Medioevo n. 224, Settembre 2015

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Mens. Anno 19 numero 224 Settembre 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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MEDIOEVO n. 224 SETTEMBRE 2015 GIOTTO MARIGNANO RIFIUTI CAPPELLA DI TEODOLINDA ROSSLYN DOSSIER GUERRA DELLE DUE ROSE

EDIO VO M E



SOMMARIO

Settembre 2015 ANTEPRIMA

COSTUME E SOCIETÀ

ALMANACCO DEL MESE

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ITINERARI Tra un calice e l’altro

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MOSTRE Incontri ravvicinati 9 Quel progetto non s’ha da fare... 10 APPUNTAMENTI Balestrieri in tempo di pace La fedeltà premiata Pestilenza senza peste L’Agenda del Mese

LA GESTIONE DEI RIFIUTI Un mondo di sporcaccioni

ROSSLYN Caleidoscopio scozzese di Franco Bruni

di Roberto Roveda e Francesca Saporiti

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CALEIDOSCOPIO ARALDICA In principio fu Ido

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MUSICA Un incanto sottile Dal Tirolo, senza fronzoli

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STORIE MOSTRE Giotto, l’Italia Il genio viaggiatore di Serena Romano

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GRANDI BATTAGLIE Marignano

Quando gli Svizzeri non erano neutrali

LUOGHI

di Fabrizio Panzera e Roberto Roveda

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SAPER VEDERE Monza Scene da un matrimonio di Elena Percivaldi

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Dossier La guerra delle due Rose IL ROSSO E IL BIANCO

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di Tommaso Indelli

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MEDIOEVO Anno XIX, n. 224 - settembre 2015 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997

Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa: copertina e pp. 9 (destra, alto e basso), 10 (basso), 11, 28, 30-32, 34-36, 58/59, 61, 63, 64-71, 73 – Cortesia Consorzio Verona Tuttintorno: pp. 6, 8, 9 (sinistra) – Doc. red.: pp. 7, 12 (basso), 33, 46 (basso), 50, 52 (destra), 76-77, 85-88, 90/91, 99 (alto), 100/101 – Shutterstock: pp. 10 (alto), 18-19, 60, 80/81, 96/97 – Cortesia dell’autore: pp. 12 (alto), 16-17, 106-110 – Mondadori Portfolio: Album: pp. 28/29; Leemage: pp. 41, 45 (sinistra); The Art Archive: pp. 43, 46/47; AKG Images: pp. 48/49, 51, 52 (sinistra), 56-57; Rue des Archives/Tallandier: p. 53 – Bridgeman Images: pp. 3840, 44, 45 (destra), 80, 82-83, 88/89, 94-95; Peter Willi: p. 42 (basso); Tallandier: pp. 54/55: Look and Learn: pp. 75, 92; Philip Mould Ltd, Londra: p. 79 – DeA Picture Library: pp. 42 (alto), 84 – Corbis Images: Francis Cormon/Hemis: p. 55 – Tiziano Perotto: disegno alle pp. 62/63 – Marka: Interfoto: p. 72 – Cortesia Antonio Evangelisti: pp. 98 – Franco Bruni: pp. 99 (basso), 100 – Cortesia Rosslyn Chapel Trust: Antonia Reeve: pp. 101, 102-104 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 41, 44, 60, 78, 93, 98.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it

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Coordinatore editoriale: Alessandra Villa

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Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Tommaso Indelli è assegnista in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Fabrizio Panzera insegna storia della Svizzera all’Università degli Studi di Milano. Chiara Parente è giornalista. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Stefania Romani è giornalista. Serena Romano è professore ordinario di arte medievale all’Università di Losanna. Roberto Roveda è storico del Medioevo e giornalista. Francesca Saporiti è giornalista e storica del Medioevo. Tiziano Zaccaria è giornalista.

Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369

In copertina Monza, duomo. Particolare del ciclo con le Storie di Teodolinda affrescato dagli Zavattari nella cappella che porta il nome della regina

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Nel prossimo numero misteri

Il Santo Volto di Lucca

storie

Alle origini dell’Italia comunale

saper vedere

La basilica di Galliano a Cantú

dossier

Montefiascone e la Tuscia: in cammino sulla via Francigena


Almanacco del mese

a cura di Federico Canaccini

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1 settembre 1393

Nasce Giacomo della Marca, grande predicatore francescano

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2 settembre 3 settembre 1189

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4 settembre 1260

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5 settembre 1395

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6 settembre 7 settembre 1191

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Riccardo I di Inghilterra è incoronato re nell’abbazia di Westminster A Montaperti i ghibellini di Siena e Pisa sconfiggono l’esercito capeggiato dai guelfi di Firenze Con l’incoronazione di Gian Galeazzo Visconti, nasce il ducato di Milano U

Nella battaglia di Arsuf, Riccardo Cuor di Leone sconfigge il Saladino U

8 settembre 1298

La flotta veneta comandata da Andrea Dandolo viene sconfitta dai Genovesi a Curzola

9 settembre 10 settembre 920 U

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Nasce il futuro Luigi IV, sfortunato re di Francia della dinastia carolingia U

11 settembre 1297

Presso Stirling Bridge, gli Scozzesi di William Wallace sconfiggono le truppe inglesi U

12 settembre 1335

Muore il condottiero Rizzardo III, membro della nobile famiglia da Camino

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13 settembre 14 settembre 1224

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15 settembre 1578

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Francesco d’Assisi riceve le stimmate sul monte della Verna Il duca Emanuele Filiberto trasferisce a Torino la Sacra Sindone

16 settembre 17 settembre 1394 U

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Carlo VI ordina l’espulsione degli Ebrei dal regno di Francia U

18 settembre 324

Con la vittoria di Crisopoli su Licinio, Costantino I diventa l’unico imperatore romano U

19 settembre 1356

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20 settembre 1378

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21 settembre 1407

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22 settembre 1499

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23 settembre 1122

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24 settembre 25 settembre 1066

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26 settembre 1468

A Poitiers gli Inglesi conseguono una grande vittoria contro l’esercito francese di Giovanni il Buono, che viene anche catturato La designazione dell’antipapa Clemente VII sancisce l’inizio dello Scisma d’Occidente Nasce Leonello d’Este, illuminato marchese di Ferrara A Basilea viene siglato il trattato che trasforma la Svizzera in uno Stato indipendente A Worms viene stipulato il Concordato con cui si pone fine alla lotta per le investiture U

Con la battaglia di Stamford Bridge, re Aroldo scongiura la minaccia vichinga dall’isola inglese Muore il teologo domenicano Juan de Torquemada, il cosiddetto Defensor Fidei U

27 settembre 489

Odoacre viene sconfitto da Teodorico, presso Verona U

28 settembre 1396

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29 settembre 30 settembre 1399

A Nicopoli l’imperatore ottomano Bayezid I sconfigge le truppe cristiane U

Proclamazione di Enrico IV a re d’Inghilterra


ANTE PRIMA

Tra un calice e l’altro ITINERARI • Territorio che deve la sua fama soprattutto alla pregiata

produzione vinicola, la Valpolicella è ricca anche di testimonianze dell’età di Mezzo. Ecco dunque alcune delle possibili mete, la cui scoperta può essere piacevolmente alternata alle degustazioni...

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ompresa fra Verona e il Garda, la Valpolicella nasconde tra le colline e i filari di vite numerosi tesori, come pievi, resti di monasteri e ville nobiliari. La zona, vocata alla produzione vinicola, ha piú di un legame con il Medioevo, a partire dal nome, ufficializzato da Federico Barbarossa. L’area rientra fra quelle valorizzate nell’ambito del progetto «Montagna Veronese», che con mostre, eventi, itinerari promuove anche il Monte Baldo, l’Altopiano della Lessinia e l’entroterra del lago di Garda. Molti sono i luoghi

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che meritano una visita. A una quindicina di chilometri da Verona, verso nord-ovest, Castelrotto, una frazione di San Pietro in Cariano, che conta oggi meno di 100 abitanti, ha fatto da cornice all’editto di Rotari, emanato nel 643 dal re longobardo (vedi box alla pagina accanto).

Tufo e mattoni per il campanile Due secoli e mezzo piú tardi, l’imperatore Berengario promulgò due decreti, uno sempre da Castelrotto e l’altro dalla pieve di San Floriano. Il luogo di culto, che

In alto, a sinistra Sant’Ambrogio in Valpolicella (Verona). Il chiostro della pieve romanica di S. Giorgio, edificata in varie fasi a partire dall’VIII sec. rientra nel territorio del medesimo Comune, presenta un impianto a tre navate, con la centrale piú alta delle laterali, e pareti che inglobano materiali romani e longobardi nella tessitura di pietra chiara; la torre campanaria in tufo e cotto ne fa uno degli esemplari architettonici piú interessanti del Romanico veronese. Nella stessa area, verso la valle di settembre

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Re Rotari promulga l’editto (643), miniatura dal Codex Legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni, Archivio dell’Abbazia della SS. Trinità.

Dalla parola alla legge scritta In origine, il diritto longobardo veniva trasmesso per via orale e consisteva in norme consuetudinarie, basate sul patrimonio di tradizioni (le cawarfidae) tramandate di generazione in generazione. Il principio seguito, coerentemente al carattere nomade dei Longobardi, era quello della «personalità del diritto»: le norme erano cioè applicate in base all’appartenenza etnica e si spostavano con la popolazione nel corso delle migrazioni. L’amministrazione della giustizia era affidata all’assemblea dei guerrieri (il gairethinx) e uno degli istituti piú diffusi era la faida, cioè il diritto di vendicarsi da parte dell’offeso o della sua famiglia.

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settembre

Fu re Rotari a riordinare, il 22 novembre 643, il patrimonio giuridico della sua gente, mettendolo per iscritto. Secondo le sue disposizioni, solo gli uomini liberi avevano piena personalità giuridica e diritto di portare armi, mentre i non liberi erano sottoposti al potere del loro signore (il mundio). I matrimoni tra liberi e schiave erano proibiti, ma si poteva aggirare l’ostacolo emancipando preventivamente la donna. Proibite, sotto pena di morte, erano anche le unioni tra longobarde libere e schiavi: restrizioni che sarebbero state abolite solo un secolo piú tardi – sotto l’influsso del papa – dal re cattolico Liutprando, il quale riconobbe i matrimoni misti.

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ANTE PRIMA

In alto Castelrotto. La pieve romanica di S. Floriano. XII sec. Nella pagina accanto, a sinistra filari di vite in Valpolicella. A sinistra Sant’Ambrogio in Valpolicella. Ancora un’immagine della pieve di S. Giorgio, ripresa dal chiostro. Fumane, merita quindi una sosta Villa Buri Avanzi, prima bene dell’abbazia di S. Zeno, poi ceduta alla famiglia De Buris all’inizio del XIII secolo. Della struttura duecentesca, menzionata in due pergamene del 1218 e del 1225, rimangono gli archi a tutto sesto del porticato, le bifore, parte delle murature in tufo e gli affreschi a decorazione geometrica del primo piano. Al complesso originario si sono sovrapposti gli interventi rinascimentali, che hanno comportato l’aggiunta della loggia e della torre «colombara». Procedendo verso il Garda, a Gargagnago, nel Comune di

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Sant’Ambrogio in Valpolicella, si può ammirare un altro pregevole esempio di edilizia residenziale, Villa Serego Alighieri, legata a Pietro, figlio di Dante, e ai suoi discendenti. Nonostante i ripetuti ampliamenti e rimaneggiamenti, l’impronta originale è ancora leggibile e le antiche pertinenze della dimora, adagiata ai piedi di un colle, ospitano oggi un’azienda agricola. All’interno, oltre a memorie di Pietro di Dante Alighieri, sono custoditi ricordi di altri esponenti della famiglia, come il ritratto e la cassa dotale di Ginevra.

Un antico castello Poco piú a nord, s’incontra San Giorgio in Valpolicella, borgo medievale chiamato anche con il termine dialettale di «ingannapoltron»: aggrappato alla roccia, dà un’impressione di vicinanza, smentita dal tragitto lungo e tortuoso che occorre seguire per raggiungerlo. Nel XII secolo settembre

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aveva probabilmente l’aspetto di una struttura fortificata, come suggerisce la definizione di castrum che ricorre nei documenti. Ceduto nel 1207 dal vescovo al Comune di Verona, custodisce l’omonima pieve romanica, che integra strutture pagane, tra cui un’ara dedicata al Sole e alla Luna, riutilizzata come base di una delle colonne nella chiesa collegiata. Qui un capitolo di canonici portava avanti una schola juniorum, l’insegnamento delle basi del latino ai futuri chierici. Nel luogo di culto si leggono diverse fasi medievali: la parte occidentale, con abside unica, è riconducibile al periodo longobardo, come testimonia l’iscrizione apposta

A sinistra valva di specchio in avorio con il gioco degli scacchi. 1300 circa. Parigi, Museo del Louvre. In basso statua lignea di san Giovanni piangente. Produzione pratese, 1250 circa. Parigi, Musée de Cluny.

Incontri ravvicinati T

nel 712 sulle colonne del ciborio per ricordare il lavoro di Orso, capomastro ai tempi di Liutprando. La parte verso est, con tre absidi, campanile e chiostro è invece di età romanica. L’interno a tre navate custodisce affreschi con il Cristo pantocratore in una mandorla, forse un tempo affiancato dai simboli degli evangelisti. Accanto alla chiesa si snodano la collegiata trecentesca, che risale alla giurisdizione scaligera, e il chiostro con archi a tutto sesto su colonne e colonnine binate con capitelli decorati. Info: www.montagnaveronese.it www. veronatuttintorno.it Stefania Romani

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settembre

ra la seconda metà del XIII e gli inizi del XIV secolo, intenso e proficuo fu il dialogo artistico fra la capitale del regno di Francia e la Toscana. E, a darne un saggio eloquente, è l’esposizione realizzata presso la sede di Lens del Louvre, che riunisce oltre 100 oggetti e opere d’arte, scelti fra le raccolte dello stesso museo francese e integrati da prestiti di notevole rilievo. Statue, fondi oro, manoscritti miniati, nonché smalti e avori testimoniano di come Parigi da un lato, e Firenze, Siena e Pisa dall’altro, fossero le culle privilegiate della grande produzione artistica. Oltre all’innegabile valore estetico, i magnifici manufatti che si snodano lungo il percorso espositivo riflettono gli importanti mutamenti che andavano producendosi nel periodo considerato: l’Europa era allora teatro di sviluppi politici, economici e sociali tali da modificare la visione del mondo, e, di conseguenza, le sue rappresentazioni da parte di artisti e artigiani. (red.) DOVE E QUANDO

«D’oro e d’avorio. Parigi, Pisa, Firenze Siena. 1250-1320» Lens, Musée du Louvre-Lens fino al 28 settembre Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; chiuso martedí Info www.louvrelens.fr

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ANTE PRIMA

Quel progetto non s’ha da fare...

MOSTRE • Una ricca

rassegna racconta le ragioni della «nudità» della basilica fiorentina di S. Lorenzo

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a basilica fiorentina di S. Lorenzo è tra le chiese simbolo della città, non solo perché per trecento anni ha avuto il ruolo di cattedrale, prima di cederlo a S. Reparata – quando vennero solennemente traslate le spoglie del primo vescovo di Firenze, san Zanobi –, ma anche perché è stato il luogo di sepoltura dei Medici. Una tradizione proseguita, salvo alcune eccezioni, fino ai granduchi e all’estinzione della casata. Nel dicembre del 1515, a quasi un quarto di secolo dalla fine della costruzione della basilica, papa Leone X de’ Medici bandí un concorso per realizzare la facciata In alto Firenze, basilica di S. Lorenzo. L’aspetto attuale della facciata, rimasta incompiuta. A destra Michelangelo Buonarroti, studio per la facciata di S. Lorenzo. 1517 circa. Firenze, Casa Buonarroti.

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DOVE E QUANDO

«La forza del mito. I progetti per la facciata della Basilica di San Lorenzo a Firenze, da Michelangelo al Concorso del 1900» Firenze, Casa Buonarroti Orario tutti i giorni, 10,00-17,00; chiuso martedí Info tel. 055 241752; e-mail: fond@casabuonarroti.it; www.casabuonarroti.it mancante: stando al racconto di Giorgio Vasari, vi parteciparono i piú eminenti artisti del tempo, compresi Raffaello e Michelangelo, che poi ottenne l’incarico. E da quella gara nasce ora la mostra allestita in Casa Buonarroti. Dopo gli studi culminati nella realizzazione del modello ligneo (oggi conservato nella stessa Casa Buonarroti) il cantiere della facciata fu avviato, ma poco dopo venne sospeso per volontà dello stesso pontefice.

Un confronto che fa tremare i polsi Da quel brusco arresto in poi, per quasi due secoli, il problema non venne piú affrontato, forse per la complessità del progetto, forse per il timore di confrontarsi col sommo artista. Fu l’Elettrice Palatina Anna Maria Luisa, ultima rappresentante della casa medicea, a riaprirlo, facendo eseguire nella prima

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In alto Cesare Bazzani, Prospetto della chiesa di San Lorenzo. Acquerello su carta. Terni, Archivio di Stato.

metà del Settecento alcuni progetti; altri ne seguirono nell’Ottocento, ma tutti rimasero sulla carta. Grazie al lascito di un privato cittadino, Francesco Mattei, il tema fu ripreso nell’aprile del 1900, quando fu bandito un concorso a cui parteciparono ben cinquantatré architetti. Considerando la complessità del tema e constatando che i settantaquattro progetti presentati necessitavano di modifiche e perfezionamenti, si decise di bandire una seconda tornata e, solo nel 1905, la Commissione giudicatrice, presieduta dallo storico dell’arte e dell’architettura svizzero Heynrich von Geymüller, scelse il progetto di Cesare Bazzani. Le polemiche che seguirono furono però cosí accese che l’Amministrazione comunale decise ben presto di abbandonare l’impresa e di dividere il lascito Mattei fra otto chiese fiorentine. (red.)

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ANTE PRIMA

Balestrieri in tempo di pace APPUNTAMENTI • Sansepolcro si accinge a

disputare la consueta gara di abilità, rinnovando la competizione con Gubbio

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a nascita di Sansepolcro, centro aretino della Valtiberina al confine con Umbria e Marche, viene fatta risalire al X secolo. Secondo la tradizione locale, furono Arcano ed Egidio, due pellegrini di ritorno dalla Terra Santa, a costituire una comunità monastica in località Noceati, un’abbazia benedettina dedicata al Santo Sepolcro e ai SS. Quattro Evangelisti, documentata fin dal 1012. Nei decenni successivi, attorno al monastero, si sviluppò il nucleo cittadino, che raggiunse la fisionomia attuale agli inizi del XIV secolo. Sansepolcro visse il periodo di maggior splendore proprio durante il Trecento, assumendo la caratteristica di città turrita, munita di una ventina di torri, tra le quali la celebre Torre di Berta. Fu un periodo Veduta di Sansepolcro (Arezzo).

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florido per l’economia cittadina, grazie alla coltivazione del guado, pianta usata nella tintura delle stoffe e commercializzata nei vicini porti adriatici.

Dal pennello alle armi E proprio al Trecento risale a Sansepolcro l’utilizzo della balestra, una tradizione molto antica, al pari di Gubbio, San Marino, Massa Marittima e Lucca. Da un documento risulta che lo stesso Piero della Francesca, sommo pittore e illustre cittadino biturgense, era tra i possessori di una delle 160 balestre comunali. Esaurita la sua funzione militare dopo l’arrivo della polvere da sparo, la balestra, sul finire del Cinquecento, continuò a mantenere una semplice attività di intrattenimento. In particolare, si sviluppò un’annuale sfida fra

Sansepolcro e Gubbio, documentata fin dal 1594, anno in cui i balestrieri biturgensi invitarono quelli eugubini (anche se tale disputa certamente avveniva anche in precedenza). Ancora oggi, nella seconda domenica di settembre, nel suggestivo scenario della piazza Torre di Berta, si svolge la disputa del Palio tra i balestrieri della due cittadine toscana e umbra. Al mattino, secondo tradizione, l’araldo locale legge il bando di sfida ai rivali. Nel pomeriggio, dopo la benedizione delle armi, i balestrieri, in costumi d’epoca, entrano in piazza annunciati dal rullo dei tamburi, dal suono delle chiarine e dallo spettacolo degli sbandieratori. I tiratori si alternano sul palco tirando contro il corniolo, bersaglio di forma tronco-conica posto a 36 m di distanza. Tiziano Zaccaria

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MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Il ritorno di frate Matteo A destra figuranti in costume portano il tradizionale cencio in corteo per le vie cittadine. A sinistra un momento del gioco della corsa con il cerchio.

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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ittà ducale, sede di svaghi e di caccia prediletta dai Visconti e amata ancor di piú dagli Sforza, Vigevano fu trasformata da Ludovico il Moro e Ludovico Maria Sforza in centro di potere, grazie alla mirabile opera urbanistica di Donato Bramante. Alla metà del XIV secolo, vi giunse frate Matteo dell’ordine dei Domenicani. Matteo, al secolo Francesco Carreri, originario di Mantova, decise di lasciare la vita agiata e cavalleresca per entrare in convento dedicandosi allo studio e alla predicazione, tipica dell’ordine domenicano. Visse a lungo nel convento di S. Pietro Martire, diventando un punto di riferimento per tutti gli abitanti di Vigevano tanto che, all’indomani della morte, sopraggiunta il 5 ottobre 1470, fu subito venerato come «beato» (la Chiesa fece altrettanto, in forma ufficiale, solo nel 1482). Vigevano si prepara ora a rendergli omaggio con la XXXV Edizione del Palio delle Contrade. Nato nel 1981 per far gareggiare le dodici contrade cittadine, il Palio assume di edizione in edizione una connotazione storica marcata, tanto da essere riconosciuto come una delle rievocazioni storiche piú importanti della Lombardia. L’evento è in programma da venerdí 9 a domenica 11 ottobre e comprende un programma ricco e articolato che si apre con la fiaccolata delle dodici contrade da piazza Ducale verso la chiesa di S. Pietro Martire per deporre un grande cero ai piedi dell’urna che custodisce le spoglie del Beato Matteo. Per informazioni e aggiornamenti: www.paliodivigevano.it; pagina Facebook: Il Palio di Vigevano; e-mail: segreteria@paliodivigevano.it settembre

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ANTE PRIMA

La fedeltà premiata APPUNTAMENTI • Negli stessi giorni in cui Cristoforo

Colombo scopriva l’America, il doge di Venezia accordò importanti privilegi alla cittadina di Thiene. Che ricorda l’evento con una grandiosa rievocazione storica

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on la dogale del 6 ottobre 1492, il doge veneziano Agostino Barbarigo concesse a Thiene il mercato franco da dazi, da svolgersi «in giorno di lunedí». Un segno di riconoscenza da parte della Serenissima per la partecipazione

di una brigata thienese alla battaglia combattuta a Rovereto nel 1487 contro Sigismondo del Tirolo, e, in generale, per la fedeltà sempre dimostrata dalla cittadina vicentina nei confronti di Venezia. Il conferimento di questo privilegio

segnò per Thiene l’inizio di un lungo periodo di prosperità sotto la protezione del leone di San Marco. Il centro progredí, facendo del commercio il perno della sua economia. Per ricordare quell’atto, ogni anno viene riproposta «Thiene 1492», una rievocazione storica che quest’anno è in programma nel week end di sabato 26 e domenica 27 settembre e che sarà seguita dal Mercato Rinascimentale Europeo, nel fine settimana successivo di sabato 3 e domenica 4 ottobre. In queste pagine Thiene. Alcune immagini di figuranti in corteo durante la rievocazione storica «Thiene 1492». Nella pagina accanto, in alto e in basso Tournai. Due momenti della tradizionale Grande Processione di ringraziamento alla Madonna, che, ogni anno, vede sfilare per le vie cittadine le reliquie dei Santi Eligio, Amando ed Eleuterio.

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Il momento piú atteso Sabato 26, dalle 15,00 fino a notte, e domenica 27 settembre, dalle 9,30 fino a sera, verrà aperto il «campo delle armi», un percorso storicodidattico con costumi, tende, arredi e armamenti d’epoca, quali spade, lance, archibugi e macchine d’assedio. Dopo la presentazione e la dimostrazione delle antiche macchine ossidionali, sabato sera si svilupperà una grandiosa settembre

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ricostruzione della battaglia di Rovereto. In programma anche saggi di combattimenti, addestramenti all’uso delle armi bianche, esercitazioni di tiro con l’arco e con la balestra. Fra le strade di Thiene si potrà passeggiare fra dame, cavalieri, armigeri, giullari e popolani. Piú di mille personaggi comporranno il grande corteo che sfilerà nel pomeriggio di domenica, all’interno del quale saranno rappresentate le nobili famiglie presenti nella Terra di Thiene nel XV secolo, fra cui i Porto, i Velo e i Capra. Sabato 3 dalle 15,00 fino a notte, e domenica 4 ottobre, dalle 10,00 fino a sera, oltre un centinaio fra mercanti, ambulanti, artigiani e contadini, alcuni dei quali provenenti da altri Stati del vecchio continente, daranno corpo al grande Mercato Rinascimentale Europeo. Presenti orefici, ceramisti, battirame, scarpari, setaioli, scalpellini,

Una pestilenza senza peste D

a oltre nove secoli, nella domenica piú vicina al 14 settembre (quest’anno il 13), i reliquiari con le spoglie dei santi Eligio, Amando ed Eleuterio vengono portati in solenne processione per le strade della cittadina belga di Tournai. Nel Comune francofono della Vallonia si rinnova cosí un voto istituito nel 1092, per ringraziare la Vergine Maria di aver liberato la città da un’epidemia. La Grande Processione è un evento importante sul piano storico e religioso, che rievoca gli stretti legami tra le Fiandre e la Francia: a suo tempo, Tournai era la capitale religiosa della contea delle Fiandre, nonché il luogo di nascita dei re franchi. Alla fine dell’XI secolo, la città fu colpita da un’epidemia che decimò la popolazione. Si pensava che fosse peste e fu interpretata come una punizione divina. Cosí i devoti iniziarono ad affollare la chiesa madre, invocando la protezione della Madonna degli Infermi.

L’esortazione del vescovo

contadini, lanaioli e altri operatori del mondo del commercio. Le taverne offriranno ricette dell’epoca, fra spettacoli e animazioni di strada, con giocolieri, cantastorie, sbandieratori, musici, danzatori e altri artisti. Tiziano Zaccaria

MEDIOEVO

settembre

Il vescovo Radbod esortò la popolazione a orientare lo stile di vita verso una maggiore spiritualità e ordinò una processione penitenziale con la statua della Vergine e le reliquie dei santi locali Eligio, Amando ed Eleuterio. E l’epidemia cessò. Successivi studi medico-scientifici hanno evidenziato che non si trattava di peste, bensí di «ergotismo», una patologia non contagiosa, correlata al consumo di segale infetta da un fungo ascomicete, che a quel tempo portava spesso alla morte. A ogni modo la popolazione locale, convinta del miracolo, decise di riproporre ogni anno la processione in segno di gratitudine verso la Vergine. Inoltre, nei decenni successivi, le abbondanti donazioni di chi era scampato dall’epidemia permisero di erigere una nuova cattedrale romanica, al posto della vecchia chiesa carolingia. Nel XVI secolo, le vicende legate alla Riforma ridussero in tutte le Fiandre il numero dei fedeli e il loro fervore; poi, nel Seicento, con la Controriforma, il culto della Vergine riconquistò vigore. Oggi, ogni anno, nella seconda domenica di settembre il rito ormai millenario si ripete. Le strade di Tournai sono invase da una moltitudine di pellegrini per la processione con la statua della Vergine e i reliquiari dei tre santi, riccamente addobbati da decorazioni floreali. T. Z.

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ANTE PRIMA Una veduta di Gubbio, dominata dal Palazzo dei Consoli (XIV sec.). In basso, a destra una delle strade che attraversano il cuore antico della cittadina umbra.

