Medioevo n. 226, Novembre 2015

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MEDIOEVO n. 226 NOVEMBRE 2015

EDIO VO M E



SOMMARIO

Novembre 2015 ANTEPRIMA ALMANACCO DEL MESE

5

SCOPERTE Lunetta con formula

6

ITINERARI Nella terra dei due Gesualdi

8

CIVILTÀ COMUNALE/1 Che il carroccio sia con noi! di Furio Cappelli

COSTUME E SOCIETÀ

58 LUOGHI SAPER VEDERE Cantú Per la gloria di Ariberto di Elena Percivaldi

RESTAURI Il portale si fa bello Un «acciarino magico» per il cero pasquale APPUNTAMENTI Natale tra i cantoni Ezelinga, libera e ricca L’Agenda del Mese

LA PRIMA BOLLA GIUBILARE La minuta che vale un tesoro

58

11

MEDIOEVO NASCOSTO

14

Nel castello di Ugone

16 17 20

CALEIDOSCOPIO

Stroncone

di Agnese Morano

STORIE di Federico Canaccini

38

48 28

IMMAGINARIO

Il paese di Cuccagna

Chi piú dorme, piú guadagna di Claudio Corvino

28

48

98

CARTOLINE Eva contro Eva

104

ARALDICA I cavalieri del cigno

108

LIBRI Lo scaffale

112

MUSICA Religiose di ieri e di oggi

112

Dossier

GLI ARMENI,

POPOLO SENZA PACE di Renata Salvarani

73


MEDIOEVO Anno XIX, n. 226 - novembre 2015 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352 Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it

Illustrazioni e immagini: Archivi Alinari, Firenze: pp. 40/41, 95, 101 (alto), 102 (alto); BeBa/Iberfoto: copertina; RMN-Grand Palais (Musée de ClunyMusée national du MoyenÂge)/Michel Urtado: p. 30; su concessione MiBACT/Raffaello Bencini: p. 32 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 6, 7 (sinistra) – Cortesia dell’autore: pp. 7 (destra), 8-10, 15 (destra), 16, 35 – Cortesia Fondazione Musei Civici, Venezia: p. 11 – Cortesia Opificio delle Pietre Dure, Firenze: pp. 14, 15 (sinistra) – Doc. red.: pp. 28, 33, 34, 36, 42-43, 79, 83 (alto), 90, 92, 100 (basso), 101 (basso), 102 (basso), 103 – DeA Picture Library: pp. 46, 48/49; Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 31; A. Dagli Orti: p. 54; W. Buss: p. 71; L. Romano: p. 78 – Foto Scala, Firenze: pp. 36/37, 74/75, 77; Andrea Jemolo: p. 40 – Mondadori Portfolio: Leemage: pp. 39, 51; AKG Images: pp. 88/89 – Shutterstock: pp. 44-45, 80/81, 82/83, 84/85, 86/87 – Cortesia Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli», Milano: pp. 50/51, 52-53, 56 – Luca Merisio-Lyasis Edizioni: pp. 59, 62-70 – Marka: Wojtek Buss: pp. 60/61; Alain Schroeder: pp. 98/99 – Bridgeman Images: p. 93; Pictures from History: pp. 73, 96/97 – Erich Lessing Archive/Magnum/Contrasto: p. 86 – Getty Images: Karen Minasyan/AFP: 94 – Da Il castello eugubino di Carbonana e i suoi signori, Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, Perugia 2015: pp. 104-105, 107 – Cortesia Sandro Bellu: p. 106 (alto) – Cortesia Università di Bologna: Andrea Fiorini: p. 106 (basso) – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 60, 74, 91, 100. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l.

Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Claudio Corvino è antropologo.Mila Lavorini è giornalista. Sonia Merli è storica del Medioevo. Agnese Morano è storica dell’arte. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Stefania Romani è giornalista. Renata Salvarani è ricercatore di storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Università degli Studi Europea di Roma. Tiziano Zaccaria è giornalista.

Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

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In copertina ritratto di Bonifacio VIII, olio su tavola di Cristofano dell’Altissimo. 1552-1568. Firenze, Galleria degli Uffizi

Nel prossimo numero dinastie

saper vedere

Gli Aldobrandeschi, una famiglia comitale

Palazzo Medici-Riccardi a Firenze

immaginario

dossier

Una cometa venuta dall’Oriente

I Borgia: una dinastia tra Medioevo e Rinascimento


Almanacco del mese

a cura di Federico Canaccini

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1 novembre 1179

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2 novembre 1327

Filippo II viene incoronato re di Francia: sarà detto Augusto e porterà gran parte del Paese sotto il controllo capetingio Muore Giacomo II d’Aragona, detto «il Giusto» U

3 novembre 644

Il Califfo Omar viene ucciso da uno schiavo presso la moschea di Medina

4 novembre 5 novembre 1348 U

U

La città di Arezzo, conquistata da Enguerrand de Coucy, viene venduta a Firenze per 40 000 fiorini d’oro U

6 novembre 1153

Con il trattato di Wallingford, si conclude la lotta di successione al trono inglese tra Matilda, figlia di Enrico I e Stefano di Blois, suo cugino

7 novembre U 8 novembre 9 novembre 1282 U

U

Pietro III d’Aragona, erede degli Hohenstaufen, strappa la Sicilia agli Angioini e viene scomunicato da Martino IV U

10 novembre 1444

L’esercito cristiano guidato da Ladislao III viene sconfitto da Murad II presso Varna U

11 novembre 1417

Durante l’interminabile Concilio di Costanza, viene eletto papa Martino V

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16 novembre 1532

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17 novembre 1292

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18 novembre 1302

In Perú Francisco Pizarro cattura l’ultimo Inca, Atahualpa Viene eletto re di Scozia Giovanni Balliol; abdicherà dopo appena quattro anni nel contesto delle lotte con gli Inglesi Emanando la bolla Unam Sanctam, Bonifacio VIII promulga la teocrazia U

19 novembre 496

Muore Gelasio I, papa attivo contro i culti eretici e pagani dei primi secoli U

20 novembre 1183

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21 novembre 1361

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22 novembre 1286

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23 novembre 1248

Baldovino V diventa re di Gerusalemme a soli 5 anni di età Muore Filippo I, duca di Borgogna Eric V, re di Danimarca, viene accoltellato nel sonno a Finderup, presso Viborg Ferdinando III, a capo di un esercito cristiano, conquista la città di Siviglia U

24 novembre 642

Appoggiato dall’esarca bizantino, Teodoro I è eletto papa U

25 novembre 1177

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26 novembre 1461

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27 novembre 1095

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28 novembre 1443

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29 novembre 1223

A Montgisard le truppe crociate battono il Saladino Un terribile terremoto distrugge L’Aquila

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12 novembre 1283

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13 novembre 14 novembre 1263

Il condottiero Giorgio Castriota «Scanderbeg» conquista il castello di Croia e si proclama «vendicatore d’Albania»

15 novembre 1315

Con la bolla Solet annuere, papa Onorio III approva la Regola (poi detta «bollata») di Francesco d’Assisi

Gherardo da Camino diventa il nuovo signore di Treviso U

Muore il principe russo Aleksandr Nevskij, già vincitore della battaglia del lago dei Ciudi contro i Cavalieri Teutonici U

Presso Morgarten, la fanteria svizzera decima i cavalieri austriaci, accelerando il processo di indipendenza dei cantoni

A Clermont papa Urbano II invita la cristianità alla crociata

U

30 novembre 912

Muore l’imperatore Ottone I di Sassonia


ANTE PRIMA

Lunetta con formula SCOPERTE • Un recente studio ha dimostrato che una parte della decorazione

del portale di S. Nicola, a Pisa, non è un semplice gioco di simmetrie, ma si ispira alla successione numerica elaborata dal celebre matematico Leonardo Fibonacci

È

un richiamo esplicito alle scoperte del primo grande matematico dell’Occidente cristiano, Leonardo Fibonacci (vedi box qui sotto), ed è riemerso grazie a un recente restauro che ha riportato i marmi della chiesa di S. Nicola in via Santa Maria all’antico splendore. Un recente studio di Pietro Armienti, docente di petrologia e petrografia dell’Università di Pisa, ha permesso di interpretare le eleganti geometrie dell’intarsio della lunetta sopra l’originario portale principale come un riferimento alla celebre successione numerica individuata dal matematico pisano. «Per secoli, i segni del tempo avevano reso illeggibili gli intarsi della facciata della chiesa, la cui costruzione, che risale al XIII secolo, viene da molti attribuita a Nicola Pisano – commenta Armienti –. Dopo il restauro, il messaggio scolpito nella lunetta del portale

è emerso in tutti i suoi dettagli e ci ha permesso di dimostrare che il pregevole manufatto – che ha comportato il lavoro congiunto di matematici, teologi e artigiani – celebra le intuizioni che segnarono a Pisa la nascita di una scuola di pensiero capace di trasformare la

Un ammiratore convinto dei «colleghi» arabi Figlio di un mercante pisano, Leonardo Fibonacci (1170 circa1235 circa; vedi anche «Medioevo» n. 195, aprile 2013; anche on line su medioevo.it) studiò in Algeria, dove soggiornò a lungo; in seguito compí alcuni viaggi lungo le coste del Mediterraneo (Egitto, Siria, Grecia, Sicilia), durante i quali ebbe modo di approfondire lo studio della matematica araba e orientale di cui riconobbe la superiorità nei metodi di calcolo. Intorno al 1200 tornò a Pisa e nel 1202 pubblicò il Liber abbaci, che contiene un’esposizione delle operazioni elementari con le cifre arabe, un’ampia trattazione delle frazioni, uno studio dei radicali quadratici e cubici e varie questioni di carattere algebrico e geometrico; particolare interesse rivestono alcuni capitoli che trattano di aritmetica commerciale. L’opera costituí per secoli un testo fondamentale di studio e contribuí efficacemente alla diffusione nel mondo occidentale della notazione posizionale indo-araba.

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visione medievale del mondo e di fare della città la culla del pensiero scientifico moderno».

Il gioco dei cerchi e degli spicchi Secondo l’interpretazione del professor Armienti, le eleganti simmetrie dell’opera sono un richiamo diretto alle scoperte del matematico pisano: «Se si assume come unitario il diametro dei cerchi piú piccoli dell’intarsio, i piú grandi hanno diametro doppio, i successivi triplo, mentre quelli di diametro 5 sono divisi in spicchi nei quadratini ai vertici del quadrato in cui è inscritto il cerchio principale, quello centrale ha diametro 13, mentre il cerchio che circoscrive i quadratini negli angoli ha diametro 8. Gli altri elementi dell’intarsio, disposti secondo tracce circolari, individuano circonferenze di raggio 21 e 34, infine il cerchio che circoscrive l’intarsio ha diametro 55 novembre

MEDIOEVO


Nella terra dei due Gesualdi

ITINERARI • L’Irpinia può vantare un patrimonio

architettonico e storico-artistico di grande pregio, nel quale sono comprese anche molte testimonianze significative dell’età medievale

In alto Pisa. La chiesa di S. Nicola. Nella pagina accanto la lunetta del portale con l’intarsio che si ispira alla serie numerica di Leonardo Fibonacci. volte piú grande del circolo minore. 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55 sono i primi nove elementi della successione di Leonardo Fibonacci». Per Armienti, il riferimento non potrebbe essere piú esplicito e collega direttamente l’intarsio all’opera del grande matematico o a una cerchia di suoi diretti collaboratori o allievi: «L’intarsio di fatto è un abaco per rappresentare numeri irrazionali come p o il rapporto Aureo f, oltre che per calcolare con un’ottima approssimazione i lati dei poligoni regolari inscritti nel cerchio diametro maggiore. Si tratta dunque di un importante monumento la cui presenza era stata concepita per l’educazione delle élite, secondo il programma della filosofia scolastica: un dono prezioso della sapienza degli antichi giunto dopo ottocento anni di oblio e la cui presenza va valorizzata». (red.)

MEDIOEVO

novembre

P

olmone verde nell’entroterra campano, l’Irpinia è da sempre un bacino idrico straordinario, che fornisce acqua alle zone circostanti, con corsi che raggiungono anche la Puglia. Questo territorio autentico, legato a doppio filo al suo passato e alle sue tradizioni, conserva testimonianze di epoca longobarda, romanica e gotica, sopravvissute a ripetuti e devastanti sismi. Il progetto «Irpinia Madre Contemporanea» – con un ricco cartellone di mostre, proiezioni, concerti – intende valorizzare un’area di forte spessore culturale, che nasconde piú di un tesoro

Qui sopra Nusco (Avellino). Particolare dell’affresco conservato nella chiesa della SS. Trinità. Ultimi decenni dell’XI sec.

Errata corrige nell’Almanacco del mese dello scorso giugno (vedi «Medioevo» n. 221) l’emissione della bolla Comunitati et hominibus Terrae Sancti Marini, con la quale papa Pio II Piccolomini ratificava i patti di Fossombrone, fissando i confini della Repubblica di San Marino, è stata collocata nell’anno 1468, mentre invece l’evento ebbe luogo nel 1463. Dell’errore ci scusiamo con i nostri lettori.

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ANTE PRIMA

medievale, coinvolgendo centri avellinesi come Nusco, Sant’Angelo dei Lombardi, Rocca San Felice, Bisaccia e Gesualdo.

La «terrazza dell’Irpinia» Il nostro itinerario nell’età di Mezzo muove da Nusco: la «terrazza dell’Irpinia» si snoda a oltre 900 m d’altitudine lungo il crinale che divide la Valle del Calore da quella dell’Ofanto, regalando una vista senza eguali sui Monti Picentini, sulle colline dell’Appennino e sul profilo del Vulture. Di origine longobarda, il centro, documentato dal 1093, mantiene, nella parte alta dell’abitato, la fisionomia medievale, grazie all’intreccio di viottoli su cui si aprono palazzi con portali scolpiti. Il motore urbanistico di Nusco, che è stata a lungo diocesi, è la Cattedrale in pietra irpina dedicata al primo vescovo sant’Amato; la sua

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origine romanica è testimoniata dalla cripta del XII secolo. Oltre al Palazzo Vescovile, merita una tappa anche la chiesa della Santissima Trinità, che custodisce un pregevole affresco, riportato in luce grazie ai lavori successivi al terremoto del 1980: la parte alta, con Cristo e Maria circondati da angeli, è riconducibile agli ultimi decenni dell’XI secolo e ha legami con le pitture murali di S. Angelo in Formis e con le tendenze figurative introdotte a Montecassino dall’abate Desiderio; la parte inferiore, con i santi Cosma e Damiano, tradisce una cultura legata all’età angioina. Vicino alle sorgenti dell’Ofanto, nel territorio di Sant’Angelo dei Lombardi (devastata anch’essa dal sisma del 1980), sorge l’abbazia del Goleto, che prende il nome da una canna lacustre del posto. Un viale di tigli, ben curato, attraversa novembre

MEDIOEVO


MEDIOEVO

novembre

Nella pagina accanto Nusco (Avellino). Un particolare della facciata della Cattedrale.

il giardino d’ingresso e porta al complesso voluto dal monaco (e poi santo) Guglielmo da Vercelli (1085 circa-1142), che si fermò in Irpinia durante il pellegrinaggio alla volta della Terra Santa, senza mai raggiungerla. Colpisce l’imponenza della Chiesa Maggiore, priva del tetto dalla metà dell’Ottocento a causa di un incendio. Gli altri corpi di fabbrica, affacciati sul chiostro

In alto Rocca San Felice (Avellino). Le tipiche costruzioni in pietra del borgo. A sinistra l’abbazia del Goleto, nel territorio di Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino).

di destra, sono la torre di Febronia, eretta con materiale di reimpiego nel 1152 a scopo difensivo, e le due absidi della cappella di S. Luca.

Una convivenza inconsueta Questo luogo di culto, al quale si accede da una scala dell’altro chiostro, è stato realizzato a metà del Duecento, con l’aiuto di Federico II che mandò a Sant’Angelo dei Lombardi i Cistercensi. È interessante ricordare che nell’abbazia, fino al XVI secolo, convivevano due comunità, quella maschile e quella femminile di clausura, la piú potente, dalla quale dipendevano fra il Due e il Trecento una quarantina di chiese, con parroci nominati dalla badessa.

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ANTE PRIMA Sulla valle d’Ansanto svetta Rocca San Felice, un centro sorto attorno al castello del IX secolo. Per raggiungere il maniero, si percorre a piedi, fra stretti viottoli, un paesino con case in pietra e balconcini in ferro battuto. Ai piedi della struttura si staglia maestoso un tiglio secolare, piantato come «albero della libertà» dopo la rivoluzione francese. Del fortilizio, voluto come avamposto, rimangono il torrione a pianta tonda e tratti di mura che si costeggiano nella passeggiata, molto suggestiva con le luci notturne. All’interno è stato allestito un Museo archeologico, che conta reperti riferibili all’intera età medievale. Un’altra tappa è il castello di Bisaccia, sulla rupe del monte Calvario, a pochi minuti dalle colline brulle che oggi accolgono le pale Gesualdo (Avellino). Uno scorcio del borgo, con, in primo piano, la cupola della chiesa seicentesca del SS. Sacramento, piú nota come Cappellone.

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eoliche. Danneggiata dal sisma del 1930, Bisaccia è stata in gran parte ricostruita ex novo. Dell’antico abitato sopravvive il castello ducale, con la massiccia torre quadrata, in leggera pendenza, e gli ambienti attorno alla corte, nei quali è stato ricavato un Museo Archeologico con testimonianze dell’età del Ferro, provenienti da sepolture scoperte in località Cimitero Vecchio.

Come una «pigna capovolta» Di impronta diversa è Gesualdo, una «pigna capovolta» ad anelli concentrici che abbracciano il castello, digradando verso sud. Fondato dal condottiero longobardo Gesualdo, che passò sotto la sfera di influenza di Normanni, Svevi e Angioini, il borgo vanta scalinate maestose, saliscendi, vie di ampio respiro. Nella fase piú fortunata, la casata del centro campano era a capo di un feudo con proprietà nel Principato Ultra e nel Principato Citra, attuale provincia di Salerno. Risale al 1136-1137 la prima

citazione come rocca del centro, che diventa via via castello, baronia e signoria, quando la cittadella fortificata, con i suoi luoghi di culto, si apre verso l’esterno anche sul piano urbanistico. Il maniero medievale, a cui il madrigalista Carlo Gesualdo da Venosa (1566-1613) ha conferito l’aspetto della residenza signorile, offre una veduta su tutta l’Irpinia meridionale. In pieno Rinascimento il castello vantava un impianto idrico importante, articolato, con un dedalo di condotti che portavano l’acqua sorgiva sia ai palazzi nobiliari che al resto degli abitanti. Era una struttura che rimandava alla visione d’insieme di Carlo, appassionato di urbanistica, architettura e arti figurative, tanto da costituire una pinacoteca che, oltre a diversi fiamminghi, contava anche un Caravaggio. Per il calendario degli eventi che fanno capo al progetto Irpinia Madre Contemporanea: www. irpiniamadrecontemporanea.it Stefania Romani

novembre

MEDIOEVO


Il portale si fa bello

RESTAURI • Prende il via un intervento che riporterà

all’antico splendore uno degli ingressi monumentali alle sale pubbliche del Palazzo Ducale di Venezia

È

ai blocchi di partenza il restauro di un portale interno del Palazzo Ducale di Venezia, gioiello dell’architettura gotica e simbolo della Serenissima. «Il portale da restaurare fa parte della Scala d’oro, principale accesso agli appartamenti regali», spiega Arianna Abbate, architetto conservatore della Fondazione Musei Civici, che aggiunge: «Il complesso è stato restaurato negli anni Duemila; l’unica porzione mancante era appunto il portale sommitale che immette nelle sale pubbliche ed è ora oggetto dell’intervento che sta per partire». Lo scalone d’onore è stato realizzato su progetto di Jacopo Sansovino e poi ultimato dallo Scarpagnino (al secolo Antonio Abbondi), architetto d’origine lombarda. Destinata al passaggio di ambasciatori, magistrati e persone illustri, la struttura porta dal primo piano, quello colonnato delle Logge, ai due piani superiori. Dopo cinque rampe, si apre sull’Atrio Quadrato, un’anticamera degli ambienti in cui si riunivano gli organi di governo.

Motivi simbolici La Scala d’Oro, con una struttura architettonica costituita da pilastri in pietra scanalata, prende il nome dalla volta sovrastante a stucco, decorata a foglia d’oro, che incornicia dipinti di Tintoretto. I portali sommitali sono sormontati da arconi che raffigurano scene simboliche: soggetti ricorrenti nell’arte veneziana, come potenza,

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novembre

Venezia, Palazzo Ducale. Due immagini di uno dei portali della Scala d’Oro, di cui sta per essere avviato il restauro. forza militare, giustizia, richiamano anche episodi storici della Serenissima. Sugli stipiti il leone accovacciato in posizione frontale, con un libro chiuso, allude alla sovranità demandata alle magistrature. A proposito del ripristino, Abbate precisa: «Non siamo in presenza di un dissesto strutturale, serve solo un intervento di pulitura, in superficie. Il lavoro presenta difficoltà legate alle dimensioni e alla tridimensionalità delle sculture. Tutti gli elementi architettonici, comprese le paraste, sono infatti ad altorilievo, scolpiti nella pietra d’Istria, con figure principali a cui si aggiungono i camei». Sulle parti lapidee si è depositata una patina caratteristica degli interni, alla quale si aggiungono i trattamenti effettuati in epoche passate con cere e oli. Da qui la necessità di rimuovere le tracce delle vecchie protezioni, per poi passare alla pulitura dello strato sottostante. I lavori saranno condotti in gran parte a museo aperto, con ponteggi a vista, a eccezione della fase in cui si utilizzano i solventi, che verrà eseguita in orari di chiusura al pubblico. Tutto il ripristino durerà fra i cinque e i sei mesi e, dopo quello che immette nell’Atrio Quadrato, toccherà a un secondo portale. S. R.

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ANTE PRIMA

Un «acciarino magico» per il cero pasquale RESTAURI • È stato riportato alla magnificenza

originaria il prezioso contenitore per i carboni ardenti utilizzato nella processione che si svolgeva a Firenze in occasione della Pasqua In questa pagina e nella pagina accanto, a sinistra il Portafuoco in rame dorato e argentato restaurato dall’Opificio delle Pietre Dure. Il manufatto si compone di due parti, realizzate nel XIII e XIV sec.

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N

el 1096, rispondendo all’accorato appello di papa Urbano II, uomini provenienti da ogni parte d’Europa diedero vita alla prima crociata. Firenze aderí con entusiasmo, inviando 2500 soldati, capitanati da Pazzino di Ranieri de’ Pazzi, il quale per primo scalò le mura di Gerusalemme, innalzandovi il vessillo cristiano. Come riconoscimento per il valoroso atto, il duca Goffredo di Buglione – che aveva guidato la spedizione – gli donò tre scaglie di pietra del Santo Sepolcro. Pazzino tornò a casa nel 1101, portando con sé il prezioso regalo, che fu a lungo conservato nella cappella di Palazzo Pazzi, prima di essere trasferito nella chiesa di S. Maria sopra Porta (poi di S. Biagio). Con la soppressione dell’edificio religioso nel 1785, la custodia delle pietre passò alla chiesa dei Ss. Apostoli e invalse l’uso di esporre le reliquie alla pubblica venerazione nella mattina del Sabato Santo. Dal loro sfregamento si sprigionavano scintille che facevano ardere il «fuoco sacro» che avrebbe acceso il cero pasquale, successivamente, portato su di un carro da parata in Cattedrale, insieme ai carboni ardenti; novembre

MEDIOEVO


Ezelinga, libera e ricca

originariamente, durante il percorso, il fuoco veniva «distribuito» ai fedeli che aspettavano con in mano una piccola fiaccola, perpetuando il rito già in uso a Gerusalemme. Seppur con qualche variante, la cerimonia si è mantenuta nei secoli e oggi, nota come «scoppio del carro», ha luogo la domenica di Pasqua, con una processione accompagnata anche dai «tutori» del Portafuoco, appena restaurato dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze.

Un oggetto unico nel suo genere Oggetto di oreficeria sacra unico nel suo genere, realizzato in rame dorato e argentato e frutto dell’assemblaggio di due parti di epoche diverse (del XIII e del XIV secolo), è composto dal braciere formato da un grosso nodo baccellato nel quale trovano posto i carboni ardenti. Da questo, si dipartono due bracci, a forma di rami ritorti con foglie di acanto che terminano in due riccioli che si riuniscono in alto per sorreggere la colombina. All’interno di questa elaborata struttura, campeggia l’aquila che afferra con gli artigli un drago, stemma della Parte Guelfa. Instabilità strutturale, perdita cromatica della doratura e alterazione delle parti argentee sono stati gli elementi su cui si è focalizzato l’intervento di pulitura. Mila Lavorini

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novembre

A

meno di 20 km da Stoccarda, nel Baden-Württemberg, Esslingen am Neckar vanta una storia plurisecolare. La località è citata per la prima volta nel 777 in un documento dell’abate Fulrad, il cappellano di Pipino e Carlo Magno, che nella chiesa di «Ezelinga» portò le reliquie di san Vitale di Salisburgo, rendendola meta di numerosi pellegrini. Nel X secolo passò nelle mani di Liudolf, duca di Svevia. Esslingen ricevette i diritti di «città libera» nel 1229 sotto l’imperatore Federico II. Nello stesso periodo fu costruito il ponte tuttora esistente sul Neckar, che ne fece un importante centro per il commercio sulla rotta tra Italia, Svizzera e Germania del Nord. Tra il XIII e il XVI secolo la cittadina si scontrò piú volte con i conti di Württemberg, poi, nella prima metà del Seicento, quasi la metà della popolazione perí nella Guerra dei Trent’anni. Esslingen perse il suo status di «città libera» nel 1803, entrando a far parte del ducato di Württemberg.

Mestieri di un tempo antico Nelle quattro settimane prenatalizie, la cittadina ospita un grande Mercato Medievale (quest’anno dal 24 novembre al 22 dicembre), con piú di 200 stand. Fabbri, arrotini, cordai, cestai, vetrai, intagliatori, feltrai, calligrafi, sellai e altri artigiani creano oggetti utilizzando tecniche antiche. Mestieri che una volta erano parte integrante della vita cittadina, tuttora ricordati attraverso i nomi di strade, come la Webergasse (via della Lana), la Hafenmarkt (piazza delle Ceramiche) e la Küferstraße (via dei Tessitori). Il mercato è accompagnato da un folto programma culturale e di intrattenimento, con danzatori, mangiafuoco, menestrelli, trampolieri, trasformisti, maghi e giocolieri. Ogni giorno una parata storica si snoda per le vie del centro, mentre la piazza del Municipio ospita concerti di musica antica e spettacoli teatrali. T. Z.

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ANTE PRIMA

Natale tra i cantoni APPUNTAMENTI • Città grandi e piccole della Confederazione propongono

mercatini ricchi e vivaci, che perpetuano tradizioni antiche e offrono la possibilità di riscoprire i prodotti tradizionali dell’artigianato e della gastronomia. Accanto ai quali non mancano iniziative di carattere culturale, come spettacoli e concerti

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n Svizzera il Natale si celebra con particolare fervore religioso, ma è anche un momento legato allo svago, alla buona cucina e agli acquisti. Questa dimensione laica della festa si concretizza soprattutto nei mercatini di tradizione medievale, allestiti nei principali centri della Confederazione. Nati nel XV e XVI secolo, oggi hanno assunto una conformazione moderna e si svolgono solitamente

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nelle cinque settimane prenatalizie. A Montreux, nel Cantone di Vaud, lungo le rive del lago di Ginevra, circa 150 chalet addobbati e illuminati mettono in vendita i prodotti dell’artigianato locale e le specialità gastronomiche del territorio, in un ambiente caldo e festoso, fra animazioni musicali (dal 22 novembre al 24 dicembre). Il vicino Castello di Chillon è teatro di un mercato medievale e del Festival

del Racconto, che porta i visitatori nel mondo delle storie natalize e delle antiche leggende cavalleresche, fra magia, poesia, comicità, musica, danze e altre animazioni. A Losanna, sempre nel Cantone di Vaud, il Marché de Noël (dal 22 novembre al 24 dicembre) prevede l’allestimento di 50 chalet tradizionali nella piazza Saint-François, mentre in piazza de la Louve si può assistere a un suggestivo presepe vivente.

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Fino al 31 dicembre la città è allietata dalle installazioni luminose del Festival Lausanne Lumiéres. A Berna, il Mercatino di Natale (dal 29 novembre al 24 dicembre, e dal 28 al 31 dicembre) si svolge nella Waisenhausplatz, una delle piú belle piazze della città, Patrimonio dell’UNESCO. Le bancarelle offrono prodotti tipici dell’artigianato natalizio svizzero come i fiori secchi, gli oggetti in legno, le lanterne profumate, nonché proposte gastronomiche come il pan di zenzero, il sidro caldo e il vin brulé. Sempre nel Cantone di Berna, nel centro storico di Bienne, si svolge un mercatino (dal 3 al 24 dicembre) Nella pagina accanto una veduta dell’ultima edizione del mercatino natalizio che si organizza ogni anno a Zurigo, che, ospitato dalla locale stazione centrale, è il piú grande d’Europa.

con un’ottantina di casette che propongono prodotti dell’artigianato locale prevalentemente fatti in casa. Da non perdere, all’incrocio tra Nidaugasse e Dufourstrasse, lo stand del patriziato di Bienne allestito in una casa di legno canadese, dove gli operatori forestali offrono specialità tipiche dei boschi locali, dai funghi alla carne di cinghiale.

Acquisti e assaggi a due passi dai binari Zurigo ospita il piú grande mercatino natalizio coperto d’Europa all’interno propria stazione centrale (dal 22 novembre al 24 dicembre), con quasi 200 stand. Nel periodo dell’Avvento, il centro storico di Zurigo ospita altri mercatini all’aperto. Il piú suggestivo, sulla Werdmühleplatz, accoglie cori di bambini e adulti attorno al Singing Christmas Tree. Anche la

Sechseläuten Platz, sul Bellevue, ospita una ventina di bancarelle che vendono prodotti di alta qualità. A Basilea il mercatino si sviluppa (dal 26 novembre al 23 dicembre) fra la Barfüsserplatz e la Münsterplatz, tra i vicoli della «città vecchia». All’interno di bancarelle e tipiche casette di legno, ambulanti vendono oggetti dell’artigianato svizzero e specialità della cucina regionale. Come a Zurigo, anche a Lucerna il mercato natalizio si svolge nella stazione ferroviaria (dal 20 novembre al 24 dicembre), in una bella atmosfera, allietata da musicisti. Infine, nella stessa Lucerna, la Franziskanerplatz, la piazza adiacente alla chiesa di S. Francesco, è animata da bancarelle che propongono artigianato locale e specialità gastronomiche (dal 3 al 20 dicembre). Tiziano Zaccaria


ANTE PRIMA

L’ITALIA DEI «SACRI RESTI» Viaggio alla scoperta delle reliquie

Roma, basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Teca con reliquiari ottocenteschi in oro, argento e pietre preziose fra cui un reliquiario con frammenti della Vera Croce realizzato su disegno di Giuseppe, Valadier nel 1803. Nella pagina accanto capolettera miniato nel quale è raffigurata Elena, madre di Costantino, da un breviario dell’abbazia di Chertsey (Surrey, Inghilterra). Primo quarto del XIV sec. Oxford, Bodleian Library.

