Medioevo n. 229, Febbraio 2016

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E L AL A B DE CO OI LL NQ N ’IT U O AL IS IA TA

www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

L’ITALIA COMUNALE Nascita delle signorie

SCOZIA, XI SECOLO

Mens. Anno 20 numero 229 Febbraio 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

Macbeth UN RE DALLA FAMA OSCURA

MEDIOEVO NASCOSTO San Pietro in Valle

IL PROVERBIO DEL MESE

Quando Berta filava...

GENTE DI BOTTEGA Pittori a Firenze

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€ 5,90

MEDIOEVO n. 229 FEBBRAIO 2016 ALBOINO ITALIA DELLE SIGNORIE GENTE DI BOTTEGA/1 LAVORO FEMMINILE SAN PIETRO IN VALLE DOSSIER MACBETH

EDIO VO M E



SOMMARIO

Febbraio 2016 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE «Non sono piú i tempi che Berta filava»

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ITINERARI Storie sulla corrente Nel monastero del re

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RESTAURI È arrivato Bartolomeo!

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40

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CIVILTÀ COMUNALE/4 Nasce la signoria

MUSEI C’è una stanza nera che... APPUNTAMENTI Il ritorno dell’Abbà Attenti all’orso! L’Agenda del Mese

40

di Furio Cappelli

52

20 21 24

ESSERE LEADER NEL MEDIOEVO/2 Alboino

di Renata Salvarani

MEDIOEVO NASCOSTO Ferentillo

Incanto in Valnerina di Elena Percivaldi

92

CALEIDOSCOPIO

STORIE L’eroe fondatore

LUOGHI

30

30 COSTUME E SOCIETÀ GENTE DI BOTTEGA/1 L’uomo dei cembali di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci

MONASTERI FEMMINILI «Al lavoro, sorelle...»

di Maria Paola Zanoboni

52

60

Dossier Macbeth

LA VERA STORIA di Francesco Colotta

71

ARALDICA «Se Parigi avesse il mare...»

104

LIBRI Come una lingua Lo scaffale

107 112

UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO Dimmi come parli e ti dirò perché

108

MUSICA Beniamini di corte

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E L AL A B DE CO OI LL NQ N ’IT U O AL IS IA TA

MEDIOEVO n. 229 FEBBRAIO 2016

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ALBOINO ITALIA DELLE SIGNORIE GENTE DI BOTTEGA/1 LAVORO FEMMINILE SAN PIETRO IN VALLE DOSSIER MACBETH

Nascita delle signorie

15/01/16 13:45

MEDIOEVO Anno XX, n. 229 - febbraio 2016 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: pp. 50, 56/57, 62 (basso); Album: copertina (e pp. 88/89), pp. 88/89 (alto); AKG Images: pp. 5, 31, 39, 74; The Art Archive: p. 33; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 43; Electa/Sergio Anelli: p. 57; Leemage: pp. 80, 82/83, 110; Rue des Archives/RDA: p. 89 (basso); Electa/ Bruno Balestrini: pp. 94/95; Electa/Paolo e Federico Manusardi: p. 108 – Cortesia Pro Loco di Valeggio sul Mincio: pp. 8-10 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 11, 18 – Shutterstock: pp. 12, 44/45, 46, 47 (sinistra), 76 (e p. 71, sfondo), 76/77, 77 – Cortesia Real Colegiata de San Isidoro de León: p. 13 – Cortesia degli autori: pp. 20-21, 100 – Doc. red.: pp. 30, 32, 36/37, 38, 47 (destra: centro e basso), 62 (alto), 66, 68, 96, 99, 107 – Bridgeman Images: pp. 71 (primo piano), 75, 78, 81, 90/91; Look and Learn: pp. 35, 79 – DeA Picture Library: pp. 42 (alto), 44 (alto), 48/49, 58/59, 60/61, 72/73; G. Nimatallah: pp. 37, 69; S. Vannini: pp. 42 (basso), 56, 103; A. Dagli Orti: pp. 52-54 – Archivi Alinari, Firenze: pp. 51, 98; Fine Art Images: pp. 40/41; Raffaello Bencini: p. 58; su concessione MiBACT/ Finsiel: p. 65 – Archivio di Stato, Firenze: p. 55 – Foto Scala, Firenze: p. 63; Fondo Edifici di Culto-Ministero dell’Interno: p. 67; su concessione MiBACT: pp. 96/97, 101 – Getty Images: Universal History Archive: p. 64; Tim Graham: pp. 84/85; Hulton Archive: pp. 86-87; Education Images: pp. 92/93 – Reggio Emilia Turismo: archivio fotografico: p. 109 (disegno di Tiziano Dorta liberamente tratto dalla proposta restitutiva elaborata dallo studio Manenti Valli) – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 33, 77, 94.

Collaboratori della redazione:

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it

Editore: MyWay Media S.r.l.

Impaginazione: Alessia Pozzato

Presidente: Federico Curti

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Barbara Conti è storica dell’arte medievale. Claudio Corvino è antropologo. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Chiara Frugoni è storica del Medioevo. Chiara Parente è giornalista. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Emanuela Porta Casucci è dottore di ricerca in storia medievale. Stefania Romani è giornalista. Renata Salvarani è ricercatore di storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Università Europea di Roma. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa

Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

In copertina l’attore Michael Fassbender nei panni di Macbeth, nel film sul re di Scozia diretto da Justin Kurzel

Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6346 Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1

Nel prossimo numero l’italia comunale

immaginario

Dalla piazza alla cattedrale

L’età dello scorpione

protagonisti

dossier

Pietro l’Eremita, predicatore e condottiero

Maremma: il forziere d’argento


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

«Non sono piú i tempi che Berta filava»

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rotagonista di questo mese è Berta, beata e protettrice delle filatrici. Nella sua versione originale, il proverbio che la cita recita: «Non sono piú i tempi che Berta filava», indicando perciò un’epoca non solo molto remota ma anche conclusa e quasi irreversibile. Il detto si riferirebbe a un episodio leggendario, ma via via tramandato come storico, da cui il trovatore Adenet (1240-1300), detto «il Re dei menestrelli», trasse un racconto (1280; trasposto in prosa nel XV secolo) la cui protagonista, Bertrada di Laon, è chiamata «Berthe aus Grans Piès», cioè «Berta dal gran piede», a causa di una malformazione di un piede che sarebbe stato piú lungo dell’altro. La vera Berta, o meglio Bertrada, figlia del conte Carimberto di Laon, andò sposa a Pipino il Breve attorno al 740 e, nel 752, aveva già messo al mondo due degli otto figli che gli diede: Carlo – il futuro Carlo Magno – e Carlomanno. Nacquero poi un altro maschio, battezzato anch’egli Pipino, e cinque femmine: Rotaide, Adelaide, Gisella, che divenne badessa a Chelles, e due di cui però ignoriamo i nomi di battesimo. Gli Annales Francorum riferiscono dell’amore con cui la regina avrebbe assistito il cognato Carlomanno – fratello di Pipino il Breve – negli ultimi suoi mesi di vita, essendosi ammalato durante la campagna del 754: sono forse questi tratti di amorevolezza che la resero poi beata? Probabilmente no. Né, tantomeno, la sua condotta irreprensibile di filatrice, su cui è intessuto parte dell’aneddoto. Bertrada comunque rimase accanto al marito durante molte delle campagne militari che egli sostenne. Alla morte di Pipino, continuò in qualità di regina madre a consigliare i propri figli, anche nella politica matrimoniale. Il biografo di Carlo Magno, Eginardo, riporta che i rapporti con la madre furono buoni sino alla fine. Non sapremmo perciò dire se la decisione di Berta di ritirarsi in convento negli ultimi anni di vita fosse dovuta all’incrinarsi dei rapporti con il figlio maggiore, in seguito alla morte dell’altro figlio, Carlomanno (771), o – piú probabilmente – per una scelta di vita di preghiera. Un elemento che avrà contribuito a rendere beata la nostra regina madre. Tornando alla leggenda, durante il viaggio intrapreso per raggiungere lo sposo, Pipino, Berta sarebbe stata sostituita con la figlia della sua dama di compagnia. La principessa, però, sarebbe riuscita a fuggire, trovando riparo presso la casa di un taglialegna, dove rimase per anni, vi-

vendo umilmente e mantenendosi con il lavoro di filatrice, aspetto su cui i racconti insistono molto. In seguito la sostituzione fu smascherata, grazie alla deformazione del piede di Bertrada, permettendo cosí alla legittima regina di prendere posto sul trono. Recuperato dunque il prestigioso ruolo, sarebbe stato piú che ovvio esclamare che era finito quel tempo in cui la sovrana si era ritrovata a filar la lana, anziché essere la regina dei Franchi! Berta «dal gran piede» in un ritratto immaginario eseguito nel XIX sec. La protagonista della leggenda e del proverbio viene tradizionalmente identificata con Bertrada di Laon, nobildonna francese che sposò Pipino il Breve e fu madre di Carlo Magno.


ANTE PRIMA

Storie sulla corrente

ITINERARI • Borghetto sul Mincio vive da sempre in una simbiosi perfetta con il

fiume sul quale nacque e si sviluppò. E conserva testimonianze significative di una storia che si dipana nel segno delle contese per il controllo di un guado cruciale

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ncastonato nell’anfiteatro naturale delle verdi colline moreniche a sud del lago di Garda, l’incantevole paesino medievale di Borghetto sul Mincio, è segnalato tra i borghi piú belli d’Italia. Frazione del Comune di Valeggio, a sua volta classificato «Città d’arte» della Provincia di Verona, la località si trova nella valle del Mincio, a 25 km da Verona e da Mantova. Adagiato sulle rive del fiume, questo autentico «gioiello sull’acqua», ritenuto un unicum urbanistico, vanta vicende millenarie e conserva l’atmosfera rurale di un antico microcosmo di campagna. Il villaggio svela dolcemente la sua malia, passo dopo passo. Camminando tra vicoli stretti e sinuosi, ammirando all’ombra dei salici scorci suggestivi su anse e cascatelle, osservando silenziosi canneti – habitat e rifugio di numerose specie d’uccelli –, sempre, costantemente, accompagnati dal sonoro gorgoglio dell’acqua. La storia di Borghetto è quella di

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un punto di passaggio importante e di una zona di confine, contesa da eserciti opposti. Il guado del Mincio era infatti il piú comodo e sicuro nella zona del basso lago; il fiume, inoltre, costituiva una barriera naturale tra le terre del Mantovano e quelle del Veronese.

INFORMAZIONI

Pro Loco Valeggio piazza Carlo Alberto 32, Valeggio sul Mincio (Verona) Info tel. 045 7951880; fax 045 6370560; e-mail: tourist@valeggio.com; www.valeggio.com

Residenza dell’ufficiale di dogana Ma andiamo per gradi. Sviluppatosi durante il periodo longobardo (VIII-IX secolo) nell’area oggi identificabile nei gradoni, che scendono a lambire le acque del Mincio, nell’Alto Medioevo Borghetto (=insediamento fortificato) fu sede di un gastald, ossia di un ufficiale di dogana con il compito di riscuotere le gabelle per l’attraversamento del fiume. Nel XII secolo sulla sponda sinistra fu edificato il monastero di S. Maria. Menzionato per la prima volta in una bolla pontificia del 1145, l’edificio religioso, che forniva anche assistenza e ospitalità ai

bisognosi di passaggio, divenne in seguito un’importante precettoria dell’Ordine dei Templari. A lungo conteso dai Comuni rivali di Mantova e Verona, nel 1202 Borghetto passò alla seconda. Subentrati al Comune, gli Scaligeri affiancarono al guado un ponte di legno e costruirono attorno al nucleo demico un sistema difensivo, di cui è ancora visibile la torre merlata d’accesso. La trasformazione di Borghetto da villaggio a borgo fortificato, con due porte di accesso e una cerchia poligonale di mura dotata di torri e circondata dalla fossa Seriola, che attingeva acqua dal febbraio

MEDIOEVO


Nella pagina accanto Borghetto sul Mincio. Il «Ponte Lungo», fatto costruire da Gian Galeazzo Visconti. Realizzata in soli due anni, tra il 1393 e il 1395, l’opera è stata inserita dal World Monuments Fund tra i 100 monumenti da salvaguardare a livello mondiale. In basso la Torre Tonda, caratterizzata dalla pianta a ferro di cavallo, che faceva parte del primo sistema difensivo di Borghetto sul Mincio, realizzato dagli Scaligeri, quando i signori di Verona acquisirono il controllo del villaggio. Mincio, è databile ai secoli XIII e XIV. A quell’epoca risale anche la ricostruzione del castello scaligero, che, dalla sommità di un colle, domina tuttora il minuscolo pugno di case e l’intera valle del Mincio. Della precedente struttura difensiva, quasi completamente rasa al suolo dal terremoto del 1117, rimane soltanto la Torre Tonda, una

MEDIOEVO

febbraio

Il giardino nell’antico «brolo» Acquistato alla metà del Novecento dal dottor Carlo Sigurtà, l’omonimo Parco Giardino occupa una superficie di 60 ettari. Aperto da marzo a novembre, è ritenuto una delle realtà botaniche e paesaggistiche piú suggestive d’Europa e si estende in quello che fu il «brolo» della Villa Maffei Sigurtà, una sontuosa dimora estiva dei conti Maffei, signori di Valeggio e di Monzambano dal 1649, progettata e realizzata su disegno dell’architetto Vincenzo Pellesina (1637-1700), il quale si ispirò al Palladio. Ultimata nel 1690, questa villa veneta – che durante le guerre risorgimentali ha ospitato Carlo Alberto, Radetzky (1848) e Napoleone III (1859) – testimonia il passaggio dal barocco al neoclassico. singolare architettura a ferro di cavallo edificata nel X secolo. In origine, quest’edificio militare era chiamato la Rocca e vi si accedeva tramite due ponti levatoi.

Nuovi interventi degli Scaligeri Un terzo ponte levatoio, l’unico ancora esistente, immetteva nella parte piú ampia del complesso

difensivo, denominato il Castello. Di esso rimangono oggi soltanto i ruderi delle mura perimetrali. Nel Trecento, oltre alla rocca e al castello, gli Scaligeri fecero anche innalzare un avamposto sulle rive del Mincio – inglobando alcune case e la chiesetta romanica del monastero di S. Maria –, e una muraglia, che, denominata «bastita»,

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ANTE PRIMA A sinistra particolare della struttura di uno dei numerosi mulini costruiti a Borghetto sul Mincio, soprattutto nel corso del Quattrocento. Molti di essi sono stati recuperati e oggi riconvertiti in hotel, relais di charme e ristoranti. fortilizio, circondava Valeggio, raggiungeva la rocca della Gherla, proseguiva lungo il fiume Tione, toccava il castello di Villafranca di Verona e terminava nelle paludose campagne di Grezzano. Nel 1387 i Visconti di Milano sconfissero gli Scaligeri, conquistando il Serraglio e le roccaforti valeggiane. Qualche anno dopo, Gian Galeazzo Visconti finanziò la costruzione di uno straordinario ponte-diga, raccordato con la Rocca di Valeggio da due cortine merlate.

Un bene da tutelare

A sinistra il castello fatto costruire dagli Scaligeri sulla cima di una collina, che tuttora domina le case di Borghetto e l’intera valle del Mincio. garantiva il collegamento fra la cinta turrita del borgo e il castello sulla collina. I lavori per la realizzazione di una seconda bastita iniziarono nel 1345, per volere del signore di Verona Mastino II Della Scala (1308-1351). Ben piú impegnativa della precedente, questa seconda opera fortificatoria, detta Serraglio, era compresa in una poderosa linea difensiva composta da fossati e mura merlate, intervallate da torresini. Lunga circa 16 km, scendeva dal

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Costruito nel 1393 e ultimato con straordinaria rapidità nel 1395, il ponte doveva garantire l’impenetrabilità dei confini orientali del ducato. Lungo 650 m e largo circa 25, con il piano stradale che corre a 9 m sopra il livello del fiume, è comunemente chiamato «Ponte Lungo» e dal 2007 è stato inserito nella lista dei 100 monumenti da salvaguardare a livello mondiale a cura del World Monuments Fund. La valle del Mincio e la zona collinare che circonda Borghetto si prestano a lunghe passeggiate ed escursioni in bicicletta. A Borghetto inizia una pista ciclabile, che seguendo il corso del fiume tra anse, canneti e filari di pioppi permette di raggiungere, in direzione nord, Peschiera e il lago di Garda, distanti circa 15 km e, verso sud, i laghi di Mantova. Vale inoltre la pena di segnalare che la parte visitabile del castello scaligero, restaurata dal Comune di Valeggio, da alcuni anni, nei mesi di luglio e agosto, ospita la Rassegna Estiva di Spettacolo e Cultura e la Rassegna Cinematografica «Cinema tra le torri». Chiara Parente febbraio

MEDIOEVO


È arrivato Bartolomeo! RESTAURI • La Galleria degli Uffizi saluta il «debutto» di

Bartolomeo Bulgarini, pittore del quale, nonostante la scarsità di notizie biografiche certe, sappiamo che venne considerato tra i migliori artisti attivi nella Siena del XIV secolo

A

capo di una delle piú importanti botteghe senesi dagli anni Trenta del XIV secolo fino alla morte, avvenuta nel 1378, Bartolomeo Bulgarini è entrato nella Galleria degli Uffizi. In un documento pistoiese del 1347, l’artista è indicato come uno dei migliori «maestri di Siena» e si raccomanda che lo si prenda in considerazione, insieme con i fiorentini Taddeo Gaddi, Andrea Orcagna, Nardo di Cione e il senese Iacopo di Mino, per l’esecuzione di un’ancona in S. Giovanni Fuorcivitas. Controverse e frammentarie sono le notizie e i dati biografici, ma, secondo Giorgio Vasari, Bartolomeo fu allievo di Duccio di Boninsegna, del quale ripropone modelli figurativi e tipologie, e di Pietro Lorenzetti, a cui è debitore per la volumetria dei corpi e la resa della spazialità. Nel 1363 si fece oblato nell’ospedale senese dei frati di S. Maria della Scala, istituzione a cui successivamente donò i suoi averi e le sue terre, a patto che la moglie e la figlia godessero dell’usufrutto finché in vita. Dipinse cinque opere per la chiesa della struttura ospedaliera, alcune delle quali, oggi, sono esposte nella Sala delle Maestà del museo fiorentino.

Una composizione in cinque parti? Le tavole raffiguranti San Pietro e San Giovanni Battista, che regge il cartiglio con l’annuncio del Salvatore, e le relative due predelle con un apostolo, forse San Giacomo martire, e San Paolo che impugna la spada con cui fu decapitato, si possono far risalire agli anni Sessanta del 1300. Fanno probabilmente parte di un polittico, collocate ai lati estremi della pala, data la presenza lungo un lato del segmento di una cornice, presente in entrambi le ancone, e lungo il lato opposto di cavicchi che servivano per assemblare i pannelli dell’insieme pittorico. L’ipotesi è che si trattasse di un pentittico con cuspidi oggi perdute e, al centro, la Madonna col Bambino in trono e angeli, mentre ai lati stavano due riquadri raffiguranti San Gregorio, e il busto di un apostolo, forse

MEDIOEVO

febbraio

DOVE E QUANDO

Galleria degli Uffizi Firenze, piazzale degli Uffizi Orario ma-do, 8,15-18,50; chiusura: tutti i lunedí, Capodanno, 1° maggio, Natale Info tel. 055 294883; www.polomuseale.firenze.it Le tavole di Bartolomeo Bulgarini da poco entrate a far parte dell’esposizione permanente della Galleria degli Uffizi: San Pietro (a destra) e San Giovanni Battista. 1360 circa.

San Giovanni Evangelista, il tutto conservato nella Pinacoteca Nazionale di Siena. Il gruppo doveva essere contraddistinto da notevole ricchezza cromatica e decorativa: si possono scorgere, infatti, tracce della campitura d’argento che inquadrava le figure della predella, con motivi ornamentali incisi e decorazioni a rilievo, in pastiglia di gesso dorato e perle di vetro colorato, a sommità delle tavole. Il manufatto ha richiesto un intervento di restauro delicato e lungo: attaccato da insetti silofagi, presentava infatti numerose rotture del supporto ligneo, mentre la superficie, con varie lacune e sollevamenti, era offuscata da uno spesso strato di sporco e impoverita da un’antica e radicale pulitura, che però, fortunatamente, non aveva intaccato il fondo oro. Mila Lavorini

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ANTE PRIMA

Nel monastero del re

ITINERARI • Nella città spagnola di León, la Collegiata Reale di Sant’Isidoro

racchiude un insieme di valore eccezionale, per la qualità delle architetture e per i numerosi tesori d’arte e di alto artigianato

F

ondata sul versante meridionale dei Monti Cantabrici dalla VII Legione romana, da cui deriva il nome, la cittadina di León diventò culla del parlamentarismo, grazie al re Alfonso IX (1171-1230), il quale nel 1188, decise di convocarvi le Corti con la partecipazione dei rappresentanti del cosiddetto Terzo Stato. La sede scelta per l’evento, i cui decreti sono stati riconosciuti dall’UNESCO come «la piú antica testimonianza documentale del sistema parlamentare europeo», fu il chiostro della basilica di S. Isidoro, ricostruita nell’XI secolo sul sito di un primo monastero, voluto dal sovrano Sancho I († 966), detto el Gordo («il Grasso»), per accogliere le spoglie del martire Pelagio, e che aveva dato inizio all’istituzione di una signoria su comunità

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monastiche e possedimenti in dote alle infante nubili. Durante i secoli, il complesso conventuale, governato originariamente da suore benedettine, poi sostituite da un cabildo (organo collegiale di governo) di Canonici regolari, è stato sottoposto a ripetuti ampliamenti e modificazioni, fino all’attuale struttura, suddivisa in cinque spazi espositivi, tra cui il Pantheon Reale.

L’ultima dimora dei sovrani Quest’ultimo è un vero e proprio gioiello, noto come la «Cappella Sistina dell’arte romanica» per le pitture che «vegliano» sui sarcofagi sottostanti. A pianta quadrata e diviso in tre navate a volta, con archi sostenuti da 21 capitelli romanici decorati da figure simboliche o

In alto León. L’ingresso della basilica di S. Isidoro, la cui prima fondazione si deve al re Sancho I, detto il Grasso, nel X sec. zoomorfe e da ornamenti, il nartece della chiesa si è infatti trasformato in luogo di sepoltura di 33 membri della corte di León, di cui 11 re, 12 regine e 10 infanti, oltre a una decina di nobili. Le volte della cripta sono impreziosite da affreschi su stucco bianco, ascrivibili ai primi anni del 1100, che propongono un programma iconografico suddiviso in tre cicli legati alla liturgia mozarabica, a partire dall’Annunciazione alla Vergine, fino alla Glorificazione, passando per la Passione. È un percorso pregno di espressivo realismo quello che si dipana davanti a noi, regalandoci importanti informazioni sul febbraio

MEDIOEVO


paesaggio della regione, ma anche sull’abbigliamento o sulla fauna autoctona, mentre nella scena della Crocifissione, troviamo i sovrani di León, rappresentati come oranti ai piedi di Gesú che, nella terza serie, è raffigurato in gloria e benedicente, circondato dal tetramorfo.

Cristo, Signore del tempo L’opera piú significativa è, però, il Calendario Agricolo, suddiviso in dodici medaglioni e situato nell’intradosso dell’arco, nel quale Cristo è Signore del tempo che scandisce la vita degli abitanti della cittadina, regolata dalle attività quotidiane, come riscaldarsi al fuoco, mietere o vendemmiare. DOVE E QUANDO

Collegiata Reale di S. Isidoro de León León, plaza de San Isidoro 4 Info www.sanisidorodeleon.org; www.spain.info In alto la biblioteca della Collegiata Reale di S. Isidoro. Edificata alla metà del XVI sec. su un piú antico scriptorium, possiede un fondo di grande valore, del quale fa parte una preziosa Bibbia visigota miniata del X sec., nota come Codex Biblicus Legionensis. A sinistra una veduta del chiostro del complesso monastico. Al di sopra della Cappella dei Re, si trova la Tribuna Reale, dalla quale i monarchi assistevano al culto che si celebrava nella Collegiata, il cui Museo ospita anche lo splendido calice – frutto della riutilizzazione di due pezzi di agata di epoca romana, utilizzati per ricavare la ciotola e la base –, al quale, intorno all’anno 1063, Doña Urraca, figlia di Ferdinando I e Sancha, signora di León e Zamora, aggiunse una ricca decorazione in oro, argento, cabochon di perle e pietre preziose, incastonate in una filigrana d’oro sormontata da foglie e steli, conferendogli

MEDIOEVO

febbraio

l’attuale forma. Donata alla Basilica in occasione della sua consacrazione, la coppa è stata recentemente ricollegata al Santo Graal dell’Ultima Cena, risvegliando l’interesse degli studiosi, ma anche quello dei semplici appassionati.

Un raro cofanetto scandinavo Nella collezione museale, tra gioielli, paramenti liturgici e scrigni intagliati in avorio, taluni bottino di guerra, altri regali di personaggi di alto rango o pellegrini, spiccano l’arca contenente le reliquie di sant’Isidoro, in argento sbalzato e l’idolillo

scandinavo, un cofanetto cilindrico in corna di renna datato alla seconda metà del 900, unico esemplare di arte vichinga esistente in Spagna. Di inestimabile valore, inoltre, è il patrimonio letterario, costituito da centinaia di documenti su pergamena, di incunaboli e testi antichi, tra cui la Bibbia visigota miniata, o Codex Biblicus Legionensis, databile al X secolo, che si distingue per la ricca tavolozza cromatica e l’accurata descrizione della vita sociale della Spagna cristiana di quell’epoca. M. L.

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ANTE PRIMA

C’è una stanza nera che... MUSEI • Salvata dalla demolizione, una struttura risalente al 1311 è stata ora

musealizzata. Si tratta di un documento prezioso dell’architettura domestica, che smentisce l’idea di un aspetto «tenebroso» dovuto alla scarsa cura per la pulizia...

A

perto nel 1995, il Forum della storia svizzera a Svitto, una delle quattro sedi del Museo Nazionale Svizzero di Zurigo, ha recentemente acquisito una pregevole testimonianza della cultura abitativa medievale. Si tratta di una sala da soggiorno recuperata in extremis nel quartiere di Dorfbach della stessa Svitto (città capitale dell’omonimo cantone), ribattezzata «Schwarze Stube» (letteralmente, «stanza nera»). Risalente al 1311, il vano disponeva di una stufa in maiolica, un tavolo, una panca e un divano: tipico arredamento di un soggiorno del XIV secolo. La Schwarze Stube era compresa in una casa costruita in legno con zoccolo in muratura, due piani abitabili e un tetto a due falde poco inclinato. Le pareti, di pregevole fattura, sono state edificate con abete bianco e rosso, nonché con legno di pino di eccellente qualità. Sia all’interno che all’esterno, le pareti della casa furono dipinte di nero subito dopo DOVE E QUANDO la sua costruzione. Questo tipo di Museo nazionale svizzero. tinteggiatura venne largamente impiegato nella regione, dall’Alto Zurigo, Museumstrasse 2 Medioevo fino al Rinascimento, Orario ma-do, 10,00-17,00 indipendentemente dallo status sociale (giovedí apertura fino alle 19,00); e dal reddito dei proprietari. chiuso il lunedí

Una scelta consapevole

Info www.nationalmuseum.ch

Il nero puro, la finitura leggermente lucida e l’impermeabilità della pittura agevolavano la pulizia. Quindi, il colore nero veniva applicato per scelta e

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In alto una Crocifissione dipinta su una parete della Schwarze Stube nel XVI sec. Zurigo, Museo Nazionale Svizzero. In basso la sala da soggiorno, musealizzata nel Forum della storia svizzera a Svitto.

non era la conseguenza dell’accumulo di depositi fuligginosi, come si è creduto a lungo. In tutte le pareti del soggiorno si trovano curiosi fori praticati con un trapano, profondi diversi centimetri, sigillati con tappi di malta. All’epoca, in queste cavità si usava custodire oggetti, come per esempio sacchetti in pelle contenenti spezie, perle di ottone, denti o frammenti di lame. Intorno al 1530, il soggiorno è stato trasformato e decorato con pitture murali figurative. In seguito, nel XVIII e XIX secolo, finestre e porte sono state nuovamente ingrandite, mentre le pareti in legno sono state rivestite con stoffe. Questi lavori evidenziano il mutamento delle esigenze abitative nel corso dei secoli. Nell’ottica della ricerca scientifica sulle costruzioni, la Schwarze Stube di Svitto rappresenta un altro elemento essenziale di approfondimento delle conoscenze in tema di cultura abitativa medievale nella Svizzera Centrale. (red.) febbraio

MEDIOEVO


ANTE PRIMA

Il ritorno dell’Abbà

APPUNTAMENTI • Riportato in auge

nel secondo dopoguerra, il Carnevale di Chivasso si prepara a salutare il festoso e variopinto corteo guidato dal «capo degli Stolti» e dalla «regina di latta», che riportano la cittadina piemontese alla tradizione carnascialesca medievale

N

el XIV secolo a Chivasso assunse importanza la caratteristica figura dell’Abbà, che era a capo della Confraternita degli Stolti, fondata per organizzare le rappresentazioni in maschere in occasione del Carnevale. Con il passare del tempo, però, per coprire le spese dei propri divertimenti, questa compagine di buontemponi iniziò a esigere tasse e balzelli sempre piú onerosi, finché il senso dello scherzo svaní e la società degenerò. Nel 1434 il prevosto del centro piemontese ridusse la loro festa a una cerimonia religiosa e la confraternita assunse il nome di Società di San Sebastiano. Da allora l’Abbà divenne il patrocinatore e il mecenate delle solennità dedicate al santo martire, che ricorrono il 20 gennaio. Nel 1452 gli furono riconosciuti anche alcuni poteri istituzionali: durante il periodo di Carnevale poteva giudicare sulle controversie fra cittadini e perfino liberare i carcerati. Nei secoli

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Immagini del Carnevalone di Chivasso, che riprende una tradizione attestata già nel XIV sec.

successivi la sua figura cadde in un lento declino, fino a scomparire nel corso dell’Ottocento. L’Abbà rinacque nel 1948 quale Signore del Carnevale di Chivasso, affiancandosi alla Bela Tolera che già ne rappresentava la regina.