Mille anni in cinque giorni APPUNTAMENTI • Gubbio si prepara ad accogliere

il Festival del Medioevo, un’occasione da non perdere per riscoprire la storia, l’arte e i segreti dell’età di Mezzo

L’

età di Mezzo, come non è mai stata narrata. Nello splendido scenario del borgo antico di Gubbio insigni studiosi dibatteranno in pubblico su dieci secoli di storia, dal tramonto dell’impero romano d’Occidente alla conquista dell’America, in occasione del primo «Festival del Medioevo», che avrà luogo nella città umbra dal 30 settembre al 4 ottobre. L’evento, che si presenta come una prestigiosa kermesse culturale con fini divulgativi, prevede nel fitto programma di appuntamenti anche una fiera del libro, oltre a mostre, spettacoli, esibizioni musicali e, in piú, l’allestimento di un erbario che troverà spazio nel bellissimo chiostro della Pace del convento di S. Francesco. Ad aprire i lavori del Festival, del quale la rivista «Medioevo» è media partner, sarà lo storico Franco Cardini. Uno spazio significativo degli incontri quotidiani con gli studiosi verrà dedicato alle origini dell’Europa, ma non mancheranno approfondimenti su tradizionali temi e personaggi dell’età di Mezzo: dalle invasioni barbariche a Carlo Magno, dall’avvento del grande riformatore della Chiesa, Gregorio VII, alla duchessa Matilde di Canossa, dalla lotta per le investiture alle crociate, dal francescanesimo al Sacro Graal. Sullo sfondo dei grandi temi, emerge, poi, il ruolo di istituzioni che hanno spesso contribuito a scrivere pagine significative di quel millennio di storia: le banche, i Comuni e le università, solo per citarne alcune. Una finestra, infine, verrà aperta sul cosiddetto «Medioevo misterioso», con le sue leggende, le superstizioni e le pratiche magiche, nonché sulle numerose invenzioni concepite in epoca medievale. Il Festival nasce in collaborazione con il Comune di Gubbio e gode del patrocinio della Regione Umbria, del CISAM (Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo di Spoleto), del CISBAM (Centro italiano di studi sul basso Medioevo-Accademia tudertina) e della Camera di Commercio di Perugia. La manifestazione si avvale, inoltre, della consulenza del Dipartimento di Lettere dell’Università di Perugia, dell’Accademia di Belle Arti di Perugia e dell’Archivio di Stato. Tutti gli eventi saranno a ingresso libero. Info: www.festivaldelmedioevo.it

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre

MOSTRE • Arte della Civiltà Islamica. La Collezione al-Sabah, Kuwait

FIRENZE

U Roma – Scuderie del Quirinale

PIERO DI COSIMO (1462-1522). PITTORE «FIORENTINO» ECCENTRICO FRA RINASCIMENTO E MANIERA U Galleria degli Uffizi fino al 27 settembre

Genio eccentrico, attivo tra Quattro e Cinquecento, Piero di Cosimo è una figura quasi sconosciuta, nonostante l’apprezzamento della critica e l’ampio catalogo di dipinti di tema sacro e profano oggi conservati in musei e collezioni di tutto il mondo. Questa allestita agli Uffizi è la prima retrospettiva monografica che gli viene dedicata: accanto a imponenti pale d’altare, si incontrano «tondi» di destinazione

fino al 20 settembre info tel. 06.39967500; www.scuderiequirinale.it

O

ltre 360 oggetti ripercorrono mille e quattrocento anni di storia dell’arte islamica, con una ricca varietà tipologica (ceramiche, miniature, gioielli preziosissimi oltre a tappeti, tessuti e oggetti in avorio) e geografica (dalla Spagna fino alla Cina). Manufatti che appartengono alla raccolta riunita dallo sceicco Nasser Sabah al-Ahmad al-Sabah e da sua moglie, Hussah Sabah al-Salim al-Sabah. Il 23 febbraio 1983, in occasione della Festa Nazionale del Kuwait, la Collezione (poeticamente battezzata Dar al-Athar al-Islamiyyah, «Casa delle Espressioni Culturali dell’Islam») venne offerta in prestito permanente al Museo Nazionale del Kuwait dove rimase fino alle tragiche vicende dell’invasione irachena nell’agosto 1990. Dalla razzia allora operata si salvarono un centinaio di oggetti. Le altre opere, in seguito quasi integralmente recuperate a Baghdad, sono poi rientrate in Kuwait e costituiscono oggi una delle raccolte medio-orientali piú complete e prestigiose al mondo. Il percorso espositivo si articola in due parti. La prima, cronologica, è introdotta da una piccola sezione numismatica attraverso la quale vengono inquadrate storicamente e domestica, dipinti di tema profano, insieme a piú colte e raffinate famiglie fiorentine e straordinari ritratti. info tel. 055 294883; www.unannoadarte.it MILANO SOTTO IL SEGNO DI LEONARDO. LA MAGNIFICENZA DELLA CORTE SFORZESCA NELLE COLLEZIONI DEL MUSEO POLDI PEZZOLI U Museo Poldi Pezzoli fino al 28 settembre

Negli ultimi decenni del Quattrocento, sotto il ducato di Ludovico il Moro, Milano diventò la capitale europea nell’innovazione delle

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geograficamente le principali fasi dello sviluppo delle civiltà musulmane. Si prendono le mosse dalle influenze delle grandi civiltà rivali di quella arti del lusso oltre che della pittura, anche grazie alla presenza di Leonardo da Vinci. Tra gli altri, la mostra testimonia l’influenza del maestro sull’arte milanese di quel periodo attraverso un piccolo bronzo, recentemente indagato dagli studiosi: si tratta di un guerriero con scudo che riprende una piccola figura accovacciata sotto gli zoccoli di un cavallo, delineata in un’incisione che riproduce i disegni di Leonardo preparatori per il monumento equestre di Francesco Sforza, padre di

Ludovico il Moro. info tel. 02 794889; www.museopoldipezzoli.it FIRENZE L’ARTE DI FRANCESCO. CAPOLAVORI D’ARTE E TERRE D’ASIA DAL XIII AL XV SECOLO U Galleria dell’Accademia fino all’11 ottobre

Quale idea del mondo aveva san Francesco? A quali spazi guardavano i suoi primi seguaci? In quali direzioni si sono sviluppate le loro azioni di evangelizzazione? Da questi interrogativi nasce la mostra allestita alla Galleria dell’Accademia. Il percorso espositivo settembre

MEDIOEVO


U Albrechtsburg fino al 1° novembre

nascente islamica (tardo-antica bizantina da un lato, mesopotamica orientale dall’altro, non senza sottovalutare gli apporti centro-asiatici, indiani e dell’Oriente piú estremo) sugli inizi e sul periodo formativo, per passare allo sviluppo di un linguaggio artistico autonomo e peculiare che si ramifica e consolida con esiti di superbo equilibrio, per concludere con i tre grandi imperi cinquecenteschi: l’impero mediterraneo dei Turchi Ottomani, quello iranico dei Safavidi di confessione sciita, ma aperti al resto del mondo, e l’opulenza fiabesca della corte indiana dei Moghul. presenta non solo i viaggi missionari, ma la stessa idea dell’Oriente sviluppata da Francesco e dai suoi, in una sorta di ridefinizione culturale e topografica dell’ecumene. Da una parte, si susseguono mappe, codici che riportano relazioni di viaggio, attestazioni dei contatti dei latini con i Mongoli mantenuti in chiave antislamica (nel 1246 Khan Güyük scrisse a papa Innocenzo IV una lettera conservata nell’Archivio Segreto Vaticano). Dall’altra, un gruppo straordinario di reperti fa intuire la rete delle

MEDIOEVO

settembre

presenze cristiane che i Francescani incontrarono al loro arrivo all’interno del continente. info tel. 055 294883; e-mail: firenzemusei@ operalaboratori.com; www.unannoadarte.it TORINO TIME TABLE. A TAVOLA NEI SECOLI U Palazzo Madama fino al 18 ottobre

Il tema dell’EXPO 2015, «Nutrire il pianeta», offre lo spunto per una mostra che parte dal tema della tavola imbandita per evocare spaccati di vita quotidiana nel corso dei secoli. Fulcro del

Nella seconda parte si esemplificano i temi e i modi artistici centrali delle esperienze artistiche islamiche: il rigore formale delle stupende calligrafie, la scientifica e dotta esplorazione delle possibilità matematico-geometriche, l’inesausta e infinita fantasia del motivo floreale ripetuto (arabesco), fino alla rappresentazione astratta e realistica della figura animale o umana a smentire il trito e falso mito della iconoclastia islamica. Chiude la mostra lo sfarzo del tesoro con le opere di oreficeria, principalmente indiane, vanto della Collezione al-Sabah. percorso espositivo sono dunque sei grandi tavole allestite con suppellettili in ceramica, vetro e metallo delle varie epoche (Basso Medioevo, Rinascimento, Seicento, Settecento, Ottocento e Novecento). In particolare, sulla tavola signorile del tardo Medioevo si mescolano manufatti di varia provenienza che testimoniano un’ampia circolazione di oggetti e tendenze di gusto. Il vasellame in ceramica invetriata, decorata con motivi graffiti e dipinti di verde e giallo, accomuna

senza distinzione geografica la mensa ordinaria di tutti i Paesi. Sul tavolino di servizio sono invece esposti oggetti che evocano la quotidianità della vita cortese internazionale – pettini d’avorio per la toletta, cofanetti eburnei e di cuoio – scandita nello scorrere dei giorni da un raro calendario perpetuo, miniato su pergamena e custodito in un astuccio di cuoio. info tel. 011 4433501; www.palazzomadama torino.it MEISSEN PROST! 1000 ANNI DI BIRRA IN SASSONIA

Nel 1015, Meissen, assediata dalle truppe polacche, sfuggí alla devastazione perché le donne, in mancanza di acqua, soffocarono le fiamme con la birra. L’episodio è considerato il riferimento cronologico al quale far risalire una tradizione particolarmente radicata in Sassonia, alla quale si è voluto rendere omaggio con la mostra allestita nelle sale dell’Albrechtsburg, il piú antico castello tedesco. L’esposizione affianca esperienze

sensoriali, apparati multimediali, degustazioni e assaggi a una ricca selezione di materiali e documenti. Né mancano gli approfondimenti sulla produzione, sui segreti legati alle varianti della ricetta originale, sugli strumenti impiegati e ai prodotti usati, come l’orzo e il luppolo, introdotto proprio nel Medioevo, forse negli ultimi decenni del Duecento. info www.albrechtsburgmeissen.de

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AGENDA DEL MESE SAN GIMIGNANO FILIPPINO LIPPI L’ANNUNCIAZIONE DI SAN GIMIGNANO U Pinacoteca fino al 2 novembre

La Pinacoteca di San Gimignano rende omaggio al pittore fiorentino Filippino Lippi (1457circa-1504) con una mostra ispirata dall’Annunciazione, opera realizzata dall’artista in due tondi distinti, raffiguranti l’Angelo Annunziante e l’Annunziata, cosí come gli era stato richiesto dai Priori e Capitani di Parte Guelfa, che gliela commissionarono nel 1482 per il Palazzo Comunale della città «delle torri». Assieme ai due tondi di Filippino, ripresentati vicini come dovevano essere originariamente al loro ingresso nella collezione della Pinacoteca, sono esposti anche disegni di mano del pittore, nonché i documenti relativi alla commissione dell’Annunciazione, un materiale storico custodito da oltre cinque secoli nell’archivio Storico Comunale di San Gimignano che ci fa capire lo spirito civico e la volontà che animava i Priori e i Capitani di Parte Guelfa – appartenenti a importanti famiglie di sangimignanesi – di abbellire la sede del governo cittadino, in modo analogo a quanto le medesime istituzioni fiorentine stavano

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facendo per Palazzo Vecchio. info e prenotazioni tel. 0577 286300; www.sangimignanomusei.it; e-mail: prenotazioni@ sangimignanomusei.it

PAVIA 1525-2015. PAVIA, LA BATTAGLIA, IL FUTURO. NIENTE FU COME PRIMA U Castello Visconteo fino al 15 novembre

A 490 anni dalla battaglia di Pavia, la città ricorda il cruciale scontro tra le armate francesi e quelle spagnole con una

mostra allestita al Castello Visconteo, in un’ala appena restaurata e per la prima volta aperta al pubblico. L’esposizione presenta uno dei celebri arazzi fiamminghi dedicati alla battaglia proveniente dal Museo di Capodimonte, e ripropone virtualmente gli altri sei pezzi della serie, consentendo al visitatore – grazie a installazioni multimediali e tecnologie innovative –

di osservare e indagare ogni singola scena, scoprire i protagonisti e le loro storie, rivivere l’atmosfera del combattimento. info tel. 0382 399770; www.labattagliadipavia.it

delle vergini sagge e delle vergini stolte alla raffigurazione degli Evangelisti e delle stagioni. info: tel. 011 4433501; www. palazzomadamatorino.it

TORINO

AMSTERDAM ROMA. IL SOGNO DELL’IMPERATORE COSTANTINO U De Nieuwe Kerk fino al 7 febbraio 2016 (dal 3 ottobre)

Il termine «ricamo» deriva dall’arabo raqm: «segno», e «disegnare ad ago» è una pratica

ad abiti degli anni Venti. Tra questi, possiamo ricordare: un cappuccio di piviale databile tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo; un quaderno manoscritto di disegni per ricami a inchiostro e tempera, dedicato alla «mirabile

antichissima nel bacino del Mediterraneo e in Oriente e, dal Medioevo, diffusa in tutta Europa. Si usano tutti i filati di origine vegetale o animale naturali o tinti, arricchiti da materiali preziosi, quali oro, argento, perle, coralli, o conterie in vetro, paillettes metalliche, in plastica o di gelatina. Palazzo Madama espone oltre sessanta manufatti della propria collezione, con una scelta che spazia dai ricami sacri medievali

matrona Marina Barbo» nel 1538; un frammento di stolone di piviale, opera spagnola del 1590-1600, con allegri teschi infiocchettati, che ricorda il piviale raffigurato da El Greco in El entierro del conde de Orgaz, del 1586; ancora, un ricamo in lana svizzero tedesco realizzato intorno al 1580, che unisce la raffigurazione della parabola

dell’imperatore «cristiano» e forte di prestiti eccezionali, la rassegna che la Nieuwe

LINO, LANA, SETA, ORO. OTTO SECOLI DI RICAMI U Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica, Sala atelier fino al 16 novembre

Introdotta da una spettacolare replica dell’arco trionfale innalzato in onore

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MEDIOEVO


Kerk dedica a Costantino non soltanto ripercorre la vicenda biografica e politica del trionfatore di Ponte Milvio, ma si sofferma sugli esiti del suo principato. Quella promossa attraverso l’editto che riconosceva la libertà di culto per i cristiani fu, infatti, un’autentica rivoluzione, destinata a influenzare in maniera significativa la storia religiosa e culturale del mondo intero, ben oltre il tempo in cui si produsse. info www.nieuwekerk.nl

Palazzo Venezia vi sono una veste funeraria composta da 2000 listelli di giada intessuti con fili d’oro, e poi lacche, terrecotte invetriate, vasi, oggetti d’oro, d’argento e di giadeite, a illustrare lo straordinario clima di prosperità e di apertura culturale di questo periodo, quando la capitale dell’Impero, l’odierna Xi’An, diventa crocevia di tutti i commerci, riceve gli ambasciatori del mondo ed è popolata da oltre un milione di persone. info tel. 06 6780131; www. tesoridellacinaimperiale.it

FIRENZE IL PRINCIPE DEI SOGNI. GIUSEPPE NEGLI ARAZZI MEDICEI DI PONTORMO E BRONZINO U Palazzo Vecchio, Sala dei Duecento fino al 15 febbraio 2016 (dal 15 settembre)

Commissionati da Cosimo I de’ Medici per la Sala de’ Dugento di Palazzo Vecchio, i venti arazzi cinquecenteschi raffiguranti la storia di Giuseppe costituiscono una delle piú alte testimonianze dell’artigianato e dell’arte rinascimentale. I disegni preparatori furono affidati ai maggiori artisti del tempo, primo fra tutti Pontormo. Ma le prove predisposte da quest’ultimo non piacquero a Cosimo I, che decise di rivolgersi ad Agnolo Bronzino, allievo di Pontormo e già pittore di corte, e a cui si deve parte dell’impianto narrativo

MEDIOEVO

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della serie. Tessuti alla metà del XVI secolo nella manifattura granducale, tra le prime istituite in Italia, furono realizzati dai maestri arazzieri fiamminghi Jan Rost e Nicolas Karcher sui cartoni forniti da Agnolo Bronzino, Jacopo Pontormo e Francesco Salviati. info tel. 055 2768325 ROMA TESORI DELLA CINA IMPERIALE. L’ETÀ DELLA RINASCITA FRA GLI HAN E I TANG (206 A.C.-907 D.C.) U Palazzo Venezia fino al 28 febbraio 2016

L’esposizione offre la possibilità di ammirare una serie di capolavori concessi in prestito dal Museo Provinciale dello Henan per raccontare il passaggio dalla dinastia Han – periodo in cui l’odierna Cina

comincia a prendere forma – all’Età dell’Oro della dinastia Tang (581 d.C.-907 d.C.). Tra i manufatti giunti nelle sale del Refettorio Quattrocentesco di

FIRENZE UN PALAZZO E LA CITTÀ U Museo Salvatore Ferragamo fino al 3 aprile 2016

Forte di opere d’arte e documenti provenienti

da musei e collezioni private, la mostra racconta le complesse vicende storiche di Palazzo Spini Feroni e dei suoi abitanti. Le origini dell’edificio risalgono al 1289, dopo che un’alluvione aveva distrutto le case degli Spini, ricca e potente famiglia proprietaria di una delle prime società bancarie d’Europa. Committente dell’edificio fu Ruggeri, detto Geri, la persona piú illustre del casato, banchiere di papa Bonifacio VIII. L’allestimento è dominato da due grandi forzieri che contengono le opere d’arte e i documenti: spiccano, tra gli altri, un dipinto seicentesco che raffigura l’albero genealogico degli Spini; una pergamena del 1277 che dimostra l’acquisto degli Spini di un terreno e di una casa nei pressi del ponte Santa Trinita; la storia della famiglia nel Quattrocento scritta da un discendente di Geri, Doffo. Due modelli in scala, realizzati per l’occasione dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, riproducono l’area cittadina in cui fu costruito il palazzo, e la sua architettura, come appare nella veduta quattrocentesca. info tel. 055 3562846; e-mail: museoferragamo@ ferragamo.com; www.ferragamo.com

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AGENDA DEL MESE

Appuntamenti LECCE VII CONGRESSO NAZIONALE DI ARCHEOLOGIA MEDIEVALE U Lecce, Palazzo Turrisi 9-12 settembre

A sei anni dalla sua V edizione, ospitata a Foggia, il Congresso, ritorna in Puglia e, in particolare, nel Salento, territorio che fu a lungo parte dell’impero bizantino. Perciò, alle cinque sezioni tematiche piú consuete (I. Teoria e metodi; II. Insediamenti urbani e architettura; III. Territorio e ambiente; IV. Luoghi di culto e archeologia funeraria; V. Economia e società), se ne aggiunge una sesta, dedicata a L’Italia

Italiani), Sauro Gelichi e Gian Pietro Brogiolo, l’assemblea dei soci, la riunione del Consiglio Direttivo della SAMI, la consegna del Premio «Riccardo Francovich» per il miglior museo di ambito medievale, nonché la premiazione di una personalità distintasi nel campo della divulgazione. Sarà inoltre assegnato il premio annuale «Ottone d’Assia-Riccardo Francovich», destinato a un giovane ricercatore per la pubblicazione di un’opera prima inedita di ambito archeologico medievistico. info tel. 0832 295519; e-mail: scuola. archeologia@ unisalento. it; www.archeologia. unisalento.it CAMOGLI FESTIVAL DELLA COMUNICAZIONE II EDIZIONE 10-13 settembre

bizantina. I coordinatori di ogni sezione esporranno e commenteranno i contributi, e, come sempre, alle loro presentazioni faranno seguito l’esposizione da parte degli autori di quattro interventi specificamente individuati e poi una discussione sul tema. Sono inoltre previste le relazioni dei due ex Presidenti della SAMI (Società degli Archeologi Medievisti

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La seconda edizione della rassegna si concentra su uno degli aspetti fondanti della comunicazione: il linguaggio. Quest’anno l’appuntamento è prolungato a quattro giornate, animate da conferenze, tavole rotonde, laboratori, spettacoli, escursioni, mostre e

un’installazione ambientale. info www.

festivalcomunicazione.it

MODENA, CARPI, SASSUOLO FESTIVALFILOSOFIA «EREDITARE» 18-20 settembre

Duecento appuntamenti gratuiti in tre giorni per riflettere sul significato di «ereditare». Oltre 50 lezioni magistrali affidate a protagonisti del pensiero contemporaneo, mostre, concerti, spettacoli, letture, iniziative per bambini e cene filosofiche: è questo il ricco programma della quindicesima edizione del Festivalfilosofia che, secondo una consuetudine ormai consolidata, si svolge in 40 luoghi di Modena, Carpi e Sassuolo. info www. festivalfilosofia.it

SIENA LA PORTA DEL CIELO U Duomo fino al 31 ottobre

L’Opera della Metropolitana torna a promuovere l’apertura straordinaria della «Porta del Cielo», con nuove modalità. La visita ai Sottotetti del Duomo, della durata di 30 minuti, e alla

Cattedrale, con la Libreria Piccolomini, si può effettuare ogni mezz’ora in base agli orari di apertura della Cattedrale. Ogni visitatore riceverà in omaggio la Roof Map, uno strumento utile per l’effettuazione della visita, che si trasforma poi in un gadget da conservare.

vetro –, e la «bottega», preposta alla vendita. Architetti, archeologi, esperti di botanica e giardinieri, si sono confrontati per evocare, negli spazi verdi del giardino, l’antica Spezieria. Nelle fioriere create per

info call center

0577 286300 (lu-ve, 9,00-17,00) SAN GIMIGNANO L’ORTO DI SANTA FINA U Giardino della Spezieria di S. Fina, ex Conservatorio di S. Chiara fino al 31 Ottobre

Lo Spedale di Santa Fina, il piú importante ente assistenziale di San Gimignano, fu dotato, almeno dal Cinquecento, di una propria Spezieria, che acquistava o produceva i medicamenti, sia a uso interno che per la vendita esterna. L’allestimento attuale presenta l’assetto originale della farmacia, con la «cucina», in cui si preparavano i medicinali – conservati in vasi di ceramica o

l’occasione sono stati messi a dimora piante e fiori verosimilmente impiegati a scopi gastronomici e terapeutici. La visita a questa sezione del Museo è dunque una vera e propria esperienza sensoriale, che permette di immergersi in un’atmosfera fatta di aromi e profumi. info tel. 0577 286300; www.sangimignanomusei.it settembre

MEDIOEVO



mostre giotto, l’italia

Il genio

di Serena Romano

viaggiatore Non sapremo mai se Giotto fosse davvero capace di tracciare una circonferenza perfetta a mano libera, ma che avesse un talento superiore è fuor di dubbio. Qualità che non tardarono a farne l’artista piú richiesto del suo tempo e, di conseguenza, lo portarono a lavorare in cantieri sparsi un po’ in tutta la Penisola. Una vicenda che viene ora ripercorsa dalla mostra allestita a Milano, in Palazzo Reale, che riunisce alcuni dei massimi capolavori del maestro fiorentino

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MEDIOEVO


L

a mostra «Giotto, l’Italia» propone un corpus di opere scelte fra lavori certamente attribuibili all’artista e che, di conseguenza, siano in grado di documentarne gli spostamenti in Italia. Si tratta, dunque, di un progetto ben defini-

to, che ha avuto tra i suoi ideatori la storica dell’arte medievale Serena Romano, della quale, per gentile concessione dell’editore Electa, siamo onorati di pubblicare un ampio stralcio del saggio che apre il catalogo realizzato per l’occasione.

Sulle due pagine particolare della fronte del Polittico Stefaneschi, tempera su tavola, 1320 circa. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Nella pagina accanto un particolare del polittico in cui il committente dell’opera, il cardinale Jacopo Caetani degli Stefaneschi, ne offre il modellino a san Pietro.

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mostre giotto, l’italia

L L’

evidenza dice che ogni epoca e ogni cultura si fabbricano un’immagine propria dei grandi fenomeni di civiltà che le hanno precedute; e Giotto appartiene al non vasto gruppo di artisti che bucano le cortine della distanza, del non specialismo, e della non informazione, e sono suggestivi a partire dallo stesso semplice nome. Che viene preso in prestito per etichettare oggetti o imprese che con la pittura del Trecento non hanno assolutamente nulla a che fare: non ci sono soltanto i pastelli Giotto o i bus turistici Giotto, ma ci sono centri commerciali Giotto, residence Giotto, panettoni Giotto, ovviamente addensati nelle zone che conservano le opere, Firenze e Padova soprattutto. L’etichetta, insomma, suscita associazioni mentali vaste e solidarmente nazionali; «rappresenta» il brand italiano, suona antica e affidabile, allude a nobili e belle regioni, fa pensare a viaggi e paesaggi. Forse in qualche modo arriva, ancorché confusa e ridotta, anche ad evocare questa somma di qualità agli occhi e alla mente di chi non condivide gli elementi di base della cultura occidentale: se con questi termini si può fare allusione a principi comuni, messi oggi in gran periglio a fronte di trasformazioni molto rapide e molto radicali.

Il migliore di tutti

Il Giotto witty, brutto e intelligentissimo, ironico, rapido e vitale degli aneddoti e delle novelle che emergono nella letteratura toscana a breve distanza dagli anni della sua vita mantiene forse un briciolo di realtà storica: certo, le novelle di Franco Sacchetti ci mostrano in modo irrefutabile che entro la fine del Trecento era vivissima la nozione del gruppo di pittori – che noi definiamo giotteschi, e specificamente «allievi» di Giotto, come Bernardo Daddi, Taddeo Gaddi, o Buffalmacco – che trovava nel nome di Giotto

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la propria radice identitaria; e che a Giotto stesso era tra loro accordata una posizione indiscutibile e preminente, conquistata grazie alla sua straordinaria capacità tecnica, al suo carattere, e ovviamente alla sua maggiore anzianità. Via via, il personaggio si riveste di una sacralità archetipica: e in Ghiberti e Vasari, addobbato di episodi adattati dall’Antico, diviene il punto fermo da cui tutto deriva. Per Vasari, la storia dell’arte funziona a individui straordinari, isole di genio e innati picchi di eccellenza la cui massima densità si trova a Firenze e nel resto della Toscana. La genialità non si eredita, ma la capacità tecnica e artigianale del mestiere si trasmette da maestro ad allievo, e la trasmissione avviene nella bottega del maestro – che certo appare anche in Sacchetti quale luogo dove Giotto è reperibile, quotidianamente, familiarmente – per sua natura ancorata ad un luogo, fatta per conservare e custodire, per eternizzare direi, i saperi artistici. L’insieme delle botteghe costituisce la tradizione di una città. In questa geografia fissa, piena di bandierine appiccate su campanili, si dà naturalmente anche il caso di artisti che si spostino dalla loro culla di formazione: il caso di Giotto è il primo raccontato, e in certa misura il piú eclatante, perché Giotto nel racconto di Vasari è il piú fiorentino dei fiorentini, ma è talmente bravo che tutti lo chiamano, e lui va a Roma, a Padova, a Napoli, a Milano, forse ad Avignone: è il primo artista ufficialmente viaggiatore. Non c’è naturalmente una sola parola che permetta di chiedersi se Vasari si sia posto il problema del dialogo dell’artista-genio con il luogo dove di volta in volta egli si recava: per Vasari l’opera del genio viene recapitata nelle varie destinazioni, per cosí dire a scatola chiusa, intesa a suscitare ammirazione e impermeabile al contesto in cui viene prodotta. Il viaggio insomma, per Vasari,

Polittico Stefaneschi Tempera su tavola, 1320 circa

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MEDIOEVO


Il lato posteriore del polittico: vi sono raffigurati Cristo in trono con angeli e il cardinale Stefaneschi, tra la Crocifissione di san Pietro a sinistra e il Martirio di san Paolo a destra; nella predella sottostante, la Madonna col Bambino in trono tra due angeli e i dodici apostoli.

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mostre giotto, l’italia A destra Dio Padre in trono (particolare), dalla cappella degli Scrovegni, tempera su tavola, 1303-1305 circa. Padova, Musei Civici, Museo d’arte medievale e moderna. In basso Testa di pastore (Gioacchino tra i pastori), affresco strappato e riportato su supporto in alluminio, 1305-1310 circa. Firenze, Gallerie dell’Accademia.

non è una traiettoria cronologica e psicologica che costruisca il personaggio secondo una successione longitudinale logica e in sviluppo: una nozione, questa, che sarebbe certo stata anacronistica nel Cinquecento, ed è comunque perfettamente inutile agli obiettivi vasariani.

Le radici del mito

Che Giotto abbia potuto reagire agli ambienti e alle tradizioni artistiche via via incontrate nei suoi viaggi non è proprio questione che occupi Vasari, il quale si sarebbe probabilmente offeso di una simile idea. Al contrario: tanto innato e impermeabile è il genio, per Gior-

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gio Vasari, che proprio nella Vita di Giotto egli, che vi scolpiva le radici del mito del primato fiorentino, dà a Cimabue la responsabilità della formazione del ragazzo geniale, ma gli sottrae per cosí dire la prima orma, perché, se Cimabue trasmette al giovane Giotto le capacità tecniche ed è la marca della fiorentinità, la Natura è in realtà la sua maestra divina, che lo ispira direttamente, senza tramiti, senza gavette, senza sacerdoti mediatori. Questa ispirazione alla fonte della Natura ha una connotazione quasi cristologica: è il tocco della Grazia che fa di Giotto l’eccezione suprema rispetto a tutto il circostante panorama e di fatto ne sottolinea il ruolo provvidenziale e in certa misura quasi astorico. In Vasari non ci sono intersezioni orizzontali: sullo schema biografico, le opere dell’artista sono distribuite (talvolta in misura e in un ordine ancora oggi utile) in una settembre

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successione che non concepisce innesti di natura allogena. Concetti come quello della committenza, cosí come è oggi largamente inteso, sono del tutto estranei alla cultura vasariana. Piuttosto, se ne captano sfumature in alcuni degli aneddoti che Vasari conosce, manipola e usa, a partire da quello famoso della «O». Di fonte ignota, l’aneddoto mostra Giotto accostato dall’ambasciatore (il «cortigiano») del papa che da Avignone vuol essere sicuro che lui sia veramente bravo come si dice, e gli chiede una prova. Il cortigiano arriva a lui, si noti, avendo già fatto indagini specialmente a Siena e avendo raccolto disegni di maestri senesi, da usare – si comprende – come termini di confronto. Giotto intuisce qual è la sfida: la affronta, la supera e la snobba, disegnando il circolo perfetto che è molto meno e ben piú di quanto il papa gli ha mandato a chiedere. Un gesto mitico, perché assolutamente semplice e spiazzante: un gesto di assoluta leggerezza. Giotto insomma, era immensamente dotato di leggerezza: forse Italo Calvino concorderebbe con questa lettura, e come nel caso di Guido, potrebbe ancora ravvisare nella figura archetipica di Giotto l’auspicio del modello semplice e intatto, e l’invito a guardarlo come guida al secolo, il ventunesimo, al tempo delle Lezioni americane ancora di là da venire, e ora invece già in corso, forse meno arioso, piú difficile e arduo, di quanto si sarebbe pensato.

Modelli vecchi e nuovi

Distanziarsi dal modello vasariano è difficilissimo, se non impossibile, nonché, forse, inutilmente presuntuoso. A grandi linee, il disegno tracciato da Vasari – Giotto, vita e opere – nella storia dell’arte cosí co-

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me è venuta a configurarsi ha resistito fino ad oggi; e se l’ordine degli episodi cambia costantemente, se cambia la cronologia delle opere e si modifica in parecchi importanti casi la certezza dell’attribuzione, la speranza di poter comporre un percorso geo-biografico in cui le opere integrino in qualche modo il desiderio di conoscere piú e meglio l’uomo-Giotto, l’artista-Giotto, non è mai venuta meno e, credo, ha in-

Madonna con il Bambino. 1290 circa. Borgo San Lorenzo, pieve di S. Lorenzo. La tavola su cui l’opera è dipinta risulta ridotta su tutti i lati e solo in alto si può presumere che il colmo stondato non sia molto piú basso della cuspide originaria.

distintamente nutrito tutti gli studi e gli studiosi che con questo lontano obiettivo si sono cimentati.

