dover affrontare l’attacco dell’esercito islamico. Nel 636, presso Qadisiyya, nella regione centro-meridionale dell’Iraq, il generale arabo Sa‘d bin Abi Waqqas e il generale Rustam si scontrarono per tre giorni. La battaglia si concluse con la vittoria degli Arabi: Rustam stesso rimase sul campo e il palladio-bandiera dei Sasanidi finí in mano musulmana. La via verso la capitale dell’impero, Seleucia-Ctesifonte, era aperta: fra il 637 e il 638 la città fu occupata e il re Yazdagard fuggí verso la Media. Un sanguinoso combattimento a Jalula aprí poi agli Arabi l’accesso

ai passi dei Monti Zagros, la chiave di accesso all’altipiano iranico. La penetrazione islamica nel cuore dell’Iran si ebbe con la battaglia di Nihavand (642), nel Nord-Ovest del Paese: l’armata persiana era ormai dissolta e restavano solo sporadici ma combattivi nuclei di resistenza. In seguito a conflitti bellici o trattative diplomatiche caddero, una dopo l’altra, Hamadan (l’antica Ecbatana, una delle capitali dell’antico impero achemenide), Rhages (nucleo antico dell’attuale Teheran), Isfahan, Istakhr (l’antica Persepoli), l’Azerbaigian e l’Armenia. maggio

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Yazdagard trovò rifugio nel Nord dell’Iran, ma i potentati locali si rifiutarono di combattere gli Arabi ai suoi ordini; cosí, egli raggiunse la grande oasi di Merv, nell’attuale Turkmenistan: qui, il governatore della città lo fece arrestare da un suo sottoposto di origine turca. Il re riuscí ancora a fuggire: secondo la tradizione, fu ucciso nel sonno da un mugnaio che gli aveva dato ospitalità e che, non riconoscendolo ma vedendolo ben fornito di oggetti preziosi, lo assassinò per derubarlo. Finiva cosí, ingloriosamente, una delle piú

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Vignette tratte da un’edizione seicentesca dello Shah-Nameh. San Pietroburgo, Istituto di Studi Orientali. Nella pagina accanto, Afrasiyab, re del Turan e nemico dell’Iran, sogna d’essere prigioniero; in alto, lo stesso Afrasiyab, che è uno dei personaggi piú celebri dell’opera di Firdusi, assiste a un’esecuzione.

grandi dinastie persiane. Era l’anno 651 o 652. Gli ultimi discendenti dei re sasanidi trovarono rifugio presso la corte cinese.

Conflitto e integrazione

Indubbiamente l’Islam spezzò bruscamente il corso di una civiltà millenaria e consolidata come quella

persiana. Consistente fu la riduzione in schiavitú di un buon numero di Persiani dopo la conquista e perdurò a lungo l’atteggiamento ostile delle genti di Persia verso l’Islam «arabo», nel quale alle dottrine religiose si univano gli interessi dei nuovi conquistatori. La rarità delle conversioni di massa e l’ampia ac-

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Dossier cettazione della jizya (cioè del tributo dovuto dalle comunità che si sottomettevano ai musulmani ma che volevano mantenere la propria religione) evidenziano la volontà di far sopravvivere la propria civiltà davanti alla nuova. L’integrazione, quando ci fu, si affermò con estrema lentezza e lasciò comunque un senso di rivalsa. Del resto, il mondo persiano era da sempre iranocentrico e l’idea di un mondo «aniranico», ostile a quello persiano, si riverbererò in molta letteratura successiva alla conquista islamica, come nel celeberrimo Shah-Nameh (Libro dei re) di Firdusi (inizi dell’XI secolo), vera e propria epopea dedicata all’antica storia della Persia con una superficiale patina islamica, in cui le varie dominazioni straniere, prima fra tutte quella di Alessandro Magno, sono concepite come vere e proprie ferite al sentimento nazionale persiano. E tuttavia, l’integrazione fra Arabi musulmani e Persiani vi fu e si trattò di un fenomeno popolare, esteso ai ceti rurali e a quelli cittadini che avevano espresso il loro violento dissenso contro l’aristocrazia sasanide in varie rivolte a sfondo sociale e religioso; essa coinvolse

un fenomeno letterario

Quando la storia diventa un best seller Per il governo della Repubblica islamica dell’Iran, Due secoli di silenzio (1957), dello storico iraniano Abdolhossein Zarrinkub (1923-1999), è un vero e proprio «libro nero»: bandito e censurato, ma, al tempo stesso, al vertice delle classifiche di vendita sulle bancarelle clandestine nei pressi dell’università di Teheran. Eppure non si tratta di un pamphlet politico a sostegno dei riformisti della «rivoluzione verde», né di un romanzo pruriginoso, né, tantomeno, di un’opera critica nei confronti dell’Islam. In effetti, per quanto sorprendente possa sembrare, Due secoli di silenzio è un serissimo saggio di storia medievale, basato su un enorme numero di fonti arabe e persiane e ricchissimo di riferimenti a importanti studi occidentali. L’opera analizza la conquista islamica della Persia e i primi due secoli di dominio arabo, caratterizzati appunto, secondo l’autore, dal silenzio politico, culturale e sociale della popolazione locale. In particolare, Zarrinkub esamina i rapporti fra zoroastriani e musulmani, i problemi fiscali e le questioni legate ai mawali (i neo-convertiti di origine persiana), conducendo il lettore in un mondo complesso e ricco di fascino. E tuttavia, il principale motivo di interesse del libro non è tanto nel suo oggetto, quanto nell’approccio dell’autore, che guarda agli eventi del VII e dell’VIII secolo d.C. da una prospettiva nazionalista filo-persiana e anti-araba, e tiene sempre presente, sullo sfondo, la situazione contemporanea del suo Paese. Cosí, nella critica alla rozzezza e alla brutalità dei conquistatori – che contrasta con la raffinatezza e la profonda cultura dei conquistati –, emerge, come in filigrana, un attacco duro e circostanziato agli eccessi del vero e proprio processo di neo-islamizzazione forzata che ha costituito il grande prezzo pagato dall’Iran alla Rivoluzione khomeinista. E, nella descrizione dettagliata e impietosa dell’afasia della società persiana schiacciata dal tallone arabo, si legge un preciso atto di accusa contro la mancanza di coraggio dell’élite intellettuale iraniana, colpevole di aver reagito con acquiescenza e silenzio all’offensiva islamica che, se ha liberato il Paese dalla dinastia feudale e corrotta dei Pahlavi, lo ha però successivamente sottoposto a un’eccessiva ingerenza della religione sulla sua vita politica e sociale.

Takht-i Suleiman (Trono di Salomone), Iran nord-occidentale. I resti del piú importante santuario del mazdeismo, che, nella sua forma attuale, è in parte frutto della ricostruzione di epoca

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mongola (XIII sec.). Nel sito si conservano anche i resti di un tempio della dea Anahita, dispensatrice del potere sovrano (con Ahura Mazda e Mitra), innalzato in età sasanide, fra il V e il VII sec.

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Teheran. La moschea dell’imam Khomeini (già «dello Shah»), costruita tra il 1808 e il 1813 per volere di Fath Ali Shah: a quel tempo, si affacciava sulla cittadella della capitale iraniana.

anche gran parte della piccola aristocrazia, che si vide costretta a venire a patti con i nuovi dominatori e che seppe trarre i vantaggi che tale integrazione poteva recare, una volta superati la frustrazione e l’astio ingenerati dalla conquista.

L’importanza dell’Islam

In questo processo, la nuova fede, cioè l’Islam, giocò un ruolo di primo piano, attraendo presto gli uomini di cultura, al punto che si può senza dubbio sostenere che se oggi abbiamo importanti tracce della civiltà sasanide lo dobbiamo in gran parte all’elaborazione islamica posteriore che fu in grado di conservarle e tramandarle.

