Medioevo n. 223, Agosto 2015

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TE SPE M CIA PL LE AR I

www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

DOSSIER

TEMPLARI

MALTA

NEI «SECOLI BUI»

Alle origini di un’identità GRANDI BATTAGLIE

Agosto 1315. La vittoria di Montecatini

SAPER VEDERE

Roma. La Cappella di San Silvestro

PIEMONTE

Nella terra dei Valdesi

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€ 5,90

BATTAGLIA DI MONTECATINI MALTA ARABA GOLF CAPPELLA DI S. SILVESTRO VALDESI DOSSIER SULLE ORME DEI TEMPLARI

SULLE ORME DEI

Mens. Anno 19 numero 223 Agosto 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 223 AGOSTO 2015

EDIO VO M E



SOMMARIO

Agosto 2015 ANTEPRIMA ALMANACCO DEL MESE

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MOSTRE L’Italia di un maestro insigne Ritratto di un patriarca

6 10

RESTAURI Che «occhio»!

12

MUSEI Maestà a confronto

13

APPUNTAMENTI Disfida per tiratori scelti Il santo dono di un pellegrino boemo Tutti in festa per il «figlio del solco» L’Agenda del Mese

14 15 18 20

GRANDI BATTAGLIE

Montecatini, 29 agosto 1315 di Federico Canaccini

di Andreas M. Steiner

26

SPORT Il golf Un gioco da pastori

di Roberto Roveda, con la collaborazione di Francesca Saporiti

48

LUOGHI SAPER VEDERE Roma La cappella del papa guaritore di Chiara Mercuri

LUOGHI Piemonte Nelle valli dei «barba» di Chiara Parente

48 CALEIDOSCOPIO ARALDICA La brisura che viene dal Nord 106

60

98

LIBRI Lo scaffale

110

MUSICA Cantare in compagnia

113

L’OMBRA DEI TEMPLARI di Furio Cappelli

26

36

COSTUME E SOCIETÀ

Dossier

STORIE Sangue di fine estate

STORIE I «secoli bui» di Malta

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36-40, 42-47 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 6-13 – Cortesia dell’autore: pp. 14-15, 18, 106-109 – Da: Il Villani illustrato, Banca CR Firenze, Firenze 2005: pp. 26/27, 30 – Doc. red.: pp. 28 (alto), 33, 41, 77, 82 (alto), 83 (alto), 84-85, 92-96 – DeA Picture Library: pp. 28 (basso), 100 (basso); A. Dagli Orti: pp. 31, 69, 97 (destra); Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 32; G. Dagli Orti: p. 81; Gonella: p. 99; M. Leigheb: p. 102; G. Pidello: p. 104 – Shutterstock: pp. 34/35, 80 (alto), 82/83, 88/89, 91 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 48/49, 64/65, 65-68, 70/71, 75, 89; Album: pp. 52/53, 97 (sinistra); The Art Archive: p. 64; Rue des Archives/CCI: p. 78; AGE: p. 90 – Archivi Alinari, Firenze: Granger, NYC: pp. 50, 58 (basso); RMN-Grand Palais (domaine de Chantilly)/René-Gabriel Ojéda: p. 51 – Bridgeman Images: pp. 54/55, 56; Pictures from History: p. 53; Ken Welsh: p. 76; Look and Learn/Elgar Collection: p. 79; Look and Learn/Peter Jackson Collection: pp. 80/81; Leemage: p. 101 – Foto Scala, Firenze: Heritage Images: pp. 56/57 – Marka: ViewStock: p. 58 (alto); Ivan Vdovin: pp. 60/61; Claudio Ciabochi: pp. 62, 63; Interfoto: p. 86; Franco Pizzochero: p. 87 – Getty Images: AFP Photo/Patrick Hertzog: p. 72 – Cortesia Fondazione Centro Culturale Valdese: pp. 100 (alto), 103, 105 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 29, 38, 62, 103.

MEDIOEVO Anno XIX, n. 223 - agosto 2015 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l.

Collaboratori della redazione:

Presidente: Federico Curti

Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it

Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa

Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Mila Lavorini è giornalista. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Chiara Mercuri è dottore di ricerca in storia medievale. Chiara Parente è giornalista. Stefania Romani è giornalista. Roberto Roveda è storico del Medioevo e giornalista. Francesca Saporiti è giornalista e storica del Medioevo. Tiziano Zaccaria è giornalista.

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In copertina Gozo. Un tratto delle mura che cingono la cittadella.

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Nel prossimo numero battaglie

Settembre 1515 I Giganti di Marignano

saper vedere

La cappella di Teodolinda a Monza dossier

costume e società

La gestione dei rifiuti

1455-1485 La Guerra delle due Rose


Almanacco del mese

a cura di Federico Canaccini

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1 agosto 1291

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2 agosto 1216

La stesura di un patto eterno confederale sancisce la nascita della Confederazione Svizzera Francesco d’Assisi riceve da papa Onorio III l’indulgenza del perdono di Assisi

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17 agosto 754

Carlomanno, figlio di Carlo Martello e maestro di palazzo d’Austrasia, muore a Vienne

18 agosto 19 agosto 1458 U

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Enea Silvio Piccolomini sale al soglio pontificio con il nome di Pio II

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3 agosto 1492

Nella battaglia di Yarmuk, le truppe bizantine di Eraclio I vengono sconfitte da Khalid al-Walid

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4 agosto U 5 agosto 6 agosto 1284 7 agosto 1420

La battaglia di Bosworth pone fine alla Guerra delle Due Rose

8 agosto U 9 agosto 10 agosto 955

Corradino di Svevia viene sconfitto da Carlo I d’Angiò presso Tagliacozzo

Cristoforo Colombo salpa da Palos per le Indie U

Alle secche della Meloria, nei pressi di Livorno, la flotta genovese annienta quella pisana U

Posa della prima pietra della cupola disegnata da Filippo Brunelleschi per il Duomo di Firenze U

U

A Lechfeld, Ottone I respinge le orde degli Ungari U

12 agosto 1099

Ad Ascalona i crociati sconfiggono i Fatimidi nel corso della Prima crociata U

13 agosto 1415

Enrico V d’Inghilterra sbarca in Francia reclamando il titolo di re U

14 agosto 1480

I Turchi conquistano le coste del Salento dopo la vittoria di Otranto U

15 agosto 778

Predoni baschi attaccano la retroguardia di Carlo Magno a Roncisvalle U

16 agosto 1410

Muore il mercante pratese Francesco Datini

20 agosto 636

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21 agosto 1245

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22 agosto 1485

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23 agosto 1268

Muore il filosofo e teologo inglese Alessandro di Hales

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24 agosto 410

Alarico entra con i suoi Visigoti a Roma da Porta Salaria: è il primo Sacco dell’Urbe

11 agosto 1253

Muore Chiara di Assisi

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25 agosto 26 agosto 1071 U

U

A Manzikert, i Turchi Selgiuchidi hanno la meglio sui Bizantini

27 agosto 1296 U 28 agosto 489

U

Nella battaglia dell’Isonzo, Teodorico il Grande, re degli Ostrogoti, sconfigge Odoacre, a capo di Eruli, Sciri e Rugi, facendosi strada in Italia U

29 agosto 1475

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30 agosto 1181

A Picquigny viene firmato un trattato di pace che pone formalmente fine alla Guerra dei Cent’Anni Muore papa Alessandro III, rivale di Federico Barbarossa nella lotta contro i Comuni U

31 agosto


ANTE PRIMA

L’Italia di un maestro insigne MOSTRE • Prende il via una rassegna che

riunisce per la prima volta tredici capolavori di Giotto e propone l’inedita ricomposizione di uno dei suoi splendidi polittici In questa pagina Polittico Stefaneschi, la fronte e un particolare del retro. Tempera su tavola, 1320 circa.

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Città del Vaticano, Musei Vaticani. Giotto realizzò l’opera con la collaborazione della bottega.

agosto

MEDIOEVO


C

on «Giotto, l’Italia», in calendario dal 2 settembre al 10 gennaio dell’anno prossimo, Palazzo Reale di Milano chiude la stagione espositiva legata al semestre di Expo 2015. Coordinata da un comitato scientifico di prim’ordine, la mostra conta un corpus eccezionale di tredici opere, in prevalenza su tavola, mai riunite prima. «Fra i prestiti da segnalare – racconta Serena Romano, curatrice dell’esposizione assieme a Pietro Petraroia – c’è sicuramente il Polittico Stefaneschi, che finora non aveva mai lasciato la Città del Vaticano, dove è esposto dal 1932. Ma è un prestito importante anche il Polittico Baroncelli, tempera di S. Croce, a Firenze, che, dopo aver preso parte a una rassegna allestita nel 1937, non ha piú girato. E dal Museo di San Diego, in California, è arrivata la cuspide centrale del polittico fiorentino, che per la prima volta viene ricongiunta all’insieme originario». Sull’impianto scientifico del progetto espositivo, la curatrice spiega: «Invece di costruire una panoramica

legati a luoghi, committenti, cronologia, ci permettano di avanzare ipotesi sul percorso di Giotto e sul suo viaggio in Italia».

Il peso della committenza Parliamo infatti di un artista viaggiatore, voluto in tutta la Penisola da cardinali, banchieri, re e

ordini mendicanti. Aggiunge Serena Romano: «All’epoca i committenti sono determinanti, hanno un gusto e un orizzonte d’attesa, da cui nasce la richiesta di realizzare un oggetto che risponda a esigenze precise: questo è un nesso fondamentale, ecco perché abbiamo voluto solo opere di provenienza documentata». In alto il Polittico di Bologna. Tempera su tavola, 1332-1334 circa. Bologna, Pinacoteca Nazionale. A sinistra il Polittico Baroncelli. Tempera su tavola, 1330 circa. Firenze, basilica di S. Croce.

del Trecento, che sarebbe stata un’operazione forse piú facile, per la maggiore disponibilità di dipinti, abbiamo preferito puntare su un progetto austero, con lavori certamente giotteschi, di provenienza sicura e documentata. Abbiamo cercato pezzi che, essendo

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agosto

Errata corrige con riferimento all’articolo Il capitano e il chirurgo (vedi «Medioevo» n. 220, maggio 2015) desideriamo rettificare la discendenza di Francesco I de’ Medici (1541-1587) indicata nell’albero genealogico della famiglia (vedi a p. 46): il granduca di Toscana, infatti, era figlio di Cosimo I e non di Lorenzino. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori.

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ANTE PRIMA Il visitatore può accostarsi all’iter di Giotto, partendo dalla visione di lavori giovanili, realizzati fra Firenze e Assisi. Poi trova il corpus della Badia fiorentina, con il polittico dell’Altar Maggiore, e la fase padovana dell’artista, testimoniata dalla tavola con Dio Padre in Trono, proveniente dalla Cappella degli Scrovegni. Sarà quindi il turno della produzione matura, documentata dal Polittico di Bologna, pensato nell’ottica del trasferimento della corte pontificia proprio nella città emiliana. A chiusura del percorso, il già citato Polittico Baroncelli, con la cuspide proveniente da San Diego. Nell’intento dei curatori, spiega ancora Serena Romano, «La mostra vuole venire incontro ad alcune aspettative del visitatore, da quella di soddisfare le curiosità, al bisogno di raccogliersi davanti a un

A destra particolare del Dio Padre in trono, Tempera su tavola, 1303-1305. Padova, Musei Civici. A sinistra frammento di affresco con testa di pastore, dalla Badia Fiorentina. 1300-1310 circa. Firenze, Gallerie dell’Accademia.

oggetto senza essere aggredito, senza essere bombardato di stimoli. Il nostro vuole essere un percorso scandito dalle pause, silenzioso, con un modo diverso di godere i capolavori di un grande innovatore».

Pittore e investitore oculato Proprio in chiave di innovatore Giotto spesso viene accostato a Dante. I due hanno infatti tratti comuni: hanno segnato un cambiamento culturale in senso ampio, sono entrambi fiorentini e migranti, anche se per motivi diversi. La curatrice aggiunge inoltre: «La bravura di Giotto e la sua intelligenza sono state incredibili, tanto da DOVE E QUANDO

«Giotto, l’Italia» Milano, Palazzo Reale dal 2 settembre al 10 gennaio 2016 Info www.mostragiottoitalia.it Catalogo Electa

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cambiare i percorsi della pittura, imponendo un nuovo parametro di eccellenza. L’artista fiorentino è, fra l’altro, una figura di grande fascino, è astuto anche come uomo: ha investito in acquisti di terreni nel Mugello, la sua patria, ed è una sorta di protoindustriale, in bilico fra Medioevo e Trecento, un’epoca che difficilmente si lascia classificare, caratterizzata da una fisionomia e da qualità vertiginose». L’appuntamento espositivo è stato preceduto da un lavoro preparatorio assai impegnativo: i primi passi sono stati fatti nel 2012, ma a monte c’è un patrimonio straordinario di studi, di conoscenze, di competenze, anche sulla conservazione del corpus giottesco, che fanno capo all’Opificio delle Pietre Dure e all’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro. La curatrice sottolinea infatti che, nella scelta dei prestiti, il criterio ispiratore è sempre stato quello della tutela delle opere. Stefania Romani agosto

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ANTE PRIMA

Ritratto di un patriarca MOSTRE • Divenuto signore di Firenze, Cosimo I de’ Medici volle autocelebrarsi

commissionando una serie di arazzi ispirati alla vicenda di Giuseppe, figlio di Giacobbe. Un ciclo superbo, ora eccezionalmente riunito

In alto Lamento di Giacobbe. Atelier di Jan Rost, disegno e cartone di Jacopo Pontormo, 1553. Roma, Palazzo del Quirinale. A sinistra Giuseppe fugge dalla moglie di Putifarre. Atelier di Nicolas Karcher, disegno e cartone di Bronzino, 1548-1549. Firenze, Soprintendenza Speciale Polo Museale.

N

el 1537, quando sale al potere all’indomani dell’assassinio del suo predecessore, Alessandro, Cosimo I de’ Medici non ha ancora compiuto 18 anni. Nonostante la giovanissima età, però, il figlio di Giovanni dalle Bande Nere e Maria Salviati si dimostra fin da subito determinato e, in breve tempo, ridisegna in chiave marcatamente assolutistica il suo ruolo. Un’operazione alla quale il nuovo uomo forte affianca un impegno non inferiore a quello profuso sui campi di battaglia o nelle

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sale di comando del ducato. Ne sono frutto, per esempio, la promozione delle attività imprenditoriali e le iniziative mirate ad abbellire la città di Firenze, arricchendone il patrimonio architettonico e artistico.

Un ritorno da non perdere Gli intenti anche autocelebrativi appaiono evidenti e, in questo quadro, si colloca la realizzazione del magnifico ciclo di arazzi attualmente in mostra a Milano e che agosto

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DOVE E QUANDO

«Il Principe dei sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Bronzino» Milano, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi fino al 23 agosto Orario lu, 14,30-19,30; ma-do, 9,30-19,30 (gio e sa, apertura serale fino alle 22,30) Info tel. 02 875672; www. comune.milano.it/palazzoreale Note dopo la tappa milanese, la mostra verrà riproposta a Firenze, in Palazzo Vecchio, dal 16 settembre al 15 febbraio 2016

Qui sotto Giuseppe racconta il sogno del sole, della luna e delle stelle (particolare). Atelier di Jan Rost, disegno e cartone di Agnolo Bronzino, 1548-1549. Firenze, Soprintendenza Speciale Polo Museale.

A sinistra Il sogno dei manipoli. Atelier di Nicolas Karcher, disegno e cartone di Agnolo Bronzino, 1548-1549. Firenze, Soprintendenza Speciale Polo Museale.

poi tornerà, seppur temporaneamente, nella sua sede originaria: la Sala dei Duecento in Palazzo Vecchio, a Firenze. Realizzati sulla base dei cartoni eseguiti da Agnolo Bronzino, Jacopo Pontormo e Francesco Salviati, gli splendidi panni, infatti, sono una delle prime e piú riuscite produzioni dell’arazzeria che Cosimo fondò nel 1545 e alla quale assicurò i servigi di due grandi maestri arazzieri fiamminghi, Nicolas Karcher e Jan Rost, dopo averli convinti ad abbandonare la corte estense di Ferrara.

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La serie si compone di venti pezzi (ciascuno dei quali è alto 6 m, per un’estensione totale di oltre 400 mq di tessuto istoriato) e racconta la vita di Giuseppe, patriarca d’Israele, figlio di Giacobbe e Rachele.

Da schiavo a dignitario del faraone Una vicenda nella quale, evidentemente, il giovane duca sentiva di potersi immedesimare: odiato dai fratelli, il personaggio biblico era stato venduto a una carovana diretta in Egitto, ma nella terra dei faraoni, dopo varie vicissitudini, era divenuto un potente funzionario della corte; un riscatto che Cosimo volle dunque associare al suo insediamento, avvenuto a dispetto delle trame di chi aveva cercato di ostacolarlo. Organizzata con il contributo della Fondazione Bracco, la mostra ha il merito di ricucire il filo narrativo che lega gli arazzi – che sono stati oggetto di un lungo intervento di restauro condotto dall’Opificio delle Pietre Dure e dal Laboratorio del Quirinale –, offrendo una testimonianza significativa dell’eccellenza raggiunta in campo manifatturiero dalla Firenze medicea e della sagacia propagandistica di uno dei suoi piú celebri signori. Stefano Mammini

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ANTE PRIMA

Che «occhio»!

RESTAURI • La magnifica vetrata del rosone del

Duomo di Firenze ha ritrovato i suoi colori originari e, ancora per un mese, si potrà ammirarla da vicino, in una prospettiva inconsueta

È

tornata a brillare l’intensa luce dorata che permea la scena con l’Incoronazione e l’Assunzione della Vergine nel rosone di facciata del Duomo di Firenze. Realizzata da Niccolò di Piero Tedesco, su disegno di Lorenzo Ghiberti, l’opera fa parte di un ciclo grandioso, composto in origine da 45 vetrate istoriate, realizzate tra il 1394 e il 1444, da maestri vetrai su cartoni preparatori di note firme, tra cui Donatello. Fu, però, soprattutto grazie alla partecipazione e supervisione del Ghiberti che il complesso apparato, incentrato sulla creazione di una rete di raccordi e richiami visivi, con una accentuata sensibilità per armoniche variazioni cromatiche, fu condotto in modo cronologicamente e stilisticamente unitario e omogeneo anche nei caratteri compositivi. Artista di mediazione, in equilibrio tra il tardo-gotico e il Rinascimento, Ghiberti riesce a coniugare spazialità ed eleganza, modulando plasticità e leggerezza anche nell’arte vetriaria.

Un capolavoro in 10 braccia Diviso in 28 pannelli, per 6,16 m di diametro (corrispondenti a circa «10 braccia fiorentine»), l’«occhio» fu collocato sopra la porta dell’incompiuta facciata di Arnolfo di Cambio nel 1405, a celebrazione del culto di Maria a cui la cattedrale

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A destra Firenze, Duomo. Particolare della vetrata del rosone prima del restauro. In basso l’opera dopo l’intervento che le ha restituito la policromia originaria. è dedicata. Le vetrate intendevano tracciare un percorso di fede che percorreva la navata centrale e si concludeva con gli episodi salienti della vita di Cristo illustrati nelle

finestre del tamburo della Cupola del Brunelleschi: un impianto decorativo in cui compaiono oltre 150 personaggi, a rappresentare un racconto circolare che poteva essere letto a ritroso. Inserita in una nicchia ogivale, illuminata da raggi dorati e sorretta da angeli danzanti, la figura della Madonna indossa un sontuoso

mantello bianco ornato da stelle, dai morbidi panneggi, mentre Gesú, in alto, tiene in mano una corona che sta per posare sulla sua testa. La scena è racchiusa da una cornice a forma di ghirlanda con 14 figure (12 apostoli e 2 profeti) alternati a elementi floreali.

Un intervento provvidenziale Commissionato dall’Opera del Duomo nell’ambito del progetto Restituzioni che ci ha riconsegnato la quasi totalità delle vetrate, il restauro ha permesso il recupero delle splendide cromie originali oscurate dal tempo e dai fenomeni di degrado, dovuti al fenomeno di «polverizzazione del vetro», derivante da cause di origine chimica e biologica, come l’umidità della condensa; un fattore che produce le cosiddette «croste di disfacimento» con conseguente assottigliamento e successiva scomparsa del vetro. Dopo la ripulitura, è stato eseguito il reintegro pittorico a freddo sulle parti mancanti, per una migliore leggibilità del disegno del rosone che, fino all’8 settembre, sarà esposto nel Battistero di Firenze, dove, per la prima volta, sarà possibile ammirarlo da vicino prima di essere rimontato sulla facciata della cattedrale. Mila Lavorini agosto

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Maestà a confronto

MUSEI • Riaprono, in un allestimento

rinnovato, ma memore dell’impianto originario, le sale che gli Uffizi riservano ai «Primitivi». Con alcune novità di grande rilievo

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a luce naturale filtra attraverso le ampie vetrate dei lucernari esterni e, dosata dai brise-soleil a comando automatico, si diffonde sui capolavori esposti nelle sale dei «Primitivi» degli Uffizi, recentemente riaperte, dopo un anno di complessi e delicati interventi che hanno riguardato proprio l’illuminazione, oltre agli impianti di climatizzazione.

Una elevata resa cromatica caratterizza le modernissime sorgenti luminose, che permettono rapidi oscuramenti o discrete integrazioni artificiali, dalla misurata intensità, quasi a creare un «unicum» tra le superfici dipinte e le pareti dalla sobria tonalità, già individuata nella sistemazione risalente agli anni Cinquanta del secolo scorso.

E nonostante i significativi aggiornamenti architettonici, le sale che vanno dalla 2 alla 7, nell’ala orientale del secondo piano della Galleria, mantengono l’assetto originale che prevedeva spazi parietali privilegiati per le opere considerate come pietre miliari nel panorama artistico internazionale.

Nomi nuovi e grandi ritorni Avviato dieci anni fa, il progetto «Nuovi Uffizi» prosegue, quindi, con questo percorso rinnovato, che ha permesso di aggiungere 14 dipinti provenienti da vari depositi, accanto alle grandi firme della collezione storica, come Simone Martini e Gentile da Fabriano. Tra le novità, troviamo una Croce dipinta di Pacino di Bonaguida e un Redentore benedicente di Spinello Aretino. Operazioni complicate hanno interessato le tre Maestà, create dai protagonisti dell’arte pittorica toscana del Medioevo, Cimabue, Giotto e Duccio di Buoninsegna, non rimosse durante i lavori, ma protette in speciali climaboxes realizzati su

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ANTE PRIMA misura. La triade delle pale lignee, collocate in un ambiente dal soffitto a capriate, simile a quello di molte chiese antiche, ci introduce idealmente all’arte sacra medievale e alla rivoluzionaria vicenda figurativa avviata da Giotto, che operò un sostanziale allontanamento dalle rappresentazioni ieratiche e piatte, riferibili all’arte bizantina.

Disfida per tiratori scelti

A maggior gloria del mercante Seguirono decenni di proposte «sonnolente», qui rappresentate dagli autori, cosiddetti «giotteschi», che sfociarono, un secolo dopo, nello scintillante gotico internazionale, uno stile raffinato ed elegante, sviluppatosi soprattutto nelle corti nordeuropee. Personaggi lussuosamente raffigurati permeano scene estremamente curate nei dettagli, come nell’Adorazione dei Magi, commissionata a Gentile dal facoltoso mercante Palla Strozzi, a dimostrazione della sua cultura e ricchezza e quasi a voler promuovere la sua attività lavorativa. È una corrente preziosa e decorativa, minuziosamente descrittiva che, agli inizi del Quattrocento, si muove parallelalmente alle idee del primo Rinascimento, in un dialogo di mediazione fra tradizione e nuove tendenze. E proprio gli autori afferenti all’Umanesimo, come Masaccio e Botticelli, saranno coinvolti nel prossimo riordinamento nel Corridoio di Levante dell’edificio vasariano, a continuazione del programma di ampliamento del museo fiorentino. M. L. DOVE E QUANDO

Galleria degli Uffizi Firenze, piazzale degli Uffizi Orario ma-do, 8,15-18,50; chiusura: tutti i lunedí, Capodanno, 1° maggio, Natale Info tel. 055 294883; www.polomuseale.firenze.it

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a città di Pescia (Pistoia) sorge in un’ampia piana ricoperta di oliveti, nella Toscana settentrionale. Fondata in età longobarda, nel XIII secolo fu inserita nell’area d’influenza del ducato di Lucca, ma dopo aver subito gravi danni dal potente vicino, al quale intendeva ribellarsi, decise di legarsi alla repubblica di Firenze, passando sotto la sua egida il 16 febbraio 1339. Secondo il calendario liturgico, quel giorno è dedicato a santa Dorotea, che le autorità pesciatine elessero a protettrice della città, e, dall’anno successivo, furono indette in suo onore solenni celebrazioni religiose e feste popolari. Durante l’antica festa patronale nacque la tradizione del Palio cavalleresco dei Berberi, detto Bravío, che, nel XVI secolo, fu rimpiazzato dalla piú «gentile» Giostra del Saracino, alla quale partecipavano i giovani nobili locali. In tempi moderni, per far rivivere il florido passato di Pescia durante il dominio fiorentino, ogni prima domenica di settembre viene proposto un Palio, ma con archi e frecce al posto dei cavalli. A gareggiare sono i rappresentanti dei quattro rioni di Ferraia, San Francesco, San Michele e Santa Maria, quartieri menzionati negli statuti comunali fin dal 1340. Nella settimana precedente, ogni rione allestisce la sua «cena propiziatoria», in un’ambientazione medievale. La giornata della domenica inizia in tarda mattinata con la benedizione in Cattedrale del Palio e degli arcieri. Nel pomeriggio, un corteo storico formato da figuranti in abiti del XIV e XV secolo sfila per la città, giungendo nella suggestiva piazza Grande. Dopo l’esibizione dei gruppi di sbandieratori e musici dei rioni, prende il via la gara. Quattro arcieri per rione, muniti di archi medievali, si misurano su tre volée (sessioni) di tiro, per complessivi dodici frecce. Ogni volée presenta difficoltà crescenti e, di conseguenza, assegna un numero proporzionalmente maggiore di punti. Tiziano Zaccaria agosto

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Il santo dono di un pellegrino boemo APPUNTAMENTI • Pove del Grappa si prepara alle

solenni celebrazioni che, ogni cinque anni, prendono spunto da un prezioso crocifisso del XV secolo

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gni cinque anni, in settembre, Pove del Grappa (Vicenza) si anima di passione religiosa e popolare in occasione delle Feste del Cristo, celebrate in onore del Divin Crocifisso. L’evento, che torna quest’anno, si richiama a una leggenda legata a un crocifisso ligneo del XV secolo, tuttora presente nella chiesa parrocchiale di S. Vigilio, che sarebbe stato donato da un pellegrino boemo di passaggio a Pove durante il suo viaggio verso Roma, in segno di gratitudine per l’ospitalità ricevuta. Per oltre due settimane, il piccolo centro vicentino ospita concerti e spettacoli. Momento clou è la solenne processione storico biblica proposta nelle prime due domeniche di settembre, nella quale oltre seicento figuranti ripercorrono le vicende dell’Antico e del Nuovo Testamento. Il corteo si snoda per le vie del paese, addobbate con archi, luci e croci. I rappresentanti del clero e delle autorità comunali, seguiti da una

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banda musicale e dai fedeli, sfilano assieme al crocifisso ligneo di probabile provenienza boema.

Un calendario ricco e articolato Quest’anno, le Feste del Cristo inizieranno venerdí 4, alle 19,00, con la Santa Messa di intronizzazione del Divin Crocifisso. Sabato 5, alle 18,30, in piazza arriverà la Fiaccolata della Pace, proveniente dai luoghi sacri della Grande Guerra, mentre domenica 6, alle 16,00, per le vie del paese si svolgerà la prima solenne processione storico biblica. Venerdí 11, alle 21,30, nel Parco delle Rose spettacolo della Passione, Morte e Resurrezione di Cristo (info www.festedelcristo.com). Domenica 13, alle 16,00, per le vie del paese, seconda solenne processione storico biblica. Infine, domenica 20, chiusura delle Feste Quinquennali: alle 19,00, in piazza, solenne Messa di ringraziamento, detta «delle barbe», e deposizione del Divin Crocifisso nell’altare.