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IL NUOVO DOSSIER DI MEDIOEVO A Roma, ma non solo, fin dai primi secoli del Medioevo affluí una quantità impressionante di reliquie, alimentando una devozione che, da allora, non si è mai affievolita. Ma quali storie si celano dietro il recupero e la traslazione di tanti frammenti «miracolosi»?

L’

Italia è un Paese di devozioni, ma soprattutto di reliquie. Nel suo territorio si snodano antichi itinerari della fede, le cui tappe sono segnate da corpi di santi, da immagini miracolose, indumenti, frammenti della Croce, chiodi e pietre, spesso custoditi in luoghi nascosti all’interno delle chiese. Questa «rete segreta» della venerazione percorre l’intera Penisola, dalle Alpi alla Sicilia, ed evoca il sentimento piú profondo che animava tanti cristiani nell’età di Mezzo, disposti ad affrontare viaggi interminabili pur di avere un contatto ravvicinato con le spoglie dei grandi martiri, confidando nella loro intercessione. Il nuovo Dossier di «Medioevo» compie un viaggio attraverso i luoghi delle reliquie in Italia, dalle

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piú celebri a quelle sconosciute, rappresentando un’opera unica: dal Sacro Morso alla Madonna di San Luca, dal Santo Chiodo alla Corona Ferrea, dalla Sindone ai resti dei Magi, dalla lingua di Antonio da Padova alla Sacra Cintola di Maria, dal Santo Volto al Corporale di Bolsena, dal sangue di San Gennaro all’impronta di Michele Arcangelo, dai resti di San Nicola alle reliquie che affollano le chiese giubilari romane e tante altre ancora. Sono culti che convivono, talvolta, con forme di superstizione, ma che hanno profondamente inciso nella storia del nostro Paese. Del resto, spogliato delle sue tantissime reliquie, il Medioevo italiano sarebbe non solo poco autentico ma anche meno comprensibile…

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AGENDA DEL MESE

Mostre FIRENZE LA FORZA DEL MITO. I PROGETTI PER LA FACCIATA DELLA BASILICA DI SAN LORENZO A FIRENZE, DA MICHELANGELO AL CONCORSO DEL 1900 U Casa Buonarroti fino al 15 novembre

La basilica fiorentina di S. Lorenzo è tra le chiese simbolo della città, non solo perché per trecento anni ha avuto il ruolo di cattedrale, prima di cederlo a S. Reparata, ma anche perché è stata il luogo di sepoltura dei Medici.

a cura di Stefano Mammini

tempo, compresi Raffaello e Michelangelo (che poi ottenne l’incarico). Da quella gara è nata la mostra in Casa Buonarroti. info tel. 055 241752; e-mail: fond@ casabuonarroti.it; www.casabuonarroti.it PAVIA 1525-2015. PAVIA, LA BATTAGLIA, IL FUTURO. NIENTE FU COME PRIMA U Castello Visconteo fino al 15 novembre

A 490 anni dalla battaglia di Pavia, la città ricorda il cruciale scontro tra le armate francesi e quelle spagnole con una mostra allestita al Castello Visconteo, in un’ala appena restaurata e per la prima volta aperta al pubblico. L’esposizione presenta uno dei celebri arazzi

fiamminghi dedicati alla battaglia proveniente dal Museo di Capodimonte, e ripropone virtualmente gli altri sei pezzi della serie, consentendo al visitatore – grazie a installazioni multimediali e tecnologie innovative – di osservare e indagare ogni singola scena, scoprire i protagonisti e le loro storie, rivivere l’atmosfera del combattimento. info tel. 0382 399770; www.labattagliadipavia.it TORINO LINO, LANA, SETA, ORO. OTTO SECOLI DI RICAMI U Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica, Sala atelier fino al 16 novembre

Il termine «ricamo» deriva dall’arabo raqm: «segno», e «disegnare ad ago» è una pratica antichissima nel bacino

del Mediterraneo e in Oriente e, dal Medioevo, diffusa in tutta Europa. Si usano tutti i filati di origine vegetale o animale naturali o tinti, arricchiti da materiali preziosi, quali oro, argento, perle, coralli o conterie in vetro, paillettes metalliche, in plastica o di gelatina. Palazzo Madama espone oltre sessanta

manufatti della propria collezione, con una scelta che spazia dai ricami sacri medievali ad abiti degli anni Venti. Tra questi, possiamo ricordare: un cappuccio di piviale databile tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo; un quaderno manoscritto di disegni per ricami a inchiostro e tempera, dedicato alla «mirabile matrona Marina Barbo» nel 1538; un frammento di stolone di piviale, opera spagnola del 1590-1600, con allegri teschi infiocchettati, che ricorda il piviale raffigurato da El Greco in El entierro del conde de Orgaz, del 1586; ancora, un ricamo in lana svizzero-tedesco realizzato intorno al 1580, che unisce la raffigurazione della parabola delle vergini sagge e delle vergini

Una tradizione proseguita, salvo alcune eccezioni, fino ai granduchi e all’estinzione della casata. Nel dicembre del 1515, a quasi un quarto di secolo dalla fine della sua costruzione, papa Leone X de’ Medici bandí un concorso per realizzare la facciata mancante: stando al racconto di Giorgio Vasari, vi parteciparono i piú eminenti artisti del

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stolte alla raffigurazione degli Evangelisti e delle stagioni. info: tel. 011 4433501; www. palazzomadamatorino.it

rilanciato dagli studi recenti. Alla seconda metà del Cinquecento si datano inoltre un olio su lavagna (supporto destinato a quadri per devozione privata) di Felice Brusasorzi, e un’Adorazione dei Magi del ferrarese Giuseppe Mazzuoli, detto il Bastarolo. info tel. 051 265980; e-mail: info@fondantico.it; www.fondantico.it

CHANTILLY IL SECOLO DI FRANCESCO I. DA RE SOLDATO A MECENATE DELLE ARTI U Domaine de Chantilly, Salle du Jeu de Paume fino al 1° dicembre

Vittorioso a Marignano nel 1515, ma poi sconfitto a Pavia dieci anni piú tardi, Francesco I di Valois riuscí comunque a mantenere la corona di re di Francia. Ma come poté riuscire nell’impresa? Facendosi promotore delle arti e delle lettere: è questo l’assunto da cui prende le mosse la ricca rassegna allestita a Chantilly che, riunendo circa 200 opere e

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TORRITA DI SIENA

oggetti d’arte, ripercorre la vicenda biografica del sovrano e documenta la temperie culturale che segnò gli anni del suo regno. Figura esemplare di principe rinascimentale, Francesco I si circondò di eruditi e sapienti, chiamando a sé anche i migliori artisti del tempo. Si adoperò piú di ogni altro suo predecessore al fine di arricchire le raccolte reali, incoraggiò la diffusione dei libri e contribuí alla codificazione della lingua francese. Al suo fianco operarono alcuni fra i massimi protagonisti del Rinascimento transalpino, quali Henri Estienne, Ambroise Paré, nonché maestri del calibro di Leonardo da Vinci e Primaticcio, e poi letterati e scrittori come Guillaume Budé,

Clément Marot ed Étienne Dolet. info www. domainedechantilly.com BOLOGNA

MOSTRA BRANDANO. UN ROMITO SENESE DEL ‘500 FRA STORIA E LEGGENDA U Palazzo Pretorio di Montefollonico dal 5 al 20 dicembre

Bartolomeo Carosi, detto Brandano, è stato uno dei tanti «irregolari» che, fra Medioevo e

Rinascimento, hanno girato le campagne e le città; predicatori, eremiti, profeti, santoni, guaritori, ciarlatani a volte, che la Chiesa generalmente non ha neppure preso in considerazione, dal momento che le loro infervorate parole non affrontavano questioni teologiche o dottrinali e, quindi, non sono stati bollati come eretici. La vicenda di Carosi, però, è assai diversa da quella di coloro dei quali si ricorda appena il nome o si trova traccia solo in alcune cronache dell’epoca: sono moltissimi, infatti, i manoscritti sei-settecenteschi che riportano la vita di Brandano. E l’attenzione si è

ANTICHI MAESTRI ITALIANI. DIPINTI E DISEGNI DAL XVI AL XIX SECOLO U Galleria d’arte Fondantico fino al 23 dicembre (dal 7 novembre)

La Galleria d’Arte Fondantico organizza il XXIII «Incontro con la pittura», esponendo una quarantina di opere di maestri italiani e in particolare emiliani. Fra i dipinti piú antichi vi sono una Madonna col Bambino di uno dei piú importanti esponenti della scuola ferrarese del XVI secolo, Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, e una pala con San Girolamo, dipinta intorno al 1515 da Filippo da Verona, artista girovago

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AGENDA DEL MESE mantenuta viva anche nei secoli successivi. La mostra ripercorre dunque le fasi della fortuna bibliografica di Brandano, esponendo alcuni dei manoscritti e delle edizioni a stampa della vita di Bartolomeo Carosi e ne propone l’analisi ragionata, all’interno del catalogo. info tel. 0577 688214; cell. 389 7880645; e-mail: mv.ercolani@ comune.torrita.siena.it MONTEFALCO (PERUGIA) BENOZZO GOZZOLI. LA MADONNA DELLA CINTOLA U Complesso museale di S. Francesco fino al 30 dicembre

Dopo 167 anni la Madonna della Cintola torna a Montefalco per ricongiungersi al ciclo affrescato da Benozzo Gozzoli nella chiesa di S. Francesco. Dipinta intorno al 1450 per l’altare maggiore della chiesa di S. Fortunato riformata dagli

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Osservanti, l’opera raffigura la Vergine Assunta al cielo che dona la cintola a san Tommaso, come prova della sua assunzione al cielo. Custodito nella Pinacoteca Vaticana, il dipinto venne donato a Pio IX dalla comunità di Montefalco nel 1848, in occasione della concessione al borgo umbro del titolo di città. Per l’esposizione in S. Francesco la pala è collocata su un basamento che ne simula l’originaria collocazione sull’altare ed è inoltre possibile osservarla nella sua interezza. info Sistema Museo, tel. 199 151 123; e-mail: callcenter@sistemamuseo. it; Museo di Montefalco, tel. 0742 379598; e-mail: montefalco@ sistemamuseo.it; www.museodimontefalco.it MILANO GIOTTO, L’ITALIA U Palazzo Reale fino al 10 gennaio 2016

La mostra presenta 13 opere, a formare una sequenza di capolavori mai riuniti tutti insieme. L’esordio è affidato alle opere giovanili: il frammento della Maestà della Vergine da Borgo San Lorenzo e la Madonna da San Giorgio alla Costa, documentano il momento in cui l’artista era attivo tra Firenze e Assisi. Poi il nucleo dalla Badia fiorentina, con il polittico dell’altare maggiore, attorno al quale saranno ricomposti alcuni frammenti della decorazione affrescata che circondava lo stesso altare. La tavola con Dio Padre in trono proviene dalla Cappella degli Scrovegni e documenta la fase padovana del maestro. Segue poi il gruppo che inizia dal polittico bifronte destinato alla cattedrale fiorentina di S. Reparata e che ha il suo punto d’arrivo nel

polittico Stefaneschi, dipinto per l’altare maggiore della basilica di S. Pietro. Il percorso si chiude con i dipinti della fase finale della carriera del maestro: il polittico di Bologna, e il polittico Baroncelli, che nell’occasione viene ricongiunto con la sua cuspide, raffigurante il Padre Eterno, conservata nel museo di San Diego in California. info www. mostragiottoitalia.it ROMA RAFFAELLO, PARMIGIANINO, BAROCCI U Musei Capitolini fino al 10 gennaio 2016

La mostra evidenzia gli stimoli che, partendo da Raffaello, determinarono gli orientamenti artistici di Francesco Mazzola detto il Parmigianino e Federico Barocci, ricordati nelle testimonianze cinque-seicentesche

come eredi dell’Urbinate. Guardando a Raffaello con gli occhi del Parmigianino e di Barocci, l’esposizione affronta dunque il tema del confronto e quello dell’eredità tra artisti vissuti in epoche e luoghi diversi. Raffaello, Parmigianino e Barocci si espressero nella loro produzione grafica sperimentalmente e con forza innovativa. Per raccontare questo confronto a distanza, la mostra romana propone disegni dei tre artisti, insieme ad alcune stampe, provenienti dal Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e dalle più importanti raccolte museali d’Europa, e non solo. Una selezione assai mirata di dipinti (per esempio, l’Annunciazione di Barocci alla Pinacoteca dei Musei Vaticani) richiama i nodi tematici principali offerti dalla novembre

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grafica, mostrando inoltre lo sguardo dei protagonisti del dialogo ideale tra artisti ricostruito in mostra (Autoritratto giovanile di Raffaello e Autoritratto di mezza età di Barocci, entrambi alla Galleria degli Uffizi). info tel. 060608; www.museicapitolini.org MILANO D’APRÈS MICHELANGELO. LA FORTUNA DEI DISEGNI PER GLI AMICI NELLE ARTI DEL CINQUECENTO U Castello Sforzesco, Antico Ospedale Spagnolo fino al 10 gennaio 2016

Disegni, alcuni originali del grande genio del Cinquecento, dipinti, incisioni, preziosi oggetti d’arte svelano un aspetto piú intimo di Michelangelo, riguardante la sfera della sua vita privata e delle sue amicizie: un piccolo nucleo compatto, per i quali è stata coniata la definizione di «fogli d’omaggio». Tra gli anni Venti e Quaranta del Cinquecento, mentre attende alle committenze medicee (Sagrestia Nuova in S. Lorenzo a Firenze) e a

quelle pontificie (il Giudizio Universale della Sistina), il maestro intreccia importanti relazioni di amicizia con esponenti della nobiltà romana, siglate anche attraverso il dono di elaboratissime composizioni grafiche a matita. La mostra documenta dunque l’apparente contrasto tra l’originaria destinazione privata di tali disegni e la straordinaria, immediata fortuna che essi incontrarono

presso gli artisti e i collezionisti del tempo. info tel. 02 88463660 oppure 88467778; www.milanocastello.it AMSTERDAM ROMA. IL SOGNO DELL’IMPERATORE COSTANTINO U De Nieuwe Kerk fino al 7 febbraio 2016

Introdotta da una spettacolare replica dell’arco trionfale innalzato in onore

dell’imperatore «cristiano» e forte di prestiti eccezionali, la rassegna che la Nieuwe Kerk dedica a Costantino non soltanto ripercorre la vicenda biografica e politica del trionfatore di Ponte Milvio, ma si sofferma sugli esiti del suo principato. Quella promossa attraverso l’editto che riconosceva la libertà di culto per i cristiani fu, infatti, un’autentica rivoluzione, destinata a influenzare in maniera significativa la storia religiosa e culturale del mondo intero, ben oltre

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il tempo in cui si produsse. info www.nieuwekerk.nl LONDRA EGITTO: LA FEDE DOPO I FARAONI U British Museum fino al 7 febbraio 2016

La rassegna abbraccia un orizzonte cronologico vastissimo, pari a circa dodici secoli: il percorso documenta infatti le vicende di cui l’Egitto fu teatro fra l’avvento del cristianesimo e l’islamizzazione, riservando un’attenzione particolare alle sorti delle comunità ebraiche che vi si erano insediate. Una storia che il Paese del Nilo permette di raccontare in maniera straordinariamente dettagliata soprattutto grazie alla ricchezza delle testimonianze restituite dagli scavi archeologici. L’esordio è affidato ad alcuni importanti esemplari manoscritti della Bibbia ebraica, del Nuovo Testamento cristiano e del Corano, messi a confronto con edizioni moderne dei medesimi testi. Da qui prende le mosse un viaggio affascinante, che si chiude, non meno significativamente, con i testi rinvenuti nella sinagoga di Ben Ezra, al Cairo, databili tra l’XI e il XIII secolo. info www. britishmuseum.org

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AGENDA DEL MESE BERLINO IL RINASCIMENTO DI BOTTICELLI U Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie fino al 24 gennaio 2016

Celebrato oggi come uno dei massimi pittori di ogni tempo, Sandro Botticelli (1445-1510), in realtà, venne presto dimenticato e la sua riscoperta si deve in larga parta alla fortuna di cui godette presso i preraffaelliti. Da allora, in compenso, la sua fama non si è piú

attenuata, fino a farne quasi un’icona della cultura pop. È questo uno dei presupposti della rassegna allestita a Berlino, che documenta proprio la discontinua popolarità

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dell’opera del maestro fiorentino, attraverso una selezione ricca e significativa, che, oltre a comprendere piú di cinquanta opere dello stesso Botticelli, spazia nel tempo, fino a includere lavori firmati da artisti quali Edgar Degas, Edward Burne-Jones, Dante Gabriel Rossetti, René Magritte, Andy Warhol, Cindy Sherman e Bill Viola. A riprova di come la sua influenza abbia ispirato e continui a

ispirare l’arte moderna e contemporanea, in una misura forse superiore a quella degli altri maestri della pittura antica. info www.botticellirenaissance.de

FIRENZE

LONDRA

IL PRINCIPE DEI SOGNI. GIUSEPPE NEGLI ARAZZI MEDICEI DI PONTORMO E BRONZINO U Palazzo Vecchio, Sala dei Duecento fino al 15 febbraio 2016

VISIONI DEL PARADISO. LA PALA D’ALTARE DEL PALMIERI DI BOTTICINI U The National Gallery fino al 14 febbraio 2016

Commissionati da Cosimo I de’ Medici per la Sala de’ Dugento di Palazzo Vecchio, i venti arazzi cinquecenteschi con la storia di Giuseppe sono una testimonianza eccelsa dell’artigianato e dell’arte del Rinascimento. I disegni preparatori furono affidati ai maggiori artisti del tempo, primo fra tutti Pontormo. Ma le prove predisposte da quest’ultimo non piacquero a Cosimo I, che decise di rivolgersi ad Agnolo Bronzino, a cui si deve parte dell’impianto narrativo della serie. Tessuti alla metà del XVI secolo nella manifattura granducale, furono realizzati dai maestri arazzieri fiamminghi Jan Rost e Nicolas Karcher. info tel. 055 2768325

La mostra segna il culmine di tre anni di ricerca sull’imponente pala d’altare di Francesco Botticini L’Assunzione della Vergine (228,6 x 377,2 cm), inquadrando l’opera nel contesto delle tradizioni dell’Umanesimo civile e del mecenatismo religioso nella Firenze del Rinascimento. Vengono esplorati la vita, gli scritti e i ruoli politici del committente del dipinto, Matteo Palmieri (1406-1475), e il suo rapporto con i Medici, i signori di Firenze. Completata intorno al 1477 per la cappella funeraria di Palmieri nella chiesa di S. Pier Maggiore a Firenze, la pala d’altare è esposta insieme a dipinti, sculture, disegni, stampe, manoscritti e una medaglia di bronzo.

La mostra chiarisce il dibattito su vari aspetti della pala, inclusa la sua falsa attribuzione a Sandro Botticelli, la sua controversa iconografia, considerata eretica da alcuni teologi, e la sua posizione originale. Viene inoltre presentata la prima ricostruzione digitale dell’antica chiesa di S. Pier Maggiore, distrutta alla fine del XVIII secolo. Inserendo nuovamente il dipinto di Botticini nella sua architettura e contesto spirituale originali, è possibile ottenere nuove conoscenze sulle dimensioni, sull’insolito formato orizzontale e sull’iconografia della pala. info www. nationalgallery.org.uk ROMA TESORI DELLA CINA IMPERIALE. L’ETÀ DELLA RINASCITA FRA GLI HAN E I TANG (206 A.C.-907 D.C.) U Palazzo Venezia fino al 28 febbraio 2016

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Grazie ai capolavori del Museo Provinciale dello Henan, l’esposizione racconta il passaggio dalla dinastia Han – periodo in cui l’odierna Cina prende forma – all’Età dell’Oro dei Tang (581-907). Tra i manufatti giunti a Roma, vi sono una veste funeraria composta da 2000 listelli di giada intessuti con fili d’oro, e poi lacche, terrecotte invetriate, vasi, oggetti in oro, argento e giadeite, a illustrare lo straordinario clima di prosperità e di apertura culturale di questo periodo. info tel. 06 6780131; www. tesoridellacinaimperiale.it FIRENZE UN PALAZZO E LA CITTÀ U Museo Salvatore Ferragamo fino al 3 aprile 2016

Forte di opere e documenti provenienti da musei e collezioni private, la mostra ripercorre le complesse vicende storiche di Palazzo Spini Feroni. Le origini dell’edificio risalgono al 1289, dopo che un’alluvione aveva distrutto le case degli Spini, ricca e potente famiglia proprietaria di una delle prime società bancarie d’Europa. Committente dell’edificio fu Ruggeri, detto Geri, la persona piú illustre del casato,

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banchiere di papa Bonifacio VIII. L’allestimento è dominato da due grandi forzieri che contengono le opere d’arte e i documenti: spiccano, tra gli altri, un dipinto seicentesco

che raffigura l’albero genealogico degli Spini; una pergamena del 1277 che dimostra l’acquisto degli Spini di un terreno e di una casa nei pressi del ponte Santa Trinita; la storia della famiglia

nel Quattrocento scritta da un discendente di Geri, Doffo. Due modelli in scala, realizzati dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, riproducono

l’area cittadina in cui fu costruito il palazzo, e la sua architettura, come appare nella veduta quattrocentesca. info tel. 055 3562846; e-mail: museoferragamo@ ferragamo.com; www.ferragamo.com

APPUNTAMENTI • Festa di santa Fermina U Amelia (Terni)

24 novembre info www.turismoamelia.it

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el solco di una tradizione che risale al XIV secolo, il 24 novembre la cittadina umbra di Amelia festeggia la sua protettrice, santa Fermina. Nel pomeriggio, durante il Solenne Pontificale celebrato nella Cattedrale a lei dedicata, avviene l’offerta dei ceri da parte dei sindaci del mandamento amerino, composto dai borghi di Penna in Teverina, Giove, Alviano, Attigliano, Lugnano in Teverina e Guardea. Segue il corteo storico, che fa riferimento agli antichi Statuti comunali del 1346. Fermina visse fra Roma e Amelia fra il II e il III secolo. Apparteneva a una famiglia d’alto rango, ma decise di lasciarla per ritirarsi in preghiera. Per amore della fede cristiana subí il martirio durante al tempo dell’imperatore Diocleziano. Fermina è la santa patrona anche di Civitavecchia, che la festeggia ogni anno, il 28 aprile, con una processione in barca. Tiziano Zaccaria

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storie la prima bolla giubilare

La minuta che vale un tesoro di Federico Canaccini

Una scoperta affascinante, effettuata dal nostro collaboratore Federico Canaccini, ci riporta al 22 febbraio del 1300: in quel giorno d’inverno, papa Bonifacio VIII si affacciò al balcone del Laterano per indire il primo Giubileo. La trascrizione di quel proclama è la celebre bolla Antiquorum habet fida relatio. Ma chi è l’autore dell’antica pergamena, emersa tra le carte dell’Archivio di Stato di Firenze? E il prezioso documento rappresenta forse la prima versione dell’annuncio giubilare?

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elato di drappi di seta e d’oro l’ambone, ove erano saliti il Presule Romano coi padri e tenuto un discorso alla turba, viene infine dichiarata la lettera, dalle bolle appese a fili di seta, magnifico dono di letizia. Conteneva essa in verità, da principio, la data del Laterano ma il Presule volle che invece nella sua lettera fosse annotata la data in San Pietro: e il dono fu deposto sull’altare. Di testo non dissimile fu quella inviata alla basilica del Dottore delle Genti». Cosí il cardinale Iacopo Caetani degli Stefaneschi (1270 circa-1341) ricorda l’indizione del primo Giubileo, fortemente voluto da papa Bonifacio VIII (12941303). Il testo della bolla, la Antiquorum habet fida relatio, porta la data del 22 febbraio 1300; una data non casuale, giacché si festeggiava la Cattedra di San Pietro. Quel giorno, dal balcone del palazzo lateranense, cosí come ricorda ancora Stefaneschi, il pontefice annunciò l’indulgenza plenaria, la «grande perdonanza». Anche Giotto dovette raffigurare il papa Caetani in atto di benedire la folla e, grazie a una copia eseguita da Jacopo Grimaldi su un manoscritto oggi conservato alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana, è stato possibile ricostruire l’aspetto originale dell’affresco che, rispetto al

Nella pagina accanto pagina miniata da un’edizione delle Expositiones et glose super Comediam Dantis, di fra Guido da Pisa. Ante 1333. Chantilly, Musée Condé. In basso, si vedono alcuni pellegrini al cospetto di papa Bonifacio VIII, mentre nel capolettera si riconosce Dante addormentato: entrambe le scene alludono al Giubileo del 1300, in occasione del quale si sarebbe recato a Roma come pellegrino anche l’autore della Commedia.

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frammento conservato in Laterano (110 x 110cm), era ben piú grande e comprendeva due schiere di armati e la folla accalcata ai piedi del pulpitum Bonifacii, nell’atto di ricevere la benedizione.

La bolla trascritta nel marmo

Tuttavia, a leggere con maggior attenzione il testo del cardinale, si nota che Bonifacio volle che sulla bolla fosse indicato, come luogo di emissione, la basilica di S. Pietro, pur avendo proferito il discorso dalla residenza ufficiale del Laterano. Inoltre, fece scolpire il testo sul marmo, affinché fosse affisso in S. Pietro, da dove venne traslato per essere disposto nell’atrio della basilica vaticana cinquecentesca, dove tuttora si trova. Ma quale fu il motivo di questi cambiamenti? Tali scelte – la data del 22 febbraio, la volontà che il documento risultasse «datum apud Sanctum Petrum», la realizzazione su pietra della bolla in Vaticano – indicano, come ha scritto lo storico della Chiesa Paolo Brezzi (1910-1998), «il desiderio di concentrare l’attenzione dei fedeli sul ricordo del Primo Papa e indirizzare la devozione verso la tomba di colui al quale Cristo aveva dato le chiavi del regno dei Cieli». Tuttavia, il testo dello Stefaneschi prova che anche la Antiquorum habet fu preparata precedentemente e non era certo il frutto di un’improvvisazione. Agostino Paravicini Bagliani, nella piú recente biografia sul controverso pontefice (Bonifacio VIII, Einaudi, Torino 2003), sottolinea però la celerità con cui Bonifacio rispose alle grandi aspettative dei cristiani, coinvolgendo alcuni cardinali per condurre ricerche mirate su come applicare l’indulgenza giubilare.

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storie la prima bolla giubilare Il 1° gennaio, si festeggiavano in S. Pietro la festa della Circoncisione di Gesú e l’Ottava di Natale, occasioni in cui si poteva lucrare un’indulgenza di tre anni e quaranta giorni. L’affluenza dei fedeli, tuttavia, fu ben maggiore delle attese, forse per il fatto che, sin dalla fine del 1299, era circolata una voce secondo la quale, in occasione del «centesimus», si sarebbe potuta ottenere la piena remissione dei peccati. Un fatto analogo si sarebbe verificato anche nell’anno 1200 quando, secondo una cronaca posteriore, a Roma si registrò un grande pellegrinaggio, tale da offrire a Bonifacio e alla sua Curia le attestazioni e i precedenti a cui poter fare riferimento.

Il testimone ultracentenario

Stefaneschi ricorda la testimonianza di un uomo che si diceva ultracentenario e il cui padre avrebbe assistito a questo precedente illustre. Un canonico, del quale si ignora l’identità, avrebbe inoltre predicato, il 1° gennaio del 1300, proprio sull’attinenza fra Giubileo e «centesimo anno», confermando che, quello che poi sarebbe divenuto il primo Anno Santo della storia, fu la sanzione e codificazione di una consuetudine precedente, piú che una celebrazione preparata. Il cardinale Matteo d’Acquasparta († 1302), braccio destro del pontefice, in occasione dell’Epifania, predicò alla presenza di Bonifacio, rimarcando l’autorità papale e sottolineando come «il papa sia al di sopra di tutti i sovrani, temporali e spirituali, chiunque essi siano». Il clima era dunque propizio alla glorificazione del potere teocratico. Il 17 gennaio, infine, in occasione dell’esaltazione della Veronica, giunsero i fedeli romani «molto piú numerosi del solito, in folte schiere». Le aspettative dei credenti crescevano e papa Bonifacio seppe rispondervi con una celerità, una inventiva e una praticità ragguardevoli. Benedetto Caetani, in questo caso, ancor prima che papa, dovette mostrare tutta la sua perizia di giurista, ben sapendo come, sino ad allora, mai era stata concessa una simile indulgenza plenaria. Ancora cardinale, infatti, aveva assunto un canonicato a Todi, dove era vescovo suo zio Pietro, ed è possibile che nella cittadina umbra abbia iniziato gli studi di diritto, poi approfonditi e conclusi presso l’Università di Bologna, con una specializzazione particolare in diritto canonico. Nel giro di un mese, tra il 17 gennaio e il 16 febbraio del 1300, Bonifacio fu infatti in grado di far elaborare

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Nella pagina accanto la copia eseguita da Jacopo Grimaldi (1575-1623) che mostra l’aspetto originale dell’affresco parzialmente conservato in Laterano (vedi foto a p. 33): oltre ad avere dimensioni ben maggiori, comprendeva due schiere di armati e la folla che, accalcata ai piedi del pulpitum Bonifacii, riceve la benedizione. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. In basso insegna di pellegrinaggio con le immagini dei santi Pietro e Paolo. Produzione romana, XIII-XIV sec. Parigi, Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge.

un nuovo concetto di Giubileo, che superava quello della tradizione ebraica – che cadeva ogni 50 anni (secondo l’Antico Testamento, nell’anno dichiarato santo i campi dovevano essere lasciati incolti, venivano rimessi in libertà gli schiavi, condonati i debiti, riscattate le terre dai proprietari d’origine, n.d.r.) – e innovava quello dell’indulgenza e dell’incoronazione pontificia, introdotto, appena sei anni prima, dal suo predecessore, Celestino V (al secolo Pietro del Morrone). Cosí facendo, Bonifacio riusciva a consolidare il proprio potere in qualità di figura centrale della cristianità intera, peraltro in un momento non facile per lui, sia per la modalità della sua elezione – se non altro anomala, dopo il «gran rifiuto» del Morrone –, sia per la altrettanto anomala crociata contro i Colonna (definiti «perfidos Columpnenses»), forse non del tutto compresa dai fedeli cristiani. Ora però, occorre soffermarsi proprio su quel mese in cui dovette essere elaborato il testo della bolla giubilare. Se quest’ultima fu promulgata dal Laterano il 16 o il 17 febbraio del 1300, il pontefice si trasferí il 19 febbraio in Vaticano – benché già l’indomani fosse tornato in Laterano –, cosí da poter celebrare la grandiosa festa dell’esaltazione del potere papale, nel giorno della Cattedra di S. Pietro, il 22.