In parata con i paggi Oggi questa figura apre le feste mascherate, andando in corteo storico per il centro cittadino scortato da alcuni paggi nella penultima domenica di carnevale. La piccola parata parte dal Duomo

e si conclude al Palazzo Comunale, dove l’Abbà riceve le insegne della Società di San Sebastiano da parte del suo decano, e le chiavi della città da parte del sindaco. Poi, dal balcone del Palazzo Comunale, legge il proclama della festa, esprimendo in tono allegro pareri sulla vita pubblica cittadina. Al suo fianco appunto la Bela Tolera, dal termine piemontese tola, ovvero la latta che ricopriva la guglia del campanile del Duomo prima di essere abbattuta durante l’assedio dei Francesi del 1705 e che, riflettendo i raggi solari, era visibile dalle colline circostanti. L’incoronazione della Bela Tolera avviene la sera del Sabato Grasso nella piazza centrale, sottolineata dall’esplosione dei fuochi artificiali. Le feste si concludono la prima febbraio

MEDIOEVO


Attenti all’orso! U

n tempo, sui Pirenei, l’orso era l’animale piú temuto. Col passare dei secoli, e soprattutto a causa della caccia, i grandi plantigradi scomparvero e di loro rimasero soltanto le antiche leggende. Una di esse narrava che, in un anno imprecisato del Medioevo, un orso in cerca di una compagna rapí una giovane pastora. Cacciatori, contadini e boscaioli si lanciarono in una battuta che durò vari giorni, fin quando riuscirono a scoprire la tana dell’animale. La battaglia fu cruenta, ma, alla fine, l’orso venne catturato e la pastora liberata. Quando gli uomini rientrarono al villaggio portando la bestia in catene, il sindaco ordinò una grande festa. Secondo il racconto, l’orso subí l’umiliazione della rasatura e venne in seguito domato e ammaestrato per conferirgli un aspetto ancor piú umano. Per ricordare questa leggenda, ogni anno, nel periodo di Carnevale, il villaggio francese di Prats-de-Mollo-la-Preste – situato a 1100 m d’altitudine nella regione pirenaica della Linguadoca-Rossiglione, ai confini con la Catalogna – celebra il Giorno dell’Orso. La domenica prestabilita, quest’anno il 21 febbraio, alcuni giovani indossano pelli animali e si anneriscono il volto con fuliggine e olio per impersonare altrettanti plantigradi, mentre altri si vestono da cacciatori.

Dopo la cattura, intervengono i «barbieri»

Domenica di Quaresima con il Carnevalone: una grande sfilata di carri allegorici, maschere e bande musicali. Quest’anno l’appuntamento clou è per il 14 febbraio, alle 14,30. Una quarantina di carri allegorici, accompagnati da bande musicali e gruppi folcloristici per un totale di circa 4000 figuranti, dà vita a una kermesse con musiche, balli, lancio di fiori e coriandoli, coinvolgendo gli spettatori assiepati sull’anello di quasi 2 km nel centro storico, ripetuto due volte. Al suono dei pifferi, aprono il corteo la Bela Tolera, l’Abbà e la loro corte, che prendono posto su un carro dorato con la riproduzione della torre ottagonale, unico resto dell’antico castello dei marchesi di Monferrato. Tiziano Zaccaria

MEDIOEVO

febbraio

Gli orsi si lanciano fra la folla per le vie del villaggio, incalzati dai cacciatori armati di fucili (caricati a salve). Dopo un lungo inseguimento, gli animali vengono catturati e «rasati» da «barbieri» vestiti di bianco. Al termine, tutte le comparse sfilano in parata per l’intero paese. La giornata è animata da musica folk e dalla Sardana, un ballo circolare di tradizione catalana. L’edizione 2016 della festa prevede per domenica 21 febbraio, alle 10,00, l’apertura della mostra dedicata al Giorno dell’Orso; alle 14,30 ha quindi inizio la caccia all’orso; seguono il rasage nella place du Foiral; la Sardana, in place d’Armes, e, alle 22,00, il gran ballo finale al Foyer Rural. Dopo il Giorno dell’Orso, a Prats-de-Mollo-la-Preste arriva un Carnevale di tradizione catalana. In programma c’è una divertente mascherata, con i figuranti che indossano camicie da notte bianche e avanzano suonando utensili da cucina, come pentole e cucchiai di legno. Segue l’originale Encadanat: decine di figuranti in costume sfilano al suono della cobla (l’orchestra tradizionale), scambiandosi di posto in una danza rituale. T. Z.

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre

architettura e contesto spirituale originali, è possibile ottenere nuove conoscenze sulle dimensioni, sull’insolito formato orizzontale e sull’iconografia della pala. info www. nationalgallery.org.uk

ROMA IL SULTANO E L’OCCIDENTE. CAPIRE MAOMETTO II U Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» fino al 14 febbraio

L’esposizione presenta i materiali d’archivio consultati e i costumi utilizzati durante le riprese del film-documentario Fatih: l’uomo che cambiò il destino

dell’Europa (2013), oltre a dipinti e fotografie intese a descrivere il periodo storico di Maometto II (1432-1481). La pellicola, girata in sette Paesi diversi, si è arricchita con l’intervento di numerosi studiosi di storia ottomana ed esperti del sultano Maometto. Durante le fasi di produzione sono state realizzate ricostruzioni in 3D di palazzi oramai scomparsi. Frutto di una ricerca d’archivio di ampia portata, il documentario Fatih: l’uomo che cambiò il destino dell’Europa ripercorre l’intera vita del sultano Mehmed, detto Fatih «il Conquistatore» attraverso l’esame della documentazione storica. info tel. 06 46974832; www.museorientale.beniculturali.it FIRENZE IL PRINCIPE DEI SOGNI. GIUSEPPE NEGLI ARAZZI MEDICEI DI PONTORMO E BRONZINO U Palazzo Vecchio, Sala dei Duecento fino al 15 febbraio

Commissionati da Cosimo I de’ Medici per la Sala de’ Dugento di Palazzo Vecchio, i venti arazzi

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ROMA TESORI DELLA CINA IMPERIALE. L’ETÀ DELLA RINASCITA FRA GLI HAN E I TANG (206 A.C.-907 D.C.) U Palazzo Venezia fino al 28 febbraio

cinquecenteschi con la storia di Giuseppe sono una testimonianza eccelsa dell’artigianato e dell’arte del Rinascimento. I disegni preparatori furono affidati ai maggiori artisti del tempo, primo fra tutti Pontormo. Ma le prove predisposte da quest’ultimo non piacquero a Cosimo I, che decise di rivolgersi ad Agnolo Bronzino, a cui si deve parte dell’impianto narrativo della serie. Tessuti alla metà del XVI secolo nella manifattura granducale, furono realizzati dai maestri arazzieri fiamminghi Jan Rost e Nicolas Karcher. info tel. 055 2768325 LONDRA VISIONI DEL PARADISO. LA PALA D’ALTARE DEL PALMIERI DI BOTTICINI U The National Gallery fino al 14 febbraio

La mostra segna il culmine di tre anni di ricerca sull’imponente pala d’altare di Francesco Botticini L’Assunzione della Vergine (228,6 x 377,2 cm), inquadrando l’opera nel contesto delle tradizioni

dell’Umanesimo civile e del mecenatismo religioso nella Firenze del Rinascimento. Vengono esplorati la vita, gli scritti e i ruoli politici del committente del dipinto, Matteo Palmieri (1406-1475), e il suo rapporto con i Medici, i signori di Firenze. Completata intorno al 1477 per la cappella funeraria di Palmieri nella chiesa di S. Pier Maggiore a Firenze, la pala d’altare è esposta insieme a dipinti, sculture, disegni, stampe, manoscritti e una medaglia di bronzo. La mostra chiarisce il dibattito su vari aspetti della pala, inclusa la sua falsa attribuzione a Sandro Botticelli, la sua controversa iconografia, considerata eretica da alcuni teologi, e la sua posizione originale. Viene inoltre presentata la prima ricostruzione digitale dell’antica chiesa di S. Pier Maggiore, distrutta alla fine del XVIII secolo. Inserendo nuovamente il dipinto di Botticini nella sua

Grazie ai capolavori del Museo Provinciale dello Henan, l’esposizione racconta il passaggio dalla dinastia Han – periodo in cui l’odierna Cina prende forma – all’Età dell’Oro dei Tang (581-907). Tra i manufatti giunti a Roma, vi sono una veste funeraria composta da 2000 listelli di giada intessuti con fili d’oro, e poi lacche, terrecotte invetriate, vasi, oggetti in oro, argento e giadeite, a illustrare lo straordinario clima di prosperità e di apertura culturale di questo periodo. info tel. 06 6780131; www.tesoridellacinaimperiale.it

febbraio

MEDIOEVO


manoscritto duecentesco usato da Aldo Manuzio per la stampa. La rassegna, inoltre, dà conto dello stretto rapporto intercorso tra Aldo ed Erasmo da Rotterdam; il filosofo olandese, che visse ospite per oltre un anno in casa Manuzio, apprezzava la cura delle edizioni aldine, ma, soprattutto, riteneva di fondamentale importanza che i suoi lavori fossero stampati proprio da Manuzio, per garantire al suo pensiero la maggior diffusione possibile in Europa. info tel. 02 806921; www.ambrosiana.it GENOVA

ALDO MANUZIO IN AMBROSIANA U Pinacoteca Ambrosiana fino al 28 febbraio

LUCIANO BORZONE. PITTORE VIVACISSIMO NELLA GENOVA DI PRIMO SEICENTO U Palazzo Nicolosio Lomellino di Strada Nuova fino al 28 febbraio

Arricchito da strumenti tipografici d’epoca provenienti dalla collezione dell’editore Enrico Tallone, il percorso espositivo copre l’intera attività di Manuzio, dall’Erotemata del Lascaris, stampata il 28 febbraio 1495, al De rerum natura di Lucrezio, pubblicata nel gennaio del 1515. Fra gli incunaboli non mancano i capolavori, tra cui il De Aetna dell’amico Pietro Bembo (1495), e, tra le cinquecentine, si segnala il Virgilio del 1501, la prima edizione in ottavo e in carattere corsivo, la cui dimensione permise la grande circolazione del libro nell’Europa del Cinquecento, facilitando la rinascita della cultura classica. Non vanno infine dimenticati i Moralia di Plutarco del 1509, un ponderoso volume di 1068 pagine contenente novantadue trattati, di cui l’Ambrosiana possiede anche l’archetipo

Per la prima volta vengono esposti 20 tra i dipinti piú significativi del pittore e incisore genovese Luciano Borzone (1590-1645). La mostra si snoda lungo un percorso che si apre con l’evocazione del contesto locale e delle fonti figurative che agirono, fin da subito, sulla sensibilità del giovane artista, per proseguire poi nella presentazione di come Borzone operò sia sul versante sacro, sia su quello profano. Le opere, perlopiú provenienti da collezioni private, si fanno viva testimonianza dell’umanizzazione del sacro con cui il pittore, profondo conoscitore dell’animo umano, ha dato prova di saper costruire le sue figure, e della sua fantasiosa vena profana. info tel. 010 0983860 (orario d’ufficio) e 393 8246228 (prefestivi e festivi); e-mail: lomellino@studiobc.it; www.palazzolomellino.org

MILANO

MEDIOEVO

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BOLOGNA TRA LA VITA E LA MORTE. DUE CONFRATERNITE BOLOGNESI TRA MEDIOEVO E ETÀ MODERNA U Museo Civico Medievale fino al 28 marzo

Protagoniste dell’esposizione sono le Confraternite bolognesi di S. Maria della Vita e di S. Maria della Morte, un tempo ubicate una di fronte all’altra. Infatti, se quella della Vita aveva sede nella chiesa omonima, in via Clavature, quella della Morte si estendeva tra via Marchesana e il portico che ne conserva il nome, correndo lungo via dell’Archiginnasio e costeggiando S. Petronio. La mostra è l’occasione per ricostruire l’attività delle due

confraternite soprattutto attraverso una ricca selezione di documenti figurativi (dipinti, miniature, sculture, ceramiche, oreficerie), con una particolare attenzione alle numerose miniature contenute entro i volumi degli Statuti di entrambe le Compagnie, a partire dal Duecento, fino a tutto il Seicento.

info tel. 051 2193930 oppure

051 2193916; www.museibologna.it

COLLEFERRO (ROMA) IL «TESORO» DEI CONTI U Museo Archeologico del Territorio Toleriense fino al 31 marzo

Realizzata nell’ambito delle manifestazioni per gli 80 anni dalla nascita del Comune di Colleferro e per l’VIII centenario della morte di Innocenzo III, la mostra espone i risultati degli scavi nel castello di Piombinara e, in particolare, i materiali provenienti dalla necropoli individuata intorno e all’interno della chiesa castellana, probabilmente dedicata a S. Nicola. Si tratta

(per ora) di 113 sepolture che hanno restituito arredi-corredo databili perlopiú al XIII-XV secolo, ma con presenze, almeno in due sepolture, coeve al primo impianto della chiesa, di monili altomedievali (VII secolo). info tel 06 9781169; e-mail: museo@comune.colleferro.rm.it

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AGENDA DEL MESE

FIRENZE UN PALAZZO E LA CITTÀ U Museo Salvatore Ferragamo fino al 3 aprile

Forte di opere e documenti provenienti da musei e collezioni private, la mostra ripercorre le complesse vicende storiche di Palazzo Spini Feroni. Le origini dell’edificio risalgono al 1289, dopo che un’alluvione aveva distrutto le case degli Spini, ricca e potente famiglia proprietaria di una delle prime società bancarie d’Europa. Committente dell’edificio fu Ruggeri, detto Geri, la persona piú illustre del casato, banchiere di papa Bonifacio VIII. L’allestimento è dominato da due grandi forzieri che contengono le opere d’arte e i documenti: spiccano, tra gli altri, un dipinto seicentesco che raffigura l’albero genealogico degli Spini; una pergamena del 1277 che dimostra l’acquisto degli Spini di un terreno e di una casa nei pressi del ponte Santa Trinita; la storia della famiglia nel Quattrocento scritta da un discendente di Geri, Doffo. Due modelli in scala, realizzati dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, riproducono l’area

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cittadina in cui fu costruito il palazzo, e la sua architettura, come appare nella veduta quattrocentesca. info tel. 055 3562846; e-mail: museoferragamo@ferragamo.com; www.ferragamo.com VENEZIA «SPLENDORI» DEL RINASCIMENTO A VENEZIA. ANDREA SCHIAVONE TRA PARMIGIANINO, TINTORETTO E TIZIANO U Museo Correr fino al 10 aprile

Pittore dal pennello veloce come una freccia, Andrea Meldola, detto Schiavone (1510 circa-1563), propose un linguaggio pittorico nuovo e spregiudicato, tanto che, già pochi anni dopo l’arrivo a Venezia (avvenuto forse intorno al 1535), divise l’opinione pubblica e la critica: chi come l‘Aretino lo stimava e gli era amico, chi come il Pino non nascondeva il suo disprezzo. Un artista «fuori dal coro», dunque, affascinante e moderno, sul quale si fa finalmente il punto dopo decenni di studi e ricerche. Per la prima volta sono riuniti oltre 80 lavori di Schiavone, dipinti, disegni, incisioni: oltre ad alcuni inediti, si possono

vedere insieme i capisaldi della sua opera pittorica e, con essi, importanti dipinti di confronto dei maggiori artisti del tempo, punto di riferimento per il Dalmata e con i quali egli ebbe contatti o rapporti di «dare» e «avere». info call center, tel. 848 082 000; e-mail: info@fmcvenezia.it; www.correr.visitmuve.it NONANTOLA (MO) MATILDE, SPLENDENTE FIACCOLA U Museo Benedettino e Diocesano di Arte Sacra fino all’11 aprile

L’abbazia romanica di Nonantola ricorda Matilde di Canossa proponendo un percorso attraverso antiche pergamene che indaga i rapporti tra il potente e ricco monastero e la famiglia della contessa. Del periodo dei

Canossa, e di Matilde in particolare, l’Archivio Storico Abbaziale conserva infatti una ventina di pergamene. Ne emerge un periodo travagliato ma di contatti frequenti, fatto di liti per proprietà contese, donazioni di terre, commutazioni di beni. Accanto alle pergamene vi è spazio per due celebri codici medievali della sua epoca: la Relatio dell’Archivio Capitolare della cattedrale modenese e il magnifico Evangelistario di Matilde di Canossa (XI secolo), realizzato dai Benedettini nonantolani nel loro scriptorium. info tel. 059 549025; e-mail: museo@abbazia-nonantola.net; www.abbazia-nonantola.net NEW YORK IL MONDO IN GIOCO: CARTE DI LUSSO, 1430–1540 U The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters fino al 17 aprile

I giochi di carte ebbero origine in Cina, da dove poi si diffusero in India e nel Medio Oriente e, per quanto riguarda l’Europa, le prime attestazioni risalgono alla fine del Trecento. La mostra riunisce gli unici tre mazzi di carte da gioco di produzione tardo-medievale a oggi noti: quello di Stoccarda (1430 circa), l’Ambraser Hofjagdspiel («Mazzo della caccia della corte di Ambras», 1440 circa) e le carte Cloisters (1470-1480 circa). Quest’ultimo, realizzato in un

febbraio

MEDIOEVO


In occasione del cinquecentenario della morte, la città di Hieronymus Bosch si appresta a ospitare l’evento clou delle celebrazioni in programma. Nato Hieronymus van Aken e ribattezzato Bosch proprio dal nome della località in cui era nato, ‘s-Hertogenbosch, l’artista è riconosciuto come la personalità piú complessa e singolare della pittura fiamminga. Con sottigliezze da miniatore e capacità pittorica ricca di sensibilità coloristica, dipinge quadri gremiti di figure grottesche e allucinanti, spesso mostruose, di uomini e di animali, nei quali sono rappresentati in modo simbolico antichi proverbi, episodi biblici o evangelici, atelier dei Paesi Bassi meridionali, è peraltro il solo a essere completo: comprende tutte le 52 carte, che, per la prima volta (ed eccezionalmente), vengono esposte contemporaneamente: la deperibilità del supporto cartaceo, infatti, ne impone normalmente la rotazione. L’elevata qualità delle immagini dipinte sui pezzi e l’eccellente stato di conservazione suggeriscono che, in realtà, i mazzi non fossero destinati a essere effettivamente impiegati per giocare, ma che fossero stati commissionati come oggetti da collezione. info www.metmuseum.org FIRENZE CARLO PORTELLI, PITTORE ECCENTRICO TRA ROSSO FIORENTINO E VASARI U Galleria dell’Accademia fino al 30 aprile

Della collezione permanente della Galleria dell’Accademia fa parte una monumentale pala con l’Immacolata

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Concezione di Carlo Portelli, datata 1566 e originariamente destinata alla chiesa di Ognissanti, che può, a giusto titolo, essere considerata il capolavoro dell’artista, originario di Loro Ciuffenna (Arezzo), ma formatosi a Firenze. Intorno a questa tavola, che scandalizzò lo storiografo Raffaello Borghini (1584) per l’esibizione sfacciata e irriverente delle nudità di Eva in primo piano, sono stati raccolti in una mostra tutti i dipinti ascrivibili al Portelli e, grazie a nuovi studi intrapresi per l’occasione, è stato possibile definirne una volta per tutte il ruolo nel panorama della pittura fiorentina dell’età vasariana. info tel. 055 2388612; www.polomuseale.firenze.it ‘S-HERTOGENBOSCH (PAESI BASSI) JHERONIMUS BOSCH. VISIONI DI UN GENIO U Noordbrabants Museum fino all’8 maggio (dal 13 febbraio)

testi mistici medievali, credenze astrologiche o alchimistiche. Una tematica che non può comunque essere interpretata in chiave di pura fantasia o di mero divertimento, ma che ha forse la sua radice nell’aspirazione a contribuire al rinnovamento dei costumi religiosi e a combattere la corruzione. info www.hnbm.nl BASSANO DEL GRAPPA IL MAGNIFICO GUERRIERO. BASSANO A BASSANO U Civici Musei fino al 31 gennaio 2017

Il Magnifico Guerriero di Jacopo Bassano si offre all’ammirazione del pubblico grazie al comodato gratuito accordato dal suo possessore ai Civici Musei bassanesi.

Il dipinto ritrae un affascinante nobiluomo dalla fulva, curatissima barba. Non un giovane ma un uomo maturo, certo aduso al comando, ma, soprattutto, a una vita raffinata lontano dai campi di battaglia. Indossa una preziosa corazza alla moda dell’epoca, che lo costringe, ma che non riesce a ingabbiarne la grazia e la flessibilità. Le lunghe dita, curate e perfette, non sembrano le piú adatte a menar fendenti, cosí come il suo spadino di ferro e oro sembra piú da parata che da battaglia. Secondo Vittoria Romani dell’Università di Padova, studiosa alla quale va il merito di avere ricondotto a Jacopo Bassano questo autentico capolavoro già attributo a Veronese e a Pordenone, il ritratto è databile agli anni immediatamente seguenti il 1550, ovvero al momento piú altamente manierista del maestro. info tel. 0424 519.901-904; e-mail: info@museibassano.it; www.museibassano.it

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AGENDA DEL MESE

Appuntamenti ASSISI INCONTRI CON LA STORIA U Sala convegni di Santa Caterina, NUN Assisi Relais 6-7 febbraio,

Organizzato dall’Associazione Nobilissima Parte de Sopra di Assisi, l’evento si apre sabato 6, alle 15,30, con relazioni sulla rappresentazione del Medioevo: Immagini dal Medioevo (Chiara Frugoni); Medievalismi contemporanei (Tommaso di Carpegna Falconieri); Il Medioevo assisano di Arnaldo Fortini (Nicolangelo D’Acunto); Rievocazioni del medioevo comunale (Ilaria Taddei). Domenica 7 sono quindi in programma un colloquio con Franco Cardini (ore 11,00) e lo spettacolo di poesia e musiche Lucrezia, la figlia del Papa. La beltà, la virtù, la fama onesta (Ariosto), che si svolgerà nel Palazzo del Monte Frumentario, alle 17,00. info tel. 075 812815; e-mail: info@nobilissimapartedesopra.com

APPUNTAMENTI • Medioevo in libreria, XIV Edizione: «Medioevo al femminile» U Milano – Civico Museo Archeologico di Milano, Sala Conferenze

fino al 9 aprile 2016 info tel. 02 45329840; e-mail: info@ italiamedievale.org; www.italiamedievale.org; http://medioevoinlibreria.blogspot.it

L

a nuova edizione della rassegna «Medioevo in Libreria» è dedicata al tema del «Medioevo al femminile». La formula, ormai consolidata, prevede visite guidate al mattino, proiezioni video e conferenze al pomeriggio. Le visite offrono l’occasione di scoprire le meraviglie medievali di Milano, sviluppando un percorso volto a svelare il rapporto che i Milanesi hanno avuto con la loro città e i suoi dintorni, selezionando e trattando singolarmente edifici e chiese. Ogni visita guidata ha durata compresa tra i 45 minuti e le 2 ore e gli incontri pomeridiani hanno luogo, con inizio alle 15,30 e la proiezione del filmato Viaggio nel Medioevo, presso la Sala Conferenze del Civico Museo Archeologico di Milano. Qui di seguito, l’elenco dei prossimi appuntamenti: ✓ 13 febbraio. Ore 11,00: visita guidata alla Certosa di Garegnano, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Martina Bertoletti, Università degli Studi di Milano: A legibus soluta: i reali margini d’azione nella gestione femminile del patrimonio familiare. ✓ 12 marzo. Ore 11,00: visita guidata all’Abbazia di Chiaravalle, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Beatrice Del Bo, Università degli Studi di Milano: A partire da Griselda: donne medievali nella letteratura e nella storia. ✓9 aprile. Ore 11,00: visita guidata al Castello Sforzesco, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Nadia Covini, Università degli Studi di Milano: Donne e potere alla corte degli Sforza.

APPUNTAMENTI • La Sartiglia U Oristano

7-9 febbraio info tel. 0783 303159; e-mail: info@sartiglia.info; www.sartiglia.info

A

Oristano l’ultima domenica e martedí di carnevale si corre la Sartiglia. La giostra della domenica è curata nelle sue fasi tradizionali dal Gremio (antica corporazione) dei Contadini, quella del martedí dal gremio dei Falegnami. Il giorno della Sartiglia, terminata la Vestizione de Su Componidori, capo della corsa, si forma il corteo dei cavalieri che si dirige verso la via della Cattedrale dove si svolgerà la Corsa alla Stella. Apre la corsa Su Componidori, che si cimenta in una discesa sfrenata al galoppo, cercando di cogliere la stella con una spada; sarà poi la volta di tutti quei cavalieri scelti dallo stesso. Solo a Su Componidori e ai suoi aiutanti sarà riservata una seconda discesa con su Stoccu, una lancia di legno. Con­cluse le discese, Su Componidori si porta verso la piazza Manno, da dove si lancia a gran

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galoppo riverso all’indietro sul cavallo e benedice la folla: è questa Sa Remada, massima prova di abilità. Si chiude cosí la corsa in Cattedrale, il corteo si trasferisce nella via Mazzini dove le pariglie (gruppi di 3 cavalieri) si cimenteranno in veloci e spericolate acrobazie. Apre la corsa la pariglia de Su Componidori la quale percorre a gran galoppo la strada senza particolari evoluzioni, seguono quindi tutte le pariglie, le cui partenze sono segnalate dagli squilli di tromba e dai rulli di tamburo. Finite le pariglie, chiude la corsa Su Componidori, che, al galoppo e accompagnato dai suoi aiutanti, ripercorre la strada riverso sul cavallo, benedicendo la folla con Sa Pippia de Maiu. Terminata la corsa, il corteo si diri­ge verso la sede del Gremio, dove avverrà la Svestizione. febbraio

MEDIOEVO



essere leader nel medioevo/2

L’eroe

di Renata Salvarani

fondatore


Sotto la guida di Alboino, i Longobardi entrano in Italia alla metà del VI secolo e danno vita a un regno vero e proprio. Ma perché l’artefice di un simile evento fu proprio il figlio di Audoino? La risposta risiede nel coraggio e nella nobiltà d’animo di cui il principe dette prova, uniti a un carisma certo molto forte: doti che spiegano il suo successo politico, ma non gli evitarono una fine tragica e ignominiosa

N N

el mezzo della mischia, al culmine della battaglia, quando i colpi, il fango e le urla ancora non lasciavano capire chi avrebbe avuto la meglio, due giovani si affrontarono, a cavallo, fendente su fendente: uno sbalzò l’altro a terra con la spada, gli girò e rigirò intorno e lo trafisse, dall’alto, lasciandolo, infine, immobile sull’erba di Asfeld, un campo nelle pianure ungheresi, in un mattino di un anno imprecisato alla metà del VI secolo dell’era cristiana. Erano Alboino, figlio di Audoino, re dei Longobardi, e Turismondo, figlio di Turisindio, capo dei Gepidi, che avevano voluto la guerra. Quella morte, fra tante, li atterrí: si diedero alla fuga, inseguiti dai Longobardi, che li sbaragliarono con accanimento, uccidendone quanti piú potevano e tornando poi a prendere le armi e ciò che portavano addosso.

Al posto del figlio

Quando tutto fu finito e calarono le tenebre, i vincitori prepararono un grande banchetto e i guerrieri vollero che il figlio del sovrano avesse l’onore di sedergli accanto, perché a lui dovevano il trionfo. Ma Audoino non lo permise: «Voi sapete che non è tradizione che il figlio del re mangi col padre se prima non ha ricevuto le armi dalle mani di un re straniero». Alboino allora, prendendo con sé solo quaranta uomini, andò dal re dei Gepidi Turisindio e gli espose apertamente il motivo della sua venuta e la sua richiesta. Il capo sconfitto lo ascoltò. Non rispose subito: invitò lui e gli altri a

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febbraio

tavola, insieme con i combattenti superstiti del suo popolo. Non solo. Lo fece sedere sullo scranno che era del figlio morto. Però, mentre il cibo veniva servito, non poté fare a meno di sospirare: «Mi è caro questo posto, ma la vista della persona che vi sta seduta è quanto di piú amaro possa sentire». Gli sguardi erano pesanti, carichi d’odio e di umiliazione, le parole e le mani a stento trattenute. Bastò poco, un insulto ai Longobardi, un’allusione di disprezzo per il ragazzo ucciso, perché i commensali sguainassero le spade. Turisindio, allora, con un balzo, si alzò e si mise in mezzo, minacciando di punire chi dei suoi si fosse mosso per primo. Placata la lite, ripresero il convito. Dopo che tutti si furono saziati, il vecchio re prese le armi di A destra elmo lamellare, con paraguance e nasale in metallo, da una tomba della necropoli di Niederstotzingen. Manifattura longobarda, VI sec. Stoccarda, Württembergisches Landesmuseum. Nella pagina accanto L’ingresso di Alboino a Pavia, xilografia da un dipinto di Ludovico Pogliaghi del 1890. Guidati in Italia da Alboino nel 568, i Longobardi iniziarono la conquista dell’area settentrionale, conclusasi con la presa di Pavia (Ticinum), unica città che cercò di opporsi. Il sovrano morí nel 572 a Verona vittima di una congiura.


essere leader nel medioevo/2 UN POTERE LUNGO DUE SECOLI 568-574 Provenienti dai Balcani e guidati dal re Alboino, i Longobardi entrano in Italia e prendono Vicenza, Treviso, Milano, Verona, Pavia. Sotto il suo successore, Clefi, eliminano la classe dirigente senatoria e si impadroniscono di ampie ricchezze fondiarie. 579-590 Per dieci anni senza re, i Longobardi vengono guidati dai duchi. Intanto, la conquista della Penisola fa progressi: si segnalano duchi longobardi a Spoleto e a Benevento. 590-626 Vengono prese Padova, Monselice, Cremona e Mantova; i Bizantini riconoscono lo status quo. Con Agilulfo e sua moglie Teodolinda, la monarchia longobarda assume una fisionomia cattolica. 626-653 Regno di Rotari e conquista della Liguria e del Veneto orientale (Oderzo).Editto di Rotari (643). 653-712 Abolizione dell’arianesimo (653) e fine dello scisma dei «Tre Capitoli» (698): con i re della cosiddetta «dinastia bavarese» la fisionomia cattolica della monarchia longobarda si consolida e la fusione con la popolazione romanica è pressoché completata. Con Grimoaldo, i ducati di Spoleto e Benevento sono ricondotti sotto l’autorità del re. 744-757 Con Ratchis e Astolfo, si apre il periodo «friulano» della monarchia longobarda: è conquistata Ravenna; Roma è sottoposta a tributo. Leggi di Astolfo (750) per la mobilitazione contro la minaccia franca. Vittoria dei Franchi guidati dal re Pipino (754 e 756); cessione delle ultime conquiste longobarde ai papi, alleati dei Franchi. 757-774 L’ultimo re longobardo indipendente, Desiderio, cerca di riprendere una politica aggressiva, approfittando delle difficoltà interne dei Franchi. Ma, nonostante la sua alleanza con i Bavari e con lo stesso Carlo Magno, quando il figlio di Pipino, scomparso il fratello Carlomanno, rimane unico re dei Franchi e non esita a invadere il regno longobardo, Desiderio viene sconfitto. Carlo si impadronisce del regno e assume il titolo di rex Langobardorum. Il regno longobardo continuò la sua storia all’interno della dominazione franca, che di lí a poco si trasformò in un impero. In alto illustrazione raffigurante le fortificazioni tardo-romane ricordate come Tractus Italiae circa Alpes nella Notitia Dignitatum Occidentis (un testo latino del V sec.). XV sec. Oxford, Bodleian Library.