Altri eventi si susseguiranno nei giorni infrasettimanali. Il paese di Pove è adagiato alle pendici del Monte Grappa, all’imboccatura del Canale del Brenta, vicino a Bassano. Famoso per gli scalpellini che lavorano la pietra nel vicino monte Crocetta, il centro vicentino sorse all’epoca dei Longobardi, durante la loro avanzata in Valpadana, nella seconda metà del VI secolo. Il piú antico documento che nomina la «Villa di Pove» risale al 917 e ne attesta l’appartenenza alla Marca Trevigiana insieme col Bassanese. Dal XII secolo, Pove divenne una piccola fortezza appartenente alla potente signoria degli Ezzelini. Dopo la morte dell’ultimo esponente della dinastia, tutti i paesi della vallata del Brenta nel 1388 si unirono con Bassano per creare un unico distretto sotto la giurisdizione dei Visconti di Milano, passando poi alla Repubblica di Venezia nel 1404. T. Z.

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ANTE PRIMA

Tutti in festa per il «figlio del solco» APPUNTAMENTI • Il paese siciliano di Giarratana festeggia il proprio patrono,

Bartolomeo, per il cui sontuoso simulacro, seguendo una tradizione secolare, si organizza una processione solenne, accompagnata da un tripudio di suoni e colori

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in dal Medioevo, Giarratana, nel Ragusano, celebra il suo patrono, San Bartolomeo Apostolo, il 24 agosto. Nel corso dei secoli la festa non è cambiata, mantenendo ritualità, suoni e colori di una cerimonia barocca. Si comincia il 16 agosto, quando uno sparo di mortaretti annuncia che nella chiesa madre intitolata al santo la «vara» (fercolo) sta per essere spostata dall’altare maggiore, dove è stata custodita per un anno, alla navata centrale. Si prosegue il 21 agosto, con la fiera del patrono, figlia minore della grande esposizione agricola che, nella prima metà del secolo scorso, si protraeva per diversi giorni. Il 24 agosto, ricorrenza liturgica del santo, verso mezzogiorno giunge il momento piú atteso: l’uscita del simulacro dalla chiesa, tra lo scoppiettío di mortaretti e il lancio degli «nzaiareddi», lunghe strisce di carta colorata gettate dal campanile. In un clima di grande commozione, il fercolo di san Bartolomeo discende la ripida scalinata della chiesa. Poi la statua viene sollevata e la processione sfila per le stradine dell’antico quartiere «u cuozzu». Nel tardo pomeriggio, dopo la vendita all’asta dei doni offerti al santo, la processione riprende il cammino interrotto la mattina. A sera inoltrata la vara viene riportata in chiesa e riposta nella cappella maggiore fino all’anno successivo.

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La Chiesa siriaca identifica l’apostolo Bartolomeo con Natanaele (in ebraico «Dio ha dato»), nativo di Cana di Galilea. Natanaele doveva essere il nome personale, mentre Bartolomeo (che in aramaico significa «figlio del solco», ovvero agricoltore) sarebbe il cognome.

Armenia fatale La tradizione cristiana gli attribuisce lunghi viaggi missionari in Cappadocia, nell’India «superiore» e in varie regioni del Medio Oriente. Entrò poi in Armenia, dove secondo le scritture dell’epoca, la sua fede gli costò la condanna alla pena capitale e morí atrocemente, scorticato vivo. Per questo, nel simulacro che viene portato in processione a Giarratana,

san Bartolomeo è raffigurato seduto su un trono barocco splendidamente lavorato, tra volute di foglie d’acanto e putti, con la mano destra benedicente, mentre con la sinistra tiene il coltello, simbolo del terribile martirio subito. Posta sulle pendici del Monte Lauro, con 3000 abitanti, Giarratana è il piú piccolo comune della provincia di Ragusa. Le prime tracce scritte sulla sua esistenza risalgono al periodo normanno. Durante il Medioevo fece parte dapprima della contea di Ragusa, poi divenne feudo di Rinaldo D’Acquaviva e infine, nel 1400, entrò a far parte della contea di Modica, finendo con l’essere ceduta alla famiglia dei Settimo nel 1454. T. Z. agosto

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AGENDA DEL MESE

Mostre LONDRA MAGNA CHARTA: LEGGE, LIBERTÀ, LASCITO U British Library fino al 1° settembre

Nel Regno Unito, l’ottavo centenario della firma della Magna Charta Libertatum ha dato il via a numerose celebrazioni, fra le quali spicca la rassegna in corso presso la British Library di Londra. Come ha sottolineato Claire Breay, tra i curatori del progetto espositivo, «Magna Charta: Legge, Libertà, Lascito riunisce manoscritti e oggetti che abbracciano mille anni di storia e rievocano il contesto in cui l’atto venne promulgato, le sue innumerevoli emulazioni – susseguitesi in tutto il mondo per secoli –, il processo che ne ha fatto un simbolo universale di libertà e giustizia». Tra gli oltre 200 oggetti presentati, fanno bella mostra di sé due delle quattro

a cura di Stefano Mammini

copie della stesura originale del documento, risalenti al fatidico 1215, ma anche reperti di natura decisamente diversa, come, per esempio, due denti e l’osso di uno dei pollici di re Giovanni Senzaterra, recuperati in occasione della ricognizione della sua tomba, effettuata nel 1797. Né mancano le nuove acquisizioni, tra le quali spicca il piú antico resoconto di quel che accadde a Runnymede (quando Giovanni si incontrò con i baroni), del quale è stata ritrovata una stesura manoscritta, attribuibile ai monaci dell’abbazia scozzese di Melrose. info www.bl.uk FIRENZE PIERO DI COSIMO (1462-1522). PITTORE «FIORENTINO» ECCENTRICO FRA RINASCIMENTO E MANIERA U Galleria degli Uffizi fino al 27 settembre

Genio eccentrico del Rinascimento fiorentino, Piero di Cosimo è una figura quasi sconosciuta, nonostante l’apprezzamento dimostrato dalla critica e l’ampio catalogo di dipinti di tema sacro e profano oggi conservati in musei e collezioni di tutto il mondo. Questa allestita agli Uffizi è la prima retrospettiva monografica che gli viene dedicata: accanto a imponenti pale d’altare, si incontrano «tondi» di destinazione domestica, dipinti di tema profano, insieme a piú colte e raffinate famiglie fiorentine e straordinari ritratti. info tel. 055 294883; www.unannoadarte.it

nell’innovazione delle arti del lusso oltre che della pittura, anche grazie alla presenza di Leonardo da Vinci. Tra gli altri, la mostra testimonia l’influenza del maestro sull’arte milanese di quel periodo attraverso un piccolo bronzo, recentemente indagato dagli studiosi: si tratta di un guerriero con scudo che riprende una piccola figura accovacciata sotto gli zoccoli di un cavallo,

DAL XIII AL XV SECOLO U Galleria dell’Accademia fino all’11 ottobre

delineata in un’incisione che riproduce i disegni di Leonardo preparatori per il monumento equestre di Francesco Sforza, padre di Ludovico il Moro. info tel. 02 794889; www.museopoldipezzoli.it

sviluppata da Francesco e dai suoi, in una sorta di ridefinizione culturale e topografica dell’ecumene. Da una parte, si susseguono mappe, codici che riportano relazioni di viaggio, attestazioni dei contatti dei latini con i Mongoli mantenuti in chiave antislamica (nel 1246 Khan Güyük scrisse a papa

Quale idea del mondo aveva san Francesco? A quali spazi guardavano i suoi primi seguaci? In quali direzioni si sono sviluppate le loro azioni di evangelizzazione? Da questi interrogativi nasce la mostra allestita alla Galleria dell’Accademia. Il percorso espositivo presenta non solo i viaggi missionari, ma la stessa idea dell’Oriente

MILANO SOTTO IL SEGNO DI LEONARDO. LA MAGNIFICENZA DELLA CORTE SFORZESCA NELLE COLLEZIONI DEL MUSEO POLDI PEZZOLI U Museo Poldi Pezzoli fino al 28 settembre

Negli ultimi decenni del Quattrocento, sotto il ducato di Ludovico il Moro, Milano diventò la capitale europea piú importante nella produzione e

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FIRENZE L’ARTE DI FRANCESCO. CAPOLAVORI D’ARTE E TERRE D’ASIA

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Innocenzo IV una lettera conservata nell’Archivio Segreto Vaticano). Dall’altra, un gruppo straordinario di reperti fa intuire la rete delle presenze cristiane che i Francescani incontrarono al loro arrivo all’interno del continente. info tel. 055 294883; e-mail: firenzemusei@ operalaboratori.com; www.unannoadarte.it TORINO TIME TABLE. A TAVOLA NEI SECOLI U Palazzo Madama fino al 18 ottobre

Il tema dell’EXPO 2015, «Nutrire il pianeta», offre lo spunto per una mostra che parte dal tema della tavola imbandita per evocare spaccati di vita quotidiana nel corso dei secoli. Fulcro del percorso espositivo sono dunque sei grandi tavole allestite con suppellettili in

ceramica, vetro e metallo delle varie epoche (Basso Medioevo, Rinascimento, Seicento, Settecento, Ottocento e Novecento). In particolare, sulla tavola signorile del tardo Medioevo si mescolano manufatti di varia provenienza che testimoniano un’ampia circolazione di oggetti e tendenze di gusto. Il vasellame in ceramica invetriata, decorata con motivi graffiti e dipinti di verde e giallo, accomuna senza distinzione geografica la mensa ordinaria di tutti i Paesi. Sul tavolino di servizio sono invece esposti oggetti che evocano la quotidianità della vita cortese internazionale – pettini d’avorio per la toletta, cofanetti eburnei e di cuoio – scandita nello scorrere dei giorni da un raro calendario perpetuo,

miniato su pergamena e custodito in un astuccio di cuoio. info tel. 011 4433501; www.palazzomadama torino.it MEISSEN PROST! 1000 ANNI DI BIRRA IN SASSONIA U Albrechtsburg fino al 1° novembre

Nel 1015, Meissen, assediata dalle truppe polacche, sfuggí alla devastazione perché le donne, in mancanza di acqua, soffocarono le fiamme con la birra. L’episodio è considerato il riferimento cronologico al quale far risalire una tradizione particolarmente radicata in Sassonia, alla quale si è voluto rendere omaggio con la mostra allestita nelle sale dell’Albrechtsburg, il piú antico castello tedesco. L’esposizione affianca esperienze sensoriali, apparati

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multimediali, degustazioni e assaggi a una ricca selezione di materiali e documenti. Né mancano gli approfondimenti sulla produzione, sui segreti legati alle varianti della ricetta originale, sugli strumenti impiegati e ai prodotti usati, come l’orzo e il luppolo, introdotto proprio nel Medioevo, forse negli ultimi decenni del Duecento. info www.albrechtsburgmeissen.de

dall’artista in due tondi distinti, raffiguranti l’Angelo Annunziante e l’Annunziata, cosí come gli era stato richiesto dai Priori e Capitani di Parte Guelfa, che gliela commissionarono nel 1482 per il Palazzo Comunale della città «delle torri». Assieme ai due tondi di Filippino, ripresentati vicini come dovevano essere originariamente al loro ingresso nella collezione della Pinacoteca, sono esposti anche disegni di mano del pittore, nonché i documenti relativi alla commissione dell’Annunciazione, un materiale storico custodito da oltre cinque secoli nell’archivio Storico Comunale di San Gimignano che ci fa capire lo spirito civico e la volontà che animava i Priori e i Capitani di Parte Guelfa – appartenenti a importanti famiglie di sangimignanesi – di abbellire la sede del

SAN GIMIGNANO FILIPPINO LIPPI L’ANNUNCIAZIONE DI SAN GIMIGNANO U Pinacoteca fino al 2 novembre

La Pinacoteca di San Gimignano rende omaggio al pittore fiorentino Filippino Lippi (1457circa-1504) con una mostra ispirata dall’Annunciazione, opera realizzata

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AGENDA DEL MESE

governo cittadino, in modo analogo a quanto le medesime istituzioni fiorentine stavano facendo per Palazzo Vecchio. info e prenotazioni tel. 0577 286300; www.sangimignanomusei.it; e-mail: prenotazioni@ sangimignanomusei.it

PAVIA 1525-2015. PAVIA, LA BATTAGLIA, IL FUTURO. NIENTE FU COME PRIMA U Castello Visconteo fino al 15 novembre

A 490 anni dalla battaglia di Pavia, la città ricorda il cruciale scontro tra le armate francesi e quelle spagnole con una mostra allestita al Castello Visconteo, in un’ala appena restaurata e per la prima volta aperta al pubblico. L’esposizione presenta uno dei celebri arazzi fiamminghi dedicati alla

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battaglia proveniente dal Museo di Capodimonte, e ripropone virtualmente gli altri sei pezzi della serie, consentendo al visitatore – grazie a installazioni multimediali e tecnologie innovative – di osservare e indagare ogni singola scena, scoprire i protagonisti e le loro storie, rivivere l’atmosfera del combattimento. info tel. 0382 399770; www.labattagliadipavia.it

risalgono al 1289, dopo che un’alluvione aveva distrutto le case degli Spini, ricca e potente famiglia proprietaria di una delle prime società bancarie d’Europa. Committente dell’edificio fu Ruggeri, detto Geri, la persona piú illustre del casato, banchiere di papa Bonifacio VIII. L’allestimento è dominato da due grandi forzieri che contengono

le opere d’arte e i documenti: spiccano, tra gli altri, un dipinto seicentesco che raffigura l’albero genealogico degli Spini; una pergamena del 1277 che dimostra l’acquisto degli Spini di un terreno e di una casa nei pressi del ponte Santa Trinita; la storia della famiglia nel Quattrocento scritta da un discendente di Geri, Doffo.

Due modelli in scala, realizzati per l’occasione dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, riproducono l’area cittadina in cui fu costruito il palazzo, e la sua architettura, come appare nella veduta quattrocentesca. info tel. 055 3562846; e-mail: museoferragamo@ ferragamo.com; www.ferragamo.com

FIRENZE UN PALAZZO E LA CITTÀ U Museo Salvatore Ferragamo fino al 3 aprile 2016

Forte di opere d’arte e documenti provenienti da musei e collezioni private, la mostra racconta le complesse vicende storiche di Palazzo Spini Feroni e dei suoi abitanti. Le origini dell’edificio agosto

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Appuntamenti

SARZANA FESTIVAL DELLA MENTE XII EDIZIONE 4-6 settembre

La rassegna esplora, attraverso incontri, spettacoli e momenti di approfondimento culturale, la nascita e lo sviluppo delle idee e dei processi creativi, toccando anche temi di attualità sociale e scientifica. Scienziati, scrittori, artisti, fotografi, architetti, filosofi, psicologi, psicanalisti, storici condivideranno la loro creatività e il loro sapere con il pubblico ampio e partecipe, che è da sempre la vera anima del festival. info www. festivaldellamente.it LECCE VII CONGRESSO NAZIONALE DI ARCHEOLOGIA MEDIEVALE U Lecce, Palazzo Turrisi 9-12 settembre

A sei anni dalla sua V edizione, ospitata a Foggia, il Congresso, ritorna in Puglia e, in particolare, nel Salento, territorio che fu a lungo parte dell’impero bizantino. Perciò, alle cinque sezioni tematiche piú consuete (I. Teoria e metodi; II. Insediamenti urbani e architettura; III. Territorio e ambiente; IV. Luoghi di culto e archeologia funeraria;

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V. Economia e società), se ne aggiunge una sesta, dedicata a L’Italia bizantina. I coordinatori di ogni sezione esporranno e commenteranno i contributi, e, come sempre, alle loro presentazioni faranno

seguito l’esposizione da parte degli autori di quattro interventi specificamente individuati e poi una discussione sul tema. Sono inoltre previste le relazioni dei due ex Presidenti della SAMI (Società degli Archeologi Medievisti Italiani), Sauro Gelichi e Gian Pietro Brogiolo, l’assemblea dei soci, la riunione del Consiglio Direttivo della SAMI, la consegna del Premio «Riccardo Francovich» per il miglior museo di ambito medievale, nonché la premiazione di una personalità distintasi nel campo della divulgazione. Sarà inoltre assegnato il premio annuale «Ottone d’Assia-Riccardo Francovich», destinato a un giovane ricercatore per la pubblicazione di un’opera prima inedita di ambito archeologico medievistico. info tel. 0832 295519; e-mail: scuola.

archeologia@ unisalento. it; www.archeologia. unisalento.it

CAMOGLI FESTIVAL DELLA COMUNICAZIONE II EDIZIONE 10-13 settembre

La seconda edizione della rassegna si concentra su uno degli aspetti fondanti della comunicazione: il linguaggio. Quest’anno l’appuntamento è prolungato a quattro giornate, animate da conferenze, tavole rotonde, laboratori, spettacoli, escursioni, mostre e un’installazione ambientale. info www. festivalcomunicazione.it MODENA, CARPI, SASSUOLO FESTIVALFILOSOFIA «EREDITARE» 18-20 settembre

Duecento appuntamenti gratuiti in tre giorni per riflettere sul significato di «ereditare». Oltre 50 lezioni magistrali affidate a protagonisti del pensiero contemporaneo, mostre, concerti, spettacoli, letture, iniziative per bambini e cene filosofiche: è questo il ricco

programma della quindicesima edizione del Festivalfilosofia che si svolge in 40 luoghi di Modena, Carpi e Sassuolo. info www. festivalfilosofia.it SIENA LA PORTA DEL CIELO U Duomo fino al 31 ottobre

L’Opera della Metropolitana torna a promuovere l’apertura straordinaria della «Porta del Cielo», con nuove modalità. La visita ai Sottotetti del Duomo, della durata di 30 minuti, e alla Cattedrale, con la Libreria Piccolomini, si può effettuare ogni mezz’ora in base agli orari di apertura della Cattedrale. Ogni visitatore riceverà in omaggio la Roof Map, uno strumento utile per l’effettuazione della

visita, che si trasforma poi in un gadget da conservare. info call center

0577 286300 (lu-ve, 9,00-17,00) SAN GIMIGNANO L’ORTO DI SANTA FINA U Giardino della Spezieria di S. Fina, ex Conservatorio di S. Chiara fino al 31 Ottobre

Lo Spedale di Santa Fina, il piú importante ente assistenziale di San Gimignano, fu dotato, almeno dal Cinquecento, di una propria Spezieria, che acquistava o produceva i medicamenti, sia a uso interno che per la vendita esterna. L’allestimento attuale presenta l’assetto originale della farmacia, con la «cucina», in cui si preparavano i medicinali – conservano in vasi di ceramica o vetro –, e la «bottega», preposta alla vendita. Architetti, archeologi, esperti di botanica e giardinieri, si sono confrontati per evocare, negli spazi verdi del giardino, l’antica Spezieria. Nelle fioriere create per l’occasione sono stati messi a dimora piante e fiori verosimilmente impiegati a scopi gastronomici e terapeutici. La visita a questa sezione del Museo è dunque una vera e propria esperienza sensoriale, che permette di immergersi in un’atmosfera fatta di aromi e profumi. info tel. 0577 286300; www.sangimignanomusei.it

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grandi battaglie montecatini Sfumato il sogno di avere l’imperatore Enrico VII dalla propria parte, i ghibellini di Pisa si affidarono a Uguccione della Faggiuola. Il quale li ripagò con una clamorosa vittoria ai danni dell’odiata Firenze di Federico Canaccini

29 agosto 1315

Sangue di fine estate 26


Vignetta raffigurante Uguccione della Faggiuola che sconfigge i Fiorentini nella battaglia combattuta a Montecatini nell’agosto del 1315, dall’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani oggi nota come manoscritto Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana.


grandi battaglie montecatini

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a discesa di Enrico VII di Lussemburgo in Italia, nel 1310, aveva riacceso le speranze di coloro che, nel pieno delle lotte tra guelfi e ghibellini, sognavano un impero nuovamente arbitro degli equilibri politici europei. Il pensiero di Dante Alighieri è forse l’esempio piú famoso di questo vagheggiamento:

In basso l’arcivescovo di Milano pone la corona ferrea sul capo di Enrico VII di Lussemburgo, dal manoscritto Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana.

E ‘n quel gran seggio a che tu li occhi tieni per la corona che già v’è sú posta, prima che tu a queste nozze ceni, sederà l’alma, che fia giú agosta, de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia verrà in prima ch’ella sia disposta. (Paradiso, XXX, 133-138) Il 24 agosto 1313, però – due anni dopo aver cinto la corona ferrea a Milano e dieci mesi dopo la consacrazione a imperatore nella basilica romana del Laterano –, Enrico morí di febbri, vanificando il progetto di liberare l’Italia del Nord dalle signorie che vi erano sorte. Dalle macerie della sua potenza, peraltro assai frammentaria, sorsero due nuove forze: una era quella dei potenti su cui Enrico aveva fatto perno, l’altra nacque dai vicari da lui nominati nel corso della spedizione, e che presto trasformarono tale vicaría in una signoria personale. Dopo aver organizzato i solenni funerali dell’imperatore, il Comune di Pisa tentò di persuadere il suo maresciallo a trattenersi quale difensore della città, ma il conte Enrico di Fiandra preferí non sobbarcarsi un tale onere. Pochi giorni piú tardi, la medesima proposta

In alto Uguccione della Faggiuola in una incisione settecentesca.

UN SECOLO TURBOLENTO 1309-1377 Cattività avignonese 1315 I Pisani vincono i Fiorentini a Montecatini 1325 Lucca vince i Fiorentini ad Altopascio 1331 Firenze occupa Pistoia 1337 Firenze conquista Arezzo 1339 Venezia occupa Treviso 1339-1349 I Visconti di Milano conquistano Asti e Parma 1354 Giovanni Visconti si impadronisce di Genova 1359 Con la presa di Pavia i Visconti dominano la Lombardia 1367 L’imperatore Carlo IV capeggia una lega antiviscontea 1378-1381 Guerra di Chioggia: Venezia elimina la concorrenza di Genova nel commercio con l’Oriente 1387-1388 Gian Galeazzo Visconti occupa Verona, Vicenza e Padova

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Ducato di Carinzia Ducato Vescovado di di Contea Bressanone Stiria del Tirolo Principato Domini Contea Patriarcato di Trento I di Celje T di Gorizia N Trento CO dei Ducato S I Aquileia V Bergamo Lag Lago ago Aquileia Aosta L Como di Vicenza di Gar Garda rddaa Treviso Monza di o Verona Savoia Milano Carniola m Vercelli Venezia Novara March b LodiCremona IG ER a T Padova es. d. M c o n a r Torino ferrato Pavia Ma r Poo Asti Piacenza d Mantova i ESTENSI Alessandria Parma a

L’ITALIA INTORNO AL 1300

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venne fatta a Federico d’Aragona, re di Sicilia, il quale, però, richiese in cambio la cessione del controllo della Sardegna: se Pisa avesse perduto le entrate dell’isola, avrebbe decretato la propria rovina economica e dunque anche questa eventualità sfumò. Accettò invece l’offerta il vicario imperiale di stanza a Genova, Uguccione della Faggiuola, il quale accolse l’idea di guidare il Comune

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pisano. Il 20 settembre del 1313, Uguccione divenne quindi, a un tempo, podestà, capitano del popolo e capitano di guerra, trasformandosi in una sorta di dictator dell’antica Roma. All’indomani della morte di Enrico VII, il Comune di Pisa aveva tentato di riappacificarsi con quello di Lucca. I Pisani, dal canto loro, tentavano di farsi restituire i for-

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grandi battaglie montecatini tilizi che da tempo gli erano stati strappati dai Lucchesi, come Avane, Buti e Asciano. Uno dei rappresentanti di Lucca, Bonturo Dati, che parteggiava per Firenze, negò la restituzione di quest’ultimo castello, prossimo alla città pisana. A tale rifiuto, Uguccione rispose con la forza, dando prova delle sue intenzioni e delle sue capacità strategiche. Dopo essersi spinto fin sotto le mura di Lucca, all’arrivo delle truppe nemiche, ripiegò in Pisa. Condusse poi una nuova irruzione nel contado lucchese nell’autunno, ottenendo questa volta il borgo di San Pietro Maggiore – proprio nel giorno in cui si celebrava il patrono di Lucca, san Frediano – che fu messo a ferro e fuoco. Sui resti della porta del villaggio furono scritte parole di scherno col sangue dei Lucchesi uccisi: Uguccione era determinato e la popolazione pisana lo seguiva con macabro entusiasmo e ardore.

In quel frangente, la lega guelfa mostrò tutta la propria debolezza e il re di Napoli, Roberto d’Angiò, manifestò addirittura l’intenzione di raggiungere la pace con Pisa nella lotta contro il re di Sicilia. Uguccione mandò ambasciatori a Napoli, e altrettanto fece il Comune di Firenze, ma, quando gli inviati tornarono a Pisa, il podestà ruppe l’accordo raggiunto, che non prevedeva la restituzione dei castelli perduti negli anni precedenti, durante le campagne contro Lucca. Alla drastica decisione cercarono di opporsi alcuni influenti cittadini, in particolare Pietro e Banduccio Bonconti, che furono sospettati di aver inviato missive segrete agli ambasciatori, per chiedere di concludere la pace a tutti i costi. Uguccione li fece arrestare ed estorse loro tale confessione: accusati di alto tradimento, i Bonconti furono decapitati assieme al camerlengo, Vanni de’ Verdi. Uguccione aveva mostrato ancora una volta la propria forza e, l’indomani, ottenne il comando supremo di guerra per i dieci anni seguenti.

L’accordo segreto

Il condottiero, però, non poteva basare la propria supremazia soltanto sulla forza e la brutalità e fu a questo punto che, ricorrendo alla diplomazia, colse uno dei suoi piú grandi successi politici. Il suo obiettivo era quello di staccare Lucca dall’orbita fiorentina, attraendola in quella di Pisa, per poi attaccare, cosí rinforzato, la città del giglio. Mentre veniva ratificato un trattato di pace voluto da re Roberto di Napoli, Uguccione siglava segretamente una vera e propria alleanza con Lucca, basata sulla concreta restituzione di castelli quali Cerretello, Asciano o Viareggio. I «bianchi» e i ghibellini fuorusciti furono fatti rientrare a Lucca e si celebrarono sessanta matrimoni tra famiglie pisane e lucchesi. Ancora due vignette tratte dal manoscritto Chigiano L VIII 296: Uguccione della Faggiuola fa porre l’assedio a Montecatini (in alto); i Fiorentini affrontano le truppe del comandante delle forze pisane (qui accanto). 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana.

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Roberto d’Angiò (1277-1343) nei panni di uno dei re Magi, particolare dello sportello di un trittico di scuola napoletana. Fine del XV sec. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.

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grandi battaglie montecatini Ritratto di Castruccio Castracani (1281-1328). Olio su tela di Antonio Maria Crespi, detto il Bustino. 1613-1621. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

Di fronte a queste mosse, Firenze rimase sbigottita e si preparò alla guerra, contando sulla potenza della lega guelfa e sperando ancora sull’appoggio di Lucca. Ma, prima ancora che la lega potesse organizzarsi, Uguccione, nel giugno del 1314, si presentò con un grande esercito dinnanzi a Lucca, ormai dilaniata dalle lotte interne. Castruccio Castracani, a capo dei fuorusciti lucchesi rientrati in città, favorí l’accesso delle truppe pisane attraverso la Porta di San Giorgio: Lucca cadde quindi nelle mani di Uguccione. Il comandante insediò quale podestà e capitano generale suo figlio Francesco e, il 13 luglio 1314, venne stipulata un’alleanza eterna tra Pisa e Lucca, a onore del Sacro Romano Impero e della parte ghibellina. Il Comune di Pisa riconquistò 27 castelli e molte terre nel contado che era stato di Lucca, mentre i guelfi lucchesi, costretti alla fuga, trovarono riparo in altri castelli, spesso sotto controllo fiorentino, come quello di Montecatini.

