Medioevo n. 230, Marzo 2016

Page 1

O

RE I MORVI ST S ET AU AI O RA CI TI

MEDIOEVO n. 230 MARZO 2016

EDIO VO M E www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

ESCLUSIVA

IL

TESORO DEI

Mens. Anno 20 numero 230 Marzo 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

STORIA DI UN INTRIGO INTERNAZIONALE

DINASTIE

Gli Aldobrandeschi

DOSSIER

MIGRANTI

PARTENZE, COMMERCI E NUOVE IDENTITÀ NELL’ETÀ DI MEZZO www.medioevo.it

€ 5,90

IL TESORO DEI GUELFI PIETRO EREMITA ALDOBRANDESCHI GENTE DI BOTTEGA/2 ORVIETO DOSSIER MIGRANTI

GUELFI



SOMMARIO

Marzo 2016 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE «Cosa fatta, capo ha»

5

MUSEI Bentornato, MUNDA!

8

MOSTRE Contro qualsiasi imprevisto (o quasi) Mostri e salsicce per tentare sant’Antonio

11

74

16

CALEIDOSCOPIO

GRANDI FAMIGLIE

ITINERARI Sinfonie di pietra

12

APPUNTAMENTI A ciascuno il suo santo Piatti, pappamusci e crociferi L’Agenda del Mese

Aldobrandeschi

Signori di Maremma

56

di Cristiano Bernacchi 20 21 24

STORIE WELFENSCHATZ La guerra dei Guelfi di Aart Heering

30

ARALDICA Persi nella nebbia

104

UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO Ragliando sotto le stelle

108

LIBRI Lo scaffale

110

MUSICA Partiture per «scacchiera» Lo splendore ritrovato

112 113

Dossier L’ETÀ DEI MIGRANTI

66 COSTUME E SOCIETÀ

30

GENTE DI BOTTEGA/2 Far di zanne tanti denti di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci

ESSERE LEADER NEL MEDIOEVO/3

LUOGHI

Pietro di Amiens

Orvieto

Pietro, eremita e condottiero di Renata Salvarani

66

RESTAURI 44

Il Duomo delle perle di vetro di Giuseppe M. Della Fina

74

di Maria Paola Zanoboni

85


O

RE I MORVI ST S ET AU AIC O RA I TI

MEDIOEVO n. 230 MARZO 2016

MEDIOEVO www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

ESCLUSIVA

IL

TESORO DEI

Mens. Anno 20 numero 230 Marzo 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

STORIA DI UN INTRIGO INTERNAZIONALE

DINASTIE

Gli Aldobrandeschi

DOSSIER

MIGRANTI

PARTENZE, COMMERCI E NUOVE IDENTITÀ NELL’ETÀ DI MEZZO www.medioevo.it

med230_Cop.indd 1

€ 5,90

IL TESORO DEI GUELFI PIETRO EREMITA ALDOBRANDESCHI GENTE DI BOTTEGA/2 ORVIETO DOSSIER MIGRANTI

GUELFI

12/02/16 12:57

MEDIOEVO Anno XX, n. 230 - marzo 2016 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352 Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Cristiano Bernacchi è giornalista. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Barbara Conti è storica dell’arte medievale. Claudio Corvino è antropologo. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Aart Heering è giornalista. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Chiara Parente è giornalista. Emanuela Porta Casucci è dottore di ricerca in storia medievale. Marisa Ranieri Panetta è giornalista. Stefania Romani è giornalista. Renata Salvarani è ricercatore di storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Università degli Studi Europea di Roma. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Illustrazioni e immagini: da Il Villani illustrato, Banca CR Firenze, Firenze 2005: p. 5 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 8, 10 (alto, a sinistra), 11, 16; foto Gino Di Paolo: pp. 9, 10 (alto, a destra, e basso) – Cortesia Comune di Cogorno: studio fotografico Rota Domenico: pp. 12-15 – Cortesia degli autori: pp. 2021, 64-65, 76/77 – Bridgeman Images: copertina e pp. 30 (alto), 34/35, 36 (alto), 37, 68-70, 72/73, 85, 88, 91, 109 (basso) – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 30 (basso), 33; Leemage: pp. 50/51, 67; The Art Archive: pp. 54/55, 71 (alto); Electa: p. 71 (basso); Album: pp. 93, 101; Electa/Mauro Magliani: p. 109 (alto) – Staatliche Museen zu Berlin, Kunstgewerbemuseum: pp. 31, 42 – Shutterstock: pp. 36/37, 38/39 (sfondo), 56-58, 60-62 – AP Photo/Markus Schreiber: pp. 39 (alto), 40/41 – Doc. red.: pp. 39 (basso), 41, 44/45, 51, 52, 59, 66, 89, 95, 98/99 – Getty Images: Heritage Images: pp. 46-49; Photo 12: p. 100 – DeA Picture Library: pp. 72, 86/87, 90/91, 96, 102/103; A. Dagli Orti: p. 94; C. Sappa: p. 102; G. Dagli Orti: p. 108 – Cortesia Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria/foto Massimo Achilli: pp. 74/75, 77, 78-82 – Cippigraphix: cartina a p. 50 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 50, 92; da originali forniti dal Laboratorio della Cattedra di Archeologia Medievale, Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo, Università di Firenze: pp. 60, 63. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l.

Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa

In copertina particolare di una miniatura raffigurante le operazioni di carico di una nave mercantile. XIV sec. Torino, Biblioteca Nazionale

Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6346 Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo

Nel prossimo numero esclusiva

Il messaggio nascosto negli affreschi di Assisi: incontro con Chiara Frugoni

protagonisti

Ildegarda di Bingen storie

Maremma: il forziere d’argento

dossier

Gli Ebrei in Italia


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

«Cosa fatta, capo ha!»

è una lunga scia di sangue dietro al proverbio che ancora oggi adoperiamo per accantonare titubanze eccessive e che significa come, una volta presa una decisione, buona o cattiva che sia, non si torna indietro. «Negli anni di Cristo MCCXXV (...), avendo uno mes-

C’

Vignetta raffigurante l’assassinio di Buondelmonte Buondelmonti, dall’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani oggi nota come manoscritto Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana.

ser Bondelmonte de’ Bondelmonti nobile cittadino di Firenze, promesse a ttorre per moglie una donzella di casa gli Amidei (…) e poi cavalcando per la città il detto messer Bondelmonte (…) una donna di casa i Donati il chiamò, biasimandolo della donna ch’egli avea promessa, come nonn era bella né sofficiente a lui e dicendo: “Io v’avea guardata questa mia figliola”; la quale gli mostrò e era bellissima; incontanente, per subsidio diaboli preso di lei, la promise e isposò a moglie. Per la qual cosa i parenti della prima donna promessa, raunati insieme (…) si presono il maledetto isdegno (…) si congiurarono insieme di fare vergogna al detto messer Bondelmonte» (da Giovanni Villani, Nuova Cronica). Il mancato rispetto della promessa di matrimonio fu lavato con la vendetta e l’omicidio del giovane, ai piedi della statua di Marte, sul Ponte Vecchio: una decisione presa da Mosca de’ Lamberti, il quale, nell’occasione, avrebbe pronunciato la perentoria frase, divenuta poi proverbiale. L’anonima fanciulla era probabilmente figlia di Lambertuccio Amidei, «la casa di che nacque il vostro fleto», come dice Dante per bocca di Cacciaguida, il quale, rivolgendo un pensiero ai Buondelmonti, individua in questo episodio la causa della scissione in fazioni. Per quanto anonima, questa donzella, pare essere il casus belli: ed è per subsidio diaboli che – nell’immaginario dei cronisti – ebbe inizio la rovina di Firenze.

A muovere i fili dell’intrigo c’è un’altra donna, madonna Aldruda. Tommaso d’Aquino ricorda, a proposito del fatto che Eva si lasciò sedurre dal serpente, che la donna «è meno dotata dell’uomo anche per quanto riguarda l’anima», alludendo all’incapacità di resistenza e di previsione dei rischi e del pericolo. E anche nell’episodio fiorentino, trasmessoci da Giovanni Villani, è la donzella che con la sua bellezza attira l’uomo, quasi passivo e quasi inconsapevole attore, cosí come fu Adamo nel Paradiso Terrestre. Dante, invece, non ritrova in questa femme fatale il principio scatenante di ciò che provocò la rovina dell’intera Toscana: il casus, per lui, non è il motto che fu «il mal seme per la gente tosca» esclamato da Mosca de’ Lamberti. La requisitoria contro Buondelmonte che Dante fa esclamare a Cacciaguida è talmente veemente, che la causa della divisione risiede proprio nella sua debolezza. Perciò Dante definisce la reazione degli Amidei «lo giusto disdegno» e non «il maladetto disdegno» come scrisse Villani. A ben guardare, la responsabilità della divisione in factiones non sta per Dante nel motto del Mosca, ma in quella debolezza, in quella scelta dettata dalla passione del Buondelmonte, alla cui schiatta il poeta augura una morte prematura (e chiamando in causa Dio stesso!) cosí da evitare l’incauto rifiuto. «Molti sarebber lieti che son tristi se Dio t’avesse conceduto ad Ema la prima volta ch’a città venisti».


ANTE PRIMA

Bentornato, MUNDA!

MUSEI • Il Museo Nazionale d’Abruzzo ha riaperto i battenti: un evento importante

per L’Aquila, ma anche un’opportunità da non mancare per scoprire una collezione di dipinti e sculture il cui valore va ben oltre i confini dell’ambito regionale

L

o scorso dicembre ha riaperto a L’Aquila, nella nuova sede dell’ex Mattatoio comunale, il Museo Nazionale d’Abruzzo (MUNDA). L’edificio si trova nel Borgo della Rivera, a ridosso della parte meridionale delle mura che nel Trecento segnavano il confine fra città e campagna. L’area, ricca di sorgive, ha sempre avuto un ruolo di primo piano, proprio per l’abbondanza d’acqua, testimoniata, ancora oggi, dalla Fontana della Rivera, costruita nella seconda metà del Duecento con una quindicina di mascheroni porta getto. La fonte, che oggi ha un assetto diverso dall’originario, perché frutto di numerosi rifacimenti, è collocata

8

marzo

MEDIOEVO


Nella pagina accanto L’Aquila. Due immagini del nuovo allestimento del MUNDA, Museo Nazionale d’Abruzzo, presso il quale sono esposte tutte le opere illustrate in queste pagine. A destra L’albero della croce, tempera su tavola del Maestro del Trittico di Beffi, dalla chiesa di S. Maria a Paganica (L’Aquila). XV sec.

territorio». Due sono le iconografie ricorrenti: oltre a Maria ritratta come Sedes sapientiae, con il Bambino che benedice, c’è quella della madre Lactans, con figure che seppur ieratiche come regine bizantine, con vesti sontuose, porgono il seno al figlio. «La sezione medievale annovera tre Lactans – segnala Arbace –: la Madonna de Ambro, una tempera su tela applicata a tavola del primo Duecento, quella di Montereale, tempera su pergamena incollata su tavola di pino, e quella di Gentile da Rocca, la piú antica tavola dipinta, firmata e datata 1283».

davanti alla nuova istituzione, che vanta un corpus di oltre 100 opere: si va da reperti archeologici delle genti italiche preromane a manufatti del XVIII secolo. I pezzi, molti dei quali restaurati in seguito ai danni subiti durante il terremoto del 2009, sono esposti in una struttura dotata di sistemi antisismici: tutte le sculture sono collocate su un «piedistallo di sicurezza», studiato per oscillare anche con vibrazioni minime.

L’acqua, un tema ricorrente

Il legame con il territorio «La collezione medievale, che propone diverse Madonne, sia scolpite nel legno che dipinte su tavola, conta esemplari molto rari, che vanno dalla fine del XII secolo al Trecento – spiega Lucia Arbace, direttore del Polo Nazionale dell’Abruzzo –. Nessun altro museo vanta un nucleo di soggetto mariano paragonabile al nostro per qualità e ampiezza. Nell’allestimento della nuova struttura, per ragioni di spazio, abbiamo dovuto operare una selezione, secondo i criteri dell’iconografia, della qualità artistica e della storia che c’è dietro alle opere, per esempio scegliendo quelle legate a un culto particolarmente radicato sul

In basso il Trittico di Beffi, tempera su tavola con fondo oro da cui ha preso nome l’ignoto artista designato appunto Maestro del Trittico di Beffi, dalla chiesa di S. Maria del Ponte, Tione degli Abruzzi (L’Aquila). Inizi del XV sec.

Fra i lavori che meritano di essere segnalati, ricordiamo anche un affresco staccato dal castello di Ocre, con Maria fra due santi, del XII-XIII secolo, e la Madonna delle Concanelle, una scultura lignea dipinta, datata 1262, che proviene dalla chiesa della Madonna della Neve a Bugnara, vicino a Sulmona. Si tratta, come precisa Arbace, di un pezzo «legato a un culto di origine pagana, con le donne che raccoglievano l’acqua con le concanelle. Il tema dell’acqua è ricorrente: il museo è di fronte alla Fontana delle 99 Cannelle, in un’area in cui è stata intercettata una sorgente».

DOVE E QUANDO

MUNDA, Museo Nazionale d’Abruzzo L’Aquila, Borgo Rivera Orario tutti i giorni, 9,00-19,00; chiuso il lunedí Info tel. 335 5964661; e-mail: pm-abr@beniculturali.it; www.munda.abruzzo.it

MEDIOEVO

marzo

9


ANTE PRIMA A sinistra ancora un particolare dell’allestimento, con due statue lignee di Madonna. A destra Madonna «de Ambro», tempera su tela applicata a tavola attribuita a un pittore attivo tra la fine del XII e l’inizio del XIII sec., dalla chiesa di S. Maria a Grajano, Fontecchio (L’Aquila). Prima metà del XIII sec. In basso Madonna in trono con Bambino e angeli, tempera su tavola con fondo oro di Saturnino Gatti, dalla Cappella della Torre, palazzo Margherita, Municipio dell’Aquila. 1505. In esposizione figurano quindi le Vergini angioine, come quelle del Maestro di San Silvestro e del Maestro di Fossa: sono piú eleganti e naturalistiche rispetto agli esemplari arcaici e tradiscono l’influenza del gusto gotico francese. La raccolta conta poi soggetti diversi, quali Santa Caterina d’Alessandria, Santa Balbina, in legno policromo della prima metà del Trecento, e il coevo Sant’Eutizio, proveniente da una frazione di Montereale.

Il Cristo ritrovato Un’altra presenza importante è il Cristo ligneo proveniente da Penne, centro che fu a lungo diocesi. «Il Cristo deposto, che deve essere appartenuto a un gruppo con piú figure, richiama il Compianto di Tivoli: durante le scosse del 2009 è precipitato a terra, a testa in giú, subendo nell’impatto uno

10

schiacciamento irreversibile delle fibre in corrispondenza del naso», racconta Lucia Arbace. «È stato affidato alle cure dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, che lo ha risanato integralmente, con l’eccezione del naso». Una novità assoluta è la Madonna del Maestro di Santa Caterina Gualino, acclarato come personalità di origine teramana che ha operato nella val Tiberina. Acquistata dal MiBACT, l’opera, un legno di tiglio scolpito e dipinto, proveniente dalla cattedrale di S. Berardo a Teramo, è ascrivibile agli esordi del Trecento. Al tardo gotico risale invece il Trittico di Beffi, pittura su tavola che tradisce un gusto cortese, mentre il Reliquiario a cofanetto di Giovanni d’Angelo da Penne testimonia la vivace stagione dell’oreficeria. Stefania Romani marzo

MEDIOEVO


Contro qualsiasi imprevisto (o quasi) MOSTRE • Praticare un’attività commerciale poteva

implicare non pochi rischi: furti, rapimenti, pestilenze, ma anche calamità naturali... Fu cosí che, per difendersi, furono stilate le prime polizze assicurative A sinistra frontespizio della prima edizione del Tractatus de assecurationibus et sponsionibus di Pedro de Santarém. Venezia, 1552. A destra frontespizio del Libro del consolato… con la gionta delle ordinationi sopra legni armati e sicurtà. Venezia, 1549.

L

a Biblioteca Sormani di Milano propone una carrellata su sette secoli di pratica assicurativa, attraverso documenti concessi in prestito dalla Fondazione Mansutti. La rassegna prende le mosse dal Medioevo, epoca in cui i mercanti genovesi e fiorentini, decisi a tutelare i loro guadagni dai rischi legati a viaggi sempre piú lunghi, introducono uno strumento ad hoc. «L’assicurazione nasce fra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, grazie ai mercanti, che commerciano con il Medio Oriente, vendendo lana, seta, manufatti e importando beni come spezie e pepe – racconta

MEDIOEVO

marzo

Francesco Mansutti, presidente dell’omonima fondazione –. Nel trasporto via mare dovevano salvaguardare navi, uomini e merci da incognite di varia natura: le carte nautiche non indicavano la profondità delle acque, perciò l’incaglio era piuttosto frequente. Capitava inoltre che i carichi fossero soggetti a lunghe soste per bonacce o maltempo ed erano diffusi gli attacchi di corsari e pirati.

In caso di pestilenza Cosí, per tutelarsi, i mercanti trasferiscono il rischio della perdita dei propri beni ad altri, disposti a farsene carico in cambio di una copertura analoga per le loro future spedizioni. Nasce in questo modo una pratica destinata a diventare fondamentale per il commercio». La mostra si apre con un documento inedito, la polizza piú antica a oggi nota, scritta il 18 febbraio 1343 da un notaio genovese. Un altro atto tutela dagli eventuali danni della

peste, in particolare dalla malattia dei mercanti addetti all’esazione delle imposte. Ci sono poi contratti sugli schiavi: uno assicura la schiava di una priora per i risvolti derivanti da gravidanze o morte da parto. Infine, è esposta una polizza stilata per fronteggiare le richieste di riscatto in caso di rapimento di marinai liguri. S. R. DOVE E QUANDO

«Scacco al rischio! Fortuna, sventura, calcolo nell’assicurazione dal Medioevo ad oggi» Milano, Biblioteca Sormani, Scalone Monumentale della Sala del Grechetto fino al 9 aprile Orario lu-ve, 15,00-19,00; sa, 9,00-13,00 Info Tel. 02 87064280; e-mail: biblioteca@mansutti.it

11


ANTE PRIMA

Sinfonie di pietra ITINERARI • Il borgo di San Salvatore dei Fieschi, nel Comune di Cogorno,

conserva alcune delle piú insigni architetture medievali della Liguria. Fra le quali spiccano la magnifica basilica voluta da papa Innocenzo IV e il Palazzo Comitale

A

pochi chilometri dalle brulicanti cittadine costiere di Chiavari e Lavagna, una strada lunga e stretta, battuta da venti opposti che portano profumi di salsedine e di pinete, si inerpica fra fasce terrazzate a ulivi e vigne, raggiungendo il borgo di San Salvatore dei Fieschi: un suggestivo complesso monumentale, immerso nella macchia mediterranea e adagiato sul cucuzzolo di una collinetta, che domina la fertile piana scavata dal torrente Entella. Ritenuto uno dei centri medievali meglio conservati della regione, San Salvatore è frazione del Comune di Cogorno (Genova). L’origine di quest’insula, considerata la primigenia roccaforte del potere dei Fieschi, sembra risalire all’età romana. Secondo Plinio il Vecchio,

12

si trattava di un insediamento abitato, situato tra Genua e portus Delphini. Forse era un porto, prima che le alluvioni dell’Entella riempissero tale insenatura naturale e tuttora vi si conserva un tratto dell’antica via romana, recuperato in occasione del Giubileo del 2000.

Per volontà del papa Fulcro del complesso monumentale di San Salvatore è la piazza, armoniosa e irregolare, sulla quale si affacciano la basilica dedicata a san Salvatore, ossia la chiesa gentilizia dei Fieschi, detta anche S. Salvatore «Nuovo», la chiesa di S. Salvatore il Vecchio e il Palazzo Comitale. Tutti i manufatti sono raccordati tra loro da una splendida pavimentazione in pietre, sistemate a mosaico.

marzo

MEDIOEVO


Qui accanto San Salvatore dei Fieschi (Cogorno, Genova). Una suggestiva veduta della piazza di San Salvatore, sulla quale affacciano la basilica dei Fieschi (S. Salvatore Nuovo) e il Palazzo Comitale. Nella pagina accanto il rosone della basilica dei Fieschi, che denuncia influenze del gotico francese. La fondazione del borgo e della chiesa di S. Salvatore Nuovo spettano a Sinibaldo Fieschi, eletto papa ad Anagni nel 1243 con il nome di Innocenzo IV. Nel 1244, mentre era a Genova per raggiungere il Concilio di Lione, diede l’ordine di costruire il luogo di culto e il borgo all’interno della contea amministrativa di famiglia. L’abitato e l’intera contea furono devastati da Federico II di Svevia, scomunicato dallo stesso Innocenzo IV. Cosí, nel 1252, il pontefice si preoccupò di ricostruire il Palazzo Comitale, gli edifici minori annessi e la parrocchiale, sotto la guida del nipote, il cardinale Ottobono. Costui, a sua volta nominato papa Adriano V, donò alla chiesa una reliquia della Santa Croce, custodita in una teca di cristallo. Ancora oggi il quattrocentesco affresco nella lunetta sopra al portale della chiesa raffigura il Crocifisso tra Maria e San Giovanni, il pontefice Innocenzo IV e il cardinale Ottobono e ricorda l’atto di fondazione.

Sul percorso dei pellegrini Nel Medioevo il borgo di San Salvatore, posto in posizione strategica lungo i sentieri intervallivi tra la costa e l’entroterra, divenne un polo di attrazione e una tappa per i pellegrini, che, percorrendo la via consolare romana, raggiungevano la via Francigena. Profondamente legato alla dinastia fliscana, il nucleo demico ne seguí le alterne vicende, che si protrassero sino al 1547, quando il fallimento della congiura ordita contro i Doria da Gianluigi Fieschi determinò la rovina della casata. Considerata tra i piú pregevoli e meglio conservati monumenti romanico-gotici della Liguria, la basilica è annunciata da un ampio sagrato semicircolare, che risale al 1810. Secondo una tradizione comune nell’Estremo Levante ligure la decorazione musiva è giocata sulle tonalità policrome del rosso del marmo di Levanto, del

MEDIOEVO

marzo

Costruire con l’ardesia La basilica dei Fieschi a San Salvatore rappresenta una delle maggiori espressioni dell’uso dell’ardesia in architettura. Questa pietra, bella e molto preziosa (che, lo ricordiamo, è una roccia argillo-scistosa, il cui colore scuroè dovuto alla presenza di sostanze carboniose o bituminose, n.d.r.), è conosciuta e utilizzata nella zona fin da tempi remoti. Con essa si ricoprivano i tetti, si costruivano le «fasce», si pavimentavano i sentieri, si delimitavano le proprietà, si realizzavano i trogoli da olio, i lavatoi, gli abbeveratoi, le mensole. Il materiale grezzo proveniva dal versante sud del monte San Giacomo, nel quali si contano circa 350 cave, scavate nel corso di centinaia di anni e alcune delle quali sono a oggi ancora nascoste. In passato la «coltivazione» delle cave era necessariamente abbinata a quella delle fasce in superficie, rette da muri pazientemente innalzati con scaglie di pietra. I cavatori e gli spacchini non avevano vita facile. Inoltre, per l’assenza di strade carrozzabili, le «Portatrici d’ardesia» trasportavano in equilibrio sulla testa una o piú lastre, camminando nei sentieri impervi, che dal monte scendevano ai magazzini di Lavagna, dov’erano rifinite dagli scalpellini, o alla spiaggia, ove ad attenderle c’erano leudi e feluche, dirette con il prezioso carico a Genova e agli altri scali del Mediterraneo. Adesso dal borgo si dipartono due secolari sentieri, che, ripristinati di recente, compongono un percorso ad anello attraverso il monte San Giacomo, alla scoperta dell’ecomuseo dell’ardesia. Invece dalla cima del S. Giacomo comincia l’antico «Sentiero delle portatrici», che passando per Cogorno giunge a Lavagna.

13


ANTE PRIMA bianco e del nero, e riprende la forma e gli elementi a raggiera del rosone centrale nella fronte. Espressione della celebrazione del casato, il tempio fu sottratto da Innocenzo IV alla giurisdizione dell’Ordinario di Genova, sottoposto direttamente alla Santa Sede, esentato dal pagamento dei tributi e affidato in patronato ai discendenti maschi della famiglia. Nel luogo sacro, per la prima volta nella regione, si fondono il sapere costruttivo e i moduli decorativi dell’architettura genovese con quelli del gotico francese. Giudicata un modello stilistico per gli edifici ecclesiastici della Riviera di Levante, la chiesa è il risultato di almeno due fasi costruttive, che si sono succedute nel tempo e hanno reso piú armonica la volumetria dell’insieme, con la sopraelevazione della torre campanaria e di parte delle navate. All’esterno i conci usati hanno dimensioni variabili; alcuni di essi raggiungono i 3 m e presentano un ornato accurato. Sbozzati e lavorati a scalpello, risultano poi uniti con un sottile strato di malta.

Alla maniera francese La facciata, scandita dalla grigia pietra calcarea delle vicine cave di monte San Giacomo, ha quattro salienti ed è tripartita da lesene, che preannunciano la suddivisione interna in tre navate. Impreziosita da un raffinato rosone in marmo di gusto francese, punteggiato nei contorni da un fitto quanto sommesso addobbo scultoreo, nella parte superiore appare chiusa da archetti ciechi e rivestita da un decoro a fasce orizzontali bianche e nere. In alto un particolare della decorazione della facciata della basilica dei Fieschi, giocata sull’alternanza tra bianco e nero.

Appuntamento ad agosto Ogni anno, il 13 agosto, San Salvatore ricorda le vicende della famiglia con la manifestazione Addio do Fantin. Ideato come prologo della Torta dei Fieschi – la rievocazione che si svolge annualmente a Lavagna il 14 agosto e in occasione della quale si celebrano le nozze tra Opizzo Fieschi e la contessa Bianca de’ Bianchi di Siena –, l’evento costituisce una sorta di addio al celibato del promesso sposo. Nella suggestiva cornice della piazza, alla luce delle fiaccole, si allestisce un sontuoso banchetto, ispirato alla grande cucina italiana dei secoli XIII-XIV e allietato da sfilate in costume e balli d’epoca. Momento clou della festa è il coinvolgente annuncio delle imminenti nozze di Opizzo con Monna Bianca, pronunciato dall’araldo e dai musici-banditori dei Sestieri, di ritorno dalle contrade di Lavagna. Arricchiscono la serata: giochi d’arme e di bandiera, esibizioni di sbandieratori, banchetti di artigiani e un accampamento militare, «il bivacco» degli uomini del conte.

14

marzo

MEDIOEVO


Questa soluzione architettonica, simbolo di nobiltà e prestigio, è ottenuta alternando l’ardesia al pregiato marmo bianco di Carrara e qualifica l’edilizia urbana genovese tra il XIII e il XIV secolo. Di grande monumentalità è il campanile, che svetta all’incrocio della navata principale col transetto, elevandosi sull’intero manufatto. La torre, a due piani marcati da archetti pensili, si apre su ogni prospetto con un doppio ordine di quadrifore, mentre quattro pinnacoli piramidali stanno alla base della cuspide ottagonale. Impostata su pianta quadrata, è fra le piú tipiche conseguenze della matrice di S. Fruttuoso di Capodimonte, l’abbazia che piú ha influenzato l’architettura delle chiese liguri, prima delle innovazioni stilistiche introdotte dai Magistri antelami. L’interno, semplice e solenne al contempo, è caratterizzato da strutture portanti in pietra a bozze ben squadrate, si In alto la figura di un leone, scolpita in uno dei corsi di marmo bianco della facciata della basilica dei Fieschi, in corrispondenza della lesena che segna il limite tra la navata centrale e quella laterale destra. Qui accanto un momento dell’Addio do Fantin, la manifestazione che ogni anno, in agosto, anima il borgo di San Salvatore dei Fieschi.

MEDIOEVO

marzo

articola in tre navate e per l’evidente verticalismo della nave centrale, accentuato dall’abbassamento del livello del pavimento rispetto al piano di campagna circostante, rimanda ai dettami dello stile gotico. Di fronte alla basilica s’innalza il Palazzo Comitale: formata da un blocco squadrato a pianta rettangolare, la residenza nobiliare appare disposta sul pendio della collina. Documentata a partire dal 1383, risale alla fine del Duecento; in particolare a dopo il 1288, poiché un atto notarile trascritto in quell’anno riferisce di una riunione della famiglia Fieschi, avvenuta nel refettorio della chiesa di S. Salvatore, mentre se la dimora fosse già stata terminata, l’incontro si sarebbe svolto nel Palazzo Comitale.

Una vicenda architettonica complessa Nel corso dei secoli il fabbricato ha subíto numerose alterazioni; tra cui la suddivisione in diverse unità abitative rurali. Malgrado le ripetute modifiche, osservando la fabbrica si può ancora coglierne l’originaria funzione di residenza signorile di tipo cittadino, evidente anche nel tessuto murario a bande orizzontali. Questo motivo, costituito in prevalenza da conci di pietra grigia, è stato realizzato con l’«agro di ardesia», un materiale di aspetto simile all’ardesia, estratto sin dal Mille dal monte San Giacomo (vedi box a p. 13). Recenti studi sulla superficie muraria hanno anche permesso di individuare diverse fasi edilizie. Dei quattro prospetti, il piú importante, identificato come facciata, è quello orientale, evidenziato da fasce bianche e nere. Al piano terra in passato vi era un portico. Aperto sul vasto slargo aveva due archi dotati di ghiere in marmo e costituiva probabilmente uno spazio di compenetrazione tra interno ed esterno. Nella porzione superiore di quest’ala si notano due quadrifore con colonnine e archetti di marmo, risalenti ai restauri del 1938. A differenza delle altre parti del palazzo, il prospetto occidentale, cioè quello rivolto verso la valle, grazie al dislivello si innalza su tre piani. È invece piú tardo il prospetto nord: risale probabilmente alla fine del Cinquecento o agli inizi del Seicento, quando, a partire dal 1595, i Fieschi risistemarono il complesso. Infatti, la muratura mostra una tessitura a scaglie, tecnica che in Liguria comincia a essere in uso nel Cinquecento. La parte est, verso il monte, termina con un muro continuo. Quest’ala, dovuta a un successivo ampliamento, è detta «delle scuderie» e oggi ospita un polo culturale e un piccolo museo, che valorizza la storia del borgo e dei Fieschi. A lato del Palazzo Comitale si erge la chiesa di S. Salvatore il Vecchio, il manufatto forse piú antico della piazza, che oggi, dopo varie trasformazioni, si presenta in forme barocche. Chiara Parente

15


ANTE PRIMA

Mostri e salsicce per tentare sant’Antonio MOSTRE • Nella retrospettiva che la sua città natale gli dedica, Hieronymus Bosch

si «riappropria» di un’opera fino a ieri attribuita a un suo allievo o seguace

L

DOVE E QUANDO

a grande retrospettiva su Hyeronimus Bosch in corso a ‘s-Hertogenbosch, sua città natale (vedi «Medioevo» n. 229, febbraio 2016), si è arricchita di una nuova acquisizione: tra le opere esposte, è stata infatti inserita una Tentazione di Sant’Antonio facente parte della collezione del Nelson-Atkins Museum di Kansas City, ma che lo stesso museo statunitense custodiva in deposito, poiché si pensava che il dipinto fosse da attribuire a un allievo o a un seguace di Bosch. Le ricerche del Bosch Research and Conservation Project (BRCP) hanno invece permesso di fugare i dubbi sulla paternità della tavola, offrendo, come ha dichiarato Matthijs Ilsink, storico dell’arte e coordinatore del BRCP, «un’aggiunta, piccola ma importante, all’opera di Bosch».