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suo figlio Turismondo e le consegnò ad Alboino, rimandandolo in pace da suo padre. Tornato in mezzo ai suoi, raccolse l’ammirazione dei combattenti raccontando il rischio che aveva corso pur di rispettare le consuetudini della sua gente e solo alla fine poté condividere la regalità del padre. La leadership di Alboino

emerge, quindi, nello scontro, nella guerra, ma nella sua società il valore fisico non era sufficiente: andava inserito in una tradizione simbolica di trasmissione del potere.

La festa e il lutto

L’episodio fin qui rievocato è tratto dall’Historia Langobardorum di Paolo Diacono – storico longobardo che scrive ormai alla fine della parabola politica del popolo, all’indomani della sottomissione da parte dei Franchi (774) –, il quale colloca il riconoscimento del carisma di Alboino fra due banchetti, momenti di condivisione rituale del cibo, l’uno di festa e di celebrazione della vittoria, l’altro di superamento del lutto e di recupero di un’unità familiare e sociale: mangiare insieme è l’atto che lega fra loro i guerrieri, manifesta fiducia e lealtà, apre al futuro e alla ripresa della vita. Altrettanto carica di ritualità è la febbraio

MEDIOEVO


CONQUISTE E RICONQUISTE DEI LONGOBARDI Conquiste iniziali (568-590)

A destra l’assetto geopolitico dell’Italia nei duecento anni in cui venne quasi interamente controllata dai Longobardi. In basso, a sinistra le direttrici della migrazione dei Longobardi, fino al loro arrivo nell’Italia settentrionale. In basso a destra particolare di un bassorilievo raffigurante la battaglia di Pavia con guerrieri longobardi. Pavia, Musei Civici.

Aquileia

Milano

Territori contesi fra Longobardi e Bizantini

644

Brescia

Venezia

Pavia

Torino

Conquiste del VII secolo (con data) (Agilulfo 590-616; Rotari 636-652; Grimoaldo 662-671)

Conquiste al tempo di Liutprando (712-744)

502

603

Parma Genova

Bologna

643

Pisa

Conquiste al tempo di Astolfo (749-756)

Pe

Ravenna

nt

ap o

li

Firenze

Dominio bizantino nel 774

Rimini

Ducato di Spoleto

Confini attuali

Ancona Fermo 640 circa

Spoleto

605

650 circa

Roma

Ducato romano

662

Bari

Benevento Napoli Salerno

Ducato di Benevento

Potenza

Lecce

645 circa

Mare del Nord Cagliari

M

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I sec. a.C.-IV sec. d.C.

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V-VI sec.

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568

MILANO 569

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MEDIOEVO

iat dr

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essere leader nel medioevo/2 I re longobardi INIZIO REGNO

FINE REGNO

RE

NOTE

540 547

547 560

Waltari Audoino

560

572

Alboino

572

574

Clefi

574

584

584

590

Periodo dei duchi, detto dell’anarchia Autari

591

616

Agilulfo

616

626

Adaloaldo

626

636

Arioaldo

636

652

Rotari

652

653

Rodoaldo

653

661

Ariperto I

661

662

Pertarito e Godeperto

662

671

Grimoaldo

671

671

Garibaldo

671

688

Pertarito

688

700

Cuniperto

700

701

Liutperto

dal 680 Cuniperto associato al trono Ermelinda regina 688-689: usurpazione di Alachis reggenza di Ansprando

701

701

Ragimperto

Ariperto II associato al trono

701

702

Liutperto

702

712

Ariperto II

702: Rotarit antire

712

712

Ansprando

Liutperto associato al trono

712

744

Liutprando

dal 737 Ildebrando associato al trono

744

744

Ildebrando

744

749

Ratchis

749

756

Astolfo

756

757

Ratchis

trono conteso da Desiderio

756

774

Desiderio

Ansa regina dal 759 Adelchi associato al trono

Reggenza di Audoino

dal 589 Teodolinda regina Teodolinda regina dal 604 Adaloaldo associato al trono reggenza di Teodolinda Gundeperga regina 636: interregno di Gundeperga (dieci mesi) Gundeperga regina

divisione del regno in due parti con capitali Pavia e Milano

Tassia regina

Per rafforzare il potere acquisito grazie al valore militare, Alboino prese in moglie Clotsuinda, figlia del re dei Franchi Clotario 34

consegna delle armi, che materializza la subalternità e l’accettazione di un vincolo di alleanza, in un contesto di rapporti familiari e militari basato sull’onestà fra i capi, dentro un codice comune di valori. Alla morte di Audoino, di lí a poco, Alboino venne scelto con i voti di tutti gli uomini liberi perché «adatto alla guerra e valoroso in ogni azione». Fu cosí emblematicamente definita la cifra del suo comando. Eppure non bastava ancora: occorrevano un consolidamento del suo ruolo e un ampliamento delle sue capacità. Il nuovo capo allora, «poiché il suo nome era famosissimo per le forti imprese» strinse un patto nuziale con il re dei Franchi Clotario, sposandone la figlia Clotsuinda.

Donne guerriere

Quando si aprirono nuove ostilità con i Gepidi, fu in grado di allearsi con gli Avari che ne occuparono le terre, in un insieme di movimenti di popolazioni che interessava l’Europa orientale e centrale, gli spazi germanici e vaste aree a ridosso dell’arco alpino, fra scontri cruenti, saccheggi, campagne abbandonate, carestie, assedi. I Longobardi non dovevano essere numerosi: in un’occasione, secondo uno dei racconti delle origini, le donne si travestirono da uomini a ridosso del campo di battaglia usando i capelli come finte barbe; in altri casi liberarono prigionieri perché combattessero con loro in cambio della partecipazione al bottino. Non erano un gruppo etnico omogeneo e, durante i loro spostamenti, aggregavano frammenti di altri popoli o gruppi di sbandati. Il loro esercito funzionò come una sorta di magnete in movimento anche per altri popoli vicini o sottomessi. L’entità di questo processo di etnogenesi aumentò dopo le vittorie sugli Eruli, sugli Unni, sui Rugi. Dopo il successo ottenuto intorno al 550 sui Gepidi, la masfebbraio

MEDIOEVO


Gens, rex, regnum

L’importanza della stirpe Quali caratteristiche i Longobardi riconoscevano come costitutive del comando e prerogative dei re? Il popolo è stato guidato da un sovrano fin dalle sue origini, oppure si sceglieva un leader unico solo in circostanze eccezionali? Una forma di monarchia si è definita soltanto a partire da una certa epoca? Trovare risposte univoche non è facile, soprattutto perché le informazioni sulla fase precedente allo stanziamento nella Germania settentrionale sono scarsissime e perlopiú riportate da testi molto posteriori. Le fonti antiche e le parti relative alla fase germanica nelle fonti del VII e VIII secolo non dicono che in Scandinavia, prima delle grandi migrazioni verso sud, il popolo fosse comandato da un re, piuttosto si parla di principi o duchi. Soltanto nel 643 Rotari elencò i re suoi predecessori, all’interno di una evidente operazione di legittimazione del proprio potere e di quello dei suoi successori, in un quadro di presenza ormai stabilizzata a sud delle Alpi. Il primo della serie è Agilmundo, della famiglia dei Guginghi. Dall’impostazione della lista appare chiaro che nella memoria e nella concezione politica dei Longobardi, la gens ha preceduto il regnum e l’ha creato, a un certo punto della propria storia. L’Origo gentis longobardorum riprende questa visione, cosí come l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, il quale aggiunge che i Longobardi vollero darsi un re, al pari di altri popoli. Il testo riportato dal Codice Gotha, composto nei primi anni del IX secolo, racconta come scelsero Agilmundo. Quando ancora si trovavano lungo il basso corso dell’Elba, lo acclamarono perché una parte di loro decise di lasciare quella zona per risalire il fiume, verso le montagne della Boemia. Di lui non si sa quasi nulla, ma è chiaro che migrazione, guerra e leadership non erano separabili. Lo spostamento di interi gruppi familiari, affamati e decisi a stanziarsi stabilmente rendeva inevitabile lo scontro con altri popoli. Ecco quindi che Agilmundo è un re guerriero, il suo comando è prettamente militare: grazie a doti guerresche riesce a condurre la parte del popolo che inizia la storia centro-europea, poi italica e mediterranea dei Longobardi. All’inizio del V secolo venne pesantemente sconfitto dagli Unni e ucciso in battaglia. Il regno tuttavia sopravvisse, forse proprio per la difficoltà della situazione: il suo successore fu Laiamicho, un altro guerriero, che aveva ripetutamente battuto gli Unni, aprendo la strada verso la Pannonia. Nella

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febbraio

Il re Alboino in una illustrazione realizzata per l’opera The illustrated history of the world, pubblicata tra il 1880 e il 1890.

lista regale riportata da Rotari, dopo di lui, l’unico a emergere è proprio Alboino, il quale incarna le medesime caratteristiche e le mette a frutto in un’altra marcia, scandita da agguati, saccheggi e carneficine, al termine della quale si apre la terra italica in cui la gens realizzò, sia pure tra congiure, attentati e faide, il regnum piú stabile della sua secolare e travagliata storia.

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essere leader nel medioevo/2

sa dei guerrieri longobardi sotto il comando di Alboino era formata anche da Svevi, Alamanni, Sarmati, Bulgari. Era un’unità multietnica che trovava la propria coesione nella tradizione identitaria di un ceppo principale e nella forza del proprio capo, capace di federare gentes diverse e di rendere vivo un vincolo religioso, impersonato da Wotan, comune progenitore delle stirpi regali germaniche. Il potere del sovrano aveva una dimensione guerriera e un aspetto magico sacrale, ma era solo personale e poneva il popolo in balia dei suoi comportamenti e delle sue scelte. Fra queste, la piú importante per Alboino fu la decisione di mettersi alla guida di migliaia e migliaia di guerrieri, donne, bambini, intere famiglie con mandrie e carri, che lasciarono la Pannonia per stanziarsi nella Pianura Padana e lungo la Penisola. Vi sono legati la sua importanza nelle fonti e il rilievo che gli è stato attribuito nella storiografia italica, come fondatore di un’esperienza istituzionale nuova. Ma chi era questo «re», «alto di statura e conformato in tutto il suo corpo a fare la guerra»? Le notizie che ne abbiamo sono limitate e molto tarde. La piú ricca e dettagliata, la già citata Historia di Paolo Diacono, ne fa un vero e proprio protagonista,

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iniziatore di una longeva creazione istituzionale in grado di rivitalizzare le esauste sorti dell’Italia altomedievale. Per cercare di rispondere alla domanda, la sua narrazione va però riletta alla luce di altre piú antiche, a partire dagli accenni di Velleio Patercolo, il quale, nel I secolo d.C., parla di una gens longobarda.

Spostamenti a catena

Per formulare una risposta, occorre inoltre spiegare chi fossero i Longobardi che nel 568 lasciarono le pianure della Pannonia, che cosa avessero visto in lui e come cambiò il loro popolo con questa migrazione. Anche in questo caso, a un nucleo della stirpe originaria si unirono Sassoni e gruppi diversi, mentre gli Svevi, gli Unni e altri si stabilirono in quelle che erano state le loro pianure, in un domino di spostamenti forse basato su accordi e federazioni a cui non furono estranei nemmeno i Bizantini, che già nei decenni precedenti erano entrati in contatto con i Longobardi, probabilmente coinvolgendoli in scontri con altre gentes che minacciavano l’impero. Non si trattò di un’invasione militare, ma di uno spostamento di masse di persone, riunite in numerosi gruppi familiari. Ma perché tutti costoro seguirono Alboino,

scegliendolo come leader, come colui che guida e sa condurre? Quali valori propri del popolo longobardo e della sua storia plurisecolare, marcata da quella svolta, incarnava ai loro occhi? Paolo Diacono racconta che, quando giunse ai confini dell’Italia con tutto il suo esercito e con una moltitudine di gente, il re salí su un monte e da lí contemplò le terre che si estendevano piú a sud, fin dove poté estendere lo sguardo. Non fu soltanto un gesto tattico per individuare la strada migliore da seguire, ma un atto di alto valore simbolico e psicologico, che doveva dare una carica morale fortissima agli arimanni e ai guerrieri alleati, prima di affrontare scontri e insidie ancora sconosciuti. Una volta entrati nella pianura, pose il fedelissimo nipote Gisulfo a controllare Cividale, con una decisione che indicava chiaramente la volontà di stanziarsi in modo durevole. Poi evitò le città piú munite e presidiate, favorendo l’insediamento di gruppi familiari in aree diverse, lungo i fiumi, all’imbocco delle valli alpine, alle pendici degli Appennini. Quando il popolo si sedentarizzò, quali connotazioni assunse il regnum e quali caratteristiche della regalità furono impersonate da Alboino? Come cambiò la sua febbraio

MEDIOEVO


un rito di sottomissione?

«Bevi, Rosmunda...»

In alto, sulle due pagine l’Italia settentrionale cosí come fu rappresentata nella Tabula Peutingeriana, copia medievale di una mappa dell’impero romano, da un originale del III-IV sec. XII-XIII sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. A destra Alboino e Rosamunda, olio su tela di Pieter Paul Rubens. 1615 circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

leadership nei tre anni e mezzo che trascorse in Italia? Certamente mantenne come prerogativa le doti guerriere, ma Paolo Diacono tiene ad associare alla presa di Pavia un atto di misericordia del re ispirato da un sentimento cristiano, possibile elemento comune fra i nuovi arrivati e la popolazione latina.

La clemenza del vincitore

Mentre stava entrando in città dalla porta orientale di San Giovanni, il suo cavallo stramazzò a terra a metà del varco: lo incitò con gli speroni, lo picchiò con l’asta da entrambe le parti. Non ci fu niente da fare. Finché uno dei suoi guerrieri gli disse: «Ricordati quale voto hai fatto. Infrangi quel voto cosí spietato ed entrerai all’interno delle mura perché questa gente è davvero cristiana». Alboino, infatti, aveva giurato di sterminare tutti gli abitanti perché non avevano voluto arrendersi su-

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febbraio

La narrazione dell’Historia Langobardorum fa risalire la fine di Alboino a un atto di prepotenza a cui avrebbe sottoposto la seconda moglie, Rosmuda, figlia del re dei Gepidi Cunimondo, da lui sconfitto e ucciso in battaglia: avrebbe cercato di farla bere dal teschio del padre trasformato in coppa. La rabbia covata dalla donna sarebbe poi maturata nella congiura in cui fu trucidato. Ma che cosa si cela dietro quel gesto truculento? È una semplice nota pittoresca che allude alla dimensione barbarica del popolo, una velata affermazione di colpevolezza del re che avrebbe portato alla sua rovina, o altro? Paolo Diacono usa il termine scala, trascrizione dell’antico alto tedesco skala, che deriverebbe dal germanico skelo, «coppa fatta di teschio», dalla radice indogermanica skel, che sta per «tagliare», «dividere». Sente poi di dover ribadire l’autenticità del racconto e afferma di avere visto con i suoi occhi quel recipiente, ancora conservato ai suoi tempi. È segno che scrive per destinatari che stentano a concepire tali pratiche e che tenderebbero a confinarle sul piano della leggenda. Quel piano riporta, però, a un rito ancestrale simile al cannibalismo rituale, di cui si trova traccia nella descrizione degli Sciti tratteggiata dallo storico greco Erodoto: bere nel cranio del nemico ucciso aveva per loro la capacità di trasmettere la forza del defunto; il vincitore ne assimilava la vita stessa, in una piena vittoria, sul corpo e sull’anima. Per Rosmunda, quindi, accettare di bere da quel teschio non sarebbero stati soltanto una profonda umiliazione e un atto di disprezzo della memoria del padre, ma sarebbe stato un atto di piena sottomissione ad Alboino della sua persona e di ciò che restava del popolo dei Gepidi. Il fatto sarebbe avvenuto durante un banchetto, a Verona, dove si trovava anche una parte della gens di Rosmunda, che era entrata a far parte degli armati di Alboino, probabilmente dopo essere stata presa prigioniera e poi liberata grazie al patto di federazione sancito dal matrimonio. Si spiegherebbe cosí la connessione fra l’invito oltraggioso e la successiva uccisione del re, in un contesto di ribellioni e rotture di accordi di fedeltà che aprirono la difficile successione.

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essere leader nel medioevo/2 Religiosità dei Longobardi

Scelte identitarie Il ritratto di Alboino giunto fino a noi esprime alcuni tratti della religiosità dei Longobardi, la cui civiltà doveva essere pervasa da un profondo senso del sacro. Elementi della sua personalità sono riferibili alle divinità guerriere del pantheon germanico. Il coraggio in battaglia, la forza nello scontro fisico, l’abilità nell’affrontare il pericolo, che anche Paolo Diacono gli riconosce e che i Longobardi ammiravano in lui, sono virtú proprie di Thor, il dio del tuono, un rosso dalla barba fluente, e di Wotan, dio della guerra e dio viandante, armato di una lunga lancia e della capacità di vedere lontano. Ben poco sembra si possa mettere in relazione con il cristianesimo ariano che il popolo professava nella fase del suo insediamento a sud delle Alpi. Gregorio Magno (papa tra il 590 e il 604) attesta la continuità di culti pagani. Dai suoi Dialogi sappiamo che in due casi, intorno al 578, alcuni armati longobardi chiesero a gruppi di contadini presi prigionieri di offrire sacrifici a dei pagani, uno dei quali era Thor, a giudicare dalla presenza di un caprone nel rito (il dio si faceva trasportare su un carro trainato da capre). Di fronte al loro rifiuto, li uccisero; in un altro caso mozzarono loro le mani prima di inviarli a Roma, per incutere terrore al pontefice e agli abitanti della città. Che cosa doveva essere, allora, il cristianesimo longobardo? Con l’arianesimo predicato da Ulfila ai Goti nel IV secolo condivideva l’incapacità di concepire la divinità di Gesú Cristo come uguale a quella di Dio Padre, ma era molto diverso dall’eresia allora diffusa in gran parte del Mediterraneo orientale e condannata già dal concilio di Nicea, nel 325. Si trattava, piuttosto, di un insieme di credenze legate al racconto evangelico, variamente germanizzate, inculturate in un contesto complesso, dotato di un proprio importante sistema simbolico, intriso di sacralità. L’adesione al cristianesimo si esplicitava nell’esibizione di simboli (sono documentate archeologicamente croci e crocette in lamina d’oro indossate sugli abiti, rinvenute nelle sepolture) e bito. Appena promise indulgenza, subito il cavallo si rialzò e lo portò dentro, dove pacificamente si stabilí nel palazzo che – secondo il racconto – era stato di Teodorico. Nel suo caso, tuttavia, non si può parlare di una corte, né della scelta

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Qui accanto crocetta funeraria in lamina d’oro decorata con motivi zoomorfi. VII sec. Verona, Museo di Castelvecchio. Nella pagina accanto la morte di Alboino in un’incisione del XIX sec.

nell’adesione alla volontà dei leader, la cui conversione e le cui alleanze determinavano le scelte dei fideles. È difficile pensare a valutazioni di tipo teologico: è piú realistico ipotizzare decisioni religiose basate su accordi etnico-politici, tese a consolidare l’identità di gruppo. Lo stesso permanere nell’alveo dell’arianesimo può essere interpretato come un tentativo di creare un sostrato comune per accordi fra popoli diversi, minoranze gote, gruppi in movimento, in funzione antibizantina e antifranca. Anche l’arcangelo Michele, raffigurato in innumerevoli esemplari con la spada sguainata e lo sguardo irato, mascherava lo spirito guerresco dei Germani, offrendosi come una sorta di divinità di transizione fra due sensibilità e due culture profondamente diverse. Soltanto con la regina Teodolinda si ebbe il passaggio del suo popolo al cattolicesimo romano: grazie all’indirizzo di Gregorio Magno, il battesimo cattolico del figlio suo e di Agilulfo, Adaloaldo, nel 603, aprí una fase nuova, sia sul piano religioso-culturale che su quello politico.

di una sede fissa; piuttosto sembra che abbia instaurato un instabile e problematico rapporto residenziale con alcune città, individuate per la loro posizione o per la fedeltà dei duchi che vi aveva preposto. La sua stessa fine si colloca a Verona, anco-

ra una volta nel contesto di un banchetto, uno di quei raduni di guerrieri che continuavano a costituire la trama della socialità del popolo. Allegro piú del solito, Alboino era con la regina Rosmunda, la figlia del re dei Gepidi, che aveva spofebbraio

MEDIOEVO


sato dopo la morte di Clotsuinda e dopo averne sconfitto il popolo e averla presa prigioniera come bottino di guerra, con molti dei suoi. Ordinò che le fosse portato del vino nella coppa che aveva fatto ricavare nel teschio del padre di lei, il re Cunimondo (vedi box a p. 37).

Dal dolore alla vendetta

Quando se ne accorse, la donna fu colpita da un dolore profondo, che non riusciva a placare e che trasformò in un piano di vendetta. Si accordò cosí con Elmichi, scudiero di Alboino e suo fratello di latte, che la convinse a coinvolgere nel complotto Peredeo, un fedelissimo del sovrano, fisicamente molto forte. Poiché questi non voleva accettare, una notte si infilò nel letto di un’ancella con cui l’uomo aveva una relazione e, a sua insaputa, giacque con lui. Smascherandosi, all’arrivo dell’alba gli disse: «Hai commesso un’azione cosí grave che o tu ucciderai Alboino o lui metterà a morte te con la sua spada». Non ebbe scelta. Allora la donna, quando nel po-

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febbraio

meriggio il re si fu assopito, ordinò che nel palazzo si facesse un grande silenzio e, sottratta ogni altra arma, legò la sua pesante spada a capo del letto, in modo che non si potesse estrarre dal fodero. Subito dopo Elmichi fece entrare Peredeo, il quale, accecato dalla rabbia e dalla paura, iniziò a menare fendenti. Il re fece per prendere la sua arma, ma si rese conto che era impossibile. Si alzò, prese uno sgabello – l’unico oggetto che trovò – e cercò di difendersi come un leone. Fu inutile. «Un guerriero cosí valoroso, di un’audacia estrema – cosí lo piange Paolo Diacono – nulla poté contro il suo nemico, fu ucciso come un inerme e finí per l’intrigo di una sola muliercula, lui che dappertutto era conosciuto per le tante stragi compiute in guerra». La sua sepoltura, degna di un grande re germanico, fu accompagnata dai lamenti dei guerrieri e di tutto il popolo e segnò l’avvio di una crisi di leadership nel regnum, caratterizzata dal ritorno a una gestione del potere divisa fra i duchi. F

Da leggere U Jorg Jarnut, Storia dei Longobardi,

Einaudi, Torino 2002 U Claudio Azzara e Stefano Gasparri

(a cura di), Le leggi dei Longobardi, Storia memoria e diritto di un popolo germanico, Viella, Roma 2005 U Federico Marazzi, Longobardi. La vera storia di un’identità, Medioevo Dossier 4/2014 U Nicoletta Francovich Onesti, Le regine dei longobardi e altri saggi, Artemide Editrice, Roma 2013 U Elena Percivaldi (a cura di), Il Seprio nel Medioevo: Longobardi nella Lombardia settentrionale (secoli VI-XIII), Il Cerchio, Rimini 2011 U Claudio Azzara, Giuseppe Sorgi, Invasione o migrazione? I Longobardi in Italia, Nino Aragno Editore, Torino 2006

NEL PROSSIMO NUMERO ● P ietro l’Eremita, predicatore e condottiero

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civiltà comunale/4

Nasce la signoria

di Furio Cappelli

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Agli inizi del Trecento, l’Italia dei Comuni vede affievolirsi la sua connotazione «egualitaria», a vantaggio delle prime grandi dinastie signorili. Ha inizio una nuova era, di cui sono riflesso capolavori insigni dell’arte e dell’architettura febbraio

MEDIOEVO


Siena, Palazzo Pubblico, Sala dei Nove. Allegoria del Buon Governo, una delle sezioni del ciclo affrescato da Ambrogio Lorenzetti. 13381339. Sulla sinistra, siede in trono la Giustizia, mentre a destra, con le sembianze di un austero vegliardo, troneggia il Ben comune. Ai suoi fianchi siedono le quattro Virtú Cardinali, la Magnanimità e la Pace (la matrona distesa con un ramoscello di ulivo in mano); in basso, da sinistra, si schierano la Concordia, un gruppo di 24 cittadini senesi, la Lupa capitolina, due signori che cedono un castello e un gruppo di prigionieri.

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ella Cappella degli Scrovegni di Padova (130305), Giotto mette a confronto i Vizi e le Virtú. Alla Giustizia, una matrona incoronata, solennemente seduta su uno scranno di grande finezza, si oppone l’Ingiustizia, personificata da un uomo armato e dallo sguardo tetro, rinserrato entro una grotta sormontata da un camminamento merlato. Gli fa da schermo una schiera di alberi, mentre sotto di lui, in una sorta di predella, si assiste a una scena di morte e di stupro. Pace e guerra si contrappongono come negli affreschi che Ambrogio Lorenzetti eseguí per il Palazzo Pubblico di Siena (vedi, nel box, alle pp. 48-49), e Giotto stesso riprese questi temi in forma didascalica nei perduti affreschi del Palazzo del Popolo di Firenze, dove un severo Giudice, sormontato dalla Giustizia e contornato dalle quattro Virtú cardinali, indicava la retta via ai magistrati.

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E se i concetti della giustizia e della rettitudine erano inalberati con orgoglio dai governi di popolo, gli stessi additavano i governi guidati da singoli domini come fonti inesauribili di iniquità.

Una corona d’oro e di gemme

Intorno al 1313, Dante si lamentava del fatto che «le città d’Italia tutte piene / son di tiranni» (Paradiso, VI, 124-125). I governi signorili, infatti, si erano sempre piú moltiplicati e consolidati, ponendo le premesse per vere e proprie dinastie regnanti. Gli Scaligeri di Verona avevano iniziato a creare uno Stato incardinato sulla Marca trevigiana, arrivando a minacciare la stessa Firenze. Come ricorda il cronista Giovanni Villani, il feroce e risoluto Mastino II (1329-1351) era giunto a farsi confezionare una corona d’oro e di gemme pensando di poter accedere al trono

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civiltà comunale/4 Piccolo glossario comunale DOMINUS Negli anni Cinquanta e Sessanta del Duecento la sempre piú diffusa presenza di esperienze signorili porta all’utilizzo del termine dominus. La figura del signore non è formalizzata negli ordinamenti comunali, e si ricorre quindi a un semplice appellativo onorifico. TYRANNUS Secondo la definizione classica, è colui che assume il potere assoluto. Nel Medioevo italiano, il termine viene adottato nei trattati di politica, sempre piú in senso negativo, per designare colui che esercita un regime monocratico su una o piú città. In basso Arezzo, Duomo. Una delle formelle che ornano il monumento funebre del vescovo e signore di Arezzo Guido Tarlati. L’opera fu commissionata dopo la morte di quest’ultimo,

avvenuta nel 1327, agli scultori senesi Agostino di Giovanni e Agnolo di Ventura, che la realizzarono forse su disegno di Giotto e la ultimarono nel 1330. Il rilievo mostra la nomina di Guido a vescovo.

Anche Dante Alighieri osservò con rammarico che le città italiane si erano riempite di tiranni

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A destra Padova, Cappella degli Scrovegni. Affresco monocromo raffigurante l’allegoria dell’Ingiustizia, che Giotto immagina come un uomo anziano che impugna una spada e una lancia e siede su un trono schermato da una schiera di alberi, che allude a una fitta boscaglia. 1303-05. Nella pagina accanto, in alto stemma araldico di Ezzelino da Romano. Padova, Biblioteca Capitolare.

«di Toscana e di Lombardia». D’altronde, lo stesso Petrarca non aveva remore a definire «principe letterato» Luchino Visconti, signore di Milano (1339-1349), il quale appariva cosí ben degno di mantenere e di estendere la propria sovranità, come se fosse un re. Finché il fenomeno non si accentuò, la signoria non fu percepita necessariamente come negativa. Persino il concetto di tyrannus non ebbe sempre una coloritura demoniaca. Aleggiò per lungo tempo il ricordo della spietatezza di Ezzelino III da Romano (1194-1259), che incentrò il suo dominio su Verona, Vicenza e Padova, e che, come ha ipotizzato Chiara Frugoni, potrebbe

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essere proprio il «modello» dell’Ingiustizia dipinta da Giotto a Padova. Ma lo stesso committente della cappella, il ricco banchiere Enrico Scrovegni, brigò per acquisire un ruolo di dominus, e la sua cappella costituiva anche un investimento in tal senso, magnificando agli occhi della cittadinanza la sua rettitudine e dunque prospettandone l’eventuale ascesa politica nel segno della giustizia (vedi «Medioevo» n. 201, ottobre 2013). Tali aspirazioni signorili furono poi bloccate dall’avanzata dei Carraresi, ma si sarebbero potute comunque concretizzare senza sovvertimenti. (segue a p. 51)

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Firenze e Siena. Il giglio e la lupa

In alto la veduta a volo d’uccello della Firenze quattrocentesca nota come Pianta della Catena e attribuita a Francesco di Lorenzo Rosselli. 1471-1482. Firenze, Palazzo Medici-Riccardi. In basso, sulle due pagine la cattedrale fiorentina di S. Maria del Fiore.

