Medioevo n. 227, Dicembre 2015

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DE I LL SEG AC R OMETI

MEDIOEVO n. 227 DICEMBRE 2015

ET A

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

www.medioevo.it

Mens. Anno 19 numero 227 Dicembre 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

UNA FAMIGLIA AL DI SOTTO DI OGNI SOSPETTO

SAPER VEDERE

La Cappella dei Magi a Firenze

PROTAGONISTI

Il marchese del Monferrato

L’ITALIA COMUNALE

Nei broletti della Pianura Padana

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€ 5,90

TEODORO PALEOLOGO ITALIA DEI COMUNI/2 COMETA CAPPELLA DEI MAGI CARRI ARMATI DOSSIER I BORGIA

I BORGIA



SOMMARIO

Dicembre 2015 ANTEPRIMA

SCIENZA E TECNICA Carri armati

ALMANACCO DEL MESE ITINERARI Il guardiano delle risaie Sulla scia dell’oro bianco

5 8 10

RESTAURI Un campione del neogiottismo 12 MUSEI 3 x 15= Antonello da Messina

Un insuccesso... fragoroso di Flavio Russo

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COSTUME E SOCIETÀ IMMAGINARIO La stella cometa

Mistero splendente di Erberto Petoia

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46

LUOGHI

14

SAPER VEDERE

APPUNTAMENTI Al suono delle... olive Un Natale che sembra un Carnevale L’Agenda del Mese

Cappella dei Magi

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Da Firenze a Betlemme di Chiara Mercuri

17 20

CALEIDOSCOPIO

STORIE PERSONAGGI

Teodoro Paleologo

Un perdente di successo

26

di Marco Di Branco

60

Dossier

46

ARALDICA Matrimoni con riciclo

104

LIBRI Lo scaffale

111

MUSICA Suoni senza frontiere

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I BORGIA

UOMINI (E DONNE) AL DI SOTTO DI OGNI SOSPETTO di Tommaso Indelli

26 CIVILTÀ COMUNALE/2 I Comuni e l’impero

È l’ora del podestà di Furio Cappelli

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75


Illustrazioni e immagini: Foto Scala, Firenze: pp. 49, 56-59, 69, 95 (alto); Tate, London: copertina (e p. 75); BPK, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin: p. 53 (alto); White Images: p. 55; Christie’s Images: p. 85 – Cortesia Fondazione Sartirana Arte: pp. 8-9 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 10-11, 14 – Cortesia degli autori: pp. 12, 16-17, 94, 95 (basso) – Doc. red.: p. 18, 30, 31, 32, 37, 41 (sinistra), 43 (basso), 64/65, 77 – Shutterstock: pp. 26/27, 41 (destra), 52, 54 (basso), 62 (basso), 96/97, 102 – DeA Picture Library: pp. 29, 40 (centro), 43 (alto), 53 (basso); A. De Gregorio: p. 33; G. Cigolini: p. 42 (alto); G. Dagli Orti: p. 76; A. Dagli Orti: p. 79; L. Pedicini: pp. 90/91 – Bridgeman Images: p. 89, 96; Flammarion: pp. 30/31; Werner Forman Archive: p. 35; Universal History Archive/UIG: p. 98 – Mondadori Portfolio: pp. 46/47, 62/63, 64 (alto, sinistra e destra), 65, 66-67, 70-71; Rue des Archives: p. 19; Archivio Magliani/Mauro Magliani & Barbara Piovan: p. 34; Electa/Foto Studio Saporetti: p. 36; Electa/ Paolo e Federico Manusardi: p. 42 (basso); Electa/Sergio Anelli: pp. 44/45, 68, 88 (alto); AKG Images: pp. 50 (sinistra), 99; The Art Archive: pp. 51, 54 (alto); Antonio Quattrone: pp. 60/61; Electa/Antonio Quattrone: pp. 64 (basso), 72 (sinistra e destra); Leemage: pp. 78/79, 80/81; Electa: pp. 92/93 (e particolare p. 83); Electa/ Marco Ravenna: pp. 86/87; Album: p. 88 (basso) – Marka: Walter Zerla: pp. 38/39; CSP_clodio: p. 40 (alto); Danilo Donadoni: p. 40 (basso) – Erich Lessing Archive/ Magnum/Contrasto: pp. 48, 50 (destra) – Corbis Images: Ted Spiegel: p. 80 – Archivi Alinari, Firenze: Bridgeman Images: pp. 82/83 – Flavio Russo: disegni alle pp. 100-101 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 28, 38, 62.

MEDIOEVO Anno XIX, n. 227 - dicembre 2015 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352 Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Marco Di Branco è ricercatore di storia bizantina e islamica all’Istituto Storico Germanico di Roma. Elisabetta Gnignera è studiosa di storia del costume del Medioevo e Rinascimento italiano. Tommaso Indelli è assegnista in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Mila Lavorini è giornalista. Chiara Mercuri è dottore di ricerca in storia medievale. Chiara Parente è giornalista. Erberto Petoia è storico delle religioni. Stefania Romani è giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Tiziano Zaccaria è giornalista.

Editore: MyWay Media S.r.l. Presidente: Federico Curti

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6346 Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369

In copertina Lucrezia Borgia regna in Vaticano in assenza di papa Alessandro VI, olio su tela di Frank Cadogan Cowper. 1908-1814. Londra, Tate Collection.

Nel prossimo numero storie

medioevo nascosto

Macbeth, un re tra mito e storia

La Madonna della Misericordia di Ceri

protagonisti

saper vedere

Sant’Ambrogio vescovo

L’Abbazia di San Pietro in Valle


Almanacco del mese

a cura di Federico Canaccini

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1 dicembre 1455

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2 dicembre 3 dicembre 1315

Muore l’orafo e scultore Lorenzo Ghiberti U

L’Aquila è scossa da uno sciame sismico che causerà le devastazioni maggiori il 13 dello stesso mese U

4 dicembre 771

Muore Carlomanno, fratello di Carlo Magno

5 dicembre 1484

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18 dicembre 1352

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19 dicembre 1111

U

20 dicembre 21 dicembre 1401

Viene eletto papa Innocenzo VI, il quale, da Avignone, invia a Roma il cardinale Egidio Albornoz, con l’incarico di ricostituire lo Stato della Chiesa Muore il filosofo arabo Al-Ghazali, il cui pensiero influenzò la teologia medievale araba e occidentale

Papa Innocenzo VIII pubblica la Summis desiderantes, con cui si apre un’aspra caccia alle streghe in Germania

6 dicembre 1478

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Nasce Baldassarre Castiglione, autore de Il cortegiano U

8 dicembre 9 dicembre 1425 U

U

Papa Martino V fonda l’Università cattolica di Lovanio U

10 dicembre 1508

Sotto gli auspici di papa Giulio II, si costituisce la Lega di Cambrai, con l’intento di arginare lo strapotere di Venezia U

11 dicembre 1475

Nasce Giovanni de’ Medici, futuro papa Leone X

12 dicembre 13 dicembre 1250 U

U

U

Nasce a San Giovanni Valdarno il pittore Tommaso di Ser Giovanni Cassai, meglio noto come Masaccio

7 dicembre 521

Nasce san Columba, una delle figure principali del monachesimo irlandese

Muore a Castel Fiorentino (presso San Severo in Puglia), l’imperatore Federico II di Svevia

14 dicembre 15 dicembre 687

Sergio I sale al soglio pontificio: opponendosi agli ordini dell’imperatore di Bisanzio, dà vita alla progressiva emancipazione di Roma e del papato U

16 dicembre 533

Giustiniano pubblica il Digesto, una raccolta di norme romane

22 dicembre 23 dicembre 619 U

U

Dopo oltre un anno di vacanza della cattedra di Pietro, sale al soglio pontificio il napoletano Bonifacio V U

24 dicembre 1294

Viene eletto papa Bonifacio VIII, promotore del primo Giubileo e assertore della teocrazia U

25 dicembre 800

A Roma, in S. Pietro, Carlo Magno viene consacrato imperatore del Sacro Romano Impero U

26 dicembre 1481

A Westbroek si combatte una delle ultime battaglie tra il conte di Olanda e il vescovo di Utrecht U

27 dicembre 537

A Costantinopoli viene consacrata la basilica di S. Sofia

28 dicembre 29 dicembre 1170 U

U

U

17 dicembre 546

Grazie a un tradimento, Totila entra a Roma con i suoi Ostrogoti

U

Nella cattedrale di Canterbury viene assassinato l’arcivescovo Tommaso Becket

30 dicembre 31 dicembre 406 U

U

Orde di Vandali, Suebi e Alani attraversano il Reno ghiacciato e penetrano nei territori dell’impero romano


ANTE PRIMA

Il guardiano delle risaie ITINERARI • Situato in

Lomellina, terra di cerniera fra Lombardia e Piemonte, il castello di Sartirana è un pregevole esempio di architettura militare e poi residenziale sviluppatasi fra Medioevo e Rinascimento

I

mmerso nel silenzio e nella pace bucolica di un’infinita distesa di campi e risaie, il borgo di Sartirana Lomellina (Pavia) vive all’ombra del poderoso castello visconteo. Il primo nucleo dell’edificio, ritenuto uno dei maggiori e piú interessanti esempi di architettura castellana della Lomellina, terra di passaggio e confine tra la Lombardia e il Piemonte, risale all’ultimo quarto del XIV secolo. A ordinarne la costruzione fu Galeazzo Visconti, intenzionato a rafforzare militarmente le numerose rocche disposte ai margini del ducato. Situata lungo un tratto secondario della via Francigena, Sartirana (= terra sulla palude) venne concessa in feudo da Filippo Maria Visconti

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In alto e in basso due immagini della torre a pianta cilindrica del castello di Sartirana Lomellina (Pavia). al capitano Angelo Della Porta nel 1424, come indica uno stemma visconteo collocato nel suggestivo cortile interno del castello. Poi, nel 1452, passò a Cicco Simonetta, il potente ministro ducale fatto decapitare a Pavia nel 1480 per ordine di Ludovico il Moro.

Un mondo in pieno fermento A partire dal 1462, la fortezza, eretta per scopi militari, fu trasformata in leggiadra residenza nobiliare, aperta alla nuove espressioni artistico-scientifiche di un mondo in pieno fervore com’era quello dicembre

MEDIOEVO


A destra lo stemma degli Arborio Gattinara, che acquisirono il castello di Sartirana dopo la battaglia di Pavia. rinascimentale. Il progetto di ampliamento e potenziamento della struttura fu affidato all’architetto Aristotele Fioravanti (1464-1466), che seguí i lavori prima di essere inviato a Mosca, alla corte dello zar Ivan II il Grande, per contribuire alla realizzazione del Palazzo del Cremlino. Con la battaglia di Pavia (1525) e la fine del ducato di Milano il maniero divenne feudo del cardinale Mercurino Arborio Gattinara, Segretario di Stato dell’imperatore Carlo V. Gli eredi del casato dei Gattinara acquisirono il titolo di marchesi di Breme e duchi di Sartirana e vissero nel castello fino al 1934. Passato ai duchi d’Aosta, il maniero fu quindi venduto nell’immediato dopoguerra.

Ripetutamente rimaneggiato Il castello di Sartirana è stato piú volte rimaneggiato nel corso dei secoli, ma conserva la quattrocentesca pianta quadrangolare, dotata di cortile centrale e difesa da un fossato e da quattro torri angolari, di cui una

a forma cilindrica con elementi difensivi sporgenti, rinforzata da una base scoscesa poligonale. Dal 1980 è sede della Fondazione Sartirana Arte. Nelle sale del piano terreno e del piano nobile sono state allestite collezioni permanenti di pittura, scultura,

Tra documenti etnografici e archeologia industriale I fabbricati adiacenti al castello costituiscono un caratteristico complesso di corte rurale a forma di ferro di cavallo. La prima ala risale al Seicento, quando la coltivazione del riso divenne un’importante risorsa economica per la Lomellina. Le grandi sale all’interno, realizzate con mattoni pieni, cotti nelle tante fornaci circostanti, e coperte da volta a botte e a crociera, erano un tempo destinate alla custodia delle granaglie dopo la mietitura. Le pareti, sia al piano terreno che al primo piano, mostrano tuttora dipinti a tempera i livelli e i pesi del riso accumulato. La parte mediana, risalente all’Ottocento, conserva invece un mulino ad acqua, con rotore orizzontale, che, mosso dalle acque deviate dal quattrocentesco Roggione di Sartirana, forniva l’energia per l’impianto di pilatura (da cui trae origine il nome «pila», dato a questo complesso di edifici agricoli). Rimasto attivo fino alla fine degli anni Sessanta del Novecento e mantenuto nelle sue strutture principali, l’impianto – in cui veniva immagazzinato, essiccato e brillato il riso –, insieme ad altri oggetti di cultura materiale, costituisce il Museo Etnografico della Lomellina.

MEDIOEVO

dicembre

grafica, fotografia, ceramica, moda femminile e maschile: il Museo per gli Argenti Contemporanei (MAC), che raccoglie circa 300 pezzi creati da designer dagli anni Settanta del Novecento a oggi; il Museo per l’Oreficeria Contemporanea (MOC), in cui sono esposti un centinaio di gioielli creati da artigiani orafi; il Museo per le Arti Tessili (MAT) con reperti di arte tessile regionale, oggetti di origine europea ed extraeuropea; il Museo per la Grafica d’Arte (MAG), che custodisce incisioni, litografie e serigrafie. Chiara Parente

Errata corrige con riferimento all’Almanacco del mese dello scorso novembre (vedi «Medioevo» n. 226) desideriamo precisare che il 30 novembre 912 morí Ottone I, duca di Sassonia, detto il Nobile, e non suo nipote, l’imperatore Ottone I di Sassonia, nato nello stesso anno e morto nel 973. Dell’errore ci scusiamo con i nostri lettori.

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ANTE PRIMA

Sulla scia dell’oro bianco ITINERARI • La cittadina

di Hall, nel Tirolo austriaco, ha riportato in vita l’antica tradizione dell’estrazione del salgemma, grazie a un nuovo percorso turistico

È

appena stata inaugurata a Hall in Tirol, nel cuore del Tirolo austriaco, la Via del Sale, un itinerario che ripropone in diverse tappe il lavoro di estrazione del salgemma, principale attività della cittadina dal Medioevo. Dominato dal massiccio del Bettelwurf, il centro, a est di Innsbruck, vanta uno stemma che fa riferimento alla prima voce economica di tutta la zona: due leoni coronati, in oro, affiancano un barile di sale su fondo rosso. Del resto, Hall è citata già nel 1232 come salina e, fino alla seconda metà del Novecento, ha esportato il suo salgemma in Svizzera, nell’area del

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In alto una veduta di Hall in Tirol, alle cui spalle si staglia la poderosa sagoma del massiccio del Bettelwurf. A sinistra una delle postazioni dell’itinerario della Via del Sale, all’ingresso della galleria König-Max-Stollen, scavata nel 1492 dai minatori. dicembre

MEDIOEVO


A sinistra la cappella di S. Maddalena, sorta come luogo di culto del cimitero cittadino di Hall in Tirol. In basso la ricostruzione della pressa per il conio a rulli impiegata nella Zecca di Hall già nel 1566 e che sarebbe il primo esemplare di un simile macchinario. Reno e nella Foresta Nera. I blocchi estratti venivano spinti dalla valle al centro cittadino, lungo condutture in legno che si snodavano per un tragitto di 7 chilometri. Nello scorso settembre è stato riaperto il sentiero che, toccando dodici postazioni, ripercorre l’antica Via del Sale fino alla galleria König-Max-Stollen, scavata nel 1492 dai minatori, che cosí la battezzarono in onore dell’imperatore Massimiliano I d’Asburgo.

Un lavoro duro e faticoso Fra le tappe della nuova struttura museale figurano la cappella in cui gli operai si raccoglievano a pregare, il capanno che custodiva le loro provviste, un bacino di raccolta dell’acqua e la «casa dei signori», in cui vivevano abitualmente i funzionari di alto livello. Le dodici soste spalancano una finestra sul «dietro le quinte» e sulla quotidianità di un mondo lavorativo particolarmente duro. E possono essere il punto di partenza per un itinerario ideale nell’età di Mezzo. Il centro storico di Hall è infatti il nucleo medievale piú ampio e meglio conservato del Tirolo settentrionale, un nucleo che si raccoglie intorno al municipio, alla cattedrale tardo-gotica di S. Nicola e alla cappella di S. Maddalena. I palazzi

MEDIOEVO

dicembre

con facciate compatte, dalle superfici lineari su cui si aprono piccole finestre, punteggiano il cuore cittadino, segnato da un impianto urbanistico regolare. Partendo dalla parte bassa, dopo la colonna gotica dedicata a santa Barbara, lungo la Münzergasse, si incrocia Burg Hasegg, la rocca del Quattrocento che, con la Torre della Zecca, è divenuta il simbolo della città. Nel 1477 l’arciduca Sigismondo d’Austria trasferí proprio qui la zecca che prima era a Merano: il museo all’interno del castello ripropone, grazie ai macchinari d’epoca, la

produzione di talleri, le monete d’argento in vigore, con una vasta diffusione, fino alla seconda metà del Settecento, con Maria Teresa d’Austria. Salendo i 186 gradini che portano alla sommità della torre, si può godere inoltre di una splendida vista sul centro e sulla valle dell’Inn.

Nicola, patrono dei minatori Una strada ripida conduce alla città alta, la Oberer Stadtplatz, sulla quale si aprono il municipio con facciata gotica e il duomo. Intitolata a san Nicola, patrono dei minatori, la chiesa risale al XIII secolo, ma fu ampliata una prima volta nel 1303, in seguito all’acquisizione dello status di «città» da parte del centro tirolese, crocevia fondamentale per il commercio sull’Inn: alla navata unica di impronta gotica si addossa un coro piú ampio, mentre il campanile, che oggi ha la classica terminazione a bulbo del Barocco, venne aggiunto quattro decenni piú tardi. Nel 1352 si decise di costruire una nuova navata che, a breve distanza di tempo, si rivelò comunque insufficiente ad accogliere il crescente numero di fedeli; cosí, nel 1420, presero il via i lavori di ampliamento che, a causa di alcune preesistenze, si limitarono alle aree settentrionale e occidentale della chiesa. Vicino al luogo di culto si trova la cappella di S. Maddalena, nata a servizio del cimitero cittadino. Il nucleo romanico a due piani, ancora leggibile, venne toccato nel 1330 e oggi custodisce, nella parte superiore, un luogo di commemorazione dei caduti; alle pareti sono ben conservati gli affreschi del primo XV secolo, con una Madonna in trono fra Santi e un’Adorazione dei Magi, mentre una cinquantina di anni piú tardi, sulla facciata interna meridionale, è stato dipinto un Giudizio universale, che raffigura in modo incisivo la resurrezione dei morti. Info: www.hall-wattens.at Stefania Romani

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ANTE PRIMA

Un campione del neogiottismo RESTAURI • Formatosi probabilmente

nella bottega dell’Orcagna e attivo nella Firenze tre-quattrocentesca, Niccolò di Pietro Gerini fu un pittore assai apprezzato, soprattutto da committenti «popolari». E ora, restituita alla vivacità originaria, torna a farsi ammirare una delle sue opere piú importanti

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el 1349, la Signoria di Firenze emise un’ordinanza che decretava la costruzione dell’edificio religioso dedicato a Sant’Anna, titolo cambiato in San Carlo Borromeo nel XVII secolo, quando il patronato della chiesa passò alla confraternita della «nazione lombarda». Ubicata a pochi passi dal centro politico, la struttura gotica, progettata da Neri di Fioravante e Benci di Cione, appare quasi inalterata, con la facciata a capanna in pietra arenaria, nella quale si apre il portale cuspidato che introduce all’interno dell’unica navata dal soffitto a capriate. Sopra l’altare maggiore, è tornata a troneggiare la trecentesca tavola rappresentante la Deposizione e Resurrezione di Cristo, eseguita da Niccolò di Pietro Gerini, recentemente restaurata dall’Opificio delle Pietre Dure. Dopo vari spostamenti nel corso dei secoli, il dipinto – inizialmente ricordato nell’«oratorio di San Michele» (l’attuale Orsanmichele), situato proprio di fronte alla chiesa, ed erroneamente attribuito a Taddeo

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Deposizione e Resurrezione di Cristo, dipinto su tavola di Niccolò di Pietro Gerini. Seconda metà del XIV sec. Gaddi –, è stato cosí ricollocato in quella che, a partire dal Seicento, era stata la sua sede. Lo scarso spessore del supporto ligneo, l’opacità della superficie e la presenza in basso di una fascia decorativa del tutto simile a quella allora in uso nelle pitture murali fanno supporre che l’opera fosse inserita in un contesto pittorico realizzato con questa tecnica e al quale l’artista dovette adeguarsi.

Uno stile elegante ed essenziale Caratterizzata da dimensioni ragguardevoli (408 x 286 cm), la pala è un documento importante per la conoscenza dell’attività di Niccolò, uno dei maggiori protagonisti della stagione del neogiottismo, nella seconda metà del Trecento.

Amato e richiesto soprattutto da una committenza «popolare», eseguí notevoli composizioni pittoriche segnate da bidimensionalità e asciutta narrazione, inserendosi nella corrente piú tradizionalista che aveva, in Giotto, il modello da seguire. Formatosi probabilmente a Firenze, nella bottega di Andrea di Cione, detto l’Orcagna, una delle piú affermate e attive della città, Niccolò di Pietro Gerini unisce al tratto elegante ed essenziale una garbata esecuzione che, seppur priva di energia poetica e drammatica, ci introduce in modo pacato nel racconto della sua Deposizione e Resurrezione, un’opera paradigmatica dello stile maturo dell’artista fiorentino, che morí nel 1416. Mila Lavorini dicembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

3 x 15= Antonello da Messina Madonna col Bambino, angeli e i santi Giovanni evangelista e Benedetto, dipinti su tavola di Antonello da Messina. 1473 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.

MUSEI • La Galleria degli Uffizi saluta la riunione

(temporanea) di uno splendido polittico dipinto dal maestro siciliano nella seconda metà del Quattrocento

D

i qui al 2030, c’è un (ottimo) motivo in piú per visitare gli Uffizi: la galleria fiorentina, infatti, ha raggiunto un accordo grazie al quale, per i prossimi quindici anni, potrà esporre nella sua interezza una magnifica opera realizzata da Antonello da Messina, verosimilmente intorno al 1473. Quel che oggi si può ammirare è un trittico – composto da una Madonna col Bambino, un San Giovanni e un San Benedetto –, ma è probabile che le tre tavole appartenessero a una pala d’altare piú articolata. A oggi, se ne ignora la destinazione originaria: potrebbe trattarsi del monastero di Palma di Montechiaro, dove risiedeva la beata suor Maria Crocifissa, monaca in odore di

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santità celebrata da un’iscrizione apposta sul trittico nel XVIII secolo, oppure della chiesa di S. Giacomo a Caltagirone, per la quale Antonello lavorò nel 1473; indagini sul manto della Vergine hanno inoltre accertato la presenza del monogramma IHS inscritto in un Sole raggiato, emblema di san Bernardino da Siena, suggerendo un legame con l’ambiente dei Francescani.

Le volontà di un antiquario La storia recente del trittico ebbe inizio nel 1996, quando grazie all’impegno dell’allora Ministro per i beni culturali, Antonio Paolucci, lo Stato acquisí la Madonna col Bambino e il San Giovanni Evangelista. L’acquisto delle due tavole (come

anche dello Stemma Martelli di Donatello oggi al Museo Nazionale del Bargello), ottemperava alla volontà testamentaria di Ugo Bardini, figlio del famoso antiquario Stefano Bardini, che aveva nominato erede universale lo Stato italiano affinché venissero appunto acquistate una o due opere d’arte da destinare agli Uffizi o al Bargello, di valore pari a quello dell’eredità. L’opera di Antonello da Messina era tuttavia «mutila», poiché le due tavole giunte agli Uffizi altro non erano se non le parti d’un trittico (forse addirittura un polittico) che includeva anche il San Benedetto di proprietà della Regione Lombardia. Ed è proprio quest’ultima istituzione ad avere raggiunto l’intesa in forza della quale il ritratto del santo ha «ritrovato» la Vergine e san Giovanni. In cambio, un’opera degli Uffizi, la Madonna col Bambino e un angelo del pittore bresciano Vincenzo Foppa, verrà esposta per lo stesso periodo di tempo nella Pinacoteca del Castello Sforzesco di Milano. (red.) DOVE E QUANDO

Galleria degli Uffizi Firenze, piazzale degli Uffizi Orario ma-do, 8,15-18,50; chiusura: tutti i lunedí, Capodanno, 1° maggio, Natale Info tel. 055 294883; www.polomuseale.firenze.it dicembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Al suono delle... olive APPUNTAMENTI • Malaga e le cittadine dei suoi dintorni si animano nel periodo

natalizio di feste che perpetuano tradizioni musicali e storiche antichissime, legate all’epoca in cui la Spagna fu dapprima controllata e poi liberata dai Mori

I

l 28 dicembre di ogni anno, nel pieno della stagione natalizia, la cittadina andalusa di Malaga festeggia i Verdiales, gruppi musicali accompagnati da danzatori in costumi tradizionali. Detto anche «fandango allegro», il verdial (il cui nome deriva da un tipo d’oliva coltivata in Andalusia) è una forma di canzone popolare, le cui radici affondano nella musica introdotta in Spagna dai Berberi nell’VIII secolo. I piú antichi verdiales malagueños hanno le stesse melodie che cantavano, accompagnandosi al liuto, i sudditi di Ibn Alcamar e Boabdil il Grande; le loro strofe sono pezzi di antiche composizioni poetiche moresche. Queste melodie, che ancora oggi si possono ascoltare nei matrimoni dei villaggi, nelle comunioni e in altre celebrazioni, sono state nel tempo adottate nella tradizione del flamenco, conservando però i loro arcaici caratteri medievali. Gli strumenti predominanti sono la chitarra, il violino, le nacchere e il liuto. L’intero gruppo composto da musicisti, cantanti e ballerini viene chiamato panda. A dirigerli è un regidor, che brandisce un’asta di comando, con la quale autorizza l’inizio e la fine di ciascuna esecuzione. I membri dei gruppi indossano costumi ornati di fiori, festoni, campane, perline e nastri colorati; generalmente gli abiti sono una camicetta bianca, una fascia rossa fissata a mo’ di cintura e pantaloni scuri o gonna. Molti villaggi attorno a Malaga celebrano i Verdiales in diverse feste durante l’anno, ma la principale è

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Un gruppo di Verdiales si esibisce nelle vie di Malaga.

la Fiesta Mayor che si svolge il 28 dicembre a Puerto de la Torre, a 15 minuti d’auto dal centro di Malaga. Nell’occasione, una trentina di gruppi provenienti dai villaggi locali competono nelle tre diverse forme di Verdiales: Almogía, Montes, e Comares, che designano la zona geografica in cui sono prevalenti.

La danza della bandiera Lo stile Almogía si caratterizza per la danza piú rapida: ha un numero maggiore di mosse e i ballerini devono essere molto veloci per mantenere il ritmo con i piedi. Particolarmente interessante è la danza della bandiera, che consiste in un’abile rotazione ritmica attorno a uno stendardo decorato con i colori e i simboli dell’Andalusia e della Spagna. Lo stile Montes, considerato il piú antico e meglio conservato nella sua genuinità, si caratterizza per cadenza, vigore, pulizia e precisione. La sua musica si distingue per i colpi di tamburello

che scandiscono il tempo, mentre il violino dà i toni per il canto. Lo stile Comares è considerato il piú ricco, musicalmente parlando, grazie al fatto che le protagoniste sono le corde. A tracciare il ritmo sono il tamburello e i platillos, che si suonano picchiettandoli, mentre il violino, le chitarre e i liuti garantiscono la peculiarità dello stile. Nei giorni che precedono la Fiesta Mayor, a partire dal 24 dicembre, a Malaga e dintorni, si svolgono i raffie, una sorta di asta durante la quale vengono elargite delle offerte in denaro al regidor di ciascun panda. L’usanza risalirebbe al periodo della Reconquista cristiana del Montes de Malaga, quando la Chiesa decise di raccogliere soldi per ricostruire e mantenere le parrocchie rurali e le ermitas. Il sacerdote nominava un maggiordomo fra le persone piú rispettate del paese, che veniva incaricato di raccogliere fondi in occasione delle feste. Tiziano Zaccaria dicembre

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Un Natale che sembra un Carnevale G

ià in epoca precristiana le popolazioni germaniche e celtiche celebravano riti propiziatori nelle notti piú lunghe dell’anno, tra il 21 dicembre e il 1° gennaio. Quest’usanza, detta «die Zwoelfen» (le dodici), era basata principalmente su spaventose maschere di animali, che nelle dodici notti, rappresentavano le forze del bene vincitrici su quelle maligne. Nella cittadina svizzera di Kandersteg, nel Canton Berna, troviamo ancora oggi un retaggio di queste antiche tradizioni nelle figure dei Pelzmartiga, che attraversano il paese da mezzogiorno fino a sera, nel giorno di Natale e il Primo di gennaio. Si tratta di personaggi inquietanti, che creano scompiglio e spaventano le persone per le strade e nei locali pubblici, augurando fortuna a tutti dopo aver ricevuto una piccola offerta in denaro.

Echi di antiche minacce Fra le maschere simboliche piú rappresentative dei Pelzmartiga vi è il Grossmarti, interamente ricoperto di pelliccia, che ricorda l’antica minaccia di orsi e lupi sulle montagne svizzere. Il Chindlifrässer indossa un grande zaino, dal quale esce il fantoccio di un bambino con le gambe penzolanti, a rappresentare le carestie e le malattie che, fino al XIX secolo, mietevano morti soprattutto tra i piú piccoli in queste Dall’alto lo Spielkartenmann, «l’uomo delle carte da gioco», un monito contro il gioco d’azzardo; il Chriismarti, che, coperto di rami di abete, evoca i rigori dell’inverno; il Blätzlibueb, vestito di stracci, a memoria della povertà.

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valli del Canton Berna. Anche il Blätzlibueb, vestito di stracci, ricorda le povertà e i patimenti invernali, mentre l’Huttefroueli rappresenta un uomo devastato dalla guerra, a rammentare gli eventi bellici del passato. Lo Spielkartenmann è, alla lettera, «l’uomo delle carte da gioco»; indossa un abito ricoperto di Jass (nome di un gioco di carte molto diffuso nei territori elvetici), a rappresentare l’imprudenza di spendere soldi nell’azzardo, che mette in difficoltà intere famiglie. Nelle vie di Kandersteg ci si può inoltre imbattere nel Burli, un paesano con sigaro e berretto, e nell’Heri, un distinto signore in abito da sera, cilindro e guanti bianchi, che con una frusta tiene a bada tutta la banda selvaggia e mette in riga le maschere troppo arroganti.

Tra cime maestose Kandersteg è un centro con circa 1200 abitanti, situato sul versante nord delle Alpi Bernesi, a un’altitudine di 1200 m, fra tre picchi che superano i 3000: il Lohner, il Doldenhorn e il Balmhorn. Il paese è citato per la prima volta in un documento del 1352. Fin dal Medioevo l’economia locale era basata sulla pastorizia, l’agricoltura stagionale alpina e il commercio. Dalla fine dell’Ottocento l’economia del villaggio si è però convertita al turismo. Una parte del Comune è oggi compresa nella zona dello Jungfrau-Aletsch, dichiarata Patrimonio mondiale dell’Umanità dell’UNESCO; l’area comprende il Lago di Oeschinen e la Valle Gastern. T. Z.