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Nel processo di integrazione fra conquistatori e conquistati, estremamente importante fu il ruolo della lingua detta «neopersiana», che venne a modellarsi dopo l’avvento degli Arabi in Iran: un idioma scritto utilizzando l’alfabeto arabo e molte parole del lessico arabo, soprattutto nel campo religioso. Tale formazione ebbe tempi lunghi: la lingua letteraria nacque già «matura» intorno alla fine del IX secolo, evidenziando che il processo evolutivo doveva essere in atto da molto tempo. Può essere interessante notare che le prime grammatiche arabe furono compilate da studiosi persiani e che il «neopersiano» divenne ben presto una delle lingue piú prestigiose del mondo

islamico: se l’Arabo è la lingua della religione e del Corano, il Persiano è l’idioma della poesia e della grande letteratura.

Da leggere Alessandro Bausani, I Persiani, Sansoni, Milano 1960 Francesco Gabrieli, Maometto e le grandi conquiste arabe, Newton Compton, Roma 1996 Hugh Kennedy, Gli eserciti dei califfi, Libreria editrice Goriziana, Gorizia 2010 Hugh Kennedy, Le grandi conquiste arabe, Newton Compton, Roma 2008

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visitiamo insieme casale monferrato

Un esagono ricco di storia di Chiara Parente

Casale Monferrato, Duomo. Crocifisso con Cristo trionfante. Legno rivestito in lamine d’argento, rame dorato, vetro e cristallo di rocca. Scuola renana, XII sec. Nella pagina accanto un particolare del reliquiario di sant’Evasio. Opera barocca in argento, conservata nell’omonima cappella del Duomo di Casale Monferrato.

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Abitata già in epoca romana, l’antica Casale Sant’Evasio, nel Medioevo, vide avvicendarsi, fra gli altri, i Longobardi, i vescovi di Vercelli, gli Aleramici e i Paleologi: vicende di cui la cittadina, nonostante i molti interventi condotti fra l’età barocca e il XVIII secolo, conserva testimonianze importanti. Che ne fanno un osservatorio privilegiato per la conoscenza dell’arte romanica e gotica in area piemontese

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istesa sulla sponda destra del Po e protetta all’estremità nord-orientale dalle prime propaggini dei colli monferrini, Casale Monferrato (Alessandria), è considerata una delle città d’arte piú belle del Piemonte, ingentilita da un elegante centro storico, ricco di chiese e di prestigiosi palazzi nobiliari. Capitale del Monferrato per quasi tre secoli, dal 1434 al 1713, la località conserva ancora memorie del millenario romano di Vardacate, scomparso alla fine del VII secolo, anche a causa di scorrerie ariane. Scarse sono le notizie sul periodo altomedievale, con l’eccezione delle informazioni che si possono ricavare dalla Vita o Passio Sanctii Evasii (scritta agli inizi dell’XI secolo), ossia il racconto della vita, dei miracoli e della morte di sant’Evasio, un ecclesiastico, forse depositario di compiti amministrativi per il re longobardo a Casale, perseguitato e divenuto patrono della città. È invece certa l’attestazione piú antica della denominazione Casale Sant’Evasio, che figura per la prima volta in un documento di donazione del diacono

Andrea alla canonica di S. Evasio, datato 15 agosto 988. L’appellativo si riferisce a un modesto agglomerato urbano di forma ovoidale, distribuito attorno alla chiesa suddetta, probabilmente innalzata su un preesistente tempietto dedicato a san Lorenzo, fondato da Evasio nel luogo dell’attuale basilica.

L’arrivo dei milites secundi

Nel corso del X secolo il nucleo fortificato cominciò ad attrarre gente dai villaggi vicini. Nel borgo si insediò soprattutto una classe di nobili medi, i cosiddetti milites secundi, i quali, inurbandosi con il proprio seguito, diedero inizio alla fase di ripopolamento. Negli ultimi decenni del Mille, Casale crebbe d’importanza, innescando violente contese con il vescovo e il Comune di Vercelli. Le liti si conclusero nel 1215, con la distruzione dell’abitato da parte dei Comuni alleati di Milano, Vercelli, Asti e Alessandria. A partire dal 1219 l’assetto urbanistico del nucleo demico fu radicalmente trasformato e, alla fine del XIII


visitiamo insieme casale monferrato pietro e bernardino tibaldeschi

Nell’interesse di Casale e della famiglia... Il primo vescovo della nuova diocesi di Casale fu Bernardino Tibaldeschi, figlio di Pietro. Un diplomatico, che nel marzo del 1474 si era recato alla corte pontificia per «sollecitare quella praticha di fare Casale ciptà». Sembra che il marchese, grazie alla mediazione del fratello cardinale Teodoro Paleologo, avesse presentato al papa «tre soggetti idonei» a ricoprire tale carica. Tra costoro il piú «gradito al sommo pontefice» fu proprio Bernardino, che venne scelto sebbene non avesse ancora raggiunto l’età canonica. Pietro Tibaldeschi, al servizio di Guglielmo VIII almeno dal 1457,

possedeva beni e diritti feudali nel Monferrato. Agiva spesso in nome di Guglielmo in questioni amministrative ed economiche all’interno del marchesato e, di tanto in tanto, era anche incaricato di missioni diplomatiche a Milano e Roma. Se la promozione di Casale a sede vescovile rappresentò per il marchese del Monferrato il coronamento di una politica a lungo perseguita e volta a conferire maggior prestigio alla sede del piccolo principato di cui era a capo, quasi sicuramente, per il suo consigliere e primo siniscalco, la creazione del vescovado fu un’occasione per

«collocare» dignitosamente il figlio cadetto e realizzare un ulteriore investimento economico. Eletto l’11 maggio 1474, Bernardino Tibaldeschi pagò la tassa stabilita per il «defectus aetatis» e poté essere nominato amministratore della nuova diocesi. La cerimonia di proclamazione del vescovado si celebrò il 24 giugno a Casale. In quell’occasione, l’umanista acquese Costantino Marenco recitò una sua orazione latina, in cui lodava il marchese Guglielmo per l’abbellimento e il rafforzamento di Casale, che proprio allora diveniva ufficialmente città. Casale Monferrato raffigurata in una mappa illustrata del XVII sec. Nella didascalia, si può notare come il paese venga definito «Casale, detto di Sant’Evasio».

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sia

Se

Biella

Novara Milano

Vercelli

Casale Monferrato

Torino Carmagnola

Asti

Alessandria

Bra Cuneo

Mondoví

MAR LIGURE

A destra e in basso due immagini della chiesa cattedrale di Casale Monferrato. La facciata a capanna, opera di un restauro ottocentesco (che riflette l’impianto a cinque navate dell’interno) e uno scorcio della navata centrale, in stile gotico.

secolo, il Comune, vinta l’antica sudditanza a Vercelli, assoggettò i signori del contado e per salvaguardarsi dai grandi potentati, che ne pretendevano il possesso, offrí l’incarico di capitano generale prima a Guglielmo VII Aleramico (1278) e poi a Matteo Visconti (1292). All’epoca l’insediamento, a forma di esagono leggermente irregolare, era delineato dal fossato, dal muro e dal corridoio, cioè da uno stretto anello che si sviluppava lungo tutto il bordo interno delle mura, creando una fascia di rispetto, destinata alla difesa. All’esterno si aprivano le porte: Lago, Vaccaro, Imperiale (poi Porta San Giovanni), Nuova e Acquarola (o dell’Acquaiolo). Nella cinta duecentesca furono incluse tutte le cerche, costruite in precedenza attorno al vecchio castrum, a eccezione di quella verso porta Nuova, che, denominata anche burgum novum, fu determinante per la successiva scelta dell’impianto quattrocentesco.