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Firenze e Siena esistevano già in età romana, ma, in origine, erano ben poca cosa rispetto a quel che divennero al tempo della loro prodigiosa fioritura comunale. In ogni caso, la circostanza non impedí la reinvenzione in senso trionfale della nascita delle due città. Proiettandosi nel passato, e immaginando dunque di aver goduto della propria potenza e della propria floridezza sin da tempo immemorabile, Firenze si riteneva una sorta di «gemella» di Roma, tanto che, già nel XIV secolo, l’illustre battistero di S. Giovanni (1118-1150), prima compiuta emanazione della rinascita cittadina, veniva presentato

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come il tempio di Marte dell’antica Florentia, adattato al culto cristiano in tempi remoti. La riproposizione di tecniche e di modelli formali antichi, tesa persino a imitare l’impaginazione interna del Pantheon, finiva cosí per trasformare la chiesa battesimale dei Fiorentini in una prodigiosa reliquia del mondo romano. Dal canto suo, Siena si riteneva fondata da Aschio e Senio, figli fuggiaschi di Remo. Avendo rubato allo zio fratricida una statua marmorea della Lupa capitolina, i due mitici fondatori fecero dell’animale stesso un simbolo della città e della sua tradizione repubblicana.

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Anche l’espansione demografica e la cura nella pianificazione urbanistica connotano e accomunano le immagini delle due città toscane. Simile, infatti, è l’intensità con cui aumentano gli spazi edificati intorno al nucleo storico principale, e simile è lo sviluppo organico e razionale attuato dalle autorità cittadine nei riguardi degli spazi pubblici e degli edifici di rappresentanza, comprese le rispettive cattedrali, nelle cui Opere – gli enti preposti alla loro amministrazione –, figurava un’ampia schiera di rappresentanti delle Arti.

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Nella pagina accanto, a sinistra Firenze. Il Campanile di Giotto, la cui costruzione fu avviata dal pittore nel 1334. Nella pagina accanto, in basso due delle formelle che decoravano il Campanile di Giotto raffiguranti l’Arte della medicina (in alto) e l’Arte dell’architettura. In basso Firenze. Il Palazzo Vecchio (o della Signoria), già dei Priori, eretto tra il 1299 e il 1310, forse su progetto di Arnolfo di Cambio.

Quando realizza la cinta muraria tradizionalmente legata al nome di Arnolfo di Cambio – lo scultore-architetto oriundo del territorio senese che tanta parte ha avuto nel momento nodale dello sviluppo della città-stato –, Firenze ha quasi quadruplicato il numero degli abitanti rispetto all’epoca in cui il battistero era stato ultimato. La cinta innalzata tra il 1172 e il 1175 circoscriveva infatti un impianto di 80 ettari, a beneficio di una popolazione di 25 000 abitanti. La nuova cerchia, realizzata tra il 1284 e il 1333, racchiude 100 000 abitanti su una superficie di 430 ettari. Nella nuova realtà molti interventi rettificano, amplificano e abbelliscono lo scenario urbano. Per quel che concerne l’assetto viario, basti ricordare che si moltiplicano i ponti sull’Arno (nel 1252 se ne contano quattro), quando per secoli era bastato il solo Ponte Vecchio. Dopo l’edificazione del Palazzo del Capitano del Popolo (il Bargello), si pone mano al Palazzo dei Priori (oggi Palazzo Vecchio o della Signoria) forse su progetto dello stesso Arnolfo. Eretto tra il 1299 e il 1310, esso si presenta con una mole compatta, come

un fortilizio, esaltato dalle mura bugnate e dalla merlatura sommitale, in linea con una tipologia di palazzo civico di ampia fortuna in Italia centrale, e ben differenziata per questo aspetto severo e ferrigno rispetto ai broletti padani (vedi «Medioevo» n. 227, dicembre 2015). L’ampio coronamento sporgente e la svettante torre asimmetrica, che danno movimento all’insieme, stemperano l’effetto militaresco, mentre la rigorosa impaginazione delle facciate fa dell’edificio un modello di riferimento per gli sviluppi dell’architettura locale, anche in pieno Rinascimento. Nel vicino ma ben distinto polo episcopale, in luogo della cattedrale romanica di S. Reparata, Arnolfo intraprende nel 1294, proprio su incarico del Comune, la grande S. Maria del Fiore. Il titolo della nuova cattedrale allude alla purezza della Vergine, tante volte espressa in pittura da un giglio che Maria tiene in mano al momento dell’annunciazione della nascita di Cristo. Ma quel giglio allude anche alla città stessa di Firenze, e ne è infatti il simbolo, come si osserva nei celebri fiorini d’oro, visto che proprio da un fiore (flos) avrebbe tratto origine il nome della città (Florentia). Il campanile di Giotto, al quale il pittore mise mano nel 1334 e di cui diresse il cantiere fino alla morte, portando a compimento la fascia basamentale, fu poi affidato nel 1337 ad Andrea Pisano, e lo stesso orafo-scultore – che aveva realizzato la piú antica delle porte bronzee del battistero, insieme a suo figlio Nino e ad altri collaboratori – è l’artefice del vasto corredo scultoreo che impreziosiva la base della torre (oggi trasferito nel rinnovato Museo dell’Opera del Duomo e sostituito in situ da copie per ragioni di conservazione; vedi «Medioevo» n. 228, gennaio 2016). L’ampio complesso di immagini, intrapreso quando Giotto era ancora in vita, rende efficacemente lo spirito e la cultura della Firenze «repubblicana» del suo pieno apogeo: le formelle istoriate del campanile compongono una compiuta celebrazione delle attività dell’uomo, in piena consonanza con l’orgoglio e con

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il protagonismo di tutti coloro che si impegnavano a perpetuare e a rafforzare la potenza della città, dal fabbro all’architetto. Le attività che danno vigore e ragion d’essere a tutta la rappresentazione sono concentrate nelle 21 formelle esagonali della fascia inferiore (escluse le 5 aggiunte da Luca della Robbia). Secondo la gerarchia consueta, lí si presentano, talvolta personificati dai rispettivi inventori mitici, i mestieri piú umili (la pastorizia, le arti «meccaniche», come la medicina, l’agricoltura, la lavorazione dalla lana), ma vi sono anche significative interferenze con gli ambiti piú elevati della Virtus (la legislazione e la giustizia) e delle arti liberali, cosí chiamate per essere distinte dalle servili (compaiono infatti la musica e l’astronomia, due delle arti speculative del Quadrivio).

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Il ciclo prende avvio dal racconto della Creazione e, sin dalle prime battute, inserisce quindi il lavoro in una rigorosa cornice biblica, ma lo fa in modo particolare. Adamo ed Eva vengono evocati mentre si dedicano alle loro fatiche, senza che emerga un senso di vergogna o di patimento. Non c’è una scena che rievochi la cacciata dal Paradiso terrestre e, di conseguenza, i due progenitori sono intenti al lavoro dei campi in tutta naturalezza. Non stanno scontando una pena, ma svolgono semplicemente un compito assegnato da Dio. Senza nulla togliere al dettato biblico, il lavoro perde cosí l’accezione del castigo e, come ha evidenziato Chiara Frugoni, si presenta come il mezzo piú idoneo per acquisire meriti agli occhi del Creatore. Naturalmente, le attività piú umili devono essere sottoposte alla guida e all’insegnamento forniti dalle sette Virtú, dai sette Pianeti, dalle sette Arti liberali e dai sette Sacramenti, puntualmente evocati sulla seconda fascia del ciclo. E ogni espressione dell’uomo può essere cosí ricondotta nel dettato dei profeti e dei massimi sapienti dell’antichità: le loro 16 statue dovevano coronare l’opera nelle nicchie dell’ultima fascia (solo otto statue furono eseguite nel XIV secolo). Ma resta evidente che, nei limiti di un ciclo figurato in un contesto religioso, il concetto stesso della salvezza viene rivisto in chiave laica e profondamente radicato nella realtà palpitante della vita urbana. Lo stile stesso dei rilievi trasforma elegantemente figure e momenti della vita quotidiana, e li nobilita in onore di un dinamico e multiforme mondo cittadino, dove ogni mestiere, al di là di ogni visione gerarchica, ha la sua importanza e la sua funzione. Le arti liberali possono sovrintendere dall’alto, come le virtú, ma l’atto concreto del ben operare acquisisce un ruolo di primo piano, accomunando artisti, medici, fabbri, contadini e pastori (anch’essi protagonisti della vita urbana, come fornitori di viveri e di materie prime).

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Passando a Siena, i fenomeni e le atmosfere che abbiamo evidenziato a Firenze trovano puntuali riscontri, anche se di ordine e di «accento» diversi. C’è un boom demografico con conseguente espansione urbana, che porta la città a totalizzare 52 000 abitanti nei primi decenni del XIV secolo, quando cento anni prima se ne potevano contare all’incirca 10 000. Un grande piano urbanistico rivoluziona il fulcro simbolico e funzionale dell’agglomerato urbano. Nella seconda metà del Duecento inizia infatti a configurarsi la piazza del Campo, con la sua caratteristica forma a conchiglia e il suo andamento digradante. È lo scenario su cui campeggia il Palazzo Pubblico (iniziato nel 1298), affiancato dalla Torre del Mangia. È lo spazio deputato alle assemblee e ai riti della cittadinanza, come il celeberrimo Palio, disputato in onore della Vergine, eletta a patrona della città dopo la vittoria di Montaperti (1260). Il palazzo segna lo «steccato» che distingue la piazza di rappresentanza da quella retrostante del mercato e, nell’uso del laterizio sull’elevato, come nel ricorso alle arcate di pianterreno o nell’evidenza degli elementi decorativi, offre una variante piú aperta e piú «lieve» rispetto all’interpretazione fiorentina dell’edificio fortificato. Sempre in tema di riscontri, è inevitabile ricordare il grande impegno profuso nella ricostruzione della cattedrale, a partire dal cantiere guidato da Giovanni Pisano, fino al fallito tentativo di trasformare il nuovo edificio nel transetto di una cattedrale ancora piú grande. Ma è bene tornare al Palazzo Pubblico, perché le sale del suo piano nobile custodiscono un corpus di affreschi medievali perfettamente connessi alle vicende e agli ideali della Siena del primo Trecento. Nella sala del consiglio, la Maestà di Simone Martini, realizzata nel 1317 e rielaborata nel 1321 dallo stesso pittore, fa da pendant all’altra famosa Maestà, su tavola, eseguita da Duccio per la cattedrale (1308-11) e concepita come

Disegno a volo d’uccello della piazza del Campo, uno dei luoghi simbolo della città di Siena, dominata dal Palazzo Pubblico e dalla Torre del Mangia.

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Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Consiglio. Maestà, affresco di Simone Martini. 1317-21.

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stendardo trionfale in onore della Vergine, da sfoggiare nelle solenni processioni. Manifesto eloquente di religiosità civica, l’affresco di Simone allude già alla simbologia comunale con il suo soggetto centrale, la Madonna in trono col Bambino. La frangia del baldacchino è adorna dello stemma senese (la balzana) oltreché di leoni rampanti, emblema del Popolo. E l’epigrafe basamentale, con i moniti rivolti ai funzionari, rende ancor piú eloquente la rappresentazione: vi troviamo espresse, infatti, la condanna di chi persegue interessi privati, recando cosí offesa alla stessa Vergine prima ancora che alla città, e l’ammonizione a proteggere i piú deboli contro la prevaricazione dei potenti. Occorre però accedere alla contigua Sala dei Nove, cosí chiamata in memoria dei magistrati che ressero il Comune popolare tra il 1287 e il 1355, per ammirare il ciclo affrescato (1338-39) che è il piú compiuto manifesto della Siena «repubblicana». Il suo artefice, Ambrogio Lorenzetti, offre in prima battuta lo scenario apocalittico di una Siena che, insieme al suo contado, si è trasformata in una Babilonia biblica, in cui tutto è desolazione,

prevaricazione, miseria e terrore. Un essere infernale campeggia sul trono, ed è la Tirannide. Nella parete contigua, all’inizio del ciclo, le si contrappone una rappresentazione di tutt’altro tono, nella quale un gruppo di 24 cittadini (in allusione al piú antico collegio che guidava il Comune popolare, composto appunto da 24 membri), si tengono a una corda che proviene dalla Giustizia ed è tesa tra la Concordia (da cum chorda, secondo una falsa etimologia allora in voga) e il Ben comune. Quest’ultimo troneggia in forma di solenne vegliardo ed esibisce l’emblema del Comune con la Maestà della Vergine. Nella parete opposta all’infernale evocazione della tirannide, si svolge poi la meticolosa e gioiosa evocazione di una Siena che, anche in questo caso con tutto il suo contado, è sotto il segno della pace. Pace e guerra, entrambe personificate di fianco ai rispettivi signori, sono appunto i temi del ciclo, e la stessa sala era in origine intitolata alla Pace. Secondo una consuetudine entrata nell’uso nel Settecento, i dipinti sono noti come Allegorie ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo, e una tale intitolazione rende bene la forza didascalica delle immagini. Efficacissima, in particolare, è la contrapposizione tra uno Stato retto da una sola persona (il tiranno) e un regime popolare, fondato sulla collegialità. La tirannia determina la crudeltà, il «popolo» è invece nel segno della prosperità. Da un lato c’è l’angoscia, dall’altro l’armonia. Il ricorso all’utopia nella visione ridente di Siena non lascia però inespressa una verità incancellabile. Il Ben comune è affiancato da schiere di armigeri, la Sicurezza vola in cielo esibendo un impiccato, la Pace, mollemente adagiata, esibisce un ramo d’ulivo che evoca una tregua. Ai piedi del vegliardo, due nobili signori sono ritratti nell’atto di cedere un castello, e un gruppo di prigionieri legati da una corda fa da pendant ai 24 cittadini. Come dire che l’armonia, per essere conquistata e difesa, esige la violenza. L’operosità del contadino e l’abilità dell’artigiano non bastano.

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Siena, Palazzo Pubblico, Sala dei Nove. Effetti del Cattivo Governo (particolare), una delle sezioni del ciclo affrescato da Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. Due armigeri traggono in arresto una donna.

Da leggere U Daniel Waley, Le città-repubblica dell’Italia medievale,

Einaudi, Torino 1980 U Chiara Frugoni, Una lontana città. Sentimenti

e immagini del Medioevo, Einaudi, Torino 1983 U Paolo Cammarosano, Siena, Centro Italiano di Studi

sull’Alto Medioevo, Spoleto 2009 U Andrea Zorzi, Le signorie cittadine in Italia

(secoli XIII-XV), Bruno Mondadori, Milano 2010

La lenta e progressiva fortuna degli Scaligeri, avviata dopo la morte di Ezzelino, fu d’altronde garantita nel pieno rispetto degli ordinamenti comunali, attraverso la cooptazione dei membri della famiglia nelle magistrature cittadine, e con il sostegno determinante del ceto mercantile. L’ascesa dei Visconti, d’altronde, si basa sulla presa di potere dell’arcivescovo Ottone

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(1277), eternata negli affreschi della rocca di Angera (vedi «Medioevo» n. 216, gennaio 2015). Egli pacificò la città di Milano, insofferente nei riguardi della signoria di Napoleone della Torre, che aveva perso l’appoggio dei nobili e del popolo stesso, gravato da un regime fiscale sempre piú vessatorio. Un altro vescovo-signore, Guido Tarlati di Arezzo (1321-1327), ha poi lasciato nel suo monumento funebre il manifesto stesso della propria azione di governo. Di fronte a un Comune depredato dagli interessi dei singoli, egli si adoperò per ristabilire la giustizia. Personificato da un vegliardo che veniva «pelato» sotto l’azione dei malvagi, quel Comune venne cosí affiancato da questo integerrimo uomo di Chiesa, il quale non esitò a ricorrere alla pena capitale contro chiunque avesse attentato al bene comune. F

NEL PROSSIMO NUMERO ● La piazza, il palazzo, la cattedrale

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L’uomo dei

di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci

cembali Un inventario conservato nell’Archivio di Stato di Firenze si rivela una preziosa fonte di notizie sulle attività di artisti e artigiani attivi nel territorio toscano. È il caso di Giuliano di Piero da Pistoia, che la morte precoce strappò a una maggiore e meritata notorietà

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in dal 1388, i minori orfani di Firenze e del territorio governato erano tutelati da una magistratura, denominata nel 1393 Ufficiali dei Pupilli et Adulti: fra i suoi compiti, l’inventariazione dei beni mobili e immobili dei defunti, cosí da garantirne la salvaguardia e il corretto utilizzo a favore degli aventi titolo, anche attraverso la nomina di un curatore estraneo all’Ufficio che, in cambio di specifico salario, si curava sia degli eventuali minori che del patrimonio, rendicontando annualmente agli Ufficiali. Riformata da Cosimo I de’ Medici nel 1565 e soppressa dal governo napoleonico nel 1808, la magistratura produsse, in oltre quattro secoli di attività, un numero considerevole di documenti, conservati oggi presso l’Archivio di Stato di Firenze nel Fondo Pupilli avanti il Principato: la loro lettura restituisce storie di vissuto familiare e ambienti di abitazione e bottega, chiaramente descritti sia dal punto di vista architettonico che per quanto riguarda suppellettili, vestiario, ornamenti e strumenti di lavoro. Parte da questo numero una serie di puntate dedicate alle attività delle botteghe toscane del Quattrocento attraverso gli inventari ritrovati nella documentazione dei Pupilli.

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In alto miniatura che ritrae un pittore al lavoro nella sua bottega, da un’edizione del De sphaera mundi. 1470. Modena, Biblioteca Estense Universitaria. A destra il gioco del civettino, particolare del recto di un desco da parto di Giovanni di ser Giovanni, detto lo Scheggia. 1450 circa. Firenze, Museo di Palazzo Davanzati. febbraio

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el giugno del 1474, quando il pittore pistoiese Giuliano di Piero muore appena ventiseienne, lascia due figlioletti, Piero di 7 anni e Marietta di 2. La tenera età e la rinunzia della madre alla loro tutela rendono necessario l’intervento dei Magistrati dei Pupilli (vedi box in basso), che esauriscono la pratica fra il luglio e il settembre successivi. Il 16 luglio si recano presso l’abitazione del defunto e vi redigono l’inventario delle masserizie domestiche e personali appartenenti alla famiglia e degli utensili rimasti nella bottega al piano terreno, in cui Giuliano lavorava come dipintore: libri mastri, attrezzi e materie prime, prodotti finiti e lavorazioni in corso vengono accuratamente elencati. Si tratta di un documento eccezionale, se si considera la penuria di analoghi riscontri sui pittori, sia nel Fondo dei Pupilli – di cui è l’unico caso riscontrato nel XV secolo (filza n. 173, cc.345-346) –, sia tra i documenti toscani in genere, anche di altra fonte. La triste procedura burocratica di

La Magistratura dei Pupilli

La rinuncia delle vedove alla tutela dei figli Nel caso di Giuliano di Piero da Pistoia, l’intervento della Magistratura dei Pupilli segue un iter di tre mesi: il 17 giugno 1474 viene data lettura del testamento che dispone, fra l’altro, l’affidamento dei figli alla nonna paterna Tita e la rinuncia della vedova del pittore, monna Nanna, alla legittima custodia dei bambini, caso non infrequente nel XV secolo: le vedove erano considerate fuori da qualsiasi gruppo parentale e spesso i loro congiunti, preoccupati dell’onore della famiglia soprattutto nel caso di giovane età delle donne, le riportavano nel nucleo di origine, appena conclusa la cerimonia funebre del coniuge. Un costume generato anche dal desiderio di recuperarne la dote per eventuali nuove nozze che la permanenza nella casa maritale non avrebbe permesso. Rimanevano insieme ai figli quando i parenti lo

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concedevano, ma in caso di Didascalia nuovo matrimonio perdevano adi odis riconosciuta ogni diritto sulla prole.aliquatur La consanguineità vero ent quil’obiettivo di era quella lungo la lineaque paterna, con doloreium conectu salvaguardare le sostanze familiari insieme alla preminenza rehendebis eatur in rami secondari e del casato, che cosí non si disperdeva tendamusam affini. Il compito della donna era di garantire la discendenza per trasmettere al futuroconsent, nome eperspiti patrimonio. conseque nis Le volontà scritte da Giuliano confermano la maxim eaquis consuetudine di escludere la madre dalla potestà cones incaricano della sui figli: il 28 giugnoearuntia gli Ufficiali apienda. custodia la nonna, che, secondo prassi, fornisce il nome del fideiussore per la verifica e la restituzione dei debiti insoluti, contratti dal pittore durante la sua attività, condizione essenziale per l’affidamento della curatela. Contestualmente gli Ufficiali rilasciano la dichiarazione obbligatoria febbraio

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Il desco dei discoli A sinistra particolare del verso del desco da parto dello Scheggia (vedi alle pp. 52-53) raffigurante una lotta impudica fra due bambini, da intendere come auspicio di fertilità. 1450 circa. Firenze, Museo di Palazzo Davanzati. I deschi da parto erano vassoi in legno, dipinti su entrambi i lati con scene di vario soggetto e utilizzati per recare alle puerpere il primo pasto rinvigorente dopo le fatiche del travaglio.

cui i due bambini furono protagonisti, riporta alla luce e riscatta la memoria, altrimenti ignota, di Giuliano, della famiglia e del suo lavoro: il Pistoiese, infatti, non risulta fra gli artisti noti del Quattrocento, destinatari di importanti committenze pubbliche e private. Egli si colloca tra gli artefici occupati a soddisfare la forte domanda, nata alla metà del XV secolo, di manufatti decorativi per uso quotidiano, quali immagini devozionali da camera, suppellettili, ceri colorati per l’illuminazione domestica: oggetti che, attraverso una ricerca di bellezza, donavano prestigio al possessore e richiedevano all’artista non solo abilità e inventiva, ma anche intuizione nella scelta di materiali e procedimenti di buona qualità e di costi controllati, cosí da renderli accessibili anche ai

ceti meno abbienti, come nel caso, per esempio, di pitture su carta oppure di figure a tutto tondo in gesso o cartapesta. La decisione di coprire questo settore del mercato non era dovuta a scarsità di competenze artistiche: alcune delle botteghe che vi si dedicavano erano coinvolte, parallelamente, in opere monumentali. Erano il mercato e la forte richiesta a portare gli artisti in tale direzione, senza una gerarchia fra generi di prodotti o tecniche.

Il fratello di Masaccio

Per assecondare tale spinta, a Firenze, nel corso del XV secolo, vennero avviate numerose botteghe specializzate: possiamo ricordare quella dello Scheggia, fratello di Masaccio, pittore di spicco in città già dalla prima metà del Quattrocento, che

riceveva commissioni da famiglie come i Medici, affascinate dalla produzione di cassoni, forzieri, spalliere, deschi da parto e lettucci, dipinti con scene dettagliate, dai colori preziosi e sgargianti. La convivenza di una committenza illustre con un pubblico piú vasto e dalle esigenze meno sofisticate è ipotizzabile anche per Pistoia, la città di Giuliano di Piero. Questi doveva essere un artista limitato dal suo stesso ambiente ma, dall’esame degli oggetti citati nell’inventario di bottega, può comunque affiancarsi nel genere a quelle piú note, connotandosi prevalentemente per la decorazione di contenitori a uso casalingo, di strumenti musicali e, probabilmente, anche di mobili. La scelta produttiva del Pistoiese potrebbe essere stata dettata dalla situazione artistica locale, che lo portò a individuare una nicchia di mercato nella quale inserirsi, sia pure con ramificazioni diverse: da una parte si preoccupava di soddisfare l’ambizione dei suoi contemporanei verso oggetti di qualità destinati alla casa, dall’altra si rivolgeva agli allestimenti di feste private, matrimoni o celebrazioni pubbliche, religiose e

Particolare di una pagina miniata degli Statuti del Magistrato dei Pupilli. 1503-04. Firenze, Archivio di Stato.

riguardante la sanità mentale dei bambini e, infine, il 16 luglio, redigono l’inventario di beni mobili e immobili appartenenti al defunto. Dal 24 settembre successivo la

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curatrice monna Tita inizia a percepire il salario per la tutela dei nipoti, dei quali si perderà ogni traccia successiva almeno nella documentazione pupillare.

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gente di bottega/1 profane ad alta partecipazione popolare come il carnevale, fornendo gli strumenti musicali decorati per l’occasione e utilizzabili facilmente da adulti e bambini. Attività a prima vista scarsamente remunerative, ma nelle quali Giuliano aveva, forse, intravisto una possibile crescita nel tempo. La sua bottega era situata, come spesso avveniva, sotto l’abitazione, in una zona periferica della città – il quartiere di S. Marco, vicino alla chiesa parrocchiale di S. Leonardo – nel quale si raggruppavano le manifatture delle arti minori, in grado di rispondere alle esigenze primarie di una clientela eterogenea. Non molto grande all’apparenza, la bottega è composta da un solo locale, senza i palchi utilizzati come magazzino per materie prime o prodotti finiti in attesa della vendita. Sembra piú un fondo adibito a semplice laboratorio, senza aperture sulla strada – di cui peraltro l’inventario non fa menzione – piuttosto che destinato al commercio al dettaglio: il tipico opificio per produzioni su commissione.

La cassetta dei colori

L’inventario del locale inizia con la descrizione dei pochi mobili d’arredo: un paio di piani da lavoro e uno scrittoio, corredati da un armadio e da palchetti per appoggiare arnesi e prodotti, a cui si aggiungono cofani, cassettine e cassoni da chiudere a chiave, per riporre denaro e documenti di bottega. È l’arredamento base di tutti i laboratori artigiani, qualificato da una piú specifica cas(s)etta da tenere colori, chon penelli et vaselli et alttri. All’attrezzatura fa seguito la lista dei lavori terminati o lasciati parzialmente

incompiuti da Giuliano, iniziando dalle numerosissime scatole di dimensioni e forme diverse, tonde oppure ovali, in legno o carta impastata, ovvero, di cartapesta. Sono circa 460 i contenitori di questo materiale e le due forme di rame con disegni

da 2 lati servivano presumibilmente nella fase di decorazione esterna a pastiglia (vedi box a p. 57). Nulla esclude che il pittore si dedicasse a decorare anche i mobili con la stessa tecnica: dalla descrizione fattane dagli Ufficiali dei

Qui sopra cassone nuziale con decorazioni a doratura e pastiglia. Manifattura toscana, 1450 circa. Firenze, Museo Bardini.

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A sinistra Firenze, S. Maria Novella, Cappellone degli Spagnoli. Danza delle donzelle nel giardino d’amore, particolare di un affresco di Andrea di Buonaiuto. 1365 circa. La prima delle ragazze, a destra, batte il ritmo suonando un cembalo. In basso cofanetto in pastiglia con storie di Muzio Scevola e Marco Curzio. XV sec. Firenze, Museo di Palazzo Davanzati.

cartapesta e pastiglia

Materie prime umili, ma straordinariamente versatili Per ottenere la cartapesta si fanno macerare a lungo nell’acqua i frammenti di carta, rimestandoli, pestandoli e riducendoli in una poltiglia omogenea. Al fine di renderla resistente, si aggiunge colla animale (o pasta d’amido) e si procede a modellare l’impasto direttamente con le mani, applicandolo sopra armature, oppure colandolo dentro stampi di legno o argilla. Al termine dell’asciugatura, la cartapesta acquista la durezza del legno, e come tale può essere decorata, passando sulla superficie una mano di gesso quale imprimitura per il colore, la doratura, o per l’applicazione di figure in rilievo realizzate a pastiglia. La tecnica della pastiglia consiste nell’introdurre una pasta fluida, composta da gesso e colle animali, dentro forme figurate, cosí da ottenere, una volta seccata, ornamenti modellati da applicare sull’esterno di scatole o mobili, anche piuttosto grandi come cassoni o cassapanche. Per dipingere i manufatti cosí ottenuti, Giuliano di Piero possedeva, come tutti i pittori, una pietra da

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macinare colori per stritolare e ridurre in polvere fine le terre e i minerali coloranti, ruotandola con le mani sopra una lastra di marmo e trasformandone le polveri ricavate in pasta con l’aggiunta di un legante come la gomma arabica.

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gente di bottega/1 L’Arte dei Medici e Speziali

Un’iscrizione solo rimandata?

Al momento della morte, Giuliano non risulta iscritto all’Arte dei Medici e Speziali di Firenze, alla quale afferivano i pittori sia della città che del contado, né il suo nome appare nel Registro dei Morti della corporazione. Vero è che potevano immatricolarsi solo pittori con la qualifica di Maestro – chi aveva già svolto il lungo apprendistato obbligatorio presso una bottega autorizzata, la cui durata oscillava fra i tre e i sei anni – e che, al termine, molti artisti potevano non disporre ancora dei mezzi economici necessari a sostenere la spesa dell’immatricolazione e delle gabelle che l’Arte imponeva ai propri membri. Nel 1349 ai cittadini erano richieste 10 lire e ai comitatini 10 soldi, a cui si dovevano aggiungere 2 soldi per l’atto di giuramento e la malleveria relativa, 3 soldi per l’iscrizione nel Libro delle Matricole, 5 soldi per rendere pubblica l’iscrizione, 4 fiorini per esercitare il mestiere in città – che diventavano 8 per i forestieri –, mentre per esercitare nel contado ne erano sufficienti 2. La riforma statutaria del 1404, valida fino al 1444, alzò ulteriormente il prezzo della vita associativa e, vista la sua giovane età, è possibile che Giuliano, sebbene fosse in regola con l’apprendistato, avesse procrastinato l’iscrizione all’Arte fino al raggiungimento di una certa continuità lavorativa e di una conseguente regolarità d’introiti.

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A sinistra, in alto Firenze, Palazzo del Tribunale di Mercanzia. Stemma dell’Arte dei Medici e Speziali, la corporazione alla quale, pur essendo pittore, non era iscritto Giuliano di Piero.

Pupilli non emerge con chiarezza se gli arredi elencati in bottega venissero tutti utilizzati, oppure se alcuni – per esempio un cassone definito nuovo – attendessero di essere decorati da Giuliano. Eventualmente, la mancanza di strumenti di falegnameria nel locale induce a ritenere che un altro artigiano si occupasse della realizzazione del mobilio, passandolo a Giuliano al momento della rifinitufebbraio

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fasi della lavorazione del mobilio e a chi spettasse la vendita del manufatto finale.