«Hieronymus Bosch. Visioni di un genio» ‘s-Hertogenbosch, Noordbrabants Museum fino all’8 maggio Orario tutti i giorni, 9,00-19,00 Info www.hnbm.nl Tentazione di Sant’Antonio (frammento), olio su quercia di Hieronymus Bosch. 1500-10 circa. Kansas City, The Nelson-Atkins Museum of Art.

Creature fantastiche L’opera, un olio su quercia risalente al 1500-10 circa, mostra appunto sant’Antonio, riconoscibile per la croce a T sul mantello, minacciato, nella sua esistenza dedicata a Dio, da strani esseri, tipici del repertorio dell’artista: si vedono, tra gli altri, un esserino nascosto sotto un imbuto, una mostruosa creatura con la testa di volpe, una figurina con il becco da pellicano, la zampa di un maiale

16

su una tavola galleggiante, un rettile che esce dall’acqua e perfino una salsiccia che galleggia. La rappresentazione è stata pesantemente ritoccata e coperta da un restauro del XX secolo, ma nelle pennellate originali si riconosce ancora la mano di Bosch. Se guardiamo attraverso queste aggiunte successive, emerge il collegamento fra

questa rappresentazione di sant’Antonio e il pannello sinistro del trittico degli Eremiti esposto alle Gallerie dell’Accademia di Venezia (anch’esso in mostra a ‘s-Hertogenbosch). I ricercatori del BRCP, inoltre, grazie alla tecnica della fotografia e della riflettografia agli infrarossi, hanno reso visibili i disegni sottostanti, che corrispondono perfettamente a ciò che è stato trovato su altri pannelli facenti parte dell’opera principale di Hieronymus Bosch. Con un pennello piuttosto spesso e una sostanza acquosa, il pittore tracciava a grandi linee un disegno di preparazione, alla ricerca di quella che sarebbe stata la rappresentazione finale. (red.) marzo

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

A ciascuno il suo santo APPUNTAMENTI •

La regione francese del Limosino si appresta a dare il via alle Ostensioni: un rito antico, che, ogni sette anni, coinvolge tutti i villaggi del circondario, fino all’autunno

I

l Limosino (Limousin) è una piccola regione francese appartenente alla piú vasta area dell’Occitania, situata in larga parte sul Massiccio Centrale. Qui il cristianesimo è radicato da secoli e, ogni sette anni, nel periodo successivo alla Pasqua, nel capoluogo Limoges e in vari villaggi limitrofi vengono riproposte le Ostensioni (dal latino tardo ostendere, esporre), un rito risalente all’anno 994, quando gran parte dell’Occitania era oppressa da un’epidemia che stava mietendo centinaia di morti. Soltanto in epoca moderna si è

potuto accertare che si trattava di «ergotismo», un’intossicazione causata dal consumo del pane di segale contaminato da un fungo parassita, che può arrivare a procurare necrosi e perfino la morte.

Un castigo divino All’epoca, quella terribile epidemia fu vista come un castigo di Dio. Il 12 novembre 994, dopo tre giorni di preghiere e digiuni, a Limoges le In alto l’Ostensione di Saint-Léonard-deNoblat, che ogni 8 maggio celebra il santo fondatore della cittadina. A sinistra l’Ostensione di Saint-Junien, che si svolge il 26 giugno per rendere omaggio all’omonimo santo e a sant’Amando di Coly.

20

spoglie del patrono cittadino, san Marziale, furono rimosse dalla sua tomba, caricate su un carro e portate in processione fino al vicino Monte Jovis, fuori dalle mura cittadine, per implorare la protezione divina. Guidato dai prelati e monaci dell’abbazia di S. Marziale, il corteo religioso vide anche la partecipazione di Guglielmo IV, duca d’Aquitania. Il grande evento popolare, voluto dal vescovo Ilduino di Saint-Denis, divenne di fatto la prima Ostensione. Narra la leggenda che il 4 dicembre di quello stesso anno, quando le spoglie di san Marziale furono riportate nella tomba, l’epidemia cessò. Il clero, appoggiato dal duca d’Aquitania, approfittò del clima di fervore per scongiurare un altro male, giudicato ancor piú dannoso: la guerra. La Chiesa locale portò i signori del Limosino a prestare giuramento solenne, impegnandoli a garantire la «pace di Dio». Nei primi secoli successivi le Ostensioni non ebbero una scadenza fissa: si svolgevano in occasione dell’arrivo a Limoges di personaggi importanti, come per la visita di papa Clemente V nel 1307 e di Luigi XI nel 1462, oppure in caso di gravi marzo

MEDIOEVO


catastrofi, guerre ed epidemie. Dal Cinquecento presero una cadenza regolare, ogni sette anni. Iscritte dall’UNESCO nel Patrimonio culturale immateriale dell’Umanità, oggi le Ostensioni del Limosino sono manifestazioni popolari di interesse sociale e turistico, che mantengono una forte dimensione religiosa. Quest’anno, dopo l’ultima edizione del 2009, torneranno, a partire dal 28 marzo, Lunedí dell’Angelo, con l’apertura ufficiale al mattino ad Abzac – ex priorato della diocesi di Limoges –, che celebra san Lucio, e, nel pomeriggio, a Rochechouart, che onora san Giuliano di Brioude, soldato romano martirizzato sotto Diocleziano nel 304. Il 2 aprile, a Limoges, si apriranno i reliquari cittadini presso il santuario di S. Marziale; seguirà una fiaccolata fino alla Cattedrale di S. Stefano.

Da Marziale a Cosma e Damiano, santi e fratelli Il giorno successivo inizieranno le Ostensioni diocesane, per celebrare san Marziale (primo vescovo di Limoges), sant’Aureliano (il suo successore), san Lupo di Sens (vescovo cittadino del VII secolo) e san Valerio. Il programma proseguirà in aprile: il 10 a Saint-Just-le-Martel, che venera san Giusto, un pastorello vissuto con il grande sant’Ilario di Poitiers nel V secolo; il 17 a Nexon, dove si rende omaggio a san Ferreol, vescovo di Limoges nel VI secolo; il 24 a Saint-Victurnien, che celebra l’omonimo patrono cittadino, giunto secondo la leggenda dalla Scozia per vivere come un eremita nel Limosino. In maggio, il 5, appuntamento a Javerdat, dove si venera san Biagio; il 7 ad Aixe-sur-Vienne, che celebra la Madonna d’Arliquet Alpinien; l’8 a Saint-Léonard-de-Noblat, che festeggia il suo santo fondatore, Leonardo, eremita del V secolo; il 15 a Rochechouart; il 16 a Esse, che venera il protomartire santo Stefano;

MEDIOEVO

marzo

Piatti, pappamusci e crociferi F

ra le numerose cittadine dell’Italia meridionale che vantano celebrazioni pasquali molto suggestive, figura senz’altro Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi, dove i riti della Settimana Santa affondano le loro radici nel Medioevo, sebbene alcuni elementi, come le statue dei «Misteri», risalgano al Seicento e Settecento. Dopo l’iniziale processione della Domenica delle Palme, il Mercoledí Santo è tradizione che i bambini passino di casa in casa per mostrare i «piatti» realizzati con fiori e grano anemico, segno di pace, con i quali in seguito adornano i cosiddetti «Sepolcri» delle chiese.

Una processione dopo l’altra Il giorno successivo, Francavilla Fontana piomba nelle atmosfere cupe del Giovedí Santo, quando in serata, dopo la messa della Lavanda dei piedi, dalla chiesa del Carmine escono in coppie un centinaio di pappamusci, confratelli scalzi e incappucciati, che incedono per le vie del centro, recandosi in visita ai Sepolcri allestiti in nove delle ventuno chiese cittadine. Il pellegrinaggio si protrae per tutta la notte, concludendosi il giorno successivo, verso mezzogiorno. Si prosegue il venerdí sera, con la processione dei Misteri, nella quale sfilano le sette confraternite cittadine con le nove statue che rappresentano i passaggi della Passione di Cristo. Del mesto corteo fanno parte i crociferi, penitenti scalzi e incappucciati, con un saio di colore nero, bianco o rosso a seconda della loro appartenenza, che portano sulle spalle pesanti croci di legno. La processione parte dalla chiesa di S. Chiara, nella quale rientra verso la mezzanotte dopo aver attraversato il centro storico. Le celebrazioni si chiudono nella tarda mattinata della domenica di Pasqua, quest’anno il 27 marzo, quando la processione con la statua del Cristo Risorto cancella il dolore e riporta la gioia in città. T. Z. il 22 a Le Dorat, che onora san Israele e san Teobaldo, vissuti nel IX secolo; il 29 a Charroux. Si proseguirà in giugno, il 5, a Saint-Yrieix-la-Perche, che celebra il fondatore cittadino Aredius, eremita del VI secolo; il 12 a Chaptelat, che onora sant’Eloi, fondatore di Solignac nel 633 e vescovo di Noyon-Tournai; il 19 a Eymoutiers; il 26 a Saint-Junien, che festeggia l’omonimo santo e

sant’Amando di Coly, vissuto nel V secolo. In luglio appuntamento il 3 ad Aureil, che onora il suo santo fondatore, Gaucher, e il suo discepolo, san Faucher, vissuti nell’XI secolo; il 10 a Crocq. Infine, in ottobre, il 2, a Pierre-Buffièr si festeggeranno i fratelli san Cosma e san Damiano; una settimana piú tardi, il 9, chiusura a Guéret. Tiziano Zaccaria

21


AGENDA DEL MESE

Mostre BOLOGNA TRA LA VITA E LA MORTE. DUE CONFRATERNITE BOLOGNESI TRA MEDIOEVO E ETÀ MODERNA U Museo Civico Medievale fino al 28 marzo

Protagoniste dell’esposizione sono le Confraternite bolognesi di S. Maria della Vita e di S. Maria della Morte, un tempo ubicate una di fronte all’altra. Infatti, se quella della Vita aveva sede nella chiesa omonima, in via Clavature, quella della Morte si estendeva tra via Marchesana e il portico che ne conserva il nome, correndo lungo via dell’Archiginnasio e costeggiando S. Petronio. La mostra è l’occasione per ricostruire l’attività delle due confraternite soprattutto attraverso una ricca selezione di documenti figurativi (dipinti, miniature, sculture, ceramiche, oreficerie), con una particolare attenzione alle numerose miniature contenute entro i volumi degli Statuti di entrambe le

24

a cura di Stefano Mammini

Compagnie, a partire dal Duecento, fino a tutto il Seicento. info tel. 051 2193930 oppure 051 2193916; www.museibologna.it COLLEFERRO (ROMA) IL «TESORO» DEI CONTI U Museo Archeologico del Territorio Toleriense fino al 31 marzo

restituito arredi-corredo databili perlopiú al XIII-XV secolo, ma con presenze, almeno in due sepolture, coeve al primo impianto della chiesa, di monili altomedievali (VII secolo). info tel 06 9781169; e-mail: museo@comune.colleferro.rm.it FIRENZE UN PALAZZO E LA CITTÀ U Museo Salvatore Ferragamo fino al 3 aprile

Realizzata nell’ambito delle manifestazioni per gli 80 anni dalla nascita del Comune di Colleferro e per l’VIII centenario della morte di Innocenzo III, la mostra espone i risultati degli scavi nel castello di Piombinara e, in particolare, i materiali provenienti dalla necropoli individuata intorno e all’interno della chiesa castellana, probabilmente dedicata a S. Nicola. Si tratta (per ora) di 113 sepolture che hanno

Forte di opere e documenti provenienti da musei e collezioni private, la mostra ripercorre le complesse vicende storiche di Palazzo Spini Feroni. Le origini dell’edificio risalgono al 1289, dopo che un’alluvione aveva distrutto le case degli Spini, ricca e potente famiglia proprietaria di una delle prime società bancarie d’Europa. Committente dell’edificio fu Ruggeri, detto Geri, la persona piú illustre del casato, banchiere di papa Bonifacio VIII. L’allestimento è dominato da due grandi forzieri che contengono le opere d’arte e i documenti: spiccano, tra gli altri, un dipinto seicentesco che raffigura l’albero genealogico degli Spini; una pergamena del 1277 che dimostra l’acquisto degli Spini di un terreno e di una casa nei pressi del ponte Santa Trinita; la storia della famiglia nel Quattrocento scritta da un discendente di Geri, Doffo. Due modelli in scala, realizzati dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, riproducono l’area cittadina in cui fu costruito il palazzo, e la sua architettura, come appare nella veduta quattrocentesca. info tel. 055 3562846; e-mail: museoferragamo@ferragamo.com; www.ferragamo.com

VENEZIA «SPLENDORI» DEL RINASCIMENTO A VENEZIA. ANDREA SCHIAVONE TRA PARMIGIANINO, TINTORETTO E TIZIANO U Museo Correr fino al 10 aprile

Pittore dal pennello veloce come una freccia, Andrea Meldola, detto Schiavone (1510 circa-1563), propose un linguaggio pittorico nuovo e spregiudicato, tanto che, già pochi anni dopo l’arrivo a Venezia (avvenuto forse intorno al 1535), divise l’opinione pubblica e la critica: chi come l‘Aretino lo stimava e gli era

amico, chi come il Pino non nascondeva il suo disprezzo. Un artista «fuori dal coro», dunque, affascinante e moderno, sul quale si fa finalmente il punto dopo decenni di studi e ricerche. Per la prima volta sono riuniti oltre 80 lavori di Schiavone, dipinti, disegni, incisioni: oltre ad alcuni inediti, si possono vedere insieme i capisaldi della sua opera pittorica e, con essi, importanti dipinti di confronto dei maggiori artisti del tempo, punto di riferimento per il Dalmata e con i quali egli ebbe contatti o rapporti di «dare» e «avere». info call center, tel. 848 082 000; e-mail: info@fmcvenezia.it; www.correr.visitmuve.it marzo

MEDIOEVO


NONANTOLA (MO) MATILDE, SPLENDENTE FIACCOLA U Museo Benedettino e Diocesano di Arte Sacra fino all’11 aprile

L’abbazia romanica di Nonantola ricorda Matilde di Canossa proponendo un percorso fra antiche pergamene che indaga i rapporti tra il potente e ricco monastero e la famiglia della contessa. Dell’età dei Canossa, e di Matilde in particolare, l’Archivio Storico Abbaziale conserva infatti una ventina di pergamene. Ne emerge un periodo travagliato ma di contatti frequenti, fatto di liti per proprietà, donazioni di terre, commutazioni di beni. Accanto alle pergamene vi è spazio per due celebri codici medievali della sua epoca: la Relatio dell’Archivio Capitolare della cattedrale modenese e il magnifico Evangelistario di Matilde di Canossa (XI secolo), realizzato dai Benedettini nonantolani nel loro scriptorium. info tel. 059 549025; e-mail: museo@abbazia-nonantola.net; www.abbazia-nonantola.net NEW YORK IL MONDO IN GIOCO: CARTE DI LUSSO, 1430–1540 U The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters fino al 17 aprile

I giochi di carte ebbero origine in Cina, da dove poi si diffusero in India e nel Medio Oriente e, per quanto riguarda l’Europa, le prime attestazioni risalgono alla fine del Trecento. La mostra riunisce gli unici tre mazzi di carte da gioco di produzione tardo-medievale a oggi noti: quello di Stoccarda (1430 circa), l’Ambraser Hofjagdspiel («Mazzo della caccia della corte di Ambras», 1440 circa) e le carte

MEDIOEVO

marzo

MOSTRE • Piero della Francesca. Indagine su un mito U Forlí – Musei San Domenico

fino al 26 giugno info Call Center: tel. 199 15 11 34 (attivo lu-ve, 9,00-18,00; sa, 9,00-12,00); e-mail: mostrapierodellafrancesca@civita.it; www.mostrapierodellafrancesca.com

V

ede la luce a Forlí un progetto davvero ambizioso: riunire un nucleo adeguato di opere di Piero, artista tanto sommo quanto «raro», è stata infatti un’operazione complessa. E non meno impegnativo si è rivelato l’intento di proporre un confronto con i piú grandi maestri del Rinascimento, da Domenico Veneziano, Beato Angelico, Paolo Uccello, Andrea del Castagno, Filippo Lippi, Fra Carnevale a Francesco Laurana tra gli altri. L’esposizione, inoltre, documenta l’influsso di Piero sulle generazioni di artisti a lui successiva – Marco Zoppo, Francesco del Cossa, Luca Signorelli, Melozzo da Forlí, Antoniazzo Romano e Bartolomeo della Gatta, ma anche Giovanni Bellini – e si spinge oltre, fino a indagare il mito del genio di Sansepolcro quando esso rinasce, dopo i secoli dell’oblio, nel moderno – nei macchiaioli –, e ad analizzare il fascino che la sua pittura ha esercitato su molti maestri europei: da Johann Anton Ramboux o Charles Loyeux, fino alla fondamentale riscoperta inglese del primo Novecento, legata in particolare a Roger Fry, Duncan Grant e al Gruppo di Bloomsbury. Cloisters (1470-1480 circa). Quest’ultimo, realizzato in un atelier dei Paesi Bassi meridionali, è peraltro il solo a essere completo: comprende tutte le 52 carte, che, per la prima volta (ed eccezionalmente), vengono esposte contemporaneamente: la deperibilità del supporto cartaceo, infatti, ne impone normalmente la rotazione. L’elevata qualità delle immagini dipinte sui pezzi e l’eccellente stato di conservazione suggeriscono che, in realtà, i mazzi non fossero destinati a essere effettivamente impiegati per giocare, ma che fossero stati commissionati come oggetti da collezione. info www.metmuseum.org MONTEFALCO (PERUGIA) ESPOSIZIONE STRAORDINARIA DELLA MADONNA DELLA CINTOLA U Complesso museale di San Francesco fino al 30 aprile (prorogata)

25


AGENDA DEL MESE Sulla scia del successo fatto registrare nei primi sei mesi di esposizione, è stata decisa la proroga del progetto che ha riportato a Montefalco, dopo 167 anni, uno dei capolavori di Benozzo Gozzoli: la pala della Madonna della Cintola. Grazie al prestito accordato dai Musei Vaticani, l’opera ha potuto ricongiungersi con le Storie di San Francesco affrescate dallo stesso Benozzo nella chiesa di S. Francesco (vedi «Medioevo» n. 225, ottobre 2015). Restaurata per l’occasione, la Madonna della Cintola venne dipinta dall’artista intorno al 1450 ed era destinata all’altare maggiore della chiesa di S. Fortunato riformata dagli Osservanti. Custodito nella Pinacoteca Vaticana, il dipinto fu donato a Pio IX dalla comunità di Montefalco nel 1848, in occasione della concessione al borgo umbro del titolo di città. Per l’esposizione in S. Francesco, è stato sistemato su un basamento per simularne l’originaria collocazione; la pala, inoltre, è visibile nella

sua interezza, cosí come è stata fruita e utilizzata per secoli, riuscendo ad apprezzarne ogni particolare. info Sistema Museo: tel. 199 151 123 (attivo lu-ve, 9,00-15,00); e-mail: callcenter@sistemamuseo.it Museo di Montefalco: tel. 0742 379598; e-mail: montefalco@ sistemamuseo.it; www. museodimontefalco.it FIRENZE CARLO PORTELLI, PITTORE ECCENTRICO TRA ROSSO FIORENTINO E VASARI U Galleria dell’Accademia fino al 30 aprile

Della collezione permanente della Galleria dell’Accademia fa parte una monumentale pala con l’Immacolata Concezione di Carlo Portelli, datata 1566 e originariamente destinata alla chiesa di Ognissanti, che può, a giusto titolo, essere considerata il capolavoro dell’artista, originario di Loro Ciuffenna (Arezzo), ma formatosi a Firenze. Intorno a questa tavola, che scandalizzò lo storiografo Raffaello Borghini (1584) per l’esibizione

sfacciata e irriverente delle nudità di Eva in primo piano, sono stati raccolti in una mostra tutti i dipinti ascrivibili al Portelli e, grazie a nuovi studi intrapresi per l’occasione, è stato possibile definirne una volta per tutte il ruolo nel panorama della pittura fiorentina dell’età vasariana. info tel. 055 2388609 ‘S-HERTOGENBOSCH (PAESI BASSI) JHERONIMUS BOSCH. VISIONI DI UN GENIO U Noordbrabants Museum fino all’8 maggio

In occasione del cinquecentenario della morte, la città di Hieronymus Bosch si appresta a ospitare l’evento clou delle celebrazioni in programma. Nato Hieronymus van Aken e ribattezzato Bosch proprio dal nome della località

26

in cui era nato, ‘s-Hertogenbosch, l’artista è riconosciuto come la personalità piú complessa e singolare della pittura fiamminga. Con sottigliezze da miniatore e capacità pittorica ricca di sensibilità coloristica, dipinge quadri gremiti di figure grottesche e allucinanti, spesso mostruose, di uomini e di animali, nei quali sono rappresentati in modo simbolico antichi proverbi, episodi biblici o evangelici, testi mistici medievali, credenze astrologiche o alchimistiche. Una tematica che non può comunque essere interpretata in chiave di pura fantasia o di mero divertimento, ma che ha forse la sua radice nell’aspirazione a contribuire al rinnovamento dei costumi religiosi e a combattere la corruzione. info www.hnbm.nl marzo

MEDIOEVO


CONEGLIANO (TV) I VIVARINI. LO SPLENDORE DELLA PITTURA TRA GOTICO E RINASCIMENTO U Palazzo Sarcinelli fino al 5 giugno

Prima esposizione mai dedicata ai Vivarini, la rassegna presenta un prezioso nucleo di opere fortemente rappresentative del loro percorso artistico e della loro diffusione al di qua e al di là dell’Adriatico. Capolavori che testimoniano altresí i contatti e gli influssi di Antonio, Bartolomeo e Alvise con alcuni

dalla basilica di S. Nicola di Bari, opere entrambe di Bartolomeo, tra o primissimi e piú originali esempi di pala con Sacra Conversazione a spazio unificato. Prestiti, in generale, che si possono considerare eccezionali per la delicatezza e la qualità delle opere e per il significato che rivestono nell’excursus pittorico dei Vivarini e nel cruciale passaggio dal Gotico al Rinascimento. info tel. 0438 1932123; www.mostravivarini.it, www.civitatrevenezie.it

percorso che conduce verso la zoologia moderna. Gessner fu una personalità autorevole anche nel campo della botanica, delle scienze della terra, della medicina, della teologia e della linguistica. Nel complesso, pubblicò oltre 70 opere. Nato nel marzo del 1516, Conrad Gessner fu anche medico municipale. Prendendosi cura delle persone deboli e malate che vivevano a Zurigo fu colpito dalla peste, che lo portò alla morte nel 1565. La mostra realizzata dal Museo Nazionale è allestita in collaborazione con la Biblioteca centrale di Zurigo, che conserva parte del lascito di Gessner. info www.gessner500.ch; www.nationalmuseum.ch BOLOGNA BOLOGNA 1116. DALLA ROCCA IMPERIALE ALLA CITTÀ DEL COMUNE U Museo Civico Medievale fino al 17 luglio (dal 18 marzo)

dei piú importanti protagonisti della pittura del primo Rinascimento italiano, come Mantegna, Squarcione, Filippo Lippi, Andrea del Castagno, Paolo Uccello oltre ai pittori veneziani. Si potranno ammirare, riuniti per la prima volta, dipinti eccezionalmente trasferiti dalle loro sedi naturali - come il polittico di Antonio dalla basilica Eufrasiana di Parenzo, prima opera firmata e datata dal capostipite della bottega - e tavole realizzate per committenti pugliesi, come la pala da Capodimonte e quella

MEDIOEVO

marzo

ZURIGO CONRAD GESSNER 1516–2016 U Museo Nazionale Svizzero fino al 19 giugno (dal 17 marzo)

Nel 2016 si celebra il cinquecentenario della nascita Conrad Gessner, uno dei piú importanti naturalisti elvetici, la cui opera piú famosa, l’Historia animalium, consta di quattro volumi e descrive per la prima volta tutti gli animali allora conosciuti. Punto di riferimento essenziale per generazioni di studiosi, fu un primo passo nel lungo

Organizzata nell’ambito delle celebrazioni per il IX centenario della nascita del Comune di Bologna, la mostra illustra alcuni aspetti sociali e artistici della città agli esordi delle sue istituzioni politiche e culturali. Il progetto mira altresí a valorizzare il patrimonio presente in museo e alcuni importanti prestiti per portare all’attenzione dei visitatori significativi manufatti dei secoli XI, XII e XIII, tra cui sculture, armi, oreficerie, documenti, codici miniati e tessuti. Particolare rilievo viene dato alla città delle Quattro Croci e alla Rocca imperiale che i Bolognesi distrussero nel 1115 all’indomani della morte di Matilde di Canossa, signora delle città padane e toscane con vicariato imperiale. La Rocca, di cui il Palazzo

Ghisilardi (sede del museo) conserva alcuni notevoli resti murari in seleníte, fu sede dei funzionari matildici, i conti di Bologna, che si opponevano al dinamismo politico ed economico della città ormai da tempo avviata ad affermare l’autonomia comunale. Mentre si consumava anche il conflitto della Lotta per le Investiture, la ribellione dei Bolognesi fu ricomposta nel 1116 dall’imperatore Enrico V, con un diploma che favorí indirettamente l’affermazione del Comune. Il documento, convenzionalente considerato l’origine del Comune di Bologna, è esposto in mostra nell’originale rilegato nel celebre Registro Grosso. info tel. 051 2193930; www.museibologna.it; http:// nonocentenario.comune.bologna.it FIRENZE FECE DI SCOLTURA DI LEGNAME E COLORÍ. LA SCULTURA DEL QUATTROCENTO IN LEGNO DIPINTO A FIRENZE U Galleria degli Uffizi fino al 28 agosto (dal 21 marzo)

Avvalendosi di una quarantina di opere, la mostra documenta la vicenda della scultura in legno dipinto del Quattrocento fiorentino. In linea col primato artistico della scultura, essa costituí un modello imprescindibile per tutti gli artisti. Infatti, un tema come quello del corpo sofferente sulla croce, espresso con un nuovo naturalismo nei crocifissi di Donatello e Brunelleschi, fu oggetto di riferimento per l’espressione artistica delle successive generazioni. Il Vasari, poco incline nel tessere le lodi della scultura in legno dipinto, perché a tale materiale non «si dà mai la freschezza del marmo», nell’elenco di sculture

27


AGENDA DEL MESE

lignee elencate nelle ‘Vite’, le classifica per la loro funzione devozionale nella quale sembra esaurirsi ogni apprezzamento. A Firenze, accanto alla qualificata produzione di crocifissi, si intagliarono anche statue della Madonna, di sante e santi eremiti dai corpi tormentati o preservati dal dolore, bustiritratto, statue al centro di polittici misti e statue per l’arredo liturgico. info tel. 055 23885 BASSANO DEL GRAPPA IL MAGNIFICO GUERRIERO. BASSANO A BASSANO U Civici Musei fino al 31 gennaio 2017

Il Magnifico Guerriero di Jacopo Bassano si offre all’ammirazione del pubblico grazie al comodato gratuito accordato dal suo possessore ai Civici Musei bassanesi. Il dipinto ritrae un affascinante nobiluomo dalla fulva, curatissima barba. Non un giovane ma un uomo maturo,

28

certo aduso al comando, ma, soprattutto, a una vita raffinata lontano dai campi di battaglia. Indossa una preziosa corazza alla moda dell’epoca, che lo costringe, ma che non riesce a ingabbiarne la grazia e la flessibilità. Le lunghe dita, curate e perfette, non sembrano le piú adatte a menar fendenti, cosí come il suo spadino di ferro e oro sembra piú da parata che da battaglia. Secondo Vittoria Romani dell’Università di Padova, studiosa alla quale va il merito di avere ricondotto a Jacopo Bassano questo autentico capolavoro già attributo a Veronese e a Pordenone, il ritratto è databile agli anni immediatamente seguenti il 1550, ovvero al momento piú altamente manierista del maestro. info tel. 0424 519.901-904; e-mail: info@museibassano.it; www.museibassano.it

Appuntamenti

FERRARA RESTAURO-MUSEI XXIII EDIZIONE U Ferrara Fiere 6-8 aprile

Dal 6 all’8 aprile la storica sede ferrarese di Restauro riapre le porte con un nuovo sottotitolo che si fa manifesto di questa XXIII edizione: «Salone dell’Economia, della Conservazione, delle Tecnologie e della Valorizzazione dei Beni Culturali e Ambientali». In concomitanza e all’interno di Restauro prenderà vita Musei, un nuovo Salone rivolto in particolare alle aziende di pertinenza e in dialogo diretto

con le realtà museali, pubbliche e private. Aziende provenienti da settori quali illuminotecnica, climatologia, software e altre tecnologie, accoglienza, guardiania, ristorazione, bookshop e merchandising (che vanno ad aggiungersi al restauro architettonico, perno della manifestazione) e che si affiancheranno ai consueti 250 espositori, andando a comporre un panorama ancora piú ricco e qualitativamente elevato. info e programma completo e costantemente aggiornato su www.salonedelrestauro.com

APPUNTAMENTI • Medioevo in libreria, XIV Edizione: «Medioevo al femminile» U Milano – Civico Museo Archeologico di Milano, Sala Conferenze

fino al 9 aprile 2016 info tel. 02 45329840; e-mail: info@ italiamedievale.org; www.italiamedievale.org; http://medioevoinlibreria.blogspot.it

L

a nuova edizione della rassegna «Medioevo in Libreria» è dedicata al tema del «Medioevo al femminile». La formula, ormai consolidata, prevede visite guidate al mattino, proiezioni video e conferenze al pomeriggio. Le visite offrono l’occasione di scoprire le meraviglie medievali di Milano, sviluppando un percorso volto a svelare il rapporto che i Milanesi hanno avuto con la loro città e i suoi dintorni, selezionando e trattando singolarmente edifici e chiese. Ogni visita guidata ha durata compresa tra i 45 minuti e le 2 ore e gli incontri pomeridiani hanno luogo, con inizio alle 15,30 e la proiezione del filmato Viaggio nel Medioevo, presso la Sala Conferenze del Civico Museo Archeologico di Milano. Qui di seguito, l’elenco dei prossimi appuntamenti: ✓ 12 marzo. Ore 11,00: visita guidata all’Abbazia di Chiaravalle, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Beatrice Del Bo, Università degli Studi di Milano: A partire da Griselda: donne medievali nella letteratura e nella storia. ✓9 aprile. Ore 11,00: visita guidata al Castello Sforzesco, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Nadia Covini, Università degli Studi di Milano: Donne e potere alla corte degli Sforza. marzo

MEDIOEVO



storie welfenschatz

La guerra dei di Aart Heering

Guelfi

Nei primi decenni dell’XI secolo, Gertrude di Brunswick dotò la sua città di una nuova cattedrale e avviò la raccolta di reliquiari e oggetti liturgici da cui discese quello che sarebbe stato chiamato «Tesoro dei Guelfi». Un insieme dal valore straordinario, che, dopo non poche traversie, si è in parte conservato ed è oggi diviso fra vari musei di tutto il mondo. Ma proprio intorno al cui nucleo principale, attualmente custodito a Berlino, si è accesa una disputa durissima...

Reliquiario che, secondo la tradizione, conterrebbe un braccio di san Biagio. 1040-1050 circa. Braunschweig, Herzog Anton Ulrich-Museum. Il prezioso manufatto si compone di un’anima in legno, rivestita di foglia d’oro, a sua volta decorata con perle e pietre preziose.