Senza esclusione di colpi

Dopo la conquista pisana di Lucca, il re di Napoli e il Comune gigliato iniziarono a preoccuparsi. Il 6 agosto giunse da Siena il conte Carlo di Battifolle, con un seguito di 200 cavalieri, per sedare eventuali sommosse a Firenze. Inoltre, il re di Napoli, che aveva assistito alla cacciata del suo vicario da Lucca, decise di mandare il conte Pietro di Eboli a Firenze, trasferendogli le sue funzioni di vicario di Toscana, Lombardia, Romagna e di capitano generale di tutta la parte guelfa d’Italia. Uguccione reagí a queste mosse mobilitando l’esercito, composto da 600 cavalieri, di cui 200 tedeschi, e da ben 800 balestrieri pisani e tentò di prendere i castelli di Elci e Montalbano e di fare irruzione nella città di Pistoia. Tutte queste azioni però vennero vanificate dalle milizie senesi e guelfe. La guerra stava insanguinando anche il contado senese: fuorusciti e bianchi presero Serravalle, mentre Uguccione conquistò personalmente il presidio fiorentino di Gallena, a soli 8 km da Fucecchio, e, per rappresaglia, fece impiccare 80 soldati che avevano difeso il fortilizio. La guerra stava ormai travolgendo tutto il territorio e stendeva i suoi tentacoli di paure e speranze anche oltre la Toscana: l’11 settembre del 1314 il condottiero pisano stipulò un trattato di alleanza con Cangrande della Scala di Verona e con i Bonacolsi di Mantova, nonché con le famiglie aretine degli Ubertini e dei Pazzi del Valdarno, mettendo cosí a rischio il trattato di pace che Firenze aveva siglato con Arezzo, alla presenza del conte di Eboli. Tanto a Siena quanto a Firenze i disordini aumentavano: la prima era dilaniata da omicidi eccellenti per la lotta tra i Salimbeni e i Tolomei; la seconda rischiava sommosse popolari da

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A destra il monumento funerario in stucco, marmo e pietra d’Istria realizzato per il marchese Spinetta Malaspina. 1430-1435 circa. Londra, Victoria & Albert Museum.

un giorno all’altro giacché, a causa della siccità, i mulini ad acqua non funzionavano e la farina scarseggiava. In queste condizioni, le città della lega guelfa dovettero fronteggiare l’inarrestabile avanzata di Uguccione, che, dopo aver devastato il territorio pistoiese fino a Carmignano, si accampò nella primavera del 1315 dinnanzi a Montecatini, presidiata da 2000 Fiorentini e vari fuorusciti lucchesi. L’assedio non riuscí, e, al suo ritorno, il condottiero fu accolto dal malcontento del popolo pisano, oppresso dalle spese per la guerra. Il comandante reagí abilmente, sottolineando i successi pregressi e l’obiettivo ultimo di far capitolare Firenze, e solo cosí riuscí a riconquistare l’appoggio popolare.

Un’avanzata travolgente

Già il 19 aprile, Uguccione poté dunque organizzare una nuova spedizione e irrompere nel territorio di San Miniato, con un esercito forte di ben 1700 cavalieri e 16 000 fanti. Riuscí facilmente a inoltrarsi in territorio nemico, giungendo fino a Cigoli, che capitolò sotto gli occhi impotenti del maresciallo angioino, protetto dalle mura del castello di Montecatini, a soli 5 km dal fortilizio che cadeva in mano ai Pisani. Di fronte a simili disfatte, il re di Napoli inviò suo fratello, il principe Filippo di Taranto, e suo figlio Carlo di Acaia, ai quali assegnò una scorta di 500 cavalieri e 300 fanti della lega. Uguccione non si fece intimorire dall’arrivo di queste nuove truppe e, il 10 agosto, invase la Val di Nievole,

Tra vendetta e pietas

Destini incrociati

con 3000 cavalieri e 20 000 fanti. L’esercito, infatti, aveva ricevuto rinforzi da Maffeo Visconti, da Cangrande, da Mantova e dal vescovo aretino, Guido Tarlati. Il condottiero puntò decisamente verso Montecatini, avviando la costruzione di vaste opere d’assedio. Nel mentre, l’esercito fiorentino, rinforzato dagli alleati guelfi, era finalmente uscito dalla città, dirigendosi verso Fucecchio, distante appena 25 km, per poi muovere alla volta di Monsummano, dove pose il campo in vista delle posizioni dell’avversario.

Lo stemma del ramo di Donoratico dei conti della Gherardesca, a cui appartenevano Gherardo e suo figlio Ranieri. Firenze, Archivio di Stato.

Alla notizia della morte in battaglia di Carlotto d’Angiò, figlio di Filippo, il conte pisano Ranieri di Donoratico ebbe un sussulto di gioia e commozione. Aveva infatti giurato che non si sarebbe mai fatto armare cavaliere prima che suo padre Gherardo di Donoratico non fosse stato vendicato. Nel 1268, infatti, dopo la disfatta di Tagliacozzo, Corradino e i suoi – tra cui il conte Gherardo – erano stati catturati a Torre Astura e, dopo un sommario processo tenutosi a Napoli, condannati a morte come traditori della corona e decapitati. Ora Ranieri, aveva sotto gli occhi il cadavere del nipote di Carlo d’Angiò e la sera stessa di quel 29 di agosto si fece armare cavaliere. Uguccione si mostrò comunque magnanimo verso quel giovane caduto e, benché nemico, lo fece tumulare assieme a suo figlio, prima in un’abbazia vicina e poi a Pisa. Per Carlotto fece erigere un piccolo monumento sepolcrale, respingendo la richiesta fatta dal di lui padre, il principe Filippo, di farlo seppellire in Firenze.

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grandi battaglie montecatini

rievocazioni

Dalla Val di Nievole all’EXPO La rievocazione del 700° anniversario della battaglia di Montecatini è al centro di una serie di eventi culturali, in programma dal 22 agosto al 24 ottobre, tra cui simulazioni di combattimenti, cortei, giochi, disfide e tornei, mostre e convegni a tema medievale. La rievocazione della battaglia ha ottenuto il patrocinio di «Toscana EXPO» e fa parte delle proposte della Regione alla manifestazione mondiale di Milano. Secondo una leggenda locale, accettata anche da alcuni noti storici, come Cesare Balbo – ma che, a oggi, non ha trovato riscontri –, alla

battaglia, avrebbe assistito Dante Alighieri, sostenitore dell’idea di impero universale e di Uguccione della Faggiuola, signore di Pisa e di Lucca, e trionfatore dello scontro combattuto nella piana della Val di Nievole, dove molti nobili cavalieri fiorentini e napoletani in fuga, trovarono la morte annegando nelle acque del Padule di Fucecchio. Info www.montecatini-alto.it In alto, sulle due pagine una veduta di Montecatini Alto. Dopo la battaglia, il castello assediato da Uguccione fu ampiamente rimaneggiato.

Nei giorni che precedettero la battaglia, le truppe di Firenze cercarono di aprirsi un varco per giungere al castello di Montecatini, e i Pisani, contromanovrando, provarono a fermarle. Piccole vittorie esaltavano ora l’una, ora l’altra parte: una notte il maresciallo angioino riuscí a far entrare una colonna di provviste nel castello e il giubilo invase le truppe fiorentine; inoltre riuscirono a catturare un convoglio di ben quaranta carri nemici, carichi di provviste. Il 28 agosto, sapendo dell’imminente arrivo delle truppe nemiche inviate

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da Cangrande, i principi angioini spostarono l’enorme esercito presso Buggiano, per impedire ogni possibilità di rifornimento al nemico.

Il comandante ammonisce la truppa

Uguccione preferí abbandonare l’assedio di Montecatini, pur di non avere tagliate le vie della eventuale ritirata e cosí ordinò di dare alle fiamme le macchine d’assedio, facendo credere ai Fiorentini di voler abbandonare il campo. In realtà, dettò ai suoi soldati precise agosto

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istruzioni sulla condotta da tenere in battaglia, ricordando come alla fine d’agosto del 1268 Corradino e i suoi fossero stati sconfitti a Tagliacozzo dopo una vittoria ormai colta, proprio perché si erano abbandonati al saccheggio (vedi «Medioevo» n. 199, agosto 2013; anche on line su medioevo.it). Al mattino del 29 agosto 1315, le truppe fiorentine e guelfe avanzavano, credendo che il nemico stesse tentando di fuggire, per raggiungere le mura sicure di Lucca o quelle di Pisa. Molti soldati cavalcavano senza armatura, a causa della calura, e anche i balestrieri avevano affidato le loro pesanti armi ai muli, procedendo in marcia ordinata. Giunti di fronte al torrente Borra, furono attaccati dall’avanguardia dell’esercito pisano. Guidava la carica Francesco della Faggiuola, figlio di Uguccione, preceduto dal fiorentino fuoruscito Giovanni Giacotto de’ Malespini, che sventolava il vessillo imperiale. Seguivano la bandiera cavalieri assoldati italiani e molti sbanditi e fuorusciti ghibellini, sia fiorentini che di altre città italiane. La colonna guelfa ondeggiò e non resse l’urto, ma alcuni cavalieri al comando del principe Pietro resistettero e riuscirono a strappare la bandiera imperiale a Giacotto Malespini, il quale cadde da cavallo e morí nella mischia. Sembra che nel combattimento Francesco della Faggiuola, reggente del Comune e delle truppe di Lucca, si sia scontrato personalmente con il figlio del principe di Taranto, il diciottenne Carlotto: alla fine della battaglia i due cadaveri furono trovati uno accanto all’altro. Esaurita la carica del primo assalto, Uguccione ordinò una nuova carica a 800 cavalieri freschi. Per evitare di essere frenati dalle fanterie fiorentine, armate di lance lunghe, Uguccione ordinò ai suoi balestrieri di saettare da lontano, creando lo scompiglio tra le fila nemiche. Sotto la pioggia di dardi, le milizie gigliate abbandonarono le ingombranti lance e si diedero alla fuga. La colonna di cavalleria fiorentina e

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guelfa rimase scoperta e fu nuovamente travolta dalle truppe ghibelline di Uguccione. Una terza schiera forse non venne neppure impiegata in battaglia e Uguccione diede ordine di inseguire i fuggiaschi per oltre 20 chilometri. I fanti furono facilmente raggiunti e decimati. Le cronache pisane parlano di 10 000 caduti e 7000 prigionieri. Oltre a questi, molti annegarono nelle paludi, nel tentativo di riparare nel non lontano forte di Fucecchio.

Caduti illustri e veri vincitori

Tra i caduti guelfi vi furono nomi eccellenti, come il capitano di guerra dei Senesi, il conte Carlo, figlio del conte Guido da Battifolle, Pino della Tosa, tre membri della famiglia Strozzi, un Bardi, due dei Donati e due dei Tosinghi. Dei tre capi angioini, Carlo di Acaia, detto Carlotto, morí in combattimento, Carlo Tempesta scomparve (probabilmente anch’egli annegato nella palude), Filippo di Taranto, febbricitante, non partecipò neppure allo scontro, e trovò scampo entro le mura di Firenze. Tra i ghibellini, caddero invece il capitano catalano Caroccio e il conestabile proveniente dall’Aragona, Blasco, entrambi imparentati con i re di Sicilia. Morirono un Cipriani e un Caponsacchi, e almeno sei cavalieri tedeschi. Si distinsero in battaglia il marchese Spinetta Malaspina e Castruccio Castracani: a quest’ultimo, secondo le cronache, andrebbe gran parte del merito per il successo. Dopo nove giorni, Uguccione decise di lasciare il campo di battaglia: Montecatini e Monsummano capitolarono. Il 9 settembre il comandante ghibellino entrava trionfalmente a Pisa. La vittoria di Montecatini era stata conseguita il 29 agosto, nel giorno in cui si ricorda la Decollazione di San Giovanni Battista, patrono di Firenze: mai coincidenza fu piú utile alla propaganda pisana, rincuorata dai timori e dalle superstizioni dei Fiorentini, che videro in quell’associazione di eventi un significato simbolicamente terribile. F

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storie malta

I «secoli bui» di

MALTA

di Andreas M. Steiner, fotografie di Daniel Cilia

Stretto tra l’età dei grandi templi megalitici, l’età antica e la gloriosa epopea dei cavalieri dell’Ordine di San Giovanni, il millennio medievale dell’isola appare come un’epoca «minore», ancella di una storia «altra». Ma fu proprio nel corso di quel periodo oscuro che vennero a formarsi alcuni elementi fondamentali dell’identità storico-culturale dell’arcipelago situato nel cuore del Mediterraneo

La sagoma della Cittadella di Gozo, sovrastante la città di Rabat (o Victoria), capitale della seconda isola dell’arcipelago maltese.

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hiunque oggi approdi a Malta – via mare o, piú comodamente, con l’aereo – viene immediatamente confrontato con il particolare linguaggio architettonico che pervade l’intero arcipelago, e che comprende sia l’edilizia residenziale (moderna, otto e novecentesca), sia i grandi edifici pubblici, rinascimentali e barocchi, nonché le innumerevoli chiese delle isole. Accomunati dallo stesso materiale di costruzione – la tipica pietra maltese dal colore del miele (evocato dallo stesso nome antico di Malta, «Melita», che racchiude la parola «meli», greco per miele) –, stile, funzione e destinazione degli edifici delle città dell’arcipelago si dischiudono al visitatore in una girandola di progressivo stupore. Egli scoprirà presto, inoltre, che, nonostante la millenaria e complessa storia dell’arcipelago, l’architettura maltese visse due sole grandi stagioni, per di piú separate tra loro da alcuni millenni: l’età dei templi megalitici, risalenti a un periodo

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compreso tra la metà del III millennio a.C. e la metà del II millennio a.C., e, all’altra estremità cronologica, il periodo dei Cavalieri, iniziato il 13 novembre del 1530 con l’insediamento sull’isola dell’Ordine degli Ospedalieri di San Giovanni, già Cavalieri di Rodi (l’isola prospiciente la costa turca da cui, dopo una permanenza di quasi duecento anni, i Cavalieri furono espulsi nel 1522 da Solimano il Magnifico).

Una storia plurisecolare

Le testimonianze delle altre epoche maltesi, che pure hanno visto l’avvicendarsi di Fenici, Punici, Romani, Bizantini, rimangono nascoste, emergono dagli scavi (vedi il grande santuario della fenicia Astarte a Tas-Silg, nel Sud-Est dell’isola, esplorato da archeologi italiani) o giacciono sotto terra da secoli, come le catacombe di epoca romana e bizantina di Rabat, la cittadina appena fuori dalle mura della piú antica capitale dell’isola, Mdina. E l’età medievale, quel lungo periodo iniziato con la conquista degli Arabi aghlabidi, a cui seguirono Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi e Spagnoli? È un dato di fatto

che il Medioevo maltese, oscurato dalla grandiosità dei monumenti preistorici e poi rinascimentali e barocchi, appaia come un’epoca «minore», un periodo di «secoli bui», durante il quale l’arcipelago, caduto sotto il dominio di padroni stranieri, attraversa il millennio non come protagonista, ma come ancella di una storia piú grande, scritta dalle dinastie islamiche prima e da quelle del Medioevo siculo e europeo, poi. Se è verosimile, dunque, che l’età di Mezzo significò, per la stragrande maggioranza degli abitanti delle isole maltesi, una fase di povertà e di costante pericolo (esacerbato dalla continua esposizione alle incursioni dei pirati), essa segna, nondimeno, un periodo di fondamentale importanza per la costruzione dell’identità culturale del popolo maltese. A partire, come vedremo, dal dato linguistico, ma non solo. Vi è poi un’altra ragione che ha contribuito a rendere «oscuro» il Medioevo maltese: l’assenza di fonti. Come ha recentemente sottolineato il medievista maltese Charles Dalli, la stragrande maggioranza di testimonianze è riferibile esclu-

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storie malta sivamente al periodo compreso tra il 1250 e il 1530, mentre di nessun documento si dispone, per esempio, del periodo tardo-antico, quando l’arcipelago entrò nel raggio d’influenza dei regni germanici. Pochissimi, inoltre, sono i dati noti per il suo periodo bizantino. Al crollo dell’impero romano d’Occidente seguono quasi quattrocento anni di «silenzio»: è verosimile che le incursioni vandaliche, capeggiate – a partire dal 439 – dal re Genserico nell’Italia meridionale e nelle grandi isole mediterranee, quali la Sardegna e la Sicilia, abbiano coinvolto anche l’arcipelago maltese. Ma solo dopo il sacco di Roma del 455 sappiamo che Malta entra a far parte del regno germanico. Nel 494 l’arcipelago viene sottomesso dagli Ostrogoti di Teodorico; verso il 530 il generale Belisario parte alla riconquista dei possedimenti di Roma nell’Africa settentrionale e, nel 533, approda a Malta e la conquista in nome dell’imperatore Giustiniano. L’isola torna a essere «cristiana»,

riabbracciando un credo che aveva adottato sin dagli ultimi secoli del dominio romano.

Gharb Ghasri

Verso la conquista araba

Anche del lungo periodo bizantino di Malta (535-870) si hanno scarsissime documentazioni: Procopio la menziona nel contesto della guerra di riconquista dei territori vandalici in Africa, e si sa che, intorno al 600, l’isola aveva un vescovo e vi stazionava una guarnigione; in documenti databili tra il VII e l’VIII secolo appare il nome dell’ufficiale «Niceta, drungario [comandante di una squadriglia di navi della flotta bizantina] e arconte [magistrato] di Malta». Come fa notare ancora Charles Dalli, «Malta è stata bizantina per un terzo del periodo medievale, eppure gli storici bizantini sono quasi unanimemente in silenzio per quanto riguarda l’isola». Situato al margine estremo della zona d’influenza di Bisanzio, l’arcipelago, un tempo importante snodo commerciale, vide progres-

Marsalforn

San Victoria Lawrenz Xewkija Xlendi Sannat

Xaghra

GOZO

EUROPA

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COMINO

Malta AFRICA

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Millieha

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Mar Mediterraneo

St. Julian’s Sliema Gzira

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MALTA

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Valle Va V etta ett tta

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10 Km

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BirzebbugIa

sivamente ridursi la sua rilevanza, determinando il progressivo impoverimento della popolazione. Uno stato di cose aggravato dalle incursioni musulmane provenienti dalle vicine coste dell’Africa, che, ancora durante la prima metà del IX secolo, i cristiani di Melita riuscirono ad arginare. Ma non per molto... L’occupazione araba dell’arcipelago, iniziata con la conquista di Malta nell’inverno dell’869 e conclusasi nell’estate dell’870, segnò la fine di tre secoli di presenza bizan-

A destra cartina dell’arcipelago maltese, tratta dall’opera Insulae Melitae descriptio di Johannes Quintinus (1500-1561), pubblicata a Lione nel 1536. Nella pagina accanto veduta aerea dell’arcipelago maltese con, in primo piano, l’isola di Malta e, sullo sfondo, quella di Gozo.

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DAI ROMANI ALL’IMPERO BRITANNICO 725-218 a.C. Periodo fenicio-punico. 218 a.C.-395 d.C. Allo scoppio della seconda guerra punica, Malta viene conquistata dai Romani, che ne mantengono a lungo il possesso. 395-870 Conquiste dei Vandali (454) e dei Goti (464). Nel 533, riconquista per opera di Belisario. 870 Conquista araba di Malta. 1090 Fine del dominio arabo e conquista normanna; l’isola entra nell’orbita del regno di Sicilia passando sotto il dominio svevo, angioino e aragonese (1282). 1410 Passaggio dell’isola dal dominio aragonese alla dinastia aragonese-castigliana.

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1530 L’isola è offerta in affitto perenne ai Cavalieri Ospitalieri, i cosiddetti Cavalieri di Malta. 1565 I Turchi assediano senza successo Malta; i Cavalieri procedono alla fortificazione dell’isola e alla costruzione di Valletta. 1798 Durante la campagna d’Egitto Napoleone occupa l’isola; capitolazione dei Cavalieri di Malta. 1800 Sollevazione dei Maltesi sostenuti da Gran Bretagna e regno di Sicilia; resa dei Francesi. 1814-1964 Malta diventa parte dell’impero britannico. 2003 Malta entra nell’Unione Europea.

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storie malta tina e, al contempo, avviò un periodo che impresse un «marchio indelebile sulle isole maltesi e sui suoi abitanti», secondo le parole dello studioso maltese Leonard Mahoney. Gli Arabi della dinastia degli Aghlabidi mossero dall’Ifriqiya’ (l’odierna Tunisia) alla conquista della Sicilia e, lungo il percorso, misero a ferro e fuoco l’arcipelago. Salvo coloro che, messi in guardia dalle ripetute incursioni degli anni precedenti, aveUna veduta delle catacombe di S. Agata, nella cittadina di Rabat (Malta). Il complesso è una delle numerose strutture sotterranee cristiane realizzate nell’isola a partire dalla tarda antichità.

vano già abbandonato le isole per la terraferma italiana, nessuno degli abitanti cristiani fu risparmiato dalla furia dei nuovi padroni.

Nella Casa dell’Islam

Per la dominazione araba di Malta (piú di due secoli) vale quanto già affermato per l’età tardo-antica e bizantina: sono rarissime le fonti, esclusivamente arabe, che documentano il periodo in cui Malta divenne parte della dar al-Islam (la «Casa dell’Islam», ovvero i territori posti sotto il controllo politico e giuridico dell’Islam, n.d.r.). Gli autori arabi, di diversi secoli successivi agli accadimenti, si soffermano sul

momento della conquista: il celebre storico Ibn Kaldun (1332-1406) e il viaggiatore di origini berbere alHimyari (morto nel 1495), la datano al dicembre dell’869, mentre altre fonti, tra cui il Kitab al-Uyun (il Libro delle Curiosità, un trattato di astronomia e geografia compilato da anonimo nella prima metà dell’XI secolo), affermano che si sia verificata il 28 agosto dell’870. Il tardo resoconto di al-Himyari attinge a fonti precedenti, tra cui gli scritti, oggi noti solo in maniera molto frammentaria, dello storico al-Bakhri, vissuto nella Spagna dell’XI secolo. Da esso emergono, però, alcuni dati significativi: come, per


esempio, quello della morte del condottiero Khalaf al-Khadim, avvenuta durante l’operazione, segno che la resistenza opposta dagli abitanti cristiani non era, poi, forse cosí inconsistente. Informato dell’accaduto, l’emiro di Kairouan chiede al suo governatore in Sicilia, tale Muhammad Ibn Hafaga, di inviare a Malta un nuovo amministratore. A quest’ultimo – prosegue il documento – si devono la conquista e il saccheggio della hisn (la fortezza) di Malta e la cattura del suo malik (il comandante), il cui nome trascritto in arabo evoca quello dell’ammiraglio bizantino Himerios. Non si può escludere, inoltre, che si trattasse

TAS-SILG, I MILLENNI DI UN SANTUARIO N

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Planimetria della chiesa a pianta basilicale di Tas-Silg, sicuramente in funzione in età bizantina, che sfruttò le preesistenti strutture dell’area sacra pagana: 1. vasca battesimale; 2. trincea di asportazione dell’abside; 3. incasso per il sostegno della mensa d’altare; 4. impronte delle colonne tra le navate; 5. recinzione liturgica nella navata centrale; 6. soglia dell’accesso all’edificio; 7. resti del muro perimetrale nord.

Qui sopra, a sinistra l’area archeologica di Tas-Silg. Qui sopra, a destra dritto e rovescio di una moneta di epoca romano-repubblicana, battuta dalla zecca di Melita. A sinistra tremisse in oro di Costantino IV (670-674 d.C. circa) coniato nella zecca di Siracusa, dal deposito del fonte battesimale della chiesa di Tas-Silg.

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storie malta Gian Francesco Abela

Il «padre» dell’identità maltese Nato e vissuto a Valletta, Gian Francesco Abela (1582-1655) può essere considerato il padre della storiografia maltese. Sua è la fondamentale Della Descrittione di Malta isola nel Mare Siciliano: con le sue antichità, ed altre notizie in cui l’autore riunisce un gran numero di informazioni di prima mano relative a lingua, storia, folklore ma anche archeologia dell’arcipelago. Abela fu anche il primo studioso a ipotizzare una storia medievale di Malta e, in quest’ottica, gli storici contemporanei gli attribuiscono il merito di aver contribuito alla formazione della «moderna identità maltese». In effetti, ricostruendo il millennio medievale di Malta, Abela fa emergere il quadro di un passato medievale unitario, fondato sui «pilastri gemelli della lingua e della religione» (Charles Dalli). Si tratta di un quadro storico attendibile? Come in ogni ricerca del genere, occorre distinguere tra percezione storica e dati fattuali. Resta il fatto che – come ricorda ancora lo storico maltese Charles Dalli – nel processo di costruzione di un’identità collettiva, il ricorso all’oscuro passato medievale dell’arcipelago rappresentava l’opzione migliore. Da quei secoli, infatti, gli abitanti di Malta e Gozo sembrano emergere come una comunità omogenea, unita da una lingua comune, il maltese, e da una religione condivisa da tutti, quella cristiana. Un’età che lo studioso settecentesco Abela considerava come l’indiscussa fucina dell’anima nazionale maltese.

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del vescovo di Malta, del quale un documento di qualche anno piú tardi (l’Epistola di Teodosio) riferisce che finí i suoi anni nella prigione di Palermo. Non è ben chiaro dove, effettivamente, si trovasse la fortezza di cui parla al-Himyari, forse nei pressi della costa; sicuramente non è da identificarsi con la capitale dell’isola, Melite, l’odierna Mdina-Rabat. La conquista araba comportò la distruzione di tutte le chiese e degli altri luoghi, sacri e profani, abitati dalla popolazione cristiana. Piú che le fonti scritte, sono le indagini archeologiche in alcuni importanti luoghi dell’isola a testimoniarlo: cosí a Tas-Silg, un sito indagato per lunghi anni da una missione archeologica italiana, dove, sulle fondamenta di un antichissimo luogo di culto megalitico, sono emersi i resti di un santuario fenicio, poi ellenistico e romano, nonché strutture riferibili a un insediamento monastico fortificato di epoca bizantina (vedi box a p. 41).

La chiesa ritrovata

O, ancora, la villa di San Paolo Milqi, nella parte nord-orientale dell’isola di Malta, un importante insediamento agricolo di età romana, trasformata in fortificazione dagli invasori arabi. Infine, vale la pena citare una fonte, questa volta epigrafica, che attesta la presenza nell’isola di una chiesa importante: si tratta di un’iscrizione nel castello di Habashi, a Sousse (in Tunisia), e di cui riferisce il medico Ibn al-Gazzar (noto anche con il nome latinizzato Algizar), vissuto in Ifriqiya’ nel X secolo. Recita il testo: «Tutte le pietre scolpite e le colonne marmoree di questo castello furono portate qui dalla kanisa (chiesa, in arabo) di Malta per opera di Habashi figlio di Umar». Che cosa accadde alle isole maltesi nei decenni che seguirono la conquista araba? Dobbiamo prendere alla lettera al-Himyari quando affermava che «dopo il 255 (l’anno 870 d.C.) l’isola di Malta divenne agosto

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una rovina disabitata»? Al contrario. Semmai, si potrebbe ipotizzare che l’espressione «rovina disabitata», usata da un «cronista» del XV secolo, si riferisse solo a quel periodo iniziale del dominio arabo, mentre ben diverso doveva presentarsi il quadro nei duecento anni successivi.

Olivi e cotone

Per oltre due secoli, infatti, gli Arabi fecero delle isole un lembo del mondo islamico, unendole politicamente al governo della Sicilia e innovando l’agricoltura con l’introduzione di nuove tecniche di irrigazione, grazie alle quali fu possibile coltivare olivi, aranci, limoni e, soprattutto, il cotone, destinato a divenire una delle piú importanti risorse economiche dell’arcipelago. Solo cosí possiamo spiegarci perché, dopo quei duecentoventi anni «bui» dal punto di vista delle fonti documentarie, la popolazione maltese (qualche migliaio di abitanti, forse 5000) si affacciò al mondo tardo-medievale avendo

adottato modi di vita, consuetudini e, soprattutto, una lingua araba. Di quest’ultima testimoniano i numerosi toponimi in arabo-maltese, tra cui quelli delle isole stesse: gli Arabi cambiarono il nome di Melita in Malta, quello greco di Gaulus (l’odierna Gozo) in Ghawdex. Le due isole minori vennero chiamate Kemunna («cumino», l’odierna Co-

mino, dall’omonima spezia che vi si coltivava) e Fifla (dall’arabo «filfel», pepe). Sono questi, ancora oggi, i nomi ufficiali delle isole. Tuttora in uso sono, inoltre, toponimi arabomaltesi legati a particolari caratteristiche del terreno, come wied (le valli attraversate da corsi d’acqua a regime torrentizio), ‘ayn (fonte), ghar (caverna), marsa (porto), gebel

In alto veduta aerea di Mdina (a destra) e Rabat (a sinistra), situate al centro dell’isola di Malta. Si noti come i due nuclei siano nettamente separati da un fossato e da possenti fortificazioni. A destra un particolare della città fortificata di Mdina, sorta sulle rovine dell’antica Melite. Nella pagina accanto ritratto di Gian Francesco Abela (1582-1655), padre della storiografia maltese.

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LE TOMBE MUSULMANE DI RABAT In alto un’immagine dello scavo della domus romana di Rabat, durante il quale vennero alla luce piú di cinquanta sepolture islamiche, riferibili all’età normanna. A destra e in basso alcune delle stele con iscrizioni ornamentali (a destra) rinvenute nel cimitero islamico di Rabat.