Pelli e piattini

Particolare di un desco da parto raffigurante il trionfo di Venere, circondata da sei amanti leggendari (Achille, Tristano, Lancillotto, Sansone, Paride e Troilo). XV sec. Parigi, Museo del Louvre.

ra decorativa. Recenti studi hanno messo in luce la frequenza degli spostamenti di manufatti da una bottega all’altra, come una consuetudine professionale dell’epoca: in molte città, per esempio a Venezia, dalla metà del XV secolo alla metà del successivo, furono emanati piú volte regolamenti atti a porre fine alle dispute sorte fra artefici diversi, non sempre d’accordo su chi dovesse subentrare nelle varie

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Gli strumenti musicali, rilevati in quantità nella bottega di Giuliano, sono percussioni da suonare con le mani: tamburi e cembali di varie dimensioni, costituiti da un cilindro di legno di altezza diversa per le due tipologie di strumento, con pelli animali tirate su uno o entrambi i lati e, per quanto riguarda i cembali, con l’aggiunta sul dorso di piattini di metallo da agitare e far suonare, le cosiddette cembanelle, di cui in bottega sono rimasti 322 esemplari. Venivano utilizzati per dare ritmo a danze e canti popolari, soprattutto all’aperto: in alcuni affreschi del XIV secolo sono raffigurati gruppi di fanciulle che si muovono suonando un cembalo, come, per esempio, nella scena della Danza delle donzelle nel giardino d’amore, dipinta da Andrea di Buonaiuto nel Cappellone degli Spagnoli in S. Maria Novella. A conclusione dell’elenco di oggetti rilevati nella bottega, gli Ufficiali dei Pupilli indicano cinque libri di debitori e creditori del pittore, la cui tenuta era obbligatoria per ogni artigiano, nei quali era segnato il bilancio dell’attività. Uno dei volumi è intitolato a una compagnia formata da Giuliano e Francesco di ser Iacopo Lami, il cui ruolo nella bottega rimane sconosciuto, come ignote restano la committenza e le fortune dell’attività artistica di Giuliano. F

Da leggere U Barbara Conti, Emanuela

Porta Casucci, «E piú feramenti appartenenti a detta arte». La bottega di Giuliano di Piero, pittore pistoiese del XV secolo, Bullettino Storico Pistoiese, CXIV, 3-XLVII (2012); pp. 89-136 U Cristina Acidini Luchinat, Mina Gregori, Antonio Paolucci (a cura di),

Maestri e botteghe. Pittura a Firenze alla fine del Quattrocento, Silvana Editoriale, Milano 1992 U David Herlihy, Pistoia nel Medioevo e nel Rinascimento: 1200-1430, Olschki, Firenze 1972 U Christiane Klapisch-Zuber, La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Laterza, Roma-Bari 1995

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ÂŤAl lavoro, sorelle...Âť di Maria Paola Zanoboni

GiĂ luoghi di preghiera e meditazione, i conventi femminili divennero nel Medioevo opifici attivi e apprezzati: dalle abili mani delle religiose presero forma sete ricamate, volumi riccamente miniati, medicamenti e perfino... vermicelli e altri tipi di pasta dalle forme fantasiose

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e attività manifatturiere hanno avuto una lunga tradizione nei conventi femminili: già nel IX secolo almeno tre istituti religiosi fiorentini realizzavano tessuti destinati alla vendita. Quello di S. Andrea, per esempio, doveva aver raggiunto uno standard qualitativo notevole, dal momento che aveva l’incombenza di fornire ogni anno un vestito di lana di capra alla curia regia (e in seguito al vescovo) di Firenze, mentre in quello di Orsanmichele è documentata l’esistenza di un laboratorium con un organico di 6 monache e 12 fantesche, impiegate nella produzione dei tessuti di lana e di lino commissionati dal cenobio maschile di Nonantola, che forniva alle religiose fiorentine la materia prima. Evi-

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Tre suore che cuciono nella loggia di un chiostro, olio su tela di Raffaello Sorbi. 1872 circa. Collezione privata.

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costume e società dentemente, la loro abilità era considerata superiore a quella della manodopera disponibile nei pressi del convento modenese. Nel XIV e XV secolo, le monache erano obbligate a ingegnarsi in molteplici attività, per fare fronte alla manutenzione dei conventi e al proprio sostentamento. Le piú diffuse (e documentate) riguardavano il settore tessile (lana, seta, cucito, ricami, merletti), ma non mancavano la preparazione dei farmaci, la confezione della pasta (vedi box a p. 69), la copiatura dei manoscritti, la pittura o la gestione della produzione di occhiali.

Da artefici a committenti

In particolare, nel secondo Quattrocento, i monasteri fiorentini perseguirono una consapevole politica di diversificazione delle proprie attività e offrirono all’economia locale l’elasticità di cui aveva bisogno, fornendole una riserva di lavoro a buon mercato al di fuori dalle strutture corporative. L’ampio raggio d’affari non solo mise le religiose in contatto con acquirenti, fornitori e distributori di ogni tipo, ma aprí loro un mondo di relazioni nuove, caratterizzate da una complessa rete di rapporti di patronage. I proventi di tali attività vennero impiegati per il restauro degli edifici, la costruzione di nuovi ambienti (spesso destinati a laboratorio), l’apertura di finestre che li rendessero piú luminosi, l’abbellimento con affreschi e opere d’arte. Il Crocifisso in argento dorato oggi conservato al Bargello (unica opera di oreficeria rimastaci di Antonio Pollaiolo, 1476), venne commissionato appunto dalle religiose di un monastero fiorentino (S. Gaggio) che lo pagarono con i proventi del proprio lavoro. Cruciale risultò il contributo delle monache fiorentine allo sviluppo della manifattura serica, la cui affermazione ebbe a sua volta un impatto profondo sul lavoro delle religiose, chiamate a fronteggiare anche i problemi legati al commercio e alle varie fasi del processo produttivo. E seppero risolverli egregiamente, trasformando i conventi in centri di raccolta e di assegnazione alle lavoratrici a domicilio delle materie prime ricevute dai mercanti, cosí da diventare punti di riferimento imprescindibili per l’attività. Oltre a svolgere l’attività in prima persona, infatti, le religiose erano mediatrici e responsabili del lavoro dato all’esterno a trattrici e incannatrici: dalla consegna dei bozzoli, al controllo del peso finale, al pagamento delle donne per conto dei setaioli, su indicazione dei quali andavano formando i bacini geografici di reclutamento.

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In alto filo d’oro destinato alla produzione di broccati. Età rinascimentale. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra l’allegoria della Tessitura in una formella realizzata da Andrea Pisano per il Campanile di Giotto, a Firenze. 1340 circa. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

A destra particolare della decorazione miniata (attribuita a Sano di Pietro) di un Breviario francescano nel quale, sulla destra, si vede una religiosa che fila con fuso e conocchia. XV sec. Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati. febbraio

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Ancora piú importante e lucrosa era la filatura dell’oro, esercitata nei monasteri fiorentini dalla metà del XV secolo, su diretta commissione dei mercanti. A differenza delle fasi preliminari della manifattura serica, quest’attività veniva praticata solo nei monasteri, in prima persona da suore retribuite a cottimo e che potevano lavorare anche per proprio conto, con un profitto personale. Una religiosa delle «Convertite» guadagnò in questo modo la considerevole somma di 55 fiorini, che trasformò nel 1511 in un vitalizio di 5 fiorini annui.

L’elevata estrazione sociale di molte religiose favoriva l’acquisizione di clienti importanti e facoltosi

Formazione e apprendistato

Le religiose avevano in genere contatti con numerosi battiloro e setaioli contemporaneamente e questi rapporti con il mondo esterno ingeneravano frequenti contrasti con la Regola monastica, che la politica governativa fiorentina si sforzò di attenuare, favorendo in ogni modo l’accesso ai monasteri di artigiani e mercanti. Nel 1447 l’azienda di battiloro Ridolfi fece istituire nel convento delle Convertite una scuola per l’insegnamento dell’arte, rifornendo le apprendiste di tutti gli strumenti necessari, e servendosi poi anche di altri 7 istituti religiosi per far filare circa l’80% del suo prodotto: ben 230 kg di metallo prezioso vennero affidati quasi esclusivamente alle suore (quelle delle Murate ottennero, da sole, circa 1/3 di questa quantità). Nella scelta preferenziale dei conventi, intervenivano, oltre all’abilità, motivi di fiducia, sia da parte degli imprenditori che da parte delle istituzioni: nel 1597 le monache di 5 istituti fiorentini (tra cui Le Murate e Annalena) ottennero persino il privilegio, ufficialmente sancito da una provvisione governativa, di poter lavorare manufatti contenenti oro filato. I mercanti che godevano dell’autorizzazione, infatti – recitava il provvedimento –, cercavano spesso di ingannare gli acquirenti spacciando per metallo prezioso prodotti contenenti oro falso. Altro vantaggio non trascurabile offerto dai

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monasteri era quello di garantire personale stabile (le religiose appunto), subordinato, facilmente controllabile e in grado di tramandare il sapere acquisito. La preferenza accordata dai battiloro ai monasteri femminili portava anche a nuove forme di segregazione spaziale, che rafforzavano le gerarchie interne dei conventi, accentuandone la stratificazione sociale e giungendo fino a influire sull’architettura degli istituti religiosi. Nel monastero fiorentino di S. Gaggio, per esempio, nella prima metà del Quattrocento, le suore vivevano nella piú completa comunione, producendo tessuti di lino di vario tipo e prezzo, da cui traevano profitti modesti. Quando, nella seconda parte del secolo, venne intrapresa su larga scala la filatura dell’oro, al fine di restaurare il convento e di migliorare i livelli di vita al suo interno, fu innanzitutto creato uno spazio specifico per l’esercizio dell’attività (la «sala dell’oro»), che sarebbe stata svolta dalle sole religiose (il cui numero era stato nel frattempo dimezzato: da 51 a 25), da quel momento accolte solo se di famiglia altolocata. La tessitura del lino venne invece demandata alle converse, anch’esse riunite in uno spazio apposito; una soluzione adottata anche nei monasteri del Paradiso e di S. Jacopo.

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Altrettanto redditizia si rivelò l’arte del ricamo, svolta nel secondo Quattrocento in numerosi conventi, primo fra tutti quello, già citato, del Paradiso, principale laboratorio di questo tipo attivo a Firenze. Come per la filatura dell’oro, le religiose miravano ad aumentare le entrate per poter restaurare il convento e una delle prime migliorie apportate con i ricavi ottenuti fu proprio l’installazione di nuove finestre, tali da illuminare adeguatamente l’atelier di ricamo.

La collaborazione con i grandi maestri

La materia prima veniva fornita alle suore dai medesimi imprenditori che procuravano loro la seta e la foglia da filare, e che potevano esserne anche i committenti; piú spesso, però, la clientela era costituita da altri istituti religiosi o da autorità ecclesiastiche. Come i ricamatori professionisti, le monache del Paradiso collaboravano con pittori importanti che fornivano loro i disegni: Antonio Pollaiuolo, Botticelli, Perugino, Neri di Bicci, Raffaellino del Garbo e Andrea del Sarto. Anche i monasteri veneziani erano alveari di operosità: le religiose impastavano dolci, miscelavano rimedi medicinali, si dedicavano alla tessitura e, soprattutto, a febbraio

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A destra Compianto sul Cristo deposto, olio su tela di suor Plautilla (al secolo Pulisena) Nelli. Metà del XVI sec. circa. Firenze, Museo di S. Marco. La religiosa operò nel convento di S. Caterina in Cafaggio e lasciò nel cenobio una fiorente scuola non solo di pittura, ma anche di miniatura e di scultura in terracotta e in cartapesta. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un gruppo di monache in un coro, dal Salterio di Enrico VI, manoscritto in lingua latina di produzione francese. 1400-1420 circa. Londra, The British Library.

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costume e società L’arte della miniatura

Decorazioni simili a ricami Tra il XV e il XVI secolo, abbiamo notizia e sono attestate le opere di almeno tre suore miniatrici: Caterina Vigri (Bologna, 1413-1463), Dorotea Broccardi (Volterra, attiva negli anni Venti del Cinquecento), ed Eufrasia Burlamacchi (Lucca, 1478-1545).

Capilettera miniati da Eufrasia Burlamacchi per un Liber Missarum de Tempore a Cena Domini usque ad Adventum. 1500 circa. Lucca, Biblioteca Statale.

virtuosistici lavori d’ago, la cui vendita avrebbe dovuto rimpinguare le precarie finanze dei conventi, ma che, in realtà, finivano spesso per ornare capi raffinati indossati dalle monache stesse, o venivano smerciati per profitto personale, quando non donati ai visitatori. L’autorità ecclesiastica cercava di scoraggiare la pratica del dono di ricami e merletti, che per le suore rappresentava un importante legame col mondo, un modo per essere ricordate e apprezzate e per giocare un ruolo all’interno del tessuto sociale cittadino. La vera novità diffusasi nei conventi veneziani dalla seconda metà del Quattrocento era però il merletto, realizzato con semplice filo di lino o con prezioso filato d’oro e d’argento, e che venne presto a costituire un’entrata

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indispensabile per la sopravvivenza di molti istituti. Le reti di conoscenze delle monache altolocate rappresentavano un importante canale per garantire consistenti commissioni. I monasteri veneziani arrotondavano poi le entrate con il rammendo, la filatura e la tessitura della seta: la preparazione degli orditi – dichiaravano i tessitori serici nel 1529 – costituiva una mansione comunemente affidata alle religiose. Nel 1553 il convento delle Convertite, nel quale lavoravano oltre 200 donne, ottenne persino l’autorizzazione a costruire al suo interno un mulino da seta. Altri istituti, fin dall’inizio del XV secolo, erano invece specializzati nella produzione della preziosa «teletta d’oro», e altri ancora nella tela di lino.

Negli scriptoria delle monache

Anche la copiatura dei codici e la miniatura erano attività diffuse tra le monache (vedi box in queste pagine). Nella seconda metà del Trecento, le Agostiniane fiorentine di S. Maria del Fiore, oltre ai tradizionali lavori tessili, avevano organizzato uno scriptorium, nel quale copiavano libri per conto di numerosi laici ed ecclesiastici, tra cui i Domenicani di S. Maria Novella, che li avrebbero poi miniati. Le religiose offrivano anche un servizio di scrittura alle donne analfabete. Notizie su monache che decoravano breviari e offizioli, scrivevano «quaderni febbraio

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Di nobile famiglia bolognese, educata alla corte estense di Ferrara ed entrata in seguito in una comunità di Clarisse di Bologna, Caterina Vigri compose un’opera didascalica di notevole successo, dedicandosi poi alla redazione di un Breviario, che decorò da autodidatta, con efficaci disegni a inchiostro bicolore, simili a quelli visibili talvolta nei cartolari dei notai quattrocenteschi, e con modalità che richiamano le xilografie che l’arte della stampa agli albori andava diffondendo. Altre sue fonti di ispirazione furono, con ogni probabilità, i modelli di disegni per ricami che circolavano nei monasteri e le miniature stilizzate che le Clarisse tedesche avevano elaborato nella medesima epoca. Nonostante l’educazione ricevuta, ligia alla regola austera del suo ordine, non potè giovarsi dei contatti e della cultura artistica che si sviluppò nella seconda metà del XV secolo e a cui si ispirò con

risultati eccelsi, nel primo Cinquecento, Eufrasia Burlamacchi. Quest’ultima, di famiglia mercantile e fondatrice, nel 1502, del monastero di S. Domenico, a Lucca, miniò 5 corali (1515) attualmente conservati in California. Ricordata nelle Cronache del convento come particolarmente incline alle attività artistiche, rivela capacità straordinarie nella miniatura (arte che aveva appreso dalla consorella pisana Benedetta Arnolfini), riprendendo la lezione del Beato Angelico e introducendovi uno schema narrativo del tutto inedito, caratterizzato da una notevole capacità di riflessione psicologica nella raffigurazione dei personaggi. Scene del Vecchio e del Nuovo Testamento contraddistinte da una forte drammaticità, oltre che dall’assoluta padronanza del disegno e delle ombreggiature, sono incorniciate da capolettera miniati, attraversati da una svariata serie di arabeschi, motivi vegetali e floreali, in sottile spessore sulla pergamena, quasi fossero ricami.

da fanciulli» per i cartai, grattavano cartapecore vecchie e rigavano registri di conti si hanno a Siena alla metà del Quattrocento. Nello stesso periodo, a Firenze, ben 7 conventi femminili si dedicavano alla produzione dei libri e, nel 1476, quello di S. Jacopo aveva persino realizzato una tipografia, dove le suore lavoravano come compositrici. I testi da miniare venivano in genere inviati ad appositi artigiani, e solo qualche volta decorati dalle religiose. Soprattutto sul finire del Quattrocento, per l’influsso del Savonarola, molti conventi domenicani si trasformarono in officine artistiche vere e proprie. Il frate savonaroliano Roberto Ubaldini, seguendo le direttive del maestro, esortava infatti le monache a praticare la filatura e la tessitura di seta, lana e lino, nonché a scrivere, ricamare, miniare e dipingere: occupazioni che le avrebbero tenute lontane dall’ozio e, al tempo stesso, sarebbero servite a mantenere i confratelli dediti allo studio e alla predicazione. Da qui la fioritura, nei monasteri fiorentini di S. Caterina da Siena e di S. Caterina in Cafaggio, e in quello di S. Domenico a Lucca, di importanti laboratori artistici, dediti soprattutto alla pittura e alla miniatura. A S. Caterina in Cafaggio operò suor Plautilla Nelli (1523-1588), pittrice e miniatrice, che – secondo l’affermazione di Giorgio Vasari – «avrebbe fatto

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Madonna con Bambino e San Martino, Santa Caterina d’Alessandria e committenti (Pala Nerli, particolare), dipinto di Filippino Lippi. 1457 circa. Firenze, Basilica di Santo Spirito. Il dettaglio mostra Nanna di Neri Capponi, moglie del committente dell’opera, con un rosario tra le mani: la realizzazione di queste corone fu una delle attività piú redditizie fra quelle praticate nei conventi femminili.

cose maravigliose, se, come fanno gl’uomini, avesse avuto commodo di studiare e di attendere al disegno e ritrarre cose vive e naturali». Alla sua morte lasciò nel cenobio una fiorente scuola non solo di pittura, ma anche di miniatura e di scultura in terracotta e in cartapesta. Un’altra attività artistico-commerciale in voga tra le religiose fiorentine alla fine del XV secolo era quella dei rosari e dei santini: un vero e proprio business, costituito dalla realizzazione in materiale povero (vetro, gesso, stucco, cartapesta) di piccoli oggetti molto richiesti e facilmente smerciabili.

Le farmacie come luoghi d’incontro

Un’attività praticata da sempre dalle suore, ma intrapresa dal primo Cinquecento con intenti commerciali, fu quella farmaceutica. A Firenze, alla fine del Quattrocento, almeno 6 monasteri femminili erano dotati di

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costume e società una bottega per la realizzazione e la vendita di medicamenti, impiegando dalle 50 alle 200 religiose. I conventi di S. Caterina e di Annalena, in particolare, arrivarono a fare concorrenza alle farmacie laiche (sottoposte alla giurisdizione corporativa degli speziali), confezionando anche cosmetici e rendendo le proprie botteghe molto piú appetibili per le donne, che ne fecero luoghi di aggregazione e di scambio di conoscenze.

I vantaggi del censo

L’estrazione sociale di molte religiose contribuiva, tra l’altro, ad attirare clientela altolocata e a creare una fitta rete di relazioni e di contatti tra i monasteri e il mondo esterno, facilitando l’approvvigionamento di materie prime (acquistate direttamente da mercanti e speziali) e l’apprendimento di nuovi saperi, un fatto di capitale importanza soprattutto negli anni immediatamente successivi alla scoperta dell’America, quando l’arrivo di sostanze medicinali sconosciute offriva maggiori possibilità terapeutiche e commerciali.

Le nozioni farmacologiche venivano trasmesse dalle religiose piú anziane alle piú giovani, attraverso un apprendistato informale che metteva le seconde in grado di padroneggiare con sicurezza tutti i segreti di un’arte «piú delle altre necessaria al genere umano». Le preparazioni medicinali si attenevano rigorosamente agli standard prescritti dal principale trattato di farmacopea dell’epoca, il Ricettario fiorentino del 1499, seguito anche dai professionisti laici. Tra i prodotti offerti dalle suore, c’erano anche conserve di frutta e prodotti a base di zucchero, ritenuti corroboranti per l’organismo dei malati. L’affare si era dimostrato cosí lucroso che, già negli anni Venti del Cinquecento, le religiose di S. Caterina avevano investito i proventi derivanti dall’altrettanto redditizia lavorazione della seta per ampliare il laboratorio farmaceutico, giungendo, nel 1570, In alto il frontespizio di un’edizione del Ricettario fiorentino, un trattato di farmacopea pubblicato per la prima volta nel 1498. A sinistra particolare di un disegno del Pisanello (al secolo Antonio di Puccio Pisano, ante 1395-1455) raffigurante un uomo che indossa gli occhiali. Parigi, Museo del Louvre.

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la produzione della pasta

Un successo macchiato dall’accusa di concorrenza sleale I conventi femminili si dedicarono anche alla produzione della pasta, realizzata per tutto il Medioevo su larga scala in laboratori specializzati. La grande fantasia nell’invenzione di molteplici tipi e forme dell’alimento ne faceva un mestiere tipicamente femminile. Tuttavia, dalla fine del Cinquecento, per effetto della meccanizzazione del processo produttivo, il ruolo delle donne calò notevolmente, anche se i monasteri rimasero padroni dell’attività. Diffusissima in età medievale, anche se scarsamente testimoniata, la produzione di pasta «figurata» nei conventi italiani viene attestata, all’inizio del Settecento,

da un viaggiatore (un sacerdote), che riferiva come la gamma piú ricca dell’alimento fosse prodotta in Sardegna da donne, «e soprattutto dalle religiose, poiché non richiede una grande attenzione e non impedisce loro di chiacchierare, esercizio comune a tutto il gentil sesso, ma soprattutto a quello che è in clausura». L’attività dei monasteri non era però ben vista dagli operatori del settore, che accusavano le religiose di concorrenza sleale, dal momento che la loro produzione godeva delle esenzioni fiscali spettanti a queste istituzioni. Nei maggiori centri di lavorazione, perciò, almeno

In basso albarello (vaso da farmacia o per spezie) in maiolica decorato a occhio di penna di pavone. Faenza, XVI sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Dal primo Cinquecento, le suore si dedicarono alla produzione di medicamenti a scopo di lucro.

ad acquistare un palazzo accanto al convento per stabilirvelo. Nella seconda metà del XVI secolo l’attività era divenuta fondamentale per l’esistenza stessa dei due monasteri fiorentini, garantendo proventi pari al 5-10% delle entrate totali, che si affiancavano all’attività senza fini di lucro, di distribuzione gratuita o semi-gratuita, ai poveri. Una situazione che creò un grave attrito con la corporazione degli speziali.

La produzione degli occhiali

Un indizio dell’entità del lavoro svolto dalle Agostiniane del convento di S. Maria del Fiore, presso Badia Fiesolana – che, tra la fine del Trecento e il secolo successivo, si dedicavano a molteplici attività, tra cui il ricamo, la maglia, la copiatura dei manoscritti – è il frequente acquisto di occhiali da presbite, di vario tipo e gradazione. Talvolta, anzi, gli occhiali venivano prodotti proprio all’interno dei conventi stessi. Ne abbiamo una testimonianza eccezionale nell’unico libro di conti pervenuto

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a partire dalla metà del XVI secolo, si cercò di ottenere dall’autorità pubblica il divieto di esercizio dell’attività nei conventi. Ci provarono i vermicellari napoletani, per esempio, ma raramente le loro proteste ebbero esito favorevole. Una delle rare disposizioni a loro favore fu il bando emanato nel 1665 che proibiva la produzione a scopo commerciale nei luoghi pii di «vermicelli e altre cose di pasta». Tuttavia, superato il momento critico, le monache ripresero la loro attività e i loro commerci, scatenando nuove proteste da parte dei professionisti, che indussero le autorità a reiterare il divieto.

in proposito: quello del monastero femminile fiorentino di S. Brigida al Paradiso (situato nei pressi della città nella piana di Ripoli) che documenta la produzione nell’istituto religioso e la vendita, durante tutto il Quattrocento, di ingenti quantitativi di occhiali, destinati sia ad acquirenti cittadini, sia all’esportazione verso Pisa, Mantova, Vicenza, Roma, e persino verso il Portogallo. L’articolo non era realizzato dalle 60 suore che abitavano il convento, ma da tre dei frati (ugualmente ivi residenti) che ne avevano la direzione spirituale: in ogni caso, si trattava di una delle entrate principali del cenobio, che ne traeva gran parte del proprio sostentamento. Anche se i materiali utilizzati non erano particolarmente preziosi (montature in osso e lenti in vetro), la qualità degli articoli doveva risultare ottima, soprattutto per il livello di lavorazione delle lenti, fatte perlopiú con vetro tedesco, piú friabile e semplice da levigare. Il loro prezzo di vendita andava dai 2 ai 12 soldi, a seconda del tipo. F

Da leggere U Maria Paola Zanoboni, Donne al lavoro

nell’Italia e nell’Europa medievali (secoli XIII-XV), Jouvence, Sesto San Giovanni 2016

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di Francesco Colotta

Immortalato da William Shakespeare e protagonista di un recentissimo adattamento cinematografico, del piú celebre tra i re di Scozia si perpetua l’aura di oscura malvagità. Eppure seppe garantire al suo regno un lungo periodo di «prosperità e pace». Come nacque, allora, la sua fama di sovrano sanguinario e perché fu oggetto di una cosí spietata demonizzazione?

Macbeth

La vera storia

Pedina raffigurante un sovrano in trono che tiene in pugno una spada. Il pezzo fa parte dei cosiddetti scacchi Lewis, realizzati con zanne di tricheco e fanoni di balena e rinvenuti nel 1831 nel villaggio scozzese di Uig, nell’arcipelago delle Ebridi Esterne. Probabile fattura scandinava, metà del XII sec. Edimburgo, National Museums of Scotland.


Dossier

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ilaniata da guerre interetniche e faide, la Scozia medievale visse nell’XI secolo un lungo periodo di «prosperità e di pace», proprio al tempo del sovrano dalla fama piú oscura: Mac Bethad mac Findláich, piú noto come Macbeth e reso immortale dalla tragedia in cinque atti che William Shakespeare (1564-1616) dedicò alla sua figura (scritta nel 1605-1606). Una figura che la storiografia piú recente ha riabilitato: è ormai accertato, infatti, che il drammaturgo inglese si ispirò a fonti scarsamente attendibili, sulla cui base, a partire dal Trecento, erano state compilate varie biografie «demonizzanti». Ma chi fu, davvero, Macbeth? E perché le fonti tardo-medievali e rinascimentali lo descrissero come un monarca sanguinario, un usurpatore assetato di potere?

Rivalità ancestrali

Il vero Macbeth agí in un contesto storico che ancora risentiva della frammentazione prodottasi in Scozia agli inizi del Medioevo, quando il territorio era occupato da quattro principali comunità etniche: gli antichi Pitti (popolo di origine incerta che le fonti latine esaltano per le qualità militari), gli Scoti di Dalriada (genti di stirpe celtico-irlandese), i Britanni (provenienti perlopiú dall’odierno Galles) e gli Angli (di origine germanica). I Pitti rivestirono a lungo un ruolo egemone nell’area, ma subirono progressivamente l’influenza culturale dei loro rivali piú acerrimi, gli Scoti. Oltre ad adottarne la lingua, Lo spettro di Banquo, olio su tavola di Théodore Chassériau. 1854. Reims, Musée des Beaux-Arts. Ispirato dal melodramma verdiano (1847), piú che dalla tragedia shakespeariana (allora poco nota in Francia), il dipinto mostra, al centro, il fantasma del nobile amico di Macbeth che appare al re nel corso di un banchetto, con l’intento di suscitare in lui il rimorso per averlo fatto uccidere.

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Dossier LA SCOZIA NELLA STORIA, PRIMA E DOPO MACBETH 121-129 d.C. Costruzione del Vallo di Adriano. 139 Costruzione del Vallo di Antonino. Fine del III sec. Prime menzioni della popolazione dei Pitti in fonti letterarie latine. 410 circa I Romani abbandonano le Isole Britanniche. 501-503 Gli Scoti di Dalriada, cristiani di ceppo gaelico provenienti dall’Irlanda, si stabiliscono nell’Argyll, sulla costa occidentale della Scozia. 843 Kenneth MacAlpin riunisce Scoti e Pitti sotto il proprio potere. 986 Ultima attestazione di una scorreria di Vichinghi norvegesi sull’isola di lona (Ebridi). 1014 Battaglia di Mortlach. Gli Scozzesi, guidati dal loro re, Malcolm II, sconfiggono i Vichinghi di Danimarca. 1018 Alla morte di Owen il Calvo, re di Strathclyde, Duncan, nipote di Malcolm II, annette defrnitivamente quel regno alla corona di Scozia. 1040 Macbeth, signore di Moray e pretendente al trono di Scozia, uccide Duncan e diviene sovrano. 1057 Battaglia di Lumphanan. Macbeth viene sconfitto e ucciso da Malcolm III Canmore. 1107 Alla morte di re Edgar, il regno viene momentaneamente smembrato. Alessandro l diviene sovrano degli Scoti, ma David I regna sulle regioni di Lothian e Strathclyde. 1124 Alla morte di Alessandro I, il regno torna unito nelle mani di David I. 1174 Trattato di Falaise. Guglielrno il Leone, sia pure in forma ambigua, dichiara la propria sottomissione alla corona inglese. 1286 Alla morte di Alessandro III, gli succede la nipote Margherita, una bambina che muore dopo pochi anni. II trono scozzese è ora ambito da dozzine di pretendenti. 1292 Re Edoardo I d’Inghilterra favorisce l’ascesa al trono di Giovanni Balliol. 1296 Edoardo I invade la Scozia. Cominciano le Guerre di Indipendenza. 1306 Robert Bruce diviene re di Scozia. 1314 Battaglia di Bannockburn. Gli Scozzesi sbaragliano l’esercito

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inglese. Il Paese è di nuovo indipendente. 1320 Dichiarazione di Arbroath con cui gli Scozzesi si dichiarano indipendenti dall’Inghilterra. Il papa la riconosce. 1326 Prima convocazione di un Parlamento scozzese. 1328 Trattato di Northampton. Anche il re inglese Edoardo III riconosce l’indipendenza della Scozia. 1406 Re Giacomo l viene catturato dagli Inglesi; sarà liberato solo nel 1424. 1412 Viene fondata l’Università di St. Andrews. 1427 Giacomo I viene assassinato a Perth. 1468-69 La corona scozzese, in cambio di denaro, riceve da quella norvegese le isole Orcadi e Shetland. L’unità territoriale del Paese è ora completata.