U U

n avvocato americano, un museo berlinese, la Repubblica Federale Tedesca e una collezione di arte orafa medievale di valore inestimabile sono gli ingredienti di un giallo internazionale. Si tratta del Welfenschatz, il Tesoro dei Guelfi – composto da 42 pezzi (vedi box alle pp. 38-39) – un tempo proprietà della famiglia dei Welfen, i Guelfi. Raccolto nei secoli dai rampolli del nobile casato, il Tesoro è ora oggetto di una battaglia a colpi di carte bollate fra le due sponde dell’Atlantico. La storia millenaria del Tesoro iniziò nella città di Brunswick (oggi Braunschweig) in Bassa Sassonia, nella Germania centro-settentrionale. Qui, intorno al 1030 la contessa Gertrude, moglie del conte Liudolfo († 1038) del casato dei Brunoni, fece costruire una chiesa collegiata. La dedicò a san Biagio, vescovo e martire armeno, il cui culto stava facendosi molto popolare anche in Germania. Alla contessa, che le fonti descrivono come una donna forte e colta e che, morta nel 1077, sopravvisse per quasi quarant’anni al marito, si deve anche il primo nucleo del (segue a p. 35) marzo

MEDIOEVO


Nella pagina accanto medaglione in rame ageminato e smaltato con un’immagine del Cristo, noto anche come Medaglione Cumberland. Fine dell’VIII sec. Cleveland, The Cleveland Museum of Art.

MEDIOEVO

marzo

In questa pagina il Kuppelreliquiar, un reliquiario in forma di cupola decorato con dorature, smalti, nonché statuine e placchette a rilievo ricavate da zanne di tricheco. 1175 circa. Berlino, Museo delle Arti Decorative.

31


storie welfenschatz I Guelfi

Una storia lunga 14 secoli Il casato dei Welfen/Guelfi, uno dei piú antichi d’Europa, discende da una nobile famiglia franca, vicina agli imperatori carolingi. Il capostipite fu probabilmente un certo conte Ruthard, che, dopo il 746, acquistò possedimenti intorno ai fiumi Mosa e Mosella. I primi dati sicuri si hanno con Guelfo I († 825/826), menzionato dal 819, il quale acquisí una solida posizione di potere facendo sposare le due figlie con gli imperatori Lodovico il Pio e Lodovico il Tedesco. Da suo figlio Corrado († 862/866) discendono i Guelfi detti «antichi», che, dall’888, occuparono il trono della Borgogna, fino alla loro estinzione, con Rodolfo III, nel 1032. Da un altro figlio di Corrado, Guelfo II, discendono probabilmente i Guelfi svevi, anche se i dati su questo periodo sono scarsi. Soltanto per Rodolfo I, conte in Svevia nel 935, e suo fratello, san Corrado di Costanza († 975), si hanno informazioni certe. Con Guelfo III († 1055), nominato duca della Carinzia nel 1047, la famiglia si estinse in linea maschile. Il nome e i possedimenti dei Guelfi passarono alla sorella di Guelfo III, Cunegonda (o Kunizza) di Altdorf († 1054), moglie del marchese Alberto Azzo II d’Este, che divenne il capostipite dei Guelfi «giovani». Dopo la morte di Alberto, nel 1097, il primogenito Guelfo IV († 1101) lasciò i possedimenti italiani ai due fratelli minori, concentrando la sua attenzione sulla Germania. Con i figli, Guelfo V († 1120) ed Enrico IX, detto il Nero († 1126) – che, grazie al matrimonio con Wulfhild di Sassonia acquistò una posizione prominente anche in quella regione – iniziò la lotta per la corona imperiale tra le famiglie dei Welfen/ Guelfi e quella degli Hohenstaufen o Waiblingen/Ghibellini.

32

Il guelfo Enrico X, il Superbo (1102 circa-1139), duca di Baviera e della Sassonia, ricco e potente anche grazie alle nozze con Gertrude, l’erede dei Brunoni di Brunswick, era divenuto il primo signore della Germania, mentre il fratello Guelfo VI (1115 circa-1191), duca di Spoleto, e – grazie alla parentela con gli Estensi –, signore della Sardegna e marchese della Toscana, era potentissimo in Italia. Nel 1138, però, quando dovettero scegliere il nuovo re della Germania, i principi elettori preferirono al Superbo il ghibellino svevo Corrado III, temendo l’arroganza e sete di potere del primo. In seguito, il potere guelfo decadde rapidamente. Guelfo VI, dopo la morte dell’unico figlio Guelfo VII, colpito dalla malaria a Roma nel 1167, perse l’interesse alla politica e affidò i suoi feudi italiani all’imperatore Federico Barbarossa. Lasciò in eredità il suo nome, nella versione italiana, al partito del papa nella lotta italica tra Guelfi e Ghibellini dei decenni successivi. Il figlio del Superbo, Enrico il Leone (1130-1195), non era meno ambizioso del padre, ma nemmeno lui riuscí a raggiungere la meta piú ambita. Anzi, proprio Enrico mise a repentaglio le sue terre e il suo potere, quando, nel 1176, entrò in collisione col Barbarossa, rifiutandosi di offrire uomini e denaro per la campagna contro la Lega Lombarda. Il fatto costituiva fellonia, ossia negligenza dei doveri feudali, pena la perdita del feudo. E infatti, nel 1180, l’imperatore gli sottrasse i ducati sassone e bavarese, lasciandogli solo i possedimenti nella zona di Brunswick. Fu lui a posare nella piazza centrale il Leone di Brunswick, la colossale statua in rame, che è tuttora il simbolo della città (anche se dal 1980 l’originale si trova nel museo

locale, mentre in piazza troneggia una replica). Il suo ricordo si conserva oggi nel calcio: i tifosi della locale squadra dell’Eintracht sono infatti conosciuti come i «Leoni di Braunschweig». Perduta per sempre la Baviera, che l’imperatore concedette in feudo ai Wittelsbach (che qui regnarono fino al 1918), i Guelfi uscirono sconfitti dalle lotte per la supremazia. Il figlio del Leone, Ottone di Brunswick, venne sí eletto re di Germania e incoronato imperatore da papa Innocenzo III, ma il suo regno fu breve e inconcludente. A meno di un anno dall’incoronazione, l’unico imperatore guelfo della storia fu scomunicato dallo stesso Innocenzo, mentre i grandi elettori tedeschi parteggiavano ormai per il suo avversario, Federico di Hohenstaufen. Costretto ad abdicare, nel 1215 Ottone IV si ritirò a Brunswick, che da allora divenne il fulcro del potere, ormai sensibilmente ridotto, dei Guelfi. Nei secoli successivi, grazie a una legge sulla successione secondo la quale l’eredità andava divisa fra gli eredi maschi, la loro storia dinastica fu segnata da una serie infinita di frammentazioni familiari e successive divisioni e ricongiungimenti del territorio iniziale. Un nuova ascesa iniziò alla fine del Seicento, quando il duca Ernesto Augusto riuscí a riunire alcuni dei principali staterelli guelfi e a introdurre, contro la forte resistenza dei familiari, il principio della primogenitura, secondo il quale il territorio andava trasmesso, indiviso, al solo primogenito. Ottenne un secondo successo nel 1692, quando il duca di Brunswick divenne il nono Grande Elettore dell’impero. Nel 1714 poi, il duca Giorgio di Hannover, appartenente a un altro ramo della famiglia, per via di una marzo

MEDIOEVO


Goslar, Palazzo imperiale, Kaisersaal. Enrico il Leone, a Erfurt, fa atto di sottomissione a Federico Barbarossa (1181), al quale

MEDIOEVO

marzo

aveva in precedenza negato l’aiuto per la campagna in Italia. Affresco di Hermann Wislicenus, 1877-1897.

33


storie welfenschatz lontana parentela, venne chiamato al trono d’Inghilterra, Scozia e Irlanda. Per 123 anni, cinque sovrani guelfi – Giorgio I-IV e Guglielmo IV – regnarono sia a Londra che nello Stato di Hannover, che nel 1814, su decisione del Congresso di Vienna, acquisí lo status di Regno. La successione si interruppe nel 1837, con l’ascesa della regina Vittoria al trono britannico, in quanto il diritto ereditario guelfo non prevedeva la trasmissione della corona in linea femminile. A colmare

34

il vuoto nel Regno di Hannover fu un parente guelfo inglese, il duca di Cumberland, che governò con il nome Giorgio V fino al 1866, quando Hannover fu annessa alla Prussia e il sovrano andò in esilio in Austria.

Il nipote di re Giorgio, Ernesto Augusto III (1887-1953), riuscí a rinverdire, almeno in parte, gli antichi fasti, grazie al matrimonio, nel 1913, con la principessa Vittoria Luisa di Prussia, figlia dell’imperatore Guglielmo II. Il gesto conciliante nei confronti dei Prussiani permise a Ernesto Augusto di essere reinsediato come duca di Brunswick (anche se Hannover rimase prussiana) e di tornare a risiedere nel castello cittadino. Cinque anni piú tardi, però, dovette anch’egli riparare in Austria, dopo esser stato deposto da un consiglio di operai e militari durante la rivoluzione del novembre 1918. Negli anni successivi, Ernesto Augusto combatté una dura battaglia legale, in gran parte vinta, per ottenere la restituzione dei suoi castelli e di altri beni sequestrati nel 1918. Negli anni Trenta, l’ultimo duca regnante di

marzo

MEDIOEVO


Brunswick si trasformò in uomo d’affari di successo, creando la base per l’attuale capitale di famiglia, stimato in circa 400 milioni di euro. Una ricchezza sulla quale pesano le ombre evidenziate da un documentario realizzato dalle reti televisive tedesche ARD e NDR, nel quale è stato dimostrato come Ernesto Augusto si fosse arricchito in quanto sostenitore del regime nazista, rilevando a prezzi irrisori aziende di Ebrei perseguitati e impiegando nella sua fabbrica di armamenti prigionieri dei campi di concentramento, molti dei quali perirono. L’attuale capofamiglia, anche lui chiamato Ernesto Augusto, principe di Hannover, è noto soprattutto alle cronache rosa, come marito di Carolina di Monaco e protagonista di flirt e intemperanze che gli sono valsi il soprannome di «Prügelprinz» («principe manesco»).

La piazza del mercato della città vecchia di Brunswick, olio su tela di Jacques Carabain. 1890. Collezione privata.

Tesoro. Intorno al 1038 donò alla nuova chiesa due crocefissi – tradizionalmente designati con il suo nome e con quello del marito –, un altare portatile e uno splendido reliquiario per custodire un (presunto) braccio del santo, i cui resti, portati nell’VIII secolo da pellegrini armeni a Maratea, si erano da allora diffusi in tutta Europa. Nel secolo successivo, la città di Brunswick passò alla famiglia dei Guelfi, grazie al matrimonio di Gertrude III, la Giovane († 1143), ultima erede dei Brunoni, con Enrico il Superbo, duca di Baviera († 1139). Il figlio della coppia, Enrico il Leone, duca di Baviera e Sassonia (1130 circa-1195), scelse Brunswick come residenza, trasformando la piccola città in un centro amministrativo di notevoli dimensioni. Nel 1173 Enrico fece demolire la chiesa della contessa Gertrude, per costruire al suo posto l’attuale Duomo. Ultimata nel 1226, la cattedrale venne dedicata, oltre che a san Biagio, anche a Giovanni Battista e Tommaso Becket, e vi fu trasferito il Tesoro, nel frattempo arricchitosi di decine di altri oggetti preziosi. In quegli anni, i Guelfi avevano raggiunto l’apice del loro potere: il Leone controllava due delle piú importanti regioni tedesche, mentre suo zio, Guelfo VI († 1191), era l’uomo piú potente nella parte italiana del Sacro Romano Impero. Nei secoli successivi, tuttavia, che fecero registrare ripetute divisioni del territorio, i Guelfi furono ridotti allo status di signorotti locali.

Come ricchi gentiluomini di campagna

Inizialmente, il loro potere si limitava alle zone rurali, perché Brunswick, formalmente capitale dell’omonima contea (dal 1235 elevata a ducato), era di fatto autonoma. Centro commerciale fiorente e membro della Lega Anseatica, la città era governata da un’oligarchia di patrizi e corporazioni, mentre l’influenza della casa regnante era minima. I Guelfi vivevano comunque la vita agiata dei gentiluomini di campagna e la loro ricchezza si riflesse nella costante crescita del Tesoro. Per almeno dieci generazioni la collezione si arricchí di doni e lasciti, consistenti non soltanto nei consueti reliquiari e ostensori, ma anche in statuette d’avorio, tabernacoli e messali, come il famoso Plenario di Ottone il Generoso, databili agli inizi del XIV secolo. Un inventario compilato nel 1482 elenca 140 oggetti, ai quali, nel 1545, si aggiunsero manufatti provenienti dal convento di S. Ciriaco, demolito in quell’anno. L’incremento del Tesoro terminò con l’avvento della Riforma protestante e la conseguente scomparsa del culto dei santi e degli oggetti sacri. Nel 1528 Brunswick abbracciò la dottrina luterana e nel 1543 il Duomo divenne una casa di culto protestante. Il Tesoro, tuttavia, continuò a essere custodito nella chiesa cattedrale, ma non sopravvisse indenne: nel 1574, si registrò il furto di una ventina di oggetti, soprattutto ostensori, e, un secolo piú tardi, il duca Anton Ulrich (1633-1714) si appro-

MEDIOEVO

marzo

35


storie welfenschatz In basso sigillo della città di Brunswick. Scuola tedesca, ante 1231. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.

priò di altri manufatti. L’insieme tornò comunque nella disponibilità dei Guelfi nel 1671, quando il duca Giovanni Federico (1625-1679), convertitosi al cattolicesimo, assediò Brunswick e ripristinò l’autorità del proprio casato. Giovanni pretese la consegna di tutti gli oggetti per trasferirli nella Schlosskirche (la Chiesa del Castello) della vicina Hannover, che, nel frattempo, era divenuto l’altro, e sempre piú importante, centro amministrativo del ducato. A Brunswick rimase soltanto il reliquiario con il braccio di san Biagio, oggi custodito nel museo intitolato ad Anton Ulrich, il duca collezionista.

La minaccia napoleonica

Nei secoli successivi, il Tesoro, la cui sorte fu sempre legata a quella dei Guelfi, subí altri spostamenti: al tempo dell’occupazione napoleonica, si preferí portarlo in Inghilterra per motivi di sicurezza; rientrò quindi ad Hannover, che, dal 1814, era divenuta capitale dell’omonimo regno. Nel 1862, re Giorgio V (1819-1878) lo espose nel Museo Reale Guelfo, appena inaugurato, dove però non rimase a lungo. Quattro anni piú tardi, nella guerra tra Prussia e Austria, Hannover si schierò con la seconda, che uscí sconfitta dal conflitto. Il Regno

36

marzo

MEDIOEVO


Qui accanto Braunschweig. Veduta della Burgplatz, al centro della quale troneggia la statua in rame, divenuta simbolo della città. La scultura oggi visibile è una replica dell’originale (foto in basso).

di Hannover fu annesso alla nazione vincitrice e il re andò in esilio a Vienna, dove poté portare, in quanto proprietà privata, il Tesoro, che fu quindi esposto nel Museo d’Arte e Industria di Vienna e poi nel castello di famiglia a Gmunden.

Una richiesta esorbitante

Dopo la Grande Guerra, Ernst August (1887-1953), nipote di Giorgio V e ultimo duca regnante di Brunswick, ne chiese la restituzione: deposto nel 1918 e privato dalle tradizionali fonti di reddito, non vide infatti altra soluzione che quella di mettere in vendita il Tesoro, ormai ridottosi a 82 pezzi e messo in custodia in una banca di Basilea. Negli anni Venti, trattò con potenziali acquirenti pubblici e privati, ma senza successo, visto il prezzo richiesto: il duca pretendeva infatti ben 24 milioni di Reichsmark, pari a circa 6 milioni di dollari dell’epoca. La vendita andò in porto soltanto nel 1929, quando un consorzio costituito da alcuni importanti mercanti d’arte ebrei di Francoforte – Julius Falk Goldschmidt, Isaak Rosenbaum, Saemy Rosenberg e Zacharias Max Hackenbroch – acquistò il Tesoro per 7,5 milioni di Reichsmark. (segue a p. 40) Qui accanto la statua colossale in rame raffigurante un leone, fusa nel 1166 per volere del duca Enrico XII, detto il Leone, come simbolo della sua autorità. Dal 1980 è conservata nel Burg Dankwarderode, castello oggi compreso nell’Herzog Anton Ulrich-Museum.

MEDIOEVO

marzo

37


storie welfenschatz

I viaggi del Tesoro

Hannover

(1671-1803 e 1861-1867)

Braunschweig

(1030 circa-1671)

Inghilterra

(1803-1861)

Berlino (1934)

Amsterdam (1930)

Svizzera (1918)

Cleveland (1931)

Vienna

(1867-1891)

Gmunden, Austria

(1891-1918)

Che cos’è il «Tesoro dei Guelfi»? Il Tesoro appartenuto prima al Duomo di Brunswick e, dal 1671 al 1929, ai Guelfi si compone di 82 oggetti, tra cui 21 reliquiari, 15 ostensori, 11 crocefissi, 10 altari portatili, 8 scatole lignee – alcune con decorazioni in avorio –, 5 capsule per reliquie e altri manufatti, come una pisside, una statuetta di san Biagio, un tabernacolo e un paio di plenari. Oggi 44 di questi oggetti – i 42 del contenzioso piú due acquistati sul mercato – sono custoditi nel Museo delle Arti Decorative di Berlino. Dei 40 oggetti (minori) venduti durante l’esposizione itinerante del Tesoro in Germania e negli Stati Uniti (1931-

38

32), 22 finirono in musei americani. Il Cleveland Museum of Art possiede i primi pezzi della collezione, prodotti intorno al 1038 su commissione di Gertrude: due crocefissi che tradizionalmente portano i nomi della contessa e di suo marito Liudolfo e un altare portatile. Un reliquiario e un ostensorio ora sono esposti a Göteborg in Svezia, mentre a Brunswick è rimasto il reliquiario dell’XI secolo con il braccio di san Biagio; di alcuni pezzi non si conosce la collocazione attuale e due crocefissi e un ostensorio, acquistati da un industriale di Brema, sono andati distrutti nel 1945 durante

un bombardamento di quella città. L’oggetto piú antico, un medaglione con l’effigie di Cristo risalente alla fine dell’VIII secolo, ora a Cleveland, è il solo databile a quell’epoca (vedi a p. 30): tutti gli altri sono stati prodotti fra l’XI e il XV secolo, perlopiú su commissione degli stessi Guelfi e solo di alcuni di essi conosciamo l’autore. L’oggetto piú prezioso è il Kuppelreliquiar, un reliquiario dorato, alto 50 cm, in forma di cupola (vedi a p. 31). Prodotta intorno al 1175, l’opera somiglia a una basilica bizantina ed è riccamente decorata con scene della vita di Gesú. Secondo l’inventario del 1482, in marzo

MEDIOEVO


A sinistra la Welfenkreuz (Croce dei Guelfi), un magnifico crocefisso composto da un’anima lignea rivestita in oro e decorata con perle, pietre preziose e smalti. Produzione dell’Italia meridionale o forse siciliana, prima metà del XII sec. Berlino, Museo delle Arti Decorative.

A destra reliquiario in forma di braccio detto «degli Apostoli». Produzione tedesca, attribuibile a un atelier della Bassa Sassonia, fine del XII sec. Cleveland, The Cleveland Museum of Art.

quell’anno conteneva la testa di san Gregorio Nazianzeno, ma l’assenza di scritti o immagini a lui dedicati lascia supporre che inizialmente non fosse usata come reliquiario, bensí come tabernacolo per conservare le ostie. Un autentico gioiello è il Welfenkreuz, la Croce dei Guelfi: un’opera databile alla prima metà del XII secolo, interamente decorata con filigrana e pietre preziose (nell’immagine qui sopra). Sotto un cristallo di rocca quadrato si trova una scheggia della Sacra Croce, mentre secondo un’iscrizione apposta sul retro, esso conterrebbe anche reliquie dei santi Pietro, Marco,

MEDIOEVO

marzo

Giovanni Battista e Sebastiano. Frontalmente è stato applicato un Enkolpion, un crocefisso da portare sul petto, piú antico e di probabile fattura bizantina. Il Tesoro comprende poi alcuni splendidi altarini portatili in oro e argento, prodotti dall’orafo monaco Eilbertus di Colonia, attivo negli anni 1120-60. Si tratta di capolavori dell’arte romanica, nei quali il virtuosismo dell’autore si esprime in immagini edificanti: il piano, sostenuto lateralmente da profeti dal Vecchio Testamento, raffigura i dodici apostoli intorno a un cristallo sotto il quale si trova una miniatura di Cristo come Giudice Universale.

39


storie welfenschatz I nuovi proprietari tentarono di vendere la collezione pezzo per pezzo, ma, nel frattempo, era scoppiata la Grande Crisi e gli affari stentavano a decollare. Un road show in varie città tedesche e statunitensi fruttò soltanto la vendita di 40 oggetti minori – acquisiti soprattutto dai Musei d’Arte di Cleveland e Chicago –, per un totale di 1,5 milioni di Reichsmark. I 42 oggetti rimasti furono allora immagazzinati ad Amsterdam, in attesa di tempi migliori. Che non arrivarono. Nel 1933, con l’avvento del nazismo, ebbero inizio la persecuzione e il boicottaggio economico degli Ebrei: molti di loro cercarono di emigrare, anche a costo di dover abbandonare i propri averi. Un’eventualità che, però, non riguardava il Welfenschatz, già al sicuro ad Amsterdam. Allo stesso tempo, le autorità naziste manifestarono per il Tesoro un interesse – superiore di quello dei loro predecessori – a «mantenere questo pezzo inalienabile del patrimonio culturale nazionale» in mano tedesca. Dello stesso avviso era anche il gerarca Hermann Goering, ministro dell’Aviazione del Reich, ma anche primo ministro della Prussia e collezionista accanito (che non esitò a ricorrere a furti e

saccheggi per assecondare la sua passione per l’arte). Nel 1934, con la mediazione della Dresdner Bank, il consorzio avviò trattative con il governo prussiano, che, un anno dopo, portarono alla vendita del Tesoro, ceduto per 4,25 milioni di Reichsmark. Si trattava di una somma ritenuta notevolmente inferiore al valore degli oggetti, ma, vista la situazione politica, Goldschmidt e i suoi soci avevano bisogno di capitalizzare al piú presto. E da qui nasce il contenzioso attuale.

Al riparo da possibili danni

Assegnato allo Schlossmuseum (il Museo del Castello) di Berlino, il Tesoro, durante la Seconda Guerra Mondiale, fu spostato nei depositi e cosí salvato dalla distruzione e da possibili furti. Dopo il conflitto, venne confiscato dalle truppe alleate e, nel 1957, passò alla Fondazione per i Beni Culturali Prussiani (Stiftung Preussischer Kulturbesitz, SPK), che gestisce i musei di Berlino, e, dal 1963, si trova nel Museo delle Arti Decorative (Kunstgewerbemuseum). «Ma non ancora per molto!», tuona l’avvocato newyorkese Nicholas O’Donnell. Il legale rappresenta

marzo

MEDIOEVO


Fra i pezzi piú importanti del Tesoro, figurano alcuni altari portatili, uno dei quali firmato dal monaco e orefice Eilbertus di Colonia In alto altare portatile della contessa Gertrude. Produzione tedesca, forse riferibile a un atelier della Bassa Sassonia, XI sec. Cleveland, The Cleveland Museum of Art. A sinistra altare portatile realizzato dal monaco e orefice Eilbertus di Colonia. 1150 circa. Berlino, Museo delle Arti Decorative.

MEDIOEVO

marzo

due nipoti di altrettanti membri del consorzio, residenti negli USA e in Inghilterra, i quali, dal 2008, chiedono la restituzione del Tesoro in base ai Washington Principles. Questo trattato, stipulato nel 1998, obbliga i firmatari – 44 Stati, tra cui la Germania – a rintracciare in collezioni pubbliche oggetti d’arte trafugati dai nazisti, per poi restituirli ai legittimi proprietari. Secondo gli eredi di Hackenbroch e Goldschmidt, la vendita del 1935 si concluse sotto la pressione delle persecuzioni razziali, il prezzo era quindi troppo basso e i venditori non poterono disporre liberamente della somma ricevuta. La SPK si è finora opposta a qualsiasi forma di restituzione o indennizzo, pubblicando un rapporto dettagliato secondo il quale il prezzo pagato nel 1935, tenendo conto della crisi economica di allora, era equo e negando che i venditori non avessero potuto disporre liberamente dei proventi della transazione: «Non si tratta quindi di un caso che richiede la restituzione secondo i Washington Principles». Nel tentativo di giungere a un accordo, le due parti si sono quindi rivolte alla cosiddetta Commissione Limbach (dal nome della presidente Jutta Limbach, ex giudice costituzionale), un ente federale che accoglie e valuta richieste di restituzione. Fino a oggi, la

41


storie welfenschatz Veduta posteriore della Welfenkreuz (Croce dei Guelfi; vedi a p. 38), che poggia su un treppiede in argento massiccio. Produzione dell’Italia meridionale o forse siciliana, prima metà del XII sec. Berlino, Museo delle Arti Decorative. Le iscrizioni a niello, S(ANCTI) PETRI AP(OSTO)LI, S(ANCTI) MA(R)CI EVA(N) G(E)LI(STAE), S(ANCTI) IOHA(N)NIS BA(P)T(ISTAE), S(ANCTI) SEBASTIANI, indicherebbero che il manufatto, oltre a una reliquia della Croce, custodiva anche quelle dei santi Pietro, Marco, Giovanni Battista e Sebastiano.

Commissione ha espresso dieci pareri, per la metà favorevoli. Ma nel caso del Tesoro dei Guelfi, il suo giudizio, pubblicato nel marzo 2014, è stato decisamente negativo. Ancora una volta, infatti, la vendita non è stata giudicata forzosa, ma indotta dal fatto che non si erano fatti avanti altri potenziali acquirenti oltre alla Prussia: il Tesoro, inoltre, trovandosi nel 1935 al di fuori del Reich, non rischiava nemmeno la confisca.

Pareri non vincolanti

Tuttavia, i pareri della Commissione Limbach non sono vincolanti e già in un caso un suo rifiuto è stato respinto da un giudice. Nel febbraio del 2015, sperando in un pronunciamento analogo, gli eredi hanno querelato sia la SPK che la Repubblica Federale Tedesca presso il Tribunale del District of Columbia (Washington), richiedendo la restituzione del Tesoro, il cui valore è attualmente stimato in circa 250 milioni di euro. La reazione tedesca non si è fatta aspettare. All’indomani della querela, il Land (Regione) di Berlino ha dichiarato il Tesoro «bene culturale di valore nazionale». Ciò significa che non potrà uscire dal Paese senza il permesso del Ministero della Cultura, il che renderebbe la restituzione ancor piú improbabile. Inoltre, alla fine del 2015, la SPK e il governo tedesco hanno chiesto l’archiviazione della querela degli eredi, aprendo cosí un nuovo capitolo del contenzioso. Secondo gli avvocati tedeschi, una corte statunitense non sarebbe competente per giudicare la Germania, anche perché i querelanti avrebbero potuto rivolgersi a un tribunale tedesco. Né sarebbe valido come precedente un caso del 2012, in cui una corte americana venne dichiarata competente per giudicare sulla restituzione della collezione appartenuta a una vittima dell’Olocausto, cioè di un crimine di livello mondiale, perché «la presunta con-

42

fisca del Welfenschatz anticipò l’Olocausto di diversi anni». Un argomento che non convince storici della Shoah come Tim Snyder, secondo il quale «benché la strage degli Ebrei abbia avuto inizio nell’estate del 1941, la loro discriminazione cominciò nel 1933». Wolf Gruner, professore di studi ebraici all’University of Southern California, aggiunge che ciò è sicuramente vero per Goldschmidt e Hackenbroch: il primo riuscí a fuggire in Inghilterra, ma si ridusse in povertà, e il secondo fu assassinato da una squadra di camicie brune nel 1937. In Germania la disputa per il Tesoro dei Guelfi è divenuta, ormai, un caso pubblico. La stampa segue gli sviluppi con attenzione e malcelata apprensione. Il quotidiano Die Welt ha pubblicato un’intervista all’avvocato O’Donnell intitolandola «Quest’uomo vuole tanto oro dalla Germania». Non meno allarmati i toni del Berliner Kurier del 12 novembre 2015: «Il Tesoro dei Guelfi è in pericolo! Berlino lotta per le sue leggendarie reliquie d’oro, una perla della nostra Capitale!» A volte i commenti rasentano l’antisemitismo, come quello pubblicato dal quotidiano on line Berliner Tageszeitung: «Nel Terzo Reich si sostenne che gli ebrei (…) fossero avari e di natura predisposti allo sfruttamento. Ognuno può avere la sua opinione (…) ma bisogna riconoscere che con la loro querela questi ebrei americani mirano solo ai soldi».

Un nuovo capitolo della disputa

Da parte sua, anche O’Donnell non si sottrae al dibattito: in una serie di interviste e sul blog The Art Law Report accusa la Germania di revisionismo odioso e di disprezzo per le vittime dell’Olocausto. L’avvocato ha liquidato il parere della Commissione Limbach come un «processo farsa» e sostiene che «il rifiuto del governo tedesco di riconoscere le perdite delle vittime che riuscirono a salvare la vita ma non i loro beni, stia in aperto contrasto con il dovere storico della Germania». Nei prossimi mesi, i giudici di Washington si dovranno esprimere sull’ammissibilità della querela depositata dagli eredi del consorzio, ma con ogni probabilità non scriveranno l’ultimo capitolo del giallo. La causa potrebbe protrarsi a lungo e la domanda chiave resterà sempre quella riassunta da un titolo della Frankfurter Allgemeine Zeitung: «Tesoro dei Guelfi: vendita forzata o investimento incauto?». F marzo

MEDIOEVO



essere leader nel medioevo/3

Pietro, eremita e condottiero

di Renata Salvarani

La presa di Gerusalemme, 15 luglio 1099, olio su tela di Émile Signol. 1847. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. L’artista ha immaginato Goffredo di Buglione (sulla destra) che, dopo aver conquistato la Città Santa, rende grazie a Dio alla presenza di Pietro l’Eremita (al centro).

44

marzo

MEDIOEVO


Chi fu veramente il predicatore francese che molti considerano come l’autentico propugnatore della prima crociata? Un fervente cristiano, animato dal desiderio di veder trionfare la propria dottrina nei luoghi in cui era stata annunciata? Oppure un fanatico intransigente, capace, nel segno della Croce, di fomentare violenze ben lontane dallo spirito ecumenico auspicato dal Salvatore? L’interrogativo sembra destinato a rimanere insoluto, perché le cronache dell’epoca sono scarse e spesso divergenti. Unica certezza è il carisma di quell’«eremita di nome e di fatto»

MEDIOEVO

marzo

45


essere leader nel medioevo/3

S S

tanco, il cuore gonfio di impotenza, gli occhi pieni delle umiliazioni che aveva visto subire dai cristiani, la mente affollata dai loro racconti amari e dalle loro invocazioni, Pietro percorse in fretta i vicoli nella luce dorata dell’alba, entrò nella penombra del Santo Sepolcro e si fermò, in silenzio. Vicino a quella tomba vuota, su quelle pietre che tanto aveva immaginato e venerato nelle preghiere molto tempo prima di poterle toccare, iniziò a recitare le sue devozioni, ad alta voce, accompagnandosi con i gesti. Sapeva bene – lo sentiva – che lí, al centro del mondo, nel Luogo della Resurrezione, avrebbe dovuto attingere alla Salvezza, la sua prima di tutto, poi quella degli altri. Proprio lí doveva portare la sua morte, la tristezza, le paure, il buio che era in lui, per vederli trasfigurare e infine risorgere, anche se non sapeva come.

