Medioevo n. 222, Luglio 2015

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UN SO M G VA ED IO N IEV IEL A AL LO E

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

DOSSIER

COSTUME E SOCIETÀ Alle origini del tennis

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GIOVANNI VIII PALEOLOGO

Luglio 1439: missione in Toscana

PAVIA, ANNO DOMINI 1525

LA BATTAGLIA CHE CAMBIÒ LA STORIA

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GIOVANNI VIII PALEOLOGO PAVIA 1525 GIOVANNI PAOLO DA FONDI TENNIS SOVANA DOSSIER ORIGINI DELLA PASTA

Quando i cavalieri mangiavano la pasta

Mens. Anno 19 numero 222 Luglio 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 222 LUGLIO 2015

EDIO VO M E



SOMMARIO

Luglio 2015 ANTEPRIMA ALMANACCO DEL MESE

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ANNIVERSARI Nella città della disputa

6

RESTAURI Luminosa, verde, perfetta Il ritorno dell’Advocata

8 10

APPUNTAMENTI Medioevo oggi La santa addormentata nella roccia L’assedio sventato dalle campane L’Agenda del Mese ITINERARI Un tesoro tra i pruni

MOSTRE Battaglia di Pavia ...E niente fu come prima

testi di Giorgio Boatti, Luigi Casali e Maria Rosaria Sansone 46

Un astrologo a Bologna di Federico Canaccini

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SPORT Tennis Il mio regno per una racchetta

di Roberto Roveda, con la collaborazione di Francesca Saporiti 66

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LUOGHI

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MEDIOEVO NASCOSTO Sovana

22 26

Una sirena per Ildebrando di Franco Bruni

94

CALEIDOSCOPIO

14

TOSCANA

Giovanni VIII Paleologo di Marco Di Branco

Giovanni Paolo da Fondi

46 COSTUME E SOCIETÀ

STORIE 23-27 luglio 1439. L’imperatore ha dormito qui

PERSONAGGI

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ARALDICA Signori dell’Urbe

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TESORI DI CARTA Curarsi con le piante

110

MUSICA La lira s’addice alla Galizia

112

34

Dossier

LA PASTA: UN’INVENZIONE MEDIEVALE? di Maria Paola Zanoboni

66

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dell’ISCR. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: copertina – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 6-8, 12, 46-48, 50-51, 52/53, 54/55 – Cortesia ISCR: p. 10-11 – Cortesia Agenzia di Promozione Turistica Langhe e Roero: pp. 14-15 – Cortesia Giuliano Negro, Prunetto: pp. 16-17 – Cortesia dell’autore: pp. 20, 22, 104-108 – Archivi Alinari, Firenze: pp. 38/39; Raffaello Bencini: pp. 34/35, 40/41; Mary Evans Picture Library: p. 76; per concessione MiBACT: p. 37; Aurelio Amendola: p. 40; Dist. RMN-Grand Palais/Image BnF: p. 58; RMNGrand Palais (Musée du Louvre)/Stéphane Maréchalle: p. 60 (alto); RMN-Grand Palais (Château de Fontainebleau)/ Gérard Blot: p. 68; Musée du Louvre, Dist. RMN-Grand Palais/Philippe Fuzeau: p. 71; Giuliano Valsecchi: p. 79 – Doc. red.: pp. 39, 44, 57, 82, 84, 88 – Marka: Phil Robinson: p. 42; Fotosearch LBRF: p. 43 – Mondadori Portfolio: Album: pp. 45, 61; Leemage: pp. 70, 91 – DeA Picture Library: G. Dagli Orti: pp. 49 (alto), 56/57; A. Dagli Orti: pp. 49 (basso), 63, 66/67; A. De Gregorio: p. 53; M. Seemuller: p. 73; Prima Press: p. 83 – Bridgeman Images: pp. 60 (basso), 62, 64-65, 68/69, 74, 80/81, 90 (basso); Tallandier: pp. 72, 75 – Granger, NYC: p. 84/85, 86/87, 89 – Foto Scala, Firenze: p. 90 (alto); White Images: pp. 92-93 – Franco Bruni: pp. 94-95, 96/97, 98, 99, 100, 101, 102-103 – Shutterstock: p. 96 – Da: C. Rosati e C. Moroni, Il Duomo di Sovana e la chiesa di Santa Maria, per gentile concessione di Moroni Editore: pianta e assonometria alle pp. 100 e 101 – per concessione Mibact-Biblioteca Statale di Lucca (divieto di riproduzione con qualsiasi mezzo): pp. 110-111 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 98.

MEDIOEVO Anno XIX, n. 222 - luglio 2015 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Giorgio Boatti è giornalista e scrittore. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Luigi Casali è esperto di storia militare. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Marco Di Branco è ricercatore di storia bizantina e islamica all’Istituto Storico Germanico di Roma. Mila Lavorini è giornalista. Chiara Parente è giornalista. Stefania Romani è giornalista. Roberto Roveda è storico del Medioevo e giornalista. Maria Rosaria Sansone, Museo Nazionale di Capodimonte. Francesca Saporiti è giornalista e storica del Medioevo. Albertina Soavi è restauratrice e docente

Editore: MyWay Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

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In copertina la Cavalcata dei Magi, affresco di Benozzo Gozzoli nella Cappella Medicea di Palazzo Medici-Riccardi (Firenze). 1459-1460. Particolare con la figura di Baldassarre, identificata con l’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo.

Nel prossimo numero grandi battaglie

8 agosto 1215. La disfatta di Montecatini

medioevo nascosto

I «secoli bui» di Malta

saper vedere

La cappella di Teodolinda a Monza

dossier

Alla scoperta dei luoghi dei Templari


Almanacco del mese

a cura di Federico Canaccini

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1 luglio 1097

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2 luglio 1494

Nella battaglia di Dorileo i crociati sconfiggono i Turchi Selgiuchidi Ratifica del Trattato di Tordesillas, con cui la Spagna e il Portogallo si spartiscono il Nuovo Mondo U

3 luglio 324

Battaglia di Adrianopoli. Costantino I ha la meglio su Licinio, che fugge da Bisanzio U

4 luglio 1187

Saladino sconfigge l’esercito crociato nella battaglia di Hattin U

5 luglio 1294

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6 luglio 1415

Dopo un conclave interminabile, viene eletto pontefice Pietro del Morrone (Celestino V) Jan Hus viene arso sul rogo a Costanza e le sue ceneri sparse nel Reno U

7 luglio 1456

Riabilitazione e assoluzione di Giovanna d’Arco

8 luglio 9 luglio 1357 U

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Carlo IV di Boemia assiste alla posa della prima pietra del ponte Carlo a Praga

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10 luglio 11 luglio 1302

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12 luglio 1442

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13 luglio 14 luglio 1099

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15 luglio 1410

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Battaglia degli Speroni d’oro: a Courtrai, le città fiamminghe battono la cavalleria francese Alfonso V di Aragona diventa anche re di Napoli U

Le truppe cristiane conquistano Gerusalemme e pongono cosí fine alla prima crociata A Grunwald-Tannenberg i cavalieri teutonici vengono sconfitti dall’esercito polacco-lituano

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16 luglio 1228

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17 luglio 1212

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18 luglio 19 luglio 1333

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20 luglio 21 luglio 1425

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22 luglio 1209

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23 luglio 24 luglio 1132

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25 luglio 1261

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26 luglio 1139

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27 luglio 1214

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28 luglio 29 luglio 1364

Papa Gregorio IX canonizza Francesco d’Assisi Si combatte la battaglia di Las Navas de Tolosa che fa registrare la piú significativa vittoria spagnola contro i Mori U

La vittoria inglese a Halidon Hill pone fine alla guerra per l’indipendenza della Scozia U

Muore Manuele II Paleologo, l’imperatore bizantino già ritiratosi in convento dopo aver abdicato in favore del primogenito, Giovanni VIII A Bèziers un esercito crociato massacra i catari albigesi U

Una vasta coalizione, con a capo Rainulfo d’Alife, sconfigge a Nocera il re normanno Ruggero II Alessio Strategopulo riconquista, dopo l’occupazione crociata, Costantinopoli, che torna capitale dell’impero bizantino Il conte Alfonso diviene primo re del Portogallo e proclama l’indipendenza dalla Castiglia Filippo II trionfa su Giovanni d’Inghilterra a Bouvines U

La vittoria di Cascina spiana a Firenze la strada per la conquista di Pisa U U

30 luglio

31 luglio 1009

Consacrazione di papa Sergio IV


ANTE PRIMA Lipsia. La chiesa di S. Nicola, che festeggia l’850° anniversario della fondazione.

Nella città della disputa ANNIVERSARI • Centro fra i maggiori della Sassonia, Lipsia festeggia i mille anni

dalla prima attestazione certa della sua esistenza. Un’occasione per scoprire un ricco patrimonio artistico e architettonico, naturalmente a suon di musica...

L

ipsia viene menzionata per la prima volta in un documento scritto nel 1015. Culla della letteratura e della musica tedesca, capace di incantare personaggi come Goethe, Bach o Lenin, la città della Sassonia fu infatti nominata, mille anni fa, in data 20 dicembre, nella cronaca stilata dal vescovo Tietmaro di Merseburgo. Per celebrare questo primo millenario, è stato dunque organizzato un ricco calendario di eventi, che comprende mostre, concerti, incontri e pubblicazioni. Sorta in un luogo strategico, fra il

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Baltico e le Alpi, Lipsia si adagia nell’area in cui confluiscono i fiumi Elster Bianco, Pleisse e Parthe, in un lembo affiancato dalla selva di Turingia e dai Monti Metalliferi: uno scenario ideale per lo scambio di prodotti fra regioni diverse.

Commerci e cultura Eretto intorno a un nucleo slavo, al quale presto si sovrappone l’elemento tedesco, l’abitato, ricevette il primo riconoscimento giuridico da Ottone II, margravio di Meissen, nella seconda metà del

XII secolo, mentre nel Duecento si impose come uno dei mercati piú importanti della Germania Centrale, affermandosi in parallelo anche dal punto di vista culturale, tanto che, nel 1519, la sua Università venne scelta come sede della disputa di Martin Lutero, il dibattito teologico che, dal 27 giugno al 16 luglio di quell’anno, vide il capofila della Riforma opporsi al cattolico Johannes Eck. Dopo la pace di Vestfalia, che pose fine alla Guerra dei Trent’anni (1618-1648), la città divenne un luglio

MEDIOEVO


In alto il monumento al compositore Johann Sebastian Bach, alle cui spalle si riconosce la chiesa di S. Tommaso. A sinistra una delle arcate del vecchio Municipio di Lipsia, affacciato sul Markt, la piazza del mercato, e oggi sede del Museo storico della città. centro commerciale di importanza europea, soprattutto per i libri. E da qui nacque la vocazione editoriale di questo angolo di Sassonia. La parte piú antica di Lipsia, il suo cuore pulsante, è la Altstadt, che si raccoglie attorno al Markt, la piazza del mercato di impianto prima triangolare, poi quadrato. I viali alberati che ripercorrono il circuito delle mura racchiudono abitazioni rinascimentali, palazzi barocchi e sottoportici tipici della zona. Fra le altre testimonianze di età medievale, figura la chiesa di S. Nicola, che quest’anno celebra l’850° giubileo. Oggetto di lavori nel XVIII secolo, la chiesa, di impronta romanica e ampliata in veste gotica, fu costruita attorno al 1165, quando Lipsia era la città di Nicola, protettore dei commercianti. Proprio da qui, con gli «incontri del lunedí», nel 1989 partí la protesta pacifica contro il regime comunista.

MEDIOEVO

luglio

Altro luogo di culto fondato nell’età di Mezzo è la chiesa di S. Tommaso, eretta nel Duecento all’interno del monastero dei canonici regolari di Sant’Agostino.

Atmosfera d’altri tempi Qui Johann Sebastian Bach, le cui spoglie si trovano di fronte all’altare, è stato maestro di cappella e ha lasciato un segno importante nell’attività del coro, documentata dal lontano 1212. Ancora oggi vi si possono sentire le voci bianche: basta visitare S. Tommaso il venerdí sera o la domenica mattina, per godere di un’atmosfera d’altri tempi. Nel centro meritano una visita anche la Gewandhaus, celeberrima sala da concerto, il Museo storico allestito nel municipio rinascimentale e il Museo delle Belle Arti, 7000 metri quadrati di esposizione, con opere che abbracciano un orizzonte compreso tra il Medioevo e l’epoca

moderna. Per gli amanti delle note l’Archivio-Museo Bach è punto di riferimento a livello internazionale. A 25 chilometri dalla città vale la pena di visitare anche Halle, un gioiello del gotico: fra le sue bellezze ci sono la Marktkirche, chiesa luterana sulla piazza del mercato, il duomo di pietra chiara e lo Schloss Moritzburg, un castello di impianto gotico che ospita una raccolta di opere impressioniste. Info: www.sassoniaturismo.it Stefania Romani

Errata corrige con riferimento all’articolo Calcio, passione antica (vedi «Medioevo» n. 221, giugno 2015) desideriamo segnalare che nel box a p. 68 (Quei calcianti faranno strada...) Giulio de’ Medici divenne papa con il nome di Clemente VII e non XII. Dell’errore ci scusiamo con i nostri lettori.

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ANTE PRIMA

Luminosa, verde, perfetta RESTAURI • Realizzata da Michelozzo

Michelozzi su commissione di Cosimo il Vecchio de’ Medici, la Biblioteca di S. Marco è stata restituita all’ammirazione del pubblico, che può constatare quanto fosse «moderno» il progetto che l’aveva ispirata

I

nsigne letterato e collezionista, Niccolò Niccoli muore nel 1437, affidando a sedici esecutori le proprie disposizioni testamentarie, che prevedevano il lascito dei suoi preziosi manoscritti a Cosimo il Vecchio de’ Medici, il quale decide di donarli al convento di S. Marco che, per suo volere, in quegli anni, era in fase di totale ristrutturazione. I lavori del complesso domenicano erano stati affidati a Michelozzo Michelozzi, il quale vantava all’epoca una posizione sociale invidiabile, grazie anche all’ingente somma portata in dote dalla moglie, e che già aveva uno stretto legame con la casata medicea. Il modello di equilibrio e proporzioni proposto dal disegno planimetrico generale culmina nella raffinata volumetria della Biblioteca, progettata nel 1444, per sistemare gli 800 codici – di cui un centinaio greci – ereditati da Cosimo, oltre ad altri volumi a completamento della raccolta, seguendo il canone bibliografico approntato da Tommaso Parentucelli da Sarzana (il futuro papa Niccolò V). Lo schema architettonico a pianta basilicale, con lo spazio lungo 45 m e suddiviso in tre navate

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separate da undici colonne per parte, illuminate da finestre disposte su entrambi i lati, diventò il prototipo a cui si ispirarono tutte le successive biblioteche, a partire dalla Malatestiana, realizzata pochi anni piú tardi.

Aperta a tutte le ore del giorno I manoscritti, distribuiti in 64 banchi disposti su 2 file, 32 ex parte orientis e 32 ex parte occidentis, erano destinati alla libera consultazione degli studiosi, facilitati nella lettura dei testi dall’ambiente luminoso, con le pareti dipinte di verde, colore che favorisce la riflessione e la contemplazione. Perfetta sintesi tra tradizione e modernità, quella di S. Marco fu la prima biblioteca aperta al pubblico degli specialisti che potevano accedervi su richiesta in qualsiasi momento. Ora, dopo oltre un anno di restauri che hanno riguardato principalmente la pavimentazione, questo gioiello rinascimentale è nuovamente visibile e inserito nel percorso museale di S. Marco che racchiude, tra l’altro, le piú significative opere pittoriche del Beato Angelico. Complesse analisi hanno rivelato l’impiantito

Firenze. Un’immagine della Biblioteca di S. Marco, di cui si è recentemente concluso un ampio intervento di restauro. antecedente all’intervento ottocentesco, composto da mattoni in cotto posti a spina, per disegno e dimensioni del tutto simili a quelli presenti in diverse zone del cenobio. Nel rispetto della partitura spaziale, sono state riprese le misure delle mattonelle preesistenti ed è stato scelto materiale realizzato a mano e cotto con tecniche tradizionali in forni a legna per un armonioso inserimento nel contesto monastico. Contemporaneamente, si è intervenuto anche sui vari impianti, provvedendo, ove possibile, a occultare le componenti per una migliore fruizione dell’aula, grazie anche alla creazione di punti informativi sulla storia della Biblioteca con pannelli e vetrine che introducono alla visita e documentano la tecnica e gli strumenti legati alla miniatura. Infine, è stato allestito un touchscreen che consente l’esplorazione di tutte le carte dei codici minati dall’Angelico, appartenenti alla collezione del museo. Mila Lavorini luglio

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Il ritorno dell’Advocata RESTAURI • La suggestiva Madonna di Sant’Alessio è stata riportata allo splendore

originario. Un intervento che ha stimolato importanti riflessioni sulle tecniche messe a punto già negli anni Cinquanta del Novecento, dal grande Cesare Brandi

I

l restauro della Madonna di Sant’Alessio, una preziosa icona nota anche come Madonna di Edessa, ha fornito l’occasione per un significativo confronto stilistico con la serie delle altre Advocate romane, affiancato da alcune riflessioni sul precedente intervento, condotto negli anni Cinquanta sotto la direzione di Cesare Brandi (1906-1988), e da un approfondimento sulle tecniche di esecuzione. L’opera è stata fatta oggetto di una revisione della pulitura – con la rimozione delle vernici alterate sovrammesse all’originale –, realizzata con miscele solventi opportunamente calibrate in considerazione del fondo oro, che risulta particolarmente sensibile alle sostanze solventi. Un’attenzione particolare è stata prestata alla presentazione estetica del prezioso dipinto: le abrasioni di pellicola pittorica sono state velate ad acquerello e le lacune di profondità, previa stuccatura, sono state reintegrate a tratteggio. Quest’ultimo è la tecnica In alto e a destra due immagini dell’icona nota come Madonna di Sant’Alessio (XIII sec.) durante l’intervento di restauro.

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luglio

MEDIOEVO


Sempre pronta a intercedere L’icona mariana proveniente dalla chiesa rettoria intitolata ai santi Bonifacio e Alessio, sull’Aventino, viene attribuita a un pittore romano della metà del XIII secolo e appartiene alla tipologia iconografica della Madonna dell’Intercessione, molto diffusa a Roma a partire dall’XI secolo. È infatti raffigurata da sola, senza il Bambino, nell’atto di guardare l’osservatore leggermente voltata verso destra; la sua mano destra è alzata, mentre la sinistra è appoggiata al petto a indicare che intercede per chiunque a lei si rivolga. Era indicata anche con il termine Aghiosoritissa, perché l’originale si trovava nel santuario nel quale era custodita l’Aghias Soros, la «Sacra Urna» nella quale era conservata la cintura della Vergine. In ambito romano medievale era venerata anche con il nome di Advocata, termine che ben esprimeva il ruolo di mediatrice tra la Madre di Dio, da lei invocato, e gli uomini che a lei si rivolgono. di esecuzione pittorica con cui si ricostruisce l’unità figurativa di un’immagine dipinta laddove risulti lacunosa. Il sistema venne ideato da Brandi, storico e critico d’arte oltre che fondatore dell’Istituto Centrale per il Restauro (ICR), che ne esplicitò i principi teorici nella Teoria del restauro. Vi si ricorre per restituire continuità di lettura all’immagine dal punto di vista formale e cromatico e viene realizzato secondo i criteri metodologici utilizzati dall’ICR (oggi ISCR, Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro) fin dagli anni Cinquanta, in accordo con i principi di riconoscibilità e reversibilità.

L’importanza dei colori puri

Qui sopra la Madonna di Sant’Alessio al termine dell’intervento di restauro. L’opera, che si inserisce nel filone delle Madonne «dell’Intercessione», è attribuita a un artista romano del XIII sec. In alto un momento delle operazioni condotte dagli specialisti dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro.

MEDIOEVO

luglio

La tecnica consiste nella giustapposizione e nella sovrapposizione di linee verticali parallele di colori differenti, fino a ottenere un colore complessivo identico a quello adiacente di riferimento. Tale tinta deve risultare satura e brillante, per cui è conveniente impiegare colori puri e non miscelati e ridurre al minimo la sovrapposizione delle linee. In accordo con un protocollo operativo in ISCR sin dai tempi del suo fondatore, l’intervento è stato condotto con il supporto delle indagini scientifiche – chimiche e biologiche sui materiali costitutivi – e con la diagnostica ottica per immagini. A conclusione del restauro, con gli esperti in microclima e controlli ambientali del laboratorio di fisica dell’Istituto è stato realizzato un adattamento dell’insieme cornice originale-dipinto in previsione della ricollocazione dell’opera nella sede espositiva di provenienza, la cappella della Madonna dell’Intercessione nella basilica romana dei SS. Bonifacio e Alessio. Il restauto della Madonna di Sant’Alessio si inserisce nel progetto di conservazione e manutenzione delle icone mariane romane, avviato già da tempo dall’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro in collaborazione con il FEC, Fondo Edifici di Culto, e il Polo Museale della città di Roma. Albertina Soavi

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ANTE PRIMA

EDIO VO M E OGGI

E È

giunta alla quinta edizione «Luglio Longobardo», la manifestazione storico-rievocativa che si è ormai accreditata come uno degli eventi di riferimento per il primo Medioevo italiano. Protagonisti, come sempre, i Longobardi, che, giunti in Italia alla metà del VI secolo, conquistarono gran parte della Penisola, dando vita a un regno destinato a durare due secoli. Un’esperienza di cui anche l’Umbria, e Nocera in particolare, conservano traccia: qui, infatti, in località Portone, fu scoperta nel 1897 la necropoli dalla quale provengono i ricchi corredi oggi esposti nel Museo Nazionale dell’Alto Medioevo di Roma e nel Museo Nazionale del Ducato di Spoleto. «Luglio Longobardo 2015», in programma dal 10 al 12 luglio nel cuore dell’antico borgo nocerino, ha come tema «La donna longobarda tra storia, mito e leggenda». Molte sono le novità rispetto agli anni precedenti: oltre al campo storico – allestito questa volta nella Torre Civica (detta «Campanaccio») –, sono infatti previsti un convegno, una degustazione – anch’essa ispirata al tema della rassegna –, e un mercato medievale.

Scene di vita quotidiana Ancora una volta la parte rievocativa è curata dalla Scuola di Scherma Antica Fortebraccio Veregrense, uno dei piú esperti e rinomati gruppi di re-enactors italiani. Le sale della Torre ospiteranno un vero e proprio acquartieramento: sarà possibile assaporare momenti di vita quotidiana (cucina, tessitura, artigianato, ecc.), assistere a dimostrazioni d’arme e stage didattici, ammirare oggetti, corredi, armi e abiti riprodotti in maniera filologicamente corretta. In programma anche laboratori di medicina e scrittura longobarda, condotti dai gruppi ospiti Gens Langobardorum di Salerno e Benevento Longobarda.

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Al convegno, ospitato come di consueto presso il Museo Archeologico, sono previsti gli interventi di: Elena Percivaldi – che di «Luglio Longobardo» cura il coordinamento scientifico –, su La donna longobarda tra mito, letteratura e storia; a seguire, Giulio Mastrangelo (Università degli Studi di Bari, Lecce) tratta della Condizione giuridica della donna nelle leggi longobarde; Valter Bernardini (Museo di Fabriano) presenta un contributo su La donna longobarda nell’arte; Antonella Pizzolongo analizza una delle occupazioni piú importanti della donna longobarda, la tessitura (Fili d’oro. La donna longobarda e la tessitura: dalle tracce tessili alla ricostruzione dei tessuti) e propone anche una dimostrazione pratica al telaio storico; spazio quindi ai rievocatori, che tratteranno il tema del rapporto tra donna e medicina nell’Alto Medioevo (Federica Garofalo, Gens Langobardorum) e descriveranno l’abito della donna longobarda in tutti i suoi molteplici e affascinanti dettagli (Amanda Rampichini, Fortebraccio Veregrense). Chiude il convegno uno spettacolo con Ordalia (combattimento in singolar tenzone), anch’esso a cura di Fortebraccio Veregrense. Per informazioni: e-mail: pronocera@libero.it e luglio.longobardo@gmail.com; sito web: http://lugliolongobardo.jimdo.com; «Luglio Longobardo» è anche su Twitter (@LuglioLongobard) e Facebook (http://www.facebook.com/luglio.longobardo). luglio

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Un tesoro tra i pruni

ITINERARI • Nel Medioevo, il castello e la parrocchiale di Prunetto, nel Cuneese,

furono teatro di vicende importanti. A conferma della rilevanza assegnata a questo lembo dell’Appennino ligure per il controllo del territorio e delle comunicazioni

C

ircondati da un vasto prato verde e incorniciati dalla corona delle Alpi Marittime, dominata dal massiccio del Monviso, il poderoso castello Scarampi del Carretto e il santuario della Madonna del Carmine si innalzano solitari, a poche decine di metri l’uno dall’altra, in cima a un dolce colle nel Comune di Prunetto (Cuneo). Situato nell’Alta Langa, il complesso si raggiunge da Monesiglio e da Cortemilia, seguendo una serie di tornanti panoramici, che si inerpicano sui bricchi (plurale di bric o bec, «monte» nel dialetto piemontese e franco-provenzale) tra

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campi coltivati separati da secolari muretti a secco, filari di vite arroccati su lievi poggi e boschi di quercioli.