Un’altra pedina degli scacchi Lewis, raffigurante un cavaliere nordico. Metà del XII sec. Edimburgo, National Museums of Scotland.

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si cristianizzarono grazie proprio all’opera di alcuni monaci irlandesi e, con il passare degli anni, nelle regioni centro-settentrionali, tra Pitti e Scoti maturò una comunanza di usanze e tradizioni, la cui matrice celtica risultava prevalente. Gli Angli, invece, che avevano preso il sopravvento a sud, trovavano maggiori affinità con altre popolazioni anglosassoni e, in parte, anche con gli Inglesi. Ne scaturí pertanto una prima frattura culturale tra le genti del Nord – gli Highlanders – e quelle delle regioni meridionali – i Lowlanders – una separazione che, unitamente ad altri motivi di contrasto, tuttora caratterizza il territorio scozzese. N e l I X-X s e c o l o , dall’alleanza tra Pitti e Scoti, con i secondi in posizione predominante, nacque un primo modello di regno unificato, che avrebbe poi assunto il nome di Alba, comprendente la fascia centrale dell’antica Caledonia (il settentrione dell’isola britannica, delimitato a sud dai fiumi Forth e Clyde). In questo scenario, segnato dall’egemonia celto-scota, crebbe il giovane Macbeth, negli anni in cui, sotto la guida del sovrano Malcolm II (980-1034), Alba stava per vivere un’epoca di splendore. Sconfitti gli Angli a Carham, il territorio del regno si estendeva dal Moray Firth, nell’estremo nord, al fiume Tweed.

Sangue reale

Seppur controversa, la data di nascita di Macbeth viene comunemente fissata intorno al 1005, in un luogo imprecisato del Moray e la maggior parte dei biografi identificano il padre del futuro

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Campana in argento di forma quadrangolare che raffigura Dio e la Crocifissione, rinvenuta presso il castello di Guthrie, nella regione dell’Angus. XII sec. Edimburgo, National Museums of Scotland. Lo stile del manufatto testimonia la radicata presenza della tradizione celtica nell’identità culturale della Scozia di quel periodo.

sovrano in Findláech mac Ruaidrí, un potente capo locale che rivestí la carica di mormaer (signore di una provincia per conto del re) della medesima regione. Secondo fonti irlandesi contemporanee, Findláech e la moglie avevano entrambi sangue reale. Ogni capo politico scozzese doveva possedere spiccate doti militari

e all’ascesa di Macbeth giovò quindi l’avere svolto un duro tirocinio nel Moray, accanto al padre mormaer, in un territorio di frontiera che confinava con le roccaforti vichinghe settentrionali.

Pronti a combattere

In quel gelido avamposto, la guerra rappresentava una prospettiva incombente e obbligava a tenersi sempre all’erta. Tuttavia, le insidie non provenivano soltanto dalle temute invasioni scandinave, ma anche da nemici interni, pronti ad acquisire la carica di mormaer con la violenza. E, nel 1020, proprio in seguito a una sommossa ordita dai nipoti, venne ucciso il padre di Macbeth. La morte di Findláech segnò il destino del figlio, al quale non era consentito di accedere alla carica del genitore in quanto – come nel caso della successione al trono di Scozia – il titolo di governatore di provincia si trasmetteva tra rami collaterali e non al discendente diretto, in virtú di una particolare forma di tanistry (il sistema di origine celtica che regolava l’eredità dei titoli). Avrebbe potuto, eventualmente, candidarsi a succedere al nuovo mormaer, suo cugino, e perciò divenne presto un pericoloso concorrente per gli altri parenti che ambivano alla carica. Temendo di essere assassinato come il padre, Macbeth si trasferí alla corte di Malcolm II e l’accoglienza ricevuta dimostrerebbe l’esistenza di un legame di parentela o, quanto meno, di un rapporto di stima tra il fuggiasco e il sovrano scozzese. Un’ipotesi rafforzata dall’incontro ufficiale tenutosi nel 1031 tra Malcolm e il re danese (segue a p. 78)

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Dossier Veduta della costa del Moray, nei pressi di Portknockie, con il profilo della Bow Fiddle Rock, un arco naturale di formazione rocciosa. L’odierna contea del Moray, nel Nord-Est della Scozia, corrisponde all’antica regione che diede i natali a Macbeth.

LUOGHI REALI E LUOGHI LEGGENDARI Dingwall Secondo la tradizione Macbeth nacque intorno al 1005 in questo borgo situato sul fiordo del Moray Firth, ma la notizia non ha alcun riscontro storico. Castello di Inverness Shakespeare vi colloca il luogo dell’uccisione di Duncan per mano di Macbeth. A destra il castello di Inverness. Costruito sui resti di una fortificazione medievale, è teatro, nella tragedia shakespeariana, dell’uccisione di re Duncan I per mano di Macbeth.

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co ti

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Oceano

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Mare del Nord

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SCOZIA

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Loch Leven Falkirk

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Dundee Edimburgo Berwick Melrose

Lanark

Newcastle

Vallo di A d r i a no

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IRLANDA

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Elgin Secondo gli storici, Duncan venne ucciso nei pressi di questa città del Moray, per la precisione in una località chiamata Pitgaveny. Castello di Forres Nella tragedia di Shakespeare è la roccaforte di Duncan, a poca distanza da Inverness. Castello di Brodie Nei pressi di questa rocca del Moray, le tre streghe della tragedia shakespeariana si sarebbero materializzate dinnanzi a Macbeth. Castello di Cawdor Fortezza nella quale la leggenda colloca l’investitura di Macbeth a thane di Cawdor. Castello di Glamis Situato nell’area di Angus, fu il luogo in cui il re Malcolm II, padre di Duncan, venne assassinato nel 1034. Per la tradizione popolare, invece, vi abitò Macbeth. Chiesa di Birnie Santuario nei pressi di Elgin, nel quale si sarebbero celebrate le nozze tra Macbeth e Gruoch. Scone Sede ufficiale dell’incoronazione dei re scozzesi, in cui si trovava la Pietra del Destino. Macbeth vi si recò per la cerimonia di intronizzazione nel 1040.

INGHILTERRA

A destra la cappella di Scone sulla Moot Hill, preceduta da una replica della Pietra del Destino (il manufatto ritenuto autentico è conservato nel castello di Edimburgo), posta nel luogo sacro dove, nel Medioevo, avveniva l’incoronazione dei re scozzesi.

Loch Leven Sulle sponde di questo lago si trovavano due monasteri che ricevettero donazioni da Macbeth e dalla moglie. Colline di Dunsinane Su questi rilievi vicino Dundee si combatté la battaglia dei Sette Dormienti tra le truppe di Macbeth e di Siward di Northumbria, nel 1054, vinta dal secondo. Peel of Lumphanan Struttura difensiva presso Lumphanan (Aberdeenshire): qui, nel 1057, Macbeth sarebbe morto in battaglia. Foresta di Birnam Nella finzione shakespeariana, i nemici di Macbeth avanzano verso la residenza del re, nascosti dietro i rami che avevano tagliato nella foresta situata nel Perthsire. Abbazia di Iona Luogo ufficiale di sepoltura dei monarchi scozzesi del Medioevo, dove la maggioranza degli storici ritiene si trovi sepolto Macbeth.

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Canuto il Grande, al quale – come si legge nella Cronaca anglosassone – partecipò anche Macbeth. Pur assolvendo agli obblighi di corte, Macbeth meditava vendetta per l’omicidio del padre e si presume l’abbia consumata nel 1032, dopo l’ennesimo colpo di mano di cui il Moray divenne teatro: un altro cugino, Gille Coemgáin, considerato uno degli assassini di Findláech, aveva usurpato il titolo di mormaer, ma dopo pochi giorni, come narrano gli Annali dell’Ulster, morí in un rogo, insieme a cinquanta suoi fedelissimi. Circostanze e moventi suggeriscono che la strage fosse stata pianificata da Macbeth, il quale poté alla fine insediarsi nella carica un tempo rivestita dal padre.

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In alto Macbeth, olio su tela di John Martin. 1820 circa. Edimburgo, Scottish National Gallery. Nel dipinto si immagina l’apparizione delle tre streghe al sovrano e a Banquo. Nella pagina accanto incisione che raffigura Macbeth e il nobile Macduff, realizzata per The Plays of William Shakespeare. 1890.

Da figlio della luce a figlio di cane L’etimologia del nome Macbeth risulta controversa. Comunemente si ipotizza che derivi dal gaelico Mac Bethad e significhi «figlio della luce» o «figlio della vita». Si è anche prospettata un’origine diversa, con il significato di «uomo giusto», «uomo religioso» o «uno degli eletti». Molto dibattuta è poi l’interpretazione di un nome presente nell’islandese Orkneyinga saga (XII secolo): Karl Hundason, re di Scozia, che combatté un’aspra battaglia contro lo jarl della Orcadi Thorfinn Sigurdsson. Lo scontro si concluse con la vittoria dello jarl e con l’occupazione di una rilevante porzione di territorio scozzese da parte delle sue truppe. Alcuni storici hanno identificato Karl Hundason come un soprannome dispregiativo di Macbeth (in norreno significherebbe «Churl, figlio di cane»). Altri ritengono piú verosimile l’ipotesi che il misterioso monarca scozzese fosse Duncan I. febbraio

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Dossier Lady Macbeth

Fu davvero una regina nera?

Lady Macbeth sonnambula, dipinto di Eugène Delacroix. 1850. Fredericton, Beaverbrook Art Gallery. La sete di ambizione e la perfidia incarnate tradizionalmente dalla moglie del sovrano scozzese non trovano riscontro nelle fonti storiche coeve.

La donna perfida, ambiziosa e dominatrice che spinse Macbeth ad assassinare il sovrano Duncan I ed ereditarne il trono appartiene alla versione leggendaria della biografia del re di Scozia. La vera Lady Macbeth si chiamava Gruoch: nata presumibilmente intorno al 1005-10, era figlia del principe Boite mac Cináeda, che discendeva da re Kenneth III. Unitasi in matrimonio con Macbeth, mormaer del Moray e probabile assassino del suo primo marito Gille Coemgáin, mirava a trovare una sicura protezione, non solo per se stessa, ma soprattutto per il figlio Lulach, avuto nelle precedenti nozze, contratte a soli quindici anni. Grouch si distinse in seguito per alcune donazioni a conventi scozzesi e si recò in pellegrinaggio a Roma nel 1050 insieme a Macbeth (vedi box a p. 86).

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Secondo gli Annali dell’Ulster, un nipote della donna fu ucciso dal sovrano Malcolm II. Altre fonti, non coeve, affermano che anche il padre Boite venne assassinato per ordine dello stesso monarca. Alcuni storici, quindi, ipotizzano che la risolutezza della Lady Macbeth shakespeariana nel pianificare l’omicidio di Duncan, figlio di Malcolm II, fosse una lontana eco del suo reale risentimento nei riguardi della famiglia responsabile di quelle violenze. Nelle riproduzioni dei registri del convento di St. Andrews, Gruoch viene definita regina, titolo mai riconosciuto in precedenza. Forse, proprio l’autorevolezza assegnatole da quel documento ispirò, nei secoli seguenti, la creazione letteraria di una Lady Macbeth volitiva, capace di influenzare il destino politico del marito. febbraio

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Un gigante dai capelli d’oro Non esistono ritratti di Macbeth realizzati all’epoca in cui il re visse. Per avere un’idea del suo aspetto possiamo basarci unicamente sulle informazioni riportate nella Profezia di Berchán, composta nell’XI secolo. Nel poema il sovrano viene descritto come un re dalla figura imponente, «alto», «rosso» e «dai capelli d’oro». L’attribuzione «rosso», considerato il riferimento al colore biondo dei capelli, alludeva presumibilmente all’aspetto del volto.

Si tratta di uno degli episodi cruciali della sua vicenda biografica, anche per le implicazioni familiari: il neo-eletto, infatti, sposò la vedova di Gille Coemgáin, Gruoch, discendente di re Kenneth III. Lady Macbeth entrò cosí nella storia della Scozia, rivelando una personalità spiccata e partecipando attivamente agli impegni politici del marito. Essa, però, era dotata di un’indole ben diversa da quella che William Shakespeare attribuí

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Macbeth e le streghe, olio su tela del pittore svizzero Johann Heinrich Füssli. 1793-94. Petworth, Petworth House. Secondo le testimonianze dei contemporanei, il re aveva una statura fisica imponente.

alla protagonista femminile della sua tragedia (vedi box a p. 80). La decisione del mormaer del Moray di sposare l’ex moglie del rivale è stata interpretata come la volontà di umiliare la famiglia dell’assassinato, ma sembra piú plausibile che Macbeth volesse in cosí perseguire la pace con i rivali: «Questo matrimonio – si legge nel Biographical Dictionary of Scottish Women (2007) – potrebbe rappresentare

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Dossier LA VERSIONE DI WILLIAM SHAKESPEARE La profezia delle streghe

L’inettitudine bellica del sovrano Duncan provoca ripetute rivolte, fin quando Macbeth e Banquo, generali al servizio del monarca, riportano ordine nel regno. I due reduci vittoriosi incontrano, quindi, tre streghe, le quali predicono a Macbeth la conquista della corona di Scozia e al suo collaboratore una discendenza reale. Il primo, nominato signore di Cawdor per meriti in battaglia, comincia a credere alle predizioni e ne informa la moglie.

Il piano di Lady Macbeth

Lady Macbeth, ossessionata dalla fame di potere, convince il marito ad assassinare Duncan per conquistare subito il trono. Compiuto l’omicidio, Macbeth fa ricadere la colpa sulle guardie e viene eletto re.

La fuga dei rivali

Intanto, appresa la notizia della morte del padre, i figli di Duncan fuggono dalla Scozia per il timore di essere anch’essi uccisi, mentre alcuni nobili – primo fra tutti, Macduff – cominciano a nutrire sospetti su Macbeth.

I nuovi presagi

Angosciato per il parziale fallimento del piano, il sovrano interroga di nuovo le streghe, le quali lo tranquillizzano sulla saldezza della propria posizione: gli rivelano infatti che solo un uomo che non fosse stato partorito da una donna avrebbe potuto ucciderlo, mentre sarebbe stato spodestato qualora la foresta di Birnam si fosse mossa verso il suo palazzo.

Il suicidio della regina

Il sovrano ordina di assassinare anche Macduff. Il nobile scampa all’agguato, ma la moglie e i suoi figli vengono uccisi. Nel frattempo Lady Macbeth, annientata dal rimorso per la catena di delitti, si suicida.

La foresta avanza

Il re cade anch’esso nello sconforto e con orrore un giorno vede la foresta di Birnam avanzare verso di lui. Malcolm e Macduff, con il loro esercito, mimetizzati dietro i rami tagliati nel bosco, si avvicinano alla residenza reale.

La morte del sovrano

Il re, ricordandosi della profezia delle streghe, teme che Banquo e i suoi discendenti possano insidiarlo e quindi fa uccidere l’amico, ma il figlio di quest’ultimo, Fleance, si salva e fugge.

Sicuro di sopravvivere, in quanto non potevano esistere uomini che non fossero stati generati da una donna, Macbeth si prepara a combattere. Quando si trova davanti Macduff, il suo destino funesto si compie. Il nobile, infatti, gli rivela di essere venuto al mondo grazie a un prematuro parto cesareo e quindi lo uccide.

il tentativo di porre fine a una lotta intestina» nel Moray. La guerra civile riesplose nel 1034, alla morte di Malcolm II, quando, a sorpresa, il trono passò al nipote Duncan (primogenito della figlia maggiore), grazie a una modifica del sistema di successione

vigente. Gli esclusi dalla riforma – Macbeth in primis – ebbero, a quel punto, una ragione in piú per progettare una rivolta e impossessarsi del trono con la forza. Nato sotto pessimi auspici, il regno di Duncan fu costellato da eventi avversi e, soprattutto, da

L’uccisione dell’amico Banquo

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disfatte militari: temerario, quanto poco preparato nell’arte della guerra, il sovrano si avventurò in rischiose campagne belliche contro i Vichinghi delle Orcadi e poi contro gli Angli. Sconfitto su entrambi i fronti, subí anche l’attacco dei suoi oppositori interni, che lo accusafebbraio

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vano di aver agito con leggerezza. Impropriamente descritto come condottiero fedele a Duncan (il titolo di dux attribuitogli nella Mariani Scotti Chronicon non va inteso come «comandante», alla maniera romana, ma come «duca», detentore di un consistente potere), Macbeth, al

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contrario, era schierato con i dissidenti e guidò una rivolta nelle province del Nord. Il re sottovalutò la sommossa e quando si rese conto del pericolo che incombeva dal Moray, era ormai troppo tardi. Cercò affannosamente di reprimere la ribellione, ma venne trucidato nei pressi

Macbeth e le tre streghe, olio su tavola di Théodore Chassériau. 1855. Parigi, Musée d’Orsay. L’artista ha immaginato cosí uno dei momenti chiave del I atto dell’opera di Shakespeare, quando le tre streghe si materializzano davanti a Macbeth e Banquo.

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Dossier di Elgin, nel 1040, in circostanze poco chiare: alcune fonti attribuiscono l’omicidio a Macbeth; altre, invece, a un gruppo di fedelissimi della vittima passati dalla parte dei rivoltosi. Macbeth, quindi, non divenne re con l’inganno, ma per effetto di una sommossa appoggiata da gran parte della nobiltà scozzese, irritata dalle disfatte militari di Duncan. Mosso di certo dall’ambizione, il figlio di Findláech sapeva che avrebbe potuto conquistare il trono soltanto con

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un’azione violenta, ma riteneva di possedere piú di altri i requisiti indispensabili per regnare: eccelleva come soldato; aveva una discendenza reale per parte di madre; ed era sposato con una donna che vantava, anch’essa, avi coronati. Nelle fonti non vi è traccia delle presunte persecuzioni del nuovo sovrano contro gli eredi di Duncan. Solo in alcune leggendarie cronache tardo-medievali, in particolare in quella di Giovanni di Fordun, Mac-

beth cerca disperatamente di eliminare i discendenti del re ucciso, i figli Malcolm e Donald, nel timore che possano complottare contro di lui. È stato inoltre appurato che i due giovani fuggirono in un luogo sicuro, forse alla corte del re inglese Edoardo il Confessore o nelle isole Orcadi. Né la repressione del dissenso sarebbe stata particolarmente rapida ed estesa: ne sarebbe prova la grande rivolta che, nel 1045, l’abate Crínán, il padre di Duncan, po-

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té guidare da Dunkeld (nei pressi di Perth) contro il re dopo una lunga pianificazione. Gli Annali di Tigernach, al riguardo, raccontano di uno scontro durissimo con grandi perdite da entrambe le parti e che si concluse con la sconfitta dei ribelli. Altrettanto infondata risulta la vulgata su Banquo e Macduff, i due nobili che nelle cronache rinascimentali il re perseguita e progetta di uccidere, non fidandosi della loro fedeltà. Nei primi anni di governo il so-

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vrano dovette difendersi da un altro attacco militare, questa volta proveniente dall’esterno: il tentativo di invasione di Siward, conte di Northumbria, dall’Inghilterra settentrionale. Sorpreso dalla sortita, il re di Scozia perse alcuni territori, ma presto riuscí a riconquistarli.

Viaggio in Italia

Macbeth fu senza dubbio un re cristiano e instaurò importanti relazioni con le autorità ecclesiastiche. Riproduzioni dello scomparso registro del convento di St. Andrews riportano alcuni atti di donazione effettuati dal sovrano e dalla moglie Gruoch a monaci culdei (dal celtico céle Dé, servo di Dio, erano religiosi appartenenti a un movimento che

conciliava l’austerità della vita anacoretica con il lavoro e la vita in comune, sotto la guida di un capo spirituale, n.d.r.) del Loch Leven «con la massima venerazione e devozione». Tuttavia, a testimoniare il sentimento religioso della coppia reale è soprattutto un evento verificatosi nel 1050: in quell’anno Macbeth e la moglie si recarono in pellegrinaggio a Roma, come si legge nella già citata Mariani Scotti Chronicon, redatta da un monaco irlandese. Il religioso descrive il re, primo sovrano Il cimitero dell’abbazia dell’isola di Iona, luogo di sepoltura dei grandi re scozzesi del Medioevo. È stato ipotizzato che qui si trovi anche la tomba di Macbeth, ma la tesi risulta tuttora controversa.

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Dossier

Il pellegrinaggio a Roma Secondo la Mariani Scotti Chronicon, una delle principali fonti coeve sulla biografia di Macbeth, il re si recò nel 1050 a Roma, accompagnato dalla moglie Gruoch. Gli storici concordano nel sostenere che avesse affrontato quel lungo viaggio per compiere un pellegrinaggio, anche se nel manoscritto non viene precisato. Del suo soggiorno

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sappiamo soltanto – sempre grazie alle testimonianze del religioso irlandese – che «gettò monete ai poveri come semi», per spirito caritatevole, ma anche per ingraziarsi le autorità ecclesiastiche. È possibile che, nell’occasione, Il sovrano scozzese sia stato ricevuto ufficialmente dal pontefice in carica nel 1050, Leone IX.

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Il figlio maggiore dell’ex sovrano Duncan, Malcolm, studiava da anni un piano di attacco e trovò il sostegno militare del conte di Northumbria, Siward. Secondo fonti anglo-normanne, Siward mosse autonomamente contro Macbeth, reo di essere venuto meno a un trattato sottoscritto in precedenza, sebbene sia piú verosimile ritenere che il conte non abbia invaso le regioni meridionali della Scozia da solo, ma fosse affiancato da Malcolm, da truppe inglesi e danesi.

Costretto alla fuga

A sinistra e in alto due raffigurazioni di Malcolm III di Scozia, il nobile che, secondo le fonti storiche maggiormente accreditate, di ritorno dall’esilio, sconfisse Macbeth prendendone poi il posto sul trono e regnando per piú di trent’anni.

scozzese a visitare la Città Eterna, come un uomo generoso, animato da spirito caritatevole (vedi box a p. 86), qualità che gli sono riconosciute anche nella Profezia di Berchán, un poema scoto-irlandese dell’XI-XII secolo, connotato, però, da eccessi agiografici. Quel lungo viaggio nella capitale del cristianesimo occidentale rivestiva, comunque, anche uno scopo politico: dare visibilità

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internazionale a un piccolo regno, l’eco delle cui gesta non aveva mai oltrepassato i confini dell’isola britannica.

All’apice della popolarità

Gli anni a cavallo del viaggio a Roma rappresentarono l’apice della popolarità per Macbeth e il suo governo. In patria riscuoteva consensi soprattutto per aver pacificato – a differenza del suo predecessore – un regno in perenne guerra con le popolazioni confinanti. Si fece inoltre apprezzare come riformatore, emanando alcuni provvedimenti sorprendentemente «moderni»: una norma, di tradizione celtica, obbligava per esempio tutti gli ufficiali del regno a difendere le donne e gli orfani; mentre un’altra disposizione stabiliva che, in materia di eredità, alle figlie femmine fossero garantiti gli stessi diritti dei maschi. A causare il declino di Macbeth furono le alleanze che i suoi oppositori strinsero nei luoghi d’esilio.

Nell’estate del 1054, presso la fortezza di Dunsinane (nel Perthshire), gli Scozzesi vennero decimati, perdendo circa 3000 uomini, e lo stesso Macbeth si vide costretto alla fuga (come si legge sia negli Annali dell’Ulster, sia nella Cronaca anglosassone). Tuttavia, la battaglia, già ribattezzata dei «Sette Dormienti» – perché combattuta il 27 luglio, nel giorno nella ricorrenza dei martiri cristiani di Efeso perseguitati dall’imperatore Decio nel 250 – non fu risolutiva e costrinse gli invasori a progettare un nuovo attacco. Nel frattempo, Macbeth si era asserragliato a nord, nel suo Moray, potendo contare ancora sul consenso popolare e sull’appoggio dell’aristocrazia locale. A sud, invece, Malcolm agiva già da sovrano nel territorio conquistato da Siward, che comprendeva il Lothian, la Cumbria e lo Strathclyde, con la capitale Scone. Tra le Highlands e le Lowlands, storicamente divise da differenti identità culturali, venne cosí a crearsi anche una profonda spaccatura politica e la Scozia, per un periodo, ebbe virtualmente due re, nell’attesa che si consumasse la resa dei conti finale. Malcolm preferí non attaccare subito e si decise a farlo tre anni dopo la vittoria di Dunsinane, ap-

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Dossier profittando di un’incursione effettuata dal rivale e dai suoi uomini verso sud, a Lumphanan, un piccolo villaggio a pochi chilometri dall’odierna Aberdeen. Macbeth cadde in un’imboscata e venne ucciso in battaglia, forse proprio da Malcolm. Il luogo della sua sepoltura è tuttora ignoto: numerosi storici lo collocano a Iona, nel santuario simbolo del cristianesimo scozzese in cui riposano i grandi monarchi medievali, ma non si esclude che la sua tomba possa trovarsi proprio a Lumphanan, dove il re combatté l’ultima battaglia. Curiosamente, come sottolinea la Mariani Scotti Chronicon, il sovrano venne ucciso il 15 agosto, lo stesso giorno in cui, qualche anno prima, era stato assassinato anche Duncan. A Macbeth subentrò il figliastro, Lulach, che però governò per un periodo molto breve e solo nella parte settentrionale del regno. Definito «lo sciocco» per le scarse doti politiche e militari, venne ucciso da Malcolm in prossimità della Pasqua del 1058. L’assassinio di Lulach sancí l’epilogo della vicenda storica di Macbeth, un sovrano capace di

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regnare sulla Scozia piú di ogni altro re, per ben diciassette anni, nei quali garantí «pace e prosperità», che, tuttavia, non lo salvarono dalle macchinazioni dei rivali al trono.

Storia di una demonizzazione

L’ombra di Macbeth era in ogni caso destinata a sopravvivere. Già durante il suo regno avevano cominciato a circolare notizie biografiche contrastanti, da quelle di sapore agiografico della già citata Profezia di Belchán alle testimonianze del Duan Albanach, una storia di monarchi che loda il rivale Duncan I e si limita a definire «celebre» Macbeth. Le prime esplicite raffigurazioni negative emersero a partire dalla trecentesca Chronica Gentis Scotorum redatta dal presbitero scozzese Giovanni di Fordun. In essa si descrive il discusso monarca non solo come illegittimo, ma anche come un tiranno sanguinario che aveva assassinato il re Duncan a tradimento. L’opera di Fordun si trasformò in un vero e proprio spartiacque: da quel momento in poi, la figura del

riletture e rivisitazioni

Un mito senza tempo

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A sinistra e nella pagina accanto due sequenze del Macbeth (2015) di Justin Kurzel, con l’attore irlandese Michael Fassbender nei panni del sovrano scozzese.

A destra, in basso Orson Welles, regista e protagonista di una delle piú apprezzate versioni cinematografiche del Macbeth (1948).

La storia e il mito di Macbeth hanno ispirato scrittori, registi cinematografici e musicisti. Tra le rielaborazioni letterarie piú note, possiamo ricordare The Secret History of Macbeth, King of Scotland (1708), nella quale il sovrano è rappresentato come un novello Caligola, Lady Macbeth del distretto di Mcsensk (1865) di Nikolaj Semënovic Leskov, e King Hereafter (1982) di Dorothy Dunnett. Notevole risonanza ebbero gli adattamenti musicali, dalla versione operistica concepita da Giuseppe Verdi nel 1847 a quella sinfonica di Richard Strauss del 1886. Numerosi sono poi gli adattamenti cinematografici, a partire da quello realizzato nel 1908 da James Stuart Blackton, Macbeth, Shakespeare’s Sublime Tragedy, e da un Macbeth di produzione italiana, girato nel 1909 da Mario Caserini. Nel 1948 Orson Welles realizza il suo Macbeth, rivisitazione della tragedia in chiave espressionista di evidente impronta teatrale. Spicca per originalità, poi, La legione dell’inferno (1955) di Ken Hughes, nel quale un Macbeth gangster, aizzato dalla moglie, uccide il capo della banda e diventa boss. Presenta allegorie orientali la versione del giapponese Akira Kurosawa, Il trono di sangue (1957). Lugubre, intriso di inquietanti riferimenti all’occulto e di grande impatto visivo è, invece, Macbeth (1971) di Roman Polanski, mentre il Macbeth (1982) dell’ungherese Béla Tarr si caratterizza per l’intensità intimistica delle inquadrature. L’ultimo e recentissimo Macbeth (2015) dell’australiano Justin Kurzel, associa alla spettacolarità delle sequenze e alla lettura epica della narrazione, l’analisi introspettiva della relazione coniugale tra il sovrano e la perfida consorte.

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Dossier controverso sovrano assunse connotati esclusivamente negativi. La demonizzazione di Macbeth proseguí nel XV secolo, con la Scotichronicon di Walter Bower, una rielaborazione dei temi sviluppati da Giovanni di Fordun, e con la Orygynale Chronykil of Scotland di Andrew Wyntoun, che ritrae il sovrano addirittura come un’entità di origine malefica, nata dall’unione tra una donna e il diavolo. Nella cronaca di Wyntoun aleggia spesso la dimensione sovrannaturale – poi recepita anche dalla tragedia di Shakespeare – con le figure simbolo delle tre weird sisters («le fatali sorelle»), che rivelano al re altrettante profezie apparendogli in sogno.