«Alzati, Pietro...»

Le ore passavano, altri fedeli entravano e uscivano, i canti e le melodie si sovrapponevano, i lumi e le candele continuavano a bruciare, a tratti gli arrivavano profumi di incenso. Le forze gli mancavano. Steso a terra, sul marmo, si assopí. I suoni, lo scalpiccio dei passi, le ombre si allontanavano. Fu allora che gli sembrò di vedere, in piedi davanti a lui, Gesú stesso, che gli diceva: «Alzati, Pietro, vai: esegui con coraggio quello che ti è stato ordinato. Io sarò con te perché è tempo di purificare ciò che è sacro e di soccorrere i miei servi». Subito si riprese, pieno di energia. Finí di pregare, poi ripartí da Gerusalemme. Cosí racconta il cronista Guglielmo di Tiro (1130 circa-post 1186; vedi box a p. 54), il quale, nell’Historia rerum in partibus transmarinis gestarum, fa di Pietro l’Eremita il vero iniziatore della crociata, il primus actor di un insieme di volontà che, a partire dalla Francia, grazie alla predicazione, coinvolse anche il papa, alcuni aristocratici, vescovi, abati.

46

L’Eremita nelle fonti

Un profilo costruito ad arte Le cronache di crociata offrono un ritratto frammentario di Pietro l’Eremita. Le differenze fra un testo e l’altro suggeriscono che intorno alla sua predicazione si sia creata una narrazione che ha cercato di spiegare un processo storico per molti aspetti incomprensibile, polarizzandone l’origine su una sola persona. Le cronache occidentali piú precoci, redatte all’inizio del XII secolo da testimoni oculari degli eventi, fanno riferimento a Pietro brevemente, solo come predicatore e accennano alla sua presenza alla testa dei primi gruppi. Non parlano, però, di una sua partecipazione all’elaborazione di un’idea di crociata anteriore al concilio di Clermont; di conseguenza, assegnano solo a Urbano II il ruolo di primus actor dell’impresa. Appartengono a questo gruppo i testi dell’Anonimo autore dei Gesta Francorum, di Tudebodus, di Raimondo di Aguilers, di Fulcherio di Chartres, di Raoul de Caen. Cronache occidentali successive (che dipendono in gran parte dai Gesta) raccolgono elementi da testimonianze orali della prima crociata e aggiungono qualche elemento in piú anche su Pietro. Sono significative le narrazioni di Baudri de Bourgueil, vescovo di Dol, di Roberto il Monaco (che scrive un racconto di crociata per Bernard di Marmontier), di Guibert de Nogent. Assumono un’importanza specifica alcune fonti tedesche, che assegnano un ruolo chiave a Pietro, come primo promotore dell’operazione. Si tratta della Historia belli sacri di un anonimo (Tudebodus imitatus) e, soprattutto, dei testi di Alberto di Aquisgrana, il quale, tra il 1113 e il 1140, compose una storia della spedizione (Liber christianae

expeditionis) basata su testimonianze di partecipanti ai gruppi di Pietro l’Eremita e di Goffredo di Buglione, che erano tedeschi o che erano passati per la Germania. È probabile che abbia utilizzato come base una cronaca lotaringia, redatta in precedenza da un crociato del seguito di Goffredo. Tra il 1170 e il 1184 Guglielmo di Tiro riprese il racconto di Alberto, arricchendolo di particolari raccolti nel Vicino Oriente. La sua opera, l’Historia rerum in partibus transmarinis marzo

MEDIOEVO


Miniatura raffigurante Pietro l’Eremita che, a Clermont, consegna a papa Urbano II la lettera del patriarca di Gerusalemme, da un’edizione in lingua francese dell’Historia rerum in partibus transmarinis gestarum, scritta da Guglielmo di Tiro. 1460-1465. Ginevra, Bibliothèque de Genève.

gestarum, venne volgarizzata in francese nel terzo decennio del XIII secolo, contribuendo cosí a rendere molto popolare la figura di Pietro. Nel mondo greco, Anna Comnena (figlia dell’imperatore Alessio I; 1083-1148 circa), nel suo racconto degli eventi (l’Alessiade), non riconduce l’avvio della spedizione a Urbano II (con il quale peraltro i rapporti di suo padre Alessio erano favorevoli), bensí a Pietro, che, partito per venerare il Santo Sepolcro, si rese conto della condizione dei cristiani

MEDIOEVO

marzo

d’Oriente e non poté compiere il suo pellegrinaggio. Tornato in patria, iniziò la predicazione, inducendo e guidando in prima persona gli armati, in un’impresa che era anche una sorta di riscatto personale. Un circuito a sé è costituito dalle canzoni di crociata, uno dei veicoli che piú hanno contribuito a diffondere i racconti delle spedizioni e a creare una vera e propria epopea popolare. Tra le fonti, sono le piú insidiose e problematiche: il carattere orale delle composizioni e la loro

mutevolezza le rendono in gran parte per noi perdute per sempre. Tuttavia, le poche redazioni scritte sono testimonianze indicative di un clima, di una sensibilità e dei passaggi di costruzione di miti condivisi. Cosí è per la Chanson d’Antioche, il cui autore sarebbe Riccardo il Pellegrino, un partecipante alla missione armata. Il testo sarebbe stato poi ripreso da un jongleur, un cantastorie, Graindor de Douai, tra il 1170 e il 1184. Fu lui a unire il primitivo componimento ad altri due, Les Chetifs e la Chanson de Jerusalem, aggiungendo a questi componimenti la visione di Pietro al Santo Sepolcro e il racconto dell’inizio della spedizione. L’esordio della crociata, fino alla sconfitta e al massacro di Civitot, viene collocato prima del concilio di Clermont, in un crogiolo di emozioni, volontà di singoli e di piccoli gruppi sparsi nelle città, entusiasmi di giovani e di diseredati. Anzi, addirittura l’assemblea di vescovi e nobili sarebbe stata convocata da Urbano II per andare in soccorso dei primi pellegrini partiti alla sequela di Pietro e per riscattare i prigionieri catturati a Civitot, i chetifs appunto. Ecco, quindi, che l’Eremita risalta come il vero artefice del movimento, colui che ha suscitato gli animi e indotto la partenza dei poveri, dei liberi, di chi era in grado di lasciarsi tutto alle spalle nel nome di una missione universale. Il papa, i vescovi e i nobili non avrebbero potuto che prenderne atto e agire di conseguenza, in seconda battuta.

47


essere leader nel medioevo/3 Era arrivato nella Città Santa come pellegrino. Come tanti, aveva pagato ai musulmani il tributo per entrare all’interno delle mura, era stato ospitato da un oste cristiano, aveva ascoltato i suoi racconti sulle condizioni di sottomissione in cui vivevano i fedeli del Vangelo. Aveva visitato tutte le chiese e i monasteri per rendersene conto di persona. Alla fine, aveva chiesto di incontrare il patriarca Simeone: guardandolo negli occhi mentre l’altro lo supplicava di aiutare lui e i suoi fedeli, non si vergognò di commuoversi fino alle lacrime (vedi box a p. 54). Sempre secondo Guglielmo, dopo aver lasciato Gerusalemme, si imbarcò per la Puglia e raggiunse Roma, dove consegnò a papa Urbano II (al secolo Ottone di Lagery, 1042-1099) lettere con le richieste di aiuto. Poi iniziò a predicare la necessità di spedizioni armate di villaggio in villaggio, fino a dare corpo al primo numeroso gruppo pronto a partire.

A piedi fino in Anatolia

Andò davvero cosí? Come è possibile che un solo uomo, dotato soltanto della forza della parola e dell’esempio della sua vita sia riuscito a creare un seguito cosí ampio? Come ha potuto guidare migliaia e migliaia di persone, a piedi, attraverso l’Europa, fino all’Anatolia, verso una meta tanto amata e invocata, ma di cui ignoravano la reale collocazione geografica, le distanze, i pericoli? Perché gli diedero credito? La gran parte di questi interrogativi è destinata a restare senza risposte. Di Pietro sappiamo che era un prete del regno dei Franchi, della diocesi di Amiens, «eremita di nome e di fatto». Era piccolo di statura e di aspetto miserevole, ma una forza superiore regnava nel suo debole corpo: aveva una grande vitalità di spirito, l’occhio penetrante, lo sguardo amabile e parlava con grande facilità e abbondanza. Certamente non fu l’unico a incitare alla crociata. La predicazione

48

da parte di eremiti o di altri «ispirati» aveva potuto fare appello a motivazioni piú istintive, emozionali e di presa immediata, rispetto a quelle contenute nei rari resoconti del concilio di Clermont e nelle asciutte lettere papali sull’organizzazione della crociata, che fanno riferimento, soprattutto, al suo inserimento in un rinnovamento generale della Chiesa. Anche sulla base di queste

differenze, la prima crociata può essere delineata come un insieme di spedizioni caratterizzate da inflessioni diversificate e da un substrato ideale proprio, piuttosto che come un movimento unitario basato su un’ideologia chiara e univoca. Alberto di Aquisgrana (cronista del XII secolo; vedi box alle pp. 46-47) racconta come si è sviluppata la prima spedizione: subito partí il conmarzo

MEDIOEVO


L’accampamento dei crociati alle porte di Gerusalemme in un’altra delle pregevoli miniature realizzate da Simon Marmion per un’edizione in lingua francese dell’Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro. 1460-1465. Ginevra, Bibliothèque de Genève.

tingente gudato dal cavaliere francese Gualtieri Senza Averi († 1096 circa), che era stato convinto e infiammato da Pietro, poi il gruppo da lui stesso guidato, «innumerevole come la sabbia del mare».

Un incarico divino

Le fonti piú tardive confermano che fu il capo della prima missione, le altre vennero dopo, tutte su-

MEDIOEVO

marzo

scitate, direttamente o indirettamente, dal suo esempio e dalla sua predicazione. Alcune riportano che parlava sicuro di un’autorità che faceva derivare da una lettera ricevuta da Dio: un’immagine fantasiosa e forte insieme, che escludeva un qualsiasi ruolo del papa; non da lui aveva ricevuto il mandato, anzi, era la sua voce a smuovere vescovi, abati e signori.

Guglielmo di Tiro enfatizza il fatto che Urbano II avrebbe letto al concilio di Clermont la missiva consegnata in precedenza a Pietro dal patriarca di Gerusalemme, contenente la supplica per un intervento armato. Secondo questa ricostruzione, l’Eremita stava nel frattempo radunando una turba di gente, e altra se ne aggregava via via. Si ipotizza che i suoi seguaci fossero

49


Mar Mediterraneo

N NO

NE

O

E

SO

SE

S

0

essere leader nel medioevo/3 Lon Lond L ond ndra nd a

Oceano At la ntico

Colo Co C ol ni o nia iia a

Stati cristiani latini d’Occidente

Magd Ma M agd deb eb ebur ebu bur bu ug go o

Pietro l’Eremita e Gualtieri Senza Averi

Prag Pra P rag aga Rati R Rat at s sbo sbon bon bo b n na a

Stra Stra asbur sb s burgo b o

Vene Ve V Ven e ene ne ezia zia

Nis Ni Nis

Ma r Nero

Daan nu ubio ub ioo

S So Sofi Sofia

Ro Roma Rom R oma o om ma m

Ba Barc B a ell arc ello llo ona

Massacri di crociati da parte dei Turchi

Gottschalk

Seml eml mlin m in Be B Belg elg elg grrad rado ra ad a ado do d o

Geno Gen Ge G en va e v Ma igli Mars g a

Ma Madr Mad M adri rid id

Scontri causati dai crociati

Volkmar Budapest Buda est st st

Cle Cler C lle ler e mon mont mo on ont on

Nap Napo N apo ollii

Ad ano Adri Adr anop op o poli Costant Cost antiin nopo opo op lili Nicea Nice a

Cord C ord dob oba ba ba

Ciiv Civi Civ C iivi vvii ttot toott (Her (He Her zek) H Otto O tto t bre 1096 109 109

Sultanato d’Iconio

Mess Mess siin ina na Tun Tuni Tun niis n sii

Dama D ama am sco s sc

M ar Medit erra neo

N NO

NE

O

Lim ima ma assol s

E

SO

Mondo musulmano

Località in cui si ebbero i casi piú importanti di persecuzione degli Ebrei da parte dei crociati

Emich di Leiningen

Vie V Vien e na a

Lio Lion ione io

Stati cristiani ortodossi

Personaggi alla guida dei crociati «pellegrini»

Mago ago ago g nza za a Pari P arigii ar

500 00 0 Km K

A sinistra cartina dei percorsi seguiti dai pellegrini al seguito di Pietro l’Eremita e degli altri «comandanti» della crociata «popolare», con le località che furono teatro dei piú importanti fatti di sangue.

Ge G eru e ru us sale ale a emme e

SE

S

0

500 00 0 Km K

IIll Ca airo ro o

tra i 12 e i 15 000, di ogni estrazioL’anticipo con cui l’«esercito» di Pietro ne sociale. se StatiNon cristiani sappiamo latini Statifossero cristiani Mondo musulmano d’Occidente ortodossi l’Eremita raggiunse Costantinopoli suggerisce organizzati in gruppi piú piccoli, se Personaggi alla guida dei crociati «pellegrini» alcuni si aggiunsero lungo il percorPietro l’Eremita e Gualtieri che la sua azione possa essere stata decisa in Località in cui si ebbero i casi piú importanti Senza Averi so, né quanti morirono o presero al-degli Ebrei da parte dei crociati di persecuzione Emich di Leiningen autonomia rispetto all’appello di Urbano II Scontri causatiadai crociati tre strade ancora prima di arrivare Volkmar Massacri di crociati da parte dei Turchi Costantinopoli. Gottschalk È rimasta l’eco dei saccheggi perpetrati nei villaggi, di aggressioni e uccisioni contro comunità di ebrei, di estorsioni ai danni di altre. Altri misfatti e peripezie sono destinati a restare per sempre oltre la linea dell’oblio, insieme con l’individuazione dell’origine stessa del movimento crociato. Di quel groviglio di passioni, ideali, violenze, speranze e tragiche disillusioni Pietro l’Eremita è divenuto l’emblema, una sorta di magnete in grado di attirare su di sé motivazioni e spiegazioni che, nel tempo, hanno cercato invano di rendere comprensibili eventi che di razionale hanno A destra, sulle due pagine miniatura raffigurante Pietro l’Eremita che arringa un manipolo di crociati alle porte di Gerusalemme, dal manoscritto Cycle de la croisade: la Chanson de Jérusalem. 1269. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

50


poco o nulla. Ancora oggi non possiamo non chiederci quale tipo di leadership abbia esercitato, che cosa abbiano riconosciuto in lui i suoi accoliti, fino a che punto sia riuscito a indirizzarli e a controllarli.

La traversata del Bosforo

Le truppe di Pietro arrivarono a Costantinopoli il 1° agosto 1096 e passarono il Bosforo il 6 e il 7, mentre il papa aveva fissato la partenza per il 15 dalla Francia. Un tale anticipo non si spiega soltanto con la necessità dei signori di reperire armi, rifornimenti e denaro: questa ipotesi sarebbe stata forse sufficiente se il gruppo partito con il predicatore fosse stato composto solo da popolani e straccioni, cosa che non fu. Dobbiamo, piuttosto, chiederci se davvero la crociata di Pietro sia stata cosí dipendente da quella predicata da Urbano II.

Che cosa sappiamo di Pietro a Costantinopoli? Secondo Alberto di Aquisgrana, l’imperatore Alessio Comneno († 1118) era desideroso di incontrare l’Eremita: gli inviò messaggi, lo incontrò con benevolenza, si informò sulle necessità delle sue

truppe, forní loro il sostentamento richiesto. Per compensare la perdita del tesoro della spedizione, saccheggiato durante il viaggio, gli fece consegnare 200 bisanti e autorizzò gli Europei ad accamparsi intorno a Costantinopoli, cosa che fecero per

In alto miniature raffiguranti il sogno di Pietro l’Eremita (a destra) e Pietro che incontra papa Urbano II, da un’edizione del Roman de Godefroi de Bouillon. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

51


essere leader nel medioevo/3 il medioevo rivisitato

La versione di Hayez Questo dipinto, Pietro l’Eremita che cavalcando una bianca mula col Crocifisso in mano e scorrendo la città e le borgate predica la crociata, esposto a Milano, nella Pinacoteca di Brera ma appartenente a una collezione privata, è stato considerato il manifesto della pittura civile di Francesco Hayez. Realizzato fra il 1827 e il 1829, fu lodato dalla critica liberale e da Giuseppe Mazzini, che videro nella scelta di un soggetto

52

storico la volontà di rappresentare allusioni al Risorgimento italiano. L’opera esprime visivamente lo spirito che animava testi contemporanei destinati a un pubblico borghese, tra cui Storia delle crociate e I Lombardi alla prima crociata, che sovrapponevano elementi medievali a fermenti risorgimentali, in chiave popolare e, spesso, repubblicana. La scena è dominata dalla figura di Pietro, il quale, con una

gestualità veemente, quasi teatrale, dà vita alle emozioni e allo slancio etico che dovrebbero animare gli Italiani, in un processo di identificazione visiva con i destinatari della predica. È significativo che siano rappresentati gruppi familiari, persone in abiti semplici, donne (una bacia il marito che sta per partire). Sullo sfondo si intravede un paesaggio montuoso, con una chiara sovrapposizione al contesto italiano

marzo

MEDIOEVO


settentrionale. La bandiera con la croce, al centro, è un riferimento fin troppo evidente alla componente cristiana del Risorgimento e al valore identitario attribuito al cristianesimo nel contesto. Al culmine di questo processo di trasposizione storica, l’Eremita viene assimilato a un eroe contemporaneo, capace di smuovere le coscienze e di indurre un profondo rinnovamento politico ed ecclesiastico.

cinque giorni. Poi Pietro decise di passare il Bosforo, utilizzando per il trasbordo imbarcazioni messe a disposizione dall’imperatore stesso. Tuttavia, sappiamo che il sovrano aveva consigliato di aspettare lí l’arrivo degli altri crociati e possiamo dedurre che fosse molto preoccupato per l’attraversamento delle terre dell’impero da parte di questi armati, per di piú in aree al confine con quelle controllate dai Turchi, sottoposte a continui attriti. Giunti in Asia Minore, Pietro e i suoi marciarono fino a Nicomedia (presso l’odierna Izmit) e scesero quindi fino a Civitot (località in prossimità di Nicea, nei pressi della moderna Iznik). Vi trascorsero circa due mesi, riforniti da Alessio, che si premurò di inviare non solo i viveri, ma anche indicazioni per tenersi lontani dalle montagne, evitando di provocare i Turchi e di cadere nelle loro imboscate. Poco piú tardi, però, alcuni esaltati avidi di bottino, probabilmente gruppi di Normanni che si erano separati dagli altri, si diedero al saccheggio dei villaggi abitati da musulmani: uccisero e mutilarono donne e bambini, distrussero le case. Azioni che irritarono i Turchi a tal punto da provocarne la reazione, fino all’attacco e al disastro finale. Pietro, in fretta, tornò a Costantinopoli per chiedere aiuto all’im-

peratore, ma il suo tentativo risultò inutile: fu una vera carneficina. I crociati, in gran parte male armati e non preparati ad affrontare un vero scontro militare, furono circondati e passati per le armi dall’esercito del sultano selgiuchide Kilic Arslan († 1107). Se ne salvò una parte, probabilmente i pochi cavalieri che avevano partecipato all’impresa.

Una fatale ignoranza

Questo tragico epilogo rivelò tutta la debolezza della leadership dell’Eremita: era stato capace di accendere gli animi, di prospettare loro una meta cosí meravigliosa e allettante da indurli a percorrere migliaia di miglia fra fatiche e stenti. Ma non era riuscito a controllarne gli istinti, né a finalizzare la loro avidità di bottino e di saccheggio verso la destinazione finale. La sua inadeguatezza alla missione e la sua totale incompetenza militare e logistica si tradussero in tragedia, senza che fra i suoi emergessero personalità in grado di orientare la situazione verso una via d’uscita, anzi: furono forse le rivalità fra i cavalieri e la loro voglia di conquista immediata e disordinata a fare precipitare l’esito. Le fonti stesse caricano Pietro di colpe e di infamia. La triste fine della spedizione rischiava, infatti, di gettare discredito sull’intero proget-

DALLA FRANCIA ALLA TERRA SANTA E RITORNO 1050 Pietro nasce nei pressi di Amiens. 1095 Concilio di Clermont. Papa Urbano II bandisce la prima crociata. Pietro percorre la Francia settentrionale alla ricerca di seguaci per liberazione del Santo Sepolcro. Lo segue una massa di gente. Durante la marcia i «crociati di Pietro» massacrano ebrei in Renania e nella valle del Danubio. 1096 I crociati di Pietro raggiungono Costantinopoli. 1097 I Turchi distruggono gran parte dell’«esercito» di Pietro. I superstiti tornano a Costantinopoli e si uniscono ai crociati di Goffredo di Buglione. Assedio di Antiochia. Pietro riesce a fuggire. 1099 Pietro partecipa alla conquista di Gerusalemme. 1115 Forse tornato in Francia, avrebbe fondato il monastero di Neufmoûtier, presso Liegi, dove si sarebbe ritirato e sarebbe morto.

MEDIOEVO

marzo

53


essere leader nel medioevo/3 Pietro e Simeone

Il valore simbolico di un faccia a faccia inventato L’incontro fra Pietro l’Eremita e il patriarca di Gerusalemme è uno dei punti piú alti del testo di Guglielmo di Tiro: causa e origine della predicazione e delle successive partenze. Se la veridicità del faccia a faccia resta quanto mai dubbia, la sua narrazione appartiene a pieno titolo all’elaborazione dell’idea di crociata e alla giustificazione morale dell’impresa. Il dialogo è intessuto di motivazioni etiche e prefigura un’unità di sentimenti e di intenti fra cristiani, presentando l’arrivo delle turbe di armati franchi, tedeschi e latini come una risposta all’appello delle comunità di Terra Santa, che i Bizantini non sarebbero stati in grado di difendere adeguatamente. Questa fonte, cosí come le altre occidentali sembra voler ignorare le difficoltà e i contrasti tra il clero locale e i crociati, gli stessi che, di lí a poco, portarono al trasferimento a Cipro del patriarca Simeone II. Vi sono evidenti, però, una forte tensione morale e, forse, l’intima consapevolezza dell’inadeguatezza dei crociati a realizzare l’utopia della purificazione dei Luoghi Santi. Quando i due entrarono in confidenza e il patriarca si rese conto che Pietro era uomo di esperienza, gli parlò a lungo di tutti i mali che affliggevano i cristiani della città e delle terre circostanti. L’Eremita si sentí mosso da una commozione fraterna e si mise a piangere per il dolore; poi gli chiese con sollecitudine se non ci fosse una qualche via di salvezza per uscire da un tale stato di calamità. L’altro gli rispose: «I nostri peccati sono l’unico ostacolo a che il Signore giusto e misericordioso si degni di ascoltare i nostri sospiri e di asciugare il nostro pianto». Poi aggiunse: «L’abbondante misericordia del Signore conserva ancora intatte le forze del vostro popolo e se questo popolo, sincero servitore di Dio, animato da pietà fraterna, volesse condividere le nostre disgrazie e darci qualche sollievo e se, non di meno, volesse intercedere per noi con la preghiera, potremmo avere ancora qualche speranza di vedere la fine delle nostre miserie». Pietro replicò che se la Chiesa romana e i principi d’Occidente fossero stati informati da una persona degna di fede di tutte le loro sofferenze, senza dubbio avrebbero fatto tutto il possibile per andare in loro aiuto. Seguí l’invito a scrivere una lettera al papa, ai sovrani e ai signori, chiusa con il sigillo patriarcale. Disse che si sarebbe egli stesso assunto l’onere e il rischio di portare la missiva e di farne conoscere i contenuti, come forma di espiazione per la salvezza della sua anima. to crociato. Lo sterminio dei primi che si erano incamminati verso la liberazione dei Luoghi Santi dovette essere considerato come un segno di sfavore divino verso l’impresa e la sua componente popolare. Allo stesso modo, le razzie ai danni degli ebrei e di alcuni villaggi in Germania hanno probabilmente coperto di vergogna i primi gruppi. Diventa, cosí, comprensibile il fatto che i racconti di crociata che celebrarono la presa di Gerusalemme preferirono limitare i riferimenti a Pietro e alla sua prima spedizione. Prevalse, al contempo, la versione secondo la quale i primi crociati guidati da Pietro erano stati sterminati per i loro peccati, per la loro in-

54

disciplina, per le incapacità di lui e per la sua alleanza con l’imperatore greco. La vera missione, benedetta da Dio e perciò destinata alla vittoria, era quella voluta da Urbano II e guidata dal suo legato, Ademaro di Puy († 1098).

Notizie contrastanti

Questa volontà narrativa di sminuire il prestigio personale contrasta con le notizie che, sia pur frammentarie, sono state tramandate per il periodo successivo. Sopravvissuto al massacro, Pietro si uní ai contingenti della «crociata dei baroni», che arrivarono a Costantinopoli nella primavera del 1097. Con loro fu all’assedio di Nicea, in cui si

impegnarono anche i reduci del primo viaggio di massa. Non riassunse una vera e propria leadership, ma continuò a esercitare un ruolo. Lo ritroviamo all’assedio di Antiochia, uno dei momenti piú duri della prima crociata, vero punto di svolta che avrebbe potuto compromettere definitivamente la tenuta dei diversi gruppi armati cristiani. Dopo la presa della città, il 2 giugno 1098, e il suo sanguinoso saccheggio, i crociati si ritrovarono al suo interno senza viveri e senza collegamenti con alleati esterni. Per di piú furono assediati dalle truppe di Kerbogha, atabeg di Mosul, deciso a riconquistare la grande piazzaforte (gli atabeg erano in origine marzo

MEDIOEVO


Il massacro degli ebrei a Metz da parte dei primi crociati, 1095, olio su tela di Auguste Migette (1802-1884). Metz, Musée de La Cour d’Or.

precettori e ministri dei principi selgiuchidi; alla caduta del loro dominio, fondarono essi stessi dinastie indipendenti in Iran, Azerbaigian, Iraq e Siria, n.d.r.). Eppure, anche sull’onda emotiva dell’entusiasmo per il ritrovamento della reliquia della Santa Lancia, erano cosí sicuri del favore divino e della loro vittoria che mandarono proprio Pietro l’Eremita (insieme con un certo Erlouin, che parlava l’arabo) a intimargli di levare l’assedio. Kerbogha rifiutò e i crociati tornarono all’attacco: distrussero l’accampamento dei Turchi e ne sbaragliarono l’esercito. Nell’estate del 1099, ritroviamo Pietro a Gerusalemme, al termine di un altro assedio, forse ancor piú

MEDIOEVO

marzo

estenuante, quando nessuno era in grado di prevedere un esito, né sapeva se ne sarebbe uscito vivo: gli uni asserragliati dentro le mura senza piú rifornimenti, gli altri ormai troppo lontani dai porti, le navi smontate per costruire le macchine da guerra, le vie di ritorno in patria troppo pericolose, di fatto precluse.

L’ultima predica

L’Eremita predica ancora, in piedi, isolato, sul Monte degli Ulivi, rivolto a occidente, verso le cupole di Gerusalemme, le ombre delle sentinelle e degli arcieri lungo i camminamenti, le masse scure delle torri di legno poco piú sotto. Seduti lí intorno, sfiniti, con gli occhi bassi per

la paura, stanno gruppi di pellegrini armati, cavalieri, stallieri accanto ai cavalli, giovani nobili usciti dall’accampamento crociato. Le sue parole non sono arrivate fino a noi. Sappiamo che cosa sarebbe avvenuto quel 15 luglio e nei giorni seguenti, ma non abbiamo notizie certe di lui dopo di allora. Quell’immagine netta contro l’orizzonte, di fronte alla città tanto amata, alla sua storia di sangue e di speranze, chiude il cerchio della sua missione, fissando la sua esistenza dentro le contraddizioni di un mito millenario. F

NEL PROSSIMO NUMERO ● Ildegarda di Bingen

55


grandi famiglie aldobrandeschi

Signori di

Maremma di Cristiano Bernacchi

Se paragonati ai Medici o agli Orsini, il loro nome è forse meno altisonante, ma è bene non farsi ingannare dalle apparenze: gli Aldobrandeschi, infatti, hanno avuto un ruolo di spicco nelle vicende della Toscana medievale. E, in particolare, delle terre che ne occupano la parte meridionale, sulla quale esercitarono a lungo un dominio pressoché incontrastato

G G

li Aldobrandeschi furono una tra le piú potenti famiglie toscane dell’età di Mezzo, protagonisti di un’epopea singolare, in grado di segnare profondamente e per un lungo periodo le vicende politiche della Toscana meridionale. Per ben sei secoli, infatti, i nobili di questa illustre casata rivestirono incarichi di rilievo a fianco dell’imperatore o del papa, a seconda delle convenienze del momento. Appartenenti alla media aristocrazia lucchese di ceppo longobardo, gli Aldobrandeschi fecero il loro ingresso nella storia presumibilmente nell’VIII secolo. Risale però al 25 gennaio dell’800 un atto ufficiale ascrivibile a un componente della famiglia, un certo Ilprando, definito «Umilis Abbas», che cedette il monasterium di S. Pietro per l’episcopio di S. Martino. I primi Aldobrandeschi importanti appartenevano, dunque, all’ambiente vescovile di Lucca, erano chierici particolarmente attivi nel mercato della terra, nella fondazione del patronato e nello scambio di chiese private. Un passaggio di proprietà segnò l’inizio delle loro fortune. Il vescovo di Lucca Jacopo – la cui giurisdizione si estendeva fino alla Maremma –, forse per la difficoltà di gestire territori molto vasti, cedette nell’803 al figlio dell’abate Ilprando, Ildebrando, i beni tra Grosseto e Galliano. Si tratta di un evento significativo, poiché attesta per la prima volta la presenza di un membro della casata nella terra destinata a diventare il cuore della futura contea: la Maremma. (segue a p. 61)

56

marzo

MEDIOEVO


Arcidosso (Grosseto), il castello aldobrandesco. La struttura che oggi si può ammirare è l’esito di vari interventi e rimaneggiamenti succedutisi nel corso dei secoli, a partire dall’edificazione del primo nucleo della rocca, databile alla seconda metà del X sec. (vedi box a p. 58).