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(monte) o hal (la forma breve per rahal, casale). Imponenti dovettero essere anche i lavori di trasformazione urbanistica e di fortificazione eseguiti dai conquistatori, soprattutto nelle due principali località delle isole, Mdina, a Malta, e Victoria, a Gozo. Il modello seguiva quello che possiamo riscontrare ancora oggi nei centri storici delle città nordafricane: una parte dell’antica città di Melite venne isolata dal resto dell’insediamento e circondata da una possente cinta muraria. Alla cittadella cosí fortificata venne dato il nome di «Medina» (che in arabo significa «citta»), divenuta nella variante maltese «Mdina», mentre la cittadina rimasta all’esterno delle mura venne chiamata «Rabat» (l’equivalente di «sobborgo»). Altrettanto accadde con l’imponente cittadella che si erge al centro di Gozo, ribattezzata direttamente «Rabat» (il suo «secondo» agosto

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nome moderno, Victoria, le fu dato molti secoli dopo, nel 1887, in onore dell’omonima regnante britannica). È percorrendo gli stretti e tortuosi vicoli di entrambi questi antichi e affascinanti borghi che il visitatore odierno può riconoscere, percependone topografia e architetture, il progetto che ispirò i nuovi padroni dell’arcipelago. Vi sono poi alcuni, rari, dati archeologici che testimoniano il ruolo della presenza musulmana nelle isole: alla fine dell’Ottocento, durante gli scavi volti a portare alla luce la domus romana di Rabat (alle porte di Mdina), furono scoperte piú di 50 sepolture, insieme a 14 pietre tombali iscritte, perlopiú, con caratteri cufici. Orientate in direzione est-ovest, le tombe erano state adagiate direttamente sulle fondamenta della struttura di età romana; si datano, con molta probabilità, all’epoca normanna (a riprova che il credo islamico era ancora vivo anche nei primi secoli successivi al

dominio arabo) e appartenevano in larga parte a famiglie benestanti della popolazione della città.

Il popolo delle campagne Mentre la popolazione musulmana viveva perlopiú al sicuro – all’interno o nelle immediate prossimità delle cittadelle – è invece difficile

In basso il Wied ir-Rum, la «Valle dei Cristiani», prospiciente la costa occidentale di Malta, accoglie numerose strutture ipogee riferibili al popolamento rurale dell’isola in età medievale.

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immaginare come si svolgesse la vita quotidiana della popolazione rurale, probabilmente costituita, in massima parte, da schiavi, tra cui anche cristiani. Sebbene, infatti, non si abbiano notizie di persecuzioni ai danni della popolazione conquistata, questa dovette sottomettersi ai dettami della nuova reli-

In alto una delle numerose grotte sparse nell’isola di Malta, trasformate in abitazioni, stalle e luoghi di lavoro della popolazione rurale in età medievale e oltre.

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gione, o adottandone il credo o, altrimenti, subendo le discriminazioni che la legge della sharia imponeva ai non credenti (condizione nota, nel mondo islamico, come quella di «dhimmi»).

Nella Valle dei Cristiani

È probabile, inoltre, che anche la religione cristiana venisse ancora praticata, seppur clandestinamente, forse addirittura utilizzando le numerose catacombe di epoca tardo-antica dell’isola. La presenza di una popolazione cristiana è, inoltre, suggerita da alcuni toponimi che a loro fanno riferimento, come per esempio quello del Wied ir-Rum, la «Valle dei Cristiani» («Rum» è il nome dato dagli Arabi all’impero bizantino e, per estensione, ai suoi abitanti n.d.r.). Gli schiavi, cristiani o meno, furono di certo i protagonisti della colonizzazione e coltivazione delle aree rurali dell’arcipelago ed è vero-

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A sinistra la Cittadella di Gozo (Rabat-Victoria). Nella pagina accanto, in basso l’apiario di Xemxija, con le sue nicchie scolpite nella roccia, nelle quali venivano collocati gli alveari in terracotta. Il geografo arabo al-Idrisi (1099-1161) ricorda come il miele (alimento che dà nome all’arcipelago) fosse uno dei prodotti piú diffusi dell’isola. A destra la statua del Conte Ruggero d’Altavilla, nella piazza di Rabat (Malta).

simile che fosse questa categoria sociale a popolare i rahal («casali»), grandi fattorie rurali private, con circa 50 ettari di terreno coltivabile, in genere appartenenti a un notabile. Il bellissimo paesaggio mediterraneo del Wied ir-Rum accoglie testimonianze architettoniche e archeologiche medievali di straordinaria importanza: grotte utilizzate come abitazioni e stalle, insieme a una rete di lunghe gallerie per l’approvvigionamento idrico (una recente indagine condotta dall’archeologo Keith Buhagiar ne ha individuate ben 25), forse alimentate da una cisterna sotterranea. Ma il caso della «Valle dei Cristiani» non è l’unico: la presenza di grotte usate come abitazioni, oppure adibite a luoghi di lavoro o di culto, è un fenomeno diffuso in tutto l’arcipelago; e, in assenza di una documentazione certa, rappresenta una testimonianza di grande

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suggestione sulle difficili condizioni di vita della popolazione umile nei secoli del Medioevo.

Nuovi conquistatori

Nel 1048, i Bizantini tentarono di riconquistare le isole. Grazie a una disposizione dell’emiro che, per l’occasione, revocò il divieto, indirizzato a tutta la popolazione, di portare armi, i Maltesi si unirono nella difesa e riuscirono a respingere gli invasori. Lo scrittore arabo-persiano alQazwini, vissuto nel XIII secolo, descrisse cosí quella che appare come la prima rappresentazione di unitarietà della popolo maltese: «I Rum [i

vi rifiutate di combattere, morirete insieme a noi”. E quando i Rum arrivarono, li affrontarono come un sol uomo». Qualche decennio piú tardi, però, nel 1091, un nuovo padrone si affacciò sulle scoscese coste maltesi: Ruggero d’Altavilla. Dopo aver conquistato la Sicilia, il conte riportò il vessillo della cristianità nell’arcipelago. Gli storici moderni riconobbero nel condottiero normanno colui che aveva liberato le isole dal giogo musulmano. Fu veramente cosí? O non si trattò, piuttosto, di un esempio di «invenzione della tradizione», funzionale alla costruzione di quel nuovo, ma fondamentale tassello della complessa identità storicoculturale maltese rappresentato dal cristianesimo? Sicuramente l’avvento dei Normanni inaugurò un nuovo capitolo dell’affascinante storia di Malta medievale. Ne parleremo prossimamente. Per concludere, riportiamo la descrizione che dell’arcipelago fece il celebre geografo al-Idrisi nel suo Kitab Rugiar (il Libro di Ruggero), stilato proprio su incarico del re di Sicilia, a metà del XII secolo: «A largo dell’isola di Pantelleria, a una distanza di cento miglia in direzione est, si trova l’isola di Gozo munita di un porto sicuro. Da Gozo si procede verso una piccola isola di nome Kamuna. Da lí verso est si incontra l’isola di Malta. È vasta e possiede un porto protetto sul suo lato orientale. Malta ospita una città e abbonda in terre da pascolo, pecore, frutta e miele…». F

Da leggere U Charles Dalli, Malta. The Medieval

Bizantini] li attaccarono nell’anno 440 (1048-49) e chiesero le loro donne e i loro possedimenti. I musulmani si riunirono e si contarono, realizzando cosí che i loro schiavi erano maggiori di numero rispetto agli uomini liberi. Si rivolsero allora ai loro schiavi: “Impugnate le armi insieme a noi, e se vinciamo sarete liberi e condividerete con noi i nostri possedimenti; ma se

Millennium, Midsea Books, Malta 2006 U Leonard Mahoney, 5000 Years of Architecture in Malta, Valletta Publishing, Valletta 1996 U Geoffrey Hull, The Maltese Language Question. A Case Study in Cultural Imperialism, Said International, Valletta 1993

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costume e società golf

Un gioco

Nell’immaginario contemporaneo, il gioco del golf evoca grandi prati verdi, compassati gentiluomini che si sfidano in tenute impeccabili, ancorché bizzarre, e il ronzio, appena percepibile, di piccoli veicoli a motore... Eppure, agli inizi, non fu cosí: le discipline tradizionalmente considerate come gli antenati dello sport attuale, infatti, erano segnate da scontri ben piú accaniti. In occasione dei quali, non di rado, si passava volentieri alle vie di fatto! 48

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e luglio è il mese della mietitura e ottobre quello della vendemmia, febbraio è il tempo del... golf. Sí, proprio dello sport delle lunghe mazze in legno usate per colpire con abilità e precisione una pallina, almeno stando alle splendide miniature che illustrano il Libro d’ore realizzato tra il 1460 e il 1465 per la duchessa Adelaide di Borgogna. In una di esse, il gioco del golf torna anche come corollario di una serafica rappresentazione della Natività: tre pastori, ciascuno dei quali impugna un lungo bastone con un’estremità larga e piatta, simile ai moderni putter (la mazza che si usa per mandare la palla in buca, n.d.r.), sono intenti e concentrati per portare la propria palla il piú vicino possibile al bersaglio (vedi foto a p. 51). I tre giocano su un percorso liscio, affiancato da un green (il tratto di prato rasato che circonda la buca, n.d.r.) in lieve pendenza dove pascolano placide alcune pecore. Accuratamente decorata, la pagina «fotografa» un moagosto

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da pastori

mento di svago che risulta insolito tra le immagini sacre del libro di preghiera e testimonia la fortuna di un gioco che andava sempre piú diffondendosi.

Cú Chulainn, eroe e campione

Ma quando e come nacque il golf? Nelle verdi praterie irlandesi, già in epoca precristiana, le tribú gaeliche s’infiammavano per le squadre impegnate nell’hurling. Era uno sport d’origine celtica, basato su rapidità e forza, praticato con una mazza, chiamata hurley, e una palla, lo sliotar. Giochi simili si disputavano anche nelle Highlands scozzesi spazzate dal vento, dove quest’attività prendeva il nome di shinty – o camánacht nella sua versione invernale – e, a sua volta, aveva influenzato il cammag sull’isola di Man e il bandy inglese e gallese. Il mitico eroe celtico Cú Chulainn (protagonista del cosiddetto Ciclo dell’Ulster), era un giocatore eccezionale e anche in suo onore si svolgevano competizioni nelle principali

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di Roberto Roveda, con la collaborazione di Francesca Saporiti

Miniatura nella quale si vedono quattro uomini impegnati in un gioco simile al golf, dalla pagina di un Libro

d’ore di produzione fiamminga, attribuito all’atelier di Simon Bening. 1520-1530. Londra, British Library.

festività, in particolare alla fine di ottobre, quando ricorreva il Samhain, o Capodanno celtico. Nelle diverse varianti, questi antichi giochi celtici arrivavano a coinvolgere fino a centinaia di giocatori per partita e si disputavano in campi aperti, tra praterie, colline e persino paludi, spazi delimitati da confini sommariamente definiti. Le mazze, leggermente ricurve a un’estremità, erano solitamente realizzate in legno di frassino o noce, ma, pur di giocare, qualsiasi materiale di recupero poteva andare bene: a Uist, isola scozzese delle Ebridi, alla mancanza di alberi, si supplí con fasci di gambi di alghe! La palla, invece, era solitamente in legno oppure in osso, e solo molto tardi si iniziò a utilizzare sfere in cuoio.

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costume e società golf In un eterogeneo mix di golf, hockey su prato e lotta libera, i giocatori si contendevano la palla con l’obiettivo di scagliarla verso una meta delimitata da pali confitti nel terreno, colpendola con l’hurley. Sebbene la mazza fosse lo strumento principale del gioco, si potevano colpire con le mani o con i piedi sia la palla, sia gli avversari.

Archi alti piú di un uomo

Questi irruenti antenati non bastano a garantire al Regno Unito l’onore di aver dato i natali al golf, anche se da quest’area proviene la prima citazione nelle fonti scritte del golf o gowf. Una menzione, come vedremo, non proprio encomiabile. Gli archi lunghi (i leggendari longbow, alti quanto o piú di un uomo) erano stati – a partire dal XIII secolo e per molto tempo – l’arma micidiale e irresistibile dell’esercito inglese. Avevano deciso piú volte le sorti sui campi di battaglia, falcidiando i nemici sotto una pioggia di frecce. I dardi inglesi avevano mietuto numerose vittime tra gli Scozzesi, usciti pesantemente sconfitti a Falkirk nel 1298 e ancora a Neville’s Cross, nel 1346. Giacomo II di Scozia (1430-1460) decise di spezzare quest’egemonia e di combattere il nemico con le sue stesse armi, creando cioè reparti di arcieri scozzesi ben addestrati. Secondo il sovrano, però, a ostacolare il suo progetto di rinnovamento dell’esercito non erano questioni di ordine militare, strategico o economico, quanto un pericolo piú subdolo, vale a dire il gioco del golf! Tale pratica, infatti, figura tra le attività proibite da Giacomo nel 1457 – e ancora nel 1471 e nel 1491 –, con un apposito decreto reale: «It is ordanyt and decreyt (…) [th]at ye fut bawe and ye golf be utterly cryt done and not usyt» («Si ordina e stabilisce che football e golf siano completamente banditi e non piú praticati»). Obiettivo dell’editto – il primo in cui compaia la parola «golf» – era quello di eliminare ogni possibile fonte di distrazione, e soprattutto di infortunio, che potesse distogliere gli arcieri dall’intenso e regolare allenamento necessario a mantenere la loro letale precisione e abilità in battaglia. Abbandonate palle e mazze, il decreto ordinava perciò la realizzazione, presso ogni parrocchia, di almeno due bersagli utili all’addestramento con l’arco di tutti gli uomini abili.

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In basso Gloucester (Regno Unito), cattedrale di S. Pietro. Particolare di una vetrata, raffigurante un giocatore di golf. 1350 circa. Nella pagina accanto la pagina dedicata al mese

di febbraio nel Libro d’ore della duchessa Adelaide di Borgogna. 1460-65. Chantilly, Musée Condé. Al di sotto della scena della Natività, si vedono tre pastori che praticano un gioco simile al moderno golf.

Ma come poteva un gioco pacifico e riflessivo come il golf essere accomunato al calcio e suscitare tanta preoccupazione in Giacomo II e nei sovrani che gli succedettero? Tutto nasceva dal fatto che, ai suoi esordi, il golf era un gioco ben diverso dall’attuale: e, per comprendere l’origine di tale diversità, si deve compiere un nuovo viaggio a ritroso nel tempo, oltrepassare la Manica per tornare nel continente e fare un passo indietro di alcuni secoli, per ritrovare nella soule à la crosse francese e nel kolfspelen fiammingo le radici della disciplina che si diffuse poi nel Regno Unito. Praticata fin dal IX-X secolo nelle regioni del Nord della Francia, la soule era un gioco di palla contesa senza esclusione di colpi da due squadre. Giocata per campi, boschi e piazze, ogni partita lasciava dietro di sé una scia di devastazione, con morti e feriti, tanto da essere piú volte, inutilmente, messa al bando dai sovrani francesi a partire dal 1261. Nella soule la palla poteva essere conquistata utilizzando mani e piedi, ma, in alcuni casi, anche con mazze e bastoni, nella versione denominata appunto à la crosse (con la mazza). Entrambe le varianti della soule si disputavano in animate partite, che potevano coinvolgere interi villaggi, secondo regole che variavano fortemente da zona a zona.

Meglio giocare che combattere...

Nel 1292 a Parigi erano attive 35 birrerie e 94 panetterie, 10 produttori di senape e 41 pescivendoli: fin qui nulla di strano per una città che contava già all’epoca oltre 300 000 abitanti, ma possiamo stupirci di trovarvi anche 14 artigiani specializzati nella realizzazione di palle da gioco e 3 botteghe in cui si producevano mazze e stecche per la crosse e i numerosi giochi da essa derivati, come il billart a terra, il cricket o l’hockey su prato. Numeri agosto

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da non sottovalutare, se si considera che in tutta la città vi erano solo 5 costruttori di balestre e 8 produttori di archi, cosí che l’aspetto ludico sembra battere sul campo quello bellico. Questi dati ci sono noti grazie al censimento delle attività imprenditoriali parigine voluto da Filippo IV di Francia, per poter meglio tassare i suoi operosi sudditi. Si tratta di una prova preziosa non solo della diffusione dei giochi di palla in generale, ma anche dell’incredibile numero di varianti che nacquero e

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si diffusero in quegli anni e che richiedevano strumenti appositamente concepiti e realizzati. La parola golf forse non era ancora nata, ma questo sport poteva già contare su estimatori illustri: Giovanna d’Évreux (1310-1371) regina consorte di Francia, terza moglie di re Carlo IV il Bello era un’appassionata di un gioco che dalle descrizioni appare molto simile al golf o all’hockey su prato e nel quale si cimentava in prima persona, utilizzando una raffinata mazza in argento. agosto

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il polo

Affine, ma non parente Che cosa succede se un giocatore di golf monta in sella? Nasce il polo, verrebbe da dire! E invece no, lo sport ippico in cui gli atleti sono dotati di mazze per contendersi la palla non ha alcuna parentela con il golf. Si tratta, infatti, di uno sport nato nelle grandi pianure dell’Asia centrale e in Persia. Per dimostrare la propria abilità di cavalieri anche in tempo di pace, i guerrieri si sfidavano in un gioco in cui si contendevano una palla con lunghe mazze di legno: la forma, le dimensioni e i materiali degli attrezzi potevano cambiare da regione a regione, ma ciò non impedí alla disciplina di diffondersi nelle steppe euroasiatiche anche tra le tribú mongole e quindi in Cina. In Afghanistan e Kazakistan si pratica ancora oggi uno sport equestre piuttosto cruento che mantiene un legame stretto con la tradizione dei cavalieri delle steppe: si tratta del buzkashi, gara in cui due squadre di uomini a cavallo si contendono, a suon di bastonate e frustrate, la carcassa di una capra, che viene trascinata all’interno di un campo fino a un’area delimitata come meta. Nella Cina occidentale, si pratica una variante di questo sport, con i concorrenti a dorso di yak. Il primato dell’animale dalla stazza piú imponente impegnato in una partita di polo va però a Nepal, Sri Lanka, Rajasthan e Thailandia, Paesi nei quali si gioca, infatti, in groppa agli elefanti.

Sulle due pagine Il gioco del billiardo su terra, litografia tratta da Sports et Jeux d’Adresse, opera di Henry René D’Allemagne (Parigi, 1903). A destra particolare di una miniatura raffigurante una partita di polo, da un canzoniere (Divan) del poeta persiano Shams ad-Din Muhammad. Iran, dinastia safavide, XVI sec.

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costume e società golf In particolare, nel tempo, dalle resse confuse e cruente in cui spesso si trasformavano le prime partite à la crosse, vennero a distinguersi due differenti tecniche di gioco: nella prima, si privilegiava la potenza – con colpi dati con il massimo vigore, tenendo le mazze con entrambe le mani –; nella seconda, la precisione, affinando la tipologia delle mazze e le tecniche di tiro al fine di ottenere una sempre maggior accuratezza. Vennero messe a punto anche due diverse modalità di gara: mentre nella crosse francese il gioco prevedeva la contesa della palla da parte di due squadre, nello spel metten kolve o colf fiammingo, vi era un solo team in campo che, colpendo la palla a piú riprese, doveva coprire un percorso predefinito. Praticato in Olanda almeno dal XIII secolo, il colf era nato inizialmente in ambiente paGiocatori di golf su ghiaccio vicino a Harleem, olio su tavola di Adriaen van de Velde. 1668. Londra, National Gallery.

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storale e proprio dalla forma dei vincastri utilizzati dai pastori per guidare il gregge nasce la particolare sagoma ricurva delle mazze utilizzate in questo sport, praticato tra i prati, sulle dune di sabbia delle terre basse e, d’inverno, lungo i corsi d’acqua ghiacciati. Come dimostra un divieto emanato nel 1297, anche il colf – termine che significa letteralmente «mazza» – era uno sport cruento, ma i danni provocati a cose e persone non derivavano da scontri diretti tra i giocatori, come nella soule, ma dalla forza con cui si scagliavano le palle, che si trasformavano in veri e propri proiettili vaganti. Per questo motivo – ancora una volta senza molto successo –, esso fu bandito dalle città e dai centri abitati. Il forte legame che univa Olanda e Scozia – avvicinate non solo da vivaci scambi commerciali, ma accomunate anche dall’odio per il nemico inglese –, insieme alle tradizioni sportive locali e alle influenze dei giochi praticati in Francia, ha probabilmente rappresentato il terreno fertile per una contaminazione culturale, base ideale per la nascita del golf. Presso le banchine del porto di Edimburgo le navi fiamminghe scaricavano il loro carico di palline di cuoio riempite di piume bollite – featheries – e tornavano in patria con casse cariche di mazze in legno e ferro, lavorate dagli abili artigiani scozzesi e richiestissime dai giocatori olandesi, che ne apprezzavano la raffinata fattura.

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Giocato ancora senza «buche», tutto in superficie, il golf si diffuse rapidamente e, archiviata la stagione delle condanne, iniziò a essere apprezzato anche dai sovrani scozzesi, tanto che, nel 1501, alla firma del trattato di pace con l’Inghilterra, l’allora re Giacomo IV Stuart (discendente diretto di quel Giacomo II che solo cinquant’anni prima si era battuto contro il diffondersi del temibile sport con la mazza) volle festeggiare il lieto evento con l’acquisto di bastoni e palline. Nei secoli, la passione della corona scozzese per questo sport non fece che crescere, soprattutto se dobbiamo prestare fede alle dicerie secondo le quali la regina Maria Stuart, nel febbraio del 1567, celebrò l’assassinio del marito traditore, lord Darnley, con una partita di golf.

I virtuosi della palla «soda»

Anche la Penisola italiana può vantare una qualche parentela, se non una vera e propria paternità, con il gioco del golf. Fonti seicentesche raccontano di come, a partire dal XII secolo, nelle strade cittadine e nelle corti italiane si giocasse alla «pallamaglio». Nata probabilmente nella Napoli angioina e diffusasi poi in tutta la Penisola in epoca rinascimentale, la disciplina venne elogiata con toni appassionati da Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca, nel Canto di giocatori di palla al maglio del 1559.

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Per cimentarsi nella pallamaglio erano necessari un mazzuolo di legno dal manico lungo – da afferrare saldamente con entrambe le mani – e una palla «soda» o «sorda», generalmente in legno di bosso, di piccole dimensioni, ossia, come prescrivevano i manuali dell’epoca, non piú grande di un uovo. La mazza da gioco aveva peso, lunghezza e curvatura variabili, secondo i diversi terreni di gioco: in alcuni casi terminava con una sorta di mazzuolo, in altri con una piccola racchetta realizzata con corde intrecciate in un tondo telaio in legno. In origine, la sfida della pallamaglio coinvolgeva gli atleti in prove di destrezza o di distanza, con l’obiettivo di spedire la palla dentro un buco o verso una meta contrassegnata da un segno circolare o da uno o due bastoni piantati a terra. Nulla a che vedere, tuttavia, con la calma e la riflessività che si vedono oggi sui green: il gioco accendeva una forte competitività che non di rado sfociava in rissa, come racconta una leggenda devozionale ambientata a Sant’Anastasia, nel Napoletano. Il Lunedí di Pasqua del 1450, nei pressi della venerata edicola della Madonna dell’Arco, si stava giocando a pallamaglio, quando un tiro infelice fece andare su tutte le furie uno dei giocatori, il quale non solo proruppe in una terribile bestemmia, ma scagliò con violenza la palla da gioco verso la sacra effigie. L’icona sacra prese a sanguinare e la folla sconvolta dal prodigio e imbestialita per

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costume e società golf A sinistra William Mosman, I ragazzi Macdonald: Sir Alexander Macdonald, IX Baronetto di Sleat e I Barone di Slate, con Sir James Macdonald, VIII Baronetto di Sleat. Olio su tela, XVIII sec. Edimburgo, Scottish National Portrait Gallery. Sulle due pagine illustrazione raffigurante la cattedrale di Saint Paul, a Londra. Particolare di una stampa realizzata da Wenceslaus Hollar. 1657. Londra, Guildhall Library & Art Gallery.

l’offesa compiuta, cercò di linciare il sacrilego giocatore, che si salvò per miracolo. Con il tempo, il gioco andò affinandosi, aumentando di complessità con l’inserimento di specifiche gare di abilità, come il rouet (giro di campo con il minor numero di colpi), la chicane (portando il gioco in aperta campagna, su terreno accidentato) o la passe, nella forma del gioco a squadre con quattro o sei giocatori.

Anche i re scendono in campo

La pallamaglio appassionò nobili e plebei non solo in Italia: intorno al XVI secolo valicò le Alpi e conquistò sia la Francia, dove prese il nome di mail ed ebbe tra i suoi giocatori piú accaniti Luigi XVI (che fece realizzare un apposito campo presso il suo palazzo delle Tuileries), sia oltre la Manica, nell’intero Regno Unito, dove fu ribattezzata pall-mall e, tra i suoi molti estimatori, annoverò anche il re Carlo II d’Inghilterra. Nei secoli le mazze si perfezionarono, differenziandosi

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Curiosità

Meglio la chiesa del green In origine, il golf non era uno sport prevalentemente elitario, come appare oggi, ma era giocato da persone appartenenti a ceti sociali differenti. Se i nobili lo praticavano nelle corti, in giardini ben curati o appositi campi da gioco, alle persone di piú modesta estrazione non restavano che campi fangosi o troppo sassosi o, in città, piazze trafficate e vie anguste. Con le loro ampie navate, le

Piú di un toponimo italiano ed europeo evoca la pratica della pallamaglio

alte volte e le magnifiche pavimentazioni regolari, le cattedrali rappresentavano perciò una tentazione irresistibile per i fanatici del golf, che spesso si intrufolavano nelle chiese per godere di un terreno di gioco perfetto. Una pratica che non poteva naturalmente riscuotere il consenso degli ecclesiastici, come

testimonia lo sconsolato sfogo dell’arcivescovo di Londra Robert Braybrooke, nel 1385, esasperato dal vedere ridotta a campo di battaglia la superba cattedrale di Saint Paul. Il presule condanna quegli uomini sconsiderati che giocavano senza ritegno fuori e dentro la chiesa, provocando con i loro incauti tiri gravi danni alle vetrate e alle sculture e mettendo in pericolo la loro stessa anima.

dal mazzuolo originario a seconda dei colpi e degli effetti desiderati, mentre in alcuni casi, per attutire i colpi, la palla venne ricoperta in panno. Pur non potendo stabilire una discendenza diretta, la pallamaglio ha radici comuni a numerosi sport moderni, quali il cricket, il croquet e il golf. E sebbene non venga piú praticata da tempo, la sua impronta si conserva nella toponomastica di alcune città italiane ed europee: a Modena sopravvive via Pallamaglio, mentre a Torino una strada omonima è stata successivamente reintitolata a Oddino Morgari; resistono poi via Maliebaan a Utrecht e via Palmaille ad Amburgo. Dopo aver idealmente percorso da nord a sud l’intera Europa e analizzato le rivendicazioni di ciascun Paese sulla paternità del golf, non è possibile stabilire un momento esatto, un giorno zero nella storia di questo

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costume e società golf A sinistra Shenzhen (Cina). Veduta di un campo da golf. In basso Sir George Chalmers, Ritratto di Sir William St. Clair di Roslin. Olio su tela, 1771. Fondatore della Company of Gentlemen Golfers, Sir William scrisse una prima stesura delle regole del gioco del golf.