Una Lady senza scrupoli

In un poema storico cinquecentesco, l’Historia Gentis Scotorum di Ettore Boezio, le donne delle profezie si materializzano nella realtà, rivelandosi come vere e proprie streghe, mentre altri personaggi di fantasia arricchiscono la narrazione: la figura dell’amico Banco (il Banquo shakespeariano), un nobile di stirpe Stuart i cui discendenti erediteranno il regno; e una Lady Macbeth che spinge il marito a conquistare con ogni mezzo il potere. Un altro trattato storico del XVI secolo, il Rerum Scoticarum Historiae di George Buchanan, fa invece riferimento all’eccessiva durezza del sovrano nel reprimere i reati. Tutte le fonti biografiche piú ricche di particolari su Macbeth erano scozzesi e solo alla fine del Cinquecento vennero conosciute in Inghilterra, grazie alle Chronicles of England, Scotland and Ireland di Raphael Holinshed, parziale rielaborazione dell’Historia Gentis Scotorum di Boezio, alla quale attinse a piene mani William Shakespeare per comporre il suo Macbeth. Già nell’Ottocento, studiosi e medievisti cominciarono a interrogarsi sulla veridicità del profilo a tinte fosche attribuito a Macbeth

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dalla fine del Medioevo. Affiorò piú di un sospetto sull’attendibilità di molte fonti e, a oggi, molti dubbi sembrano destinati a rimanere tali. Si trattò solo di una ricostruzione errata degli eventi? Oppure esisteva una precisa volontà di screditare il monarca? Alcuni storici ipotizzarono che dietro lo stereotipo del sovrano malvagio e usurpatore si sarebbero celati obiettivi politici. Giovanni di Fordun aveva scritto la Chronica Gentis Scotorum intorno al 1371, in un periodo in cui la Scozia era reduce dalla seconda guerra di indipendenza, combattuta, con scarse fortune, contro Londra. E in quel clima di fermenti autonomisti, i patrioti scozzesi – come lo stesso Fordun –, al fine di dimostrare l’illegittimità delle aspirazioni di dominio degli Inglesi, tenevano a raffigurare la propria monarchia come un antico e ininterrotto sistema di successioni, regolato da rigorose leggi dinastiche. Macbeth, perciò – salito al trono con la forza, rifiutando di accettare la nuova forma di successione per linea diretta stabilita da Malcolm II –, avrebbe potuto rappresentare un’eccezione pericolosa, un’anomalia tale da mettere in discussione il teorema.

Da leggere U Gareth Murray, Macbeth, re

guerriero. La vita e i tempi di un grande re di Scozia, Strade Blu, Termoli (CB) 2001 U Norman Davies, Isole. Storia dell’Inghilterra, della Scozia, del Galles e dell’Irlanda, Bruno Mondadori, Milano 2004 U William Shakespeare, Le tragedie, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1976 U Fiona Watson, Macbeth. A true story, Quercus, London 2010 U Nick Aitchison, Macbeth: Man and Myth, The History Press, Stroud 2000 U Alex Woolf, From Pictland to Alba, 789–1070, The New Edinburgh History of Scotland, Edinburgh University Press, Edinburgh 2007 U Barbara Crawford, Scandinavian Scotland, Leicester University Press, Leicester 1987

Stranieri «fastidiosi»

Tuttavia Fordun e i suoi epigoni – non a caso tutti originari delle anglosassoni Lowlands – sarebbero stati indotti a screditare Macbeth anche dal fatto che il re proveniva da una terra ribelle delle Highlands, ancora legata alle antiche tradizioni celtiche. Lo studioso inglese Norman Davies sostiene, in proposito, che quando in Scozia l’asse del potere politico si spostò nell’area delle Lowlands – dove gli abitanti di origine celtica delle Highlands erano visti come «fastidiosi stranieri» –, la nuova élite «scoprí di non avere nulla in comune con antenati illustri come Macbeth», il quale rappresentava, anzi, «un motivo di imbarazzo». febbraio

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Giacomo V Stuart in un olio su tavola di scuola scozzese. 1540 circa. Londra, Royal Collection Trust.

La sua reputazione, quindi, «doveva essere assassinata». Gli studi piú recenti, pur tendendo a ridimensionare la portata di un complotto culturale di matrice anglosassone, sottolineano quanto meno la possibile presenza di un pregiudizio nella mentalità dei cronisti Lowlanders nei riguardi dei personaggi storici delle terre del Nord. Osserva la storica scozzese Fiona Watson: «Per il fatto che Macbeth proveniva dal Moray, nelle Highlands ed era ovviamente un re di lingua gaelica, la versione di Fordun su di lui risentiva senz’altro del crescente divario tra le due “razze” della Scozia».

Omaggio ai nuovi potenti

C’è, infine, una terza ipotesi, che si riferisce soprattutto alle cronache composte a partire dal Cinquecento. Già nell’Historia Gentis Scotorum di Ettore Boezio, l’invenzione della figura di Banquo (ai cui discendenti il destino assegnerà il trono) può essere interpretata come una concessione dell’autore al regnante scozzese dell’epoca, Giacomo V Stuart (1512-1542), appartenente alla stessa stirpe anglo-normanna del personaggio. Anche William Shakespeare avrebbe volutamente scelto di raffigurare Macbeth con tinte fosche per omaggiare la stessa casata. Piú di un esegeta del «bardo» di Stratford-upon-Avon – considerato che l’avvento di un sovrano Stuart, Giacomo VI, al trono d’Inghilterra era avvenuto nel periodo precedente alla redazione dell’opera – ipotizza l’intenzione di Shakespeare di ossequiare il nuovo monarca con una vicenda storica dall’epilogo favorevole alla stirpe regale dominante: la profezia si avvera e i discendenti Stuart sono destinati a conquistare il trono scozzese dopo la morte dell’usurpatore Macbeth. V

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Incanto in Valnerina

di Elena Percivaldi

Ferentillo (Terni). L’abbazia di S. Pietro in Valle, la cui prima fondazione viene attribuita, su basi perlopiú leggendarie, a due eremiti di origine orientale, Giovanni e Lazzaro, che vi avrebbero posto mano nel VI sec. Nelle sue forme attuali, il complesso è l’esito di numerosi interventi, ma è comunque evidente la forte impronta romanica.

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Narra la leggenda che, alla metà del VI secolo, 300 monaci d’Oriente dovettero rifugiarsi nella Penisola. Due di loro, Giovanni e Lazzaro, scelsero l’Umbria per fondarvi un’abbazia, che, da una visione ricevuta in sogno, venne intitolata al principe degli apostoli: nasceva cosí S. Pietro in Valle, uno dei gioielli dell’arte medievale, custodito dallo splendido scrigno verde di una delle valli piú belle del Centro Italia

U

n campanile quadrato spunta da un mare di cipressi e ulivi, al termine di una stradina che si snoda tortuosa fra rare casupole. Siamo a Ferentillo, in provincia di Terni, nel cuore della Valnerina. Il gioiello romanico adagiato nel verde della collina, a 360 m sul livello del mare, è S. Pietro in Valle, una delle piú belle abbazie dell’Umbria. La sua posizione discosta rispetto ai grandi e piú popolari itinerari della spiritualità e del turismo, pur a poca distanza dalle Cascate delle Marmore, lo ha forse penalizzato, ma la visita al complesso non delude: oltre a pregevoli esempi di scultura altomedievale e a un importante ciclo di affreschi duecentesco, S. Pietro conserva infatti la sepoltura degli eremiti che la fondarono e dei duchi longobardi di Spoleto che la dotarono di terre e doni. Le informazioni sull’origine dell’abbazia sono contraddittorie e, come spesso accade, avvolte nella leggenda. Nella sua forma attuale, è frutto di ripetuti interventi. Sembra certo che sia stata edificata sui resti di un precedente edificio – a sua volta costruito nei pressi di una piú antica villa romana o santuario pagano – fondato nel VI secolo da due eremiti siriaci, Giovanni e Lazzaro. Costoro erano giunti in Italia insieme ad altri trecento connazionali dall’Oriente per sfuggire al caos creatosi in seguito allo scisma acaciano e alle conseguenti dispute teologiche (il conflitto prende nome da Acacio, patriarca di Costantinopoli, il quale collaborò conl’imperatore Zenone alla redazione dell’Enotico [482], un decreto emanato dal sovrano con l’intento di conciliare la dottrina cattolica con quella dei monofisiti circa la duplice natura, divina e umana, in Cristo; l’iniziativa, condannata da papa Felice III nel 485, provocò uno scisma della durata di 34 anni, n.d.r.), e si erano posti sotto la protezione di papa Ormisda (514-523).

Il sogno di Faroaldo

Alcuni erano poi partiti alla ricerca di luoghi nei quali ritirarsi per condurre vita eremitica, e, tra questi, anche Lazzaro e il cugino Giovanni. Dopo aver predicato a lungo nello Spoletino, intorno al 535 decisero di stabilirsi in una spelonca alle falde del monte Solenne, poco lontano dal fiume Nera, che solcava la valle. Qui vissero in quiete e preghiera per decenni, finché, nel 575, Giovanni morí. Resosi conto che, ormai ultraottantenne, non avrebbe piú potuto badare da solo a se stesso, Lazzaro pregò allora san Pietro di aiutarlo. Vuole la leggenda che l’apostolo fosse apparso in sogno al duca di Spoleto, Faroaldo I (ma una confutazione è riportata in vari testi e in particolare negli studi di Ansano Fabbi), per esortarlo a cercare l’eremita e a costruire per lui un monastero nel quale pregare insieme ai suoi discepoli.

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MARCHE

Città di Castello Pietralunga

Tevere

Arezzo

Montone

Gubbio

TOSCANA

Fabriano Tolentino

Lago Trasimeno

Perugia Assisi Deruta

Nocera Umbra

Spello Foligno ra

Ne

Campello sul Clitunno

Todi Orvieto Lago di Bolsena

Acquasparta Spoleto

Ferentillo Amelia

Rieti

ABRUZZO

Orte

Terni

Cascata delle Marmore

Narni

Viterbo Lago di Vico

Norcia Cascia

LAZIO

Poco tempo dopo, recatosi sul posto forse per una battuta di caccia, il duca incontrò Lazzaro e, memore del sogno, ordinò la costruzione, poco lontano dalla grotta dell’eremita, del nucleo della prima abbazia. La dedica, ovviamente, fu per san Pietro. In breve tempo il nuovo centro religioso divenne un punto di riferimento per tutto il territorio. Organizzata secondo la Regola benedettina, la comunità fu guidata per cinque anni dal santo eremita ora divenuto abate. Lazzaro spirò nel 580 e il suo posto fu preso dal discepolo Giacomo. Tutti e tre i «fondatori» furono sepolti in altrettanti sarcofagi posti sotto l’altare della chiesa, laddove un tempo sorgeva con ogni probabilità un’ara pagana.

Abdicazione o deposizione?

Passò un secolo e mezzo e il complesso, ormai abitato da numerosi monaci, si legò sempre piú ai duchi longobardi di Spoleto, che lo dotarono di beni e ne fecero un centro di potere di notevole importanza. La dimostrazione piú chiara di questo processo è data dalla scelta di Faroaldo II, già benefattore dell’abbazia di Farfa, di ritirarsi proprio a S. Pietro quando, nel 720, rinunciò al trono o, secondo un’altra versione, venne deposto dal figlio Trasamondo II, che gli si era ribellato per la debolezza mostrata nei confronti della politica egemonica condotta da re Liutprando in Italia centrale a scapito della se-

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colare indipendenza del ducato. Una scelta, quella del duca, condivisa dalla moglie Adelasia, alla quale viene attribuita la fondazione del convento femminile di S. Maria della Consolazione, nel castello della vicina Sambucheto (frazione di Ferentillo), dove vent’anni dopo passò a miglior vita. Ma c’è un piccolo «giallo». Gran parte della tradizione storiografica attribuisce a Faroaldo II non soltanto l’ampliamento, ma anche la fondazione vera e propria dell’abbazia, che invece, come si è visto, sarebbe di oltre cent’anni anteriore. Perché? Sempre Ansano Fabbi, e con lui altri storici locali, sostiene che la memoria di Faroaldo II, già duca di Spoleto, poi monaco benedettino e addirittura santo festeggiato il 19 febbraio, sia stata confusa con quella del predecessore Faroaldo I († 591), in quanto il culto di Faroaldo II cade il giorno successivo a quello dei santi eremiti. febbraio

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Dove e quando Chiesa abbaziale di S. Pietro in Valle via dell’Abbazia, località Macenano, Ferentillo (Terni) Orario 1° apr-30 set: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; 1-15 ott: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-17,00; 16 ott-28 feb: sabato e domenica, 10,00-13,00 e 15,00-16,30; 1-31 mar: sabato e domenica, 10,00-13,00 e 15,00-17,00; Museo delle Mummie (chiesa di S. Stefano) via della Rocca, località Precetto, Ferentillo (Terni) Orario 1° apr-30 set: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-19,30; 1-31 ott: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; 1° nov-28 feb: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-17,00; 1-31 mar: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; Info tel. 328 6864226 oppure 335 6543008; e-mail: info@mummiediferentillo.it; www.mummiediferentillo.it

Il chiostro dell’abbazia di S. Pietro in Valle.

Faroaldo I sarebbe quindi il primo «fondatore» leggendario del monastero, mentre Faroaldo II, che vi si ritirò, lo «rifondò» e, con donazioni e restauri, ebbe un ruolo determinante nel suo sviluppo. Quanto le due figure fossero legate è dimostrato anche da un interessante aneddoto. Il padre di Faroaldo II, Trasamondo, era conte di Capua e fu insediato a Spoleto da re Grimoaldo, suo suocero, nel 663: sradicato e proveniente da un ducato lontano, dove era stato imposto dal sovrano, Trasamondo pensò di ingraziarsi i sudditi dando al figlio il nome del primo (e venerato) duca longobardo e ricollegandosi cosí alle piú antiche e gloriose tradizioni del territorio che avrebbe dovuto governare.

Un’epoca turbolenta

Dopo averne restaurato e allargato gli edifici, Faroaldo II morí a S. Pietro in Valle intorno nel 728 e fu sepolto

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anch’egli sotto l’altare della piccola chiesa che, da allora, ospitò le tombe di altri duchi susseguitisi in quegli anni turbolenti. Per quanto carente, la documentazione consente di supporre che vi fu deposto Trasamondo II, cacciato a sua volta e morto nel 765, dopo due effimeri ritorni al potere. E, probabilmente, anche Ilderico Dagileopa, ucciso proprio da Trasamondo dopo che fu nominato duca al suo posto da parte di Liutprando: ancora oggi la chiesetta conserva infatti un pluteo commissionato da Ilderico all’artigiano Urso nel breve periodo in cui resse il potere, come si deduce dall’iscrizione dedicatoria (vedi box alle pp. 98-99). Nei decenni seguenti l’abbazia ospitò duchi e potenti e accrebbe la sua influenza e la sua ricchezza, come mostra un documento dell’840 nel quale Lotario sottrasse i cospicui beni ai monaci per conferirli al vescovo Sigualdo di Spoleto (sarebbero stati restituiti dal succes-

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SARCOFAGO DI FAROALDO II CAMPANILE CONVENTO

sore Luitario). Un’ascesa bruscamente interrotta, però, negli ultimi anni del IX secolo quando il complesso fu saccheggiato dai Saraceni. Nel 898 dopo ben sette anni di assedio, Farfa subí la stessa sorte: ma mentre il monastero sabino fu prontamente ricostruito, S. Pietro in Valle rimase in rovina per un secolo. Si dovette infatti attendere il 996, quando l’imperatore Ottone III di Sassonia, in occasione del suo arrivo a Roma per cingere la corona imperiale, diede ordine di restaurare le chiese e i monasteri devastati dalle incursioni. L’abbazia di Ferentillo riottenne cosí non solo il pieno possesso dei propri beni ma anche cospicui fondi per la ricostruzione. Secondo l’erudito Ludovico Jacobilli (1598-1664), che per primo raccolse e studiò A sinistra pianta della chiesa abbaziale con l’annesso chiostro. In basso, a sinistra l’interno della chiesa. Sulle pareti della navata si conservano resti del ciclo affrescato con scene dell’Antico e del Nuovo Testamento.

FACCIATA DELL’ABBAZIA

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i documenti sulla storia religiosa dell’Umbria, il monastero era cosí malridotto che l’abate dovette far demolire buona parte della costruzione. Durante i lavori furono ritrovati, sotto l’altare, i corpi degli eremiti e di Faroaldo II e si provvide a dividere i primi dal secondo, ponendoli in due deposizioni separate. Nonostante l’illustre patronato, la riedificazione procedette a rilento e, nel 1016, il successore di Ottone III, Enrico II, dovette far pervenire all’abate Ruitprando nuovi fondi per portare a termine il restauro.

Ristrutturazioni e ampliamenti

Proprio a quest’epoca risale buona parte dell’aspetto attuale del complesso, che è dunque in stile romanico, mentre scarsissime sono le tracce della chiesa precedente: le scarne testimonianze longobarde e altomedievali sono oggi disposte – insieme a quattro sarcofagi romani del II secolo, da attribuire per stile a maestranze orientali e riutilizzati per ospitare le spoglie dei duchi e degli

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In basso, sulle due pagine il sarcofago di Faroaldo II, il duca longobardo che viene considerato il «rifondatore» dell’abbazia di S. Pietro in Valle, nella quale morí nel 728.

abati – sulle pareti o ai lati dell’altare, senza piú alcun rapporto con la collocazione originaria. Alla ristrutturazione e al successivo ampliamento appartengono anche il chiostro, gli ambienti monastici e il campanile a pianta quadrata che sembra richiamare moduli stilistici in voga nel Mille a Roma. Nei decenni successivi, cosí ripristinata, S. Pietro poté espandere i propri possedimenti fino all’alto Lazio e a Roma, finendo per attirare l’attenzione dei vescovi spoletini, i quali cercarono a piú riprese di assumerne il controllo. Nel 1190, i monaci dovettero quindi cedere al Comune alcuni castelli fortificati in loro possesso, riuscendo a mantenervi la sola cura delle anime. Con il passaggio del ducato di Spoleto allo Stato pontificio (dal 1198 e poi, definitivamente, dal 1228), l’abbazia passò

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medioevo nascosto ferentillo La lapide di Ursus

Quel ritratto in cerca di un’identità La lastra anteriore di marmo dell’altare della chiesetta conserva una scena originale. La didascalia che corre sui margini superiore e sinistro è la seguente: «+ HILDERICVS DAGILEOPA + IN HONORE(m) / S(an)C(t)I PETRI ET AMORE S(an)C(t)I LEO(nis) / ET S(an) C(t)I GRIGORII / PRO REMEDIO A(ni) M(ae)». Si tratta quindi del pluteo voluto dal duca Ilderico Dagileopa, che resse il ducato di Spoleto tra il 739 e il 742 circa. Decorata con motivi a girandola e a rosa (probabili simboli solari), la lastra presenta, al centro, ai piedi di tre croci (il Golgota? O forse tre croci astili? O ancora, tre flabelli, ventagli mutuati dall’uso orientale e utilizzati durante la liturgia?), due figure maschili barbute, con copricapo aureolato e gonnellino (o tunica). Mentre l’uomo di destra non presenta particolari caratterizzazioni, quello di sinistra impugna un oggetto appuntito e tagliente, sopra e attorno al quale campeggia la scritta «VRSVS MAGESTER FECIT». Chi e cosa

rappresentano? Entrambi sono ritratti in atteggiamento orante e con le braccia alzate, il che fa pensare che siano stati immortalati in un momento rituale: probabilmente il battesimo, se si considerano anche le due colombe e la coppa poste proprio sopra la testa della figura a destra. Il rito avveniva a quell’epoca ancora per immersione. A suggerire l’idea è anche il confronto con altre immagini coeve, che rappresentano scene di battesimo: cosí, per esempio, il cofanetto in osso di san Ludger a Werden, che il monaco, evangelizzatore dei Frisoni e primo vescovo di Münster, usava come altare portatile (e la cui ordinazione episcopale è illustrata con la stessa posizione in un codice del XII secolo conservato alla Biblioteca di Stato di Berlino). E cosí anche la teoria di figure scolpite sul sarcofago del vescovo Agilberto del Wessex conservato nella cripta dell’abbazia francese di Saint-Paul de Jouarre (ultimo quarto del VII secolo). Si è anche pensato che la scena ritragga il sacrificio di Isacco: quindi il

personaggio a sinistra sarebbe Abramo che brandisce il coltello, e quello di destra, appunto, Isacco. Un’altra possibilità è che i due raffigurino il committente della lastra, ossia il duca Ilderico, a destra, e l’esecutore, ovvero Urso, a sinistra, con quest’ultimo che si ritrae con lo scalpello in mano e «firma» l’opera, rivendicando orgogliosamente la paternità del lavoro. Una recente indagine di Donatella Scortecci ha però identificato nella prima figura il duca Ilderico con in mano lo scramasax, classico «attributo militare» longobardo, e, nella seconda, lo stesso duca che spogliatosi dell’arma riceve il battesimo e diventa monaco in abbazia. E oggi questa sembra l’ipotesi più accreditata. Nell’Alto Medioevo, la presenza del nome dell’artista è un evento raro: nella quasi totalità dei casi, infatti, artefici e maestranze sono rimasti anonimi. Le testimonianze giunte integre si contano sulle dita di una mano: oltre al problematico (per via della datazione) «Adam magister»,

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che si legge su una semicolonnina a intreccio del IX secolo in S. Ambrogio di Milano, sappiamo di un altro «magister Ursus», immortalato con gli allievi Iuvintinus e Iuvianus su una colonnina del ciborio della pieve di S. Giorgio in Valpolicella (Verona) e di un «magister Johannes», che compare sulla lastra di Cumiano nell’abbazia di Bobbio (Piacenza). C’è poi il «magister Gennarius», che firma la lastra tombale del venerabile Gudiris nella chiesa di Santa Croce a Savigliano (Cuneo). Infine, un certo Paganus (uno stuccatore, probabilmente il capomastro), che incise il suo nome vicino a una finestra del Tempietto longobardo di Cividale del Friuli (vedi «Medioevo» n. 217, febbraio 2015).

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Nella pagina accanto la lastra anteriore dell’altare della chiesa abbaziale, decorata con motivi ornamentali di varia natura e che, al centro, presenta una scena in cui compare anche la firma dell’artista che la realizzò: «Magister Ursus» (vedi foto in alto).

sotto il controllo della basilica di S. Giovanni in Laterano, a Roma, grazie al cui patrocinio furono intrapresi ulteriori restauri e realizzato il ciclo di affreschi della navata (ma va detto che altri retrodatano le pitture alla metà del XII secolo). Questi lavori coincisero con quelli intrapresi per difendere il monastero nei prospicienti insediamenti di Matterella e Precetto, anch’essi parte dell’odierna Ferentillo: le due torri di avvistamento già presenti furono fortificate e dotate di cinta muraria in modo che, grazie alla loro posizione a strapiombo, potessero tenere agevolmente sotto controllo gli spostamenti lungo la valle del fiume Nera ed evitare improvvisi attacchi. Tuttavia, l’aumento progressivo del traffico a fondovalle comportò il graduale abbandono degli abitati in collina e, di conseguenza, lo sviluppo del borgo moderno intorno alla duecentesca pieve di S. Maria. Sempre piú isolata, S. Pietro viene affidata nel 1234 all’abbazia di Chiaravalle di Fiastra (situata nei pressi di Tolentino), di obbedienza cistercense: scelta che segnò l’inizio di un lungo periodo di decadenza. Meno di un secolo piú tardi, il 3 agosto 1303, a causa della vita non proprio irreprensibile condotta dai monaci, papa Bonifacio VIII decideva di assegnarla in via definitiva al Capitolo Lateranense. In seguito l’abbazia passò dapprima sotto il controllo della famiglia Cybo, a cui fu concessa in feudo da papa Sisto IV nel 1477, e poi degli Ancajani, che la tennero come commenda fino al 1850, quando ne divennero proprietari. Agli inizi del secolo scorso l’ultima discendente degli Ancajani cedette la chiesetta al parroco di Ferentillo e vendette il convento a Ermete Costanzi. Oggi la famiglia Costanzi, attuale proprietaria del sito, dopo un intervento di ristrutturazione ultimato nel 1998, ha trasformato il complesso in una raffinata residenza d’epoca. Ma se le celle un tempo occupate dai monaci sono diventate il ricovero ideale per turisti in cerca di riposo e tranquillità e non sono dunque visitabili, la chiesetta, con i suoi affreschi e le sue tombe illustri, è meta di un turismo consapevole e rispettoso del suo passato nobile e plurisecolare. E grazie agli eventi, alle mostre e ai convegni che ospita, rivendica oggi il ruolo di alfiere culturale della Valnerina e rappresenta lo scrigno piú autentico e suggestivo delle sue memorie.

Visitiamo insieme

Della prima costruzione del VII secolo, a croce latina con una grande aula longitudinale, oggi non rimane praticamente nulla. Saccheggiato dai Saraceni alla fine del IX secolo, il complesso era ridotto a poco piú di un rudere quando, un secolo dopo, fu iniziato il restauro su impulso della corona imperiale. Ciò che ancora si conservava venne abbattuto, le reliquie di Faroaldo e dei primi abati furono divise in due sepolcri distinti e

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medioevo nascosto ferentillo A sinistra particolare del registro mediano della parete destra nel quale si vede il ritorno dei Magi ai loro paesi dopo avere reso omaggio al Bambino. Nella pagina accanto Madonna in trono e due santi, affresco dell’abisde sinistra della chiesa abbaziale. 1452. Alla stessa epoca risalgono altri dipinti murali, realizzati da un artista noto come maestro di Eggi, attivo nello Spoletino e nel Folignate. Qui accanto la parete sinistra. Nel registro mediano si susseguono: il Sacrificio di Abele e Caino, Noè davanti all’eterno e la Costruzione dell’arca.

la chiesa ricostruita con pianta a croce commissa (o a tau) secondo modelli in vigore Oltralpe nella seconda metà del Mille (per esempio nel secondo ampliamento di Cluny e a St. Michael di Hildesheim). A questa età risalgono anche le sculture dei santi Pietro e Paolo che ornano il portale sud dell’edificio. Del ciborio che doveva trovarsi sopra l’altare, probabilmente caduto in rovina nel secolo successivo al danneggiamento, resta solo qualche frammento arcuato, cosí come del tutto perduta è la struttura decorata con plutei

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scolpiti commissionata dal duca Ilderico: le lastre superstiti si trovano ora disposte attorno all’altare. L’attuale facciata risale alla fine del Quattrocento e fu voluta dall’abate Dario Ancajani (1478-1503), che arricchí l’interno con altre opere d’arte e vi impose lo stemma di famiglia. Tra gli elementi piú interessanti conservati all’interno, oltre alle testimonianze romane e longobarde murate in una sorta di lapidario sulle pareti, va senz’altro annoverato l’imponente ciclo di affreschi del XII secolo raffigurante, nella navata, scene dall’Anfebbraio

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medioevo nascosto ferentillo tico e dal Nuovo Testamento, dalla Creazione fino alla Morte di Cristo. Disposte su tre diversi registri delimitati da finte architetture, le scene furono eseguite da due artisti (rimasti anonimi) in due tempi diversi: dapprima l’Antico, poi il Nuovo Testamento.

Un grande cantiere pittorico

La storica dell’arte Giulia Tamanti ha voluto riconoscervi gli affreschi romanici piú antichi dell’Umbria, prodotti da quello che può essere considerato il cantiere pittorico piú grande dell’Umbria fino alla costruzione della basilica di S. Francesco di Assisi. Di piú, per via dell’«introduzione del movimento, del naturalismo, della prospettiva» e per l’abolizione delle proporzioni gerarchiche il ciclo rappresenterebbe un autentico preludio alle innovazioni stilistiche del XIII secolo e sarebbe stato studiato da Giotto in persona. Il ciclo rimase occultato sotto uno strato di intonaco fino al 1869, quando fu riscoperto e liberato dalla scialbatura. Le scene sottostanti, fortunatamente, erano quasi tutte abbastanza ben conservate, per quanto riguarda l’Antico Testamento, mentre le prime del Nuovo erano andate perdute. Studi stilistici, rinvigoriti in occasione dei recenti restauri, hanno ribadito la vicinanza degli esecutori alla scuola romana, in particolare ai maestri impegnati nella decorazione di S. Giovanni a Porta Latina (ciclo datato al 1191 circa). La chiesetta conserva anche altri affreschi piú tardi (XV e XVI secolo) uno dei quali – nel transetto, a

le mummie

Il gobbo, il soldato e i pellegrini Poco lontano dall’abbazia di S. Pietro in Valle, nel centro del paese (località Precetto), la cripta della parrochiale di S. Stefano ospita una sorprendente serie di mummie naturali. Il fenomeno fu scoperto quando, applicando le disposizioni previste dall’editto di Saint-Cloud (1804), anche a Ferentillo si dovette provvedere a dar sepoltura ai morti fuori dal paese e non piú, come fino ad allora era avvenuto, nelle chiese. Nello sgomberare la cripta ci si accorse che molti corpi dei defunti si conservavano ancora (per alcuni, abiti compresi): la causa fu attribuita (sebbene non vi sia alcuna certezza scientifica a riguardo) alla presenza di un microrganismo in grado di disidratare i tessuti. Le venticinque mummie conservate appartengono a varie

Nella pagina accanto una delle mummie che si conservano nella cripta della parrocchiale di S. Stefano. Si tratta di venticinque individui, morti in epoche diverse: il caso piú antico risale forse al XVI sec.

Appuntamento in abbazia

Ultime novità sulla storia del monumento «Il sogno di Faroaldo. L’abbazia di San Pietro in Valle tra realtà e leggenda»: è questo il titolo del convegno in programma sabato 6 febbraio a Ferentillo, nell’abbazia di S. Pietro in Valle, in occasione del servizio che «Medioevo» dedica al monumento. L’incontro, organizzato nella Sala capitolare dal Gruppo Archeologico Naharki Valnerina con inizio alle ore 11,00, darà modo di rileggere la storia dell’abbazia legata al duca longobardo Faroaldo, ma anche di fare il punto sulle ultime scoperte, in particolare sulla nuova interpretazione della cosiddetta «lapide di Ursus», uno dei piú celebri manufatti conservati nella chiesetta.