Sorge il castello

Agli inizi del Trecento, per porre un freno alle dispute insorte tra le principali famiglie locali, il Comune chiese l’intervento di Teodoro I Paleologo, marchese di Monferrato, gli giurò fedeltà e ne accettò la parziale signoria (vedi «Medioevo» n. 227, dicembre 2015). I Paleologi cominciarono a considerare con maggior interesse il Borgo di Sant’Evasio solo nella seconda metà del XIV secolo. La costruzione del castello (castrum magnum Aquarolii), innalzato intorno al 1352 sulla cinta muraria duecentesca per volontà di Giovanni II Paleologo, ne è il primo, evidente, segno.

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La posizione scelta per la costruzione della fortezza, vicino alla porta di Acquarolio, a cavaliere delle mura cittadine occidentali e a dominio del Po, documenta un radicale mutamento di prospettiva nella funzionalità del fabbricato: quasi una cittadella ante litteram, che permetteva sia la difesa del sito contro attacchi esterni, sia il controllo militare ed economico a prevenzione di eventuali rivolte. Tale collocazione rende tuttora l’edificio militare un elemento cardine dell’urbanistica cittadina: l’intera organizzazione architettonica del centro storico fa infatti riferimento al castello.

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visitiamo insieme casale monferrato La comunità ebraica

Una presenza antica Gli Ebrei affluirono nel Monferrato, con un lento processo immigratorio, già nei primi decenni del XV secolo. Provenienti perlopiú dalle aree transalpine e veneto-lombarde, si radicarono a Casale con un insediamento consistente. Ad attestarlo è la presenza di un cimitero dei Giudei, citato nel Liber bovis (1438) tra le coerenze di un immobile, posseduto dalla chiesa di S. Evasio nella cerchia di Brignano. All’inizio del Cinquecento, grazie ai privilegi concessi loro da Guglielmo IX Paleologo, altri Ebrei si stabilirono in città, dove praticarono il commercio di tessuti e grani e il piccolo prestito. A Casale potevano affittare case «convenienti» per abitazione, professare il proprio culto, svolgere attività feneratizia, tutelare la persona, i beni e le attività. Il ricco interno barocco della sinagoga. Al centro, l’armadio sacro (Aron ha kodesh) che contiene il rotolo della Legge (Torah), collocato sulla parete rivolta verso oriente ovvero verso Gerusalemme. Nel corso dei secoli l’ambiente interno ha visto numerose trasformazioni, sia dal punto di vista strutturale, sia ornamentale.

La struttura originaria del maniero sembra corrispondere al quadrilatero, che oggi definisce la prima corte. Punto «forte» e nel contempo principale del nucleo residenziale era la turris magna. Recuperata dopo un breve periodo di dominazione viscontea (1370-1404), l’architettura difensiva subí consistenti ristrutturazioni per ordine di Teodoro II Paleologo. Nel 1434, il suo successore, Gian Giacomo Paleologo, dopo la perdita di Chivasso – sede della dimora di famiglia –, stabilí la capitale a Casale. Il significativo trasferimento fu determinato anche dalla ricerca di un ruolo politico, in

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alternativa alle pretese degli Stati confinanti: il Ducato visconteo e il Piemonte sabaudo. Al palazzo originario venne allora aggiunto un palacium novum, destinato ad accogliere la corte e le attività di governo a essa legate. Il radicale cambiamento della fabbrica, destinata a divenire una residenza nobiliare, appropriata alla cultura dei committenti, avvenne durante il governo di Guglielmo VIII Paleologo. In questo periodo, gli ambienti interni dell’edificio assunsero lo splendore confacente a una corte rinascimentale, ricca di arazzi e affreschi, e le difese esterne furono piú maggio

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La sinagoga, costruita nel 1595, si trova in un vicoletto del centro storico, dedicato al rabbino Salomone Olper. È stata innalzata dopo l’abbandono della prima sala di preghiera, situata in contrada Po. All’esterno la facciata è anonima, in ossequio al divieto di caratterizzare l’ubicazione dei luoghi di culto e alle restrizioni a cui dovettero uniformarsi le comunità ebraiche. All’interno, invece, il tempio nasconde una ricchissima sala di preghiera, decorata con iscrizioni murali, incorniciate da stucchi dorati. Annesso alla sinagoga è il Museo di Arte e Storia antica ebraica, che, attraverso un suggestivo percorso, conduce alla scoperta di libri di preghiera, arredi di culto, tessuti preziosi, piatti pasquali, candelabri e altri oggetti raccolti o lasciati in deposito da famiglie piemontesi e liguri.

In alto il cortile principale del castello dei Paleologi, eretto da Giovanni II Paleologo intorno al 1352. In basso medaglione in pietra recante gli stemmi affiancati dei Paleologi e dei Gonzaga.

volte rafforzate. Mentre procedeva la saturazione delle aree perimetrali della prima corte, la superficie del castello fu raddoppiata «sul disegno di quello di Milano», con l’aggiunta di una seconda corte a ovest e la realizzazione di un nuova cinta muraria, chiusa da quattro torri cilindriche angolari.

Cuore amministrativo

La città divenne il fulcro dell’amministrazione marchionale. La politica del marchese ebbe tra i suoi obiettivi anche la creazione di un efficiente apparato burocratico, formatosi attraverso lo studio delle scienze e la fruizione della cultura religiosa, rese accessibili nei centri istituiti dal marchese stesso. L’accorta politica di Guglielmo VIII, condottiero e poeta, accompagnò anche le tappe che portarono all’erezione della chiesa di S. Evasio in cattedrale, avvenuta nel 1474, alla nascita della diocesi di Casale e al riconoscimento ufficiale, contenuto nella bolla papale di Sisto IV, di quello che un tempo era il Borgo di Sant’Evasio in città.

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L’elevazione al rango di città determinò il rilevante mutamento dell’impianto urbanistico, collegato a un vasto piano di recupero edilizio, in cui la parte vecchia e quella nuova interagirono dialetticamente su livelli di eccellente e dignitosa qualità espressiva, nonostante le limitate risorse economiche. Nel tardo Quattrocento fu ampliato anche il cantone Brignano, uno dei quattro facenti parte del borgo medievale. Voluto da Guglielmo VIII, questo largamento fu concepito soprattutto per soddisfare la richiesta residenziale dei nobili, trasferitisi dalla campagna in Casale, attratti dalla corte e dalle potenzialità economiche offerte dalla capitale. Tuttora, l’assetto a maglia rettilinea degli edifici della nuova addizione delinea nel tessuto urbanistico un marcato contrasto morfologico e spaziale con il viluppo dell’andamento viario del vecchio insediamento. La saldatura del largamento con il precedente nucleo si resse su matrici culturali e modelli architettonici del Quattrocento lombardo, aperto a quelle tematiche rinascimentali che oggi fanno di Casale un unicum nella geografia storica del Piemonte. Non lontano dal castello si erge la cattedrale di S. Evasio. Consacrata nel 1107 da papa Pasquale II, si distingue per l’elevata qualità e l’estrema originalità dello splendido nartece. Quest’architettura, ideata da una mente tanto geniale quanto creativa, nella sua vigorosa e possente espressione artistica, filtra il trascendente valore della «trasfigurazione» medievale e funge da grande atrio d’ingresso alla chiesa, accogliendo chi proviene da piazza Mazzini. L’ampio vano rettangolare è focalizzato da due pilastri, che formano il solo sostegno di grandi costoloni ad arco, ai quali si accompagna il gioco volumetrico della tribuna e dei matronei.