Una lunga vicenda architettonica La sua fisionomia attuale è il risultato dei numerosi ampliamenti succedutisi nel tempo. Eretto sulla riva destra della val Bormida, il nucleo originario della rocca, è stato edificato nel XII secolo accanto a una torre quadrata, che risale al Mille e rimanda a una tipologia architettonica comune nella zona. Infatti, nella media e alta valle Bormida e in tutta l’area langarola la torre, ossia la struttura in cui

si concentravano le funzioni difensive e offensive, caratterizza la fortificazione. Dal torrione del castello il collegamento visivo doveva essere immediato. Questo modello fortificatorio è connesso all’importanza viaria del territorio – attraversato da numerosi tracciati, che nel Medioevo collegavano le Langhe e il Monferrato alla Marina di Savona, alla Liguria di Ponente e al Nizzardo –, alla dispersione dell’insediamento umano e alla scarsità di grossi centri abitati. La presenza a Prunetto di un castrum, costruito con funzione di difesa e osservazione sul ripido crinale luglio

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Sulle due pagine Prunetto (Cuneo). Una veduta panoramica e due scorci del poderoso castello, considerato il prototipo degli edifici fortificati feudali del Piemonte sud-occidentale. tra i corsi del torrente Uzzone e della Bormida di Millesimo, risale verosimilmente all’epoca delle incursioni saracene. Le prime notizie certe sulla località rimandano al 967, anno in cui l’imperatore Ottone I donò Pruneto (da prunus-PrunetumPruneto, cioè luogo piantato a pruni) ad Aleramo, primo marchese del Monferrato. Quasi certamente il castello era allora formato da abitazioni modeste, edificate in un sito di sommità e protette da un recinto. A conferma dell’importanza di quest’area di transito, posta ai confini delle Langhe, Prunetto passò prima ai marchesi del Vasto poi, nel 1179, al monastero di S. Quintino di Spigno e infine, nel 1268, al marchese Enrico del Carretto.

Un passaggio «battagliero» Alla rustica roccaforte, ancora preceduta dall’antico passaggio, costituito da un piccolo portico a pianta quadrata con due aperture ad arco, detto la «batajera» (la battagliera), si arriva oggi a piedi, per una stradina selciata. Ritenuto il prototipo dei castelli feudali del Piemonte sud-occidentale, l’edificio fortificato, è formato da un massiccio blocco quadrangolare in pietra locale, difeso sullo spigolo nord-occidentale da una tozza torre circolare e ingentilito da bifore ogivali decorate con lo stemma dei del Carretto, che ne furono signori fino al XVI secolo. Del borgo medievale, ingranditosi insieme all’arcigno maniero nella parte finale e piú rialzata dello stretto promontorio, restano un pugno di case addossate le une alle altre, l’antica correria (una costruzione in pietra di dimensioni ridotte, col tetto in lose), la cappella di S. Rosa e il santuario della

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Madonna del Carmine. Quest’antica chiesa, costruita probabilmente nel Trecento, nel corso dei secoli ha subíto varie trasformazioni. Originariamente dedicata a san Lorenzo Martire, ha svolto funzioni di parrocchiale sino al 1904. Poi, ritenuta troppo decentrata rispetto allo sviluppo urbanistico dell’attuale abitato, che si estende piú a sud, nel fondovalle, fu abbandonata. Secondo la tradizione il luogo

sacro, ubicato sui percorsi battuti dai frati benedettini, che un tempo attraversavano le Langhe per raggiungere la Liguria, era inglobato in un monastero. L’architettura religiosa romanica, semplice e lineare, ha muratura di pietra a spacco a vista e tetto in lastre di pietra. All’esterno è caratterizzata da una sobria facciata a timpano, delimitata da due lesene laterali e ornata da un rosone centrale.

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ANTE PRIMA A sinistra e in basso due particolari degli affreschi recentemente restaurati nel santuario della Madonna del Carmine di Prunetto. I dipinti sono in ampia parte attribuibili a Segurano Cigna, attivo nella seconda metà del XV sec.

All’interno è invece suddivisa in tre navate, impreziosite da affreschi significativi, realizzate da piú di un artista e interessati negli ultimi anni da un lungo lavoro di recupero. Sono cosí comparse scene dipinte di cui non si conosceva piú l’esistenza. Come una delicata Madonna con Bambino nella controfacciata sinistra, un’interessante rappresentazione di figura femminile sul rogo nella prima campata della navata sinistra e alcuni riquadri che riproducono san Rocco, san Sebastiano, sant’Antonio Abate e santo Vescovo, con una parziale iscrizione relativa al committente. Nella navata centrale è tornato alla luce il Martirio di Sant’Agata e sulla volta della seconda campata nella navata destra, è riapparso un Cristo Pantocratore, inserito in un’ampia raggiera.

Restauri e novità Dopo la pulitura anche i pilastri in pietra della navata centrale hanno rivelato capitelli scolpiti con motivi decorativi a volute e vegetali. Una delle colonne di sinistra, in particolare, è avvolta nella parte

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alta sotto al capitello da un’insolita scultura, che rappresenta una cintura con fibbia. I restauri hanno anche recuperato la leggibilità di un bellissimo polittico che, considerato tra i dipinti murali tardo-gotici piú importanti del Cuneese, riveste la parete della terza campata nella navata sinistra. Inoltre, il ritrovamento di un’iscrizione dedicatoria con la data 1478 e il nome dell’autore: Seguranus Cigna de Monteregali, ha consentito di approfondire le coordinate figurative dell’artista, contribuendo ad avviarne la moderna riscoperta. Si tratterebbe, infatti, di uno degli ultimi lavori documentati del frescante Segurano Cigna, attivo per almeno trent’anni (dal 1454 al 1480 circa) nel Cebano e nel Monregalese (vedi box qui accanto). Simile a una preghiera dipinta, il ciclo rappresenta nella parte superiore il passo del Vangelo in cui Gesú muore, dopo aver affidato la Madre alla protezione dell’apostolo Giovanni. Sull’alto della croce non compare l’iscrizione I.N.R.I., tipica dell’arte rinascimentale. Inoltre Cristo non

Un campione dello «stallo» Segurano è considerato un importante interprete del periodo di transizione o, meglio, della situazione di «stallo tardo-gotico», che contraddistingue l’arte monregalese a partire dagli anni Cinquanta del Quattrocento, incerta tra un’immobile fedeltà ai modelli della tradizione e una diffidente apertura verso un linguaggio tardo-gotico piú evoluto. Come il suo maestro, Antonio da Monteregale, anche Segurano, per aggiornarsi, si rivolge alle dinamiche artistiche sviluppatesi tra Mondoví e la Riviera di Ponente e alle esperienze del senese Taddeo di Bartolo e del pisano Turino Vanni, presenti a Savona e Genova fra Tre e Quattrocento. Originario delle Langhe, Segurano è a capo di una bottega attrezzata, aperta con ogni probabilità a Mondoví, in grado di eseguire dipinti su tavola e fornire, anche in contemporanea, cantieri di affresco in località diverse (Fossano e Mondoví). I suoi committenti sono le potenti famiglie del notabilato urbano, le comunità locali e alcuni personaggi dall’indistinto ruolo sociale, come Johannes de Cumej a Prunetto, personaggio facilmente immaginabile in rapporto con i del Carretto, feudatari del posto. L’orizzonte geografico in cui Segurano lavora è quello ormai tradizionale per i pittori monregalesi, che operano dai primi decenni del Quattrocento: le valli immediatamente a ridosso della città, il Cebano (Marsaglia e Prunetto), e i centri sulle direttrici che legano le pianure cuneesi alla Riviera di Ponente (Fossano, verso Torino, Alba e Asti; Cerisola verso Albenga). I riferimenti geopolitici rispecchiano quell’«indistinta confusione» di feudi che, fino all’età moderna, ha contraddistinto i territori cuscinetto fra Piemonte e Liguria: il Ducato di Savoia, che controllava le principali città (Mondoví e Fossano), i vari rami dei Saluzzo, dei del Carretto e dei Ceva. Invece le diocesi coinvolte, oltre naturalmente a Mondoví, sono quelle di Torino (Fossano), Alba (Prunetto, Marsaglia) e Albenga (Cerisola). porta la corona di spine sul capo reclinato sopra la spalla destra. Ai lati del Nazareno, rispettivamente a destra e a sinistra, sono raffigurati la Vergine Maria con san Giovanni Evangelista. La Madonna, sopraffatta dal dolore, è accasciata: ha il capo piegato verso sinistra, il volto mesto, le mani giunte in preghiera; san Giovanni è ritratto nell’atto di sollevare tristemente le mani verso l’alto, in segno di pietà divina.

Confronti e affinità Nella volta, Segurano ha dipinto i Dottori della Chiesa seduti su eleganti tronetti e, nel sottarco, gli Evangelisti intorno al Cristo Giudice con il Tetramorfo. Le immagini ripropongono soluzioni compositive già sfruttate da altri artisti monregalesi (e dallo stesso Cigna nella cappella di S. Ponzo

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a Marsaglia). Lunghi cartigli svolazzanti con funzione decorativa animano le scene e una spessa linea di contorno racchiude le forme. Queste ultime, piuttosto vivaci ma piatte, non sembrano tener conto delle seduzioni cromatiche provenzali, che invece si avvertono in altri frescanti locali coevi. Nei moduli stilistici adottati Segurano appare invece profondamente influenzato dallo stile di Antonio da Monteregale che, operoso dal terzo al sesto decennio del Quattrocento, è ritenuto il capostipite di una corrente pittorica monregalese e il punto di riferimento di piú generazioni di artisti attivi nel comprensorio. Il castello e il santuario sono aperti da maggio a ottobre; info: tel. 0174 99113, fax 0174 99051, e-mail: prunetto@ruparpiemonte.it Chiara Parente

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ANTE PRIMA

La santa addormentata nella roccia APPUNTAMENTI • Dopo aver salvato un giovane dal

suicidio, Rosalia Sinibaldi avrebbe liberato i Palermitani dalla peste, che la scelsero come patrona e da allora organizzano grandi festeggiamenti in suo onore

S

anta Rosalia Sinibaldi nacque a Palermo intorno al 1128, da una nobile famiglia e, da giovane, visse in ricchezza alla corte di re Ruggero. Era stata destinata in moglie al conte Baldovino, ma declinò l’offerta per abbracciare la fede cristiana. Inizialmente, si rifugiò nel monastero delle Basiliane a Palermo, ma presto dovette abbandonarlo, a causa delle continue visite dei genitori e del promesso sposo che cercavano di dissuaderla. La ragazza si rifugiò dapprima in una spelonca presso Bivona, poi tornò a Palermo in una grotta sul Monte Pellegrino, dove, il 4 settembre 1165, fu trovata morta dai pellegrini che sempre piú numerosi le facevano visita.

Palermo. Il carro a forma di nave che viene trasportato per le vie della città in occasione della festa di santa Rosalia.

Il saponaro disperato Quasi cinque secoli piú tardi, nel 1624, Rosalia, secondo la tradizione cattolica, salvò Palermo dalla peste, diventandone la patrona. Mentre infuriava un’epidemia, la santa apparve a un povero «saponaro», Vincenzo Bonelli, abitante dell’antico quartiere della Panneria, che, avendo perso la giovane consorte a causa della malattia, era salito sul Monte Pellegrino, deciso a gettarsi giú dal precipizio sul mare per farla finita. Ma, al momento di dare atto al suicidio,

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gli apparve una splendida giovane, Rosalia appunto, che lo dissuase e gli indicò l’ubicazione delle proprie spoglie, ingiungendo che soltanto se i propri resti fossero stati portati in processione la peste sarebbe terminata. La riscoperta del corpo della donna sul Monte Pellegrino, incastonato in un involucro di

roccia cristallina, e la conseguente liberazione della città dall’epidemia, portarono i Palermitani a sceglierla come patrona. Nel 1625 le reliquie vennero poste in uno scrigno in argento e vetro, custodito nel Palazzo Arcivescovile, e da allora furono portate in processione per ricordare il miracolo compiuto, una tradizione che ancora oggi si perpetua ogni anno dall’11 al 15 luglio.

Le reliquie nella nave Il tradizionale Festino di Santa Rosalia, «u fistinu», giunge all’apice nella notte del 14 luglio, con una processione solenne, che parte dal Palazzo dei Normanni e si sviluppa lungo l’antico asse viario del Cassaro fino al mare. Accompagnato da canti devozionali, il corteo religioso con le spoglie della santa si ferma davanti alla cattedrale prima di arrivare alla Marina, dove si svolge un grande spettacolo pirotecnico sottolineato da brani di musica sinfonica eseguiti dal vivo. Elemento caratterizzante della processione è un fastoso carro trionfale a forma di nave, alto 12 m, contenente il simulacro della santa ricoperto di rose, che sfila trainato da dodici buoi e scortato da un gruppo di alfieri a piedi e a cavallo. Al suo interno prende posto la banda musicale, che suona durante il tragitto. Segue un corteo di figuranti in costumi settecenteschi. I festeggiamenti in onore di santa Rosalia hanno anche un’appendice il 4 settembre con la tradizionale «salita» al Monte Pellegrino, acchianata in dialetto locale, che conduce i devoti al santuario in circa un’ora di scalata a piedi. Tiziano Zaccaria luglio

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ANTE PRIMA

L’assedio sventato dalle campane

APPUNTAMENTI • Tollo si appresta a rievocare la

fuga, provvidenziale quanto insperata, dei temibili soldati turchi capitanati da Pialí Pascià

N

ella cittadina abruzzese di Tollo, ogni prima domenica di agosto (quest’anno il 2) si celebra la festa della Madonna del SS. Rosario. Nell’occasione, piazza Umberto I ospita la Battaglia tra Turchi e Cristiani, una rievocazione che si riallaccia a eventi storici risalenti al XVI secolo, quando Tollo era un feudo dei baroni Romigniani di Chieti e apparteneva al Regno di Napoli. La cittadina era munita di mura e tre torri, una delle quali situata nel punto in cui oggi viene allestita la torre in legno

utilizzata per la rievocazione. Nel 1566 i Turchi imperversarono lungo le coste abruzzesi, tentando di espugnare la fortezza di Pescara, ma furono respinti da una consistente guarnigione spagnola.

Devastazione e saccheggi Il capo della flotta ottomana, il generale Pialí Pascià, ordinò allora di invadere il litorale a sud di Pescara, scarsamente difeso. I Saraceni devastarono Francavilla al Mare, Ortona, Ripa Teatina Tollo. La torre che viene costruita ogni anno per fare da sfondo alla rievocazione della Battaglia tra Turchi e Cristiani.

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e Villamagna, saccheggiando e lasciando morti ovunque. E quando individuarono dalla valle del fiume Foro il castello di Tollo, si spinsero sotto le sue mura, ma non riuscirono a espugnarlo. A questo punto la realtà storica si intreccia con la leggenda popolare, secondo la quale, nel momento in cui i Turchi stavano per soverchiare i Tollesi, le campane del paese iniziarono miracolosamente a suonare, mentre sopra la torre apparve un angelo con una spada in mano, che indicava il luogo ove si intravedeva la figura della Madonna del SS. Rosario. A quel punto gli assalitori fuggirono, nonostante l’ordine di continuare a combattere impartito da Pialí Pascià. Oggi la processione mariana e le altre celebrazioni religiose sono arricchite da un corteo storico con figuranti in costumi medievali, e dalla rievocazione della battaglia, che si svolge nella giornata di domenica. In questa occasione il paese viene addobbato a festa. Molte case espongono nei propri balconi drappi rossi con la mezzaluna simbolo dei Turchi e drappi bianchi con la croce rossa simbolo dei cristiani. Nella mattinata di domenica, il centro è un viavai di nobili, dame, cavalieri, tamburini, musici e militi dell’una e dell’altra fazione. Alle 11,00, tutti i figuranti si ritrovano nella chiesa di Maria SS. Assunta per assistere alla messa, poi, a mezzogiorno, inizia la processione con la statua della Madonna fino in Piazza Umberto I, dove viene rievocata la battaglia. T. Z. luglio

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ANTE PRIMA

LUOGHI DEL MISTERO Viaggio negli enigmi e nelle leggende dell’Italia medievale


IL NUOVO DOSSIER DI MEDIOEVO

Un itinerario attraverso l’intero territorio nazionale, alla scoperta di un Medioevo arcano, che spazia dal misticismo alle tradizioni esoteriche, dalla mitologia alle suggestioni letterarie: laghi, chiese, boschi, castelli, ponti, grotte, tombe, montagne, ogni angolo d’Italia nasconde un segreto...

È

davvero esistita l’opulenta città di Felik sul Monte Rosa? Quali verità hanno appurato storici e scienziati sulla Sindone di Torino e sul Sacro Catino di Genova? Cosa nasconde la grotta di San Giovanni d’Antro in Friuli? Come nacque la tradizione oracolare della Bocca della Verità? Si trovano sul fiume Busento le spoglie e il tesoro del re visigoto Alarico? Quali erano i nascondigli della terribile «Mosca Macellaia» in Sardegna? Sono solo alcuni dei temi sui quali «Medioevo» ha svolto un’indagine nel suo nuovo Dossier dedicato ai grandi misteri dell’età di Mezzo, un viaggio suggestivo e a tratti inquietante che abbraccia l’intero territorio nazionale: dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, ogni regione cela all’interno dei propri confini luoghi enigmatici e leggende che spesso si intrecciano in modo inestricabile con le vicende storiche locali. Ne scaturisce un racconto arcano, in costante

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equilibrio tra fantasia popolare e realtà, che trae ispirazione da una sorprendente multidisciplinarietà di fonti: dall’archeologia all’anatomia patologica, dalla cronaca medievale alla letteratura, dall’esoterismo alla teologia, dall’architettura all’arte, dalla chimica all’antropologia culturale, dalla semplice superstizione alle prove concrete fornite dalla tecnologia. L’Italia è una terra di misteri che la storia e la scienza non dissolvono, ma contribuiscono ad alimentare… In alto la Bocca della Verità che, dal 1632, è murata nel portico della chiesa romana di S. Maria in Cosmedin. La celebre tradizione oracolare della curiosa scultura, che, in realtà, è un chiusino di epoca classica scolpito in forma di mascherone, risale al Medioevo. Nella pagina accanto le scale interne della Torre degli Asinelli di Bologna (XII sec.), uno dei simboli della città. Alla sua costruzione sono legati enigmi architettonici e leggende.

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AGENDA DEL MESE

Mostre MILANO RACCONTI TESSUTI. ARAZZI E RICAMI DAL GOTICO AL RINASCIMENTO U Galleria Moshe Tabibnia fino all’11 luglio

L’esposizione offre l’opportunità di ammirare per la prima volta la collezione di manufatti tessili dell’imprenditore e finanziere Romain Zaleski. Una raccolta che si segnala sia per l’importanza dei pezzi

a cura di Stefano Mammini

come nel caso delle immagini dell’uomo e della donna selvaggi, un motivo legato a una leggenda sull’esistenza di creature dei boschi, in voga nei Paesi dell’arco alpino sul finire del Medioevo. info www.moshetabibnia.com

ZURIGO 1515 MARIGNANO U Museo Nazionale Svizzero fino al 15 luglio (prorogata)

A 500 anni dalla fine delle «guerre d’Italia», il Museo Nazionale Zurigo

12 000 vittime. Che cosa cercavano gli Svizzeri in Lombardia? Come mai si trovarono a battersi ad armi pari per il controllo del ducato di Milano, in piena espansione economica? La mostra cerca anche di illustrare come la Svizzera accusò la sconfitta, spiega il vantaggioso trattato di pace con la Francia e sottolinea il ruolo di Marignano nella storia della Confederazione. info www.nationalmuseum.ch

MILANO LEONARDO DA VINCI, 1452-1519 U Palazzo Reale fino al 19 luglio 2015

che la compongono (risalenti ai secoli XV-XVII), sia per la loro peculiarità. Si tratta, infatti, di arazzi di piccole dimensioni, assai rari nel loro genere, spesso provenienti da aree geografiche «anomale» per simili prodotti (come la Svizzera e la Norvegia), e con soggetti particolari:

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rievoca un periodo straordinario della storia elvetica, quando in Europa la Confederazione era una potenza militare. «1515 Marignano» spiega le cause e le conseguenze della «battaglia dei giganti», che vide schierati 30 000 uomini in entrambi gli eserciti e fece dalle 10 000 alle

L’esposizione presenta una visione di Leonardo non mitografica, né retorica, né celebrativa, ma trasversale su tutta l’opera del poliedrico personaggio, considerato come artista e scienziato attraverso alcuni temi centrali individuati dai curatori: il disegno, fondamentale nell’opera del genio vinciano; il continuo paragone tra le arti (disegno, pittura, scultura); il confronto con l’antico; la novità assoluta dei moti dell’animo; il suo tendere verso progetti utopistici, veri e propri sogni, come poter volare o camminare sull’acqua (per cui è allestita un’apposita sezione); l’automazione meccanica e cosí via, temi che lo hanno reso un alfiere dell’unità del sapere, con l’intrecciarsi continuo nella sua opera di scienze e arti. info tel. 02 92800375; www.skiragrandimostre.it/ leonardo/

PARIGI I TUDOR U Musée du Luxembourg fino al 19 luglio

Fra le dinastie succedutesi sul trono inglese, quella dei Tudor, al potere tra il 1485 e il 1603, è una delle piú note. Ne fecero parte personaggi che hanno vissuto vicende quasi leggendarie – basti pensare a Enrico VIII –, ma che non devono però oscurare i molti meriti acquisiti nell’attività politica e culturale. È questo il filo conduttore della mostra al Musée du Luxembourg, che vuole dunque presentare il vero volto dei Tudor, ai quali si devono, per esempio, importanti commissioni in campo artistico – molte delle quali affidate a maestri chiamati dall’Italia – o significative scelte di campo in materia religiosa, prima fra tutte la decisione di rompere con la Chiesa cattolica romana, determinando il cosiddetto «scisma anglicano». info www. museeduluxembourg.fr PADOVA DONATELLO E LA SUA LEZIONE. SCULTURE E OREFICERIE A PADOVA TRA QUATTRO E CINQUECENTO U Musei Civici agli Eremitani e Palazzo Zuckermann fino al 26 luglio

La presenza di Donatello a Padova innova profondamente il linguaggio della scultura in Italia e fa della città luglio

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uno dei centri d’irradiazione del Rinascimento. La lezione del Maestro rivive ora in uno straordinario percorso, che dai capolavori di Donatello - uno dei rilievi della base del monumento al Gattamelata, una inedita crocifissione bronzea e i fondamentali calchi ottocenteschi con i rilievi dell’altare del Santo – conduce alla scoperta di preziose sculture in bronzo e terracotta degli artisti che continuarono e svilupparono la sua rivoluzione nell’ambito della Serenissima. Testimonianze dell’altissima qualità raggiunta da Bartolomeo Bellano, Andrea Briosco detto il Riccio e Severo da Ravenna sono riunite per la prima volta agli Eremitani, mentre l’influenza del nuovo linguaggio rinascimentale nelle oreficerie sacre

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risplende nel vicino Palazzo Zuckermann, dove prosegue la mostra, con i preziosi manufatti del Tesoro del Santo. info Musei Civici agli Eremitani, tel. 049 8204551; Palazzo Zuckermann, tel. 049 8205664; http://padovacultura. padovanet.it/it/musei/ PADOVA DONATELLO SVELATO. CAPOLAVORI A CONFRONTO U Museo Diocesano fino al 26 luglio

La scelta del termine «svelato» utilizzato nel titolo non è casuale: protagonista dell’esposizione, infatti, è un Donatello che va ad aggiungersi al catalogo delle opere certe del maestro fiorentino, il Crocifisso dell’antica chiesa padovana di S. Maria dei Servi. Ad affiancarlo, nel Salone dei Vescovi, sono quello realizzato per la chiesa di S. Croce in Firenze

(1406-08) e quello bronzeo della basilica padovana di S. Antonio (1443-1449). L’opera, oltre che nell’attribuzione, è stata svelata anche nella sostanza, perché, sino al restauro appena ultimato, la scultura lignea si presentava con le parvenze di un bronzo, per effetto di uno spesso strato di ridipinture. Ora, invece, ne sono state recuperate la straordinaria finezza dell’intaglio e la cromia originale. info tel. 049 8761924 o 049 652855; www. museodiocesanopadova.it; https://www.facebook. com/donatellosvelato PARIGI SCULTURE SVEVE DELLA FINE DEL MEDIOEVO U Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 27 luglio

Tra il XV e il XVI secolo, la Svevia, regione storica che si

estende nella Germania sud-occidentale, fra la Foresta Nera e la Baviera, fu la fucina di una produzione scultorea copiosa e raffinata, le cui opere si diffusero ben oltre i confini della loro regione d’origine. La rassegna parigina ne riunisce una trentina e pone sotto i riflettori le creazioni di maestri come Niklaus Weckmann, Daniel Mauch, Ivo Strigel, Lux Maurus o Jörg Lederer. Distribuite in un percorso cronologico e geografico, si tratta di sculture perlopiú a soggetto religioso, destinate all’arredo delle chiese, che si distinguono per la grazia dei tipi femminili e la sapiente resa dei

drappeggi. Merita inoltre d’essere segnalato il fatto che la mostra riunisce alcuni gruppi da tempo smembrati e dispersi in varie collezioni museali: è il caso del Cristo in preghiera del Louvre, che «ritrova» due dei tre Apostoli dormienti (oggi al Maximilianmuseum di Augsburg), insieme ai quali animava una monumentale composizione del Monte degli Ulivi, probabilmente realizzata per l’abbazia di Wettenhausen di Kammeltal. info www.musee-moyenage.fr

LONDRA MAGNA CHARTA: LEGGE, LIBERTÀ, LASCITO U British Library fino al 1° settembre

Nel Regno Unito, l’ottavo centenario della firma della Magna Charta Libertatum ha dato il via a numerose

celebrazioni, fra le quali spicca la rassegna in corso presso la British Library di Londra. Come ha sottolineato Claire Breay, tra i curatori del progetto espositivo, «Magna Charta: Legge, Libertà, Lascito riunisce

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AGENDA DEL MESE

manoscritti e oggetti che abbracciano mille anni di storia e rievocano il contesto in cui l’atto venne promulgato, le sue innumerevoli emulazioni – susseguitesi in tutto il mondo per secoli –, il processo che ne ha fatto un simbolo universale di libertà e giustizia». Tra gli oltre 200 oggetti presentati, fanno bella mostra di sé due delle quattro copie della stesura originale del documento, risalenti al fatidico 1215, ma anche reperti di natura decisamente diversa, come, per esempio, due denti e l’osso di uno dei pollici di re Giovanni Senzaterra, recuperati in occasione della ricognizione della sua tomba, effettuata nel 1797. Né mancano le nuove acquisizioni, tra le quali spicca il piú antico resoconto di quel che accadde a Runnymede (quando Giovanni si incontrò con

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i baroni), del quale è stata ritrovata una stesura manoscritta, attribuibile ai monaci dell’abbazia scozzese di Melrose. info www.bl.uk MILANO SOTTO IL SEGNO DI LEONARDO. LA MAGNIFICENZA DELLA CORTE SFORZESCA NELLE COLLEZIONI DEL MUSEO POLDI PEZZOLI U Museo Poldi Pezzoli fino al 28 settembre

Negli ultimi decenni del Quattrocento, sotto il ducato di Ludovico il Moro, Milano diventò la capitale europea piú importante nella produzione e nell’innovazione delle arti del lusso oltre che della pittura, anche grazie alla presenza di Leonardo da Vinci. Tra gli altri, la mostra testimonia l’influenza del maestro sull’arte milanese di quel periodo attraverso un piccolo bronzo,

recentemente indagato dagli studiosi: si tratta di un guerriero con scudo che riprende una piccola figura accovacciata sotto gli zoccoli di un cavallo, delineata in un’incisione che riproduce i disegni di

Leonardo preparatori per il monumento equestre di Francesco Sforza, padre di Ludovico il Moro. info tel. 02 794889; www.museopoldipezzoli.it FIRENZE L’ARTE DI FRANCESCO.