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Dopo il saluto del sindaco di Ferentillo Paolo Silveri, interverranno l’autrice dell’articolo, Elena Percivaldi, e il direttore del mensile, Andreas M. Steiner, Sebastiano Torlini (Gruppo Archeologico Naharki Valnerina), Donatella Scortecci (Università di Perugia), don Rinaldo Cesarini della Diocesi di Spoleto, Giorgio Flamini (Associazione Italia Langobardorum). L’editore Enrico Chigioni presenterà «Lo Scrigno del Tempo-I Longobardi», progetto che prevede la pubblicazione di alcuni facsimili di importanti codici longobardi a cura di Capsa Ars Scriptoria. L’incontro è arricchito dagli interventi dei rievocatori della

compagnia Fortebraccio Veregrense, che proporranno uno spaccato di vita quotidiana longobarda, combattimenti e, soprattutto, brani musicali ricostruiti in base alle ricerche compiute nell’ambito del progetto Winileod (nato per sperimentare la musica altomedievale partendo dallo studio dei testi originali e del folklore), e realizzati grazie a ricostruzioni di strumenti dell’epoca. Alla fine del convegno è prevista la visita guidata all’abbazia. Info: tel. 3334317673, 328 6864226 oppure 335 6543008; e-mail: info@mummiediferentillo.it; www.mummiediferentillo.it febbraio

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epoche (la piú antica risale forse al Cinquecento) e sono state sistemate in teche nella cripta stessa, attualmente adibita a museo. Tra i personaggi, identificati grazie a tradizioni orali corroborate da ricerche condotte negli archivi locali, vi sarebbero un soldato dell’esercito di Napoleone morto impiccato, una donna deceduta durante il parto e il suo bambino, un avvocato ucciso da una coltellata, il «gobbo Severino» e, soprattutto, due sposi di origine asiatica che transitavano nella cittadina umbra forse per un pellegrinaggio a Roma: stroncati dalla peste, non vi sarebbero mai arrivati. sinistra – rappresenta il sogno del duca Faroaldo che, secondo la leggenda, diede origine al monastero. I piú interessanti sono però quelli attribuiti al maestro di Eggi, pittore attivo nello Spoletino e nel Folignate alla metà del Quattrocento e nominato dal ciclo nella chiesa di S. Michele Arcangelo a Eggi (Spoleto). Il dipinto che domina il catino absidale rappresenta il Cristo Benedicente attorniato dagli angeli e accompagnato, nel registro inferiore, da una teoria di santi: Marziale, Eleuterio, Lazzaro, Placido, Benedetto, Mauro e altri tre di cui solo il primo, Giovanni, è identificabile grazie all’iscrizione sottostante. Molti di questi sono, secondo una diffusa tradizione agiografica che amplia la Passio XII fratrum derivata dai Dialogi di Gregorio Magno, compagni di un eremita, Isacco, che giunse a Spoleto in epoca gota e fondò un ritiro sul Monte Luco. A loro volta, i suoi discepoli furono artefici di fondazioni monastiche, poi affiliate all’obbedienza benedettina: tutti questi santi monaci sono infatti disposti idealmente intorno alla figura, centrale, di san Benedetto, che raccolse l’eredità dell’anacoretismo, dandole una Regola destinata a cambiare la storia religiosa d’Europa. Il maestro di Eggi raffigurò anche molti di questi

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santi in un vasto ciclo di affreschi realizzati nel 1442 nella chiesa di S. Giuliano di Spoleto, di cui fu abate Marziale e che divenne punto di riferimento per gli altri eremi della zona. Si ringrazia Sebastiano Torlini per l’aiuto fornito alla redazione dell’articolo e al reperimento del corredo iconografico. F

Da leggere U Francesca Dell’Acqua, Ursus «magester»: uno scultore di

età longobarda, in Enrico Castelnuovo, «Artifex bonus». Il mondo dell’artista medievale, Laterza, Roma-Bari 2004 U Giulia Tamanti (a cura di), Gli affreschi di San Pietro in Valle a Ferentillo. Le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, Electa, Napoli 2003 U Ansano Fabbi, Abbazia di S. Pietro in Valle a Ferentillo, Abeto 1972 U Giustino Farnedi, Nadia Togni, Monasteri benedettini in Umbria. Alle radici del paesaggio umbro, Regione Umbria-Centro Storico Benedettino Italiano, 2014 U Anna Maria Orazi, L’Abbazia di Ferentillo: centro politico, religioso, culturale dell’alto Medio Evo, Bulzoni Editore, Roma 1979

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«Se Parigi avesse il mare...»

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ARALDICA • Seguendo

le orme dei Fugger, la celebre dinastia di banchieri che, facendo base ad Augusta, creò una sorta di monopolio delle attività creditizie, capita di imbattersi in una sorprendente vicenda di emigrazione «al contrario»...

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Salvo diversa indicazione, le immagini sono tratte dallo Stemmario Trivulziano (XV secolo). 1. Stemma Fugger dal Giglio. 2. Stemma Fugger nella cappella del palazzo di Trento; il secondo quarto rammenta la contea di Kirchberg e il terzo, parlante, quella di Weissenhorn (letteralmente, corno bianco).

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nche l’Europa transalpina ebbe i suoi Medici: si tratta dei tedeschi Fugger, i quali, come i Fiorentini, furono mecenati e grandi collezionisti – ma anche filantropi ante litteram, come prova l’istituzione della Fuggerei di Augusta (città nella quale, provenienti dalla Svevia, si erano insediati nel 1367), un quartiere antesignano delle nostre «case popolari», ancora oggi gestito dalla fondazione familiare (www.fugger.de) –, e che, non a caso, sostituirono i primi nell’egemonia del commercio del danaro nella Vecchia Europa, estendendo poi il business anche al Nuovo Mondo. Tuttavia, se i primi sono famiglia di tradizioni militari già pienamente inserita nel XII secolo nell’élite 3. Stemmi di differenti rami dei Welser fra le famiglie patrizie di Augusta come raffigurati nel Wappenbuch des Heiligen Römischen Reichs di Johann Siebmacher (Norimberga 1605).

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4. Stemma municipale di Augusta. 5. Stemma degli Imhof di Augusta e Norimberga.

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6. Antiporta incisa del Genealogie viginti illustrium in Italia familiarum (Amstelodami MDCCX) raffigurante l’autore Jacob Wilhelm Imhof e lo stemma familiare. comunale fiorentina, i secondi, anche per la differente nozione di nobiltà in auge nel regno germanico, devono considerarsi, almeno per quanto si conosce della loro estrazione, borghesi in senso proprio.

La fortuna nasce dalle stoffe Se, infatti, la mercatura non era per i Medici derogante al proprio status «nobiliare» originario, essa non permette di considerare i Fugger di nobiltà originaria per i canoni del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica già cari al cronista e storico Ottone di Frisinga (1114 circa-1158): le origini delle fortune delle due casate risiedevano 7. Stemma dei Lampugnani. 8. Stemma dei Reina.

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comunque nel commercio di tessuti, che raggiunse velocemente orizzonti sempre piú vasti, permettendo a entrambe di impiegare i capitali accumulati sia nell’attività feneratizia su sempre maggior scala, che nell’acquisto di proprietà immobiliari e fondiarie. Se fortunate operazioni creditizie permisero poi a un’altra illustre dinastia di merchant bankers di Augusta, i Welser, di ottenere e trattenere in pegno dall’impero nientemeno che la «piccola Venezia» del Nuovo Mondo, il Venezuela appunto, i concittadini Fugger conseguirono dagli Asburgo un vero e proprio monopolio sulle attività estrattive di argento, rame e mercurio già prima della scoperta colombiana. Non a caso, fra il 1508 e il 1515, essi furono in grado di avere in appalto dalla Santa Sede la zecca della Città Eterna: e S. Maria dell’Anima – la

chiesa nazionale tedesca che si trova nei pressi di piazza Navona – ne ospita la cappella sepolcrale. La famiglia, i cui membri continuarono a praticare nella nativa Augusta la tradizionale attività di banchieri privati, si suddivise in differenti linee, che si denominarono dai mobili dello stemma: quella primogenita, detta «dal capriolo», tuttavia decadde presto, lasciando il proscenio a quella cadetta, detta «dal giglio».

I rami cadetti Da Georg (1453-1506) e da Regina Imhof derivano tutte le linee principesche e comitali, che si denominarono dai possessi di Kirchberg, Weissenhorn, Gloett e Babenhausen, inquartando il semplice blasone originario

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CALEIDO SCOPIO 1. Stemma dei Tanzi milanesi comune al ramo barese. 2. Variante dello stemma dei Tanzi. 3. Stemma Affaitati, piú simile, tuttavia, a quello portato dal ramo belga che a quello originario della stirpe

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con quarti parlanti. Quanto alla famiglia della moglie, essa è certo meno illustre, ma non meno nota ai genealogisti: appartenente al patriziato di Norimberga e ramificata ad Augusta, ne uscí in seguito il genealogista Jacob Wilhelm Imhof (1651-1728), noto in Italia soprattutto per le sue Genealogiae viginti illustrium in Italia familiarum, pubblicate ad Amsterdam nel 1710 (ma anche per la Historia Italiae et Hispaniae genealogica, apparsa nella natía Norimberga nel 1701, e che vorrebbe far discender dal longobardo Desiderio piú di una casata spagnola, oltre ai Visconti milanesi e agli Sforza, e ai San Martino ramo dai conti del Canavese).

Un animale chimerico Gli Imhof alzarono per arme un caratteristico animale chimerico, il leone marinato, simbolo di duplice natura, terrestre e acquatica, ed evidentemente di adattabilità: e fu stemma profetico. Infatti, accanto a quella dei suddetti Fugger (da Focher), tale loro arma gentilizia, alla voce de Incuria con la dicitura gentilhuomini d’Augusta et Norimberga, figura nel quattrocentesco Stemmario

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cremonese, che alza un grifo d’oro in campo azzurro. 4. Stemma dei Carcano, ramo dei capitanei della pieve di Incino, il cui ramo pugliese, nel 1626, successe per matrimonio nella titolarità del ducato di Montaltino.

Trivulziano: è la traduzione letterale del 2 gentilizio tedesco Im (in) Hof (corte, curia) in termini latini! Ma il loro viaggio in Italia non si concluse tra le brume padane: probabilmente in seguito alla concessione del ducato barese alla casa sforzesca (1464), essi proseguirono per la città di san Nicola, entrando a far parte, con altre casate lombarde, del locale eterogeneo patriziato.

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Dalle brume agli olivi Accanto a questi antesignani di Goethe, lasciarono la Lombardia, per trattenersi in Puglia, collaterali 3 della stessa casa viscontea, la cui discendenza sussiste in loco nella stirpe originariamente catalana dei Sagarriga Visconti, un ramo dei quali aggiunse piú tardi il casato dei comaschi Volpi, pure ascritti al patriziato barese; da Milano o dal suo contado giunsero in epoca coeva i Lampugnani – forse esuli in seguito alla congiura del congiunto Gian Andrea ai danni di Galeazzo Maria Sforza (1476)? –, i Reina e i Tanzi, e da Cremona gli Affaitati. Questi ultimi erano ramo di un’altra grande casata mercantile-bancaria, non a caso associata ad Anversa ai sullodati Welser, e all’origine degli Affaytadi, principi di Hilst, baroni e

poi conti di Ghistelles ancora fiorenti in Belgio nell’Ottocento. Nel 1626, invece, la stirpe capitaneale dei Carcano entrò in possesso del ducato di Montaltino presso Barletta per matrimonio, titolo passato in egual modo nei Filiasi al principio del secolo scorso: ne uscí il filosofo Paolo Filiasi Carcano (1911-77). Il nome dei sullodati Incuria continua invece nei Tarsia Incuria di Conversano: che, secondo le migliori tradizioni di partecipazione alla cosa pubblica, hanno avuto in Achille (1912-2005) un deputato alla Repubblica. Se nel 1982 il regista Mariano Laurenti diresse una commedia all’italiana intitolata Si ringrazia la regione Puglia per averci fornito i milanesi, piú di mezzo millennio fa, evidentemente, l’emigrazione era di segno contrario, ed era dalla Germania e da Milano che si scendeva a Bari, e non viceversa: «Se Parigi avesse il mare...». Niccolò Orsini De Marzo febbraio

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Come una lingua LIBRI • Gli stemmi nobiliari possono rivelare

informazioni ben piú ampie della sola identità di chi li inalberava. Lo ribadisce un volume che, ispirato da un convegno, ne ha significativamente ampliato il tema

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ominciamo dal titolo: arme o arma è un vocabolo arcaico sostituito oggi dalla parola di origine greca stemma, cioè corona, sinonimo di decorazione, segno distintivo di gerarchia nobile, mentre il primo termine ricordava l’origine militare e funzionale dell’insegna araldica, consistente in una figura o piú figure e simboli astratti dipinti sullo scudo. E perché segreta? Perché alla maggior parte di coloro che l’osservano appare indecifrata, ma anche perché, sciolto l’enigma del suo significato, si rivela – proprio come un ordigno bellico che sorprende il nemico – capace di risolvere una situazione e svelare la committenza, gli artisti, i passaggi di proprietà, la datazione di un’opera d’arte, la cronologia, come spiega Alessandro Savorelli nella lunga introduzione. L’autore si incarica anche di dare conto della genesi del libro. L’origine è un convegno del 2010 sugli studi araldici fortemente voluto da

Monica Donato, di cui è presente un vivacissimo contributo – rimasto purtroppo privo della conclusione a causa della prematura scomparsa della studiosa –, nel quale si dà conto di quanto le allusioni araldiche, allora perfettamente comprese, fossero pervasivamente presenti in prediche, novelle, motti di spirito e versi, a cominciare dalla Divina Commedia. L’araldica va considerata come una lingua, con una grammatica precisa di figure e colori di solito stilizzati, e una sintassi fatta di usi e regole trasmessi immutati per generazioni.

Alla portata di tutti Gli studiosi prendono per mano il lettore e insegnano a «leggere», comunicando quel piacere che tutti noi provammo da bambini quando le lettere smisero di essere segni incomprensibili. L’arme segreta nasce da un convegno, ma non è la raccolta degli atti relativi. Castello della Manta (Cuneo). La Sala baronale, sulle cui pareti corre un ciclo affrescato raffigurante Nove Prodi e Nove Eroine dell’antichità.

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Matteo Ferrari (a cura di) L’arme segreta. Araldica e storia dell’arte nel Medioevo (secoli XIII-XV) introduzione di Alessandro Savorelli, Le Lettere, Firenze, 347 pp., 29 tavv. col. e ill. b/n 35,00 euro ISBN 9788860876645 www.lelettere.it La ventina di contributi, che non si indirizzano solo agli addetti ai lavori, ma anche agli storici dell’arte e a quanti abbiano curiosità di capire, raccoglie un piccolo fascio di esempi, esaminando singole tavole o cicli affrescati assai noti (come, relativi a quest’ultimi, quello dei «cavalieri di Francia» di San Gimignano, o dei Nove Prodi e delle Nove Eroine nel castello della Manta, Cuneo), ma anche miniature, sarcofagi, campane, soffitti dipinti. I saggi indagano i rapporti fra araldica e storia dell’arte, fra testo e immagine e, infine, la funzione sociale dell’araldica come rappresentazione del potere o veicolo di memoria dinastica, strumento di comunicazione politica e di propaganda. Molto godibili le tavole a colori e le illustrazioni in bianco e nero. Assai utile, infine, l’appendice bibliografica che chiude il volume. Chiara Frugoni

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UN ANTROPOLOGO NEL

MEDIOEVO Paolo e Francesca scoperti da Gianciotto, olio su tela di Giuseppe Frascheri. 1835. Savona, Palazzo del Municipio.


Dimmi come parli e ti dirò perché Disegno ricostruttivo del castello di Canossa, cosí come doveva apparire al tempo della gran contessa Matilde, tra l’XI e il XII sec.

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e espressioni idiomatiche hanno una storia e una geografia: nascono, cambiano, si dimenticano ma, soprattutto, hanno un contesto in cui sono comprensibili. Per noi sarebbe difficile, per esempio, intendere Trimalchione nel Satyricon quando dice «Da rana che era, ora è re» se non conoscessimo la favola del Principce ranocchio dei fratelli Grimm, il cui protagonista si trasforma appunto in un re. Raccontate in un determinato spazio geografico, le espressioni idiomatiche possono sopravvivere per secoli, a volte slittando dal loro significato originario. Come nel caso di «lupus in fabula», che oggi utilizziamo quando vogliamo intendere «parli del diavolo e spuntano le corna», ma che, all’origine, o almeno ai tempi di Virgilio, rifletteva un’antica credenza secondo la quale se il lupo vedeva per primo un uomo lo rendeva incapace di parlare: quindi il lupo entrava nella fabula intesa come conversazione, non «nella favola».

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La nostra vita è piena di espressioni che nacquero o si diffusero nel Medioevo, molte delle quali – come «Galeotto fu il libro», «Stai fresco!», «Senza infamia e senza lode» – provengono dalla Divina Commedia di Dante Alighieri.

E venne il tempo di accantonare la lettura... Quand’era nel cerchio dei lussuriosi, Francesca da Rimini racconta al poeta del suo amore per Paolo Malatesta, divenuto manifesto a entrambi mentre erano intenti alla lettura di un brano di un romanzo in cui Ginervra, la regina sposa di re Artú, bacia il suo amato Lancillotto. Dalla letteratura ai fatti, e Paolo la «basciò tutto tremante»: il siniscalco Galeotto (Galehaut) fu colui che favoriva gli incontri segreti tra Lancillotto e Ginevra e cosí «galeotto» fu quel libro che, confessò Francesca, quel giorno «piú non vi leggemmo avante». Anche lo «stare fresco», che in genere si utilizza quando si vuol dire «allora finisce male» o per dire «no» in un modo un po’ irrisorio, ci rimanda all’Inferno e

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CALEIDO SCOPIO al ghiacciato lago Cocito, «là dove i peccator stanno freschi», perché immersi nel ghiaccio. Sempre all’Inferno furono gli ignavi, coloro che non presero mai posizione, vivendo «sanza ‘nfamia e sanza lodo». Cosí vengono da questo capolavoro tanti altri modi di dire: da fare «il gran rifiuto», che Dante riferisce al papa Celestino V dimessosi dalla sua carica, all’espressione «roba da far tremare le vene e i polsi», che necessita qualche parola di spiegazione. Non è che a Dante, di fronte alla lupa incontrata nel I canto dell’Inferno, per la paura tremassero i polsi, ovvero la parte anatomica su cui noi allacciamo in genere l’orologio, o le sue vene. Polsi qui significa arterie, da pulsum, participio passato del latino pello, «batto», dal battito del cuore. Quindi «vene» e «polsi» sono praticamente sinonimi e indicano il tremore che avviene quando c’è meno afflusso di sangue e, come spiegava già Giovanni Boccaccio, nel suo Commento alla Divina Commedia, «avviene quando il cuore ha paura, per ciò che allora tutto il sangue si ritrae a lui ad aiutarlo e riscaldarlo, e il rimanente di tutto l’altro corpo rimane vacuo di sangue e freddo e palido». Ma non c’è solo Dante. Il motto «Il mattino ha l’oro in bocca», per esempio, si legge per la prima volta in una lettera di Erasmo da Rotterdam del 1497 sotto la forma latina di «aurora musis amica», «l’aurora è amica delle muse», e, nel secolo successivo, lo ritroviamo in Germania nella forma «Le ore del mattino hanno l’oro in bocca».

Un’attesa lunga tre giorni Nei giornali di oggi sembra quindi «andare per la maggiore» (espressione a sua volta derivante dalla distinzione nei Comuni medievali tra le arti «maggiori» e quelle «minori») l’espressione «andare a Canossa», che significa una grave ma necessaria umiliazione. Proviene dal noto episodio di Enrico IV costretto a chiedere perdono al papa Gregorio VII, all’epoca (1077) ospite dalla contessa Matilde di Canossa: era inverno e faceva freddo alle porte del castello, ma si vuole che il papa facesse attendere il re per tre giorni, dal 25 al 27 gennaio, prima di riceverlo e perdonarlo. Tra le espressioni risalenti al Medioevo troviamo ancora «fare bancarotta», Statua in legno policromo di san Giacomo Maggiore nelle vesti di un pellegrino. Santillana del Mar, Museo Diocesano.

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derivante dall’uso di rompere il banco (bancae ruptio) al commerciante che dichiarava fallimento; e poi ancora «mettere alla berlina», ovvero una punizione consistente nell’esporre il condannato ai pubblici insulti mettendolo in ginocchio con la testa e le mani infilate in un’asse di legno con appositi fori, la berlina, appunto.

Sulla via di Compostella Di grande interesse, infine, è l’insolito modo di dire che attribuisce alle gambe la caratteristica di «fare giacomo giacomo» quando si è stanchi o deboli. Molte sono le ipotesi avanzate sull’origine di questa espressione idiomatica. Alcuni studiosi vi vedono un accostamento alla stanchezza delle gambe dei pellegrini che si recavano a San Giacomo di Compostella in Galizia; altri la associano al medesimo santuario, ma ricollegandola a concezioni mitiche delle società subalterne legate alla morte, vista come il passaggio di un ponte o della Via Lattea, detta popolarmente anche «Cammino di San Giacomo». La connessione con san Giacomo verrebbe quindi confermata, ma attraverso un mitico pellegrinaggio post mortem. Altri ancora hanno visto in quel «giacomo giacomo» una trecentesca voce imitativa, «giach», che designava il rumore dello strascicamento dei piedi, l’acciabattio. Quindi questa antica forma «fare giach» si sarebbe evoluta in quella attuale, diventando nome proprio, reiterato per dargli una maggiore espressività ritmico-imitativa. L’origine dell’espressione potrebbe anche essere legata al francese Jacques, con cui si intende, al di là del nome proprio, anche il paysan, il contadino, testimoniato almeno dall’epoca della ribellione dei contadini del 1358, detta Jacquerie, il cui capo sarebbe stato Jacques Bonhomme, termine col quale si indicava anche lo «sciocco». Sia in italiano sia in francese il nome dà origine alle locuzioni popolari «far giacomo» e «faire le jacques», intese nel senso di semplicione o debole di mente. Quindi potrebbe essere accaduto che le gambe tremanti o vacillanti siano state definite, per traslato, scimunite o imbecilli. D’altronde, anche in latino con imbecillus e imbecillitas, si intendevano sia la debolezza fisica, sia quella mentale. Il raddoppiamento del nome, «giacomo-giacomo» è peraltro abbastanza frequente nelle forme popolari di avverbio, sul tipo «pian piano», «lemme lemme», «man mano», «via via». Claudio Corvino febbraio

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Giorgio Chittolini L’Italia delle civitates Grandi e piccoli centri fra Medioevo e Rinascimento

Roma, Viella, Roma, 264 pp.

24,00 euro ISBN 9788867283859 www.viella.it

Raccogliendo saggi già editi, il volume ripercorre un tema caro all’autore: la definizione delle peculiarità dei centri urbani della Penisola rispetto alle altre città europee e a quelle tedesche in modo particolare. A tal fine, risulta basilare il concetto di «civitas», vocabolo con il quale i cronisti coevi definivano i centri italiani sede di diocesi, e quindi punto di riferimento e fulcro per il territorio circostante. Altri elementi distintivi si ravvisano nel diverso grado di autonomia dall’autorità

politica superiore, e, soprattutto, nel rapporto con il territorio. Quella italiana, non era una città, ma piuttosto un vero e proprio «Stato cittadino», elemento base dell’organizzazione politica della società in epoca comunale, sotto la sovranità e l’egida dell’impero, il cui riconoscimento costituiva la garanzia della libertà. Proprio questi nuclei statali a tutti gli effetti si trasformarono, nella Penisola, nel maggiore ostacolo alla formazione di Stati regionali tra il XIV e il XV secolo: città dominanti, come Firenze o Milano, si trovavano infatti di fronte una miriade di centri urbani dotati di ampi poteri amministrativi, fiscali e giurisdizionali sui propri territori. Solo

scorporando dalle altre città della Toscana i relativi contadi e annettendoli, Firenze riuscí ad aggregare lo Stato regionale piú omogeneo e forte tra quelli italiani. Altri centri urbani, come Milano, poterono ottenere una certa coesione statale soltanto mediante patteggiamenti continui con città, comunità e feudi che cercavano di assoggettare. La legittimazione imperiale, ottenuta dai Visconti alla fine del Trecento, mediante il conferimento del titolo ducale a Gian Galeazzo (1396), e da Firenze attraverso l’ottenimento dei privilegi imperiali (1355 e 1369), era talvolta di ausilio in questo difficile compito. All’inizio del Quattrocento, nel tentativo di garantire

una maggior sanzione giuridica del proprio potere, Firenze elaborò il concetto di «civitas potens», ovvero di città dominante sul territorio e sui centri urbani del distretto. A Milano, invece, l’imperatore offrí lo status di «città imperiale», con le relative prerogative, a patto della sottomissione diretta mediante giuramento. Tuttavia, la Repubblica Ambrosiana, che incarnava il governo cittadino, rifiutò, ritenendosi erede delle libertà comunali ottenute a Costanza (1183) e perciò legittimata a rivendicare il dominio e la piena giurisdizione sulle città e sui territori

del ducato visconteo, prerogative di cui all’impero spettava soltanto la conferma. Partendo dalla nozione di «civitas» elaborata dai viaggiatori e dagli ambasciatori del primo Cinquecento, Chittolini esamina dunque i modi in cui i centri urbani d’Oltralpe e quelli tedeschi venissero designati, per poi analizzare l’identità territoriale e statale delle città italiane del CentroNord tra il XV e il XVI secolo, e passare quindi all’esame del territorio e dei centri minori tra il XIII e il XVI secolo, alle questioni dell’organizzazione territoriale e della trasformazione della città in metropoli e, infine, all’aspetto religioso legato al riordino delle circoscrizioni ecclesiastiche. Maria Paola Zanoboni

Beniamini di corte MUSICA • Città come

Ferrara e Mantova furono le patrie adottive di musicisti insigni, che lí ebbero modo di dare prova del proprio talento 112

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ra il XV e il XVI secolo, le grandi corti italiane – pensiamo, per esempio a quelle degli Estensi e dei Gonzaga – si trasformarono in veri e propri cantieri di produzione musicale, con la costituzione di cappelle private che, per molti compositori, divennero il trampolino di lancio per una fulgida carriera. È quanto successe, per esempio, ai polifonisti franco-fiamminghi

Jacquet da Mantova e Antoine Brumel, ai quali il Brabant Ensemble dedica due nuove registrazioni. Di origine bretone, Jacquet da Mantova (1483-1559) si stabilí definitivamente in Italia sul finire del XV secolo. A Mantova ottenne dal vescovo Ercole Gonzaga l’incarico di guidare la cappella di musica della cattedrale dei Ss. Pietro e Paolo. Molto attivo in ambito liturgico febbraio

MEDIOEVO


– scrisse 24 messe e oltre 100 tra mottetti, inni e salmi –, Jacquet non rappresenta forse il massimo dell’originalità compositiva, ma ebbe un ruolo importante, ponendosi come trait d’union tra il ferreo contrappunto quattrocentesco fiammingo e la piú distesa polifonia cinquecentesca, destinata, di lí a qualche decennio, a trovare i suoi vertici piú alti con compositori come Giovanni Pierluigi da Palestrina o Tomas Luis da Victoria.

Organici vocali variabili L’antologia Jacquet de Mantua. Missa Surge Petre & Motets si apre con il mottetto a sei voci Surge Petre, che costituisce la base su cui fu composta l’omonima messa, anch’essa a sei voci. Una messa che prevede un organico particolarmente importante rispetto alle tradizionali quattro voci e che si spiega col fatto di essere dedicata al santo titolare della cattedrale mantovana. Strette sono le parentele tra il mottetto e la messa, che sottolineano

Jacquet de Mantua. Missa Surge Petre & Motets The Brabant Ensemble, Stephen Rice Hyperion (CDA68088), 1 CD 10,50 GBP www.hyperion-records.co.uk

la padronanza della messaparafrasi, nonché la capacità di variare il modello secondo le esigenze espressive. Allo stesso organico ci riporta l’ascolto del mottetto Domine, non secundum peccata nostra, di grande bellezza e la cui peculiarità sta nell’uso di gruppi vocali caratterizzato da un gioco di contrasti tra tessiture alte e basse. A un organico di tre voci si rifanno invece i due mottetti mariani, Ave Maria e O pulcherrima inter mulieres, mentre ritroviamo il tradizionale impiego delle quattro voci nello struggente O vos omnes, composto per la Settimana Santa, seguito dal mottetto a cinque voci In illo tempore... Non turbetur, di paternità incerta e, forse, composto da Nicolas Gombert. Stephen Rice, alla guida delle 13 voci del Brabant Ensemble, propone, come sempre, un’interpretazione filologicamente curata, accompagnata da una lettura sensibile e capace di dare al linguaggio contrappuntistico un’anima e un corpo. Un talento interpretativo che si avvale, d’altronde, di interpreti vocali d’eccellenza.

Al servizio di Alfonso I La seconda registrazione, Brumel. Missa De beata Virgine. Motets, è dedicata appunto al francese Antoine Brumel, attivo nella seconda metà del Quattrocento – morí intorno al 1512 – e legato, come Jacquet, alle corti di Ferrara e Mantova. Rappresentante del maturo polifonismo fiammingo, Brumel lavorò nei primissimi anni del XVI secolo per Alfonso I d’Este, ma la sua presenza è attestata anche a Mantova e a Faenza. Rispetto a Jacquet, la sua produzione si sviluppa attorno all’organico classico delle quattro voci – unica

MEDIOEVO

febbraio

Brumel. Missa De beata Virgine. Motets The Brabant Ensemble, Stephen Rice Hyperion (CDA68065), 1 CD 10,50 GBP www.hyperion-records.co.uk eccezione è la Missa Et ecce terrae motus, scritta per 12 voci –, che vengono trattate secondo il piú stretto stile contrappuntistico. Tra i quattro mottetti proposti, si segnalano l’Ave caelorum Domina, in cui il trattamento delle voci lascia spazio ad andamenti omofonici, la sequenza Lauda Sion, con la sua alternanza di versetti polifonici e in gregoriano. La Missa De beata Virgine, basata sull’omonima melodia gregoriana si contraddistingue invece per alcuni inserti testuali mariani (cosiddetti tropi) all’interno del Gloria e del Benedictus. Notevole è la varietà ritmica – si pensi all’Amen finale del Gloria – di questa messa, che Stephen Rice fa risaltare con una lettura piuttosto energica, pur abbandonandosi a un intenso lirismo nei momenti opportuni – per esempio nel caso dell’Agnus Dei –, in cui l’espressività del Brabant Ensemble emerge in tutto il suo splendore, raggiungendo momenti di pura liricità. Franco Bruni

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