Scritto personalmente dal pontefice

Il testo doveva essere stato redatto dal papa stesso, coadiuvato dai cardinali suoi collaboratori, tra cui Egidio Romano, Matteo d’Acquasparta e Iacopo Caetani degli Stefaneschi. Proprio quest’ultimo ci informa di come venne stesa la bolla giubilare: «Onde fu ordinato, perché piú chiara splendesse per iscritto la verità sulla condotta da seguire, che il privilegio da concedere ovvero da abolire, venisse redatto in forma di lettera. Ritoccato piú volte ed in tal modo reso piú elegante il testo di essa, previo esame dinanzi ai consigli, i novembre

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storie la prima bolla giubilare Miniatura raffigurante Bonifacio VIII nell’atto di impartire la benedizione. XIV sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

padri consultati sostennero che dovesse restare quello che tuttora è». La nostra attenzione viene catturata dal riferimento a una prima «forma epistolare», rimaneggiata piú volte e resa piú elegante. Quale sarebbe questa versione su cui i cardinali sono intervenuti? Ne è forse rimasta traccia? Tutti i testi della bolla giunti sino a noi recano la data del 22 febbraio 1300 e sono comunque posteriori alla pubblica lettura del Giubileo, quando il papa depose sull’altare maggiore il nuovo documento, «la lettera da cui pendevano fili di seta, magnifico dono di letizia». L’Archivio Segreto Vaticano possiede due copie autentiche della bolla: la prima è data «apud sanctum Petrum» il 22 febbraio 1300, l’altra «apud Lateranum», il 16 febbraio 1300. Considerato il tempo necessario alla Cancelleria Apostolica per procedere alla redazione delle copie definitive, l’esemplare del 16 febbraio conferma come la preparazione della bolla avesse percorso il mese di gennaio, per poi giungere alla versione definitiva, non prima, naturalmente, di essere stata «piú volte trasformata e da questa versione resa migliore dopo vari confronti e collazioni».

Il documento fiorentino

Ebbene, un documento conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze sembra finalmente far luce su questa fase preparatoria che precedette l’evento giubilare. Si tratta di una pergamena redatta in volgare toscano che, sebbene sia databile al 22 febbraio 1300 (colmando una lacuna presente nel testo; vedi box alle pp. 34-35), offre numerose varianti, non riscontrabili nelle altre versioni. Tali varianti, unite alla preziosa segnalazione dello Stefaneschi circa l’esistenza di una previa redazione in forma epistolare, suggeriscono quindi che il testo dell’archivio fiorentino, il cui incipit è chiaramente quello di una epistula («A tutti i fedeli christiani»), vada identificato proprio come una traduzione della prima stesura della bolla, con la sua versione iniziale, progettata in forma epistolare e poi parzialmente confluita in quella definitiva, inviata a tutti i vescovi e infine incisa su pietra. Il testo è stato certamente redatto prima della versione definitiva, poiché, come vedremo, ne differisce in modo peculiare. Permangono, tuttavia, alcuni interrogativi. In quale occasione e chi ha tradotto la versione che precede quella definitiva? E a chi era indirizzata? Conosciamo un manoscritto senese, redatto in volgare toscano, che è però la traduzione fedele della bolla ufficiale. Se anche ipotizzassimo una traduzione analoga per il vescovo di Firenze, non ci aspetteremmo tutte le varianti che vedremo piú avanti. Anche Firenze venne investita dall’invito di papa Caetani a visitare le tombe degli apostoli e dei martiri sepolti nell’Urbe. La situazione politica della città, divisa tra Guelfi Bianchi e Neri, non dovette però consentire al pre-

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Roma, basilica di S. Giovanni in Laterano. Affresco che raffigura la promulgazione dell’indulgenza dell’anno centenario 1300 da parte di Bonifacio VIII. L’opera viene attribuita dalla tradizione storiografica a Giotto, senza alcun dato storicodocumentario. In origine, la scena faceva parte del ciclo pittorico della Loggia delle Benedizioni, costruita per volere dello stesso papa Caetani.

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storie la prima bolla giubilare la versione fiorentina

Che nessuno osi contraddire! Ecco la trascrizione del testo riportato sul documento conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze e che potrebbe essere la versione preparatoria della bolla Antiquorum habet fida relatio, con la quale Bonifacio VIII, il 22 febbraio 1300, indisse il primo Giubileo:

In alto Città del Vaticano, basilica di S. Pietro. La lapide su cui Bonifacio VIII fece incidere il testo della bolla Antiquorum habet. Nella pagina accanto la pergamena sulla quale si conserva una versione della bolla Antiquorum habet scritta in lingua volgare e che, come illustrato nell’articolo, potrebbe essere stata utilizzata come base per la redazione del documento ufficiale. Firenze, Archivio di Stato.

sule Francesco Monaldeschi di recarsi a Roma, se non verso lo scadere dell’anno. Un documento tuttora inedito, e conservato presso l’Archivio Capitolare del Duomo, attesta come, ancora l’11 novembre, il vescovo stesse attendendo agli ultimi preparativi «per le spese che occorre fare per andare a Roma a ottenere l’indulgenza». Tra i giubilanti fiorentini si segnala la presenza di Giovanni Villani il quale, nelle Cronache, ricorda come «ed io il posso testimoniare, che vi fui presente e vidi» e ancora segnala che «negli anni 1300, tornato da Roma, cominciai a compilare questo libro, a reverenza di Dio e del beato Giovanni, e commendazione della nostra città di Firenze». L’altro Fiorentino illustre che avrebbe partecipato alla grande perdonanza sarebbe Dante Alighieri. Ma la sua presenza, attestata indirettamente da osservazioni peraltro precise nella Divina Commedia, non è altrimenti confermata. Tali ricordi potrebbero essere anche legati alla sua ambasciata svoltasi l’anno seguente, o, addirittura, essere il risultato di resoconti di altri pellegrini fiorentini. Lo storico Arsenio Frugoni suggerí come data ideale

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Bonifatio [ep(iscopo)] servo di servi d[i Dio]. A tutt’i fideli cristiani a li quagli per[verr]|anno le presenti lectere, salute et la nostra beneditione. A certeça | de le chose presente e ricordamento de le chose che debono venire. Secura|mente s’è detto et avuto pe’ tenpi passati che a tutte le persone le | quali visitano le chiese di San Piero et di San Paulo di Roma si sono | concedute grande perdonançe et grande rimissioni d’i loro peccati. E pe|rò noi, gli quali siamo tenuti secondo che dovemo, sí disideramo la sa|lute de l’anima di ciascheduna persona, per la qual chosa tutte queste co|tali perdonançe e remissioni, tutte e ciascheduna, sí aviamo ferme et | rate e confermiamo e aproviamo et inovamo. Onde, secondo che messer san Piero et messer san Paulo tanto piu sono honorati quanto le loro chie|sie di Roma sono piú visitate e frequentate da’ fedeli cristiani, e a ciò | che quelle persone che le visitano si cognoscano che però abiano dono | e gratia spirituale, noi, abiendo fidança ne la misericordia di Dio et ne’ meriti di san Piero et di san Paulo, di consiglio et di volontà di nostri fratri del suo viaggio a Roma il periodo della Settimana Santa (dal giovedí 7 aprile alla domenica di Pasqua, 10 aprile) facendolo coincidere proprio con l’immaginario viaggio nel mondo dell’Aldilà, argomento della sua Commedia, anche se nulla conferma tale suggestiva ipotesi.

L’unico testo in forma epistolare

Risulta dunque difficile ipotizzare una mano per questa interessantissima carta dell’Archivio di Stato di Firenze. Né sapremmo infine dire se possa avere avuto un qualche ruolo in questa vicenda il cardinale Matteo d’Acquasparta, certamente estensore della bolla, presente in Firenze e a contatto col vescovo Monaldeschi negli anni precedenti e seguenti l’indizione giubilare. Confrontando il nostro testo con quelli custoditi in Vaticano, nonché con il testo senese che presenta la bolla in traduzione volgare, possiamo notare che quello fiorentino è il solo che conservi la forma epistolare. Come già detto, il cardinale Stefaneschi segnala questa fase preparatoria, che sarebbe stata redatta in novembre

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| et di plenitude de la nostra potentia, a tutte qu[ell..... li q]uagli nel | presente anno .mccc. che si comminciò p(er) l[....................] ch’è | passata et in ciascheduno anno centesimo ch[e ..... visit]eranno | co·rreverentia le decte chiese et che siano vera[mente pentut]i et confessi | di loro pecchati o che almeno si confesseranno et penteran[no] in questo pre|sente anno et in ciascheduno anno centesimo venturo, non solamente | grande et piena, ma etiandio grandisima et plenissima perdonançia sí | conciediamo di tutti i loro peccati. In questo modo, che se la persona è | romana, almeno per xxx die continui o interpolati, se è peregrino | o forestiere per xv die, in simigliante modo debiano visitare le decte | chiesie; sapiendo una chosa, che chi piú ispesso et piú divotamente | le visiterae, averae piú di gratia. E a la fine diciamo questo, che | a nessuna persona sia licito di contradire a le lectere di questa per|donanza e indulgentia; e chi fosse solo ardito di venire contra, si | sappia et cognoscia che egli si incorre la indignatione del | nostro segnore Iesu Cristo et d’i suoi apostoli s[an Pi]ero et san Paulo. Data a Roma, a Sam·Piero, vii die [uscente fe] braio, an|no sexto del nostro pontificato. «licteris». In effetti, dopo il nome del mittente nonché autore del testo, presente in tutte le versioni giunte sino a noi (Bonifatius Episcopus, servus servorum Dei), solo la versione fiorentina offre, prima della parte comune «ad certitudinem presentium et memoriam futurorum», la classica formula delle epistole pontificie rivolte a tutta la cristianità (che in latino è Universis Christi fidelibus praesentes litteras inspecturis), attestata in numerose lettere di vari pontefici – anche posteriori al Caetani –, ma omessa nella Antiquorum habet. L’autore del De Centesimo scrive che la bolla venne pubblicata solo dopo essere stata rifinita. Possiamo rinvenire tracce di questo intervento, confrontando la versione fiorentina con quella ufficiale. Per esempio, al fine di ingentilirlo, l’aggettivo ferme della prima viene mutato in grate, creando un’assonanza: omnes et singulas ratas et gratas

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storie la prima bolla giubilare habentes. Oppure, mentre il testo fiorentino riporta «et che siano veramente pentuti et confessi di loro pecchati o che almeno si confesseranno et penteranno», in quello ufficiale troviamo «vere penitentibus et confessis vel qui vere penitebunt et confitebuntur». Risulta evidente l’omissione del ridondante «di loro pecchati» e che sono stati posti in parallelo «penitentibus et confessis» con «penitebunt et confitebuntur», a riprova della redazione in quella forma «piú elegante» di cui parla lo Stefaneschi. Come ricordato in apertura, il Giubileo fu architettato come un segno del potere del papa, dell’erede di Pietro. In effetti, il testo fiorentino iniziava con l’esaltazione delle tombe dei due campioni della Chiesa, Pietro e Paolo («Securamente s’è detto et avuto pe’tenpi passati che a tutte le persone le quali visitano le chiese di San Piero et di San Paulo di Roma si sono concedute grande perdonançe»). Dopo le riunioni con i cardinali e in linea col progetto bonifaciano di esaltare la figura del pontefice come vicario di Cristo, ancor piú che come vicario di Pietro, il testo della bolla fu modificato, sottolineando, almeno nell’incipit, l’unicità della basilica petrina, rimarcata dall’aggettivo «honorabilis» e dal titolo di «Princeps Apostolorum» asse-

Qui sopra Roma, basilica di S. Maria in Aracoeli. La tomba del cardinale Matteo d’Acquasparta (1240 circa-1302), che potrebbe aver commissionato la redazione in volgare della bolla giubilare.

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In alto, sulle due pagine disegno di Marten van Heemskerck dell’antico assetto del Laterano (quando ancora ospitava la statua equestre di Marco Aurelio). 1532-36. Firenze, Museo Horne. novembre

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gnato a Pietro («Antiquorum habet fida relatio quod, accedentibus ad honorabilem Basilicam Principis Aspostolorum de Urbe, concessae sunt magnae remissiones»). Solo piú oltre si ritrova la coppia dei patroni dell’Urbe, con l’aggiunta – rispetto al testo fiorentino – dell’aggettivo «beatissimi». Nella redazione ufficiale, si nota dunque come Bonifacio abbia riservato maggiore dignità alla basilica petrina, in linea con quanto testimoniato dallo Stefaneschi.

Aggiunte significative

Altre formule attestano la rifinitura e l’ufficialità del testo. La versione fiorentina offriva: «Si aviamo ferme et rate e confermiamo e aproviamo e inovamo». La bolla, invece, integra in forma inequivocabile con una nota di ufficialità, rimarcando il potere papale: «ipsas auctoritate apostolica confirmamus et approbamus»; a cui viene aggiunta una ulteriore nota: «et presentis scripti patrocinio communimus». La versione preparatoria proibiva a chiunque di contraddire «a le lectere di questa perdonanza e indulgenza». Nel testo definitivo, Bonifacio, oltre a ridurre le lectere al singolare (hanc paginam), fa ben di piú. Tutti i beni creati e concessi dal pontefice sono di sua totale pertinenza, quasi di sua proprietà: «nostre confirmationis, approbationis, innovationis, concessionis et constitutionis infringere vel ei ausu temerario contraire». Tutto questo mancava nella prima versione e suona come una sottolineatura della potestas papae. Infine, la conclusione: se il testo fiorentino prospettava la «indignatione del nostro segnore Iesu Cristo e d’i suoi apostoli san Piero e san Paulo» in quello definitivo l’indignazione è ben piú grave, è infatti quella dell’«omnipotentis Dei et beatorum Petri et Pauli Apostolorum».

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Restano aperte alcune domande: chi ha redatto la versione in volgare? A chi era indirizzata? Perché è sopravvissuta una versione precedente a quella ufficiale uscita dalla Camera Apostolica? Si potrebbe ipotizzare che nell’elaborazione della bolla giubilare uno dei cardinali abbia fatto tradurre la prima versione in volgare e magari ne abbia portato una copia a Firenze. Il cardinale Matteo d’Acquasparta aveva avuto modo di frequentare Firenze e conoscere il vescovo della città piú volte, essendovi stato mandato da Bonifacio, in missione diplomatica, prima e dopo l’emissione del Giubileo. Una prima volta, infatti, Matteo vi fu inviato nel 1297 per raccogliere la decima e predicare la crociata contro i Colonna e poi, una seconda, proprio nell’anno giubilare (dal 23 maggio al 29 settembre 1300), per cercare di dirimere la scissione tra Guelfi Bianchi e Neri, se non per tentare addirittura di appoggiare il progetto di Bonifacio che mirava ad annettere la Toscana al Patrimonio di San Pietro. Volendo azzardare un’ipotesi, la carta oggetto di questo articolo potrebbe dunque essere una delle pergamene del cardinale Acquasparta che, nei mesi di permanenza a Firenze, fu lasciata (o realizzata forse volontariamente) assieme ad altre, anch’esse conservate in Archivio e che confermano la sua presenza nell’anno giubilare. F A chi desideri approfondire l’argomento trattato nell’articolo, segnaliamo che il 22 febbraio 2016, in occasione della Festa della Cattedra di San Pietro e in coincidenza con la data di apertura del Giubileo del 1300, è prevista l’uscita del volume, scritto dallo stesso Federico Canaccini, Al cuore del primo Giubileo, pubblicato per i tipi della LUP (Lateran University Press).

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Che il carroccio sia con noi!

di Furio Cappelli

Insofferenti al potere dei governi centrali, le città furono protagoniste del Medioevo italiano. Simbolo storico del loro spirito indipendentista è il carro trainato dai buoi, intorno al quale battersi senza risparmio. Inizia con questo numero un affascinante viaggio nell’età dei Comuni: esordiamo con la Milano precomunale e proponiamo in parallelo un profilo di Verona, evidenziando il ruolo egemonico assunto dai vescovi

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a storia dell’Italia medievale è, per definizione, una storia di città. Sin dall’epoca risorgimentale, la nascita stessa della nozione di Italia si identifica con l’emergere di quelle prodigiose vicende. Lo storico ed economista Carlo Cattaneo (1801-1869), per esempio, scrisse nel 1858 un saggio intitolato La città considerata come principio ideale delle istorie italiane. Repubblicano e federalista, egli riteneva che la storia del Paese, all’epoca non ancora unificato, coincidesse con la somma delle esperienze maturate dalle grandi realtà cittadine, e ciascuna di esse poteva cosí fungere da simbolo dell’Italia nel suo complesso. Non era solo la frammentazione in molteplici Stati a ispirare il concetto di una storia fatta di molteplici istorie. Proprio le città, con il loro innegabile protagonismo, con la loro capacità di ergersi a capitali di se stesse (città-stato), davano il senso di un mosaico di istorie. E nonostante le diversità e le aperte conflittualità, spesso proverbiali, che le caratterizzavano, esse hanno costituito la solida ossatura dell’immagine e dell’identità storica del Paese, curiosamente unito da un coacervo di forze agguerrite, autonome e conflittuali. L’Italia delle città, infatti, non ha eguali, soprattutto se ci riferiamo a quelle realtà che, nell’area centro-settentrionale del Paese, per prime hanno maturato l’esperienza di un governo sganciato da autorità superiori: quei centri che, attraverso l’esperienza dei Comuni, sono divenuti straordinari laboratori di politica e di cultura. Nelle realtà d’oltralpe, il ruolo esercitato dai governi centrali era ben maggiore e anche le città di piú solida autonomia non ebbero un territorio sul quale esercitare le proprie prerogative. 38

Viene cosí istintivo chiedersi con quali modalità si sia concretizzato questo fenomeno tipicamente italiano, a tal punto che il concetto stesso del Made in Italy si associa in modo naturale all’immagine delle città piú rappresentative: personaggi storici, musei e monumenti esemplari, ma anche prodotti della moda, del design e dell’industria alimentare si legano ai nomi delle città, e queste ultime, con la somma dei loro valori storici e culturali, compongono l’immagine del Bel Paese. E dai tempi della famosa guida Baedeker, che faceva da viatico agli innumerevoli turisti del Grand Tour sin dall’Ottocento, visitare l’Italia equivale a compiere un pellegrinaggio nelle sue città piú famose. Con questo articolo introduttivo, e con quelli che seguiranno, vi invitiamo a ripercorrere le origini e gli sviluppi di questo boom della storia urbana, in un percorso complessivo di dieci puntate. Cercheremo di riconoscere gli elementi e gli attori coinvolti in questa avventura, anche nel vivo dei tessuti urbani. Proporremo sintetiche esplorazioni allo scopo di chiarire le dinamiche del fenomeno. Per esempio, fu davvero determinante il peso del ceto borghese? Il Comune può essere visto come un fenomeno di svolta e di rottura nei riguardi del mondo feudale? È certo, in ogni caso, che il fascino della civiltà comunale sta proprio nella sua fioritura impetuosa e imprevedibile, determinata dal concorso di tanti fattori concatenatisi dietro la forza degli eventi. D’altronde, osservando l’assetto tardo-antico e altomedievale di città come Genova, Pisa, Venezia o Firenze, nessuno avrebbe potuto prevedere che nel giro di qualche secolo esse sarebbero divenute delle potenti realtà di rilievo europeo. novembre

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Nel segno della Croce In questa tavola a colori si immagina una battaglia combattuta dalle milizie comunali intorno al carroccio. Il carro trainato dai buoi, chiamato a trasportare e a custodire il vessillo cittadino sul campo di battaglia, esposto in tempo di pace nella cattedrale o nel battistero, conobbe una lunga fortuna nella storia dei Comuni. La sua ispirazione si lega alla memoria del cristogramma esibito in battaglia da Costantino a Ponte Milvio (312). La prima apparizione di quello milanese si ebbe in occasione della chiamata generale alle armi del 1038. I suoi resti furono inviati da Federico II a Roma nel gennaio 1238, dopo la vittoria di Cortenuova.

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ell’estate del 1038 Milano è sotto la morsa dell’assedio delle truppe imperiali di Corrado II il Salico (1027-1039). L’arcivescovo Ariberto da Intimiano, l’unico dignitario capace di guidare le sorti della città, fa appello al senso di responsabilità di ogni Milanese, al di là di ogni logica di appartenenza sociale e di interesse. Tutti vengono chiamati alle armi, nobili e popolani, abitanti della città e del contado. Tutti potranno avvalersi della protezione di sant’Ambrogio, il patrono di Milano. A tal fine, Ariberto «inventa» il carroccio. L’apparato mobile, destinato ai campi di battaglia, prevedeva un catafalco a forma di albero di nave su cui campeggiava l’immagine del crocifisso, sormontata da un grande pomo dorato. Il simbolo era in genere adottato nelle rappresentazioni del sovrano in trono, per esprimere la sua signoria sul mondo terrestre. Ariberto se ne appropria per affermare la signoria di Cristo, e per dare al conflitto in atto una dimensione che andava ben al di là della realtà cittadina. Milano si apprestava a combattere una guerra santa, avendo per alleato il signore del Cielo, con la mediazione del santo patrono. Il vessillo che sul carroccio fa da sfondo all’immagine del crocifisso viene ricordato proprio come il «vessillo di sant’Ambrogio», molto probabilmente perché era stato tenuto a contatto con le riverite reliquie tessili del sepolcro del vescovo, cosí da assumerne le miracolose virtú.

della civiltà comunale. Assumendosi gli onori, gli obblighi e le competenze di un magistrato civile, l’arcivescovo ha fatto maturare l’autonomia della propria sede, sino a mettersi alla guida delle truppe cittadine. Vista la fortuna del carroccio nella vicenda dei piú agguerriti Comuni dell’Italia settentrionale, si sarebbe a questo punto tentati di attribuire ad Ariberto un ruolo di apripista o di fondatore nello sviluppo della storia istituzionale della città-stato di Milano. In realtà, egli non aveva affatto tra i propri obiettivi la nascita di una magistratura laica cittadina che si sarebbe occupata degli affari di pubblico interesse senza temere

Un crocifisso (a destra) e la coperta di un evangeliario commissionati entrambi da Ariberto da Intimiano. XI sec. Milano, Museo del Duomo. La croce lignea, rivestita in rame sbalzato, dorato e argentato, era in origine conservata nella chiesa milanese di S. Dionigi, oggi non piú esistente, che lo stesso Ariberto aveva fondato e nella quale volle essere sepolto.

Un momento epocale

Il «conferimento» del carroccio da parte del presule ai propri concittadini segna un momento epocale. Con l’adozione del vessillo che protegge la città dagli assalti del nemico, si porta a compimento, dopo pochi decenni, un processo di autocoscienza che è alla base

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L’azione del vescovo Ariberto si estese ben oltre i limiti dell’attività pastorale: non esitò a prendere le armi e fu, nel contempo, un autentico mecenate, capace di segnare l’inizio dell’età aurea della Chiesa ambrosiana

controlli e ingerenze di altre autorità, fuori e dentro Milano. Ariberto non è il fondatore della libertà comunale, né quel dispotico guerrafondaio che amava scendere in campo con le armi in pugno, come viene evocato dai suoi detrattori. Egli difendeva le proprie prerogative con ostinazione, senza alcuna remora allorché si doveva combattere tutto ciò che attentava al rispetto della legge e al mantenimento della pace (il motto «Lex et pax» campeggia nella rilegatura di un Evangeliario che egli stesso aveva commissionato).

Primato spirituale

Personaggio di solida tempra, colto e ambizioso, Ariberto segna con la sua elezione (28 marzo 1018), secondo i cronisti dell’epoca, l’inizio dell’età aurea della Chiesa ambrosiana (a lui si deve, fra l’altro, la realizzazione del complesso cultuale di S. Vincenzo a Galliano, presso Cantú, del quale si parla piú oltre in questo numero; vedi alle pp. 58-71). Grazie a lui, Milano vede riconfermato nel segno di Ambrogio quel primato spirituale e morale che già taluni suoi illustri predecessori avevano affermato, come

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Angilberto II (824-859), committente dell’altare d’oro della basilica ambrosiana. Quella stessa basilica aveva già strappato al S. Michele della capitale Pavia il privilegio dell’incoronazione del re d’Italia. Proprio Ariberto, nel marzo 1026, celebrò l’incoronazione di Corrado II, colui che, dodici anni dopo, mise la città sotto assedio. Molte cose erano accadute in quell’arco di tempo, e le stesse forze che garantirono autonomia e autorevolezza a un presule come Ariberto, finirono per decretarne il triste declino. Fedele dignitario dell’impero, il vescovo intimianese era salito sulla cattedra ambrosiana con il plauso di Enrico II il Santo (10141024), ma con Corrado i rapporti si ingarbugliarono, complice quella stessa vivacissima realtà economica e sociale che determinò la nascita del Comune. Forti dell’autorità della sede episcopale, i predecessori di Ariberto avevano stabilito ampie clientele presso la feudalità locale e la Chiesa traeva grandi profitti dalle attività commerciali, affittando spazi per l’allestimento delle botteghe e riscuotendo i dazi. (segue a p. 47)

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Verona

Un patrono africano per la città dell’Arena La città veneta edificata sulle due sponde del fiume Adige era un illustre centro urbano già in età romana. Per evocare i fasti di quel periodo, è sufficiente richiamare l’immagine del monumento-simbolo di Verona, l’anfiteatro, assai ben conservato e tuttora utilizzato come luogo di spettacolo, meglio noto come Arena. Ma non si dovrebbero dimenticare l’arco trionfale dei Gavi, nei pressi di Castelvecchio, o l’imponente Porta dei Borsari, situata

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sull’asse viario che costeggiava il foro antico, e che ha continuato a svolgere il suo ruolo di importante direttrice urbana nell’assetto medievale della città. La predominanza dell’Arena e la solida cerchia muraria antica, fortificata da un fitto circuito di torri, sono i tratti piú efficaci della Iconografia di Verona, un’immagine a volo di uccello del paesaggio urbano che il vescovo locale Raterio condusse con sé, in ricordo della sua

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In alto Verona, S. Zeno. La lunetta policroma del portale in cui, ai lati del santo titolare della basilica, compaiono una schiera di fanti (cives) e una di cavalieri (milites). 1136. A sinistra la veduta a volo d’uccello della città di Verona nel X sec. nota come Iconografia Rateriana, perché attribuita al vescovo Raterio, che, in realtà, ne fu solo il possessore.

città, nel suo forzato esilio d’Oltralpe (968). L’originale è andato perduto, ma si conserva fortunatamente una copia settecentesca assai preziosa, che tramanda cosí il piú antico memoriale iconografico di una città del Medioevo italiano. Si conserva poi un componimento poetico risalente agli anni 781-810 in onore della città. Rappresenta uno dei piú antichi esempi di laudes civitatum, e sembra un perfetto controcanto letterario della Iconografia di Raterio. L’essenza antica di Verona non emerge dal racconto storico, che prende quota, piuttosto, dalle vicende dei santi illustri dei primordi della cristianità, fino alla serie dei vescovi, tra cui spicca il patrono san Zeno (IV secolo). La Verona dei Cesari fa da palcoscenico attraverso le pietre delle sue persistenze monumentali, evocate in diversi modi. Dell’Arena si impone all’attenzione la sua immensa struttura labirintica, che suscita stupore e inquietudine nell’osservatore. D’altro canto, le solide e insormontabili mura, punteggiate da 48 torri, otto delle quali altissime, impreziosiscono e

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presidiano la città in modo mirabile, come se fosse una Gerusalemme celeste calata nel mondo terreno. Le fortificazioni della città pagana entrano cosí a pieno titolo nell’immagine urbana della città cristiana. Verona è stata sede regale all’epoca di Teodorico (493-526), e ritrovò questo ruolo sotto Berengario I (888-924), in uno dei periodi piú convulsi del Regno italico. Ma se si è persa traccia del palatium che dovette accogliere la corte del sovrano, presso l’antico castrum sulla riva sinistra dell’Adige, rimane ancora ben leggibile la maglia dei santuari che fortificarono spiritualmente la città, e che le diedero una precisa identità nel corso della rinascita del pieno Medioevo. Un ruolo di primo piano fu giocato sin da subito dall’antica chiesa di S. Zeno Maggiore, fuori le mura, che accoglieva le spoglie del vescovo e santo patrono cittadino, oriundo dell’Africa come sant’Agostino: un personaggio colto e autorevole, che esprime con vigore lo spirito di grandezza e di distinzione della Verona medievale. San Zeno è, per Verona, il corrispettivo di sant’Ambrogio per Milano. Lo si vede bene nell’assetto attuale della sua basilica, che risale ai primi decenni del XII secolo, nel pieno della rinascita cittadina. Lo scultore Niccolò, nel 1136, lo rappresentò sulla lunetta del portale principale, imponente nei suoi paludamenti vescovili. Ai suoi fianchi appaiono, a destra,

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civiltĂ comunale/1

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In alto l’anfiteatro romano di Verona, meglio noto come Arena. I sec. d.C. A sinistra la torre realizzata nel 1172 dalla famiglia dei Lamberti e inglobata nel Palazzo della Ragione, già broletto della città. Derivato dal latino medievale brolium/broilum (parola d’origine celtica che indica un orto o uno spazio aperto delimitato da un recinto), il termine broletto designa i palazzi civici dell’Italia settentrionale.

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otto cives (fanti) armati di spada mentre, sul lato opposto, si evidenziano quattro milites, con tanto di cavalli e di armatura pesante. L’iscrizione recita: «Il presule dà al popolo un’insegna che ha la stessa forza di un baluardo; Zeno concede il vessillo con animo sereno». Come è evidente, assistiamo a una trasparente rappresentazione della realtà civica del tempo, laddove il vescovo, impersonato dal patrono, è affiancato dai rappresentanti dei ceti piú rilevanti, distinti come di consueto dall’appartenenza o meno al rango cavalleresco. È chiaro, dunque, che il vescovo esercita un potere spirituale, esplicitamente richiamato dal sacro vessillo piú potente di qualsiasi fortificazione, ma demanda agli organi del nascente Comune la difesa della città e tutte le altre mansioni di interesse generale. Merita inoltre d’essere rilevato il rapporto numerico non casuale tra i cives e i milites, nell’ordine di 2:1, per evidenziare la diversa consistenza dei due ceti (i fanti sono naturalmente piú numerosi dei cavalieri, ma hanno un «peso

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specifico» minore: ci vogliono due fanti per contrappesare un cavaliere). La distinzione di ruoli tra l’ambito religioso e l’ambito civile si riflette nell’ubicazione della sede comunale presso l’antico Foro, sede storica del mercato cittadino (l’odierna piazza delle Erbe), che non coincide con la sede del duomo e del palazzo vescovile. L’attuale broletto (il Palazzo della Ragione) è attestato già nel 1196 ed è il piú antico di quelli superstiti. Sin dall’inizio è stato concepito a pianta quadrilatera, con quattro ali che definiscono un cortile porticato centrale (il Mercato Vecchio), alla stregua dei chiostri monastici. Sobrio e al tempo stesso elegante, il palazzo presenta pareti composte da filari di tufo color crema alternati a rossi strati di mattoni, secondo uno stile locale che si ravvisa nella stessa basilica di S. Zeno. Il piano superiore, che accoglieva le aule di riunione, ampiamente rimaneggiate, è illuminato da trifore che sottolineano la dignità «palaziale» dell’edificio, in allusione alla loggia (triforium) da cui si affacciava il sovrano negli antichi centri del potere.

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I commercianti (negotiatores) si trovavano al margine della struttura feudale, nell’ambito dei lavoratori agricoli e degli artigiani. Ciononostante, andavano accumulando fortune consistenti, grazie ai rapporti commerciali intensissimi lungo la Val Padana, favoriti dalle vie fluviali, e, con le rendite delle loro attività, avevano anche potuto avviare una cospicua promozione sociale. Compravano terre in campagna e case in città. I loro figli tendevano a esercitare la professione del prete, del giudice o del notaio.