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ANTE PRIMA

Almanacco della cucina medievale Ricette per un anno

A sinistra miniatura raffigurante due donne che puliscono polli, da un’edizione del Tacuinum sanitatis. XIV sec. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un banchetto, da un’edizione manoscritta dei Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo nella traduzione di Simon de Hesdin e Nicolas de Gonesse. XV sec.

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secoli del Medioevo hanno contribuito a disegnare la società e la cultura delle regioni italiane, elaborando usi e costumi che si sono radicati profondamente e, ancora oggi, fanno parte delle nostre tradizioni. Tra queste, un ruolo di primissimo piano spetta alla cucina, che nell’età di Mezzo si rinnova, grazie agli apporti vitali delle genti che, da Nord a Sud, si insediano nella Penisola. Basti pensare all’arrivo in Sicilia delle comunità islamiche, tra il IX e il X secolo: gli esuli del Maghreb introdussero la pasta, il riso, gli agrumi, lo zucchero, le mandorle, i torroni, i carciofi, le melanzane, lo zafferano... Gli «Arabi» applicarono in Sicilia le loro tecniche d’irrigazione, dettero forma definitiva alle tonnare, fecero

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conoscere nuove spezie e attuarono una vera e propria rivoluzione in pasticceria, grazie alle creme, alle fritture dolci, agli impasti spugnosi, ai marzapane e alle glasse. Queste e altre storie sono dunque il filo conduttore del nuovo Dossier di «Medioevo», articolato secondo le varie gastronomie regionali e sviluppato, in parallelo, come un almanacco, poiché le fonti ci consentono ancora oggi di riproporre o rivisitare le ricette della tavola medievale e perché gli aneddoti e le biografie talvolta svelano l’aspetto curioso che lega personaggi storici alla tavola. Un percorso che dura un anno e che proponiamo ai nostri lettori di seguire e, all’occasione, sperimentare a tavola con rievocazioni «golose», infarcite di «storici» condimenti…

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IL NUOVO DOSSIER DI MEDIOEVO

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre BOLOGNA ANTICHI MAESTRI ITALIANI. DIPINTI E DISEGNI DAL XVI AL XIX SECOLO U Galleria d’arte Fondantico fino al 23 dicembre

La galleria bolognese organizza il XXIII «Incontro con la pittura», esponendo opere di maestri italiani e in particolare emiliani. Fra le piú antiche, vi sono una Madonna col Bambino di uno dei piú importanti esponenti della scuola ferrarese del XVI secolo, Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, e una pala con San Girolamo, dipinta intorno al 1515 da Filippo da Verona, artista girovago rilanciato dagli studi recenti. Alla seconda metà del Cinquecento si datano inoltre un olio su lavagna (supporto destinato a quadri per devozione privata) di Felice Brusasorzi, e un’Adorazione dei Magi del ferrarese Giuseppe Mazzuoli, detto il Bastarolo. info tel. 051 265980; e-mail: info@fondantico.it; www.fondantico.it TORRITA DI SIENA MOSTRA BRANDANO. UN ROMITO SENESE DEL ‘500 FRA STORIA E LEGGENDA U Palazzo Pretorio di Montefollonico dal 5 al 20 dicembre

Bartolomeo Carosi, detto Brandano, è stato uno dei tanti «irregolari» che, fra Medioevo e Rinascimento, hanno

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girato le campagne e le città; predicatori, eremiti, profeti, santoni, guaritori, ciarlatani a volte, che la Chiesa generalmente non ha neppure preso in considerazione, poiché le loro infervorate parole non affrontavano questioni teologiche o dottrinali e, quindi, non sono stati bollati come eretici. La vicenda di Carosi, però, è ben diversa da quella di personaggi dei quali si ricorda appena il nome o si trova traccia solo in alcune cronache dell’epoca: molti, infatti, sono i manoscritti sei-settecenteschi che riportano la vita di Brandano. E l’attenzione si è mantenuta viva anche nei secoli successivi.

La mostra ripercorre dunque le fasi della fortuna bibliografica di Brandano, esponendo manoscritti ed edizioni a stampa della vita di Bartolomeo Carosi, analizzati nel catalogo. info tel. 0577 688214; cell. 389 7880645; e-mail: mv.ercolani@ comune.torrita.siena.it MONTEFALCO (PERUGIA) BENOZZO GOZZOLI. LA MADONNA DELLA CINTOLA U Complesso museale di S. Francesco fino al 30 dicembre

Dopo 167 anni la Madonna della Cintola torna a Montefalco per ricongiungersi al ciclo affrescato da Benozzo Gozzoli nella chiesa di S. Francesco. Dipinta

intorno al 1450 per l’altare maggiore della chiesa di S. Fortunato riformata dagli Osservanti, l’opera raffigura la Vergine Assunta al cielo che dona la cintola a san Tommaso, come prova della sua assunzione al cielo. Custodito nella Pinacoteca Vaticana, il dipinto venne donato a Pio IX dalla comunità di Montefalco nel 1848, in occasione della concessione al borgo umbro del titolo di città. Per l’esposizione in S. Francesco la pala è collocata su un basamento che ne simula l’originaria collocazione sull’altare ed è inoltre possibile osservarla nella sua interezza. info Sistema Museo, tel. 199 151 123; e-mail:

La mostra è stata realizzata in occasione del 600° anniversario della vittoria colta il 25 ottobre 1415, ad Azincourt, dalle truppe di Enrico V, che l’Inghilterra celebra con numerosi eventi. A ispirare il progetto espositivo è stata soprattutto la volontà di correggere molti degli equivoci che, nel tempo, hanno segnato la ricostruzione dei fatti, anche sulla scia della tragedia che William Shakespeare dedicò al sovrano inglese e della conseguente «rilettura» del personaggio. Il fine, insomma, è stato quello di verificare quanto possa essere oggi corretto continuare a considerare Enrico come un eroe e lo scontro combattuto

callcenter@sistemamuseo. it; Museo di Montefalco, tel. 0742 379598; e-mail: montefalco@ sistemamuseo.it; www.museodimontefalco.it

contro i Francesi di Carlo VI come un episodio dai contorni quasi leggendari. Per farlo, è stata assemblata una ricca selezione di armi e armature del XV secolo, a cui fa da corollario una altrettanto significativa scelta di volumi e documenti. info www. wallacecollection.org

LONDRA IL NERBO DELLA GUERRA: ARMI E ARMATURE DELL’ETÀ DI AZINCOURT U The Wallace Collection fino al 31 dicembre

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MILANO

ROMA

GIOTTO, L’ITALIA U Palazzo Reale fino al 10 gennaio 2016

RAFFAELLO, PARMIGIANINO, BAROCCI U Musei Capitolini fino al 10 gennaio 2016

La mostra presenta 13 opere, a formare una sequenza di capolavori mai riuniti tutti insieme. L’esordio è affidato alle opere giovanili: il frammento della Maestà della Vergine da Borgo San Lorenzo e la Madonna da San Giorgio alla Costa, documentano il momento in cui l’artista era attivo tra Firenze e Assisi. Poi il nucleo dalla Badia fiorentina, con il polittico dell’altare maggiore, attorno al quale saranno ricomposti alcuni frammenti della decorazione affrescata che circondava lo stesso altare. La tavola con Dio Padre in trono proviene dalla Cappella degli Scrovegni e documenta la fase padovana del maestro. Segue poi il gruppo che inizia dal polittico bifronte destinato alla cattedrale fiorentina di S. Reparata e che ha il suo punto d’arrivo nel polittico Stefaneschi, dipinto per l’altare maggiore della basilica di S. Pietro. Il percorso si chiude con i dipinti della fase finale della carriera del maestro: il polittico di Bologna, e il polittico Baroncelli, che nell’occasione viene ricongiunto con la sua cuspide, raffigurante il Padre Eterno, conservata nel museo di San Diego in California. info www. mostragiottoitalia.it

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La mostra evidenzia gli stimoli che, partendo da Raffaello, determinarono gli orientamenti artistici di Francesco Mazzola

detto il Parmigianino e Federico Barocci, ricordati nelle testimonianze cinque-seicentesche come eredi dell’Urbinate. Guardando a Raffaello con gli occhi del Parmigianino e di Barocci, l’esposizione affronta dunque il tema del confronto e quello dell’eredità tra artisti vissuti in epoche e luoghi diversi. Raffaello, Parmigianino e Barocci si espressero nella loro produzione grafica sperimentalmente e con forza innovativa.

Per raccontare questo confronto a distanza, la mostra romana propone disegni dei tre artisti, insieme ad alcune stampe, provenienti dal Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e dalle più importanti raccolte museali

MILANO D’APRÈS MICHELANGELO. LA FORTUNA DEI DISEGNI PER GLI AMICI NELLE ARTI DEL CINQUECENTO U Castello Sforzesco, Antico Ospedale Spagnolo fino al 10 gennaio 2016

Disegni, alcuni originali del grande genio del Cinquecento, dipinti, incisioni, preziosi oggetti d’arte svelano un aspetto piú intimo di Michelangelo, riguardante la sfera della sua vita privata e delle sue amicizie: un piccolo nucleo compatto, per i quali è stata coniata la definizione di «fogli d’omaggio». Tra gli anni Venti e Quaranta del Cinquecento, mentre attende alle committenze medicee (Sagrestia Nuova in S. Lorenzo a Firenze) e a quelle pontificie (il Giudizio Universale della Sistina), il maestro intreccia importanti relazioni di

amicizia con esponenti della nobiltà romana, siglate anche attraverso il dono di elaboratissime composizioni grafiche a matita. La mostra documenta dunque l’apparente contrasto tra l’originaria destinazione privata di tali disegni e la straordinaria, immediata fortuna che essi incontrarono presso gli artisti e i collezionisti del tempo. info tel. 02 88463660 oppure 88467778; www.milanocastello.it PARIGI CAVALIERI E BOMBARDE. DA AZINCOURT A MARIGNANO, 1415-1515 U Musée de l’Armée fino al 24 gennaio 2016

Nel pieno della guerra dei Cent’anni, la battaglia di Azincourt segnò la fine degli eserciti di stampo feudale e, un secolo piú tardi, le truppe di

d’Europa, e non solo. Una selezione assai mirata di dipinti (per esempio, l’Annunciazione di Barocci alla Pinacoteca dei Musei Vaticani) richiama i nodi tematici principali offerti dalla grafica, mostrando inoltre lo sguardo dei protagonisti del dialogo ideale tra artisti ricostruito in mostra (Autoritratto giovanile di Raffaello e Autoritratto di mezza età di Barocci, entrambi alla Galleria degli Uffizi). info tel. 060608; www.museicapitolini.org

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AGENDA DEL MESE Francesco I ebbero un ruolo determinante nella vittoria conseguita a Marignano sui picchieri elvetici. Tra i due eventi l’arte della guerra conosce alcuni dei suoi sviluppi piú significativi, ai quali il museo sorto nel complesso parigino degli Invalides dedica ora una grande mostra. Il percorso espositivo si avvale innanzitutto dei materiali appartenenti alle collezioni permanenti della raccolta ed è stato articolato in tre sezioni tematiche: gli arcaismi tattici e novità tecnologiche; il tempo delle riforme e degli esperimenti; le guerre d’Italia e i successi dell’artiglieria francese. Un’occasione per rivivere gli scontri campali che hanno segnato la storia del Medioevo e del Rinascimento, anche grazie all’«incontro», con i loro protagonisti, come, per esempio, Giovanna d’Arco. info www.musee-armee.fr/ ExpoChevaliers Bombardes/ VENEZIA DANIELE BARBARO (1514-70). LETTERATURA, SCIENZA E ARTI NELLA VENEZIA DEL RINASCIMENTO U Biblioteca Nazionale Marciana, Sale monumentali fino al 31 gennaio 2016 (dal 10 dicembre)

La mostra illustra i risultati della ricerca, condotta attraverso il coinvolgimento di un nutrito gruppo di

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LONDRA EGITTO: LA FEDE DOPO I FARAONI U British Museum fino al 7 febbraio 2016

studiosi. (https://arts. st-andrews.ac.uk/ danielebarbaro). Tema del progetto è l’attività di Daniele come scrittore, vista anche e soprattutto in relazione all’aspetto materiale dei diversi manoscritti superstiti e degli esemplari a stampa delle sue opere, nel contesto del Rinascimento europeo. In una Venezia ormai aperta all’entroterra, Daniele, esponente autorevole dell’illustre famiglia Barbaro, fu uno dei maggiori intellettuali del tempo; egli si occupò di filosofia, matematica, astronomia, ottica, storia, musica e architettura, in contatto con i maggiori esperti e artisti, e con le Accademie del tempo. info http://marciana. venezia.sbn.it

AMSTERDAM ROMA. IL SOGNO DELL’IMPERATORE COSTANTINO U De Nieuwe Kerk fino al 7 febbraio 2016

Introdotta da una spettacolare replica dell’arco trionfale innalzato in onore dell’imperatore «cristiano», la rassegna che la Nieuwe Kerk dedica a Costantino non soltanto ripercorre la vicenda biografica e politica del trionfatore di Ponte Milvio, ma si sofferma sugli esiti del suo principato. Quella promossa attraverso l’editto che riconosceva la libertà di culto per i cristiani fu, infatti, un’autentica rivoluzione, destinata a influenzare in maniera significativa la storia religiosa e culturale del mondo intero. info www.nieuwekerk.nl

La rassegna abbraccia un orizzonte cronologico vastissimo, pari a circa dodici secoli: il percorso documenta infatti le vicende di cui l’Egitto fu teatro fra l’avvento del cristianesimo e l’islamizzazione, riservando un’attenzione particolare alle sorti delle comunità ebraiche che vi si erano insediate. Una storia che il Paese del Nilo permette di raccontare in maniera straordinariamente dettagliata soprattutto grazie alla ricchezza delle testimonianze restituite dagli scavi archeologici. L’esordio è affidato ad alcuni importanti esemplari manoscritti della Bibbia

ebraica, del Nuovo Testamento cristiano e del Corano, messi a confronto con edizioni moderne dei medesimi testi. Da qui prende le mosse un viaggio affascinante, che si chiude, non meno significativamente, con i testi rinvenuti nella sinagoga di Ben Ezra, al Cairo, databili tra l’XI e il XIII secolo. info www. britishmuseum.org BERLINO IL RINASCIMENTO DI BOTTICELLI U Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie fino al 24 gennaio 2016

Celebrato oggi come uno dei massimi pittori di ogni tempo, Sandro Botticelli (1445-1510), in realtà, venne presto dimenticato e la sua riscoperta si deve in larga parta alla fortuna di cui godette presso i

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preraffaelliti. Da allora, in compenso, la sua fama non si è piú attenuata, fino a farne quasi un’icona della cultura pop. È questo uno dei presupposti della rassegna allestita a Berlino, che documenta proprio la discontinua popolarità dell’opera del maestro fiorentino, attraverso una selezione ricca e significativa, che, oltre a comprendere piú di cinquanta opere dello stesso Botticelli, spazia nel tempo, fino a includere lavori firmati da artisti quali Edgar Degas, Edward Burne-Jones, Dante Gabriel Rossetti, René Magritte, Andy Warhol, Cindy Sherman e Bill Viola. A riprova di come la sua influenza abbia ispirato e continui a ispirare l’arte moderna e contemporanea, in una misura forse superiore a quella degli altri maestri della pittura antica. info www.botticellirenaissance.de FIRENZE IL PRINCIPE DEI SOGNI. GIUSEPPE NEGLI ARAZZI MEDICEI DI PONTORMO E BRONZINO U Palazzo Vecchio, Sala dei Duecento fino al 15 febbraio 2016

Commissionati da Cosimo I de’ Medici per la Sala de’ Dugento di Palazzo Vecchio, i venti arazzi cinquecenteschi con la storia di Giuseppe sono una testimonianza eccelsa dell’artigianato e dell’arte del Rinascimento. I disegni

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preparatori furono affidati ai maggiori artisti del tempo, primo fra tutti Pontormo. Ma le prove predisposte da quest’ultimo non piacquero a Cosimo I, che decise di rivolgersi ad Agnolo Bronzino, a cui si deve parte dell’impianto narrativo della serie. Tessuti alla

dell’Umanesimo civile e del mecenatismo religioso nella Firenze del Rinascimento. Vengono esplorati la vita, gli scritti e i ruoli politici del committente del dipinto, Matteo Palmieri (1406-1475), e il suo rapporto con i Medici, i signori di Firenze. Completata

metà del XVI secolo nella manifattura granducale, furono realizzati dai maestri arazzieri fiamminghi Jan Rost e Nicolas Karcher. info tel. 055 2768325

intorno al 1477 per la cappella funeraria di Palmieri nella chiesa di S. Pier Maggiore a Firenze, la pala d’altare è esposta insieme a dipinti, sculture, disegni, stampe, manoscritti e una medaglia di bronzo. La mostra chiarisce il dibattito su vari aspetti della pala, inclusa la sua falsa attribuzione a Sandro Botticelli, la sua controversa iconografia, considerata eretica da alcuni teologi, e la sua posizione originale. Viene inoltre presentata la prima ricostruzione digitale dell’antica chiesa di S. Pier

LONDRA VISIONI DEL PARADISO. LA PALA D’ALTARE DEL PALMIERI DI BOTTICINI U The National Gallery fino al 14 febbraio 2016

La mostra segna il culmine di tre anni di ricerca sull’imponente pala d’altare di Francesco Botticini L’Assunzione della Vergine (228,6 x 377,2 cm), inquadrando l’opera nel contesto delle tradizioni

Maggiore, distrutta alla fine del XVIII secolo. Inserendo nuovamente il dipinto di Botticini nella sua architettura e contesto spirituale originali, è possibile ottenere nuove conoscenze sulle dimensioni, sull’insolito formato orizzontale e sull’iconografia della pala. info www. nationalgallery.org.uk

ROMA TESORI DELLA CINA IMPERIALE. L’ETÀ DELLA RINASCITA FRA GLI HAN E I TANG (206 A.C.907 D.C.) U Palazzo Venezia fino al 28 febbraio 2016

Grazie ai capolavori del Museo Provinciale dello Henan, l’esposizione racconta il passaggio dalla dinastia Han – periodo in cui l’odierna Cina prende forma – all’Età dell’Oro dei Tang (581-907). Tra i manufatti giunti a

Roma, vi sono una veste funeraria composta da 2000 listelli di giada intessuti con fili d’oro, e poi lacche, terrecotte invetriate, vasi, oggetti in oro, argento e giadeite, a illustrare lo straordinario clima di prosperità e di apertura culturale di questo periodo. info tel. 06 6780131; www. tesoridellacinaimperiale.it

BOLOGNA TRA LA VITA E LA MORTE. DUE CONFRATERNITE BOLOGNESI TRA MEDIOEVO E ETÀ MODERNA U Museo Civico Medievale fino al 28 marzo 2016 (dal 12 dicembre)

Protagoniste dell’esposizione sono le Confraternite bolognesi di S. Maria della Vita e di S. Maria della Morte, un tempo ubicate una di fronte all’altra. Infatti, se quella della Vita aveva sede all’interno della chiesa omonima, in via Clavature, quella

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AGENDA DEL MESE della Morte si estendeva tra via Marchesana e il portico che ne conserva il nome, correndo lungo via dell’Archiginnasio e costeggiando il lato di S. Petronio. La mostra è l’occasione per ricostruire l’attività delle due confraternite soprattutto attraverso una ricca selezione di documenti figurativi (dipinti, miniature, sculture, ceramiche, oreficerie), con una particolare attenzione alle numerose miniature contenute entro i volumi degli Statuti di entrambe le Compagnie, a partire dal Duecento, fino a tutto il Seicento. info tel. 051 2193930 oppure 051 2193916; www.museibologna.it FIRENZE UN PALAZZO E LA CITTÀ U Museo Salvatore Ferragamo fino al 3 aprile 2016

Forte di opere e documenti provenienti da musei e collezioni private, la mostra ripercorre le complesse vicende storiche di Palazzo Spini Feroni. Le origini dell’edificio risalgono al 1289, dopo che un’alluvione aveva distrutto le case degli Spini, ricca e potente famiglia proprietaria di una delle prime società bancarie d’Europa. Committente dell’edificio fu Ruggeri, detto Geri, la persona piú illustre del casato, banchiere di papa Bonifacio VIII.

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L’allestimento è dominato da due grandi forzieri che contengono le opere d’arte e i documenti: spiccano, tra gli altri, un dipinto seicentesco che raffigura l’albero genealogico degli Spini; una pergamena del 1277 che dimostra l’acquisto degli Spini di un terreno e di una casa nei pressi del ponte Santa Trinita; la storia della famiglia nel Quattrocento scritta da un discendente di Geri, Doffo. Due modelli in scala, realizzati dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, riproducono l’area cittadina in cui fu costruito il palazzo, e la sua architettura, come appare nella veduta quattrocentesca. info tel. 055 3562846; e-mail: museoferragamo@ ferragamo.com; www.ferragamo.com VENEZIA «SPLENDORI» DEL RINASCIMENTO A VENEZIA. ANDREA SCHIAVONE TRA PARMIGIANINO, TINTORETTO E TIZIANO U Museo Correr fino al 10 aprile 2016

Pittore dal pennello veloce come una freccia, Andrea Meldola, detto Schiavone (1510 circa-1563), propose un linguaggio pittorico nuovo e spregiudicato, tanto che, già pochi anni dopo l’arrivo a Venezia (avvenuto forse intorno al 1535), divise

APPUNTAMENTI • Medioevo in libreria, XIV Edizione: «Medioevo al femminile» U Milano – Civico Museo Archeologico di Milano, Sala Conferenze

fino al 9 aprile 2016 info tel. 02 45329840; e-mail: info@ italiamedievale.org; www.italiamedievale.org; http://medioevoinlibreria.blogspot.it

L

a nuova edizione della rassegna «Medioevo in Libreria» è dedicata al tema del «Medioevo al femminile». La formula, ormai consolidata, prevede visite guidate al mattino, proiezioni video e conferenze al pomeriggio. Le visite offrono l’occasione di scoprire le meraviglie medievali di Milano, sviluppando un percorso volto a svelare il rapporto che i Milanesi hanno avuto con la loro città e i suoi dintorni, selezionando e trattando singolarmente edifici e chiese. Ogni visita guidata ha durata compresa tra i 45 minuti e le 2 ore e gli incontri pomeridiani hanno luogo, con inizio alle 15,30 e la proiezione del filmato Viaggio nel Medioevo, presso la Sala Conferenze del Civico Museo Archeologico di Milano. Qui di seguito, l’elenco dei prossimi appuntamenti: ✓ 19 dicembre 2015. Ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Gottardo in Corte, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Alessandra Bassani, Università degli Studi di Milano: Donne nel processo medievale: accusatrici, testimoni, vittime e manipolatrici. ✓ 16 gennaio 2016. Ore 11,00: visita guidata alla basilica di S. Stefano Maggiore e alla chiesa di S. Bernardino alle Ossa, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Elena Percivaldi, medievista e saggista: La donna longobarda tra storia, mito e leggenda. ✓ 13 febbraio 2016. Ore 11,00: visita guidata alla Certosa di Garegnano, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Martina Bertoletti, Università degli Studi di Milano: A legibus soluta: i reali margini d’azione nella gestione femminile del patrimonio familiare. ✓ 12 marzo 2016. Ore 11,00: visita guidata all’Abbazia di Chiaravalle, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Beatrice Del Bo, Università degli Studi di Milano: A partire da Griselda: donne medievali nella letteratura e nella storia. ✓ 9 aprile 2016. Ore 11,00: visita guidata al Castello Sforzesco, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Nadia Covini, Università degli Studi di Milano: Donne e potere alla corte degli Sforza. l’opinione pubblica e la critica: chi come l‘Aretino lo stimava e gli era amico, chi come il Pino non nascondeva il suo disprezzo. Un artista «fuori dal coro», dunque, affascinante e moderno, sul quale si fa finalmente il punto dopo decenni di studi e

ricerche. Per la prima volta sono riuniti oltre 80 lavori di Schiavone, dipinti, disegni, incisioni: oltre ad alcuni inediti, si possono vedere insieme i capisaldi della sua opera pittorica e, con essi, importanti dipinti di confronto dei

maggiori artisti del tempo, punto di riferimento per il Dalmata e con i quali egli ebbe contatti o rapporti di «dare» e «avere». info call center, tel. 848 082 000; e-mail: info@fmcvenezia.it; www.correr.visitmuve.it dicembre

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personaggi teodoro paleologo

Un perdente di

successo

di Marco Di Branco

La parabola di Teodoro Paleologo rispecchia in maniera emblematica quello che gli storici hanno definito «crepuscolo di Bisanzio». Ma chi fu, davvero, il marchese del Monferrato? E perché, nelle opere che di lui ci sono giunte, affiorano a piú riprese considerazioni intrise di rimpianto e malinconia, ma anche di astio e invidia?

T T

eodoro Paleologo Comneno Ducas Angelo, figlio secondogenito dell’imperatore Andronico II Paleologo e di Iolanda-Irene di Monferrato, è un personaggio esemplare del «crepuscolo di Bisanzio», sospeso fra Oriente e Occidente alla ricerca di grandezza, ma sempre ricondotto al suo ruolo iniziale di cadetto, escluso in partenza dalla lotta per il vero potere, senza possibilità di fuga da un destino già scritto. Teodoro nacque a Costantinopoli tra il novembre 1291 e il gennaio 1292, e visse presso la corte imperiale

fino al 1306, quando – in seguito alla morte dello zio materno, Giovanni di Monferrato, che lasciò in eredità alla sorella Iolanda il marchesato monferrino – fu insignito del titolo di marchese e, all’età di quattordici anni, partí alla volta dell’Occidente. Si trattò di una successione tutt’altro che facile: in effetti, l’imperatrice avrebbe preferito concedere il marchesato al suo primogenito Giovanni, mentre l’imperatore, e soprattutto l’influente patriarca Atanasio, desideravano affidare il Monferrato al terzogenito De-


metrio, temendo che Giovanni, possibile erede al trono di Bisanzio, potesse essere influenzato nel suo soggiorno in Occidente da idee politiche e religiose «latine»: la scelta di Teodoro fu dunque una soluzione di compromesso, e di ciò lo stesso marchese sembra essere stato almeno in parte consapevole.

Scene da un matrimonio

Nel suo viaggio verso l’Italia, il giovane Teodoro fu accompagnato da vascelli genovesi e, al suo arrivo a Genova, nell’estate del 1306, sposò Argentina Spinola, figlia di Opicino, appartenente a una delle piú nobili famiglie della Repubblica: con questo matrimonio Andronico II otteneva il duplice risultato di rafforzare il legame fra Bisanzio e i Genovesi – soprattutto in funzione anticatalana – e di assicurare al figlio il fondamentale aiuto di Genova nel momento decisivo della sua presa di possesso del marchesato monferrino. Una volta raggiunto il Monferrato, Teodoro dovette infatti affrontare una rivolta dei vassalli, che riuscí a domare anche grazie all’appoggio genovese. Secondo lo storico e umanista bizantino Niceforo Gregora (1291 o 1292-1360), Iolanda-Irene avrebbe richiamato il figlio dal Monferrato per affidargli il governo della Serbia, ma Teodoro, dopo un breve soggiorno nella regione, si sarebbe congedato dalla madre con l’intenzione di tornare in Italia. Tuttavia questa ricostruzione non è convincente: nella seconda metà del 1316 – dunque prima della partenza di Teodoro – l’imperatrice era morta improvvisamente a Drama, e ciò esclude la

possibilità di un incontro fra Iolanda-Irene e suo figlio nel corso del viaggio del Marchese a Bisanzio. Le ingenti ricchezze lasciate dall’imperatrice furono in parte distribuite da Andronico II a Teodoro e Demetrio (il primogenito Giovanni si era spento senza figli intorno al 1308) e in parte utilizzate per i restauri di S. Sofia. Nel dicembre del 1317, Michele IX – figlio di Andronico II e della sua prima moglie Anna d’Ungheria, ed erede designato al trono imperiale – firmò una crisobolla con cui confermava la donazione fatta a Teodoro dal padre di terreni situati a Costantinopoli presso il monastero della Panaghía Pammakáristos, precedentemente appartenuti al defunto despota Giovanni.

Un’epistola rivelatrice

Purtroppo, le informazioni sull’attività di Teodoro a Bisanzio sono molto scarse: lo stesso marchese afferma di avervi trascorso due anni inutili, senza mezzi e senza possibilità di farsi onore, e di aver richiesto di sua iniziativa agli imperatori di poter rientrare in Monferrato da dove giungevano notizie poco rassicuranti relative a ribellioni e tumulti. Tuttavia, una lettera di Andronico II Un tipico paesaggio collinare del Monferrato, che abbraccia principalmente le provincie di Alessandria e Asti. L’omonimo marchesato si costituí fra il X e l’XI sec., a seguito dello smembramento della marca di Aleramo e della cessione di alcuni territori da parte di Berengario II. Passò ai Paleologi nel 1305, quando Teodoro I lo ricevette in eredità dalla madre, Iolanda-Irene di Monferrato, che aveva sposato Andronico II Paleologo.


personaggi teodoro paleologo SVIZZERA

Bolzano Trento Bergamo

Belluno

Repubblica Verona di Venezia

Ducato Milano di Savoia Ducato di Padova Venezia Torino Milano Mantova

Trieste IMPERO OTTOMANO

Ferrara Parma Modena Ravenna Bologna Genova Forlì

Marchesato del Monferrato

Marchesato di Saluzzo

Lucca

Nizza

Livorno

Firenze Ancona Mar Perugia Foligno Adriatico Terni L’Aquila Pescara STATO PONTIFICIO Roma Foggia

Siena

CORSICA

Napoli Sassari

Mar Tirreno

Andria

Bari

Monopoli Brindisi Potenza Salerno Lecce Taranto REGNO DI NAPOLI

A sinistra l’assetto geopolitico dell’Italia intorno al 1300, di cui era parte integrante il marchesato del Monferrato. Nella pagina accanto lo stemma araldico dei Paleologi in una miniatura di scuola italiana. XIV sec. Casale Monferrato, Biblioteca Civica «Giovanni Canna».

all’impero, ma andò incontro a una delusione cocente. Teodoro si duole moltissimo di non avere avuto occasione di essere utile alla patria e di non essere stato messo nelle condizioni di dimostrare il suo valore, ma tace del tutto sui propri progetti e sulle proprie aspirazioni, che ci vengono invece rivelate da Niceforo Gregora, il quale dedica al marchese una velenosa pagina della sua Storia romana.