CAPOLAVORI D’ARTE E TERRE D’ASIA DAL XIII AL XV SECOLO U Galleria dell’Accademia fino all’11 ottobre

Quale idea del mondo aveva san Francesco? A quali spazi guardavano i suoi primi seguaci? In quali direzioni si sono

MOSTRE • Time Table. A tavola nei secoli U Torino – Palazzo Madama

fino al 18 ottobre info tel. 011 4433501; www.palazzomadamatorino.it

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l tema dell’EXPO 2015, «Nutrire il pianeta», offre lo spunto per una mostra che parte dal tema della tavola imbandita per evocare spaccati di vita quotidiana nel corso dei secoli. Dal punto di vista antropologico, il rito della tavola ha un valore fortemente simbolico – evidente nella stessa etimologia della parola convivio, dal latino cum vivere, ossia vivere insieme – e suggerisce in immediato l’identità tra l’atto del mangiare e la vita stessa. L’esposizione allestita nella Sala del Senato di Palazzo Madama punta su un allestimento spettacolare, articolato in nove tavoli disposti radialmente attorno a un fulcro centrale. Tappe principali di questo «orologio» ideale, che riprende il gioco di parole del titolo, sono sei grandi tavole allestite con suppellettili in ceramica, vetro e metallo delle varie epoche (Basso Medioevo, Rinascimento, Seicento, Settecento, Ottocento e Novecento). In particolare, sulla tavola signorile del tardo Medioevo si mescolano manufatti di varia provenienza che testimoniano un’ampia circolazione di oggetti e tendenze di gusto: dalle dinanderies di area germanica (stoviglie realizzate in rame od ottone), agli scintillanti lustri tipici della tradizione ispano-araba, ai raffinati vetri usciti dalle botteghe di Murano. Il vasellame in ceramica invetriata, decorata con semplici motivi graffiti e dipinti di verde e giallo, accomuna senza distinzione geografica la mensa luglio

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sviluppate le loro azioni di evangelizzazione? Da questi interrogativi nasce la mostra allestita alla Galleria dell’Accademia. Il percorso espositivo presenta non solo i viaggi missionari, ma la stessa idea dell’Oriente sviluppata da Francesco e dai suoi, in una sorta di ridefinizione culturale e topografica dell’ecumene. Da una parte, si susseguono mappe, codici che riportano relazioni di viaggio, attestazioni dei contatti dei latini con i Mongoli mantenuti in chiave antislamica (nel 1246 Khan Güyük

scrisse a papa Innocenzo IV una lettera conservata nell’Archivio Segreto Vaticano). Dall’altra, un gruppo straordinario di reperti fa intuire la rete delle presenze cristiane che i Francescani incontrarono al loro arrivo all’interno del continente. info tel. 055 294883; e-mail: firenzemusei@ operalaboratori.com; www.unannoadarte.it MEISSEN PROST! 1000 ANNI DI BIRRA IN SASSONIA U Albrechtsburg fino al 1° novembre

Nel 1015, Meissen, assediata dalle truppe

ordinaria di tutti i Paesi. Sul tavolino di servizio sono invece esposti oggetti che evocano la quotidianità della vita cortese internazionale – pettini di avorio per la toeletta, cofanetti eburnei e di cuoio – scandita nello scorrere dei giorni dal raro calendario perpetuo miniato su pergamena e custodito in un apposito astuccio di cuoio. La seconda sezione propone invece una tavola del Cinquecento. La maiolica prodotta nelle manifatture dell’Italia centrale del Cinquecento per una committenza anche internazionale traspone sulle stoviglie la raffinata cultura pittorica del Rinascimento italiano: trionfano sulla tavola le variopinte scene dell’istoriata, le esili grottesche «a raffaellesca», gli enigmatici profili femminili delle «belle» umbre e le sobrie eleganze dei «bianchi» di Faenza. Le botteghe veneziane, all’avanguardia nelle tecniche di lavorazione e senza rivali nella fantasia e nel virtuosismo della decorazione, monopolizzano la produzione dei vetri, non per niente imitati nel resto d’Europa à la façon de Venise. Emblematica della cultura del Rinascimento è la figura piena di grazia di Carubina di Mence, esposta in appendice alla tavola. Elegantissima con le sue calze rosse e le pantofole di cuoio dorato, Carubina è forse un raro esempio di Madonna da vestire scolpita nel legno a metà Cinquecento da Nero Alberto da Borgo Sansepolcro e donata negli anni Cinquanta al Museo da Giovanni Agnelli.

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AGENDA DEL MESE ultimi decenni del Duecento. info www.albrechtsburgmeissen.de SAN GIMIGNANO FILIPPINO LIPPI L’ANNUNCIAZIONE DI SAN GIMIGNANO U Pinacoteca fino al 2 novembre

polacche, sfuggí alla devastazione perché le donne, in mancanza di acqua, soffocarono le fiamme con la birra. L’episodio è considerato il riferimento cronologico al quale far risalire una tradizione particolarmente radicata in Sassonia, alla quale si è voluto rendere omaggio con la mostra allestita nelle sale dell’Albrechtsburg, il piú antico castello tedesco. L’esposizione affianca esperienze sensoriali, apparati multimediali, degustazioni e assaggi a una ricca selezione di materiali e documenti. Né mancano gli approfondimenti sulla produzione, sui segreti legati alle varianti della ricetta originale, sugli strumenti impiegati e ai prodotti usati, come l’orzo e il luppolo, introdotto proprio nel Medioevo, forse negli

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La Pinacoteca di San Gimignano rende omaggio al pittore fiorentino Filippino Lippi (1457circa-1504) con una mostra ispirata dall’Annunciazione, opera realizzata dall’artista in due tondi distinti, raffiguranti l’Angelo Annunziante e l’Annunziata, cosí come gli era stato richiesto dai Priori e Capitani di Parte Guelfa, che gliela commissionarono nel 1482 per il Palazzo Comunale della città «delle torri». Assieme ai due tondi di Filippino, ripresentati vicini come dovevano essere originariamente al loro ingresso nella collezione della Pinacoteca, sono esposti anche disegni di mano del pittore, nonché i documenti relativi alla commissione dell’Annunciazione, un materiale storico custodito da oltre

cinque secoli nell’archivio Storico Comunale di San Gimignano che ci fa capire lo spirito civico e la volontà che animava i Priori e i Capitani di Parte Guelfa – appartenenti a importanti famiglie di sangimignanesi – di abbellire la sede del governo cittadino, in modo analogo a quanto le medesime istituzioni fiorentine stavano facendo per Palazzo Vecchio. info e prenotazioni tel. 0577 286300; www.sangimignanomusei.it; e-mail: prenotazioni@ sangimignanomusei.it

FIRENZE UN PALAZZO E LA CITTÀ U Museo Salvatore Ferragamo fino al 3 aprile 2016

Forte di opere d’arte e documenti provenienti da musei e collezioni private, la mostra racconta le complesse vicende storiche di Palazzo Spini Feroni e dei suoi abitanti. Le origini dell’edificio risalgono al 1289, dopo che un’alluvione aveva distrutto le case degli Spini, ricca e potente famiglia proprietaria di una delle prime società bancarie d’Europa. Committente

dell’edificio fu Ruggeri, detto Geri, la persona piú illustre del casato, banchiere di papa Bonifacio VIII. L’allestimento è dominato da due grandi forzieri che contengono le opere d’arte e i documenti: spiccano, tra gli altri, un dipinto seicentesco che raffigura l’albero genealogico degli Spini; una pergamena del 1277 che dimostra l’acquisto degli Spini di un terreno e di una casa nei pressi del ponte Santa Trinita; la storia della famiglia nel Quattrocento scritta da un discendente di Geri, Doffo. Due modelli in scala, realizzati per l’occasione dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, riproducono l’area cittadina in cui fu costruito il palazzo, e la sua architettura, come appare nella veduta quattrocentesca. info tel. 055 3562846; e-mail: museoferragamo@ ferragamo.com; www. ferragamo.com

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Appuntamenti

APPUNTAMENTI • La Festa dell’Innamorata U Capoliveri (Isola d’Elba)

14 luglio info Associazione Granducato Innamorata, tel, 0565 939104; www.laleggendadellinnamorata.com

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SALICE TERME (PAVIA) SALICE TERME ALLA CORTE DEI MALASPINA FESTA MEDIEVALE U Parco di Salice Terme 11 e 12 luglio

Il 29 settembre 1164 Federico Barbarossa ricompensò la fedeltà e il servizio militare di Obizzo Malaspina con un diploma nel quale venivano elencati corti e castelli a lui soggetti e gli si rinnovava formalmente l’investitura feudale dei diritti pubblici su tali territori. Figlio del marchese Alberto, che fu il primo a chiamarsi Malaspina, Obizzo si distinse nel XII secolo per la partecipazione a numerose battaglie in Italia e per le sue relazioni col Barbarossa. In un primo

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tempo rivale dell’imperatore, Obizzo si era legato ai Comuni lombardi nella loro lotta d’indipendenza in cambio di uno sbocco sul mare. Nel 1164, però, cambiò campo e si avvicinò a Federico. Qualche anno piú tardi, Obizzo si congiunse di nuovo ai Comuni lombardi e partecipò alla vittoria di Legnano contro l’imperatore nel 1176 e alla Pace di Costanza nel 1183. Obizzo morí nel 1185, lasciando tre figli: Obizzo e Moroello, i cui discendenti si divisero il vasto feudo qualche decennio piú tardi, e Alberto che si distinse nell’arte della poesia. Per rievocare questo evento, il primo nel quale compaia anche il territorio di Salice

el 1534, sull’Isola d’Elba due giovani innamorati, Lorenzo e Maria, si incontravano segretamente sulla spiaggia di Capoliveri. Nel pomeriggio del 14 luglio Lorenzo giunse in anticipo, e, dall’alto del sentiero, Maria vide una ciurmaglia di pirati sbarcati da una scialuppa catturare il suo amato. Quando scese in spiaggia, la ragazza avvistò il corpo agonizzante di Lorenzo gettato in acqua dagli uomini che si trovavano a bordo della nave corsara, e, disperata, si lasciò cadere in mare, annegando. Fu ritrovato soltanto il suo scialle impigliato su uno scoglio, da allora chiamato «Ciarpa». Domingo Cardenas, il nobile spagnolo che governava l’isola, promise che in onore dei due amanti ogni anno avrebbe illuminato a giorno quel luogo, ribattezzandolo «Spiaggia dell’Innamorata». Oggi, nella serata del 14 luglio, quella promessa viene puntualmente rinnovata. La spiaggia risplende di mille torce, accogliendo un corteo in costumi d’epoca con i personaggi che furono protagonisti della leggendaria vicenda e gli equipaggi delle barche dei quattro rioni dell’antico castello: La Fortezza, Il Baluardo, Il Fosso e La Torre. Dalla spiaggia di Morcone parte la disfida fra le quattro imbarcazioni, che attraversano i golfi di Morcone e Pareti per giungere all’Innamorata, davanti allo scoglio della Ciarpa, dove i timonieri si gettano in acqua per prendere lo scialle di Maria. Il vincitore percorre poi a nuoto il tratto di mare che lo separa dalla spiaggia, dove lo attende un figurante che indossa i panni don Domingo Cardenas, il quale cinge con lo scialle le spalle della ragazza scelta dai vincitori, proclamando colei che vestirà i panni di Maria l’anno seguente. Tiziano Zaccaria Terme, è stata dunque organizzata una grande Festa Medievale che avrà tra i suoi momenti clou la grande battaglia di Salice Terme nella quale arcieri, balestrieri, fanti, con l’ausilio di macchine da assedio si scontreranno per contendersi il castello! info Associazione Culturale Italia Medievale, tel. 333 5818048; www. italiamedievale.org; e-mail: info@italiamedievale.org

SIENA LA PORTA DEL CIELO U Duomo fino al 31 ottobre

L’Opera della Metropolitana torna a promuovere l’apertura straordinaria della «Porta del Cielo», arricchita da nuove modalità di accesso. La visita ai Sottotetti del Duomo, della durata di 30 minuti, e alla Cattedrale con la Libreria Piccolomini

può essere effettuata ogni mezz’ora in base agli orari di apertura della Cattedrale. Ogni visitatore riceverà in omaggio la Roof Map, uno strumento utile per l’effettuazione della visita, che si trasforma poi in un gadget da conservare come ricordo, disponibile in piú lingue. info call center

0577 286300 (lu-ve, 9,00-17,00)

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23-27 luglio 1439

L’imperatore ha dormito qui Marco Di Branco

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La grandiosa rappresentazione del viaggio dei Magi affrescata da Benozzo Gozzoli in Palazzo Medici è una sorta di reportage del viaggio compiuto in Toscana da Giovanni VIII Paleologo. Correva l’anno 1439 e il sovrano bizantino era giunto in Italia nel tentativo, disperato, di salvare l’impero romano d’Oriente. Ma esiste anche un’altra vivida testimonianza di quegli eventi, legata alla sosta che l’illustre forestiero fece nel borgo di Peretola, nel caldo soffocante di quell’estate...

Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, Cappella Medicea. Il particolare della Cavalcata dei Magi affrescata da Benozzo Gozzoli in cui compare Baldassarre, tradizionalmente identificato con l’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo. L’opera fu realizzata probabilmente tra il 1459 e il 1460.

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a Cavalcata dei Magi dipinta da Benozzo Gozzoli nella cappella di famiglia di Palazzo Medici a Firenze, con il suo carattere orientale esplicitamente dichiarato nel tema, nella foggia delle vesti e nei personaggi ai quali alludono i Magi piú anziani (il patriarca di Costantinopoli e l’imperatore bizantino) costituisce – al di là dei sia pur legittimi dibattiti filologici – l’icona perfetta dell’incontro fra due mondi: quello dell’antico e glorioso impero romano d’Oriente, fucina di miti e di esotismi, e quello della Firenze quattrocentesca, dove una casata di mercanti accarezza il suo sogno regale, richiamandosi anche al «serbatoio di simboli» costituito dall’eredità bizantina. In effetti, il concilio del 1438-1439 (vedi box alla pagina accanto) rappresentò uno snodo fondamentale nei rapporti tra Firenze e Costantinopoli, e la presenza di Giovanni VIII Paleologo e della sua corte, oltre a comportare un notevole afflusso di opere d’arte bizantine nella regione (soprattutto oggetti mobili, quali reliquiari, icone portatili, gemme, cammei, avori, ecc.), stimolò nel ceto dirigente fiorentino una profonda riflessione sugli aspetti legati alla celebrazione del potere imperiale e al relativo cerimoniale di corte (come mostra, per esempio, la rota di porfido inserita nel pavimento della medesima cappella, a imitazione di quella della sala delle udienze del palazzo imperiale bizantino). Se il popolo e i maggiorenti delle città toscane non dovevano essere certo immuni al fascino del sovrano dell’impero romano d’Oriente, quest’ultimo – dal canto suo – mostrò qualche interesse per i centri urbani della regione, e volle visitarne alcuni (compatibilmente con le sue precarie condizioni di salute, che gli impedivano di allontanarsi troppo da Firenze). Fu certo in occasione di tali visite che dovette imprimersi negli occhi e nella mente di tutti i contemporanei quell’immagine del corteo imperiale al galoppo per le strade della campagna toscana, che Benozzo Gozzoli riprodusse mirabilmente appunto nella Cappella dei Magi.

Un testimone di prima mano

Un testo-chiave per la storia delle visite imperiali in Toscana è la «relazione» di Giovanni de’ Pigli, contenuta in un manoscritto miscellaneo proveniente dalla vecchia Biblioteca Magliabechiana di Firenze e ora alla Biblioteca Nazionale Centrale, che raccoglie documenti (lettere, note, orazioni e ricevute di pagamento) scritti di suo pugno dal fiorentino Giovanni di Jacopo di Latino, della nobile famiglia dei Pigli. In questa breve ma notevolissima «memoria», l’autore descrive l’incontro con l’imperatore, che egli ebbe la ventura di ospitare nel suo palazzo di Peretola, nei pressi di Firenze, il 27 luglio 1439, e, soprattutto, fornisce alcune interessanti informazioni su un breve viaggio in Toscana che Giovanni VIII compí in quei giorni a Prato,

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Pistoia e Peretola (ma quest’ultima fu, per cosí dire, una semplice sosta «tecnica»). Giovanni de’ Pigli fornisce un ragguaglio importante sullo scopo della visita del sovrano a Prato, affermando che vi si sarebbe recato per vedere la «Sacra Cintola» della Madonna, custodita nel Duomo della città. La preziosa reliquia della cintura della Vergine era molto venerata a Costantinopoli: dal VI al XIII secolo una «cintola mariana» (forse proveniente da Gerusalemme) venne conservata in una cassetta reliquiario della basilica della Chalkoprateia, dove – essendo ritenuta particolarmente efficace contro la possessione diabolica – fu a lungo oggetto di una straordinaria devozione popolare. Se già prima del 1204 un frammento della cintura lasciò Costantinopoli per raggiungere le corti del re Asen I di Bulgaria e successivamente del principe Lazzaro di Serbia (che poi lo donò al monastero di Vatopedi sul Monte Athos), con la quarta crociata (1202-1204) – caratterizzata da quella che è stata poi definita «la fiera delle reliquie» – la cintola costantinopolitana sembra scomparire nel nulla, e, dopo la riconquista bizantina della città, essa non viene piú menzionata nei resoconti di viaggio dei pellegrini. La devozione pratese per la Sacra Cintola è certo intimamente collegata alla tradizione orientale, e non si può escludere che la cintura di Prato sia una reliquia derivata da quella costantinopolitana per contatto o per immistione (mescolamento). Tutto ciò non poteva che suscitare l’interesse di Giovanni VIII, senza dubbio incuriosito dalla cintola e dalle storie a essa connesse in terra di Toscana.

«A 1/2 hora di notte»

Purtroppo il soggiorno dell’imperatore a Prato non è adeguatamente documentato, giacché mancano i registri comunali dell’anno 1439; tuttavia, si è conservato un «ricordo» di Francesco di Andrea Guidi dello Stucco, nel quale si afferma che Giovanni VIII venne a Prato il 23 luglio «a vedere la Cintola di Nostra Donna»; egli vi giunse «a 1/2 hora di notte», accompagnato da un corteo di sessanta cavalieri, fu accolto alla luce delle fiaccole dai magistrati del Comune e albergò per due notti nel palazzo del Proposto (il palazzo vescovile unito alla Pieve, ora Cattedrale), che in quell’epoca era Niccolò dei Milanesi, appartenente a una delle piú antiche famiglie pratesi. Oltre a offrire un quadro suggestivo dell’entrata notturna del corteo imperiale in Prato e a confermare quanto sostenuto da Giovanni de’ Pigli nella sua memoria (con una minima differenza riguardante la valutazione del numero dei cavalli del corteo: tra luglio

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Il concilio di Firenze

Quando l’unione non fa la forza A Giovanni VIII Paleologo (1425-1448) si deve l’ultimo, disperato tentativo di salvare Bisanzio. Sotto la pressante minaccia turca, l’imperatore cercò nuovamente la via della trattativa con Roma, per procurarsi l’appoggio dell’Occidente al prezzo della sottomissione religiosa. Il 24 novembre 1437, Giovanni VIII lasciò Costantinopoli alla volta dell’Italia. Nella primavera del 1438, giunse a Ferrara, dove il 9 aprile venne aperto un concilio, che presto si trasferí a Firenze: lo scopo era quello di trattare la resa della

Moneta raffigurante Giovanni VIII Paleologo, opera di Pisanello. XV sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Al recto (in alto) l’imperatore a cavallo; al verso, il busto del sovrano.

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Chiesa bizantina. Il dibattito durò a lungo, ma alla fine, il 6 luglio del 1439, nella cattedrale di Firenze, il cardinale Giuliano Cesarini e l’arcivescovo di Nicea, Bessarione, proclamarono l’unione. Tuttavia, i Bizantini non ne ricavarono alcun vantaggio politico, e tantomeno militare: le divisioni interne alle potenze occidentali escludevano a priori un efficace sostegno all’impero d’Oriente. Di conseguenza, l’unione seminò odio e inimicizia tra la popolazione e privò l’impero dello scarso prestigio che gli restava. Peraltro, le decisioni del concilio non vennero mai realmente attuate, anche per la fortissima opposizione della Chiesa ortodossa.

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A sinistra Agnolo Gaddi, Michele Dragomari, in punto di morte, dona la reliquia del Sacro Cingolo al proposto Uberto, particolare dal ciclo Storie della Vergine e della Cintola. Affresco, 1392-1395. Prato, Duomo, Cappella del Sacro Cingolo. In basso capsella della Sacra Cintola, opera di Maso Di Bartolomeo. Rame dorato, osso e corno, 1446. Prato, Museo dell’Opera del Duomo.

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i quaranta e i cinquanta per Giovanni, sessanta per Francesco di Andrea Guidi dello Stucco), il documento fornisce elementi che precisano meglio la cronologia dell’escursione toscana del Paleologo: come attesta la «cronachetta», l’imperatore giunse a Prato nella notte del 23 luglio e vi si trattenne anche la notte successiva, lasciando dunque la città nella giornata del 24 luglio; poiché sappiamo che la mattina del 27 luglio («in su lora di terza, o pocho prima») era a Peretola – sulla via del ritorno a Firenze – venendo appunto «da Pistoia et da Prato», la visita imperiale a Pistoia si sarà dunque svolta necessariamente dal 24 al 26, con partenza all’alba del 27. Ma c’è di piú: questa cronologia, infatti, ci rivela il motivo del viaggio a Pistoia dell’imperatore, e cioè la partecipazione alla grande festa di san Jacopo Maggiore – patrono della città – che si celebrava appunto il 25 luglio.

Pistoia e la festa di san Jacopo

Le piú recenti e aggiornate sintesi sulla storia di Pistoia tra Medioevo e Rinascimento non accennano in alcun modo alla visita di Giovanni VIII. Analizzando, invece, le trattazioni piú antiche, ci si trova davanti a una situazione piuttosto bizzarra: da un lato una fonte contemporanea agli eventi, come la Historia Pistoriensis di Giannozzo Manetti, ignora la notizia della presenza a Pistoia dell’imperatore bizantino, dall’altro tre impor-

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In alto Pistoia, S. Zeno. Particolare dell’altare argenteo di san Jacopo. 1287-1456. Il Paleologo fece tappa nella città toscana in coincidenza con la festa del patrono, che si svolge ogni anno il 25 luglio.

A destra Roma, Villa Medici. Raffigurazione della città di Pistoia cosí come doveva presentarsi in età medicea, particolare del fregio affrescato da Jacopo Zucchi nella camera da letto. 1584-1587.

tanti opere sulla storia della città – le Historie delle cose piú notabili seguite in Toscana ed in altri luoghi ed in particolare in Pistoia di Pandolfo Arferuoli, il trattato Delle Historie di Pistoia e fazioni d’Italia di Michelangelo Salvi e le Memorie storiche della città di Pistoia di Jacopo Maria Fioravanti, composte rispettivamente intorno alla metà del XVII secolo (le prime due) e alla metà del secolo seguente (la terza) – contengono un resoconto fantasioso, che risulta palesemente inattendibile. In effetti, i tre storici pistoiesi citati affermano pressoché concordemente, con maggiori o minori particolari, che l’imperatore sarebbe giunto in città nel 1438 attraverso la strada della Montagna Pistoiese, venendo

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da Ferrara – nella quale i lavori conciliari erano stati interrotti da un’epidemia di peste – mentre era diretto a Firenze, dove il papa aveva appunto stabilito di far proseguire il concilio: accolto da «un concorso di un infinito popolo» e da tutti i Magistrati cittadini, il Paleologo avrebbe alloggiato nel palazzo episcopale di Pistoia per circa un mese, apprezzando alquanto il clima del luogo; infine si sarebbe trasferito a Firenze, «ove in quel gran Concilio ritornò la Chiesa Greca all’obbedienza della Latina». La ricostruzione risulta per molti versi immaginaria: peraltro, in essa si confonde Giovanni VIII con papa Eugenio IV, il quale, partito da Ferrara nel tardo pomeriggio del 15 gennaio 1439, passò effettivamente per Pistoluglio

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ia, giungendo alle porte di Firenze il 24 ed entrando in città il 27 dello stesso mese; l’imperatore e i vescovi greci, invece, partirono circa dieci giorni piú tardi, si trasferirono in barca a Conselice e di qui traversarono a cavallo – via Faenza – l’Appennino, per discendere infine in pianura verso Firenze, giungendovi solo il 14 febbraio.