Il chuiwan

La versione cinese Mentre i golfisti europei muovevano i primi incerti passi, anche dall’altra parte del mondo ci si dilettava con uno sport molto simile: il chuiwan, vocabolo derivante dall’espressione che significa, letteralmente, «colpire la palla», una sintesi che trasmette al meglio la raffinata complessità di questo gioco, praticato, a partire dal X-XI secolo, sotto la dinastia Song (970-1279). Nello chuiwan i giocatori hanno a disposizione per i loro tiri fino a 10 mazze – differenti per forma, peso e materiale, da scegliere in base al terreno e agli effetti da dare alla palla – con le quali fare punto infilando la palla in apposite buche nel terreno segnalate da piccole bandiere colorate. Rimasta in voga durante tutta la dinastia Yuan (1280-1368) e Ming (1368-1644), tale pratica cadde lentamente in declino, trasformandosi in un passatempo per donne e bambini. sport. Tuttavia, per assistere alla nascita del golf moderno, cosí come ancora oggi viene praticato in tutto il mondo, occorre tornare in Scozia. Si devono infatti a William St. Clair di Roslin, fondatore della Company of Gentlemen Golfers, la stesura, nel 1764, delle prime regole scritte – e qui si parla finalmente di «buche»! – e la creazione del primo circolo di golf. Nei dipinti d’epoca possiamo vedere St. Clair con l’elegante uniforme dei Gentlemen Golfers che avevano sede a Muirfield: giubba rossa con pantaloni alla zuava di velluto e scarpe cardinalizie, con tanto di fibbia, per la massima eleganza, anche se forse non comodità, in campo. E dall’intraprendenza di questi Gentlemen scozzesi (ri)nacque il golf. F

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Da leggere U Richard D. Mandell, Storia

culturale dello sport, Laterza, Bari-Roma 1989 U Michael Flannery, Richard Leech, Golf Through the

Ages. 600 Years of Golfing Art, Golf Links Press 2004 U Rodolfo Fiorilla, Lorenzo Paolini, Golf, che passione, ASEFI, Milano 1999 agosto

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saper vedere roma

La cappella del

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papa

guaritore di Chiara Mercuri

Simile a una fortezza, la basilica dei SS. Quattro Coronati, a Roma, custodisce una delle piú insigni attestazioni dell’arte medievale: il ciclo affrescato che orna la cappella di S. Silvestro, evocando il racconto della «Donazione di Costantino»

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a basilica romana dei SS. Quattro Coronati colpisce ancora oggi per il suo aspetto di chiesa fortificata che domina la sommità del colle del Celio. La sua fondazione risale alla fase antica della cristianizzazione dell’Urbe, verosimilmente alla fine del V secolo, dal momento che è ricordata, cento anni piú tardi, da papa Gregorio Magno. La chiesa sorse su un edificio piú antico, probabilmente l’aula di una residenza aristocratica, e fu dedicata a quattro marmorari martirizzati in Pannonia – l’attuale Ungheria – durante le persecuzioni di Diocleziano per essersi rifiutati di scolpire la statua del dio Esculapio. In realtà, l’individuazione di tali personaggi è resa complessa dal sovrapporsi di leggende e vicende relative ad altri gruppi di martiri, una confusione che si dovette generare già in età antica e che si accentuò quando si cercò di individuare i loro resti corporei per favorire la venerazione dei fedeli. Fu allora che i quattro marmorari pannonici furono confusi con altrettanti soldati romani che si erano rifiutati di adorare una statua dello stesso dio Esculapio, o che, secondo un’altra tradizione, si sarebbero rifiutati di giustiziare i marmorari cristiani. Inizialmente, la dedicazione della chiesa fu comunque indirizzata verso i quattro anonimi soldati, detti «coronati» dalla simbolica corona del martirio.

Sulla strada per il Laterano

La chiesa ebbe sempre grande importanza, ma assunse un valore particolare nell’Alto Medioevo, poiché era prossima alla via che, in occasione della propria elezione, il papa percorreva da S. Pietro al Laterano (che era allora la sua residenza). In età carolingia, papa Leone IV (847-855) trasformò radicalmente il complesso: fece aggiungere alla primitiva aula tardo-antica due navate laterali con tre oratori sporgenti e costruí una cripta semianulare per la venerazione dei corpi dei martiri, alle cui reliquie furono aggiunte, in una cassa argentea, quelle di san Sebastiano, il quale, a suo tempo, aveva curato la sepoltura dei soldati uccisi, presso le catacombe. Roma, basilica dei SS. Quattro Coronati, cappella (od oratorio) di S. Silvestro. Particolare degli affreschi sulla parete d’ingresso: la realizzazione del ciclo viene collocata nel biennio 1246-47.

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saper vedere roma Davanti alla facciata della nuova basilica, furono realizzate alcune costruzioni che si sviluppavano attorno a un cortile centrale e di cui restano tuttora ampie sopravvivenze. La torre campanaria, alta 22 m circa, è ancora oggi visibile con le sue quadrifore con pilastrini di marmo, ed è uno dei piú importanti monumenti altomedievali della città. Inoltre, come testimoniano alcuni lacerti superstiti, essa era decorata al suo interno da affreschi. Cosí come oggi, attraverso la torre si accedeva al primo cortile, i cui lati erano probabilmente porticati e destinati già all’epoca a residenza per i religiosi che si occupavano del culto. Attualmente vi risiedono le suore di clausura agostiniane.

Un incendio devastante

Il passaggio delle truppe normanne di Roberto il Guiscardo nel 1084, discese per difendere il papa, provocò l’incendio dell’intero quartiere posto tra il Colosseo e il Laterano, che risultò fatale per la chiesa tardo-antica e altomedievale: la basilica, infatti, venne quasi completamente distrutta. Pochi anni piú tardi, il pontefice Pasquale II (1099-1118) decise di ricostruirla. Motivi strutturali e il ridimensionamento della popolazione residente nel quartiere lo indussero a ridurne l’ampiezza, e dell’antica basilica a tre navate si ripristinò unicamente quella centrale e solo nella sua porzione occidentale. Il settore orientale della nave centrale divenne un secondo cortile, che si aggiungeva al primo, che già

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Colosseo

VIA

LABI

C AN A

Basilica di S. Clemente

COMPLESSO MONUMENTALE DEI SS. QUATTRO CORONATI Basilica dei SS. Giovanni e Paolo Basilica di S.Giovanni in Laterano

Dove e quando Complesso monumentale dei SS. Quattro Coronati (basilica, chiostro e oratorio di S. Silvestro) Roma, via dei Santi Quattro, 20 Orario: tutti i giorni, 10,00-11,45; 16,00-17,45; il chiostro è chiuso la domenica mattina Info tel. 06 70475427; e-mail: monachess4@gmail. com; www.monacheagostinianesantiquattrocoronati.it Note per info e prenotazioni relative all’aula gotica e alle possibilità di visita, rivolgersi a: e-mail: archeocontesti@gmail.com; tel. 335 495248 (lu-ve, 9,00-13,00 e 14,00-17,00; no SMS)

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A destra scorcio dell’interno del chiostro di S. Silvestro, parte del complesso monumentale dei SS. Santi Quattro Coronati. Nella pagina accanto, in alto piantina con la localizzazione del complesso. Nella pagina accanto, in basso veduta esterna dell’edificio, dal prospetto occidentale: il complesso si caratterizza per le forme simili a quelle di una fortezza, assunte all’indomani dei rimaneggiamenti promossi dal cardinale Stefano Conti nel XIII sec.

precedeva l’accesso all’edificio di culto. Le navate laterali vennero del tutto abbandonate e furono riutilizzate sia per integrare il cortile che il refettorio, attualmente ancora in uso alle monache. Per riequilibrare l’altezza del soffitto, ormai sproporzionata a seguito della riduzione dell’ampiezza della chiesa, Pasquale II fece aprire due matronei. Il pontefice si occupò inoltre di riattare l’area sottostante l’altare, dove ritrovò le urne con i corpi dei santi Quattro, tuttora custodite nella cripta. La basilica realizzata da Pasquale II – che è quella attuale – risulta cosí costituita da tre navate, divise da colonne con capitelli corinzi. L’arco trionfale si eleva su due pilastri rettangolari che delimitano l’area absidale, una delle poche evidenti sopravvivenze dell’antica aula tardo-antica, parzialmente ricostruita da Leone IV e che Pasquale II si limitò ad affrescare. Il pavimento precosmatesco della basilica pasqualiana presenta numerosi frammenti di lapidi provenienti da cimiteri cristiani. Nel XIII secolo, tutti gli edifici annessi alla basilica conobbero un notevole sviluppo. Il palazzo cardinalizio venne considerevolmente ampliato dal cardinale Stefano Conti, nipote di Innocenzo III. Fu lui ad aggiungere la massiccia struttura sul lato nord della basilica, che conferisce al complesso l’aspetto di un fortilizio.

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Lungo tale lato sorge la cappella (od oratorio) di S. Silvestro, consacrata nel 1247, perla artistica del complesso: essa si presenta come un ambiente rettangolare coperto a volta, con pavimento cosmatesco, e affreschi che mostrano la piú antica rappresentazione della leggenda della Vera Croce e della «Donazione di Costantino». In corrispondenza della cappella, al piano superiore, si trova un salone, detto «gotico», nel quale sono stati recentemente scoperti affreschi coevi (vedi box a p. 72). L’oratorio di S. Silvestro, dunque, era inserito nel magnifico palazzo del cardinale Conti, da lui interamente decorato, e non era – come oggi appare – un corpo isolato.

La stagione del declino

Nel XIII secolo, anche il monastero venne ampliato e dotato di un chiostro a cui si accede dall’attuale navata sinistra della basilica. È uno dei chiostri porticati piú belli di Roma, cinto da quattro gallerie con archetti sostenuti da colonnine con capitelli a foglie piatte. Intorno a esso si sviluppano gli ambienti del monastero, costruiti in tempi diversi. Nel XIV secolo, il complesso cadde in declino a causa del trasferimento dei pontefici ad Avignone, e anche dopo il loro rientro a Roma, non riuscí a ritrovare la sua importanza originaria, per via dello

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Qui sopra la scena che mostra Costantino dormiente, stremato dalla lebbra; l’imperatore viene visitato in

sogno dai santi Pietro e Paolo, i quali lo esortano a rivolgersi a papa Silvestro, affinché ottenga la guarigione.

spostamento della residenza pontificia dal Laterano al Vaticano. Tale evento orientò l’asse urbanistico della città verso il Campo Marzio, decretando la fine dell’antica centralità dell’area compresa tra il Campidoglio e il Laterano, che conobbe allora una lunga fase di decadenza, sia dal punto di vista del prestigio urbanistico che da quello della densità della popolazione residente. Nel 1564, papa Pio IV adibí la struttura dei SS. Quattro Coronati a ricovero per fanciulle orfane, affidandola alle monache agostiniane che ancora oggi sono presenti nel monastero, anche dopo la chiusura dell’orfanotrofio, avvenuta nel secolo XIX.

Il battesimo: una prerogativa papale

Come si è detto, la chiesa dei Quattro Coronati non solo si trovava presso il tragitto che veniva tradizionalmente compiuto dal papa dopo la sua elezione, ma era posta al centro di un quartiere che, sin dall’età tardo-antica, rappresentava il cuore politico della città cristiana. Dal IV secolo in poi, fino a buona parte del Medioevo centrale, intorno al palazzo del Laterano si organizzava la presenza fisica e politica del vescovo di Roma, attraverso gli edifici-cardine nei quali si espletava la sua attività liturgica. Sorgeva qui il battistero, presso il quale – nei primi secoli del cristianesimo – solo qui, e solo lui, aveva la facoltà di battezzare.

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Il monumento in sintesi

Simbolo della «teocrazia» 3 Perché è importante La chiesa si trova presso il Laterano, poco distante dalla strada lungo la quale si svolgeva la solenne processione che segnava l’appropriazione, da parte del pontefice – appena eletto – della sua residenza, cioè il Laterano. Il contributo della chiesa dei SS. Quattro nell’affermazione dell’ideologia «teocratica» della Chiesa si legge con chiarezza nelle pitture della cappella di S. Silvestro, che presentano la versione in chiave filopapale della «Donazione di Costantino» e quindi dei rapporti tra impero e papato. 3 La chiesa nella storia Tra la fine dell’età imperiale e l’età altomedievale il quartiere tra il Colosseo e il Laterano era densamente abitato e rappresentava il fulcro della città cristiana, dominato dai luoghi di potere papali: la residenza lateranense, il battistero, la chiesa del Salvatore (poi S. Giovanni) e infine la cappella privata dei papi, il Sancta Sanctorum. La chiesa dei SS. Quattro Coronati venne cosí a trovarsi in un’area nevralgica per il potere pontificio, e per tale ragione raggiunse grande rilevanza. Nel 1084, tuttavia, durante la spedizione normanna che doveva liberare papa Gregorio VII, fu semidistrutta dai saccheggi e dagli incendi dei cavalieri normanni.

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La chiesa, ricostruita, riacquisí poi centralità e importanza nella topografia politica e religiosa della città, nel corso del XIII secolo. Lo spostamento della residenza pontificia dal Laterano al Vaticano, da una parte preservò la basilica da successivi rifacimenti, rendendola uno dei gioielli dell’arte medievale romana, ma, dall’altra, ne decretò la perdita di centralità e d’importanza. 3 La chiesa nell’arte Insieme ad altri pregevoli elementi architettonici e artistici, tra cui vanno almeno ricordati il raro e antico campanile altomedievale e lo spettacolare chiostro del XIII secolo, il complesso monumentale è di fondamentale importanza per la presenza al suo interno della cappella di S. Silvestro. Il suo ciclo di affreschi, realizzato intorno agli anni 1246-1247, oltre che per la rappresentazione in chiave teocratica della «Donazione di Costantino», è di estrema rilevanza perché costituisce la piú antica raffigurazione in Occidente della leggenda del ritrovamento della Vera Croce da parte dell’imperatrice Elena. Dal punto di vista artistico, il ciclo segna lo sviluppo di nuove modalità espressive dell’arte romana.

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In alto, a sinistra Costantino di fronte alle donne di cui dovrebbe uccidere i figli per guarire dalla malattia, secondo la prescrizione dei sacerdoti pagani. In alto, a destra l’imperatore si inginocchia davanti a papa Silvestro, che lo benedice reggendo in mano un’immagine dei santi Pietro e Paolo. Qui sopra planimetria del complesso nel XIII sec.: in verde la basilica; in azzurro, il palazzo cardinalizio; in giallo, il monastero benedettino con al centro il chiostro.

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Tra i riti che contribuivano a delineare il carisma papale, rientrava anche la cerimonia del «possesso», ovvero lo spostamento al Laterano in forma solenne che il papa doveva compiere, scortato da un corteo, dopo l’elezione in Vaticano. Lungo il tragitto, il nuovo pontefice «raccoglieva» gli omaggi che gli venivano tributati dal potere politico, dal popolo romano e dalla nobiltà. Il rito intendeva sottolineare il valore dell’acquisizione del potere temporale da parte del papa, il quale, tramite la presa di possesso del palazzo del Laterano, toccava il punto piú alto della liturgia del potere pontificio.

Parentele illustri

La chiesa dei SS. Quattro era quindi legata, sia per motivi topografici, sia perché rientrava a pieno titolo nel percorso cerimoniale, ai riti che ruotavano attorno al Laterano. Proprio per questa ragione fu realizzato il ciclo di affreschi che si può tuttora ammirare nella cappella di S. Silvestro. Esso celebrava infatti la presunta origine del potere temporale dei papi, che avrebbe avuto inizio con la donazione al pontefice, da parte dell’imperatore Costantino, di numerosi possedimenti. Non si può inoltre dimenticare che il ciclo fu realizzato per volere di Stefano Conti, nipote di Innocenzo III, che l’aveva nominato cardinale alcuni decenni prima. Innocenzo III (1198-1216) era stato uno dei pontefici che maggiormente si erano impegnati per la definizione del concetto di potere temporale della Chiesa e aveva inoltre cercato di affermare la superiorità dell’autorità papale su quella imperiale. Il ciclo di affreschi rappresenta appunto il paradigma di tale rivendicata superiorità, presentando l’imperatore Costantino in condizione di assoluta subalternità rispetto a papa Silvestro I, il quale, nel corso della vicenda narrata, si delinea come il solo intermediario tra potere celeste e po-

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tere terrestre. Non a caso, Conti fece eseguire le pitture proprio quando era vicario di Roma, per incarico di papa Innocenzo IV (1243-1254). Erano gli anni in cui il papato e l’impero vivevano una delle piú acute fasi di contrapposizione, a motivo dello scontro ferale con l’imperatore Federico II. I dieci affreschi vennero realizzati proprio in questa fase, intorno agli anni 1246-1247, e sono infatti considerati il manifesto di tale contrasto ideologico e politico. La storia rappresentata per immagini si basa sull’apocrifo dell’VIII secolo noto con il nome di «Donazione di Costantino» (vedi «Medioevo» n. 188, settembre 2012; anche on line su medioevo.it). Tale documento presentava un totale capovolgimento del rapporto tra papa Silvestro e Costantino, descritto in tutt’altri termini dalla biografia ufficiale dell’imperatore redatta dal contemporaneo Eusebio di Cesarea. Quest’ultima dipingeva il pontefice come un uomo modesto e fragile, in difficoltà di fronte agli scontri tra le diverse confessioni cristiane, che avevano raggiunto livelli di durezza inaudita. Sempre secondo la versione eusebiana, Silvestro non aveva saputo gestire la situazione, anche perché all’epoca il vescovo di Roma era un presule come gli altri, poiché il primato dell’episcopato romano non era ancora stato definito, né dal punto di vista dottrinale, né politico. Inoltre, secondo Eusebio – che, occorre ricordare, era amico e consigliere spirituale di Costantino –, Silvestro avrebbe cercato piú volte di sollecitare l’intervento agosto

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I MESSI SUL MONTE SORATTE È la quarta scena del racconto e si trova sulla parete destra della cappella. Esortato in sogno da Pietro e Paolo, Costantino ha inviato i suoi messaggeri a papa Silvestro, per chiedere che intervenga e lo guarisca dalla lebbra che l’ha colpito. Il pontefice si trova sulla sommità del Soratte dove si è rifugiato e vive in preghiera. I messi hanno raggiunto il monte a cavallo (nella pagina accanto, in alto) e, giunti alla sua presenza, si inginocchiano mentre Silvestro li accoglie, assistito da due monaci.

dell’imperatore per dirimere le discussioni che laceravano la comunità cristiana. Del resto, Costantino seguiva una consuetudine tipica del mondo romano, in cui gli imperatori erano capi della stessa sfera religiosa.

Un capovolgimento inaccettabile

Per la Chiesa medievale, tale impostazione dei rapporti tra potere politico e potere religioso – a tutto vantaggio del primo – divenne sempre piú inaccettabile e si cominciò allora, soprattutto nei momenti di maggiore tensione tra i due poteri, ad avvalorare una tradizione del tutto opposta a quella eusebiana, che sfociò, in età carolingia, nella redazione della «Donazione di Costantino». La sua falsità, già denunciata dall’imperatore Ottone III intorno all’anno Mille, fu definitivamente dimostrata

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nel XV secolo dal filologo Lorenzo Valla nel De falso credita et ementita Costantini donatione. La presunta «donazione» capovolgeva il rapporto tra Silvestro e Costantino: secondo il documento, l’imperatore, malato di lebbra, sarebbe stato guarito dal papa, il quale gli avrebbe suggerito come rimedio alla malattia la strada della conversione. In segno di riconoscenza, Costantino avrebbe in seguito deciso di stilare un atto per effetto del quale stabiliva l’assoluto primato del vescovo di Roma sugli altri episcopati, donava al papa il presidio della parte occidentale dell’impero, ed eleggeva la basilica lateranense a «caput ecclesiarum», vertice di tutte le chiese; infine, poneva nel palazzo del Laterano la residenza ufficiale dei pontefici. La «Donazione di Costantino» si divide in due par-

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COSTANTINO GUIDA SILVESTRO IN LATERANO Nell’ottava scena, Costantino conduce Silvestro a cavallo dentro Roma. La scena ribadisce in ogni dettaglio l’avvenuto trasferimento del potere dall’imperatore al papa. Quest’ultimo appare in atteggiamento ieratico anche nel gesto benedicente della mano, mentre Costantino è in evidente posizione di subordinazione. SILVESTRO BATTEZZA COSTANTINO Nella sesta scena, l’imperatore viene mostrato già guarito dalla malattia, immerso nell’acqua trasparente del fonte battesimale. La vasca di acqua pura contrasta con quella piena di sangue suggerita dai sacerdoti pagani. La guarigione avviene non a prezzo di un crimine, ma per opera dello Spirito Santo, con il battesimo.

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La pittura romana alla metà del Duecento

La forza espressiva dei maestri senza nome Dal punto di vista artistico, gli affreschi della cappella di S. Silvestro presentano profonde analogie stilistiche e decorative con quelli della cripta del Duomo di Anagni, attribuiti al cosiddetto Terzo Maestro, un pittore di grande forza espressiva. Il cardinale Conti, del resto, committente del ciclo, era originario di Anagni. Allo stesso artista vengono attribuiti anche alcuni affreschi rinvenuti nella cappella di S. Gregorio a Subiaco (1228 circa). Il ciclo di S. Silvestro ci mostra una pittura romana della metà del Duecento dotata di notevole forza espressiva, contrariamente a quanto sostenuto dalla storiografia, che la vorrebbe appiattita sulla tradizione bizantina, soprattutto se posta a confronto della coeva pittura toscana. La produzione di tale periodo riflette soprattutto le esigenze della committenza pontificia. Gli artisti che operarono a Roma in questi decenni furono incaricati di realizzare soprattutto cicli musivi, ti: la prima (capitoli I-X), narra la leggenda di papa Silvestro cosí com’era raccontata nella sua piú antica agiografia, gli Actus Silvestri, un testo redatto tra il IV e il V secolo; la seconda parte, invece, è occupata dalla «donazione» vera e propria, in cui l’imperatore concede privilegi e prerogative al pontefice.

L’imperatore impietosito dalle madri

Anche il profilo del papa contenuto nel Liber Pontificalis (la raccolta delle biografie dei papi medievali) venne elaborato sulla base degli Actus Silvestri, che riportano la versione «pontificia» del battesimo di Costantino secondo la quale l’imperatore, ammalatosi di lebbra, avrebbe convocato i sacerdoti pagani per un consulto; come cura, essi gli avrebbero suggerito di bagnarsi nel sangue di tremila bambini. Impressionato dal pianto disperato delle madri, il sovrano avrebbe però desistito dal proposito. La notte successiva, gli sarebbero allora apparsi in sogno i santi Pietro e Paolo, che gli avrebbero consi-

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tra cui quelli di S. Pietro e di S. Paolo fuori le Mura. Forte dei diversi contributi elaborati nel corso del Duecento, la pittura romana raggiunse la sua piena maturazione verso la fine del secolo, con la scuola di Pietro Cavallini, il quale la saldò definitivamente alle correnti espressive toscane e umbre, che fiorirono con l’arrivo di Giotto a Roma.

In alto Anagni, cripta della cattedrale di S. Maria. Affresco (particolare) raffigurante i Filistei che supplicano gli Ebrei di liberare le loro città dai flagelli. Inizi del XIII sec.

gliato di sottoporsi al battesimo, richiamando a Roma il vescovo Silvestro, fuggito sul monte Soratte per timore delle persecuzioni. Guarito grazie al battesimo, operato nel palazzo del Laterano, Costantino, in segno di riconoscenza, avrebbe concesso al vescovo di Roma doni, privilegi e lo status di capo di tutti i cristiani. Otto giorni dopo la cerimonia, l’imperatore avrebbe inoltre avviato i lavori di costruzione della basilica di S. Giovanni in Laterano, all’interno del suo palazzo privato. In realtà, secondo la versione storicamente piú accreditata, il battesimo di Costantino sarebbe avvenuto solo in punto di morte, a Nicomedia, per mano del vescovo ariano Eusebio di Cesarea. La versione degli Actus Silvestri intendeva probabilmente adombrare l’ingresso dell’imperatore nella cristianità per il tramite di un

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COSTANTINO DONA ROMA A SILVESTRO Guarito dalla lebbra, Costantino, in segno di gratitudine, dona a papa Silvestro la città di Roma, i segni del potere temporale – la tiara, il sinichio (l’ombrellino simbolo della dignità imperiale) –, nonché un cavallo bianco.

presule ariano e insistere al contempo sul primato della Chiesa di Roma. Negli Actus Silvestri, inoltre, Elena, madre di Costantino, viene presentata come una simpatizzante dell’ebraismo, convertita al cristianesimo dallo stesso Silvestro. Per convincerla della superiorità della religione cristiana, il papa si sarebbe impegnato in una disputa contro dodici rabbini. Nel testo sono riportate dodici altercationes su diversi argomenti e, nel corso dell’ultima, un toro sarebbe stato portato alla presenza dei rabbini, i quali, sussurrando al suo orecchio il nome di Yahweh, ne avrebbero provocato la morte immediata. Silvestro, invece, pronunciando il nome di Cristo, l’avrebbe resuscitato. A seguito di tale dimostrazione, Elena si sarebbe convertita e sarebbe

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partita in pellegrinaggio a Gerusalemme, dove avrebbe rinvenuto la Vera Croce.

Un racconto in dieci quadri

Gli affreschi della cappella di S. Silvestro, come già detto, riportano fedelmente il racconto degli Actus, confluito poi nella «Donazione di Costantino», e si rifanno probabilmente a quest’ultima versione. Sulla parete d’ingresso, sotto il Giudizio Universale, il cui centro è occupato dal Cristo giudice, sono presentate le prime tre scene (vedi foto alle pp. 60-61 e 64). Nella prima, Costantino appare colpito dai segni della peste: macchie rosse si presentano sul viso e sulla mano. Alle sue spalle si stagliano tre sacerdoti pagani, che gli suggeriscono di agosto

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LE DATE DA RICORDARE V secolo, fine Fondazione della basilica primitiva, di cui sopravvivono l’abside e alcuni resti, al di sotto della chiesa attuale. VI secolo, fine La basilica è menzionata in un sinodo romano tenutosi al tempo di Gregorio Magno (540-604). IX secolo Papa Leone IV (847-855) trasforma radicalmente il complesso, aggiungendo alla primitiva aula tardo-antica due navate laterali con tre oratori sporgenti; edifica anche una cripta semianulare. 1084 La basilica viene quasi completamente distrutta per il passaggio delle truppe normanne di Roberto il Guiscardo che provoca l’incendio dell’intero quartiere posto tra il Colosseo e il Laterano. XI secolo, fine Pasquale II (1099-1118) fa ricostruire la chiesa, riducendone l’ampiezza. Delle tre navate originarie, si ripristina unicamente quella centrale e solo nella sua porzione occidentale. Il settore orientale della nave centrale viene, invece, trasformato in un secondo cortile. Le navate laterali vengono abbandonate. Pasquale II fa anche aprire due matronei e sistema le urne con i resti dei santi Quattro. XIII secolo Gli edifici annessi alla basilica vengono ampliati, in particolare il palazzo cardinalizio di Stefano Conti. Quest’ultimo fa costruire l’imponente struttura fortificata presente sul lato nord della basilica, che conferisce all’intero complesso l’aspetto di un fortilizio. In questo periodo viene anche costruito il chiostro del monastero. 1247 Consacrazione della cappella di S. Silvestro, posta all’interno del monastero e vera perla artistica dell’intero complesso monumentale. XIV secolo Il complesso viene semiabbandonato a causa del trasferimento dei pontefici ad Avignone. 1564 Per conferirle nuova funzionalità, Pio IV adibisce la struttura dei SS. Quattro Coronati a ricovero per fanciulle orfane, affidandone la tutela alle monache agostiniane. XIX secolo L’orfanotrofio di Pio IV cessa la sua attività. 1997-2006 Nel corso di una campagna di restauri, vengono scoperti nuovi importanti affreschi, risalenti alla metà XIII secolo. immergersi in un lavacro di sangue di bambini che lo monderà dalla malattia. Le madri accorrono in lacrime con i loro figli in braccio e commuovono l’imperatore, che rifiuta di seguire lo scellerato suggerimento. Nel secondo quadro, Costantino è a letto, addormentato, ormai fiaccato dalla malattia. Viene visitato in sogno dagli apostoli Pietro e Paolo, che gli consigliano di chiedere l’aiuto di Silvestro, il quale è a conoscenza di una fonte che può guarirlo. Nella terza scena Costantino invia i suoi messi dal papa. Il racconto prosegue poi lungo la parete di destra. Nella quarta scena, i messi, smontati da cavallo, hanno raggiunto la cima del monte Soratte, dove Silvestro si è rifugiato e vive in preghiera (vedi foto alle pp. 66-67). Si

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vede quindi il papa che si reca da Costantino, il quale subito si inginocchia ai suoi piedi. Il viso dell’imperatore è smarrito e piagato dalla malattia, mentre quello di Silvestro è ieratico, in un atteggiamento reso ancor piú forte dal gesto con cui benedice l’infermo. Il vescovo di Roma reca l’immagine nella quale Costantino riconosce i volti di Pietro e Paolo, che gli erano apparsi in sogno. È dunque la volta del battesimo di Costantino, dal quale appaiono cancellati i segni della lebbra (vedi foto a p. 68). La vasca, posta al centro della scena e colma di acqua trasparente e pura, fa da contraltare all’immagine odiosa della vasca riempita dal sangue dei bambini suggerito come rimedio alla malattia. Laddove il risanamento sarebbe avvenuto al prezzo di un crimine, qui,

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saper vedere roma un’acquisizione recente

Gli affreschi ritrovati Restauri condotti tra il 1997 e il 2006, hanno permesso di scoprire importantissimi affreschi, risalenti alla metà del XIII secolo, nascosti nell’aula detta «gotica», che si trova al primo piano del monastero di SS. Quattro Coronati. In origine, le pitture coprivano una superficie di 850 mq circa, di cui ne restano, perfettamente conservati, 350 circa. L’aula è divisa in due ambienti con volte a crociera. Nella campata sud sono rappresentati i mesi, i vizi, le arti, le stagioni, i venti, lo zodiaco, le costellazioni e un paesaggio marino. Nella campata nord, invece, si trova la raffigurazione del re veterotestamentario Salomone, affiancato dalle virtú, vestite in abiti militari. Nella parte inferiore, sono illustrati i vizi, contrapposti alle virtú, e la rappresentazione si completa con le immagini allegoriche del Sole e della Luna. Varie iscrizioni fanno da didascalia alle immagini, che intendono raffigurare la Chiesa militante, custode della parola divina, che – riflessa nell’ordine della creazione – deve guidare l’uomo verso la conoscenza di Dio. È una Chiesa che premia i fedeli che l’hanno sostenuta e punisce chi le si è opposto. Eseguiti negli stessi anni di quelli della cappella di S. Silvestro, gli affreschi presentano analogie stilistiche con quelli della cappella di S. Gregorio a Subiaco e della cripta del Duomo di Anagni. L’intervento nell’aula gotica è stato diretto dalla storica dell’arte Andreina Draghi ed eseguito dalla restauratrice Francesca Matera.