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visitiamo insieme casale monferrato il museo del tesoro del duomo

Nella «Sacrestia Aperta» La cattedrale di S. Evasio ospita il Museo del Tesoro del Duomo, detto anche «Sacrestia Aperta». La collezione propone un duplice percorso di visita: il primo, di carattere storico-architettonico, dedicato agli ambienti museali; il secondo, espositivo, con opere di oreficeria e argenteria realizzate tra il XV e il XX secolo. L’itinerario comincia dal deambulatorio, in cui si ammirano meravigliosi riquadri della pavimentazione a mosaico che ornava in origine la chiesa. I frammenti risalgono alla metà del XII secolo e sono stati ritrovati nelle vicinanze del presbiterio dall’architetto Edoardo Arborio Mella nel corso dei restauri avviati negli anni 1857-1861. Le immagini rappresentate riguardano scene di vita quotidiana e storie della Bibbia: Giona ingoiato dalla balena, Abramo che lotta contro i re dei Cananei, Nicanore sconfitto da Giuda Maccabeo. Per le descrizioni degli abitanti reali e di fantasia, che popolano le zone piú remote della terra (il pigmeo e la gru, l’acefalus, l’antipodes), gli episodi raffigurati si rifanno alle interpretazioni dei testi di Plinio, fondamentali nel Accostato al Westwerk di tradizione germanica e all’eglise-porche francese, il nartece, pur mostrando alcuni collegamenti con la cultura nordica, rappresenta un caso isolato nel panorama del romanico europeo. Simili moduli architettonici, realizzati in misure minori e con archi piú massicci, si osservano anche nelle architetture islamiche e orientali, soprattutto siriane o armene, ma non si conosce nulla di altrettanto ampio e audace, paragonabile alla copertura del nartece di S. Evasio.

L’antico rivisitato

Particolarmente interessanti sono anche le figure scolpite nei capitelli, posti sulle trifore delle logge laterali. Plasmati da maestranze, in grado di riproporre un modello antico con grande intelligenza e capacità tecnica, si ipotizza siano opera di uno stesso atelier di lapicidi attivi nel Piemonte orientale, e piú precisamente nella

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zona compresa tra l’isola di San Giulio d’Orta, Novara, Vercelli e Casale. Nonostante i restauri e i rimaneggiamenti, l’interno del tempio è ancora leggibile. È sufficiente, però, scendere i gradini che separano il nartece dalla chiesa per notare evidenti mutamenti. Sebbene dagli angoli bui delle cinque navate si irradi una grande suggestione mistica, il livello dei valori architettonici diminuisce. L’impostazione e l’articolazione degli elementi appaiono condizionate da una disponibilità conoscitiva e compositiva piú ridotta. La trama di pilastri, la greve entità dei sostegni, lo snodo delle strutture che frantumano e riducono gli spazi della chiesa sono segnali di una minore libertà concettuale e di un orizzonte tecnico piú primitivo e angusto. All’altezza del tiburio, una luminosa apertura rischiara lo stupendo Crocifisso in lamina d’argento collocato sull’arcone del presbiterio. Datata al 1170 circa, la maggio

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Un appuntamento da non perdere

Medioevo. Numerose sono anche le scene e le figure simboliche, tra cui la sfinge e il mostro dalle sette teste. Arricchiti di tessere colorate che vivacizzano la composizione, questi mosaici documentano la nascita di un nuovo gusto cromatico. Per la prima volta il mosaicista ha tentato di restituire alle figure il modellato, servendosi delle diverse tonalità. La sacrestia ospita una pregevole croce, che sarebbe stata donata al duomo di Casale da Teodoro Paleologo, fratello di Guglielmo VIII, nel 1466, anno della sua elezione a cardinale. Parte integrante del museo è poi il suggestivo Percorso archeologico dei sottotetti. Inaugurato nel 2013, comincia dalla scala nel deambulatorio e si snoda lungo una passerella che, posta fra le campate della cattedrale e sospesa sull’estradosso delle volte, permette di osservare da vicino la maestosità della volta ad archi incrociati del nartece, i matronei con le sculture del XII secolo e gli elementi decorativi medievali piú nascosti.

Nella pagina accanto il nartece che si cela dietro la facciata del duomo. In basso mosaico raffigurante un pescatore, dalla pavimentazione originaria del duomo e conservato nel Museo del Tesoro.

croce monumentale appartiene alla scuola renana. Sottratta dai Casalesi alla cattedrale di Alessandria durante l’assedio del 1404, ricorda la vendetta per il furto delle reliquie dei santi patroni di Casale, compiuto dagli Alessandrini nel 1215.

Alla maniera benedettina

Dopo la cattedrale, il complesso religioso di S. Domenico è il piú importante manufatto d’epoca medievale ancora esistente in città. Nella dislocazione dei diversi corpi di fabbrica il suo impianto costruttivo appare modellato su quello benedettino. La chiesa, la torre campanaria, i due chiostri e i locali del convento formano uno schema compatto e ben preciso. Fondata nel 1472 dal marchese Guglielmo VIII, la chiesa fu ultimata da suo fratello Bonifacio V, nel 1506, e consacrata nel 1513, do-

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In primavera, «Riso e Rose» è la manifestazione piú importante del Monferrato e della vicina piana del Po. Giunta alla 16ª edizione, quest’anno si svolge dal 7 al 22 maggio e coinvolge Casale Monferrato e una trentina di Comuni limitrofi. Esposizioni d’arte, appuntamenti florovivaistici, visite guidate, mercatini di prodotti tipici e di artigianato animano per tre week end consecutivi i borghi e i centri storici del Casalese. Info tel. 0142-444330; www.monferrato.org

po l’apertura della vicina piazza. Il monastero, cominciato nel 1473 – e sede del Tribunale dell’Inquisizione di Casale dal 1510 –, mantenne l’originaria destinazione fino al secolo scorso. Nelle intenzioni di Guglielmo VIII e di Bonifacio V, la fabbrica era stata concepita per riscattare la deplorevole condizione del cantone Vaccaro e si inseriva nel grandioso piano politico e religioso attuato dai Paleologi. Due sono le principali linee di indirizzo. Una, strettamente collegata alla fruizione culturale, considerava S. Domenico un centro di educazione e di formazione dell’aristocrazia monferrina, destinata a offrire i funzionari all’amministrazione statale. Ciò spiega il motivo dell’erezione del monastero, con i frati custodi e divulgatori dei valori derivati dalla tradizione scolastica medievale, su cui si erano sviluppati i nuovi contenuti culturali laici, diffusi a Casale dagli umanisti di corte. Un’altra, legata all’esaltazione del potere, teorizzava il mito del principe, artefice di ogni iniziativa anche mediante l’uso delle immagini offerte dall’arte. Il grandioso portale rinascimentale, sormontato dal rosone dello Zodiaco, fu collocato nel primo Cinquecento. Nella lunetta, insieme ad altre raffigurazioni, compaiono Guglielmo VIII Paleologo e il fratello Bonifacio con la moglie Maria di Serbia e il loro figlio Guglielmo IX. L’interno, suddiviso in tre navate, è in stile gotico. Nel primo altare della navata minore sinistra si può ammirare un affresco che rappresenta la Madonna con Bambino benedicente tra i Santi Domenico e Giovanni Battista. Attribuibile all’artista Martino Spanzotti e databile all’inizio del XVI secolo, il gruppo appare inserito in un arco a conci bicromi, rossi e bianchi e sorretto da colonne con capitelli decorati.

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In cauda venenum ARALDICA • La nera bestiola capace di farsi valere grazie

al veleno contenuto nella coda orna vari blasoni. Ma, ritenuta infida per questa sua prerogativa, può anche trasformarsi in simbolo del tradimento e del pregiudizio antigiudaico

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lcuni animali, nella propria versione araldica e dunque archetipale, compaiono raramente negli stemmi, e quasi esclusivamente nel caso di armi parlanti, per l’ambiguità del significato delle loro caratteristiche, reali o mitiche. È il caso, per esempio, del gambero, che procede a ritroso, ma che può perciò divenire emblema di prudenza, come per l’illustre casata bresciana dei Gambara, che in età umanistica dette alle lettere la gentile poetessa Veronica (1485-1550), seconda moglie del condottiero Giberto VII conte di Correggio: il loro motto, Recedens accedit («Avanza retrocedendo»), ben si presta a una stirpe militare, consapevole come sia talvolta necessario ripiegare – o perlomeno fingere di farlo – per avere la meglio sul nemico.