La prova definitiva

Per quanto deformato, il racconto degli storici pistoiesi contiene tuttavia un nucleo di verità, e cioè proprio la notizia di una visita di Giovanni VIII a Pistoia: il suo reale svolgimento trova infatti conferma non solo nella memoria di Giovanni de’ Pigli e nei registri delle

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Uscite della signoria fiorentina, ma anche e soprattutto in alcuni documenti inediti contenuti nel registro delle Provvisioni e Riforme del Comune di Pistoia relative agli anni 1439-1441 (vedi box a p. 44). Si tratta di quattro deliberazioni di pagamento, datate rispettivamente 8, 12, 16 e 23 agosto 1439 e concernenti le spese effettuate «pro adventu Serenissimi Imperatoris Ghostantinopoli Grechorum»: tali documenti, che non a caso si datano piú o meno nello stesso periodo delle due note spese fiorentine (emesse il 31 luglio e il 30 settembre 1439), costituiscono la prova defintiva dell’adventus del Paleologo nel luglio del 1439. Questa visita, non certo lunga quanto preteso da Ar-

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A sinistra la facciata della cattedrale pistoiese di S. Zeno. 1220 circa. In alto particolare della lunetta sovrastante il portale d’ingresso della stessa cattedrale, raffigurante san Zeno attorniato da due angeli.

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feruoli, Salvi e Fioravanti, fu tuttavia piuttosto intensa: come si è visto, essa ebbe luogo proprio nei giorni piú importanti dell’anno pistoiese, quelli gravitanti sul 25 luglio, festa di san Jacopo Maggiore, patrono della città.

Il culto come volano dell’economia

Il culto dell’apostolo, impiantatosi a Pistoia negli anni Quaranta del XII secolo (quando, in seguito a una serie di contatti fra il presule Atto e l’arcivescovo di Compostela, una reliquia del celebre santo fu donata ai Pistoiesi) divenne subito un punto di riferimento ineludibile per la popolazione, configurandosi quale fulcro fondamentale di numerose attività economiche, sociali e religiose (soprattutto attraverso l’Opera di San Jacopo, fondata intorno al 1170) e proiettando la città – con tutte le positive conseguenze del caso – fra le tappe fondamentali del pellegrinaggio ad limina Sancti Jacobi. Alla grande festa di san Jacopo, preceduta e seguita da una celebre fiera, partecipavano le rappresentanze ufficiali di molti Comuni e Signorie, e tali delegazioni assunsero, soprattutto nel XV secolo, un’importanza straordinaria: sembra dunque probabile che Giovanni VIII fosse stato espressamente invitato a partecipare alla festa (è difficile credere che la visita pistoiese dell’im-

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peratore nel giorno dedicato al patrono cittadino sia il frutto di una mera coincidenza); in ogni caso, se il Paleologo era andato a Prato per «vedere la cintola», scopo del suo viaggio a Pistoia è quello di venerare la reliquia di di san Jacopo, esposta insieme al suo ricco tesoro nella cappella della Cattedrale dedicata al santo per tutta la durata della festa: d’altra parte, come la devozione per la cintola mariana, anche il culto dell’apostolo Giacomo Maggiore era ampiamente diffuso nel mondo bizantino. Il corteo imperiale lasciò Pistoia nelle prime ore del mattino del 27 luglio, perché «in su lora di terza, o pocho prima» – come scrive Giovanni de’ Pigli – era già a Peretola. Il caldo, in quell’estate del 1439, doveva essere davvero soffocante: ciò spiega l’ingresso notturno di Giovanni VIII a Prato e soprattutto il fatto che, raggiunta Peretola, Agnolo Acciaiuoli – accompagnatore del Paleologo per conto della Signoria – ritenne opportuno evitare di proseguire per Firenze e sostare nel borgo per consentire all’imperatore, «stracho et infermo», di riposarsi. Su richiesta dello stesso Acciaiuoli, Giovanni VIII e il suo seguito furono graziosamente ospitati nel palazzo di Giovanni de’ Pigli, appartenente a una delle piú antiche e nobili famiglie fiorentine – già in decadenza

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storie giovanni viii paleologo i testi

L’importanza del leggere tra le righe Riportiamo, qui di seguito, le notizie sul viaggio di Giovanni Paleologo in Toscana che si possono ricavare da alcune annotazioni di carattere contabile. Le prime due sono contenute nei registri delle Uscite della Signoria fiorentina. «31 luglio 1439: A Francescho di Ghuccio, maziere dei Singnori, grossi quaranta, per ispese per lui fatte e che arà affare di mandare a Prato e a Pistoia e innantri luoghi chollo ’nperadore de Greci e cho messere Agnolo Acciaiuoli». «30 settembre 1439: A Francescho di Ghuccio, maziere, per resto di spese per lui fatte innandare a Prato e a Pistoia, chome ser Angnolo Acciaiuoli, quamdo achonpangnò lo ’nperadore de’Greci, grossi quattordici p—». (entrambi i brani sono tratti da: Nicolae Iorga, Notes et extraits pour servir à l’histoire des croisades au XVe siècle, Leroux, Parigi 1899; II, p. 34). La terza figura nel registro delle Provvisioni e Riforme del Comune di Pistoia. «Nel 1439, a dí 23 di luglio. Venne a Prato a vedere la Cintola di Nostra Donna Giovanni Paleologo Imperatore di Costantinopoli, e schavalchò nel palagio del Proposto e quivi albergò 2 notti. El Comune di Prato gli fece le spese di ciò che bisognò a lui e sua compagnia, che furo da 60 Cavalli. Entrò in Prato a 1/2 hora di notte, e gl’Otto gli andarono incontro insino alla porta, e sí lo adestrarono, e venne sotto uno stendardo gli fece il Comune di Prato, e con molti doppieri accesi» (Nr. 4: A. Guardini, Raccolto quarto, cod. Roncioniano 74, c. 55v, in Ruggerio Nuti, Cronachette del Quattrocento, «Archivio storico pratese» XIX (1941); pp. 121-130). A destra il tabernacolo e la targa che commemora la visita di Giovanni Paleologo posti sull’antico palazzo della famiglia de’ Pigli, situato a Peretola, nel borgo di Petriolo e oggi occupato dalle Suore Annunziatine.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante due donne che puliscono polli, da un’edizione del Tacuinum sanitatis. XIV sec. I pollastri furono una delle portate principali della cena offerta da Giovanni de’ Pigli al Paleologo.

ai tempi di Dante –, nonché poeta e prosatore di modesto valore. Nella sua relazione, l’autore descrive minutamente l’incontro con il Paleologo: poiché questi era «perduto delle ghanbe» (cioè malato di gotta), entrò nella sala del palazzo de’ Pigli «a chavallo sanza essere veduto dismontare da nessuno, se non dai suoi gientili huomini et famigli»; affamati e stanchi, l’imperatore e i suoi compagni accettarono di buon grado l’ospitalità del notabile fiorentino, consumarono un pasto gustoso e abbondante (de’ Pigli si compiace, certamente anche per motivi economici, di registrarne con precisione il menu, comprendente un’insalata, pollastri e piccioni lessi, «e dipoi pollastri e pipioni squartati e fritti nella padella chon lardo») e riposarono per alcune ore nel palazzo, dove Giovanni VIII si fece preparare un giaciglio di fortuna. De’ Pigli riferisce inoltre di aver trascorso tutta la giornata in compagnia di Agnolo Acciaiuoli e di Ciriaco d’Ancona («Messere Angnolo et Ciriacho danchona, huomo

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dottissimo in grecho et in latino, e io ci stemo tutto giorno per lla sala»), che scopriamo cosí aver fatto parte del seguito imperiale nelle visite a Prato e a Pistoia.

Le insegne imperiali

In tarda serata («a ore xxiii, e per ventura piu tardi») i Bizantini si congedarono dal loro anfitrione, ma prima l’imperatore volle ringraziarlo personalmente, fece annotare il suo nome e quello del borgo che l’aveva ospitato e invitò Giovanni de’ Pigli a restituirgli la visita a Costantinopoli; dal canto suo, l’ospite fece dipingere, «a chonmemorazione delle sudette chose», le insegne di Giovanni VIII «di sopra luscio della (...) sala»; poi, «ciaschuno da pochi in fuori di sala si partiron; e menatogli il chavallo in sala, e serrato luscio, monto a chavallo, e tennono alla via di Firenze per lungho l’Arno». Con l’immagine suggestiva della cavalcata notturna del corteo imperiale, lanciato al galoppo alla volta luglio

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di Firenze, si conclude il breve viaggio in Toscana di Giovanni VIII. Tuttavia, la storia ha una sua curiosa appendice moderna. Nel maggio 1957, il grande storico statunitense Kenneth M. Setton (1914-1995), incuriosito dalla lettura della memoria di Giovanni de’ Pigli, si recò a Peretola, con l’intento di identificare il palazzo che aveva ospitato l’imperatore bizantino. Egli racconta di aver interpellato gli abitanti del borgo, chiedendo loro se avessero mai sentito parlare della famiglia de’ Pigli e del fatto che Giovanni VIII fosse stato ospite di un loro concittadino, ma nessuno seppe rispondere a tali domande. Deluso, Setton lasciò il paese, riflettendo sull’oblio che attende il potere e la gloria del mondo, ma fortunatamente la memoria storica si rivela spesso piú profonda di quanto a prima vista possa apparire. Le piante «dei popoli e strade» conservate nell’Archivio di Stato di Firenze – disegnate su iniziativa dei Capitani

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di Parte guelfa in occasione di una vasta operazione di descrizione e misurazione delle strade pubbliche del contado e del distretto fiorentino effettuata alla fine del XVI secolo – mostrano infatti che la famiglia de’ Pigli aveva a Peretola numerosi possedimenti, fra i quali spiccano le case sul fronte stradale (che costituiscono la cosiddetta Corte di Nottolone) e soprattutto il palazzo – oggi occupato dalle Suore Annunziatine – nel piccolo borgo di Petriolo, che ha sulla facciata lo stemma dei Pigli: è questa, senza dubbio, la dimora che ospitò il Paleologo. Ma le sorprese non sono finite: al suo interno infatti, la «sala» in cui si svolse quel curioso «banchetto» imperiale è perfettamente conservata, compreso lo splendido soffitto in cotto dell’Impruneta con gigli a rilievo risalente appunto al XV secolo. Chissà: forse, «di sopra luscio», sotto uno strato di intonaco, si celano ancora le insegne imperiali di Giovanni VIII. F

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mostre battaglia di pavia

...E nulla fu come prima

testi di Giorgio Boatti, Luigi Casali e Maria Rosaria Sansone

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Nei pressi di Pavia, il 24 febbraio del 1525, si scontrarono gli eserciti di due superpotenze, il Sacro romano impero e il regno di Francia. La battaglia, che risultò decisiva per gli equilibri politici dell’intero continente, viene oggi rievocata attraverso uno splendido ciclo di arazzi nel Castello Visconteo della città lombarda

LA FANTERIA IMPERIALE RAGGIUNGE MIRABELLO Il quarto pannello del ciclo di arazzi raffigurante la battaglia di Pavia. La fuga dei soldati francesi e dei civili dopo l’irruzione degli imperiali. Bottega di William Dermoyen. Bruxelles, 1528-1530. Napoli, Museo di Capodimonte.

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mostre battaglia di pavia

C’ERA UNA VOLTA UN RE PRIGIONIERO

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on c’è dubbio che le battaglie, nel cammino della storia, contano. Però, come ha spiegato uno studioso come Marc Bloch che ha rinnovato il mestiere dello storico nel corso del Novecento, il viaggio nel passato non si può limitare all’ «histoire de bataille», alla storia delle battaglie e dei minuziosi fatti che le compongono. La comprensione vera del passato, suggerisce Bloch, passa attraverso una storia di lunga durata, ampia di orizzonti e di prospettive. Insomma per raccontare bene il passato occorre, oltre alle battaglie, snodare una narrazione compiuta, capace di scorrere lungo il tempo e di non perdere il filo. Forse è proprio per questa necessità di non perdere il filo che meraviglia come, parlando della battaglia di Pavia, si cominci di solito dalla fine e non dall’inizio. Che insomma si parta sempre da quel «c’era una volta un re francese prigioniero», immancabilmente nutrito di zuppa alla pavese – fette di pane raffermo, uova fresche, brodo caldissimo e formaggio grana grattugiato – con cui si porta in tavola la narrazione. Nessuno invece pare ricordarsi che l’inizio della storia da raccontare, ancora prima che abbiano inizio i movimenti di cavalieri, fanti, picche

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di Giorgio Boatti

e lanzichenecchi sui pantani della Vernavola, ci giunge da lontano. Viene ben 165 anni prima della Battaglia di Pavia, pur avendo sempre il suo perno a Pavia. L’intreccio parte dal 1360 e, visto che la storia è beffarda e ama i paradossi, anche questa volta c’è un re francese caduto prigioniero: degli Inglesi questa volta, nella battaglia di Poitiers, durante la guerra dei Cent’anni. Il re è prigioniero e la Francia non ha soldi per pagarne il riscatto. Chi provvede a liberarlo? Galeazzo II Visconti, signore di Pavia, che, pur essendo ancora un «signor nessuno» nell’aristocrazia europea, ha tanti di quei quattrini da potersi permettere non solo di pagare il riscatto di re Giovanni II, ma anche di portarsi a casa, a Pavia, in moglie per il figlio Gian Galeazzo, l’ultimogenita del re, Isabella di Valois. Una ragazzina di poco piú di dieci anni che morirà di parto poco piú che ventenne, lasciando come unica superstite dei figli avuti da Gian Galeazzo, Valentina. Quella Valentina che poi andrà sposa a Luigi di Valois, fratello di Carlo VI, re di Francia e avrà una vita degna di una fiction mozzafiato tra attentati, tradimenti coniugali, lotte di corte, accuse di magia. Per non parlare del suo amore per i Tarocchi. Ma rimaniamo a quella pagina iniziale con cui la vipeluglio

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LA ROTTA DELL’ESERCITO FRANCESE Il settimo e ultimo pannello del ciclo di arazzi, oggi esposto nella mostra di Pavia. L’esercito francese in fuga non poté attraversare il fiume perché il ponte di barche, allestito in precedenza, era stato fatto tagliare da Carlo IV, Duca d’Alençon, che aveva preceduto la ritirata con la sua cavalleria pesante.

ra dei Visconti incontra i fiordalisi di Francia. In quell’occasione, oltre a prendere una principessa di Francia quale moglie per il proprio erede, il Visconti si permette di mandare al re francese, appena liberato, un ambasciatore che tutta la cultura europea ammira. È Francesco Petrarca, piú volte ospite dei Visconti nel castello di Pavia, città di cui l’autore del «Canzoniere» decanterà i pregi in un famosa lettera al Boccaccio del 1365 – già, esattamente 650 anni fa. Il discorso che Petrarca rivolge alla corte francese, lo rimarcherà Carlo Dionisotti in un famoso scritto, rappresenta la sintesi del vento nuovo che l’Italia di Dante, Petrarca e Boccaccio sta apprestandosi a far soffiare su tutta l’Europa grazie al prezioso lavoro dei «volgarizzamenti» che consentono di riversare il lascito decisivo della cultura classica nella vita letteraria, artistica, politica di quegli anni. Dall’intreccio dei rapporti tra i signori di Milano e Pavia e la corte di Francia si dipana la fitta rete di eventi, pretese dinastiche, successioni, accordi e disegni egemonici, per non parlare delle imprese belliche, che porteranno

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PERSONAGGI Francesco I re di Francia (in alto), in un ritratto di Joos van Cleve. Olio su tavola, XVI sec. Parigi, Musée Carnavalet. L’imperatore Carlo V d’Asburgo (a sinistra), effigiato sul recto di un testone d’argento coniato nella zecca di Milano da Leone Leoni. XVI sec.

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mostre battaglia di pavia

– come un carillon avviato dal destino 165 anni prima e che nessuna mano potrà fermare – Francesco I ad assediare Pavia e, nel 1525, a cadervi prigioniero dei suoi nemici, l’armata spagnola dell’imperatore Carlo V. Una storia enigmatica e beffarda dunque, che comincia con un re francese, fatto prigioniero in battaglia e liberato dal riscatto visconteo che giunge da Pavia, e si conclude quasi due secoli dopo proprio a Pavia, con un altro re francese, finito ostaggio dei nemici. In mezzo, su questo palcoscenico sempre affollato, si snoda una storia densa di colpi di scena, affollata da protagonisti e comprimari che riassumono le vicende politiche, artistiche e culturali dell’Italia e dell’Europa di quei due secoli. Perché la storia, oltre che dalle picche dei lanzichenecchi e dalla sfortunata cavalleria della nobiltà francese, è fatta anche dai denari (quelli dei riscatti pagati dal Visconti, per esempio), dai cuori (infranti, di principesse come Isabella di Valois mandata a precocissime nozze, per non parlare di sua figlia, Valentina Visconti) e dai fiori. I fiordalisi dei Valois, sicuramente. Ma anche quei fiori di conoscenza e di bellezza che la cultura, superando le frontiere di tempo e di spazio, fa sbocciare in continuazione e che non appassiscono mai. Al massimo si possono dimenticare, di tanto in tanto. Ma solo per un poco.

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L’AVANZATA DELL’ESERCITO IMPERIALE Il primo pannello del ciclo di arazzi. Il sovrano francese confida di vincere la battaglia sferrando una carica dirompente con i propri cavalieri. Riesce a sopraffare agevolmente la cavalleria avversaria, ma la mossa si rivela fatale, perché si ritrova isolato dal resto del suo esercito e su un terreno poco agevole.

LA SCONFITTA DELLA CAVALLERIA FRANCESE Il secondo (in basso) pannello del ciclo di arazzi. Gli archibugieri dell’esercito spagnolo comandati da Fernando d’Avalos, aprono il fuoco sulla cavalleria francese, che viene falciata senza scampo, non potendo rispondere all’attacco, mentre il resto dell’esercito transalpino, rimasto senza guida, viene sopraffatto dalle truppe nemiche.

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PAVIA 1525: ARCHIBUGI CONTRO CORAZZE di Luigi Casali

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e vicende della giornata di Pavia sono note. Esse presentano i caratteri tipici delle battaglie del XVI secolo, vale a dire combattimenti feroci tra masse di picchieri appoggiati da nugoli di archibugieri, cariche e scontri di cavalleria. Fin qui niente di nuovo. Lo stesso uso delle armi da fuoco, gli archibugi, da tempo era consolidato e diffuso in tutti gli eserciti. La loro tremenda efficacia era già stata dimostrata alla Bicocca, nel 1522, dove avevano fatto strage dei fanti svizzeri. L’elemento nuovo, che stupí l’intera Europa, fu che a Pavia gli archibugieri di Carlo V seminarono la morte non solo tra la massa anonima dei soldati ma anche, e soprattutto, tra la cavalleria nobile francese e decisero l’esito della battaglia e della guerra a favore della Spagna. Cavalieri che appartenevano alle piú grandi e nobili casate di Francia, esercitati da anni nell’uso della lancia e della spada, ricoperti da armature che costavano una fortuna, montati su poderosi e splendidi destrieri, furono abbattuti, e sconfitti insieme al loro re, da poveri soldati arruolati per pochi soldi. È questo che fece, e che fa, di Pavia

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una battaglia memorabile ed emblematica. La strage dell’altezzosa Gendarmerie francese annunciò al mondo stupefatto che l’epoca della cavalleria si era chiusa per sempre. L’affermarsi delle massicce formazioni di picchieri e il crescente impiego delle armi da fuoco, in grado di perforare anche le corazze piú resistenti, avviò nel corso delle cosiddette «guerre d’Italia» un processo evolutivo dell’arte militare che trovò nella fanteria l’arma dominante da quel momento e per i secoli futuri. La cavalleria, quella francese in particolare, non seppe reagire se non trincerandosi dietro uno sprezzante orgoglio di rango e di casta. Aggrappati con disperata ostinazione a un mondo che era ormai alla fine, il re e i suoi cavalieri erano ancora nostalgicamente imbevuti dello spirito e dell’ethos dell’epopea cavalleresca e consideravano le armi da fuoco vili, insidiose e «infernali» perché colpivano da lontano e consentivano al meno prode, e al piú debole, di prevalere. Di questi sentimenti fu buon interprete l’Ariosto con le parole di dura condanna e disprezzo poste sulle labbra di Orlando quando questi era sul punto di gettare nei flutti marini l’archibugio di Cimosco: «Acciò piú non istea / mai cavalier per te d’esser ardito / né quanto il buono val, mai piú si vanti / il rio per te valer, qui giú rimanti. / O maledetto, o abominoso ordigno, / che fabbricato nel tartareo fondo / fosti per man di Belzebú maligno / che ruinar per te disegnò il mondo / all’inferno, onde uscisti, ti rasigno». Cosí la morte del simbolo della cavalleria, il prode e immacolato ma ormai superato Baiardo, il cavaliere «senza macchia e senza paura», ucciso alla fine di aprile

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l’evento sul campo

Cronaca di uno scontro epocale La battaglia di Pavia fu un evento epocale della storia europea: il regno di Francia e il Sacro romano impero, a guida spagnola, si affrontarono in uno scontro cruciale delle cosiddette guerre d’Italia (1494-1559), scoppiate tra superpotenze che si contendevano l’egemonia politica sul continente. I belligeranti, il sovrano Francesco I e l’imperatore Carlo V, ritenevano la città lombarda un luogo strategicamente vitale per il controllo del potente Ducato di Milano. I Francesi, dopo averne conquistato la capitale nel 1524, si erano diretti subito verso la vicina Pavia e dalla fine di ottobre cominciarono ad assediarla. Gli imperiali, temendo che l’offensiva nemica potesse dilagare in tutto il nord della Penisola e poi verso sud, decisero di concentrare nel borgo pavese un cospicuo contingente di armati: tra le forze mobilitate da Carlo a difesa della città figuravano soldati tedeschi, spagnoli e italiani; ma anche gli assedianti francesi potevano contare su effettivi tedeschi e italiani, oltre a un numero consistente di picchieri svizzeri. Lo scontro si tenne sotto le mura della città, nei campi attorno a Mirabello, e iniziò con un attacco a sorpresa: il conestabile francese Carlo III di Borbone, passato dalla parte nemica, (che insieme al viceré di Napoli Carlo di Lannoy, al condottiero spagnolo Antonio de Leyva e al marchese di Pescara Fernando d’Avalos comandava le truppe di Carlo V) irruppe con i suoi uomini nell’accampamento dei propri connazionali luglio

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LA CATTURA DI FRANCESCO I Il terzo arazzo della serie. Francesco I combatte fino all’ultimo in mezzo ai suoi cavalieri, sempre più decimati, ma, infine, persa ogni speranza di vittoria, cerca scampo nella fuga. Il suo cavallo è però atterrato da un colpo di archibugio e, nella caduta, gli immobilizza una gamba. Tre cavalieri dell’esercito nemico lo accerchiano intimandogli la resa e, non appena lo riconoscono, lo fanno prigioniero. A terra, accanto al gruppo di cavalieri, è raffigurato l’archibugio.

del 1524 da un colpo d’archibugio sparatogli alla schiena, assumeva il valore emblematico del mutamento dei tempi. Il rifiuto di Francesco I e dei suoi cavalieri di accettare questa verità fu la principale causa della sconfitta subita a Pavia. L’arma da fuoco consentí ai piú umili di mettersi alla pari, almeno sul campo di battaglia, con gli irraggiungibili aristocratici e diventò lo strumento di una sorta di parificazione sociale. Non nobili e illustri cavalieri ma semplici e oscuri soldati furono i veri protagonisti della battaglia che chiuse il Medioevo e aprí l’era moderna. Le comparse della guerra ne diventavano i primi attori mentre coloro che avevano recitato fino a quel momento la parte di protagonisti dovettero abdicare al loro ruolo, abbattuti nei campi fangosi lungo la Vernavola, in una fredda e nebbiosa mattina del 24 febbraio 1525. Il mondo si era rovesciato e dopo Pavia niente fu come prima.