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Roma, basilica dei SS. Quattro Coronati, aula gotica. Raffigurazione di due virtú personificate: la «Carità» (a sinistra) e il «Timore di Dio» (a destra). Ciascuna porta sulle spalle un personaggio che ne ha incarnato i valori con la sua vita: san Pietro e san Girolamo.

secondo l’indicazione dei cristiani, avviene grazie allo Spirito Santo e al sacramento del battesimo, che monda dal peccato simbolicamente rappresentato dalla lebbra.

La tiara e l’ombrellino

Nella settima scena, in segno di gratitudine per la guarigione, Costantino dona al papa la città di Roma; insieme a essa, gli offre il sinichio (l’ombrellino che simboleggia la dignità imperiale), la tiara – anch’essa simbolo di potere – e un cavallo (vedi foto alle pp. 70-71). Anche in questo riquadro Silvestro siede su un trono piú alto di quello di Costantino e lo domina mentre egli si piega in un cenno d’inchino. Il confronto tra i due volti suggerisce il divario tra la ieratica severità del papa ancora una volta colto nel gesto di benedire, e la rassegnata umiltà del volto dell’imperatore. La deferenza del sovrano viene ribadita nell’ottava scena, dove Costantino, appiedato, tira le redini del cavallo su cui è assiso il papa, che trionfalmente entra nella città di Roma per prenderne possesso (vedi foto a p. 68). Il racconto si conclude lungo la parete di sinistra. Nella nona scena, Silvestro smaschera davanti agli occhi dell’imperatrice Elena la falsa dottrina dei rabbini. La disputa presenta un rabbino che pronuncia il nome di Dio nell’orecchio del toro. Dopo aver screditato i pagani, che avevano suggerito a Costantino il lavacro nel sangue dei bambini, il papa intende mostrare anche la superiorità del credo cristiano rispetto all’ebraismo. Nella decima e ultima scena, Elena, convertita alla fede cristiana dalla prova di Silvestro, si reca a Gerusalemme dove fa scavare nei pressi del Golgota e rinviene la croce di Cristo. F agosto

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di Furio Cappelli

L’ombra dei

Templari Nelle fondazioni del celebre ordine sorte in tutta Europa ritroviamo la vivida impronta di quei monaci guerrieri. Insieme a un coinvolgente richiamo ai luoghi delle loro gesta, alla Terra Santa e alla cittĂ di Gerusalemme

Londra, Temple Church. Uno scorcio dell’interno della chiesa eretta dai Templari nel 1128, In primo piano, alcune lastre tombali dei cavalieri che vi furono sepolti.


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urante una riunione di corte, il re di Francia Filippo II (1180-1223), che aveva ben meritato l’epiteto di Augusto per la vastità dei suoi domini, volle rendere omaggio alle virtú di un cavaliere d’oltremanica da poco deceduto: Guglielmo il Maresciallo (1145-1219), primo conte di Pembroke. Tutti i dignitari presenti al cospetto del re si trovarono uniti nel tesserne le lodi e fu cosí che egli poté essere proclamato «il miglior cavaliere del mondo». Guglielmo era ancora reggente del sovrano d’Inghilterra, il re bambino Enrico III Plantageneto (12161272), quando sentí ormai vicino il momento della dipartita. Lasciò allora la residenza reale, la Torre di Londra, e, trasportato in barca lungo il Tamigi, venne condotto nel suo castello di Caversham. Giunto all’ultimo approdo, ebbe cura di sistemare le pendenze della sua esistenza terrena, e, al momento delle disposizioni sul rito funebre, chiese a uno dei suoi fedeli accoliti di portargli due drappi di seta tenuti da parte proprio per quella occorrenza. Si trattava di preziose stoffe che il conte Guglielmo si era procurato in Terra Santa trent’anni prima. A quel punto il figlio gli chiese dove volesse essere sepolto. L’anziano cavaliere non ebbe dubbi e, memore della sua esperienza in Palestina, rispose: «Caro figliolo, quando ero oltremare donai il corpo al Tempio per riposarvi dopo morto». La salma sarebbe stata dunque sepolta nel Tempio di Londra, la residenza dei Templari che rappresentava oltremanica un preciso corrispettivo della casa madre dell’ordine, il Tempio di Gerusalemme. E le sete della Terra Santa, al tempo stesso reliquie e ricordi di quel pellegrinaggio – fondamentale per un valoroso cavaliere quale egli era – sarebbero state stese sulla bara durante le esequie. Con il dono di se stesso al Tempio, il conte di Pembroke sciolse un voto in extremis. Come evidenziato da Georges Duby nel libro che gli

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Restituzione grafica della lastra tombale del sepolcro di Guglielmo il Maresciallo (1145-1219), nobile cavaliere entrato nell’ordine del Tempio in punto di morte, dopo un lungo soggiorno in Terra Santa.

ha dedicato, Guglielmo, trovandosi per lunghi mesi a contatto dei Templari, nel 1185, era rimasto colpito dal coraggio e dalla fede di quei monaci guerrieri. Conducendo uno stile di vita rigoroso, senza abbandonarsi a lussi o comodità, combattevano «con gioia», e potevano senz’altro aspirare al paradiso. Guglielmo era deciso a entrare nell’ordine, ma non voleva abbandonare il mondo e si riservò perciò di compiere il passo al momento della sua morte.

La grande croce rossa

Dopo aver dato l’ultimo bacio alla moglie – da quel momento in poi ogni contatto carnale gli sarebbe stato negato – si affidò cosí al Tempio, rappresentato al suo capezzale da Eimerico (Aymeric) di Saint Maur, che reggeva la commenda londinese, un personaggio assai influente presso la corona, al punto da essere stato determinante nell’approvazione della Magna Charta (1215; vedi «Medioevo» n. 221, giugno 2015). In previsione di questa cerimonia, appena un anno prima Guglielmo aveva fatto confezionare la propria veste bianca con la grande croce rossa dei Templari, che venne condotta nella stanza per essere esposta ai piedi del letto come uno stendardo trionfale. Il morituro, infatti, rimase coricato e non fu in grado di indossarla. Le esequie si svolsero in modo sontuoso e coinvolgente. Il corpo fu accolto a Londra e, nella chiesa del Tempio, la notte prima della sepoltura si tenne una lunga veglia. La tomba venne a trovarsi di fianco a quella del maestro Eimerico: aveva accolto il agosto

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morituro Guglielmo nell’ordine dei Templari, ed era morto egli stesso poco prima del valoroso conte. Compiuta la sepoltura, torme di poveri si riversarono sul Tempio per godere della liberalità del pio Guglielmo. Egli aveva infatti disposto che si desse da bere e da mangiare a cento persone, e aveva anche destinato una somma di denaro ai bisognosi. Il banchetto era stato a lungo atteso – un signore del suo rango non poteva esimersi da un atto del genere – e il protrarsi dell’agonia aveva moltiplicato il numero dei convenuti, tanto che si dovette trasferire la distribuzione del cibo e del denaro negli ampi spazi intorno all’abbazia di Westminster. La tomba di Guglielmo, con il ritratto del cavaliere a figura intera (gisant), eseguito ad altorilievo sulla lastra di chiusura, come se la salma fosse esposta, si può tuttora ammirare nella chiesa del Tempio, in un gruppo di sarcofagi concentrato nella «rotonda», la parte piú antica e piú importante della costruzione. La Temple Church si compone infatti di un corpo a pianta circola-

re, con un ambulacro interno che si sviluppa intorno a un vano centrale, e di un coro a tre navate che si innesta sulla costruzione piú antica (vedi box alle pp. 80-81). L’aggiunta fu inaugurata nel 1240 alla presenza del re Enrico III, lo stesso sovrano di cui il conte Guglielmo aveva assunto la reggenza. La costruzione originaria, invece, era stata solennemente consacrata l’11 febbraio 1185 (nello stesso anno in cui Guglielmo era in Terra Santa) alla presenza del patriarca di Gerusalemme, Eraclio.

Sei invece di otto

La forma della chiesa rimandava in modo lampante al Santo Sepolcro della Città Santa (vedi «Medioevo n. 158, marzo 2010; anche on line su medioevo.it). L’Anastasis («resurrezione») è infatti una costruzione a pianta circolare, con un corridoio anulare intorno al vano centrale, aperto lungo il perimetro da una serie di arcate. Il fulcro della costruzione è costituito dall’edicola che protegge la roccia del sepolcro di Cristo. Nella configurazione originaria, l’edicola era costituita

da un frontone e da una struttura retrostante coronata da una cupoletta, impostata su un circuito di arcate su colonne. Ebbene, questa struttura di base presentava sei sostegni, e la rotonda della Temple Church mostra proprio sei colonne lungo il perimetro del vano centrale. Difatti, il numero di colonne che si ritrova piú facilmente in questo genere di costruzioni ammonta a otto. La scelta sembra ricollegarsi consapevolmente all’edicola del Santo Sepolcro, come ha sostenuto lo storico dell’architettura Antonio Cadei (1944-2009). Non a caso, la medesima soluzione si riscontrava in un’altra importante commenda templare, a Parigi. Sulla riva destra della Senna, fuori dalla prima cinta muraria del XIII secolo, i monaci avevano edificato un quartiere delimitato da mura, il Tempio, fortificato da due torri dominanti, oggi scomparso. Come a Londra, la cappella aveva ricevuto nel Duecento l’aggiunta di un coro e, ancora una volta, la forma risultante rimanda a Gerusalemme. Infatti, a seguito delle ricostruzioni Particolare della lastra tombale di Guglielmo il Maresciallo. La sua inumazione fu preceduta da una lunga veglia e da un funerale grandioso.

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Dossier giormente le cappelle templari al modello della Terra Santa. Il ruolo dei Templari come difensori del Santo Sepolcro, cosí come orgogliosamente riaffermato nelle loro cappelle di Londra e di Parigi, farebbe immaginare che il loro quartier generale a Gerusalemme si trovasse nei pressi dell’illustre santuario cristiano. In realtà, il Santo Sepolcro, gestito da un’autonoma comunità di canonici dopo la presa della Città Santa, era semmai nelle vicinanze degli Ospedalieri, noti anche come Giovanniti o Cavalieri di San Giovanni (gli attuali Cavalieri di Malta): quei «concorrenti» dei Templari, che, nati come gestori di un ospizio per i pellegrini istituito nel 1070, dettero vita del 1113 a un ordine religioso ben presto connotato in senso militare.

Il «nobile santuario»

In alto La morte di Guglielmo il Maresciallo, tavola a colori del pittore e incisore Elviro Michele Andriolli. 1883. Nella pagina accanto incisione (successivamente colorata) raffigurante la Temple Church di Londra e pubblicata dal periodico Ackermann’s Repository of Arts il 1° settembre 1809. All’epoca, il tempio aveva già subito vari rimaneggiamenti e, di lí a pochi anni, sarebbe stato oggetto di un ulteriore restauro, che lo rimodellò in forme medievaleggianti.

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di epoca crociata, il Santo Sepolcro vide innestarsi il coro della Crocifissione, che venne sostanzialmente a sostituire l’antica basilica costantiniana a cinque navate. La «rotonda» e la basilica, originariamente distinte e suddivise dal Triportico, furono cosí saldate a formare un complesso costituito da una struttura circolare e da un corpo rettangolare. L’aggiunta di un coro alle rotonde originarie, a Parigi come a Londra, consentiva cosí di allacciare mag-

I Templari si trovavano sul lato opposto della città, su una spianata priva di presenze cristiane prima delle crociate. Quando Gerusalemme fu conquistata dagli Arabi (638), quel luogo era pressoché deserto. Manteneva la memoria e i resti, cari all’ebraismo, del tempio che Erode (40-4 a.C.) aveva edificato in onore di Yahweh, raso al suolo da Tito (70 d.C.) e mai piú ricostruito. L’Islam trasformò la spianata del tempio distrutto in un fulcro di venerazione e di pellegrinaggio. E proprio la collocazione a est dell’impianto urbano, sul monte Moria, in un punto emergente contrapposto al Santo Sepolcro, suggeriva la creazione di un polo religioso e identitario («un nobile santuario»), tale da contrapporsi al celebre complesso edificato da Costantino Magno. Nacque cosí, intorno al 692, la Cupola della Roccia, la splendida costruzione a pianta centrale (una risposta dunque all’Anastasis del Santo Sepolcro) che custodisce al suo interno una propaggine di pietra viva legata all’ascensione in cielo del Profeta, cosí come la pietra viva agosto

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Dossier Il Tempio di Londra

Tra fortune letterarie e restauri «spregiudicati» A sinistra una veduta della Temple Church, cosí come si presenta oggi. In basso, sulle due pagine sezione della chiesa londinese dei Templari pubblicata dal periodico The Building News nel 1879.

Champagne che pochi anni prima, nel 1120, aveva fondato l’ordine a Gerusalemme. E anche la piú antica fondazione londinese era dotata di una cappella a pianta circolare, edificata con la pietra calcarea proveniente dalla Normandia, dalle cave del territorio di Caen. L’attuale Temple Church è il risultato, in primo luogo, di profonde ristrutturazioni compiute nell’Ottocento, quando si volle «recuperarne» l’aspetto originale anche ricorrendo a rifacimenti in stile neogotico del tutto arbitrari, secondo una pratica allora corrente. La cappella è stata poi largamente ripristinata a seguito dei bombardamenti subiti dalla capitale inglese nel corso del secondo conflitto mondiale.

Il quartiere londinese dei Templari occupava un’ampia area sulla sponda settentrionale del Tamigi. La commenda vi si trasferí dopo essersi già insediata a Holborn, alla periferia della città, dove rimase fino al 1163. Il monastero originario era stato istituito grazie a Ugo di Payns (1128), lo stesso cavaliere della

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La sua popolarità è stata di recente ravvivata dall’essere stata scelta come sfondo degli intrighi esoterici del Codice Da Vinci di Dan Brown, ma già William Shakespeare aveva voluto ambientare nell’ampio giardino del Tempio londinese una scena emblematica del suo Enrico VI (parte I, scena IV). Lasciata una riunione che si teneva nell’aula del complesso, i nobili di due opposti schieramenti si trovano a confronto. Ognuno di loro decide da che parte stare cogliendo una rosa dal pruneto: una rosa rossa per chi sta dalla parte dei Lancaster (la famiglia del re Enrico VI), una rosa bianca per chi invece si schiera con gli York (la famiglia del ribelle Riccardo). Il Bardo immaginò cosí le premesse della famosa Guerra delle Due Rose (1455-1485).

del Calvario è custodita nell’edicola della sepoltura di Cristo. A sud di questo santuario, che non è propriamente definibile come moschea, già nel 675 esisteva un primo luogo di culto islamico. Su questa semplice struttura venne poi realizzata la moschea al-Aqsa, In alto La chiesa del Santo Sepolcro, Gerusalemme, incisione tratta dalle vedute della Palestina di Luigi Mayer. XIX sec. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs. L’assetto dell’edificio costituí il modello ispiratore di molti dei luoghi di culto sorti in Occidente per iniziativa dell’ordine templare.

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che acquisí la sua forma sotto alWalid I (705-715), e che ha fornito l’antica denominazione islamica della spianata: al-Masjid al-Aqsa, «moschea piú lontana», in riferimento al viaggio compiuto dal Profeta dalla Mecca alla Città Santa. Qui si era insediato re Baldovino I dopo la prima crociata, e fu questo il luogo che il successore, suo cugino Baldovino II (1118-1131), concesse ai Templari per la costituzione del loro quartier generale.

I soldati «del Tempio»

A seguito degli interventi di «ripristino» promossi dal Saladino, sin dal 1187 la moschea ha perso ogni superfetazione cristiana. Rimane tuttavia un forte segno della presenza templare nell’assetto del portico d’ingresso, risalente all’epoca abbaside (inizi del IX secolo), e che mostra tuttora una conformazione «franca» (un misto di architettura occidentale e di esotismo orientale), grazie ai rimaneggiamenti promossi dai monaci guerrieri. E proprio la moschea «cristianizzata» aveva assunto il ruolo del Tempio di Salomone, da quando gli stessi monaci si definivano milites templi Salomonis. In sostanza, l’origine islamica del monumento veniva occultata.

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Dossier Esso diveniva il simbolo tangibile di quel favoloso santuario testimoniato dalle Scritture, gigantesco e rutilante di materie preziose, storicamente ricollegabile a un tempio ebraico di tutt’altro tenore, distrutto nel 587 a.C. dai Babilonesi. D’altro canto, la moschea era stata realizzata sui resti del portico reale (Stoà) del tempio di Erode, quel porticus Salomonis che gli esegeti cristiani identificavano con il luogo di riunione degli Apostoli. La sede dei Templari corrispondeva dunque al piú antico e autorevole monastero della cristianità (vedi box in queste pagine).

la sede dei templari

La casa madre sulla spianata del Tempio

B A

Sospesa e impalpabile

Anche la Cupola della Roccia, di pari passo alla sua conversione al culto cristiano, assumeva un’immagine sospesa e impalpabile, come un tempio edificato in epoche remotissime, il Tempio del Signore (Templum Domini). La chiesa che vi era stata istituita era gestita dai Canonici di Sant’Agostino, ma i Templari considerarono comunque questo edificio come un corollario del «loro» tempio salomonico. D’altronde, la sua forma architettonica favoriva un gioco di rispondenze con il Santo Sepolcro, mentre la moschea al-Aqsa, di semplice forma rettangolare, non aveva un simile fascino iconografico. Tanto che alcuni sigilli dei Templari, che continuarono a raffigurare la sede di Gerusalemme anche dopo la caduta della Città Santa, ricorrono all’immagine araldica di un edificio a pianta centrale, che può alludere sia al sepolcro di Cristo, sia al «Tempio del Signore», soprattutto se la cupola si presenta con una forma a bulbo. Torniamo cosí al tema della pianta centrale come elemento significativo della simbologia architettonica templare, con una premessa importante. Non tutte le chiese dei Templari si conformano al modello del Santo Sepolcro, e molte copie dell’illustre santuario reperibili in Occidente non hanno

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La moschea al-Aqsa, separata in due settori da un diaframma, dette luogo a una chiesa sulla parte orientale. I monaci si insediarono poi in due complessi situati ai lati della moschea stessa, sulla propaggine sud della spianata. Come testimonia il pellegrino germanico Teodorico (1175 circa), il corpo est era il piú antico. Lí erano ubicate le «scuderie di Salomone»,

dove i Templari, a loro volta, ricavarono i ricoveri per i propri destrieri. Il corpo ovest era la curia, laddove si concentravano gli spazi di riunione e di rappresentanza. Si segnalava facilmente nel paesaggio urbano già soltanto con i suoi tetti a spioventi, insoliti per Gerusalemme. Spiccava in particolare l’ampio refettorio a tre navate edificato a ridosso del

MOSCHEA AL-AQSA

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muro della spianata, con un apparato murario a bugnato. È in parte ancora oggi conservato. Le due navate superstiti, con volte a crociera su pilastri, di gusto prettamente occidentale, accolgono oggi l’Islamic Museum al-Haram al-Sharif. Completava il quadro la fortificazione allestita di fronte alla spianata, poi demolita. Nella pagina accanto Gerusalemme. La Spianata delle Moschee (in arabo, al-Haram al-Sharif, «nobile recinto sacro»), con la moschea al-Aqsa (A) e le cosiddette «scuderie di Salomone» (B).

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SCUDERIE DI SALOMONE

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Dossier GLI ANNI DEI TEMPLARI 1096-1099 I crociata. Gerusalemme viene espugnata e si istituisce un regno cristiano. Goffredo di Buglione ne è il primo sovrano. 1113 Papa Pasquale II riconosce l’ordine degli Ospedalieri. 1120 Nasce l’ordine del Tempio, a opera di un gruppo di cavalieri francesi guidati da Ugo di Payns. 1128 Nell’ambito del concilio di Troyes, viene approvata la regola del Tempio. Bernardo di Chiaravalle scrive il De laude novae militiae. 1139 Papa Innocenzo II pone i Templari sotto la diretta protezione apostolica. 1147-49 II crociata. 1187 Caduta di Gerusalemme per mano del Saladino. 1187-92 III crociata. 1199 Papa Innocenzo III approva l’ordine militare dei Teutonici. 1202-04 IV crociata. 1217-21 V crociata. 1228-29 VI crociata. Gerusalemme torna sotto il controllo cristiano grazie a un accordo tra l’imperatore Federico II e il sultano d’Egitto Al-Kamil. 1244 Perdita definitiva di Gerusalemme. 1248-54 VII crociata. 1270 VIII crociata. 1291 Capitolazione di San Giovanni d’Acri, ultimo presidio cristiano in Terra Santa. Il quartier generale dei Templari viene trasferito a Cipro. 1307, ottobre Il re di Francia Filippo IV il Bello dispone l’arresto dei Templari presenti nei suoi domini. Inizia cosí il processo di dissoluzione dell’ordine. 1312, 22 marzo A conclusione del Concilio di Vienne, con la bolla Vox in excelso, papa Clemente V decreta lo scioglimento dei Templari.

alcun rapporto con quei monaci. L’allusione all’Anastasis era anche prerogativa di diverse chiese monastiche di ordini legati anch’essi alla Città Santa, come gli Ospedalieri, i Teutonici o gli stessi Canonici del Santo Sepolcro. Nel caso problematico della Vera Cruz di Segovia, nella Spagna centrale, tradizionalmente ritenuta templare, c’è per esempio la possibilità che la chiesa fosse in realtà appartenuta proprio ai Canonici del Santo Sepolcro. La particolarità dell’edificio è che il vano centrale risulta chiuso da mura, anziché essere cinto da arcate, in modo da fortificare l’area sacra. In questo modo si allude anche all’edicola del Santo Sepolcro, che racchiude nella sua struttura la roccia del Calvario.

Come una fortezza

Nella Francia del Nord si segnalano poi le cappelle di Laon (Piccardia) e di Metz (Lorena), sicuramente legate a insediamenti templari. Ma un caso assai rappresentativo è costituito dalla cappella portoghese di Tomar, lungo la strada che da Lisbona conduce a Braga, capoluogo della Galizia. Si trova dunque nel cuore dei territori che videro un forte apporto dei Templari nella lotta

A destra miniatura raffigurante Baldovino II che cede la sede del tempio di Salomone a Ugo di Payns e Goffredo di Saint-Omer, da un’edizione dell’Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro. XIII sec. Nella pagina accanto Ugo di Payns, Gran Maestro dell’Ordine del Tempio, olio su tela di Henri Lehmann (1814-1822). 1841. Versailles, Châteaux de Versailles et de Trianon.

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contro gli Arabi insediati nella Penisola iberica (Reconquista). È situata al vertice occidentale della corte alta di una illustre residenza fortificata dei Templari, poi ampliata e trasformata dai Cavalieri di Cristo, che ne presero possesso nel 1319, dopo il traumatico scioglimento dell’ordine (si chiama attualmente Convento de Cristo). Il coro rettilineo si deve ai nuovi custodi del monastero-fortezza, ma la «rotonda» originaria, databile agli anni 1160-1190, è stata disposta dal quarto maestro della provincia portoghese dei Templari, Gauldim Pais (1156/57-1195). Si compone di un prisma articolato su 16 lati intorno al nucleo centrale ottagonale. La poderosa struttura esterna, corredata da contrafforti sugli spigoli e dotata di terrazze che potevano fungere da spalti per esigenze di controllo e di difesa, fa corpo con la cinta fortificata del castello, e si qualifica cosí come un vero e proprio bastione.

Nel segno della sobrietà

Ma come si presentavano le sedi dei Templari, al di là delle loro forme architettoniche? C’era spazio per l’ornamento e per l’immagine? Se prendiamo alla lettera il brano del De laude novae militiae (1128) in cui Bernardo di Chiaravalle decanta le virtú dei monaci guerrieri, abbiamo la sensazione di ambienti spogli, perfettamente conformi all’estetica di quello stesso movimento cistercense che proprio san Bernardo aveva ispirato. Il Tempio di Gerusalemme nel quale i monaci risiedono (e che il santo di Clairvaux non vide mai con i propri occhi) è ben altra cosa rispetto all’antico e celeberrimo tempio di Salomone. Ma se l’illustre tempio ebraico rifulgeva grazie allo splendore dei materiali, il nuovo tempio è adorno di fede. La stessa rigorosa disciplina di chi lo abita ne è prezioso ornamento. Questo naturalmente non significa (segue a p. 88)

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Le copie del Santo Sepolcro

Un patrimonio condiviso L’Anastasis faceva parte del patrimonio iconologico dell’architettura europea già nell’Alto Medioevo. Un primo esempio di «copia» accertato dallo storico dell’arte Richard Krautheimer (1897-1994) è la chiesa di S. Michele a Fulda (820-822). Sempre in area germanica, d’altronde, è documentato che per edificare la chiesa del Santo Sepolcro di Paderborn, consacrata nel 1036, il vescovo Meinwerk inviò a Gerusalemme un suo fiduciario, l’abate Wino di Helmarshausen, allo scopo di

PADERBORN

GERUSALEMME

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Secolo IV Circa 1045 Secolo XII

prendere le misure della «rotonda» e dell’edicola del Calvario, per imitarle con la dovuta fedeltà. La stessa avventura crociata, poi, con la presa di Gerusalemme (1099), aveva ispirato l’imitazione del Santo Sepolcro in vari edifici di tipo e di importanza assai diversificati, in qualsiasi contesto: dal Battistero di Pisa, avviato nel 1152, sino al caso sorprendente della «rotonda» di S. Giusto di San Maroto (Macerata), nell’alta Val di Chienti, forse chiesa-mausoleo dei feudatari locali. Se a Pisa il riferimento era piú che naturale, visto il ruolo di apripista della città marinara nella lotta contro gli «infedeli», il caso della chiesa marchigiana evidenzia come i simboli della Terra Santa costituissero un patrimonio condiviso a ogni livello e in ogni realtà, sebbene l’imitazione architettonica restava sempre appannaggio di una committenza di prestigio.

SAN MAROTO

A sinistra Fulda (Germania). La chiesa di S. Michele. A destra la

«rotonda» di S. Giusto di San Maroto (Macerata).

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Dossier che il Tempio sia spoglio, tutt’altro. Anch’esso, in realtà, sfoggia una veste ben adorna, «ma di armi, non di gemme, e, in luogo delle antiche corone d’oro, la parete è carica di scudi che pendono tutt’intorno; al posto di candelabri, incensieri e vasi sacri, la casa è provvista di briglie, selle e lance». E san Bernardo prosegue evocando la cacciata dei mercanti dal tempio raccontata nelle Scritture: seguendo l’esempio di Cristo, i Templari hanno purificato il luogo sacro, eliminando ogni orpello che si frappone a un autentico contatto con Dio. Effettivamente lo stile architettonico delle loro sedi era assai rigoroso, e le dimensioni delle cappelle piuttosto contenute. Anche adottando una semplicissima pianta rettangolare, infatti, esse tendeva-

no a conformarsi al dettato assai scarno delle cappelle annesse alle fortificazioni (e ogni sede templare era simile a una cittadella, anche al di fuori degli scenari di guerra, a Londra come a Parigi). Tuttavia, e lo stesso discorso vale per gli Ospedalieri, nonché per i Cistercensi di san Bernardo, la decorazione non era affatto bandita, soprattutto nelle fasi storiche piú recenti.