MEDIOEVO

marzo

57


grandi famiglie aldobrandeschi Il castello di Arcidosso

Un ben protetto simbolo del potere Il castrum di Arcidosso è uno degli edifici meglio conservati della Toscana rurale. Recenti studi di archeologia medievale condotti dall’Università di Firenze hanno fatto risalire la prima costruzione della struttura architettonica della rocca, il palatium, alla seconda metà del X secolo. Era un edificio fortificato di due piani realizzato in pietra (peperino) e posto sulla collina piú alta della zona, ben visibile dal crocevia di strade pubbliche sottostanti. L’imponenza dell’insediamento e l’utilizzo della pietra dimostrano una committenza insolita per l’edilizia rurale, forse riconducibile a Ugo di Tuscia, marchese di Toscana (970-1001) e attivo proprio in Amiata verso la fine X secolo. Certo è che il castrum diventò presto proprietà dei conti che ne fecero un importante centro amministrativo e difensivo. Nel XII secolo, con la stagione delle torri signorili, nuova emanazione del potere pubblico, anche gli Aldobrandeschi intrapresero questa strada sull’Amiata. Al palatium di Arcidosso si uní cosí una torre di circa 20 m, con merlature ghibelline, voluta da Ildebrandino VII, alla quale si accedeva con un ponte levatoio. Nel XIII secolo, il castello fu la roccaforte di frontiera

58

degli Aldobrandeschi, minacciati dalle incursioni senesi, e residenza di Guglielmo e poi di Oberto. Nel 1331 la rocca fu espugnata dai Senesi, che la rafforzarono ulteriormente con la costruzione di tre torri disposte lungo il cerchio delle mura. Nel XV secolo, con l’avvento delle armi da fuoco si rese necessaria la realizzazione di una grossa muraglia a scarpa su due lati del cassero. Nei secoli successivi il castello divenne sede di giustizia, con un capitano al suo comando fino all’Ottocento, quando l’intero complesso fu diviso in due parti: una destinata a carcere, l’altra a sede del vicario. Una veduta del borgo di Arcidosso, le cui case fanno da corona al castello aldobrandesco.

marzo

MEDIOEVO


Alperto I († 800)

In principio fu Alperto

Ilprando I († 808)

Alperto II († 844)

Ildebrando I († 839) Eriprando I († 862) Geremia († 868)

Ildebrando II († 901)

Eriprando II († 874) Gherardo (?) († 920 circa)

A destra, in alto uno stemma degli Aldobrandeschi.

Ildebrando III († 959?)

Gherardo I († 961/966)

Lamberto († 989)

Rottilde († 999)

Rodolfo I († 988)

Ildebrando († 996)

Rodolfo II († ante 988)

Gherardo II († 1009)

Rodolfo III († 1020)

Ildebrando V († 1077)

Berta († 1073)

Ildebrando IV († 1038/1040) Enrico († 1040) Ranieri II Malabranca († 1097/1103)

Ugo II († 1103)

Malagalea († 1121)

Ildebrandino VI († 1126?)

Uguccione IV († 1152) Ioletta

Ildebrandino VII Novello († 1188?) Ildebrandino VIII († 1212)

MEDIOEVO

marzo

59


grandi famiglie aldobrandeschi Monteguidi LA CONTEA ALDOBRANDESCA NEL 1274

Radicondoli

Sillano

città

Belforte

Sassetta Suvereto

castra

fortilizi

Gerfalco Montepulciano Mo M Montepulcian ontepulcian ontepulcia onte tepu cian no

Cugnano Torniella Tatti

Sassoforte so ofo Roccastrada R Montemassi

Pietra Ravi Scarlino

Castiglione one o ne d ne d’Orcia

Potentino Montepinzutolo Giuncarico Cinigiano Castel del Piano C Arcidosso A Castiglioncello Batignano Montepescali Stribugliano bug i no bu Bandini Sterignano Castro Marino Cana Monte Corneliano Roselle Penna Roccalbegna Calegiano o Boceno Moscona Istia SSelvena e ve ve Montorio Grosseto SSemproniano e Rocchette di Fazio Castro Marino

Montiano

Petreto Scansano Pereta Saturnia

A sinistra la contea degli Aldobrandeschi con i suoi insediamenti. Sulle due pagine il borgo maremmano di Capalbio, entrato a far parte dei domini aldobrandeschi nel XII sec.

Vitozza V SSorano So orraa Sovana So ovan van naa PPitigliano

Bagno di Saturniaa Morrano Sala Magliano Talamone Manciano Farnese Ischia Castro di Castro Marsiliana ars r ilia Scerpena Monte Acuto Capalbio Capita Tricosto Castello Argentario O Orbetello rbeett rbe Collecchio

Montemerano

Ansedonia

Giglio

Giannutri

strategie aldobrandesche

Scelte vincenti, nel segno dell’unità Le strategie adottate dagli Aldobrandeschi seguirono quattro direttrici principali, che possono essere cosí sintetizzate: gestione itinerante del potere dai vari castelli e domini della contea, senza che nessuno avesse un ruolo di esclusività; una scelta che ha limitato lo sviluppo di un centro urbano forte

60

in Maremma, dove ancora oggi è presente una miriade di piccoli borghi; sviluppo di una gerarchia di officiali al servizio dei conti, ma diversi dagli officiali minori della tradizione carolingia; figure nuove e fondamentali nelle signorie dirette dei conti, che non si fermarono alla gestione patrimoniale, ma,

in alcuni casi, arrivarono a governare villaggi e castelli; tentativo di controllo esclusivo delle risorse naturali (mai riuscito totalmente) fondamentali nell’economia maremmana e amiatina: produzione e vendita del sale, estrazione dei metalli nobili e gestione dei pascoli per la transumanza; marzo

MEDIOEVO


Nei primi anni del IX secolo la condizione degli Aldobrandeschi era assai simile a quella di molte altre famiglie della Lucchesia che gestivano possedimenti sparsi sul territorio. Con l’entrata in scena di Eriprando I, figlio di Ildebrando I e fratello di Ilprando II, il profilo sociale degli Aldobrandeschi mutò radicalmente. Rompendo col passato e con l’affiliazione agli ambienti vescovili, Eriprando svolse infatti un servizio piú laico e militare accanto ai sovrani (Lotario e Ludovico II), fino a detenere la carica di vassallo imperiale.

Figli in carriera

I legami con i monarchi favorirono la brillante carriera dei suoi figli: Eriprando II e Ademari furono anch’essi vassalli imperiali, mentre i due maggiori, Geremia e Ildebrando II, divennero, rispettivamente, vescovo di Lucca e conte di un esteso patrimonio tra Populonia, Roselle e Sovana. Ildebrando II venne insignito del titolo di conte e i suoi discendenti si radicarono in Marem-

ma. A Lucca, invece, la funzione comitale fu monopolizzata dalla dinastia Bavara/Adalberti. Già verso la metà del IX secolo, i beni di famiglia erano distribuiti su quattro territori: l’area di Lucca; la regione dei fiumi Era ed Elsa, da Pontedera a Volterra, nel Pisano; la zona di Asilatto alla foce del fiume Cecina nel Livornese; l’area delle diocesi di Roselle e Sovana nel Grossetano. Ma, ottenuto il titolo comitale, la famiglia accumulò, soprattutto in Maremma, un patrimonio immenso, frutto – secondo lo storico Simone Collavini – di «un circolo vizioso (virtuoso) tra necessità di accumulare patrimonio fondiario per esercitare la carica pubblica e possibilità di accumularlo in quanto la si esercitava». Il cambio di strategia degli Aldobrandeschi nei confronti della Maremma fu dovuto anche alla specificità della terra, perfetta per la costruzione di efficienti aziende curtensi. Alla fine del X secolo si ebbero le prime trasformazioni nell’esercizio della carica comitale: la sua rapida dinastizzazione, che si fece ereditaria e non piú in mano al leader di famiglia, e la feudalizzazione del titolo, in vista del futuro sviluppo in senso signorile delle istituzioni e dei rapporti di potere. Quest’ultimo processo si compí in modo definito solo dopo il 1100, ma gli Aldobrandeschi ne beneficiarono precocemente in virtú della scomparsa dei due principali attori del potere pubblico: il marchese e l’imperatore.

dinastizzazione della carica comitale, che evitò la rapida frammentazione in rami e, fino al XIII secolo, assicurò la guida della famiglia a una sola persona; l’idea di unità della contea fu funzionale alla costruzione di un principato: quando sopraggiunsero gli interessi dei singoli, quell’assetto entrò in crisi.

MEDIOEVO

marzo

61


grandi famiglie aldobrandeschi Il controllo di numerose strutture fortificate, alcune delle quali fondate ex novo, mise poi gli Aldobrandeschi in una condizione di vantaggio rispetto agli altri gruppi aristocratici e agli enti ecclesiastici. Il monastero di Abbadia San Salvatore – attivo da tempo nella regione dell’Amiata, dove aveva costruito una fitta rete di celle che si caratterizzavano come veri e propri centri amministrativi e finanziari – era forse l’unico, seppur piccolo, competitor territoriale al potere aldobrandesco. Di fatto, tuttavia, l’importante monastero, pur tentando spesso di svincolarsi, rimase a lungo inglobato nel sistema politico aldobrandesco: in seguito ad accordi, oppure all’indomani di conquiste vere e proprie, con usurpazioni di castelli (Montenero e Montelaterone) e soprusi da parte della famiglia. Agli albori del XII secolo, gli Aldobrandeschi erano una casata compatta, che godeva dell’amicizia tanto dell’impero quanto della Chiesa. Verso la metà del 1100, si manifestò la grande svolta negli assetti del potere familiare su uomini e possedimenti: nacque infatti un principato territoriale. Attraverso uno strumento feudo-vassallatico – il «feudo di signoria» – gli

Aldobrandeschi sottomisero l’aristocrazia locale. Il riconoscimento delle signorie fu la base della struttura organizzativa dell’intera contea: da quel momento l’identità della famiglia non si fissava piú soltanto su possedimenti terrieri e castelli, ma sui poteri esercitati nei territori dominati.

Con Pisa o contro Pisa

Fin dalla metà del XII secolo la contea aveva le caratteristiche di un principato, in particolare nel periodo in cui Ildebrandino VII Novello era il leader della famiglia (primo conte Palatino) e decise di allearsi con Pisa. L’accordo portò alla nascita di due opposti schieramenti: da un lato Pisa, Ildebrandino VII e poi Firenze; dall’altro Lucca in aperto conflitto con Pisa, insieme a Genova, al conte Guido Guidi, a Siena e Pistoia. I due assetti diplomatici e politici sopravvissero fino alla nascita della Lega di Tuscia (1197-98), che pose accanto alle città egemoni di Firenze, Lucca e Siena (poi anche Arezzo), gli Aldobrandeschi, Guido Guerra e gli Alberti. Il proposito di ridimensionare i poteri imperiali


Sant'Antimo Castiglione d'Orcia Pa Paganico

Contignano

S TU VE

Chianciano

SI A

Montepulciano

S CA

San Quirico

Chiusi

Seggiano Montelaterone San Salvatore

Sticciano

Cinigiano Campagnatico

o Monticello

Roselle

Grosseto

Triana

Santa Trinità Selvena

NA

Roccalbegna

GE

IA Istia

AR ARCIDOSSO RC CIDO DOSSSSO Santa SSant anttaa Fiora

Radicofani

CI AN FR

L AURE

A destra la viabilità del territorio di Arcidosso in epoca medievale. Nella pagina accanto ancora una veduta del castello aldobrandesco di Arcidosso che evidenzia la poderosa muraglia a scarpa aggiunta all’indomani dell’introduzione delle armi da fuoco.

Acquapendente Scansano Saturnia

Pereta

Sovana

CL Magliano

O

DI

A

Talamone

locali, messo in atto dal nuovo papa Innocenzo III, segnò il declino della Lega. Ildebrandino VIII si avvicinò, quindi, al potente pontefice, fino alla firma di alcuni accordi con Orvieto e Siena. Con quest’ultima gli Aldobrandeschi fondarono anche una società, che gestiva la dogana del sale di Grosseto. Con la morte di Ildebrandino VIII la famiglia conobbe una prima crisi interna. Nel testamento del 1208, il conte aveva diseredato il primogenito Ildebrandino IX, preferendo i figli del secondo matrimonio con Adalasia: Bonifacio, Tommaso, Guglielmo, Gemma e Margherita. I fratellastri miravano a dividere la contea in quattro aree, mentre Ildebrandino IX rivendicava l’intero territorio di famiglia che, ufficiosamente, continuava ad amministrare. Nel 1216, a sanare la contesa, intervenne il podestà di Orvieto, Giovanni del Giudice, il quale divise per la prima volta la contea (anche se, di fatto, lo smembramento non fu mai attuato). L’analisi del lodo consente di ricostruire quale fosse realmente l’estensione della contea: un territorio vasto, che comprendeva 78 castelli centri di signorie e altri 7 centri che spaziavano da Colle Val d’Elsa a Montalto di Castro. Dopo un periodo transitorio nel quale la contea fu amministrata a rotazione da Ildebrandino IX e i fratellastri, negli anni Venti del Duecento provvidero a governarla Guglielmo e Bonifacio. Con la conquista

MEDIOEVO

marzo

senese di Grosseto, invece, Guglielmo assunse da solo le redini del comando. Si legò alla Chiesa, ma subí presto le conseguenze politiche dei grandi eventi del periodo: la rottura dei rapporti tra papa Gregorio IX e Federico II ridisegnò di conseguenza anche gli assetti della regione e portò, nel 1240, a un’irruzione imperiale guidata da Pandolfo di Fasanella. Guglielmo fu allontanato e la contea sottratta per dieci anni agli Aldobrandeschi, passando sotto l’amministrazione dell’imperatore. Quando il partito imperiale entrò in crisi, i territori finirono sotto il controllo di Siena.

Lotte intestine

In seguito alcuni rappresentanti imperiali affidarono la porzione meridionale della contea a Orvieto, che la restituí presto a Guglielmo, attivo per conto del nipote Ildebrandino XI (sottoposto a sua tutela). Quest’ultimo, tuttavia, non seguí l’indirizzo politico delineato dallo zio e rinnovò i patti con Siena, che, pur rinunciando a guidare la contea, sottometteva politicamente il conte al Comune. La pace generale del 1254, che riguardò soprattutto Siena e Firenze, segnò anche una distensione dei rapporti in famiglia tra il filo-senese Ildebrandino XI e i cugini Ildebrandino XII e Umberto, schierati al fianco dei Fiorentini. Dopo soli due anni, però, le ostilità familiari ripresero e produssero la nascita di due blocchi contrapposti.

63


grandi famiglie aldobrandeschi il medioevo amiatino e maremmano

Dagli scavi alla storia

I due piani dell’attuale castello di Arcidosso ospitano una mostra permanente sul Medioevo amiatino e maremmano, che si affianca al Museo di David Lazzaretti, il predicatore vissuto nell’Ottocento e chiamato il «profeta dell’Amiata». L’esposizione, coordinata dall’Università di Firenze (Dipartimento SAGAS), presenta i risultati delle ricerche storico-archeologiche condotte sul territorio dal 2000 al 2013. La novità di questo percorso, oltre ai risultati scientifici, è l’impiego dell’arte contemporanea per la In alto il Monte Amiata visto dalla torre del castello di Arcidosso. A destra modello in bronzo del castello aldobrandesco di Arcidosso, inserito nel percorso espositivo della mostra permanente che documenta la storia del territorio in epoca medievale. Nella pagina accanto un altro modello, in legno, del castello di Arcidosso.

64

marzo

MEDIOEVO


comunicazione storico-archeologica. Sei bassorilievi in bronzo, realizzati dall’artista e designer internazionale Riccardo Polveroni, ritraggono in perfette miniature i piú influenti personaggi degli Aldobrandeschi. All’esterno si trovano un modello in bronzo del castello (alto circa 50 cm) e un muro in costruzione, con maestranze che ricordano la sua antica fondazione. Sono esposti anche i reperti provenienti dai recenti scavi archeologici e le rarissime castagne dell’anno Mille. All’avanguardia si rivelano poi gli strumenti e i metodi di fruizione: testi in italiano e inglese, accessibilità tattile e concettuale per non vedenti e ipovedenti, percorsi di visita per famiglie e a scopo didattico per le scuole. Info tel. 0564 965268; www.cm-amiata.gr.it

Dopo anni di contese i due cugini aldobrandeschi, Ildebrandino XI e XII, compresero l’impossibilità di governare congiuntamente e decisero di dividere il loro territorio in parti eque. Nel 1274 la contea venne, allora, spartita, ma con evidenti sproporzioni: undici domini vennero assegnati a Ildebrandino XI, mentre ben venti spettarono al cugino. A divisione avvenuta, fu inevitabile anche la separazione di stirpe all’interno della famiglia, i conti di Santa Fiora da una parte e quelli di Pitigliano/Sovana dall’altra: i primi erano politicamente vicini a Siena e quindi ghibellini, mentre i secondi si affiancarono al papa per tentare di mantenere in piedi la contea.

Verso il declino

I conti di Pitigliano trassero enormi vantaggi dall’affiliazione con il papa e allacciarono nuovi rapporti con le élite della politica nazionale, come dimostrano i vari matrimoni di Margherita, erede di Ildebrandino XII, con Guido di Monfort, Orso Orsini e Roffredo Caetani. L’inclinazione verso la fazione guelfa li portò, in seguito, a una diretta dipendenza dagli Angiò, ma a subire, con la crisi del Vespro (1282), conseguenze inevitabili. A questo si aggiunse la mancanza di eredi maschi nelle seconde generazioni successive e i disegni egemonici di papa Bonifacio VIII, il quale sfruttò la situazione per impadronirsi della contea a vantaggio dei propri parenti (il pontefice, lo ricordiamo, era membro della famiglia dei Caetani, n.d.r.). Per i conti di Pitigliano la crisi divenne irreversibile. Stessa sorte toccò ai conti di Santa Fiora, soggetti costantemente alla minaccia egemonica di Siena: la strategia di sottomissione, avviata anni prima da quest’ultima, si realizzò in modo compiuto nel 1331, quando il capitano di guerra Guidoriccio da Fogliano espugnò Scansano e successivamente Arcidosso, dopo un lungo assedio. Il XV secolo segnò il definitivo declino della famiglia comitale che, attraverso legami matrimoniali, lasciò il testimone alla famiglia degli Sforza (contessa Cecilia Aldobrandeschi di Santa Fiora e Bosio degli Attendoli e Sforza). F

Da leggere U Gaspero Ciacci, Gli Aldobrandeschi

U Simone M. Collavini, Honorabilis

U Nello Nanni, Il Castello di Arcidosso

nella storia e nella Divina Commedia, Multigrafica Editrice, Roma 1980 U Mario Ascheri, Lucio Niccolai (a cura di), Gli Aldobrandeschi. La grande famiglia feudale della Maremma Toscana, Edizioni C&P Adver Effigi, Arcidosso 2002

Domus et Spetiosissimus Comitatus. Gli Aldobrandeschi da «conti» a «principi territoriali» (secoli IX-XIII), Edizioni ETS, Pisa 1998 U Ippolito Corridori, Gli Aldobrandeschi nella storia maremmana, Edizioni Laurum, Pitigliano 2004

e la Valle dell’Ente nella formazione dell’Amiata medievale, Edizioni C&P Adver Effigi, Arcidosso 1999 U Ildebrando Imberciadori. Amiata e Maremma tra il IX e il XX secolo, La Nazionale Tipografia Editrice, Parma 1971

MEDIOEVO

marzo

65


gente di bottega/2

Far di zanne tanti denti

di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci

I servigi del pettinagnolo erano assai richiesti e apprezzati: dalla sua bottega, infatti, non uscivano soltanto strumenti indispensabili per la lavorazione della lana e di altri filati, ma anche eleganti accessori per la toletta. Capaci di rispondere ai desideri di una clientela femminile esigente e certamente... vanitosa

U U

Incisione che ritrae un venditore di pettini da lino: fa parte di una famosa serie (realizzata dal francese Simon Guillain ed edita a Parigi a partire dal 1664), tratta da disegni di Annibale Carracci che rappresentavano in modo caricaturale i mestieri ambulanti presenti a Bologna, città natale dell’artista.

66

na stampa seicentesca dell’incisore francese Simon Guillain mostra un ambulante di Bologna che vende pettini da lana e da lino di casa in casa (vedi qui accanto): indispensabili nella fase iniziale della lavorazione delle fibre tessili per pulire e separare i filamenti, quegli strumenti erano richiesti sia per l’attività domestica di filatura – che permetteva l’autosufficienza a ogni famiglia –, sia per lavorare quantitativi su larga scala. L’artigiano che li costruiva, chiamato pettinaio o pettinagnolo, li proponeva in varie dimensioni per rispondere alle esigenze della clientela. Per realizzarli, doveva certamente conoscere le tecniche di lavorazione del legno, con cui si fabbricava l’impugnatura, e del metallo, utilizzato per produrne i denti acuminati. Dalla bottega uscivano anche i pettini utilizzati per la toletta personale, che marzo

MEDIOEVO


richiedevano ulteriori competenze nella lavorazione dell’avorio o, in alternativa, del corno e dell’osso animale (vedi box a p. 71), che l’artigiano poteva facilmente procurarsi presso i macelli cittadini fra gli scarti della lavorazione della carne, e da cui traeva anche piccoli oggetti come scatole o bottoni. Un artefice eclettico e piuttosto affascinante, la cui maestria è sopravvissuta fino all’inizio del XX secolo.

Un’occasione ghiotta

L’inventario di una successione con eredi in età minorile, o pupilli, permette di «vedere» all’opera uno di questi artigiani, il fiorentino Piero di Sandro, morto nel settembre 1418 in circostanze sconosciute: un’occasione ghiotta, poiché, a oggi, non si conoscono altri documenti del XV secolo relativi ad analoghe botteghe. Gli atti del Fondo Pupilli che lo riguardano, conservati in due filze separate all’Archivio di Stato Firenze (Pupilli avanti il Principato, 28 cc. 276r-280r e 152 cc. 59v-63r),

Cromolitografia raffigurante un pettine quattrocentesco decorato con l’incontro fra Tristano e Isotta (in alto) e due cavalieri impegnati in una giostra, da un’opera sulla storia del costume e dell’artigianato scritta e illustrata da Jakob Heinrich von Hefner-Alteneck (1811-1903). 1883.

permettono di ricostruire anche la vicenda umana legata alla sua morte, dal momento del decesso fino ai quattro mesi successivi: Piero lascia dietro di sé la moglie Nanna, il figlio Battista – entrato negli Ordini Minori e, quindi, senza diritti sull’eredità – e la sorella Iacopa, di 28 anni, erede unica dopo la morte di un altro fratello, denominato Sandro. Il 26 ottobre 1418 la vedova rivolge al Magistrato dei Pupilli una supplica ad assumere la tutela della figlia e l’amministrazione dell’eredità, dichiarandosi troppo fragile e debilitata per tale onere: una rinuncia dettata dalla condizione femminile del tempo piuttosto che da reali condizioni di salute, che non le avrebbe permesso di agire al meglio per gestire la successione all’attività del marito e i beni ereditati.

Tutela in deroga

Sebbene Iacopa non avesse diritto alla tutela minorile, avendo superato i 25 anni fissati dagli Statuti dell’istituzione come limite massimo per le donne a usufruirne, il 27 ottobre successivo gli Ufficiali accettano la richiesta della madre Nanna, ordinano la revisione dei debiti

MEDIOEVO

marzo

67


gente di bottega/2

di Piero e, l’8 novembre successivo, aprono la pratica di successione, trasformando i crediti del pettinagnolo in titoli di rendita del Monte Comune di Firenze (vedi box a p. 72), per garantire i fondi necessari alla sussistenza della figlia. Procedono, quindi, a elencare i beni in asse di proprietà del defunto – tre abitazioni, due in città e una in campagna con due poderi sulle colline settentrionali fra Montughi e Fiesole –, a redigere l’inventario delle masserizie domestiche e, cosa piú importante per avvicinarci all’attività di Piero, a scrivere la lista dettagliata degli attrezzi e delle materie prime reperite nella bottega sotto casa, in via Ghibellina, cioè lungo l’asse viario principale del gonfalone delle Ruote, nel quartiere di Santa Croce, abitato da importanti famiglie fiorentine come quelle dei Salviati e dei Granacci. Dall’elenco circostanziato che ne risulterà, è possibile ri-

68

costruire i processi lavorativi a cui l’artigiano si dedicava. La produzione preminente era costituita dai pettini necessari a rimuovere le impurità dalle fibre di lana, lino o canapa e a sbrogliarne le matasse, prima di cominciare a lavorarle e da quelli poi utilizzati per disporle tutte nella stessa direzione, togliendone i nodi residui e preparandole per la filatura, previa selezione delle fibre piú lunghe, destinate alla produzione di stoffe pregiate.

Nel nome l’origine

La prima operazione, la cardatura (o scardassatura, dal nome della spinosa pianta di cardo con cui anticamente si conduceva), si eseguiva con spazzole dai denti fini e corti; seguiva la pettinatura, che necessitava di attrezzi con denti lunghi e radi. Per entrambe si costruivano strumenti con assi di legno su cui venivano conficcate delle punte metalliche.

I pettini da cardatura sono spesso leggermente arcuati e corredati da un manico, cosí da ricordare, per forma e dimensioni, una padella, ma ne esistono anche tipologie diverse: per esempio, con le punte fissate al centro di un’assicella, forata ai due lati per poterla impugnare. Vengono usati a coppie, strusciandoli uno contro l’altro con la lana nel mezzo, facendo scorrere le file dei denti avanti e indietro fra le fibre. I filamenti, ripuliti e ammorbiditi, dovevano quindi essere ordinati, passandovi, sempre nello stesso verso, altri pettini simili a piccoli rastrelli, con gli stessi gesti fatti per ravviare la capigliatura umana. Tale operazione, consentiva di separare il «primo stame», quello piú pregiato, dalle altre fibre, poi nuovamente pettinate e utilizzate per lavorazioni di qualità minore. Gli Ufficiali dei Pupilli non specificano la forma o le tipolomarzo

MEDIOEVO


Sulle due pagine miniatura raffigurante una donna che fila e un’altra intenta a cardare la lana, dal Luttrell Psalter. 1325-1335. Londra, The British Library. In basso Semur-en-Auxois, collegiata di Notre-Dame. La pettinatura di un tessuto raffigurata in una delle vetrate quattrocentesche della chiesa, che, nella cappella a loro dedicata, illustrano le varie attività dei mercanti di lana e di stoffe.

riparasse, raddrizzandone o sostituendo denti e manici non piú efficienti; in un angolo del locale, infatti, ci sono una concha piena di denti chattivi e un mucchio di sette libbre di denti vecchi da lino. Il pettinagnolo estraeva i denti rotti con le pinze, i due cacciadenti presenti in bottega, e li raddrizzava utilizzando cilindretti di ferro o battendoli con un martello sopra l’incudinuzza da drizzare punte in suo possesso, procedendo poi alla limatura che li rendeva di nuovo acuminati.

Esemplari vecchi e nuovi

Non è chiaro se Piero, oltre alle produzioni descritte, si dedicasse anche ai pettini da telaio, arnesi con un gran numero di stecche sottili e parallele, fra i cui denti i tessitori passavano i fili dell’ordito, cambiandoli secondo le necessità e la dimensione del filato finale. Potrebbero avere tale destinazione alcuni dei pettini della bottega, sia vecchi che nuovi, rigie dei pettini che inventariano, ma distinguono quelli da lino, da lana o da stoppa, riconoscendoli forse per dimensione e spessore dei denti o, piú probabilmente, su suggerimento di altri artigiani che li affiancavano durante il sopralluogo. Piero ha in bottega legno di abete e faggio per costruire le impugnature dei pettini e vari attrezzi per la foratura e l’inserimento dei denti forgiati, verosimilmente, su uno focolare con otto piastre di ferro posto nell’abitazione e che gli Ufficiali registrano come appartengosi a esso della bottega: un dettaglio apparentemente senza importanza, ma che invece conferma il supporto all’inventario di specialisti in grado di riconoscere gli oggetti e la loro funzione. Sono poco piú di un centinaio i pettini nuovi già pronti nella bottega di Piero e quasi il triplo quelli definiti vecchi, presumibilmente riportati all’artigiano affinché li

MEDIOEVO

marzo


gente di bottega/2

Ritratto di donna alla toletta, olio su tavola della Scuola di Fontainebleau. 1550-1570. Worcester, Worcester Art Museum. In basso, sulla sinistra, si noti l’elegante pettine in avorio.

70

marzo

MEDIOEVO


Lavorare il corno e l’osso

Quasi una stregoneria

chiesti in gran numero dalla manifattura fiorentina e, a volte, oggetto di prestito e nolo. Nei rogiti notarili dell’Archivio di Stato di Firenze è spesso documentato il prestito dei mezzi di produzione: nel 1346, per esempio, un lanaiolo registra la concessione a nolo di un telaio con equipaggiamento, per stoffe di lana, a una coppia di tessitori. Alla restituzione, la moglie del tessitore trattiene il pettine del telaio da 45 denti, stimato 7 lire e noleggiato per 6 soldi al mese, dichiarando di doverne ancora pagare il noleggio per un ulteriore mese e mezzo. Forse il pettine, indicato come nuovo alla consegna del telaio, potrebbe essersi rotto nell’utilizzo e il valore ancora da versare costituire il costo della riparazione, un rischio evidentemente posto a carico dei tessitori.

Il Dizionario delle arti e de’ mestieri compilato da Francesco Griselini e dall’abate Marco Fassadoni e pubblicato a Venezia nel 1772, riporta alcuni suggerimenti per rendere malleabili corna e ossa da lavorazione: «Per ammollire il corno, modellarlo e dargli quella forma che piú si vorrà, prendasi dall’urina di uomo conservata per un mese; vi si metta dentro della calce viva, e della cenere di tartaro, ovvero feccia di vino, il doppio di calcina, e metà di cenere. Si aggiunge sopra una libbra e mezza di ceneri, quattro once di tartaro, e altrettanto sale; si mescoli bene il tutto; si lasci bollire e restringere o scemare un poco il miscuglio; indi si passi; si conservi questa lisciva ben coperta. Quando si vuole ammollire il corno vi si lasci star dentro per otto giorni». Anche l’osso poteva essere ammorbidito svuotandolo e riempiendolo di aceto ed erbe particolari, e seppellendolo infine per un certo periodo nello sterco. Il Dizionario riporta varianti piú complicate, ma anche piú semplici, come questa: «Per l’avorio e le corna dicesi che basti fargli bollire nell’aceto forte».

Estetica e igiene

La lavorazione di ossa e corna animali per farne pettini da capelli costituisce una sezione tutta particolare dell’attività di Piero: all’epoca piú corti ma piú larghi di quelli in uso adesso, presentavano due file di denti, la piú fitta delle quali usata per rimuovere i parassiti dai capelli e dalla barba.

MEDIOEVO

marzo

Piero non sembra essere attrezzato per lavorare l’avorio o almeno cosí suggerisce la lettura dell’inventario degli Ufficiali dei Pupilli. Nella sua bottega sono invece presenti strumenti per la trasformazione di

In questa pagina due pettini in avorio custoditi a Firenze, nel Museo Nazionale del Bargello. Il primo (in alto; XV sec.) mostra una scena riferita al personaggio biblico di Susanna; il secondo, degli inizi del XVI sec., la morte di Piramo e Tisbe.