Uno storico malevolo

In essa, il grande storico bizantino accusa Teodoro di essere un avido arrivista, che, non essendo riuscito a reSARDEGNA Catanzaro (Regno di Spagna) alizzare il suo sogno di impossessarsi Messina del trono di Costantinopoli a causa Palermo dell’opposizione del padre – restio ad REGNO DI Mar Mediterraneo SICILIA Catania affidare l’impero a un principe ormai completamente «latinizzato» – non Siracusa avrebbe esitato a tradirlo, schierandosi con il giovane Andronico III. Il MALTA ritratto a tinte fosche di Niceforo Gregora è certamente dovuto all’animosità che lo storico doveva nutrire nei al doge di Venezia Giovanni Soranzo prova la volontà di confronti del marchese, nemico acerrimo del suo amaTeodoro di trattenersi in Oriente e la sua riluttanza a ri- to maestro, il potente ministro di Andronico II Teodoro Metochite; e, tuttavia, esso fornisce un’importante inditornare in Italia: tale circostanza costituisce una sorta di prodromo di quel che avvenne nel secondo viaggio del cazione sulle ambizioni imperiali del Paleologo. L’amarezza e il disinganno che pervasero l’animo di marchese a Costantinopoli, quando Teodoro esplicitò le Teodoro dopo il suo secondo soggiorno a Costantinosue aspirazioni imperiali. poli non intaccarono le aspirazioni imperiali del figlio Sette anni di guerra Giovanni, il quale, alla morte del padre, avvenuta il 21 Il 12 ottobre 1320, circa un anno dopo il rientro in Mon- aprile del 1338, ereditò il marchesato; costui infatti, in ferrato di Teodoro, Michele IX – che nel 1295 era stato nome della legittimità dinastica, non cessò mai di rivenassociato alla corona da Andronico II – morí, lasciando dicare i suoi diritti non solo sui possedimenti greci traerede dei suoi diritti all’impero suo figlio, il giovane An- smessigli da Teodoro (al quale erano stati riconfermati dronico III, e, di lí a poco, divampò la guerra civile che dalla crisobolla di Michele IX), ma anche sul trono di vide opposti per sette anni (1321-1328) l’avo e il nipote Bisanzio, e, a tal fine, dispose l’invio in Oriente di tutta in una lotta senza esclusione di colpi. la documentazione relativa alle sue rivendicazioni. Nel corso del conflitto, tra il 1325 e il 1326, Teodoro si Inoltre, indugiò a lungo sull’opportunità di costrurecò nuovamente a Costantinopoli – a suo dire su pres- ire una flotta per organizzare una spedizione militare sante invito del padre – e vi si trattenne fino al 1328; contro l’«usurpatore» Cantacuzeno (il quale, ricordiain tale occasione pensò di poter svolgere un ruolo immo, si era impossessato del trono bizantino mettendo portante e, addirittura, di concorrere alla successione in secondo piano Giovanni V, rampollo della dinastia Cagliari

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Mar Ionio

dicembre

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I Paleologi del Monferrato Marchese dal Teodoro I 1306 Giovanni II 1338 Secondotto 1372 Giovanni III 1378 Teodoro II 1381 Giangiacomo 1418 Giovanni IV 1445 Guglielmo VIII 1464 Bonifacio III 1483 Guglielmo IX 1494 Bonifacio IV 1518 Giovanni Giorgio 1530

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dicembre

al 1338 1372 1378 1381 1418 1445 1464 1483 1494 1518 1530 1533

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personaggi teodoro paleologo A sinistra pianta a volo d’uccello di Costantinopoli, da un’edizione del Liber Insularum Archipelagi, isolario del geografo fiorentino Cristoforo Buondelmonti (1386-1430 circa). 1490 circa. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

paleologa); infine, nel suo testamento del 1372 Giovanni faceva riferimento a un misterioso – e assai probabilmente falso – «testamentum» di Andronico II, nel quale si affermava che l’«Imperium (…) Graecorum, videlicet Constantinopolitanum et Romaniae de jure pertinerent ad eundem Dominum Theodorum filium dicti Domini Imperatoris». Di conseguenza, il marchese designava i propri figli quali legittimi eredi non solo della città di Tessalonica, ma anche dell’impero bizantino, e supplicava papa Gregorio XI di sostenere tale designazione.

Riflessioni sulla ricchezza e la povertà

Accanto a un importante trattato di arte militare, gli Enseignements et ordenances pour un seigneur qui a guerres et grans gouvernemens a faire, alla penna di Teodoro si deve un breve testo sul tema della ricchezza e della povertà in cui sono presenti molti elementi autobiografici: le Di-

Gli Enseignements e le Divisions

Un pensiero «mimetizzato» Il manoscritto 11042 della Bibliothèque Royale di Bruxelles contiene 96 fogli rilegati in dodici quaderni da otto ciascuno. La scrittura gotica utilizzata per la sua redazione, leggermente compressa ma elegante e leggibile, ne riconduce l’origine al XIV secolo: le due opere in esso contenute sono gli Enseignements et ordenances pour un seigneur qui a guerres et grans gouvernemens a faire e le Divisions par le dit acteur faites sur la maniere des richeces et povretez de ce monde. Si tratta di due opere di Teodoro Paleologo, tramandateci nella loro interezza solo dalla traduzione francese del frate normanno Jehan de Vignay (1283 circa-post 1340?): un trattato d’arte militare e di governo e un breve testo contenente riflessioni sul possesso, la trasmissione e l’uso della ricchezza. Originariamente distinte, le Divisions furono integrate al corposo testo che le precede, restituendoci la singolare testimonianza di un pensiero eterodosso che è riuscito a «mimetizzarsi» e a sopravvivere, forse esclusivamente in ragione dell’importanza dell’opera maggiore.

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A destra miniatura raffigurante il filosofo Michele Psello al cospetto dell’imperatore bizantino Michele VII Ducas, suo studente. XII-XIII sec. Monte Athos (Grecia), Biblioteca del Monastero del Pantocratore.

visions sur la maniere des richeces et povretez de ce monde (vedi box in questa pagina). Nulla di certo sappiamo riguardo la sua data di composizione, ma vedremo che il contenuto fa propendere per una sua stesura negli ultimi anni della vita del marchese. Il tema delle condizioni dei poveri e dei diseredati all’interno della società e dell’obbligo morale e religioso di affrontare la situazione richiamandosi al concetto di «filantropia» è stato al centro delle riflessioni dei principali esponenti delle gerarchie ecclesiastiche bizantine e degli intellettuali a esse legati fin dai tempi di Giovanni Crisostomo, costituendone anzi uno dei cardini fondamentali; in particolare, negli ultimi secoli di Bisanzio, l’influenza del pensiero filantropico dell’epoca dei Padri della Chiesa rivela tutta la sua intensità. Eppure, la questione tendeva a mantenersi su un piano quasi esclusivamente teorico. La «dottrina sociale» della Chiesa bi-

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Sulle due pagine miniatura che illustra un’edizione del Libro di Giobbe contenente annotazioni del copista Manuel Tzykandylès, che lavorò anche alla corte di Giovanni VI Cantacuzeno. 1362. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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personaggi teodoro paleologo forme e parole della politica

Si fa presto a dire «propaganda» Molti studiosi considerano le pretese legittimistiche di Teodoro e Giovanni come illusorie, inattuabili, meramente propagandistiche e prive di qualsivoglia concretezza politica, ma questo giudizio cosí perentorio rischia di ostacolare la comprensione di un contenzioso durato oltre un cinquantennio, nel quale i Paleologhi di Monferrato profusero notevoli energie. In un mondo quale è quello bizantino, in cui le forme e le parole assumono spesso un’importanza straordinaria, giungendo a condizionare la prassi politica, l’affermazione costante e risoluta dei propri diritti dinastici ha in sé una forza che sarebbe limitativo liquidare come semplice «propaganda». Nel caso specifico, poi, va tenuto presente che le rivendicazioni di Teodoro e Giovanni, frutto di un’intricata vicenda familiare, trovarono ulteriore linfa nell’ambiente aleramico, che aveva visto sorgere circa un secolo prima il grande sogno imperiale di Bonifacio di Monferrato, sovrano del regno latino di Costantinopoli, che tentò di realizzare una vera e propria «annessione» di tale impero all’Occidente latino. In questo senso, i timori di Andronico II e del patriarca Atanasio e il loro impegno a evitare che un principe «latinizzato» potesse aspirare alla porpora appaiono pienamente giustificati.

zantina si limitava a un generico appello alla filantropia e ad altrettanto generiche richieste di intervento rivolte all’imperatore o ai suoi ministri; e ciò anche negli ultimi secoli dell’impero, quando la situazione di impoverimento collettivo, legata al progressivo sgretolarsi della compagine statale, divenne a tal punto insostenibile da costituire una ulteriore minaccia alla sopravvivenza delle strutture fondamentali dell’impero. Gli ambienti ecclesiastici tardo-bizantini mostrano comunque di possedere una eccezionale consapevolezza della gravità della crisi sociale che si trovano a dover fronteggiare e della reale possibilità che tale crisi possa sfociare in rivolte sanguinose e disordini senza fine. Una figura interessante, da questo punto di vista, è quella di Giovanni III Ducas Vatatzes (1222-1254), l’imperatore filantropo idealizzato dai biografi per le sue virtú e per l’attenzione ai problemi dei ceti inferiori.

Un’opera unica

L’opera di Teodoro sembra dunque posizionarsi sulla scia di un dibattito ampiamente avviato e di stringente attualità. Tuttavia, proprio il confronto con i testi contemporanei sull’argomento fa emergere la particolarità della sua opera, che rappresenta un vero e proprio unicum nella letteratura dell’epoca. In particolare, se si paragona il trattato del marchese al di poco successivo Dialogo tra i ricchi e i poveri – scritto da Alessio Macrembolite nel 1343 e la cui idea centrale è quella della necessità di una collaborazione fra i ceti medi, che lasci intatta la struttura socio-economica dello Stato bizantino e, al Serres (Grecia), monastero di S. Giovanni Prodromo. Affresco raffigurante l’imperatore Andronico II Paleologo.

Tracce dagli archivi

Speranze e auspici Le ambizioni del marchese hanno trovato una conferma piuttosto recente nella documentazione archivistica: nel 1985, è stato infatti pubblicato un suo testamento inedito, rogato a Trino nel febbraio del 1338, che mostra come Teodoro dovesse aver nutrito ben piú che semplici speranze circa la possibilità di impadronirsi

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del trono bizantino; nell’atto del 1338 il marchese si fregia infatti di una titolatura (Magnificus princes dominus Theodorus excellentissimus condam imperatoris Grecorum filius porfirogenitus, marchio Montisferrati) che mette ampiamente in evidenza le proprie ascendenze imperiali, e, soprattutto, menziona fra i «beni mobili e immobili» lasciati agli dicembre

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tempo stesso, attraverso un sistema di tipo assistenzialistico, impedisca il generarsi di situazioni sociali esplosive, tali da poter scatenare violenze e rivolte –, si nota come gli argomenti di Teodoro si collochino su un piano del tutto diverso rispetto al «riformismo utopistico» del collaboratore di Giovanni Cantacuzeno. Nel testo di Teodoro, infatti, non c’è posto per una sia pur limitata analisi socio-economica, né per alcun tipo di proposta piú o meno concreta, ma l’interesse dell’autore si concentra piuttosto sulla condanna della ricchezza in quanto tale, che conduce all’affermazione dell’impossibilità di una conciliazione fra etica e prassi politica. Per l’uomo onesto e timorato non v’è altra strada che l’inazione, l’accettazione della propria sconfitta mondana – unico vero tramite alla ricompensa celeste – e la piena sottomissione al piano divino di salvezza.

Trino Vercellese, Biblioteca Civica. Teodoro I, marchese di Monferrato, in un affresco della fine del XV sec.

Influenze neoplatoniche

Il modello di Giobbe, che si esplicita proprio a conclusione dell’opera, non è l’unico punto di riferimento di Teodoro: nel testo riecheggia infatti un altro fondamentale influsso, quello del neoplatonismo, e, in particolare, delle teorie di Plotino, che vedono nel soggiorno in terra dell’umanità una pura e semplice trasmigrazione in vista della liberazione del corpo e dell’ascesa dell’anima verso Dio; non a caso il marchese riprende dal Timeo l’immagine dell’uomo come albero capovolto, il cui capo è la radice celeste la quale «guarda in alto verso il cielo e verso il suo Creatore che l’attende nel Suo regno celestiale e nella Sua infinita gloria», mentre le braccia e le altre membra ne costituiscono i rami, tesi verso la terra; ugualmente, il ‘pessimismo cosmico’ di Teodoro, che giudica i «ricchi» come degni unicamente di rimprovero e disprezzo,

eredi i suoi possedimenti bizantini, considerati dal Paleologo come una base per una nuova avventura della propria famiglia alla riconquista del trono costantinopolitano ingiustamente sottrattole. Il fatto che il marchese auspicasse il trasferimento di suo figlio Giovanni II in Oriente è espresso chiaramente in un documento datato

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1325, nel quale Teodoro predispone la successione al marchesato nel caso in cui Giovanni, l’erede designato, avesse deciso di «se transferre ad partes ultramarinas»; allo stesso anno risale poi la notizia secondo cui il marchese avrebbe lasciato in eredità alla figlia il Monferrato, riservando per sé gli antichi diritti sul regno di Tessalonica.

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personaggi teodoro paleologo A destra Serralunga di Crea, santuario della Madonna di Crea, cappella di S. Margherita. Guglielmo VIII, marchese di Monferrato, in un affresco del Maestro di Crea. XV sec. Nella pagina accanto Istanbul, chiesa di S. Salvatore in Chora. Mosaico raffigurante Teodoro Metochite che presenta a Cristo un modello della chiesa che contribuí a restaurare e in cui, infine, si ritirò. XIV sec.

si avvicina a quello di un altro grande neoplatonico, Michele Psello, che circa tre secoli prima aveva identificato proprio nel «nobile potere» la causa dell’irrimediabile decadenza dell’impero bizantino.

Contro Metochite

Ma le Divisions non si comprendono appieno se non si tengono presenti da un lato la forte ostilità del marchese per il ceto nobiliare monferrino – che sfociò nella politica spiccatamente filocomunale del suo governo – e, dall’altro, la polemica contro l’erudito e scrittore bizantino Teodoro Metochite (1260 circa-1332). Quest’ultima, in particolare, sembra costituire il «sottotesto» dell’opera del Paleologo: se nel trattato di arte militare l’autore attacca il suo avversario in maniera diretta ed esplicita, accusandolo di «malice» e di «avarice», e, soprattutto, di aver tramato per impedire che l’imperatore prendesse in considerazione il marchese quale suo successore, nelle Divisions il discorso si fa meno diretto, piú generale e – anche se solo in apparenza – piú pacato. Tutte le argomentazioni di Teodoro Paleologo, però, costituiscono un attacco virulento contro il Metochite, che non viene nominato solo in quanto la sua figura nulla direbbe al pubblico occidentale a cui le Divisions si rivolgono. In particolare, il marchese sembra voler confutare uno dei cardini della riflessione di Teodoro Metochite, cioè l’idea – espressa piú volte da quest’ultimo nei suoi scritti – che la vita attiva sia preferibile alla vita contemplativa e che il saggio abbia l’imperativo morale di impegnarsi nella vita politica. Secondo il Metochite, chi vive nascosto è condannato a un’esistenza comoda ma insignificante; al contrario, l’uomo coraggioso è tutto immerso nel mondo, e fa tutto ciò che è in suo potere per contrastare la fortuna avversa, senza mai indietreggiare o cedere. A questa visione si oppone consapevolmente quella

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di Teodoro Paleologo, convinto dell’impossibilità di agire bene e dell’ipocrisia di quanti sostengono che la vita pratica sia compatibile con la virtú.

L’elogio della sconfitta

Scrive appunto il marchese: «In verità, vediamo chiaramente che coloro i quali fanno il bene e lo coltivano in questo mondo e si preoccupano dei propri simili ne ricevono male e fastidio e ne hanno una cattiva ricompensa: alcuni di essi hanno in totale spregio le grandi cose del mondo e non vogliono compiere contro la propria coscienza e lealtà alcuna azione disonesta e sconveniente. Di costoro, la maggior parte degli uomini si burla e li disprezza, ma questo comportamento nei loro confronti non mi sembra giusto, e ritengo piuttosto che si debba averne cura e che essi vadano sostenuti nei loro uffici e nella loro vita, perché non sono colpevoli, ma lo sono quelli che, maldisposti, non concedono loro alcuna remunerazione, come invece dovrebbero, e noi, anche non conoscendoli, dobbiamo riprovare la loro crudeltà, per evitare che ne nasca un cattivo dicembre

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

esempio. Perché, se la loro pessima fama fosse amplificata e quella «disperazione», che negli Enseignements lo stesso Teascoltassero i dovuti rimproveri, si sforzerebbero di evitarli, e odoro definiva «la cosa peggiore che possiamo sperimentare». questo sarebbe d’esempio agli altri. Allo stesso modo, vediamo Anche Teodoro Metochite, come il Paleologo, conchiaramente molti uomini indegni e malnati, che hanno il cluse la sua lunga esistenza nel segno della sconfitta, potere di compiere il male e, al contrario, e tuttavia i due irriducibili nemici, Da leggere altri degni e volenterosi di fare il bene, pur di fronte alla comune sorte avpur non potendolo. E come spesso accade versa, mantengono intatta tutta la U Marco Di Branco, Angelo Izzo, nelle vicende umane, alcuni rimangono loro diversità: se il Metochite, coinL’elogio della sconfitta. Un trattato nascosti per lungo tempo e poi sono trovolto nella caduta di Andronico II e inedito di Teodoro Paleologo vati, conosciuti e glorificati, mentre alcostretto a ritirarsi nello splendido Marchese di Monferrato, Roma, tri, migliori, rimangono nascosti e non monastero costantinopolitano di S. Viella 2015 valgono nulla perché non agiscono». Salvatore in Chora, trascorre i suoi Sembra evidente il riferimento ultimi giorni rimpiangendo la sua autobiografico contenuto in questa passata grandezza e rievocando mipagina, scritta senza dubbio dopo il fallito tentativo del nutamente i beni terreni un tempo posseduti e goduti, marchese di impadronirsi del trono bizantino: oltre a il Paleologo, abbandonata per sempre la speranza di otuna critica esplicita alle teorie del Metochite, essa cotenere le insegne della monarchia universale, trasfigura stituisce, infatti, una vera e propria giustificazione della il proprio personale fallimento in un duro atto d’accusa condotta rinunciataria del suo autore, ormai in preda a verso l’ingiustizia del mondo. F

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civiltà comunale/2

È l’ora del

podestà

di Furio Cappelli

Dopo la vittoria sul Barbarossa, la Lega lombarda si sfalda e si apre una nuova stagione politica. I Comuni inseguono l’autonomia, ma vedono anche affermarsi una inedita categoria di «uomini forti» A sinistra rilievo forse raffigurante l’imperatore Federico Barbarossa, appartenente alla decorazione della distrutta Porta Romana di Milano e oggi conservato nelle Civiche Raccolte del Castello Sforzesco della città. XII sec. Nella pagina accanto Milano, piazza dei Mercanti. Particolare della facciata del Palazzo della Ragione (o Broletto Nuovo), inaugurato nel 1233 dal podestà Oldrado da Tresseno, ritratto nella statua equestre inserita tra due archi del portico.

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«N

N

oi Federico [Barbarossa], imperatore dei Romani, ed Enrico [VI], figlio nostro, re dei Romani, concediamo per sempre a voi città, luoghi e persone della Lega le regalie [ossia i diritti regali, cioè spettanti al sovrano] e le vostre consuetudini sia nella città, sia sul territorio circostante». Inizia cosí il primo capitolo degli accordi di pace stesi a Costanza il 25 giugno 1183 tra il sovrano sconfitto e i Comuni capitanati da Milano che, nel 1167, avevano aderito alla Lega lombarda. Di lí a poco, l’alleanza si sciolse e le città che ne avevano fatto parte incrociarono le spade tra di loro nei lunghi confronti scatenati dall’espansione dei Comuni sul contado. La dieta di Costanza rappresenta tuttavia un momento di grande significato storico. Di certo, la sconfitta del Barbarossa è il risultato di una strategia che aveva inutilmente tentato di imporre un ordinamento dall’alto alla nuova, brulicante e riottosa realtà determinata dal consolidamento delle magistrature comunali nelle città lombarde. Lo stesso impero aveva favorito questo asset(segue a p. 44) dicembre

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MEDIOEVO

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civiltà comunale/2

I broletti della Pianura Padana SVIZZERA Bolzano S Sondrio Aosta

Como o Biella

Novara Torino

Trento

Lecco

Bergamo

Treviso

B Brescia Milano

Asti

Mantova

Verona

Alessandria Piacenza Parma Modena

Cuneo Savona

Genova

Dopo la pace di Costanza (1183) e nel giro di pochi anni, il palazzo comunale diviene un elemento cruciale nell’assetto urbanistico di tutte le città che erano state piú o meno coinvolte nella contesa con il Barbarossa. Si crea cosí una tipologia di edificio pubblico di lunga fortuna, il «broletto», ben presto estesa anche all’Italia centrale. Esistono le varianti legate alle tradizioni costruttive locali e alla composizione delle maestranze impegnate, ma il modello del palazzo porticato con le grandi aule o la sola grande aula di riunione al primo piano viene fedelmente riproposto in ogni situazione. Il portico del pianterreno, quando non è chiuso nel recinto del cortile, si presenta sempre con un aspetto «permeabile» nei riguardi dello spazio urbano, in corrispondenza di una piazza o di una via centrale: attraverso questo spazio aereo, spesso interamente percorribile da un lato all’altro dell’edificio, l’autorità pubblica si cala in modo tangibile nel vivo della realtà urbana, e, al di là degli effetti visivi, ricava anche dei benefici in moneta sonante, grazie alla locazione degli spazi coperti ai negozianti e agli artigiani. Nasce cosí quel concetto di spazio urbano elegante, confortevole, ricco di movimenti

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Belluno

Bologna

In alto cartina con l’ubicazione delle città padane in cui sorgono i broletti citati nel testo.

di persone, di denaro e di merci, che venne sempre piú finemente sviluppato nella progettazione delle piazze e delle vie di rappresentanza, fino a ispirare, ai giorni nostri, i centri commerciali introdotti oltreoceano, che sono, alla radice, un tentativo di ricreare su scala industriale gli ambienti maggiormente frequentati delle città d’arte d’Italia.

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Bergamo. La facciata del broletto che prospetta sulla piazza Vecchia, realizzata all’indomani della conquista veneziana.

MEDIOEVO

BERGAMO Già esistente nel 1198, il broletto di Bergamo fu probabilmente realizzato negli stessi anni in cui venne consacrato il nuovo altare della prospiciente basilica di S. Maria Maggiore (1184-85). Fa angolo con la cattedrale, e la facciata principale prospettava in origine sul sagrato della chiesa (l’odierna piazza Duomo). Alla metà

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del XV secolo, in seguito alla conquista veneziana, venne istituita sul fronte opposto una nuova facciata, secondo lo stile della Serenissima. Il portico fu rielaborato per favorire il dialogo tra lo spazio pubblico civico di nuova definizione (l’odierna, rinascimentale piazza Vecchia) e l’antico polo di piazza Duomo, che conservò la sua centralità nella vita religiosa cittadina.

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NOVARA Risalente agli anni 1208-10, il broletto di Novara spicca grazie alla preziosa decorazione pittorica che si sviluppava all’esterno, lungo il coronamento. Nei palazzi pubblici e nelle chiese, dovevano essere molti i complessi pittorici a carattere profano, ma di essi rimangono spesso solo alcuni frammenti, o una semplice attestazione documentaria. Il fregio di Novara è perciò assai prezioso, anche se ben leggibile solo nella fascia superiore, che doveva essere quella prettamente decorativa, marginale: le figure, prive di relazione narrativa, hanno la stessa funzione dei marginalia (figure di contorno) che compaiono nei capilettera dei codici miniati o lungo i bordi del cosiddetto Arazzo di Bayeux (1066-1077). Assistiamo cosí a combattimenti tra cavalieri, tra popolani, a lotte tra uomini e bestie feroci. Non mancano singole figure mostruose, come nei bestiari tipicamente medievali, o scene di corteggiamento.

COMO Intorno al 1215, per volere del podestà Bonardo da Cadazzo, prendeva forma il broletto di Como, completamente rivestito da un paramento in marmo a fasce di colore alternato.

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In alto uno scorcio del cortile centrale del broletto di Novara. A sinistra una delle scene di combattimento fra uomini e belve facenti parte del fregio dipinto che orna il broletto novarese. A destra Como. Uno scorcio della piazza del Duomo, sulla quale prospetta, oltre alla chiesa cattedrale, il broletto della città.

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A destra il broletto di Brescia addossato alla Torre del Popolo (conosciuta popolarmente come Tor del Pégol, cioè «del Mercante»). In basso particolare di uno dei cavalieri ritratti sulle pareti del salone del broletto bresciano: si tratta di un raro esempio di pittura infamante, di cui sono con ogni probabilità protagonisti alcuni fuoriusciti o rivoltosi.

È delimitato a nord dalla mole della torre civica, impostata su una solida struttura di conci lavorati a bugna (la torre attuale è in larga parte una ricostruzione del 1927), mentre a sud si impone la ben piú ampia struttura del duomo, che ha finito per «scalfire» l’edificio civico. Durante gli ampliamenti rinascimentali, infatti, fu sacrificata una parte della campata sud del broletto, in origine corredata dallo scalone esterno di collegamento al primo piano. Il portico di pianterreno forma un ambiente unico, ma, in precedenza, i due lati erano separati da una parete, cosicché ogni facciata aveva il suo rispettivo portico. BRESCIA Il nuovo broletto di Brescia, realizzato in sostituzione di un prospiciente palazzo attestato nel 1187, si trova di fianco al Duomo Nuovo (S. Pietro de Dom). Risale agli anni 1223-54. I lavori furono condotti da Bonaventura Medico

con l’apporto del «misuratore» Garefa di Portanova. L’ala maggiore (Palatium novum maius), aderente all’antica Torre del Popolo (in dialetto, la Tor del Pégol, ossia del mercante), presentava al piano superiore un grande salone affrescato, coperto da un soffitto ligneo e illuminato da ampie polifore. Era destinato alle riunioni del Consiglio maggiore. Resti cospicui della piú antica decorazione pittorica, eseguita a tempera su intonaco secco alla fine del XIII secolo, si osservano sulle pareti nord e sud. Si tratta di due lunghe teorie di cavalieri corrucciati (in origine un centinaio), legati l’un l’altro da

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catene. Sono con ogni probabilità fuoriusciti, o comunque rivoltosi di parte ghibellina messi fuori gioco in battaglia, e ancora piú umiliati dalla pubblica rappresentazione in questo raro esempio di pittura infamante. In tal modo, infatti, questi nemici della pace e del buon governo venivano additati alla cittadinanza, come monito esemplare, al chiaro scopo di scoraggiare chiunque avesse voluto imitarne le gesta. Nel palazzo bresciano, tuttavia, non mancano elementi di gusto raffinato, di un’eleganza che travalica la funzione didattica dei dipinti. Una delle quadrifore del cortile sfoggia sulle due colonne laterali in marmo rosso capitelli istoriati di notevole complessità, che concentrano in un coacervo di figure le personificazioni dei mesi e i segni zodiacali. La Loggia delle Grida, ripristinata nel lato su piazza nel 1902 dopo essere stata abbattuta dai giacobini nel 1797, era destinata alla lettura pubblica delle disposizioni, e ripropone alla base le mensole originarie, con la figura centrale

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della Giustizia, affiancata da due presumibili magistrati e da quattro telamoni. MILANO Di tutt’altro genere e di ben diverso impatto è invece il ritratto scultoreo del podestà Oldrado da Tresseno, raffigurato mentre incede a cavallo, in una nicchia del nuovo broletto di Milano, nella facciata che prospetta su piazza dei Mercanti.

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In alto il fregio di Porta Romana che raffigura il rientro in città degli esuli milanesi. 1171. Milano, Castello Sforzesco. In basso Milano. Il Broletto Nuovo. 1228-33.

Realizzato negli anni 1228-33, il palazzo rientra nelle maglie di un vero e proprio piano regolatore approntato dal Comune dopo le devastazioni patite dalla città per mano del Barbarossa. In particolare, il broletto doveva costituire il fulcro di un nuovo assetto urbanistico radiocentrico: lí dovevano culminare le sei direttrici viarie principali, facenti capo alle altrettante nuove porte monumentali della cinta muraria. L’epigrafe di corredo del ritratto di Oldrado definisce «regali» i portici del palazzo e invita a ricordare il magistrato, oriundo di Lodi, come «difensore e spada della fede», come costruttore dell’edificio (fu lui a inaugurarlo) e come milite spietato dell’ortodossia, visto che allestí diversi roghi in cui perirono i seguaci dell’eresia catara. Sormontato dall’aquila, che allude sfrontatamente alla maestà dell’imperatore sconfitto, il podestà si propone con straordinario protagonismo, come se fosse un eroe dell’antichità. D’altronde, un ritratto del genere non poteva prescindere dalla notissima statua romana del Marco Aurelio, allora conservata sul Laterano, nella convinzione che fosse il ritratto di Costantino, il primo imperatore cristiano. Ma la celebrazione scultorea dei fasti del Comune conobbe altri episodi memorabili nella decorazione delle predette porte urbiche (sono ancora in piedi Porta Ticinese e Porta Nuova). A Porta Romana, come mostrano i rilievi superstiti delle fasce su cui si impostavano gli archi, il pilastro centrale raccontava l’uscita degli esuli milanesi dalle città alleate (Cremona,

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Bergamo, Brescia), indicate da porte turrite, e il loro rientro in città sotto la guida di un sacerdote, tale frater Jacobus, che incede reggendo un vessillo in mano. Sul pilastro destro, come attesta l’unica scena rimasta, appariva sant’Ambrogio nell’atto di scacciare dalla città una lunga schiera di eretici. Il fregio, realizzato nel 1171 da Anselmo, che si definisce orgogliosamente come un Dedalo redivivo, e da Gerardo, che esalta dal canto suo l’eloquenza del proprio magistero, possiede l’efficacia e la brutalità della scultura tardo-antica. Ed è impressionante come tale ricerca sia al servizio di una narrazione che riguarda i fatti recentissimi della distruzione di Milano (1162) e della costituzione della Lega lombarda (1167). Nella stessa, arbitraria evocazione di un Ambrogio intollerante, si può cogliere un’allusione alla furia con cui il patrono della città si accanisce contro i suoi nemici. Celebre è poi l’immagine che decorava la scomparsa Porta Tosa, che mostra una donna intenta a rasarsi il pube. La sfrontatezza del gesto trova un efficace contrappunto nell’eleganza e nell’accuratezza del rilievo, con un tocco di sensibilità antica nella tunica che scende dolcemente dietro le gambe della figura. D’altro canto, l’inquadramento a edicola, con un arco su due colonne, era lo stesso adottato per incorniciare le immagini dei profeti e dei dottori della Chiesa. La tradizione fornisce due spiegazioni del singolare soggetto. Si tratterebbe della moglie del Barbarossa, oppure di una prostituta che si accinse a compiere questo delicato esercizio di toletta di fronte alle truppe nemiche, per provocarle e deriderle. Il mistero permane, ma con un’immagine del genere è indubbia la volontà di colpire salacemente le velleità di chiunque si accosti a Milano con intenzioni bellicose. E in ogni caso, questa scultura e i rilievi di Porta Romana meritano

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In alto il broletto di Piacenza in una incisione del 1860. Piacenza, Biblioteca Comunale «Passerini-Landi». In basso la scultura di Porta Tosa che raffigura una donna intenta a radersi il pube. Milano, Castello Sforzesco.

già da soli una visita alle raccolte museali del Castello Sforzesco. PIACENZA Per concludere questa rassegna dell’edilizia civica padana, merita una menzione il broletto di Piacenza, meglio noto come «il Gotico», realizzato negli anni 1281-83 presso l’insediamento dei Francescani, in un’area ben distinta dall’antico polo della cattedrale. Il nuovo palazzo sostituí l’antica sede comunale attestata per la prima volta proprio nel 1183, l’anno della pace di Costanza. La tipologia dell’edificio pubblico di rappresentanza viene riproposta fedelmente, ma questo esemplare spicca per la particolare cura nell’elaborazione decorativa delle facciate, con una profusione di intarsi e di fregi a stampo sul piano superiore, dove si insinuano echi di arte moresca. Lo stesso stile e la stessa tecnica si riflettono nella sala capitolare della vicina fondazione cistercense di Chiaravalle della Colomba, dove il complesso monastico fu ricostruito dopo la devastazione subita per mano di Federico II (1248).