Discendenti del Temporeggiatore? Analogamente, i Massimo romani, casa principesca ancora sussistente, discesa da una famiglia di intraprendenti mercanti e soprattutto bobacterii (bovattieri) e di cui esponente eponimo fu il nobilis vir Massimo di Lello di Cecco

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(† 1465) del rione Sant’Eustachio, mutuarono nientemeno che dallo storico romano Ennio il proprio motto Cunctando servavit («Temporeggiando 2 salvò [Roma da Annibale]»), alludendo alla proverbiale pazienza del loro supposto avo, Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, il quale snervò il nemico – Cicerone utilizza a suo riguardo proprio il verbo enervare – appunto temporeggiando, incurante delle malelingue che attribuivano a timore o a incapacità la sua tattica. Seguendo un processo simile, nell’iconografia della Crocifissione entrò presto in uso la

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3 3. Arme per inchiesta dei Nutini, verosimilmente ramo dei Nuti, con il capo del Popolo Fiorentino, dallo Stemmario Fiorentino Orsini De Marzo. 4. Arme dei Cioci di Pistoia, con la croce del Popolo Pistoiese, come raffigurato nell’opera Stemmi ed insegne pistoiesi di Giovanni Mazzei (Pistoia 1907).

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1. Arme parlante dei Gambara bresciani, donde la poetessa Veronica, seconda moglie di Giberto VII conte di Correggio, dallo Stemmario Trivulziano (XV sec.). 2. Arme dei Nuti, raffigurante sotto un capo d’Angiò uno scorpione; altro ramo porta invece tre granchi, evidentemente considerati affini, dallo Stemmario Fiorentino Orsini De Marzo. raffigurazione, per indicare i carnefici materiali del Cristo, del purpureo vessillo recante l’aureo acronimo del Senatus Populusque Quiritium Romanus (tuttora stemma municipale dell’Urbe) e del cosiddetto cantabrum, ossia del labaro imperiale sul quale compare l’uccel di Dio (l’aquila di Giove).

Mandanti morali Accanto a questi simboli del potere romano, troviamo spesso un’altra insegna araldica, che è invece in rapporto con coloro che furono a lungo considerati, collettivamente, i mandanti morali della Crocifissione, i perfidi judaei. Gli Ebrei erano infatti rappresentati da un orripilante scorpione nero, accampato in un vessillo non aureo, ma piú correttamente giallo: ovvero del colore che, nel linguaggio simbolico medievale, indicava il tradimento e che, non a caso, si utilizzava nelle arti figurative per indicare maggio

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l’esecrata figura del traditore per antonomasia, Giuda Iscariota – come si può osservare, per esempio, nell’affresco giottesco per la Cappella degli Scrovegni di Padova o nella Cattura di Cristo di Caravaggio (conservato a Dublino, presso la National Gallery of Ireland), solo per fare un paio di esempi dei piú noti fra i molti possibili.

Presenze inattese Poteva dunque qualche casata pensare di adottare per propria insegna gentilizia questo aracnide notturno che cela in cauda venenum? Sembrerebbe improbabile, anche nel raro caso di armi parlanti. E invece cosí non è: ma, se ci stupisce meno trovar l’artropode parlante nelle armi gentilizie attribuite nello Stemmario Trivulziano agli Scorpioni novaresi – un cui ramo dovette fiorire almeno fino all’Ottocento in Brianza, a Muggiò (denominandosi infine Scorpioni de’ Rasini per successione femminile), avendone ricevuto l’investitura dello ius decimandi secoli prima –, maggiore sorpresa desta la presenza di diversi scorpioni montanti nelle argentee bande dello stemma rubricato sub voce Da Bagnacavalo nel medesimo codice quattrocentesco. Tale arme – che, come per il biscione visconteo, si favoleggiò fosse il trofeo d’un vinto saraceno – appartiene, in realtà, a una celebre casata di condottieri proveniente da Bagnacavallo, sede un tempo della dinastia filoimperiale dei

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5. L’inconfondibile stemma dei Massimo romani, che si vorrebbero discendenti del Temporeggiatore, come raffigurato nell’opera Tesserae gentilitiae (1638) del gesuita Silvestro Pietrasanta. 6. Stemma municipale di Roma, senza soluzione di continuità grafica con l’insegna del Senato e Popolo Romano

Malvicini (conti rurali ramo, come quelli di Cunio, dei conti di Imola), già ai tempi di Dante in fase di ingaglioffimento e quindi di auspicabile estinzione: «Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia» (Purg. XIV, 115). Si tratta, infatti, dei Brandolini, stirpe di condottieri di lungo corso, che comincia perlomeno con Brandolino, figlio di Tiberto († 1397), premorto al padre nel 1396, conte di Zumelle nel Bellunese per concessione viscontea e Sanctae Romanae Ecclesiae capitaneus, dopo aver militato, fra gli altri, al soldo di Gian Galeazzo Visconti. Militò invece per Venezia e con il Gattamelata un altro Brandolino, probabile figlio naturale di Guido Brandolini, ma già denominato Conte – non si sa se per nomignolo o per titolo – anche precedentemente all’investitura da parte veneziana del feudo di Valmareno con titolo comitale (17 febbraio 1436) in condominio con il commilitone umbro. Lo scorpione dell’araldica familiare fu però profetico, e infatti, nel 1453, suo figlio Tiberto tradí la Serenissima, suscitando le ire

dei Quiriti, dallo Stemmario Trivulziano (XV sec.). 7. Crocifissione col Battista e i Santi Quirico e Giulitta, olio su tela di scuola comasca. XVI sec. Collezione dell’autore. Particolare con il vessillo raffigurante lo scorpione, inteso come attributo negativo del popolo ebraico (vedi l’immagine intera a p. 109).

paterne nel testamento dettato da Brandolino Conte nel 1456: se non altro per l’inopportunità di inimicarsi il dominus directus del feudo di Valmareno. L’imbarazzante e pericolosa impasse fu comunque superata e gli interessi di questi Brandolini si spostarono allora definitivamente in area veneta. 7 Il fedifrago Tiberto, infatti, sposando Polissena, figlia del Gattamelata, risolse ogni contenzioso insorto con l’ex commilitone del padre circa il suddetto condominio feudale. Tralasciando le sue vicende bibliografiche, mi piace tuttavia ricordare come costui abbia infine pagato, seppur per altra mano, il fío dei propri tradimenti. Ufficialmente suicida – come l’Iscariota – nel settembre del 1462, si pensa che sia stato invece «suicidato» da un’altro che non andava, come lui, troppo per il sottile: ovvero per ordine di Francesco Sforza. I suoi figli Sigismondo e Leonello, tuttavia, rimasero a militare sotto le insegne sforzesche: dato che giustifica la presenza del loro stemma nel Trivulziano.

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2 1. Stemma per inchiesta degli Scorpioni novaresi, dallo Stemmario Trivulziano (XV sec.). 2. Arme dei Granchi pisani, che raffigura piuttosto, e anche in tal caso per inchiesta, uno scorpione, evidentemente considerato affine al granchio, dallo Stemmario Pisano Orsini De Marzo. 3. Stemma dei (Brandolini) da Bagnacavallo, abbassato sotto un capo dell’impero, verosimilmente portato dai figli del fedifrago Tiberto al servizio dello Sforza, dallo Stemmario Trivulziano (XV sec.).