Una società in subbuglio

D’altronde, stava prendendo corpo un profondo rimescolamento della struttura sociale, ormai insofferente nei riguardi dei rigidi schemi dell’ordinamento carolingio. La Chiesa stessa si lamentava del fatto che i servi, una volta affrancati, generavano con donne libere figli che potevano aspirare al chiericato. Un ricco fabbricante di monete, Benedetto Rozo, nel 1030 fondò l’importante chiesa milanese del Santo Sepolcro, laddove, fino a quel momento, i patroni delle chiese erano in genere feudatari di spicco. Persino la dignità cavalleresca, tra l’XI e il XII secolo, non era piú una prerogativa esclusiva del ceto nobiliare. In questo ribollente marasma, l’arcivescovo poteva contare sulla fedeltà dei capitanei, vassalli legati alla Chiesa grazie all’investitura di benefici «strategici» (sono spesso patroni di una pieve, ossia una «cattedrale in miniatura» che esercita ampie prerogative su un distretto rurale). Ma i valvassori (i vassalli dei capitanei) scalpitavano, decisi ad avere maggior voce in capitolo, e l’imperatore, sempre piú preoccupato dello strapotere del «suo» arcivescovo milanese, prestò orecchio alle lamentele e alle profferte di questi nobili ambiziosi. La loro ribellione scoppiò nel 1035/36. Corrado si propose dapprima come arbitro, ma poi scese

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Capitanei e valvassori

Uniti contro i cives Nella realtà delle città precomunali, emerse il ruolo cruciale di quei vassalli che occupavano la fascia piú eminente dell’aristocrazia locale. I capitanei avevano ricevuto benefici dai piú potenti feudatari, laici o religiosi (marchesi, conti, duchi o vescovi), e avevano alle loro dipendenze i valvassori. Si formarono cosí due gruppi nobiliari, spesso in competizione e talvolta uniti contro le rivendicazioni dei cives (i cittadini privi di investiture: proprietari privati, commercianti, professionisti). in guerra aperta contro Ariberto. Lo fece prigioniero, dichiarandolo decaduto dalla sua carica, e, al contempo, si assicurò il favore dei valvassori con la Constitutio de feudis (1037), che permetteva ai feudatari minori di trasmettere in eredità i propri beni. Ma Ariberto resistette, forte del sostegno popolare. I Milanesi si strinsero intorno a lui come custode e difensore dei privilegi e degli onori della città ambrosiana. Tuttavia, proprio i suoi concittadini ne decretarono la sconfitta finale.

La rinuncia di Ariberto

Nel 1040 scoppiò una grave crisi. Valvassori e capitanei si trovarono

Da leggere U Cinzio Violante, La società

milanese nell’età precomunale, Laterza, Roma-Bari 1981 U Chiara Frugoni, Una lontana città. Sentimenti e immagini nel Medioevo, Einaudi, Torino 1983 U AA.VV., Ariberto da Intimiano. Fede, potere e cultura a Milano nel secolo XI, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2007 U Giancarlo Andenna, Città e impero, in Renata Salvarani-Liana Castelfranchi (a cura di), Matilde di Canossa, il papato, l’impero. Storia, arte, cultura alle origini del romanico, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2008; pp. 100-115.

Nella pagina accanto miniatura che ritrae il Cristo, ai cui piedi si inginocchiano l’imperatore Corrado II il Salico e sua moglie Gisella. XI sec. El Escorial (Madrid), Biblioteca del Monastero di S. Lorenzo.

sul medesimo fronte per rispondere alla rivolta del popolo, postosi sotto la guida del notaio Lanzone della Corte, un nobile che apparteneva all’ambiente arcivescovile. Ariberto, gravemente malato, rinunciò a schierarsi e lasciò la sua città. Poté farvi ritorno poco prima della sua morte (1045). La rivolta di Lanzone si risolse in un compromesso con i nobili fuoriusciti, ma la storia del Comune, ormai inarrestabile, era iniziata. In fondo, legandosi all’aristocrazia e anche al ceto mercantile, la Chiesa stessa aveva favorito una dinamica di confronti tumultuosa, ma alla lunga capace di fondare un nuovo ordinamento cittadino. E non mancavano osservatori nostalgici di quel mondo ben definito in cui la Chiesa si occupava solo delle anime e la cosa pubblica era gestita da un unico magistrato che rendeva conto direttamente al sovrano: il conte, garante dell’ordine e della legalità. In quei bei tempi, ricorda il cronista Landolfo Seniore (XI-XII secolo), mercanti e contadini vivevano in pace pensando agli affari loro. Ora, invece… F

NEL PROSSIMO NUMERO ● I Comuni e l’impero

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Chi piú

dorme, piú guadagna di Claudio Corvino

Il sogno di un mondo fantastico, capace di offrire ogni ben di Dio è stato coltivato dall’uomo fin dall’età antica. Ma, nel Medioevo, trovò una delle sue elaborazioni piú suggestive, con la «fondazione» del favoloso Paese di Cuccagna... 48


immaginario il paese di cuccagna

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ella fiaba omonima di Hans Christian Andersen (18051875), la piccola fiammiferaia soffre il terribile freddo della notte di Capodanno e tenta invano di riscaldarsi con i pochi zolfanelli rimasti. Ogni volta che ne accende uno, le si apre uno scenario immaginario: al secondo, vede una tavola imbandita e «nel mezzo della tavola, l’oca arrostita fumava, tutta ripiena di mele cotte e di prugne. Il piú bello poi fu che l’oca stessa balzò fuor del piatto e, col trinciante ed il forchettone piantati nel dorso, si diede ad arrancare per la stanza, dirigendosi proprio verso la povera bambina». Piú che un’allucinazione frutto dell’inventiva di Andersen, quell’oca cucinata e imbanditasi da sola sembra essere un motivo leggendario proveniente da un altro contesto, secondo il collaudato meccanismo individuato dallo studioso russo del folclore Vladimir Propp (1895-1970) come «legge di permutabilità»: le parti di un racconto meraviglioso possono passare in altri senza che vi sia alterazione.

Das Schlaraffenland (Il Paese di Cuccagna), olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1567. Monaco, Alte Pinakothek.

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Le immagini utilizzate a corredo di questo articolo e facenti parte della Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli» sono state recentemente esposte nella mostra «Il mito del paese di Cuccagna. Immagini a stampa dalla Raccolta Bertarelli», allestita a Milano, nella Sala Viscontea di Palazzo Sforzesco. Dei temi della rassegna e dei documenti in essa presentati dà conto la pubblicazione realizzata per l’occasione, per i tipi delle Edizioni ETS (info: www.edizioniets.com).

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Oltre trent’anni piú tardi, ne Le avventure di Pinocchio: storia di un burattino, Carlo Collodi (1826-1890), attingendo allo stesso bacino mitologico, cosí fa descrivere a Lucignolo il Paese dei Balocchi: «Lí non vi sono scuole: lí non vi sono maestri: lí non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedí non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedí e di una domenica. Figurati che le vacannovembre

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A sinistra Discritione del Paese di Chucagna, dove chi manco lavora piu guadagna, incisione colorata a pennello. Seconda metà del XVIII sec. Milano, Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli». A destra incisione in cui si immagina la pratica del gioco dell’albero della cuccagna in età medievale. 1914. Collezione privata.

l’albero della cuccagna

L’arte contemporanea rivisita il folclore L’albero della cuccagna è ancora oggi utilizzato in molte feste popolari in tutta Europa. Il gioco consiste essenzialmente nell’arrampicarsi su un palo, reso scivoloso dal grasso o dal sapone, per riuscire a prendere i beni che vi sono stati legati alla cima. Su questo giocoso albero, Achille Bonito Oliva ha curato una mostra, «L’albero della Cuccagna. Nutrimenti dell’Arte», diffusa in tutta Italia, dal Trentino alla Sicilia, tra musei e fondazioni pubbliche e private. La mostra coinvolge trenta artisti scelti dal critico d’arte per realizzare opere ispirate al tema arcaico dell’albero della cuccagna, simbolo di abbondanza e monito dell’arte sui temi dell’alimentazione e sulle sue implicazioni sociali. Per conoscere le varie sedi dell’esposizione, in programma fino al febbraio 2016, si può consultare il sito: http://www.clponline.it/mostre/lalbero-della-cuccagna-nutrimenti-dellarte ze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono con l’ultimo di dicembre». Andersen e Collodi riscrivono entrambi il mito – molto piú antico – del Paese di Cuccagna, luogo fantastico, nel quale «chi piú dorme piú guadagna», come recita il refrain dei testi che ne parlano. Un paese, però, edulcorato, filtrato e rielaborato da una coeva morale borghese, che tendeva a eliminare tutto quanto di

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grossolano o di erotico ci fosse nella cultura popolare, persino quegli elementi che sarebbero tanto piaciuti agli stessi ragazzini, come «ogni peto vale un tallero».

La versione dei Grimm

Anche i fratelli Grimm (Jacob, 1785-1863, e Wilhelm, 1786-1859) si cimentarono con la leggenda nella Fiaba del paese di Cuccagna, tratta da un Lügengedicht (poesia di

bugie) medio alto tedesco del XIV secolo. Ma qui il vero tema non era quello «originario» – o perlomeno medievale – dell’abolizione della fame e del lavoro, che vedremo tra poco, bensí quello del «mondo alla rovescia», nel quale «un uomo senza piedi era piú veloce di un cavallo» o si poteva vedere «un aratro che arava senza buoi o cavallo, e un bimbo di un anno buttare quattro macine da Ratisbona a Treviri»…

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immaginario il paese di cuccagna (il racconto nel quale, stregati dal suono di un flauto magico, tutti i bambini della città vengono trascinati nelle viscere di una montagna, n.d.r.), i cui primi documenti risalgono al XIII secolo. Se nel 1164 in un poema goliardico, i Carmina Burana, incontriamo un abbas Cucaniensis (figura molto vicina all’abate burlesco delle Feste dei folli), la prima vera descrizione del Paese di Cuccagna appare, nel XIII secolo, nel Nord della Francia, in Piccardia, nel Fabliau de Cocagne. Tali componimenti, i fabliaux, erano brevi storie di intrattenimento, spesso scherzose o farsesche, redatte nelle quartine proprie dell’epos cavalleresco e cortese e recitate a un pubblico «popolare».

Muri fatti di salmoni...

Il cuoco e sua moglie, incisione di Albrecht Dürer. 1496-1497. Uno degli elementi che maggiormente connotano il mito del Paese di Cuccagna è l’abbondanza di cibo, elaborata anche come risposta alle frequenti carestie.

I miti cambiano col tempo e cosí anche quello di Cuccagna si piegò, nell’Ottocento, alle esigenze del suo nuovo pubblico e della morale che l’informava: in questi onirici mondi dei balocchi assistiamo alla ribellione dei bambini (figli, scolari, apprendisti) alle nuove e pesanti costrizioni scolastiche e parentali alle

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quali venivano sottoposti in nome dell’obbedienza all’autorità maschile adulta, nelle forme del padre, del maestro, del padrone. Non a caso, nel paese di Collodi possono vivere soltanto bambini pedagogicamente indisciplinati, che si muovono rumorosamente in branco: il Medioevo avrebbe guardato con sospetto, se non con terrore, queste chiassose turbe di infanti, come ci ricordano, per esempio, la cosiddetta «Crociata dei bambini» (1212; vedi «Medioevo» n. 166, novembre 2010; anche on line su medioevo.it) o Il pifferaio di Hamelin

Nel nostro buffo Fabliau de Cocagne, il narratore si presenta come un giovane, ma non per questo meno saggio e, dopo un breve preambolo, spiega il motivo del suo viaggio, ovvero un pellegrinaggio penitenziale impostogli dal papa in persona. Ma lasciamo che a parlare sia lui, nella traduzione di Gian Carlo Belletti: «Una volta andai a Roma dal papa per chiedere penitenza, e lui mi inviò in pellegrinaggio in un paese ove ho visto molte cose meravigliose (…) Il paese è quello di cuccagna, dove piú si dorme piú si guadagna: chi dorme sino a mezzogiorno, guadagna cinque soldi e mezzo. Di spigole, di salmoni e di aringhe sono fatti i muri delle case; le capriate sono di storioni, i tetti di prosciutti e i correnti di salsicce. Il paese ha molte attrattive, perché di pezzi di carne arrosto e di spalle di maiale sono circondati tutti i campi di grano; per le strade si rosolano grasse oche che girano da sole su se stesse». Quest’ultima scena ci riporta immediatamente a quella della piccola fiammiferaia. Ma la descrizione continua con un mondo fantastico, nel quale i fiumi sono fatti di vino e, cosa della massima importanza, non si lavora mai: «Quattro Pasque ci sono in un anno, e quattro feste di San novembre

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Giovanni, e quattro vendemmie, ogni giorno è festa o domenica, quattro Ognissanti, quattro Natali, e quattro Candelore per anno, e quattro Carnevali». Festa non molto desiderata, «la Quaresima cade ogni vent’anni», mentre ognuno può raccogliere denari da terra, che comunque non servono a niente, perché in questo Paese «nessuno compra e nessuno vende». Neanche a dirlo, «le donne poi sono bellissime, dame e damigelle prende chi ne ha desiderio (…) e se accade per avventura che una donna posi gli occhi su un uomo ch’ella concupisca, può prenderselo pubblicamente». È interessante osservare il ricorrere del numero quattro, considerato tipicamente «terreno» nel simbolismo medievale, che si oppone al carattere divino del numero precedente, il tre: quattro sono gli elementi del mondo materiale (acqua, fuoco, aria e terra) e i tipi umani secondo la medicina (flemmatico,

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collerico, melanconico, sanguigno) come quattro sono le virtú (sapienza, giustizia, fortezza, temperanza) e i punti cardinali, i Vangeli, i bracci della Croce e le lettere del primo uomo, A-d-a-m. Per il resto, gli altri tratti che rimarranno pressoché stabili nella storia del mito letterario di Cuccagna sembrano essere ancora quattro: abbondanza, ozio, uguaglianza, giovinezza.

Origine mediterranea?

L’abbondanza, quella alimentare, sembra essere diventata nei secoli il tratto piú connotativo di Cuccagna e il suo stesso etimo, pur incerto, sembra legato al latino coquere o forse al provenzale cocagna, derivato da un coque, che starebbe per guscio d’uovo, oppure dal medio tedesco kokenje, dolce. Che la sua origine sia mediterranea verrebbe comprovato anche dal fatto che nelle lingue del

Tavoliere per il Gioco della Cucagna, che mai si perde, e sempre si guadagna. 1691. Milano, Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli».

Nord Europa le antiche designazioni vengano sostituite da termini locali come il tedesco Schlaraffenland (da slûr, qualcosa come ciondolare, lavorare svogliatamente e Affe, scimmia) o l’inglese Lubberland. «Il piacere degli occhi e la bellezza delle cose – scriveva lo storico Fernand-Paul Braudel (1902-1985) – nascondono i tradimenti della geologia e del clima, e fanno dimenticare che il Mediterraneo non è mai stato un paradiso offerto gratuitamente al diletto dell’umanità». La frugalità e moderazione contadina che noi oggi chiamiamo «dieta mediterranea», prima che mito identitario, era la dura condanna di esseri umani premoderni che conosceva-

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L’età dell’oro, olio su tavola di Jacopo Zucchi. 1570 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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Tra paradisi e sabba delle streghe

Da Gilgamesh a Domina Abundia Il cibo, la sua abbondanza, la sua illimitata moltiplicazione sono sempre stati il sogno prediletto dei comuni mortali, almeno dall’epoca in cui nel paese di Gilgamesh (mitico eroe mesopotamico, le cui gesta furono fissate, per la prima volta nel III millennio a.C., in forma di poema epico, n.d.r.) piovevano «in abbondanza gli uccelli migliori, i pesci piú deliziosi, le messi piú ricche». Molti secoli piú tardi, un poema mesopotamico descrive la Terra di Dilmun: una regione piena di ciliegie, priva di malattia e di morte e dove regna la pace tra il lupo e l’agnello. Analogamente, il poeta greco Esiodo (attivo forse nell’VIII secolo a.C.), ne Le opere e i giorni, racconta di una mitica età dell’oro, in cui gli uomini erano felici e «ogni sorta di beni c’era per loro: il suo frutto dava la fertile terra, senza lavoro, ricco e abbondante, e loro, contenti, sereni, si spartivano le loro opere in mezzo a beni infiniti». Come relitti mitici alla deriva, anche nella Grecia del V secolo a.C. troviamo ruscelli di vino e pani che gareggiano per essere divorati dagli uomini, pesci che si friggono da soli e nuotano nei piatti, un fiume di minestra che trasporta pezzi di carne pronti per essere no la fame, le carestie e i loro corollari di guerra e malattia. Se le storie e i rituali ancora oggi raccontati dai Carnevali europei parlano di grandi abbuffate, di pranzi pantagruelici, di pance piene fino a scoppiare è perché conservano memoria di quando, almeno una volta nell’anno, si voleva vivere una realtà diversa, azzerando i normali scenari di vuoto gastrico, in favore di un mondo compensativo, onirico e rituale che capovolgesse la realtà. La fame, all’epoca del Fabliau de Cocaigne, non era un mito: tra il XII e il XIII secolo si ebbero trentasette carestie, una ogni cinque anni, che costringevano la gente, dicono le fonti, a panificare con terre argillose e i poveri – riporta una cronaca del 1316 – «Come cani (se è lecito dirlo), addentavano i cadaveri delle pecore crudi e divoravano l’erba dei campi come le bestie, senza cuocerla». Si diffondevano casi e storie di cannibalismo, la piú famosa delle

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collocati sui tavoli posti alle sue rive (Teleclide, Gli Anfizioni). E Platone, nel Crizia, parla di un’età dell’oro in cui non vi era la proprietà privata, la terra produceva frutti in «quantità illimitata» e i pascoli alimentavano ogni tipo di bestiame. Entrarono a far parte del mito di Cuccagna anche i contigui paradisi che gli uomini di fede immaginarono di incontrare dopo la morte: le terre dell’abbondanza «dove scorrono latte e miele» degli Ebrei, quelle fantastiche e straripanti di meraviglie che fecero da sfondo all’aldilà dei Celti, prima fra tutte la mitica Avalon, dove fu portato re Artú ferito, e il paradiso musulmano, che, nel 1033, il letterato arabo Abul Ala-Maarri (9731058) descriveva come una terra in cui grasse oche si presentavano arrostite agli uomini, per poi prendere la loro forma originale dopo essere state mangiate. Per vie complesse e ancora ignote, il mito di Cuccagna penetrò anche nei sabba delle streghe, dove gli animali venivano mangiati a banchetto per poi essere «ricuciti» e resuscitati da una misteriosa dama del Buon Giogo, detta anche e significativamente, Domina Abundia.

quali era legata a un oste-orco che uccise e mise in salamoia tre fanciulli, gli stessi che, secondo la leggenda, vennero offerti come carne a san Nicola, il quale puní l’oste e resuscitò i tre scolari. Cronologicamente vicino al nostro fabliau, si muove continuamente spinto dalla fame anche il protagonista del Roman de Renart (una raccolta di racconti francesi composta tra il XII e il XIII secolo, di cui sono protagonisti la volpe Renart e il lupo Isengrino, acerrimi nemici, e altri animali, n.d.r.).

Un mondo mitico

L’essere dipendenti da una natura e da un sistema economico non benigno trovò la sua forma di riscatto nell’allontanamento dal mondo reale e nell’invenzione di un onirismo gratuito e profumato. Un mondo mitico, che compensava la fame e la miseria della vita quotidiana: il mondo di Cuccagna. L’esaltazione dell’ozio professata

in questo paese sembra speculare alla contemporanea riabilitazione del concetto di lavoro (che, ricordiamolo, fu per secoli considerato la conseguenza del peccato di Adamo e Eva) che si registra in Europa: grazie alle nuove necessità dello sviluppo agricolo e urbano, il concetto di lavoro assunse tratti estremamente positivi, tanto che, in questo periodo, si diffonde il proverbio «Il lavoro supera la valentía». Siamo nella lunga transizione dalla società feudale medievale a quella moderna borghese, in cui il nuovo rapporto merce/denaro, i nascenti capitali commerciali e l’economia urbana mutano non solo l’assetto e i rapporti di potere degli abitanti delle nascenti città, ma anche il carattere del lavoro umano. Se nel sistema agrario feudale, in condizioni servili, la produzione era limitata al soddisfacimento dei propri bisogni alimentari, all’alba del mondo moderno il ricavato

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immaginario il paese di cuccagna La cucina grassa, incisione del XVII sec., da un dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio, che mostra una sorta di interno ideale del Paese di Cuccagna, con salsicce, paioli e spiedi, in un luogo in cui perfino i cani sono sovrappeso e aiutano a scacciare un mendicante che vorrebbe entrare.

dell’attività umana, a causa della sua trasformazione in denaro, diventa moltiplicabile al di là di ogni limite. L’ozio diviene cosí il «padre dei vizi», mentre in quel «mondo alla rovescia» che è Cuccagna sarà la vera fonte di guadagno.

Una visione utopistica

Altro tratto costante del nostro paese è l’uguaglianza: dal cinquecentesco Capitolo di Cuccagna sappiamo che là «non c’è duca, né signor, né conte, ognun ci vive alla sua libertade»: parole forti, nelle quali si esprime tutto lo spirito contestatario (potenzialmente pericoloso) dell’utopia di Cuccagna. Qui, però, l’eguaglianza non sembra essere un programma politico o una piattaforma rivendicativa, bensí un’altra destorificazione conseguente l’immagine di dovizia e di abbondanza del Paese. Fallito il programma religioso cristiano di fratellanza fra gli uomini, Cuccagna non sogna la rivoluzione,

dal mito alla geopolitica

Tra Paesi cicala e Paesi formica Il Paese di Cuccagna è stato nei secoli un contenitore immaginario, riempito di volta in volta di significati diversi: è stato un mito, un’ideologia contestataria, un’utopia. Oggi, uscito dalla finestra, il mito sembra rientrare dalla porta. In questi giorni e in un’Europa che molti considerano divisa tra un Nord e un Sud, abitati, rispettivamente, da lavoratori produttivi e infaticabili e poltroni nullafacenti aspiranti a un favoloso paese di Cuccagna, è un momento quanto mai opportuno e attuale per riparlarne e analizzarne i suoi significati nascosti. Aleggia nuovamente per l’Europa infatti lo spettro razzista di un determinismo ambientale,

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secondo il quale i Paesi del Sud (in primis la Grecia) non riuscirebbero a risollevarsi economicamente a causa della loro indole «cuccagnesca». Sembra quasi che il Mediterraneo si sia spaccato in due zone, simbolicamente rappresentate dalla formica (il Nord) e dalla cicala (il Sud). Metafore animali di lunga durata che hanno dato vita a differenti varianti favolistiche, una delle quali raccontata da Gianni Rodari negli anni sessanta del Novecento: «Chiedo scusa alla favola antica, / se non mi piace l’avara formica. / Io sto dalla parte della cicala / che il piú bel canto non vende, regala». novembre

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non mira all’abolizione delle gerarchie o del lusso: semplicemente, tutto è diffuso egualmente e gli alimenti e l’oro si ritrovano a ogni angolo di strada. Ricordiamo che a Cuccagna non esiste produzione, ma solo distribuzione (gratuita) e consumo (egualitario).

Il piú orrendo dei peccati

Ma il Paese di Cuccagna, pur nel suo «congelamento» letterario, era destinato a cambiare, mutando forma e significato con il trascorrere dei secoli. In Germania lo Schlaraffenland ha sempre mostrato i suoi tratti piú rozzi e grossolani: da un testo di Hans Sachs (1530) apprendiamo che «Un peto vale un soldo di Bingen, / tre rutti un tallero di Sankt Joachimsthal». Eppure, proprio nel mondo tedesco, Cuccagna cominciò presto a essere disprezzato, anche per via della Riforma protestante, che equiparava la vita monacale dei cattolici alla «poltroneria» schlaraffiana. Lo stesso Martin Lutero ebbe a scrivere che «tutti questi conventi e istituti religiosi cominciano a cadere e devono finalmente venire eliminati, ed ora si giunge alla verità, che il monachesimo è il vero paese di cuccagna, pieno di tutto per i pigri frati, compresa anche la fontana della vita, che è il loro falso battesimo». Con l’etica protestante il lavoro viene nobilitato e il successo visto come un segno divino, mentre la diligenza e la previdenza saranno mete da perseguire: in questa logica, l’ozio cuccagnesco non poteva non diventare il piú orrendo dei peccati. Anche nel resto d’Europa Cuccagna subí molti cambiamenti. Dai viaggi di Cristoforo Colombo in poi, tra le masse cominciarono a nascere speranze di un «altro mondo», capace di dare forma concreta ai motivi cuccagneschi della natura rigogliosa, della ricchezza dell’oro, della libertà sessuale. Ne nacque una letteratura specialistica popolare che ebbe lunghissima durata e che fece confluire in questo Mondus

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Novus vaghe idee geografiche, sociali e religiose. Cosí si ebbero varie pubblicazioni sul tipo del Capitolo, qual narra tutto l’essere d’un mondo nuovo, trovato nel mar Oceano (Modena, metà del XVI secolo), in cui, oltre alla solita «montagna di casio grattato / sola si vede in mezzo alla pianura, / che in cima una caldara gli han portato», si cominciò a concepire un mondo senza il vincolo delle istituzioni sociali, in cui il selvaggio, il «buon selvaggio», viveva una vita libera e «naturale». Il Mondus Novus diventò sempre di piú una concreta speranza di sfuggire al «vecchio mondo» e al suo repressivo ordine assolutistico. L’esemplificazione piú chiara dello slittamento, nella geografia e nell’immaginario, di Cuccagna è offerta da un’illustrazione della fine del Seicento che mostra un buffo omino con una pancia tanto gonfia da doverla portare su di un carretto. Indicativo è il titolo: Il generale von Fressdorf (fressen è «divorare») e Wansthausen (Wanst è «pancione» o «trippa») appena giunto dall’America e paese di cuccagna. Nasce cosí il mito dell’America come «terra di libertà», nella quale gli uomini eletti (in genere protestanti) potranno esperire nuove forme di vita, di governo.

Le avventure di Robinson

La letteratura conobbe anche altri paradisi, stimolati dalle nuove scoperte geografiche. Tuttavia, dal Settecento in poi queste colonie cuccagnesche vennero guidate dall’uomo bianco, il cui prototipo fu Robinson Crusoe, protestante capitalista asceticamente dedito al lavoro, sovrano di Venerdí e signore della sua isola, avanguardia letteraria della colonizzazione bianca (nell’invenzione letteraria di Daniel De Foe, 1660-1731, ispirata al racconto delle avventure realmente vissute dal marinaio Alexander Selkirk e pubblicata per la prima volta nel 1719, n.d.r.). Cosí, lentamente, il Settecento, secolo di corteggiamento del mi-

to del possesso e del potere, della sovranità intesa come centralità dell’esperienza umana e specchio di un nuovo ordine dell’universo, divenne il funerale di Cuccagna. Il piú potente mito d’evasione delle genti si trasformò in un narcotizzante rifugio per oziosi poltroni o, magari, una malinconica grande abbuffata, da fare al chiuso delle sale principesche, raramente aperte alla folla nelle feste di piazza elargite dai re. Come ha scritto lo storico della cultura e filologo Piero Camporesi (1926-1997), il mitico Paese «cede lentamente il passo alla progressiva privatizzazione di un immaginario teatro comunitario che aveva avuto invece nella comunione dei beni e nella socializzazione della gioia fisica e del benessere corporale la sua logica antica, anzi la sua sacralità, la sua religio». F

Da leggere U Michail Michajlovic Bachtin,

L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 1979 U Gian Carlo Belletti (a cura di), Fabliaux. Racconti comici medievali, Herodote, Ivrea 1982 U Piero Camporesi, Il paese della fame, Il Mulino, Bologna 1978 U Giuseppe Cocchiara, Il paese di Cuccagna, Boringhieri, Torino 1980 U Vita Fortunati, Giampaolo Zucchini, Paesi di Cuccagna e mondi alla rovescia, Alinea, Firenze 1989 U Hilario Franco Jr., Nel paese di Cuccagna. La società medievale tra il sogno e la vita quotidiana, Città Nuova, Roma 2001 U Dieter Richter, Il paese di Cuccagna. Storia di un’utopia popolare, La Nuova Italia, Firenze 1998 U Gianni Rodari, Filastrocche in cielo e in terra, Einaudi, Torino 1996

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Per la gloria di Ariberto

di Elena Percivaldi

Fra i molti meriti del grande ed energico vescovo di Intimiano vi fu la realizzazione, a Galliano, presso Cantú, del complesso monumentale composto dalla basilica di S. Vincenzo e dal battistero di S. Giovanni. Un insieme salvato, quasi in extremis, dal degrado e che oggi si impone come un gioiello dell’arte e dell’architettura romanica

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asciandosi alle spalle la Brianza, la strada che porta a Cantú, oggi in provincia di Como, conduce a una piccola altura immersa nel verde. Qui sorge l’antico complesso di Galliano: ne fanno parte una grande basilica romanica intitolata a san Vincenzo e un severo battistero dedicato a san Giovanni Battista, eretti in posizione dominante e solitaria, il cui profilo è appena turbato da alcuni edifici moderni. Il luogo in cui, tra il 1004 e il 1007, questo autentico gioiello del romanico lombardo vide la luce non fu scelto a caso, né è casuale la sua eccezionale sontuosità. A volerlo, infatti, fu Ariberto da Intimiano, futuro arcivescovo di Milano, originario di un borgo poco distante e in procinto di imporsi come una delle personalità piú in vista della drammatica epoca a cavallo tra il tramonto degli Ottoni e l’ascesa della dinastia salica. L’aspetto attuale del complesso, che sembra davvero «antico», ha tratto in inganno studiosi illustri, al punto che molti ne hanno enfatizzato la presunta integrità architettonica. L’equivoco – come ha di recente messo in luce lo storico dell’arte Roberto Cassanelli –, risale all’epoca dei primi restauri, avvenuti in due riprese, tra il 1910 e il 1913 e tra il 1932 e il 1934, a opera di Ambrogio Annoni. L’architetto, che operava per la Soprintendenza, si rifiutò di riedificare la navata sud, nel frattempo crollata, resistendo alle pressioni della Curia, che non voleva restituire al culto una chiesa «mutilata»: sostenitore del restauro inteso come conservazione e avvaloramento dell’edificio e non come ricomposizione stilistica o ricostruzione storica, si guadagnò cosí la fama di averne difeso l’integrità filologica. In realtà, quel che restava della basilica dopo le trasformazioni in casa colonica, le spoliazioni e gli innesti dovette essere ampiamente

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restaurato e ricostruito in quanto ridotto praticamente a rudere. Ma la fatica è stata ampiamente ripagata: il complesso di Galliano rappresenta oggi una delle testimonianze piú importanti e suggestive dell’arte romanica lombarda, il cui stile fonde in maniera mirabile – perfettamente in linea con i tempi in cui fu costruito, l’inizio dell’XI secolo – i dettami estetico-simbolici bizantini con le piú recenti tendenze dell’arte ottoniana.