In basso raffigurazione della Battaglia di Pavia in una cartografia del XV sec.

creando grande scompiglio. Le truppe transalpine, guidate dallo stesso Francesco I, reagirono subito alla sortita e, una volta schieratesi sul campo, bombardarono con l’artiglieria pesante le armate imperiali, in particolare il versante dove erano schierati i lanzichenecchi tedeschi. Nel contempo un reparto di cavalleria francese, con una rapida manovra di aggiramento, assalí la postazione avversaria di artiglieria, neutralizzandola. Visto il brillante andamento delle prime manovre sul campo, Francesco diede seguito all’offensiva e sferrò un attacco massiccio, nella convinzione di poter presto prevalere. Apparentemente la mossa tattica francese sembrò produrre i suoi frutti: l’intero reparto di cavalleria pesante di Carlo V venne infatti sbaragliato, ma da quel momento, l’inerzia dello scontro subí un improvviso ribaltamento. Un reparto di circa 1500 archibugieri imperiali, nel frattempo, si era appostato in un bosco attiguo, al comando del marchese di Pescara Fernando d’Avalos, e cominciò a bersagliare la cavalleria nemica con una salve di colpi. Molti soldati francesi caddero sotto il fuoco di quegli infallibili tiratori scelti e anche le postazioni dei cannoni vennero

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abbattute. Gli imperiali, valutata la favorevole evoluzione degli eventi, decisero allora di lanciare al contrattacco la cavalleria leggera, con il supporto dei fanti. Ormai decimato, l’esercito di Francesco cercò di ripiegare, ma venne assalito da piú versanti e capitolò dopo una serie di durissimi scontri corpo a corpo: il sovrano combatté valorosamente fino all’ultimo e riuscí a sopravvivere, ma non a scampare alla cattura. Uno degli atti conclusivi della battaglia si consumò nell’epico confronto tra i lanzichenecchi tedeschi al servizio di Carlo V e le “bande nere”, sempre tedesche, al soldo dei Francesi. I primi si accanirono con particolare foga sui secondi che avevano il loro stesso sangue, in quanto li consideravano traditori. Lo sconfitto subí, oltre alla prigionia, le dure condizioni del trattato di Madrid del 1526 che sanciva la cessione all’imperatore austro-spagnolo del Ducato di Milano, di parte della Francia, del Regno di Napoli e della Borgogna. Carlo V poté, quindi, coronare il sogno di un dominio totale sull’Italia e sull’Europa centro-meridionale. (Francesco Colotta)

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mostre battaglia di pavia

GLI ARAZZI DELLA BATTAGLIA DI PAVIA DEL MUSEO DI CAPODIMONTE di Maria Rosaria Sansone

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a serie dei sette arazzi fiamminghi con la Battaglia di Pavia, oggi esposta in una grande sala al secondo piano del Museo di Capodimonte, è uno dei piú importanti e meglio documentati cicli realizzati per l’imperatore Carlo V. Negli arazzi, dei quali soltanto tre conservano l’originaria bordura decorata da una ricca varietà di fiori, frutta e animali, è rappresentata la città di Pavia con i suoi dintorni, nei quali ha avuto luogo la battaglia. Nel riallestimento delle opere al museo, avvenuto negli anni Novanta, si è proposta una lettura del ciclo tesa a ricostruire in sequenza i vari momenti dello storico evento: Avanzata dell’esercito imperiale e attacco della gendarmeria francese guidata da Francesco I; Sconfitta della cavalleria francese. Le fanterie imperiali si impadroniscono delle artiglierie nemiche; Cattura del re di Francia Francesco I; Invasione del campo francese e fuga delle dame e dei civili al seguito dell’esercito di Francesco I;

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uga dei civili dal campo francese. Gli Svizzeri si riF fiutano di avanzare nonostante gli incitamenti dei loro comandanti; Fuga dell’esercito francese e ritirata del duca d’Alençon oltre il Ticino; Sortita degli assediati e rotta degli Svizzeri che annegano in gran numero nel Ticino. Attraverso il ricco ciclo decorativo si vuole rievocare la vittoria delle truppe imperiali su quelle francesi, avvenuta il 24 febbraio del 1525, giorno da celebrare anche perché ricorreva il venticinquesimo compleanno dell’imperatore Carlo V. Gli arazzi vengono realizzati a Bruxelles probabilmente su commissione degli Stati Generali per essere donati all’imperatore in occasione dell’assemblea degli Stati Generali nel Palazzo Reale di Bruxelles, che si tenne nella città nel marzo del 1531. Nella stessa occasione la sorella minore di Carlo V, Maria d’Ungheria, è eletta reggente dei Paesi Bassi. La traccia successiva che abbialuglio

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quistati dal marchese Tommaso d’Avalos, gli arazzi arrivano a Napoli, dove sono documentati a inizio Ottocento, nel palazzo di famiglia in via dei Mille. Attraverso il legato testamentario del 1862 Alfonso d’Avalos dona allo Stato tutta la collezione di famiglia, costituita da un’imIl quinto arazzo portante quadreria e dal nostro ciclo di arazzi. della serie: l’esercito Tessuti a Bruxelles in lana, seta e fili d’oro, gli arazfrancese è in una rotta zi sono stati realizzati su disegni dell’artista fiammindisordinata. Il campo go Bernard van Orley, pittore di corte di Margherita viene saccheggiato d’Austria e, successivamente, della stessa Maria d’Undall’esercito spagnolo gheria. Fortunatamente si sono conservati i disegni mentre i civili fuggono. preparatori, i cosiddetti modelletti o petit patrons, oggi Perfino alcune milizie al Museo del Louvre, eseguiti a penna, inchiostro di svizzere, che fino china e parti in acquerello; si tratta di un’importana quel momento te testimonianza di pratica di bottega, che consisteva avevano dato appunto nel produrre schizzi di composizione, anche innumerevoli prove di abbastanza dettagliati, quale fase preliminare del pasvalore, si rifiutano di saggio in scala proprio dei cartoni per l’arazziere. Queobbedire all’ordine di sti ultimi erano utilizzati negli atelier dai tessitori per avanzare e si danno copiare fedelmente il disegno da riprodurre in tutti i alla fuga. suoi piú piccoli particolari, e pertanto avevano generalmente la stessa dimensione dell’arazzo. Dato che il piú diffuso tipo di lavorazione a Bruxelles, all’epoca, consisteva nell’utilizzo di telai a «basso liccio» - lavorazione in cui i fili in lana dell’ordito erano tesi tra due rulli orizzontali e il distacco tra i fili per fissare la trama era ottenuto azionando pedali - probabilmente anche gli arazzi della Battaglia di Pavia sono stati realizzati con questa tecnica, per cui i cartoni, non mo di questo importante ciclo lo vede in Spagna, nel seconservati, dovevano essere realizzati in controparte. sto decennio del Cinquecento, tra le opere appartenenti La presenza di iniziali sulla bordura di due dei sette al patrimonio di Maria d’Ungheria, la quale li lascerà in arazzi (Sconfitta della cavalleria francese e Fuga della cavaleredità al nipote Don Carlos, figlio di Filippo II. È proleria francese e ritirata del duca d’Alençon), prio il giovane Don Carlos la cui breve consistente in una lettera che è stata e tragica vita ha affascinato artisti ‘roDove e quando letta sia come una W o una M capovolmantici’ a cavallo tra Sette e Ottocento «1525-2015. Pavia, la ta, intrecciata a una G e a una I, ha percome Schiller e Verdi - a legare la storia Battaglia, il Futuro. messo di riconoscere l’atelier nel quale degli arazzi alla famiglia d’Avalos dato Niente fu come prima» sono stati realizzati in quello di Willem che li donerà a Francesco Ferdinando Pavia, Castello Visconteo Dermoyen. Il confronto con il marchio d’Avalos, marchese di Pescara. fino al 15 novembre del tessitore è anche testimoniato da Si tratta, infatti, del diretto discenOrario lug-ago: ma-do, quello presente sulla bordura dell’altro dente del comandante imperiale Fer10,00-13,30 e 17,00-20,00; ciclo di arazzi appartenuto a Carlo V, Le nando Francesco d’Avalos, morto nel set-nov: ma-do,10,00-18,00; Cacce di Massimiliano (Paris, Musée du 1525 per le ferite riportate durante la lu chiuso Louvre), anch’esso realizzato su disebattaglia di Pavia, come è stato ricostruInfo tel. 0382 399770; gno di Bernard van Orley. ito su basi documentarie da Iain Buchawww.labattagliadipavia.it La presenza del marchio ci offre nan (I. Buchanan, The ‘Battle of Pavia’ un riferimento temporale importante and the tapestry collection of Don Carlos: new per stabilire la cronologia relativa aldocumentation, in «The Burlington Mala realizzazione degli arazzi; infatti, con un editto del gazine», vol. 144, n. 1191, 2002, pp. 345-351). L’eroico maggio 1528 venivano obbligati tutti i tessitori attivi comandante è raffigurato nell’arazzo con la Sconfitta della a Bruxelles a firmare i propri lavori. Quindi l’arco crocavalleria francese. Le fanterie imperiali si impadroniscono delle nologico in cui si colloca la realizzazione degli arazzi è artiglierie nemiche, identificato dalla scritta «MAR.SC DI tra il maggio del 1528 e il marzo del 1531, data in cui PES» sul collo del cavallo. sono stati donati a Carlo V. Venduti nel corso del Settecento per essere poi riac-

LA FUGA DEI CIVILI DAL CAMPO FRANCESE

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personaggi astrologia

Un astrologo a Bologna Federico Canaccini

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Cosa hanno in comune Milanesi, Turchi e barbari? E perché Marte è il pianeta di chirurghi e macellai, ma anche dei «golosi»? Ce lo svela Giovanni Paolo da Fondi, lo scienziato che, dal 1431 al 1473, fu protagonista ufficiale e indiscusso dell’astrologia nella città emiliana...

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A sinistra affresco raffigurante Ariete e decano, particolare del Mese di Marzo, opera di Francesco del Cossa. 1470 circa. Ferrara, Palazzo Schifanoia.

In alto pianta scenografica della città di Bologna (particolare). Incisione su lastra di rame di Johannes Blaeu. Amsterdam, 1663.

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agli inizi del XIII secolo l’Università di Bologna era divenuta un centro di spicco della cultura astrologica d’Europa e aveva addirittura istituito una cattedra sulla materia. Nel 1287 furono accordati all’Università degli Artisti gli stessi privilegi dei quali, già dal 1150, godeva l’Università dei Legisti. Nel 1289, per la prima volta, un insegnamento di Medicina fu pagato dal Comune e, nel 1334, questo privilegio fu esteso anche alla lettura di Astrologia. Nel corso del XV secolo l’astrologia bolognese conobbe la sua fase piú felice. Nel 1405 fu infatti ufficializzato il programma di studi e dal

1452 la lettura di Astronomia venne associata a quella di Matematica. La cattedra fu retta in questi decenni da Stefano da Faenza, detto l’Arcidottore, seguito, a partire dal 1424, da Antonio di Anversa, a cui subentrò, dal 1431 al 1473, Giovanni Paolo da Fondi, dispensato dal tenere lezione per gli ultimi quattro anni, come vedremo, forse per limiti d’età: per circa un quarantennio sarà lui il maestro.

Contro Nicola d’Oresme

Giunto in data imprecisata nella città emiliana, Giovanni Paolo, figlio di tal Nicolò e probabilmente originario di Fondi, cittadina dell’entroterra laziale, insegnò a

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Miniatura raffigurante un astrologo che consulta le stelle, dal De machinis bellicis di Mariano di Jacopo, detto il Taccola. Parigi, Biblioteca Nazionale di Francia.

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Bologna come lettore di Astrologia quasi continuativamente dal 1428 al 1473. Da quanto si può evincere dalla documentazione rimasta, Giovanni Paolo svolgeva il ruolo di astrologo ufficiale del Comune bolognese ed è sotto questa veste che compose le sue opere: tra queste figurano nel 1435, un Trattato astrologico, una sorta di almanacco dell’anno venturo da lui definito, con falsa modestia, «iudiciolum» scritto «secondo la fragilità e la pochezza del mio povero ingegno». Nel 1437, anno in cui presenta un altro Trattato astrologico, relativo questa volta a una eclissi solare, Giovanni Paolo fu rettore del Collegio Gregoriano, sempre a Bologna. A lui si devono altre opere, quali la Nova theorica planetarum e il trattato della Nova sphaera materialis. Inoltre, su richiesta dei suoi studenti, compose nel 1437 un nuovo commento al De sphaera di Sacrobosco, testo base per l’astrologia medioevale. Sappiamo poi di come, nel 1451, elaborò un’apologia dell’astrologia in risposta all’attacco che Nicola d’Oresme (1323-1382) aveva sferrato anni prima nel suo De Proportionalitate motuum celestium contra astrologos ma che, evidentemente, doveva aver lasciato il segno. Il Tractatus reprobationis del da Fondi viene dichiarato composto in opposizione a «quanto aveva scritto Nicola d’Oresme contro gli astrologi e la sacra scienza degli astri», a testimonianza della difficile convivenza tra le scienze astrologiche e le altre dottrine, in primo luogo la teologia, la fisica e la filosofia. Giovanni Paolo concluse la carriera sostituito dal collega Matteo da Brescia, che dal 1473 ne ereditò la cattedra. Trasferitosi nel vicino borgo di Crespellano, l’astrologo di Fondi, oramai anziano, poco tempo dopo morí. Lo seguirono nell’insegnamento Giorgio di Russia, docente tra il 1478 e il 1482, a cui si devono tre trattati sulle eclissi solari, Girolamo

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Manfredi e Domenico Maria Novara che nel 1483 fu chiamato a ricoprire la cattedra di Astronomia. A lui si devono molti pronostici, osservazioni astronomiche e correzioni dell’Almagesto di Tolomeo. La sua fama è anche legata al fatto che, tra i suoi allievi bolognesi, ci fu anche Niccolò Copernico.

Dio o gli astri?

Da quando – dopo l’introduzione di Aristotele e dell’astrologia araba nelle università europee – nel 1277, il teologo Étienne Tempier aveva fatto condannare una trentina di proposizioni riguardanti il determinismo dei corpi celesti, gli astrologi d’Europa non rallentarono la propria attività, ma iniziarono ad accompagnare le proprie predizioni con clausole che salvaguardavano, almeno in apparenza, il rispetto della volontà di Dio e il libero arbitrio dell’uomo. E cosí, «naturaliter loquendo», si poteva scrivere concentrandosi sulla sola filosofia naturale, senza troppo riguardo alle implicazioni e complicazioni dovute alla teologia. Di fatto tutta l’astrologia praticata a Bologna, cosí come altrove, veniva svolta in palese violazione delle censure parigine. Si pensi, per fare solo un esempio, alla censurata tesi 207 che concerneva l’eventuale influsso di agenti esterni al momento della nascita. Uno dei compiti fondamentali dell’astrologo era proprio quello di compilare oroscopi per desumere, dalla posizione degli astri al momento della nascita, come essi influissero sul carattere e sul destino dell’individuo, ottenendo preziose informazioni sulle decisioni da prendere nel corso della vita futura. Tutto ciò, evidentemente, risultava antitetico rispetto a quanto affermato nel 1277. Ciononostante l’astrologia crebbe in Occidente, specie dopo la compilazione e la diffusione delle Tavole Alfonsine, verso il 1320, il cui carattere universale e sistematicamente sessagesimale, consentí

di migliorare le possibilità tecniche dell’arte del vaticinio, basandosi su calcoli di tipo astronomico. Come Giovanni Paolo aveva spiegato nella Questio de duratione mundi, la Terra e l’uomo vivono sotto il continuo influsso degli astri e dei pianeti che ne condizionano i comportamenti. Se dunque un attento studio del cielo può senz’altro rivelare all’uomo le cose che avverranno, si comprende quanto importante sia il ruolo dell’astrologo, che è in grado di leggere e interpretare i suoi segni: in caso gli eventi futuri saranno nefasti, scrive l´autore, il fatto di conoscerli in anticipo li renderà meno dannosi; se invece saranno fausti, potranno essere valorizzati. Contro gli astrologi si erano scagliati intellettuali come Giovanni di Salisbury, che li ridicolizzò nei suoi scritti, o Francesco Petrarca, che delineava al Boccaccio l’astrologo come un avido impostore. Il contemporaneo giudizio degli osservanti poi, benché poco univoco e uniforme, non doveva di certo agevolare il loro operato. Si ripensi alle parole di san Bernardino che, nel 1427, ammoniva quanti «credono nel destinato delle costellazioni; chè sono assai che dicono e credono e tengono una grande eresia». Il frate rimproverava coloro che, fidandosi degli oroscopi, rinunciavano sostanzialmente a esercitare il libero arbitrio: «Io so’nato in una costellazione, che non posso fare se non quello che dalla natura fui inchinato». Ma che cosa veniva richiesto a un astrologo nel XV secolo? Poteva essere consultato per sapere quale fosse il momento propizio per intraprendere una specifica impresa (una battaglia, un matrimonio, un viaggio, un affare economico) e come essa si sarebbe conclusa. Oppure si poteva richiedere, in generale, quale fosse il momento piú idoneo per attuare una qualsivoglia azione. Questo valeva naturalmente anche per i medici che dovevano ben conoscere in quale frangente prescri-

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personaggi astrologia Questa attesa imminente della fine si diffuse nei secoli XIV e XV, confondendosi talvolta con l’obiettivo di liberare il Santo Sepolcro, o forse di sconfiggere i Turchi. Se da un lato questi erano i sentimenti che animavano una combattiva e turbolenta cristianità all’autunno del Medioevo, altre idee circolavano in merito all’Apocalisse, finalizzate a determinare quando – sulla base di questi infelici presagi e tramite l’osservazione anche di altri segni – essa si sarebbe verificata. Per fare solo qualche esempio, Arnaldo da Villanova elaborò un sistema di predizioni partendo dai testi del profeta Daniele. Nel 1420 Tommasuccio da Foligno compose, invece, una profezia rimata sulla venuta dell’Anticristo. E nel 1430, nella Germania meridionale, circolava addirittura… una vita illustrata dell’Anticristo! Gli Astrologi, inoltre, erano chiamati a redigere un Prognosticon, compito sempre piú richiesto dalle corti e dalle città presso cui esercitavano. vere un farmaco anziché un altro, per evitare di ottenere risultati opposti a quelli previsti, magari per la presenza di una costellazione avversa. Per far questo si dovevano conoscere e consultare gli oroscopi e l’astrologia matematica per calcolare le longitudini dei pianeti e l’uso dell’astrolabio: dunque il legame tra il ruolo dell’astrologo e la medicina era quanto mai stretto. Gli astrologi venivano infine consultati in relazione all’apparizione di particolari e rari fenomeni celesti come il passaggio di comete, le eclissi e le congiunzioni.

Sulla durata del mondo

Sulla base dell’osservazione dei moti delle stelle fisse e dei pianeti, senza dimenticare l’uso di eventi storici connessi coi testi rivelati, l’astrologo poteva anche cimentarsi in calcoli

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complicati, stabilendo la durata del mondo, perciò la sua fine e indicando una specifica data. È quanto Giovanni Paolo azzarda nella sua Questio de duratione mundi, pubblicata una prima volta nel 1433, e poi ampliata e riveduta piú volte. Sulla scorta delle fonti piú accreditate l’autore calcola come dalla creazione fossero trascorsi 50 000 anni. Per giungere alla fine dei tempi, secondo questa teoria, la fine del mondo sarebbe occorsa nel 1801, confermandoci come – almeno in questo caso – il suo operato non fosse proprio affidabile! La fine del mondo sarebbe giunta con la cooperazione di Dio, perché nulla può accadere senza la sua volontà; perciò la nascita stessa dell’Anticristo sarà favorita da Dio, per far compiere la pienezza dei tempi. luglio

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Nella pagina accanto scodella con raffigurazione dell’allegoria del destino opera del ceramista italiano Francesco Xanto Avelli. 1540. Parigi, Museo del Louvre. In basso miniatura con eclisse solare (particolare) realizzata dal medico Aldobrandino da Siena. 1285 circa. Londra, British Library. A destra l’influenza dei segni zodiacali sulle diverse parti del corpo umano, in un manoscritto italiano del XV sec. Parigi, Bibliothèque Nationale de France.

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Due miniature dal manoscritto De Sphaera, attribuito a Cristoforo de Predis, raffiguranti il pianeta Marte (nella pagina accanto) e il pianeta Saturno (a destra). 1470 circa. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

Si tratta di una sorta di almanacco dell’anno venturo e del da Fondi ne conosciamo almeno due. Negli Statuti dell’Università bolognese, il lettore di Astronomia, in aggiunta alla spiegazione sulla sfera, doveva infatti fornire un iudicium e un tacuinus, pratica che, per esempio, veniva richiesta anche presso l’Università di Parigi. Col termine prognosticon, entrato in uso verso la fine del XV secolo, si intendevano sostanzialmente i due concetti di iudicium e tacuinus. Se il primo conteneva le previsioni per l’anno imminente, il tacuinus concerneva i moti stellari e dei pianeti e le loro conseguenze in campo medico.

Traduzioni in volgare

La prassi di far redigere un prognosticon sarebbe stata normalizzata, a Bologna, a partire dal 1475. I risultati, compilati in latino, dovevano essere esposti in un luogo pubblico, affinchè tutti potessero consultarlo. Per questo motivo ne venivano prodotte delle traduzioni in volgare che andavano a incrementare il già fiorente mercato della stampa che, nelle previsioni astrologiche, trovava – ieri come oggi – grande diffusione. L´elaborazione e la pubblicazione di Prognostica nell´Occidente medioevale non era una novità. Molti matematici occidentali, sulla scorta dei testi di origine islamica, già dal XII secolo tentavano applicazioni pratiche delle loro conoscenze, in campo sia matematico che astronomico. Astrologi cristiani ed ebrei, laici ed ecclesiastici, preannunciarono, per esempio, epidemie e calamità terribili collegandole alla grande congiunzione planetaria attesa per il 14 marzo 1345, che sembrò quasi prefigurare gli eventi successivi

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legati al flagello della Peste Nera. L´incertezza politica dell´Europa dell’autunno del Medioevo, scossa dalla guerra dei Cent’anni, da diverse attese escatologiche, da profonde frizioni politiche, da gravi malattie come la peste e la sifilide, dal grave Scisma, dalle guerre hussite e dalla crescente minaccia islamica, dovette in qualche misura favorire questa sete di predizioni astrologiche legate all´approssimarsi di una fine che sembrava essere quanto mai imminente. In linea con questo clima si spiega, per esempio, la ripresa della predicazione coatta agli Ebrei, voluta da Eugenio IV, in ossequio alle predizioni apocalittiche di Daniele

e Giovanni. Già in Gioacchino la conversione degli Ebrei era stata propugnata nell’Adversus Judeos, e le nuove intolleranze, predicazioni – particolarmente fervide quelle di Giovanni da Capestrano e di Giacomo della Marca per il recupero degli scismatici e per la conversione degli Ebrei – e persecuzioni rientrano in questo panorama profetico. Le pronosticazioni, di contro, avevano invece il ruolo di rassicurare questa inquieta società: in un clima di totale incertezza, una previsione, fosse anche allarmista, era una certezza. Lo schema astrologico fornito dal sistema delle grandi congiunzioni astrali era relativamente semplice e dunque ben si prestava a essere pie-

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gato per interpretare gli avvenimenti e per predire eventi futuri. Cosí, in questo clima profetico e pronto a generare una interpretazione degli eventi su base scientifica, quanti sino ad allora avevano redatto vaticini sulla base di testi sacri, non poterono esimersi dall´utilizzare tutto quello strumentario che l´astrologia poteva loro fornire, dando cosí vita a una sovrapposizione di piani escatologici e scientifici. Tra il 1405 e il 1437 sono noti almeno una quindicina di questi Tractati Astrologici nei quali vengono profetizzati eventi terreni in relazione a fenomeni celesti. I due trattati di Giovanni Pa-

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olo da Fondi furono composti in relazione a una eclissi di Luna del 1435, e a una di Sole del 1437 che avrebbe fatto oscurare per quasi tre quarti l’astro.

Eclissi pericolose

Dal momento che, nel pensiero medioevale, grandia accidentia si verificano proprio in relazione agli effetti della luce e dell’oscurità, con i suoi trattati l´astrologo metteva in guardia i propri concittadini dagli effetti nefasti di questo fenomeno. Entrambe le eclissi li producevano, secondo le teorie astrologiche dell´epoca, e avrebbero causato

«molto piú male che bene». Ne sarebbero conseguite «pesti e malattie» oppure «guerre, dissidi, siccità, fame e sterilità». Ce n’era a sufficienza perché l´astrologo del Comune, percepito come «interprete delle stelle per volere di Dio», allertasse immediatamente la popolazione. L’influsso dell’eclissi del 1435 avrebbe provocato, per esempio, la morte del bestiame, a causa della presenza della costellazione del Toro «in domo mortis», a Venezia e a Napoli, ma anche in Dalmazia, in Etiopia e in Romagna. Per la medesima influenza avrebbero rischiato addirittura la morte gli ecclesiastici. luglio

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Nella pagina accanto Miniatura raffigurante il Giudizio Universale. Si distinguono, in basso, le raffigurazioni del Sole e della Luna. Scuola Italiana, XV sec. Parigi, Musée Marmottan Monet. In basso iniziale miniata raffigurante araldi che annunciano un’eclisse. Opera di Giovanni Pietro da Cemmo, XV sec. Parigi, Musée Marmottan Monet.