Bevignate, santo eremita

Un caso emblematico e tuttora ben leggibile si trova in Italia centrale: è la chiesa di S. Bevignate di Perugia. Apparteneva a un’importante precettoria templare, che ebbe modo di stabilire un forte legame con la realtà cittadina, in un momento segnato per giunta da una grande

vitalità sia sul fronte politico che su quello religioso. Quando la chiesa dei Templari venne realizzata, tra il 1256 e il 1262, il libero Comune di Perugia, di solido impianto popolare e di chiaro orientamento filopapale, aveva raggiunto già la sua piena affermazione, e la città pullulava di chierici e di monaci delle piú diverse congregazioni. Non mancavano esperienze di religiosità alternativa, con eremiti di ambo i sessi che si insediavano anche in spazi non lontani dalla cinta urbica. Il sito stesso di S. Bevignate, nel sobborgo di Porta Sole, a est del centro storico, era noto come la Tebaide della città: rappresentava il corrispettivo del deserto dei monaci egiziani, con gli abitacoli dei religiosi sparsi qua e là, nell’area solca-


SEGOVIA, VERA CRUZ

Sulle due pagine l’esterno, uno scorcio dell’interno e la planimetria della chiesa della Vera Cruz (Vera Croce) di Segovia, tradizionalmente attribuita ai Templari, ma piú probabilmente riferibile ai Canonici del Santo Sepolcro. XIII sec. Al di là della paternità effettiva, appare innegabile l’affinità con l’impianto del monumento gerosolimitano.


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ta da una delle «strade regali» che giungevano nel capoluogo umbro. Il dedicatario della chiesa, Bevignate, era appunto un eremita locale morto a Perugia in odore di santità, e subito eletto a patrono cittadino, ben prima che le autorità religiose potessero esprimersi al riguardo. Fra’ Bonvicino, l’autorevole leader dei Templari perugini, tra l’altro cubicularius (addetto alla camera da letto) e dunque uomo di stretta fiducia del pontefice, curò la fondazione della chiesa e si attivò personalmente perché fosse avviato il processo di canonizzazione di Bevignate. Il santo perugino non venne mai «regolarizzato» dalla curia romana, ma Bonvicino non esitò a dedicargli subito la chiesa, in modo da legarlo strettamente all’immagine stessa dei Templari. Due episodi della sua vita furono narrati ad affresco sulla parete di fondo dell’abside, di fianco alla Crocifissione. Nel riquadro meglio

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leggibile, a destra, Bevignate è in atteggiamento reverente al cospetto di un vescovo che molto probabilmente gli concede il luogo in cui edificare il suo eremo, e indossa un manto bianco che verosimilmente allude all’abito stesso dei Templari: come ha ipotizzato Chiara Frugoni, il dipinto implica una «cooptazione» dell’eremita nell’ordine del Tempio.

Il corteo dei flagellanti

Un altro segno forte del legame stabilito con la realtà locale è dato poi dal Giudizio Universale dipinto sulla parete destra della medesima abside. In modo del tutto inconsueto, sotto alla raffigurazione del risveglio delle anime dei defunti si snoda una processione di flagellanti. È uno squarcio sulla vita religiosa nella Perugia del tempo, che si trova cosí trasposta in modo assai significativo nel quadro eloquente della fine dei tempi. Come ha suggerito lo storico dell’arte Pietro Scarpellini (1927-

2010), uno dei penitenti raffigurati, il capofila del gruppo, che spicca per giunta grazie al volto ben definito, potrebbe addirittura essere identificato con Raniero Fasani: colui che, nel 1260, coinvolse il Comune perugino e l’intera cittadinanza nella pratica delle processioni con la flagellazione delle carni, oltreché con l’intonazione di canti e con l’ostensione dei simboli della Passione di Cristo (una pratica che proprio da Perugia si diffuse poi nel resto d’Italia e oltralpe). Sulla stessa parete spicca il Cristo giudice che mostra le ferite del supplizio, secondo quella sensibilità nuova, già evidente nelle teofanie delle cattedrali gotiche, dove si esaltano l’umanità e la sofferenza di Gesú. È evidente quindi come la processione sia un invito all’identificazione con il Signore, nella prospettiva di un riscatto e di una purificazione dei Perugini. (segue a p. 94) agosto

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Tomar (Galizia, Portogallo). L’esterno e una veduta dell’interno (nella pagina accanto) della chiesa del complesso oggi noto come Convento de Cristo.

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Dossier PERUGIA, S. BEVIGNATE

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Sulle due pagine uno scorcio dell’interno e alcuni particolari degli affreschi del complesso monumentale di S. Bevignate, edificato tra il 1256 e il 1262. Le pitture della chiesa perugina sono di grande interesse, poichÊ costituiscono una documentazione ricca e dettagliata sulla storia dei Templari.

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Particolare del corteo dei flagellanti, il piú evidente dei quali si può forse identificare con Raniero Fasani, che nel 1260 introdusse a Perugia questo rito di espiazione.

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Naturalmente, quanto piú forte fosse stata la presa sull’ambiente locale, tanto piú efficace sarebbe risultata l’azione dei Templari, e altre immagini eloquenti, sottolineando la particolarità della loro missione, ne mettono in luce l’asprezza delle scelte e l’esposizione ai pericoli, in chiara connessione alla Passione di Cristo. Lo scopo è di sensibilizzare i fedeli, affinché forniscano l’adeguato sostegno alle imprese militari che l’ordine attua in Terra Santa. Ecco allora, in controfacciata, una sorta di memorandum sulla dura vita del Templare. I frammenti ancora leggibili offrono una nave in balia delle onde di un mare agitato, con gli abissi gremiti da pesci enormi; un gruppo di monaci alle prese con un leone gigantesco, che si è arrampicato su un palmizio; un lungo

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fregio con la scena di una battaglia ingaggiata contro gli «infedeli». Il tutto con uno stile corsivo, immediato, fluido, quasi «fumettistico», inconsueto in una chiesa, ma facilmente ricollegabile alle decorazioni profane dei palazzi civici e delle residenze nobiliari.

Quei prodi d’Aquitania

Alla fine del XII secolo, temi analoghi erano già stati scelti nella cappella templare di Cressac (Charente), nel Sud-Ovest della Francia, dove la battaglia contro gli «infedeli» è impaginata su due registri sovrapposti. In alto, su uno sfondo bianco uniforme punteggiato da gigli araldici, i Templari mettono in fuga i nemici, costringendoli a trincerarsi fra le mura di una città posta sotto il controllo musulmano; in basso

si succedono singoli episodi con le figure che risaltano su uno sfondo scuro, e l’intero campo è quadrettato, a fingere un apparato murario a conci regolari. In questo modo, il dipinto sembra costituito da grandi tavole di mattoni smaltati, come un fregio babilonese. Inoltre, la bicromia bianco/nero allude ai colori del gonfalone templare. La scena della fuga del nemico allude probabilmente alla battaglia di La Boquée, combattuta nel 1163 in Siria, nei pressi del Crac-desChevaliers, quando la cavalleria templare mise a segno un attacco a sorpresa ai danni dell’accampamento dell’emiro Nur ed-Din. I prodi cristiani venivano dalle schiere della nobiltà dell’Aquitania, e ciò spiega la celebrazione dell’episodio in una cappella di quella regione storica. agosto

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CRESSAC (FRANCIA)

Sulle due pagine l’esterno e alcune delle pitture murali della cappella templare di Cressac (Charente, della Francia). Adibito dal 1923 al culto protestante, il piccolo edificio faceva parte, nel XII sec., di una commenda dei Templari. Presenta un’archiettura sobria, con un impianto a navata unica. Gli affreschi che ne ornano le pareti (e ne fanno un monumento di straordinario valore artistico e documentario) sono in parte dedicati a episodi delle guerre combattute in Terra Santa tra le milizie cristiane e gli «infedeli» all’epoca delle crociate. È questo il soggetto, in particolare, del lato settentrionale della cappella. Qui, tra le altre, compare la scena di fuga (foto in alto, a sinistra) che viene tradizionalmente identificata con la battaglia di La Boquée, combattuta nel 1163 in Siria, nei pressi del Crac-des-Chevaliers.

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Le pitture che celebrano le gesta dei Templari furono spesso impaginate quasi come le «strisce» dei moderni fumetti 95


Dossier complessi decorativi come pagine da decrittare. Gli stessi formulari e le stesse impaginazioni si impiegavano ovunque, per decorare muri, soffitti o pavimenti, senza ricorrere a progetti o tecniche particolarmente impegnativi. E gli artefici di queste opere probabilmente sorriderebbero, se ci vedessero intenti a codificare i presunti «enigmi» dei loro motivi decorativi. E se la rosetta veniva utilizzata come elemento di spicco, per esempio nei capitelli interni di S. Jacopo del Tempio a San Gimignano, ciò non stava a indicare l’appartenenza del simbolo a un vocabolario di esclusiva pertinenza templare. Piuttosto, si ribadiva in quel modo come la ricerca dell’essenzialità, in perfetta aderenza con gli ideali dell’ordine, consentisse di attingere alla purezza dei contenuti della fede.

MONTSAUNÈS (FRANCIA)

Uno stereotipo infondato

Particolare della volta della chiesa di Saint-Christophe-des-Templiers a Montsaunès (Alta Garonna, Francia). In questo caso, come dimostra la foto, la decorazione pittorica è giocata su schemi eminentemente geometrici, spesso arricchiti da figure simboliche. Tra queste ultime, si nota la rosetta a sei punte iscritta in una circonferenza, verosimilmente identificabile con un’immagine del Sole, a sua volta associabile al Cristo.

A Perugia, a Cressac e negli altri complessi pittorici superstiti (per esempio a Montsaunès, nell’area dei Pirenei), i cavalieri del Tempio lasciano poi ampio spazio alla decorazione aniconica, priva cioè di qualsiasi requisito figurativo. A completamento delle scene o in insiemi a sé stanti, talvolta apparentemente caotici, si moltiplicano forme di geometrica essenzialità. Abbiamo già incontrato il giglio, antico simbolo di purezza, assai noto in araldica perché assunto nello stemma di Firenze e nell’arme degli Angiò. Nel caso

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di Montsaunès, i gigli corredano un’essenziale evocazione della Gerusalemme celeste. Ricorre poi con frequenza la rosetta iscritta in una circonferenza, il piú delle volte a sei petali, facilmente eseguibile con l’ausilio di un compasso. Si tratta di un simbolo plurimillenario, di carattere cosmologico. È un’immagine del Sole, associabile alla croce di Cristo (tante volte paragonato alla stella che dispensa la luce), oppure assumibile come un astro indeterminato in una rappresentazione del cielo. In ogni caso, sarebbe inutile tentare di leggere questi

Tuttavia, non si deve ridurre la realtà dei Templari a questo cliché, anche perché di essi rimangono tracce spesso frammentarie e discontinue. E l’impegno profuso nei loro programmi decorativi superstiti è di per sé eloquente. Anche se le chiese dell’ordine non si conformano ai linguaggi aulici delle cattedrali e delle grandi realtà monastiche, sono comunque affidate ad artisti specializzati, e il loro attuale aspetto spoglio non rende conto di una presumibile dotazione di arredi e di tesori andati dispersi o perduti. Quante reliquie della Vera Croce saranno state racchiuse in opere di oreficeria come la bellissima stauroteca (custodia della croce) di Astorga (Spagna nord-occidentale)? Quanti dipinti su tavola e quanti codici miniati erano custoditi nelle sedi dell’ordine? Nel caso perugino di S. Bevignate, in una seconda campagna decorativa, intorno al 1280, la chiesa si arricchí di monumentali figure ad affresco di Apostoli che reggono croci di conagosto

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A destra il Trittico Marzolini, dalla chiesa di S. Bevignate. 1270-75. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. A sinistra reliquiario della Vera Croce. 1230 circa. Astorga, Tesoro della Cattedrale.

sacrazione, con uno stile «classico» perfettamente aderente ai modi bizantini piú avanzati, e l’altare era forse corredato dal pregevole Trittico Marzolini, oggi conservato nella Galleria Nazionale dell’Umbria, con una Madonna centrale che ricorda un’icona del Monte Sinai. Prestando fede al gran maestro Giacomo di Molay (1245 circa-1314), il cui rogo chiuse tragicamente la storia dell’ordine, le cappelle dei Templari erano seconde solo alle cattedrali per quantità e pregio di reliquie, oggetti liturgici e ornamenti. L’immagine epica dei Templari di san Bernardo, allergici all’oro e all’argento, si era dissolta. O forse quei Templari, cosí scabri e irreprensibili, non erano mai esistiti. V

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Da leggere U Mario Roncetti, Francesco Tommasi,

Pietro Scarpellini (a cura di), Templari e Ospitalieri in Italia. La chiesa di San Bevignate a Perugia, Electa-Editori Umbri Associati, Milano 1987 U Antonio Cadei, Gaetano Curzi, Templari, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 2000, disponibile anche on line su treccani.it U Gaetano Curzi, La pittura dei Templari, Skira, Milano 2002 U Sonia Merli (a cura di), Milites Templi. Il patrimonio monumentale e artistico dei Templari in Europa, Volumnia, Perugia 2008

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Nelle valli dei

«barba»

di Chiara Parente

È ancora vivissima l’eco del perdono che il papa ha chiesto alla comunità valdese per i soprusi subiti da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Ma chi erano i seguaci di Valdo di Lione? E da dove venivano? Un itinerario alla scoperta dei luoghi in cui la loro presenza si è radicata fin dal Medioevo può essere il modo migliore per soddisfare queste e molte altre curiosità. Coniugando l’approfondimento storico con la conoscenza di località assai suggestive anche dal punto di vista paesaggistico

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e valli Pellice, Angrogna e Chisone-Germanasca (Cuneo), situate nella zona sud-occidentale del Piemonte, al confine con la regione francese del Delfinato, sono comunemente chiamate anche Valli Valdesi. Qui il turismo culturale risale all’epoca del Grand Tour: terminata la parentesi napoleonica, che aveva impedito loro la frequentazione del continente, alcuni viaggiatori britannici le scelsero infatti come meta. Erano ministri di culto o semplici turisti, ma quasi tutti appartenevano alle correnti riformatrici dell’anglicanesimo ed erano alla ricerca di un cristianesimo delle origini, che speravano di trovare in aree nelle quali la presenza valdese è ritenuta assai piú antica non solo della Riforma, ma anche della stessa nascita del valdismo. L’interesse degli Inglesi per questa zona era rafforzato dal constatare che nella terra del papa esisteva una roccaforte protestante, costituita da una popolazione povera e oppressa, alla quale erano legati da un lontano vincolo di solidarietà e a cui intendevano portare il proprio aiuto, innanzitutto economico. Dal 1838, con la pubblicazione a Londra della guida The Waldenses or protestant Valley of Piedmont, Dauphiny, and the Ban de la Roche – che l’autore, William Beattie, dedicò a Federico Guglielmo di Prussia –, le presenze britanniche nelle valli si intensificarono, incentivate anche dal passaparola e dalla comparsa di successive recensioni sulle riviste inglesi. L’esito di questa iniziale fase di scoperta turistica andò ben al di là della conoscenza dei luoghi storici.

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Le valli valdesi furono percepite e riconosciute anche dall’esterno come «luoghi» dello spirito e della memoria. Se si trattava di siti di interesse ambientale e paesaggistico, essi confermavano l’idea che questo territorio fosse stato predestinato ad accogliere, nutrire e difendere la comunità di fede che vi abita. Invece, nel caso di siti considerati opera dell’uomo, essi testimoniavano la fatica degli abitanti a farne la propria dimora e a trarne sostentamento, ma, soprattutto, attestavano le persecuzioni sofferte in nome della fede e la ferma resistenza opposta dai valligiani nell’abbandonare la terra che la Provvidenza aveva concesso loro per diritto e dovere di vivere la propria religione.

«Costretti» a predicare

Nonostante i molti tentativi, la mancanza di notizie storiche certe rende a tutt’oggi oscure le circostanze dell’affermarsi del movimento valdese, in quello che ne è stato il suo maggior baluardo nei secoli XV e XVI, e da dove non fu mai espulso. Molto probabilmente, i missionari arrivarono nelle Alpi Cozie nel XIII e XIV secolo. È probabile che agli occhi delle predicatrici e dei predicatori – impegnati nelle importanti città della Provenza-Linguadoca e della Lombardia – i piccoli villaggi di montagna non risultassero particolarmente attraenti, ma quello era l’unico passaggio via terra dal Delfinato alla «Lombardia», attraverso i colli del Moncenisio e del Monginevro. Che, durante il viaggio, costoro chiedessero ospitalità (e quindi potessero fermarsi a predicare), è conferagosto

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Il «Glorioso Rimpatrio» Nella notte del 17 agosto 1689, 1000 ardimentosi valdesi partirono a piedi dalla sponda orientale del lago di Ginevra, diretti nelle valli del Piemonte, da dove erano stati esiliati due anni prima. Li spingeva un profondo desiderio di libertà: libertà di professare la religione dei padri, di vivere dove erano nati, di riappropriarsi delle loro case, terre e pascoli. Durante il tragitto, dovettero fronteggiare gli eserciti del re di Francia, Luigi XIV, e del duca di Savoia, Vittorio Amedeo II. Inoltre, la pioggia battente e la neve in piena estate resero ancor piú difficoltoso il viaggio. Ciononostante, gli intrepidi dissidenti riuscirono a raggiungere le proprie terre il 1º settembre del 1689. L’eroica impresa è denominata «Glorioso Rimpatrio». Oggi è possibile ripercorrere l’itinerario, trasformato in percorso storico-escursionistico. Suddiviso in venti giorni di cammino, il tragitto comincia a Nernier, sulla sponda francese del lago di Ginevra, e termina a Bobbio Pellice. Gli Invincibili, olio su tela di Silvio Allason. 1875. Torino, Galleria d’Arte Moderna. L’artista ha immaginato cosí un episodio che si riferisce alle persecuzioni nel vallone detto degli Invincibili a Bobbio Pellice, nel periodo che precede l’Esilio dei valdesi in Svizzera e in Germania del 1686.

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itinerari piemonte Valdo e Francesco

Visioni a confronto

In alto Pra del Torno. L’edificio da alcuni identificato con un Coulège de barba, ovvero una scuola di predicatori valdesi. Nella pagina accanto Valdo di Lione in un’incisione del XIX sec.

mato da fonti locali risalenti al 1210 e al 1220 (o 1280). Sembrerebbe quindi naturale pensare a gruppi di «convertiti», formatisi in seguito a tale predicazione. La notizia sicura, piú antica, della presenza nelle Valli di un «inquisitore dei valdesi» risale al 1297 e riguarda la bassa Val Chisone o Val Perosa. Allora si trattava solo di «composizioni», cioè di multe: un certo Pietro di Baussa dovette pagare 100 soldi e un cero, «perché era incolpato di vaudixia». Il primo rogo, invece, sembrerebbe quello di una donna bruciata a Pinerolo tra il 1312 e il 1314, accusata di seguire la dottrina di Valdo. L’Inquisizione dovette allora constatare che «sia nel Delfinato sia nella Val Perosa, una buona parte della popolazione aveva aderito alla

Sui parallelismi e le divergenze tra Valdo di Lione (1140 circa-1217 circa) e Francesco d’Assisi (1181-1226) si dibatte da tempo. Innanzitutto, i due iniziatori sono entrambi laici, incolti, nonché mercanti; provengono dunque da un ceto che aveva da poco acquisito una nuova coscienza civile e religiosa ed esprimeva una viva esigenza di novità. Ambedue attribuiscono un valore determinante alla povertà, anche se per Francesco essa assume aspetti ascetici e mistici («Madonna Povertà»), che non si riscontrano in Valdo e nei suoi compagni. Valdo, inoltre, proibisce ai predicatori di lavorare manualmente, mentre Francesco esorta i suoi frati al lavoro per evitare di oziare, pur vietando di accettare compensi in denaro.

Qui sotto incisione raffigurante l’assassinio dei bambini valdesi da parte delle truppe sabaude (Pasque piemontesi), nell’aprile 1655. XVII sec. Torre Pellice, Museo Valdese. Per «Pasque piemontesi» si intendono i massacri perpetrati dai soldati del commissario ducale Andrea Gastaldo e conclusi per l’intervento degli Stati protestanti e con l’emanazione delle «patenti di grazia».

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Analoghi sono l’insistenza sul valore di esempio di vita vissuta e sull’apertura ai diseredati e ai malati. Cosí come appaiono simili l’atteggiamento irenico verso i «nemici della cristianità»: i Saraceni sono fratelli da amare e da convertire con la predicazione. In entrambi il Padre nostro, ripetuto piú volte, acquista un’importanza fondamentale come nucleo centrale della preghiera; i Francescani, però, vi aggiungono altre preghiere. I due movimenti presentano un progetto cristiano analogo: ottenere il risveglio religioso mediante una campagna di predicazione popolare itinerante. Ma qui si manifestano alcune differenze. Per il valdismo, la predicazione dell’Evangelo nella lingua parlata dal popolo aveva un ruolo basilare; altrettanto non può dirsi

per il primo francescanesimo. Valdo fu un precursore nella traduzione di alcuni libri della Bibbia in lingua parlata, tanto che, nel 1174-1175, sostenne una grossa spesa per commissionare a due chierici di Lione la traduzione di alcuni testi biblici. Francesco, invece, non vuole predicare. Ciò non per prudenza «politica», ma perché si ispira ad altre esperienze piú accette alla gerarchia ecclesiastica, cioè ai filoni eremitici e penitenziali, piú tradizionali e meno pericolosi. Di fronte alla totale clericalizzazione del francescanesimo e alla sua riduzione nelle forme tradizionali degli Ordini monastici, Francesco preferí ritirarsi in un

doloroso isolamento, senza opporsi e senza combattere apertamente. Le differenze tra i due movimenti, quindi, superano le affinità. Di conseguenza il valdismo risultò non integrabile e fu espulso dalla Chiesa cristiana cattolica, invece il francescanesimo venne integrato e neutralizzato.

vaudixia». Fu l’inizio di una lunga e ben nota vicenda di resistenza e lotte secolari.

La capitale morale della Chiesa valdese Il nostro viaggio alla scoperta delle Valli Valdesi inizia a Torre Pellice, in Val Pellice. La località, posta alla confluenza dei torrenti Angrogna e Pellice, rappresenta la capitale morale della Chiesa riformata ed è sede del quartiere valdese. Qui si trovano il Collegio della Trinità (1837), il Tempio (1852), affiancato dal Presbiterio e dalle case dei Professori, la Casa (1889) – sede del Sinodo (l’assemblea dei delegati, considerata la massima autorità decisionale della Chiesa dei Valdesi) –, costruita per celebrare il bicentenario del Glorioso Rimpatrio (1889), il Convitto, che ospita il centro culturale, la Società di Studi e il Museo storico-etnografico. Voluto dalla Tavola valdese e dalla Société d’histoire vaudoise, il Musée Vaudois è destinato alla conservazione del patrimonio e della memoria culturale. Riallestito nel 1989 (quando, nel terzo centenario del Rimpatrio, la Società di studi e la Tavola hanno istituito la Fondazione centro culturale valdese), è diviso in tre sezioni. La prima ricostruisce la storia di questo popolo dal Medioevo a oggi e si articola in sette aree, che propongono un grande plastico delle valli, pannelli espositivi,

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itinerari piemonte Le origini

Migrare per non morire Come si spiega la consistenza del popolo valdese presente dal terzo decennio del Trecento nelle valli alpine del Piemonte? In quel periodo i signori delle regioni montane favorirono l’ingresso nei loro territori di contadini, disposti a dissodare le terre incolte, senza preoccuparsi delle loro credenze religiose. È dunque possibile che, accanto a nuclei di «convertiti», i «fratres», per l’infierire dell’Inquisizione nelle località di pianura, abbiano organizzato una lenta e silenziosa immigrazione di «amici» e «amiche» in terre che apparivano piú tranquille, perché non ancora raggiunte dagli inquisitori. In effetti, alcuni atti di divisione dei «fuochi» (in ambito demografico, il termine fuoco indica un’unità familiare, n.d.r.), per esempio quello del Comune di Angrogna del 1232, suggeriscono un rapido aumento di abitanti dovuto a movimenti migratori. La popolazione valdese delle Valli alpine, quindi, potrebbe essere la risultante in parte delle missioni dei «fratres» e delle «sorores» e, in parte, di una cauta migrazione dalle pianure italiane e francesi. Un altro interrogativo rimane, infatti, ancora senza risposta: i missionari che hanno trovato terreno fertile nelle Valli alpine erano «Poveri lombardi» o «ultramontani» compagni di Valdo? Partendo dalla constatazione che i valdesi delle Valli, fin dai primi decenni del Trecento, hanno manifestato un deciso anticlericalismo e un totale distacco dalla Chiesa romana, alcuni storici ne hanno dedotto che erano stati evangelizzati dai «Poveri lombardi». Si può quindi ipotizzare che anche in queste regioni montane, come per l’Italia meridionale, i valdesi delle pianure francesi e Angrogna. Due donne vestite con i costumi tipici valdesi. italiane siano stati preceduti da un’emigrazione catara. dipinti e piccole ambientazioni. L’intento è quello di raccontare la dissidenza valdese: dalla Riforma protestante, alle guerre di religione del Cinque e Seicento, al Glorioso Rimpatrio (vedi box a p. 99), al «ghetto» alpino, ossia all’imposizione, nel Sette e Ottocento, di vivere in queste valli, sino al Risorgimento e all’impegno in campo sociale e culturale delle Chiese protestanti contemporanee. La seconda sezione, denominata anche «Museo delle Valli», ha carattere etnografico ed è stata aperta nel 1991. Descrive la vita quotidiana di una famiglia contadina dell’Ottocento a partire dall’atto di divisione del patrimonio, offrendo quattro percorsi di lettura: civiltà contadina, ciclo di vita, cultura e istruzione, plurilinguismo. L’ultima sezione è riservata all’archeologia, con reperti che abbracciano un orizzonte cronologico compreso tra la preistoria e il Medioevo.

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Da Torre Pellice, una strada risale, tra boschi di faggi e castagni, la bella e selvaggia Val d’Angrogna, ricca anch’essa di luoghi-simbolo, eletti a monumenti dalla memoria popolare. Uno di essi è la Gueiza ‘d la tana (cioè Grotta della fede, forse dal patois locale), una cavità situata appena fuori Angrogna, capoluogo della vallata. Secondo la tradizione la gueiza rappresenta la chiesa, ossia il luogo di rifugio e preghiera per centinaia di uomini e donne durante il Medioevo.

Un’ipotesi suggestiva, ma improbabile

In realtà, è difficile che questi dissidenti avessero scelto come posto di raduno una caverna, poiché, in caso di attacco, essa poteva facilmente trasformarsi in trappola senza via di scampo. Al contrario, i documenti citano soprattutto boschi e radure appartate. La fantasia, però, agosto

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PINEROLO Pra del Torno P Angrogna Torre Pellice

L V A

P E L L I C

Bricherasio

Luserna San Giovanni

E

Cavour

Barge

Dove e quando Per informazioni sulle modalità di visita dei luoghi e dei musei segnalati nell’articolo, si può consultare il sito web: www.fondazionevaldese.org

è piú affascinante della storia e la gueiza lasciava immaginare l’assemblea raccolta alla luce di fioche candele, mentre il predicatore era intento a leggere la Bibbia. Lasciata Angrogna l’itinerario prosegue per Chanforan (forma francesizzata del termine locale Ciafouran, cioè campo foraneo, a indicare il luogo in cui si teneva la fiera, probabilmente in riferimento a una consuetudine medievale). Nel 1532 il sito ospitò un’assemblea di barba (derivante dal termine che nelle lingue romanze indica lo zio, il vocabolo designa i predicatori) provenienti da tutta l’area valdese (Piemonte, Calabria, Provenza) e dalla Svizzera. Tra loro c’era anche Guillaume Farel, un esponente di spicco del protestantesimo. Al dibattito prese parte anche il popolo e, nel corso della riunione, si decise l’ingresso del movimento nell’ambito della Riforma. E, nel 1932, commemorando questa importante

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In questa pagina, dall’alto, in senso orario cartina con l’indicazione dei principali luoghi citati nel testo; il tempio valdese di Torre Pellice; la sede del Centro Culturale Valdese a Torre Pellice; una sala del Museo di Rodoretto, a Prali.