71


gente di bottega/2

il monte comune

Quando l’economia è di carta I crediti del pettinagnolo Piero di Sandro, investiti in titoli di rendita sul fondo del Monte Comune di Firenze, produrranno agli eredi interessi pari al 5% annuo: su tale operazione gli Ufficiali dei Pupilli prelevano la propria parcella. L’istituto del Monte fu creato a Firenze nel 1345, dopo che, già dalla seconda metà del XIII secolo, il Comune era dovuto ricorrere a prestiti forzosi o volontari dei cittadini per risanare le proprie casse. Nel Monte Comune furono riuniti tutti i crediti vantati dai privati e vennero emessi titoli non soggetti a tasse e non sequestrabili per eventuali reati commessi dal titolare. Chi li acquistava, di fatto prestando liquidità al Comune, veniva iscritto nei Registri del Monte, aggiornati con la contabilità ordinaria di interessi e movimenti di capitale. Nel tempo, l’iniziativa venne potenziata con la creazione di periodiche offerte d’investimento, a condizioni ogni volta diverse e piú vantaggiose: si ricordano, per esempio, i Monti dell’un due e dell’un tre nel 1358 e quello dell’un quattro nel 1456, fruttiferi di interessi pari rispettivamente al 10, 15 e 20 per cento sul capitale e il Monte delle Doti su cui tutti i Fiorentini investivano per il futuro delle figlie. In alto Prato, chiostro della chiesa di S. Francesco, Cappella Migliorati. Due banchieri al lavoro, particolare

72

di una delle scene inserite da Niccolò di Pietro Gerini nel ciclo con le Storie di san Matteo. 1395-1400 circa. marzo

MEDIOEVO


Qui accanto miniatura che illustra le vanità femminili, da un’edizione del De Casibvs Virorvm et Foeminarvm Illvstrivm di Giovanni Boccaccio. 1471-1472. Glasgow, University of Glasgow Library. Nella mano destra della prima delle tre donne, è ben riconoscibile un pettine con caratteristiche che ricalcano fedelmente i modelli allora in voga.

corna e ossa bovine – elencate come cose di beccho –, certamente recuperate presso i banchi dei beccai del Mercato Vecchio. Si doveva provvedere a svuotarle del tessuto molle interno con coltellini appuntiti e affilati: in bottega troviamo infatti uno coltello da pulire e uno coltello da corna, mentre altri due sono reperiti in una cassetta nell’abitazione. La materia veniva quindi ammorbidita con un lungo ammollo in varie sostanze e, una volta raggiunta la flessibilità necessaria, tagliata in strisce e appiattita, pressandola con una morsa a vite, forse lo strumento indicato nell’inventario con il nome di trappola; ma si può supporre che Piero usasse allo scopo delle tenaglie e un ceppo da conciarvi su le corna, battendo il materiale con i martelli che sono inventariati in quantità. In questa fase era possibile sovrapporre due parti di corno o osso che, con la pressatura, si compattavano, diventando un’unica lamina piú spessa.

Strumenti di precisione

Create e fatte seccare le lastre affinché riacquistassero la rigidità naturale, Piero poteva ritagliarvi i pettini con un seghetto, disegnandovi sopra i denti – con le seste e il segniatore da segniare pettini – incidendoli con un apposito strumento di metallo e punteruoli – sono inventariati due punti da corni da forare pettini – e usando, infine, uno ferro da tagliare denti per completare il lavoro. Terminata questa lunga e delicata operazione, non restava altro che limare e lisciare accuratamente il pettine, in modo da renderlo

MEDIOEVO

marzo

atto all’uso. Gli Ufficiali dei Pupilli descrivono gli attrezzi per queste fasi finali con diminutivi – limuzze, tanagliuzze, succhiellini – a sottolineare le piccole dimensioni e la precisione che serviva nella rifinitura. Fin qui il «racconto» derivante dalla procedura burocratica nella prima filza. Dopo la morte di Piero, nuovi documenti registrano l’evolversi della successione in una seconda filza da cui si apprende che, in poche settimane, tutta l’attrezzatura della bottega è stata venduta. Ne avevano dato disposizione gli Ufficiali dei Pupilli il 15 dicembre 1418, stabilendo di ricavarne un totale di 180 fiorini d’oro, che i possibili compratori erano obbligati a versare contestualmente all’acquisto. Con la contemporanea liquidazione di uno dei due poderi che il pettinagnolo possedeva sulle colline intorno a Firenze e di una delle due case in via Ghibellina, vengono saldati i debiti residui dell’attività, salvando cosí il nucleo principale dei possedimenti familiari: un podere con casa, vigna, uliveto e frutteto, i cui prodotti assicuravano il sostentamento della famiglia del pettinagnolo, e l’abitazione in città. In un secondo atto, nel gennaio 1419, gli Ufficiali dei Pupilli rinnovano l’inventario delle masserizie, sostanzialmente uguale al precedente tranne che per l’elenco dell’attrezzatura professionale, evidentemente già venduta dai curatori della bottega. F

Da leggere U Hidetoshi Hoshino, L’arte della

lana in Firenze nel basso Medioevo. Il commercio della lana e il mercato dei panni fiorentini nei secoli XIII-XV, Olschki, Firenze 1980 U Franco Franceschi, Oltre il «Tumulto». I lavoratori fiorentini dell’Arte della Lana fra Tre e Quattrocento, Olschki, Firenze 1993

73


restauri orvieto Orvieto, Duomo. Particolare del mosaico raffigurante l’Incoronazione di Maria, dopo il restauro. La versione dell’opera che oggi possiamo ammirare, collocata nel timpano superiore della facciata, è quella ultimata nel 1847, sulla base del cartone elaborato da Giovanni Bruni.

74

marzo

MEDIOEVO


Il Duomo delle perle di vetro di Giuseppe M. Della Fina

Si è appena concluso il restauro dei mosaici che ornano il timpano superiore della chiesa cattedrale orvietana. Un’occasione per ripercorrere la travagliata vicenda di un’opera che è tornata a diffondere i suoi mille riflessi multicolori MEDIOEVO

marzo

75


restauri orvieto

T

T

rovandosi in Orvieto e osservando – in una giornata di sole invernale – la facciata del Duomo, appena restaurata in alcune sue parti, possono tornare alla mente le parole di Cesare Brandi (19061988), uno dei maggiori storici dell’arte del secolo da poco trascorso e scrittore notevole, in Terre d’Italia: «Orvieto, dove l’arte senese posò il Duomo piú bello d’Italia, quella facciata immensa e minuta, come una miniatura scolpita, come una pagina che non si può voltare, e la guardi senza fine e qualcosa ti si scioglie dentro, in silenzio come una comunione». Una «pagina» la cui composizione risulta ben chiara sin dagli anni iniziali della progettazione del monumento, cioè almeno dal 1310 quando la responsabilità nella conduzione del cantiere della Cattedrale venne assunta dall’architetto e scultore senese Lorenzo Maitani (1270 circa-1330) in qualità di universalis caput magister. Subentrato al progettista originario, egli apportò varie modifiche all’impianto iniziale, con l’innalzamento di una tribuna quadrangolare in luogo di un’abside e la costruzione di due grandi cappelle: una, detta «del Corporale», custodisce la reliquia del miracolo di Bolsena che consentí la proclamazione della festa del Corpus Domini da parte del pontefice Urbano IV (1264); l’altra, intitolata a san Brizio (detta anche Cappella Nova), venne successivamente affrescata dal Beato Angelico e da Luca Signorelli. Gli interventi proposti e realizzati da Lorenzo Maitani sono stati spiegati nel tempo come la risposta a sopravvenuti problemi statici della struttura, ma oggi si tende a leggerli come gli esiti di un mutamento profondo del gusto, di una sorta di svolta generazionale maturata nel volgere di un ventennio. Si ricordi, in proposito, che la prima pietra del Duomo era stata posta nel novembre del 1290.

Una fornace costruita ad hoc

Tornando alla facciata, un disegno su pergamena, attribuito proprio all’architetto senese e tuttora conservato nell’Archivio dell’Opera del Duomo, ne mostra una molto simile a quella effettivamente realizzata e sembra prevedere la presenza di mosaici su buona parte del resto della superficie. La documentazione di archivio superstite dell’attività del cantiere ricorda che, nel 1321, una squadra di uomini era impegnata nella costruzione di una fornace per la produzione del vetro necessario per le tessere e per le vetrate (vedi box a p. 82); nello stesso anno una squadra di tre o quattro persone – denominate incisores vitri – iniziò a tagliare le tessere e a disporle sugli elementi architettonici della facciata. Quando piú tardi, verso il 1359, s’iniziarono a realizzare i mosaici narrativi il numero dei lavoranti impiegati aumentò. Il ricorso a mosaici su sfondo dorato rappresentava una scelta decorativa originale nell’arte italiana del Tre-

76

marzo

MEDIOEVO


In questa pagina una veduta del Duomo di Orvieto. La prima pietra dell’opera fu posata nel 1290, ma il completamento dei lavori si ebbe solo dopo la metà del Cinquecento. A sinistra una foto d’archivio che documenta un intervento di restauro ottocentesco su una parte della superficie musiva.

MEDIOEVO

marzo

77


restauri orvieto cento, che probabilmente guardava – come è stato osservato – alla tradizione paleocristiana e tardo-antica di ambiente romano. La volontà era probabilmente quella d’impreziosire la facciata attraverso i mille riflessi dorati, proponendo un’immagine della forza della fede della comunità che aveva voluto la Cattedrale e, al contempo, della vitalità delle sue istituzioni politiche e della ricchezza cittadina.

Famiglie nemiche

Una crisi profonda – motivata dalle discordie interne e dalla conseguente difficoltà a elaborare una politica comune – subentrò di lí a poco, ma nessuno sembrò avvedersene. Anzi, lo splendore della Cattedrale serví a nascondere le difficoltà incipienti, continuando a proiettare un’immagine di forza sia nel territorio circostante che

Consilio da Monteleone

Il primo magister vitri Documenti di archivio indicano in Consilio da Monteleone, originario di un paese vicino a Orvieto, il primo vetraio del Duomo. Egli iniziò a lavorare «lingue» d’oro e di vetro colorato nel 1321; in seguito venne assunto come magister vitri. Rimase legato all’Opera del Duomo, l’ente che sovraintese alla costruzione della Cattedrale, per piú di quarant’anni, realizzando tessere sia per i mosaici figurati, sia per le decorazioni degli elementi architettonici della facciata. verso le realtà politiche e istituzionali presenti nell’Italia centrale almeno sino a quando la crisi divenne palese. Basti ricordare alcuni versi di Dante Alighieri nella Divina Commedia: «Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, / Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: / color già tristi, e questi con sospetti!» (Purgatorio, canto VI, vv. 106-108). I Monaldi (Monaldeschi), guelfi, e i Filippeschi, ghibellini, erano le due famiglie che si contendevano il potere in Orvieto. Altrettanto significativa appare la scelta dei temi da affrontare nella decorazione musiva che si orientò verso gli episodi piú significativi della vita di Maria: l’Annunciazione ad Anna, la Nascita della Vergine, la sua Presentazione al tempio, il Matrimonio con Giuseppe. A Maria, infatti, erano dedicate la Cattedrale e già prima la chiesa di S. Maria Prisca, che insisteva, insieme a quella di S. Costanzo, nell’area occupata poi dal Duomo. Un’eccezione venne fatta per il Battesimo di Cristo, posizionato sopra al portale di sinistra, da dove si accedeva all’area del fonte battesimale situato all’interno. La decorazione musiva del timpano superiore è sta-

78

marzo

MEDIOEVO


A destra lo Sposalizio della Vergine, mosaico che occupa la cuspide sinistra piú alta della facciata. Il tema della composizione è tra quelli compresi nel progetto originario di Lorenzo Maitani, finalizzato a celebrare la figura di Maria. Nella pagina accanto alcune immagini dell’intervento di restauro recentemente condotto sui mosaici del Duomo.

ta al centro di un recente intervento di restauro: si tratta della porzione di facciata piú esposta alle intemperie, trovandosi fino a 60 m circa da terra e avendo una disposizione «a vela»; nel corso dei secoli ha visto l’intervento di vari maestri, autori di soluzioni diverse tra loro, e lo sforzo continuo di generazioni di mosaicisti.

Una lunga gestazione

La volontà di coprire con mosaici il timpano superiore era presente sin dagli inizi, ma, allo stesso tempo, erano chiare le difficoltà tecniche dell’impresa e i costi per la realizzazione e la successiva manutenzione. Tra il 1514 e il 1522 si ha notizia di un artista rimasto ignoto che fu ingaggiato per progettare tale decorazione (si tenga a mente che l’elevazione della facciata fu ultimata solo nel 1532). Lo studio elaborato non ebbe seguito e per qualche decennio l’impresa venne ritenuta troppo ardua e costosa. Solo con una delibera della Fabbrica della Cattedrale del 9 aprile 1584 si decise di procedere alla messa in opera del mosaico del «frontespizio». Al pittore Cesare Nebbia (1536 circa-1614 circa), orvietano, ma ben affermato negli ambienti artistici della Roma di Gregorio XIII, fu dato l’incarico di realizzare un bozzetto dipinto a olio e un cartone a grandezza naturale di un mosaico raffigurante la Resurrezione di Cristo. Ai mosaicisti Paolo Rossetti, Alessandro e Paolo Scalza e Ferdinando Sermei venne invece affidata la messa in opera. Nella relazione che consegnarono alle autorità della Fabbrica, essi ricordarono l’esperienza maturata nel rifacimento della decorazione musiva con il Battesimo di Cristo in una zona piú raggiungibile della facciata. Prospettarono la possibilità di un abbattimento dei costi facendo ricorso ai materiali «avanzati assai» da quell’intervento e all’uso da parte loro di una «mestura

MEDIOEVO

marzo

da durare perpetuamente» già sperimentata. Segnalavano inoltre che si poteva fare pieno affidamento sulla loro «affetione» al progetto «per essere la magior parte della città». Il lavoro fu seguito a regola d’arte e venne usata sicuramente «la mestura da durare perpetuamente», tuttavia, agli inizi del Settecento, il mosaico versava in cattive condizioni di conservazione, al punto che si scelse di sostituirlo. Nell’occasione si decise anche di mutare la scena rappresentata: la Resurrezione di Cristo venne sostituita dall’Incoronazione di Maria, a rafforzare il legame tra la Cattedrale e Maria. L’incarico per un nuovo cartone e una riproduzione in scala venne affidato all’artista Ludovico Mazzanti, che s’ispirò a una tela del pittore Giovanni Lanfranco (1582-1647) realizzata nel 1615, come pala d’altare, per

79


restauri orvieto i costi dell’impresa

«Cari» mosaici Consultando i documenti contabili del cantiere del Duomo di Orvieto, Catherine D. Harding, professore di arte italiana del tardo Medioevo e del primo Rinascimento alla University of Victoria (Canada), ha calcolato che i mosaici della facciata venivano a costare il 418% in piú rispetto a una superficie equivalente decorata ad affresco. Tale dato suggerisce l’entità dello sforzo che la comunità orvietana si trovò ad affrontare per decorare a mosaico una parte notevole della superficie della facciata della sua Cattedrale.

Il mosaico dell’Incoronazione di Maria, prima (in alto) e dopo il restauro. Realizzata nel 1847 dai mosaicisti Raffaele Cocchi e Raffaele Castellini, la composizione si ispira a una pala d’altare del pittore senese Sano di Pietro.

80

marzo

MEDIOEVO


Il volto di uno degli Angeli che compaiono nell’Incoronazione di Maria, durante (in basso) e dopo il restauro.

la cappella Marescotti nella chiesa orvietana del Carmine e oggi esposta nel Museo dell’Opera del Duomo. La sostituzione avvenne, ma il nuovo mosaico andò incontro agli stessi problemi del precedente e richiese da subito una manutenzione continua, sino a che si scelse d’intervenire di nuovo e drasticamente: nel 1842 venne smontato e sostituito.

Alla maniera di Sano di Pietro

L’incarico per un nuovo cartone, che doveva comunque sempre rappresentare l’Incoronazione di Maria, fu affidato al senese Giovanni Bruni, professore di disegno presso l’Istituto di Belle Arti di Siena. Il professore guardò vicino a sé e s’ispirò alla pala di un pittore del Quattrocento senese, Sano di Pietro, conservata presso il Palazzo Pubblico di Siena. La messa in opera venne affidata ai mosaicisti Raffaele Cocchi e Raffaele Castellini e ad altre maestranze di scuola romana. Il lavoro andò avanti con celerità e l’inaugurazione si ebbe nel 1847. Questo è il mosaico che si può ammirare ancora oggi anche se gli interventi conservativi dagli anni Quaranta dell’Ottocento sino a oggi sono stati diversi. In particolare si può segnalare l’intervento dello Studio Carlo Meloni e Cassio di Roma eseguito nel 1992. Il restauro comportò il completo distacco della superficie musiva dal supporto murario, il restauro in laboratorio e la ricollocazione nella cuspide centrale.

MEDIOEVO

marzo

I maestri mosaicisti

Una posizione privilegiata I maestri mosaicisti godevano di una considerazione particolare nell’ambito del cantiere e – stando alla documentazione conservata nell’Archivio dell’Opera del Duomo – venivano retribuiti piú di ogni altro lavoratore. A differenza degli altri operai, potevano contrattare le condizioni di assunzione e l’entità del salario e si dimostrano capaci di farlo, riuscendo a ottenere contratti vantaggiosi.

81


restauri orvieto

In alto il volto del Cristo che compare nell’Incoronazione di Maria durante (a sinistra) e dopo il restauro.

In basso tessere in vetro colorato appartenenti al mosaico originario, recuperate nel corso del restauro

la produzione del vetro

«Di fronte al palazzo vescovile» Alcune fornaci per la produzione del vetro vennero costruite nell’area del cantiere: «Di fronte alla porta del palazzo vescovile», secondo lo storico Luigi Fumi, autore del volume Il Duomo di Orvieto e i suoi restauri (Roma 1891). L’Opera del Duomo incentivò anche la produzione delocalizzandola nel territorio della città e, in particolare, a Monteleone di Orvieto e a Piegaro.

L’intervento appena concluso ha previsto uno studio preliminare per individuare i metodi d’intervento piú efficaci e rispettosi del monumento, il consolidamento degli strati preparatori e della superficie musiva, il trattamento biocida e la pulitura della superficie, il risarcimento di alcune lacune realizzato con tessere antiche conservate nei depositi del’Opera del Duomo. Il restauro della decorazione a mosaico del timpano superiore del Duomo di Orvieto è stato eseguito sotto la direzione della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria, nelle figure del Soprintendente Stefano Gizzi e del direttore dei lavori Maurizio Damiani, da giovani restauratrici (ditta Ma.Co.Rè) coordinate da Martina Pavan e Giulia Pompa, entrambe formatesi all’interno dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro. I lavori sono stati finanziati dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. F

Da leggere U Lucio Riccetti (a cura

di), Il Duomo di Orvieto, Laterza, Roma-Bari 1988 U Guido Barlozzetti (a cura di), Il Duomo di Orvieto e le grandi cattedrali del Duecento (Atti del Convegno internazionale di studi, Orvieto, 12-14 novembre 1990), Nuova ERI, Roma 1995 U Alessandra Cannistrà (a cura di), Il mosaico risorto. Un inedito di Cesare Nebbia tra

82

restauro e valorizzazione (catalogo della mostra, Orvieto, Palazzo Coelli, 24 aprile-23 maggio 2010), Fondazione Cassa di risparmio di Orvieto-Pacini Editore, Pisa 2010 U Vittorio Franchetti Pardo, La cattedrale di Orvieto: origine e divenire. Scritti editi e inediti, Deputazione di Storia Patria per l’Umbria-Opera del Duomo di Orvieto, Orvieto-Perugia 2014 marzo

MEDIOEVO




di Maria Paola Zanoboni

L’età dei

migranti

Contrariamente a quanto si è a lungo creduto, le società medievali furono sempre «in movimento». Ma quali furono gli effetti dei fenomeni migratori nell’età di Mezzo? Quali le ragioni principali? Ed è possibile tracciare qualche parallelo con gli eventi che si stanno verificando nel mondo di oggi? Particolare di una miniatura raffigurante le operazioni di carico di una nave mercantile. XIV sec. Torino, Biblioteca Nazionale. La manodopera impiegata in queste attività era spesso composta da immigrati: a Venezia, per esempio, era appannaggio pressoché esclusivo degli Albanesi.


Dossier

L L’

importanza dei flussi migratori nell’ambito del rinnovamento demografico di cui le città dell’Occidente medievale sono teatro a partire dall’XI secolo è stata ed è ampiamente studiata, analizzando i gruppi sociali coinvolti nella loro globalità. Se la comprensione di questi meccanismi costituisce un’impresa ardua per il mondo attuale, essa lo è ancora di piú per il Medioevo. Nei centri urbani, infatti, i nomi dei neocittadini non ancora naturalizzati venivano registrati molto raramente e, se anche ciò avveniva, le istituzioni si interessavano a loro solo indirettamente, per assicurarsi che pagassero le tasse, partecipassero agli obblighi comuni, si attenessero alle regole dei mestieri, non turbassero l’ordine pubblico (vedi box a p. 99). Se non si stabilivano in città in modo duraturo, raramente ne emergono le tracce. Negli ultimi secoli dell’età di Mezzo non vi furono in Europa migrazioni nel senso vero e proprio del termine, intese cioè come trasferimento durevole e massiccio di una popolazione, ma le società medievali nel loro complesso furono sempre in movimento, contrariamente a quanto è stato a lungo sostenuto. Il fenomeno migratorio verso le città assunse un’importanza fonda-

mentale dall’XI secolo, con punte massime nel momento della rinascita dei centri urbani, e in quello successivo all’epidemia di peste del 1348, quando lo spaventoso crollo demografico produsse a ogni livello sociale enormi vuoti da colmare. Molto spesso gli emigranti non provenivano da lontano, come aveva sostenuto lo storico belga Henri Pirenne (1862-1935), ma erano invece villici delle regioni vicine che si trasferivano in città, talora attirati dai privilegi offerti dall’autorità pubblica per stimolare l’urbanizzazione, altre volte costretti dalla necessità a rifugiarsi all’interno delle mura cittadine.

Viaggi d’affari

Le ragioni della migrazione potevano variare, cosí come i gruppi sociali in esse coinvolti: non si trattava, infatti, solo e necessariamente di individui ai limiti della sussistenza che si spostavano per disperazione in cerca di una vita migliore, ma anche di mercanti, artigiani, rappresentanti di compagnie bancarie inviati a gestire filiali lontane (basti pensare al Banco Mediceo che nel XV secolo aveva filiali in tutta Europa), diplomatici e uomini di governo che la madrepatria (le repubbliche di Genova e di Venezia in primo luogo) inviava nei territori colonizzati.

Banchieri e mercanti

Dai commerci alla riscossione delle decime Dal XIII secolo, gli insediamenti mercantili e bancari toscani, veneziani e genovesi si erano diffusi un po’ ovunque in Europa, per fare fronte alle sempre crescenti richieste di merci e di trasferimenti di denaro che l’espansione commerciale connessa alle Crociate andava stimolando. I flussi di denaro, di materie prime e di mercanzie che dalla Terra Santa, per effetto dell’ascesa economica e politica del porto di San Giovanni d’Acri (XII-XIII secolo), giungevano fino al Nord Europa, richiedevano una solida organizzazione a livello locale, nonché il formarsi di reti di relazioni affidabili, tali da

86

consentire il trasferimento di somme ingenti e di altrettanto ingenti quantitativi di merci e materie prime. A questo si aggiungeva (XIII secolo) il business della riscossione delle decime per conto della Chiesa, in Francia e Inghilterra (del quale si fecero carico mercanti senesi, fiorentini, lucchesi, «lombardi»), e quello dei prestiti ai regnanti di quegli stessi Stati. Il diffondersi di queste pratiche ebbe come conseguenza la nascita – in Europa, ma anche al di là del Mediterraneo, per esempio nella regione del Maghreb – di comunità di stranieri ben organizzate. marzo

MEDIOEVO


La presenza di questi personaggi di alto livello in luoghi lontani contribuiva a sua volta a crearvi insediamenti (soprattutto mercantili) di determinate nazionalità, dotati di una propria sede, e di propri rappresentanti, che costituivano veri e propri capisaldi intorno ai quali si intrecciavano le reti di relazioni a livello politico, mercantile e bancario con le rispettive madrepatrie. Esempio emblematico di questa situazione fu l’insediamento mercantile/bancario dei toscani a Bruges che vide l’apice nella seconda metà del Quattrocento, quando amministrava la locale filiale del Banco

MEDIOEVO

marzo

Mediceo Tommaso Portinari, la cui attività risultò determinante anche a livello politico per i suoi stretti contatti con la corte borgognona di Carlo il Temerario.

Uno status particolare

Fra il XIV e il XV secolo, un altro cospicuo insediamento di mercanti toscani si trovava ad Avignone dove godeva – come gli altri numerosi uomini d’affari stranieri – di uno status giuridico particolare, a metà tra la condizione di semplice residente e quella di cittadino: venivano in questo modo garantite speciali misure di protezione, relative soprattutto

Un mappamondo genovese del XV sec. Genova, Biblioteca Universitaria.

alla regolamentazione delle locazioni. Grazie alle loro competenze finanziarie e alla loro condizione sociale, gli Italiani (e soprattutto i Fiorentini e i Lucchesi) riuscirono a occupare posti di rilievo anche nelle confraternite cittadine. Tra questi mercanti, va segnalato in primo luogo il celebre Francesco Datini (1335-1410; vedi «Medioevo» n. 198, luglio 2013), il quale emigrò ad Avignone all’età di 15 anni e vi fece fortuna grazie alla situazione particolare della città che in quel

87


Dossier

88

marzo

MEDIOEVO


periodo ospitava la corte pontificia. Per i mercanti toscani il soggiorno all’estero era percepito come un periodo di formazione professionale: molti di loro partivano ancora bambini o molto giovani (a un’età compresa fra i 10 e i 25 anni), per apprendere le competenze di base e poi perfezionarsi nella scrittura dei libri mastri, nelle tecniche contabili, nella conoscenza dei mercati stranieri e delle lingue, gettando le basi di una rete di saperi professionali che avrebbero consentito loro di sviluppare i propri affari. Un altro gruppo importante era quello degli Spagnoli in Bretagna (XV secolo), dove costituivano la comunità straniera meglio organizzata e piú privilegiata. Si trattava di mercanti castigliani, originari so-

MEDIOEVO

marzo

In alto lettera del 1° novembre 1408 spedita dalla sede di Avignone a quella di Firenze della compagnia di Francesco Datini. Nato a Prato nel 1335, Datini costruí la sua ricchezza nella città francese, che, grazie alla presenza della corte pontificia, si era trasformata in uno dei centri nevralgici dell’economia europea. A destra Francesco Datini nel ritratto di Tommaso di Piero del Trombetto. 1491-92. Prato, Museo Casa Francesco Datini. Nella pagina accanto acquerello raffigurante un naufragio, da un’edizione del Theatre des vices et vertus di Jan van der Noot. XV-XVI sec. Glasgow, University Library.

89


Dossier

Miniatura raffigurante la partenza dei Polo da Venezia, da Li Livres du Graunt Caam (Il Libro del Gran Khan), edizione in antico francese del Milione di Marco Polo. Inizi del XV sec. Oxford,

90

Bodleian Library. Marco, allora diciassettenne, salpò nel novembre del 1271, al seguito del padre, Niccolò, e dello zio, Matteo, che da tempo intrattenevano redditizi traffici commerciali con l’Oriente. marzo

MEDIOEVO


In alto miniatura raffigurante un gruppo di mercanti in un porto, da un’edizione del Régime des princes di Gilles de Rome, precettore di Filippo il Bello. 1450 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

prattutto di Burgos, attivissimi su tutte le principali piazze europee. Essi si erano stabiliti in prevalenza a Nantes, sede ducale (1458-1488) e tappa obbligata per l’esportazione della lana spagnola dal 1430 in poi. La ricchezza di cui disponevano consentiva a questi uomini d’affari di raggiungere rapidamente le posizioni di potere e di legarsi all’élite locale, con la quale, però, non avevano alcun interesse a fondersi, in quanto lo status di straniero assicurava loro una condizione privilegiata e il monopolio sulla vendita di numerosi prodotti. Erano specializzati nel commercio, mentre le attività finanziarie erano in mano agli Italiani: fornivano prodotti di lusso alla corte ed erogavano prestiti indispensabili alle autorità municipali. Alimentavano l’emigrazione

MEDIOEVO

marzo

anche gruppi sociali molto piú modesti. Nell’Avignone trecentesca, per esempio, gli abitanti delle aree montuose e povere circostanti costituirono il principale flusso migratorio verso la città. A Genova, nel XV secolo, la manifattura tessile reclutava i suoi operai nei villaggi della costa e nelle vallate alpine dell’interno. A Gerona (Spagna), nella stessa epoca, la manodopera tessile affluiva dalle campagne vicine; a Bordeaux un buon numero di apprendisti proveniva dalla Guascogna. Ovunque le aree d’immigrazione erano proporzionali all’importanza delle città e all’estensione delle loro relazioni commerciali.

Trasferimenti forzosi

Molti emigranti erano schiavi fuggiaschi, come nel caso dei musulmani cacciati dall’Andalusia e dalla Sicilia o degli ebrei che fuggivano le persecuzioni nella Penisola Iberica (1391 e 1492). Alcuni si stabilirono durevolmente nei centri che avevano raggiunto, altri solo tem-

91


Dossier Reg

no

Anversa A Bruxelles

Oceano Atlantico

Sacro Romano Impero

PParigi

Regno di Francia La Rochelle Bordeaux

Viennaa

ano

Venezia Torino orin

ero

Imp

allo

Madrid Madr

Regno di Spagna

B Belgrado

Dubrovnik D ar A dr gn ia t o ic o di N Napoli ap o Sardegna Mar li Tirreno

Corsica

Baleari

om ott

M

tog

Budapest B

Lio Lione o

Avignone gnon

Por

di P olo nia Cracovia C

Re

Costantinopoli

ar

Sicilia

M

to d el Sa hara

ed

eo

ar

Eg

M

Stati barbareschi

Deser

Impero ottomano

M

Algeri Fes

Mar Nero

Sofia S

Corfú

Tangerii

Vratsa

Cipro

ite

rr

an

Beirut

Creta

eo

Damasco

Gerusalemme me

ipo Tripoli

Impero ottomano

La migrazione degli ebrei durante la «seconda diaspora», nel 1492, iniziata dopo la reconquista cristiana della Penisola Iberica.

poraneamente. Altri ancora erano studenti, numerosi nelle grandi città universitarie, dove si raggruppavano in «nazioni»; in continuo movimento erano inoltre i lavoratori occasionali dei cantieri, gli uomini d’arme e i mercenari, quanti fuggivano dalle tasse o dalla guerra, e poi esiliati, frati, mendicanti, artigiani specializzati, e persino podestà in trasferta temporanea nella città da amministrare.

Partire o restare?

Particolare, durante il Duecento e il Trecento, era la situazione della popolazione musulmana sottomessa alla corona catalano-aragonese: la progressiva conquista cristiana della Penisola Iberica (iniziata nel XII secolo) non aveva infatti imposto l’esodo totale degli islamici, la mag-

92

gior parte dei quali rimase dov’era. Inoltre, tutti i trattati di capitolazione loro accordati prevedevano alcuni diritti fondamentali: quello di rimanere, quello di emigrare, quello di conservare la propria religione, i propri usi e costumi, la propria lingua, la propria organizzazione, e, soprattutto, i propri beni. I musulmani si trovavano cosí di fronte al dilemma fra l’emigrazione, come prescriveva la loro religione – che proibiva, in teoria, di risiedere nelle terre cristiane–, ma che avrebbe causato la perdita dei loro beni, e la scelta di rimanere, mantenendo il proprio stile di vita e tutto quello che avevano. Fra il XIII e il XIV secolo, la maggior parte di loro scelse di non partire: come ammettevano gli stessi poeti arabi, la clemenza del nemico li

Guai alla tolleranza! L’espulsione degli ebrei dalla Spagna (anno 1492), olio su tela di Emilio Sala Francés. 1889. Madrid, Museo del Prado. Protagonista della scena è Torquemada, l’inquisitore (sulla sinistra, con l’abito talare), che irrompe nella sala in cui Ferdinando II e Isabella I hanno ricevuto un rappresentante della comunità ebraica (in primo piano, di spalle): il Domenicano getta un crocifisso sul tavolo e, puntando l’indice contro il re, gli ingiunge di non minare l’unità raggiunta dal regno con la fusione fra Aragona e Castiglia (evocata dal motto TANTO MONTA sul baldacchino, che allude al nodo gordiano), tollerando la presenza degli ebrei nel Paese.

marzo

MEDIOEVO


MEDIOEVO

marzo

93


Dossier tentava fortemente e molti di loro si erano lasciati tentare. L’amore per la terra che li aveva visti nascere, l’attaccamento ai propri beni ottenuti con anni di lavoro, la tolleranza della corona catalano-aragonese erano validi motivi per non affrontare «il mare scuro e il suo fragore», non possedendo nulla sull’altra sponda. I Saraceni potevano comunque emigrare, se lo volevano, e, fino alla metà del Trecento, non ci furono problemi. Questa opzione apportava anzi benefici fiscali alla corona, perché per partire occorreva il versamento di un’imposta e della decima sui beni esportati (ovvero 1/10 del loro valore). La licenza veniva in ogni caso negata ai fabbricanti di armi, poiché essi avrebbero sicuramente intrapreso la medesima attività al di là del mare. Il peso delle tasse da pagare per ottenere una licenza alimentava un notevole flusso di emigrazione clandestina, una circostanza alla quale si aggiungeva l’insicurezza delle rotte commerciali infestate dai pirati, che trasformavano gli emigranti in schiavi da vendere sui mercati meno controllati: in queste circostanze, i regolari salvacondotti ottenuti a caro prezzo potevano ben poco. La meta preferita dai clandestini era il regno di Granada, facilmente raggiungibile via terra.