L’elenco degli sfortunati prosegue: i sottoposti al segno di Marte soffriranno malattie piú che il rischio di morte. Sono questi Fiorentini, Francesi, Faentini, «alios de Babilonia» e, in minor parte, altri cittadini della Penisola, da Modena a Bagnacavallo, da Genova a Senigallia. Dopo questa premessa il Tacuinus segue una suddivisione interna che riguarda sia la scansione dell´anno in quattro trimestri stagionali, in base alle disposizioni astronomiche, sia i caratteri umani, sempre nel rispetto degli influssi astrali, ma a cui il Fondano fa seguire una ripartizione in otto paragrafi concernenti aspetti differenti. Il tutto è rigorosamente spiegato con l’allineamento dei pianeti e delle costellazioni, le loro reciproche posizioni e il ruolo entro la rete cosmica che avvolge e condiziona in maniera imprescindibile il mondo. Giovanni Paolo da Fondi struttura la propria opera rimarcando una suddivisione sociale, isolando i Popolari dai Nobili, e dedicando il primo capitolo alla meteorologia annuale, poi i seguenti tre capitoli a condizioni generali e i successivi a categorie piú specifiche: La situazione metereologica, divisa per stagioni; Fertilità e sterilità; Sanità e malattia; Guerra e pace;

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Popolari e mercanti; Papa, cardinali ed ecclesiastici; Imperatore, re e governanti; Predizioni per varie terre, città e province. Vi sono nel suo atteggiamento alcune innegabili linee di fondo: l’autore si pone nettamente dalla parte del popolo, mentre è severo con i re, coi governanti, perfino con le partes a capo dei governi cittadini, che giudica causa di ogni male nel mondo intero. Le lotte di fazione, infatti, ancora attanagliavano le cit-

tà dell’Italia centro-settentrionale e tra Guelfi e Ghibellini ci si uccideva ancora. Per suo conto, invece, considera davvero di buona natura il papa Eugenio IV se, come annota nel Trattato del 1437, persino il suo nome derivava da eu, che significa «bene» e geneos, che vuol dire «natura». All’interno delle categorie elaborate da Giovanni Paolo, gli individui sono associati ai segni dello zodiaco e ai pianeti, tanto in base alla data di

nascita, quanto al mestiere e all’area di provenienza. Cosí, per esempio, sotto il segno di Saturno troviamo vecchi, decrepiti, Ebrei, calzolai e uomini umili. Sotto quello di Marte, il dio della guerra, quanti hanno a che fare con le armi e, di conseguenza, con strumenti taglienti come armigeri, chirurghi, barbieri, macellai, cuochi (ma anche i golosi i quali, probabilmente, avranno sovente maneggiato il coltello). Sono dello Scorpione, un segno negativo che allude a un possibile tradimento, i Milanesi, i Costantinopolitani, i Turchi e, in generale, i barbari; mentre Inglesi, Viterbesi, Sardi e gli abitanti di Cesena e Reggio risultano classificati sotto il segno dei Gemelli. Ciò che è particolarmente interessante (imparino coloro che consultano l’oroscopo oggi!) è che il nostro esimio professor da Fondi, utilizzò sostanzialmente gli stessi materiali, le stesse frasi, gli stessi eventi che erano accaduti nel 1435, cambiando i destinatari, per il trattato del 1437. Se nel trattato del 1435 a patire la sete erano stati quelli sotto l’influsso del Toro, ora lo saranno quelli del Cancro, e cosi via dicendo. Un «copia e incolla» di altri tempi, a cui i Bolognesi non dovettero probabilmente fare troppo caso. Anche oggi, in effetti, chi mai andrebbe a verificare le previsioni di tutti? E chi mai ricorderà le previsioni di due anni prima? Sarebbe interessante verificare quante previsioni astrologiche dei giorni nostri vengono «copiate e incollate» a distanza di qualche tempo, senza che i diretti interessati se ne avvedano. Pare che – almeno in questo caso – dal Medioevo ci sia ancora qualcosa da imparare. F

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Il mio regno per una racchetta di Roberto Roveda, con la collaborazione di Francesca Saporiti

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costume e società tennis «Tenez!», «Prendete!»: nascerebbe da questa esortazione il nome di uno degli sport piú popolari del pianeta. La cui storia è assai piú lunga di quanto si possa immaginare: potrebbe risalire, addirittura, alla bella Nausicaa, la principessa dei Feaci che accolse Ulisse in una delle tante tappe del suo peregrinare...

Giuseppe Zocchi, La pallacorda. Olio su tela, 1751-1752. Firenze, Museo dell’Opificio delle Pietre Dure.

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costume e società tennis «Impossibile credere che un cavaliere avventuroso resti seduto nella sala di un re. “Vedrai che avventure”, disse il re, “(…) Vai e portami la mia palla da tennis, cosí che io giochi e ti faccia vedere”. La palla portarono senza indugio. E con essa arrivò un orrendo grugnito di tanti ed enormi giganti (…) c’erano diciassette giganti del casato e Galvano pensò a tutto fuorché a qualcosa di buono, quando essi vollero di giocare con lui. Tutti i giganti pensarono allora di dover colpire la testa di Sir Galvano. (…) ma il cavaliere colpí con la racchetta un gigante nella sala, quell’essere ripugnante che sapeva ridere grugnendo». (da The Turke and Sir Gawain, XVI secolo)

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n eroico cavaliere della Tavola Rotonda. Un epico scontro con terribili giganti. Una valorosa vittoria, trionfo di coraggio e virtú. È difficile immaginare una scena piú vivida, piú profondamente legata all’immaginario medievale, di quella evocata in The Turke and Sir Gawain – poema del XVI secolo –, se non fosse per un dettaglio inusuale: la battaglia tra il prode Galvano e i giganti non si combatte con il clangore delle spade, ma con racchette e palle da tennis. Sorge quindi una forte curiosità: quando è nato quel gioco? Per rispondere, non è possibile limitarsi alle sole fonti medievali, ma occorre ricostruire una lunga storia. Una storia che forse inizia con i giochi di palla dell’antichità come la sphairistikè greca – citata già nell’Odissea, in cui la si dice praticata da Nausicaa, la fanciulla che accoglie Ulisse nella terra dei Feaci – e la pila trigonalis romana. Sono descrizioni o indizi spesso oscuri: in alcuni casi vaghi e labili, in altri tanto accurati da suscitare il sospetto che si tratti di anacronismi dovuti al filtro della modernità. In basso racchetta per il gioco della paume, nella versione «corta». XVIII sec. Fontainebleau, Castello.

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Miniatura di scuola spagnola raffigurante il gioco della pelota, da un manoscritto compilato sotto la direzione del re Alfonso X il Saggio. XIII sec. El Escorial (Madrid), Biblioteca del Monastero di S. Lorenzo.

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costume e società tennis Uno sport per signore

Margot, tennista maliziosa La passione sfrenata per il tennis non era un’esclusiva maschile: anche le donne apprezzavano questo sport, sia come spettatrici sia, seppur piú raramente, scendendo in campo in prima persona. All’inizio del XV secolo una giocatrice di jeu de paume (pallacorda) risultò tanto abile da meritarsi di passare alla storia: questa

eccezionale tennista ante litteram si chiamava Margot la Hennuyère. Nata alla fine del Trecento a Hainaut, nell’attuale Belgio, arrivò a Parigi non ancora trentenne, intorno al 1427, e di lei Le Journal d’un bourgeois de Paris – opera di un anonimo parigino redatta nella

prima metà del XV secolo – cosí annotava: «Margot (…) giocava alla pallacorda meglio di qualunque uomo si sia mai visto, con un dritto e un rovescio (con il davanti e con il dorso della mano) molto potente e un gioco molto malizioso, molto abile, proprio come avrebbe potuto fare un uomo, ma pochi erano gli uomini che potevano batterla, solo i piú potenti».

Per esempio, tra i giochi che nell’Ars Amatoria consigliava alle donne come attività che non si poteva fare a meno di conoscere volendo avvicinare, o farsi avvicinare, da esponenti dell’altro sesso, il poeta latino Ovidio descriveva uno «sport» in cui è facile intravedere un possibile antenato del tennis: «Le palle lisce rimbalzano su una larga racchetta e nessuna palla deve essere mossa, se non quella che ribatterai». Un unico, breve accenno non è sufficiente a provare l’esistenza del gioco, ma si rivela comunque un indizio da non sottovalutare.

La versione persiana

Gli sconvolgimenti portati dalle invasioni barbariche resero a lungo mute le fonti letterarie e iconografiche sui giochi con la palla praticati nei primi secoli dell’Alto Medioevo: non perché simili svaghi fossero stati abbandonati, ma piú probabilmente perché aveva prevalso l’urgenza di conservare e tramandare contenuti piú alti. Nello stesso periodo, piú generosi nel raccontare erano gli scrittori arabi – quali, per esempio, Avicenna e Omar Khayyam –, che de-

Il costume di una giocatrice di jeu de paume del XIV sec., ricostruito sulla base di un affresco trecentesco di Palazzo Borromeo (Milano), illustrazione realizzata da Paul Mercuri per l’opera di Camille Bonnard Costumes historiques des XIIe, XIIIe, XIVe et XVe siècles..., pubblicata a Parigi nel 1861.

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scrivevano uno sport destinato a lasciare un’impronta significativa anche in Europa. Già nel V secolo, infatti, in Persia e nel mondo arabo era diffuso il tchigan o ciogan. Si trattava di un gioco in cui i partecipanti, a cavallo, impugnavano una corta mazza con un’ampia curvatura finale, rifinita con corde di budello essiccate, intrecciate a mo’ di rete – praticamente le «nonne» delle moderne racchette! – per colpire una piccola palla in cuoio. Passando dai campi aperti agli spazi chiusi, non è da escludere che i cavalieri abbiano abbandonato piú o meno saltuariamente i destrieri, per fronteggiarsi a terra con le loro particolari racchette, proprio come nel tennis odierno. Anche l’etimologia sembrerebbe suggerire un legame forte tra lo sport praticato nell’antica Persia e quello attuale: il termine «racchetta», infatti, potrebbe derivare dall’arabo rahat, che significa sia «svago», sia «palmo della mano». E proprio quest’ultimo, come vedremo piú avanti, fu l’antenato delle moderne racchette.

«Come una freccia andava la palla...»

Nel frattempo, però, dal mondo arabo la palla ripassò in campo europeo, in Spagna, già terra di conquista dei Mori e luogo di forti sincretismi: qui, nel XIII secolo, si tornò a parlare di un gioco con palla ribattuta da mazze e bastoni, la pelota. La fonte è il Libro de Apolonio, un

romanzo epico-cavalleresco della prima metà del Duecento, in cui si narrano le gesta del nobile Apollonio che, tra le sue mille avventure, viene anche sfidato alla pelota dal re Arquitrastes, in una partita che lo vede distinguersi per velocità e bravura tra gli altri giocatori: «Non era ancora l’ora di andare a colazione / e decisero i giovani di provarsi a tenzone / cosa c’era di meglio nella tarda mattina / che fare di pelota l’allegra partitina? L’infelice Apollonio entrò nello steccato / e giocava sí schietto, tanto ben preparato / quasi che da bambino gli avessero insegnato (...) come una freccia andava la palla che colpiva / e quando gli arrivava di certo non cadeva (...) Il re Aquitraste primo, uno sportivo vero / usciva con la corte dal maniero. / Portavan tutti quanti in mano quei campioni / diritte e ben polite le mazze ed i bastoni». Se la poesia accenna appena al gioco, sono le miniature dell’epoca a fornire maggiori dettagli, soprattutto sulla varietà degli strumenti utilizzati – mazze, bastoni, canne – e sui diversi ruoli dei giocatori: sul terreno potevano esserci piú squadre o due soli contendenti, impegnati in uno scontro singolo, mentre la regola base della pelota era che la palla andava colpita con la mazza e agguantata con le mani in fase di ricezione; in alcuni casi, opposto al battitore, vi era il giocatore che gli offriva la palla a mano libera. La pelota ebbe un successo enorme in epoca medievale. Non era uno sport elitario e lo praticavano tutte le

Una partita di jeu de paume scelta come immagine per la fronte di una cassetta in rame e smalti, decorata con scene a soggetto moralizzatore. XVI sec. Parigi, Museo del Louvre.

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costume e società tennis classi sociali, tanto che il re spagnolo Alfonso X il Saggio intervenne piú volte per cercare di regolarne la pratica, per esempio intimando ai chierici non solo di non dedicarvisi – pena un periodo di clausura di tre anni, secondo un codice redatto nel 1265 –, ma perfino di astenersi dal guardare le partite e dal rivolgere la parola ai giocatori. Ma perché tanto accanimento?

Un successo piú forte dei divieti

Dalle fonti normative e letterarie emerge il quadro a tinte vivaci di un gioco molto partecipato e non privo di eccessi: una sentenza del 1255, emessa dal già citato re Alfonso, condannava come assassino – senza riconoscere attenuanti – un uomo che aveva ucciso un passante con una palla mal lanciata in una via molto affollata, dove era proibito giocare. Incidenti e divieti non poterono però arginare la diffusione della pelota, che, con poche varianti, è sopravvissuta fino ai giorni nostri e, seppur in una sola occasione, nel 1900, ha avuto l’onore di essere innalzata a disciplina olimpica. Dall’altra parte dei Pirenei, negli angusti cortili dei complessi monastici di Francia e Italia, già dal XII secolo, si giocava alla pallacorda o, per dirla alla francese, alla paume: un gioco di rimbalzi con la palla, colpita a mano aperta e da qui il nome, derivato dal francese «palmo». Si poteva praticare da soli – giocando, magari, contro i muri del chiostro e qualche volta addirittura in chiesa! – o contro uno o piú avversari. Era il passatempo di preti, monaci, novizi e, salendo la gerarchia ecclesiastica, di abati e vescovi: serviva a tenersi in esercizio e a svagarsi mentre lo spirito si elevava in preghiera. In linea generale, le regole dei monasteri non si opponevano alla paume, ma vigilavano sulla buona condotta dei giocatori: l’esercizio fisico era infatti ben accetto, purché non fosse praticato in promiscuità con i laici, né con un abbigliamento non confacente alla dignità ecclesiastica, ossia in camicia o addirittura in canottiera, quando si era accaldati dal gioco. La paume – giocata lunga, ossia in campo aperto con una corda tesa al centro, o corta, cioè al chiuso, in un campo limitato – presto uscí dagli ambienti ecclesiastici: le palle, chiamate éteuf e realizzate in crine o pelo di

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cane rivestite in cuoio, presero a rimbalzare anche nelle strade e nelle piazze, al tocco di palmi rozzi e plebei, cosí come nei palazzi della nobiltà, per il diletto di dame e signori. E ai signori questo gioco piaceva tanto da cercare di farne una prerogativa propria ed esclusiva: lunga è la lista dei sovrani francesi che lanciarono anatemi contro la paume, pur praticandolo in prima persona o lasciando che la propria corte vi si dedicasse, con tanta irruenza da avere, talvolta, esiti tragici (vedi box a p. 74). Tra i meno coerenti vi fu il volubile Filippo il Bello, il quale, nel 1290, condannò la paume insieme a tutti gli svaghi da perdigiorno e ne consentí la pratica, senza eccessi, solo la domenica. Simili imposizioni valsero però solo per il volgo, mentre il re fu ben contento, nel 1306, di acquisire il castello di Nesle, in Piccardia, dotato di un bellissimo campo da gioco. Né le proibizioni ebbero grande efficacia: la «febbre» della paume salí al punto tale che nel 1292 a Parigi operavano ben 13 fabbricanti di palle, mentre solo 8 erano i librai. Esasperato dall’esito incerto della Guerra dei Cent’anni, anche Carlo V di Francia trovò il tempo, nell’aprile del 1369, di emanare un’ordinanza con la quale proibiva la pratica del jeu de paume e di tutti gli altri passatempi inutili che «non hanno alcuna utilità nell’esercitarsi nel mestiere delle armi». Sul fronte opposto anche l’Inghilterra bandí il gioco, la cui pratica distoglieva gli arcieri dai loro esercizi e ne affievoliva l’abilità e la precisione.

Guai a chi gioca!

Tuttavia, ancora una volta, il popolo ignorò i divieti e, anche a livello locale, si dovette ribadire quanto già disposto dai sovrani, come nell’ordinanza promulgata il 22 giugno del 1397 dal preposito di Parigi, in cui si vietava la pratica del jeu de paume nei giorni feriali: «Poiché [per giocare] molti artigiani e altri del popolo minuto abbandonano il proprio dovere e la propria famiglia durante i giorni di lavoro, cosa che pregiudica gravemente l’ordine pubblico». Le prime testimonianze della diffusione della paume in Inghilterra risalgono alla prima metà del Duecento: tra la ricca dote che Maria di Coucy portò in dono ad Alessandro II, re di Scozia, vi erano anche gli attrezzi necessari per il gioco. Strumenti che andarono rapidaluglio

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tennisti d’inchiostro

I dritti e i rovesci del grande bardo di Stratford-upon-Avon Pandaro, nobile troiano che è fra i protagonisti del poema Troilus and Criseyde, composto da Geoffrey Chaucer tra il 1383 e il 1385, era un tennista abile sia nel dritto sia nel rovescio; Gargantua e Pantagruele, insaziabili golosi nati nella prima metà del Cinquecento dalla penna di François Rabelais, non

In questa pagina Gentiluomo che gioca alla paume sotto il regno di Enrico III, nel 1586, acquarello di Pierre de la Mésangère. Rouen, Bibliothèque municipale. Nella pagina accanto particolare del frontespizio dell’opera Le Jeu Royal De La Paume, pubblicata a Parigi nel 1632.

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resistevano al richiamo del tennis e vi giocavano «per farsi venire appetito». Neppure i personaggi shakespeariani furono immuni dal fascino del tennis: non solo il celebre drammaturgo inglese

menziona questo sport non meno di cinque volte nelle sue opere, ma sembra che amasse praticarlo in prima persona. Un passaggio dell’Enrico V sintetizza al meglio la sua passione, con l’accenno a un tesoro che si rivela essere «un barile (...) di palle da tennis». Vi si trovano inoltre numerosi termini tecnici legati al gioco, segno rivelatore della competenza che Shakespeare aveva del tennis: «Quando avremo assuefatte le nostre racchette a queste palle, giocheremo in Francia, per grazia di Dio, un set che farà volare la corona di suo padre nello hazard. Ditegli che ha sfidato un tale avversario che tutti i campi di Francia saranno infestati di cacce», termine quest’ultimo che indicava un’azione in cui la palla cadeva in modo tale che l’avversario non potesse ribatterla che al secondo rimbalzo. Cosí si otteneva una caccia, mentre dopo due cacce le squadre invertivano la loro posizione in campo.

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costume e società tennis Danni collaterali

Finale di partita con tragedia Le partite di jeu de paume prima e quelle di real tennis poi arrossarono spesso i campi da gioco del sangue di sovrani e di nobili. Una delle prime vittime fu Luigi X di Francia, l’Attaccabrighe: il 5 giugno 1316 fu stroncato da un malore mentre partecipava a una partita di jeu de paume a Vincennes, dopo aver bevuto d’un fiato del vino ghiacciato, pur essendo molto accaldato. Poco piú di un secolo dopo, il tennis fu letale a un altro sovrano francese: Carlo VIII, il 7 aprile 1498, a soli 27 anni, morí battendo violentemente la testa contro l’architrave in pietra di una porta mentre correva ad assistere a una gara di jeu de paume che si teneva in una sala del castello

di Amboise. L’urto causò un’emorragia cerebrale fatale: con la morte senza eredi di Carlo VIII – abile giocatore e patito spettatore della pallacorda – si estinsero i Valois. Il tennis si rivelò una passione tragica anche oltremanica: si narra che il giorno del suo arresto, il 2 maggio 1536, Anna Bolena stesse assistendo a una partita di real tennis. E vuole la leggenda che la seconda moglie di Enrico VIII si fosse lamentata con le guardie che la scortavano in prigione, sostenendo che, se avessero aspettato la fine della partita, avrebbe sicuramente vinto la scommessa riguardo al vincitore..

mente evolvendosi: già nel Trecento non si colpiva piú la palla a mani nude, ma i palmi erano protetti da guanti e corregge in cuoio e comparvero le prime, rudimentali racchette, come testimonierebbe anche un passaggio scritto intorno al 1380 dal poeta inglese Geoffrey Chaucer, che aveva vissuto alcuni mesi in Francia, prima come prigioniero di guerra, poi come «turista».

Il solo svago di un prigioniero illustre

A un altro prigioniero di guerra si deve la consacrazione definitiva della paume in Inghilterra, che assunse nel XV secolo il nome di tennis, dalla storpiatura del francese «tenez!» – «prendete!» – espressione con cui il giocatore al servizio accompagnava la battuta. Il 25 ottobre del 1415, Carlo, duca di Orléans, fu catturato dagli Inglesi durante la disfatta subita dai Francesi ad Azincourt, e, nei lunghi anni poi passati nelle carceri del castello di Wingfield, per mantenere forti corpo e spirito, egli praticò ogni giorno lo sport che qui iniziarono a chiamare tennis, anzi real tennis, perché giocato dai reali e dai nobili. Tornato in libertà, dopo oltre vent’anni di prigionia, Carlo nutriva ancora una gran passione per la paume, nonostante il suo spirito fosse spezzato dalla malinconia data dalla sensazione del tempo perduto, come emerge in questi suoi versi: «Tanto ho giocato con l’età / alla paume che eccomi qua / a quarantacinque anni».

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Particolare di un ritratto di Carlo VIII, re di Francia dal 1483 al 1498, olio su tavola. XVI sec. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

Tra il XV e il XVI secolo, il tennis impazzava su entrambe le sponde della Manica, anche se siamo ancora lontani dallo sport che conosciamo oggi. Per esempio, a quei tempi i giocatori potevano affrontarsi in una stessa partita con attrezzi differenti. Il 31 gennaio del 1506, alla presenza del re inglese Enrico VIII, si sfidarono Filippo, principe di Castiglia, e il marchese di Dorset: il primo utilizzava una racchetta, mentre il nobile inglese preferí indossare il tradizionale guanto. In molti ambienti la racchetta fu considerata uno strumento per deboli e per donne, che sminuiva il valore del giocatore, come mette in evidenza un dialogo di Erasmo da Rotterdam del 1522. Al primo giocatore che propone l’uso della racchetta «per sudare di meno» e fare meno fatica, il secondo risponde intransigente: «No, lasciamo la rete ai pescatori. Usare la mano è piú corretto». La corte inglese e quella transalpina, comunque, sembravano fare a gara nello sfoggiare abilità e passione per questa pratica sportiva, una passione incarnata in particolare da Enrico VIII d’Inghilterra e Francesco I di Francia. Anche a detta degli avversari e non solo secondo gli adoranti letterati di corte, il sovrano francese era «il piú luglio

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Mappa di un settore del centro di Parigi situato nei pressi delle Halles con l’indicazione dei siti piú importanti e delle attività che vi si svolgevano. Tra gli altri, si nota la presenza di un impianto per la pratica del jeu de paume. 1512-1547.

forte giocatore dei suoi tempi» di paume couvert, ossia praticata al chiuso, come nei due campi che lo stesso Francesco fece realizzare nel palazzo del Louvre, mentre incaricò gli architetti di installare nel castello di Fontainebleau un ampio campo en plein air, cosí da potersi tenere in allenamento tutto l’anno. Per garantirsi gli attrezzi migliori, il re mise sotto la propria ala protettrice la corporazione dei fabbricanti di racchette, i maîtres paumiers, che godevano di privilegi speciali, tutelati da un editto reale promulgato nel 1537. Far parte di tale corporazione era un grande onore, tanto che per accedervi si doveva superare un severo esame.

Campi... galleggianti

Neppure in viaggio Francesco I volle rinunciare al piacere della pallacorda e arrivò a far costruire un campo da gioco sul vascello reale La Grande Françoise, un gigante dei mari di 100 m di lunghezza e oltre 2000 t di stazza, che in quanto a lusso e comfort aveva poco da invidiare alle moderne navi da crociera; costruita nel 1520 nei cantieri presso Le Havre, la nave, però, non prese mai il mare aperto: colpa del suo peso eccessivo e dell’impossibilità di manovrarla. Poteva il rivale di Francesco I, Enrico VIII essere da meno? Non solo anche il bizzoso re inglese volle un campo da tennis sul Great Henry, il suo vascello personale,

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ma ne fece realizzare, sia al coperto sia all’aperto, in vari siti, tra cui Richmond, Wycombe, Woodstock, Windsor, Whitehall – considerato all’epoca il piú grande della cristianità – e Westminster, cosí che ovunque gli affari di Stato lo portassero avesse un luogo dove dedicarsi al suo sport preferito. E capitava spesso che la politica si mescolasse al tennis. Nel 1522, quando l’imperatore Carlo V visitò Londra, Enrico VIII giocò in doppio con lui 11 game, sfidando il principe d’Orange, alleato, almeno in quella circostanza, al marchese di Brandeburgo: la sfida si concluse con un diplomatico pareggio. Enrico VIII possedeva, inoltre, sette racchette – altrettanti capolavori dei migliori artigiani dell’epoca –, alle quali forse teneva piú delle consorti stesse: vuole infatti la tradizione che il re stesse giocando a tennis all’Hampton Court Palace – campo approntato nel 1530 –, quando gli giunse la notizia dell’esecuzione di Anna Bolena. Nel tennis dell’epoca non vi era la sola componente sportiva, ma vi rientrava, soprattutto in Inghilterra, anche l’azzardo: giocatori e spettatori scommettevano sull’esito della partita e il complesso sistema di assegnazione dell’handicap allo scopo di rendere la sfida piú avvincente, mentre il punteggio seguiva una logica simile all’attuale calcolando i punti in quindici, trenta, quarantacinque e quindi doppio vantaggio per chiudere il game. In molti casi il perdente non usciva dal campo

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costume e società tennis Veduta a volo d’uccello del Christ’s College di Cambridge, in cui è indicato l’uso delle varie strutture che compongono il complesso: tra queste, contrassegnato dalla lettera H, un campo per la pratica del jeu de paume. Incisione realizzata da David Loggan per un’edizione francese dell’opera Cantabrigia illustrata, 1690.

casate della Penisola vi si dedicavano, spesso accendensolo appesantito dalla sconfitta, ma anche alleggerito di do forti rivalità, come quella che contrappose piú volte ingenti somme di denaro. Medici, Sforza ed Estensi. Il perfetto cortigiano non poDal padre Francesco I, il re francese Enrico II non teva esimersi dall’impugnare la racchetta, come consiereditò soltanto il regno, ma anche la passione per il gliava anche Baldassarre Castiglione nel 1512: «Ancor tennis, che volle a sua volta trasmettere al figlio, il futunobile esercizio e convenientissimo a uom di Corte è il gioco di ro Carlo IX, al quale regalò la sua prima racchetta appepalla, nel quale molto si vede la disposizione del corpo e la prena fu in grado di camminare, come testimoniano alcuni stezza e discioltura di ogni membro». ritratti d’epoca. Proprio Carlo, nel 1571, sancí la nascita A un italiano spetta anche un imdella prima corporazione dei profesportante primato nella storia del sionisti della pallacorda. Quanto a Da leggere tennis: fu infatti il lombardo AntoEnrico II, invece, egli amava il rinio Scaino da Salò, nel 1555, a coschio e «di bianco vestito, con farsetto e U Gianni Clerici, 500 anni di tennis, dificarne per la prima volta le regole cappello di paglia, giocava con ardore», Mondadori Electa, Milano 2013 nel Trattato del giuoco della palla, redatpreferendo il gioco sotto rete, sotto U Richard D. Mandell, Storia to mentre era ospite alla corte estengli occhi della bella moglie, Caterina culturale dello sport, Laterza, se di Ferrara, dove poteva ammirare de’ Medici. Il suo campo preferito Roma-Bari 1989 il duca Alfonso II scendere sul camera quello di Fontainebleau: a diffeU Rino Tommasi, Storia del tennis, po da gioco quasi ogni giorno. Nella renza di altre sale dedicate al tennis Longanesi, Milano 1983 sua opera Scaino parla diffusamente – nella sola Parigi alcune fonti pardelle differenti tipologie di palle utilano, forse iperbolicamente, di oltre lizzate, classifica i diversi terreni, descrive l’eterogeneità 1800 impianti! – questa era dotata di un alto soffitto, di guanti e racchette utilizzate e la varietà delle tecniche che permetteva di effettuare pallonetti. e delle strategie di gioco. Meno di cinquant’anni piú tarUn obbligo per il cortigiano perfetto di questa grande varietà fu ridotta a standard ne l’OrdonCaterina, comunque, non dovette aspettare di arrivare nance du Royal Jeu de La Paume, pubblicata nel 1599 da alla corte francese per godere dello spettacolo del tenun certo Forbet: si tratta del primo regolamento ufficianis: anche nell’Italia rinascimentale questo sport era asle stilato per il tennis, un passo ineluttabile e definitivo sai apprezzato, dal volgo come dai nobili, e le piú ricche verso lo sport che tuttora si pratica. F

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di Maria Paola Zanoboni

Una delle «regine» delle tavole italiane, e non solo, è per noi una presenza costante. Ma a quale momento storico possiamo attribuire la prima comparsa di lasagne e vermicelli? Sgombrando il campo dalle leggende, si scopre che le sperimentazioni ebbero inizio già al tempo dei Greci e dei Romani e che, nel Medioevo, l’obra de pasta era ormai una realtà consolidata Una creazione realizzata con diversi tipi di pasta e grano, ispirata alle «teste composte» del pittore Giuseppe Arcimboldi, attivo nel XVI sec.