Problemi di metodo

Naturalmente, con grandi rischi: particolarmente evidenti nel genere che piú da vicino percorre la strada tradizionale del «vita e opere», cioè quello della monografia, che per definizione crede alla possibilità di costruire un profilo biografico di un individuo attraverso il supposto svolgimento stilistico delle opere a lui attribuite. Anche Giotto, sulla cui produzione abbiamo cosí pochi dati di oggettiva cronologia, viene dunque fornito di una sequenza ordinata: si cerca di datare le opere, e di scandirle nel corso degli anni, in pratica immaginando che l’artista, basato nella sua città natale, si impegnasse a eseguire i compiti richiesti, muovendosi se necessario da casa e recandosi episodicamente nei luoghi in questione. Movimenti e percorsi geografici, quelli di Giotto, che vengono ben isolati e numerati e nei quali vanno a incastrarsi le opere note, da realizzare e consegnare al richiedente prima della partenza dell’artista che poi torna a casa o va in un altro luogo in cui è richiesta la sua presenza. L’illusion biographique, questo tentativo di ordinare dati spesso poco eloquenti in un ordine di relazioni intellegibili e sotto la protezione di quella che Bourdieu ha chiamato la constance nominale – dunque il riferimento a un nome, quello di Giotto, contenitore la cui definizione cambia vertiginosamente a seconda dei punti di vista – domina assolutamente. Plutarco e Vasari la vincono ancora. La bibliografia giottesca è quindi piena di tentativi di mettere in

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mostre giotto, l’italia

Polittico di Bologna

Oro e tempera su tavola, 1333 circa Madonna col Bambino in trono e i santi Pietro, Gabriele arcangelo, Michele arcangelo e Paolo; nella cuspide, Figlio dell’uomo dell’Apocalisse; nella predella, san Giovanni Battista, la Madonna, Cristo in pietà, san Giovanni evangelista, santa Maria Maddalena. Bologna, Pinacoteca Nazionale.

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ordine i dati supposti oggettivi con le opinioni sullo stile; un brain storming ormai secolare, i cui punti piú bollenti sono forse quelli che toccano la basilica di Assisi, ma che annovera altri casi di continui stravolgimenti cronologici (pensiamo alla datazione delle cappelle Bardi e Peruzzi di Santa Croce a Firenze, o a quella, che commentiamo nelle

schede di questo catalogo, del gruppo vaticano) e che, a mio avviso, anche recentemente cade nell’ingenuità di usare i vuoti della documentazione come prova dell’assenza del maestro, per esempio, da Firenze. Coloro che nel corso degli ultimi decenni hanno avuto il coraggio di scrivere una monografia sull’opera di Giotto – Schwarz, la piú recente,

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che sfugge al modello «vita e opere» ma ha attirato molte critiche; quella editorialmente fortunata di Francesca Flores d’Arcais, la piú incline al sistema di «riempimento lacune» con le opere note; quella di Bonsanti del 1985 e ovviamente quella di Previtali, che introdusse il concetto di «bottega» in chiave strutturale e con valenza metodologica – hanno affrontato un compito micidiale, infatti minoritario fra gli studi, che preferiscono nettamente approcci a singole opere o ad aspetti specifici.

Forse, scrivere una monografia su Giotto aspirando alla completezza dei dati e delle informazioni bibliografiche è ormai impossibile: la parzialità, e l’approfondimento per carotaggi, sono oggi l’unico obiettivo praticabile. Ma pur rinunciando all’idealismo piú speranzoso e romanzesco, va evitata la paralisi per impotenza: va trovato un compromesso nuovo tra i dati oggettivi, quelli altamente plausibili e probabili, e quelli forniti dall’esercizio della filologia storicoartistica, che se cerca di evitare le opinioni troppo arbitrarie si rivela, come tante volte si è rivelata, un potentissimo mezzo di forte ed efficace approssimazione.

Come un restauratore

Non essendo possibile, e nemmeno opportuno, rinunciare alla possibilità di ricostruire l’opera, i tragitti, e il modus operandi di colui che per la cultura italiana ed europea è ben piú dell’occasione di una constance nominale, può anche esser utile, a immaginarne almeno una parte d’attività, l’uso di due modelli di riferimento, entrambi attuali: par-

tendo dal principio che l’uomo del primo Trecento non doveva poi essere cosí nettamente diverso nei comportamenti e nell’organizzazione del lavoro da quello di oggi. Soccorre, nella fabbricazione di un’analogia, lo schema del sistema di lavoro di un grande restauratore e della sua équipe: un modello, questo, che ha avuto e ha ancora grandi ed evidenti episodi negli ultimi decenni, compresi quelli che sono andati a toccare proprio l’opera giottesca; è, comunque, quello tecnicamente piú vicino a quanto stiamo qui discutendo. Negli anni d’oro del restauro specialmente di affreschi in Italia – quello di Assisi e quello degli Scrovegni, per restare in tema – ha offerto paradigmi evidentissimi circa il modus operandi, appunto, del capo-restauratore che dà il nome alla ditta e la garanzia della qualità, stabilisce protocolli, tecniche e tempi d’intervento, lasciando marginalmente liberi i suoi collaboratori nella messa in pratica e applicazione dei principi-guida durante il lavoro quotidiano. E un altro possibile modello, specialmente per quel che

Il percorso espositivo

I magnifici tredici La mostra in Palazzo Reale riunisce 13 opere, a formare una sequenza di capolavori mai riuniti tutti insieme in una esposizione. L’esordio è affidato alle opere giovanili: il frammento della Maestà della Vergine da Borgo San Lorenzo e la Madonna da San Giorgio alla Costa, documentano il momento in cui l’artista era attivo tra Firenze e Assisi. Poi il nucleo dalla Badia fiorentina, con il polittico dell’Altar Maggiore, attorno al quale saranno ricomposti alcuni frammenti della decorazione affrescata che circondava lo stesso altare. La tavola con Dio Padre in trono proviene dalla Cappella degli Scrovegni e documenta la fase padovana del maestro. Segue poi il gruppo che inizia dal polittico bifronte destinato alla cattedrale fiorentina di S. Reparata e che ha il suo punto d’arrivo nel polittico Stefaneschi, dipinto per l’altar maggiore della basilica di S. Pietro. Il percorso si chiude con i dipinti della fase finale della carriera del maestro: il polittico di Bologna, e il polittico Baroncelli, che nell’occasione della mostra viene ricongiunto con la sua cuspide, raffigurante il Padre Eterno, conservata nel museo di San Diego in California.

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mostre giotto, l’italia

Polittico Baroncelli

Tempera su tavola, 1330 circa Incoronazione della Vergine. Firenze, basilica di Santa Croce, cappella Baroncelli

attiene la dimensione imprenditoriale e direi planetaria del lavoro, è quello di qualche grande studio di architettura di oggi (pensiamo all’autore dell’allestimento di questa stessa mostra, Mario Bellini; o a Renzo Piano, Herzog & de Meuron, Frank Gehry…) che sforna progetti identificati dal nome cui si intitola lo studio, nome che coincide in genere con la piú grande e carismatica delle personalità presenti, normalmente anche il creatore del gruppo e colui che ne ha definito lo stile e la produzione. Stile e prodotti che restano riconoscibili anche attraverso le molto complesse fasi del lavoro e gli apporti spesso determinanti di aiuti e collaboratori di grande identità e peso professionale. Come lavorano i grandi restauratori e i grandi architetti? È fuori discussione che essi possano svolgere ordinatamente un lavoro per volta, accettando commesse,

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progettandole e realizzandole, per poi passare alla successiva. Cosí facendo si taglierebbero un numero esorbitante di contatti e di possibilità; non arriverebbero a soddisfare le richieste anche soltanto della crème de la crème dei potenziali committenti; e dovrebbero accettare una vita fatta di segmenti sequenziali di geografie e di ambienti, con drammatica perdita, per lunghi periodi, di un centro vitale ed esistenziale.

Il ruolo del «capo»

La soluzione che invece vediamo sistematicamente in atto in tutte queste vicende è la compresenza, certo oggi resa radicalmente piú facile dai sistemi di comunicazione: cantieri aperti simultaneamente, personalità di vicari affidabili ed efficienti, e il ruolo del «capo» consistente soprattutto nella progettazione piú o meno stretta e rigorosa a seconda delle occasioni, e nell’indirizzo verso quello che si è chiamato il «prodotto riconoscibile», dunque il brand della firma. Fantascienza, per il Trecento? Google calcola il tempo che ci vuole per recarsi a piedi da una all’altra delle città in cui la tradizione storiografica e le conoscenze storiche e visive attestano l’attività di Giotto. Risultano 33 ore di cam-

mino per andare da Firenze a Roma; 34 da Firenze ad Assisi; 31 da Assisi a Rimini; 38 da Rimini a Padova. Aggungiamo un po’ piú di tempo per superare le montagne; ma immaginando che Giotto non si spostasse a piedi, ma a cavallo o su un mulo, o con un carro, si deve pensare non ci volessero piú di due o tre giorni per recarsi da una all’altra di queste destinazioni. Ne abbiamo irrefutabile prova nel documento del 1334, che attesta come il corteo del cardinale Bertrando Dal Poggetto, in cammino per tornarsene in Provenza forse avendo con sé Giotto che tornava a casa sua, sia partito da Bologna il 28 marzo e arrivato a Firenze il 31, o il 1 aprile, si immagina viaggiando con agio, onori, riposi, eccetera. Un mondo piú lento del nostro, ma di sicuro capace di muoversi. F

Dove e quando «Giotto, l’Italia» Milano, Palazzo Reale fino al 10 gennaio 2016 Orario lu, 14,30-19,30; ma-do, 9,30-19,30 (gio e sa, apertura serale fino alle 22,30) Info www.mostragiottoitalia.it Catalogo Electa settembre

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grandi battaglie marignano

Quando gli Svizzeri non erano neutrali di Fabrizio Panzera e Roberto Roveda


A cavallo tra Quattrocento e Cinquecento il regno di Francia e i cantoni svizzeri si contesero aspramente i territori del ducato di Milano. Lo scontro decisivo tra gli eserciti del re francese Francesco I e le temibili milizie dei Confederati avvenne presso Melegnano nel settembre di cinque secoli fa. E fu la «Battaglia dei Giganti»... Battaglia di Marignano, 14 settembre 1515, olio su tela di Alexandre Evariste Fragonard. 1836. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

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lla fine del Quattrocento, l’Italia divenne terra di scontro e di conquista per le grandi potenze militari dell’epoca. Gli Stati italiani, infatti, territorialmente piccoli e divisi tra loro da fiere rivalità, erano sempre piú inadatti a fronteggiare la monarchia francese e l’impero degli Asburgo, entità statali dotate di risorse economiche e militari ben superiori. La Francia e l’impero entrarono quindi in una fase di scontro prolungato che aveva come obiettivo immediato il controllo della penisola italica e come traguardo finale la supremazia in Europa. In questo scontro si inserirono le ambizioni dei cantoni che componevano la Confederazione svizzera, una delle maggiori potenze militari dell’epoca (vedi box alle pp. 40-41). Verso la fine del XV secolo i vari componenti della Confederazione mostrarono, infatti, di avere differenti interessi nei confronti dell’Italia settentrionale. Uri – con l’appoggio degli altri cantoni della Svizzera centrale e di Zurigo – mirava all’espansione territoriale verso il ducato di Milano per controllare il passo del San Gottardo e gli altri valichi che conducevano ai mercati lombardi. Berna era invece interessata ai territori transalpini del ducato di Savoia e al passo del Gran San Bernardo, mentre le comunità del Vallese (con alla testa il vescovo di Sion) e le Tre Leghe grigie (le tre Leghe dei Grigioni: Lega Caddea, Lega Grigia e Lega delle Dieci Giurisdizioni) puntavano al controllo, rispettivamente, della Val d’Ossola e della Valtellina. Nel corso del Quattrocento i cantoni e i loro alleati tentarono piú volte di assicurarsi sbocchi a sud delle Alpi, ma dopo un’alternanza di trattative, vittorie e sconfitte militari, l’unica acquisizione stabile e duratura fu la Valle Leventina, sottoposta a Uri tra il 1439 e il 1441. Francia contro impero, con gli Svizzeri a fare da terzo incomodo e gli Stati italiani costretti a continui mutamenti di alleanze per non soccombere: fu questo lo scenario politico e militare in cui scoppiarono le cosiddette «Guerre d’Italia» (1494-1559), all’interno delle quali la battaglia di Marignano (odierna Melegnano, pochi chilometri a sud di Milano), combattuta tra il 13 e il 14 settembre del 1515, rappresenta un momento cruciale per la storia europea, ma soprattutto per le vicende dell’Italia settentrionale e della vicina Confederazione svizzera.

Prima di Marignano

Lo scontro decisivo del 1515 fu preceduto da un ventennio di alleanze, scontri e momenti di tregua. Nel 1494 la discesa di Carlo VIII di Francia verso Napoli e le pretese dinastiche di Luigi d’Orléans (il futuro re Luigi XII, il quale fece valere i diritti ereditati dalla nonna Valentina Visconti) sul ducato di Milano suscitarono la reazione degli Stati italiani, del papa, dell’imperatore Massimiliano I di Asburgo e di Ferdinando d’Aragona.

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grandi battaglie marignano

Durante la campagna napoletana di Carlo VIII, le offerte francesi di denaro e di cessioni territoriali indussero diversi cantoni svizzeri a inviare truppe, impiegate fra l’altro nel tentativo di conquistare il ducato di Milano. Poiché l’alleanza fu avversata da piú parti (in particolare da Berna e Zurigo) e l’arruolamento era molto praticato non solo nell’ambito dei canali ufficiali, mercenari svizzeri militarono anche nell’esercito del duca milanese Ludovico il Moro.

Scelte autonome

Nel 1495 Uri, Svitto e Lucerna approfittarono della difficile situazione in cui si trovava il duca di Milano per occupare di propria iniziativa le valli di Blenio e Riviera, mostrando cosí di voler perseguire i propri obiettivi indipendentemente dagli altri cantoni e dalla Dieta federale (la riunione dei delegati dei cantoni, dove si discutevano temi di interesse comune), che avrebbe dovuto assicurare ai Confederati un minimo di politica unitaria; un atteggiamento di autonomia, questo di Uri, Svitto e Lucerna, che fu poi seguito anche da altri cantoni nel corso delle guerre d’Italia. Dopo la sua ascesa al trono di Francia (1498), Luigi XII conseguí comunque un notevole successo diplomatico: facendo leva soprattutto sulla scarsa simpatia di molti per Ludovico il Moro e sull’ostilità nei confronti

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Una potenza militare

Il fascino delle armi Nella Histoire de la Suisse, lo storico François Walter ha giustamente definito la Confederazione degli inizi del XVI secolo come una «società guerriera». I giovani erano affascinati dalla gloria militare e dai rapidi arricchimenti che il mestiere delle armi poteva assicurare. I tredici cantoni che componevano allora la Confederazione godevano dal canto loro di una reputazione ambigua: da un lato il loro valore militare era ampiamente riconosciuto e i principi di mezza Europa ambivano ad assicurarsi i servizi dei mercenari svizzeri; dall’altro lato si associava loro l’immagine di montanari brutali e avidi di saccheggi. dell’imperatore Massimiliano I (allora contrapposto ai Confederati nella guerra di Svevia del gennaio-settembre 1499), nel marzo del 1499 stipulò un trattato che avrebbe dovuto garantirgli l’esclusiva della fornitura di truppe svizzere per un decennio. Le conseguenze furono la conquista francese di Milano nel settembre del 1499 e, nell’aprile successivo, la cattura di Ludovico il Mosettembre

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A sinistra Saint-Denis (Parigi), basilica. Particolare della tomba di Luigi XII e Anna di Bretagna in cui è raffigurata la battaglia di Agnadello del 1509.

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Qui sotto l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo in una illustrazione per l’opera Costumes historiques des XIIe, XIIIe, XIVe et XVe siècles, Parigi, 1861.

La fama dei mercenari svizzeri si era tuttavia diffusa nei secoli precedenti. Già all’inizio del XIII secolo ve ne erano al servizio dell’imperatore e alla fine del Duecento altri combatterono per Rodolfo I d’Asburgo (1273-1291). Dopo le battaglie condotte dai primi cantoni per affermare la propria autonomia nei confronti degli Asburgo, il fenomeno si intensificò nel XIV secolo, in particolare in Italia e nel ducato di Milano sotto dominio visconteo. Alla metà del Trecento fu soprattutto il servizio mercenario a favore della Francia che conobbe il piú forte sviluppo. Tra il 1474 e il 1477 le vittorie riportate nelle guerre di Borgogna contro Carlo il Temerario accrebbero la fama dei soldati svizzeri e portarono la Confederazione ad assurgere a potenza militare europea. ro; eventi, questi, che giunsero al termine di una serie di scontri che videro i Confederati protagonisti su entrambi i fronti. Ai combattimenti seguirono numerosi saccheggi in Lombardia da parte degli Svizzeri, nonché l’annessione della Val Riviera, di Blenio e di Bellinzona, poi definitivamente riconosciuti dal re di Fran-

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia.

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grandi battaglie marignano cia come baliaggi di Uri, Svitto e Nidvaldo con il trattato di Arona del 1503. Nella Confederazione stavano nel frattempo emergendo interrogativi sul servizio mercenario, non solo per il tentativo della Dieta federale di acquisire alcune competenze di controllo sui cantoni, ma anche per l’eco negativa suscitata in vasti strati della società elvetica dalle enormi perdite umane dovute alle fallimentari campagne di Luigi XII nell’Italia meridionale (vedi box a p. 45). Di fronte alla scarsa sensibilità del re di Francia verso i Confederati e in seguito alla posizione di preminenza da lui assunta nel contesto italiano (che minacciava tra l’altro le recenti conquiste svizzere a sud delle Alpi), si diffusero orientamenti antifrancesi che portarono, nel 1509, a non rinnovare l’alleanza del 1499.

L’egemonia svizzera su Milano

Grazie alla decisa opera di persuasione di Matthäus Schiner, fiero avversario dei Francesi (dal 1499 come vescovo di Sion e conte del Vallese; nel 1511 creato cardinale da papa Giulio II), si concluse invece nel marzo del 1510 un accordo per l’arruolamento di truppe al servizio di Giulio II, funzionale al disegno di quest’ultimo: dopo il ridimensionamento del ruolo di Venezia in seguito alla sconfitta, nel 1509, di Agnadello, vedeva nella A destra miniatura francese raffigurante Francesco I alla battaglia di Marignano. XVI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

A sinistra ritratto di Matthäus Schiner, vescovo di Sion. Olio su tela di scuola francese, XVI sec. Beauregard, Château.

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Francia il principale ostacolo all’egemonia dello Stato pontificio in Italia. Pur non aderendo formalmente alla Lega Santa, promossa dal pontefice nel 1511 assieme a Venezia, Spagna e Inghilterra (e di cui il cardinale Schiner fu uno dei principali artefici), l’apporto di truppe svizzere alle campagne condotte in nome della Lega e l’abbandono degli accordi con Luigi XII equivalsero a un appoggio esplicito da parte dei Confederati. Le prime iniziative finanziate dal pontefice e dai suoi alleati, e non coordinate, si risolsero perlopiú in scorribande nella regione subalpina. Nel 1512 la forza militare svizzera fu invece decisiva per una spedizione che portò alle capitolazioni di Cremona, Pavia e Milano e alla cacciata dei Francesi dalla Lombardia. La posizione di forza derivante dal settembre

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francesco i di francia

Il re cavaliere Grande protagonista della vittoria di Marignano fu Francesco I di Francia (1494-1547), uno degli artefici dell’affermazione della Francia come potenza europea. Il sovrano era coraggioso fino alla temerarietà e concepiva la guerra come uno scontro individuale, un duello tra teste coronate, che amava affrontare alla testa dei suoi cavalieri. Il suo piú grande avversario fu l’imperatore Carlo V, al quale aveva conteso la corona imperiale e che affrontò sui campi d’Europa per piú di un ventennio. Durante la battaglia di Pavia (1525), costata ai Francesi una tremenda sconfitta (vedi «Medioevo» n. 222, luglio 2015), venne fatto prigioniero e portato a Madrid. Riuscí a riacquistare la libertà cedendo a Carlo V il Milanese e il Napoletano in Italia e la Borgogna in Francia. Rientrato in Francia, riprese le ostilità con Carlo V, un conflitto segnato da vittorie, tregue e disfatte fino alla Pace di Cambrai (1529), con la quale Francesco I rinunciava definitivamente ai domini italiani ma riotteneva la Borgogna. Al di là della guerra e della politica, il re francese fu anche amante delle arti e protettore di artisti, collezionò soprattutto opere di scuola italiana, ebbe alla sua corte Leonardo e chiamò Benvenuto Cellini e altri artisti a lavorare al castello di Fontainebleau. A lui si devono i primi nuclei del Museo del Louvre e della Biblioteca Nazionale di Parigi. successo dell’impresa indusse i Confederati a porsi come interlocutori a pieno diritto delle potenze europee, imponendo l’insediamento di Massimiliano Sforza (figlio di Ludovico il Moro) quale duca di Milano. Divenendo di fatto suoi protettori, i cantoni svizzeri e le Tre Leghe dei Grigioni pretesero importanti contropartite sotto forma di denaro e territori, ossia Lugano, Locarno, la Vallemaggia, Domodossola, la Valtellina e le Tre Pievi (i territori di Gravedona, Dongo e Sorico, corrispondenti alla parte settentrionale del Lario).

Una vittoria decisiva

Il culmine della supremazia militare elvetica fu raggiunto con la vittoria ottenuta nel 1513 a Novara contro i Francesi, che permise agli Svizzeri di mantenere

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Saint-Denis (Parigi), basilica. Particolare di uno dei rilievi che ornano la tomba di Francesco I e Claudia di Francia nel quale si vede lo stesso sovrano attorniato da alcuni soldati che stanno dando il segnale d’inizio di una battaglia.

il controllo su Milano e suscitò l’ammirazione di molti commentatori contemporanei. Poco tempo prima erano state cacciate anche le guarnigioni francesi dai castelli di Lugano e Locarno. Le rivendicazioni spagnole su Milano, il riavvicinamento di Venezia alla Francia e i meno determinati progetti egemonici di Leone X, successore di Giulio II, stavano tuttavia nel frattempo cambiando gli intrecci delle alleanze. Ne derivò l’isolamento diplomatico dei Confederati, che nello scenario lombardo evidenziarono

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grandi battaglie marignano Il «quadrato» svizzero

Una formazione a lungo invincibile Nel Basso Medioevo i fanti confederati si rivelarono sempre superiori alle cavallerie nemiche. La loro forza strategica risiedeva nella potenza offensiva delle formazioni quadrate, che irrompevano a valanga nelle file nemiche. Inizialmente dotato solo di armi corte come alabarde e scuri, il «quadrato svizzero» si scagliava, di preferenza nel combattimento ravvicinato, contro

CONFEDERAZIONE ELVETICA

Francesco I contro Milano (giugno-settembre 1515) Francesi

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le schiere dei cavalieri, ostacolati dal peso delle proprie armature e dalla configurazione del terreno, riuscendo cosí a prevalere. Nel XV secolo l’armamento fu completato da picche di frassino lunghe 5 m: disposti in parecchie file lungo i suoi lati, i picchieri proteggevano le formazioni quadrate dagli attacchi della cavalleria in campo aperto; se

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questa si avvicinava troppo, cavallo e cavaliere venivano infilzati. Si creavano cosí brecce, nelle quali si gettavano gli alabardieri, che penetravano nella formazione nemica e la sconfiggevano nel corpo a corpo. Malgrado l’introduzione delle armi da fuoco portatili nel quadrato svizzero, l’affermazione dell’artiglieria ne sancí la scomparsa dai campi di battaglia.

A sinistra schema della battaglia di Marignano. In alto un’altra rappresentazione del celebre scontro, noto anche come

Battaglia dei Giganti: si tratta, in questo caso di un disegno acquarellato realizzato da Natale Datti. XVI sec. Chantilly, Musée Condé.

anche la loro incapacità di controllare in profondità le complesse strutture di uno Stato come quello milanese. Dal canto suo il nuovo re di Francia Francesco I di Valois (vedi box a p. 43) si pose fra i primi obiettivi la riconquista di Milano, e avviò pertanto una risoluta offensiva sul piano diplomatico e, soprattutto, militare. Il fronte antifrancese comprendeva, oltre ai Confederati, anche papa Leone X e l’imperatore Massimiliano I d’Austria, alleati del duca Massimiliano Sforza. Nell’ausettembre

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tunno del 1515, nell’Italia settentrionale tale coalizione disponeva di 40-50 000 uomini. Con 30 000 fanti e arcieri, reparti di cavalleria e un’imponente artiglieria (72 cannoni pesanti e 200-300 pezzi leggeri), Francesco I varcò le Alpi attraverso il difficile itinerario della valle della Durance e del Col d’Argentière. L’impresa venne considerata straordinaria, perché effettuata attraverso una strada appena costruita che si snodava lungo un itinerario precedentemente sconosciuto. Non a caso, Francesco I fu visto come un novello Annibale. La sortita del sovrano sorprese i 20 000 fanti svizzeri che controllavano i colli del Moncenisio e del Monginevro, e attendevano l’esercito francese a Pinerolo e a Susa. I Confederati si ritirarono allora in direzione di Milano, mentre Francesco avanzò verso Marignano, per congiungersi con l’esercito alleato dei Veneziani.

Verso lo scontro finale

Vista la situazione, una parte dei capitani svizzeri (principalmente quelli dei cantoni di Berna, Soletta e Friburgo) accettò di negoziare e, l’8 settembre 1515, stipulò con Francesco I il trattato di Gallarate, che prevedeva la fine delle ostilità e il versamento di 1 milione di corone ai Confederati. Tale decisione non ottenne tuttavia un consenso unanime, perché risultarono contrari in particolare i rappresentanti di Uri, Svitto e Glarona. Anche su pressione del cardinale Schiner, il 13 settembre una moltitudine di soldati svizzeri marciò in direzione di Marignano (lo scontro armato avvenne per la precisione tra questa località e San Giuliano Milanese, 16 km a sudest di Milano). L’avanguardia, composta da un migliaio di archibugieri scelti, affrontò le truppe di Francesco I verso le Illustrazioni ottocentesche raffiguranti un alabardiere elvetico (qui accanto) e una guardia svizzera (a destra).

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i mercenari

Al servizio (anche) della Patria I soldati svizzeri erano mercenari famosi e ricercati. Vi era una distinzione fra arruolamenti effettuati ufficialmente con il consenso delle autorità, in linea di principio gli unici autorizzati, e gli ingaggi individuali o di bande, spesso proibiti, a volte tollerati. Il servizio mercenario si trasformò progressivamente in un affare di Stato, posto sotto la supervisione dei governi cantonali che cercarono di controllarne l’esercizio. Gli assoldamenti si moltiplicarono nel XV secolo, frenati però dalle mire espansionistiche dei cantoni, che necessitavano di soldati per soddisfare le proprie ambizioni. Il successo del servizio mercenario fu dovuto a diversi fattori di natura militare. Va considerata la modernità del sistema di milizia svizzero, visto che la leva obbligatoria era un’eccezione in Europa prima della Rivoluzione francese. La chiamata alle armi era in genere ben accetta, perché identificata con la difesa di una «patria» – vallata, comunità o cantone – concreta. Inoltre la società confederata era pervasa da uno spirito guerresco

ed era sensibile al fascino della violenza e delle armi. I successi militari su nemici spesso divisi o deboli assicurarono da un lato ai Confederati una reputazione di invincibilità, dall’altro lato le loro attitudini belliche si saldarono con le nuove esigenze di milizie mercenarie delle monarchie europee, che non potevano piú servirsi degli eserciti feudali, ma non erano in grado di costringere i loro sudditi al servizio militare.

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grandi battaglie marignano

Marignano oggi

Dalla storia al mito La battaglia di Marignano rappresentò il culmine della potenza di Francesco I, il momento di maggior gloria di questo re-cavaliere che per celebrare la vittoria fece coniare una medaglia, sulla quale annunciava di aver vinto gli Elvezi come solo Giulio Cesare aveva fatto prima di lui: VICI AB UNO CAESARE VICTOS era, infatti, l’iscrizione prescelta. Anche da morto, Francesco I volle circondarsi, nella sua tomba nella basilica di Saint-Denis, di scene della battaglia di Marignano create dallo scultore Pierre Bontemps. La battaglia è celebrata in tutta la sua crudeltà nelle acqueforti di Urs Graf, pittore svizzero che aveva combattuto a Marignano. La vittoria di Francesco I è ricordata anche in un dipinto di Antoine Caron, realizzato originariamente per Fontainebleau (ora alla National Gallery of Canada a Ottawa), e in una tela di Alexandre-Évariste Fragonard nella Galleria delle Battaglie della Reggia di Versailles (vedi alle pp. 38-39). Vi è poi la canzone La bataille, famoso brano musicale del compositore rinascimentale francese

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Clément Janequin, in cui viene riprodotto con suoni onomatopeici il frastuono dello scontro di Marignano. Nella Confederazione la battaglia è stata lungo celebrata come esempio del valore militare svizzero, nonostante la sconfitta e come momento fondamentale per la nascita della neutralità della Confederazione. In quest’ultimo senso il ricordo dell’evento viene perpetuato ancora oggi dalla Fondazione Pro Marignano, con sede a Chiasso (www.marignano1515.ch) e che ha

Una delle acqueforti facenti parte del ciclo dedicato da Urs Graf alla battaglia di Marignano, nel quale l’episodio è illustrato con un crudo realismo. 1521. Basilea, Kunstmuseum.

come proprio motto la frase EX CLADE SALUS, «dalla sconfitta la salvezza». La fondazione, in occasione del quinto centenario della battaglia, si è occupata del restauro della cappella che raccoglie i resti dei soldati svizzeri caduti nello scontro e che sorge a Mezzano, nelle campagne tra San Giuliano Milanese e Melegnano. settembre

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Saint-Denis (Parigi), basilica. Un altro particolare della decorazione del monumento funebre di Francesco I e Claudia di Francia, nel quale è rappresentata la battaglia di Marignano.

cinque del pomeriggio; gli Svizzeri non riuscirono però a impossessarsi dell’artiglieria francese che, all’alba del 14 settembre, fece strage dei quadrati svizzeri tornati all’attacco. Il centro dello schieramento elvetico era tenuto dai cantoni di Uri, Svitto e Untervaldo; sull’ala sinistra c’erano Basilea, Sciaffusa e Lucerna; alla destra operavano Glarona, San Gallo, Appenzello e Zurigo.