Navi polivalenti

Mercanti cristiani di Barcellona, Valenza, Lleida e Tortosa si occupavano di organizzare il viaggio via mare dei musulmani diretti verso il Maghreb, verso l’Oriente, oppure verso Cipro, Alessandria, Beirut, Tunisi: i mercanti ottenevano una concessione dal re e versavano l’imposta per la nave, mentre gli emigranti pagavano la loro tassa di uscita. Si trattava perlopiú di grandi imbarcazioni mercantili (cocche), adibite al trasporto delle merci e che pote-

94

vano ospitare da un minimo di 3 a un massimo di 100 emigranti, oltre all’equipaggio. Nel corso del Trecento però le cose cambiarono, e il permesso di partire venne accordato con minore facilità, in primo luogo perché la nobiltà spagnola cominciò a lamentarsi del fatto che gli emigranti portavano con sé in terra straniera le tecniche di coltivazione del lino, del riso dell’henné e di molti altri pro-

dotti, facendo loro una concorrenza sleale e obbligandoli a lasciare molte terre incolte. In secondo luogo, perché l’epidemia di peste che alla metà del XIV secolo si era abbattuta sull’Europa aveva prodotto un drammatico calo demografico, che rendeva del tutto improponibile la concessione di licenze per emigrare, favorendo semmai una politica diametralmente opposta, volta piuttosto al ripopolamento. Dopo secoli di sforzi per evitare l’emigrazione dei Saraceni, essi furono espulsi in massa tra il 1609 e

il 1610, dando vita a una delle piú grandi migrazioni della storia, che vide oltre mezzo milione di persone lasciare la Penisola Iberica.

Aumentano le restrizioni

Fino alla metà del Trecento, sotto il dominio aragonese fu riservato un equo trattamento anche agli ebrei: essi godevano di assoluta libertà di movimento ed erano esenti da ogni segno distintivo. Progressive restrizioni vennero però introdotte a partire dagli anni Trenta del XIV secolo, quando, per prevenire l’evasione fiscale, il re d’Aragona cominciò a limitare gli spostamenti della popolazione ebraica all’interno del suo dominio: pur senza impedirli, venivano inquadrati, per evitare il rischio di perdere contribuenti. Anche su scala locale le restrizioni avanzarono progressivamente: a Valenza, per esempio, nel 1328, la residenza nel quartiere ebraico smise di essere facoltativa e divenne pressoché obbligatoria. La capacità di accettazione dei nuovi venuti da parte delle popolazioni residenti era messa a dura prova dai pregiudizi e dagli stereotipi, nonché dalle voci sulla loro reputazione. I Ragusani, per esempio, non avevano una buona opinione dei Catalani, spesso associati ad atti di pirateria nelle cronache cittadine (il riferimento, qui e piú avanti, è alla Ragusa adriatica, oggi Dubrovnik, in Croazia, n.d.r.). Allo stesso modo, a Napoli, dopo la conquista aragonese della città, ancora i Catalani erano percepiti come colonizzatori. Lo straniero suscitava in genere timore e quindi una predisposizione al rifiuto; un timore che aumentava in funzione dell’entità dei flussi migratori e della situazione economimarzo

MEDIOEVO


A sinistra pianta a volo d’uccello del porto albanese di Durazzo, dall’opera Isole che son da Venetia nella Dalmatia... dell’incisore ed editore Simon Pinargenti, stampata a Venezia nel 1573. Nella pagina accanto capolettera miniato raffigurante la pesatura della lana, da un manoscritto veneziano del XIV sec. Venezia, Museo Correr.

ca della città ospitante: quando gli emigranti giungevano in gruppi nutriti e continui – come gli Albanesi nelle città italiane –, venivano percepiti come potenziale fonte di problemi per l’economia e per l’ordine pubblico, e relegati nelle periferie cittadine. E questo anche perché si trattava perlopiú di persone giovani, senza famiglia, per le quali risultava difficile trovare lavoro, se non occasionale e a giornata, e procurarsi un alloggio, tanto che in alcune città, ogni sera, venivano chiusi fuori dalle porte della cinta muraria.

Problemi di convivenza

Soprattutto nei periodi di difficoltà economica, quando il lavoro mancava, si scatenavano talvolta lotte violente con i nuovi venuti: anche a Venezia, che pure era particolarmente aperta e tollerante nei confronti degli stranieri, si verificarono a piú riprese scontri con la popolazione albanese (il cui afflusso era stato peraltro agevolato). Viceversa, l’immigrazione veniva agevolata nei periodi di carenza di manodopera:

MEDIOEVO

marzo

soprattutto dopo la pestilenza del 1348, la Serenissima, favorita anche dall’instabilità dell’area balcanica e dalla propensione degli Albanesi (aggregati in clan familiari, ma privi di uno Stato territoriale) a sottrarsi al giogo dell’etnia slava, organizzò un vero e proprio traffico di persone da reclutare nelle proprie manifatture e come rematori sulle navi. A destra miniatura raffigurante la soffiatura a bocca del vetro, da un’edizione quattrocentesca del Tractatus de herbis, basato sull’opera del medico greco Dioscoride. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

95


Dossier

96

marzo

MEDIOEVO


Case dei Pierleoni, acquerello di Ettore Roesler Franz. 1880 circa. Roma, Museo di Roma. Come molte altre opere dell’artista, la veduta documenta edifici di epoca medievale: è il caso, appunto, della dimora dei Pierleoni (sullo sfondo, riconoscibile dalle finestre a bifora), famiglia romana discesa dal banchiere ebreo Baruch, che, al tempo della lotta per le investiture, prestò danaro ai pontefici e si convertí.

In un primo tempo (1382), per attirare gli stranieri, il governo veneziano accordò loro il diritto di acquistare una casa in città e di comprare titoli del debito pubblico per un ammontare pari al valore degli immobili di cui erano proprietari, nonché di investire nel commercio a lunga distanza una somma massima equivalente al valore complessivo degli immobili e dei titoli del debito pubblico. Concesse loro anche la possibilità di ottenere la cittadinanza (i cui vantaggi erano prevalentemente di natura fiscale) dopo 10 anni di residenza anziché 25. Nel 1388 il Senato emanò una vera e propria regolamentazione del flusso migratorio a completo favore di Venezia: il costo del trasporto da Durazzo alla città lagunare venne aumentato, portandolo a 6 ducati (una somma all’epoca consistente). Se l’emigrante non possedeva il denaro, veniva stipulato con lui un contratto di lavoro di 4 anni senza stipendio, al termine del quale il disgraziato avrebbe potuto trovare impiego dove avesse voluto, cominciando a guadagnare qualcosa. Ciononostante, i datori di lavoro si lamentavano, denunciando l’incompetenza degli Albanesi, «pastori civilizzati male», che si ritrovavano liberi proprio nel momento in cui stavano cominciando a imparare qualcosa. Dato che la mano d’opera mancava, il Senato veneziano si dimostrava incline ad assecondare le lamentele degli imprenditori: il prezzo del trasporto venne aumentato ancora, portandolo a 8 ducati,

MEDIOEVO

marzo

l’integrazione

Vicinie e lavoro in comune Uno dei principali meccanismi di integrazione erano le vicinie, ovvero le aggregazioni di nuclei familiari che costituivano la società cittadina (almeno fino al XIII secolo), la cui prossimità tesseva legami piú forti a livello di quartiere. Gli immigrati della stessa origine si raggruppavano appunto in vicinie, che li aiutavano a integrarsi all’interno dei quartieri, a loro volta dotati di luoghi di socializzazione (le piazze, la chiesa, il forno, il pozzo, le taverne) e di strutture militari per la difesa delle mura. Un importante fattore di integrazione era anche l’attività esercitata in comune, nelle botteghe o nei cantieri, dove gli immigrati erano particolarmente numerosi: i nuovi venuti erano reclutati in particolare per i mestieri piú faticosi, degradanti, pericolosi che gli abitanti del luogo rifiutavano (per esempio, a Treviso, nel Quattrocento, la quasi totalità dei facchini proveniva dalle valli bergamasche). Soprattutto nell’edilizia la mobilità geografica e professionale era estrema: si trattava di manodopera reclutata a giornata o pagata a cottimo. e il periodo di lavoro forzato senza stipendio per pagare il viaggio venne portato addirittura a 10 anni. In cambio di questi vantaggi, i trafficanti si impegnavano a fornire i lavoratori esclusivamente a Venezia.

Venduti come schiavi

Poteva però accadere anche di peggio: negli stessi anni, la Serenissima subiva la concorrenza dei Ragusani, i quali, volendo incentivare le proprie manifatture in un periodo di carenza di manodopera, non avevano alcuna remora a catturare le imbarcazioni su cui viaggiavano gli Albanesi, e a venderli come schiavi nella propria città. Dalla forte emigrazione dai Balcani traevano vantaggio anche i pirati (soprattutto quelli catalani di Sicilia e Barcellona), dediti apertamente alla tratta: un episodio toccante ci mostra un «onesto mercante» barcellonese che, avendo acquistato in Puglia, da un pirata di Otranto, 3 piccoli Albanesi di età compresa tra i 6 e i 10 anni, venne circondato, nel porto di Ancona, da una moltitudine di connazionali dei bambini che, indignati, vollero far mettere a verbale la loro protesta davanti a un notaio.

Nonostante tutto, a Venezia gli Albanesi si integravano senza grandi difficoltà – favoriti anche dalla matrice latina della loro lingua –, trovando impiego nei mestieri piú faticosi (facchini, fabbri, barcaioli, addetti alle fornaci da vetro), nel tessile, nella pelletteria e come servitori domestici. In quest’ultimo settore non erano trattati peggio degli Italiani: alla fine del periodo di servizio, ricevevano la stessa somma dei colleghi veneziani, ed erano in grado di padroneggiare a proprio favore gli strumenti giuridici. Lo dimostra il fatto che, per esempio, erano soliti recarsi dal notaio per appurare la propria situazione nei confronti del maestro di cui erano in procinto di lasciare il servizio. Nella Roma del XV secolo, tra le minoranze viste con maggior sospetto, c’erano gli Albanesi, i Còrsi e gli Slavi, il cui grado di integrazione era comunque molto superiore a quello degli esponenti delle medesime nazionalità insediati nei borghi e nelle campagne laziali, ritenuti ben piú pericolosi in quanto «huomini senza timor di Dio», vagabondi privi di un lavoro stabile che vivevano di espedienti, inclini alla violenza e in

97


Dossier

continuo attrito con le popolazioni locali. Nonostante la fama non eccelsa, nel secondo Quattrocento gli Albanesi non trovarono particolari difficoltà a stabilirsi nella Città Eterna e, un secolo piú tardi, risultavano integrati piuttosto bene. Erano tavernieri, pescivendoli, candelottai, mentre le donne lavoravano come domestiche e lavandaie. Anche l’insediamento degli Slavi (Dalmati, Croati, Bosniaci) costituiva una realtà ben consolidata a Roma, già alla metà del XV secolo, quando Niccolò V concesse loro di edificare una chiesa (S. Giacomo

98

degli Schiavoni), con il relativo ospedale, allo scopo di riqualificare l’area marginale del Campo Marzio, nei pressi del Tevere, mediante l’insediamento di una popolazione stabilmente residente e legata da vincoli di solidarietà socio-religiosa. Svolgevano attività portuali o connesse al trasporto per via fluviale.

Il caso dei Còrsi

Quanto ai Còrsi, la cui presenza nell’Urbe, legata alla commercializzazione dei prodotti tipici dell’isola (vino, grano, pesce salato, formaggio), si consolidò nel corso del Quat-

trocento, svolgevano mestieri legati all’agricoltura, all’allevamento e al commercio delle derrate alimentari. Sebbene alcuni di loro fossero riusciti a elevarsi socialmente (soprattutto come ecclesiastici), per tutto il XV secolo la loro situazione economica rimase in genere precaria, fatto che aveva come conseguenza una notevole instabilità, con frequenti fenomeni di violenza e banditismo. Tra il 1475 e il 1500 si moltiplicarono perciò i provvedimenti pontifici volti ad arginare la delinquenza còrsa: una bolla di Sisto IV (1475) subordinò al versamento di marzo

MEDIOEVO


L’identificazione

Didascalia

Nome e cognome per scongiurare l’evasione fiscale odissi costituisse una commissione incaricata L’identificazione degli immigrati aliquatur adiche costituí sempre un serio problema que pervero ent di qui indagare e di obbligare i nuovi cittadini a doloreium conectu le autorità pubbliche cittadine. Fra il iscriversi nella circoscrizione fiscale di residenza XIII e la metà del XIV secolo in particolare,rehendebis la eeatur a versare il dovuto. crescita demografica, l’espansione urbana, latendamusam Dalla metà del Duecento, nel momento consent, perspiti mobilità degli individui e la contemporanea di massima espansione demografica, conseque nisandata sviluppandosi una riflessione realizzazione di un apparato burocratico sempre era piú raffinato consentirono di affrontare la maxim eaquis precisa a livello giuridico sulla necessità di earuntia cones questione dell’identificazione dei nuovi venuti e un’identificazione chiara e puntuale delle apienda. di cercare, al tempo stesso, di risolverla. persone residenti nel contesto urbano. È quanto si cercò di fare a Siena, il 27 E, dall’inizio del Trecento, andarono dicembre 1329, emanando un decreto affermandosi, a partire dagli atti notarili, forme nel quale si constatava che, ormai da sempre piú complesse di denominazione, una dozzina d’anni, numerosi immigrati originari comprendenti, oltre al cognome, il patronimico del contado o provenienti dall’estero, pur e il luogo di residenza. L’autocertificazione avendo ottenuto la cittadinanza, non erano era consentita e le dichiarazioni mendaci stati iscritti nei registri fiscali e non pagavano severamente punite. Il mezzo piú sicuro per perciò le tasse, perché non se ne conosceva il l’identificazione era il ricorso alle testimonianze nome. I maggiorenti senesi decretarono perciò di terzi rese davanti al notaio. Venditori di pesce al Portico d’Ottavia, acquerello di Ettore Roesler Franz, 1880. Roma, Museo di Roma. Nell’Urbe, molti operatori del settore erano immigrati albanesi.

una notevole cauzione, e al divieto di portare armi, la loro facoltà di stabilire la residenza nei territori pontifici; qualche anno piú tardi un provvedimento di Innocenzo VIII bandí dalle terre della Chiesa tutti i Còrsi che non vi possedessero beni immobili, mentre Alessandro VI, nel 1500, giunse a espellere tutti gli esponenti di tale nazionalità con le loro famiglie, a eccezione dei mercanti fornitori della curia pontificia. Tuttavia, queste disposizioni non risolsero il problema, perché a proteggere i banditi còrsi era la nobiltà feudale, che li utilizzava nelle proprie

MEDIOEVO

marzo

guerre private per opporsi all’autorità pontificia. I Farnese – i piú potenti feudatari del territorio pontificio – per esempio, avevano molti Còrsi al loro servizio, in parte come lavoratori agricoli e in parte come mercenari e bravi, che costituivano il principale pericolo per i pellegrini e i mercanti in viaggio verso Roma, e persino per i convogli pontifici che non si facevano scrupolo di assalire.

Lotta alla criminalità

Nella Maremma senese, anch’essa infestata dai banditi còrsi, la politica repressiva del Comune di Siena riuscí invece a debellare la criminalità. Per contro, nel 1475 e nel 1490, i Còrsi che si erano ben integrati nel Lazio e in Maremma si offrirono di risarcire i danni causati dai connazionali e di aiutare l’autorità pubblica nella ricerca dei colpevoli, per evitare i bandi di espulsione che avrebbero colpito anche loro. La diversa origine geografica, sociale, culturale ed economica influiva considerevolmente sui livelli di

integrazione e sulle relazioni degli immigrati con le popolazioni autoctone. A seconda dell’epoca, della congiuntura economica e del luogo, si integravano o erano oggetto di discriminazione di vario genere. Le barriere linguistiche, religiose e culturali portavano spesso alla discriminazione civica e sociale che giungeva talvolta fino alla segregazione spaziale: i Tedeschi nelle città polacche e i Francesi lungo il cammino di Santiago di Compostella si integrarono meno bene degli Albanesi a Venezia, in quanto questi ultimi avevano una notevole familiarità con la lingua della Serenissima ed erano per la maggior parte cattolici. Allo stesso modo, i ricchi e le persone di livello sociale elevato si integravano piú facilmente, grazie anche alla loro buona fama e alla migliore accoglienza che ricevevano. Talvolta erano gli immigrati stessi a non volersi integrare, preferendo mantenere e coltivare le proprie tradizioni: si formavano allora grandi confraternite, come

99


Dossier Il porto di Bruges in una illustrazione quattrocentesca. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek.

100

marzo

MEDIOEVO


quelle dei Catalani a Bruges, Venezia e Firenze, che si occupavano di accogliere, alloggiare, assistere i connazionali. Riunivano spesso gli esponenti di un determinato gruppo sociale (mercanti, studenti, ecc.), consentendogli di continuare a parlare la propria lingua, esprimere le loro credenze e salvaguardare la propria cultura artistica, letteraria e musicale. Le numerose comunità di mercanti tedeschi sparse per l’Europa, per esempio, costituirono ovunque enclave esclusive, come quella di Londra o di Venezia, giungendo talvolta a imporre le proprie strutture amministrative, la propria lingua, il proprio modo di abitare. Altrettanto fecero in Andalusia i Castigliani, che in alcune località operarono una vera e propria ristrutturazione del tessuto urbano preesistente ed erede della cultura musulmana.

Miniatura raffigurante alcuni banchieri ebrei, da una delle Cantigas de Santa Maria del re Alfonso X, il Saggio. XIII sec. El Escorial (Madrid), Biblioteca di S. Lorenzo.

Divisi dalla fede

Anche la vita religiosa costituiva un potente elemento di integrazione o di esclusione: se i cristiani cattolici non avevano problemi a trovarsi in contatto con i residenti durante le funzioni religiose della chiesa parrocchiale, a entrare nelle confraternite, a partecipare alle processioni e alle altre molteplici manifestazioni della vita collettiva, non succedeva lo stesso per le altre confessioni religiose. Ebrei, musulmani, Greci ortodossi di Calabria e Sicilia vivevano in propri quartieri e avevano contatti limitati con il resto della cittadinanza. Altrove le minoranze religiose riuscivano a integrarsi almeno parzialmente: a Barcellona e a Tortosa, nel Trecento, gli ebrei e i musulmani erano percepiti come parte della comunità cittadina, le disposizioni legislative si estendevano anche a loro e partecipavano alle attività artigianali e commerciali accanto alla comunità cristiana. I musulmani barcellonesi erano perlopiú piccoli artigiani specializzati nella lavorazione dei metalli, nell’edilizia o nella pesca. Gli ebrei,

MEDIOEVO

marzo

invece, erano attivi nel comparto tessile, nell’oreficeria, nella lavorazione del corallo, nel settore medico e in quello creditizio. A sua volta, la sfera del credito legava strettamente cristiani, ebrei e musulmani, anche se con innegabili squilibri dovuti alla logica del potere. L’appartenenza politica al dominio aragonese si manifestava anche attraverso la fiscalità, alla quale le due minoranze contribuivano abbondantemente, nonché attraverso la partecipazione alla costruzione delle mura cittadine. Non avevano però diritto alla cittadinanza, sancito invece in altri centri del Mediterraneo, e ciò si ripercuoteva in primo luogo nei tribunali, durante lo svolgimento dei processi. A partire dal XIV secolo, però, le minoranze ebraiche e musulmane delle due città furono oggetto di

una progressiva segregazione in determinati quartieri, che divennero, poco a poco, i soli in cui i membri delle due comunità avessero il diritto di abitare e ai quali era proibito l’accesso a donne e bambini cristiani. A questo si aggiunse l’obbligo, per ebrei e musulmani, di portare abiti di foggia diversa da quella dei cristiani, in modo che li si potesse distinguere (come recitava un’ordinanza barcellonese del 1391). Nonostante la parziale integrazione, predominava la precarietà economica e giuridica dei due gruppi. Le autorità cercarono di controllare l’immigrazione, selezionandola, incoraggiandola con sgravi fiscali oppure frenandola e disincentivandola a seconda dei gruppi sociali ed economici di cui avevano bisogno. Tale pratica si riscontra fin dal XII

101


Dossier

Far fortuna con i colori Ritratto di Jean de Bernuy, discendente di una famiglia ebraica di origine castigliana che si stabilí a Tolosa, arricchendosi grazie al commercio del guado (o gualdo), nome comune della pianta erbacea Isatis tinctoria. Dalle foglie e dai fusti si ottiene una sostanza colorante azzurra, usata per tingere lana, seta, cotone, lino e juta. Nel 1503 Jean de Bernuy affidò all’architetto Louis Privat la costruzione di un palazzo, ultimato nel 1533, che costituisce una delle piú pregevoli realizzazioni del tardo Medioevo di Tolosa.

102

secolo: nel 1115, Guglielmo IX d’Aquitania stabilí che le terre che egli stesso aveva concesso a un’abbazia potessero accogliere emigranti stranieri. La concessione di terre da coltivare e il reperimento della manodopera necessaria costituiva, infatti, il principale supporto economico delle fondazioni rurali. L’area andò poi a costituire un nuovo nucleo di popolamento. Negli anni Venti del Duecento, ancora in Aquitania, Tolosa godeva della fama di isola di libertà, rifugio per tutte le popolazioni rurali vittima degli eccessi del potere signorile e per i servi affrancati. Perciò l’immigrazione veniva accolta di buon grado e percepita, anzi, come

espressione del prestigio della città, nonché come un fattore altamente positivo, che ne rafforzava il potere nei confronti delle signorie rurali.

Tutti a Tolosa!

Tra il XII e il XIII secolo Tolosa era stata protagonista di una notevolissima espansione economica, per cui molti vi si trasferivano per cercare lavoro nelle manifatture urbane. Alla mobilità geografica si accompagnava quella sociale e professionale: si trattava, infatti, di persone desiderose di abbandonare il lavoro nei campi per quello degli atelier cittadini. La città francese attirava inoltre numerosi studenti, che volevano apprendere il diritto civile marzo

MEDIOEVO


Qui accanto illustrazione raffigurante la bottega di un cartolaio e un pellegrino, dalle Memorie Istoriche di Bologna di Floriano di Pier Villola..., contenute nel Codice 1456 della Biblioteca Universitaria di Bologna. XIV sec.

ti) a sublocare la propria stanza, a ricorrere agli usurai, o a rinunciare agli studi. Con questa categoria la comunità tolosana aveva un rapporto particolare e assai conflittuale: i notevoli privilegi di cui gli studenti godevano, infatti, ne facevano un gruppo a parte e, per di piú, assai turbolento. Dal momento che sfuggivano alla giustizia ordinaria, non potevano neppure essere incarcerati per debiti.

Sgravi fiscali

e canonico presso lo studium che vi era stato fondato nel 1229. Per ottenere la cittadinanza, era sufficiente che i nuovi venuti pronunciassero davanti a testimoni la formula di rito: «Ego volo intrare Tholosam et facere me civem Tholose», mentre maggiori garanzie (una cauzione e referenze adeguate) occorrevano per esercitare determinati mestieri, come la tessitura o la tintura. Non sempre gli immigrati erano poveri: a volte disponevano di un piccolo capitale, che consentiva loro di avviare un’attività in proprio. Il costo dell’alloggio si rivelava spesso insormontabile per i piú modesti, come gli studenti, spesso costretti (anche se potevano contare su affitti calmiera-

MEDIOEVO

marzo

Nelle città bassomedievali italiane ed europee era ampiamente diffusa la pratica di concedere sgravi fiscali agli artigiani specializzati per invogliarli a stabilirsi in un centro che di loro aveva bisogno. Si cercava di attirare soprattutto quanti potevano avviare lo sviluppo di nuove attività di cui detenevano le conoscenze: fra il XIV e il XV secolo, per esempio, in molte località italiane vennero concessi privilegi particolari alle maestranze della manifattura serica, agli esperti in quella del vetro, ai battiloro, ai costruttori di specchi. Tale prassi aveva spesso come contraltare rigidi divieti all’emigrazione da parte della madrepatria, che cercava di evitare la diffusione di saperi e segreti tecnologici. Un atteggiamento di questo tipo venne assunto, tra il XII e il XIV secolo, dalle autorità veneziane nei confronti dei propri artigiani del vetro (richiesti ovunque); altrettanto fecero poi Lucca e Bologna con i tecnici in grado di realizzare i mulini da seta idraulici. In certi periodi, quando il calo demografico lo rendeva necessario, i provvedimenti a favore dell’immigrazione si facevano piú frequenti e drastici: alla fine del Trecento Venezia, spopolata dalla peste, incentivò

l’afflusso di manodopera albanese e dalmata, offrendole il lavoro e la cittadinanza e favorendone l’inserimento, con il diritto di abitare dove avesse voluto e senza l’obbligo di dimora in quartieri separati. Nel 1442, agli esponenti di queste nazionalità venne concesso anche il diritto di associarsi. Al contrario, i mercanti latini nei Paesi islamici furono sempre confinati – sia dal potere musulmano, sia dai consoli europei di stanza in loco – nei loro fondachi, strettamente controllati, che li isolavano dal resto della comunità. Nonostante questa segregazione abitativa, potevano commerciare liberamente e senza intermediari nei souk e circolare per le strade. In molte città si optò per una politica definibile «a elastico», che regolava l’afflusso degli stranieri in base alle necessità dell’economia urbana, consentendone o bloccandone l’accesso. È quanto si verificò, per esempio, a Bologna, fra il XII e il XIV secolo. V

Da leggere U Simonetta Cavaciocchi (a cura di),

Le migrazioni in Europa. Secc. XIII-XVIII (atti della XXV Settimana di Studi dell’Istituto Internazionale di Storia Economica «F. Datini», Prato, 3-8 maggio 1993), Le Monnier, Firenze 1994 U Anna Esposito, Le minoranze indesiderate (corsi, slavi e albanesi) e il processo di integrazione nella società romana nel corso del Quattrocento, in Beatrice Del Bo (a cura di), Cittadinanza e mestieri. Radicamento urbano e integrazione nelle città bassomedievali (secc. XIII-XVI), Viella, Roma 2014; pp. 283-297 U Cédric Quertier, Roxane Chilà e Nicolas Pluchot (a cura di), «Arriver» en ville. Les migrants en milieu urbain au Moyen Âge, Publications de la Sorbonne, Parigi 2013

103


CALEIDO SCOPIO

1

Persi nella nebbia ARALDICA • Quella del Patriziato Veneto è una vicenda fra

le piú ricche e articolate nel panorama della nobiltà italiana. Una storia gloriosa, i cui primi protagonisti si possono rintracciare già prima del fatidico anno Mille

G

eneralmente, solo alcune famiglie di origine funzionariale di età carolingia, postcarolingia od ottoniana, marchionali e comitali, possono farsi risalire con qualche fondamento ai secoli precedenti il Mille. In linea di massima, invece, quelle della vassallità maggiore del regno italico non appaiono con un profilo certo prima dell’XI secolo: eccezion fatta, a Milano, forse per i capitanei di Carcano e certamente per quelli di Baggio. Tuttavia, la comparsa nella documentazione archivistica delle piú risalenti casate dell’aristocrazia cittadina si colloca solitamente dal secolo successivo,

4

104

3

con l’istituzione pressoché generalizzata, almeno al Centro-Nord, del Comune consolare.

Poteri giuridici e militari Si tratta di famiglie che spesso emergono dal ceto dei iudices, ossia di quei detentori della sapienza giuridica rivestiti della publica 3 potestas (includendo in tale nozione fors’anche funzioni di comando militare, soprattutto in aree limitanee e/o soggette a incursioni saracene e/o magiare) e in piú d’un caso probabilmente titolari nel contado di giurisdizioni piú o meno estese, per delega pubblica o mera usurpazione, poi fissatasi consuetudinariamente grazie alla 4. Stemmi dei Corner, la famiglia della regina di Cipro che, ceduta obtorto collo la sovranità sull’isola alla Serenissima, tenne corte ad Asolo, ospitandovi Pietro Bembo. 5. Diciotto dei ventidue stemmi raffigurati per i vari rami dei Contarini alla fine del Seicento nel Blasone Veneto di Vincenzo Coronelli, ove se ne rimarca la tipica bicromia oro-azzurro.

2

Salvo diversa indicazione, le immagini sono tratte dallo Stemmario Veneziano Orsini De Marzo (XVI sec., da un originale piú antico). 1. Stemma della casata papale milanese dei capitanei di Baggio, risalenti documentatamente a ben prima del Mille, dallo Stemmario Trivulziano (XV sec.). 2. Stemma dei Foscari, al cui doge Francesco si deve l’espansione in terraferma, caratterizzato dal leone marciano in moleca a memoria della dignità di cavalieri di San Marco. 3. Stemmi dei Contarini, noti in Venezia dall’anno 853 nella persona di un Andrea così cognominato.

5

marzo

MEDIOEVO


6

8

9. Stemmi attribuiti ai Badoer, casata dogale risalente al 900 e ritenuta discendente dai duchi Parteciaci-Partecipazi. 10. Stemma dei Pasqualigo, già noti nel IX secolo ad Equilium, nell’attuale territorio di Jesolo.

9

9

debolezza del potere 10 centrale e alla decadenza della presa dei delegati periferici maggiori, laici ed ecclesiastici, sul distretto cittadino. È però con il consolidamento delle forme cognominali, piú precoce in ambito urbano che nelle campagne – ove anche le famiglie signorili assumevano senza troppi rimpianti denominazioni

MEDIOEVO

marzo

6. Quindici dei sedici stemmi raffigurati per i differenti rami dei Corner alla fine del Seicento nel Blasone Veneto di Vincenzo Coronelli, pure caratterizzati dalla bicromia oro-azzurro. 7. Stemmi dei Morosini, che potrebbero aver incorporato in epoca prearaldica antichi simboli solari poi cristianizzati, analogamente ai capitanei di Bordogna e Fondra bergamaschi. 8. Stemma degli Ambria, ramo dei capitanei di Fondra che prese nome dall’omonimo castello valtellinese, come raffigurato nell’armoriale compilato da Giustino Renato Orsini (1883-1964).

toponomastiche nuove da possessi territoriali e castrensi abbandonando i precedenti gentilizi a seguito, generalmente, di divisioni patrimoniali in seno alla consorteria (quando non dai personali degli stipiti eminenti dei nuovi rami) –, che si possono seguire piú agevolmente le vicissitudini genealogiche di tali stirpi. Rispetto al quadro fin qui accennato, il miracolo politico incarnato dalla plurimillenaria entità statuale veneziana permette di ritracciare per molte casade piú o meno illustri di quel patriziato origini anteriori al Mille, consentendoci in qualche caso di ipotizzare con indizi documentari plausibili la genesi di un gentilizio, se non di un’agnazione patrilineare documentabile, fors’anche alla fine dell’VIII secolo. È del resto cosa pacifica per i

7

medievisti, e in special modo per gli storici del diritto, che, prima del Mille, le dinamiche successorie e onomastiche fossero meno vincolate alla successione patrilineare in seguito predominante, preferendosi spesso nella trasmissione di beni e anche prerogative di tipo latamente pubblico schemi cognatici piuttosto che agnatici.