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civiltà comunale/2 to, nella misura in cui aveva elargito significative concessioni alle città del Regno italico, vista l’impossibilità di controllarle. L’unico strumento capace di garantire la fedeltà delle stesse città suddite dell’impero era appunto il rilascio di concessioni o la rinuncia a taluni diritti di spettanza regia. Occorreva fare i conti, d’altronde, con la mancanza di un apparato amministrativo statale. Gli antichi magistrati di nomina regia avevano ormai abbandonato le città, preferendo stabilire solidi poteri familiari nel territorio. Gli unici detentori della vita amministrativa erano cosí

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divenuti i vescovi, e i nuovi assetti dell’ordinamento pubblico nell’ambito urbano scaturirono infatti all’ombra delle cattedrali.

Una mossa tardiva

Il Barbarossa, come in seguito suo nipote Federico II, cercò di riguadagnare il terreno perduto, ma era ormai troppo tardi. Si trattava a ogni modo di un conflitto che, seppure lungo e duro, non metteva in gioco contrasti insanabili. La stessa pace di Costanza, fondata sul rispetto reciproco delle parti in causa, lo attesta chiaramente. Gli aderenti alla Lega riconoscevano e rispetta-

vano la potestà imperiale, e non intendevano metterla in discussione. Si ribellavano nella misura in cui l’imperatore non rispettava quelle consuetudini di autogoverno che i suoi predecessori avevano tollerato o avallato. D’altro canto, Federico Barbarossa non aveva affatto in odio la nuova realtà organizzativa dei Comuni. Prese addirittura «in prestito» la figura del podestà per imporre magistrati a lui fedeli nelle città filoimperiali o comunque a lui soggette. A ogni modo, il Comune si riteneva pienamente integrato nell’ordinamento feudale: anche la stessa

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compilazione delle Consuetudini milanesi (1216) evidenzia che il potere della cittadinanza è legittimato e conferito dall’autorità sovrana del monarca. In un caso (Pavia), il governo comunale si personifica: un privilegio imperiale del 1164 autorizza la città a comportarsi «come un marchese nella sua marca, o un conte nel suo comitato». È anche dato il caso che gli stessi magistrati comunali assumano prerogative antiche di evidentissima matrice feudale, soprattutto quando agiscono nel contado: per esempio, i consoli del Comune di Brescia esigono che gli abitanti del borgo di Bozzolano riMiniatura raffigurante il podestà di Genova Giacomo Maniero (1195) insieme ai consoli della città, da un’edizione degli Annales ianuenses di Ottobono Scriba. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

conoscano loro i diritti di albergaria. Devono essere cioè alloggiati e rifocillati di tutto punto, come se impersonassero il signore di vecchio stampo che, al suo passaggio, pretende i dovuti omaggi dei propri sudditi.

Verso l’autonomia

Il Comune, d’altronde, nasce in piena età feudale. La prima testimonianza superstite è quella di Pisa, poiché la magistratura consolare, ossia la piú antica magistratura comunale ricordata dai documenti, è attestata nella città toscana già negli anni 1081-85. E il successo di questa nuova realtà amministrativa doveva essere il punto d’arrivo di ripetuti esperimenti di autogoverno, compiuti soprattutto con l’ausilio delle assemblee pubbliche che si tenevano sotto l’egida dell’autorità vescovile, complice lo sfaldamento dell’apparato pubblico carolingio. Non a caso, i primi segni di governi autonomi cittadini risalgono all’epoca di Berengario I (888-924),

Piccolo glossario comunale OMUNE Alla fine dell’XI secolo e nella prima metà del successivo, C per designare la città e l’insieme dei suoi abitanti, ma anche il suo ordinamento pubblico, si ricorre al termine civitas: gli stessi consoli vengono menzionati come consules civitatis. Frattanto, l’insieme degli abitanti veniva spesso indicato come populus, e l’espressione comune populus rafforzava il senso di un coinvolgimento generale della popolazione: l’aggettivo comune serviva a designare «tutto il popolo» ossia «tutta la cittadinanza». Dal terzo e dal quarto decennio del XII secolo, di fianco a civitas, si afferma sempre piú il termine comune come sostantivo per definire il governo cittadino. CONSOLE I piú antichi magistrati dell’ordinamento comunale prendono in prestito il termine consul dal sistema organizzativo romano, ma le due realtà giuridiche sono ben diverse. I consoli delle città medievali sono infatti una realtà nuova, che ricorre alla terminologia antica in omaggio a una tradizione illustre. L’attività giudiziaria dei Comuni, d’altronde, traeva forza dalla riscoperta del diritto romano. PODESTÀ Il podestà è il magistrato monocratico che si sostituisce ai consoli. Viene designato con il termine potestas, parola di uso ininterrotto per indicare un’autorità superiore o un soggetto che la rappresentava. Il podestà incarna infatti la massima autorità dell’ordinamento comunale, ma è al tempo stesso un’emanazione del consiglio che lo ha eletto.

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Da leggere U Franco Cardini, Giancarlo Andenna,

Pierangelo Ariatta (a cura di), Federico Barbarossa e i Lombardi, Europía, Novara 1991 U Elisa Occhipinti, L’Italia dei comuni. Secoli XI-XIII, Carocci, Roma 2000 U Giuliano Milani, I comuni italiani, Laterza, Roma-Bari 2005 U François Menant, L’Italia dei comuni (1100-1350), Viella, Roma 2011

nel pieno della crisi del Regno italico. Tra i ranghi della nobiltà che alimentava la corte del presule locale, iniziarono a conquistare spazio uomini di fiducia dello stesso vescovo, boni homines, che coadiuvavano la sua azione di governo. Quando il sistema si consolida, dagli stessi ranghi dell’aristocrazia cittadina l’assemblea pubblica presceglie i consoli. Il podestà entra in campo quando il governo consolare inizia a mostrare i propri limiti. I magistrati entrano spesso in contrasto tra di loro, e, non di rado, fiancheggiano gli interessi del proprio clan e dei propri affiliati. Nel trasparente caso di Genova (1190), l’adozione del podestà è la risposta piú efficace a un vero e proprio stallo dell’amministrazione pubblica. Un magistrato unico, sempre piú spesso prescelto tra i notabili di un’altra città, garantisce maggiormente un solido esercizio del potere esecutivo e del potere giudiziario. Scardinando il monopolio della nobiltà locale, il podestà costituisce poi una innovazione di notevole impatto sociale. Garantisce maggiormente i diritti di chi non rientra nel rango dei milites, e prelude quindi alla nascita di un nuovo soggetto nell’ordinamento comunale: il popolo. F

NEL PROSSIMO NUMERO ● La cavalleria e il popolo

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immaginario la stella cometa

Mistero

di Erberto Petoia

splendente

Secondo l’evangelista Matteo, i Magi che dall’Oriente si erano messi in viaggio per portare doni al Messia, raggiunsero Betlemme seguendo una stella apparsa loro nel cielo. Quella testimonianza segnò l’inizio del «mito» della cometa, alimentato nel tempo non solo dalle speculazioni di carattere teologico, ma anche dalle osservazioni di astronomi e scienziati e, spesso, dalla superstizione popolare

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ella narrazione evangelica di Matteo, unica tra le fonti canoniche a parlarne, si sottolinea l’importanza della stella nella decisione dei Magi di intraprendere il viaggio verso la Palestina. Essenziale e stringato nella narrazione, l’episodio si diffonde nella tradizione cristiana orientale e occidentale, colta e popolare, con arricchimenti, trasformazioni, rielaborazioni, dando vita a un ciclo dei Magi e della stella che ancora oggi residua nelle diverse rappresentazioni del tempo di Natale. Se il suo significato reale o simbolico era ben chiaro ai primi cristiani, una volta perso il valore dell’immediata trasmissione del messaggio, l’astro si trasformò in un enigma e, contemporaneamente, in uno degli oggetti piú misteriosi e affascinanti che accompagnano la venuta di Cristo. Alimentò interpretazioni e speculazioni di ordine teologico, configurandosi come l’elemento che accomuna le diverse redazioni del mito dei Magi

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e, a partire dal Medioevo, divenne uno degli elementi irrinunciabili delle diverse forme di rappresentazione della Natività.

La visione della stella

Pur nella sua laconicità, la narrazione di Matteo (2, 1-12) evidenzia l’origine orientale dei Magi, depositari di particolari conoscenze che consentirono loro di comprendere immediatamente l’eccezionalità e il significato della stella apparsa in Oriente: «“Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo” (…) Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro sua madre, e prostratisi lo adorarono». Le reazioni suscitate dalla pericope (breve passo, dal greco perikopto, «taglio intorno», n.d.r.) di Matteo, a partire dal II e fino al V secolo, evidenziano principalmente l’atteggiamento di rifiuto

Padova, Cappella degli Scrovegni. Un particolare delle Storie di Cristo, affrescate da Giotto tra il 1303 e il 1305. Si tratta della scena dell’Adorazione dei Magi, nella cui parte superiore, su un preziosissimo cielo blu lapislazzuli, si staglia la stella. L’astro è qui rappresentato con la chioma, forse per influenza dell’apparizione, pochi anni prima, nel 1301, della Cometa di Halley.

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immaginario la stella cometa della cultura cristiana nei confronti dell’astrologia, uno dei pilastri della religione greco-romana, un rifiuto dettato essenzialmente dal suo determinismo fatalistico. Consapevole del rischio che la nuova fede, tramite il modello offerto dall’episodio dei Magi, potesse legittimare l’astrologia come strumento veritiero di conoscenza, la tradizione cristiana delle origini cerca di attribuire un valore diverso alla stella e alcuni autori, malgrado l’estrema prudenza consigliata dai testi patristici nell’esegesi del passo di Matteo, si sforzano di adattarla alle credenze e alle pratiche cristiane.

sua luce vincerà quella del sole. (…) E quando si leverà la stella della quale ho parlato, invierete messaggeri carichi di doni per adorarlo e offrirglieli». Similmente, nella Historia compendiosa dynastiarum di Gregorio Abu’l Farag (XIII secolo), Zoroastro annuncia ai Persiani la manifestazione del Cristo: «E annunziò che, alla fine dei tempi, una vergine avrebbe concepito senza contatto di uomo, e che, alla nascita del bambino, sarebbe apparsa una stella; che questa

La profezia di Zoroastro

I tentativi di interpretazione del presagio della stella riportato dall’evangelista rimandano alla duplice tradizione profetica di origine iranica e biblica. Infatti, nell’Avesta, complesso di testi sacri iranici, si legge che proprio Zoroastro avrebbe vaticinato l’avvento di Cristo, annunciato dalla comparsa in cielo di una stella. Tale tipo di profezia si diffuse in tutta la cristianità orientale e la ritroviamo, per esempio, in alcune formule magiche di un amuleto siriaco, che recita testualmente: «Sopraggiungerà il tempo in cui vedranno una stella nel cielo, che reca l’immagine di una madre con il figlio in braccio». La medesima tradizione è riportata nel Liber Scholiorum, risalente all’VIII secolo, di Teodoro bar Konai, esegeta e apologista della Chiesa d’Oriente, in cui Zoroastro, dopo aver rivelato la nascita miracolosa del re concepito da una vergine e preannunciato la sua morte sul legno, dice: «Quando si manifesterà il principio del suo avvento, appariranno nel cielo prodigi grandi e si vedrà una fulgente stella nel mezzo del cielo e la

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sarebbe rimasta splendente per lungo tempo, e nel suo centro si sarebbe vista l’immagine di una fanciulla vergine. [Egli disse:] “Voi, poi, figli miei, vedrete la sua natività prima di ogni altro. E quando vi apparirà la stella, andate dove essa vi guiderà, adorate il neonato, poiché è proprio egli quel verbo che ha formato il cielo”». La tradizione biblica sembra trarre prevalentemente spunto dalla profezia di Balaam, con la quale,

Nella pagina accanto Roma, catacombe di Priscilla. Frammento di affresco raffigurante la Madonna con il Bambino, un profeta e una stella. III sec. In questa pagina rovescio di medaglione bizantino in oro con l’Adorazione dei Magi. VII sec. Londra, British Museum. Sopra la Vergine è raffigurata una stella.

in un breve testo siriaco falsamente attribuito a Eusebio di Cesarea (265-340), l’apparizione della stella viene messa in stretta relazione: «Una stella spunta da Giacobbe, e uno scettro sorge da Israele, spezza le tempie di Moab e il cranio dei figli di Set» (Numeri, XXIV, 17). La profezia veterotestamentaria di Balaam divenne la base di tutta l’esegesi patristica dell’astro, conferendogli un significato sempre piú simbolico, spirituale e divino, e sottraendolo cosí alla sfera fisica e meccanica dei corpi celesti, e a qualsiasi tentativo di stabilirne orbita e identità, per ricondurlo nel piú rassicurante e congeniale alveo delle speculazioni teologiche e delle manifestazioni teofaniche. Il collegamento tra la stella dei Magi e la profezia di Balaam da parte dei primi cristiani colloca quindi l’astro nel solco della simbologia e della tradizione probatoria dell’avvento del Messia, come attestano anche le rappresentazioni cristiane dei primi secoli delle catacombe di Priscilla a Roma, in cui la figura che indica la stella è stata identificata con Balaam o, talora, con il profeta Isaia.

Metafora della vittoria

La presenza della stella nella pericope di Matteo offrí ai Padri della Chiesa e ai primi scrittori cristiani la possibilità di sviluppare risposte creative riguardo al fenomeno astrologico, tra le quali prevalse il mito di una «nuova stella», vittodicembre

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immaginario la stella cometa Tradizioni e superstizioni

Presagio di sventura

riosa su tutti gli altri corpi celesti, metafora della vittoria di Cristo su tutte le potenze cosmiche del destino che avevano tenuto l’umanità in schiavitú, segnando il trionfo del Salvatore già alla sua nascita. Cosí i Magi, che praticavano l’astrologia e che credevano nel destino retto e determinato dal corso degli astri, assistono al crollo della loro ideologia in seguito all’apparizione della

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In alto Adorazione dei Magi (sopra) e I Magi adorano la Stella, miniature dallo Speculum humanae salvationis. XIV sec. Darmstadt, Universitäts- und Landesbibliothek.

La comparsa di una cometa, ma anche di altri fenomeni celesti – come le eclissi – che interrompono il normale ciclo e l’armonia dei moti celesti, sono fonti di ansia e si presentano come forieri di mali e sciagure. La cometa, che sta a significare «stella con la chioma», come viene di solito rappresentata nell’antica iconografia e nelle diverse raffigurazioni della Natività, è soltanto uno tra i molti segni del cielo che influiscono sul destino degli uomini e del tempo. Nel corso dei secoli, proprio per la sua anomalia e per la sua eccezionalità, il passaggio di una cometa viene a configurarsi come portatore di eventi disastrosi, e alla stella si attribuiscono le cause di alluvioni e terremoti, epidemie e invasioni di nemici, morti e malattie, morie di animali, carestie e siccità. Per far fronte ai rischi derivanti dalla sua apparizione, si mettevano in atto rituali eccezionali, levando rumori e grida, volti ad atterrire il cielo nemico, suonando i timpani sacri, come nell’antica Babilonia, o placando gli dèi con sacrifici espiatori, come nell’antica Roma. Le comete rivestono un ruolo fondamentale anche nella mitologia della consumazione finale del tempo, di cui sono segni premonitori. Tale venne considerata nel 1523 la comparsa di una cometa, seguita l’anno successivo dalla congiunzione dei tre pianeti superiori, e gli astrologi scrissero che una «cometa orribile portante una chioma si sarebbe estesa verso tutti i punti dell’universo». Non mancarono interpretazioni dell’astro in chiave politica e di parte, in cui cattolici e luterani vedevano nella sua apparizione, rispettivamente, il segno della volontà di dicembre

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Nella pagina accanto, a destra particolare della tela ricamata (piú nota come «arazzo») di Bayeux raffigurante alcuni astrologi che annunciano l’apparizione di una cometa come presagio nefasto. XI sec. Bayeux, Musée de la Tapisserie. In questa pagina disegno che raffigura la cometa, portatrice di sventura, all’interno dell’allegoria dello scisma tra papa Gregorio IX e l’imperatore, dalle Cronache dell’imperatore Federico II. XV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

Dio a porre fine allo scandalo dello scisma e la predizione dell’incombente crollo dei papisti. Il terrore diffuso dagli astrologi e dai teologi spinse le genti a rifugiarsi sulle montagne o a costruire navi, per sottrarsi alla furia delle

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acque devastatrici, come si legge nelle cronache toscane e romane composte in quegli anni. Circa un secolo piú tardi, un’altra cometa avrebbe annunziato l’avvento dell’Anticristo e della fine del mondo.

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immaginario la stella cometa A sinistra Palermo, chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio, meglio nota come Martorana. Un particolare del mosaico con la raffigurazione della Natività, in cui, nella parte superiore della composizione, si distingue la stella. XII sec. Nella pagina accanto, in alto particolare di un’incisione su legno a colori raffigurante l’avvistamento della cometa a Norimberga, nel novembre 1577. Berlino, Kupferstichkabinett. Nella pagina accanto, in basso ritratto di Edmund Halley, olio su tela di Richard Phillips. XVIII sec. Londra, National Portrait Gallery.

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nuovi approcci

La parola alla scienza Tra il XVI e il XVIII secolo, la scienza cominciò a scuotere la credulità delle genti e a mettere in discussione le credenze e le superstizioni sviluppatesi nel tempo, con l’avallo della falsa scienza dei dotti. Nel 1680, lo storico, filosofo e polemista Pierre Bayle (1647-1706) dichiarò che «questi fenomeni non sono araldi che vengono dalla parte di Dio a dichiarare guerra al genere umano», ma corpi celesti come tutti gli altri. Qualche anno piú tardi, nel 1682, l’astronomo inglese Edmund Halley (1656-1742) osservò la celebre cometa, predicendone il ritorno nel 1758 e definendone cosí, su base scientifica, la periodicità. Sebbene rarissimi, non mancano casi in cui le comete si sottraggono al ruolo, loro attribuito, di cassandre celesti. Ciò avviene, per esempio, per la cometa che annunzia ad Augusto, durante i giochi per Venere, l’ascesa dell’anima di Cesare tra gli immortali, o per quella che, nel 1576, rivela ai Fiamminghi la liberazione dagli Spagnoli. nuova stella, che segna anche il momento della loro conversione. Clemente Alessandrino, teologo e apologeta cristiano del II secolo, sostiene che il Signore ci sottrae al destino influenzato dagli astri e a tal fine «un astro estraneo e nuovo è sorto, distruggendo l’antico ordine degli astri, che brilla di una luce nuova, che non è di questo mondo, cosí come lo ha fatto il Signore stesso». Grazie alle loro

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conoscenze astrologiche i Magi lo hanno potuto riconoscere e hanno saputo della nascita del nuovo re. La stessa idea è ripresa da Origene, secondo il quale i Magi traggono il loro potere dai demoni ma, in presenza di una divinità superiore, questa facoltà scompare. Cosí, quando gli angeli lodarono Dio per la nascita di Cristo, i demoni perdettero la loro forza e i Magi nel tentativo di

compiere le loro pratiche abituali si resero conto che esse avevano perso la loro efficacia e si adoperarono per comprenderne le cause, indagando il significato di quella stella. Origene la descrive come una «nuova» stella, molto simile a quei fenomeni astrali che fanno la loro comparsa di tanto in tanto, come le comete. Nella sua polemica contro (segue a p. 56)

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immaginario la stella cometa Iconografia

Un tema con molte varianti Contrariamente a quanto viene proposto oggi nelle rappresentazioni artistiche e presepiali, salvo qualche rara eccezione, non vi è alcun riferimento alla cometa come all’astro che accompagnò i Magi nel loro viaggio. L’immagine piú famosa che identifica la stella con una cometa, e probabilmente anche la prima rappresentazione in tal senso, va fatta risalire a Giotto, che cosí la raffigurò nella Cappella degli Scrovegni a Padova agli inizi del Trecento (vedi foto alle pp. 46/47). È probabile che l’artista, nel ritrarre la stella con la chioma, e quindi come una cometa, abbia voluto sottolineare l’eccezionalità dell’evento, ispirandosi alla cometa di Halley, visibile a occhio nudo nel 1301, in uno dei suoi passaggi vicino alla Terra. In tutte le altre raffigurazioni, a partire dalle immagini piú antiche,

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l’astro compare senza la chioma. A otto punte è quella del mosaico di S. Maria Maggiore, a Roma, del 433, mentre quella di S. Apollinare Nuovo a Ravenna (VI secolo) riporta insolitamente due stelle, una dentro l’altra, anch’esse con lo stesso numero di punte. Nel sarcofago in marmo di Adelfia (IV secolo) e rinvenuto nelle catacombe di S. Giovanni a Siracusa, uno dei Magi indica una stella a sette raggi. Dello stesso secolo è la fronte di un sarcofago trovato in Vaticano: uno dei tre Magi, in adorazione, indica una stella a cinque punte a forma di ruota. Nell’affresco dei Magi nelle catacombe di Priscilla, a Roma, la stella non si vede, forse perché la parte piú alta della raffigurazione è molto rovinata; vi appare invece nell’affresco che raffigura la Madonna, con Balaam nel gesto di indicarla.

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Sulle due pagine alcune interpretazioni figurative dell’Adorazione dei Magi. Nella pagina accanto, in alto un particolare della decorazione a rilievo del sarcofago di Adelfia, moglie del magistrato Valerio. IV sec. Siracusa, Museo Archeologico.

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Nella pagina accanto, in basso Ravenna, Sant’Apollinare Nuovo. Un particolare della decorazione musiva della cattedrale. L’astro è qui raffigurato in modo insolito, dato che se ne distinguono non uno ma due, inscritti l’uno nell’altro, entrambi a otto punte. VI sec.

In questa pagina Roma, basilica di S. Maria Maggiore. Un particolare dei mosaici che decorano l’arco trionfale. Anche in questo caso, la stella è ben visibile, in mezzo al coro angelico, ed è raffigurata con otto punte. V sec.

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immaginario la stella cometa Celso, egli fu il primo a ritenere che la stella che guidò i Magi fosse una cometa, e si appella poi all’autorità dello stoico Cheremone (I secolo) e al suo trattato De cometis, per ribadire che l’apparizione di comete e di nuovi astri segnala la nascita di personaggi famosi. Oltre a identificare la stella con una cometa, Origene introduce un elemento di grande interesse, stabilendo un rapporto tra Balaam e i Magi: «Se le sue profezie [di Balaam] sono state introdotte da Mosè nei libri sacri, a maggior ragione esse sono state descritte da coloro che abitano la Mesopotamia, presso i quali Balaam era tenuto in grande considerazione e che sono suoi discepoli nelle sue stesse arti. Ed è a lui che la tradizione, nei paesi d’Oriente, fa risalire l’origine dei Magi, che tra le altre cose profetizzate da Balaam, avevano anche quella che recitava: “Una stella spunta da Giacobbe, e un uomo sorge da Israele”. I Magi possedevano questo testo, e cosí, quando nacque Gesú, essi riconobbero la stella e compresero che la profezia si era compiuta».

La parola del cielo

La nuova stella che appare nel cielo è un astro da interpretare, un signum, ma non nel senso della pratica astrologica. Come sostiene Agostino, i Magi possono interpretarne il significato non per le loro conoscenze astrologiche, ma grazie a un dono spirituale ricevuto da Dio e che gli ha permesso di leggere quella lingua coelorum, quella parola del cielo, che ad altri, privi di tale grazia, non è concesso. E come gli angeli hanno parlato ai pastori, la stella ha parlato ai Magi, perché vi sia pace tra Ebrei e Gentili e possano entrambi convergere verso quella pietra angolare che è Cristo. Leone Magno (390 circa-461), invece, volle vedere in quel segno l’incapacità e la cecità dei Giudei che non riconobbero il Signore: «Quella stella cosí, che brillò agli occhi dei Magi ma non agli occhi degli Israeliti, ha voluto significare l’illuminazione

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Venezia, basilica di S. Marco, Battistero. Particolare del mosaico raffigurante l’Adorazione dei Magi. XIII sec.

dei Gentili e la cecità dei Giudei». Inoltre, egli non attribuiva alcun merito alle capacità e alle conoscenze astrologiche dei Magi nell’interpretare il segno celeste, i quali compresero la particolarità della stella soltanto per la volontà di Dio: «Nell’Oriente apparve a tre Magi una stella di insolito splendore che, superando in luminosità e bellezza tutte le altre stelle, facilmente attirava su di sé gli occhi e il cuore di coloro che l’ammiravano, e in tal modo si rendeva manifesto a tutti che non era senza ragione se appariva cosí insolita. Colui che mandò questo segno, diede anche la capacità di intenderlo a coloro che osservavano i cieli, e quel che fece loro comprendere glielo fece anche cercare. E poiché era egli stesso che dovevano cercare, fece in modo che lo trovassero». Viene qui riproposta l’interpretazione della comparsa della stella come manifestazione teofanica, come un segno esteriore dello Spirito Santo e come rappresentazione del Messia. La stella, segno straordinario e astro non soggetto alle normali leggi degli altri corpi celesti, diventa il mezzo tramite il quale Dio annuncia la sua incarnazione.

Manifestazione di Dio

Una delle testimonianze piú antiche di tale sviluppo è, tra le altre, quella di Ignazio di Antiochia (35 circa-107 circa): «Brillò nel cielo un astro piú splendente di tutti gli altri: il suo fulgore era inenarrabile e la sua novità riempí tutti di stupore. Tutte le altre stelle, il sole e la luna, facevano da corona a questo nuovo astro, che superava in fulgore tutte le altre. E v’era grande turbamento sulla provenienza di quella nuova stella cosí dissimile dalle altre. Allora si sciolse ogni magia, fu abolito ogni legame iniquo, fu sconfitta l’ignoranza, e l’antico regno crollò, perché Dio si era manifestato in sembianze umane per portare la novità della vita eterna». La stella dei Magi, quindi, oltre a

essere un mezzo per indicare loro la via da seguire per arrivare al luogo in cui è nato Gesú, è anche una manifestazione simbolica del Dio stesso. Allo stesso modo, san Tommaso, scomparso il pericolo rappresentato dall’astrologia nei primi secoli del cristianesimo ed essendo le credenze nelle divinità degli astri ormai solo documentarie, affermò che la stella era un segno esteriore dello Spirito Santo, resosi visibile per annunciare ai Magi la nascita di Gesú. dicembre

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La natura divina della stella venne sostenuta fin dai primi secoli dell’era cristiana da Agostino e, ancor piú energicamente, da Giovanni Crisostomo. In primo luogo perché l’astro seguiva un’orbita procedendo da settentrione a mezzogiorno, a septentrionem ad meridiem ferebatur, e non da oriente a occidente come sarebbe stato nell’ordine naturale delle cose; per cui la stella dei Magi non solo non fu un astro ordinario, ma nemmeno una vera stella, bensí

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una forza invisibile, invisibilis quaedam virtus, che prese tali sembianze per guidarli sapientemente al luogo della natività.

Un movimento perpetuo

Sull’aspetto straordinario della natura della stella e sull’inutilità dei tentativi dell’astrologia di fornire una spiegazione interviene Basilio di Cesarea (330 circa-379): «Le stelle create in origine o sono immobili oppure sono dotate di un movimento perpetuo.

La stella che apparve aveva entrambe le caratteristiche: poteva muoversi e restare ferma. Fra le stelle già esistenti, inoltre, quelle fisse non si muovono mai, mentre quelle erranti non conoscono sosta. E per questo motivo, quella stella dotata di moto e di quiete allo stesso tempo, non può appartenere alla loro categoria. Essa infatti si è mossa dall’Oriente fino a Betlemme, e poi si fermò sul luogo in cui si trovava il Bambino». Spesso, i commentatori dei primi secoli dell’era cristiana identi-

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immaginario la stella cometa Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

L’Adorazione dei Magi, raffigurata sul pannello laterale di un sarcofago paleocristiano IV sec. Roma, Museo Pio Cristiano. Il primo dei Magi indica con un dito la stella che compare sul Bambino.

ficano la stella con un angelo, come Prudenzio, che la definisce un «messaggero alato molto simile al rapido vento del sud». Nel Vangelo dell’infanzia arabo-siriaco (un componimento medievale ricavato da varie fonti siriache), si legge che un Guardiano, cioè un angelo, aveva assunto le sembianze di una magnifica stella per annunciare ai Persiani la nascita di Gesú e, simile a un grande Sole in tutto il suo splendore, stava immobile sul loro Paese.

Nei panni di un angelo

L’identificazione della stella con un angelo è presente anche nel Vangelo arabo dell’infanzia, in cui il messaggero di Dio apparve ai Magi «nell’aspetto di quella stessa stella che li aveva guidati nel cammino», conducendoli

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fino alle loro terre. L’associazione degli angeli con le stelle era abbastanza diffusa nel mondo antico, ed è molto probabile che la connessione della stella di Matteo a un angelo sia stata dettata dalla comparsa dell’angelo che annuncia la nascita di Gesú ai pastori nell’altro racconto canonico della Natività (Luca, 2, 9-12). Nella simbologia giudaica e cristiana delle origini ricorre anche il motivo della stella come rappresentazione del Messia, soprattutto nella letteratura apocrifa di ambito culturale siriaco. Nel Libro della Caverna dei Tesori, rifacimento siriaco del V secolo di un testo piú antico, i Magi avvistano in Persia la stella, che brillava di una luce piú splendente delle altre, e nel mezzo della quale scorgono l’immagine di una vergine che regge al seno un fanciullo su cui era poggiata una corona. In Occidente, uno dei testi piú influenti per lo sviluppo della leggenda è l’Opus imperfectum in Mat-

thaeum (V secolo circa), nel quale si legge che il presagio della stella e del viaggio dei Magi per offrire i loro doni al Messia erano in un antico libro attribuito a Seth. Nella redazione dell’Opus, la stella che apparve ai Magi sul monte Vittoriale, come qui viene chiamato, aveva l’aspetto di un piccolo fanciullo, sormontato da una croce.