Una strage che sconvolse l’Europa

Dopo un arretramento, i Confederati lanciarono una nuova offensiva che avrebbe potuto rivelarsi vittoriosa se non fossero sopraggiunti 12 000 uomini al servizio della Repubblica di Venezia, che diedero man forte alle truppe francesi. I Confederati allora ripiegarono verso Milano. La battaglia – in seguito ricordata anche come «Battaglia dei Giganti» per l’entità delle forze in campo e per la portata dello scontro – fece 5000-8000 vittime tra le file francesi e 9000-10 000 tra gli Svizzeri, pari a quasi la metà degli uomini impiegati. La strage impressionò profondamente i contemporanei e mostrò gli effetti drammatici delle bocche da fuoco in battaglia. A Marignano i Confederati, la cui tattica si basava sull’assalto con le formazioni quadrate, furono sconfitti dall’artiglieria francese e dall’arrivo delle forze veneziane. Il problema principale degli Svizzeri era nondimeno costituito da un sistema di comando collettivo e dall’assenza di disciplina a tutti i livelli. Nel 1515 la Dieta federale aveva delegato ai capitani la facoltà di continuare la campagna militare o di concludere la pace; aveva inoltre deliberato l’elezione da parte degli stessi contingenti di due comandanti supremi, che avrebbero dovuto esercitare la propria autorità con gli altri capitani e i rappresentanti delle Gemeinden (le assemblee plenarie dei soldati di un contingente cantonale). In questo Consiglio di guerra ogni cantone disponeva di un voto, ma le decisioni erano prese dalla Gemeinde stessa. Il 13 settembre i

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capitani decisero di rispettare il trattato di Gallarate, ma le Gemeinden della Svizzera centrale e orientale scelsero di combattere, sperando di ricavare un ricco bottino di guerra. E queste divisioni indebolirono il fronte elvetico.

La fine dell’espansionismo

La partecipazione diretta dei Confederati alle guerre d’Italia si concluse formalmente con la Pace perpetua del 29 novembre 1516 con la Francia, alla quale fece seguito il trattato di alleanza con la stessa Francia del 1521, che prevedeva anche la fornitura di truppe da parte svizzera. La Confederazione entrò allora definitivamente nell’orbita francese e vi rimase stabilmente anche dopo la fine delle lotte per l’egemonia in Italia. Dopo aver raggiunto, nel primo decennio del secolo, il culmine della propria potenza militare i Confederati abbandonarono in questo modo la loro politica espansionistica. Venne allora definito l’assetto territoriale e furono fissati i confini meridionali «ticinesi» della Confederazione: nel 1516 furono riconosciuti definitivamente ai Confederati Locarno, la Vallemaggia, Lugano e Mendrisio (quest’ultimo acquisito definitivamente nel 1521), cioè buona parte dei territori che costituiscono oggi il Canton Ticino. Vennero, inoltre, assegnati ai Grigioni la Valtellina, Chiavenna e Bormio, mentre la Val d’Ossola tornò allo Stato milanese e cosí pure, qualche anno piú tardi, le Tre Pievi. Sul piano interno, con la fine delle guerre d’Italia si assestò la struttura costituzionale della Lega dei 13 cantoni, mentre il superamento delle ripetute crisi permise di rafforzare il sentimento di un’appartenenza comune. L’esperienza delle guerre d’Italia lasciò tracce profonde nella società elvetica, soprattutto per l’attrazione esercitata dal mondo esterno sui membri delle élite e sui semplici combattenti, che spesso favorí una nuova apertura degli orizzonti mentali. La fine della superiorità militare nel confronto internazionale, le sconfitte e le enormi perdite indussero, infine, un nuovo atteggiamento nei confronti della guerra, attenuando l’euforia bellicosa e il clima di esaltazione della violenza che avevano caratterizzato gli anni a cavallo del 1500. In particolare emersero forti opposizioni contro il servizio mercenario e un dibattito di fondo sulla sua opportunità. F

Da leggere U Giuseppe Gerosa Brichetto, La battaglia di Marignano,

Gemini Grafica, Melegnano 2015 U AA.VV., «Marignano, battaglia di», «Italia, guerre d’»,

«Condotta di guerra», in Dizionario Storico della Svizzera (DSS; www.hls-dhs-dss.ch/i/) U Marco Pellegrini, Le guerre d’Italia 1494-1530, Il Mulino, Bologna 2009

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costume e societĂ la gestione dei rifiuti

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Un mondo di di Roberto Roveda e Francesca Saporiti

sporcaccioni

Se una macchina del tempo potesse condurci tra le strade di una città medievale, probabilmente saremmo colpiti, innanzitutto, da odori forti e penetranti e faremmo bene a camminare con circospezione... Cronache, opere letterarie e dipinti, infatti, ci dicono che lo smaltimento dei rifiuti non era in cima alla lista delle preoccupazioni della comunità

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occi, fibbie arrugginite, calzature ormai sfondate, lame spuntate: i rifiuti delle epoche passate giunti fino ai giorni nostri fanno la gioia di archeologi e paleoantropologhi. Gli oggetti buttati via e i rifiuti in generale, infatti, sono fondamentali per conoscere meglio usi, abitudini e vita quotidiana dei nostri antenati, tanto piú per la prima età medievale, un’epoca in cui scarti e immondizie venivano gettati nel primo posto comodo e accatastati senza troppa attenzione per l’igiene e i rischi per la salute. Quando si camminava per una cittadina medievale, era bene preI proverbi fiamminghi (particolare), olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1559. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie. Nella vivace e a tratti grottesca composizione del grande artista fiammingo, non mancano dettagli assai veritieri, anche per ciò che riguarda la gestione dei rifiuti.

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stare allora la massima attenzione a dove mettere i piedi. Le strade strette e tortuose, spesso prive di pavimentazione adeguata, erano imbrattate da uno strato di fanghiglia perenne: una miscela nauseabonda composta da rifiuti abbandonati, cadaveri di animali morti di stenti, scarti di beccai e conciatori, sterco di bestie ed escrementi umani... Camminando con gli occhi a terra, per evitare i cumuli di spazzatura, si correva però il rischio di non accorgersi del pericolo che poteva venire dall’alto: gli incauti passanti rischiavano infatti di essere colpiti dai rifiuti lanciati dalle finestre o che cadevano dalle latrine sospese.

Quasi un’arca di Noè

Uomini e animali davano un generoso contributo ai miasmi urbani. Le città medievali erano vere e proprie arche di Noè, i cui abitanti convivevano con animali domestici (oche e galline, mucche e buoi, ca-

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costume e società la gestione dei rifiuti A destra La cucina magra, incisione di Pieter van der Heyden, da un disegno di Pieter Bruegel il Vecchio. 1563. La scena sottolinea le miserabili condizioni di vita di una famiglia povera e non tralascia dettagli sulle assai approssimative condizioni igieniche della sua abitazione. In questa pagina piatti e boccali recuperati in vari butti scavati nella città di Faenza e databili tra il XIV e il XV sec.

pre e pecore, maiali, cavalli e muli), con numerosi parassiti (zecche, pulci, pidocchi) e famelici ratti. Nella città medievale, il butto (pozzo scavato in cortile direttamente sotto le finestre delle cucine o dell’unica stanza esistente) rappresentava il precursore delle moderne pattumiere. Nel butto si buttavano ossa e altri scarti di cibo, nonché rifiuti solidi inorganici. Per contenere il proliferare di insetti, parassiti e cattivi odori, il pozzo veniva chiuso con un coperchio in legno o una lastra di pietra e le immondizie in esso depositate venivano periodicamente cosparse di calce o cenere per favorirne la decomposizione.

Obbligo di avviso

Non tutti i rifiuti finivano in questi rudimentali scarichi, ma era abitudine diffusa gettare pattume e svuotare vasi da notte da abbaini e finestre in strada. Non riuscendo a vietare tale pratica, gli statuti comunali cercarono almeno di regolamentarla: si proibirono questi lanci durante il giorno, consentendoli solo dopo il terzo suono della campana serale; inoltre, si stabilirono appositi avvertimenti da urlare prima di svuotare il disgustoso carico; solo in

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caso di pioggia, il lancio era libero e non era necessario alcun avviso. Intorno al XIII secolo, pur rimanendo fedeli al pitale, nelle case della borghesia piú abbiente si diffusero i gabinetti a secco, costituiti da un sedile in legno o piú frequentemente da una semplice tavola, sistemati sopra un condotto che, scendendo lungo un’intercapedine nel muro, permetteva di scaricare le deiezioni direttamente all’esterno, sulla pubblica via. Spesso, nei quartieri piú poveri, i passaggi tra le case erano cosí stretti che i «servizi igienici» venivano allestiti ponendo tra una finestra e l’altra un’asse con un foro: l’unico sistema idraulico era, in realtà, la forza di gravità, che faceva finire tutto in settembre

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strada. Quando il livello dei rifiuti raggiungeva una soglia limite, i proprietari dei caseggiati muravano il vicolo, che diventava cosí una vera e propria latrina privata e prendeva il nome di tracasella o chiassetto. Questi rudimentali pozzi neri richiedevano una manutenzione e una pulitura periodica. Nel XIV secolo, a Milano, vigeva un vero e proprio calendario dello spurgo, in base al quale era vietato vuotare i pozzi neri da Pasqua a San Michele (fine settembre), ossia nei mesi piú caldi, per evitare la dispersione di liquami maleodoranti quando i miasmi sarebbero stati piú intollerabili. A partire dal Quattrocento, era vietato anche effettuare spurghi durante il giorno, se il duca o la duchessa si fossero trovati in città.

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A Firenze, all’ingrato compito erano addetti i votapozzi, che, appunto, svuotavano pozzi neri, cloache e cantine, sia dalla materia soda «bona per concio» e venduta a contadini e ortolani, sia dalla materia tenera, detta anche acquastrone o liquame, che nessuno voleva e che veniva gettata in Arno, perché non serviva a nulla. Spesso, per risparmiare, i proprietari dei caseggiati si accordavano per il ritiro dei liquami direttamente con i contadini, ma tale pratica era proibita, perché non garantiva uno smaltimento «corretto».

Norme poco efficaci

La città medievale non rimase passiva dinnanzi all’avanzata dei rifiuti, ma le diverse forme di governo e autogoverno locale, in particolare le

organizzazioni comunali del Nord e Centro Italia, si premurarono di stabilire norme di convivenza civile tali da migliorare e le condizioni igieniche e il decoro. I cittadini, infatti, percepivano il loro status come distinto e privilegiato, rispetto agli abitanti del contado. Ecco quindi moltiplicarsi norme, divieti e relative multe, per individuare e punire chi abbandonava, nei luoghi pubblici, masserizie, cadaveri di animali o cumuli di letame. C’era però una distanza enorme tra queste normative e la realtà. Le cattive abitudini erano difficili da abbandonare. I cumuli di letame conservati gelosamente nei pressi della propria abitazione, per esempio, non erano indizio di pigrizia del proprietario ma, anzi, per molti pote-

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A sinistra un altro particolare dei Proverbi fiamminghi (vedi alle pp. 48-49), nel quale un uomo soddisfa i propri bisogni senza curarsi della destinazione dei suoi escrementi: una prassi molto diffusa in epoca medievale. In basso una delle latrine apprestate nella Torre di Londra.

vano rappresentare un buon modo per arrotondare le entrate familiari. E ciò non era esente da rischi, poiché vietato dalla legge. In caso di ritrovamento, infatti, comportava multe salate e la confisca del corpo del reato. Spesso le prime disposizioni per la manutenzione delle vie erano piú orientate alla viabilità, che alla salubrità. A Genova, per esempio, con le varie disposizioni trecentesche De carrubeis scopandi e simili, priorità dell’autorità comunale era mantenere sgombri gli stretti carrugi da immondizie, letame e masserizie, non tanto per questioni d’igiene e decoro, quanto per garantire la fluidità della circolazione di persone e merci.

I primi uffici di sanità

L’aggravarsi delle condizioni igieniche e il proliferare di morbi ed epidemie, stimolarono l’istituzione di uffici di sanità, per cercare di gestire l’emergenza «peste» e per

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vigilare sull’osservanza delle leggi sulla pulizia e sul mantenimento di un regime sanitario adeguato. In tempi di epidemie, la paura rese esagerata la persecuzione di chi non rispettava le norme igieniche. A Parigi, per esempio, agli inizi del Quattrocento, si arrivò a condannare alla gogna chi non teneva pulite le proprie pertinenze e a impiccare chi veniva sorpreso a gettare rifiuti nella Senna. Alla preoccupazione per il decoro e la pulizia di strade e piazze non sempre si accompagnava un’eguale attenzione per la tutela dei corsi d’acqua, utilizzati come vere e proprie fogne a cielo aperto. Difficile credere a Bonvesin de la Riva (1240-1315) quando, decantando le bellezze di Milano, la descrive circondata da un fossato che contiene «non una palude o uno stagno putrido, ma l’acqua viva delle fonti, popolata di pesci e di gamberi». Già all’epoca, Seveso e Nirone erano fiumi inquinati dagli scarichi fognari e dai residui delle attività produttive, cosí come lo erano l’Arno o il Tevere, la Senna o il Tamigi. Ancora nel 1493, a Venezia, non ci si preoccupava dello stato dei canali, tanto da stabilire che le carni guaste «siano legate ad un sasso e gettate in acqua».

Salute a rischio

Le discariche improvvisate e i pozzi neri, male o per nulla impermeabilizzati, oltre che l’utilizzo sistematico dei corsi d’acqua come cloache, compromettevano la salubrità delle falde e delle fonti di approvvigionamento idrico della città. Le cisterne, i fontanili e i pozzi distribuivano cosí sorsate di colera, dissenteria ed epatiti assortite. A proposito di acqua, però, non è vero che l’uomo medievale fosse sporco e poco incline all’igiene: i bagni pubblici dell’antica Roma, infatti, non si estinsero con la caduta dell’impero. Pur essendo solo un pallido riflesso dei fasti delle terme romane, i balnea medievali

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toponomastica

Quelle strade «sconvenienti»... Le città moderne hanno ripulito la propria immagine non solo grazie agli operatori ecologici, agli impianti di depurazione e alla normativa ambientale. Un energico «colpo di spugna» è stato dato anche alla toponomastica. In epoca medievale, infatti, numerosi nomi di strade, vicoli e corsi d’acqua rimandavano al loro utilizzo come latrine. A Parigi, cosí come in molte località francesi, era possibile imbattersi in nomi con variazioni sul tema escrementizio: rue Merdeux, rue Merdere (oggi rue Verderet), rue Merdusson, rue des Merdons, rue Merdière, rue Basse-Fesse (situata a Beauvais, letteralmente: «abbassa le natiche»). Oltremanica, tra il XIII e il XIV secolo, a Londra ci si tappava il naso in Pissing Alley (in seguito ribattezzata Little Friday Street) o in Shitteborrowlane, mentre certamente, a Exeter, non si facevano pic-nic lungo gli argini dello Shitbrook. Anche in molte città e paesi d’Italia vi erano vicoli e strade con nomi particolarmente evocativi e la toponimia scatologica ha lasciato ancora oggi erano spazi funzionali, deputati alla pulizia del corpo, ma non dell’anima, stando alle reiterate invettive della Chiesa contro questi luoghi equivoci. Tuttavia, non furono queste accuse a causare, intorno al Trecento, il declino e la scomparsa dei bagni, quanto la paura delle epidemie che nel XIV secolo flagellarono l’intera Europa. A intasare le strade e inquinare le acque cittadine concorrevano

Particolare di una veduta di Parigi nel 1611. Fino a tempi relativamente recenti, la capitale francese conservava numerosi toponimi d’origine medievale, relativi alla presenza di latrine.

qualche traccia. Per esempio, è possibile trovare negli stradari di alcune località «via chiassetto», ossia «via gabinetto», mentre il Nirone, corso d’acqua che attraversa Milano, deve il suo nome al colore poco salubre che aveva nell’antichità, dovuto ai liquami maleodoranti che in esso confluivano. poi gli scarti e i reflui delle attività produttive, in particolare quelli delle tintorie, dai laboratori per la lavorazione del cuoio e degli opifici della canapa e della seta. Le attività di concia erano forse tra quelle piú rischiose per la salute e per il territorio: le corna, le unghie e le pelli dei bovini sprigionavano, in fase di decomposizione, vapori e liquami altamente tossici come ammoniaca, anidride solforosa e solfuro di

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costume e società la gestione dei rifiuti

idrogeno. Il grasso degli animali liberava gas, come la formaldeide, altrettanto nocivi. Inoltre, fra tutte le attività artigianali, la lavorazione del pellame era quella che produceva piú scarti e impiegava la maggior quantità di risorse idriche, che ne venivano contaminate. Tutte le concerie dovevano infatti trovarsi vicino a un corso d’acqua per effettuare operazioni co-

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me il lavaggio delle pelli fresche e il rinvenimento di quelle essiccate. E la «malza», ossia l’acqua di concia, era inquinante e molto maleodorante.

Fuori dai centri urbani

A partire dal XIII secolo le autorità comunali, cosí come i sovrani svevi e angioini nell’Italia meridionale, stabilirono norme igieniche che imponevano l’allontanamento del-

le attività produttive fuori dai centri abitati, ma queste prescrizioni rimasero spesso disattese. Tra i primi, Federico II, nel 1231, inserí norme di questo tipo nelle Costituzioni di Melfi. Considerate la prima raccolta di leggi in materia sanitaria, intimavano di spostare le lavorazioni artigianali piú nocive in zone periferiche se non addirittura esterne alle mura. Nel Mezzogiorno d’Italia, cosettembre

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A sinistra miniatura raffigurante un uomo che esce dal bagno, da un’edizione in francese dell’opera Factorum et dictorum memorabilium libri novem di Valerio Massimo. 1455 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso la fortezza di Château-Gaillard.

me ovunque, questo dislocamento richiese secoli e non poté mai completarsi del tutto: tintorie e concerie vennero espulse dalle città, ma filatori e tessitori rimasero all’interno delle mura, anche perché tra essi non vi erano solo officine artigianali, ma anche numerose piccole imprese casalinghe, ancor piú difficili da controllare.

Pulizie: a ciascuno il suo

Per secoli, il perfezionarsi e l’inasprirsi della legislazione per l’igiene e il decoro cittadino non compresero l’istituzione di un servizio pubblico di nettezza urbana. Le prime figure di netturbini, infatti, comparvero in Italia solo nel Cinquecento, quando

scesero in strada i «navazzari», precursori in Lombardia dei moderni operatori ecologici. La regola vigente nelle città medievali era del tipo «Chi sporca, pulisce», come prescriveva il Giudice delle strade a Milano nel 1346: «Netare, scopare et mondare le strate de la cità di Milano, cioè cadauno tanto quanto se extende la latitudine de la habitatione sua». Situazioni di emergenza richiedevano, però, bandi e interventi repentini, come a Siena nel 1296, quando venne indetta una gara pubblica per affidare per un anno a «una scrofa e quattro maialetti» il diritto di raccogliere «tutta la spazzatura e il letame e le granaglie di piazza del Campo e delle vie adiacenti alla medesi-

L’assedio di Château-Gaillard

La latrina che si trasformò nel cavallo di Troia Non solo i poveri, nei sobborghi, subivano gli effetti repellenti della cattiva gestione dei rifiuti, ma anche i signori dei castelli. Questi ultimi, infatti, scoprirono a proprie spese quanto potesse rivelarsi pericoloso tralasciare la manutenzione e lo spurgo di latrine e pozzi neri. Per esempio, nel 1204, dopo oltre un anno di assedio alla fortezza di Château-Gaillard (avamposto inglese fatto edificare da Riccardo Cuor di Leone lungo la Senna) le truppe francesi di Filippo II riuscirono a superare le difese della rocca anglosassone, intrufolandosi attraverso il pozzo di una latrina. I rifiuti accumulati lungo le pareti del condotto agevolarono la risalita degli incursori che poterono giungere fino al cortile centrale.

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costume e società la gestione dei rifiuti A destra e nella pagina accanto ancora due particolari dei Proverbi fiamminghi di Pieter Bruegel il Vecchio. Il primo, qui accanto, offre una testimonianza eloquente della presenza degli animali nei centri urbani, come nel caso dei numerosi maiali che girano per le strade dell’immaginaria cittadina; nel secondo si può vedere come la vendita e la lavorazione degli alimenti d’origine animale, destinata a generare scarti e liquami, potesse avvenire a ridosso di un pozzo d’acqua potabile.

ma». I maiali in funzione di spazzino erano molto comuni nel Medioevo: venivano allevati gratuitamente grufolando nei mercati, ma non pochi erano i guai che potevano causare (vedi box a p. 57). La pulizia era dunque lasciata all’iniziativa privata e anche in questo settore nacquero figure imprenditoriali piú o meno strutturate. Non solo vi era chi organizzava la raccolta degli escrementi per rivenderla ai contadini come letame e chi agiva da delatore sistematico, arrotondando con la percentuale sulle multe che aveva contribuito a far comminare, ma ci fu persino chi si specializzò nella caccia dei piú temibili tra i predatori urbani, i ratti. Gli «accalappiatopi» medievali disponevano di esche nauseabonde, di trappole efficaci e di famelici gatti o cani da caccia. In Inghilterra, per esempio, erano impiegati i beagles, per mettere letteralmente nel sacco, e cosí neutralizzare, i tremendi roditori.

Le buone pratiche

Il principio secondo il quale sarebbe buona norma trasformare i rifiuti «da problema a risorsa» sintetizza al meglio la filosofia medievale, che tendeva a riutilizzare ogni possibile tipo di scarto. Oltre agli scarti che potevano trasformarsi in concime, anche le ceneri dei focolari, per esempio, venivano utilizzate per il lavaggio di lane e tessuti, sia in ambito casalingo, sia artigianale.

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La cenere era molto richiesta anche dalle tintorie, quale ingrediente indispensabile per la preparazione del bagno di colore, grazie alle sue proprietà alcalinizzanti. I tintori medievali erano riciclatori provetti e perpetuarono l’uso, già attestato in età romana, dell’urina, che, mescolata ad acqua, veniva impiegata per lavare i panni lavorati e semilavorati. Pigiate, quindi sciacquate, battute e trattate con altre sostanze per infeltrirli e migliorarne la consistenza, le stoffe potevano essere soggette anche a una sorta di candeggiatura, se sottoposte ai vapori di zolfo. Se da un lato, quindi, le tintorie praticavano un riutilizzo virtuoso di materiali che altrimenti sarebbero finiti tra i rifiuti, dall’altro

(come già accennato), i residui di lavorazione e le acque reflue erano nauseabondi e spesso tossici, con il rischio di inquinare gravemente corsi d’acqua e terreni adiacenti. Il riciclaggio poteva avere perfino scopi bellici. Per esempio, per ottenere il salnitro (una delle principali componenti della polvere nera o polvere da sparo, il cui utilizzo si diffuse in Europa a partire dal XIII-XIV secolo) il letame di capra, mescolato a terra, cenere, urina e materiale inerte veniva raccolto in apposite grotte. Dopo un lungo periodo di macerazione, l’acqua era fatta filtrare in questo composto e veniva purificata cosí da ottenere polvere di nitrati di potassio o salnitro. settembre

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fauna urbana

Una convivenza non sempre facile Re incontrastato della fauna cittadina era il maiale. In branco o solitari, i suini si aggiravano indolenti, ma famelici, per le vie di borghi e città, grufolando tra le immondizie come alacri netturbini. Ingrassando, facevano felici i padroni, ansiosi di macellarli, e i passanti che, grazie a loro, potevano calpestare qualche rifiuto in meno. Tuttavia, la convivenza tra uomini e maiali non fu sempre facile: i suini erano spesso causa di incidenti e fecero anche una vittima illustre. Nel 1131, il principe Filippo, figlio primogenito del sovrano francese Luigi VI, il Grosso, morí a Parigi per una brutta caduta da cavallo, provocata proprio da un maiale che si era infilato tra le zampe del suo destriero. Stravolto dal dolore, il re fece abbattere l’animale e vietò la libera circolazione dei maiali per le vie della capitale. Solo le bestie appartenenti ai monaci erano escluse dal divieto, purché provviste di un campanello che permettesse di riconoscerle e controllarne i movimenti. Se l’atteggiamento verso i maiali era perlopiú ambivalente, i ratti, onnipresenti nelle città medievali, suscitavano il massimo ribrezzo. E ancor piú ne avrebbero destato, se agli uomini e alle donne dell’epoca fosse stato chiaro il rapporto che essi avevano con le terribili epidemie del tempo. Erano loro a dettare il calendario di morbi e pestilenze, insieme ai pidocchi. La peste (che aveva un tasso di letalità del 70-80% ed era causata dal batterio Yersinia pestis) si diffondeva, infatti, con piú virulenza dalla primavera all’autunno, secondo il ciclo vitale delle pulci che infestavano i ratti. Con l’avanzare dell’autunno e l’irrigidirsi dell’inverno, la peste lasciava solitamente posto al tifo petecchiale, trasmesso dai pidocchi. Questa malattia aveva un tasso di mortalità del 20-40% e si rivelava piú feroce nei mesi invernali, ossia quando la gente si lavava di meno e si copriva di piú, creando cosí il miglior habitat per i parassiti tra i panni sudici. Per quanto riguarda la gestione dei rifiuti, l’uomo nuovo del Rinascimento rimase legato alle vecchie, cattive abitudini. Il progressivo affermarsi delle monarchie nazionali portò, anzi, a un generale peggioramento delle condizioni igieniche delle città, non piú governate da libere istituzioni comunali, ma da sovrani lontani, che si rinchiudevano nelle loro corti. Importante non era la manutenzione ordinaria, ma solo quella straordinaria. Nel 1462 le grandi pulizie della città francese di Angers, che doveva rendersi presentabile in occasione della visita reale di Luigi XI, richiesero l’impiego di ben 109 carri per rimuovere tutta l’immondizia e il sudiciume della città e altri 57

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ne occorsero per riassettare, dopo la partenza del sovrano. Dunque, anche al tramontare del Medioevo, era impossibile passeggiare per le vie cittadine, senza inzaccherarsi scarpe e vestiti ed essere avvolti da miasmi pestilenziali.

Tacchi provvidenziali

E, a migliorare la condizione degli uomini e delle donne dell’epoca non furono grandi opere di idraulica o grandi strategie logistiche, ma... la moda. Come, per esempio, quella dei «calcagnini», calzature simili a trampoli, provviste com’erano di un tacco che poteva raggiungere i 50 cm: le nobildonne italiane e francesi non sapevano farne a meno, anche per mantenersi quan-

Da leggere U Carlo M. Cipolla, I Pidocchi e il

Granduca, Il Mulino, Bologna 2004 U Lorenzo Pinna, Autoritratto

dell’immondizia. Come la civiltà è stata condizionata dai rifiuti, Bollati Boringhieri, Torino 2011 U Ercole Sori, La città e i rifiuti. Ecologia urbana dal Medioevo al primo Novecento, Il Mulino, Bologna 2001

to piú possibile «sopraelevate» dal sudiciume della strada. Un eccesso, certo, che però la dice lunga su quanto fosse temuta l’idea di poggiare anche solo un piede nel fetido fango delle vie. F

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saper vedere monza

CAPPELLA DI TEODOLINDA

Scene da un matrimonio

di Elena Percivaldi

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Secondo la leggenda, il duomo di Monza sorse nel luogo indicato dallo Spirito Santo alla regina Teodolinda. Al suo interno, nella celebre cappella a lei dedicata e recentemente riaperta al pubblico, si può ammirare uno splendido ciclo di affreschi: che racconta un capitolo importante della storia longobarda in Italia Monza, duomo, cappella di Teodolinda. Un particolare delle Storie di Teodolinda, affrescate dagli Zavattari. Il grandioso ciclo venne realizzato in due fasi, tra il 1440 e il 1446.

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econdo una bella espressione della storica dell’arte Renata Negri, aprire la porta della cappella di Teodolinda è come sollevare il coperchio di un cofanetto prezioso: 500 metri quadrati di affreschi popolati da centinaia di nobili volti, istoriati da raffinate stoffe, eteree architetture e oggetti preziosi, vivificati dalla presenza di eleganti cavalcature e numerosi animali. Il tutto in un tripudio di oro, argento e lacche colorate. Gioiello del gotico lombardo, questo tesoro era divenuto quasi illeggibile e solo dopo un lungo restauro (vedi «Medioevo» n. 214, dicembre 2014; anche on line su medioevo.it) è tornato a risplendere. Collocato nel braccio settentrionale del transetto del duomo di Monza, il ciclo di affreschi è visibile appena varcata la cancellata ottocentesca: l’ambiente è completato dall’altare neogotico che custodisce la celebre Corona Ferrea (vedi box a p. 72) e dal sarcofago nel quale, nel 1308, il corpo della regina fu traslato dall’originaria sepoltura terragna. Smontati i ponteggi, ecco dunque rivelarsi, in tutta la loro bellezza, le Storie di Teodolinda, l’opera piú pregevole e meglio conservata degli Zavattari, famiglia di pittori milanesi attivi presso la corte dei Visconti: cinque registri sovrapposti, con quarantacinque episodi (vedi schema alle pp. 64-65).