Quando si veneravano le matrone...

La storia del luogo affonda le sue radici in un passato molto antico. Le prime testimonianze risalgono infatti almeno al II secolo a.C., cioè poco dopo la conquista di Como da parte di Roma (avvenuta nel 196 a.C.): un’ara conservata nell’area verde antistante il complesso riporta infatti la dedica alle «Matronis Braecorium Gallianatium», ossia alle matrone (divinità femminili) dei Braecori Gallianates, una tribú vicana il cui nome sopravvive nel toponimo. Con l’avvento del cristianesimo, l’area lariana fu evangelizzata alla fine del IV secolo su impulso di Ambrogio, il quale inviò nella zona il missionario Felice, destinato a divenirne il primo vescovo. Un cinquantennio piú tardi anche le campagne intorno a Galliano dovevano essere già convertite: proprio a questo periodo risalgono, infatti, le tracce del primo edificio di culto, riemerse sotto l’attuale basilica in occasione degli scavi condotti nel 1981-82. Questa prima chiesetta, di dimensioni limitate (15 x 9,5 m circa) a un’unica navata, sorgeva sulle rovine di una villa rustica e conservava alcune sepolture. La chiesa era dedicata a Cantú, basilica di S. Vincenzo a Galliano. Il tratto terminale della navata centrale, coronata dall’abside affrescata. novembre

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saper vedere galliano Lago di Como

Lago di Como

Galliano

Lago di Lecco

Lecco L Le eecco c cc Erba

Como

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Galliano

Parco Regionale di Montevecchia e della Valle di Curone

Giussano A36

Seveso

Carate Brianza Meda Arcore Vimercate

Lissone Limbiate

Monza

A51

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Dove e quando Basilica di S. Vincenzo in Galliano Cantú (Como), via San Vincenzo, Orario ma-ve, 9,30-12,30 e 15,00-18,00; sa-do, 9,30-11,30 e 15,00-17,00; lu chiuso Info tel. 031 717445 san Vincenzo di Saragozza, diacono e martire aragonese degli inizi del IV secolo il cui culto è documentato a Milano in età tardo-antica presso la basilica di S. Vincenzo in Prato, sorta a sua volta su un antico oratorio cimiteriale che ne conservava le reliquie. La prima chiesa di Galliano divenne presto un punto di riferimento importante per un territorio piú vasto: l’uso sepolcrale è confermato dalle numerose epigrafi – in primis quelle di Manifrit e Odelbertus, datate al VII secolo e oggi conservate alle Civiche Raccolte d’Arte del Castello Sforzesco di Milano –, mentre alla fine dell’Ottocento, nell’area antistante la basilica stessa, fu ritrovato un bacino, utilizzato probabilmente come fonte battesimale. Il momento di svolta giunse però in coincidenza con l’ascesa di un personaggio destinato a rivestire un ruolo di primissimo piano nel panorama milanese e lombardo all’alba del II millennio: Ariberto da Intimiano. Nato tra il 970 e il 980 nell’omonimo borgo situato pochi chilometri a nord di Galliano, era figlio di Berlinda e Gariardo, un agiato proprietario terriero che professava la legge longobarda e i cui beni si esten-

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devano dall’area bergamasca all’estremo limite della Martesana, dove, presso Cantú, si trovava appunto la corte di Antimiano (Intimiano).

L’intraprendenza di un giovane prelato Uomo ambizioso e intelligente, Ariberto divenne nel 998 suddiacono della Chiesa milanese e poi custode (custos) della chiesetta di Galliano, che apparteneva ai beni di famiglia. L’edificio, che ormai sorgeva lí da oltre cinque secoli, doveva essere piuttosto deteriorato e necessitava di urgenti restauri. Il giovane prelato diede quindi ordine di iniziare i lavori, molto probabilmente con l’idea di consolidare le strutture già esistenti e tutt’al piú di allargarle, senza procedere a un’effettiva ricostruzione. Durante le operazioni furono però rinvenute le spoglie di alcuni chierici locali che testimoniavano le origini del cristianesimo nel territorio: Manifredo, Ecclesio, Savino e Adeodato. Si procedette, dunque, a una vera e propria ricostruzione della chiesa, ora ingrandita a tre navate, a cui furono aggiunti l’abside, il campanile e la cripta destinata a custodire le reliquie del santo piú prenovembre

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stigioso, mentre le altre furono inserite nella colonnina centrale dell’altare. La traslazione delle reliquie e la consacrazione della chiesa avvennero nel 1007, come testimonia la lapide, oggi inserita lungo il muro perimetrale settentrionale, che recita testualmente: «Sesto giorno [prima delle] none di luglio (2 luglio, n.d.r.), traslazione di sant’Adeodato e dedicazione di questa chiesa. Qui riposano in pace, di buona memoria, i preti Ecclesio e Manifredo e il diacono Savino, che sono stati rinvenuti presso il sepolcro dello stesso sant’Adeodato, nell’anno del Signore 1007, indizione quinta, al tempo di Ariberto da Intimiano, suddiacono della santa Chiesa milanese e custode di questa chiesa, al tempo di re Enrico». Un testo indubbiamente interessante, perché, al di là della registrazione cronachistica dell’evento, si intravede chiaramente tra le righe il tentativo di Ariberto di mettersi in luce agli occhi dei fedeli e della Chiesa milanese come personalità di spicco: come altrimenti interpretare l’omissione di qualsiasi riferimento all’arcivescovo di Milano e la citazione, invece, del suo nome e di quello del sovrano?

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L’esterno della basilica di S. Vincenzo e dell’adiacente battistero di S. Giovanni Battista. A conferire al complesso la monumentalità che tuttora lo contraddistingue fu, nella prima metà dell’XI sec., l’arcivescovo Ariberto da Intimiano.

Che la basilica di Galliano fosse per Ariberto un vero e proprio «investimento» d’immagine risulta chiaro anche dalla presenza, nell’abside, del suo ritratto – affiancato da quello di Adeodato – mentre regge il modellino dell’edificio in atto di offrirlo a Cristo, contornato di nuovo da un’iscrizione che ribadisce il suo ruolo decisivo nella costruzione. Del resto, l’importanza che la basilica rivestiva per lui e per la sua famiglia è ribadita dalla presenza di alcuni graffiti conservati sempre sotto gli affreschi dell’abside che ricordano la morte sua (il 16 gennaio 1045) e quella del padre, del fratello e del nipote, tutti e tre di nome Gariardo. E anche l’orientamento non doveva essere casuale. Un tempo, infatti, si giungeva a Galliano proprio da Intimiano e non da Cantú come avviene oggi. La strada di collegamento che passava ai piedi del colle costeggiava il lato settentrionale, quindi il

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saper vedere galliano viandante si trovava di fronte la parete nord dell’edificio, che è anche l’unica a essere abbellita da una sequenza di nicchie e finestre: come se Ariberto avesse voluto simbolicamente comunicare a tutti, in via immediata, l’entità ormai monumentale acquisita dall’edificio proprio in virtú del suo potere e della sua azione. L’ascesa di Ariberto fu, in effetti, repentina. Un mese dopo la morte dell’arcivescovo Arnolfo, il 28 marzo 1018, venne scelto per succedergli sulla cattedra ambrosiana dai feudatari maggiori con il beneplacito di Enrico II. Appartenente al ceto dei grandi possidenti, utilizzò il (segue a p. 67)

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Il monumento in sintesi

Una splendida metafora 3 Perché è importante Il ciclo di S. Vincenzo a Galliano è una delle testimonianze piú importanti e suggestive dell’arte romanica lombarda. La sua riscoperta quasi casuale nell’Ottocento, dopo secoli di degrado, e il successivo, lungo e faticoso restauro hanno miracolosamente


LE DATE DA RICORDARE

consentito il recupero di un gioiello altrimenti destinato alla totale scomparsa. 3 La basilica nella storia Voluta da Ariberto da Intimiano, futuro arcivescovo di Milano, è testimonianza della sua forte personalità e al contempo manifesto della sua ascesa politica. La concezione monumentale e l’ambizioso programma decorativo costituiscono una metafora del potere della Chiesa milanese. 3 La basilica nell’arte Lo stile degli affreschi, realizzati da piú mani, di cui una (quella che operò nel catino absidale) eccezionale, fonde perfettamente i dettami estetico-simbolici bizantini con le piú recenti tendenze dell’arte ottoniana in voga nell’XI secolo.

Qui sopra la lapide del presbitero Adeodato, morto nel 525, le cui spoglie furono traslate in S. Vincenzo per volere di Ariberto da Intimiano. Nella pagina accanto particolare degli affreschi dell’abside nel quale compare il vescovo Ariberto nell’atto di donare la basilica di S. Vincenzo, da lui ricostruita.

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V secolo Edificazione di una chiesa a una sola navata su un precedente luogo sacro pagano. 1007 Traslazione delle reliquie di Adeodato e di altri santi e consacrazione della basilica. 1018-1045 Arcivescovato di Ariberto e costruzione del battistero. XIV secolo Inizio di un lungo periodo di decadenza. 1584 Visita pastorale dell’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo. La chiesa e gli edifici canonici sono fatiscenti. Trasferimento dei chierici a S. Paolo, in Cantú. 1616 Visita pastorale del cardinale Federico Borromeo. Il complesso è nel totale degrado. 1700 Trasformazione in magazzino agricolo. Parziale crollo delle strutture. 1799 Acquisto da parte di privati milanesi. Ricorso di don Calderini alla Repubblica Cisalpina. Istituzione di una Commissione artistica per valutare il bene. 1801 Esito negativo della Commissione. Sconsacrazione e trasformazione in casa colonica. 1831-1835 Don Carlo Annoni commissiona gli acquerelli che documentano le pitture, pubblicandoli poi nel 1835 in Monumenti e fatti politici e religiosi del borgo di Canturio e sua Pieve. 1907 Acquisto da parte di Giuseppe Foppa Pedretti, ultimo proprietario privato. 1909 Acquisto da parte del Comune di Cantú. 1910-13 Prima fase dei restauri. Recupero delle strutture originarie, demolizione degli edifici rurali. Ritrovamento delle lapidi romane e paleocristiane. 1930-1934 Seconda fase dei restauri. Risistemazione del complesso, recupero dei materiali dispersi a Milano e a Como. Drenaggio della cripta, consolidamento della struttura. 1934 Riconsacrazione della basilica per opera del cardinale Schuster. 1955-1967 Restauro degli affreschi. 1981-1986 Altri restauri agli affreschi. Sistemazione della cripta, copertura del presbiterio. 1986 Riapertura definitiva al culto. 2007 Festeggiamento del primo millennio del complesso monumentale.

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saper vedere galliano Visitiamo insieme

Le storie per immagini della basilica di S. Vincenzo ESTERNO La facciata, spartana, è priva di elementi decorativi e, nella forma attuale, rappresenta una fase intermedia «ideale» tra la struttura originale e quella che si presentava, già compromessa dalle delicate vicende storiche, nel 1835. Mancano l’atrio, la navata destra (crollata nel 1834) e il campanile, abbattuto. Il trattamento delle pareti restanti non è omogeneo. Il lato nord della chiesa, visibile dalla strada e quindi «monumentalizzato», presentava per esempio oltre a un piccolo portale d’accesso (ne resta ancora traccia nella muratura) ben otto finestre monofore, quattro delle quali sono

state tamponate per permettere la decorazione ad affresco delle pareti. Il lato sud, invece, forse perché interno e adiacente al battistero, ne presentava la metà (e due furono chiuse).

Sulle due pagine le pitture del registro inferiore dell’abside, con scene della vita di san Vincenzo: da sinistra, la tortura con il piombo fuso, il ritrovamento del corpo sulla spiaggia e il suo seppellimento. Nella pagina accanto, in alto il Cristo in Maestà in uno degli acquerelli realizzati su commissione di don Carlo Annoni e da lui pubblicati nel 1835.

del Cristo in Maestà, si stagliavano due grandi colonne che reggevano una trave di legno, oggi scomparse ma ancora esistenti nell’Ottocento (sono documentate da un acquerello). L’altare maggiore, smontato nel 1801 e ricostruito nel 1934, presenta solo pochi elementi originali, tra i quali un capitello confrontabile, per tipologia stilistica, con le colonne analoghe

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INTERNO L’abside si innesta sulla navata centrale ed è introdotta da un presbiterio, sopraelevato dallo scavo della cripta, accessibile da una scala di nove gradini. Il fronte del presbiterio era ricoperto da affreschi: sopravvivono solo quelli del lato destro, perché il sinistro fu abbattuto nel XII secolo per far posto a un ambone a sbalzo (ora non piú esistente). Al centro dell’abside, ai lati

un tempo presenti in S. Abbondio a Como. La mensa è stata ricostruita sulla base di quella, analoga, della cattedrale di Torcello, poggiante su cinque colonne e con vano centrale per la conservazione delle reliquie. La cripta sottostante è sorretta da quattro colonne, che i piú recenti studi assegnano al ciborio originale della prima basilica del V secolo. Ariberto avrebbe dunque «traslato» la struttura nella cripta mantenendone la funzione originaria a protezione, in questo caso, delle venerate reliquie di Adeodato. Il pavimento del presbiterio era rivestito con l’opus sectile proveniente dalla prima chiesa e conservava le lapidi e le iscrizioni piú antiche (V-VII

secolo), tutte rimosse nell’Ottocento: anche questo un segno evidente della volontà di Ariberto di richiamarsi alla veneranda antichità dell’edificio, fonte di sacralità e prestigio. GLI AFFRESCHI Il vasto apparato iconografico della navata e dell’abside è stato eseguito da mani diverse. È tuttora dibattuta novembre

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la sua attribuzione a un progetto unitario, voluto da Ariberto: oggi si propende comunque per una divisione in fasi e ripensamenti supportata anche dal tamponamento delle finestre, avvenuto evidentemente a seguito dell’espansione del progetto iconografico originario. ABSIDE L’abside è dominata dal monumentale Cristo in Maestà, racchiuso in una mandorla, con la mano destra alzata in atteggiamento oratorio mentre nella sinistra regge un libro aperto sulla scritta «PASTOR OVIU(M) BONUM». Da notare l’abito, che presenta inconsuete braghe e calzari alla moda bizantina.

Ai due lati della mandorla, in basso, sono raffigurati i due profeti Geremia ed Ezechiele in atto di adorazione, dietro i quali si stagliano gli arcangeli Michele e Gabriele, in veste di militi bizantini, accompagnati da due cartigli con la scritta, rispettivamente, «PETICIO» e «POSTULATIO»: sono dunque intercessori per i fedeli. Dei due, oggi solo Michele è visibile.

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Il registro inferiore è illustrato con le storie di san Vincenzo di Saragozza, martire in Spagna nel IV secolo: si tratta del ciclo piú antico a lui dedicato. Le tre scene sono parzialmente perdute ma identificabili grazie alle didascalie. Eccole da sinistra a destra: interrogatorio del santo davanti all’imperatore, sua tortura con il piombo fuso,

rinvenimento del corpo sulla spiaggia e suo seppellimento. Gli affreschi sono incorniciati da motivi decorativi animali e vegetali di ispirazione orientale. Sulla fronte dell’arco absidale, a sinistra, campeggia Elia sul carro di fuoco. Il riquadro piú interessante è però l’ultimo a destra, nel quale sant’Adeodato presenta al Cristo

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saper vedere galliano Visitiamo insieme Ariberto da Intimiano, che gli offre il modello della chiesa da lui appena riedificata. Da notare la presenza del campanile, voluto dal prelato ma oggi non piú esistente cosí come l’atrio, anch’esso abbattuto. L’affresco reca come didascalia, su una fascia di colore bianco, una lunga scritta a caratteri capitali rossi, frammentaria. Vi si legge, tra le altre cose, la dichiarazione di attribuzione dei lavori: «AD HONOREM DEI EGO ARIBERTUS SUBDIACONUS [FIERI] AC PINGERE FECIT». La parte superiore dell’affresco è stata staccata nel 1850 e trasportata presso la Pinacoteca Ambrosiana di Milano: nel 1988 è In alto il Cristo in Maestà cosí come si presenta oggi. A sinistra la parete del parapetto del presbiterio su cui si conserva l’affresco che raffigura una Madonna con Gesú Bambino tra san Pietro e l’arcangelo Michele da una parte, san Paolo e san Vincenzo dall’altra. Il gruppo è contornato da altre due figure, un vescovo e un sacerdote, forse rispettivamente Ambrogio e Adeodato.

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stata riportata in loco. Sugli archetti è rappresentata una fenice, identificata dalla scritta FENIX, simbolo di resurrezione ribadito anche dalla didascalia «HIC EST DOMUS D[E]I ET PORTA CAELI». Non a caso, vicino alla figura di Ariberto sono visibili i graffiti obituari relativi allo stesso prelato e ai suoi parenti. NAVATA CENTRALE Gli affreschi della navata centrale sono molto deteriorati e per la corretta lettura è indispensabile il confronto con gli acquerelli fatti realizzare da don Annoni nell’Ottocento. Sono suddivisi in tre registri sovrapposti. ● Nella parete destra si vedono: la Vita di Sansone, con scene che rappresentano l’annunciazione da parte dell’angelo della prossima nascita di Sansone alla madre ignara; la nascita e altri episodi (lacunosi) della vita; le Storie di san Cristoforo, con il santo, che appare in dimensione gigantesca a raccordo lungo due registri, con la mano destra aperta e la sinistra che regge un’asta; sono rappresentati miracoli e conversioni operati da Cristoforo, la sua apparizione davanti all’imperatore, il supplizio, funerali e sepoltura novembre

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(quest’ultima perduta). Secondo la lezione orientale, la figura appare senza il Bambino. ● Sulla parete sinistra vi sono scene dell’Antico Testamento (Genesi e Giuditta), che, a differenza delle altre, si leggono da destra a sinistra e riguardano, nel primo registro, le storie di Adamo ed Eva: creazione di Adamo, tentazione e disobbedienza, cacciata dall’Eden; seguono due scene di difficile interpretazione; il secondo registro contiene scene anch’esse controverse, forse illustranti le storie veterotestamentarie di Giuditta; Storie di santa Margherita; l’ultimo registro è dedicato alla vita di santa Margherita d’Antiochia: la seduzione del prefetto, gli incontri con il demonio sotto forma di drago e umana, il supplizio del fuoco (perduta) e la decapitazione. ALTRI AFFRESCHI Il parapetto del presbiterio conserva una Madonna con Gesú Bambino tra san Pietro (identificato da una scritta e dalle chiavi) e l’arcangelo Michele (parzialmente conservato) da una parte, san Paolo e san Vincenzo dall’altra. Il gruppo è contornato da altre due figure, un vescovo e un sacerdote, forse rispettivamente Ambrogio e Adeodato. Infine la controfacciata, molto lacunosa (si conservano solo quattro delle sette figure presenti negli acquerelli ottocenteschi): in quella di destra si rappresentano nell’ordine Maria Maddalena, la Veronica col volto di Cristo impresso sul panno, forse sant’Orsola (trafitta dalle frecce dagli Unni) e san Primo; quella di sinistra invece oggi conserva un vescovo benedicente affiancato da un diacono e un suddiacono, proveniente dalla cripta, in sostituzione (forse) di un Cristo morto oggi perduto.

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supporto dei capitanei per difendere le prerogative del proprio ruolo e restaurare il patrimonio territoriale della Chiesa milanese. Un’azione, la sua, decisamente energica, condotta opponendosi a ogni tendenza centrifuga, vincolando l’autonomia degli enti monastici e religiosi e contrastando le emergenti forze rappresentate dai nuovi ceti – mercanti, piccoli proprietari terrieri, giudici, notai – che, con la svolta dell’anno Mille, avevano iniziato una progressiva quanto inarrestabile ascesa.

Il voltafaccia dell’imperatore

Nel quadro dello scontro tra cives e milites, ossia i rappresentanti dell’aristocrazia feudale (maggiore, rappresentata dai capitanei, e minore), i milites minores, i valvassori si scontrarono violentemente con i capitanei e con lo stesso Ariberto, rivendicando anch’essi come i primi l’ereditarietà dei loro feudi. Anche il nuovo imperatore Corrado II, che pure aveva cinto la corona di re d’Italia a Pavia nel 1026 per mano dello stesso Ariberto, finí per intervenire a sostegno dei rivoltosi, timoroso dell’ormai eccessivo potere della Chiesa milanese e della prorompente personalità dell’arcivescovo. L’incarcera-

ARIBERTO E ADEODATO La nicchia per la custodia dell’Eucarestia ai cui lati compaiono un personaggio che rivolge lo sguardo e il braccio, identificato con Adeodato, e Ariberto da Initmiano che dona la basilica da lui ricostruita e consacrata nel 1007 (vedi anche a p. 62).

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saper vedere galliano TORTURA DI SAN VINCENZO Particolare di uno degli affreschi del registro inferiore dell’abside in cui compare la tortura di san Vincenzo di Saragozza (vedi anche alle pp. 64-65), martire spagnolo del IV sec.

venuto sul muro abisdale di S. Vincenzo, Ariberto morí il 16 gennaio 1045, lasciando un’impronta indelebile nella storia della Chiesa milanese e imponendosi nella memoria collettiva come una delle personalità piú importanti di sempre.

Una metafora del potere ecclesiastico

Tornando a Galliano, alla rinnovata e ampliata basilica il neoarcivescovo fece affiancare, adiacente alla navata sud oggi non piú esistente, il battistero. La chiesa viene arricchita da un programma decorativo di grande impegno e articolato in vari registri ed episodi ruotanti intorno al Cristo dell’abside centrale, tanto da risultare uno dei piú vasti e importanti cicli d’epoca ottoniana dell’Italia settentrionale. La propensione del prelato alla magnificenza visiva, con forte valenza simbolica, dei manufatti artistici intesi come metafora del potere della Chiesa milanese (e, di riflesso, anche personale, in quanto suo massimo rappresentante) è confermata dalle sontuose committenze posteriori: le due preziosissime legature di evangeliario – una oggi conservata nel

zione del prelato a Piacenza fu però interpretata da tutti i Milanesi, compatti, come un’onta ai danni della città e, riunitisi intorno a quel carroccio che lo stesso Ariberto aveva «inventato» come simbolo dell’identità cittadina, resistettero all’assedio e costrinsero l’imperatore a concedere, tramite la Constitutio de feudis (28 maggio 1037), l’ereditarietà e l’inalienabilità di terre e titoli anche ai feudatari minori. Come ricorda il già citato graffito rin-

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Tesoro del Duomo, l’altra perduta – e il celebre Crocifisso donato al monastero benedettino di S. Dionigi per la propria sepoltura (vedi, in questo numero, alle pp. 40-41). Il programma iconografico di Galliano prevede, nella navata centrale, l’alternarsi di storie di santi (Cristoforo, Margherita) e dell’Antico Testamento (Adamo ed Eva, Sansone, forse Giuditta). Per queste pitture, dall’iconografia piuttosto insolita, sono stati proposti nel tempo novembre

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interessanti confronti con altri cicli pittorici lombardi dell’XI secolo: S. Calocero di Civate (vedi «Medioevo» n. 207, aprile 2014; anche on line su medioevo.it) per le Storie di Sansone, S. Martino di Carugo per quelle di Adamo ed Eva. La scelta dei soggetti non è casuale: Sansone e Giuditta sono infatti le prefigurazioni veterotestamentarie di Cristoforo e Margherita, santi entrambi di Antiochia e il cui culto era molto diffuso nel Medioevo.

Un artista di eccezionale levatura

SANTA MARGHERITA Un particolare (qui sopra) e la restituzione ad acquerello realizzata nell’Ottocento (qui sotto, sulle due pagine) delle pitture che illustrano episodi

della vita di santa Margherita d’Antiochia, vergine e martire che fu forse vittima della persecuzione di Diocleziano. Molto venerata sin dall’antichità presso i Greci, nel Medioevo fu tra i 14 santi «ausiliatori» dell’Occidente cristiano, invocata soprattutto dalle partorienti. Attributo costante è un drago ai suoi piedi, come si può osservare anche nella versione della basilica di Galliano.

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Con molta probabilità, questi cicli vennero eseguiti successivamente, seppur di pochissimo, a quello – di qualità decisamente superiore – realizzato nel catino absidale e che rappresenta Cristo in Maestà contornato da arcangeli e profeti, nonché dalla figura dello stesso Ariberto, accompagnato da Adeodato, in veste di offerente l’edificio. Ignoti sono l’autore e la sua provenienza, sebbene appaia evidente che dovette trattarsi di un artista di eccezionale levatura, capace di sintetizzare i dettami iconografici orientali di scuola bizantina con le nuove tendenze figurative proprie della cultura ottoniana. Dopo Ariberto, e grazie al prestigio legato alla sua figura, la chiesa conobbe secoli di splendore, come testimoniano le numerose donazioni e lasciti operati dai Canturini a vantaggio della pieve. Ma proprio l’ascesa della vicina Cantú, divenuta nel frattempo borgo di notevole importanza grazie alla sua posizione strategica tra Milano e Como, segnò l’inizio della decadenza per

Galliano. Nel 1584 l’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo, in occasione di una visita pastorale, trovava infatti la chiesa e gli edifici abitati dai canonici in condizioni fatiscenti, ragion per cui il prevosto e l’intero capitolo furono indotti a trasferirsi presso la vicina chiesa di S. Paolo, a Cantú, da poco subentrata a S. Vincenzo nel ruolo di capopieve. Nessun intervento di manutenzione venne però

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saper vedere galliano

SAN MICHELE ARCANGELO Il volto dell’arcangelo Michele, che si riconosce alla sinistra (per chi guarda) del Cristo in Maestà dipinto al centro dell’abisde. L’insieme delle pitture viene ormai unanimemente attribuito a mani diverse.

ordinato, sicché una trentina d’anni dopo il cardinale Federico Borromeo la trovò in totale degrado. Il suo appello a dare inizio al piú presto ai restauri cadde nel vuoto. Anche il battistero, da quando aveva perso il suo ruolo nella pieve, versava in condizioni di grande fatiscenza. Ormai abbandonata, la basilica fu utilizzata nel Settecento come magazzino agricolo. In mezzo alla desolazione restava, unica vestigia di uno splendore ormai lontano, la Madonna del Latte, opera del Trecento assai venerata e cara alle donne del luogo.

Una sentenza sorprendente

Nel 1799 la basilica fu venduta ad alcuni privati cittadini milanesi, mentre il battistero fu ceduto a San Paolo (e si salvò cosí dalla definitiva spoliazione). L’allora parroco canturino, don Calderini, denunciò però presunte irregolarità nella transazione spingendo il Ministro

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SAN CRISTOFORO Sulla parete destra della navata centrale si conservano pitture che narrano le storie di Sansone e di san Cristoforo (vedi il particolare in alto). Come Margherita, anche Cristoforo, fu molto venerato nell’età di Mezzo: secondo la leggenda, era un Cananeo dalle fattezze imponenti, che aiutava i viaggiatori a guadare un fiume. Un giorno trasportò sulle spalle un bambino nel quale, dopo un attraversamento particolarmente faticoso, riconobbe Gesú, che aveva voluto cosí metterlo alla prova. Per questo divenne patrono dei viandanti.

dell’Interno della Repubblica Cisalpina a costituire, nel 1801 una commissione per valutare il valore artistico dell’edificio. Nonostante la commissione annoverasse intellettuali e artisti di prim’ordine, la relazione prodotta concluse che la chiesa di S. Vincenzo non fosse «né un capo d’opera, né un monumento d’arte». Il 15 maggio dello stesso anno la basilica venne quindi sconsacrata e trasformata in casa colonica. Cinque anni piú tardi, dovendo ospitare i contadini che lavoravano presso le terre dei fratelli Luigi e Domenico Beretta – i nuovi proprietari –, subí una serie di modifiche importanti come l’aggiunta interna di ballatoi, scale e tramezzi allo scopo di ricavarne abitazioni. Tali innesti, insieme alla parziale destinazione a fienile e persino a stalla, ne stravolsero completamente l’interno. Pochi anni dopo, la navata meridionale, fatiscente, crollò, seguita dalla torre campanaria, che venne abnovembre

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Il battistero

Una cupola a otto spicchi Il battistero di S. Giovanni Battista sorge a pochi metri dalla basilica, proprio di fianco all’ala crollata, tanto che in origine i due edifici erano di fatto uniti. Introdotta da un atrio, come la chiesa in origine, la pianta è di forma quadrilobata. L’accostamento piú significativo è quello con la basilica di S. Lorenzo prima della ristrutturazione del 1075, anche se vi è chi lo ha accostato al sacello di S. Satiro in Milano (IX secolo), nonostante significative differenze: la pianta piú semplificata, e soprattutto la presenza di un livello superiore interamente occupato dai matronei, dai quali i fedeli potevano assistere al rito celebrato al piano terra, e che

Il tiburio ottagonale che sormonta la cupola a otto spicchi del battistero di S. Giovanni. È la prima attestazione di questa soluzione in area lombarda.

conservano anche due altari (il terzo è al pianterreno) destinati al culto. Il battesimo avveniva per aspersione, da una vasca centrale circolare ricavata da un’antica macina romana. Una testimonianza molto suggestiva del rito è data dal ritrovamento, non lontano dalla vasca, di una piscina con i resti di molte ampolle di vetro. Il battistero è chiuso all’interno da una cupola a otto spicchi, riflessa esternamente da un tiburio ottagonale (ed è questa la prima attestazione in area lombarda).

battuta. Gli stessi affreschi, coperti dalla calce, furono parzialmente distrutti o caddero in rovina. Il complesso sembrava destinato inevitabilmente alla fine. Ma proprio allora avvenne il miracolo. L’occhio attento del prevosto don Carlo Annoni, appassionato d’arte, riuscí a scorgere in quell’ammasso ormai informe un edificio di grande pregio e dalla lunga storia e, tra il 1831 e il 1835, ne fece eseguire il rilievo, corredato dalla riproduzione ad acquerello del ciclo di pitture. Cosí facendo, permise la documentazione di alcuni particolari che nel frattempo sono andati perduti.