La famiglia, a ogni modo, allacciava allora alleanze nuziali di primissimo piano tra le casate signorili padane: lo stesso Sigismondo contraeva infatti nel 1458 matrimonio con Antonia, figlia di Annibale I Bentivoglio (1413-45), signore di Bologna dal 1443 alla morte, mentre

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già l’avo, il sullodato Brandolino Conte, aveva impalmato Lippa Alidosi, della casata signorile di Imola. Il ramo veneto si alleava frattanto per matrimonio con importanti famiglie locali, quali i vicentini Trissino, i padovani Capodilista e i trevigiani Collalto ed entrava a far parte a pieno titolo del Patriziato Veneto.

Quasi come una ghirlanda Nel Blasonario Veneto del poligrafo e cartografo francescano Vincenzo Coronelli (1650-1718), lo stemma dei Brandolin – cosí chiamati alla veneziana – presenta un capo d’argento carico di tre «treccie ritorte in forma di ghirlanda»: esse assai ricordano lo stemma proprio del Gattamelata, e tale pezza onorevole dovrebbe esser quindi stata inserita nell’arme originaria in seguito alle succitate nozze con l’ereditiera del condottiero, sponsali che permisero di riunire nelle mani dei Brandolini la totalità del feudo comitale di Valmareno. È un vero peccato, perciò, che lo stemma – che non campeggia piú sulle 6. Disegno ottocentesco raffigurante la Santa Lancia, che la tradizione vuole appartenuta a san Maurizio, attualmente conservata nel Tesoro Imperiale a Vienna.

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5 4. Versatoio in ottone che commemora araldicamente un matrimonio fra i trevigiani Avogaro degli Azzoni (probabilmente) e i Brandolini. XVI sec. Collezione privata. 5. Stemma portato dalla famiglia del Gattamelata e aggiunto in capo dai Brandolini, discendenti in linea femminile dal condottiero, dallo Stemmario Veneziano Orsini De Marzo.

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7. Crocifissione col Battista e i Santi Quirico e Giulitta, olio su tela di scuola comasca. XVI sec. Collezione dell’autore. 8. Particolare della Crocifissione raffigurante Giulitta con in braccio Quirico e, nella sinistra, il nerbo con cui fu flagellata.

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9. Stemma dei patrizi veneti Brandolin, come raffigurato nelle varie edizioni del fortunato Blasone Veneto del poligrafo francescano Vincenzo Coronelli. gualdrappe dei destrieri e sugli scudi della casa di Bagnacavallo, ma solo sulle bottiglie della casa vinicola dei discendenti Brandolini D’Adda – abbia perso, accanto agli scorpioni aviti, anche il capo assunto a memoria del parentado con il condottiero immortalato a Padova da Donatello nel celebre monumento equestre (1447-53), ispirato a quello dell’«imperatore filosofo», Marco Aurelio, all’epoca conservato in Laterano, a Roma (e poi trasferito in Campidoglio, nel 1538).

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La lancia di Cassio Come l’archetipo romano imperiale veniva adattato all’ideale cortese del miles adobatus e della sua versione protosignorile, il condottiero, cosí il centurione Cassio Longino, che con la Santa Lancia trafisse il costato del Cristo, facendone sgorgare acqua e sangue (poi raccolto nel mitico Graal), è raffigurato spesso, nella pittura coeva, provvisto di una sorta di lancia tornearia e di speroni dorati, come ogni cavaliere che si rispetti.

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Ciò è per esempio evidente nella pala d’altare dipinta da un artista minore di area verosimilmente lariana (il tornasco Andrea Passeri? il compaesano Bartolomeo Benzi? il misterioso Felice Scotti, uscito da ramo minore, ma con vocazione artistica, della grande stirpe bancaria e signorile piacentina?), che riprende una Crocifisisone di Giovanni Donato da Montorfano datata 1495, celebre piú che altro per trovarsi nel Refettorio di S. Maria delle Grazie, dove Leonardo dipinse la propria Ultima cena. In tale tela, l’anonimo pittorino, per venire verosimilmente incontro ai committenti, ovvero al titolo della chiesa o cappella destinataria delle sue fatiche, inserisce nel modello, accanto al Battista (ai piedi della croce di destra), anche i martiri romani Quirico e Giulitta (la donna aureolata che regge il bimbo ai piedi della croce di sinistra), una dedicazione anticamente non infrequente nella vasta diocesi di Como, antico municipium romano. Niccolò Orsini De Marzo

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UN ANTROPOLOGO NEL

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a sempre gli uomini fanno promesse alle divinità, chiamandole «voti»: offrono doni, oggetti e raffigurazioni di parti anatomiche. Una pratica, quest’ultima, di cui si possono rintracciare le prime attestazioni forse già nella preistoria, quando i cacciatori del Paleolitico dipingevano le proprie mani sulle pareti delle grotte, con una tecnica simile a quella dello «stencil», cioè spruzzando con la bocca una miscela colorata sulla mano appoggiata al muro. In epoche meno remote, Egiziani, Ebrei, Greci e Romani fecero ogni sorta di offerte alle divinità: dalle armi di Ettore al tempio di Apollo prima di combattere con Aiace, ai simulacri in oro di parti anatomiche, fino alle effigi di animali domestici. L’ex voto (da ex voto suscepto, «secondo la promessa fatta», formula che in seguito ha preso a indicare anche l’oggetto offerto) implica un’idea di scambio semplice e antichissima, che vuole che chi riceva qualcosa sia obbligato a ricambiare, creando cosí una relazione. Nel suo Saggio sul dono, l’antropologo e sociologo francese Marcel Mauss (1872-1950) descrive una «potenza» o «spirito» della cosa donata, lo hau, come una forza che,

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secondo i Maori della Nuova Zelanda, costringerebbe colui che la riceve a ricambiarla, come fosse una «patata bollente». In un mondo in cui l’onore è un valore fondamentale, non ricambiare un dono può causare la perdita del proprio status sociale o della stessa libertà.

Un rituale personalissimo e segreto Un dono, come l’ex voto cristiano, è una sorta di cerimonia di apertura di un (im)pegno che si compirà nel futuro, di un rituale personalissimo e segreto che il manufatto donato renderà reale, visibile e pubblico. Quest’obbligo del do ut des era talmente vincolante che i Romani arrivarono a chiedersi se un simile In alto Perugia, cattedrale di S. Lorenzo. Particolare dello stendardo processionale dipinto da Berto di Giovanni nel 1526 in occasione di una grave pestilenza. Nella pagina accanto Padova, Cappella degli Scrovegni. Particolare dell’affresco della controfacciata, con Enrico Scrovegni che offre alla Vergine un modellino della chiesa. Gli affreschi furono eseguiti da Giotto, tra il 1303 e il 1305. maggio

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obbligo nei confronti degli dèi non si potesse definire giuridicamente: chi mancava al voto fatto a un dio, avrebbe potuto essere oggetto di un’azione giuridica da parte degli organi dello Stato preposti al culto? L’ex voto, quello che ancora vediamo nelle chiese e nei santuari, è una storia, uno spaccato di vita ridotto all’essenziale che giunge fino a noi direttamente dalle mura domestiche, dall’intimità di una stanza da letto, dove un bambino o un adulto vomitano sangue, sintomo polivalente e segnalatore di diversi disagi (infezione, colera, tifo…), oppure da un mare in tempesta, dove un gruppo di marinai invoca il nome di un santo o una Madonna per sfuggire a una morte temuta e soffocante. Negli ex voto dipinti, lo spazio della narrazione è breve e racconta una storia quotidiana, ma al tempo stesso eccezionale. Una caduta da cavallo o una malattia, un’invasione militare o un’epidemia di peste, vengono descritte con pochissimi tratti, essenziali a comprenderne la gravità ma anche la risoluzione sovrannaturale. Lo spazio ristretto della narrazione spiega i paradossi e le curiose posture dei protagonisti: i naufraghi nella tempesta appaiono con le mani giunte in preghiera e i muratori che cadono dall’impalcatura hanno un immancabile rosario tra le mani.