Indefinibile luce

Ulteriori dettagli, che confermano come le leggende sulla stella si fossero ormai consolidate, ci vengono forniti dalla Cronaca di Zuqnin, della fine dell’VIII secolo circa: quando giunse «il tempo e il compimento di ciò che era scritto nei libri intorno alla rivelazione della luce della stella nascosta» ai Magi apparve una grande colonna di luce, e al di sopra, «una stella di luce tale da non potersi dire (…) e molto maggiore del sole». La narrazione poi prosegue: «E vedemmo ancora aprirsi il cielo come una gran porta e uomini gloriosi pordicembre

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Molti degli elementi finora elencati, e in particolare quelli dell’Opus imperfectum in Matthaeum, influenzarono in maniera decisiva la produzione letteraria successiva e passarono nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (1228/30-1298), uno dei libri piú diffusi del tardo Medioevo, dalla quale deriverebbe alla tradizione occidentale l’iconografia della stella che reca al suo centro il Bambino, e al di sopra la croce. Cosí la stella appare in uno dei piú diffusi repertori iconografici del XIV e XV secolo, tra cui lo Speculum Humanae Salvationis, nelle miniature che adornano anche altre opere, nell’affresco della cattedrale di Colonia, nel quale si vede una stella con al centro il bambino, e nell’opera di Albertus Pictor (1445 circa-1509), nella chiesa svedese di Härkeberga, in cui è raffigurata una stella recante la croce.

La sintesi definitiva tare sulle loro mani la stella di luce; e scesero, e si fermarono sulla colonna di luce, e tutto il monte fu pieno della sua luce ineffabile a bocca umana. E vedemmo alcunché simile a una mano d’uomo, piú piccola ai nostri occhi della colonna e della stella, tale che non potevamo guardarla e ci rafforzammo e vedemmo la stella che entrava nella Caverna dei Tesori dei Misteri occulti, e la caverna splendeva oltre misura (…) E ci facemmo cuore e ci rafforzammo per la parola della voce, ed entrammo timorosi, e piegammo i ginocchi alla porta della caverna per la quantità della luce; ed eseguendo la sua parola gettammo i nostri sguardi e vedemmo quella luce ineffabile a bocca umana che si era concentrata in sé e ci apparve nella corporatura di un uomo piccolo e umile». Il bambino, il Cristo, che si forma quasi dalla materializzazione della luce che inonda il luogo, li invita a partire con i doni che sono nella Caverna e la stella li guiderà miracolosamente durante il loro viaggio.

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La sintesi medievale di questa lunga tradizione sembra trovare un punto di arrivo con il teologo carmelitano Giovanni da Hildesheim (1310/1320-1375), il quale, nella sua Historia trium Regum, composta intorno alla fine del XIV secolo, rielabora e fonde insieme tutta la materia precedente, compresa quella dell’Opus e della Legenda Aurea. La particolare iconografia della stella serve a Giovanni per indicare la natura eccezionale dell’apparizione, secondo quanto già affermato e argomentato dai Padri della Chiesa: «Alla nascita di Cristo, cosí avvenuta in Bethlehem, sul monte Vaus fu vista levarsi una nuova stella, che raggiava a guisa di sole e illuminava l’intero mondo. E, a poco a poco, si innalzò sopra il monte, come aquila, e rimase immota sopra di esso, sempre nello stesso punto, per tutto un giorno, cosí che, quando il sole, a mezzogiorno, le passò da presso, quasi nulla era la distanza fra il sole e la stella. Non appariva, poi, nella forma che siamo usati a vedere rappresentata in pittura nei no-

stri paesi, ma aveva molti lunghissimi raggi, piú ardenti che fiaccole, e questi raggi andavano roteando quasi come aquila che voli e batta l’aria con l’ala. E portava in sé l’effigie di un bambinello e, al di sopra, il segno della croce. E, dall’interno della stella, fu udita una voce che diceva: “Oggi è nato il re dei Giudei, colui che è l’aspettazione delle genti e il loro dominatore. Andate a cercarlo e a tributargli adorazione”». Questi motivi furono ripetutamente rielaborati, fondendo elementi appartenenti a tradizioni diverse e, quando le speculazioni teologiche e dottrinali al riguardo si esaurirono, il tema della stella era ormai talmente presente nella cultura dell’epoca da trovare ampio spazio, grazie anche alla spettacolarità che avrebbe potuto garantire, all’interno delle grandi rappresentazioni drammatiche medievali, come l’Officium Stellae. Proprio in questi drammi religiosi il simbolo della stella finí lentamente per staccarsi dalla figura dei Magi, dando cosí vita a un ciclo drammatico autonomo, e, successivamente, a una rielaborazione folklorica, come i Canti della stella, che si diffuse rapidamente in tutta Europa e oltreoceano. F

Da leggere U Antonino Buttitta, Dall’Oriente

venne una stella, in Dei segni e dei miti. Una introduzione all’antropologia simbolica, Sellerio, Palermo 1996; pp. 99-118 U Giovanni da Hildesheim, La storia dei re Magi, (introduzione, traduzione e cura di Alfonso Maria Di Nola), Newton Compton, Roma 1980 U Antonio Panaino, I Magi e la loro stella. Storia, scienza e teologia di un racconto evangelico, Edizioni San Paolo, Milano 2012 U Erberto Petoia, Storia del presepe. Personaggi, miti, simboli, Editori Riuniti, Roma 2015

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Da

Firenze a Betlemme

di Chiara Mercuri

di Chiara Mercuri

La Cappella dei Magi di Benozzo Gozzoli è un’opera che unisce lo straordinario impatto visivo a un attento gioco di simboli e allegorie. Al di là della connotazione religiosa del tema, infatti, il ciclo dell’artista fiorentino dovette innanzitutto offrirsi come celebrazione dei suoi committenti: i Medici, decisi a farne uno strumento di tangibile consacrazione del proprio potere

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occe scoscese, foreste lussureggianti e cipressi svettanti si perdono all’orizzonte di un cielo turchino che fa da sfondo allo scorrere di un corteo fitto di animali esotici e di uomini che indossano vesti trapuntate in oro, tuniche damascate e farsetti in seta rosa. Al centro di questo paesaggio incantato e quasi fiabesco, tre principi a cavallo guidano il corteo: sono i Re Magi. Dietro di loro si nascondono, in filigrana, i ricchi committenti dell’opera: i Medici. Ma facciamo un passo indietro, e cerchiamo di capire perché i Medici, potenti banchieri fiorentini, avessero scelto i Magi come icona. A progettare la costruzione di

Firenze, Palazzo Medici Riccardi, Cappella dei Magi. La parete Est, con il segmento terminale della processione, guidato da Gaspare, alle cui spalle vi è una schiera di personaggi noti, tra cui vari membri della famiglia Medici e Benozzo Gozzoli, l’artista fiorentino che realizzò le pitture nel 1459.

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Dove e quando Palazzo Medici Riccardi, Cappella dei Magi Firenze, via Cavour 3 Orario tutti i giorni, 9,00-19,00; chiuso il mercoledí Info l’ingresso alla cappella è limitato a un massimo di 10 visitatori ogni 7 minuti; è possibile prenotare telefonicamente, rivolgendosi allo 055 2760340; e-mail: biglietteria@palazzo-medici.it; www.palazzo-medici.it

A destra l’angolo tra la parete Ovest e la parete Sud della cappella, sulle quali si snodano, rispettivamente, il gruppo guidato da Melchiorre e quello capeggiato da Baldassarre. In basso, a sinistra uno scorcio della corte interna di Palazzo Medici Riccardi. La sfarzosa dimora sorse alla metà del Quattrocento, per volere di Cosimo il Vecchio e su progetto di Michelozzo.

un nuovo palazzo, destinato a diventare la sede definitiva della famiglia fu Cosimo il Vecchio (1389-1464), vero responsabile dell’espansione finanziaria della sua casata e, nei fatti, primo signore di Firenze. All’interno dell’edificio volle aprire anche una cappella privata, sulle cui pareti l’artista fiorentino Benozzo Gozzoli affrescò poi la cavalcata dei Magi. Il palazzo di via Larga fu l’unica dimora medicea a possedere una cappella privata: fino ad allora, l’autorizzazione ad aprirne una era stata concessa solo a principi e signori e, a quella data, almeno formalmente i Medici sono ancora semplici cittadini. Lo straordinario privilegio è frutto di una dispensa accordata nel 1422 da papa Martino V. Oltre a venire incontro alle naturali esigenze di riservatezza, dettate dallo status sociale dei proprietari, simili luoghi di culto si trasformavano spesso in vetrine del proprio sfarzo. Il progetto e la decorazione di tali edifici venivano perciò affidati agli architetti e ai pittori piú in

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vista del momento, e le stesse reliquie e suppellettili che vi trovavano posto avevano sempre un enorme valore pecuniario.

Una dimora in posizione strategica

Cosimo il Vecchio si era già distinto per le sontuose opere di restauro di varie chiese cittadine, e S. Lorenzo e S. Marco erano divenute i luoghi simbolo del mecenatismo mediceo. Intorno al 1444, quando avviò la realizzazione del nuovo palazzo, scelse la via Larga, poiché si trattava di una zona strategica: situata, infatti, tra la Cattedrale e il Battistero, era teatro delle processioni civiche e religiose cittadine, che, da allora si trovarono a passare davanti alla dimora medicea. I contemporanei lo descrivono come «un palazzo che arrivava fino al cielo» e anche papa Pio II – a sua volta artefice di committenze sontuose – non esitò a definirlo «degno di un re». La facciata bugnata e splendidamente decorata, i suoi giardini

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profumati ne facevano la mostra permanente della potenza della ricchissima famiglia. Questo capolavoro dell’arte e dell’architettura rinascimentale fu ultimato in anni di grande turbolenza per i committenti. Nel 1456, infatti, alcune famiglie patrizie, che mal sopportavano l’enorme prestigio raggiunto da Cosimo il Vecchio – che, di fatto, controllava Firenze attraverso uomini di sua fiducia posti in punti chiave del governo cittadino – decisero di destituire uno dei suoi, il capace cancelliere Poggio Bracciolini; seguirono, poi, congiure e insurrezioni, tese a spodestare lo stesso Cosimo. Quest’ultimo allora, da signore generoso e munifico, si fece duro e spietato, instaurando, con la forza e con l’aiuto dei suoi potenti alleati, gli Sforza di Milano, un governo giudicato «insopportabile e violento» da Niccolò Machiavelli, che pure lo aveva lodato in piú di un passo delle sue opere. Nel luglio del 1459, quando fu scelto Benozzo Goz-

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GASPARE Il piú giovane dei Magi veste un elegante abito bianco, che, come gli altri che si possono vedere nell’affresco, è una testimonianza eloquente dello sfarzo diffuso presso le classi piú abbienti.

zoli per iniziare i lavori di affrescatura della cappella, l’artista fiorentino ebbe il compito non dichiarato di celebrare la famiglia dei Medici. Benozzo si rivelò molto abile nell’individuare – se non la tematica, probabilmente scelta dai committenti – il taglio da dare alla composizione. Appare inusuale, per esempio, la decisione di non rappresentare il momento dell’adorazione del Bambino da parte dei Magi. Il corteo di Benozzo, infatti, non giunge ad alcun presepe – com’era normale nell’iconografia dei Re venuti dall’Oriente –, ma è colto solo nel momento del viaggio. Segno evidente che al pittore interessava raffigurare unicamente la cavalcata verso Betlemme, cosí da poter celebrare i Medici – che seguono il corteo – come moderni sovrani.

Tutta la città in festa

Nel portare a termine quest’opera di esaltazione, Benozzo venne aiutato dal ricordo, ancora vivo nella mente dei contemporanei, di una serie di avvenimenti storici che ben si prestavano a creare il collegamento «Medici-Magi». Il suo lavoro iniziò, infatti, nel 1459, a ridosso di un

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BALDASSARRE Raffigurato con i tratti di un uomo dalla pelle scura, in età matura, indossa abiti in broccato verde e reca una corona d’oro, ornata da piume verdi, bianche e rosse (i colori dei Medici). È stato ipotizzato che in lui si possa identificare l’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo (vedi «Medioevo» n. 222, luglio 2015).

Qui sopra, sulle due pagine fotomosaico che mostra lo sviluppo delle pitture di Benozzo Gozzoli. Nella pagina accanto, in basso particolare della parete Est in cui compare il ritratto di Cosimo il Vecchio.

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MELCHIORRE Il piú anziano dei Magi ostenta una lunga barba di foggia orientale e veste un sontuoso abito in broccato oro e cremisi, simile a quello dei fanciulli che lo accompagnano.

Il monumento in sintesi

Preghiere e udienze in un Medioevo incantato 3 Perché è importante Il palazzo mediceo di via Larga fu il primo a a possedere una cappella privata, grazie a una dispensa di papa Martino V (1422). La cappella ebbe anche una funzione pubblica, in quanto centro sacrale della casa in cui si ricevevano gli ospiti illustri, anche in udienza. 3 La basilica nella storia La cappella fu costruita, insieme al palazzo, nel 1444, da Cosimo de’ Medici, detto Il Vecchio, che ne affidò la progettazione all’architetto Michelozzo di Bartolomeo.

L’edificio è una delle prime espressioni dell’architettura rinascimentale fiorentina (ma la struttura oggi visibile è frutto di un ampliamento promosso nel Seicento). 3 La basilica nell’arte Il ciclo di Benozzo Gozzoli è uno dei maggiori capolavori dell’arte medievale per la ricchezza dei materiali impiegati, in particolare gli ori e gli azzurri, all’epoca costosissimi. Stupisce la complessità delle sinopie, dettagliate fin nei minimi particolari, e sovrabbondanti di personaggi, specie vegetali e animali.

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saper vedere firenze AL SEGUITO DI BALDASSARRE Due dei tre giovani che fanno parte della scorta di Baldassarre: montano bianchi cavalli e indossano lussuosi broccati oro e avorio e copricapi con piume rosse e blu.

grande evento: Pio II aveva convocato a Firenze, presso i Medici, Galeazzo Maria Sforza e Sigismondo Malatesta da Rimini, per discutere dell’indizione di una nuova crociata. Nei quindici giorni della loro permanenza, la città divenne teatro di ostensioni e processioni solenni, di banchetti sontuosi e feste che culminarono in una giostra organizzata nella piazza di Santa Croce, con piú di 300 partecipanti.

IL MOTTO DI FAMIGLIA Particolare della gualdrappa del cavallo di Piero (riconoscibile nel seguito di Gaspare; vedi foto nella pagina accanto e alle pp. 60/61), sulla quale compare lo stemma mediceo, composto da tre piume e sette palle d’oro, accompagnato dal motto «SEMPER».

A caccia di leoni e giraffe

Piero, figlio di Cosimo, sfruttò l’organizzazione di quelle giornate per fare mostra del peso raggiunto dalla propria casata. Gli ospiti furono alloggiati, con ogni onore, nell’appena costruito palazzo di via Larga e l’evento trovò eco nei diari e nelle cronache dell’epoca, che parlarono della dimora dei Medici come di un «palazzo pieno di meraviglia» con i suoi giardini ornati di specie botaniche rare; riferirono anche di un’esotica battuta di caccia con giraffe e leoni, tenuta in onore dei duchi di Milano. Nell’occasione la cappella palatina fu usata come luogo d’udienza e qui si tennero gli incontri ufficiali tra i convenuti. All’epoca le sue pareti si presentavano ancora spoglie, in quanto Benozzo Gozzoli iniziò a decorarvi il

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L’AUTORITRATTO DEL PITTORE Particolare delle pitture della parete Est in cui Benozzo Gozzoli ha ritratto se stesso, inserendo sul copricapo, a mo’ di firma, la scritta «Opus Benotii».

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Il sancta sanctorum

Reliquie degne di un re Nella cappella medicea si apre una piccola sala quadrangolare, sul cui lato settentrionale si trovava il sancta sanctorum. In esso era posto l’altare, dove, fino alla cacciata dei Medici, nel 1494, si conservava il reliquiario del Libretto, con le reliquie della Passione. Il manufatto si trova oggi nel Museo dell’Opera del

Duomo di Firenze. È in oro e avorio intarsiato e proviene dalla Sainte-Chapelle di Parigi, dal cui tesoro furono stornate le reliquie. La provenienza regia delle reliquie medicee, acquisite da Piero, intendeva suggerire il legame ideale tra la cappella del palazzo

viaggio dei Magi solo tre mesi piú tardi, quando ancora, però, il passaggio dei principi di Milano e di Rimini, accolti con fasto e liberalità dalla famiglia medicea, risuonava nella memoria dei Fiorentini. Un secondo accadimento storico aveva lasciato ricordi indelebili, destinati a riecheggiare nelle sinopie di Benozzo Gozzoli. Nel 1439 il concilio per la riunificazione della Chiesa d’Oriente e d’Occidente, grazie agli sforzi della Repubblica fiorentina e della famiglia Medici, era stato spostato da Ferrara a Firenze. Qui i Medici erano stati solleciti nell’offrire ospitalità ai partecipanti, sovvenzionandone le spese con ingenti somme di denaro. L’ingresso a Firenze del patriarca di Costantinopoli e dell’imperatore d’Oriente, seguiti dai loro sontuosi, quanto esotici, corteggi suscitò uno stupore enorme nella comunità cittadina.

Vestiti all’orientale

Alla fine del Medioevo, si era soliti festeggiare il giorno dell’Epifania attraverso cortei rievocativi: dietro ai Magi a cavallo si muoveva la cittadinanza abbigliata con vesti orientaleggianti. Le famiglie piú in vista della città erano particolarmente sollecite nel curare la fedeltà del proprio abbigliamento alla foggia orientale, scegliendo le stoffe piú pre-

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mediceo e la cappella privata del re di Francia. Il potere laico dei Medici voleva emulare un altro grande potere laico, quello della corona di Francia, che tramite le reliquie di Cristo (vedi «Medioevo» n. 156, aprile 2010; anche on line su medioevo.it) aveva voluto ammantarsi di un’aura sacrale.

In questa pagina il reliquiario del Libretto. Il manufatto fu realizzato a Parigi nella seconda metà del XIV sec. e poi inserito nella teca realizzata da Paolo di Giovanni Sogliani nel 1500-1501, che tuttora lo custodisce. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

ziose, gli accessori piú lussuosi e gli animali piú rari o comunque da caccia, da esibire in processioni che si trasformavano puntualmente in vere e proprie parate. Famoso, nelle cronache bassomedievali, rimase il ricordo del corteo organizzato a Milano dalla famiglia Visconti, per l’Epifania del 1336: seguendo una stella issata su un’asta, la cittadinanza attraversò la città, spostandosi da S. Lorenzo a S. Eustorgio.

Salari a singhiozzo

Se il nuovo palazzo nacque per volere di Cosimo, il vero committente della decorazione della cappella va identificato con suo figlio Piero. Fu lui ad affidarne l’affrescatura a Benozzo Gozzoli, come dimostrano le lettere dell’artista che lamentano il mancato acquisto di materiali richiesti: 1500 fogli d’oro genovesi per le corone e le livree dei principi e il costosissimo azzurro veneziano per le vesti dei serafini. Ritardi di pagamento che il pittore lamenta anche per il suo stesso salario che – a giudicare dalle lettere – gli viene centellinato da Piero con voluta incuria. A opera ultimata, l’artista fiorentino mostrò di aver ben intessuto la sua trama dai molteplici significati simbolici che la scelta del tema iconografico dei Magi si proponeva di sintetizzare.

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Come abbiamo detto, la scelta originaria dovette essere dei committenti che, in passato, avevano già mostrato una particolare devozione verso i Magi, rappresentati nella cella assegnata a Cosimo nel complesso di S. Marco, che, come già detto, egli fece restaurare a sue spese.

Alla bottega del Beato Angelico

In quel caso, la realizzazione era stata affidata da Cosimo all’ancora vivente Beato Angelico, che aveva voluto come assistente Benozzo Gozzoli. Non stupisce, dunque, che quando si trattò di scegliere un artista per affrescare le pareti della propria cappella privata, Cosimo e il figlio Piero si fossero rivolti a uno degli allievi prediletti del defunto maestro. S. Marco, inoltre, era nota per essere la sede della Compagnia de’ Magi, che ogni anno organizzava, in occasione del 6 gennaio, il

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corteo rievocativo nella città di Firenze, e attestata storicamente è la partecipazione di Cosimo a una di queste processioni, quella del 1450, quando venne descritto dalle fonti dell’epoca, come un principe, vestito in abiti magnifici: «Una splendida tunica ornata di zibellino e martora polacca». Il corteo era solito partire dal Palazzo Vecchio e arrivare appunto in S. Marco, dove vigeva l’uso di deporre le offerte davanti a una mangiatoia. In tale occasione i Medici erano particolarmente prodighi al fine di essere equiparati, nella splendida munificenza, ai re venuti dall’Oriente. La figura dei Magi, inoltre, rivestiva anche una simbolica apocalittica, una tematica molto apprezzata dai signori laici, i quali miravano a suggerire l’idea di una durata permanente del potere della propria famiglia. In quanto testimoni del primo Avvento di Cristo, i Magi fudicembre

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ECHI D’ORIENTE Due dei personaggi che chiudono il lungo corteo alla cui testa cavalca Gaspare (vedi alle pp. 60/61): ne fanno parte, come in questo caso, uomini con turbanti e altri curiosi copricapi, scelti come evocazione delle mode esotiche a cui rimandava la tradizione dei Magi, venuti dall’Oriente. ANIMALI ESOTICI Un ghepardo accovacciato sulla sella di uno dei personaggi che precedono il corteo di Melchiorre. La sua presenza allude alle molte bestie esotiche che i Medici vollero per il proprio palazzo, cosí da conferirgli un tocco di esotismo capace di accrescere lo stupore dei propri ospiti.

rono associati anche al suo secondo Avvento sulla scena del mondo, quando sarebbe tornato per dare inizio al giudizio finale. Nella cappella tale richiamo è reso evidente dalla rappresentazione, sopra il portale, dei sette candelabri apocalittici e dell’agnello mistico, accovacciato sopra un drappo su cui pendono i sette sigilli che si sarebbero rotti prima dello squillo della tromba.

Molteplici allegorie

L’adorazione dei Magi era una delle rappresentazioni piú antiche dell’arte cristiana a cominciare dalle catacombe. Essi si presentavano, infatti, a rivestire molteplici significati allegorici: incarnavano le tre fasi dell’umanità (la divinità, lo spirito, il corpo); le sue diverse etnie, le tre diverse dimensioni temporali del passato, del presente e del futuro e, in particolare, le tre età dell’uomo,

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la giovinezza, la maturità e la vecchiezza. Tuttavia, come abbiamo accennato, il tema scelto da Benozzo non era quello assai diffuso dell’adorazione presso il Bambino, ma quello, meno rappresentato, del viaggio-corteo di avvicinamento a Betlemme. Un soggetto che dava la possibilità di celebrare il mondo mercantile al quale i Medici appartenevano, poiché i Magi, nella loro accezione di pellegrini, erano i naturali patroni dei viaggiatori e dunque dei mercanti, sempre in movimento per i loro commerci. Tale tematica, inoltre, lasciava un notevole spazio all’esotico, grazie alla definizione evangelica dei «Magi venuti dall’Oriente». Ciò permetteva di inserire nelle vesti, nei paesaggi, negli animali quegli elementi atti a soddisfare il bisogno di meraviglioso dell’uomo medievale, per necessità piú stanziale di quello contemporaneo.

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Il sancta sanctorum della Cappella dei Magi (qui sopra), il cui altare è sormontato dalla copia (a sinistra) della pala di Filippo Lippi e nota come Adorazione di Palazzo Medici. Quest’ultima si data tra il 1455 e il 1459 ed è oggi conservata a Berlino, presso la Gemäldegalerie degli Staatliche Museen.

la pala d’altare

L’evocazione della Trinità Nella cappella medicea, Benozzo Gozzoli non rappresentò l’adorazione dei Magi presso il presepe, ma il loro viaggio di avvicinamento a Betlemme. La meta finale del corteo è rappresentata da una pala d’altare dipinta da Filippo Lippi. Il bambino giace nudo su un prato erboso e fiorito, accanto alla madre, la Madonna, sullo

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sfondo di una fitta foresta di alberi dai colori scuri, che suggeriscono una cupa profondità, sulla quale si stagliano figure quasi trasparenti e sospese. Esse sembrano additare, in controluce, il significato simbolico dell’opera: sopra al Bambino, vi è la colomba dello Spirito Santo, sovrastata da Dio-Padre. Rappresentazione, dunque, della

Trinità, probabile eco della discussione svoltasi in quegli anni tra Chiesa d’Oriente e d’Occidente durante il concilio di Firenze del 1439. Tale dipinto fu sostituito con una copia nel 1494, anno della cacciata dei Medici, e oggi si trova nella Gemäldegalerie di Berlino. La copia, presente oggi nella cappella, è attribuita allo pseudo Pietro Francesco Fiorentino. dicembre

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La cavalcata dei Magi era dunque il tema che meglio si prestava a celebrare i Medici. Il corteo dei Magi ricordava in maniera efficace gli spostamenti della famiglia, seguita da servi, amici, alleati e cortigiani, che i Fiorentini erano abituati a vedere per le strade della città. Infine, come abbiamo visto, il viaggio dei Magi richiamava scene di vita della Firenze quattrocentesca, dove, come in molte altre città e borghi italiani, era consuetudine celebrare le feste del calendario liturgico, in particolare quella dell’Epifania, con pie rievocazioni. Un uso peraltro ancora vivo, come mostrano in tutta Italia le molte rappresentazioni di presepi viventi nel tempo natalizio o della Passione di Gesú in quello pasquale.

Un capolavoro in penombra

La cappella è edificata su pareti doppie, una scelta costruttiva a cui si deve il perfetto stato di conservazione degli affreschi. Essa risultava poco illuminata, in quanto la luce filtrava solo da due oculi, destinati a lasciarla perennemente in penombra. L’effetto era probabilmente voluto, come sembra attestare il grande impiego, nei dipinti, di rivestimenti in metallo, oro e argento, atti a brillare alla luce delle fiaccole. Nel 1659, quando la famiglia Riccardi acquistò Palazzo Medici, furono aperte due finestre, una delle quali poi murata nel 1929, che cambiarono l’illuminazione dell’edificio. I re Magi procedono in corteo secondo le loro rispettive età: in testa il piú anziano Melchiorre, in mezzo Baldassarre, e infine il mago piú giovane, Gaspare. La loro cavalcata prende avvio dalla parete orientale, proprio come nel racconto evangelico. Nella parete Est, dunque, si trova la coda del corteo, la cui testa è posta nella parete Ovest. Qui il re piú anziano, dalla lunga barba di foggia orientale, Melchiorre, apre la cavalcata ed è, quindi, quello piú vicino a Gesú Bambino. Si presenta vestito in broccato oro e cremisi, come i fanciulli che lo accompagnano. La cavalcata sale sulla collinetta con un affollato gruppo di persone che si perdono in lontananza: uomini con turbanti, muli e cavalli s’inerpicano carichi di casse, guidati da Africani in groppa a cammelli, efficaci nel richiamare i commerci. La scena continua nella parete adiacente, tra colline e montagne dove, a differenza che nella scena precedente, a dominare non sono gli uomini ma la natura rigogliosa e silente, interrotta solo di rado da fugaci segni antropici: qualche sperduto castelletto in pietra. Qui si assiste al trionfo dello stile proprio di Benozzo, con la celebrazione del paesaggio naturale, in questo caso uno squarcio tipico degli Appennini toscani con i suoi pini, cipressi e prati erbosi. Protagonista della composizione è Baldassarre, il quale indossa abiti in broccato verde e reca una corona d’oro, ornata da piume verdi, bianche e rosse (i colori dei Medici). I giovani che lo affiancano indossano tuniche damascate verdi bordate in oro da cui

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fuoriescono ampie camicie e calzamaglie rosse e blu. Il mago è inoltre seguito da un terzetto di giovani su bianchi cavalli, vestiti in modo identico: lussuosi broccati oro e avorio e copricapo con piume rosse e blu. Dietro Baldassarre sono visibili scene di caccia che sembrano voler celebrare l’epopea signorile.

Lo stemma e il motto

La processione prosegue e termina sulla parete orientale col giovane Gaspare, scortato questa volta da personaggi noti. Si tratta dei membri della famiglia Medici, collocati in una posizione preminente alla fine del grande corteo: Cosimo, che indossa una tunica di broccato blu intenso, cavalca un mulo in segno di umiltà. La sua fisionomia ricalca quella di una medaglia realizzata all’epoca in suo onore. Vicino al padre, Piero indossa una veste di velluto verde e oro, e monta un cavallo bianco, la cui gualdrappa rossa reca lo stemma della casata medicea: tre piume, sette palle d’oro, il motto «SEMPER» («Sempre») che doveva ribadire l’eternità del potere della famiglia, già suggerita, come già abbiamo visto, dall’agnello dell’Apocalisse. Alle spalle di Piero sono ritratti i due figli, Lorenzo e Giuliano, che all’epoca avevano dieci e sei anni. I Medici appaiono inoltre in compagnia dei loro alleati, Sigismondo Pandolfo Malatesta e Galeazzo Maria Sforza, ritratti anch’essi in abiti lussuosi dai colori brillanti, rifiniti in oro, a celebrare il potere e la ricchezza delle rispettive casate. Anche Benozzo si autoritrae per ben due volte in mezzo al corteo con la scritta sul copricapo «Opus Benotii», vera firma della sua opera. Nel corteo di Gaspare compaiono inoltre molte bestie esotiche: scimmie, cammelli, ghepardi. Le stesse che i Medici avevano scelto per arricchire le proprie abitazioni private, suscitando lo stupore e la curiosità cittadina. Oltre agli animali esotici, abbondano in questa parte del corteo anche i cavalli carichi di merci, omaggio reso alla ricchezza e alla liberalità della potente famiglia fiorentina. Si chiude cosí la prima parte del programma iconografico della cappella, dedicato al corteo dei Magi, la seconda invece, è dedicata all’adorazione del Bambino, non da parte dei Magi (ancora in viaggio verso Betlemme), ma degli angeli, qui rappresentati mentre intrecciano ghirlande sullo sfondo di un paesaggio idilliaco, probabilmente il Paradiso. F

Da leggere U Franco Cardini, I Re Magi. Storia e leggenda, Giunti Editore,

Firenze 2000 U Marion Opitz, Benozzo Gozzoli, Könemann, Colonia 2000 U Diane Cole Ahl, Benozzo Gozzoli, Silvana Editoriale, Cinisello

Balsamo (MI) 1997

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di Tommaso Indelli

I BORGIA

UOMINI (E DONNE) AL DI SOTTO DI OGNI SOSPETTO Nel 1492, poche settimane prima che Colombo raggiungesse le Americhe, Rodrigo de Borja sale al soglio pontificio con il nome di Alessandro VI, coronando cosí una carriera ecclesiastica già brillantissima. La storia, tuttavia, non lo ricorda soltanto per i successi o per l’attività pastorale, ma per le imprese compiute in ambiti ben piú «terreni». Nella cui scia si mossero anche molti dei suoi discendenti. Ma è davvero meritata la cattiva fama di cui godettero il cardinale spagnolo e la folta schiera dei suoi consanguinei? Lucrezia Borgia regna in Vaticano in assenza di papa Alessandro VI, olio su tela di Frank Cadogan Cowper. 1908-1814. Londra, Tate Collection.