Verso la rinascita

La rinnovata attenzione sull’edificio non evitò però che passasse, per altri decenni, di mano in mano. Ma il riscatto era ormai vicino. Nel 1907 la basilica fu acquistata da Giuseppe Foppa Pedretti e, due anni dopo, a seguito dell’inserimento nell’elenco ufficiale dei monumenti nazionali che impediva ulteriori manomissioni, divenne finalmente proprietà del Comune di Cantú per la somma di 15 000 lire. Iniziò cosí il lento recupero della chiesa, ormai irriconoscibile, durante un ventennio di restauri voluti dal Comune stesso e curati dal già citato architetto Annoni. Al termine, nel 1934, la basilica fu riconsacrata dal cardinale Ildefonso Schuster. Nuovi interventi susseguitisi negli anni (1955, 1956, 1967 e 1981) hanno portato a nuove scoperte e al distacco degli affreschi, trasferiti su pannelli di masonite e poi

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Probabilmente era decorato da affreschi (secondo quanto testimonia l’Annoni). L’unico lacerto rimasto, però, è nella nicchia sopra l’ingresso al piano superiore, che rappresenta una figura inginocchiata con una candela in mano. Pur sottoposta a notevoli spoliazioni (soprattutto di materiale da costruzione), la struttura si è mantenuta relativamente in buono stato. I restauri vennero avviati nel 1882 e furono realizzati a piú riprese, fino alla forma attuale.

ricollocati sulle pareti. Superate anche alcune difficoltà dovute agli ambienti particolarmente umidi, l’edificio è stato riaperto in via definitiva al culto nel 1986. Nel 2007 il complesso ha cosí potuto festeggiare, con rinnovato splendore, il primo millennio di vita. E oggi, dall’alto della piccola collina immersa nel verde, continua ad affascinare con la sua antica e austera presenza. F

Da leggere U Paola Tamborini, Pittura d’età ottoniana e romanica. La

Basilica di S. Vincenzo a Galliano, in Storia di Monza e della Brianza, Il Polifilo, Milano 1984 U Saverio Lomartire, La pittura medievale in Lombardia, in Carlo Bertelli (a cura di), L’Altomedioevo, La pittura in Italia, Electa, Milano 1994 U Roberto Cassanelli e Paolo Piva (a cura di) Lombardia Romanica. I cantieri, Jaca Book, Milano 2010 U Marco Rossi (a cura di), Galliano, pieve millenaria, Lyasis Edizioni, Sondrio 2008 U Paolo Piva (a cura di), Pittura murale del Medioevo lombardo. Ricerche iconografiche (secoli XI-XIII), Jaca Book, Milano 2006 U Ariberto da Intimiano. Fede, potere e cultura a Milano nel secolo XI, Silvana Editoriale, Cinsello Balsamo 2007 U Ariberto d’Intimiano. I documenti segni del potere, Silvana Editoriale, Cinsello Balsamo 2009

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di Renata Salvarani

Particolare della raffigurazione della Pentecoste, miniata sulla pagina di un Vangelo armeno, dall’area del Lago Van. 1386. Los Angeles, The J. Paul Getty Museum.

Gli Armeni popolo senza pace L’identità nazionale armena è legata alla fede cristiana: un connubio storico, maturato nel IV secolo, quando il re Tiridate III venne miracolosamente guarito e poi convertito da un predicatore di nome Gregorio. Nel Medioevo, le ripetute persecuzioni non affievolirono questo fervore religioso, ma lo resero piú intenso, garantendo la formidabile coesione di una comunità composita e sfaccettata


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iridate III, re degli Armeni († 324), era potente e poteva vantare buoni rapporti diplomatici con i grandi imperi del suo tempo: quello dei Romani e quello persiano dei Sasanidi. Considerava il cristianesimo una minaccia per l’ordine, per la società e per la convivenza civile. Di lui si diceva che facesse arrestare e condannare chiunque fosse stato anche solo sospettato di credere al Vangelo. Finché non si ammalò gravemente, di un morbo infamante, che lo costrinse a restare immobile e a non farsi vedere dai sudditi. A nulla servirono i rimedi dei medici chiamati in segreto al suo capezzale, né i maghi e le fattucchiere. Quando ormai sembrava vicino alla morte, sua sorella si ricordò di un vecchio predicatore cristiano: tutti ne conoscevano i sermoni, le sue parole ispirate si diffondevano di bocca in bocca e si credeva facesse miracoli. Proprio Tiridate l’aveva fatto rinchiudere in una cella senza finestre nella fortezza di Artashat, tredici anni prima. Glielo portarono davanti e l’uomo, in silenzio, pregò e impose le mani su di lui. Subito l’infermità lasciò il sovrano, che riprese le forze, si alzò, ma non era

piú lo stesso uomo. Rimase a lungo, per giorni, ad ascoltare il predicatore e, poco dopo, si fece battezzare. Altrettanto fecero i membri della corte e, via via, molte famiglie della nobiltà. Prese vita, cosí, una vera e propria identificazione del popolo con il cristianesimo.

Un evento «identitario»

Sebbene buona parte della storiografia tenda a spostarla al 314-315 (o comunque dopo l’«editto» promulgato nel 313 da Costantino e Licinio), questa scelta viene per tradizione fissata al 301: si trattò, in ogni caso, dell’evento che piú di ogni altro consentí agli Armeni di mantenere un’identità separata. Ma chi erano i due protagonisti di questa narrazione? Tiridate, il terzo della sua dinastia con questo nome, era stato educato in ambienti romani colti e Sulle due pagine miniatura di Vardan di Baghech raffigurante l’incontro di Tiridate III, Costantino, papa Silvestro e san Gregorio Illuminatore. 1569. Erevan, Matenadaran. In basso cartina che riassume i mutamenti dell’assetto geopolitico dell’Armenia nel corso dei secoli.

Impero di Tigrane II il Grande 70 a.C.

RUSSIA

Regno armeno di Cilicia 1080-1375 Prima Repubblica armena 1918-1920 Armenia sovietica (1920-1991) Armenia storica (altipiano armeno) Armenia «wilsoniana» (secondo il trattato di Sèvres 1920, inclusa la Prima Repubblica)

TURCHIA

ARMENIA MINORE

MAR CASPIO

MAR NERO

GRANDE ARMENIA Lago Van

Cilicia

SIRIA

CIPRO MAR MEDITERRANEO

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IRAN

LIBANO IRAQ

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Dossier posto da Diocleziano a capo di un dominio satellite, strategico per la sua posizione a ridosso dei territori dei Persiani sasanidi, che stavano cercando di assimilare gli Armeni, imponendo loro lo zoroastrismo e il culto per il fuoco (lo zoroastrismo è la religione dell’antico Iran fondata all’inizio del I millennio a.C. da Zoroastro o Zaratustra, caratterizzata dal dualismo tra coppie di principî o spiriti contrapposti – Bene-Male, Verità-Menzogna, ecc. – e dalla fede nella vittoria finale del Bene, n.d.r.). La resistenza era dovuta inoltre all’azione di missionari provenienti dalla Siria, che avevano favorito la formazione di comunità cristiane anche nelle zone piú montuose, fin dal secolo precedente. Alla loro eredità e alla loro rete faceva riferimento l’anziano predicatore perseguitato, Gregorio, che tutti conoscevano come l’Illuminatore, colui che accende la vera conoscenza, che trasmette la fiamma della fede nell’oscurità. Apparteneva alla dinastia reale degli Arsacidi per parte di

padre, un Parto di nome Anak che aveva ucciso Cosroe I, padre dello stesso Tiridate III. Sua madre era armena, con ogni probabilità cristiana. Con lei e con il resto della famiglia, dopo l’omicidio e la repressione politica che ne seguí, Gregorio si era rifugiato a Cesarea di Cappadocia. Da lí, solo molto piú tardi, decise di tornare in Armenia per annunciare il Vangelo, di villaggio in villaggio, dopo avere lasciato la moglie e i figli ed essersi fatto, forse, monaco.

L’incontro decisivo

L’incontro tra Tiridate e Gregorio è, innanzitutto, una ricomposizione politico-familiare fra ceppi e dinastie diverse, maturata nella frammentata realtà di un’area debole del Medio Oriente, punto di frizione fra i due grandi imperi e porta dell’Asia profonda. Lí si stavano sviluppando diversi fermenti religiosi, che rispondevano anche a esigenze identitarie del gruppo armeno, che, da allora in poi, avrebbe marcato la sua dimensione di «popolo».

Il battesimo del sovrano si presenta, quindi, come una scelta di rafforzamento culturale e politico, la base di una straordinaria costruzione intergenerazionale, il cui iniziatore fu proprio Gregorio. Consacrato katholikos e patriarca d’Armenia, divenne la figura primaria della nuova comunità. Avviò la costruzione di chiese e monasteri e la città di Echmiadzin divenne il fulcro della cristianità armena. Continuò i suoi viaggi missionari, rischiando spesso la vita, contrastato da potentati pagani locali. Infine, si ritirò sulle montagne di Akilisene, dove continuò a vivere da eremita. Affidò l’amministrazione della comunità a suo figlio Aristakes, che era stato consacrato vescovo d’Armenia e che in tale veste partecipò nel 325 al concilio di Nicea. Nello stesso anno, Gregorio morí in solitudine sul monte Sepouh. Il cristianesimo armeno, quindi, è un organismo composito, una stratificazione mediata e contrastata, frutto anche di isolamento e

La battaglia di Avarayr

Sconfitti, ma infine liberi Lo scontro si svolse il 26 maggio 451 sulle rive del fiume Tghmout, un affluente dello Yeraskh, al piedi del monte Ararat. Gli Armeni potevano contare su 66 000 uomini, i Persiani almeno sul triplo. L’esercito dei primi era composto perlopiú da popolani inesperti, ma gli elementi di punta e i gruppi di assalto erano formati da nobili molto ben addestrati, perché in passato avevano servito gli stessi Sasanidi nelle campagne contro i Romani e contro i nomadi dell’Asia Centrale. Anche Vardan Mamikonian, che li guidava ed è tuttora considerato un eroe nazionale, aveva un’ottima preparazione tecnica ed era un comandante

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militare stimato sia dai Bizantini che dai Persiani (gli Armeni avevano conservato una sorta di autonomia militare ed erano ingaggiati anche come mercenari ora dagli uni, ora dagli altri). La cavalleria era un corpo di élite, in grado di sferrare attacchi in velocità e di muoversi con grande agilità in campo aperto. I Persiani schieravano elefanti da guerra, che fungevano da torri mobili in grado di portare gruppi di arcieri e balestrieri che colpivano dall’alto, e la Savaran, la «cavalleria immortale», composta sia da elementi leggeri, sia da reparti pesanti. Questi ultimi erano i catafratti, dotati di un’armatura completa, per il cavaliere e per il

cavallo, armati di lance. La loro forza di assalto era difficilmente sostenibile e cariche impetuose e urti schiaccianti riuscirono a sopraffare anche gli Armeni ad Avarayr. Lo stesso Mamikonian morí sul campo, sferrando colpi fino allo stremo delle forze, nonostante le profonde ferite riportate. Il sacrificio di Vardan e dei suoi seguaci non fu vano: dopo la vittoria, i Persiani processarono e condannarono vari preti, vescovi e nobili, ma la continua minaccia di rivolte li costrinse a un accordo con gli Armeni. La trattativa si concluse solo nel 484, con il patto di Nvarsak, con il quale fu riconosciuto il loro diritto di professare liberamente e pubblicamente il cristianesimo. novembre

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Ancora una miniatura di Vardan di Baghech raffigurante La battaglia di Avarayr. 1569. Erevan, Matenadaran. Lo scontro, combattuto nel maggio del 451, oppose gli Armeni alle soverchianti forze dei Persiani, che ebbero la meglio. Tuttavia, l’eroico comportamento delle truppe guidate da Vardan Mamikonian (che trovò la morte sul campo) alimentò quel sentimento di fiera resistenza che, un trentennio piú tardi, indusse i Sasanidi ad accordare agli Armeni la libertà di professare il culto cristiano.

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lazzaro di costantinopoli

Il monaco pittore La figura di Lazzaro di Costantinopoli, santificato e inserito anche nel Martirologio Romano, dimostra bene la drammaticità dei rapporti del mondo armeno con la corte bizantina, in una delle fasi piú acute del confronto fra il cristianesimo greco e quello latino. Nato in Armenia alla fine dell’VIII secolo, arrivò ragazzo a Bisanzio e lí decise di entrare in monastero, dove imparò l’arte dell’icona, diventando famoso per la bellezza ascetica delle immagini che riusciva a creare. Per questo, arrestato al culmine dell’iconoclastia, fu portato davanti all’imperatore Teofilo: in un duro interrogatorio, ribadí l’importanza delle raffigurazioni per diffondere e fare comprendere i misteri cristiani. Cosí fu torturato e, creduto morto, gettato in una cloaca. Curato e messo in salvo, tornò a dipingere, finché non venne nuovamente arrestato: questa volta fu lo stesso imperatore a ordinare di mettergli sui palmi delle mani delle sbarre arroventate che ustionarono le carni fino all’osso. Soccorso da Teodora, venne fatto ricoverare e nascondere nel monastero di S. Giovanni Battista del Phoberon, luogo di rifugio degli iconofili e di perseguitati politici all’estremità settentrionale del Bosforo. Qui, miracolosamente, le mani del monaco pittore guarirono; per prima cosa, allora, dipinse come ex voto l’immagine del Santo Precursore, poi nota come immagine miracolosa. Dopo la morte di Teofilo (842) venne definitivamente riabilitato da Teodora e dipinse una enorme figura di Gesú su una delle porte del palazzo imperiale. Nell’856 il nuovo basileus, Michele III, lo inviò a Roma per omaggiare papa Benedetto III, forse in vista di un riavvicinamento. Potrebbe essere morto nel viaggio di ritorno da quella missione, oppure, secondo un’altra tradizione, sarebbe partito per un secondo viaggio verso Roma nell’867 e sarebbe morto durante il viaggio di andata nei pressi del monastero di Evandro, vicino a Galata, dove fu sepolto. A sinistra Gli iconoclasti. olio su tela di Domenico Morelli. 1855. Napoli, Museo di Capodimonte. L’artista immagina il momento in cui un gruppo di iconoclasti sta per sfregiare la mano di san Lazzaro, sorpreso a dipingere immagini sacre.

Qui accanto Dvin. Importante capitale a partire dal 340 d.C. circa, è oggi al centro di scavi archeologici che stanno riportando alla luce numerose rovine e reperti, come questo capitello.

minacce esterne. Ha seguito talvolta un percorso tortuoso, accogliendo elementi estranei per adattarsi a necessità di sopravvivenza. Ha finito per assumere un carattere eterogeneo, complesso, profondamente diverso dalle esperienze religiose maturate in quell’area. Un proverbio armeno dice che la vita di una nazione è un mare: chi si limita a guardarla dalla riva non

può percepirne le profondità. Infatti, se si riesce ad andare oltre la prima immagine di durezza monolitica di questo popolo, si scopre una storia di mutamenti, contraddizioni e frammenti, ci si addentra nei riflessi di una dialettica fra sofferenza e vitalità, resistenze e strappi, memorie e adattamenti, in un mosaico di tragedie e legami di sangue che si prolungano fino a oggi.

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Dossier La forza dell’identità armena sta nella sua pluralità mista: appare unitaria quando si contrappone alle alterità e alle forze che vorrebbero annullarla, ma all’interno si frantuma e si ricompone in un caleidoscopio di facce diverse e contraddittorie. In questa doppia dimensione sta la sua tenuta millenaria, che affonda le radici nel cristianesimo e che si è rinsaldata nel tempo anche al di fuori di uno spazio fisso di insediamento, nonostante spostamenti forzati, diaspore, stragi e migrazioni. Nel tempo e nella memoria, si è creato un legame diretto tra stermini e affermazione della propria unicità: essi sono effetto delle resistenze all’assimilazione e alla sottomissione, ma anche il motivo di un ulteriore attaccamento a una cultura e a un modo d’essere che diventano irrinunciabili. Perno dell’identità è proprio l’appartenenza cristiana. Se l’origine della Chiesa locale si considera apostolica e si

fa risalire a Taddeo e Giuda, furono missionari provenienti dalla Siria a raggiungere fra il II e il IV secolo le aree piú interne. Da allora si è sviluppata una coscienza nazionale, da intendere non come legata a forme di Stato, in senso moderno, bensí in riferimento all’idea medievale di natio, che esprime l’appartenenza a un gruppo, a un’unità culturale, religiosa, linguistica, sia pure declinate all’interno di un ambito geografico che può essere variabile e non ha confini rigidamente tracciati, né carattere di fissità.

Un’area di cerniera

Questa adesione si è nutrita anche di componenti soggettive, proiezioni, aspirazioni, memorie, rimpianti, e le drammatiche vicende che hanno separato il popolo dalle sue montagne silenziose, da vallate battute dai venti, dai suoi laghi immobili, da città rese splendide e poi abbandonate l’hanno rafforzata e non indebolita. Tali processi si

sono sviluppati lungo i secoli del Medioevo, in un’area di cerniera fra piú mondi che lí si sono sovrapposti e scontrati, una faglia profonda e instabile tra l’impero greco bizantino, i Persiani, gli Arabi islamici, poi i Mamelucchi, i Tartari, i Mongoli. Furono i Sasanidi, nel IV secolo, ad avviare persecuzioni e azioni sistematiche di sottomissione, ma finirono per innescare reazioni opposte, destinate a durare a lungo. L’apice dello scontro fu la battaglia campale di Avarayr, nel 451 (vedi box a p. 76), guidata da Vardan Mamikonian, tutt’oggi celebrato come eroe nazionale. Si concluse con la sua morte e con lo sterminio dell’esercito che era riuscito a mettere insieme, ma mantenne vivo un eroico sentimento di appartenenza, in virtú del quale – e anche per effetto della minaccia continua di rivolte –, una trentina d’anni dopo gli Armeni ottennero il diritto di professare liberamente il cristianesimo. Elemento di identità e di sepa-

La fortezza di Van, antica capitale dell’Urartu e poi uno dei principali centri della civiltà armena (oggi in territorio turco). La roccaforte venne edificata appunto in età urartea, tra il IX e il VII sec. a.C., e poi ampliata in epoca medievale.

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razione dagli altri popoli fu l’uso di un alfabeto proprio, la cui invenzione viene tradizionalmente attribuita al santo Mesrop (detto anche Mastoc), il quale, in realtà, si limitò a rintracciarlo e perfezionarlo. Mesrop dedicò buona parte della sua vita di monaco a tradurre le scritture e a radicare l’uso di questo strumento all’interno di scuole fondate tra le mura dei monasteri. Cosí fu possibile dotare la liturgia, le gerarchie ecclesiastiche e lo stesso popolo dei fedeli di un codice proprio di espressione, destinato a tramandare testi, dogmi e memorie lungo i secoli. La Chiesa armena non si configurò come instrumentum regni: assunse fin da subito il ruolo di isti-

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Dossier tuzione relativamente autonoma, inserita all’interno di un sistema feudale e formata da clero proveniente da famiglie nobili. L’identità cristiana andò rafforzandosi nel tessuto sociale, indipendentemente dai rovesci alterni della sfera politica. Al contempo, il cristianesimo degli Armeni va declinato al plurale: non raggiunse una vera e propria unità interna, definendosi come frutto di un intreccio di vicende tattiche e di alleanze militari, nonché di interpretazioni dottrinali complesse e talvolta contraddittorie.

Chiesa «autocefala»

Gli Armeni non accettarono la formulazione del credo del concilio di Nicea e non parteciparono a quello di Calcedonia (451), collocandosi nella sfera delle Chiese orientali e prendendo le distanze dall’ortodossia professata dalla corte di Costantinopoli. Nei secoli successivi si susseguirono le adesioni a forme monofisite, indotte dalle alleanze con gli imperatori bizantini, alternate ad avvicinamenti alle posizioni calcedoniane. Nel 554, la Chiesa armena divenne formalmente autocefala (letteralmente, «che si governa da sé», n.d.r.). Tali posizionamenti sono nati da esigenze identitarie e necessità politiche contingenti. Tuttavia, soprattutto nelle fasi piú convulse e teologicamente difficili, ha esercitato un ruolo anche la mancanza di una lingua elaborata e raffinata quanto il greco bizantino per esprimere interpretazioni e sottigliezze dogmatiche. Traduzioni, passaggi di mediazioni, letture e riletture possono aver determinato fraintendimenti e slittamenti di significati. Questo processo ha indotto la stratificazione non sempre lineare di elaborazioni teologiche che costituisce l’essenza stessa del cristianesimo armeno e della sua sensibilità liturgica. Nel 591, l’imperatore Maurizio riuscí a sottrarre l’area al controllo (segue a p. 86)

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La grandezza perduta di un’antica capitale Cuore ferito dell’Armenia storica, la città fantasma di Ani è forse il luogo in cui meglio si coglie l’essenza del popolo che l’ha creata e che vi ha vissuto la sua stagione felice. Oggi si presenta come un altopiano brullo, disseminato di rovine di edifici un tempo imponenti. Lí, dall’alto, si vede correre il reticolato che marca il confine tra la Turchia e l’Armenia di oggi. Nel Medioevo fu la capitale del regno, crocevia di collegamenti fra Oriente e Occidente, piazza di arrivo delle piste carovaniere che attraversavano l’Asia. La chiamavano «la città delle 1001 chiese»; i suoi edifici religiosi, palazzi e fortificazioni erano tra i piú avanzati sul piano tecnico e artistico, tanto che la si considerava un’altra Bisanzio, ricca e aperta verso le steppe e i grandi imperi del Levante. Nel suo periodo di massimo sviluppo, all’interno delle mura vivevano tra i 100 000 e i 200 000 abitanti. (segue a p. 84)

In basso Ani. La chiesa di S. Gregorio di Tigran Honents, un ricco mercante che ne commissionò la realizzazione.

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In alto un disegno ricostruttivo di un settore dell’antica Ani, cosí come doveva presentarsi in epoca medievale, al

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massimo del suo splendore. In evidenza, alcuni dei monumenti che le valsero il soprannome di «città delle 1001 chiese»:

1. S. Gregorio di Gagik; 2. chiesa e monastero di Kizkale; 3. chiesa dei Ss. Apostoli; 4. cattedrale.

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Dossier La struttura urbana di Ani era simile a quella di altre grandi città del Vicino Oriente, articolata in una cittadella, una città alta e un suburbio. La prima era separata dal resto dell’insediamento da un sistema fortificato composto da cortine murarie e torri. All’interno si trovavano il palazzo reale, le terme della corte e varie chiese. Completava l’insieme un sistema sotterraneo di centinaia di grotte e cunicoli, oggi perduti o impraticabili. Le porte monumentali di accesso alla città erano quaranta. Fra le chiese, la cattedrale, costruita a partire dal 989, era dedicata alla Madre di Dio; la piú antica era la chiesa del palazzo, che risaliva al VII secolo. Quella relativamente meglio conservata è dedicata a san Gregorio Illuminatore: ultimata nel 1215 è dotata di una cupola e, all’esterno, di ricche decorazioni plastiche a motivi zoomorfi. All’interno contiene gli unici affreschi scampati alle devastazioni e all’iconoclastia islamica: due serie di scene che raccontano la vita del santo e quella di Gesú. Nel nartece e nella cappella adiacente restano frammenti di affreschi di scuola bizantina. Le rovine della cittadella attirarono per prime l’attenzione dei viaggiatori europei che attraversarono

l’area, pubblicando poi descrizioni della città in riviste accademiche e resoconti di viaggio. Nel 1878 la regione di Kars, inclusa Ani, venne incorporata nel territorio dell’impero russo. Nel 1892 iniziarono i primi scavi archeologici, sotto l’egida dell’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo e supervisionati dall’archeologo e orientalista Nikolaj Marr (1864-1934). Gli scavi di Marr ripresero nel 1904 e continuarono fino al 1917. Grazie a lui, vennero riportati alla luce estesi settori della città e i ritrovamenti furono studiati e pubblicati. Restauri di emergenza interessarono gli edifici maggiormente a rischio di crollo e, nel contempo, venne fondato un museo, nel quale raccogliere le decine di migliaia di reperti trovati durante gli scavi. Il museo fu ospitato in due edifici: nella moschea Minuchihr e in un’altra costruzione realizzata a tale scopo. Nel 1918, alla fine della prima guerra mondiale, l’esercito ottomano attraversò il territorio dell’appena dichiarata Repubblica Armena, conquistando Kars nel mese di aprile. Ad Ani vennero compiuti dei tentativi di evacuare i reperti contenuti nel museo mentre i soldati turchi si avvicinavano. Circa

Una veduta dell’imponente porta di Kars, situata nella parte occidentale dell’antica città di Ani.

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6000 oggetti, tra i piú trasportabili, vennero rimossi dall’archeologo Ashkharbek Kalantar, uno dei partecipanti agli scavi condotti da Marr. Su richiesta ufficiale di Joseph Orbeli, i reperti salvati vennero riuniti in un’unica collezione museale; oggi fanno parte della collezione del Museo di Stato di Storia Armena di Erevan. Tutto ciò che non poté essere messo in salvo venne perso o distrutto. La resa dell’impero ottomano alla fine della guerra riportò Ani sotto il controllo armeno, ma una nuova offensiva contro la Repubblica Armena nel 1920 fece sí che la Turchia rientrasse in possesso della città. Nel 1921 la firma del Trattato di Kars formalizzò l’incorporazione del territorio contenente Ani all’interno della Repubblica turca. Nel maggio del 1921 l’Assemblea Nazionale Turca ordinò al comandante del Fronte Orientale, Kazım Karabekir, di «spazzare via i monumenti di Ani dalla faccia della terra». Karabekir scrisse poi nelle sue memorie di avere ignorato l’ordine, ma il fatto che ogni traccia degli scavi eseguiti da Marr e dei restauri degli edifici sia stata cancellata fa pensare che esso sia stato almeno parzialmente eseguito. Dal 2012 l’area di Ani è riconosciuta dall’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità. Da allora sono

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iniziati i restauri e si sono registrati alcuni progressi nella tutela di quello che ne è rimasto. Tuttavia Ani è solo il fulcro di una rete fitta e ricchissima di testimonianze sparse in tutta l’area. Migliaia di edifici diruti, pericolanti o demoliti fino alle fondamenta punteggiano il territorio dell’Armenia storica e sono stati oggetto di un autentico e sistematico genocidio culturale, condotto con l’obiettivo di cancellare tracce, nomi e segni identificativi del popolo e della sua civiltà. Le migliaia di oggetti e di opere d’arte scoperti ad Ani durante gli scavi del XIX e XX secolo dimostrano legami con la Persia, la Cina, l’Asia centrale, cosí come con Bisanzio e l’Occidente europeo; le architetture della città appartengono allo specifico armeno ma sono altrettanto figlie del contesto caucasico e di quello del Mediterraneo orientale; le chiese hanno planimetrie e strutture simili a quelle bizantine. Come la capitale ha un suo specifico posto nella storia della cultura e dell’arte del Medioevo, cosí la sua conoscenza non può essere separata da quella delle altre testimonianze dell’universo a cui appartiene. Accettare la cancellazione di queste tracce significherebbe rassegnarsi a una perdita che impoverirebbe il mondo intero.

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Dossier A sinistra isola di Akhtamar (lago Van). Particolare di uno dei rilievi esterni della cattedrale della Santa Croce, raffigurante lo scontro tra Davide e Golia. L’isola fu un tempo sede del catolicosato armeno di Akhtamar. Sulle due pagine una veduta d’insieme della cattedrale della Santa Croce di Akhtamar, fatta edificare dal re Gagik I Artsruni tra il 915 e il 921.

dei Persiani, ponendo le premesse per la politica militare e religiosa di Eraclio, che cercò di consolidarvi il fragile dominio bizantino anche con l’imposizione di gerarchie ecclesiastiche costantinopolitane. Tali scelte, però, non fecero che esasperare le distanze e i contrasti, acuendo la frammentazione identitaria nei territori caucasici e mediorientali. Anche per questo gli Arabi, intorno al 645, ebbero gioco facile: non incontrarono resistenze tenaci. Tuttavia, anche dopo la prima islamizzazione, la Chiesa armena continuò a godere di grande prestigio. Venne costituito un emirato di Armenia con capitale Dvin, sotto il controllo della dinastia dei Bagratidi (famiglia principesca che regnò sulla Grande Armenia tra l’885 e il 1046). Nonostante la dominazione islamica avesse assunto una conno-

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tazione locale e caratteri di relativa autonomia, l’identità della popolazione rimase radicata nel cristianesimo, consentendo la continuità dei culti e delle gerarchie ecclesiastiche, sia pure in condizioni di sottomissione e di crescenti restrizioni. Tanto che nel IX secolo si arrivò a una nuova stagione di indipendenza, conquistata con rivolte, ribellioni e avvicendamenti di dinastie.

Un nuovo regno

Tra l’884 e il 1045 prese vita un nuovo regno, con capitale Ani (vedi box alle pp. 82-85), aprendo un’altra fase in cui l’identità politico-religiosa si consolidò, sia pure su un’articolazione geografica mutata. Dopo il 1045 l’Armenia visse ancora una parentesi bizantina, finché, dopo la battaglia di Manzikert (1071), la conquistò Alp Arslan, secondo novembre

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Dossier L’assedio di Antiochia

Firuz, amico di tutti e di nessuno Firuz, un Armeno convertito all’Islam, è fra i protagonisti dell’assedio di Antiochia (1098) nelle cronache di crociata. Il suo ritratto riflette la percezione (e i pregiudizi) che i Latini avevano del suo popolo: intelligente e astuto, conduce un proprio gioco autonomo e non è riducibile a nessuna vera alleanza, può essere utile in alcune circostanze, ma è destinato a restare «altro», diverso, lontano. Di lui si racconta che aveva rivestito un ruolo di primo piano nel governo turco selgiuchide di Yaghi Siyan, poi si legò a Boemondo, garantendogli informazioni e appoggio dal fronte opposto. Il suo intervento si colloca nei giorni drammatici in cui i Latini, stremati, stavano impegnando tutte le loro forze per assediare la città, senza vedere un esito per l’operazione: gli abitanti continuavano a uscire dalle mura per pascolare il bestiame e a essere riforniti di cibo dai contadini dei dintorni; i musulmani

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avevano raccolto un esercito numeroso che andava avvicinandosi, mentre dal mare non arrivavano rinforzi. Anzi, alcuni capi, con i loro armati, erano ripartiti per l’Europa, prostrati dalle malattie, dall’avvilimento, dalla perdita dei cavalli, dalla fame. Antiochia, ben protetta dalla sua posizione naturale, dominata dalla cittadella che coronava le balze del monte Silpios, era circondata da una cinta munita di quaranta torri. I crociati si attestarono prima sul lato settentrionale, dove edificarono una fortezza che controllava la porta di San Paolo e costruirono un ponte di barche per assicurare il collegamento al drappello che sorvegliava la porta del ponte. Nel frattempo, i cavalieri affrontarono le armate islamiche radunate dal re di Aleppo e dagli emiri di Homs, Shaizar e Hama. Si impadronirono della fortezza di Harim e vinsero uno scontro campale vicino al lago di Antiochia, assicurandosi una tregua sufficiente

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per costruire altre due fortezze in legno, a sud e a ovest della città. Nonostante le contrapposizioni e le rivalità fra i feudatari cristiani, era Boemondo a esercitare la leadership. Nella tensione crescente, in uno scacco reciproco che avrebbe potuto durare mesi, la sua prima preoccupazione erano le spie: sapeva bene che le informazioni avrebbero fatto la differenza. Fu lui a far arrostire i corpi di alcuni islamici accusati di tradimento, lasciando intendere che i suoi se ne sarebbero cibati e che ogni altro infiltrato avrebbe fatto la stessa fine. Nacque cosí il racconto del cannibalismo dei crociati che, anche in seguito, ebbe tanta parte nella costruzione dell’idea del nemico nel mondo islamico. Proprio seguendo questa logica, fu lui a servirsi di Firuz l’Armeno, il quale, a differenza di tutti i cristiani, aveva potuto restare all’interno della città perché si era formalmente convertito al Corano. Era diventato addirittura il guardiano della torre delle Due

Sorelle e aveva la possibilità di aprire le porte della città. Nella notte fra il 2 e il 3 giugno 1098 l’esercito franco aveva suonato la carica, dirigendosi ostentatamente verso est, come per attaccare il grosso dei contingenti musulmani, nella valle dell’Oronte, a qualche miglio di distanza. Nel mentre, Firuz consegnò la torre a Boemondo, che vi issò la sua bandiera, vicinissimo alla cittadella. I crociati, fatta marcia indietro verso la città, entrarono dalla porta che era stata loro aperta. Solo la cittadella rimaneva nelle mani dei Turchi, che da lí iniziarono la parte piú dura dell’assedio. L’esito però era ormai segnato. In un clima di eccitazione mistica, nel quale si colloca anche l’episodio del ritrovamento della Santa Lancia, il Normanno e i suoi, al limite delle forze, riusciranno infine a prevalere, segnando cosí il corso dell’intera spedizione che, soltanto un anno piú tardi, arrivò a conquistare Gerusalemme. La presa di Antiochia da parte dei Crociati, olio su tela di Louis Gallait. 1843. Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts.

sultano della dinastia selgiuchide. I massacri messi in atto dai suoi Turchi determinarono una vera e propria diaspora: chi sopravvisse si spostò in Polonia, nell’Europa centrale e, soprattutto, in Cilicia. Qui i profughi diedero vita a un’organizzazione strutturata su base feudale intorno alla figura di un sovrano, in grado di mantenere una difesa militare e un presidio del territorio, secondo una dislocazione forzatamente cambiata. La natio armena, quindi, persiste, anche all’interno di uno spazio geografico diverso: l’identità non viene intaccata, anzi, si consolida la memoria di una Armenia «storica», indipendentemente dalla localizzazione contingente. Quell’area, che assume la propria consistenza come spazio marcato da monumenti e toponimi, vivo nel ricordo, va definendosi proprio a partire da quell’epoca come insieme dei luoghi appartenuti agli Armeni e, per que-

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Dossier

In alto riproduzione di una miniatura in cui si vedono Leone III, re di Armenia-Cilicia, con la regina Keran e cinque dei loro figli, dal Vangelo della regina Keran. 1272. Gerusalemme, Patriarcato armeno. Figlio di Hethum I, Leone salí al trono nel 1268. Tentò di salvare l’autonomia del Paese avvicinandosi ai Mongoli, con i quali fronteggiò la minaccia rappresentata dai Mamelucchi; nel 1276 riportò una risolutiva vittoria sugli Egiziani.