La pasta: un’invenzione medievale?


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differenza del pane, le cui prime tracce risalgono alla preistoria, la pasta non è esistita da sempre, e si discute ancora sulla sua nascita: il fatto che Greci e Romani non la conoscessero – nonostante la grande diffusione della cerealicoltura alla loro epoca – e si limitassero al consumo di pappe e polente (oltre che di pane e focacce), ha dato adito alle leggende piú disparate, facendone ipotizzare un’origine cinese o medio-orientale e l’introduzione in area mediterranea attraverso gli Arabi. Sebbene le prime menzioni di questo alimento si trovino nei libri di cucina italiani solo a partire dal tardo Medioevo (XIV-XV secolo), va sfatata, in ogni caso, la leggenda del suo arrivo nella Penisola grazie a Marco Polo: al ritorno dell’esploratore dalla Cina nel 1296, infatti, nelle regioni mediterranee, e nella zona di Cagliari soprattutto, già fioriva un consistente commercio di «obra de pasta». E se neppure gli Arabi la «inventarono» – come si è talvolta sostenuto (esistono, infatti, prove della presenza nell’area del Mediterraneo orientale di una pasta simile ai vermicelli fin dal III secolo d.C.) –, non si può tuttavia negare il ruolo che essi ebbero nella sua diffusione.

Sotto mentite spoglie

I libri di cucina tre-quattrocenteschi citano almeno 17 tipi di paste (tra cui lasagne, gnocchi, ravioli, vermicelli, maccheroni), senza però ricondurli a una medesima categoria alimentare, e, per di piú, con denominazioni diverse, a seconda dell’area culturale a cui la ricetta apparteneva. È possibile allora, come ha dimostrato Emilio Sereni (politico e studioso di storia agraria, 1907-1977) per la lasagna, stabilire una correlazione tra alcuni di questi termini e cibi esistenti già nell’antichità, spiegando cosí l’apparente assenza dell’alimento nel mondo greco e romano: la pasta, cioè, sarebbe esistita fin dall’epoca antica,

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Vincenzo Campi, Cucina. Olio su tela, 1580-1581. Milano, Pinacoteca di Brera. Al centro della composizione, si notino le due donne che preparano la pasta.

ma rimane pressochè invisibile agli occhi dei contemporanei perché chiamata con i termini piú disparati (spesso oscuri), e non riconducibili a un’unica categoria di alimenti. La pasta secca e filiforme, lunga o corta, proverrebbe invece, sempre secondo Sereni, dal mondo arabo, e per il medievista francese Bruno Laurioux (che la distingue dalla pasta fresca, come le lasagne o i ravioli), avrebbe avuto origine nella Sicilia musulmana, risalendo poi la costa tirrenica da Napoli a Genova, dopo aver raggiunto il mondo iberico. Sempre secondo i due storici, soltanto a partire dai secoli XIV e XV le due categorie di pasta fresca e secca sarebbero state concepite come appartenenti a un medesimo gruppo di cibi cerealicoli, e solo allora, perciò, l’alimento avrebbe cominciato a diventare «visibile». Era stato comunque Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo) a dare una definizione di laganum (lasagna) come di una sfoglia larga e sottile cotta nell’acqua bollente, anziché in forno, come avveniva invece in precedenza, aprendo cosí la strada al moderno concetto di pasta, ereditato dalle citazioni nelle fonti medievali almeno a partire dalla seconda metà del Duecento. In quest’epoca comparve per la prima volta nei trattati di cucina anche il termine vermicello, a indicare la pasta secca in forma di lunghi fili.

Mercanti e dottori

Nei trattati culinari di epoca medievale e rinascimentale il termine «pasta», volto a indicare un’omogenea categoria di alimenti, cominciò a comparire solo nella seconda metà del Cinquecento (in particolare nell’opera dello scrittore Tommaso Garzoni, 1549-1589), ma esistevano due ambiti in cui il vocabolo era

presente da tempo nell’accezione odierna: il linguaggio dei commercianti di Cagliari, che fin dal Trecento per definire complessivamente l’oggetto delle loro esportazioni parlavano appunto di «obra de pasta»; e la terminologia medica, che, luglio

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all’inizio del XV secolo, nell’elaborare indicazioni dietetiche, utilizzava l’espressione «manzare de pasta» riferendosi a cibi come le lasagne e i maccheroni che si mangiavano conditi col formaggio, e risultavano di difficile digestione. Per risolvere

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il problema i medici suggerivano di aggiungere… un po’ di zucchero! Tutti i formati di pasta derivano essenzialmente da due tecniche: quella consistente nel preparare come base una sfoglia (lasagna) e quella volta alla realizzazione di fi-

lamenti (vermicelli). Le piú antiche tracce di lasagne, in Occidente, risalgono al XIV secolo e si riferiscono alla forma specifica del pezzo di pasta – consistente in una sfoglia divisa in quadrati larghi 3 dita –, piú che a un genere di alimento. Il suo

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In alto miniatura raffigurante la preparazione della pasta, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. XIV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto alcuni tipi di pasta fresca, dall’alto verso il basso: lasagne, maltagliati, maccheroni alla chitarra.

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utilizzo poteva infatti avvenire in situazioni culinarie diverse e dalle preparazioni piú varie: dalla cottura a calore secco (anziché nell’acqua), alla frittura, ai dolci composti di losanghe di pasta e pasta di mandorle. In queste sue molteplici versioni, la pasta a forma di losanga si diffu-

se anche fuori dall’Italia, persino in Inghilterra (XIV-XV secolo). Solo nel XV secolo nei trattati di cucina della Penisola la lasagna cominciò a essere citata col significato che le attribuiamo attualmente: quello di sfoglia di pasta cotta in acqua. Ne erano derivate, nel frattemluglio

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po, altre molteplici varietà e forme: primo fra tutti, a partire dal Trecento, il tortello o raviolo, una tipica invenzione medievale, che conobbe un vero e proprio boom durante il Quattrocento, quando veniva realizzato con sfoglie sottilissime e cotto sempre nel brodo. Si trattava di un cibo ricco, farcito di carne, verdure, funghi o formaggio, zucca e amaretti, e molto apprezzato nelle corti di tutta Europa.

I tortelli di Martino

Già il cronista Salimb e n e d a Pa r m a (1221-post 1288), alla fine del Duecento, esaltava i pregi dei ravioli con involucro impalpabile, mentre nella seconda metà del XV secolo Martino, il cuoco degli Sforza e poi del patriarca di Aquileia, dava la ricetta di tortelli di forma cilindrica costituiti dalla sola farcitura (a base di formaggio fresco simile alla mozzarella, burro, zenzero, cannella e zucchero), senza sfoglia, ma passati soltanto nella farina. Andavano conditi con cannella, zucchero e zafferano. Particolarmente ricercato era il ripieno dei «tortelli a brodetto», composto da carne di maiale, erbe aromatiche, formaggio, uova, datteri, uvetta secca, spezie e zafferano. Accanto a queste tipologie, diffuse in tutto il Centro-Nord, nel Parmense, comparvero, alla fine del Trecento, anche gli agnolini o cappelletti, sempre cotti nel brodo, farciti di carne di maiale e dalla forma caratteristica ben nota ancora oggi. Alla fine del Quattrocento dalle lasagne derivarono anche le tagliatelle, in tutte le loro svariate versioni e larghezze, e i maccheroni, termine, quest’ultimo, che designava, a sua volta, almeno 3 tipologie di-

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verse: poteva trattarsi di una sorta di gnocco, come lo aveva inteso il Boccaccio un secolo prima, o di un derivato della pasta a sezione piatta ottenuto da una sfoglia (dalla lasagna appunto), oppure ancora di un parente dei vermicelli (quindi della tipologia a sezione rotonda, ma bucata nel senso della lunghezza). Citati nei libri di cucina italiani soltanto a partire dal Trecento e con frequenza decisamente inferiore rispetto alle lasagne, i «vermicelli» (pasta filiforme a sezione rotonda) erano in realtà ben conosciuti nel Mediterraneo orientale e in area arabo-andalusa fin dal IX secolo. Caratterizzati da una straordinaria varietà lessicale, che spesso ne ostacola l’identificazione, venivano esportati in quantità ingenti, tra il XIV e il XV secolo, da Cagliari sia verso Barcellona, Maiorca, Valencia, sia verso Genova, Napoli e Pisa. Anche la Sicilia, fin dal XII secolo, esportava questo tipo di pasta in tutto il Mediterraneo, e nella medesima epoca una pasta affine doveva essere nota anche alle comunità ebraiche della Francia settentrionale. Spesso venivano sottoposti a essiccazione per facilitarne la conservazione e il trasporto (al contrario delle lasagne, che si consumavano sempre fresche): divennero in tal modo un autentico prodotto commerciale di lunga durata e facile da trattare. Una volta secchi, i vermicelli venivano cotti insieme al ragú di carne, di cui, nella tradizione araboandalusa, erano considerati parte essenziale, oppure

nel brodo, o ancora, secondo alcune ricette trecentesche, si facevano cuocere nel latte di mandorle, con l’aggiunta di zucchero, e colorati con lo zafferano. Svariate erano poi le forme della pasta fresca «figurata», derivata dalla lasagna o dai vermicelli. Fra tutti, basterà ricordare i «croseti», corrispondenti alle odierne orecchiette, descritti per la prima volta in un ricettario dell’inizio del Trecento (il Liber de coquina) come pasta a forma di coppette della grandezza di un pollice, ottenute schiacciando la pasta con il dito. Si raccomandava di condirle con una grande quantità di formaggio grattugiato (non essendo allora disponibile il pomodoro per il ragú, giunto dall’America quasi due secoli piú tardi). Altra tipologia ben nota era quella degli «strozzapreti» o «strangola preti», citati anch’essi nei libri di cucina del XIV e XV secolo, e che un manoscritto dell’Italia meridionale d’inizio Cinquecento cita come particolari gnocchi di farina e pane grattugiato (versione destinata a diventare una specialità della cucina napoletana).

Saperi a confronto

In sintesi: l’idea di sbollentare pezzetti di pasta (a forma di filo o di nastri) si sviluppò nella parte orientale dell’impero romano, già nei primi secoli della nostra era. La tecnica di preparazione di questo alimento si diffuse fino in Sicilia, centro di un’estesa rete commerciale e sede importante per la cultura ebraica medievale e i suoi contatti con la Palestina, la Provenza e la Renania. Per tali vie, la tradizione della pasta in vermicelli giunse a contatto con la civiltà della lasagna nell’Italia Meridionale e in Sicilia: grazie al connubio di competenze diverse, l’incontro produsse nella

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Qui sopra e in basso utensili e cuchiari da cucina. Sulle due pagine incisione raffigurante un laboratorio italiano per la preparazione della pasta. XVI sec.

Penisola una ricchezza senza eguali nella multiformità dei suoi prodotti e nella sapienza nell’elaborarli. E l’Italia è il solo Paese in Europa ad aver attribuito alla pasta, fin dal Medioevo, il ruolo di alimento completo, degno di stimolare la creazione culinaria e l’invenzione. Dai trattati culinari del XIII secolo si apprende che anche in Spagna e nell’Africa del Nord, fin da epoche remote, la pasta aveva un ruolo notevole, ma molto diverso rispetto all’Italia. Veniva infatti utilizzata esclusivamente come complemento di carni e verdure, alla maniera del cuscus: filiforme o graniforme, era cotta nel brodo grasso, oppure insieme agli altri alimenti di cui costituiva l’integrazione.

È l’ora dei lasagnari

Da semplice ingrediente, la pasta si trasformò rapidamente nell’oggetto di una produzione intensiva volta a soddisfare le esigenze del grande commercio. Si formò cosí una categoria professionale specifica del settore, articolata in due rami concorrenti e complementari: quello della

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pasta secca a lunga conservazione, destinata agli scambi a largo raggio e a base di semola di grano duro, in cui si specializzò l’Italia meridionale, e soprattutto la Sicilia, a partire dal XII secolo; e quella della pasta fresca (realizzata con farina di grano tenero), volta a soddisfare la domanda locale, e diffusa in tutta la Penisola grazie a una particolare categoria di artigiani: i «lasagnari». Come già ricordato, il primo e principale centro di produzione della pasta secca fu la Sicilia, ricordata già nel XII secolo dal geografo arabo al-Idrisi (1099 circa-1164 circa) come patria di questo alimento, e dove se ne fabbricava una tale quantità, da poterla esportare sia in Calabria, sia nella maggior parte dei centri musulmani e cristiani. L’isola dunque, da sempre granaio d’Europa, aveva avuto modo di sviluppare fin da tempi remoti una produzione intensiva che già nel Medioevo era appannaggio dei grandi proprietari terrieri, detentori dei campi e dei mulini, e che gestivano l’intero ciclo di lavorazione, dalla coltivazione del grano al luglio

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Dossier prodotto finito, passando attraverso la trasformazione della materia prima in semola. Dotati di mezzi finanziari imponenti e di notevoli abilità commerciali, davano vita a un mercato di tutto rispetto, rivolto non soltanto all’esportazione, ma anche alla domanda locale, che nelle città siciliane era notevole. Accanto al pane, la pasta era percepita come un alimento indispensabile, al punto che, nel 1371, le autorità palermitane dovettero stabilire un calmiere per i prezzi di maccheroni e lasagne, di semola o di farina, cosí da contenerne i prezzi, come accadeva appunto per il pane.

Cibo per marinai

Sembra che, tra il IX e l’XI secolo, un polo produttivo importante si fosse insediato, anche lungo la costiera amalfitana, ma non ne rimangono, o quasi, notizie. Nel XIII secolo è testimoniata a Pisa la produzione (seppur modesta) di vermicelli, destinati sia al consumo locale, sia all’essiccazione per fungere da alimento dei marinai della flotta cittadina, che viveva allora il suo massimo splendore. Non esisteva comunque nella città una corporazione autonoma dei pastai, che rientravano piuttosto sotto la giurisdizione del paratico dei fornai: gli apprendisti venivano istruiti in entrambe le attività. A Napoli la presenza di fabbricanti di maccheroni (in rapporti commerciali con la corte di Carlo d’Angiò) è documentata fin dal 1295, ma solo molti secoli piú tardi vi si affermò la produzione che conosciamo ancora oggi. A Genova i lasagnari esistevano sicuramente all’inizio del Trecento, mentre la versione secca era probabilmente solo oggetto di commercio. Vermicelli essiccati, destinati all’esportazione verso Venezia, venivano realizzati invece in Puglia (a Molfetta e a Bisceglie) nel Quattrocento. Il maggior centro medievale di produzione della pasta essiccata,

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capace di competere con la Sicilia, era però la Sardegna, anch’essa favorita dalla presenza di ingenti coltivazioni di grano, e dalla sua posizione chiave nel Mediterraneo: nel XIV e nel XV secolo costituiva il fulcro di importanti traffici verso numerosi porti del Mediterraneo. Se ne distinguevano 3 tipi diversi: i «fideos», corrispondenti ai vermicelli, o forse alle tagliatelle, i «macarones», ovvero i maccheroni cavi siciliani, cioè i tagliolini, e le generiche «obra de pasta», che indicavano complessivamente le varie tipologie. Fuori dall’Italia solo la Provenza e in piccola parte il Maghreb, alla fine del Trecento, avevano sviluppato una produzione di pasta secca di una qualche rilevanza. Venduta al minuto prevalentemente dagli speziali, ignorata nei libri di cucina e disprezzata dai cuochi e dalla loro clientela, la pasta secca era tenuta a distanza dall’aristocrazia, che ne temeva la cattiva conservazione o l’utilizzo di materie prime scadenti. Ciononostante, in qualche caso la si trova anche sulle mense regali: la casa aragonese ne faceva uso tra la fine del Trecento e la metà del Quattrocento. Sebbene il suo costo fosse notevole e le tecniche di essiccazione naturale risultassero complesse e difficili da ottenere in modo adeguato, questa versione dell’alimento trovava mercato soprattutto dove era indispensabile poter contare su prodotti a lunga conservazione: in primo luogo, come già accennato, per nutrire gli equipaggi delle navi.

Domenico Gargiulo, I mangiatori di maccheroni. Olio su tela, XVII sec. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Corsini.

Produzioni artigianali

Se la produzione della pasta secca era caratteristica delle isole e dell’Italia meridionale, la realizzazione di quella fresca coinvolgeva invece l’intera Penisola, e la sua confezione aveva caratteristiche del tutto diverse. La prima, infatti, veniva realizzata su scala industriale da grandi produttori in grado di padroneggiare processi di fabbricazioluglio

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ne complessi (soprattutto sul piano dell’essiccazione), in diretto contatto col mondo del commercio internazionale al quale era destinata, mentre la seconda era appannaggio di piccoli artigiani, a volte riuniti in una propria corporazione, in altri casi consociati con i fornai, e che la vendevano al minuto o la confezionavano su ordinazione. Questi piccoli produttori, che spesso esercitavano contemporaneamente anche l’attività di panettiere, avevano talora una propria corporazione: a Firenze, nel 1311, si formò l’arte dei cuochi e lasagnari,

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mentre a Roma, nel Cinquecento, si costituí una potente associazione professionale dei vermicellari.

Nascono le corporazioni

Le corporazioni autonome dei pastai fiorirono però ovunque (Napoli, Genova, Palermo, Savona), soprattutto fra il Cinquecento e il Seicento, contemporaneamente alla maggiore meccanizzazione e all’incremento produttivo. Fino a quel momento erano rimasti in genere sotto l’egida dei panettieri e dei fornai, di cui costituivano una branca, o associati ad altri mestieri relativi

all’alimentazione, come gli ortolani o i formaggiai. A Napoli l’arte dei vermicellari si emancipò da quella dei fornai nel 1546, in un momento di particolare tensione per il mercato della farina e della semola, il cui rifornimento e prezzo erano stati posti sotto il controllo delle autorità. A Genova e a Savona i pastai si resero autonomi rispettivamente nel 1574 e nel 1577, ottenendo l’approvazione di statuti che tutelavano i loro interessi, con particolare riguardo alla questione dei rifornimenti di materia prima. Nel 1605 videro la luce i capitoli dei vermicelluglio

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A sinistra maccheroni stesi a essiccare al sole prima di essere messi in vendita lungo le vie di Napoli, in una foto d’epoca.

lari di Palermo, mentre in Sardegna non rimane traccia di associazioni professionali autonome. L’emancipazione dei pastai suscitò talora l’opposizione dei fornai, per le continue intromissioni di una professione negli ambiti dell’altra, come avvenne a Roma, dove i conflitti si protrassero per tutto il Seicento. L’operato dei fabbricanti di pasta fresca (che a Cremona, alla fine del XVI secolo, veniva considerata alimento indispensabile anche per sostentare i ceti medio-bassi, perché permetteva «con poca spesa e facilità di provvedere al vivere») ricadeva, in ogni caso, sotto lo stretto controllo delle autorità cittadine che miravano a scongiurare le frodi e gli aumen-

ti di prezzo. Già nel 1371 era stato imposto a Palermo un calmiere che riguardava sia i maccheroni e le lasagne di semola, sia quelli di farina.

Norme e sanzioni

Nel 1421 a Milano gli Statuta victualium (che regolamentavano le questioni annonarie) conferivano al giudice delle vettovaglie la facoltà di fissare i prezzi massimi di lasagne e vermicelli, l’incarico di far rispettare le disposizioni e l’autorità di comminare pesanti multe ai contravventori. Severissime erano poi le norme per calmierare i prezzi della pasta adottate a Napoli e a Roma, soprattutto a partire dal Cinquecento, quando ormai era diventata

A destra piatto decorato con un personaggio che mangia maccheroni. Manifattura di Laterza, Puglia, XVII sec. Faenza, Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza.

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Dossier I condimenti

Prima del pomodoro

In età medievale, il formaggio grattugiato (cacio o parmigiano) rappresentava sicuramente, il principale condimento della pasta: già nel 1284, Salimbene da Parma ne raccomandava l’uso abbondante sulle lasagne e i ricettari trecenteschi sui croseti (orecchiette), mentre con miscele di formaggio e spezie (per esempio, cannella, zenzero e chiodi di garofano) si cospargevano tortelli e ravioli. Nel «paese di Bengodi», descritto da Giovanni Boccaccio nella novella III della giornata VIII del Decamerone, i maccheroni rotolavano appunto su una montagna di parmigiano: «Ed eravi una montagna di formaggio Parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan, che fare maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giú, e chi piú ne pigliava piú se n’aveva; e ivi presso scorreva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve…». Alla miscela si aggiungeva talvolta anche il burro, come suggeriva, a proposito dei ravioli, il cuoco degli Sforza.

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In alto Jean-Baptiste-Siméon Chardin, Natura morta con pentola di rame, formaggio e uova. Olio su tela, 1730-1735. L’Aia, Mauritshuis. Il cacio, e in particolare il Parmigiano, fu il condimento principe della pasta fin dal XIII sec. In basso cerchia di Antonio Pereda y Salgado, Natura morta con noci schiacciate appoggiate su un ripiano di pietra. Olio su tavola, XVII sec. Collezione privata.

A partire dal Cinquecento comparve, almeno nelle ricette di alta cucina, l’abitudine di edulcorare il formaggio con lo zucchero, che, tra l’altro, esaltava il sapore delle spezie. Oltre che nel condimento, questi ingredienti si aggiungevano spesso anche al ripieno dei ravioli. In alternativa al formaggio, si utilizzavano salse e sughi di ogni genere (fatta eccezione, naturalmente, per quello di pomodoro). Il sugo di lepre, in primo luogo, usato per le pappardelle; l’agliata, un composto a base di noci pestate, aglio, pepe e mollica di pane ammorbidita nell’acqua calda; la salsa verde, fatta con mollica di pane ed erbe aromatiche, impiegata anche per accompagnare carni bollite, arrosti o pesce; oppure la luglio

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salsa di noci, la cui invenzione risale al tardo Cinquecento e si deve alla responsabile di cucina del monastero di S. Tommaso a Perugia: nella sua prima versione era fatta semplicemente di noci pestate nel mortaio e stemperate nell’acqua di cottura, con l’aggiunta di pepe ed eventualmente di zafferano. Conobbe poi un’evoluzione diversa a seconda dei luoghi: nell’Appennino parmense la si realizzava con noci e ricotta per condire i maltagliati di farina e castagne, mentre la versione attuale, tipica della Liguria e composta di noci e panna, venne «codificata» all’inizio del XX secolo. Anche per quanto riguarda il pesto, la cui ricetta fu trascritta per la prima volta solo nel 1863 (da Giovanni Battista Ratto ne La cuciniera genovese), si trovano preparazioni simili nella tradizione medievale: il basilico in quest’epoca non si usava, ma esistevano condimenti di questo tipo a base di rucola tritata e parmigiano, con cui venivano guarniti i «maccheroni alla zenovese», secondo le indicazioni del cuoco degli Sforza. Le salse a base di pomodoro, invece, cominciarono a essere elaborate soltanto a partire dalla fine del Cinquecento, dapprima in Spagna, poi a Napoli, dove furono abbinate alla pasta.

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In basso Vincenzo Campi, particolare de I mangiatori di ricotta. Olio su tela, 1580 circa. Lione, Musée des Beaux Arts de Lyon. L’uso del latticino per condire la pasta, ancora oggi diffusissimo, è attestato già nel tardo Medioevo.

un alimento indispensabile di sussistenza anche per i ceti piú bassi, tanto che l’autorità pubblica lo considerava alla pari del pane, ed era particolarmente attenta a evitarne rincari immotivati per scongiurare disordini. Parallelamente, i governi cittadini (soprattutto a Napoli e a Roma dal XVI secolo) tenevano sotto controllo la qualità del prodotto, cercando di scongiurare frodi e adulterazioni.

Duro o tenero?