Dossier

N N

ella notte tra il 10 e l’11 agosto del 1492, il conclave elesse il successore di papa Innocenzo VIII (1484-1492), che assunse il nome di Alessandro VI (1492-1503). Si trattava del cardinale Rodrigo de Borja – italianizzato in Borgia – vicecancelliere pontificio, nato nel 1431 a Játiva, presso Valencia, dall’unione dei cugini Jofré e Isabella Borgia, appartenenti a una famiglia della piccola nobiltà spagnola. La scelta del nome – Alessandro – non fu casuale, perché ri-

chiamava alla memoria le imprese e la fama del condottiero macedone, ma anche la fermezza, il coraggio e l’alto senso del magistero spirituale di papa Alessandro III (1159-1181), acerrimo avversario di Federico I Barbarossa (1152-1190).

Un’ascesa folgorante

Nessuno poteva immaginare che quell’astuto e tenace cardinale, sopravvissuto a ben cinque papi, avrebbe segnato, in maniera straordinaria, la storia della Chiesa e

dell’Italia. Rodrigo Borgia aveva intrapreso giovanissimo la carriera ecclesiastica, studiando teologia e diritto canonico a Roma e Bologna, e raggiunse i livelli piú elevati della gerarchia con la nomina a vescovo di Valencia, cardinale di S. Nicola in Carcere e vicecancelliere della Chiesa, tra il 1456 e il 1458. La sua ascesa fu dovuta allo zio materno, papa Callisto III, al secolo Alonso Borgia (1455-1458), che richiese il trasferimento definitivo del nipote dalla Spagna a Roma.

Alessandro VI

Famiglie numerose e... allargate Nel XV secolo non era raro che un papa avesse figli naturali e lo «stile di vita» di Alessandro VI non fu diverso da quello di molti suoi predecessori. L’obbligo canonico del celibato divenne effettivo solo dopo il concilio di Trento (1545-1563). Rodrigo Borgia ebbe molte amanti e non tutte note. Prima ancora di incontrare Vannozza Cattanei, aveva avuto, da una donna – o donne – sconosciuta, tre figli: Girolama († 1483), Isabella († 1547) e Pier Luigi († 1485). Isabella e Girolama furono maritate a esponenti della nobiltà romana, mentre Pier Luigi ebbe il titolo di duca di Gandía, passato, dopo la sua morte, al fratellastro Juan. Da Vannozza Cattanei, Rodrigo ebbe i figli piú noti: Cesare, Juan – da alcuni ritenuto il primogenito – Jofré e Lucrezia. Da Giulia Farnese († 1524), detta «la Bella», il papa ebbe una figlia, Laura († 1530). Vannozza – forse vezzeggiativo di Giovanna – apparteneva alla piccola nobiltà romana e, intorno al 1470, iniziò col cardinale Rodrigo Borgia una relazione amorosa poi terminata verso il 1485. Divenuto papa, Rodrigo si prese cura di lei e dei figli – riconosciuti inizialmente come nipoti – fornendole rendite che le consentirono di aprire locande in tutta Roma. Il cardinal Rodrigo le fece contrarre matrimonio tre volte con Domenico Arignano, Giorgio della Croce e Carlo Canale, in modo da allontanare ogni sospetto sulla paternità dei fanciulli. I primi due mariti di Vannozza erano segretari della curia pontificia, l’ultimo un umanista di Mantova. Vannozza visse con i suoi figli nel sontuoso palazzo di S. Maria in Portico, presso la basilica vaticana, fin quando il Borgia non decise di affidare l’educazione dei ragazzi alla cugina, Adriana de Mila, moglie di Ludovico

Orsini, signore di Bassanello. Il figlio di Adriana e Ludovico, Orsino Orsini, andò sposo a Giulia Farnese, esponente di un’illustre famiglia nobiliare del Viterbese, che divenne presto l’amante del papa, sostituendo Vannozza. La relazione di Rodrigo Borgia con Giulia, iniziata intorno al 1490, terminò cinque anni piú tardi.


Una dinastia tra Medioevo e Rinascimento Domingo de Borgia

Catalina

Alfonso Borgia

sposa Juan Luis del Milá barone di Masalavés

Papa Callisto III

(† 1468)

Isabella

(† 1468)

Rodrigo Gil de Borgia

Jofré

sposa

(† 1436 o 1437)

(1455-1458)

Pedro Luis Borgia

Rodrigo Borgia

duca di Spoleto, prefetto di Roma

Papa Alessandro VI

(† 1458)

Giovanna sposa Pedro Lanzol de Romani

(1492-1503)

Ramo Borgia-Lanzol

Pedro Luis Borgia

Juan Borgia

Cesare Borgia

Jofré Borgia

I duca di Gandía

II duca di Gandía

duca di Valentinois

principe di Squillace

(† 1491)

(† 1497)

(† 1507)

Juan Borgia

(† 1517)

Lucrezia

(† 1507)

III duca di Gandía

(† 1519)

sposa

(1) Giovanni

Rodrigo Borgia († 1537)

cardinale

Fernando Borgia

Francesco Borgia († 1572)

sposa Eleonora de Castro poi cardinale e generale dei Gesuiti

Carlo Borgia

(† 1540)

cardinale

(† 1558)

V duca di Gandía

VI duca di Gandía

marchesa di Denia sposa Francisco Gomez de Sandoval, duca di Lerma

Carlo II Borgia

Inigo Borgia

Gaspare Borgia

(† 1632)

(† 1622)

(† 1645)

generale nelle Fiandre

cardinale

(† 1595)

viceré di Sardegna

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Sforza di Pesaro (2) Alfonso d’Aragona, duca di Bisceglie (3) Alfonso I, duca di Ferrara

Isabella

(† 1592)

Francesco II

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Enrico Borgia

Nella pagina accanto papa Alessandro VI in un dipinto di scuola tedesca. XVI sec. Digione, Musée des Beaux-Arts.

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Dossier

Assieme a Rodrigo partí anche il fratello, Pedro Luis († 1458), laico, che fece carriera nell’amministrazione pontificia come gonfaloniere e capitano generale delle milizie papali. Anche dopo la morte dello zio, Rodrigo conservò la carica di cardinale, vicecancelliere e arcivescovo di Valencia, accumulando ricchezze e un potere enorme. Il vicecancelliere della curia pontificia, infatti, svolgeva anche le funzioni di «primo ministro» della Santa Sede, dal

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momento che, attraverso il suo ufficio, passavano le petizioni rivolte al papa, la redazione dei decreti, delle bolle pontificie, delle sentenze e di ogni atto giudiziario o amministrativo della Chiesa di Roma.

Verso l’elezione

Nel 1471, Rodrigo fu inviato in Spagna in qualità di legato papale con pieni poteri, per presiedere alla fase finale della Reconquista contro i Mori di Granada. Nel 1492, infine, fu

eletto papa. Salito al potere, Alessandro VI non si distinse dai suoi predecessori e favorí una politica «nepotistica», volta a privilegiare i suoi congiunti piú stretti. In realtà, oltre che di nipoti, si trattava di veri e propri figli, avuti prima dell’elezione, in palese violazione dell’obbligo canonico del celibato e della castità. Erano: Cesare, Juan, Lucrezia e Jofré, figli suoi e di Vannozza Cattanei († 1518), appartenente alla piccola nobiltà romana. dicembre

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Sulle due pagine L’entrata di Carlo VIII a Napoli, 12 maggio 1495, olio su tela di Eloi Firmin Feron. 1835. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

A destra Ritratto di gentiluomo (Cesare Borgia), olio su tavola di Altobello Melone. XVI sec. Bergamo, Accademia Carrara.

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Dossier

L’ipotesi che i quattro fossero nipoti del pontefice non è suffragata da prove certe, pertanto conviene conformarsi alla versione tradizionale, che li vuole realmente figli carnali del papa (vedi box a p. 76). In ogni caso, non si trattava di una novità, dal momento che anche i predecessori di Alessandro, tra cui lo zio, Callisto III, e i papi Pio II (1458-1464) e Innocenzo VIII, avevano avuto figli carnali. Fino al 1481, i ragazzi furono riconosciuti come «nipoti» del cardinale Borgia, ma, dopo l’elezione a papa, Rodrigo non ebbe piú timore di riconoscerli come figli suoi. Nel 1493, il papa attribuí al primogenito, Cesare, il titolo cardinalizio e l’arcivescovado di Valencia e in quell’occasione, con apposita bolla, Alessandro legittimò il figlio, poiché un «bastardo», secondo il diritto canonico, non avrebbe potuto ottenere il cardinalato.

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In alto l’esterno dell’appartamento Borgia, l’ala più riservata del Palazzo Apostolico Vaticano voluta da papa Alessandro VI Borgia (oggi compresa nel percorso di visita dei Musei Vaticani). A destra L’interrogatorio di Savonarola, olio su tela di François Marius Granet. 1846. Lione, Musée des beaux-arts.

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Dossier i borgia e la «leggenda nera»

Parenti serpenti La «leggenda nera» che ha dipinto i Borgia come spregevoli assassini, convinti assertori della machiavellica «ragion di Stato», privi di ogni scrupolo morale, non è supportata da prove certe, ma si rivela frutto di un’esagerazione, prodotto di una storiografia molto spesso posteriore di anni agli eventi realmente accaduti. Lo storico romano Stefano Infessura (ante 1436-ante 1500), con il Diario della Città di Roma, e il toscano Francesco Guicciardini (1483-1540), con la Storia d’Italia,

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furono i piú tenaci «costruttori» di quell’immagine fosca e terribile. La leggenda nera riservò il ruolo di «assassino per eccellenza» a Cesare, che agí sempre da solo o su mandato del padre. A colpire l’immaginazione dei contemporanei fu il ruolo, vero o presunto, avuto da Cesare nell’uccisione dei suoi stretti congiunti come il fratello Juan e il cognato Alfonso di Bisceglie. Mentre il coinvolgimento del Valentino nella morte del fratello appare dubbio, è invece quasi certo nel caso della morte del cognato.

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In alto particolare della Disputa di Santa Caterina (veduta d’insieme alle pp. 92-93): nell’immagine di questo cavaliere orientale è stato da alcuni riconosciuto un ritratto di Juan Borgia, secondogenito di Rodrigo e fratello di Cesare. A sinistra Cesare Borgia abbandona il Vaticano, olio su tela di Giuseppe Lorenzo Gatteri. 1877. Trieste, Museo Revoltella.

Sebbene non mostrasse una gran voglia di conformarsi agli obblighi dello stato clericale, preferendo la caccia e le compagnie femminili, il ragazzo era destinato dal padre a una brillante carriera ecclesiastica. Il secondogenito di Rodrigo, Juan, fu destinato alla «carriera politica», ottenendo il ducato di Gandía, in Spagna, e convolando a nozze con Maria Enriquez de Luna († 1539), cugina dei «re cattolici» Ferdinando d’Aragona (1479-1516) e Isabella di Castiglia (1474-1504). Nel 1493, Lucrezia Borgia († 1519) sposò, a Roma, Giovanni Sfor-

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Dossier za, duca di Pesaro († 1510), della celebre e illustre famiglia dei duchi di Milano. Con queste nozze il papa consolidava i suoi rapporti con la dinastia ducale milanese a cui doveva la stessa elezione al pontificato, favorita dal cardinale Ascanio Sforza († 1505), fratello del duca di Milano, Ludovico il Moro (1494-1500). Nel maggio del 1493, su richiesta delle «maestà cristianissime» di Spagna e Portogallo, Alessandro emanò una bolla – la Inter Caetera –, con la quale definiva la ripartizione dei territori del Nuovo Mondo tra le due potenze. Stabilendo una linea immaginaria – raya – dall’Artide all’Antartide, che passava 100 leghe a ovest delle Azzorre, la bolla assegnava alla Spagna e al Portogallo le terre – già scoperte o da scoprire – ubicate, rispettivamente, a ovest e a est del confine suddetto.

Un re per Napoli

Nel gennaio del 1494, la morte improvvisa di Ferdinando I – re Ferrante – aprí lo spinoso problema della successione al trono del regno di Napoli, di cui il papa era signore feudale. Alessandro riconobbe i diritti del figlio di Ferrante, Alfonso di Calabria (1494-1495), ma pretese per suo figlio, Jofré († 1517), la mano di Sancia († 1505), figlia naturale del re. Il matrimonio fu celebrato quello stesso anno e Sancia portò in dote allo sposo il principato di Squillace. A scompaginare i piani del papa, volti alla creazione di un equilibrio diplomatico tra gli Stati italiani, intervenne l’invasione del re di Francia, Carlo VIII (1483-1498). Il re rivendicava il trono di Napoli in nome dei suoi ascendenti angioini che vi avevano regnato tra il XIII e il XV secolo, fino alla conquista aragonese del 1442. La discesa in Italia di Carlo, nel settembre del 1494, mandò in pezzi la Lega di San Marco, la vasta alleanza che Alessandro VI aveva costituito tra gli Stati della Penisola per allontanare il pericolo

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di guerre intestine e favorire l’equilibrio politico. Il re di Francia era intervenuto su esplicita richiesta del duca di Milano, Ludovico il Moro, che intendeva sbarazzarsi dello scomodo nipote, Gian Galeazzo (1476-1494), di cui era reggente dal 1480, per assumere direttamente la guida del ducato. Ludovico temeva Alfonso II di Napoli, padre di Isabella († 1524), moglie di Gian Galeazzo, che sollecitava l’intervento paterno per liberare il marito trattenuto in stato di semiprigionia a Pavia. Poco dopo la partenza dell’esercito di Carlo VIII da Milano, nell’ottobre del 1494, Gian Galeazzo fu trovato morto e Ludovico divenne duca. Il re di Francia non trovò ostacoli lungo il cammino per Napoli e raggiunse Roma nel dicembre del 1494. Un mese prima, il signore di Firenze, Piero de’ Medici (14921494), figlio del Magnifico († 1492), era stato costretto a fuggire dalla città, a seguito di una rivolta popolare determinata dalla sua tirannia e dall’arrendevolezza con cui aveva ceduto, al re di Francia, i possedimenti fiorentini di Sarzana, Pisa e Livorno. La rivoluzione portò al potere una figura carismatica di frate, Girolamo Savonarola († 1498), con cui, ben presto, papa Alessandro avrebbe dovuto confrontarsi.

Carlo non infierisce

Giunto a Roma, Carlo VIII trovò il papa asserragliato in Castel Sant’Angelo, deciso a rifiutare qualsiasi compromesso con il re. Carlo era intenzionato a prendere la fortezza e a convocare un sinodo che deponesse il papa con l’accusa di simonia. Le accuse di elezione simoniaca di Rodrigo circolavano negli ambienti vaticani già nel 1492, ma, ben presto, fu chiaro che proporre la deposizione del papa per tali ragioni avrebbe significato travolgere nello scandalo anche i cardinali elettori. Alla fine prevalse il buon senso e si arrivò a un accordo.

Lucrezia Borgia, olio su tela di Alfred W. Elmore. 1863. Collezione privata. L’opera è una sorta di «manifesto» della presunta natura diabolica della donna, che l’artista ritrae con una fiala di veleno nella mano destra, mentre, con la sinistra, tiene a freno un sicario armato di pugnale.

Pur rifiutandosi di consacrarlo e riconoscerlo come re di Napoli, Alessandro concesse a Carlo di attraversare i territori pontifici per raggiungere la Campania. Il papa acconsentí a promulgare un’amnistia per i cardinali che avevano favorito l’occupazione francese – tra i quali figuravano Ascanio Sforza e Giuliano della Rovere – e stabilí che suo figlio Cesare, in qualità di legato pontificio, accompagnasse Carlo a Napoli.

Morte di un ostaggio

Inoltre, consegnò a re Carlo il principe turco Gem, fratello del sultano ottomano Bayazid II (1481-1512). Nel 1482, Gem, sconfitto da Bayazid II dopo una breve guerra civile per il possesso del sultanato, era fuggito in Occidente e, dal 1489, si trovava «ospite» del papa, a cui il sultano pagava una retta annuale di 45 000 ducati affinché il fratello fosse sorvegliato e non fuggisse. Il principe turco non visse a lungo, perché fu trovato morto a Capua, durante la marcia dell’esercito francese. Il prezioso ostaggio doveva probabilmente servire a Carlo come strumento di ricatto contro il sultano, dal momento che circolavano voci che attribuivano al re di Francia, conquistato il regno di Napoli, il progetto di condurre una crociata per liberare i luoghi santi e Costantinopoli, in mano agli Ottomani dal 1453. Gem avrebbe potuto rappresentare una pedina importante per il re francese, quindi la sua morte non fu voluta da Carlo, ma dovuta a cause naturali. Tuttavia, la «leggenda nera» dei Borgia individua proprio in Alessandro VI il mandante del presunto avvelenamento del dicembre

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Dossier Cesare Borgia

La «ragion di Stato» al potere Cesare Borgia, duca di Valentinois, gonfaloniere e capitano generale della Chiesa, duca di Romagna, è passato alla storia come il perfetto esempio del «principe rinascimentale» crudele, amorale e privo di scrupoli. Non è un caso che Niccolò Machiavelli († 1527), scrivendo Il principe (1513), abbia pensato proprio al Valentino, che conobbe di persona in occasione dell’adempimento di alcuni incarichi diplomatici al servizio di Firenze. Cesare era nato a Roma, intorno al 1475, dal cardinale Rodrigo Borgia e da Vannozza Cattanei. Fu avviato alla carriera ecclesiastica e già a quattordici anni era notaio apostolico e canonico di Valencia. Nel 1498 Alessandro VI creò le premesse per la sua scalata al successo: morto Juan, il papa fu costretto a ripiegare su Cesare per realizzare i suoi ambiziosi disegni politici, quindi consentí al figlio di abbandonare lo stato clericale per ritornare a quello laicale, trovandogli subito una moglie, nella persona di Carlotta d’Albret, sorella del re di Navarra, data in sposa al Borgia grazie all’intervento di Luigi XII, re di Francia. Il nuovo legame del papato con la Francia, però, non si limitò solo ai sentimenti, ma divenne sempre piú stretto. Cesare fu insignito da Luigi del titolo di duca di Valentinois – uno dei feudi piú importanti del regno – ed ebbe dal re il comando di 16 000 uomini per realizzare i suoi progetti di gloria. Da quel momento decorò il suo blasone di famiglia – in cui era inscritto un toro rosso – con i tre gigli di Francia e, in alleanza con la Francia, il papa concesse via libera a Luigi per l’annessione del ducato di Milano e del Regno di Napoli. Mentre i Francesi procedevano alle nuove annessioni, Cesare, capitano generale delle milizie pontificie, domava la riottosa nobiltà laziale. Tra il 1499 e il 1500 Cesare occupò la signoria di Imola e Forlí, deponendo Caterina Sforza († 1509), «legittima signora» di quei territori. Tornato a Roma mentre era in corso il Giubileo, il Valentino celebrò uno splendido trionfo, poi, tra il 1501 e il 1502, espugnò Pesaro, Camerino, Urbino e Rimini. Per espressa volontà del padre-papa, l’insieme dei territori sottomessi andò a costituire il «ducato di Romagna» e Cesare ottenne il titolo di duca (1501), fissando a Cesena la sua corte. Nel 1503, alla morte di Alessandro VI, il ducato di Romagna si dissolse, mentre le città riacquistavano la loro indipendenza e i signori ritornavano sul trono dei loro principati. Cesare, privato da Luigi di Francia del ducato di Valentinois, e da Giulio II delle cariche e degli appannaggi paterni, fu arrestato e messo in prigione a

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Il sacco di Capua, olio su tela di Gaetano Previati. 1880. Forlí, Palazzo di Residenza, Collezione della Cassa dei Risparmi di Forlí e della Romagna. Nella grande tela, l’artista ha immaginato un momento della strage che la città campana subí da parte delle truppe di Cesare Borgia e che, nel 1501, segnò la fine del dominio dinastico dei d’Aragona nell’Italia meridionale.

Ostia. Riuscí a fuggire, trovando rifugio a Napoli presso il viceré Consalvo de Cordoba († 1515). A Napoli, tentò di ricostituire un esercito per conquistare Roma, ma fu arrestato e condotto in prigione in Castel Nuovo, venendo poi trasferito in Spagna per volontà dei reali Ferdinando e Isabella (1504). Sbarcato a Valencia, fu imprigionato nella fortezza di Chinchilla e, poi, a Medina del Campo. I reali di Spagna intendevano processarlo per l’assassinio di Juan Borgia, marito della loro cugina Maria Enriquez de Luna. Prima che il processo iniziasse, Cesare fuggí da Medina e trovò rifugio a Pamplona, nel regno di Navarra, allora retto dal re Giovanni III d’Albret, suo cognato (1506). Poiché la Navarra era sconvolta da gravi ribellioni delle famiglie nobili, Cesare mise a disposizione del cognato le sue abilità guerresche e iniziò ad assediare la città di Viana che si era ribellata al sovrano. Sotto le mura della città, il 12 marzo 1507, Cesare fu ucciso in combattimento. dicembre

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principe turco, pur mancando qualsiasi prova a sostegno di questa tesi. Poco prima della morte di Gem, a Velletri, Cesare Borgia e il suo seguito si erano dileguati, abbandonando i Francesi e facendo ritorno a Roma.

Fuga a Ischia

Forte delle sue potenti artiglierie, l’esercito francese fu in grado di conquistare Napoli senza difficoltà. Re Alfonso II aveva abdicato ed era entrato in convento in Sicilia, dove morí poco dopo (1495), lasciando al figlio, Ferrandino (1495-1496), il compito di fronteggiare l’invasione. Ferrandino fuggí a Ischia e poi si imbarcò per la Sicilia, sotto la protezione dei re di Spagna.

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Il 23 febbraio 1495, Carlo VIII entrò a Napoli, ma non poté rimanervi a lungo, poiché a marzo gli Stati italiani, assieme alla Spagna e all’Impero, costituirono la Lega Santa, con il compito di cacciare i Francesi dall’Italia. Re Carlo fu costretto a riprendere la marcia verso il Nord della Penisola, passando per Roma, che Alessandro aveva prudentemente abbandonato per Perugia. In Emilia, sul fiume Taro, presso Parma (7 luglio 1495), i Francesi si scontrarono con le forze della Lega in una battaglia dall’esito incerto, che costò loro molte perdite, costringendoli a ripassare le Alpi. Alla fine del 1496, scomparsi i Francesi, la riconquista del regno di Napoli

fu completata, ma Ferrandino morí poco dopo, lasciando il trono allo zio paterno, Federico I (1496-1501).

Alleanze matrimoniali

La spedizione di Carlo VIII aveva scosso gli equilibri politici italiani. Papa Alessandro sentí il bisogno di sganciarsi dall’alleanza milanese e, di conseguenza, dispose l’annullamento del matrimonio tra la figlia Lucrezia e il duca di Pesaro, riavvicinandosi al regno di Napoli. Nel 1498 Lucrezia sposò Alfonso, duca di Bisceglie († 1500), nipote del re di Napoli, Federico I, e fratello di Sancia, moglie di Jofré Borgia. Nel giugno del 1497, papa Alessandro affrontò un’altra terribile

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Dossier prova: Juan, duca di Gandía, gonfaloniere e capitano generale delle milizie pontificie, fu ripescato morto dalle acque del Tevere, probabilmente assassinato mentre tornava in Vaticano, di notte, al termine di una festa a casa di Vannozza. Per Alessandro fu un dolore enorme, il papa rifiutò per giorni il contatto con il mondo, dopodiché decise di istituire una commissione d’inchiesta che non approdò a nulla e l’assassino di Juan rimase sconosciuto (vedi box a p. 82).

Savonarola al rogo

In quel periodo, nonostante il grave lutto che l’aveva colpito, il papa si trovò a dover fronteggiare la predicazione fortemente ostile al suo pontificato di Girolamo Savonarola, priore del convento domenicano di S. Marco, a Firenze. Alessandro ricorse alle maniere forti: scomunicò il frate e, davanti alla sua persistente disobbedienza, minacciò Firenze di interdetto, cosicché la Signoria decise di arrestare Savonarola con l’accusa di eresia e lo mandò al rogo (maggio 1498). La morte di Juan consentí a Cesare di occupare il posto del fratello

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lucrezia borgia

Tra storia e leggenda Probabilmente conosciamo le reali fattezze di Lucrezia Borgia attraverso il ritratto che ne fece il Pinturicchio († 1513), nel dipinto La disputa di Santa Caterina, attribuendole le sembianze della santa. La fanciulla aveva biondi e lunghi capelli, carnagione e occhi chiari, il corpo esile e ben fatto. Lucrezia era nata a Roma, nel 1480, penultima dei figli del cardinale Rodrigo Borgia e di Vannozza Cattanei. Crebbe con la madre nel palazzo di S. Maria in Portico donatole da Rodrigo Borgia, per essere poi affidata alle cure della zia, Adriana de Mila-Orsini, cugina del papa. Durante la permanenza a casa della zia, Lucrezia ebbe modo di conoscere e diventare amica di Giulia Farnese, amante del papa e «dama di compagnia» di Adriana. Come le donne della nobiltà del suo tempo, Lucrezia fu educata alla conoscenza delle sacre scritture e dei classici greci e latini. Inoltre era poliglotta. Nel 1493 il padre, divenuto papa, la diede in sposa al duca di Pesaro, Giovanni Sforza, rompendo il precedente fidanzamento con il nobile spagnolo Gaspare, conte di Aversa. Lucrezia portò a Giovanni una dote di 31 000 ducati, ma il matrimonio non fu felice, né allietato da figli, cosí, per disposizione del papa, venne annullato nel 1497, causa l’impotenza sessuale del marito: un’impotenza tutt’altro che provata, dato che la prima moglie, Maddalena Gonzaga, era morta di parto (1490). Dopo l’annullamento delle nozze Giovanni promise vendetta e cominciò a far circolare voci sui presunti legami incestuosi tra Lucrezia e il padre, alimentando la «leggenda nera» dei Borgia e delle relazioni sessuali del papa (e dei fratelli) con Lucrezia. L’esperienza poco felice del matrimonio e la consapevolezza di essere una pedina del padre sullo scacchiere politico, spinsero Lucrezia a rinchiudersi nel convento romano di S. Sisto con l’intenzione, forse, di monacarsi.

In alto il profilo di Lucrezia Borgia su una medaglia in bronzo coniata in onore suo e del marito, Alfonso I d’Este. Manifattura mantovana, 1502. In basso il profilo di Alfonso I d’Este sul rovescio di un’altra medaglia in bronzo, opera di Niccolò Fiorentino (al secolo Niccolò di Forzore Spinelli). 1492.

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A strapparla dalla custodia delle monache intervenne proprio il papa, che la fece prelevare con la forza e trasferire di nuovo in Vaticano. Prima del suo nuovo matrimonio con il duca di Bisceglie, Lucrezia mise al mondo un bambino, don Juan († 1546) – detto «l’Infante romano» – frutto di una relazione con un paggio di corte, Pedro Calderón, detto Perotto, probabilmente avvenuta durante la permanenza della giovane in convento. Il papa pose il fanciullo sotto la sua protezione, nominandolo duca di Nepi e Camerino e riconoscendolo, con bolla pontificia, figlio di Cesare e di un’ignota donna romana. Poco tempo dopo il papa emanò un’altra bolla con la quale il fanciullo fu riconosciuto figlio suo e di una donna nubile, di cui si ignora il nome. Perotto fu poi assassinato da Cesare e, in tal modo venne salvaguardata la verginità di Lucrezia. Nel 1498 Lucrezia sposò Alfonso, duca di Bisceglie e nipote del re di Napoli. Il matrimonio fu felice e allietato, l’anno successivo, dalla nascita di un bambino, Rodrigo († 1512). Dopo l’assassinio di Alfonso, il papa decise di occuparsi anche del piccolo Rodrigo, confermandogli il possesso del ducato di Bisceglie a cui aggiunse anche il ducato di Sermoneta con le relative rendite. Lucrezia svolse anche importanti incarichi amministrativi al servizio della curia romana: il papa, infatti, la designò reggente di Spoleto e Foligno, con pieni poteri, e, poco dopo, le concesse la signoria di Nepi (1499). Nel 1501, inoltre, Alessandro la nominò «reggente», con poteri vicariali, mentre era assente da Roma per combattere i baroni del Lazio meridionale e in quell’occasione, per la prima volta, una donna si trovò a reggere le sorti dello Stato pontificio, impartendo ordini al collegio cardinalizio, sebbene sprovvista di ogni autorità in materia spirituale. L’ultimo matrimonio di Lucrezia fu contratto con Alfonso d’Este, figlio del duca di Ferrara. Nel 1505 Alfonso divenne ufficialmente duca di Ferrara e Lucrezia duchessa, passando alla storia come protettrice degli umanisti, nel miglior stile dell’Italia rinascimentale. Dal matrimonio con Alfonso d’Este nacquero cinque figli: Ercole, poi duca di Ferrara (1534-1559), Ippolito († 1572), futuro cardinale, Alessandro († 1516), Eleonora († 1575) e Francesco († 1578). Lucrezia Borgia morí a 39 anni, nel 1519, mettendo al mondo l’ultima figlia, Isabella Maria († 1521). A destra Lucrezia Borgia nei panni di santa Caterina, particolare della Disputa di Santa Caterina (vedi alle pp. 92-93).

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Dossier Lucrezia Borgia che regge il papato, olio su tela di Giuseppe Boschetto. 1866. Napoli, Museo di Capodimonte.

nel cuore e nella mente di Alessandro che cambiò i progetti sul figlio, facendogli abbandonare la vita ecclesiastica, il cardinalato e l’arcivescovado di Valencia. Da quel momento, la carriera politica e le armi costituirono il trampolino di lancio di Cesare. Il papa, inoltre, si avvicinò, diplomaticamente, al nuovo re di Francia, Luigi XII d’Orléans (1498-1515), concedendogli l’annullamento delle nozze con la prima moglie, Giovanna, sorella di Carlo VIII, suo cugino e predecessore. In tal modo Luigi poté sposare la duchessa di Bretagna, Anna († 1514), creando le premesse per l’incorporazione del ducato nel regno di Francia.