Moneta armena del XIII sec. Sul recto, re Leone II a cavallo con la croce in pugno e l’iscrizione «Leone, re di tutti gli Armeni»; sul verso, leone coronato e croce con l’iscrizione «Battuta nella città di Sis».

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sto, considerati patria irrinunciabile, anche se perduta. La sede patriarcale fu spostata da Dvin a Van, poi ad Ani; in alcuni periodi risultano presenti patriarchi diversi in piú sedi contemporaneamente. Tuttavia, l’organizzazione ecclesiastica istituzionale si mantenne pressoché invariata: si configurò come tessuto connettivo di esperienze politiche diverse, di frantumazioni e sperimentazioni istituzionali di breve durata, sempre caratterizzate dalla debolezza e della necessità di stringere legami per resistere nel gioco di potenze violente e instabili. Cosí fu anche quando i Latini e i Franchi si affacciarono politicamente sulla scena mediorientale: gli Armeni divennero alleati imprescindibili, anche se mantenuti a distanza e guardati sempre con un certo sospetto per la loro contemporanea vicinanza tattica ai Bizantini. novembre

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gerusalemme

Gli Armeni nella Città Vecchia

d Wa

El-

Una comunità armena a Gerusalemme fu agli Armeni fu permesso di costruire un muro intorno al costituita all’inizio del IV secolo, anche se quartiere. Dalla metà del XV secolo questo spazio chiuso presenze di monaci e pellegrini provenienti dall’area è regolarmente citato e descritto dai viaggiatori, che sono attestate in precedenza. Il suo microcosmo, racchiuso testimoniano come si sia sviluppato gradualmente nei due nell’area intorno all’attuale cattedrale di S. Giacomo, ha secoli successivi, durante il dominio ottomano. vissuto – e vive – di riflesso tutte le vicende del popolo Nel 1562-63 erano registrati solo 189 Armeni a cui appartiene. Emblematica è la stessa struttura a Gerusalemme; 690 se ne contavano invece urbanistica del suo insediamento, oggi un vero e proprio nel 1690: un incremento marcato, dovuto probabilmente quartiere nell’angolo sud occidentale della Città Vecchia, all’impoverimento delle campagne e all’inurbamento a sud della Cittadella, vissuto drammaticamente fortemente connotato e da questo gruppo e dagli volutamente distinto dal altri cristiani. Divennero il Monte Porta degli quartiere cristiano. 22,9% dei cristiani della di Erode Ulivi Il sito della cattedrale città, la seconda comunità coinciderebbe con la prima piú numerosa dopo i Greci. Porta del Leone Quartiere Piscina (Porta di Santo Stefano) musulmano localizzazione stabile della Nel 1883 le 102 famiglie Porta di Betesda di Damasco comunità, che l’avrebbe armene (8% del totale) si Fortezza Orto del Antonia Elscelto per la vicinanza attestarono come il terzo Getsemani Wa Haram al-Sharif d con il Monte Sion e con il gruppo cristiano della Città Arco Fontana Quartiere dell’Ecce luogo nel quale si faceva di Qaitbay Vecchia, dopo i Greci e i cristiano Homo Duomo della Catena memoria dell’Ultima Latini. Vi si aggiungevano Cupola della Roccia Cena, negli edifici 46 tra preti e monaci di Porta Moschea Al.Aqsa Chiesa del Nuova Al.Aqsa utilizzati dai primi gruppi S. Giacomo e 55 laici Santo Sepolcro Muro cristiani. La costruzione che servivano all’interno del Pianto Valle di di strutture imponenti e del monastero. In base Quartiere Cittadella Kidron Porta di Giaffa la monumentalizzazione al censimento ottomano ebraico Porta Quartiere del Letame della stessa S. Giacomo del 1905 il quartiere Fonte armeno Monte Ophel di Gihon («il gioiello delle chiese») armeno era popolato da Città Chiesa di Porta risalgono invece al X e XI 382 persone, di cui 121 di David San Giacomo del Letame secolo, in coincidenza con Armeni. Gli Ebrei erano il Porta di Sion la stagione d’oro del regno 33%, altri cristiani il 24%, i Chiesa della Dormizione di cui Ani era la capitale. musulmani il 10% circa. Piscina La struttura attuale All’inizio della prima Cenacolo di Siloe dell’Ultima Cena della cattedrale guerra mondiale, nei e Tomba di David si deve all’epoca territori poi soggetti al Valle di Hinnom crociata, quando i Latini Mandato Britannico, erano dovettero confrontarsi presenti in tutto 2-3000 con la folta presenza armena e con le sue gerarchie, Armeni, concentrati soprattutto a Gerusalemme (la città che mantennero riti, liturgie, prerogative e gran parte dei fu conquistata dagli Inglesi e dai loro alleati nel 1917). loro possessi. Rimasero attivi anche lo scriptorium e la Nel 1925 erano piú di 20 000, in gran parte profughi biblioteca, risalenti almeno a tre secoli prima. provenienti dalla Cilicia e da Istanbul. Il loro numero è Dopo la caduta della città nelle mani di Saladino, gli andato diminuendo nei decenni successivi, anche per Armeni non furono espulsi, anzi, acquisirono vantaggi effetto della creazione della Repubblica Sovietica di e prerogative nel contesto della politica del «divide et Armenia, che favorí il rientro di molti. Oggi nel quartiere impera» messa in atto dai governatori musulmani nei della Città Vecchia vive circa un migliaio di Armeni. confronti dei diversi gruppi di cristiani. Nel 1311, durante Il monastero di S. Giacomo è un complesso di diverse il dominio mamelucco, l’arcivescovo Sarkis assunse il chiese comunicanti con spazi aperti, cortili, giardini e titolo di patriarca; negli anni Quaranta dello stesso secolo pergolati. Attigui sono il patriarcato, le residenze del

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Dossier clero, la biblioteca, una stamperia, scuole, ambienti per attività assistenziali spazi per i giovani. Poco distante è il seminario. Tutt’intorno e fino alla chiesa di S. Arcangelo che funge da parrocchia, sono dislocate le case dei laici. Al limite meridionale del quartiere, fuori dalle mura, si estende il cimitero della comunità, luogo di sepoltura di patriarchi come di laici residenti e pellegrini che hanno concluso la loro esistenza nella città in diverse epoche. Le iscrizioni sulle lapidi possono essere lette come un plurisecolare frammentato racconto della travagliata vita del popolo a cui sono appartenuti. Al centro del camposanto è stato eretto un monumento che rende onore ai caduti della Legione Armena nel 1917 a Gerusalemme e nelle altre fasi del conflitto mondiale. A loro vengono idealmente associate le vittime del genocidio. Gerusalemme. Il portale (a sinistra) e un particolare della decorazione della chiesa cattedrale armena. Edificata nel XII sec., è dedicata ai Ss. Giacomo il Giusto e Giacomo il Maggiore ed è sede del Patriarcato armeno di Gerusalemme.

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A destra Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni ristabiliscono la religione in Armenia nel 1347, olio su tela di Henri Delaborde. 1844. Versailles, Castello.

Il dominio formato in Cilicia, la cosiddetta Piccola Armenia, durò tre secoli. Il suo apogeo fu raggiunto con Leone II (1199-1219), il quale organizzò il regno, sottoposto a vassallaggio verso Santa Sede e impero germanico, sul modello dei principati franchi d’Oriente. Nel XIV secolo cominciò a decadere, corrosa da lotte religiose intestine. Il passaggio alla dinastia dei Lusignano di Cipro (1342) suscitò nuove lotte che portarono al tradimento a danno di Leone VI di Lusignano e all’insediamento in Cilicia dei Mamelucchi siro-egiziani (1382).

La fine dell’indipendenza

Da quel momento in poi, fino al secolo scorso, sparisce ogni traccia di uno Stato armeno indipendente. Tra massacri, razzie e nuove diaspore, una parte dell’Armenia storica subí il dominio dei Mongoli di Gengis Khan (1206) e di Tamerlano (1387), finché vi giunsero i Turchi di Maometto II. Un’altra fu inglobata nei domini dello scià di Persia. Nell’impero ottomano alle minoranze ebree e cristiane fu appli-

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La fine del regno di Armenia-Cilicia

Leone VI, una tragica meteora La fine del regno di Armenia-Cilicia fu una tragedia anche per la sua dinastia. Re Leone VI di Lusignano rimase sul trono solo sette mesi (tra il 1374 e il 1375). Aveva sposato una donna franca, Margherita di Soissons, vedova del principe di Cipro Scandelion, che proveniva dalla famiglia dominante a Famagosta. Il matrimonio rientrava nel tentativo di rinsaldare i legami fra le famiglie feudali cristiane del bacino mediorientale, unendo ciò che restava delle monarchie feudali latine, armene, georgiane. Nel 1374 il Senato armeno aveva offerto il trono di Cilicia a Leone, il quale accettò e si trasferí nella capitale Sis, portando con sé la madre e la moglie Margherita che poco dopo partorí due gemelle. L’anno successivo, quando i Mamelucchi invasero l’Armenia, il 22 aprile catturarono lui e la sua famiglia, comprese le due neonate. Furono tutti portati al Cairo. La regina e le bambine non sopportarono il clima malsano della città e gli stenti a cui furono sottoposte. Le gemelle si ammalarono e morirono nel 1379; la madre due anni piú tardi e fu sepolta nel cortile della chiesa armena di S. Minas. Il re rimase prigioniero ancora a lungo. Fu liberato solo grazie all’aiuto dei re francesi; morí nel 1393 a Parigi e venne sepolto in una piccola chiesa armena, distrutta e saccheggiata durante la rivoluzione. Solo la sua lastra tombale fu poi spostata in Saint-Denis. Il corpo, probabilmente dissotterrato e disperso, non fu piú trovato. Nulla si sa di Phenna, figlia del precedente matrimonio di Margherita, che, poco piú che dodicenne, aveva sposato il principe di Corycus, Sahan, in un estremo tentativo di rafforzare la corona compattando la nobiltà locale. Anche lui fu portato al Cairo, ma le fonti tacciono su quello che accadde in seguito.

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Dossier il museo del genocidio

Per non dimenticare, anche sul web Il memoriale del Genocidio a Erevan, costruito nel 1967 e da allora meta di un flusso incessante di visitatori, è il perno di una complessa operazione di recupero della memoria e di ricostruzione degli eventi che implica la valorizzazione dell’identità armena e del suo sviluppo storico. Come la sua genesi si è sviluppata in ambiti spaziali diversi, cosí il Museo del Genocidio, aperto nel 1995, si articola su piú registri. Al luogo-monumento fa capo una rete globale virtuale che raccoglie testimonianze, foto, dati ed è accessibile a tutti, un documento aperto che si alimenta con il progredire delle ricerche. Su un piano intermedio si collocano: lo spazio geografico e politico della Repubblica di Armenia, che con i suoi musei, cata la legislazione delle discriminazioni islamiche, declinata secondo il sistema dei millet, in virtú del quale ogni comunità religiosa doveva negoziare con i sultani, di volta in volta, permessi, prerogative e importi della jizia, la tassa annua imposta agli infedeli in cambio della protezione e del mantenimento dei loro riti. Identità, segregazione e formazione di enclave divennero elementi di un unico modus vivendi, protrattosi per oltre quattro secoli. A fare da riferimento per gli Armeni fu la gerarchia ecclesiastica, ma in modo diversificato e contraddittorio.

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le biblioteche e le università è l’arca di un’identità viva; l’«Armenia storica» con le sue fasi e i suoi drammatici cambiamenti; l’Armenia delle diaspore, composta dai mondi in cui si sono rifugiati i profughi e gli esuli, allargata a Parigi, alla Russia, a New York, all’America Latina, a Gerusalemme. Lo stesso sviluppo della ricerca storica e identitaria si articola in questo gioco di scale, facendo emergere vicende, legami, rapporti di causa-effetto, nuove ipotesi. Si delinea, quindi, un «caso» di studio la cui valenza va ben oltre i singoli episodi, per allargarsi alle grandi questioni del Novecento e dell’intera vicenda umana. Info www.genocide-museum.am/eng

Nel 1461 Maometto II, chiamò a Istanbul Gioacchino, vescovo di Bursa (antica città della Bitinia, oggi in Turchia), e lo investí di un’autorità civile uguale a quella del patriarca greco per tutti gli Armeni del suo impero. Era un tentativo di usurpazione del potere religioso, che però non fu mai interamente compiuto perché il katholikos di Echmiadzin mantenne un ruolo di riferimento per tutti i fedeli, ben oltre i confini dei domini ottomani. Nei fatti, un’élite di famiglie dedite al commercio e alle attività di cambio si concentrò nella capitale

In alto un’immagine dalla mostra tenutasi al Museo del Genocidio Armeno di Erevan in occasione del centenario delle stragi. Nella pagina accanto carta nautica con indicazione dell’Armenia e dei territori controllati dal «Gran Turco». 1564. Vicenza, Biblioteca Civica Bertoliana.

e riuscí a trovare forme privilegiate di accordi con i dominatori, mentre le comunità minoritarie, povere e isolate dell’Anatolia orientale, del Caucaso e della Cilicia finirono per restare in balia degli arbitri e delle angherie dei pascià e dei bey, gli esosi governatori locali. Si posero cosí novembre

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Dossier Sulle due pagine una fotografia d’epoca ritrae una colonna di rifugiati armeni mentre attraversa i territori dell’Anatolia per fuggire ai massacri turchi. 1915.

le premesse, prima, per la campagna contro gli Armeni condotta dal sultano ottomano Abdul-Hamid II negli anni 1894-1896 e, poi, per la deportazione e l’eliminazione compiute negli anni tra il 1915 e il 1923, vero e proprio genocidio. Come il Vangelo era stato per secoli l’elemento distintivo di genti disperse, immiserite, soggiogate, cosí l’orgoglio di una minoranza

che non aveva altra forza se non la sua fierezza, divenne la condanna a morte di almeno un milione e mezzo di persone. Sospettate e odiate per la sola loro appartenenza, finirono inghiottite dentro migliaia e migliaia di fosse comuni, disseminate in un’area enorme, tra la Cilicia, le pendici dell’Ararat e il Caucaso. Quel sistematico annientamento si può quindi considerare un atto di

La canonizzazione dei martiri

Il riconoscimento ufficiale di una tragedia Il 24 aprile 2015, la Chiesa apostolica armena ha canonizzato ufficialmente un milione e mezzo di vittime del genocidio armeno. Si tratta della piú grande santificazione mai decisa da una Chiesa cristiana. «Non si è fatto altro che riconoscere i fatti, ossia il genocidio», ha sottolineato il patriarca supremo e katholikos di tutti gli Armeni, Karekin II, che ha celebrato la cerimonia a Echmiadzin, in un edificio del IV secolo considerato la prima chiesa al mondo a costruita per volontà statale. Poco prima, il 12 aprile, papa Francesco ha proclamato Dottore della Chiesa san Gregorio Illuminatore, definendo «martiri» le vittime del genocidio e ricordando che uno dei suoi predecessori, Benedetto XV, era intervenuto presso il sultano Mehmet V per far cessare i massacri.

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cancellazione del cristianesimo, l’ultimo e il piú imponente disegno di uniformazione etnico-religiosa messo in atto da islamici (sia pure nelle dinamiche internazionali della prima guerra mondiale). Non solo perché investí anche Siri e Caldei – poiché ai superstiti fu imposta la conversione –, ma soprattutto perché la stessa identità armena si fonda e si riassume nel cristianesimo. V

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Da leggere U Giusto Traina, 428 dopo Cristo. Storia

U Alessandro Aramu, Anna Mazzone,

di un anno, Laterza, Roma-Bari 2007 U Andrea Riccardi, La strage dei cristiani. Mardin, gli armeni e la fine di un mondo, Laterza, Roma-Bari 2015 U Franca Giansoldati, La marcia senza ritorno. Il genocidio armeno, Salerno Editrice, Roma 2015

Gian Micalessin, Il genocidio armeno: 100 anni di silenzio, Arkadia Editore, Cagliari 2015 U Jean Jaurès, Bisogna salvare gli armeni. Discorsi alla Camera dei deputati francese in difesa degli armeni, a cura di Paolo Fontana, Guerini e Associati, Milano 2015

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Nel castello di di Agnese Morano

Ugone

Nel borgo umbro di Stroncone il tempo sembra davvero essersi fermato: il centro storico conserva infatti pressochĂŠ intatta la sua fisionomia medievale. E, nel Palazzo Comunale, c’è un tesoro nel tesoro: la raccolta dei nove magnifici Corali, realizzati nel Trecento da maestri miniatori perugini e orvietani 98

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osto su un tranquillo e ameno colle a pochi chilometri da Terni, Stroncone è un tipico paesino medievale. Edificato tra il X e l’XI secolo, nel periodo dell’incastellamento, ha conservato le sue antiche caratteristiche, che ne fanno uno tra i borghi piú belli d’Italia. Se incantevoli sono le sue stradine, le piccole piazze, le chiese e gli scorci «da cartolina», altrettanto suggestiva è l’etimologia del suo toponimo. «Stroncone», infatti, deriverebbe dal latino Castrum Ugonis e dunque l’antico e ricco proprietario del feudo stronconese andrebbe ricercato proprio in tale Ugone, forse identificabile addirittura con un duca longobardo di Spoleto. Secondo una leggenda popolare, invece, il nome deriverebbe dalla morfologia del sito, che, sorgendo a 450 m sul livello del mare, è, da un lato, difeso da uno strapiombo naturale, che lo rende «stroncato» – da cui Stroncone – e, quindi, inespugnabile. Per questo motivo, nel circuito murario del paese si aprono solo tre porte: la porta principale, che ac-

coglie il visitatore, porta Capraia e porta Nuova, che affacciano, rispettivamente, sul versante di Rieti e su quello di Terni. L’assenza di un’altra porta in corrispondenza del quarto punto cardinale, ovvero verso est, è dovuta proprio al fatto che da quel lato il paese è naturalmente difeso dal precipizio.

Guai ai Narnesi!

Le notizie piú antiche sul paese si hanno nel Chronicon Farfense, ricostruzione scritta in forma narrativa della storia dell’abbazia di Farfa e delle sue acquisizioni in tutta l’Italia centrale, del 1192. In questo testo Gregorio da Catino (1060 circa-1133 circa), monaco benedettino copista e archivista dell’abbazia, parla di Stroncone e lo descrive come un paese già tributario del papa e, proprio per questo motivo, nel 1209, Innocenzo III (1198-1216) colpí con un interdetto la popolazione della confinante Narni per aver osato attaccare il territorio stronconese. Veduta di Stroncone, borgo situato pochi chilometri a sud di Terni, che conserva inalterata la sua forte impronta medievale.

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medioevo nascosto stroncone Nel 1212 il papa concesse a Stroncone autonomia comunale e, nel giugno del 1215, obbligò i Narnesi a riedificare il castello da loro incendiato. Nelle lotte che segnarono l’età di Mezzo, Stroncone si schierò sempre con la parte guelfa e cosí, fin dal XII secolo, le sue milizie avevano potuto aggiungere ai loro vessilli, oltre alla croce bianca su fondo rosso, le chiavi pontificie, simbolo dell’appartenenza alle terre ecclesiastiche.

MARCHE

Città di Castello Pietralunga

Tevere

Arezzo

Montone

Gubbio

TOSCANA

Fabriano Tolentino

Lago Trasimeno

Perugia Assisi Deruta

Nocera Umbra

Spello Foligno ra

Ne

Campello sul Clitunno

Todi Orvieto Lago di Bolsena

Amelia Narni

Terni

Cascata delle Marmore

Stroncone Rieti

Viterbo Lago di Vico

Norcia Cascia

ABRUZZO

Orte

Acquasparta Spoleto

LAZIO

Lontano dalla peste

Nel 1462 accolse con felice benevolenza l’arrivo di papa Pio II (1458-1464), il quale, di ritorno dal concilio di Mantova, decise di pernottare a Stroncone, lodando e apprezzando la fertile campagna e il grazioso borgo. La scelta di fermarvisi venne dettata dalla prudenza: a Roma infuriava la peste e il pontefice optò quindi per un luogo dall’aria resa salubre dai venti che soffiavano dalla vicina montagna di Macchialunga e rendevano, allora come oggi, il clima sano e gradevole. Fra gli avvenimenti piú significativi di cui il borgo fu teatro in età moderna, occorre ricordare la resistenza contro le truppe francesi di Napoleone, che riuscirono a espugnare il paese solo dopo sette giorni di assedio. Nel 1809, padre Angelico Coletti, approfittando del disordine dovuto al periodo di transizione storico-politica, bandí una vera e propria «crociata» per riportare a

S. Michele Arcangelo e S. Nicolò

Duello a suon di musica Tra le numerose chiese stronconesi spiccano le già citate collegiate di S. Michele Arcangelo e di S. Nicolò, che, in pieno Trecento, si sfidarono in un vero e proprio «duello musicale», come testimoniano gli splendidi Corali oggi conservati nel Palazzo Comunale. S. Michele Arcangelo è menzionata in un documento, datato 1012, del Regesto Farfense, ma oggi, a seguito di pesanti interventi avvenuti in tempi differenti, ha l’aspetto di una chiesa seicentesca. La sua intitolazione all’arcangelo Michele, compatrono di Stroncone assieme al beato Antonio Vici, si spiega con la diffusione del culto micaelico del Gargano, favorita dai Longobardi del ducato di Spoleto. Posta geograficamente sul versante opposto, anche la collegiata di S. Nicolò ha subito ripetuti restauri e rimaneggiamenti, che ne hanno alterato le sue caratteristiche architettoniche originarie. Alla fabbrica primitiva risale ormai soltanto l’ingresso principale, che si apre sulla piazza omonima, nella quale si svolgevano le assemblee popolari. La semplice e spoglia facciata è impreziosita da un elegante fregio costituito da animali e foglie, che incornicia il portale.

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A destra una pagina riccamente miniata di uno dei Corali di Stroncone. XIV sec. Stroncone, Palazzo Comunale. Nella pagina accanto la facciata della collegiata di S. Nicolò. In basso il convento di S. Francesco, la cui fondazione viene da alcuni attribuita allo stesso santo assisiate.

il convento di s. francesco

Qui si ottiene l’indulgenza

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Il convento dedicato al Poverello d’Assisi sorge poco fuori le mura del paese, in un sito che domina la vallata circostante. Secondo la tradizione, sarebbe stato fondato dallo stesso Francesco nel 1213, quando l’Assisiate transitò per Stroncone alla volta del convento francescano dello Speco, situato nel territorio della confinante Narni. Altri studiosi sostengono, invece, che sia sorto all’indomani della morte del santo, sopraggiunta nella notte tra il 3 e il 4 ottobre 1226. In ogni caso, la sua costruzione avvenne nel corso del XIII secolo, poiché il 5 giugno 1291 papa Niccolò IV concesse l’indulgenza plenaria a tutti coloro che vi si fossero recati.

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medioevo nascosto stroncone Stroncone il corpo del patrono, il beato Antonio Vici (vedi box a p. 103). Divenuto municipio del Regno d’Italia, Stroncone fu unito al Comune di Terni nel 1929 e riconquistò l’autonomia amministrativa soltanto nel 1947.

Un trasferimento provvidenziale

Tra i numerosi tesori storico-artistici custoditi a Stroncone uno, in particolare, spicca per bellezza, rarità e importanza. Nel Palazzo Comunale,

Dove e quando Per visitare i Corali di Stroncone, si può fare richiesta all’Assessorato alla Cultura del Comune di Stroncone (Terni), tel. 0744 6098202; e-mail: info@comune.stroncone.terni.it oppure ass.cultura@comune.stroncone.terni.it

s. benedetto in fundis

Fuga da Farfa L’abbazia di S. Benedetto in Fundis sorge in località Colle, una frazione di Stroncone. La data della sua fondazione è a tutt’oggi ignota, ma essa doveva certamente essere già attiva agli inizi del XII secolo. In una lapide posta sulla facciata della chiesa di S. Nicolò, datata 1181, si legge, infatti, che la comunità di Stroncone donò la chiesa appunto alla comunità di S. Benedetto in Fundis. È verosimile credere che l’insediamento religioso sia nato grazie a un gruppo di monaci fuggiti nel IX secolo dalla vicina abbazia di Farfa – minacciata dall’avanzata saracena – e, del resto, la chiesa stronconese presenta, come a Farfa, la tipica struttura a pianta basilicale con due absidi contrapposte. Oggi l’abbazia è purtroppo ridotta a un rudere e quindi possiamo solo immaginare, leggendo le testimonianze letterarie di chi ebbe la fortuna di poterla ammirare in tutto il suo splendore, come dovesse presentarsi in passato.

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Qui sopra ancora una miniatura di uno dei Corali di Stroncone. XIV sec. Stroncone, Palazzo Comunale. A sinistra, in basso i resti dell’abbazia di S. Benedetto in Fundis.

un edificio del XIII secolo fortemente rimaneggiato e alterato nei secoli successivi, sono infatti gelosamente custoditi nove preziosi Corali che costituiscono un vero e proprio unicum nel panorama storico-artisticomusicale del nostro Paese. Lo storico stronconese Luigi Lanzi (1858-1910) riferisce che, nell’agosto 1883, i preziosi Corali di Stroncone erano ancora utilizzati durante le funzioni liturgiche che si celebravano nelle collegiate di S. Michele Arcangelo e S. Nicolò (vedi box a p. 100). Lo stesso Lanzi decise il trasferimento nella sede municipale, resosi necessario al fine di preservare la conservazione dei libri. I nove Corali furono commissionati proprio dalle due collegiate stronconesi. Ciò è facilmente intuibile analizzando sia i contenuti liturgici, che evidenziano legami con l’istituzione religiosa che ne era proprietaria, sia le stesse miniature, poiché alcune di esse raffigurano, tra i vari soggetti, l’arcangelo Michele e san Nicolò. Le minovembre

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Il beato Antonio Vici

Padre Angelico: quasi uno 007 della fede... Tra gli Stronconesi illustri, ce n’è uno nei confronti del quale il paese umbro nutre da sempre una devozione forte e sincera. Si tratta di Antonio Vici, che nasce nel borgo ternano nel 1381, da una famiglia di agiati contadini. Nel 1393, a soli dodici anni, vestí l’abito francescano, ma, per le precarie condizioni di salute, piú volte i suoi confratelli, preoccupati per la sua incolumità, gli consigliarono il rientro tra le mura domestiche, che Antonio, puntualmente, rifiutava. La direzione spirituale condotta da Vinci fu assai dura e, quando divenne maestro dei novizi, la trasmise con tenacia e convinzione ai suoi giovani confratelli. Antonio morí il 7 febbraio 1461 a San Damiano, nei pressi di Assisi. L’anno seguente, proprio nell’anniversario della morte, un raggio di luce uscí miracolosamente dal suo sepolcro e un bambino, vedendolo, ne diede

notizia. La tomba fu subito riaperta e il corpo di Antonio venne trovato intatto e profumato. Da Assisi, la sua fama si diffuse e molti, spinti da una devozione sempre crescente, si recarono presso il sepolcro, perorando grazie. A seguito dei numerosi miracoli attribuiti alla sua volontà, Antonio venne proclamato beato nel 1687 da Innocenzo XI (1676-1689). Il 21 agosto 1809, padre Angelico Coletti, frate minore, partí da Stroncone alla volta di Assisi, con venti giovani al suo seguito, deciso a riportare il corpo incorrotto del beato nel territorio che gli aveva dato i natali. Giunti ad Assisi il 24 agosto, gli Stronconesi entrarono nottetempo in San Damiano e riuscirono a recuperare il corpo di Antonio, che, accompagnato da una processione solenne, fece finalmente rientro in paese. Ancora oggi si ricorda questa mirabile e coraggiosa impresa con un corteo storico che si svolge

niature, inoltre, forniscono elementi utili alla datazione dei libri, altrimenti difficilmente precisabile sulla base della tipologia della notazione – che rientra nella cosiddetta «quadrata grande» –, o della scrittura impiegata per il testo, che è la «gotica libraria».

Maestri perugini e orvietani

Analizzando gli elementi stilistici presenti nel mirabile apparato figurativo, si possono dunque individuare due periodi distinti e consecutivi durante i quali i nove Corali furono completati: un primo gruppo venne realizzato, da miniatori perugini, tra il 1325 e il 1350, mentre gli altri furono ultimati nel venticinquennio successivo (1350-1375), da maestri originari della zona di Orvieto. La prova del costante utilizzo dei Corali per un lasso di tempo sicuramente molto ampio è fornita dalle numerose aggiunte a mano apposte dai cantori già nel XV secolo e fino a tutto il XIX. Alcune di queste aggiunte riguardano brevi indicazioni e suggerimenti per il canto, posti a mo’ di postilla accanto al testo musicale; in altri casi, invece, le aggiunte sono piú cospicue, in quanto si tratta di veri e propri fascicoli, che riportano liturgie

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ogni anno, nella seconda quindicina del mese di agosto. Il corpo del beato, patrono del territorio di Stroncone, è conservato nel convento di S. Francesco e, secondo una leggenda popolare, la sua schiena sarebbe rialzata rispetto al resto del corpo per vegliare e proteggere la sua devota popolazione. Il beato Antonio Vici da Stroncone in un santino della metà del Novecento.

entrate in uso nei secoli successivi. La prima riscoperta dell’importanza dei Corali di Stroncone si deve allo storico perugino Mariano Guardabassi (1823-1880), il quale, nel 1872, li menzionò nello studio Statistica Monumentale ed artistica dell’Umbria. Lo studioso segnalò la presenza di un quinto Corale, oggi purtroppo perduto, appartenuto alla collegiata di S. Nicolò, e riferí anche dell’asportazione di alcune miniature, che poi, fortunatamente, sono state riacquistate dai canonici delle due collegiate. F

Da leggere U Corrado Mazzoli, L’abbazia di San Benedetto in Fundis

di Stroncone, Thyrus, Arrone (Terni) 1994 U Teodoro Costanzi, Notizie storiche di Stroncone,

a cura di Giorgio Angeletti e Federico Fratini, Thyrus, Arrone (Terni) 1998 U Agnese Morano, Giorgio Angeletti, Ricordo di Luigi Lanzi nel centenario della morte, Morphema Editrice, Terni 2011

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CALEIDO SCOPIO

Eva contro Eva CARTOLINE • Il castello di Carbonana, nei

pressi di Gubbio, è un’architettura medievale di gran pregio. La cui lunga storia ha vissuto uno dei momenti culminanti quando una vedova e la sua ex nuora ingaggiarono una violenta disputa legale...