Quasi un fotoromanzo Come un fotoromanzo d’altri tempi, le storie delle tavole dipinte – in legno, latta o altri materiali – cominciano in basso a destra: qui in genere il protagonista appare infermo a letto, oppure schiacciato da un animale o coinvolto nei mille altri eventi calamitosi che l’esistenza può riservare. Dal lato opposto della tavola la rappresentazione di un santo o della Vergine che intercedono per la salvezza, apparendo sovente all’interno di una nuvoletta, elementare simbolo uranico di una potenza lontana, ma che, senza indugio, attraversa i confini nimbati per raggiungere l’umano soffrire. Talvolta le storie raggiungono una grazia e un’immediatezza che riportano alla mente quei brevissimi componimenti poetici giapponesi chiamati haiku: un bambino gioca alla finestra accanto alla madre, perde l’equilibrio e cade. La donna lo vede precipitare disperata. Interviene la Madonna o un santo: egli è salvo e sorridente.

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Nella sua struttura compositiva l’ex voto ricorda da vicino anche l’exemplum utilizzato durante le prediche medievali: possiede naturalismo, connotazione sociale, efficacia didattica e soprattutto, replicabilità. Intorno a santuari famosi a partire dal Quattrocento si diffusero artisti che, con pochi e semplici tratti, dipingevano una situazione generica, che poteva adeguarsi a differenti miracoli: un flusso di sangue dalla bocca, una postura obliqua per significare una caduta; pochi colpi di pennello, e la «personalizzazione» della storia umana e del manufatto erano completi.

Intere città e opere d’arte grandiose Se si chiede che la divinità intervenga in modo straordinario, allora sarà straordinario anche lo sforzo, l’ex voto che il fedele propone: dal piedino in cera di un bimbo fino alla dedicazione di intere città come Siena o San Gimignano, «città sante» dalle quali espellere attori e manifestazioni ritenute oscene. Alcuni ex voto furono veri e propri capolavori, come la Cappella degli Scrovegni, dipinta da Giotto al principio del Trecento. A dichiararne la funzione è lo stesso Enrico Scrovegni mentre, inginocchiato, offre alla Madonna affiancata da san Giovanni e santa Caterina un modello dello stesso edificio. Analogamente, la Madonna della Vittoria di Andrea Mantegna fu un ex voto commissionato da Francesco II Gonzaga (ma pagato con il riscatto di centodieci ducati d’oro di un ebreo di Mantova accusato di iconoclastia) nel 1496 dopo la vittoria di Fornovo contro i Francesi. Non tutti gli ex voto, però, erano cosí grandi o eccezionali, anzi: una delibera della Signoria fiorentina del 1401 volle limitarne la fattura a grandezza naturale ai soli membri delle Arti Maggiori. Quelli piú diffusi nel Medioevo furono in cera, in genere modellati sull’arto che si voleva guarire o anche secondo il peso o l’altezza del supplicante. Ma non mancarono ex voto in oro o argento che, – come quelli in cera – avevano il vantaggio di poter essere sciolti all’occorrenza per essere riutilizzati per altri scopi, come accadde per quelli dell’Annunziata di Firenze venduti e fusi nel 1496. Fortunatamente per noi, non prima di averne però compilato un accurato inventario. Claudio Corvino

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Lo scaffale Salvatore Bono Schiavi Una storia mediterranea (XVI-XIX secolo) Il Mulino, Bologna, 488 pp.

28,00 euro ISBN 978-88-15-26052-9 www.mulino.it

Alcune schiavitú, come quelle del mondo greco e romano, sono ben note e oggetto continuo di ricerche, mentre meno conosciuto è il fenomeno storico definibile come «schiavitú mediterranea», fatta delle vicende individuali e collettive che coinvolsero, in un arco cronologico e un ambito geografico

vastissimi, un numero forse incalcolabile di esseri umani. Partendo dal Cinquecento e spingendosi fino al XIX secolo, individua due caratteristiche essenziali rispetto all’antichità: la reciprocità della schiavitú (derivante perlopiú da episodi di

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guerra o di pirateria, in cui ciascuno schieramento poteva ridurre in cattività gli esponenti della parte avversa); e la reversibilità, ovvero l’ampia possibilità di recupero dello status di libertà. Non si trattava cioè di società «schiaviste», come nel mondo classico, ma di società «con schiavi». Al di là dei sistemi e delle definizioni, quel che maggiormente interessa Salvatore Bono è l’analisi concreta della varietà di casi e situazioni, con tutte le loro sofferenze e speranze. Una storia costituita da innumerevoli vicende individuali, mutevoli e tra loro differenti, e non riconducibili a un numero definito di tipologie. Il volume è dunque organizzato intorno ad alcuni nuclei fondamentali: il concetto di schiavitú mediterranea e la sua geografia (capp. 1 e 2); i canali di «produzione» degli schiavi (guerre e pirateria) e della loro distribuzione (capp. 3 e 4); la vita degli individui in condizione servile, le incombenze loro affidate, compresa quella dei galeotti al remo sulle navi, oggetto di un intero

capitolo (capp. 5, 6 e 7); il ritorno alla libertà, mediante il pagamento di un riscatto o la conversione con l’integrazione nella società di adozione (capp. 8 e 9). Tra i fenomeni piú interessanti che emergono dal capitolo sul lavoro degli schiavi è la loro possibilità di svolgere un’attività autonoma a proprio rischio e profitto, dietro corresponsione al padrone di un certo importo giornaliero. Questo consentiva loro di lavorare in autonomia e di accumulare la somma necessaria per il riscatto. Molti intraprendevano attività commerciali di vario genere e le gestivano in proprio. Alcuni si mettevano addirittura in società tra di loro per aprire taverne. La locazione degli schiavi a terzi che li impiegavano in attività produttive, la loro utilizzazione nei lavori pubblici cittadini, la possibilità di ascesa sociale di quelli dotati di competenze mediche, costituiscono quindi soltanto alcuni dei numerosi spunti offerti dal volume. Non mancano poi i casi di quanti riuscivano persino a far carriera, ottenendo

l’affidamento di importanti missioni diplomatiche; altri venivano invece utilizzati nell’edilizia, nelle miniere e nelle occupazioni piú pericolose e pesanti, in cui la mortalità era altissima. Maria Paola Zanoboni AA.VV. Canossa: Segno Simbolo Storia Atti e memorie del V Convegno di Studi matildici (Canossa, 6-7 giugno 2015)

Aedes Muratoriana, Modena, 274 pp., ill. b/n s.i.p.