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itinerari piemonte studi e ricerche

Gli effetti «collaterali» (e benefici) di una persecuzione Nel Medioevo i barba, i predicatori itineranti valdesi, viaggiavano in coppia, accompagnati da piccoli testi per la predicazione nelle case dei fedeli, alla sera. Alcuni di questi codici, talvolta di dimensioni ridottissime, si sono salvati. Decisi a ricostruire la rete delle relazioni dei missionari, gli inquisitori e i giudici posero i barba al centro dell’attività di repressione. Ciò ha generato una ricca documentazione, costituita soprattutto da fascicoli processuali. In tal modo i predicatori

itineranti della fine del XV secolo sono divenuti protagonisti di un doppio circuito documentario: attivo, attraverso la letteratura didattico-religiosa, e passivo, tramite gli atti giudiziariinquisitoriali. Ma c’è dell’altro. I codici didattico-religiosi e i fascicoli processuali, sono stati studiati e rielaborati dal pastore Jean-Paul Perrin, autore dell’Histoire des Vaudois. Concepita per la stampa in Francia e promossa dalle istituzioni riformate del Delfinato, l’opera è un’impresa

editoriale importante, capostipite di una lunga catena di histoires, ma è anche un eccezionale «imbuto documentario»: essa venne infatti redatta grazie alle testimonianze scritte raccolte in seguito a un appello rivolto sia ai pastori delle Valli che all’élite culturale protestante europea, ed è soprattutto una ricostruzione storica retroattiva. Nell’Histoire, Perrin conia l’espressione «sainct butin», «santo bottino». Il termine si riferisce alla documentazione


inquisitoriale sui valdesi, prova tangibile delle sofferenze e delle persecuzioni subite dagli antichi padri. Paradossalmente, nel Seicento, i valdesi ritennero che la sola maniera per poter preservare l’ingente materiale fosse disperderlo, tanto che i manoscritti di questa minoranza protestante, grazie a un’avventurosa itineranza, sono giunti nelle biblioteche di Cambridge, Dublino, Parigi, Grenoble, Ginevra, Zurigo e negli studioli del piccolo/grande mondo degli uomini di cultura.

piemontesi dopo l’esilio svizzero. Il Museo della Balsiglia (in località Massello) rievoca il lungo assedio subito sulle alture del Pan di Zucchero nel maggio del 1690: il drammatico episodio è illustrato da ampi pannelli a muro, ricchi di dati e immagini. Qui sotto ricostruzione di un barba al suo scrittoio. Torre Pellice, Museo Valdese.

Sulle due pagine l’allestimento della sala del Coulège dei Barba a Pra del Torno (Angrogna).

decisione, si volle indicare il luogo con una stele di pietra. Ultima tappa nella valle è la borgata di Pra del Torno. Situata nel fondo del vallone di Angrogna, a causa delle strettoie della Rocciaglia, fino alla metà del Novecento era collegata con il fondovalle solo da una mulattiera. L’isolamento e la posizione geografica, all’incontro delle valli Pellice, Chisone e Germanasca, l’hanno eletta a nascondiglio e ultima resistenza dei valdesi nel corso delle guerre condotte dai governi sabaudi. Alcuni documenti medievali collocano a Pra del Torno una «schola» dei barba, un centro di ritiro e formazione di predicatori, senza precisarne l’ubicazione. Agli inizi dell’Ottocento si è creduto di poterlo identificare in un fabbricato a monte del villaggio. Cosí, come un’apparentemente anonima caverna alpina è divenuta la Gueiza ‘d la tana, anche alcuni edifici medievali sono stati trasformati nel Coulège dei barba. Un luogo storico, ove in un piccolo locale intorno alla grande tavola di pietra, con al centro la Bibbia, molti rividero i barba intenti nello studio. Terminata la visita alla Val d’Angrogna, proseguiamo nelle Valli Chisone e Germanasca. Qui, ai luoghi della persecuzione e del martirio, si sostituiscono quelli della resistenza e della riconquista delle valli

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Una vicenda tormentata

Nella vicina Prali si trova un’altra esposizione, allestita in un tempio risalente al 1556, ritenuto il solo luogo di culto valdese a non essere stato distrutto nel corso delle persecuzioni seicentesche. Il percorso segue una disposizione cronologica e documenta le vicende della popolazione. Da clandestini nell’epoca medievale, privi perciò di una sede in cui professare la propria religione, i protestanti valligiani, con la Riforma del Cinquecento, passarono alla predicazione pubblica e, di conseguenza, alla costruzione dei primi edifici religiosi («tempio» è la traduzione del francese «temple»). A questo periodo di pace seguirono le repressioni e le persecuzioni del Seicento, che portarono alla distruzione sia degli edifici, sia delle comunità: gli uni e le altre vennero ricostruiti nel Settecento, nel periodo dell’isolamento. L’allestimento punta soprattutto sull’evocazione: le riproduzioni di una scuola domenicale e di un gruppo corale, affiancati al pulpito, rimandano alla vita ecclesiale, mentre le panche disposte a quadrato e volte al pulpito, simulano la posizione interna originaria. A ricreare la comunità di devoti sono le figure collocate sulle gallerie: l’anziano di chiesa, il maestro, la donna, il catecumeno, la moglie del pastore, la deputata al Sinodo. E le loro testimonianze si possono ascoltare in un video, che documenta come il tempio sia stato costruito in funzione del popolo di fedeli. F

Da leggere U Carlo Papini, Valdo di Lione e i «poveri nello spirito».

Il primo secolo del movimento valdese (1170-1270), Claudiana Editrice, Torino 2001 U Marina Benedetti, Il «Santo Bottino» Circolazione di manoscritti valdesi nell’Europa del Seicento, Collana della Società di Studi Valdesi n. 24 Claudiana Editrice, Torino 2006

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CALEIDO SCOPIO

La brisura che viene dal Nord ARALDICA • Quanto hanno influito

culture e popoli delle regioni settentrionali europee sulle vicende del Meridione d’Italia? La risposta agli stemmi... In alto arme dei Colchebret, di origine normanna e donde i signori di Arena e Amendolea: mentre i primi (a sinistra) portano l’arme Colchebret pura, i secondi la brisano, invertendo gli smalti. In basso variante dello stemma dei Colchebret, con lo scudetto posto simbolicamente in cuore all’aquila sveva. Salvo diversa indicazione, le immagini sono tratte dallo Stemmario Orsini De Marzo del Regno di Napoli, manoscritto seicentesco basato su fonti piú antiche.

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a fondazione del Sacro Romano Impero carolingio viene convenzionalmente fatta risalire alla notte di Natale dell’anno 800, in cui Carlo Magno fu consacrato in S. Pietro da papa Leone III. Meno nota è la tradizione secondo la quale anche la Sacra Corona Unita pugliese sarebbe stata fondata nel carcere di Trani proprio nel giorno della Natività di Nostro Signore, ma del 1981, e cosí che i suoi affiliati, alla

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domanda su quale sia la propria data di nascita, riferiscano – e, in senso iniziatico, correttamente – di essere «nati» proprio il 25 dicembre. Ancor meno noto, tuttavia, è che il rituale dell’affiliazione contemplerebbe la manipolazione e la brisura (che, lo ricordiamo, vuol dire letteralmente rottura – dal francese briser= rompere – e, in araldica, indica il differenziare uno stemma derivato da uno archetipico, agosto

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A sinistra due varianti della semplice arme dei signori normanni di Marzano, donde i duchi di Sessa Aurunca, una delle Sette Grandi Case del Regno. In basso la nobile croce potenziata dei Marzano, in questo caso brisata da una bordura indentata.

introducendo nell’arme brisata altri elementi, o anche mutandone gli smalti, per esempio, n.d.r.) di un santino di san Michele Arcangelo (come del resto l’iniziazione alla ‘Ndrangheta, da cui la SCU si vuole non a caso derivata), il santo sauroctono patrono della cavalleria, che, con l’analogo san Giorgio, veniva invocato nel corso del rito dell’adoubement (la cerimonia di ammissione al cavalierato dei nuovi adepti; in italiano addobbamento o vestizione, n.d.r.) cavalleresco.

I soldati in preghiera Non a caso, in epoca medievale, a san Michele e san Giorgio, e ai loro corrispondenti romani san Vittore e san Maurizio, erano spesso dedicate le cappelle annesse ai castelli ed erette per i milites di presidio. Risalendo tuttavia alle origini di tali intitolazioni, è da rilevare che proprio il santo arcangelo era assai venerato presso le popolazioni longobarde cristianizzate, anche in seguito all’abbandono dell’eresia di Ario a cui in origine aderivano: la sua effigie caratterizza la monetazione longobarda, e Michele, principe della milizia angelica, incarna al meglio i

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valori militari dell’Heer, l’assemblea dei liberi in armi. Abbiamo deliberatamente parlato di iniziazione ed evocato l’adoubement cavalleresco: si vogliono, infatti, fondatori di Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra tre leggendari cavalieri spagnoli, ovvero – rispettivamente – Osso, Mastrosso e Carcagnosso, né è un caso che il rituale di affiliazione ‘ndranghetista evochi Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, ossia i Re Magi, che in Oriente avevano ricevuto non solo l’iniziazione regale, ma anche quella

sacerdotale. Non è questa la sede per trattare il tema dei parallelismi riscontrabili non solo fra i codici d’onore e i rituali della criminalità organizzata e quelli della cavalleria medievale (si pensi, per esempio, alle modalità di occupazione dei tessuti urbani e alla trasformazione di «signorie fondiarie» in «signorie territoriali», soprattutto dal punto di vista della «giustizia privata» e della «volontaria giurisdizione»; alla similare creazione di estese clientele, «militari» e non...): merita tuttavia d’essere evidenziato come si tratti, comunque, di riti veri e propri, che, in quanto tali, comportano un passaggio e un conseguente effettivo mutamento di stato dell’essere e una autentica consecratio, sebbene di tipo non certo superno.

Simboli: maneggiare con cura Come ne La Meravigliosa storia di Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso (1781-1838) – che solo un ingenuo potrebbe considerare un racconto per bambini –, se non si può «ripassare una porta», è tuttavia concesso all’«uomo senza ombra» di arrestarsi prima di varcare «quella da cui nessuno ritorna». Chiunque studi il significato piú profondo dei simboli sa che essi non possono essere manipolati impunemente, che cosa comporti la loro inversione, e che essi sono tali proprio perché non solo rappresentano, ma sono gli archetipi a cui rimandano: è il principio della Magia naturalis, a cui si dedica per consolazione anche il personaggio creato dalla fantasia di Chamisso. Analogamente e, ancora una volta, non casualmente, per la scienza araldica alle partizioni piú onorevoli dello scudo, il capo e il cuore, sono

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riferiti nomi che rimandano alle parti piú nobili del corpo umano, sedi tradizionali, rispettivamente, dell’intelletto e del sentimento: il cavaliere, in un certo senso, è il proprio stemma, e pertanto ogni sua modificazione – l’aggiunta di un capo o di uno scudetto in cuore, ovvero la sua inversione per fellonia – comporta una conseguenza di segno analogo relativamente allo stato dell’essere dell’individuo (quello, beninteso, che abbia ricevuto un’effettiva e operante iniziazione cavalleresca). Per tale motivo, in una società tradizionale, una parodia non è mai una cosa su cui ridere a cuor leggero. Ciò premesso, risulta cosí piú comprensibile il significato delle brisure introdotte nell’arme gentilizia originaria per differenziarla da quella pura portata dal solo capo della casa: in primo luogo, le Marks of Cadency, che, anche prima della successiva codificazione giuridica (non si dimentichi che in Scozia, per esempio, l’araldica è una vera e propria branca del diritto, soggetta alla giurisdizione del cosiddetto Lord Lion, il primo araldo di quel regno), indicavano piú o meno precisamente la juniority rispetto al chieftain (o’ capoclan) di chi ne portava. L’adozione di tali «coordinate

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genealogiche», in presenza di una società che si regolava anticamente col sistema della thanestry (dall’anglosassone thane, dalla medesima radice del germanico Degen= guerriero), consuetudine successoria che anteponeva il piú anziano del clan alla discendenza diretta del capo defunto, è ancor piú agevolmente comprensibile.

Dinastizzare le cariche Detta pratica successoria era tipica di molte popolazioni di tradizione giuridica germanica, e anche nella penisola italiana troviamo tracce

In alto esempi di stemmi variamente brisati: da sinistra, le armi dei Ruffo, dei Del Balzo, e della Casa di Montfort. In basso un altro stemma dei Ruffo, in cui il troncato-cuneato è spostato in capo. di una certa sua resilienza: in primis, nella stirpe tosco-umbra dei marchiones di Colle, poi del Monte Santa Maria, come in altre casate che dinastizzarono qualche ufficio pubblico (anche di origine vescovile, come i Vicedomini comensi). Vi sarete forse domandati dove si voglia insomma «andare a parare»: e veniamo allora al punto. Abbiamo esordito evocando il santo arcangelo per significare la persistenza – sia pur anche nella versione «controiniziatica» – di un culto tipico del popolo longobardo: che nel Meridione della Penisola – la Langobardia minor – ebbe, a dispetto del nome, una fortuna piú duratura che al Nord (presto sottomesso ai re dei Franchi, che assunsero infatti il titolo regio Franchorum et Langobardorum). Il diffusissimo cognome Lombardo/ Lombardi, anche quando non derivi da ascendenze etniche documentabili, ma dal mero personale, un tempo comune, Lombardo, è indizio di tale agosto

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A destra sotto il fantomatico gentilizio D(’)Anglo si cela la potente stirpe anglonormanna dei de Bourgh-Burke, che porta in punta la leggendaria Red Hand of Ulster, loro contea. persistente tradizione anche nell’onomastica (come per la toponomastica: si pensi solo a Guardia Lombardi). Ma se nella Langobardia maior, almeno nei primi tempi successivi alla debellatio inflitta dai Franchi, questi ultimi presero il posto già occupato dai ministri di Desiderio, sostituendoli con comites preposti a distretti pubblici plasmati sulle antiche circoscrizioni municipali, episcopali e plebane, un altro «terremoto sociale», venuto da fin piú remote latitudini transalpine, ebbe carattere tutto sommato meno eversivo.

Cooptazioni e matrimoni Come i Franchi, infatti, anche gli Uomini del Nord – i Normanni – erano un popolo di valorosi guerrieri, che si sovrappose alle antiche circoscrizioni pubbliche longobarde e bizantine sopravviventi dopo il Mille dall’epoca altomedievale: a differenza dei primi, però, e fors’anche per la propria esiguità numerica, essi vollero o dovettero cooptare i ceti dirigenti di quelle tradizioni esistenti in loco, anche allacciando alleanze matrimoniali. Al contempo, questi guerrieri e navigatori mantennero inizialmente stretti contatti con i connazionali che, guidati da Guglielmo il Conquistatore, si stavano insediando nelle isole britanniche: né riteniamo casuale che l’uso della brisura araldica – pratica ancora corrente nei regni britannici – fosse allora analogamente adottato anche nei territori italici sottoposti alla sovranità normanna. Sarebbe qui impossibile elencare le casate che, piú o meno a buon diritto, vengono tradizionalmente considerate d’origine normanna (compresa, probabilmente, la casata

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baronale romana dei Normanni; vedi «Medioevo» n. 222, luglio 2015), ma vale la pena di notare come un’analoga inclinazione per la brisura denoti anche una seconda ondata di famiglie di origine «francese», e forse, in molti casi, di analoga origine latamente normanna: ovvero quelle passate nel Meridione d’Italia con la dinastia angioina, allorché il successore di Pietro, preoccupato dell’unione dinastica tra la corona normanna e quella imperiale in seguito alle nozze di Enrico VI di Hohenstaufen con

In alto tavola che esemplifica i principali elementi di brisura dell’araldica britannica e il loro utilizzo, da The Elements of Heraldry (Londra, 1765). Costanza d’Altavilla – come secoli prima il succitato Leone III con Carlo Magno –, avrebbe giocato la carta «francese» per impedire che il Patrimonio finisse stretto in un abbraccio sgradito a chi non disdegnava di unire all’autorità spirituale del Pastore il potere temporale sugli uomini. Lasciamo quindi la parola agli stemmi. Niccolò Orsini De Marzo

Con riferimento all’articolo Signori dell’Urbe (vedi «Medioevo» n. 222, luglio 2015) ripubblichiamo l’immagine inserita a p. 108 (in basso): si tratta, infatti, degli stemmi «Cavalieri, Astalli e Gabrielli come raffigurati nell’opera Tesserae gentilitiae di Silvestro Pietrasanta (Roma, 1638), in cui si nota la bordura indentata, frequente nell’araldica dell’Urbe», erroneamente attribuiti agli Orsini, Frangipane, Tebaldeschi e Savelli. Desideriamo inoltre fornire una spiegazione piú dettagliata del termine placito, citato a p. 105: il vocabolo indica una seduta giudiziaria presieduta da un’autorità rivestita della publica potestas, e, per traslato, il documento che incorpora il dispositivo emesso in tale assise. Si tratta di un istituto giuridico proprio delle tradizioni germaniche, e in particolar modo recepito e sviluppato dalla monarchia franca.

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Lo scaffale Patrick Boucheron, Stéphane Gioanni (a cura di) La memoria di Ambrogio di Milano. Usi politici di una autorità patristica in Italia (secc. V-XVIII)

École française de Rome, Roma-Publications de la Sorbonne, Parigi, 631 pp., ill. col. e b/n

ISBN 978-2-85944-885-1 40,00 euro www.publications.efrome.it

Padre della Chiesa, e fautore della riforma liturgica che ne porta il nome, sant’Ambrogio godette di una grande fama, che, pur varcando ogni limite geografico, ci riporta essenzialmente alla

città di Milano: luogo privilegiato della «memoria» legata a un personaggio che fu termine di paragone e modello di riferimento all’interno delle nuove dinamiche del potere politico-sociale. Lungi dal proporre una biografia del santo, il volume affronta con approccio

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interdisciplinare i molti aspetti della «memoria» ambrosiana, evidenziandone lo sviluppo nel corso dei secoli. Molteplici, dunque, sono le prospettive scelte per delineare la storia di questo «ricordo», a partire dagli studi archeologici, iconografici, architettonico-spaziali, liturgici e letterari. Ciò consente di delineare quanto influente sia stata l’autorità non solo ecclesiastica, ma anche politica e sociale di Ambrogio. La cui memoria permette di ripercorrere la storia medievale e moderna milanese, spingendosi sino all’epoca di Carlo Borromeo, «nuovo» Ambrogio nella Milano del XVI secolo, e all’illuminismo. Franco Bruni Simona Caleca, Giulio Ferrando, Bruno Repetto, Carla Monica Risso Terre di castelli Per valli e monti nei domini Fieschi e Spinola

I.I.A.S. Istituto Italiano per l’Archeologia Sperimentale, Genova, 70 pp., ill. col.

ISBN 978-88-940399-2-4 www.iias.it

Pubblicata nell’ambito di un piú vasto

programma di proposte e itinerari culturali che collegano la costa ligure di Levante con l’entroterra, la guida valorizza la rete di fortezze e dimore difensive nelle Valli del Genovesato. A partire dal piú antico presidio di San Salvatore di Cogorno, iniziale roccaforte dei Fieschi, conti di Lavagna, i castelli della nobile famiglia nelle valli retrostanti la costa e l’Appennino occuparono le posizioni strategiche di Santo Stefano d’Aveto, Roccatagliata, Torriglia, Montoggio, Savignone e Senarega, confinando nel bacino dello Scrivia con i feudi degli Spinola, che comprendevano i manieri di Vobbia, Borgo Fornari e Isola del Cantone. Immerse in contesti naturali di pregio le emergenze architettoniche censite sono disseminate nell’ampio territorio esteso tra Genova e il versante padano

sino al limite con il Piemonte e le Province di Parma e Piacenza. Da segnalare, tra gli altri, la basilica di S. Salvatore nella splendida insula di Cogorno, iniziata nel 1252 dal papa fliscano Innocenzo IV e proseguita dal nipote Ottobono, poi Adriano V, come esplicita celebrazione della famiglia Fieschi e della sua dinastia. Oppure la chiesa dell’abbazia di Sant’Andrea di Borzone, considerata fra i piú importanti monumenti storicoarchitettonici liguri. E, ancora, il borgo di Senarega che, situato alle pendici del monte Antola, è uno dei nuclei abitati d’epoca medievale meglio conservati della Valle Scrivia. Da questi e dagli altri siti descritti nasce un percorso suggestivo, in cui la rilevanza delle architetture si unisce al fascino dei paesaggi. Una sezione è dedicata alla pista ciclopedonale che, realizzata nella sponda sinistra dell’Entella, partendo da Lavagna o da Chiavari, permette di raggiungere il borgo monumentale di San Salvatore, fulcro della rete di itinerari individuata. Completano il testo supporti divulgativi

informatici, tra cui il portale «Terre di castelli Fieschi e Spinola» (www. terredicastellifieschi espinola.it), dal quale è peraltro possibile scaricare gratuitamente il volume in formato PDF. Chi invece, a fronte di un’offerta libera, ne desideri una copia cartacea, si può rivolgere a: Museo dei Fieschi, Cogorno (info: www.comune.cogorno. ge.it); Castello di Borgo Fornari, Ronco Scrivia (info: www.comune. roncoscrivia.ge.it); Museo Archeologico Alta Valle Scrivia, Isola del Cantone (www. museoarcheologico altavallescrivia.it.). Chiara Parente Maria Paola Zanoboni Scioperi e rivolte nel Medioevo Le città italiane ed europee nei secoli XIII-XV Jouvence, Milano, 244 pp.

19,00 euro ISBN 978-88-7801-479-4 www.jouvence.it

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Lo scaffale Da tempo, i nostri lettori hanno la possibilità di apprezzare le analisi che Maria Paola Zanoboni dedica al mondo del lavoro nel Medioevo e alle implicazioni di carattere economico e sociale della sua organizzazione. Per chi voglia ulteriormente approfondire alcuni dei temi trattati nel corso degli ultimi anni, la studiosa milanese ha ora dato alle stampe una raccolta basata su dieci dei suoi contributi piú recenti, rielaborati in misura variabile e arricchiti da un piú corposo repertorio di fonti archivistiche e bibliografiche. Torna quindi a «sfilare» il variegato esercito di imprenditori, professionisti, artigiani e manovali che, tra il XIII e il XV secolo, fu il motore dell’economia italiana ed europea. Dai cantieri navali alle saline, dagli studi dei notai ai laboratori degli speziali, emerge un quadro vivido e articolato, caratterizzato da dinamiche che si rivelano straordinariamente attuali. Un universo che, anche allora, era turbato da precarietà e crisi, come accadde, per esempio, negli anni della grande

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peste del 1348, ai quali è dedicata una delle sezioni piú corpose del libro. Come sempre, merita d’essere sottolineato lo stile dell’autrice, che senza nulla concedere all’approssimazione, risulta accessibile e chiaro anche ai non addetti ai lavori. Stefano Mammini Giulio Piacentini I racconti del mandorlo, dell’ulivo e del melograno La filosofia medioevale narrata dai suoi protagonisti

Marcianum Press, Venezia, 251 pp.

23,00 euro ISBN 978-88-6512-294-5 www.marcianumpress.it

Come legge nell’Introduzione, il volume vuole illustrare le teorie dei filosofi medievali piú importanti, rivolgendosi innanzitutto al pubblico dei non specialisti. Obiettivo che può dirsi riuscito, grazie all’esposizione piana e lineare dei

molti argomenti affrontati, spesso di considerevole complessità: basti pensare alla patristica – a cui è dedicata la prima sezione –, che possiamo indagare attraverso speculazioni nelle quali il libero ragionamento si sviluppa in parallelo con i dogmi della religione. Del resto, la componente mistica è uno dei fili conduttori della filosofia medievale, anche perché quasi tutti i pensatori piú insigni appartenevano all’ambiente monastico ed ecclesiastico, visto che per molto tempo questi ultimi furono i soli ambiti in cui si poteva studiare e conoscere il patrimonio dei saperi dell’età classica. Da segnalare l’efficace espediente narrativo scelto per arricchire il profilo dei personaggi selezionati: dopo una breve introduzione, infatti, ciascuno di loro «parla» in un dialogo immaginario che lo vede protagonista. S. M. Michael Mitterauer, John Morrissey Pisa nel Medioevo Potenza sul mare e motore di cultura Viella, Roma, 298 pp.

25,00 euro ISBN 978-88-8334-632-3 www.viella.it

della piazza dei Miracoli, che della ricchezza pisana divenne una tangibile dimostrazione. S. M. Filo conduttore del saggio è l’importanza che Pisa ebbe nei secoli dell’età di Mezzo, soprattutto dal punto di vista politico ed economico. Muovendo dalla convinzione che la città toscana sia a volte ricordata unicamente per la sua caratteristica torre pendente, Mitterauer e Morrissey ripercorrono una vicenda lunga e articolata, che ha uno dei suoi cardini nella vocazione marinara. Come si può leggere in particolare nel secondo capitolo, Pisa arrivò infatti a imporsi come una superpotenza ante litteram, capace di dare vita a una rete di rapporti commerciali che toccava quasi l’intero mondo allora conosciuto. Naturalmente, i due studiosi non mancano di assegnare il giusto rilievo anche alla costruzione del monumento simbolo della città, ma, soprattutto, al progetto che ispirò la sistemazione dell’intero complesso

DALL’ESTERO Sarah Semple Perceptions of the Prehistoric in Anglo-Saxon England

Oxford University Press, Oxford, 352 pp., ill. b/n e 8 tavv. col.

85,00 GBP ISBN 978-0-19-968310-9 www.oup.com

L’opera, di taglio specialistico, affronta un tema insolito quanto affascinante: la considerazione delle testimonianze preistoriche da parte delle genti anglosassoni. Un fenomeno che, come dimostra Sarah Semple, ebbe una sua rilevanza concreta e influenzò gli usi e i costumi delle culture dell’Alto Medioevo inglese. S. M. agosto

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Cantare in compagnia MUSICA • Due preziosi codici hanno

permesso di riscoprire il repertorio delle laude, composizioni attraverso le quali anche il popolino poteva esprimere la propria fede

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ra le espressioni musicali in lingua vernacolare sviluppatesi a partire dal XIII secolo in ambito umbro-toscano, la lauda ha rivestito un ruolo primario nella devozione popolare. Queste composizioni nacquero con l’intento di rendere disponibile un repertorio che, grazie alla semplicità delle sue strutture ritmico-melodiche, poteva essere eseguito dal popolo dei fedeli senza una particolare alfabetizzazione musicale. Da qui l’enorme successo di un genere che, tra XIII e XIV secolo, fu utilizzato in particolar modo nel corso delle processioni. Dobbiamo la sua conoscenza a due tra i più antichi testimoni pervenutici del repertorio in lingua volgare: il Laudario di Cortona (codice 91), redatto verso il 1270 e appartenuto alla confraternita di S. Maria della Laude, e un codice fiorentino (BNF Banco Rari, 18), appartenuto alla Compagnia di Santo Spirito e databile agli inizi del XIV secolo. Entrambi sono espressione dell’attività dei «laudesi», compagnie che, sulla falsariga delle nascenti corporazioni dell’epoca comunale, gestivano un’attività assistenziale, nonché devozionale, attraverso veglie di preghiera e canti.

Come una veglia A questo ricco patrimonio si ispira il cofanetto Laudarium, che, riunendo due registrazioni degli anni Novanta, ci rivela la straordinaria potenza comunicativa del repertorio dei laudesi. Il primo disco, Laude di

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Sancta Maria, propone una ipotetica veglia di preghiera, con canti che celebrano i misteri dell’Incarnazione e della Natività, della Passione e Morte di Cristo, della Croce, della Resurrezione e quello dell’Assunzione di Maria. Assai riuscita è l’esecuzione del gruppo La Reverdie, che vede i suoi interpreti vocali – Claudia e Livia Caffagni, Elisabetta ed Ella de’ Mircovich, Doron David Sherwin, Sergio Foresti, Roberto Spremulli, Matteo Zenatti, ai quali si aggiungono Klaus L. Neumann e Paolo Zerbinatti – alternarsi anche alla viella, flauto, arpa, cornetto e percussioni varie, in accordo con una prassi vocale-strumentale testimoniata nei libri di conti dell’epoca.

Le agiografie come modello Un’analoga ricchezza melodica e timbrico-strumentale si riscontra nel secondo disco, Legenda Aurea, che allude a un testo tra i piú diffusi e popolari dopo la Bibbia, opera di Jacopo da Varagine (1228-1298), poi tradotto in volgare, che narra le vite di circa 150 santi. Anche qui tornano laude tratte dai due codici citati, con una particolare attenzione alle agiografie di san Francesco, san Domenico, sant’Agnese, ecc. Molto belli sono i brani inclusi nella registrazione, che, nell’evocazione

Laudarium Songs of Popular Devotion from 14th-century Italy La Reverdie Arcana, A 379, 2 CD 25,00 euro www.outhere-music.com dell’exemplum, incarnano appieno il desiderio popolare di edificazione attraverso la narrazione agiografica. Fatta eccezione per la presenza dell’organetto portativo, ritroviamo il campionario strumentale già descritto. Anche in questo caso, risulta eccellente l’interpretazione del gruppo La Reverdie, forte dell’ausilio degli studi musicologici – fondamentali per simili repertori, desueti e spesso di difficile interpretazione – e della maestria dei singoli componenti, in un connubio di «saperi» e prassi esecutive che si dimostrano capaci di cogliere nel segno, per una riproposizione capace di comunicare ed emozionare. Franco Bruni

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