La Francia apre ai Borgia

In seguito, il re di Francia venne incontro alle aspirazioni pontificie: concesse a Cesare Borgia il ducato di Valentinois (Francia sud-orientale) – capace di garantire enormi rendite –, il comando di un cospicuo numero di reggimenti, un notevole aiuto finanziario per i suoi progetti di espansione in Italia e, infine, una moglie, Carlotta d’Albret († 1514), parente del re e sorella di Giovanni III d’Albret († 1516), re del piccolo Stato pirenaico della Navarra. Per il papa, l’avvicinamento della Santa Sede alla Francia implicava il totale disconoscimento della politica antifrancese, condotta fino ad allora per contrastare le ambizioni di Carlo VIII verso l’Italia. Tale apertura comportava, inoltre, reciproche concessioni. Alessandro VI nominò cardinale il primo ministro di Luigi, Georges d’Amboise, vescovo di Rouen († 1510), e dovette cedere alle pretese del re circa il ducato di Milano e il regno di Napoli, determinando, cosí, una nuova guerra e la rottura delle relazioni diplomati(segue a p. 95)

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Dossier

Città del Vaticano, Appartamento Borgia. La disputa di Santa Caterina, affresco del Pinturicchio. 1494 circa. Cardine della composizione è appunto il confronto tra

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la vergine alessandrina, tradizionalmente identificata con Lucrezia Borgia, e l’imperatore Massimino Daia, assiso in trono, che sarebbe invece Cesare Borgia, il Valentino. dicembre

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lo stile e il lusso di lucrezia borgia

Amò piacere soprattutto a se stessa Alla luce dei presunti ritratti, della cronachistica del tempo, ma, soprattutto, degli inventari delle ricche vesti (1502-1504) e sontuose gioie (1516-1518) possedute da Lucrezia Borgia, emerge lo stile personalissimo di una figura iconica, che contribuí ad aggiornare i gusti della «corte romana», presso la quale ella visse gli anni della sua giovinezza, secondo i dettami delle coeve mode spagnole assorbite probabilmente attraverso la catalana Adriana de Mila, lontana parente di Rodrigo Borgia – da tutti ritenuta la nipote – e determinata tutrice di Lucrezia. Negli «anni romani», una giovanissima Lucrezia Borgia appare presumibilmente raffigurata dal Pinturicchio, sempre nei panni di santa Caterina, sia nella Disputa di Santa Caterina, affrescata negli appartamenti Borgia intorno al 1494 (vedi foto qui accanto), sia nel Matrimonio mistico di Santa Caterina conservato alla Pinacoteca Vaticana (vedi foto a p. 95). In entrambe le raffigurazioni, la santa indossa vesti nelle quali elementi simbolici si mescolano a dettagli assolutamente contemporanei, descritti poi negli inventari di Lucrezia. Negli appartamenti Borgia, la presunta Lucrezia indossa una ricca veste, la romana camora o sottana, dalle strette maniche e dalla ricca ornamentazione simbolica. Sia il colore rosso del manto o bernia spagnola, indossata su una sola spalla come previsto dalla etichetta cerimoniale iberica, sia il colore blu della veste, rimandano a simbologie sacre e vagamente orientaleggianti usate per connotare le origini esotiche della santa (nata ad Alessandria d’Egitto), e devono essere considerati in parte estranei ai gusti personali di Lucrezia, la quale, già negli anni romani dimostrava una netta predilezione per i colori scuri: soprattutto il nigro (nero) e il berrettino (grigio-azzurrato) registrati in grande copia dall’estensore dell’inventario delle vesti da lei possedute negli anni 1502-1504 e spesso abbinati a liste di tessuto e decorazioni in oro per esaltarne la cromía. Del tutto coerente con i gusti di Lucrezia, appare invece il copricapo «della santa», a metà strada tra un turbante e una cajola (cuffia) meridionale, che va identificato con il rodeo o rollo spagnolo, di cui la duchessa possedeva ben tredici varianti. Storicamente plausibili appaiono anche i dettagli

«Asai bella, vestita de gran veste, ornata dasai zoie» MEDIOEVO

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Dossier abbigliamentari raffigurati indosso a santa Caterina nel Matrimonio mistico della Pinacoteca Vaticana, dove la santa indossa una pregevole camora di colore rosso, con maniche a contrasto in tessuto operato di colore bruno, forse un velluto broccato o zetani avellutato (con fondo raso lasciato a vista e disegnature in velluto) e una sopravveste nell’amatissimo colore nigro. Al collo quel «vezzo o colaro de perle», che i cronisti ci descrivono frequentemente indosso a Lucrezia; ricchissima è anche la brocchetta (o fermaglio) da spalla che indoviniamo composta di perle, rubini, diamanti e smeraldi che rispecchiano le preferenze accordate a queste gemme. A partire dalla sua breve permanenza pesarese insieme al primo marito Giovanni Sforza (dal giugno 1493 alla Pasqua del 1495) e prima di trasferirsi definitivamente a Ferrara come consorte di Alfonso I d’Este – dove entrò trionfalmente da sposa il 2 febbraio 1502 e rimase fino alla morte, sopraggiunta il 24 giugno 1519 –, Lucrezia Borgia fece «virare» in senso filo-spagnolo i gusti di quanti ebbero l’opportunità di ammirarne la sontuosa eleganza: «Donna Lucretia et io andammo a danzare che cera – tancta gente ch edera una cosa stupenda. In simillocho et tucti tre [Lucrezia Borgia, Giulia Farnese e Giovanni Sforza, n.d.a.] eravamo vestiti Inpontificale [in pompa magna, n.d.a.] che pariva Avessimo spogliato fiorenza de brocati et tucti licircostanti stavano Spantati per nonesere forse soliti vederne tancta copia», riferiva per lettera, con un certo compiacimento, Giulia Farnese al protettore e amante Alessandro VI Borgia, in occasione delle feste pesaresi del 1493.

Nei mesi del lutto per il secondo marito, l’amatissimo Alfonso, duca di Bisceglie, Lucrezia, dalla rocca di Nepi, nel Viterbese, dispone, con una lettera dell’ottobre del 1500, che vengano fatte allargare certe zaraguele di colore negro, ossia quelle ampie braghesse intime femminili di origine moresca usatissime in Spagna. Adottate da Lucrezia, non mancarono viceversa di suscitare scandalo a Ferrara, dove, chiamate «calzoni a la galeota» negli anni di permanenza della duchessa, erano state introdotte già dalle Ebree spagnole, dopo che, nel 1492, Ercole I aveva concesso ad alcune famiglie di Ebrei iberici di risiedere nelle sue terre. Ma a essere inizialmente scandalizzata dalle licenziose vesti delle donne ferraresi, chiamate gavardine, talmente strette e scollate da guadagnarsi l’esplicito nomignolo di «saltame indose», fu la stessa Lucrezia, che introdusse appunto a Ferrara i veli da petto o groghere (gorgiere) per attutire le audaci scollature delle Ferraresi. Una disposizione che lascia presagire quella castigatezza che Lucrezia osservò e mise in atto tra le dame della sua corte, soprattutto negli ultimi anni di vita, sotto gli influssi del religioso fiorentino Tommaso Caiani, il quale le indirizzò lettere di elevato contenuto teologico e morale dal 1514 fino al 1519, anno della morte. Lucrezia venne sepolta con l’abito di terziaria francescana, riecheggiando in questa ultima volontà le parole di Pietro Bembo, il quale ne aveva già compreso la profonda natura, annotando di fatto come «Ella ami assai piú piacere a se stessa dentro che agli altri fuori». Elisabetta Gnignera

Gli indumenti In basso, da sinistra a destra i colori preferiti da Lucrezia Borgia per vesti, mantiglie e sbernie, ossia gli ampi manti alla spagnola indossati principalmente su una sola spalla: 1. colore nigro (nero);

2. colore berrettino (grigio-azzurrato); 3. colore pavonazzo (violaceo-rossastro). Seguono quindi quelli adottati in occasione di cerimonie particolarmente solenni: 4. colore cremexi (cremisi)

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per tavardi e roboni, ossia sopravvesti molto ampie e paludate; 5. alternanza di texture di bianco e oro per vesti, gonne, roboni e mantiglie; 6. colore oro per vesti, gonne e mantiglie o sbernie.

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Qui accanto Matrimonio mistico di Santa Caterina, dipinto attribuito alla scuola del Pinturicchio. XV sec. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. Anche in questo caso, la figura che affianca la Vergine è considerata un ritratto di Lucrezia Borgia.

che tra il papa, gli Sforza di Milano e gli Aragonesi di Napoli. Con la benedizione e la neutralità pontificia, Luigi XII occupò il ducato di Milano dopo due campagne militari (1499-1500), catturò Ludovico il Moro e lo deportò in Francia, dove fu relegato a Loches fino alla morte, nel 1508. Per quanto riguarda Napoli, invece, la situazione fu piú complessa. Luigi, contro Napoli, ebbe alleati Ferdinando e Isabella di Spagna e, a Granada, stipulò un trattato di spartizione del regno di Napoli con i sovrani spagnoli (1500): Puglia e Calabria alla Spagna, il resto alla Francia. Alessandro VI promulgò una bolla con cui scomunicava e deponeva Federico I di Napoli, accusato di intesa con gli infedeli, poiché arruolava molti mercenari turchi tra le sue truppe.

La strage di Capua

In questa pagina le gemme predilette da Lucrezia: 7. diamante incastonato (XVI sec.); 8. esempio di rubino incastonato (XVI sec.) e balasso (spinello rosso); 9. perla irregolare (XVI sec.). 9 6

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L’invasione franco-aragonese ebbe luogo nel 1501 e si concluse con la conquista del regno e la cattura di Federico, che fu deportato in Francia dove morí, a Tours, nel 1504. Il 24 luglio del 1501 i Francesi, assieme ai soldati di Cesare Borgia che partecipava alla campagna, si resero responsabili di un terribile saccheggio ai danni di Capua che costò migliaia di vittime. Tuttavia, subito dopo la conquista iniziarono i primi conflitti tra Francia e Spagna che portarono a una nuova guerra per il possesso dell’intero Mezzogiorno. Luigi venne sconfitto a Cerignola e sul Garigliano, e fu costretto a ratificare l’armistizio di Lione con cui riconosceva la vittoria degli Spagnoli, che poterono annettere l’intero regno, trasformato in vicereame, ai possedimenti della corona (1504). Al

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Dossier momento dell’armistizio di Lione, Alessandro VI era già morto da un anno, ma il suo pontificato ancora produceva pesanti conseguenze nel tessuto politico della Penisola. Tra il 1499 e il 1503, Alessandro aveva favorito, con il supporto militare e finanziario francese, le guerre del figlio Cesare, ormai noto come «il Valentino», per il possesso del ducato di Valentinois, in Francia. Oltre al comando di un cospicuo contingente di truppe francesi e di mercenari svizzeri, tedeschi e spagnoli, nel 1500 Cesare ottenne anche il comando supremo delle milizie pontificie, perché il papa lo insigní del titolo di «gonfaloniere e capitano generale», che già era stato di suo fratello Juan. Con truppe e laute rendite a disposizione – accumulate anche grazie ai proventi del Giubileo del 1500 indetto dal padre – Cesare iniziò la sottomissione della «Romagna», ovvero dei territori pontifici nell’Italia centro-settentrionale, debellando città e signorie che si opponevano al pieno riconoscimento dell’autorità del papa (vedi box a p. 86). Nel 1501, Alessandro nominò il figlio «duca di Romagna» e cominciò a pensare a lui anche come po-

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tenziale successore nel pontificato. Quello stesso anno il papa diede in sposa la figlia Lucrezia ad Alfonso († 1534), figlio di Ercole I d’Este (1471-1505), duca di Ferrara, Modena e Reggio, uno dei piú influenti e prestigiosi signori italiani. Il matrimonio con il futuro duca di Ferrara, alleato del re di Francia, rientrava nella strategia politica del momento e nella politica filofrancese del papato (vedi box alle pp. 88-89).

Una morte misteriosa

L’opportunità di un nuovo matrimonio per Lucrezia fu offerta dalla morte, avvenuta in circostanze misteriose, del suo secondo marito, Alfonso, nipote del re di Napoli. Una sera di luglio del 1500, il duca di Bisceglie fu aggredito presso i palazzi vaticani e gravemente ferito. Sottoposto a cure mediche, Alfonso sembrò riprendersi, ma venne poi trovato strangolato negli appartamenti pontifici dove era ricoverato (agosto 1500). Ancora una volta, l’inchiesta voluta dal papa sull’omicidio non approdò a nulla, ma le voci popolari individuarono il mandante in Cesare, accecato dalla gelosia per dover condividere con Alfonso il letto della sorella. Ovviamente non vi è alcuna prova che confermi quest’accusa che, comunque, alimentò la «leggenda nera» di un Cesare Borgia sanguinario, amante della sorella, assassino dei suoi mariti, fratricida, e di un papa erotomane, incestuoso e complice dei delitti del figlio. Molto probabilmente, se il delitto fu voluto da Cesare esso aveva motivazioni politiche e non «sentimentali»! Dati i mutati equilibri politici e la nuova intesa con la Francia, era necessario che il papa si sganciasse definitivamente dall’accordo con il regno di Napoli – simboleggiato

A destra il castello di Giulio II a Ostia Antica. La rocca fu edificata dall’architetto Baccio Pontelli per volere del cardinale Giuliano Della Rovere, futuro papa Giulio II, tra il 1483 e il 1486. Qui, lo stesso pontefice fece rinchiudere Cesare Borgia, dopo averlo privato di tutte le sue cariche. In basso medaglione commemorativo recante il profilo di Luigi XII, re di Francia, offerto al sovrano dalla città di Lione e realizzato su disegno di Nicolas Leclerc e Jehan de Saint-Priest. 1500. Digione, Musée des Beaux-Arts.

dall’unione tra Alfonso di Bisceglie e Lucrezia –, eliminando un elemento essenziale di quell’alleanza. Mentre Cesare ampliava le sue conquiste in Romagna, Alessandro VI, al vertice della potenza e della gloria, si ammalò gravemente, forse di malaria (agosto 1503). Le sue condizioni peggiorarono rapidamente e il 18 agosto morí. Le cause del decesso furono certamente «naturali», nonostante le voci di un presunto avvelenamento durante un banchetto in casa del cardinale Adriano Corneto. Dopo la breve parentesi del pontificato di Pio III (agosto-ottobre 1503), fu eletto papa Giulio II (1503-1513), al secolo Giuliano della Rovere, uno dei piú acerrimi nemici dei Borgia. Il nuodicembre

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vo pontefice spogliò Cesare delle sue cariche e delle sue rendite, incarcerandolo a Ostia, e da qui il Valentino fuggí in Spagna, dove morí nel 1507. Il fratello, Jofré, morí nel 1517 e l’anno successivo fu seguito nella tomba dalla madre Vannozza. Lucrezia morí a 39 anni, nel 1519, dopo l’ultimo difficile parto che ne aveva gravemente minato la salute.

L’uomo della Compagnia...

Per ironia del destino, proprio un bisnipote di Alessandro VI – che tanto aveva fatto parlare di sé per il suo ambiguo e «poco cristiano» pontificato – meritò, nel 1670, gli onori degli altari. In quell’anno fu infatti canonizzato Francesco Borgia (†

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Da leggere U Carlo Beuf, Cesare Borgia, Vallecchi

Editore, Firenze 1971 U Eric Russell Chamberlin, Ascesa e tramonto dei Borgia, Club degli Editori, Milano 1976 U Geneviève Chastenet, Lucrezia Borgia, La perfida innocente, Mondadori, Milano 2013 U Ivan Cloulas, I Borgia, Salerno Editrice, Roma 1988 U Jean-Louis Fournel, Jean-Claude Zancarini, Guerre d’Italia (1494-

1572), IV duca di Gandía, viceré di Catalogna, poi sacerdote, membro della Compagnia di Gesú e ministro generale dell’Ordine. Discendente di Juan, figlio di Alessandro VI,

1559), Giunti Editore, Firenze 1996 U Franz Funck Brentano, Lucrezia

Borgia, Bemporad, Firenze 1933 U Gerald J. Meyer, I Borgia, Libreria

Editrice Goriziana, Gorizia 2015 U Claudio Rendina, I Papi, Newton

Compton, Roma 2005 U Antonio Spinosa, La saga dei Borgia,

Mondadori, Milano 1999 U Marcello Vannucci, I Borgia.

Storia e segreti, Newton Compton, Roma 2011

Francesco fu esponente di prestigio di uno degli ordini religiosi piú attivi nel contrastare l’opera di rinnovamento ecclesiastico auspicato dalla Riforma Protestante. V

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scienza e tecnica carri armati

Un insuccesso...

fragoroso

di Flavio Russo

Nella costante ricerca di armi sempre piú efficaci, gli ingegneri militari provarono a rendere mobili baliste, catapulte e, infine, cannoni. Esperimenti che risultarono però fallimentari, perché quei primordiali carri armati erano cosí lenti da trasformarsi, di fatto, in bersagli fissi...

L L’

idea di utilizzare i carri in combattimento segue «a ruota», è il caso di dire, l’invenzione del veicolo stesso, poiché già alla metà del III millennio a.C. se ne hanno esplicite testimonianze iconiche, come nel caso del cosiddetto Stendardo di Ur (un prezioso reperto trovato in una tomba reale della città-stato sumerica, la cui denominazione deriva dall’ipotesi che fosse un’insegna militare, n.d.r.). Risulta piú difficile stabilire se quei carri fossero usati come supporto logistico o venissero anche impiegati come sistema d’arma vero e proprio. La questione rimase a lungo inde-

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terminata, finché, con i carri falcati ittiti ed egiziani, non si ebbe un vero e indiscutibile veicolo tattico. I Romani mostrarono scarso interesse per il mezzo, eppure, ancora nel febbraio del 1769, François-Marie Arouet, piú celebre come Voltaire, scriveva a Caterina II, imperatrice di Russia (con la quale ebbe un fitto rapporto epistolare): «Nelle vaste pianure dove le vostre truppe si apprestano a marciare, si potrebbe fare uso facilmente e con successo, di antichi carri da guerra modificati (...) Carri a due timoni, dotati, alla loro estremità, di un largo frontale destinato a proteggere il pettorale dei cavalli».

In alto incisione raffigurante una macchina per scagliare frecce attribuita ai Romani, da un’edizione del Poliorceticon sive De machinis tormentis telis di Justus Lipsius. 1605.

Dopo una prima risposta negativa, tornò a proporlo in data 27 maggio e poi di nuovo il 10 aprile dell’anno successivo, forse dopo una cortese allusione al disinteresse dei Romani per l’arma, precisando che «i Romani si fecero beffe dei carri da guerra, e avevano ragione. Essi sono soltanto uno scherzo una volta che si è fatta l’abitudine. Ma la loro prima apparizione deve certamente spaventare, e scompigliare tutto». dicembre

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Calco di un rilievo della Colonna Traiana (113 d.C.) raffigurante il trasporto di una macchina da guerra su un carro. Roma, Museo della CiviltĂ Romana.

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scienza e tecnica carri armati Del resto, quell’idea utopica aveva già mietuto vasti consensi fra i tecnici medievali, senza tuttavia fornire mai una prova concreta della sua validità. Nel trattato militare Modus acquisicionis Terre sancte, Guido da Vigevano, (1280 circa-1350) vedeva cosí i suoi carri, mossi dal vento, «correre con furore», massacrando le schiere nemiche; una suggestione alla quale non si sottrasse neppure Leonardo, che infatti scrisse: «Farò carri coperti, securi e inoffensibili; e quali intrando intra li nimici con le sue artiglierie, non è sí grande moltitudine di gente d’arme che non rompessimo. E dietro a questi potranno seguire fanterie assai illese e senza alcuno impedimento» (Codice Arundel, foglio 1030).

Un ricordo confuso

Il campo di battaglia ha conosciuto almeno due carri armati da guerra, uno nel II secolo, l’altro nel XIV. Il primo fu costruito dai Romani, che ne dotarono le legioni: era stato ottenuto, infatti, montando catapulte e baliste su appositi carri, ricavandone perciò artiglierie ippotrainate campali di piccola e media potenza; armi che, opportunamente schierate e manovrate, garantivano risultati significativi. Col tramonto dell’impero, di quei carri si persero definitivamente sia il criterio costruttivo che quello d’impiego, e ne sopravvisse solo un ricordo confuso, grazie agli autori classici; una memoria che, dopo l’avvento delle prime, ancorché rudimentali, artiglierie, tornò a stimolare la fantasia dei tecnici. Le armi da fuoco, infatti, per raggio d’azione e violenza degli impatti, si proponevano come strumenti ideali per scompaginare le schiere nemiche, essendo in grado di trapassare corazze e armature. Al di là di quei vantaggi, però, permasero sempre deficienze gravissime che, di fatto, frustrarono la realizzazione di veri carri armati. La principale limitazione scaturiva dalla necessità di affidarne la trazione a pariglie di buoi o di cavalli: ani-

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mali senza dubbio idonei a muoverli per la loro grande massa muscolare, ma, per la stessa ragione, bersagli fin troppo facili da colpire, e che, se abbattuti, avrebbero lasciato il carro immobile, in totale balia degli attaccanti. La seconda, e non meno grave, derivava dalla infima velocità di spostamento: un carro armato con una o piú bombardelle e munito di spesse scudature di protezione sia dell’arma che dell’equipaggio risultava molto pesante, tanto che il suo rapporto peso/potenza si attestava, nella migliore delle ipotesi con una pariglia di buoi o di cavalli, intorno ai 2000 kg per CV, un’entità che si può facilmente valutare ricordando

che in un attuale carro armato tale rapporto è di appena 50 kg per CV! Carri lentissimi, perciò, e di scarsa stabilità sul terreno, facili da bloccare, rovesciare e incendiare.

Sospinti dal vento

Alcuni sedicenti ingegneri militari del XIV-XV secolo pensarono allora di evitare il traino animale, ricorrendo, come accennato, alla forza del vento, poiché in quel periodo andavano diffondendosi i mulini a vento ad asse orizzontale. L’idea si dimostrò subito non meno assurda del voler sospingere una nave con ruote azionate da pale eoliche e non con le vele... Piú sensato risultò l’e-

La macchina di messer Antonio

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Sulle due pagine ricostruzione grafica di un carro armato medievale, elaborata sulla scorta della descrizione di quelli adottati da Antonio della Scala nella battaglia combattuta a Castagnaro nel 1387.

spediente di proteggere il motore, ovvero di far rientrare anche buoi e cavalli all’interno del veicolo blindato, una soluzione che faceva però crescere a dismisura l’ingombro e il peso del mezzo, rendendolo ancora piú lento. Se ne incrementò allora l’armamento, sperando di tenere a distanza gli attaccanti con una cadenza di fuoco piú serrata. Di per sé l’idea non era priva di logica, ma, per concretizzarla, occorreva abbreviare i tempi di caricamento di quelle rudimentali bocche da fuoco senza però perderne nel frattempo l’appoggio balistico, magari con un congegno simile agli «organi» a piú linee di canne, che,

In alto prospetto laterale del carro armato a tre solai rotanti sovrapposti di Antonio della Scala. La compattezza della macchina fu probabilmente garantita da quattro funi messe in trazione fra le travi sommitali, solidali al perno centrale, e i longheroni del telaio.

Qui sopra per far ruotare le piattaforme, si doveva verosimilmente agire sulle quattro stanghe solidali al perno centrale, e perciò fisse, spingendole con forza dopo aver fermato i piedi sul bordo dei rispettivi «passi d’uomo».

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scienza e tecnica carri armati Lo stemma degli Scaligeri sul castello di Sirmione (Brescia).

ruotando dopo aver sparato, consentivano una continuità di fuoco. La soluzione che piú si avvicinò e meglio soddisfece questa concezione fu il secondo carro da guerra armato comparso nel XIV secolo: se ne realizzarono tre esemplari, schierati da Antonio della Scala, signore di Verona, nella battaglia di Castagnaro del 1387, contro le truppe di Gian Galeazzo Visconti signore di Milano.

far sparare le 12 bombardelle per lato, che tutte sparavano datogli fuoco in un istante, quindi grazie a un complesso meccanismo la loro piattaforma girava, cioè ruotava in modo che le bombarde che avevano già sparato venivano rivolte verso gli altri due serventi; poi il primo doveva far sparare quelle dell’altro lato, e cosí similmente faceva con le restanti, finché sparate tutte le bombarde dei 4 lati della piattaforma, saliva piú in alto alla seconda, mentre i serventi sottostanti

Un grande disagio

Di essi abbiamo una descrizione dettagliata, che ne ha permesso la plausibile e accurata ricostruzione grafica (vedi alle pp. 100-101), e che cosí recita in italiano corrente: «Apparecchio di messer Antonio della Scala. Come abbiamo detto, Puliano era andato e tornato dall’accampamento carrarese, e poco era riuscito a capire dai racconti dei capitani sui fatti del Conte di Virtú [Gian Galeazzo Visconti]; ma aveva compreso il grande disagio che regnava nell’accampamento, e tali cose aveva riferite al signor messer Antonio dalla Scala: per la qual cosa messer Antonio dalla Scala fece grandi preparativi per assaltare i loro nemici; per cui fu prima col nobile Zuane degli Ordelaffi, con Ostasio da Polenta, con Benedetto da Marcesina suoi capitani e consiglieri per la guerra, e con loro deliberò le sue precauzioni (...) poi ordinò tre carri, ciascuno dei quali era armato con tre piattaforme, una sopra l’altra. Ognuna di dette piattaforme era quadrata e per ogni lato schierava 12 piccole bombarde fra loro molto ravvicinate, ciascuna capace di scagliare una pietra della grandezza di un uovo di gallina [5 cm circa pari a 250 g circa, poco meno di una libbra]; pertanto ogni piattaforma aveva 48 bombardelle, facendone ascendere il totale a 144 bombardelle a carro: sopra ogni carro stavano 3 uomini, dei quali uno doveva

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dovevano ricaricare le bombardelle; e cosí andava fatto fino alla terza piattaforma. A trascinare ciascun carro provvedevano quattro grandi destrieri di grossa taglia, interamente ricoperti di una corazza di cuoio cotto, sulla quale stava l’armatura d’acciaio; in sella a ogni destriero montava un gentile scudiero (...). A loro era stato ordinato che al momento in cui le schiere nemiche si fossero compattate, dovevano far sparare le bombarde, che erano 48 per solaio. E cosí dovevano fare per disordinare e dividere le schiere carraresi e poter catturare la lor bandiera».

La cadenza di fuoco

Il carro risolse il problema della cadenza di fuoco, ricorrendo a tre piattaforme quadrate, munite ciascuna di 48 bombardelle, schierate 12 per lato su ciascuna piattaforma, per complessive 144. La bordata ve-

niva replicata a breve intervallo da una seconda, e, in successione, da una terza e da una quarta, ruotando la piattaforma, facendo poi sparare con la medesima sequenza sia la seconda piattaforma che la terza. Il fuoco è indirizzato in un’unica direzione, e il criterio di far ruotare solo le piattaforme verso il nemico e non l’intera macchina, costituisce una razionale anticipazione della torretta degli attuali carri armati, il cui esordio si ebbe a partire dal 1918 sul modello francese Renault FT-17. Almeno in ciò, pertanto si dimostra di gran lunga piú evoluto del carro armato disegnato un secolo dopo da Leonardo da Vinci. È verosimile che le tre piattaforme, aperte lateralmente al di sopra di un parapetto blindato munito di feritoie – soluzione ideale per dissipare i fumi di sparo – comunicassero tramite quattro «passi d’uomo», per permettere all’equipaggio di spostarsi tra le stesse con le necessarie munizioni. Per via del suo alto baricentro, il carro risultava instabile, dal momento che non sopportava un’inclinazione superiore ai 30°, nonostante la sua larghezza presunta di circa di 4 m. Quanto al motore, si faceva sempre affidamento su quattro grandi destrieri condotti da altrettanti cavalieri: sia gli uomini che gli animali erano debitamente chiusi nelle rispettive armature d’acciaio. Inadeguata doveva essere la forza motrice erogata dalle bestie, la cui vulnerabilità era appena attenuata dalla gualdrappa blindata, lasciandoci immaginare su terreno pianeggiante una velocità – se cosí si può definire – non superiore ai 4-5 km/h. Tale deficienza suggerí saggiamente di non avvalersi operativamente di quei costosi e complicati carri armati: una decisione alla quale si attennero negli anni seguenti anche i Padovani dopo essersene impadroniti. F dicembre

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CALEIDO SCOPIO

Matrimoni con riciclo

ARALDICA • In occasione delle nozze,

era consuetudine offrire in dono preziosi manufatti, sui quali si riportavano anche gli stemmi delle famiglie degli sposi. La cui analisi rivela la frequente riutilizzazione di cassoni e deschi da parto 2

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l Metropolitan Museum di New York conserva un desco da parto – uno di quei vassoi in origine utilizzati per portare doni e cibarie adatti alle puerpere –, che lo storico dell’arte tedesco Aby Warburg (1866-1929) ha datato al 1449, anno della nascita di Lorenzo Medici da Piero il Gottoso e da Lucrezia Tornabuoni: come spesso accade, le armi delle rispettive famiglie campeggiano sul retro del manufatto. Non fu questo il solo matrimonio fra la casata signorile fiorentina e quel ramo dei Tornaquinci, grandi Fiorentini fattisi «di Popolo» – tale scudetto rossocrociato resta ben visibile nel loro stemma – per aggirare 3. Stemma Medici nella versione probabilmente piú risalente. 4. Brisura dell’arme Medici probabilmente piú antica ove la palla centrale si muta in quella del Popolo fiorentino. 5. Stemma portato comunemente in seguito.

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1 1. Recto del desco da parto su cui è raffigurato il Trionfo della Fama, opera di Giovanni di ser Giovanni Guidi, detto lo Scheggia. 1449. New York, The Metropolitan Museum of Art. 2. L’impresa di Piero il Gottoso accostata dagli stemmi Medici e Tornabuoni sul verso del desco da parto dello Scheggia. 1449. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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6. Ulteriori brisure dello stemma mediceo. Salvo diversa indicazione, le immagini sono tratte dallo Stemmario Fiorentino Orsini De Marzo (XVII sec.).

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7. Stemma dei Tornaquinci, magnati fiorentini di cui diversi rami si fecero di Popolo mutando gentilizio e arme. 8. Stemmi di Popoleschi e Giachinotti (rispettivamente a sinistra e a destra), ambedue rami dei Tornaquinci che mutarono cognome e arme gentilizia nel farsi di Popolo. la legislazione antimagnatizia, mutando nome in Tornabuoni e arme (19 novembre 1393): cugina coeva di Lucrezia, Sandra di Filippo di Simone, primo dei Tornabuoni già Tornaquinci, sposò infatti Giuliano di Averardo Medici. Soltanto l’impresa dell’anello di diamante con le tre piume e la divisa SEMPER, propria di Piero, ci rassicurano quindi della corretta attribuzione alla sua linea: solo nel 1465, infatti, Luigi XI concesse l’arme di Francia al Gottoso, a ornamento della palla (o, meglio, torta) sommitale.

Stemmi «professionali» Numerose casate fiorentine portavano nello scudo bisanti, torte e palle, in numero che poté anche variare nel tempo, forse per derivarle

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dall’attività di campsores (cambiatori di moneta), oppure, come credo, per ricordare le borchie che in origine rinforzavano gli scudi dei milites (cosí come, forse, anche le catene che campeggiano su diversi stemmi locali, fra cui quello degli Alberti, di cui diremo). Otto di tali mobili

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9. Brisura dello stemma mediceo significante la partitanza guelfa indicata dal capo angioino. 10. Brisura dello stemma mediceo significante il privilegio concesso da Luigi XI a Piero il Gottoso. 11. Insegna dell’Arte del Cambio, raffigurante bisanti forse all’origine di quelli dell’arma medicea e similari. 12. Stemma dei Tornabuoni, il piú illustre fra i rami dei Tornaquinci fattisi di Popolo anche grazie all’alleanza matrimoniale coi Medici ricordata dal desco da parto.