ISBN 978-88-908846-8-9

http://aedesmuratoriana. altervista.org

Con lodevole tempestività, vedono la luce gli atti del V Convegno di Studi matildici, tenutosi a Canossa nel giugno 2015, in occasione del nono centenario della morte della comitissa. Legati dal comune denominatore della vicenda di Matilde, i quindici contributi confluiti nella pubblicazione propongono approfondimenti di taglio perlopiú storico, ma non mancano, per esempio, «incursioni» nel campo dell’architettura e dell’archeologia. Fra tutti, possiamo ricordare l’intervento

dedicato all’inquadramento di Canossa nel fenomeno dell’incastellamento italico (Aldo Settia) o la rilettura del celebre episodio di cui il castello fu teatro nel gennaio del 1077(Angelo Biondi), quando l’imperatore Enrico IV vi giunse per implorare il perdono di papa Gregorio VII: una vicenda in questo caso esaminata come prodromo allo sviluppo del culto per lo stesso Ildebrando nella sua città natale, Sovana. Importanti aggiornamenti sulla storia stessa della fortezza matildica vengono anche, come detto, dall’archeologia e, a illustrarli, è Renata Curina, che dà conto delle ricerche condotte in occasione di recenti restauri. Spunti di sicuro interesse offrono le considerazioni sul paesaggio (Giuliano Cervi) e la descrizione del Museo allestito nel Castello canossiano (Eleonora Badodi). Stefano Mammini maggio

MEDIOEVO


Canti di donne sole MUSICA • Il fortunoso ritrovamento di un’antica

pergamena ci ha rivelato alcune composizioni del galiziano Martín Codax, ora rivisitate da Vivabiancaluna Biffi e Pierre Hamon

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ingolare è la storia del giullare galiziano Martín Codax, una delle molte voci che, nel XIII secolo, alimentarono quello che si può definire il primo fenomeno culturale globalizzato: la lirica provenzale, i cui echi risuonarono dalla penisola iberica a quella italica. Una moda letterario-musicale originatasi appunto in area provenzale e i cui rappresentanti, i «trovatori», cantarono l’amore e, soprattutto, la donna. A parte le origini galiziane, pochissimo sappiamo di Martín Codax e davvero esigue sono le fonti musicali che lo riguardano. Solo grazie a due codici – conservati presso la Biblioteca Nacional di Lisbona e la Biblioteca Apostolica Vaticana –, ci sono giunti alcuni suoi versi, che, tuttavia, si caratterizzano per la loro singolarità nell’ambito della produzione trobadorica. Poi, nel 1914, Pedro Vindel, mercante di libri antichi, scoprí, in una edizione trecentesca del De officiis di Cicerone, lacerti di una pergamena piú antica

utilizzata nel Settecento a rinforzo della rilegatura, e che conteneva la notazione musicale di sei delle sette liriche di Martín Codax. Da quel documento – oggi noto come Pergamena Vindel e conservato presso il Morgan Library & Museum di New York – è nata la splendida registrazione di Ondas, in cui l’affascinante voce di Vivabiancaluna Biffi (che si cimenta anche con la viola d’arco) e i flauti di Pierre Hamon ci fanno apprezzare l’arte di questo protagonista della musica portoghese duecentesca.

Il ribaltamento di un modello I brani, ascrivibili a un genere tipico della Galizia, la cantiga de amigo, si distinguono per certi aspetti dalla produzione trobadorica; se in quest’ultima è l’uomo il protagonista delle pene d’amore, nelle cantigas de amigo la situazione si ribalta: è la donna che lamenta la mancanza dell’amato, piangendone la lontananza, e attendendone il ritorno. E lo fa, come nel caso di Martín Codax, rivolgendosi spesso al mare, l’Atlantico che si ammira dalla città di Vigo e che ritorna sovente nelle La Pergamena Vindel, che contiene la notazione musicale di sei delle sette liriche di Martín Codax. New York, The Morgan Library & Museum.

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Ondas. Martín Codax, Cantigas de Amigo Vivabiancaluna Biffi, Pierre Hamon Arcana (A390), 1 CD www.outhere-music.com sue liriche. Un mare inteso come simbolo dell’infinito, ma anche come elemento sensuale nel quale la donna si abbandona, come recitano per esempio i versi «Venite con me al mar di Vigo, chè troveremo il mio amico, e nelle onde ci bagneremo». Le ondas marine tornano come un leit motiv in queste liriche struggenti, in cui l’elemento musicale, lontano forse dalle raffinatezze di alcuni poeti provenzali, si svela in una semplicità disarmante, ma al tempo stesso capace di evocare atmosfere melanconiche di grande fascino. Vivabiancaluna Biffi è straordinaria nel dare voce a queste donne sole, forse abbandonate, evocandone la solitudine, e l’incertezza, quasi esistenziale, che trova rifugio e si culla nel ritmo delle onde. L’accompagna Pierre Hamon, il quale si cimenta, con garbo e gusto, ai flauti della tradizione medievale. Franco Bruni

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Oswald e il monaco MUSICA • Poeti-musicisti influenzati dal modello dei trovatori provenzali, i

Minnesänger non cantarono solo l’amore e le sue pene, dedicandosi anche alle composizioni sacre. Di cui Hör, Kristenhait! offre un saggio accattivante

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ra il XII e il XIV secolo, la letteratura provenzale si diffuse nell’intera Europa, con varianti locali che riconducono ai modelli lirico-musicali creati dai trovatori di Provenza. In Italia il fenomeno conobbe uno sviluppo particolare in area sudtirolese, tra il XII e il XIII secolo, con i Minnesänger, poeti-musicisti che, di corte in corte, andavano cantando l’amore in tutte le sue sfaccettature. Il loro repertorio ci è pervenuto grazie a vari codici: in particolare, quelli conservati a Vienna e a Innsbruck ci hanno tramandato molte composizioni degli ultimi esponenti di questa corrente, ora protagonisti dell’antologia Hör, Kristenhait!. Spaziando dal Trecento ai primi decenni del secolo successivo, la raccolta si sofferma su due figure chiave di questa fase finale della produzione dei Minnesänger: Oswald von Wolkenstein e il Monaco di Salisburgo, ai quali fanno da contorno Michel Beheim, Richard Loqueville e Fridolin Sicher, nonché vari autori anonimi. Curioso risulta l’accostamento di Oswald von Wolkenstein (1376-1445) con il Monaco di Salisburgo (seconda metà del XIII secolo). Il primo, di nobili origini, condusse una carriera diplomatica al servizio dell’imperatore Sigismondo I, che gli permise di visitare numerosi Paesi – spesso descritti nelle sue canzoni –, sino a toccare la Terra Santa. Una vasta produzione, la sua, nella quale predominano l’elemento biografico e le tematiche amorose. Pressoché sconosciuta, al contrario, è la vicenda biografica del non meglio identificato Monaco di Salisburgo, attivo alla corte dell’arcivescovo di Salisburgo Pilgrim II di Puchheim, per il quale produsse musiche d’ambito sia profano che liturgico.

La musica sacra come «espiazione» Ad accomunare i due personaggi, in questa antologia, è il carattere devozionale delle partiture scelte, che in Wolkenstein si presentano come il tentativo di riscattarsi da una vita di eccessi, mentre nel caso del Monaco di Salisburgo esprimono una consuetudine compositiva evidentemente congeniale al personaggio e nella quale si riflette in maniera decisiva l’influenza della monodia gregoriana, rivisitata e semplificata.

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Hör, Kristenhait! Sacred songs by the last of the Minnesingers (Oswald von Wolkenstein, Der Mönch von Salzburg et al.) Ensemble Leones, Marc Lewon Christophorus (CHR 77395) 1 CD Grande è il fascino melodico delle musiche di entrambi i compositori, che, in alcuni casi, sono parafrasi di brani profani, secondo un modus operandi tipico dell’epoca. Composizioni che si presentano sia a voce sola che in contrappunto a due o tre voci, nelle quali la linea vocale – affidata alle voci di Sabine Lutzenberger, Raitis Grigalis e Marc Lewon – si snoda, pur nella sua destinazione devozionale, in seducenti voli pindarici. La raccolta comprende anche alcune trascrizioni strumentali dei brani, affidate al liuto di Marc Lewon e alla cornamusa di Baptiste Romain che si destreggia anche alla viella e alla crotta (crwth), uno strumento di origine gallese che si diffuse ampiamente anche nell’Europa del Nord. Capitanato da Marc Lewon – che, oltre al canto, si esibisce in alcuni dei cordofoni della tradizione medievale (liuto, viella e guiterna) –, l’Ensemble Leones torna ancora una volta al repertorio dei Minnesänger con il gusto e le competenze filologiche necessari per queste composizioni, uniti a un talento cristallino. F. B. maggio

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