Longobardi in abiti quattrocenteschi

Protagonista è la regina longobarda vissuta tra il VI e il VII secolo, la cui memoria si lega alla conversione del suo popolo al cattolicesimo (vedi box a p. 67). I personaggi raffigurati non hanno l’aspetto di «barbari»: niente tuniche, fibule, sax (il grande coltello a un solo taglio), spathae o corni potori, ma ricchi abiti realizzati con stoffe preziose, elaborate acconciature e oggetti raffinati, tipici delle corti quattrocentesche. Il ciclo, infatti, fu realizzato tra il 1440 e il 1446, con ogni probabilità su commissione del duca Filippo Maria Visconti, il quale intendeva celebrare le sontuose nozze della figlia con Francesco Sforza e, nel contempo, rendere omaggio a una stirpe, quella dei sovrani longobardi, dei quali egli stesso e la sua casata si proclamavano continuatori ed eredi.

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saper vedere monza Villa Reale

Santuario di S. Maria delle Grazie

S. Pietro Martire

S. Maria

Palazzo Comunale DUOMO

Dove e quando Cappella di Teodolinda Duomo, Monza Orario lu, 15,00-18,00; ma-sa, 9,00-18,00; do, 14,00-18,00; tutti gli orari sono garantiti compatibilmente con le funzioni liturgiche Info tel. 039 326383; e-mail: info@ museoduomomonza.it; www.museoduomomonza.it La cappella fu costruita nelle forme attuali poco prima dell’inizio della decorazione pittorica. Sorse su un preesistente ambiente rettangolare molto piú piccolo, affrescato probabilmente all’inizio del Trecento, e di cui, nel 1889, l’architetto milanese Luca Beltrami riportò alla luce alcuni frammenti. Il nuovo altare, dedicato a san Vincenzo martire, venne consacrato il 5 aprile 1433 dal vescovo della diocesi greca di Castoria, il francescano Bartolomeo da Cremona. Prendeva il posto di quello che, collocato vicino al sepolcro di Teodolinda, era stato a sua volta consacrato, secondo l’Obituario, il 19 giugno del 1346 dal vescovo di Bobbio: tale altare, però, esisteva già dalla prima metà del XII secolo e, stando alla testimonianza del Liber Ordinarius monzese, il 22 gennaio vi si celebravano la ricorrenza del santo e la memoria della regina, morta appunto in quel giorno.

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In alto Monza. Veduta della facciata del duomo, realizzata da Matteo da Campione e collaboratori. XIV sec. Vuole la leggenda che la chiesa, dedicata a san Giovanni Battista, sia sorta nel luogo miracolosamente indicato a Teodolinda dallo Spirito Santo, che si sarebbe manifestato sotto forma di colomba. Nella pagina accanto veduta interna del presbiterio. Ricchissimo insieme decorativo, comprende un magnifico paliotto con Storie del Battista, realizzato in lamina d’argento dorata su legno, smalti e pietre dure da Borgino dal Pozzo tra il 1350 e il 1357.

Il ciclo affrescato è come una grande, paradossale miniatura, finemente disegnata nei minimi particolari. Comincia dall’invio, da parte del re longobardo Autari, dei suoi legati presso la corte franca con la proposta di nozze per la sorella di re Childeberto. Respinta la profferta, Autari si rivolse allora a Teodolinda, ed ecco dunque i preparativi e le nozze dei due fino alla morte del sovrano (scene 3-23). Rimasta vedova, la regina ebbe diritto di scegliersi il nuovo marito.

A passo di corteo

Si passa allora alle vicende relative alla preparazione del nuovo matrimonio, con il duca Agilulfo, e allo sposalizio vero e proprio (scene 24-31). Fin qui la narrazione si sussegue lenta, quasi a passo di corteo. Segue una (segue a p. 67) settembre

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saper vedere monza Il monumento in sintesi

Un mito riletto in chiave cortese 3 Perché è importante Il ciclo con le Storie di Teodolinda è una delle uniche testimonianze pittoriche ancora visibili risalenti al periodo visconteo-sforzesco, durante il quale il ducato di Milano si trovava al centro di vivaci scambi culturali, economici e artistici con il resto d’Europa. 3 La cappella nella storia Dimostra il forte radicamento, a Monza, di un vero e proprio «culto» della regina longobarda che secondo la leggenda fondò la città e la dotò di importanti monumenti come lo stesso duomo che ne ospita le spoglie. L’opera fu commissionata in gran parte da Filippo Maria Visconti che si proclamava, con la sua casata, erede politico dei sovrani longobardi.

3 La cappella nell’arte Gli affreschi sono uno tra i piú splendidi esempi di pittura gotica lombarda. Dipinti dai fratelli Zavattari in due riprese, tra il 1440-1444 e il 1445-1446, rappresentano il mito di Teodolinda in chiave squisitamente cortese fornendo importanti dettagli sulla moda, la vita e le abitudini dei nobili del tempo.

A destra assonometria ricostruttiva del duomo che ne evidenzia le strutture interne e mostra la localizzazione della cappella di Teodolinda.

CAPPELLA DI TEODOLINDA

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LE DATE DA RICORDARE

In alto particolare della scena della posa della prima pietra del duomo, in cui sono raffigurati alcuni personaggi che trasportano materiali da costruzione.

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595-600 Costruzione a Monza di una prima basilica dedicata circa a san Giovanni Battista per volere di Teodolinda, regina dei Longobardi. Ricostruzione del palazzo reale voluto da Teodorico e sua decorazione con un ciclo di affreschi che rappresenta i costumi dei Longobardi (ricordati da Paolo Diacono). 603 Battesimo di Adaloaldo, figlio di Teodolinda e del secondo marito Agilulfo, in basilica a opera dell’abate Secondo di Non, consigliere spirituale della regina. 627 Morte di Teodolinda e sua sepoltura in S. Giovanni assieme al figlio, deceduto l’anno prima. 1300 Inizio della ricostruzione del duomo per il primo Giubileo della cristianità. 1308 Traslazione dei resti della regina e del figlio in un sarcofago. 1350 circa Matteo da Campione viene nominato direttore del cantiere dai Visconti, col compito di ricostruire l’edificio. L’architetto e scultore è autore della facciata, del battistero e del pulpito. Muore il 24 maggio 1396 e viene sepolto in duomo (la lapide si conserva tuttora). 1440 circa- Realizzazione dei primi quattro registri degli 1444 affreschi da parte della bottega degli Zavattari. 1445, Un documento affida anche la seconda tranche 10 marzo di lavori agli Zavattari, da ultimare entro l’autunno del 1446. 1489, Un fulmine miete varie vittime e rischia di 31 maggio compromettere l’edificio. XVI-XVIII Vari interventi sull’edificio e sugli affreschi secolo della cappella, alcuni dei quali rovinosi. 1895-96 Luigi Beltrami realizza l’altare neogotico posto nella cappella, che custodisce la Corona Ferrea. 1889 Scavi condotti sotto la direzione di Luigi Beltrami. Viene aggiunta la cancellata di ferro che separa la cappella dal resto dell’edificio. 1933-1936 Nuovi interventi di restauro. I lavori continuano nei decenni successivi e si accompagnarono, alla fine degli anni Novanta, a scavi archeologici che riportano alla luce, all’interno della basilica, alcune sepolture privilegiate di età longobarda (la tomba terragna della regina?). 2008 Inizio dei lavori di restauro degli affreschi, a cura dello studio milanese Luchini Restauri, in base al progetto varato da Regione Lombardia, Fondazione Cariplo, World Monumento Found, Marignoli Foundation e Fondazione Gaiani. 2015, aprile La cappella di Teodolinda viene riaperta al pubblico.

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saper vedere monza Visitiamo insieme

Un racconto in 45 quadri PRIMO REGISTRO (lunettone) ● Autari, re dei Longobardi, manda inviati a Childeberto, re dei Franchi, per chiedere la mano della sorella Clodesinde ● Childeberto riceve gli inviati, ma ha già promesso la sorella al visigoto Recaredo SECONDO REGISTRO (da sinistra a destra) ● Ritorno in Italia dei legati longobardi

A utari li incarica di recarsi dal duca dei Bavari, Garibaldo, per chiedere la mano della figlia Teodolinda ● Partenza dei legati per la Baviera ● Garibaldo riceve i legati longobardi ed esaudisce la loro richiesta ● Ritorno dei legati in Italia ● Autari riceve i legati dei Bavari ● Autari si reca in Baviera in incognito ● T eodolinda accoglie la delegazione e porge ad Autari la tazza contenente ●

la bevanda di benvenuto senza riconoscerlo ● Autari torna in Italia ● Festa alla corte longobarda TERZO REGISTRO (da sinistra a destra) ● Childeberto sconfigge Garibaldo ● Garibaldo, Teodolinda e il fratello di quest’ultima fuggono in Italia ● Teodolinda giunge in terra longobarda ● Gli inviati informano Autari dell’arrivo di Teodolinda ● Autari a cavallo va incontro a Teodolinda ● Incontro di Teodolinda e Autari presso Verona

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Nozze reali Ingresso della coppia reale a Verona ● Festeggiamenti per le nozze a Verona ● Autari conquista Reggio Calabria QUARTO REGISTRO (da sinistra a destra) ● Autari muore avvelenato a Pavia ● Teodolinda viene confermata regina dei Longobardi e ottiene di scegliere il secondo marito. La scelta cade su Agilulfo, duca di Torino ● Agilulfo riceve un messaggio di Teodolinda ● Agilulfo e Teodolinda si incontrano a Lomello ● Agilulfo si converte al cattolicesimo e cambia il suo nome in Paolo ● Incoronazione di Agilulfo a re dei Longobardi ● Nozze di Teodolinda e Agilulfo

Banchetto di nozze Partenza della coppia reale per la caccia ● Teodolinda sogna una colomba che le indicherà il luogo dove erigere una chiesa. Sua partenza alla ricerca del luogo adatto ● Apparizione dello Spirito Santo in forma di colomba QUINTO REGISTRO (da sinistra a destra) ● Posa della prima pietra del duomo di Monza ● Teodolinda fa trasformare gli idoli pagani nel tesoro cristiano della nuova chiesa ● Donazioni di Teodolinda al duomo ● Incoronazione di Adaloaldo e

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donazione di altri tesori Morte di Agilulfo ● Papa Gregorio Magno consegna al diacono Giovanni ricchi doni per il duomo di Monza ● Il diacono Giovanni consegna i doni al vescovo di Monza alla presenza di Teodolinda ● Morte della regina Teodolinda ● Il basileus Costante IV parte per muovere guerra ai Longobardi ● Arrivo in Italia di Costante IV ● Un eremita predice all’imperatore che non riuscirà a sconfiggere i Longobardi ● Costante lascia l’Italia ●

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saper vedere monza Visitiamo insieme PRIMO REGISTRO Antefatto tratto da Paolo Diacono che illustra i tentativi, falliti, di Autari di stabilire un’alleanza matrimoniale con la corona franca. Accolti con tutti gli onori, i messi inviati a Childeberto per chiedere la mano della sorella Clodesinde si vedono infatti negare le nozze, perché la fanciulla è già promessa al visigoto Recaredo. SECONDO REGISTRO Anche la seconda fascia ricalca il resoconto di Paolo Diacono (Historia Langobardorum III, 30). Vengono valorizzati i particolari da romanzo cortese ante litteram, soprattutto quelli sul primo incontro dei due futuri sposi, con lui che si presenta a lei in incognito: «Garibaldo fece venire la figlia e Autari restò a guardarla in silenzio, poiché era molto graziosa. Infine, soddisfatto per la sua scelta, disse al re: “Vostra figlia è davvero bella e merita di essere la nostra regina. Ora, se siete d’accordo, vorremmo ricevere dalle sue mani una tazza di vino, come ella dovrà fare spesso in avvenire con noi”. Garibaldo acconsentí e la principessa, presa una tazza di vino, la porse prima a colui che sembrava il piú autorevole, poi la offrí ad Autari, senza immaginare neanche lontanamente che fosse il suo sposo. Autari, dopo aver bevuto, nel restituire la tazza, sfiorò furtivamente con un dito la mano e si fece scorrere la destra dalla fronte lungo il naso e il viso. La principessa riferí arrossendo la cosa alla nutrice e questa le rispose: “Se costui non fosse il re che deve essere tuo sposo, certo non avrebbe osato neppure toccarti. Ma adesso facciamo finta di niente: è meglio che tuo padre non ne sappia nulla. Secondo me, però, quell’uomo è un vero re e un marito ideale”. In effetti Autari era allora nel fiore della giovinezza, ben proporzionato di statura, biondo di capelli e assai bello d’aspetto». E cosí viene infatti rappresentato, incarnando quindi l’ideale di principe cortese. TERZO REGISTRO Teodolinda giunge in Italia e sposa Autari: le nozze sono celebrate, secondo Paolo Diacono, nel «campo di Sardi», tra Verona e Trento, il 15 maggio 589. Le scene successive rappresentano i festeggiamenti. Seguono le conquiste di Autari al sud contro i Bizantini. QUARTO REGISTRO Sono illustrate la morte di Autari e le seconde nozze di Teodolinda con il duca Agilulfo. Anche in questo caso la narrazione ricalca fedelmente quanto scritto da Paolo Diacono. Unica eccezione è l’ultimo quadro, formato da due scene distinte: nella prima, composta da due episodi, Teodolinda sogna una colomba che le indicherà il luogo dove erigere una chiesa, poi parte alla sua ricerca; nella seconda lo Spirito Santo le appare in forma di colomba indicando il sito. La fonte è il trecentesco

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L’ottava scena del quarto registro raffigura il banchetto nuziale di Teodolinda e Agilulfo. Gli sposi sono rappresentati in atteggiamento distaccato dallo sfarzo mondano che li circonda.

Chronicon Modoetiense di Bonincontro Morigia. I cartigli contengono le parole «Modo» («ora») ed «Etiam» («certo»), la cui unione genererebbe il nome Modoetia (Monza). La trentesima scena è tra le piú celebri: rappresenta il banchetto di nozze, celebrato sotto un elegante architettura. Gli sposi non sembrano particolarmente coinvolti, né dalle vivande disposte sulla mensa riccamente imbandita né dai commensali bardati in sontuose e colorate vesti. Il loro sguardo sembra assente e trasognato. Il quarto registro, dopo la leggenda del sogno, è chiuso dalla scritta che fissa il termine dei lavori (1444) e reca la firma dei «De Zavatarijs». QUINTO REGISTRO Fu eseguito come seconda tranche dei lavori, tra il 1445 e il 1446, e rappresenta, come un lungo inciso, alcuni momenti della vita di Teodolinda legati a ricordi locali: la fondazione del duomo, la dotazione con doni di pregio da parte sua, del figlio Adaloaldo e di papa Gregorio Magno, l’incoronazione di Adaloaldo, la morte dei due sovrani fondatori, sepolti in duomo. Segue l’effimero tentativo di riconquista del regno longobardo da parte dell’imperatore Costante IV, che viene convinto da un eremita a desistere dall’impresa. L’ultimo registro si chiude col mesto ritorno in patria del basileus, accompagnato da una scritta eloquente: il popolo longobardo non potrà mai essere sconfitto («gens Langobardorum modo superari non posset»), finché godrà della protezione di san Giovanni Battista. settembre

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Quasi una femminista ante litteram Figlia del re baiuvaro Garibaldo e di Valdrada, a sua volta discendente da Longobardi della mitica stirpe dei Lithingi, Teodolinda nacque intorno al 570. Allora l’Italia usciva da un decennio di anarchia militare, seguita all’uccisione del re Alboino e del suo successore Clefi. Deboli e divisi, minacciati da Bisanzio e dalla nascente potenza franca, i duchi avevano poi deciso di porre fine ai contrasti ed eleggere un nuovo re nella persona di Autari. Il neosovrano si mostrò deciso a riprendere con forza la politica espansionista in Italia e a rafforzare il suo potere tramite alleanze dinastiche. Fallito il tentativo di unirsi ai Franchi, puntò al loro principale nemico: la corte bavarese, retta allora da re Garibaldo. Nel maggio 589, quando fu impalmata, Teodolinda era cattolica, mentre il marito era ancora pagano (o forse ariano). Ebbe però poco tempo per adattarsi alla vita di corte. Autari, infatti, fu avvelenato il 5 settembre 590, mentre erano in corso le trattative di pace con i Franchi. Data l’urgenza della situazione, e forse anche per il prestigio che si era guadagnata a corte, le fu dunque consentito di scegliere in autonomia il nuovo marito (ma la trasmissione del potere per linea femminile non era sconosciuta alle popolazioni di stirpe germanica). L’opzione cadde sul duca di Torino, Agilulfo, e le nozze furono celebrate a Lomello, non lontano da Pavia.

Abbandonate dopo la morte del suo consigliere Secondo di Non le posizioni vicine allo scisma tricapitolino (che rappresentava il dissenso di alcuni vescovi su questioni teologiche inerenti la natura di Cristo), la regina iniziò ad

avvicinarsi al papato, attirata dalla straordinaria personalità di Gregorio Magno. Non fu ostacolata dal marito, che pure cattolico non era: l’alleanza con la Santa Sede, infatti, poteva aiutare da un lato a consolidare il regno, dall’altro a togliere a Franchi e Bizantini un prezioso alleato. La regina si adoperò dunque per favorire la conversione dei Longobardi e facilitare la fusione definitiva tra conquistatori e conquistati. L’operazione fu condotta non solo restituendo al clero i beni sottratti durante l’invasione, ma anche

brusca e decisiva impennata: la fondazione e la dotazione del duomo e la morte della coppia reale (scene 32-40). Infine, il fallito tentativo da parte del basileus Costanzo IV di riconquistare l’Italia e il suo ritorno in Oriente accompagnato da un motto sull’invincibilità dei Longobardi fintanto che si manterranno fedeli a san Giovanni Battista (scene 41-45). Le scene offrono uno splendido spaccato sulla vita di corte nel Quattrocento, epoca in

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In basso ritratto di Teodolinda in un particolare dalla scena del banchetto nuziale.

costruendo chiese e monasteri (tra cui quello di Bobbio). Teodolinda e Agilulfo cercarono anche di conferire alla corona maggior prestigio, richiamandosi alla tradizione romana: privilegiarono Milano, ex capitale imperiale, a Pavia e avviarono un programma di evergetismo che prevedeva la costruzione di palazzi e il ripristino di chiese e monumenti. Monza, a sole 12 miglia dal capoluogo ambrosiano, fu scelta come residenza estiva e provvista di un palatium regio e di una basilica dedicata a san Giovanni Battista, subito dotata di ricchi doni (oggi conservati nel Museo del Tesoro del Duomo). La politica filocattolica di Teodolinda, però, suscitò i malumori dei tradizionalisti – i duchi di Trento, Cividale e Udine –, i quali rialzarono la testa alla morte di Agilulfo (616). La regina e il figlio riuscirono a governare per dieci anni: poi Adaloaldo fu detronizzato e, poco dopo, morí, forse avvelenato. Il 22 gennaio del 627 anche Teodolinda si spegneva. Le loro spoglie, seppellite nella basilica a loro tanto cara, furono traslate nel 1308 in un sarcofago di pietra collocato nei pressi dell’altare di san Vincenzo nel nuovo duomo che stava sorgendo sull’antica chiesa per volere dei Visconti. Nel 1889, dopo vari spostamenti, la tomba fu innalzata su quattro colonne e posta nella cappella a lei dedicata, contornata dagli affreschi degli Zavattari, dove riposa tuttora.

cui sono «trasferiti» gli eventi, resi quindi contemporanei ai committenti: si osservano balli, feste, banchetti, battute di caccia, si ammirano i particolari sulla moda, i costumi, le acconciature dell’epoca, si possono apprezzare atteggiamenti, gesti e attitudini. Due sono le fonti principali degli episodi: l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, il piú importante testimone dell’epopea longobarda, e il ben piú recente Chro-

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LA COPPIA REALE ESCE PER LA CACCIA Una restauratrice al lavoro sulla nona scena del quarto registro. Teodolinda e Agilulfo escono per una battuta di caccia. Nella scena successiva (a destra), Teodolinda, addormentata, sogna una colomba che le indicherà il luogo dove erigere una chiesa. In basso, a destra, si scorgono l’iscrizione «1444» e i versi in latino che marcano la conclusione della prima fase di esecuzione dei dipinti. TEODOLINDA INCONTRA AGILULFO A LOMELLO È la quarta scena del quarto registro. Vedova di Autari e confermata regina dai Longobardi, Teodolinda ha già scelto come nuovo consorte Agilulfo, duca di Torino, e incontra il futuro sposo a Lomello, alla presenza del vescovo e della corte.

nicon Modoetiense del cronista trecentesco Bonincontro Morigia. Dal primo, gli Zavattari ricavarono i particolari piú strettamente «storici», come i dettagli relativi al complesso iter che portò al matrimonio con Autari (compresa la romantica storia dell’incontro tra i due futuri sposi) e poi alle seconde nozze con Agilulfo.

Il sogno premonitore

Dal secondo, invece, i pittori milanesi trassero la leggenda che vuole il nome di Monza inventato dalla regina in persona mentre cercava il luogo adatto per fondare la chiesa del Battista, futura cattedrale della città. Una notte – racconta Bonincontro – Teodolinda sognò di doverla fabbricare là dove gli fosse apparso lo Spirito Santo in forma di colomba. Dopo aver a lungo viaggiato, la donna giunse a Olmea, una località sul Lambro cosí chiamata per via degli olmi che vi crescevano in abbondanza. Qui

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saper vedere monza TEODOLINDA PARTE DA MONZA Esortata dall’apparizione in sogno dello Spirito Santo, nelle sembianze di una colomba, nella decima scena del quarto registro del ciclo, Teodolinda parte alla ricerca del luogo in cui erigere una chiesa. Il punto esatto le sarà rivelato da una nuova manifestazione dello Spirito Santo sotto forma di colomba.

scese da cavallo e, riparatasi sotto l’ombra di un albero, vide finalmente comparire la colomba che, con voce umana, la esortò a procedere sul posto, pronunciando la parola latina «modo» («adesso»). Accogliendo il messaggio divino, la regina rispose «etiam» («certo»), e dall’unione dei due vocaboli – ma l’etimologia è fantasiosa – sarebbe nato Modoetia, l’antico nome di Monza.

Un mistero in quattro versi

Le pitture vennero realizzate in due fasi distinte: la prima, terminata nel 1444, è conclusa da un’iscrizione datata e firmata «de Zavatarijs» alla fine del quarto registro; la seconda, iniziata nell’inverno dell’anno successivo, si chiuse entro l’autunno del 1446. La scritta in sé è piuttosto interessante e racchiude anche un piccolo «giallo». Sono quattro versi in un latino piuttosto colto: «Suspice qui transis, ut vivos corpore vultus / peneque spirantes, ut signa simillima verbis, / De Zavatarijs hanc ornavere capellam / Praeter in excelso convexae picta truinae». Tradotti liberamente, significano: «O tu che passi, ammira i volti delle figure dipinte che quasi respirano e le immagini molto simili a un racconto. Gli Zavattari decorarono questa cappella eccetto la volta». Ed ecco il «mistero»: l’accenno agli Zavattari fu a lungo riferito ai committenti degli affreschi (alla fine del XVIII secolo, lo storico ed erudito Antonio Francesco Frisi li definiva «una delle estinte nobili famiglie monzesi») e non ai loro materiali esecutori. È invece ormai assodato che l’opera fu realizzata dall’omonima dinastia di pittori milanesi, costituita da Francesco («Franceschino»), Gregorio, Ambrogio e Giovanni: una famiglia il cui capostipite – il padre di Francesco, Cristoforo – all’inizio del Quattrocento aveva lavorato nel cantiere del nascente duomo di Milano. Ma se gli Zavattari realizzarono gli affreschi, chi fu allora il committente? La questione è complessa, ma si può cosí sintetizzarla. La prima tranche, costituita dal blocco omogeneo delle «storie matrimoniali» di Teodolinda e terminata nel 1444, fu voluta da Filippo Maria Visconti per celebrare le nozze della figlia Bianca Maria con Francesco Sforza, officiate a Cremona il 25 ottobre del 1441, sovrapponendo cosí idealmente il personaggio di Teodolinda a quello di Bianca Maria. Un matrimonio dal forte sapore politico, che Francesco aveva perseguito tenacemente, ponendo le premesse per il passaggio del potere, per via dinastica, tra i Visconti e gli Sforza. Il

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programma iconografico sarebbe stato elaborato da un dotto monzese della cerchia ducale, probabilmente il teologo francescano Martino Reco («Rechus») che compare in varie carte d’archivio.

Ritratti di Monzesi illustri?

Il secondo lotto, invece, fu voluto dal Capitolo di S. Giovanni, in accordo con il Comune di Monza. Lo dimostra il contratto relativo all’affidamento dei lavori del 10 marzo 1445, oggi conservato nel Fondo Notarile dell’Archivio di Stato di Milano. Rogato dal notaio monzese Gerardo Briosco, l’atto cita come committenti sette canonici appartenenti alla basilica: l’anziano arciprete Battista Bossi, i presbiteri Simone de Medici da Seregno e Stefano Vecchi, e Cristoforo da Lesmo, cappellano ducale di Filippo Maria Visconti. A questi si aggiungono due rappresentanti del Comune di Monza: il procuratore Bertolino Rabia e il fabbriciere Francesco Seroldono. Tutti personaggi locali, legati alla corte milanese. Costoro decisero quindi di aggiungere agli episodi già esistenti alcune scene di carattere locale: la critica ha anche proposto di individuare nella quarantunesima – che rappresenta la morte della regina – il ritratto di alcune di queste personalità monzesi. Ma dato il legame di molte di esse con la corte viscontea, anche questa parte dovette comunque essere realizzata con la piena approvazione del duca, il cui stemma compare infatti insieme alla sigla «FI MA» (Filippo Maria). settembre

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AUTARI TORNA IN ITALIA Nella nona scena del secondo registro, Autari ritorna in Italia dalla Baviera assieme a una delegazione di Longobardi. Si è recato in incognito alla corte di Garibaldo duca di Bavari e padre di Teodolinda, che gli ha già concesso la mano della figlia.

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saper vedere monza Il richiamo all’eredità longobarda da parte di Filippo Maria non era casuale: furono infatti per primi i Visconti a proclamarsene continuatori ed eredi come «re di tutta Italia». Lo dimostra la Chronica Danielis, scritta forse dal domenicano Galvano Fiamma prima del 1322, tracciando una linea ideale che da Desiderio – l’ultimo re, deposto da Carlo Magno nel 774 – giunge ai Visconti, passando per le controverse figure dei due Berengari e di Ugo di Provenza. Già Galeazzo II, nel 1359, aveva non a caso trasferito a Pavia, antica capitale del regno longobardo, la corte ducale ed eletto la basilica di S. Pietro in Ciel d’Oro, che già ospitava il sepolcro del grande re Liutprando, come ultima dimora per le sue ossa. Il processo si era compiuto con altri episodi.

Difensori della basilica

Nel 1397, due anni dopo l’acquisto del titolo di duca, Gian Galeazzo aveva ottenuto dall’imperatore Venceslao anche il feudo di Angera, i cui conti discendevano dai re longobardi, e, con esso, l’avallo imperiale a chiudere il cerchio dell’illustre genealogia. E il suo elogio funebre, miniato da Michelino da Besozzo, avrebbe esposto tutti i nomi dei prestigiosi antenati, passando per Ratchis, Astolfo, Desiderio, fino al re d’Italia e imperatore Berengario del Friuli. Dalla metà del Trecento, inoltre, i Visconti si erano proclamati difensori della basilica di

S. Giovanni Battista di Monza e del suo tesoro. E cosí come Teodolinda a suo tempo aveva fatto ricostruire a Monza il palazzo reale che era stato di Teodorico, adornandolo di affreschi che rappresentavano i costumi del suo popolo d’adozione, ora Filippo Maria faceva affrescare il «suo» duomo con un ciclo pittorico a lei interamente dedicato. La commissione del ciclo ai fratelli Zavattari e il relativo programma iconografico rivela dunque l’intenzione, conclamata, di legare indissolubilmente la stirpe regnante longobarda al casato visconteo. Una politica poi proseguita anche dagli Sforza, i cui storiografi di corte – da Giorgio Merula a Bernardo Sacco – si prodigarono in giudizi lusinghieri sull’antica gens germanica. Gli Zavattari realizzarono l’imponente apparato decorativo intervenendo di persona e coordinando un folto gruppo di artisti: sono state infatti individua-

la corona ferrea

Da Costantino a Napoleone Nell’altare della cappella di Teodolinda è custodita la Corona Ferrea, capolavoro di oreficeria e simbolo tra i piú importanti dell’Occidente. Formata da sei piastre d’oro finemente decorate con gemme e smalti incastonati, porta al suo interno un cerchio di metallo che secondo la tradizione fu ricavato da uno dei chiodi utilizzati per la crocifissione di Cristo e rinvenuto da sant’Elena nel 326 durante un viaggio in Palestina (in occasione del quale si dice che avesse trovato anche la Vera Croce): la preziosa reliquia sarebbe stata quindi inserita in un diadema fatto realizzare per il

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figlio Costantino. Grazie al prestigio conferito dal legame con la Passione di Cristo e con l’imperatore che diede libertà di culto al cristianesimo, la Corona Ferrea fu utilizzata nei secoli dai re d’Italia durante le incoronazioni per attestare l’origine divina del loro potere e, nel contempo, il loro legame con l’antico impero romano di cui si proclamavano eredi. Secondo le ultime ricerche scientifiche, la corona sarebbe stata realizzata in epoca tardo-antica – forse ostrogota – come insegna regale, poi trasferita ai re longobardi e infine pervenuta ai Carolingi, che l’avrebbero fatta restaurare e donata al duomo

di Monza. La sua storia è quindi indissolubilmente legata a quella del duomo e della città ed è simbolo indiscusso di sovranità. Come tale fu utilizzata non solo dai re longobardi, ma anche da Carlo Magno (800), Corrado di Lorena (1093), Corrado III di Svevia (1128), Federico Barbarossa (1158), Enrico VI di Hohenstaufen (1186), Carlo IV di Lussemburgo (1355), Carlo V d’Asburgo (1530), Napoleone Bonaparte (1805) e Ferdinando I d’Austria (1838). Paradossalmente, non fu invece mai indossata dai Savoia. Nel 1895-96 Luca Beltrami fece realizzare il bell’altare neogotico in cui da allora è conservata. settembre

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AUTARI MANDA INVIATI AL RE DEI FRANCHI CHILDEBERTO Nella prima scena del primo registro (qui fotografata durante il restauro), Autari, re dei Longobardi, invia una delegazione a Childeberto, re dei Franchi, per chiedere la mano della sorella Clodesinde. La richiesta, però, non può essere esaudita, perché la ragazza è già stata promessa in sposa al visigoto Recaredo. Nella pagina accanto la Corona Ferrea. Gioiello di oreficeria del IV-V sec., è venerata come una reliqua. Secondo la tradizione, fu realizzata con uno dei chiodi usati per la Crocifissione.

te almeno diciassette mani diverse. Dal punto di vista stilistico, il ciclo è stato accostato ad altre importanti opere superstiti del primo Quattrocento lombardo, in particolare a quelle di Michelino da Besozzo, di Antonio Pisanello e di Bonifacio Bembo.