Onomastica «alla romana» Ciò risulta particolarmente vero nel caso in cui gli elementi interessati erano di tradizione giuridica, e quindi verosimilmente etnica, «romana», come testimoniano anche le persistenze in età moderna di tale consuetudine successoria, di cui è esempio lampante la cosiddetta surrogazione romana (ossia l’assunzione del nome e dell’arme materna almeno da uno 11. Tipico e curioso stemma dei Gradenigo, noti sin dal 900, caratterizzato da gradoni parlanti.

11 105


CALEIDO SCOPIO

1

dei figli di una coppia in cui veniva a estinguersi una famiglia in linea femminile, con l’abbandono o almeno la posposizione del gentilizio paterno), non a caso tipica dell’area tradizionalmente romana anche in senso giuridico.

Alle origini del Patriziato La tradizione cronachistica veneziana, di cui le piú celebri e risalenti testimonianze sono il Chronicon Altinate e quello Gradense, che nel proprio nucleo originario risalgono entrambi all’XI secolo, riconosce nella discendenza da coloro che ricoprirono ab immemorabili la funzione ducale e quella militare-amministrativa di tribunus militum e di ypatos (console), in origine a termine, ma presto resesi vitalizie e, trasformatesi da dignitates in honores svincolati dall’originario officio pubblico, il piú pregiato titolo di «nobiltà» di quello che poi si cristallizzò, a partire dalla Serrata del 1297 (pur con non poche successive deroghe...), nel Patriziato Veneto che resse collegialmente le sorti della

2

4. Stemma dei Bembo, casata dogale veneziana documentata sin dal X sec. 5. Stemma dei Bembo, dinastia di artisti cremonesi attiva fra XV e XVI sec., che l’araldica ricollegherebbe all’antica stirpe dogale veneziana, dallo Stemmario Trivulziano (XV sec.).

3

4

5

Serenissima per un ulteriore mezzo millennio, sino al 1797. Espressione tangibile della «democraticità» della res publica marittima è il modesto titolo di cui sino alla fine si fregiò a Venezia il piú grande come il piú modesto dei patrizi: ossia quello italiano volgare di ser, che nell’etimo (contrazione dal latino senior = anziano, ma nel latino medievale signore, anche in senso politico e giurisdizionale) rispecchia tuttavia la compartecipazione a un potere sovrano condiviso e solo pro tempore delegato in parte al doge vitalizio, riservandosi quello di messer ai cavalieri di San Marco, similmente all’uso fiorentino.

6. Stemmi dei Dandolo, noti dal X secolo e donde uscì il celebre doge Enrico († 1205).

6

106

6

1. Stemma parlante dei Barbarigo, raffigurante appunto delle barbe, mobile araldico alquanto inconsueto. 2. Stemma dei Barbaro, che una leggenda vuole derivare da un cerchio tracciato su di un drappo col sangue dei nemici, analogamente alla fascia rossa dell’arme Sanseverino. 3. Stemma alludente dei Baseggio, ove la corona dovrebbe alludere all’etimo regale del gentilizio.

6

L’antichità di una stirpe si rispecchia spesso, ma non sempre, nella fortuna biologica della discendenza: e cosí i Contarini, attestati per la prima volta con un Andrea nell’anno 853, figurano nel catasto del 1379 rappresentati da ben cinquantasei maschi, seguiti da una casada piú «recente» a grande distanza: i Corner, infatti, noti dal 1090, erano «solo» ventisette.

Echi bizantini Di alcune famiglie, tuttavia, per quanto non vi siano attestazioni documentarie certe cosí antiche come ci si aspetterebbe, è verosimile ipotizzare un’origine piú risalente: è il caso dei Morosini, noti sí dalla metà del X secolo e decorati nel 1079 del titolo aulico bizantino di protospatarius nella persona di Giovanni, ma già numerosi e potenti da farne ipotizzare la discendenza da quel Maurizio associato al potere dal padre, il duca Giovanni deposto nell’anno 803, nipote di un omonimo duca morto nel 797; del resto il cognome era reso in latino come Mauricenus, che potrebbe derivare da un’originaria designazione marzo

MEDIOEVO


7

7

7. Stemmi attribuiti ai Michiel, che si vorrebbero affini al casato baronale romano dei Frangipane. 8. Stemma dei Marcello, noti dal X sec. e donde uscí il compositore Benedetto, caratterizzato dalla bicromìa oro-azzurro e da un’eloquente banda ondata.

patronimica significante la discendenza da un Mauricius/-tius. Altra famiglia già ben antica come attestazione, ma che potrebbe esserlo anche di piú, è quella dei Badoer, attestati con un Orso vivente nel 900: secondo la tradizione, infatti, essi discenderebbero dalla dinastia ducale dei Parteciaci/Partecipazi, alla quale appartenne certamente il duca Agnello (che fu doge dall’810 fino 10. Stemma degli Ziani, casata dogale che viene ricordata per le proverbiali ricchezze, nota solo dopo il Mille. 11. Stemmi attribuiti ai Caloprini, potente clan familiare che fu acerrimo nemico dei Morosini alla fine del X sec.

10

MEDIOEVO

9

8

11

marzo

9

9. Stemmi parlanti dei Molin, noti dal X sec., ove la ruota da mulino assomiglia piuttosto al raggio di carbonchio, simbolo del Graal. elementi barbari, ovvero germanici, che possono del resto essere stati cooptati nella classe dirigente locale dalla terraferma, magari in seguito ad alleanze matrimoniali, come d’uso. Anche i Baseggio potrebbero adombrare nel proprio cognome il titolo greco di basilieus, volgarizzato, mentre è dato storico l’alleanza matrimoniale contratta fra i Morosini e la casa reale magiara nella seconda metà del Duecento: indizio evidente del rango riconosciuto non solo alla persona del doge, ma anche ai suoi piú prossimi familiari.

Famiglie celebri

alla morte, nell’827). Al IX secolo risalgono invece certamente i Pasqualigo, attestati originariamente in Equilium, antico populus nell’attuale territorio di Jesolo: la desinenza in –igo, verosimilmente volgarizzazione della desinenza aggettivale greca –ikos, ne attesta la tradizione bizantina, se non una – del resto probabile – origine etnica greca tout court, analogamente ai Gradenigo e ai Mocenigo. Simile desinenza contraddistingue anche il gentilizio dei Barbarigo: ma il nome, analogamente al caso dei Barbaro, potrebbe per contro adombrare una «grecizzazione» di

11

Nel X secolo si fissano molti dei gentilizi di famiglie che conservarono a lungo, e talvolta fino ai nostri giorni, un ruolo di spicco nella società veneta: se i succitati Gradenigo compaiono proprio nell’anno 900, via via abbiamo testimonianza in quel secolo di Barozzi, Bembo, Dandolo, Dolfin, Falier, Giustinian, Michiel, Marcello, Molin, Moro, Orio, Trevisan, Zeno, Zusto, mentre «solo» dopo il Mille appaiono sul proscenio della storia i nomi illustri di Foscarini, Querini, Sanudo e Ziani. I Memmo si vogliono invece discendenti da quel Tribuno Menio che fu duca nel tempestoso intervallo fra il 979 e il 991, in cui i sullodati Morosini si scontrarono sanguinosamente e ripetutamente con il clan dei Coloprini: che richiesero, ottenendolo, in loro appoggio nientemeno che l’intervento di Ottone II. Di questi ultimi, tuttavia, il ricordo si è perso nel caligo lagunare – un termine dialettale che significa nebbia, e il cui etimo è non a caso latino: sic transit gloria mundi... Niccolò Orsini De Marzo

107


CALEIDO SCOPIO

UN ANTROPOLOGO NEL

MEDIOEVO Ragliando sotto le stelle U

n’antica credenza francese vuole che le quattro notti precedenti l’Annunciazione (25 marzo) siano nefaste, «nere» e pericolose, soprattutto per i neonati. Forse perché nascere o concepire nel giorno in cui Cristo si incarnò è visto come l’infrazione di un tabú (come anche nascere il 25 dicembre, tipico dei lupi mannari) oppure perché in quei giorni, secondo la tradizione popolare europea, i vecchi demoni dell’inverno danno i loro ultimi colpi di coda, facendosi piú pericolosi prima di scomparire definitivamente dalla scena del mondo. Nel Medioevo questa battaglia rituale tra vecchio e nuovo veniva raccontata dalla leggenda dell’asino selvatico, o onagro, che nel giorno dell’equinozio si diceva ragliasse con forza inaudita: «Nel venticinquesimo giorno – è scritto nel Fisiologo latino – del mese di Famenoth, cioè di marzo, raglia dodici volte durante la notte, e altrettante durante il giorno, e da questo si capisce che è l’equinozio del giorno o della notte; e si conosce il numero delle ore dai ragli dell’onagro, che raglia una volta allo scadere di ogni singola ora». Questo atteggiamento viene spiegato poco dopo, affermando che l’onagro rappresenta il diavolo che, quando la notte e il giorno sono uguali, teme che il suo popolo, quello delle tenebre, diminuisca convertendosi alla luce del Dio vivente. Raglia dunque disperatamente cercando il suo «cibo», cioè le anime che ha perduto.

Una credenza largamente diffusa Un altro bestiario, quello di Philippe de Thaün (XI-XII secolo), spiega che «L’onagro significa / il diavolo in questa vita, / e per marzo intendiamo / tutto il tempo che abbiamo, / perché in quella stagione / Dio fece ogni cosa». L’ultima affermazione riporta una credenza largamente diffusa e condivisa per buona parte del Medioevo, cioè che Dio avesse creato il mondo nel mese di marzo o in primavera. In fondo una logica c’era in questa credenza: un Dio di giustizia quando avrebbe potuto creare il mondo se non in un’epoca in cui giorno e notte si equivalgono? E il Libro della Genesi (1, 4-5) non riportava forse «Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre / e chiamò la luce giorno e le tenebre notte»? Data questa coincidenza di giorni tra concepimento,

108

In alto miniatura di scuola francese raffigurante la creazione di Eva da una costola di Adamo, dalla Bibbia di Souvigny. XII sec. Moulins, Bibliothèque Municipale. Nella pagina accanto, in alto Annunciazione, dipinto su tavola di Sandro Botticelli. 1489-1490. Firenze, Galleria degli Uffizi. Nella pagina accanto, in basso Dante nella «selva oscura» in un’incisione (poi colorata) realizzata da Gustavo Doré. 1885. nascita e morte, a loro volta corrispondenti alle epoche cosmologiche di creazione e fine del mondo, alcuni teologi medievali hanno sostenuto che la scelta di fissare la Natività al 25 dicembre fosse stata compiuta in funzione del 25 marzo, giorno in cui l’arcangelo Gabriele visitò Maria di Nazareth, e non viceversa. Passando dalle stelle alle stalle dell’Europa contadina, in questo giorno – in realtà per tutta la stagione invernale, grosso modo fino all’Annunciazione –, una miriade marzo

MEDIOEVO


di figure antropo-zoo-fitomorfe vengono bruciate o tagliate in due in rituali generalmente detti di «mezzaQuaresima» o «Sega-la-Vecchia», proprio perché tali figure femminili hanno sempre l’aspetto di vecchie. A volte alcune di esse vengono fatte in pezzi poi sparsi nei campi, con l’evidente scopo di rendere la terra piú fertile. In Italia questa «Vecchia» rappresenta quanto in questo periodo di passaggio equinoziale c’è di vecchio e quindi da eliminare, affinché il rinnovamento della nuova e buona stagione possa alfine giungere: una sorta di capro espiatorio a cui viene affidato tutto il negativo della comunità. Non solo da un punto di vista simbolico: già nel Medioevo la mezza-Quaresima era epoca di pagamento delle decime, della chiusura di un’annata agraria e dell’apertura di un nuovo ciclo, dopo che in questa data erano state fatte le parti che spettavano al padrone e al contadino. Sappiamo da un rogito del giorno di san Valentino del 1460 che il contadino Andrea Della Costa si impegna a dare a Pietro Bernieri «tanto per ragione di mezzadria, quanto per grani e denari ricevuti a prestanza e per altri titoli lire 20 imperiali» nei termini stipulati, cioè «ad medium Quadragesime proximae venturae, et eo die quo dicitur communiter vetula resegari», a mezza Quaresima, nel giorno detto segare la vecchia.

Una data tutt’altro che casuale Anche Dante sembra condividere credenze e speculazioni sul giorno dell’Annunciazione. Senza forzarne troppo il significato, dal punto di vista antropologico la Divina Commedia sembra essa stessa un lungo rituale di rinnovamento, una ricerca di redenzione umana e spirituale, che pare avvicinarsi ai riti propiziatori del Nuovo Anno, in cui l’eliminazione del male si ottiene con la pubblica denuncia dei peccati commessi dalla comunità, come in qualche modo fanno i personaggi dell’Inferno con grande sincerità e introspezione. Non è un caso, quindi, che l’inizio del viaggio coincida non solo col principio del secolo, né soltanto con l’inizio del Giubileo indetto da papa Bonifacio VIII, ma, soprattutto, con una data dall’enorme portata simbolica di rinnovamento, quella di cui abbiamo parlato fin qui: il 25 marzo (anche se su questi punti ci sono opinioni complesse e discordanti tra i dantisti). Lo stesso Dante intraprese il suo catartico viaggio «Nel mezzo del cammin di nostra vita» ovvero, come specificava nel Convivio, «tra il trentesimo anno e il quarantesimo

MEDIOEVO

marzo

anno, e io credo che ne li perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno. E muovemi questa ragione: che ottimamente naturato fue lo nostro salvatore Cristo lo quale volle morire nel trentaquattresimo anno de la sua etade». Lo intraprese «Temp’era dal principio del mattino, / e ‘l sol montava ‘n su con quelle stelle / ch’eran con lui, quando l’amor divino / mosse di prima quella cose belle», ovvero quando l’amore di Dio creò gli astri. Abbiamo già visto come questo giorno sia stato ritenuto il giorno dell’equinozio o, stando ai complessi calcoli di molti studiosi di astronomia, dell’Annunciazione. Resta il problema dell’anno, se fosse il 1300 o il 1301, una questione molto complessa e affascinante, con grandi conseguenze anche per l’attribuzione di significato che ne deriverebbe: Dante iniziò il suo viaggio di purificazione in coincidenza del Giubileo, quindi accettando l’autorità dell’inviso Bonifacio, o quella dell’Annunciazione, in linea con la speranza di una cristianità rinnovata e libera dalla corruzione? Problemi di non poco conto, che però non contrastano con quel circolo simbolico che unisce sotto le stesse stelle l’onagro, le Vecchie della tradizione popolare e il Figlio di Dio. Claudio Corvino

109


CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Giovanna Tonelli Investire con profitto e stile Strategie imprenditoriali e familiari a Milano tra Sei e Settecento Franco Angeli, Milano, 213 pp.

27,00 euro ISBN 9788891711113 www.francoangeli.it

Il volume, che prosegue nel solco di un precedente lavoro della stessa Giovanna Tonelli (Affari e lussuosa sobrietà. Traffici e stili di vita dei negozianti milanesi nel XVII secolo

(1600-1659), Milano 2012), ha il merito di coniugare la storia economica con quella politica, culturale e dell’educazione, e con la storia dell’arte, in un approccio interdisciplinare che affronta temi quali l’istruzione dei rampolli del ceto mercantile milanese, finalizzata sia ad ampliare il patrimonio immobiliare, sia a garantire loro uno stile

110

di vita da nobili, votato al collezionismo, al gusto per gli oggetti raffinati, non disgiunto da un’adeguata percezione delle possibilità di investimento nel mercato dell’arte. Un modo di investire e uno stile di vita che si concretizzano nell’inventario – piú unico che raro – della quadreria del palazzo Annoni di Milano (1731), pubblicato in appendice al libro: decine e decine di dipinti (182 in totale, prevalentemente ritratti a soggetto religioso, qualche paesaggio e natura morta) minuziosamente descritti e stimati, per un valore totale di oltre 34 000 lire. Una somma che, oltre a non essere molto elevata a quell’epoca, non lo era affatto se si considerano gli autori di alcuni quadri: Rubens (£. 5000), Van Dick (£. 6000 e £. 3000), Luca Giordano (£. 1200). Poche centinaia di lire erano valutati invece gli altri dipinti, della scuola di Rubens, Campi e Spagnoletto, o di altri autori meno famosi. Ma chi erano le persone che avevano potuto mettere insieme una collezione simile? Da quale ceto provenivano e con

quali mezzi e quali strategie, economiche e culturali ci erano riusciti? A queste domande risponde appunto l’autrice, analizzando le tecniche imprenditoriali e le risorse culturali della famiglia Annoni, proprietaria della collezione, e quelle dei loro soci, i Perego e i Carenna, che, sin dalla fine del Quattrocento, svolgevano le loro attività commerciali e bancarie nei centri italiani e in quelli del Nord Europa (Anversa soprattutto, dove avevano una sede), sviluppando quel gusto per il bello e per gli oggetti raffinati che li portarono, fra Sei e Settecento, a raccogliere collezioni fantastiche. Proprio della ditta Annoni si servirono nel 1619 Brueghel e Rubens per inviare i loro dipinti a Milano. Maria Paola Zanoboni Paolo Cesaretti Le quattro mogli dell’imperatore Storia di Leone VI di Bisanzio e della sua corte Mondadori, Milano, 180 pp.

20,00 euro ISBN 978-88-04-65641-8 www.librimondadori.it

Sono molti i personaggi bizantini, e le vicende a essi

legate, che meritano di essere approfonditi e raccontati. È quanto ha fatto Paolo Cesaretti, il quale, dopo aver esplorato l’età di Giustiniano con Teodora (2001) e quella delle Crociate con L’impero perduto (2006), con Le quattro mogli dell’imperatore. Storie di Leone VI e della sua corte offre una preziosa restituzione del periodo compreso tra il IX e il X secolo. In quegli anni, dall’886 al 912, fu imperatore a Bisanzio il «cristianissimo» Leone VI, protagonista del libro insieme alle sue quattro mogli: la devota Teofano Martinakia, poi santa della Chiesa ortodossa; alla sua morte la vivacissima Zoe «Zautzina», figlia del principale coadiutore di Leone nelle cose di governo; Zoe, la bella Eudocia Baiana, morta di parto, e infine Zoe «Karbounopsina»

(«dagli Occhi di Brace»), che gli diede l’agognato erede maschio, il futuro imperatore Costantino VII Porfirogenito. Leone riuscí in questo modo a perpetuare la dinastia «macedone» fondata dal padre Basilio I, ma si scontrò drammaticamente con la tradizione ecclesiastica, che considerava le terze nozze una «sozzura» e neppure osava contemplare le quarte. Il libro è dunque anche la storia dei rapporti e degli scontri tra il sovrano del piú grande Stato cristiano dell’epoca e la piú radicata tradizione religiosa orientale; scontri in cui riescono a prevalere le astuzie e le conoscenze del coltissimo Leone, che già in vita fu definito il «Sapiente», quasi un novello Salomone. Grazie alla conoscenza di fonti sorprendenti e allo stile sempre leggibile dell’autore, si apre il quadro di un Medioevo cristiano sofisticato, persino tormentato dai suoi stessi bagliori, dove la complessa identità dell’imperatore di Bisanzio, proietta una luce speciale anche su storie d’alcova che suggeriscono parallelismi tra Leone VI ed Enrico VIII marzo

MEDIOEVO


d’Inghilterra. Il lettore è indotto a viaggiare nello spazio (mosaici di S. Sofia potrebbero raffigurare Leone VI) e nel tempo: dai concorsi di bellezza femminili presso la corte di Bisanzio («la piú bella del reame», anzi dell’impero, avrebbe sposato l’erede al trono) alle rischiose promenade notturne del sovrano in incognito. Marisa Ranieri Panetta

anche figura come deformazione, come mostruoso intreccio di nature umane e animali, figura dunque sublimata e figura demonizzata». Una dichiarazione d’intenti che lascia immaginare la vastità del campo di indagine, puntualmente riflessa dalla ricca e articolata serie dei contributi ora dati alle stampe. L’opera ha taglio specialistico, ma potrà risultare di sicuro

Arturo Carlo Quintavalle (a cura di) Medioevo. Natura e figura La raffigurazione dell’uomo e della natura nell’arte medievale

Skira, Milano, 832 pp., 71 ill. col. e 754 ill. b/n

129,00 euro ISBN 978-88-572-2852-5 www.skira.net

Il volume costituisce la pubblicazione degli Atti dell’omonimo convegno (svoltosi a Parma nel 2011), il cui tema ha costituito, come scrive lo stesso Quintavalle nella prefazione, «una chiave significativa per riflettere sull’intero Medioevo». L’obiettivo è stato quello di proporre – scrive ancora lo studioso – «la rappresentazione della figura, figura come segno, come simbolo, ma

MEDIOEVO

marzo

interesse anche per i nostri lettori: piú di un articolo, infatti, approfondisce temi che «Medioevo» ha affrontato nel corso degli ultimi anni, come è nel caso, solo per fare alcuni esempi, delle decorazioni di S. Vittore in Ciel d’oro a Milano o del significato da attribuire alle rappresentazioni celesti attestate a Padova, nel Palazzo della Ragione. Ma nelle 800 pagine del volume c’è

naturalmente ancora molto altro, a riprova di quanto ancora l’età di Mezzo e le sue manifestazioni possano essere indagate con profitto. Stefano Mammini Giorgio Cortenova La formica nera

Academia Universa Press, Loreto, 514 pp., ill. col.

29,50 euro ISBN 978-88-99059-07-1 www.academiauniversapress.it

Vede la luce, a tre anni dalla scomparsa del suo autore, questa articolata storia universale dell’arte, che abbraccia le piú importanti attestazioni comprese fra le pitture parietali del Paleolitico franco-cantabrico e l’opera di Cima da Conegliano. Motivo della sua segnalazione in questa sede è l’ampio (e prevalente) spazio riservato ai secoli del Medioevo e del primo Rinascimento, alle cui espressioni figurative, plastiche e architettoniche è

dedicata piú della metà del volume. Il taglio è di tipo manualistico, ma non per questo elencativo o superficiale. Anzi, il merito maggiore dell’opera sta proprio nelle «provocazioni» disseminate da Cortenova (che, ricordiamo, oltre che storico e critico d’arte, direttore per oltre venticinque anni della Galleria d’Arte Moderna di Verona a Palazzo Forti), affinché chi legge maturi il desiderio di approfondire i molti argomenti toccati. Prima fra tutte, forse, quella contenuta nel titolo, che riprende un’immagine utilizzata in ambito islamico. S. M. Cosimo D. Camporeale Un eroe un’era Le sette arti liberali nel Canto di Maldon Claudio Grenzi Editore, Foggia, 358 pp., ill. b/n

24,00 euro ISBN 978-88-8431-607-3 www.claudiogrenzi.it

L’11 agosto del 991, la piana che si estende nei pressi di Maldon (cittadina dell’Essex vicina alla foce del fiume Blackwater) fu teatro di una battaglia nella quale si fronteggiarono le truppe sassoni guidate dal nobile condottiero

Byrhtnoth e l’esercito degli invasori vichinghi. Dello scontro, che si concluse con la vittoria dei guerrieri scandinavi, è giunta fino ai giorni nostri una cronaca, scritta in forma di poema, nota come The Battle of Maldon. L’opera è stata oggetto di numerosi studi, che, tuttavia, non hanno sciolto molti degli interrogativi che la sua lettura pone. Prova ora a farlo Cosimo

Camporeale, che ha elaborato un’analisi approfondita e piú che minuziosa di quei versi, grazie alla quale offre non pochi elementi di novità. Prima fra tutte, l’ipotesi che, al contrario di quanto finora creduto, il Canto di Maldon non sia un testo incompleto o frammentario: esordio emblematico di un’esegesi degna di attenzione. S. M.

111


CALEIDO SCOPIO

Partiture per «scacchiera» MUSICA • Attingendo al vasto

e prezioso repertorio raccolto nel manoscritto noto come Buxheimer Orgelbuch, Guillermo Pérez, alla guida del gruppo Tasto Solo, reinterpreta celebri composizioni quattrocentesche per strumenti a tastiera

C

oncepita come una sorta di canzoniere, una tipologia di codice poetico-musicale utilizzato nelle corti per raccogliere il repertorio piú in voga, l’antologia Le Chant de Leschiquier raccoglie brani tratti dal Buxheimer Orgelbuch (o Buxheim Codex), una famosa raccolta di musiche per strumenti a tastiera quali l’organo (databile alla metà del XV secolo e oggi conservata a Monaco di Baviera, presso la Bayerische Staatsbibliothek), ovvero l’eschiquier, termine con cui, alla fine del XV secolo, si designavano due tipi di strumenti cordofoni a tastiera che prevedevano la tecnica delle corde pizzicate dal plettro o dal martelletto. In realtà, non tutti i brani del Buxheim Codex furono concepiti per l’organo e questa proposta discografica, curata da Guillermo Pérez, offre una lettura versatile, che tiene conto, a partire dalle numerose intavolature contenute nel codice, dell’ampia famiglia di cordofoni qui utilizzati: clavicembalo a martelli, a plettro, organetto, arpa e flauti. Notevoli per la loro bellezza e notorietà sono molti dei brani presentati, tra cui alcune chansons

112

di Guillaume Dufay, straordinario e prolifico compositore del XV secolo, nonché partiture di Gilles Binchois, il quale, pur senza aver mai lasciato i Paesi Bassi, conobbe una grande fama e popolarità nell’Europa del Quattrocento. Di quest’ultimo ascoltiamo, tra gli altri, un brano di straordinaria bellezza, Dueil angoisseus, su testo della poetessa Christine de Pisan, che descrive con forte senso drammatico la disperazione interiore che la musica di Binchois riesce magnificamente a rappresentare grazie anche alla splendida interpretazione del soprano Barbara Zanichelli. La stessa si produce anche in Je leo amours, sempre di Binchois e Par le regard di Dufay, entrambi legati alla celebrazione della donna amata.

Una selezione significativa Affidati all’esecuzione strumentale, i restanti brani, scritti perlopiú in intavolatura (forma di notazione musicale destinata agli strumenti), portano le firme di due inglesi ben rappresentati nel Buxheim Codex, John Dunstable (1390-1453) e John Bedyngham (attivo alla metà del XV secolo), nonché di Bartolomeo

Le Chant de Leschiquier Binchois & Dufay songs in the Buxheim Codex Tasto Solo, Guillermo Pérez Passacaille (1012), 1 CD 17,00 euro www.passacaille.be Brolo (anch’egli attivo alla metà del Quattrocento); a essi si aggiungono quindi alcune composizioni anonime. Una selezione che, pur nei limiti della sua rappresentatività – il Buxheim Codex contiene 230 brani –, tiene conto delle principali tendenze musicali attestate nella raccolta, che offre uno spaccato straordinario sulla pratica strumentale per tastiera della prima metà del XV secolo. I sei componenti del gruppo Tasto Solo, guidati da Guillermo Pérez, eseguono egregiamente e con grande maestria questo repertorio complesso e al tempo stesso di grande comunicativa: oltre a Barbara Zanichelli, ascoltiamo ai clavicembali David Catalunya e lo stesso Pérez che si esibisce all’organetto, Angélique Mauillon e Reinhild Waldek alle arpe e Pau Marcos al flauto. Franco Bruni marzo

MEDIOEVO


Lo splendore ritrovato MUSICA • A celebrare le glorie di Venezia e dei suoi dogi concorsero anche

numerosi compositori, con partiture alle quali è ora dedicata una ricca antologia curata dall’ensemble La Reverdie

«O

Venezia, splendore del mondo, perché tu sei ornamento dell’Italia…»: cosí recita l’incipit testuale del cantus primo del mottetto Venecie mundi splendor, che il compositore fiammingo Johannes Ciconia, attivo in area padovana, scrisse nel 1406 in onore del doge Michele Steno (1400-1413), in occasione della cerimonia di annessione della città di Padova al ducato veneziano. Questo non è che uno dei tanti mottetti celebrativi dedicati alla Serenissima e ai suoi dogi e raccolti, per la prima volta, Venecie mundi splendor in questa interessante antologia, Venecie Marvels of medieval Venice, mundi splendor. Marvels of medieval Venice; un Music for the Doges, 1330-1430 percorso musicale che, pur nell’esiguità La Reverdie, Claudia Caffagni delle fonti pervenute, evidenzia lo Outhere Music (A387), 1 CD strategico ruolo della musica nelle www.outhere-music.com celebrazioni civili – oltre a quelle di ambito 19,00 euro liturgico – che si tenevano a Venezia in www.passacaille.be presenza dei dogi già dal XIV secolo.

Il primo «cantore» di San Marco Organizzata cronologicamente, l’antologia apre con tre mottetti trecenteschi dedicati rispettivamente a Francesco Dandolo (1329-1339), con un brano di Marchetto da Padova, il piú illustre frottolista del XIV secolo, scritto in occasione della visita annuale che il doge dedicava all’abbazia di S. Giorgio Maggiore sull’omonima isola; a Marco Cornaro (1365-1368), destinatario di una partitura anonima; e ad Andrea Contarini (1368-1382), con un mottetto attribuito a Francesco Landini, altra fondamentale figura dell’Ars Nova italiana. Con il XV secolo si fanno piú numerose anche le testimonianze di questo genere particolare e, fra i mottetti proposti, spicca Antonius Romanus, il primo compositore menzionato nella documentazione d’archivio con la qualifica di «Cantore S. Marci». Tre sono i suoi mottetti: i primi due dedicati ai dogi Tommaso Mocenigo (1414-1423) e Francesco Foscari (1423-1457) e il terzo al marchese di Mantova Gianfrancesco Gonzaga (1395-1444); quest’ultimo fu scritto in occasione dell’aiuto prestato dal nobile

MEDIOEVO

marzo

lombardo al succitato Foscari nella lotta di Venezia contro Milano. A Foscari sono dedicati anche altri due mottetti, probabilmente composti per le cerimonie di incoronazione del doge da Christoforus da Monte e Hugo de Lantins. Concludono l’antologia due Gloria e un Credo, anch’essi di Antonius Romanus, fornendo cosí anche l’integrale di questo misconosciuto compositore.

Un doveroso recupero Claudia Caffagni e il suo gruppo La Reverdie, formato da cantanti che si cimentano anche con gli strumenti (vielle, flauti, cornetti, tromboni, arpa, organo portativo) offrono una lettura ricca e una interpretazione avvincente dei brani e si presentano principalmente con un organico a tre voci, alcune delle quali spesso rimpiazzate dai fiati: strumenti che ben si prestavano per la loro sonorità alle celebrazioni solenni all’aperto. Un disco di grande pregio che ci illumina sull’aspetto celebrativo della produzione musicale veneziana tardo-medivale, sino a oggi trascurata dalla discografia e punta d’iceberg di un repertorio sicuramente piú vasto andato perduto, o che, forse, attende di essere riscoperto. F. B.

113


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.