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ubbio è famosa nel mondo per l’ardita piazza pensile su cui affaccia uno dei palazzi pubblici di età comunale piú belli d’Italia e dalla quale, ogni 15 maggio, prende avvio l’emozionante Corsa dei Ceri. Anche il suo territorio, però, non è da meno. Abbazie e castelli medievali, infatti, sono altrettante testimonianze di una storia lunga e gloriosa. Recenti lavori di restauro hanno riportato all’antico splendore un caso

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di studio esemplare per archeologi e storici: il castello di Carbonana, la cui sagoma imponente – ben visibile dalla SS 219 che collega Umbertide a Gubbio – domina da secoli un territorio di rara bellezza. La prima attestazione relativa al castrum Carbonane risale al 1192 e appare chiaro come già dal principio la posizione dominante del fortilizio dovette risultare strategica da piú punti di vista. Il promontorio

roccioso prescelto, infatti, si situa proprio in corrispondenza del punto di intersezione tra la strada di fondovalle, lungo cui scorre l’Assino, e l’antico tracciato viario che, all’altezza di Acqualagna, consentiva di immettersi sulla Flaminia e di raggiungere l’Adriatico. Inoltre, le fonti accennano piú volte alla presenza di redditizi mulini lungo

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quel tratto dell’Assino e al fatto che il Comune di Gubbio utilizzò nel Trecento il fortilizio e la sua torre come strumento di difesa e di controllo di una porzione nevralgica del suo contado.

Passaggi di proprietà Tra il XII secolo e l’Ottocento tre soggetti si susseguirono nella proprietà del castello: l’episcopato eugubino, il ramo di Frontone della stirpe dei Gabrielli e la famiglia dei Porcelli, i cui componenti, al termine di un esemplare percorso di nobilitazione, abbandonarono l’antico cognome e divennero tout court i conti di Carbonana, legando cosí il nome familiare al castello di cui furono proprietari fino all’estinguersi del lignaggio. La prima traccia documentaria certa è il privilegio pontificio del 26 febbraio 1192, con il quale Celestino III riconosce al vescovo Bentivoglio il possesso su una serie di beni. Si apprende cosí che l’episcopato

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eugubino deteneva diritti signorili su vari castelli e fondava la propria ricchezza su un patrimonio cospicuo, che includeva il castrum Carbonane. Per conoscere le successive vicende del castello, occorre tuttavia attendere i primi decenni del Quattrocento, quando entrano in

In alto e in basso, sulle due pagine due immagini del castello di Carbonana, nel territorio di Gubbio. Il monumento è oggi in proprietà privata e non ne viene normalmente consentita la visita. Nella pagina accanto l’immagine scolpita di un suino, a evocare la famiglia dei Porcelli, poi divenuti conti di Carbonana.

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CALEIDO SCOPIO A sinistra il torrione circolare aggiunto in corrispondenza dell’angolo sud-est del castello nei primi decenni del XVI sec. In basso pianta e assonometria ricostruttiva del castello di Carbonana con le diverse fasi edilizie identificate.

scena alcuni esponenti della piú potente famiglia eugubina, quella dei Gabrielli. Un atto del 1426 dà conto del contenzioso tra i discendenti di Bino di Pietro dei Gabrielli: in particolare, a contrapporsi furono due donne, Ludovica dei Guelfoni, vedova di Cecciolo dei Gabrielli, e l’ex nuora Checca, che aveva sposato in prime nozze Giacomo di Cecciolo dei Gabrielli.

restituita ai familiari della donna alla morte dell’uomo e rimasta invece all’interno dei beni ereditari della famiglia Gabrielli. Di tali beni – che della dote in questione costituivano la garanzia e che, nel frattempo, erano passati alla ex nuora e ai figli di primo letto di costei – faceva parte anche quel castrum Carbonane, comitatus Eugubii, cum poderibus, terris et bonis, di cui nella documentazione eugubina si era persa traccia per oltre un secolo. La vertenza giunse davanti al podestà, che agiva in veste di commissario del conte di Urbino Guidantonio da Montefeltro, e dimostra come dalla morte di Giacomo di Cecciolo derivarono

In guerra per 500 fiorini All’origine di tutto vi erano due fatti forieri di non poche conseguenze: Giacomo era morto una decina di anni prima senza lasciare testamento e, dí lí a poco, la giovane Checca si era risposata con un altro Giacomo, questa volta figlio di Galeotto della famiglia dei Porcelli, stirpe di origine fiorentina, ma trasferitasi a Gubbio nella seconda metà del Duecento. Le ragioni del contendere riguardavano la dote di 500 fiorini di Ludovica dei Guelfoni, non mastio (XIII sec.) torre angolare (prima metà del XV sec.) chiesa (XIII secolo) torrione angolare (primi decenni del XVI sec.)

palazzo (primi decenni del XVI sec.) palazzo (prima metà del XV sec.) palazzo (seconda metà del XV sec.) cortina muraria (prima metà del XV sec.)

N

Nord-Ovest

Est

Ovest

Sud-Est PIANO SECONDO

Limiti dei nodi stratigrafici


una serie di eventi fortemente lesivi per gli interessi patrimoniali dei Gabrielli. Questi ultimi, infatti, trovarono sulla loro strada i Porcelli, i quali, fin dal loro insediamento a Gubbio come cambiatori, avevano avviato una politica familiare tesa a incrementare la consistenza economica del lignaggio e a perseguire, con strategiche alleanze matrimoniali, l’instaurarsi di proficui rapporti con le piú importanti stirpi magnatizie cittadine. E proprio grazie alle nozze di Giacomo di Galeotto con l’intraprendente vedova, i Porcelli acquisirono non soltanto un complesso fondiario contenente al suo interno addirittura un castrum, ma poterono giovarsi di relazioni fondamentali per la loro ascesa sociale in uno scenario fortemente modificatosi da quando, nel 1384, Gubbio aveva rinunciato alla propria fragile autonomia e, con una dedizione spontanea, era entrata nell’orbita dei Montefeltro. Non a caso, Checca apparteneva per parte di madre alla nobile famiglia degli Atti di Sassoferrato, che vantava uno stretto legame con i signori di Urbino, e, grazie a questo duplice «salto di qualità» di tipo patrimoniale e sociale, nel corso del Quattrocento, la fisionomia familiare e le attitudini della stirpe dei Porcelli mutarono in modo evidente, evolvendosi definitivamente in senso nobiliare.

Lo studio delle architetture Quanto al castello e alle fasi edilizie succedutesi nel tempo, le indagini archeologiche hanno provato che i corpi di fabbrica piú antichi conservatisi in elevato sono databili al pieno Duecento. Di qui l’ipotesi che le strutture originarie, riconducibili, come si è visto, almeno alla fine del XII secolo, dovettero essere realizzate perlopiú con materiali deperibili e finirono comunque per essere obliterate

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In questa pagina due immagini dell’elegante portale d’ingresso. nel corso della fase costruttiva duecentesca. Mentre risalgono al Quattrocento alcuni interventi che trasformarono l’area signorile dell’insediamento originario in una residenza fortificata circondata da un fossato, menzionato nelle fonti ma non conservatosi nel tempo.

Un duplice «salto di qualità» Ai Porcelli, poi conti di Carbonana – che tra il XVI e il XVII secolo ricoprirono non soltanto le massime cariche nel governo della città, ma

si distinsero anche come valorosi militari al servizio della Repubblica di Venezia –, si devono invece gli interventi volti a nobilitare la facies del fortilizio da cui la stirpe scelse di prendere il nome. Agli inizi del Cinquecento risale infatti un’importante fase di ampliamento, abbellimento e ammodernamento in senso residenziale e signorile di un complesso ancora composto di corpi di fabbrica disomogenei e non privi di discontinuità. Questa nuova fase edilizia, funzionale a trasformare l’antico castrum in una confortevole dimora gentilizia, si tradusse nella decorazione della cappella e,

soprattutto, nella creazione di un’ala (la «casa nuova detta “la sala”») destinata ad accogliere il salone di rappresentanza confinante con l’elegante torrione circolare aggiunto in corrispondenze dell’angolo sud-est della cinta muraria. Evidentemente in quel momento non si badò a spese per aumentare il lustro di un lignaggio da poco entrato a far parte della ristretta élite nobiliare, contribuendo cosí a lasciare quell’impronta indelebile che oggi caratterizza uno dei piú autentici e meglio conservati castelli dell’Umbria. Sonia Merli

Da leggere U Mario Belardi, Il palazzo

dei consoli a Gubbio e il centro urbano trecentesco, Quattroemme, Perugia 2001 U Sandro Tiberini, Sonia Merli, Il castello eugubino di Carbonana e i suoi signori, Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, Perugia 2015

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CALEIDO SCOPIO

I cavalieri del cigno ARALDICA • Fin dall’antichità, il bianco pennuto ha goduto

di enorme fama, di cui si può cogliere l’eco nell’altrettanto ricco repertorio delle sue raffigurazioni nelle insegne nobiliari

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nimale bellissimo e nobile, il cigno ha avuto una straordinaria fortuna araldica. Nel regno di Polonia e nel granducato di Lituania, per esempio, un cigno parlante (Łabedz = cigno) d’argento imbeccato e piotato d’oro in campo rosso è animale araldico delle molte famiglie discendenti o aggregate per adozione al clan magnatizio dei Duninowie/ Łabedzie (del cigno, appunto), fra cui quella comitale dei Dunin; in Ungheria, invece, l’antica e potente stirpe dei Bethlen portava in campo azzurro due cigni d’argento affrontati, i colli trafitti da una medesima freccia aurea. In Baviera, i medievali signori di Treuchtlingen, ministeriali degli Staufer, portavano

uno stemma identico a quello del clan polacco-lituano, mentre inquartò arme similare il ramo di Augusta dei Paumgartner, antica schiatta patrizia di Norimberga, assurto al rango baronale, che nel 1535 acquistò la signoria di Schwanstein (= pietra del cigno). Quest’ultima era stata in precedenza dei signori medievali di Schwangau, ministeriali dei Welfen (Guelfi), donde uscí il Minnesänger Hiltbolt, a cui il trecentesco Codex Manesse attribuisce, parlante, non a caso un di rosso, al cigno rivoltato di nero, imbeccato e piotato d’oro, mentre in altri codici il cigno è d’argento, imbeccato e piotato di nero, e non sempre rivoltato.

3. Stemma dei Carcano, alludente alla titolarità del feudo capitaneale della pieve di Incino. 4. Stemma parlante dei Parravicini, ramo dei capitanei della pieve di Incino e dunque consorti dei Carcano.

In Italia, due casate di rango cardinalizio portarono un’arme di rosso, al cigno d’argento imbeccato e piotato d’oro: quella che fu capofazione ghibellina a Padova e originaria di Monselice dei Paltonieri, onde uscí il cardinale Simone († 1277), e quella capitaneale filotorriana dei Parravicini, donde uscí in seguito il

Salvo diversa indicazione, le immagini sono tratte dal quattrocentesco Stemmario Trivulziano.

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Nobiltà cardinalizia

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1. Stemma di Guglielmo Novello Paltonieri padovano, podestà di Bologna nel 1305, come raffigurato nel settecentesco Stemmario Bolognese Orsini De Marzo. 2. Stemma di Beltramo da Carcano milanese, podestà di Bologna nel 1295, come raffigurato nel settecentesco Stemmario Bolognese Orsini De Marzo.

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cardinale Ottavio (1552-1611). Sulla seconda, in particolare, ci soffermeremo, poiché assai interessante è la permanenza del cigno parlante, o alludente nell’araldica dei numerosissimi rami della consorteria originaria dei capitanei della pieve di Incino, nel contado della Martesana.

Sangue longobardo La tradizione vorrebbe questa stirpe di ascendenze franche: cosa del resto non impossibile, ma che non mi pare provata da professioni di legge, mentre quello che dovrebbe essere un loro ramo, cioè i Sessa, sono dal Lienhard-Riva detti di sangue longobardo. Non dovrebbe invece potersi dubitare dell’affinità dei Parravicini con i Carcano, che vide l’artefice delle fortune della propria consorteria in Landolfo II, arcivescovo di Milano dal 980 al 998 e caro a Ottone II. A lui, infatti, si attribuisce l’assegnazione in feudo dei redditi decimali delle pievi diocesane a quegli elementi che, verosimilmente già entrati a far parte della curia vassallatica episcopale, detenevano a vario titolo il territorio incastellato, esercitandovi uno jus distringendi sui rustici forse piú di fatto che di diritto, ma in ogni

caso di indubbia efficacia. Secondo il Chronicon maius di Galvano Fiamma, il presule assegnò ai suoi tre fratelli, rispettivamente, le pievi di Carcano, di Pirovano e di Melegnano; 9 Goffredo da Bussero, invece, aumenta a cinque il numero dei fratelli beneficiati: dal capitaneo di Carcano fa discendere, oltre la famiglia omonima, i suddetti Parravicini, ma anche i Sessa e i Luini, da quello di Pirovano, gli omonimi, i Casternago e i Tabiago, da quello di Melegnano, gli Scrosati e i Marignani, e dai rimanenti i Bovisio e i Castelletti. Ma quale attendibilità può avere tale tradizione, del resto non eccessivamente lontana nel tempo dagli eventi narrati? Qualche indizio, se non certezze, credo possa esserci fornito proprio dall’araldica delle famiglie menzionate. Infatti, se una rapida scorsa al quattrocentesco Stemmario Trivulziano ci permette

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7. Stemma dei Tabiago, che appare brisura dell’arme Pirovano. 8. Stemma degli Scrosati, identico a quello dei Passalacqua ed ambo caratterizzati dall’impresa viscontea della radia magna.

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5. Stemma dei Pirovano, stirpe capitaneale che si vorrebbe affine a quelle dei Carcano e dei Parravicini. 6. Stemma dei Casternago, identico a quello dei Pirovano.

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di verificare l’estraneità dello stemma della un tempo assai potente famiglia dei capitanei da Pirovano, d’azzurro, all’aquila d’argento, imbeccata e membrata di rosso, alla «famiglia del cigno», non possiamo non sobbalzare nel constatare che esso è identico a quello dei da Castronago (come a quelli dei de Calcho, dei da Ranca e dei de Sansonis...), e che quello dei da Tabiago altro non sembrerebbe che brisura dei precedenti!

Da cigno ad aquila Che il cigno originario che assona col borgo capopieve di Incino non si sia forse mutato, con le simpatie politiche di questa parte della stirpe, in un’aquila filioimperiale? Anastasia Pirovano, del resto, fu moglie di quel Teobaldo Visconti di Invorio – padre di Matteo, detto il Magno, stipite della casa signorile milanese – che il guelfo Napo Torriani fece decapitare a Gallarate nel 1276... Quanto ai capitanei di Melegnano, nel cinquecentesco Stemmario Archinto possiamo trovare uno stemma de Matrignano che è d’azzurro pieno, al capo aumentato d’oro, che non mi sembra impossibile apparentare a quello degli Scrosati (identico a

10 9. Stemmi di due rami dei Castelletti, caratterizzati entrambi dal cigno dei capitanei di Incino. 10. Stemma dei Sartirani, identico a quello degli Annoni, entrambi caratterizzati dal cigno dei capitanei di Incino.

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1. Stemma degli Annoni, del ceto dei valvassori, verosimilmente non consanguinei, ma vassalli dei capitanei di Incino. 2. Stemma dei Sessa, di ascendenze longobarde e che si vogliono ramo dei capitanei di Incino, schierati per l’impero. 3. Stemma dei Vertemate di Piuro, olim Della Porta, che a Piuro sostituirono alla porta parlante una piú nobile torre. 4. Stemma verosimilmente originario dei nobili Della Porta di Vertemate. quello dei Passalacqua...) ove l’aquila imperiale è inscritta nella radia magna viscontea: che molto – forse troppo, per trattarsi di un caso? – ci ricorda la stella d’otto punte d’oro che occupa la campagna dell’arme succitata dei Tabiago. Il blasone de Boxixio presenta uno stemma apparentemente estraneo a quelli sopra menzionati, accampando un castello di rosso attraversante su di un partito d’argento e d’azzurro: notiamo tuttavia che sono gli smalti del «gruppo Pirovano»... Ben diverso è il caso dei Castelletti, di cui il Trivulziano fornisce due versioni, ma solo brisate per l’inserzione in uno di gigli, a significare evidentemente simpatie guelfe; in ambo gli esemplari, tuttavia, dai merli di un medesimo castello d’oro in campo rosso è sorretto un cigno: alla luce dell’assunto del Busseri, forse non per caso. Stemma identico, ma con gli smalti invertiti, portano i di Sertirani, da Sartirana in pieve di

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Brivio, e cosí gli Annoni, menzionati già nel XII secolo, ma non col rango di capitanei, bensí di valvassori: che in tal caso il cigno adombri semplicemente una dipendenza vassallatica dai capitanei di Incino, piuttosto che un nesso agnatizio?

L’oro mutato in argento Simile potrebbe essere il caso dei Sessa, in cui lo stemma non differisce da quello comune ai Castelletti se non per lo smalto del castello, e per essere abbasato sotto un capo dell’Impero: dato che potrebbe farci ritenere l’oro mutato in argento per evocare col rosso del campo i colori politici della Reichsfahne. L’Anfiteatro romano di Gian Pietro Crescenzi (Milano, 1649), infine, ritiene affini ai Carcano anche i Vertemate: sappiamo per certo che la famiglia Vertemate che fiorí a Piuro in Valchiavenna dal Duecento fino all’inizio del Novecento si chiamava originariamente de la Porta de Vertemate, e che lassú mutò, col

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5-6. Stemmi degli Osculati e dei Molgora, verosimilmente rami di una famiglia cognominata Della Porta. 7. Stemma dei Luini, verosimilmente ramo di capitanei di Incino. gentilizio, l’originaria porta parlante in una torre; stemma originario della stirpe dovette invece essere, appunto, una porta, quale quella figurante nel Trivulziano nell’altro stemma rubricato sub voce da Vertema. Ora, nel medesimo codice altri due stemmi accampano una porta, cimata da un cigno: si tratta dello stemma lí sub voce de Osculo, e che probabilmente è riferibile al ceppo locale degli Osculati, identico a quello dei de Molgora, località verosimilmente in pieve di Brivio. Vale per costoro, famiglie di rilievo certo minore, l’ipotesi avanzata circa gli Annoni: che si tratti cioè di dinastie legate da rapporti vassallatico-beneficiari ai capitanei di Incino, ma a loro genealogicamente non riferibili. novembre

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L’estraneità di Annone e Sartirana a detta pieve, infatti, esclude invece che possa trattarsi di un’allusione topografica. Lo stemma Luini, invece, ricorda per modalità compositive quello di altre casate lombarde di estrazione cavalleresca, quali i Sormani o i Castiglioni, in cui un animale araldico sostiene nel cantone destro (cioè sinistro per l’osservatore) del capo un castello.

Vassalli del vescovo Un paio di famiglie figurano nel Trivulziano brisare il di rosso, al cigno d’argento originario: di una, denominata da Sore con un segno di abbreviazione, ipotizzerei trattarsi di un ramo della consorteria stabilitosi a Sorengo presso Lugano forse come vassalli del vescovo di Como, e, visto il capo dell’Impero, di simpatie ghibelline; di altra, definita da Como, credo possa trattarsi, piú che di ramo stanziatosi a Milano provenendo dalla metropoli lariana, dei Lossio del succitato borgo di Piuro: anch’essi, come i Vertemate già de la Porta, potrebbero esser usciti anticamente dal ceppo signorile di Incino, salvo col tempo, persa memoria dell’araldica avita, travisare in cicogna il nobile cigno, un tempo chiaramente alludente! Quanto ad altri stemmi che brisano la semplice arme originaria, è parlante quella dei Fenegrò, ramo evidentemente stanziato nella località in pieve di Appiano: il

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8. Stemma di un probabile ramo dei capitanei di Incino verosimilmente stanziato a Sorengo presso Lugano. 9. Stemma di un probabile ramo dei capitanei di Incino denominatosi da un Maxolus-Tommasolo. 10. Stemma dei Parravicini-da Caspano, stanziatisi nell’omonimo borgo valtellinese. cigno ha infatti nel becco del fieno; i dy Maxolini potrebbero assai verosimilmente esser ramo disceso da un Maxolus, diminutivo di Tommaso, del casato capitaneale, all’origine del patronimico; tale potrebbe esser anche il caso degli Zaffaroni. Il settecentesco Stemmario Bosisio riporta poi un altro paio di stemmi riconducibili 10 verosimilmente alla vasta consorteria, quelli dei Marzorati e dei Majocchi, fra loro affini, e brisati rispettivamente da due ramoscelli di trifoglio nel primo caso (nel becco e nella zampa destra), da uno solo nel secondo (nel becco). Ma questi ultimi sono tutti – eventualmente – rami di gran lunga minori rispetto alle due grandi famiglie principali: dico dei Carcano e dei Parravicini. Come mai, contrariamente al consueto, è però il ceppo piú antico dei Carcano a brisare con una mannaia in capo al cigno il piú semplice stemma dei Parravicini? È sufficiente dare un’occhiata alla genealogia dei primi per svelare l’arcano. Infatti, nel 1147, troviamo un Guglielmo detto Manara de Carcano, assieme al congiunto Maifredo de Paravixino, in lite con i canonici decumani della cattedrale ambrosiana per una peschiera sul

Lago Maggiore: è evidente che la brisura dello stemma dei Carcano è un omaggio al soprannome del primo, che doveva essere personaggio di rilevo.

Genti di Valtellina Nel Trivulziano, invece, solo sfumature del becco e delle zampe differenziano i Parravicini tout court dal loro ramo che, stanziatosi nel Duecento nel borgo di Caspano nella bassa Valtellina, da quello prese nome, salvo riprendere a usare verso la metà del Quattrocento il piú illustre, antico gentilizio: in realtà, almeno il ramo di Dazio, villaggio vicino, porta almeno da fine Quattrocento il cigno rivoltato. Illustri e decaduti, numerosi rami discesero in particolare da questi de Caspano: lo stesso cardinale Ottavio succitato discendeva da un ramo portatosi a Como da Buglio in Valtellina; molti di essi, quasi cigni migratori, si spinsero ben piú lontano, o per traffici, o al soldo di potenze estere, ovvero per sfuggire alla repressione papista se riformati: e uno di essi, Vincenzo, pastore in Bregaglia, lasciò un resoconto agghiacciante del cosiddetto (!) Sacro Macello, che vide nel luglio del 1620 centinaia di riformati massacrati dai «cattolici» in Valtellina. Da uno di questi rami trasmigrati in circostanze cosí drammatiche, passando per Basilea, discende Derek Paravicini: nato nel 1979 dal capitano Nicolas e da Mary Ann Parker Bowles, questo ragazzo sensibile e affettuoso, cieco dalla nascita e autistico, è un talento naturale musicale. A lui sono dedicate queste note, mentre potete ascoltare le sue su: www.derekparavicini.net Niccolò Orsini De Marzo

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Lo scaffale Bartolomeo Platina De honesta volputate et valitudine Un trattato sui piaceri della tavola e la buona salute nuova edizione commentata con testo latino a fronte, a cura di Enrico Carnevale

Schianca, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 588 pp. 58,00 euro

ISBN: 978-88-222-6379-7 www.olschki.it

Come si legge anche negli ampi capitoli introduttivi, la vicenda di Bartolomeo Sacchi, detto il Platina è, a dir poco singolare: la sua affermazione come letterato giunse infatti quando aveva quarant’anni, che, per l’epoca in cui visse – la seconda metà del XV secolo – può essere senz’altro considerata un’età

avanzata. In realtà, dopo aver servito sotto molte bandiere come soldato di ventura, l’umanista nato nel 1421 a Piadena, un borgo del Cremonese, aveva mosso i primi passi come uomo di lettere già verso i trent’anni, ma la sua consacrazione si ebbe solo nel 1462, con il trasferimento a Roma. Ricordato soprattutto per una raccolta di biografie dei papi, il Liber de vita Christi ac omnium pontificum, questo «genio tardivo», come lo definisce lo stesso Schianca, scrisse anche il trattato di cui viene ora pubblicata questa nuova edizione commentata. Si tratta di un’opera che risulta innanzitutto di difficile

classificazione: al di là del titolo, sarebbe infatti sbrigativo e riduttivo considerarla come una raccolta di ricette (come peraltro è accaduto a piú riprese nel passato) o come un pur ponderoso saggio sulla gastronomia. Le ambizioni del Platina, infatti, erano forse altre e, pur assegnando alle note culinarie vere e proprie ampi spazi, è ragionevole pensare che nelle intenzioni del suo autore, il De honesta voluptate dovesse imporsi come un’opera di respiro piú ampio. Un enigma almeno in parte destinato a rimanere tale anche per via delle difficoltà che tuttora suscita la traduzione del

testo latino originale. Un’operazione che il curatore spiega di aver condotto «parola per parola», avendo ravvisato che solo in questo

modo si potevano piú facilmente evitare i fraintendimenti della redazione platiniana. Un’analisi dunque minuziosa che sembra anche aver gettato luce sulla reale natura dell’opera, che, a

giudizio di Schianca, potrebbe essere stata effettivamente concepita come ricettario e poi «in corso d’opera» avrebbe assunto le forme di un «manuale di medicina dietetica, con dichiarate funzioni apologetiche della dottrina epicurea». Non resta allora che addentrarsi nella lettura dell’opera, della quale, al di là delle possibili implicazioni filosofiche e delle curiosità da vero e proprio gourmet, si potranno senz’altro apprezzare i molti spunti di carattere documentario, a testimonianza di un’epoca culturalmente vivacissima. Stefano Mammini

Religiose di ieri e di oggi MUSICA • Migliaia di

chilometri separano le terre bagnate dal Reno dal Paese dei cedri: una distanza annullata dal confronto fra le opere di Ildegarda di Bingen e il talento vocale di suor Rabiaa Moutran 112

È

un percorso ideale quello proposto da due raffinate registrazioni che, sotto il comune denominatore del canto liturgico, ci trasportano dalle monodie del XII secolo di Ildegarda di Bingen alla tradizione cristiana libanese. Due itinerari accomunati da un profondo senso della fede, che trova sfogo in una delle piú interessanti figure della cultura medievale e nella creatività, in questo caso anonima, di monaci compositori che hanno lasciato un’eredità musicale straordinaria.

Ildegarda di Bingen (1098-1179), a cui è dedicato il disco Gemme, è stata senza dubbio uno dei personaggi piú straordinari generati dalla cultura occidentale; non solo per essere una donna in un periodo in cui le donne erano praticamente escluse o quasi da ogni forma di partecipazione attiva alla vita culturale, ma, e soprattutto, per essere stata una scienziata a tutto tondo, una filosofa, una poetessa, una visionaria e una musicista di pregio. A testimonianza della sua produzione musicale novembre

MEDIOEVO


L’Echo du Silence. Chants Chrétiens du Liban Sœur Rabiaa Moutran Ad Vitam records, AV 14215, 1 CD 16,00 euro www.advitamrecords.com

vi sono due opere, la Symphonia harmoniae celestium revelationum e il dramma liturgico Ordo virtutum. Influenzato dall’imperante canto gregoriano, il genio creativo di Ildegarda vi si è innestato in maniera assolutamente creativa, dando vita a un repertorio melodico singolarissimo, in cui tanto la libertà melismatica quanto l’utilizzo di tessiture molto acute – piuttosto inconsuete all’epoca – rendono piú che unico il linguaggio musicale.

Fluttuanti polifonie vocali Gemme, però, non si sofferma solo su Ildegarda; un ideale arco musicale-narrativo congiunge infatti la sua arte con le splendide divagazioni del compositore contemporaneo Zad Moultaka, il quale, partendo dal linguaggio della mistica tedesca, si lancia in straordinarie fluttuanti polifonie vocali che, pur nella loro modernità, molto ci raccontano dello spirito che anima le musiche di Ildegarda. Protagonista di questo riuscito progetto musicale è un gruppo formato da cinque donne, l’Ensemble De Caelis, diretto da Laurence Brisset, che si cimenta con grande partecipazione emotiva in un programma inusuale, in cui gli azzardi melodici di Ildegarda si fondono, senza soluzione di

MEDIOEVO

novembre

Gemme Ensemble De Caelis L’empreinte digitale, ED 13241, 1 CD www.empreintedigitale-label. fr, www.qobuz.com

continuità, con il linguaggio compositivo del libanese Moultaka. Questi, memore delle sue origini, riesce ad appropriarsi di culture musicali diverse creando un linguaggio senza confini.

Una voce per la fede Dalle musiche di Ildegarda, passando per la moderna lettura di Zad Moultaka, torniamo ancora una volta al Libano, con la registrazione L’Écho du Silence, che ci accompagna attraverso il canto liturgico della terra dei cedri grazie all’eccezionale talento di suor Rabiaa Moutran. Legata al convento dell’Annunciazione di Zouk Mikael (Jounieh, Libano), Rabiaa Moutran, sin dagli studi universitari, ha assecondato la sua passione per la vocalità, facendone la portavoce di una fede profondamente vissuta. Riconosciuta internazionalmente come una delle piú grandi interpreti del repertorio sacro libanese, suor Rabiaa si cimenta in questo programma discografico proponendo alcuni dei brani piú noti della tradizione cristiana locale, le cui origini risalgono all’VIII e IX secolo. Musiche che risentono della matrice arabeggiante e che ci

riportano a repertori ancestrali, tramandati oralmente e che qui si manifestano con un assoluto talento interpretativo.

Suggestioni intriganti I brani, tutti rigorosamente su testi libanesi legati alla Settimana Santa e alla Vergine Maria, sono proposti sia da Rabiaa Moutran che dal confratello Jean (di cui non viene indicato il cognome), che si cimentano anche in duo. Il risultato artistico è affascinante, benché nulla sia dato sapere dei testi cantati: manca nel libretto una traduzione dei titoli e dei testi. Non resta, dunque, che lasciarsi guidare dalle suggestioni melodiche di un repertorio inusuale per noi occidentali, la cui distanza dalle nostre abitudini musicali viene colmata dalla straordinaria voce di Rabiaa Moutran. Franco Bruni

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