Affinità e confronti

Si richiamano certo i Tarocchi Viscontei del Bembo, ma anche, e soprattutto, i cicli realizzati dal Pisanello nel castello di S. Giorgio a Mantova (1424-1426) e nella chiesa di S. Anastasia a Verona (variamente datati al 1433-34 oppure al 1437-38): affreschi dal gusto miniaturistico, in cui sono resi i ricchi particolari delle vesti e delle acconciature delle dame, i paramenti delle cavalcature, le armature dei cavalieri, il tutto immerso in una raffinata e fiabesca atmosfera cortese. Piú distanti, sebbene cronologicamente molto vicine (1435), sembrerebbero invece le Storie di san Giovanni Battista – e, in particolare, il Convitto di Erode – realizzate da Masolino da Panicale nel battistero di Castiglione Olona (Varese) per il cardinale Branda Castiglioni. Insieme a queste opere citate, agli affreschi del «Maestro dei Giochi» conservati a Milano in Palazzo Borromeo (1450 circa) e a ciò che rimane dopo la distruzione seicentesca dell’opera di Gentile da Fabriano nella cap-

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settembre

pella di S. Giorgio al Broletto di Brescia (1411-19), la cappella di Teodolinda è una delle uniche testimonianze pittoriche ancora visibili di quella straordinaria stagione in cui il ducato di Milano, in mano ai Visconti prima e agli Sforza poi, fu al centro delle piú interessanti dinamiche culturali, economiche e artistiche d’Europa. F

Da leggere U Arte lombarda dai

U Marco Rossi

Visconti agli Sforza. Milano al centro dell’Europa, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 12 marzo-28 giugno 2015), Skira, Milano 2015 U Renata Negri, Gli Zavattari: la cappella di Teodolinda, Fabbri-Skira, Milano 1969 U Roberto Conti (a cura di), Il Duomo di Monza, Electa, Milano 1990; 2 voll.

(a cura di), Lombardia Gotica e tardogotica. Arte e architettura, Skira, Milano 2005 U Roberto Cassanelli, Roberto Conti (a cura di), Monza. La Cappella di Teodelinda nel Duomo, Soroptimist International Club di Monza-Electa, Milano 1991 U Monza. La sua storia, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2002

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di Tommaso Indelli

Particolare di una tavola a colori degli inizi del Novecento in cui si immagina Enrico VI, con il suo seguito, alla battaglia di Barnet, che, combattuta nel 1471, fu uno degli scontri decisivi della guerra delle due Rose. Collezione privata.

Il rosso e il

BIANCO

Il conflitto scaturito dalla rivalità fra le casate dei Lancaster e degli York e conosciuto come «guerra delle due Rose» insanguinò le isole britanniche per trenta lunghi anni, in un succedersi di scontri campali, intrighi e tradimenti. Una pagina fosca, mirabilmente riletta da William Shakespeare, e che, tuttavia, pose le basi per la nascita di una nuova Inghilterra


Dossier

L L

a guerra «delle due Rose» (1455-1485), cosí denominata da quelle raffigurate nei blasoni delle due principali famiglie nobiliari coinvolte – rossa per i Lancaster e bianca per gli York – segnò, drammaticamente, la storia inglese del XV secolo. Fu una guerra civile, al pari di quella che, in Francia, piú o meno nello stesso periodo, opponeva Armagnacchi e Borgognoni (1407-1435), mentre il regno francese era anche alle prese con la guerra «dei Cent’anni» (1337-1453), che lo opponeva all’Inghilterra. La guerra delle due Rose creò le premesse per la nascita dell’Inghilterra moderna e, pur con il suo strascico di morte, distruzione, intrighi politici e amorosi, assieme alla peste del 1348 e alla guerra dei Cent’anni, può essere considerata un tassello importante di quella stagione nota come «autunno del Medioevo». Le sue cause vanno ricercate nelle pretese sul regno delle casate dei duchi di Lancaster e dei duchi di York, appartenenti entrambe alla dinastia franco-normanna dei Plantageneti, insediatasi in Inghilterra nel 1154, con l’ascesa al trono di Enrico II, figlio di Goffredo d’Angiò e della regina Matilde, nonché pronipote di Guglielmo il Conquistatore.

Un «colpo di Stato»

I Lancaster e gli York discendevano, rispettivamente, dai due figli del re inglese Edoardo III: Giovanni di Gand, duca di Lancaster, ed Edmondo di Langley, duca di York. I primi avevano preso il potere nel 1399,

LE CASATE DEI LANCASTER E DEGLI YORK

Edoardo III

(1327-1377)

sposa Filippa di Hainault Edoardo, il Principe Nero, sposa Giovanna di Kent

Lionello, duca di Clarence, sposa (1) Violante Visconti (2) Elisabetta de Burgh

Riccardo II

(1377-1399)

sposa (1) Anna di Boemia figlia dell’imperatore Carlo IV (2) Isabella di Francia, figlia di Carlo VI di Francia

Filippa sposa Edmondo Mortimer

Ruggero Mortimer sposa Eleonora Holland

Enrico V (1413-1422) sposa Caterina di Francia, poi consorte di Owen Tudor, conte di Richmond

Tommaso, duca di Clarence

Enrico VI

(1422-1461 e 1470-1471)

In alto ritratto di Enrico IV. Olio su tavola, 1590-1620. Londra, National Portrait Gallery. Nella pagina accanto, in basso ritratto di Enrico VII. Olio su tavola di anonimo olandese, 1505. Londra, National Portrait Gallery.

sposa Margherita d’Angiò Edoardo

con un «colpo di Stato» organizzato dal figlio di Giovanni di Gand, Enrico Bolingbroke. Questi, sbarcato in Inghilterra, dopo un lungo esilio (1399), depose il cugino, re Riccardo II, ucciso poco dopo (1400), e si fece proclamare re dal Parlamento, con il nome di Enrico IV. A lui successe Enrico V, alla cui

morte, nel 1422, salí al trono suo figlio Enrico VI di Lancaster: l’erede era all’epoca ancora un infante e fu dunque designato solo formalmente, per assumere effettivamente il potere nel 1437. Enrico VI ereditò una situazione complicata, per le difficoltà in cui l’Inghilterra si dibatteva sul continente, insan-

I RE PLANTAGENETI Enrico II (1154-89) Sposa nel 1152 Eleonora d’Aquitania, già moglie di Luigi VII di Francia.

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Riccardo I (1189-99) Detto «Cuor di Leone» partecipò alla terza crociata (1189-92) prendendo Messina, Cipro e San Giovanni d’Acri.

Giovanni Senzaterra (1199-1216) Deve il soprannome al fatto di non aver avuto la sua parte nella divisione dei regni amministrati da Enrico II, di cui era il quinto figlio.

Enrico III (1216-72) Figlio di Giovanni, divenne re a soli nove anni. Sposò Eleonora di Provenza (1236), da cui ebbe cinque figli.

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Qui sotto Cardiff Castle. Particolare di una delle vetrate istoriate con il ritratto di Riccardo III. L’opera si deve all’architetto e designer William Burges (1827-1881). Tommaso, duca di Gloucester Giovanni di Gand sposa (1) Bianca di Lancaster (2) Catherine Swynford Enrico IV

(1399-1413)

sposa Maria di Bohun

Giovanni, duca di Bedford

Edmondo, duca di York, sposa Isabella di Castiglia

Riccardo, conte di Cambridge, sposa Anna, figlia di Ruggero Mortimer

Edoardo duca di York

Giovanni Beaufort, conte di Somerset, sposa Margaret Holland

Humphrey, duca di Gloucester

Riccardo, duca di York, sposa Cecily Neville

Giovanni, duca di Somerset, sposa Margaret Beauchamp

Riccardo III

Edoardo IV

(1461-1470 e 1471-1483)

Edmondo Tudor, conte di Richmond, sposa Margherita Beaufort

(1483-1485)

sposa Elisabetta Woodville

Enrico VII (1485-1509) sposa Elisabetta

Giorgio, duca di Clarence

Edmondo, conte di Rutland

Edoardo V

Riccardo, duca di York

(1483)

Le date tra parentesi si riferiscono agli anni di regno

guinato dalle ultime battaglie che portarono alla fine della guerra dei Cent’anni. Soprattutto, fu una personalità debole, dominata dai consiglieri di corte e dalla moglie, la francese Margherita d’Angiò. Nella prima fase del suo regno il sovrano era stato succube degli zii paterni, Humphrey, duca di Glouce-

Edoardo I (1272-1307) Ebbe sei figli da Eleonora di Castiglia (tra cui il successore Edoardo) e tre da Margherita di Francia.

ster, e Giovanni, duca di Bedford. Alla morte di Giovanni (1435), il duca di Gloucester prese il potere, finché non venne giustiziato per tradimento (1447), un’accusa poi rivelatasi infondata, formulata dal partito di corte favorevole alla guerra a oltranza contro la Francia. La fazione che auspicava la pace coi Francesi era

Edoardo II (1307-27) Deposto dal Parlamento e obbligato ad abdicare, fu imprigionato e assassinato nel carcere di Berkley.

capeggiata dalla regina Margherita e dal suo amante, William de la Pole, duca di Suffolk, assassinato nel 1450, mentre il regno sprofondava nel caos, a causa della guerra contro la Francia, della crisi economica, del malessere sociale che serpeggiava tra i ceti popolari e per la concomitante epidemia di peste.

Edoardo III (1327-77) Il suo regno fu segnato dall’espansione territoriale in Scozia e in Francia.

Riccardo II (1377-99) Figlio di Edoardo, il Principe Nero, morì assassinato.

Le date tra parentesi si riferiscono agli anni di regno

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Dossier SKYE

Calais, ultimo possedimento inglese in Francia dopo la sconfitta nella guerra dei Cent’anni (1453)

REGNO

C Castelli dei Lancaster e loro vittorie

MULL

DI

C Castelli degli York e loro vittorie

SCOZIA

Spedizione di Enrico VII di Tudor e sconfitta degli York (1485)

Edimburgo

Situazione territoriale nel 1450

ISLAY Durham Bamburgh

ARRAN

Redesdale Tynedale Wark

Ulster

Warkworth Newcastle upon Tyne

Hexham 1464

Principali aree d’influenza dei Lancaster (Rosa rossa) Principali aree d’influenza degli York (Rosa bianca) Domini del duca di Clarence

Lumley Terre della Corona controllate Palatinato di Durham dai Lancaster Raby Confini di Contea (Inghilterra e Galles) Skelton Richmond Westmorland Bolton Y k hi Masham Yorkshire MAN Middleham York Spofforth Lancaster Dundalk Cawood Towton 1461 Wressel Palatinato Wakefield 1460 di Lancaster Irlanda Conisborough Sandal Lincoln Tickhill Dublino Rhuddlan Beaumaris Derby Bolingbroke Conway Chester Newark Tattershall Newcastle under Lyme Belvoir Castle Rising Blore Heath Tutbury 1459 Leicester Norfolk Caister Marche del Galles Ludford Stokesay Bedford Kenilworth Bridge Wingfield Mortimers Palatinato Cardigan 1459 Warwick Suffolk Cross Northampton Framlingham di Pembroke Edgecote Tewkesbury 1461 1460 St. Davis 1469 Skenfrith Cambridge Kidwelly Abergavenny 1471 Milford Haven Oxford 1455 1461 Pleshey Caerphilly Usk Essex Pembroke Barnet 1471 Swansea Wallingford Ogmore Londra Windsor Wiltshire Cardiff Leeds Reigate Farnham Surrey Kent Dover Somerset re Sussex shi Salisbury p Tiverton m Calais Herstmonceux Ha Devon Dorset Steyning Portchester Pevensey Okehampton Carisbrooke REGNO Corfe Cornwall Compton Carlisle Cumberland Appleby

DI

FRANCIA In questa pagina cartina che illustra la situazione politica della Gran Bretagna al tempo della guerra delle due Rose e i principali eventi legati al conflitto.

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Nella pagina accanto ritratto di Enrico VI. Olio su tavola, XVI sec. Collezione privata. La sua reggenza fu condizionata dalla debolezza e dall’instabilità psichica. settembre

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Tra il 1450 e il 1453 gli Inglesi furono sconfitti a Formigny e a Castillon, persero la Normandia e la Guascogna, conservando solo il possesso della città di Calais. Lo scontento, alimentato anche dall’eccessiva pressione fiscale, sfociò in una vasta rivolta, che coinvolse gran parte dell’Inghilterra sud-orientale, capeggiata da Jack Cade (1450). I rivoltosi arrivarono a occupare i sobborghi meridionali di Londra e sarebbero riusciti a far prigioniero lo stesso Enrico VI, se l’arcivescovo di Canterbury, John Kemp, non li avesse persuasi a desistere dalla ribellione. Cade fu catturato e giustiziato (1450), ma le sommosse continuarono, anche sotto l’impulso di nuovi fermenti ereticali che si rifacevano alle teorie elaborate, anni prima, da un teologo dell’università di Oxford, il prete John Wycliffe.

chiamato Edmondo Beaufort, duca di Somerset, avversario di Riccardo. Quest’ultimo reagí all’affronto, arruolò un esercito di sostenitori e, con il figlio Edmondo, conte di Rutland, sconfisse le truppe lealiste a Saint Albans, il 22 maggio del 1455. Il duca di Somerset morí in battaglia e Riccardo di York riottenne la carica di Lord Protettore fino al 1459, quando la guerra riprese, do-

Prima fase (1455-1461)

Mentre la situazione generale del regno si faceva sempre piú difficile, Enrico VI subí un vero e proprio tracollo psicologico (1453), che degenerò in una vera e propria forma di demenza, che lo rese inadatto a governare. La guida dello Stato passò nelle mani del Consiglio reale e di Margherita d’Angiò, mentre alla carica di Lord Protettore, tutore legale del sovrano e reggente del regno, fu chiamato Riccardo, duca di York, da sempre avversario della regina Margherita e dei suoi favoriti. Il partito ostile al reggente, guidato dalla regina Margherita, era però molto influente a corte, e, nel 1455, profittando del fatto che il re aveva momentaneamente riacquistato la salute mentale, fece in modo che Riccardo fosse estromesso dalle sue funzioni. Al suo posto fu

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po il fallito accordo di pacificazione del 1458, promosso dalla regina. Gli schieramenti erano ormai chiari. Da una parte i duchi di Lancaster, con il vecchio re, spalleggiato dalla moglie e da alcune delle piú prestigiose famiglie dell’aristocrazia – i de la Pole, duchi di Suffolk, i Beaufort, duchi di Somerset, i Percy, conti di Northumberland – dall’altra i duchi di York, che potevano vantare soste-

nitori altrettanto prestigiosi, come i Neville e le loro varie articolazioni parentali, tra cui i duchi di Kent, i marchesi di Montagu, i conti di Salisbury e di Warwick. Nel 1459, i sostenitori di Enrico VI furono sconfitti a Blore Heath (23 settembre), ma riguadagnarono terreno nella successiva battaglia di Ludford Bridge (12 ottobre). Gli yorkisti si ritirarono in parte in Irlanda, sotto la guida di Riccardo e del figlio Edmondo, e in parte a Calais, sotto la guida degli altri figli del duca di York, Edoardo, Giorgio e Riccardo, e di Richard Neville, conte di Warwick e governatore di Calais. L’anno successivo si ebbero gli scontri decisivi. Il 10 luglio, a Northampton, gli yorkisti sconfissero i Lancaster, facendo prigioniero re Enrico, che venne rimesso sul trono, sotto la reggenza di Riccardo di York, ma il Parlamento dovette approvare un decreto – l’Act of Accord – con il quale si stabiliva che, alla morte di Enrico VI, la corona sarebbe andata a Riccardo, mentre Edoardo di Lancaster, figlio di Enrico e principe del Galles, avrebbe dovuto rinunciarvi, in quanto figlio illegittimo di Margherita d’Angiò e del suo favorito, il duca di Suffolk (fatto di cui non esistono prove). Margherita, offesa dalla grave accusa, riuní le sue forze, attaccò gli yorkisti a Wakefield (30 dicembre del 1460), e inflisse loro una pesante sconfitta.

Seconda fase (1461-1471)

Nella battaglia di Wakefield le forze yorkiste erano state sbaragliate: Riccardo di York e suo figlio Edmondo, conte di Rutland, avevano trovato la morte, e la stessa sorte

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Dossier A sinistra miniatura di scuola inglese raffigurante la battaglia di Mortimer’s Cross e in particolare l’episodio secondo il quale Edoardo di York sarebbe stato spronato a battere i Lancaster dalla visione di tre Soli che si univano a formarne uno solo. XV sec. Londra, British Library. Sulle due pagine i resti del Sandal Castle, presso Wakefield, scelto da Riccardo III come dimora e poi come base per le operazioni nei territori settentrionali durante la guerra delle due Rose.

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era toccata a uno dei piú importanti sostenitori del partito yorkista, nonché cognato di Riccardo, Richard Neville, conte di Salisbury. La guida della fazione passò ai figli del duca di York: Edoardo, conte di March e, poi, duca di York, aspirante al trono d’Inghilterra, Giorgio, duca di Clarence, e Riccardo, duca di Gloucester. L’esercito venne invece affidato a Richard Neville (figlio e omonimo del Richard Neville caduto a Wakefield, n.d.r.), conte di Salisbury e, per via del matrimonio con l’ereditiera Anne de Beauchamp, conte di Warwick, meglio conosciuto come Kingmaker, «creatore di re». Edoardo e il conte di Warwick erano peraltro cugini, perché Cecily Neville, zia del Kingmaker, aveva sposato il padre del duca. Riorganizzatisi dopo la sconfitta patita a Wakefield, gli yorkisti attaccarono l’esercito nemico il 2 febbraio 1461, a Mortimer’s Cross, e, il 17 febbraio

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dello stesso anno, a Saint Albans, ottenendo, rispettivamente, una vittoria e una sconfitta.

La fuga in Scozia

Dopo la battaglia di Mortimer’s Cross, Edoardo di York prese Londra (9 marzo 1461) e, qualche settimana piú tardi, il 29 marzo, annientò le forze nemiche a Towton, in una delle battaglie piú sanguinose della guerra. Sul campo rimasero piú di 20 000 morti; Enrico VI di Lancaster fuggí in Scozia con la moglie Margherita

d’Angiò e il principe del Galles, Edoardo, al fine di riorganizzare l’esercito e opporre resistenza ai rivali. Nel maggio dello stesso anno Edoardo si fece incoronare re a Westminster dall’arcivescovo di Canterbury e cancelliere del regno, Thomas Bourchier. Nel 1465 Enrico venne infine catturato e rinchiuso nella Torre di Londra, mentre Margherita d’Angiò, col figlio, trovò rifugio in Francia, alla corte di Luigi XI di Valois. Fino ad allora, il partito dei Lancaster aveva continuato a creare

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Dossier A sinistra pagina miniata in cui compare un ritratto di Richard Neville, conte di Warwick, il Kingmaker, in armatura. Fine del XV sec. Londra, British Library. A destra miniatura raffigurante re Edoardo IV con Elisabetta Woodville e i figli che riceve in dono una traduzione dei Detti dei Filosofi. 1477 circa. Londra, Lambeth Palace Library.

gini modeste della donna, sia perché la regina brigò per assicurare feudi, ricchezze e vantaggiosi matrimoni allo stuolo interminabile dei suoi parenti. Elisabetta pretendeva di occuparsi anche degli affari del regno e favorí i matrimoni delle sorelle e dei fratelli con importanti esponenti dell’aristocrazia inglese, come i duchi di Kent e i conti di Essex. A corte, i principali avversari della regina erano Cecily Neville, la regina madre, e Riccardo, conte di Warwick. Quest’ultimo avrebbe voluto che re Edoardo sposasse una principessa della casa reale francese, e non approvò nemmeno il matrimonio della sorella di Edoardo, Margherita di York, con il duca di Borgogna, Carlo il Temerario, principale avversario del re di Francia, Luigi XI.

Il figlio di un arciere?

problemi, fomentando insurrezioni in Irlanda e ai confini con la Scozia. Nel frattempo, Edoardo IV metteva ordine nella sua vita sentimentale creando, però, le premesse per una serie di tensioni politiche che, di lí a poco, esplosero drammaticamente. Nel 1464, sposò Elisabetta Woodville, esponente della gentry, piccola nobiltà di campagna, per giunta lancasteriana. Affascinato dalla bellezza della giovane, Edoardo la portò all’altare e ne fece la regina d’Inghilterra l’anno successivo, in Westminster. Il matrimonio produsse non pochi malumori a corte, sia per le ori-

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Pertanto Warwick si ribellò nel 1469 e cercò di estromettere Edoardo dal potere, contando sull’appoggio del fratello del re, Giorgio di Clarence, a cui diede in moglie la figlia, Isabella, e che candidò al trono d’Inghilterra. La ribellione scoppiò mentre Warwick spargeva la voce di una presunta illegittimità di Edoardo IV, perché concepito dalla regina madre con un oscuro arciere, sir Blaybourne. In questi terribili frangenti, il re ebbe sempre l’appoggio di suo fratello, Riccardo di Gloucester, che non si fece coinvolgere nella cospirazione. Sconfitto a Edgecote Moor, Edoardo fuggí nelle Fiandre, ma, poco dopo, tornato in Inghilterra, recuperò la situazione a suo vantaggio, perdonando Warwick e il fratello Giorgio. Nel frattempo, il disettembre

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Dossier La carriera di Richard Neville, il Kingmaker, terminò bruscamente nell’aprile del 1471, sul campo di battaglia di Barnet A destra riproduzione settecentesca della pianta della Torre di Londra disegnata nel 1597 da William Hayward e John Gascoigne. La struttura fu a lungo utilizzata anche come carcere e comprendeva un’area in cui veniva allestito il patibolo per le esecuzioni. A sinistra miniatura raffigurante la battaglia di Barnet. XV sec. Gand, Biblioteca Universitaria.

sagio a corte era diventato sempre piú forte perché, durante la ribellione, Warwick aveva catturato e fatto mettere a morte, a Kenilworth, il padre della regina, sir Richard Woodville, e uno dei suoi fratelli, John. Nel 1470, scoppiò una nuova rivolta, nel Lancashire, guidata dal conte di Warwick, il quale, sconfitto, fuggí a Calais, con Giorgio di Clarence. Con l’appoggio di re Luigi XI, Warwick arruolò un esercito e si alleò con Margherita d’Angiò, moglie di Enrico VI di Lancaster, prigioniero nella Torre di Londra.

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I rivoltosi intendevano sbarcare in Inghilterra, deporre Edoardo e rimettere sul trono Enrico VI. A garanzia del progetto politico, Anna, la figlia piú giovane di Warwick, fu data in sposa all’erede al trono Lancaster, il principe del Galles, Edoardo, e il matrimonio si celebrò nella cattedrale di Angers.

La fine del Kingmaker

Sbarcato in Inghilterra, il Kingmaker ebbe ragione delle truppe yorkiste, occupò Londra e liberò Enrico dalla prigionia, reinsediandolo

sul trono (ottobre 1470). Edoardo fuggí in Borgogna dove ottenne aiuti dal cognato, Carlo il Temerario, e tornato in Inghilterra, nella primavera del 1471, si preparò a riconquistare il trono. Nel frattempo Giorgio di Clarence aveva tradito Warwick e si era alleato col fratello, Edoardo di York. Lo scontro con le truppe di Warwick avvenne il 14 aprile del 1471 a Barnet. Warwick fu sconfitto e ucciso in battaglia, mente il resto dell’esercito dei Lancaster si riorganizzava sotto la guida di Edoardo di Galles e di settembre

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Margherita d’Angiò, preparandosi allo scontro decisivo che si svolse il 4 maggio, a Tewkesbury, che fece registrare la pesante sconfitta dei lancasteriani. Il principe del Galles fu ucciso, mentre la madre venne fatta prigioniera e condotta nella Torre di Londra, dove rimase fino al 1485, quando, riscattata dal re di Francia, tornò in patria. Poco dopo la battaglia di Tewkesbury, Enrico VI, prigioniero nella Torre, fu ucciso, quasi certamente per mano degli stessi York. Enrico fu, senza dubbio, una «figura tragi-

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ca», al di là della descrizione fatta da William Shakespeare nell’omonimo dramma che, con il Riccardo III, rappresenta un’amara riflessione sul significato del potere e sul suo potenziale distruttivo, a cui fa da sfondo il trentennale conflitto tra Lancaster e York (vedi box a p. 86).

Credenziali eccellenti

Con l’uccisione di Enrico VI, i pretendenti Lancaster alla corona d’Inghilterra erano scomparsi, tranne Enrico Tudor, conte di Richmond, di origine gallese, che

vantava ottime aspettative sul trono perché era un discendente della casata, imparentato con l’ultima dinastia. Figlio di Margherita Beaufort ed Edmondo Tudor, conte di Richmond, Enrico, dopo la morte prematura del padre, venne affidato dalla madre per la sua educazione, anche militare, allo zio paterno, Jasper Tudor, conte di Pembroke. Margherita Beaufort era discendente di Giovanni di Gand, quartogenito del re Edoardo III, mentre Edmondo Tudor, era figlio di Caterina di Valois, figlia del re di

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Dossier la guerra a teatro

La versione di William La guerra delle due Rose fa da sfondo ad alcuni dei piú interessanti e suggestivi drammi storici di William Shakespeare, ispirati a eventi, istituzioni e personaggi della storia inglese. Il drammaturgo visse in età elisabettiana (1558-1603), nel periodo di massimo fulgore e sviluppo della dinastia Tudor, salita al potere dopo la trentennale guerra civile tra Lancaster e York. A quei fatti sono ispirati l’Enrico VI e il Riccardo III – scritti tra il 1588 e il 1594 – a cui sono da aggiungere il Riccardo II, l’Enrico IV e l’Enrico V, composti tra il 1594 e il 1599. Queste opere sono note anche come Ciclo della guerra delle due Rose, anche se non vi è prova che fossero state concepite proprio come appartenenti a un ciclo e destinate a essere rappresentate in sequenza cronologica. La guerra delle due Rose è peraltro argomento solo dell’Enrico VI e del Riccardo III, che narrano della guerra civile e del recupero dell’ordine sociale dovuto a Enrico VII Tudor. Shakespeare era consapevole del fatto che il conflitto aveva rappresentato la fine del Medioevo inglese, un intero mondo di valori fondato sul senso dell’onore, ma anche sull’esaltazione della forza bruta e del potere. Il 1485 appariva come un vero e proprio spartiacque tra epoche diverse, tra il dispotismo sanguinario dei Lancaster e degli York e quello «legale» dei Tudor, fondato sulla «ragion di Stato» e su una burocrazia articolata, lontano dall’anarchia nobiliare e dall’idea della «consacrazione divina» dei sovrani inglesi medievali. Nei drammi shakespeariani è chiaramente percepibile un’apologia del regno dei Tudor, ma essa non scade mai nel servilismo, perché l’autore seppe intercettare ansie, timori e problematiche politiche Francia, Carlo VI il Folle, e regina di Inghilterra, in quanto già moglie di Enrico V e madre di Enrico VI.

Una regina in esilio

Il nonno paterno di Enrico era un oscuro scudiero di corte gallese, Owen Tudor di Pembroke, partigiano lancasteriano, caduto durante la guerra civile (1461). Alla morte di Enrico V, Owen si era fatto largo a corte e aveva iniziato una relazione con l’ex regina, Caterina di Valois, ma non ci sono prove che l’abbia, poi sposata. Sta di fatto che l’ex regina aveva bisogno di un permesso

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del presente elisabettiano, proiettandoli nel passato dell’Inghilterra del XV secolo. È la passione per il potere a dominare i drammi storici shakespeariani, è la brama di dominio, la volontà di affermare se stessi, a rappresentare la molla della storia. Basta guardare ai personaggi del ciclo: Enrico IV fa uccidere Riccardo II, versando il sangue della sua famiglia, e altrettanto fa Riccardo III, uccidendo i nipoti e calpestando le leggi umane e divine. Entrambi sono dominati dall’ambizione, anzi Riccardo III è l’immagine del demone per eccellenza, inebriato dalla lotta per la conquista del «potere» e venendone infine travolto. In questa galleria di personaggi, la figura di Enrico V sembra salvarsi dalla dannazione: esempio di re pio, una sorta di«ideal king», è solo una breve parentesi nel succedersi degli eventi, e la tragica fine del suo successore, Enrico VI, dimostra che la nemesi storica non conosce ostacoli. Per quanto non desiderasse diventare re, detestasse il fasto di corte e non gli si potessero attribuire delitti, finí vittima della «maledizione Lancaster». Se con Enrico V, l’Inghilterra sembrava aver raccolto continui trionfi, sotto Enrico VI, il regno inglese venne travolto dalla sconfitta militare, dalla sovversione sociale e dalla guerra civile. La struttura dei drammi shakespeariani rimanda a una concezione non lineare, ma ciclica del divenire storico, secondo un meccanismo di peccato, punizione, redenzione. Non c’è speranza di un miglioramento della condizione umana, perché tutto è dominato dalle malsane passioni, dalla forza, dall’ambizione. La storia tende sempre a ripetersi nella vita dei singoli, come in quella delle nazioni.

del consiglio reale per contrarre un nuovo matrimonio, che non ottenne mai, e quando la relazione con Owen Tudor divenne nota (1436), suscitò uno scandalo. Caterina si chiuse – o venne rinchiusa – nell’abbazia di Bermondsey, dove morí nel 1437. Il re Enrico VI legittimò i fratellastri Edmondo e Jasper, attribuendogli, rispettivamente, il titolo di conte di Richmond e di Pembroke. Il giovane Enrico Tudor era, quindi, nipote di Enrico VI. La guerra civile tra Lancaster e York condizionò la vita del piccolo, il quale, all’indomani della battasettembre

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David Garrick, il piĂş grande attore teatrale inglese del Settecento, nel Riccardo III di William Shakespeare. Olio su tela di William Hogarth. 1741. Liverpool, Walker Art Gallery.