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figurano, per esempio, oltre che ancora nel blasone del Gottoso, abitualmente in quello di Borgognoni e Federighi, mentre, fra case antiche e nuove, a portarne sei – poste 3, 2, 1, ovvero in cinta – furono Abbati, Bachini, Bonigi, Cipriani, Foraboschi, Lamberti, e quei della Stella, ma anche i Magli e i consorti Da Magnale (stemma di cui l’arme Squarcialupi sembra brisura parlante per il lupo posto in capo), i Barducci Chierichini, i Ligi e, infine – ma senza pretesa di esaustività – i Mazzinghi da Signa: tale elencazione suggerisce quanto facile sia equivocare, soprattutto in assenza di smalti.

L’immagine invertita Per esempio, nel volume Il fratello di Masaccio. Giovanni di Ser Giovanni detto lo Scheggia (catalogo della mostra omonima, allestita a San Giovanni Valdarno nel 1999) l’immagine

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riproducente quei blasoni figurava invertita, e cosí si sarebbe detto trattarsi di un Tornabuoni (stemma a sinistra per l’osservatore) che impalma una Medici: quasi una dimostrazione del proverbio tedesco, secondo cui «Il Diavolo sta nel dettaglio»... Ma anche una prova dell’importanza del dato araldico per gli studi storico-artistici: in Italia purtroppo alquanto negletto, non senza conseguenze, talvolta

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1. Verso di un altro desco da parto dello Scheggia raffigurante una lotta impudica fra due bambini, da intendere come auspicio di fertilità. Firenze, Museo di Palazzo Davanzati. 2. Stemma dei Davanzati. 3. Stemma dei Corbinelli, ove il cervo è, come del resto usuale, d’argento. Nel palazzo comunale di San Miniato, tuttavia, ne esiste una versione tre-quattrocentesca col cervo d’oro.

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grottesche, sulla datazione e l’attribuzione delle opere. Già Warburg, invece, come egli stesso dichiara, si avvalse proprio degli stemmi figuranti sulle opere d’arte – compulsando il tascabile dedicato ai Senatori fiorentini (Firenze 1665) da Ferdinando Leopoldo del Migliore (1628-96), piú noto autore di Firenze città nobilissima illustrata (ibidem 1684) – per l’identificazione – e dunque per la datazione, risalendo ai relativi sponsali – della committenza fiorentina di celebri capolavori fiamminghi (quale, per esempio, il cosiddetto Trittico di Danzica di Hans Memling). L’opera, identificata dal poligrafo tedesco per quella figurante nell’inventario post mortem dei beni del Magnifico redatto nel 1492, è un manufatto uscito dalla fertile bottega (e certamente in tal caso dalle proprie mani) dello Scheggia: come era chiamato (e cosí il padre notaio e i discendenti) il pittore e forzierinajo Giovanni di ser Giovanni (di Simone di Andreuccio Guidi da Cascia, 1406-1486). Fu, questi, fratello ben piú modesto, ma assai piú longevo, di Masaccio (Tommaso del suddeto ser Giovanni, 1401-1428): al quale, per contro,

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bastarono ventisette anni di vita per rivoluzionare la pittura, facendola transitare, genialmente e definitivamente, da quello stile tardo-gotico, caro al ben piú longevo fratello, al Rinascimento.

Il saluto dei militi Nella produzione piú risalente dello Scheggia, paradossalmente, ma evidentemente per l’influenza straordinaria del fratello, reperiamo le cose piú moderne del suo catalogo. Anche in questo desco, però, che raffigura petrarchescamente il Trionfo della Fama, colpisce il modo con cui a essa rivolgono il proprio saluto i milites adobati cari al vecchio mondo cavalleresco: infatti, in pieno spirito umanistico, lo fanno romanamente! Questo desco da parto diviene cosí un simbolico punto di cesura, senza soluzione di continuità tuttavia, fra due evi storici, ma, ancor piú, fra due

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visioni del mondo: tra l’universo e l’etica cavallereschi e comunali cari a Dante e quelli mercantili e signorili, incarnati dall’astro mediceo, non insensibile, tuttavia, al fascino dei primi, come dimostra la spalliera (decorazione lignea murale) che raffigurava il torneo organizzato nel 1469 da un giovane Lorenzo, immortalato proprio dallo Scheggia (opera purtroppo dispersa, ma menzionata nel suddetto inventario dei beni mobili del Magnifico). Caratteristico dello Scheggia è il raffigurare in special modo cani di

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4. Verso di un desco da parto del Maestro del Giudizio di Paride raffigurante un fanciullo che mangia dell’uva accostato dagli stemmi Aldobrandini di Madonna e Alberti del Giudice. Firenze, Collezione Serristori. dicembre

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5. Stemma degli Aldobrandini di Madonna, nella versione utilizzata anche dal ramo papale, con le stelle tutte parallele alla banda. 6. Stemma degli Alberti del Giudice, caratterizzato dalle catene che alluderebbero al luogo di origine, Catenaia, e riscontrabili in diverse altre armi gentilizie fiorentine. ogni razza e vispi bambini: è il caso di un altro desco che illustra al recto il Giuoco del civettino (Firenze, Museo di Palazzo Davanzati), e, al verso, due bimbi intenti in una impudica zuffa, da intendersi, quest’ultima, come un auspicio di fertilità, ma sufficiente a far fruttare al pezzo un’improvvida scialbatura, ora rimossa. Tali discolacci sono accompagnati da due blasoni, che non mi paiono a oggi identificati: è proprio l’arme peggio conservata – che lascia tuttavia intravvedere quella che è assai verosimilmente una coda di un quasi totalmente obliterato leone d’oro in campo azzurro – a essere la piú celebre, se non altro per esser il palazzo dei titolari di tale stemma, i Davanzati, l’attuale sede dell’omonimo museo fiorentino che custodisce il desco. Altre casate fiorentine, e non secondarie, portano armi identiche (i Cocchi Compagni e i Riccialbani, ma anche i Guineldi e Passavanti) o compatibili (i Becchenugi e i Giachi: un leopardo illeonito), ma tale attribuzione mi sembra piú probabile, anche per la provenienza recente dell’opera; inoltre, la genealogia seicentesca su tela dei

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Davanzati-Bostichi (ancora in quella casa-museo) offre un indizio per identificare fors’anche la coppia di sposi: fra le alleanze raffigurate, infatti, vi è l’arme dei Corbinelli, dei quali, se solitamente portano un cervo d’argento in campo azzurro, è documentata una variante, nel palazzo comunale di San Miniato, in cui il cervo è invece proprio d’oro. In alternativa, si potrebbe pensare ai Vecchi senesi: che, forse provenienti da Montalcino, magari non alzavano originariamente – o perlomeno non tutti fra loro – il capo imperiale che caratterizza invece lo stemma dell’illustre casata di Siena, ma mi sembra, quest’ultima, un’ipotesi piú improbabile, pur in presenza di smalti altrimenti congrui all’identificazione.

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7. Stemma dei Nasi, famiglia dalla quale dovrebbe essere uscita – salvo errore del Litta – Nicolosa, prima moglie di Salvestro Aldobrandini. 8. Stemma dei Serristori, famiglia che prende il nome da un ser Ristoro, di cui si segnala l’affinità araldica con gli stemmi dei Nesi e dei Del Giocondo. 9. Stemma dei Del Giocondo, famiglia del marito di monna Lisa Gherardini, ritratta da Leonardo e piú nota come La Gioconda, araldicamente affine a quello dei Serristori.

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Firenze come status symbol Ai primi del Novecento, la nobile magione dei Davanzati divenne la dimora-showroom di Elia Volpi (1858-1938), scaltro mercante di antichità originario di Città di Castello, il quale, assieme all’ex suo principale Stefano Bardini (1836-1922), lanciò negli USA il Florentine Taste, infarcendo di cassoni, majoriche e fondi oro molte dimore altoborghesi della Fifth Avenue. Nonostante questo esodo biblico di pezzi piú o meno pregiati dalle antiche dimore dell’aristocrazia verso quelle della nova gente – per usar una metafora araldica – a stelle e strisce, è riapparso sul mercato italiano in occasione della recente Biennale degli Antiquari (Firenze

26 settembre-4 ottobre 2015) un altro desco da parto che, non riferito allo Scheggia ma al piú risalente Maestro del Giudizio di Paride (cosí denominato dal name piece conservato nel Museo del Bargello), proviene dalla storica collezione dei Serristori, giuntovi forse per li rami dagli Aldobrandini un tempo denominati di Madonna, per differenziarsi da consorti e semplici omonimi. È in ogni caso di questi ultimi lo stemma che, pur con minime varianti rispetto all’araldica piú

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1. Stemma dei Nesi, araldicamente affine a quelli Serristori e Del Giocondo, ma anche Nasi. corrente del casato destinato a dare alla Chiesa un pontefice (usualmente le stelle che accompagnano la banda doppiomerlata sono tutte parallele a quest’ultima, a differenza dal caso in ispecie), campeggia alla sinistra dell’osservatore – lato deputato all’araldica dello sposo –, accompagnato sul lato destro dall’arme, altrettanto nota, degli Alberti del Giudice. Costoro erano originari del castello di Catenaia – donde lo stemma alludente – e si inurbarono a Firenze già nel XII secolo, con Rustico judex, da cui la specifica cognominizzata, prendendo parte attiva alle vicende comunali: da un ramo esule a Genova discese il loro membro piú celebre, il letterato e artista Leon Battista (1404-1472).

Ma chi sono, davvero, gli sposi? Altre casate fiorentine portarono tali catene in decusse: fra quelle che dettero priori alla repubblica, Benini, Boni, Cennini, Fantoni Angiolotti e i consorti Giotti, e infine gli Zati; tuttavia, per stabilire se tale araldica sia giustificata da nessi genealogici o, come probabilmente per gli Alberti, toponomastici, ovvero, come ho ipotizzato sopra, dalla conformazione stessa dello scudo militare (o da piú di un motivo fra quelli indicati), occorrerebbe un’indagine ben piú approfondita. Tornando al desco, chi si è occupato

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2. Ipotizzando che il Litta abbia letto male il cognome di Nicolosa moglie di Salvestro A., di quattro lettere e inizianti con la N sono i Nori consorti dei Da Diacceto, che portano il leone.

del pezzo, a partire dal catalogo dell’esposizione fiorentina dedicata nel 1949 a Lorenzo il Magnifico e le arti (Firenze, Palazzo Strozzi), ha sempre identificato la coppia de quibus con Brunetto Aldobrandini, nato nel 1423 e capitano d’Arezzo nel 1475, e con la prima moglie Nicolosa di Tommaso Alberti, morta nel 1450. I due convolarono a nozze nel 1446

agli Aldobrandini nella succitata opera promossa da Litta Biumi, ci imbattiamo in altri sponsali Aldobrandini-Alberti, per cronologia non troppo lontani: si tratta delle seconde nozze indicate da Litta per un fratello del suddetto Brunetto, Salvestro, nato nel 1424 e podestà di Modigliana nel 1488, il quale, vedovo di una Nicolosa di Lutozzo Nasi (sposata forse nel 1454), impalmò in secondi voti, appunto, una Manna di Bernardo Alberti (le nozze dovrebbero risalire al 1460).

Il «fantasma» di un leone Ma perché preferire una coppia seriore di poco meno di una quindicina d’anni, quando il Giudizio di Paride del Bargello sotto il cui nome si raggruppa l’opera dell’ancora anonimo maestro è datata al principio della terza decade

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e il manufatto araldico sarebbe stato realizzato in occasione della venuta al mondo della figlia primogenita Margherita, nata il 21 maggio 1447, ma morta infante di tre mesi («affogata dalla nutrice», stando alle tavole delle Famiglie celebri italiane, opera avviata da Pompeo Litta Biumi nel 1814). Almeno per quanto riguarda le famiglie coinvolte, tale identificazione è ineccepibile. La lezione warburghiana, tuttavia, insegna che «nel dettaglio» sta il bandolo della matassa, in questo caso genealogica. Senza approfondire le ricerche in ambito archivistico, infatti, ma dando una semplice scorsa alle tavole dedicate

del secolo? Perché, mentre non sembra intravvedersi precedente stemma sotto l’arme Aldobrandini, è per contro evidente che quella degli Alberti ne occulta altra preesistente, ma non senza lasciar intuire la sagoma di un leone. Con ogni probabilità, si tratta, dunque, di un prezioso oggetto di uso domestico «riciclato» in famiglia, piuttosto che acquistato sul «mercato secondario» (una prassi del resto corrente): manca, tuttavia, al nostro puzzle la moglie e madre cosí disinvoltamente rimpiazzata dalla innominabile Alberti (l’una o l’altra: poco conta si tratti di monna Nicolosa o di monna Manna Alberti, dicembre

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5. Stemma dei Rinaldeschi da Prato, il cui stemma è identico a quello dell’antica casa magnatizia fiorentina degli Amidei. 4. Il drappo araldico che compare sul cassone Adimari ruotato di 180°.

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dato che la cronologia dell’opera dipende piuttosto dallo stemma piú risalente, sottostante a quello di casa loro). Come già suggerito dall’occhio di Mina Gregori, infatti, dovrebbe trattarsi di un’opera riferibile a un intervallo precedente, identificato dalla studiosa nel primo lustro del quarto decennio del secolo.

3. Fronte del cassone detto «Adimari», opera dello Scheggia. Firenze, Galleria dell’Accademia. 7. Stemma dei Da Panzano, consorti dei Ricasoli Firidolfi.

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Anche l’«opzione Nasi», che inizialmente mi sembrava la piú plausibile – ammesso e non concesso che siano queste le sole nozze del periodo fra Aldobrandini e Alberti –, si è infatti rivelata da scartare.

Alla ricerca del nome Neppure la madre dei due fratelli Aldobrandini ricordati, però, è «papabile»: stando alle tavole del Litta – al quale potrebbe tuttavia essere sfuggito il matrimonio «buono» –, essa dovrebbe essere, una Orlandini o una Bardi, famiglie che però, strano a dirsi, non portano il leone! Considerando la cronologia del desco, un’omissione del Litta è plausibile; in alternativa, si potrebbe ipotizzare che lo storico abbia mal letto e quindi interpretato il gentilizio della prima moglie di Salvestro Aldobrandini: quasi procedendo come per un cruciverba, cercando un casato principiante per N e di quattro lettere, potremmo pensare a una gentildonna di Casa

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Nori, consorti dei cattani da Diacceto/ Ghiacceto, e come questi ultimi portanti – finalmente – il leone che andavamo cercando... E dunque? E dunque, in attesa che forse indagini di laboratorio ci permettano di vedere sotto la pellicola pittorica recenziore, per quanto possibile, lo/gli stemmi precedentemente dipinti su lamina argentea, non ci resta che contentarci di aver retrodatato – tanto o poco – il desco in oggetto, e di aver curiosato fra le pareti domestiche di una casata assurta a ben maggiori glorie con il pontificato di Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini, 1536-1605) e con il cardinale nepote Pietro (1571-1621), patrono di Gian Battista Marino e di Gerolamo Frescobaldi, nonché grande collezionista d’arte. Per tornare al fratello di Masaccio, specialista, come già detto, oltre che in deschi da parto e spalliere, anche in cassoni (per la precisione nella documentazione coeva denominati piuttosto forzieri a Firenze e a Siena cofani), vale la pena aggiungere qualche nota araldica per meglio situare il pezzo nella Galleria dell’Accademia fiorentina, noto come Cassone Adimari. Un’opera che, fino a quando Luciano Bellosi non propose di ricondurre (1969) allo Scheggia medesimo anche la di lui produzione, dette nome – la definizione è di Roberto Longhi (1926) – a un fantomatico Maestro del Cassone (che è in realtà una spalliera, come risulta evidente 6. Due varianti dello stemma dei Da Ricasoli fiorentini, stirpe dell’antica nobiltà rurale di estrazione cavalleresca discesa dalla consorteria dei filii Ridolfi-Firidolfi.

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1. Stemma dei Cesani pisani, identico a quello dei concittadini Lante, ovvero parlante, se gli uccelli, invece che aquile, dovessero essere intepretati come cesene siffattamente nobilitate. 2. Stemma timbrato da galero cardinalizio dei Lante di Pisa, assurti a Roma a rango ducale e che aggiungono al proprio il casato Della Rovere. dalle grandi dimensioni) Adimari. Tale denominazione, tuttavia, rende evidentemente conto di un passaggio successivo, ma non giustizia alla committenza originaria: un erudito sei-settecentesco, il canonico fiorentino Salvino Salvini, identificava infatti l’occasione con gli sponsali tra Boccaccio Adimari e Lisa Ricasoli (22 giugno 1420), ma, proprio in forza di un dettaglio araldico, credo di poter confutare tale affermazione – che contrasta, tra l’altro, con la cronologia ormai acquisita dello Scheggia, nato nel 1406 – , proponendo una committenza diversa. Inoltre, il nobilissimo ed evidente troncato d’oro e d’azzurro Adimari non compare affatto.

Quel panno che pende... Il religioso, infatti, potrebbe aver equivocato un dettaglio che, invece, ritengo sufficiente per avanzare la mia ipotesi a scapito della sua: si tratta del panno che pende – al contrario – dalla panchetta in primo piano, e su cui è ripetutamente raffigurato uno scudo torneario – sagomato cioè per 4 appoggiarvi la lancia in resta – fasciato d’oro (mi pare, piuttosto che d’argento) e di rosso. Ebbene, un tale stemma potrebbe essere il proverbiale «ago nel pagliaio», se non conoscessimo l’ambito geografico del

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3. Particolare raffigurante lo stemma dello sposo, probabilmente un Lante, su un cassone con Exempla amorosi allegorici. Bottega forse pisana. Castello di Gallico, Collezione Ing. Simonpietro Salini.

ai quali appartenne almeno il miles Ranieri sepolto in S. Maria Novella e assurta al priorato nel 1390. Costoro portavano non propriamente un fasciato d’oro e di rosso, ma un similare d’oro, a tre fasce di rosso: considerando che solo parte degli scudi sul drappo sono visibili, reputo l’ipotesi identificativa plausibile. Analoga arme portò la casa magnatizia degli Amidei fiorentini: ma la loro uscita dalla scena politica comunale rende tale ipotesi meno verosimile.

Invito alla visita

Concludo invitando i lettori a visitare la mostra Le opere e i giorni, dedicata dal Museo Stibbert agli Exempla virtutis, favole antiche e vita quotidiana nel racconto dei cassoni rinascimentali (fino al 6 gennaio 2016; info: www. museostibbert.it). In quella sede, l’araldista potrà esercitare con pezzo per la sua – come detto per profitto la propria connoisseurship: il leone araldico – frequenza (a fors’anche restituendo a Pisa quel Siena, per esempio, tale fasciato era cassone, di collezione Salini e portato da una famiglia Alessi, del conservato nel castello di Gallico, Monte dei Nove): il poterne invece dato per senese in catalogo (pp. circoscrivere l’esecuzione alla città 137-139). Infatti, l’arme a sinistra e medicea ci consente di riferibile quindi allo sposo 3 comprendere sia ciò che è un di rosso, a tre aquile può aver tratto in inganno d’argento: che, stemma il nostro canonico, sia di ignoto alla città della quale casata si tratti. Vergine, è invece quello Infatti, se è vero che dei Lante pisani (come i da Ricasoli, uno dei dei concittadini Cesani, rami in cui si suddivise perciò probabilmente tra prendendo nome loro consorti: ove non si dall’omonimo castello la tratti di arma parlante, potente consorteria rurale essendo state le cesane medievale dei filii Ridolfi (Firidolfi), promosse a rango di aquile). Chi portavano (anche) uno stemma ha schedato l’opera, poi, rileva la similmente fasciato, ma con un presenza sottostante di un grifo, leone attraversante, simile a quello che orna i lati brevi riscontriamo un’altra del cassone, ove l’animale chimerico casata – pure di parrebbe esser d’oro in campo status adeguato per rosso: si tratterebbe in tal caso dello rendersi committente stemma parlante dei Griffi, anch’essi di un’opera di livello – pisani. Un dato, quest’ultimo, che porta tale araldica: che rinforzererebbe l’ipotesi di i Rinaldeschi di Prato, un’origine del manufatto dalla città della torre pendente ed è un ulteriore 4. Stemma parlante dei esempio di «riciclaggio araldico». Griffi pisani. Niccolò Orsini De Marzo dicembre

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Lo scaffale

Chiara Frugoni Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi

Einaudi, Torino, 612 pp., ill.

80,00 euro ISBN 978-88-0622098-3 www.einaudi.it

In questo volume splendidamente illustrato, Chiara Frugoni, la piú accreditata studiosa di Francesco e di iconologia francescana, offre, oltre a un’inedita chiave interpretativa dell’intera Basilica superiore, una straordinaria galleria di nuovi particolari visivi finora sfuggiti agli studiosi, di cui fornisce, di volta in volta, l’esauriente spiegazione.

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Secondo l’autrice, gli affreschi, legati l’uno all’altro, dipendono da un unico e coerente programma; fu realizzato però in tempi diversi, da Cimabue in poi, fino al ciclo dedicato al santo, dipinto sotto Nicola IV (1288-92), il primo papa francescano, ciclo che si basa sulla Legenda maior di Bonaventura. Gli episodi dell’Apocalisse e storie degli apostoli, dipinti da Cimabue nell’abside, dialogano con quelli, di circa una decina d’anni dopo, della controfacciata, di cui il volume propone una spiegazione inedita. Importante è un dettaglio: nella Predica agli uccelli,

le colombe scese ad ascoltare Francesco risalgono in cielo e si trasformano nelle nuvole dell’Ascensione di Cristo. L’Ordine francescano è, secondo fonti pseudo-gioachimite, un Ordine «colombino» e proprio la voce di Gioacchino da Fiore, soprattutto mediante le opere che gli furono attribuite, diventa, attraverso il prudente filtro di Bonaventura, il cardine dell’identità francescana. Il santo, come voleva lo pseudo-Gioacchino, è cosí identificato, per l’inaudito miracolo delle stimmate, con l’apocalittico Angelo del sesto sigillo, dipinto da Cimabue nell’abside. Ed ecco un’altra novità: il ciclo francescano ha come fonte, oltre la Legenda maior di Bonaventura, un’altra sua opera, le Collationes in Hexaëmeron. Francesco, nelle Collationes, è il prototipo di un Ordine perfetto, puramente contemplativo, che si realizzerà però quando la Chiesa sarà divenuta anch’essa del tutto contemplativa. Veniva cosí sanato il contrasto fra gli ideali di strettissima povertà voluti dal santo e quelli, molto

diversi, dei frati del tempo delle storie francescane (1288-92 circa), che potevano lecitamente vivere in bei conventi, studiare e insegnare, perché si preparavano all’attuazione del piano divino. Negli affreschi Francesco, a piedi nudi e con la barba, in preghiera e in contemplazione, è accanto ai confratelli dediti invece alla vita attiva, con i sandali, accuratamente rasati, perché ormai tutti chierici. Nell’abside però già si mescolano agli eletti ai piedi del trono di Cristo e Maria. Oltre alla novità della chiave interpretativa molti sono i particolari rintracciati e spiegati, per esempio l’aquila dipinta da Cimabue, quella che svetta sul fastoso S. Damiano, la passerella della porta urbana che sta per cadere e i diavoli in caricatura nella scena dell’Estasi. Viene anche spiegato il soggetto del monocromo della colonna coclide che chiude l’ultimo episodio delle storie di Francesco, con l’esotico corteo di cammelli e di pagani che si lega agli adiacenti episodi dell’Apocalisse di Cimabue. (red.)

Giovanni Coppola L’edilizia nel Medioevo

Carocci Editore, Roma, 344 pp., ill. b/n

28,00 euro ISBN 978-88-430-7728-1 www.carocci.it

Il manuale applica all’architettura medievale un approccio da tempo consolidato in altri ambiti degli studi sull’antico, cioè quello che mira a tracciare un profilo degli uomini ai quali si devono gli oggetti analizzati. In questo caso si tratta, innanzitutto, dei grandi e piccoli cantieri avviati per la realizzazione di chiese e cattedrali, che del Medioevo sono una delle espressioni piú tipiche. Come spiega lo stesso autore nell’Introduzione, questa rilettura del fenomeno è stata condotta anche grazie al contributo di nuove metodologie di indagine (per esempio l’analisi stratigrafica degli alzati o l’etnoarcheologia),

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale che hanno messo a disposizione degli studiosi un repertorio di dati e informazioni assai piú ampio di quello desumibile dallo studio delle fonti e/o dall’esame stilistico o tecnico delle costruzioni. Nei primi capitoli, dunque, sfilano alcuni dei protagonisti principali di queste «storie di pietra», quali i committenti e gli architetti, seguiti da quelli che

Coppola definisce semplicemente «uomini», ma che, per certi versi, sono in realtà le pedine piú importanti del gioco. Si tratta, infatti, di quella vasta e composita schiera di artigiani e operai specializzati, che diedero forma concreta alle geometrie e ai volumi di volta in volta progettati. Nei capitoli successivi, l’attenzione si sposta sugli aspetti piú tecnici, analizzando

materie prime e sistemi di costruzione: anche in questo caso, tuttavia, non si fatica a coglierne le rilevanti implicazioni sociali, se solo pensiamo a come lo sfruttamento di una cava o l’organizzazione di un cantiere necessitassero di un’organizzazione ben precisa della manodopera e, al contempo, ne costituissero la fonte di sostentamento. Stefano Mammini

Cristiano Antonelli San Giorgio e la Rosa Edizioni Thyrus, Arrone (Terni), 256 pp.

20,00 euro ISBN 978-88-6808-016-7 www.edizionithyrus.it

Scarse e nebulose sono le notizie biografiche su san Giorgio, che avrebbe servito come militare al tempo di Diocleziano e subíto il martirio prima dell’ascesa al trono di Costantino, a Lydda, città dell’antica Palestina. In compenso, celeberrima è la leggenda che lo vuole vincitore di un drago e che ne ha fatto, oltre che il destinatario di una devozione

Suoni senza frontiere MUSICA • Dalle melodie della tradizione basca

alle contaminazioni maturate in terra ottomana: è questo il viaggio proposto da due pregevoli antologie. Testimoni dell’universalità di un linguaggio che ha radici davvero ancestrali

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opo aver passato in rassegna tradizioni arabo-andaluse, sefardite, balcane, armene, turche, l’etichetta AliaVox ci stupisce ancora una volta con Euskel Antiqva, raccolta in cui la cultura musicale basca è al centro di un itinerario di cui si ripercorrono le varie fasi cronologiche, dalla tradizione orale medievale – sviluppatasi in forma scritta tra il XV e il XVI secolo – fino ai secoli piú recenti, quando comunque non viene meno il profondo legame con prassi esecutive e modalità di trasmissione che ci rimandano all’età di Mezzo. L’antologia propone canti e danze

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tradizionali che mettono in risalto le peculiarità dello stile vocale e dell’ampio apparato strumentale, che, accanto al violino, contempla violone, organo, percussioni, nonché strumenti aerofoni tipici della tradizione basca, come l’alboka (derivato dall’arabo al-bûq) e il txistu (flauto a tre fori), ma anche il sitar indiano. Grazie all’incontro tra strumenti della tradizione occidentale e baschi e alla commistione di influenze musicali diverse Euskel Antiqva offre alcune perle, come il brano tradizionale Ürrütiko Kantorea – la cui melodia

Euskel Antiqva. Le Legs Musical Du Pays Basque Euskal Barrokensemble Alia Vox (AV9910), 1 CD 17,00 euro http://aliavox.com

dicembre

MEDIOEVO


ampia e sentita, una vera e propria icona dell’eroismo cavalleresco. È perciò una materia vasta e articolata quella con cui si cimenta Cristiano Antonelli, nel tentativo di verificare e di analizzare criticamente il ricchissimo repertorio delle fonti e delle tradizioni accumulatesi nel corso dei secoli. Un’analisi attraverso la quale si può cogliere la straordinaria fortuna di cui il santo e il suo

culto hanno goduto, soprattutto in epoca medievale. S. M.

PER I PIÚ PICCOLI

Brigitte Coppin, con illustrazioni

Deborah Pinto Vivere in un castello

di

Editoriale Scienza, Firenze, volume pop up (20 pp.)

15,90 euro ISBN 978-88-7307-758-9 www.editorialescienza.it

Il volume conduce i suoi giovanissimi

fruitori alla scoperta di un castello del XIII secolo, cogliendo e illustrando l’aspetto piú importante di simili contesti, cioè quello dell’essere non soltanto strutture difensive. Le mura di un castello, infatti, costituivano spesso la cintura entro la quale si sviluppava e viveva l’intero villaggio, i cui abitanti, in caso di pericolo, utilizzavano la parte fortificata vera e

propria come rifugio. E cosí, nelle sezioni del libro, c’è spazio per descrivere quel che poteva accadere in un giorno di festa, l’organizzazione e lo svolgimento di un

Aashenayi. Rencontre musicale en terre ottomane Canticum Novum, Emmanuel Bardon Ambronay (AMY043), 1 CD 19,90 euro http://editions.ambronay.org

ricorre in numerose fonti europee del XVI secolo – o come Con amores, la mi madre, dello spagnolo Johannes de Anchieta (XV secolo), basato su un ritmo tipicamente basco. Originale si rivela l’incontro tra cultura basca e persiana nel brano Koumis-Ezpatadantza, mentre affascina l’assolo vocale di Argizagi ederra, brano ritrovato nel paese basco-francese di Iparralde, la cui melodia popolare evidenzia l’influenza del canto liturgico. Molteplici sono le sonorità e gli stili vocali-strumentali proposti

MEDIOEVO

dicembre

dalla raccolta, manifestazioni delle mille sfaccettature di un repertorio che colpisce per vitalità e ricchezza espressiva, esaltate appieno dall’Euskal Barrokensemble diretto da Enrike Solinís, un gruppo di recente formazione dedito alla musica antica. Accanto agli strumenti citati, completano l’ensemble sei ottimi solisti di canto, tra i quali spicca Maika Etxekopar, artista basca alla quale si devono splendidi assolo.

Un antico crocevia Ispirata al termine persiano «aashenay» (incontro), anche l’antologia Aashenayi si muove nell’ambito delle tradizioni etniche,

torneo, oppure la pratica delle attività quotidiane e dei lavori piú diffusi, dalla coltivazione della terra alle produzioni artigianali. Una fotografia vivace e puntuale, insomma, di uno dei simboli del Medioevo, capace di insegnare come i secoli che in esso sono compresi non furono certo un’epoca «buia». S. M.

con un saggio delle culture musicali che, per contiguità geografica, hanno avuto modo di incrociarsi appunto in territorio ottomano, crocevia tra l’Occidente e l’Oriente. In questo progetto, nello spirito dello scambio interculturale, musicisti di diversa provenienza ci rivelano le piú disparate prassi esecutive di tradizioni orali (è il caso dei brani sefarditi e persiani) e scritte (nel caso dei brani ottomani, armeni e spagnoli), in un tripudio di sonorità che ci raccontano di un universo sonoro esteso dall’Afghanistan alla Spagna. Musiche le cui origini ci riportano al Medioevo, con assaggi di cantigas di Alfonso X el Sabio, per passare attraverso tradizioni strumentali e vocali balcaniche, persiane, turche... Notevole è la performance del Canticum Novum diretto da Emmanuel Bardon, che, in un riuscito dialogo interculturale, riunsice musicisti capaci di cimentarsi con maestria con gli strumenti delle varie tradizioni coinvolte nel progetto. Franco Bruni

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