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Dossier glia di Towton, vinta dagli yorkisti (1461), fu sottratto allo zio Jasper e affidato a un cavaliere fedele a Edoardo di York, sir William Herbert, che ottenne anche la contea di Pembroke. Jasper Tudor fuggí in Bretagna, per tornare nel 1470, quando Enrico VI venne rimesso sul trono ma, dopo la battaglia di Barnet, che consacrò la vittoria della causa yorkista (1471), fu costretto a fuggire di nuovo in Bretagna. Portò con sé anche Enrico Tudor e lí rimasero, entrambi, ospiti del duca Francesco II, fino al 1485. La madre di Enrico, Margherita Beaufort, si trasferí a corte dove serví come dama della regina, ma non smise di tessere intrighi a favore del figlio e a danno degli York. Dopo la morte di Edmondo Tudor, contrasse altri due vantaggiosi matrimoni con membri dell’aristocrazia inglese. Il primo con Henry Stafford, conte di Stafford, il secondo con Thomas Stanley, conte di Derby e gran conestabile di Edoardo IV di York. Per garantire il po-

A destra Sanctuary, olio su tela di Richard Burchett. 1867. Londra, Guildhall Art Gallery. Nel dipinto si immaginano i lancasteriani che, per sfuggire a Edoardo di York, gettatosi al loro inseguimento, si sono rifugiati nell’abbazia di Tewkesbury. In basso ritratto di Riccardo III. Olio su tavola attribuito al cosiddetto Maestro Sheldon, metà del XVI sec.

Riccardo III

Fu vero «mostro»? La personalità di Riccardo III risulta realmente enigmatica e non è possibile ricostruirla sulla base dell’immagine tramandataci da William Shakespeare moltissimi anni dopo. Essa risente delle «deformazioni» dovute alla propaganda di Enrico VII Tudor, dei suoi successori, e alla creatività artistica del drammaturgo inglese che visse durante il regno di Elisabetta

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Tudor. Nel Riccardo III, la figura del Lord Protettore incarna il potenziale diabolico e corruttore del potere. Nella stesura del dramma, Shakespeare attinse alla biografia di Riccardo di Gloucester, scritta, anni prima, dal cancelliere del regno, Thomas More, condizionata, nel giudizio sul duca di Gloucester, dal funzionario reale fedele alla dinastia Tudor. Riccardo – crookback, il «gobbo» – è, nella sua stessa deformità fisica, settembre

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l’emblema del male, dell’ingiustizia, della prevaricazione. L’obiettivo dell’autore è chiaro: soddisfare le esigenze drammatiche e allinearsi alla propaganda politica Tudor. La scoperta dei suoi resti ossei, avvenuta nel 2012 a Leicester – presso il luogo in cui combatté la sua ultima battaglia – sotto le fondamenta della chiesa francescana di Greyfriars e l’analisi del DNA dello scheletro e della struttura dentaria, effettuata presso i laboratori dell’Università di Leicester, hanno confermato la presenza di una scoliosi idiopatica, sviluppatasi durante l’adolescenza,

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ma tale da non deformare l’immagine fisica del sovrano. In realtà. Riccardo III non fu piú malvagio di molti suoi contemporanei, ma rappresentò l’ultima figura di re inglese autenticamente medievale. La sua morte in battaglia, sopraggiunta mentre tentava di difendere, da cavaliere, la corona, fu l’ultima personificazione del monarca inglese come «fiore della cavalleria». Le spoglie di Riccardo III hanno trovato sepoltura definitiva nella cattedrale di Leicester, dopo i funerali solenni officiati il 29 marzo 2015 da Justin Welby, arcivescovo di Canterbury.

tere al figlio era necessario disporre di risorse e di alleanze, e Margaret ne era consapevole.

L’epilogo (1471-1485)

Nel 1471, consolidato il suo potere in Inghilterra, Edoardo IV regnò fino alla morte e i suoi ultimi anni furono piuttosto tranquilli. Nel 1474 il re stipulò un trattato, a Utrecht, con la Lega Anseatica, relativo ai privilegi fiscali e alle immunità di cui la Lega godeva in Inghilterra e che furono confermati dopo una breve guerra marittima (1469-1474). L’anno successivo, Edoardo volle rinverdire il prestigio delle armi inglesi, sbarcò a Calais e iniziò una nuova spedizione contro la Francia,

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Dossier in alleanza con il duca di Borgogna, Carlo il Temerario. Quest’ultimo si astenne dall’intervenire, preso com’era a incrementare le sue conquiste, e cosí Edoardo fu costretto a chiedere la pace a re Luigi XI. Il trattato di Picquigny pose fine alla guerra dei Cent’anni, prevedendo il versamento, al re inglese, di una somma di 75 000 scudi e di una pensione annua di 50 000, oltre che la città di Calais, sulla Manica, di cui gli Inglesi si erano impossessati nel 1347 e che conservarono fino al 1559. Altri 50 000 scudi furono versati da Luigi XI per riscattare dalla prigionia Margherita d’Angiò, che rientrò in Francia, dove morí nel 1482. Edoardo e i suoi successori conservarono il titolo di «Dei gratia rex Angliae et Franciae» («Per grazia di Dio re di Inghilterra e di Francia») fino al 1803.

Rapporti compromessi

Nel 1478, la scoperta di una nuova congiura ai danni di Edoardo causò la morte di suo fratello Giorgio, duca di Clarence, al quale il re, in fondo, non aveva mai perdonato il tradimento del 1469. I rapporti tra Edoardo e Giorgio si erano incrinati già nel 1472, quando il primo aveva acconsentito al matrimonio tra il fratello, Riccardo di Gloucester, e Anna Neville, figlia del conte di Warwick. Dopo la sconfitta dei lancasteriani e la morte del marito Edoardo (1471), Anna era stata affidata proprio alla tutela di Giorgio, consorte della sorella Isabella, erede del titolo di conte e dei beni paterni. Nel 1472, con la mediazione di Edoardo IV, si raggiunse un compromesso, in base al quale Riccardo sposava Anna, rinunciando a una fetta consistente dei beni che sarebbero spettati alla moglie. Nel 1476, morí anche Isabella e Giorgio rifiutò la proposta del re di contrarre un nuovo matrimonio con la figlia del duca di Borgogna, suo cognato. Morto Giorgio, Edoardo dovette coinvolgere, negli affari di Stato, il fratello minore Riccardo,

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A destra I figli di Edoardo, olio su tela di Paul Delaroche. 1830. Parigi, Museo del Louvre. Nel dipinto si immaginano Edoardo V e il fratello Riccardo che, rinchiusi nella Torre di Londra, attendono il momento in cui saranno giustiziati.

duca di Gloucester, al quale affidò il governo dei territori del Nord, con il compito di condurre una nuova guerra contro gli Scozzesi (14781482) che, guidati dal re, Giacomo III Stuart, si erano impossessati della città di Berwick-upon-Tweed. Edoardo fomentò una ribellione interna al regno di Scozia, guidata dal fratello del re, il duca di Albany: Berwick-upon-Tweed fu ripresa e anche Edimburgo venne occupata e devastata, dopodiché gli Inglesi siglarono un accordo che ristabiliva gli equilibri politici precedenti (1482). Alla morte di Edoardo IV (1483), salí al trono il suo primogenito, il principe del Galles Edoardo V. Dal momento che il nuovo re aveva appena 13 anni, la reggenza venne affidata, secondo le disposizioni del re defunto, a Riccardo di Gloucester, investito dal Parlamento della carica di Lord Protettore (vedi box alle pp. 88-89). Riccardo si preoccupò di garantire l’incolumità del piccolo Edoardo e del fratello, Riccardo di Shrewsbury, facendoli trasferire nelle Torre di Londra, in attesa della cerimonia solenne dell’incoronazione del primo, a Westminster. Nel frattempo, il Lord Protettore dovette fronteggiare un tentativo insurrezionale, fomentato dal fratello della regina Elisabetta – Antony Woodville – e dal figlio di primo letto della stessa, Riccardo. Catturati, i due furono giustiziati per alto tradimento, mentre la regina trovava rifugio, con gli altri figli, nell’abbazia di Westminster. Riccardo venne poi a sapere che il matrimonio di Edoardo con Elisabetta non era valido, secondo la legge canonica, perché al tempo della presunta celebrazione il re era fidanzato con Eleanor Talbot, già ve-

Didascalia i principi della torre aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam Poco dopo l’incoronazione consent, perspiti III, di Edoardo di Riccardo conseque nis e Riccardo, i «principi della maxim Torre»,eaquis non si seppe piú nulla e si earuntia diffusecones la voce che fossero stati apienda. soppressi, per ordine dello zio,

Vite sventurate

dal sovrintendente della Torre, sir James Tyrrell. Ancora oggi, questa è la versione ufficiale dei fatti. Nel 1674, durante i lavori di restauro nella Torre, furono scoperti due corpi appartenenti a fanciulli di età compresa tra i dieci e i quindici anni: vennero identificati con i figli di Edoardo, ma non è mai stato eseguito alcun esame scientifico su quei resti, sepolti piú tardi a Westminster. Sta di fatto che anche altri avevano interesse alla morte dei principi e, tra questi, Margherita Beaufort, madre di Enrico Tudor, forse da individuare come la vera mandante dell’assassinio, oppure lord Buckingham, a cui Riccardo aveva affidato la custodia dei principi.

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Dossier Nella pagina accanto schema dei principali movimenti di truppa nel corso della battaglia combattuta a Bosworth il 22 agosto 1485. In basso litografia a colori in cui si immaginano gli istanti successivi alla morte di Riccardo III, che cadde combattendo a Bosworth.

La battaglia di Bosworth Field

Quella storica frase... A Bosworth Field, Riccardo aveva a disposizione circa 10 000 uomini, rispetto ai 5000 del suo avversario, male armati ed equipaggiati, ma le sorti della battaglia furono determinate dal tradimento di alcuni dei suoi sostenitori, tra cui sir Henry Percy, conte di Northumberland, comandante della retroguardia, e sir Thomas Stanley, conte di Derby, terzo marito di Margherita Beaufort, che assieme al fratello, William, negò aiuto a Riccardo, nonostante suo figlio, George, fosse prigioniero del re. Riccardo III fu ucciso da un colpo al cranio sferrato da un alabardiere gallese e ciò sarebbe confermato dagli esami effettuati sul corpo, dopo il ritrovamento. In ogni caso è poco probabile che Riccardo, prima di morire, disarcionato dal suo destriero, abbia pronunciato la frase attribuitagli da Shakespeare, nel Riccardo III, «Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!», né cercò di fuggire, ma affrontò eroicamente la morte.


Market Bosworth Near Coton 8 9

Shenton

Campo di Riccardo III

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Centro visitatori

Ambion hill

madre di Enrico Tudor, potenziale erede al trono inglese. Nell’estate del 1485, Enrico sbarcò nel Galles, a Milford Haven, arruolò un esercito tra i suoi sostenitori e marciò contro Riccardo. Lo scontro avvenne presso Leicester, a Bosworth Field, il 22 agosto del 1485, e Riccardo fu sconfitto e ucciso (vedi box in queste pagine). Enrico VII, cosí, iniziò il suo regno, schiudendo le «porte della modernità» alla storia inglese (vedi box alle pp. 94-95). Il re annunciò il suo fidanzamento con la figlia di Edoardo IV, Elisabetta di York, che sposò l’anno Posizione dei tre contingenti principali dell’esercito di Riccardo III: 1. Norfolk; 2. Riccardo III; 3. Northumberland

Whitemoors

Marcia dell’esercito di Enrico Tudor e principali posizioni delle sue truppe: 4. Talbot; 5. Oxford; 6. Enrico Tudor e John Savage; 7. Sortita di Enrico per attaccare le forze di Stanley Truppe di Stanley: 8. Thomas Lord Stanley; 9. Sir William Stanley

dova di sir Thomas Butler, conte di Shrewsbury. La denuncia fu fatta da Robert Stillington, vescovo di Bath, il quale asserí di essere stato il prete officiante le nozze. Poiché, secondo il diritto canonico dell’epoca, gli sponsali equivalevano a un vero e proprio «accordo prematrimoniale», re Edoardo risultava essere bigamo! Riccardo convocò il Parlamento per far approvare un decreto – il Titulus Regius – con il quale, considerate nulle le nozze di Edoardo con la Woodville, i «principi della Torre» erano dichiarati illegittimi e privati della successione al padre. Nel luglio del 1483 il duca di Gloucester si fece incoronare re, a Westminster, dall’arcivescovo di Canterbury, Thomas Bourchier. Poco dopo l’incoronazione, dei «principi della Torre» non si seppe piú nulla, mentre si diffondeva il sospetto che fossero stati soppressi per ordine dello zio (vedi box a p. 90). Nel 1483 furono scoperte altre due congiure, entrambe represse nel sangue. La prima fu ordita dal barone di Hastings – William Hastings

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Aree paludose

– l’altra dal duca di BuckingDirezione della ritirata dei superstiti dell’esercito di Riccardo ham – Henry Stafford – che dopo la morte del sovrano venne arrestato e giustiziato. Nella prima, a quanto sembra, era coinvolta anche Jane Shore, l’asuccessivo. Il matrimonio fu felice, mante di Edoardo IV. La donna fu allietato da molti figli, e con questa arrestata e liberata solo dopo la fine unione Enrico univa il suo sangue della dinastia York (1485). a quello degli York, la dinastia spodestata. In tal modo, suggellava, La continuità della stirpe nella sua persona, la fine della terriNel frattempo, la vita familiare di bile guerra civile e volle che la rosa Riccardo si complicava, perché il re araldica Tudor fosse ornata di rosso, perse il figlio Edoardo, principe del con un cuore bianco, a suggerire la Galles (1484), e l’anno successivo fusione, nella nuova famiglia rela moglie, Anna Neville. Nel 1485, gnante, del sangue e del prestigio si diffusero voci che ne minarono dei Lancaster e degli York. ulteriormente la credibilità e la L’ex regina, Elisabetta Woodvilreputazione. Si vociferava di una le, fu persuasa a ritirarsi nell’abpresunta relazione sessuale del re bazia di Bermondsey, dove rimase con la nipote, Elisabetta Woodville, fino alla morte (1492). Fu sepolta e del fatto che Riccardo intendeva nella St. George’s Chapel, nel casposarla per garantire continuità stello di Windsor, accanto al marialla sua stirpe, ma anche per ricoto. Anche la «regina madre», Cecily stituire il legame politico e familiaNeville, vedova York, fu costretta re con la cognata, la regina Elisaa ritirarsi a vita privata, fino alla betta, che, nel frattempo, era ritormorte (1495). Enrico ricompensò nata a corte. Intanto, la vedova di lo zio, Jasper Tudor, nominandolo re Edoardo cominciò a tessere traduca di Bedford e dandogli in spome con lady Margherita Beaufort, sa la sorella di Elisabetta Woodvil-

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Dossier verso l’età moderna

Nascita di una nazione Con la battaglia di Bosworth Field terminava la guerra delle due Rose, che dissanguò le principali famiglie dell’aristocrazia inglese, a partire dai Lancaster e dagli York, per ridiscendere, lungo la piramide sociale, ai de la Pole, ai Beaufort, ai Neville. L’aristocrazia inglese fu annientata non solo da un punto di vista biologico, ma anche economico-finanziario, tanto che buona parte di essa scomparve e i suoi feudi andarono a ingrossare il demanio regio. La nobiltà feudale risultò cosí indebolita da non poter opporre alcuna resistenza al potere regale dei Tudor, che andò sviluppandosi, sempre piú, sulla strada del centralismo politico-burocratico, fino alla fine della gloriosa dinastia (1603). L’antica nobiltà feudale fu soppiantata dalla gentry di provincia, spesso imparentata con famiglie di estrazione borghese e cittadina, legate alle attività produttive e commerciali. In tal modo si posero

le premesse – anche in Inghilterra – cosí come avvenuto in Francia, per lo sviluppo di uno Stato fondato su un solido apparato burocratico e su un’aristocrazia basata sull’idea di «servizio» nei confronti del re, e non solo sul possesso di feudi, sul prestigio della genealogia nobiliare e sulla disponibilità di vaste risorse economiche e militari. La nuova nobiltà doveva al re fortune e prestigio, pertanto tendeva a essergli fedele, coadiuvandolo nell’amministrazione militare dello Stato e in quella civile. Dalla guerra scaturí un regime non piú fondato sui legami di fedeltà personale tra signore e vassallo, ma su un’articolazione amministrativa forte, centralizzata, con al vertice il sovrano. Con i Tudor, furono poste le basi per l’incorporazione del Galles, dell’Irlanda e della Scozia nel Regno Unito. Il fatto che Enrico VII fosse di origine gallese costituí un buon inizio, mentre in Irlanda, tra il 1494 e il 1495, fu usata la mano pesante con la Ritratto della famiglia di Enrico VII, sopra i cui componenti volteggia l’immagine di san Giorgio che annienta il drago. Olio su tavola di scuola fiamminga, 1505-1509. Royal Collection Trust. Il re e la sua consorte, Elisabetta di York, figurano ai lati dell’angelo e sono seguiti dagli eredi maschi e femmine.

le, Caterina. Margherita Beaufort, madre di Enrico, che tanto si era prodigata per vederlo sul trono, fu chiamata a corte e si fregiò del titolo di regina madre. Nel 1496 si ritirò a vita privata, per poi tornare alla ribalta nel 1509, alla morte del figlio, come esecutrice testamentaria dello stesso, e reggente per il giovane successore, Enrico VIII Tudor (1509-1547), ma morí poco dopo. Enrico VII si preoccupò di far annullare dal Parlamento il Titulus Regius del 1483, con cui veniva dichiarata illegittima la discendenza di Edoardo IV e della Woodville e, solo dopo quest’atto legale, sposò la figlia di Edoardo. Inoltre, decise di far eliminare due pericolosi pretendenti, Edoardo di Clarence, figlio di Giorgio, e Giovanni di Gloucester,

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Ritratto del re Enrico VII con la rosa dei Tudor, olio su tavola di scuola

inglese, 1510-1520. Denver, Art Museum, The Berger Collection.

popolazione locale, costretta ad accettare il dominio inglese. Il matrimonio della figlia di Enrico, Margherita, con il re scozzese creò le premesse perché, molti anni piú tardi, estintasi la dinastia Tudor (1603), un discendente di Enrico VII, Giacomo VI Stuart – I d’Inghilterra – potesse salire al trono inglese, unendo, sotto un’unica corona, Scozia e Inghilterra. In questa fase, accanto alla figura del re, crebbe l’importanza, del Parlamento, organismo composto dalla Camera dei Lord (House of Lords), dove sedevano gli esponenti dell’aristocrazia laica ed ecclesiastica, e dalla Camera dei Comuni (House of Commons), formata dai rappresentanti figlio illegittimo di Riccardo III. Il primo, catturato dopo Bosworth, e tradotto nella Torre di Londra, fu giustiziato nel 1499, il secondo subí la stessa sorte nel 1485.

Due oscuri cospiratori

Durante il regno di Enrico VII si verificarono due importanti tentativi di insurrezione, che il sovrano riuscí però a reprimere. I promotori delle rivolte, Lambert Simnel e Perkin Warbeck, si spacciarono, rispettivamente, per Edoardo, duca di Clarence, figlio di Giorgio, e per Riccardo di Shrewsbury, uno dei due principi della Torre, presumibilmente fatti uccidere da Riccardo III. Sappiamo molto poco dei due cospiratori: il primo era quasi certamente inglese, mentre Warbeck aveva origini fiamminghe, essendo nato a Tournai. Essi cercarono di fare leva sul residuo partito yorkista e sul malumore, serpeggiante in Irlanda e nel Galles, contro la politica fiscale dei Tudor, ma fallirono entrambi. Lambert Simnel fu catturato nel 1487, dopo essere stato battuto

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delle contee del regno. La guerra civile, favorendo l’estinzione naturale di molte famiglie dell’alta nobiltà e il loro indebolimento finanziario, ebbe ricadute evidenti anche in ambito parlamentare, perché aumentò notevolmente il peso istituzionale della House of Commons, a discapito di quella dei Lords. Un cambiamento di equilibri politici significativo, che diede i suoi frutti in età Tudor. La libertà di movimento della Corona era limitata dal Parlamento – a tutto vantaggio della Camera dei Comuni – e nessuna legge, imposta, trattato o dichiarazione di guerra poteva essere decisa dal re e dai suoi ministri, senza consenso del Parlamento. Per quanto a un tragico prezzo, la storia dell’Inghilterra moderna aveva inizio.

a Stoke-on-Trent, ma, dopo un breve periodo di prigionia nella Torre, fu liberato e serví come paggio, a corte, fino alla morte (1535). Warbeck venne catturato nel 1497 e, dopo un breve periodo di prigionia nella Torre, fu giustiziato (1499). Il fatto che Warbeck affermasse di essere Riccardo, figlio di Edoardo IV, dimostra come già all’epoca non vi fosse un’idea chiara di che fine avessero fatto i due principi. In ogni caso, con la salita al trono di Enrico VII, ebbe inizio, per

chiari scopi politici, la demonizzazione della figura del duca di Gloucester, bollato come un «mostro», capace di ogni perfidia e iniquità. La stessa confessione del sovrintendente della Torre, sir James Tyrrell, di aver ucciso i principi, su mandato di Riccardo III, venne estorta con la tortura, in occasione del procedimento giudiziario intentato contro gli aderenti alla congiura del duca di Suffolk, a cui Tyrrell, presumibilmente, aveva partecipato, prima d’essere giustiziato (1502). V

Da leggere U Philippe Contamine, La Guerra dei

Cent’anni, Il Mulino, Bologna 2007 U Norman Davies, Storia d’Europa, I, Bruno Mondadori, Milano 2001 U Vittorio Gabrieli, La storia d’Inghilterra nel teatro di Shakespeare, Bulzoni, Roma 1995 U Kenneth O. Morgan, Storia dell’Inghilterra. Da Cesare ai nostri giorni, Bompiani, Milano 1993 U Giosuè Musca, La nascita del Parlamento nell’Inghilterra

medievale, Dedalo, Bari 1994 U Paola Pugliatti, Shakespeare storico,

Bulzoni, Roma 1993 U Giorgio Melchiori (a cura di),

Shakespeare. I drammi storici, I-II, Mondadori, Milano 1979 U Charles H. Williams, Inghilterra: i re della casa di York, 1461-1485, in Zachary Nugent Brooke,C. W. PreviteOrton, Joseph Robson Tanner (a cura di), in Storia del Mondo Medievale, vol. 7, Garzanti, Milano 1983

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luoghi rosslyn Seppur incompiuta, la cappella di Rosslyn, poco a sud di Edimburgo, è un gioiello dell’architettura gotica. Che è qui arricchita da una decorazione esuberante, in cui ritratti, simboli e allusioni si rincorrono in una fantastica spirale

Rosslyn (Scozia). La magnifica cappella sorta per volere di William St Clair, XI barone di Rosslyn. I lavori per la sua costruzione furono avviati nel 1446 e, alla morte del committente, nel 1484, non si erano ancora conclusi. In ogni caso, l’opera venne solo parzialmente ultimata.

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Caleidoscopio di Franco Bruni

scozzese

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luoghi rosslyn

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rutto di una mente fervida quanto originale, ricettacolo di conoscenze segrete e, forse, di tesori templari, luogo in cui simbolismi cristiani e pagani si susseguono senza soluzione di continuità, la cappella di Rosslyn, nell’omonima cittadina a sud di Edimburgo, è uno dei luoghi piú affascinanti e misteriosi del Quattrocento d’oltremanica. Ricca di rappresentazioni simboliche ambiguamente evocativa, la cappella, con il suo horror vacui decorativo, costituisce un unicum, reso ancor piú inconsueto dal confronto con il panorama architettonico anglosassone e scozzese dell’epoca, caratterizzato dal predominio del gotico, con forme volte al verticalismo e alla sobrietà e la cui ornamentazione risulta spesso relegata alle vetrate istoriate e agli apparati scultorei delle strombature dei portali d’accesso. A Rosslyn ogni precedente esperienza sembra annullarsi di fronte a tanta esuberanza decorativa: ai cicli agiografici affrescati sulle pareti della coeva architettura sacra italiana, fanno qui da contraltare gli innumerevoli dettagli architettonici e gli apparati scultorei, che a centinaia catturano l’attenzione, fino allo stordimento.

Isole Orcadi

Thurso Wick

Ebridi Esterne

Stornoway

Mare del Nord

Ullapool

Elgin

Inverness Kyle of Lochalsh

Skye

Ebridi Interne

Regione di Aviemore Aberdeen

SCOZIA Arbroath

Mull

Oban

Perth Kirkaldy

E Edimburgo

Glasgow

Islay

Arran

Dundee St. Andrews

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Melrose

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IRLANDA DEL NORD Belfast

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Correva l’anno 1446, quando William St Clair decise di far costruire la collegiata di St Matthew nella località già occupata dal castello di famiglia, di cui si conservano scarsi resti non lontano dalla cappella. Da quel momento, uno stuolo di capimastri e manovalanze giunse

OCEANO ATLANTICO

Can

Per la gloria dei St Clair

Per le Isole Shetland

Stranraer

Dumfries INGHILTERRA

a Rosslyn, tanto che fu necessaria la fondazione dell’omonimo villaggio per accoglierli. L’opera venne ultimata oltre quarant’anni piú tardi, senza che William St Clair, morto nel 1484, potesse perciò vederla. In realtà, la sola struttura compiuta fu il Coro, le cui dimensioni lasciano supporre un progetto originale di ben piú vasta portata, con una struttura a croce di cui resta solo parte del muro del transetto. Nonostante il mancato completamento del progetto, il risultato finale dovette essere rimarchevole, anche grazie alla costruzione della volta in pietra portata a termine dal figlio di William, Sir Oliver St Clair, divenuto barone di Rosslyn alla morte del padre nel 1484. La vita della cappella fu pesantemente condizionata dalla Riforma della Chiesa scozzese (1560), tanto che, dalla fine del Cinquecento, non vi fu piú officiato alcun rito cattolico. La situazione peggiorò ulteriormente nei secoli successivi – nel 1650 la chiesa fu adibita a ricovero dalle truppe di Oliver Cromwell nel corso della guerra civile – e si dovette attendere il 1736, quando James St Clair pose fine all’abbandono, promuovendo una serie A sinistra una delle mensole decorate lungo la facciata nord della cappella.

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Nella pagina accanto, in basso una delle bifore che si aprono nella facciata nord. settembre

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William St Clair

Una casata illustre La costruzione della collegiata di St Matthew si deve a William St Clair, XI barone di Rosslyn, nonché III principe delle Orcadi. Nato nel 1410, discende da una casata risalente al IX secolo, di cui fu capostipite Ragnvald Il Saggio, conte di Møre in Norvegia e dal cui figlio Hrólfr (Rollone) ebbe origine il ducato di Normandia. La vastità delle proprietà e la sua influenza politica furono tali da incutere timore allo stesso re Giacomo II, specialmente dopo il matrimonio della figlia di William con il duca di Albany, fratello del re. A ciò seguí una politica territoriale che lo portò ad accettare la richiesta di Giacomo II di cedere la contea di Nithsdale in cambio di quella di Caithness, nel 1445, e, nel

La figura scolpita di un angelo che regge uno stemma con la croce dentellata dei St Clair.

1471, quella di Ravenscraig in cambio della contea delle Orcadi. Contrariamente alle aspettative, fu il secondogenito Oliver, avuto dal secondo matrimonio, a ereditare i titoli e le proprietà piú importanti dopo la morte di William. Le restanti proprietà vennero assegnate agli altri due figli omonimi, dividendo, di fatto,

il dominio dei St Clair in tre rami: i Lords St Clair di Dysart, i St Clair di Rosslyn e i St Clair di Caithness.

di restauri. Altri interventi si ebbero nel 1837, per volere di James Alexander St Clair-Erskine, III conte di Rosslyn, sotto la guida degli architetti William Burn e David Bryce e, negli anni Sessanta del XIX secolo, riprese anche l’attività liturgica. Nonostante i ripetuti restauri, la cappella non ha subito sostanziali modifiche strutturali, se non nel 1880, quando Francis Robert, IV conte di Rosslyn, aggiunse il battistero nella facciata ovest.

Nell’anno di grazia 1450...

Iniziando la visita dall’esterno, la cappella, al di là delle peculiarità a cui si è accennato in apertura, si presenta comunque con le fattezze di una tipica chiesa gotica, con i suoi pinnacoli, gli archi rampanti, i contrafforti, e la teoria di svettanti finestre ogivali arricchite da vetrate istoriate poste su due ordini. A un’osservazione piú attenta, si intravedono dettagli interessanti, come, per esempio, nel lato nord, la sigla nascosta tra gli scudi collocati al di sotto del tetto: W L S F Y C Y Z O G M iii IL, da sciogliersi in William Lord Sinclair Fundit Yis College Ye Zeir Of God MCCCCL (1450). Molte altre decorazioni costellano la parete esterna, a iniziare dalle rose incise sui contrafforti al di sotto dei pinnacoli, che si alternano a quelli che sormontano nicchie oggi vuote, ma che un tempo ospitavano le statue distrutte in seguito alla

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luoghi rosslyn Riforma. Spiccano, inoltre, i numerosi doccioni (gocciolatoi) dalle caratteristiche fattezze mostruose. Varcata la porta nord, l’interno rapisce il visitatore con il suo rigoglio decorativo, che costella pareti, volte e capitelli, in una sorta di «crescendo» rossiniano. Particolarmente spettacolare è l’effetto che si prova osservando la volta a sesto acuto che copre il centro della navata (coro). Essa presenta un susseguirsi di rose e gigli dalle diverse fogge, raggruppati in cinque scomparti suddivisi da archi trasversali finemente decorati e terminanti con l’ultimo scomparto, a ovest, nel quale appaiono stelle a cinque punte: un cielo stellato posto, forse non a caso, nel lato occidentale dell’edificio che, nell’architettura sacra, simboleggia le tenebre rischiarate a Oriente, luogo in cui ha sede l’altare, dal sole nascente. Nella volta stellata si possono anche vedere il sole, la luna, una colomba e il Cristo benedicente. Una delle

UNA MAGNIFICA INCOMPIUTA

In alto pianta della cappella di Rosslyn in cui si evidenzia il progetto originario rispetto a quello effettivamente realizzato nel XV sec. A destra la cappella di Rosslyn in una tavola realizzata per l’opera Theatrum Scotiae di John Slezer. 1693. Si notino le statue sopra le mensole, oggi perdute.

chiavi pendenti dai costoloni che suddividono la volta reca la croce dentellata che ritroviamo nello stemma dei St Clair, un tema che ricorre di frequente nella cappella (per esempio lungo la volta della sagrestia). Su uno degli archi ogivali che separano il coro dalla navata sud, sono ritratti i dodici apostoli e quattro martiri mentre nei due pilastri che sorreggono l’arco appaiono un leone e un unicorno. Tornando nella navata nord, curiosa quanto insolita risulta la disposizione delle volte che, suddivise da trabeazioni poste tra le colonne della navata stessa e la parete settentrionale, si presentano ad angolo retto rispetto alla grande volta del coro centrale: una collocazione inconsueta, ma che ha permesso ai lapicidi di utilizzare anche le suddette trabeazioni come supporto per le decorazioni.

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Qui sopra particolare della decorazione della facciata nord, con, al centro, uno dei doccioni, dalle caratteristiche fattezze mostruose.

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Qui sopra la lussureggiante decorazione della volta a sesto acuto che copre il coro.

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luoghi rosslyn Nella navata nord si trova anche la tomba di uno degli antenati di St Clair, George, IV conte di Caithness, del quale è rappresentato lo stemma. Accanto a questo sepolcro, vi è una lastra tombale proveniente da una chiesa andata distrutta e dedicata a un altro William St Clair, che morí in Spagna nel 1330, durante un viaggio verso la Terra Santa. Sulla sua lastra sono incise una spada e una croce nella forma dell’antico Graal, un simbolo tradizionalmente utilizzato dai Templari. Il legame tra ordini cavallereschi e i St Clair costituisce d’altronde una costante nella storia della famiglia, come anche i contatti con la massoneria: il primo Maestro dell’Ordine templare, Ugo di Payns (1070-1136), sposò Catherine St Clair, mentre due altri componenti della famiglia, Marie de Saint-Clair (XIII secolo) e Jean de Saint-Clair (XIV secolo), risultano legati al Priorato di Sion, come indicherebbero i Dossiers Secrets d’Henri Lobineau; infine, nel 1736, Sir William St Clair, XIX barone di Rosslyn, fu eletto Gran Maestro della Loggia Massonica di Scozia.

Le sette Chiese d’Asia?

Proseguendo ancora lungo la navata nord, esuberante risulta anche la decorazione delle parti superiori dei pilastri (due draghi e l’angelo con il rotolo delle rivelazioni) o delle mensole in cui erano poste statue oggi perdute (diavolo con due persone inginocchiate, un angelo sorreggente una croce, un altro angelo con lo scudo in cui è incisa la croce dentellata dei St Clair), nonché delle paraste addossate alla parete nord (croce di spine, la crocifissione con il Cristo circondato da nove figure). Colpisce, inoltre, la finezza dell’architrave posto tra l’ultimo pilastro (prima di giungere alla Lady Chapel) e la In alto l’interno della Lady Chapel, la cappella dedicata alla Beata Vergine. Nella pagina accanto, a sinistra la colonna detta «dell’Apprendista», elegantemente decorata da tralci avvolgenti e alla cui base si snoda una teoria di draghi. A sinistra uno degli angeli musicanti (in questo caso con liuto) che fanno parte della decorazione della Lady Chapel.

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In alto, a destra la decorazione scolpita intorno a una delle bifore, i cui motivi fitomorfi sono stati interpretati come raffigurazioni di piante di mais.

parete nord, sul quale compaiono sette personaggi in abiti regali – forse una rappresentazione simbolica delle sette Chiese asiatiche –, tra i quali, al centro, figura il Cristo. Giunti al termine della navata, si accede alla Lady Chapel, la cappella dedicata alla Vergine Maria. Luogo santo per eccellenza, dotato di quattro altari collocati in corrispondenza di altrettante bifore e dedicati a san Matteo, alla Beata Vergine, a sant’Andrea e a san Pietro, la Lady Chapel è anche la struttura in cui il tripudio decorativo dell’intero edificio raggiunge il suo culmine. Va innanzitutto segnalata la presenza di volte a crociera con costoloni riccamente ornati, dai quali pendono chiavi di volta che sono veri capolavori e tra le quali spicca quella situata in corrispondenza dei primi due altari (san Matteo, Beata Vergine) nella cui parte terminale appare la stella a otto punte (stella di Betlemme) e, in quella superiore, la nascita di Cristo. Anche la musica viene qui evocata plasticamente, attraverso una serie di angeli musicanti scolpiti al di sopra dei capitelli delle tre colonne che separano la Lady Chapel dal coro: angeli con tamburo, tromba, liuto, violino e cornamusa,

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una presenza, quest’ultima, piuttosto inconsueta nell’iconografia dell’epoca (un angelo con cornamusa ritorna peraltro anche nella facciata esterna nord).

L’uomo con i tralci in bocca

Nella Lady Chapel ricorre inoltre il tema pagano del Green Man – in tutto l’edificio si conta un centinaio di queste figure grottesche – rappresentato da un volto dalla cui bocca escono due tralci di vite: si tratta di un simbolo legato al culto della fertilità, assai diffuso in architetture religiose e civili, fin dall’Alto Medioevo. Anche nella Lady Chapel ritroviamo mensole su cui erano poggiate statue e che presentano decorazioni, come per esempio l’Angelo caduto (Lucifero). Straordinaria è poi la presenza di una Danza Macabra finemente scolpita lungo il costolone di una delle volte: un tema che ritorna spesso nell’iconografia medievale e, nel caso di Rosslyn, reso ancor piú singolare per essere un rarissimo esempio, se non l’unico, di realizzazione in pietra del soggetto. Non si possono infine tralasciare le due colonne dette «del Maestro» e «dell’Apprendista». Si tratta di due originali soluzioni architettoniche, alle quali è legata una leggenda tramandata dall’arcivescovo di Caithness in un suo scritto sulla storia della cappella (1774): si racconta che, durante una lunga assenza del capomastro a cui era stata affidata la realizzazione delle colonne, il suo apprendista ne realizzò una di straordinaria fattura; al suo ritorno, il maestro si adirò fino al punto di uccidere l’allievo che aveva osato superarlo. Al di là della leggenda, le colonne tradiscono un differente livello stilistico, ma presentano entrambi interessanti dettagli architettonici: alla base di quella dell’Apprendista corre una teoria di animali fantastici (otto draghi), dalle cui

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luoghi rosslyn bocche fuoriescono elaborati rami di vite che avvolgono a spirale l’intero fusto; alla sua sommità è raffigurato Isacco giacente sull’altare e, accanto, un montone con le corna incastrate in un cespuglio. Benché meno elaborata, anche la colonna del Maestro si segnala per la squisita lavorazione a fasce alterne decorate. All’estremo lato sud della Lady Chapel, sotto l’altare sopraelevato dedicato a san Pietro, una scala scende nella sagrestia che è anche il locale piú antico e, comunque, precedente alla costruzione della cappella di Rosslyn. Di fattura piuttosto semplice, vi ritroviamo nella volta, scolpita in tutta la sua lunghezza, la croce dentellata dei St Clair, mentre sulle pareti alcune mensole riproducono gli stemmi del fondatore della cappella e quello della prima moglie. Curiosa è poi la presenza di alcuni marchi (sigilli) lasciati dai capomastri che qui operarono, quasi una «firma». Oltre a un un ricco apparato decorativo, la navata sud custodisce alcuni enigmi. In particolare, nella strombatura che arricchisce la prima bifora, al di sopra delle scale che conducono alla sagrestia, compare l’inaspettata riproduzione di alcune piante di mais: un dettaglio curioso, considerando che all’epoca questa specie – proveniente dalle Americhe – era del tutto sconosciuta nel vecchio continente. Proseguendo lungo la parete meridionale, si nota una curiosa iscrizione, incisa in una sorta di cartiglio nell’architrave che collega la sommità della colonna Una delle numerose immagini del Green Man (se ne contano oltre 100 in tutta la cappella), una figura di origini pagane, dalla cui bocca escono tralci di vite, simbolo di fertilità.

dell’Apprendista alla parete sud. Tratta dal Libro di Esdra, l’iscrizione recita: Forte est vinu. Fortior est rex. Fortiores sunt mulieres. Super omnes vincit veritas («Potente è il vino. Ancor piú potente il re. Le donne ancor di piú. Su tutti vince la Verità»). Nell’architrave che congiunge il secondo pilastro alla parete sud, sono rappresentate invece le sette opere di misericordia mentre, nell’altro verso della stessa, i sette vizi capitali.

Mosè e il cavaliere

Anche in questo settore vi sono molte mensole in cui la mancanza delle statue è ampiamente ripagata dalle ricche decorazioni. Una di queste, raffigurante un angelo che sorregge un cuore, evocherebbe la storia di Robert Bruce, re di Scozia dal 1306 al 1329, il quale aveva espresso il desiderio di avere il suo cuore sepolto nella chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. In altre mensole troviamo la raffigurazione di Mosé e in un’altra ancora un cavaliere a cavallo con una figura trattenente una croce: un’ipotesi lo identifica con William St Clair (XII secolo), il quale avrebbe portato una reliquia della Santa Croce (Holy Rood) in Scozia; reliquia che ha dato nome all’abbazia e all’annesso omonimo palazzo a Edimburgo, oggi sede ufficiale della Corona inglese in terra scozzese. Quasi al culmine della navata sud, si scorgono infine tre teste, incise alle basi di due mensole e nell’angolo del muro: raffigurerebbero l’apprendista, sua madre e il capomastro. Una quarta figura, posta in cima alla parasta in corrispondenza dell’apprendista, rappresenta il fondatore della Rosslyn Chapel, William St Clair, ritratto con una spada. La visita può concludersi con il già ricordato battistero ottocentesco: un ambiente nel quale sono stati riletti in chiave neogotica i motivi decorativi della cappella, in una continuità stilistica rispettosa dell’edificio primtivo. Citata da letterati come Walter Scott e William Wordsworth, oggetto di numerose raffigurazioni pittoriche, Rosslyn continua a destare meraviglia e, anzi, ha visto crescere la sua popolarità grazie al Codice da Vinci (2003) di Dan Brown: la cappella, infatti, ha un ruolo chiave nelle scene finali del film tratto dal fortunato romanzo. F

Dove e quando Rosslyn Chapel Chapel Loan, Roslin Midlothian EH25 9PUW Orario lu-sa, 9,30-18,00; do, 12,00-16,45 (gli orari possono variare nel corso dell’anno ed è perciò consigliabile verificarli attraverso il sito web ufficiale del monumento, vedi info) Info www.rosslynchapel.com

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In principio fu Ido ARALDICA • I detentori del titolo di

visconte ne fecero spesso il proprio nome di famiglia: l’esempio piú noto è, naturalmente, quello della casata che a lungo signoreggiò su Milano. Ma il fenomeno è attestato anche altrove, come dimostrano, a Genova, i casi di alcuni discendenti dei visconti cittadini

L’

ufficio viscontile era di norma legato alla delega di funzioni di rilevanza pubblica a elementi della propria curia vassallatica da parte dei vescovi, i quali si erano spesso appropriati, almeno in parte, dei poteri che le stirpi comitali – abbandonate le originali sedi cittadine e ruralizzate nei propri castelli del contado –, avevano loro ceduto obtorto collo, per compera

A destra Stemma dei Carmandini. Il ramo dei visconti detto di Carmandino fu quello in cui il titolo vicecomitale si mantenne piú a lungo. Gli stemmi qui riprodotti sono tratti dallo Stemmario Genovese Orsini De Marzo, di prossima pubblicazione. Qui accanto, da sinistra gli stemmi degli Spinola, reso parlante dalla caratteristica spina da botte, e dei Serra, casate considerate entrambe di ascendenze viscontili.

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ovvero per usurpazione tout court (ricordiamo che l’etimo di visconte, entrato nell’uso corrente volgare per la mediazione del provenzale vesconte, denuncia l’originaria funzione dell’ufficio viscontile, cioè quella, vicariale e subordinata – vicecomes –, di assistere il comes nello svolgimento dei propri compiti di rilevanza pubblica, con particolari deleghe, quali in ispecie la vigilanza sui mercati, e deriva similmente dalla distrettuazione carolingia). E se ben nota è la fortuna della discendenza dei visconti di ascendenza longobarda dell’arcivescovo milanese – dai quali deriva la prolifica casata lombarda un cui ramo assurse alla signoria cittadina e poi a rango ducale –, meno celebre è la stirpe dei Visconti di Piacenza, che dettero tuttavia un papa alla Chiesa nella persona di Gregorio X, al secolo Tedaldo Visconti († 1276). Fra altre dinastie vicecomitali «vescovili», ebbero un ruolo di rilievo nelle vicende del Comune pisano i Visconti locali, capifazione guelfi, che, con i conti Gherardeschi, ghibellini, detennero inizialmente e alternativamente, seppur in modo informale, il monopolio del potere cittadino.

Signori di Maremma Tuttavia, anche antiche stirpi comitali e marchionali, nell’amministrazione delle proprie signorie territoriali, si avvalsero di funzionari scelti fra i propri fideles, che rivestirono tale titolo, con deleghe di rilevanza variabile, essenzialmente di carattere giurisdizionale e fiscale, ma anche militare. I visconti documentati al servizio della dinastia guidinga nell’Aretino non sembrano avere avuto carattere ereditario, né, a ogni modo,

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In questa pagina altre celebri casate genovesi portanti una pezza araldica scaccata: dall’alto, casato papale, che si vuole viscontile, dei Cybo, col capo della Repubblica di Genova, ovvero la croce del patrono cittadino san Giorgio; Adorni alias Adorno, famiglia dogale di fazione popolare a lungo avversaria dei Fregoso; Centurioni alias Centurione, di rango principesco e con diritto di battere moneta (1654).

cognominizzato il titolo. Per contro, i Visconti di Campiglia d’Orcia furono in origine funzionari delegati dai conti Aldobrandeschi, allorché la potente casata longobarda di provenienza lucchese venne consolidando piú a sud la propria signoria in un vero e proprio principato, forte della dinastizzazione di piú titoli comitali e di ripetute conferme imperiali, nel vasto e selvaggio territorio maremmano incentrato sull’antica sede comitale e vescovile di Roselle, in seguito marginalizzata. Dai marchesi della Liguria Orientale – ossia dalla prolifica dinastia che dal capostipite Oberto, vissuto nel X secolo, si denominò Obertenga – e non dal potere vescovile sembrerebbe invece aver derivato la propria dignitas la non meno ramificata stirpe di visconti cittadini genovesi: che, ricordiamo, restò fino al 1133 dipendente dalla cattedra milanese, comitato già similmente sottoposto, del resto, a quei marchesi. Stipite dei visconti genovesi fu un Ido, o Wido, vissuto anch’egli attorno alla metà del X secolo a Genova, probabilmente insediato nel castello cittadino da cui trae nome l’odierno quartiere, e all’origine di numerosa discendenza: la

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CALEIDO SCOPIO Qui accanto blasoni di casate genovesi minori portanti una pezza araldica scaccata: da sinistra, uno dei tre differenti stemmi riferiti a una famiglia Arquata; uno dei tre differenti stemmi riferiti a una famiglia Castagnola.

quale tuttavia spesso non volle – o seppe – dinastizzare il titolo, né cognominizzarlo stabilmente.

Un’aura di prestigio Ciò può essere dovuto al fatto che l’ingresso dei propri membri a pieno titolo nel Comune consolare sconsigliava il ricordo di funzioni pubbliche in potenziale contrasto col nuovo ordinamento, ovvero alla persistenza della titolatura, sia pure svuotata di effettivo potere, se non di un’aura di prestigio, in capo al solo senior della famiglia, secondo un uso che in origine affidava lo svolgimento dei compiti vececomitali al piú anziano della stirpe (e, per

tacere dei precedenti d’età classica, non ci stupirebbe che tale titolo, fatto proprio dalle magistrature comunali, possa trovare la propria piú diretta origine in tale pratica successoria): solo cosí si spiegherebbe come, nel 1121, uno soltanto dei circa sessanta maschi e femmine di ascendenze viscontili presenti a una donazione all’erigendo monastero di S. Benigno di Capodifaro fosse indicato come figlio del defunto visconte Gandolfo (probabilmente il medesimo che nel 1098 risulta essere avvocato del monastero di S. Stefano), forse. Tutti costoro dovrebbero discendere da tre individui, figli o altrimenti discendenti del nostro Ido, da

Qui sopra ancora una casata genovese minore portante una pezza araldica scaccata: uno dei tre stemmi riferiti a una famiglia Pozzi. Qui accanto, da sinistra stemmi parlanti dei Marini alias Marino e dei De Mari. Entrambe le stirpi sono tradizionalmente considerate viscontili.

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Stemmi attribuiti ai capifazione popolari Boccanegra, il cui centrale è abbassato sotto il capo repubblicano. Si notino le affinità con quelli attribuiti agli Embriaci.

reputarsi vissuti a cavallo del Mille e menzionati nella documentazione, ossia Otbertus vicecomes de civitate Genue (probabilmente il primogenito, già deceduto nel 1003), Migesio, morto fra il 1003 e il 1014, e Oberto de Maneciano (Manesseno), quest’ultimo forse nipote, ex filio premorto, del capostipite. Sebbene il nome del nostro Ido tradisca origini inequivocabilmente germaniche, la famiglia seguiva la legge romana, e ciò potrebbe stupire, se non sapessimo che anche i conti di Ventimiglia professavano lo stesso diritto: reminescenze, forse, della resilienza di alcune gentes eminenti, che l’avvicendarsi dei Longobardi

Al centro della pagina stemma attribuito agli Embriachi alias Embriaci, che ebbero parte rilevante nelle vicende dei principati latini d’Oltremare e sono tradizionalmente considerati di origine viscontile.

e poi dei Franchi ai Bizantini non aveva potuto estromettere del tutto dalle leve del potere locale. E, del resto, anche la presenza delle donne della stirpe in proprio al succitato atto è infatti consona alla tradizione giuridica romana.

Avvocati di nome e di fatto Infatti, dal suddetto Oberto visconte – probabilmente padre dell’Inghelfredo menzionato con tale titolo in un atto del 1001 –, che, come detto, ipotizziamo primogenito di Ido, non a caso discende la sola famiglia che abbia cognominizzato il titolo funzionariale e che si denominò in seguito dai castelli di Carmandino (Cremeno di Serra Riccò in Val Polcevera) e di Isola: da costoro discese in seguito una stirpe piú eminente, fra le altre, che assunse invece il titolo della funzione avvocatizia esercitata da un Dodo/Dodone – vivente nella prima metà dell’XI secolo e probabilmente fratello del coevo Stemma parlante degli Usodimare, casata ritenuta di ascendenze viscontili.

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visconte Oberto –, per il monastero genovese di S. Siro, gli Avvocati. Essi fiorirono accanto a numerosa discendenza, che assunse presto altri cognomi, quali Lusio, Pevere, Ultramarini (questi ultimi cosí denominati per il prevalere degli interessi corsi su quelli di terraferma, verosimilmente, a partire da un Enrico de Carmandino, documentato nel 1192). Gli Avvocati, tuttavia, erano anche in rapporto vassallatico con la sede episcopale – in origine milanese –, e, non a caso, avevano la propria

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CALEIDO SCOPIO Qui accanto stemma attribuito ai Marabotti. Si noti l’affinità con quello dei Prefetti di Vico laziali (a sinistra), forse indizio di una dignità funzionariale.

residenza cittadina presso il palazzo vescovile di S. Lorenzo, e, cosí come altri del consortile viscontile, godevano di decime di collazione episcopale.

Mulini e macelli Benché la casata non sembri aver goduto della titolarità di monasteri di famiglia propriamente detti, la chiesa suburbana di S. Maria alle Vigne fu di loro pertinenza, e svolse almeno parzialmente la funzione di punto di riferimento ecclesiale della numerosa consorteria, almeno fino all’accesso al vescovato del congiunto Oberto (1052). Fu con ogni probabilità grazie a quest’ultimo – tradizionalmente e verosimilmente attribuito alla Stemma dei Grillo, tradizionalmente considerati di origine viscontile e assurti a rango ducale (1692) nel Regno di Napoli.

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stirpe viscontile – che i discendenti dei visconti marchionali poterono beneficiare di decime vescovili. Erano invece di provenienza latamente regia e piú remota alcuni diritti pubblici da loro goduti ab antiquo: oltre al possesso di numerosi mulini – che sottintendeva la titolarità del diritto regio di sfruttamento delle acque –, anche la facoltà di prelievo su derrate alimentari, e, in particolare, il possesso dei macelli cittadini (all’origine, del resto, delle fortune di alcune casate che da ciò verosimilmente si denominarono: si pensi, per esempio, ai Beccaria pavesi, o a quelli di probabile origine comense successi in linea femminile ai capitanei locali nella signoria sulle pievi di Sondrio e Berbenno in Valtellina). Un loro ramo, poi, che si denominava dal significativo toponimo di Palazzolo, aveva non a caso stanza presso il mercato antico adiacente

la chiesa di S. Giorgio: il che non stupisce, se si ricorda che presso i Franchi l’ufficio viscontile comportava proprio funzioni di controllo sui mercati! Nonostante la prolificità della stirpe viscontile e, forse, una solidarietà familiare meno accentuata che in altre prosapie funzionariali – evidenziata ed esasperata anche dalla precoce assunzione di gentilizi differenti –, una certa coscienza delle comuni origini viscontili dovette forse permanere, e l’appartenenza dei suoi discendenti ai cosiddetti nobiles albi (bianchi) ne perpetuò in un certo qual modo la memoria: ciò che però a noi piacerebbe meglio verificare sono gli indizi che di tale comune ascendenza permangono nell’araldica di casate piú o meno a buon diritto reputate discendenti dal nostro Ido visconte.

In balia delle onde Non potendo qui approfondire ulteriormente l’argomento, lasciamo trarre ai lettori le proprie deduzioni, esaminando gli stemmi portati da alcune di tali famiglie, raffigurati in un armoriale genovese seicentesco in corso di edizione (Stemmario Genovese Orsini De Marzo, a cura di chi scrive e di Michel Popoff): ci si consenta solo di rilevare come alcuni elementi araldici siano effettivamente caratteristici di famiglie reputate viscontili (Spinola, Serra, Cybo), pur ricorrendo anche in casate di cui è ignota tale eventuale ascendenza (Adorno, Centurione), mentre forse, per altre casate, tale somiglianza potrebbe derivare dall’esigenza di rendere i propri stemmi parlanti con un significativo ondato variamente declinato (Ultramarini, Usodimare, De Mari, Marini/o). Niccolò Orsini de Marzo settembre

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Un incanto sottile MUSICA • Attingendo al prezioso repertorio del Codice di Chantilly, Crawford Young

e il Ferrara Ensemble esaltano le finezze della corrente nota come ars subtilior, che, dalla Francia, si diffuse con successo presso le maggiori corti europee

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splendida panoramica sulle variegate attività musicali ntorno al 1390 veniva confezionato un libro musicale, il della corte del duca. cosiddetto Codice di Chantilly (Chantilly, Musee Condé Il disco En doulz chastel de Pavie, titolo che riprende la Ms 564) che, oltre alla pregevolissima fattura, deve la definizione del castello visconteo di Pavia coniata dal sua fama al fatto di raccogliere in 112 composizioni poeta Eustache Deschamps, riunisce musiche dedicate polifoniche il meglio dell’ars subtilior francese: un’arte alla corte di Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano dal «sottile», appunto, basata sulle sottigliezze di una 1385 e grande mecenate. Tra i brani si segnalano La notazione musicale piuttosto artificiosa. fiamma del to amor di Johannes Ciconia Oltre al Codice di Chantilly, altri e l’Istanpitta Isabella, forse dedicata superbi testimoni di questo raffinato al matrimonio di Gian Galeazzo con mondo musicale si trovano nelle Figures of Harmony: Songs Isabella di Francia, nonché partiture biblioteche comunali di Faenza (Ms of Codex Chantilly C. 1390 di Filippo da Caserta, tra cui lo 117), Perugia (Ms 3065), nonché Crawford Young, Ensemble Ferrara struggente En attendant souffrir, per Modena, Parigi, Londra. Tasselli di Arcana A 382, 4 CD Bernabò Visconti. un universo sonoro che ha avuto 29,00 euro un’ampia eco, sia in Francia che in www.outhere-music.com Armonie di voci e suoni Italia, e che troviamo ora In Fleurs de vertus tornano raccolto nel cofanetto, compositori come Filippo Figures of Harmony, che da Caserta, Trebor, Gracian ripropone quattro incisioni Reyneau, Johannes Suzoy e in (1995, 1996, 1998, 2010) particolare Solage, uno degli curate dal Ferrara Ensemble autori piú rappresentati nel diretto da Crawford Young, Codice di Chantilly. grande specialista di In Balades à III chans, oltre musica antica e pioniere del ai nomi citati, si ascoltano repertorio liutistico medievale musiche di Antonio da e rinascimentale. Cividale, Matteo da Perugia e Baude Cordier, nonché Alla corte del duca di Berry composizioni anonime, che Le quattro registrazioni ripropongono ballate, virelais, ripercorrono l’affascinante repertorio dell’ars subtilior, rondeau, sia nella veste vocale originale, che in trascrizioni ispirandosi di volta in volta ad strumentali, tra le quali alcuni aspetti particolari. Corps spicca il rondeau-refrain di femenin propone i raffinati gusti Matteo da Perugia. musicali legati all’ambiente del duca di Berry. Si ascoltano, tra Crawford Young, direttore, nonché liutista del Ferrara Ensemble si dimostra all’altezza delle finezze gli altri, il compianto per la morte di Eleonora d’Aragona, e quelle sottigliezze interpretative dell’ars subtilior. Fuions de ci fuions povre compaigne di Senleches, e il Passerose Particolarmente felici risultano le combinazioni tra le voci de beauté la noble flour e Quant joyne cuer en may est amoureux di Trebor, in cui si esalta la passione amorosa, trasfigurata e gli strumenti della tradizione medievale come la viola d’arco, l’arpa, il salterio, il dulce melos (strumento a corde in un giardino fiorito, un topos che ritorna nel Roses et lis ay percosse) e la guiterne (antenata della chitarra). veu en une flour di Magister Egidius. Franco Bruni L’alternanza di brani strumentali e vocali offre una

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Dal Tirolo, senza fronzoli MUSICA • Nel segno di una lettura rigorosamente filologica, l’Ensemble Leones di

Marc Lewon riporta in auge i suoni e le atmosfere di una produzione caratterizzata, innanzitutto, dalla sobrietà

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edicata al repertorio d’ambito austriaco e tirolese, l’antologia Argentum et Aurum. Musical Treasures from the Early Habsburg Renaissance svela in 28 brani quello che dovette essere il panorama sonoro di questa area geografica tra la fine del Trecento e l’inizio del Cinquecento. Un universo variegato, che l’Ensemble Leones propone attraverso una lettura interpretativa e una prassi fedelissime al contesto storico di queste musiche. Si parte dagli ultimi decenni del XIV secolo, con brani anonimi come l’inedito e splendido Or sus vous dormes trop, che evidenzia l’influenza della musica francese in ambito austriaco; per poi passare a pezzi di Oswald von Wolkenstein (1377-1445) – eccellente erede della tradizione dei Minnesänger, variante locale dei trovatori provenzali –, di autori meno noti – come Hermann Edelwarer (1395-1460) e Neidhart (1190-1236) –; e, infine,dei grandi protagonisti attivi tra il XV secolo e gli inizi del successivo: Guillaume Dufay, Heinrich Isaac – suo è il brano che dà il titolo alla raccolta – e Paul Hofhaimer.

Atmosfere intimiste Per rappresentare il repertorio di questo ambito geografico viene privilegiata la dimensione piú intimista. Lontane dalle grandi impalcature polifoniche fiamminghe o dai toni solenni della musica cerimoniale, le monodie qui proposte, cosí come i brani polifonici, ci riconducono a una prassi quotidiana; quale che sia il

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suo contesto d’origine – la corte, l’ambiente aristocratico o quello popolare – la produzione qui presentata pone in risalto il suo intento narrativo-testuale, ottenuto con un linguaggio verace, lontano dalle ricercatezze del contrappunto del Quattrocento. L’Ensemble Leones affronta questo repertorio, scegliendo, come già detto, un approccio rigorosamente filologico. Ottime le voci di Els Janssens-Vanmunster e Raitis Grigalis, accompagnate dagli archi di Baptiste Romain, Uri Smilansky, Elizabeth Rumsey e da altri stumenti della tradizione tardo-medievale e rinascimentale: flauto (Liane Ehlich), symphonia (Tobie Miller)

Argentum et Aurum. Musical Treasures from the Early Habsburg Renaissance Naxos 8.573346, 1 CD Ensemble Leones-Marc Lewon 6,80 euro www.naxos.com e corno (Miriam Andersén). La direzione è affidata a Marc Lewon, il quale, oltre alla maestria di cantante e strumentista (alla viola d’arco, viella e liuto), si distingue per le competenze musicologiche e per l’eccellente operazione filologica e interpretativa compiuta. F. B.

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