Se nel Meridione e nelle isole per la pasta secca veniva comunemente impiegata la semola di grano duro, nelle città del Centro-Nord per la pasta fresca si utilizzava esclusivamente la farina di grano tenero. Le tecniche produttive restano abbastanza oscure, nonostante le frequenti rappresentazioni di tale attività nei Tacuina sanitatis lombardi trecenteschi, che ne lasciano trapelare, comunque, almeno alcune caratteristiche: si trattava assai spesso di un’occupazione femminile (come emerge anche da una cronaca fiorentina che menzionava la presenza, nella Firenze del XIV secolo, di una siciliana che gestiva una bottega di lasagne); richiedeva l’azione coordinata di due persone, segno di un’organizzazione produttiva a livello professionale e razionalizzata attraverso la divisione del lavoro; faceva largo impiego di telai per l’essiccazione, almeno parziale, della pasta filiforme, segno che non si trattava di un lavoro domestico, ma di veri e propri laboratori per la produzione su larga scala. Sebbene una sorta di impastatrice esistesse già all’inizio del Duecento, come testimonia la documentazione pugliese (un attrezzo analogo a quello utilizzato nella lavorazione della canapa e del lino), la meccanizzazione dell’attività mediante l’impiego del torchio e della trafila si ebbero soltanto alcuni secoli piú tardi, aumentando enormemente i ritmi e i livelli quantitativi.

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Dossier Un adulto mascherato da Pulcinella imbocca con spaghetti un Pulcinella bambino. Olio su tela di artista anonimo, XIX sec. Roma, Museo Nazionale delle Paste Alimentari, Fondazione Agnesi.

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A destra Anonimo, Il mangiatore di pasta. Dipinto, XIX sec. Roma, Museo Nazionale delle Paste Alimentari, Fondazione Agnesi.

Solo tra Cinquecento e Seicento si produssero innovazioni tecnologiche significative, dando il via a una produzione molto piú ampia, e, parallelamente, affrancando sempre piú i pastai dalla dipendenza dai fornai. Altri utensili impiegati nella fabbricazione erano la chitarra, una sorta di telaio scandito da fili di ferro, sul quale veniva stesa e pressata la sfoglia per realizzare i taglierini, e la vite da maccheroni, impiegata a partire dal Cinquecento, e destinata, come il torchio, a velocizzare la fabbricazione della pasta filiforme.

Un’esclusiva femminile

Come già accennato, per tutto il Medioevo, pur nell’ambito di un’attività su larga scala realizzata in laboratori specializzati, la produzione della pasta rappresentò un’occupazione tipicamente femminile e che ebbe modo di esplicarsi soprattutto nell’ambito della varietà fresca, favorita, tra l’altro, dalla grande fantasia a cui le donne davano sfogo nell’invenzione di ogni possibile tipo e forma dell’alimento. Dalla fine del Cinquecento, e nei secoli successivi, per effetto della crescente meccanizzazione, il loro ruolo calò notevolmente, ma continuarono a operare numerose aziende a conduzione femminile, e alle donne venne riservato un ruolo ancora notevole nelle fasi del processo di essiccazione. Rimaneva però, anche nell’età moderna, un ambito in cui l’elemento femminile era padrone assoluto: quello dei monasteri. Pratica antica e che doveva essere diffusissima in età medievale, anche se scarsamente testimoniata, la produzione di pasta «figurata» nei conventi femminili italiani viene testimoniata, all’inizio del Settecento, da un viaggiatore (un sacerdote), il quale affermava che la gamma piú

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ricca dell’alimento si trovava in Sardegna ed era opera appunto delle donne «e soprattutto delle religiose, poiché non richiede una grande attenzione e non impedisce loro di chiacchierare, esercizio comune a tutto il gentil sesso, ma soprattutto a quello che è in clausura». L’attività dei monasteri non era però ben vista dagli operatori del settore che accusavano le religiose di concorrenza sleale, dal momento che la loro produzione godeva delle esenzioni fiscali spettanti a queste istituzioni. Nei maggiori centri di lavorazione, perciò, almeno a partire dalla metà del Cinquecento, si esercitarono pressioni sulle autorità pubbliche affinché vietassero l’esercizio dell’attività nei conventi: i vermicellari napoletani, per esempio, fecero di tutto perché venisse

emanata una simile interdizione, ma raramente le loro proteste ebbero esito positivo. Tra le poche disposizioni a loro favore, vi fu il bando, emanato nel 1665, che proibiva la produzione a scopo commerciale nei luoghi pii di «vermicelli e altre cose di pasta». Passato il momento critico, però, le monache riprendevano la loro attività e i loro commerci, fino a nuove proteste da parte dei professionisti, che inducevano le autorità a reiterare il divieto. V

Da leggere U Silvano Serventi, Françoise Sabban,

La pasta. Storia e cultura di un cibo universale, Laterza, Roma-Bari 2000

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medioevo nascosto sovana

Sovana, cattedrale di S. Pietro. Particolare del capitello istoriato raffigurante la cacciata dal Paradiso Terrestre (a destra) e la consegna delle chiavi a san Pietro. Nella pagina accanto veduta di Sovana. In primo piano, i resti della rocca aldobrandesca, XII-XIII sec.; in secondo piano, a sinistra, la cattedrale di S. Pietro.

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Una sirena per

Ildebrando

Franco Bruni

La cattedrale del borgo di Sovana, nella Maremma grossetana, è un vero gioiello architettonico, reso ancor piú prezioso dal suo lussureggiante apparato decorativo. All’esterno e all’interno della chiesa, infatti, si snoda una sorta di caleidoscopio, animato da figure bibliche, creature reali e fantastiche, eleganti motivi geometrici e simbolici: il tutto in una fusione affascinante di stili e linguaggi

I I

l borgo di Sovana sorge nell’entroterra grossetano, in un angolo di Maremma ricco di storia, arte e bellezze naturalistiche. Quello che oggi è un piccolo centro abitato fu, nel Medioevo, una importante sede vescovile, controllata dalla potente famiglia degli Aldobrandeschi (vedi box a p. 97). A caratterizzare il territorio sono forre, pareti a picco e pianori tufacei, baluardi difensivi naturali, che la mano dell’uomo ha modellato, dando vita a scenari suggestivi, che possiamo ammirare, oltre che a Sovana, nelle vicine Pitigliano e Sorano. Ricche di testimonianze dell’età di Mezzo, queste terre custodiscono un passato etrusco importante, testimoniato da numerose vie cave (vedi box a p. 102), necropoli e sepolcri monumentali, tra i quali spicca, a Sovana,

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la tomba Ildebranda (III secolo a.C.), un monumento imponente a cui è stato dato il nome di Ildebrando Aldobrandeschi, la figura piú celebre della storia sovanese, eletto papa con il nome di Gregorio VII nel 1073.

La lettera di Mauritius

Dopo la romanizzazione e la trasformazione in municipium, Sovana divenne sede vescovile nella seconda metà del VI secolo, con il trasferimento della sede extraurbana della cattedrale da Sant’Ippolito in Val di Lago (presso Acquapendente, Viterbo) nel centro cittadino. A causa della distruzione, nel XVI secolo, dell’archivio vescovile, piuttosto incerte sono le notizie sulle epoche piú antiche e, spesso, si tratta di fonti solo indirette. Sappia-

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medioevo nascosto sovana A sinistra il versante absidale della cattedrale di S. Pietro. Sulle due pagine i resti della rocca aldobrandesca di Sovana. XI-XIII sec.

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mo, per esempio, che il vescovo di Sovana Mauritius, con altri prelati, firmò nel 680 una lettera sinodale nel corso del concilio romano tenutosi in quell’anno. Quasi un secolo piú tardi si ha notizia del presule, Petrus, mentre all’826 risale la menzione del vescovo Sebastiano. Ancor piú scarne sono le notizie sull’ubicazione primitiva della cattedrale, in assenza, a oggi, di indagini archeologiche che possano offrire dati piú concreti.

Gli Aldobrandeschi

Nel segno del leone

La prima fondazione

Una bolla di papa Niccolò II del 1061 cita una «canonicam itaque S. Petri in Suanensi Urbe», identificabile con la canonica di S. Pietro voluta dal vescovo Ranieri, la cui presenza è attestata a Sovana tra il 963 e il 967. Il tempio, si legge nel documento, venne poi restaurato dal successore di Ranieri, Giovanni, il cui lungo episcopato va dal 1015 al 1059. Questi pochi dati permettono almeno di collocare la costruzione della canonica/cattedrale nella seconda metà del X secolo. Una nuova fase costruttiva è databile intorno alla metà dell’XI secolo, contemporaneamente alla presenza sul soglio petrino del già ricordato Gregorio VII.

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Di origine longobarda, gli Aldobrandeschi dominarono, tra il X e il XV secolo, vaste aree della Maremma, dell’Amiata, della Val d’Elsa e parte della Tuscia. Scegliendo nel X secolo Sovana come sede della loro contea, vi costruirono la rocca (XIII-XIV secolo), le cui vestigia ci introducono scenograficamente al paese. Durante il loro dominio – nell’XI canto del Purgatorio, Dante ne ricorda, tra i superbi, Omberto –, Sovana conobbe un sensibile incremento demografico e si arricchí di palazzi pubblici e chiese: il palazzo Pretorio (XII-XIII secolo), che accoglie sulla facciata gli stemmi dei capitani di giustizia, la loggetta del Capitano e il palazzo dell’Archivio (XII-XIII secolo), che si vanno ad aggiungere alle piú antiche chiese di S. Mamiliano e

di S. Maria Maggiore; quest’ultima conserva uno dei piú antichi cibori preromanici (VIII-IX secolo) della Toscana. La fioritura di Sovana tra il XII e il XIII secolo subí una battuta di arresto nel corso dello stesso XIII secolo, per i continui contrasti bellici a seguito delle mire espansionistiche della repubblica senese. Successivi matrimoni tra componenti della famiglia baronale romana degli Orsini e gli Aldobrandeschi portarono alla definitiva estinzione dei secondi: il ramo aldobrandesco di Santa Fiora, presso il Monte Amiata, passò agli Sforza mentre gli Orsini, nel 1293, col matrimonio tra Anastasia Aldobrandeschi e Romano Orsini, entrarono ufficialmente in possesso della contea di PitiglianoSovana, integrando nel loro stemma il leone aldobrandesco.

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medioevo nascosto sovana EMILIA-ROMAGNA Carrara Massa Viareggio

Pistoia Lucca

MAR

Pisa

Prato FIRENZE

LIGURE Arezzo Siena

Arcipelago

Follonica

Sovana U M B R I A

A sinistra cartina della Toscana con la localizzazione di Sovana. A destra il portale della cattedrale di S.Pietro, voluto, come ricorda l’epigrafe inserita nella lunetta, dal vescovo Petrus.

To s c a n o MAR TIRRENO

LAZIO

Sul finire dell’XI secolo il cantiere della cattedrale si interruppe, ma i lavori furono ripresi nel secondo cinquantennio del secolo successivo. Qualche riferimento cronologico ci viene, in questo caso, da due lapidi murate nella parete esterna settentrionale della chiesa: la prima si trova al centro della lunetta del portale d’accesso che indica nel vescovo Petrus, presente a Sovana tra il 1153 e il 1175, il committente della costruzione dell’ingresso; la seconda, collocata nella stessa parete, menziona lavori di restauro e porta la data del 1248. Benché non ne sia specificata la natura, gli interventi dovettero consistere nel consolidamento della struttura, la cui statica risultava minacciata dal cattivo bilanciamento delle spinte esercitate sui pilastri delle volte a crociera della navata centrale; anomalie che imposero la costruzione di vari muri a scarpa esterni. Al XIII secolo si deve anche la costruzione del palazzo vescovile addossato, inusualmente, a quella che doveva essere la primitiva facciata della chiesa; una scelta verosimilmente dettata dalla precaria stabilità dell’intera struttura, che indusse a sacrificarne la facciata e a spostarne l’accesso, aprendo il nuovo portale sul lato settentrionale.

Solitaria e maestosa

Posta ai limiti del borgo, a conclusione della via che, partendo dal castello, lo attraversa per intero, la cattedrale si staglia solitaria e maestosa, nel colore ocra del tufo, pietra di origine vulcanica tipica di queste terre. L’abside è l’elemento che per primo si impone all’attenzione, con le sue arcatelle cieche poggianti su mensole intercalate da quattro lesene in travertino. L’esterno presenta una decorazione variegata, a cominciare dalla monofora centrale che poggia su un davanzale decorato a palmette – un motivo che ricorre diffusamente anche nei capitelli delle colonne della chiesa –, a sua volta sostenuto da due protomi umane. Tra i motivi zoomorfi, spicca una testa di toro stilizzata alla base di una delle lesene, simbolo dell’evangelista Luca, ma anche del sacrificio di Cristo. Da notare anche le formelle con animali fantasti-

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ci che si mordono la coda, un tema, anch’esso, piuttosto diffuso nell’architettura del tempo. Proseguendo lungo il versante settentrionale, i già citati contrafforti a scarpa conferiscono alla cattedrale l’aspetto di un palazzo fortificato. Tra due di essi, si apre il portale di accesso, uno degli elementi piú interessanti dell’intero edificio. Stilisticamente vicino al portale sud dell’abbazia di S. Antimo (Montalcino) – che costituisce il modello romanico di riferimento –, questo di S. Pietro colpisce sia per l’assetto complessivo, sia per la ricchezza dell’ornamentazione, affidata a elementi di recupero oppure realizzati ex novo. Su uno dei conci dell’archivolto è scolpita la figura di un uomo orante, con le braccia alzate, mentre la lunetta presenta un assemblaggio di lacerti altomedievali – verosimilmente provenienti da una costruzione precedente –, alcuni dei quali decorati con un intreccio a nastro trisolcato, ripreso nell’abaco del pilastro istoriato che si trova all’interno. Al centro della stessa lunetta è inserito il blocco con la già citata epigrafe che ricorda il vescovo Petrus quale committente del manufatto. Nell’ordito della decorazione, spiccano, perché realizzate con una pietra piú scura, le due teste di leone luglio

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A sinistra la sirena a due code scolpita sullo stipite sinistro del portale. In basso il cavaliere con la spada sguainata che compare sullo stipite destro del portale, in corrispondenza della sirena.

MASTRO ALDERICO E LA PIETRA MISTERIOSA L’autore dei magnifici rilievi che ornano la cattedrale sovanese è, a oggi, ignoto. Ma ci piace immaginarne l’identità e ricostruire uno dei momenti chiave del suo intervento... «Corre l’anno domini 1167; sono le 5,30 di un mattino di luglio e mastro Alderico non riesce a dormire. Da qualche settimana si trova a Sovana, dove è stato chiamato dal vescovo Pietro a lavorare alla decorazione della cattedrale. Ha sentito parlare di architetture misteriose celate nel bosco e, preso dalla curiosità, approfitta della frescura mattutina per andare a visitarle… Inoltratosi tra gli alberi, il suo desiderio di conoscenza viene premiato: tra le pareti di tufo scorge una sorta di edificio scavato nella roccia, con alcune colonne ancora visibili: un palazzo principesco o il sepolcro di un aristocratico… La sua immaginazione comincia a galoppare. Ma poi, proseguendo il cammino, quasi inciampa in un frammento dalla foggia curiosa, su cui è scolpita una sirena alata, con una doppia coda di pesce. Alderico è un uomo di mondo, ha girato assai e lavorato in molte cattedrali, ma non ha mai visto una scultura del genere. Turbato e al tempo stesso affascinato, ritorna sui suoi passi. Il cantiere non aspetta e deve mettersi all’opera. I blocchi di travertino sono già sagomati e pronti per essere lavorati. Sistema allora i suoi attrezzi e, guidato dalla fantasia, inizia a scalpellare la pietra, tracciando la sagoma di una sirena a due code…». MEDIOEVO

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medioevo nascosto sovana A sinistra veduta della navata laterale sinistra con, in primo piano, il pilastro coronato dal capitello istoriato. In basso pianta della cattedrale di Sovana.

con le fauci aperte sulle quali si imposta l’archivolto. Gli stipiti esterni presentano simbologie di grande fascino: a sinistra, dall’alto, appaiono una decorazione floreale, due pavoni, un volto grottesco (piuttosto mal conservato), una croce dai cui bracci si dipartono quattro spirali, e, infine, nel registro inferiore, una sirena bicaudata. Il mostro marino, che ha origini nella mitologia greca, è legato simbolicamente tanto alla femminilità e alla lussuria quanto alla fertilità. Vale la pena segnalare che, nella vicina necropoli etrusca, il frontone della tomba rupestre dei Demoni Alati, scoperta nel 2004, è decorato con l’immagine di un demone marino simile, alato e con code pisciformi. Altrettanto ricco è lo stipite esterno di destra, nel quale cerchi trisolcati e accavallati lasciano spazio, in corrispondenza della sirena dello stipite sinistro, a un milite a cavallo con la spada sguainata e uno scudo di tipo normanno: una presenza piuttosto diffusa nell’architettura dell’epoca a simboleggiare, come sottolinea la studiosa Martina Giulietti, la superbia. Piú lineare è la decorazione degli stipiti intermedi, mentre quelli interni sono ornati entrambi da medaglioni che racchiudono motivi floreali, intercalati da uccelli che beccano frutti.

Sapiente fusione di modelli e di stili

Alla ricchezza del portale si contrappone la solenne austerità degli interni che, a uno sguardo piú attento, svelano particolari architettonici di grande interesse. Colpisce, innanzitutto, la presenza dei pilastri cruciformi bicromi – con l’eccezione di quello che accoglie il capi-

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UN CAPOLAVORO «ASIMMETRICO»

tello istoriato, interamente in peperino –, che ricordano il Duomo di Siena. La volta è a crociera, con costoloni nella navata centrale, mentre forme piú goticheggianti si riscontrano nella navata laterale sud – anch’essa voltata a crociera –, probabilmente completata in un periodo piú tardo. Osservando la copertura della navata centrale, appare evidente l’asimmetria nella costruzione, a cui si pose rimedio con i già citati contrafforti esterni. All’architettura francese rimanda il transetto sopraelevato sulla cripta avente la stessa larghezza dell’edificio e, sempre nel transetto, è curiosa la presenza di una volta circolare impostata su una base quadrata racchiusa, all’esterno, da un tiburio ottagonale. Al di sotto del presbiterio si trova la cripta a cinque navate, con volte a crociera suddivise da sei colonne. La semplicità luglio

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Veduta in assonometria della cattedrale di Sovana.

dell’ambiente suggerisce che la sua costruzione abbia preceduto quella della chiesa sovrastante. Qui sono raccolte alcune ossa di san Mamiliano († 450), il vescovo palermitano che evangelizzò l’area maremmana nella prima metà del V secolo.

Il dialogo tra l’esterno e l’interno

Di influenza franco-lombarda, con qualche ammiccamento a stili piú classicheggianti, sono i motivi decorativi dei capitelli e degli abachi dei pilastri centrali, dei capitelli delle semicolonne e dei semipilastri che si affacciano sulla navata centrale e sulle pareti laterali, e, infine, della cornice mensolata che corre lungo le monofore della navata centrale. L’esuberante varietà stilistica e iconografica è caratterizzata da un gioco infinito di rimandi tra il portale esterno e le decorazioni interne, come anche tra i vari capitelli. Senza soluzione di continuità si passa da capitelli con decorazioni fitomorfe o zoomorfe piatte ad altri piú classicheggianti, con foglie d’acanto, sino ai semplici esemplari aniconici. Al tutto, si aggiunge lo straordinario capitello istoriato, unica presenza «narrativa» all’interno di un percorso essenzialmente decorativo. Attraverso i temi zoomorfi, viene declinata una simbologia complessa, secondo un gusto tipico, del resto,

A destra il fonte battesimale ottagonale in marmo travertino (1434), ricollocato in questa posizione a seguito di restauri.

Oltre alle decorazioni scolpite, il fascino della cattedrale è dato dalla combinazione di pietre dai colori diversi MEDIOEVO

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medioevo nascosto sovana A sinistra la sezione del capitello istoriato raffigurante Daniele nella fossa dei leoni. In basso una suggestiva veduta della via cava di Poggio Prisca, all’interno della necropoli di Sovana. Nella pagina accanto ancora un particolare del capitello istoriato, raffigurante Abramo con le mogli Agar e Sara e i rispettivi figli Ismaele e Isacco.

le vie cave

Vieni, c’è una strada nel tufo... L’area che circonda Sovana e le vicine Sorano e Pitigliano è solcata da numerose «vie cave»: percorsi spettacolari – notevoli quelli di Poggio Prisca e il «Cavone», presso la necropoli di Sovana –, scavati in epoca etrusca in profonde pareti tufacee, che fungevano da collegamento tra i vari centri abitati e tra questi ultimi e le necropoli. Molte di queste vie – ne esistono in zona oltre una ventina – sono ancora perfettamente praticabili, come quella di San Giuseppe, a Pitigliano, dove ogni anno, il 19 marzo, si tiene una processione a lume di torcia. di tutta l’architettura romanica; d’altronde, i bestiari medievali sono la testimonianza di come il mondo animale, reale o fantastico, sia stato un veicolo straordinariamente efficace per la rappresentazione di vizi e virtú a un popolo perlopiú analfabeta, che traeva insegnamenti e ammonimenti dalle immagini. Se da un lato si nota l’assenza di esseri fantastici – fatta eccezione per le raffigurazioni absidali –, dall’altro, tra i motivi zoomorfi piú frequenti, vi sono le testine di bue a decorazione piatta, accompagnate da palmette stilizzate, ovvero la bella testa di toro realizzata a rilievo in una semicolonna della

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navata centrale. Ricorre anche l’aquila – regina degli uccelli e simbolo di potenza divina –, spesso in coppia. Accanto o in alternanza ai motivi zoomorfi, molti sono i temi fitomorfi e/o geometrici: le già ricordate palmette (simbolo del martirio), gli acanti realizzati nelle fogge piú varie, o, ancora, i motivi arabescati ad alberello. Non da meno sono gli abachi, gli elementi che sormontano i capitelli, nei quali ricorrono, dato lo spazio piú limitato, tralci e decorazioni vegetali, e, spesso, il motivo a dente di sega (chevron).

Una collocazione ben studiata

La ricchezza degli apparati ornamentali è il riflesso della prosperità raggiunta da Sovana, grazie agli Aldobrandeschi, durante il XII e il XIII secolo. E a questa «età dell’oro» ci rimanda anche la realizzazione del capitello istoriato, d’influenza lombarda, che arricchisce il secondo pilastro cruciforme del lato nord della navata centrale. Come già detto, si tratta di un manufatto unico nell’ambito della chiesa sovanese, perdipiú collocato sul solo pilastro monocromo, perché interamente in peperino. Una scelta forse dettata dalla volontà di convogliare l’attenzione sul valore narrativo dell’opera, situata, tra l’altro, in prossimità del portale d’accesso e, quindi, in posizione «strategica». La monocromia del peperino è interrotta solo dagli abachi, alcuni dei quali sono in travertino. Dedicato a scene veterotestamentarie, il capitello presenta un episodio biblico per ogni lato, inframmezzato da elementi non sempre identificabili. Partendo dal semicapitello con san Daniele, questi è raffigurato mentre i leoni gli leccano i piedi, secondo uno schema affine a quello realizzato alla metà del XII secolo a S. Antimo. Accanto al santo stanno un angelo, riconoscibile dall’aureola, e il profeta Abacuc. Proseguendo in senso antiorario, sopra la colonnina angolare appaiono due figure, le cui bislacche posture lasciano pensare a due scimmie; un soggetto diffuso nella decorazione romanica a partire dall’XI secolo e utilizzato come simbolo della degradazione dell’uomo. È quindi la volta dell’episodio, tratto dal Libro dell’Esodo, dell’acqua miracolosa che Mosè fa scaturire da una roccia nel deserto. Ben visibili sono la figura barbuta del patriarca, abbigliato con un’ampia tunica e, al lato del flusso d’acqua, le teste degli Israeliti che, assetati, si avvicinano alla fonte.

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Segue la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden: a destra, vi è l’albero della conoscenza, attorno al quale si avviluppa il serpente che protende la testa verso quella di Eva, raffigurata nuda nell’atto di porgere il frutto proibito ad Adamo, alla sua sinistra; accanto ad Adamo, alla sua sinistra, sull’altro lato del semicapitello – il primo uomo si trova in posizione angolare –, un angelo gli tocca la spalla, a simboleggiare, appunto la cacciata dal Paradiso Terrestre. Realizzata in uno spazio limitato, la composizione successiva mostra tre personaggi, in posizione frontale, che si tendono vicendevolmente le braccia. Quello di destra ha una chiave pendente dalla tunica, che farebbe pensare a san Pietro, a cui la cattedrale è dedicata. Piú incerta risulta l’interpretazione degli altri due: quello centrale, esile e con indosso una corta tunica, e quello a sinistra, vestito di un ampio abito, del quale sono tratteggiate le pieghe. L’interpretazione è qui ostacolata dalla cattiva conservazione dell’insieme, cosí come risultano solo ipotizzabili l’abbraccio dei tre personaggi e la presenza di un elemento nella figura centrale verso il quale tenderebbero le braccia delle figure laterali.

La cacciata di Lot?

Problemi analoghi presenta la porzione successiva. La scena si sviluppa su due lati: a sinistra, una figura femminile appare accanto a una cinta urbana e forse rappresenta la cacciata della moglie di Lot dalla città di Sodoma; piú intricato è il lato destro, dove un personaggio vestito di tunica e con un bastone fronteggia un secondo personaggio con turbante; al centro si vede una sorta di piedistallo (forse un altare), ma la sezione sovrastante risulta illeggibile a causa dell’erosione. I quadri successivi sono dedicati ad Abramo, ritratto con le due mogli Agar e Sara – entrambe velate, secondo una tipica usanza medievale – e i rispettivi figli, Ismaele e Isacco; quest’ultimo ritorna anche nella seconda scena dedicata al Sacrificio di Isacco con Abramo che trattiene il figlio, il sovrastante angelo con l’ala spiegata verso il basso e, sotto le figure di Abramo e Isacco, l’ariete che verrà sacrificato al posto del giovane. Chiude questo straordinario ciclo narrativo un’aquila ad ali spiegate, incarnazione della potenza divina, posta tra le scene del Sacrificio di Isacco e quella di Daniele nella fossa dei leoni. F

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CALEIDO SCOPIO

Signori dell’Urbe ARALDICA • Piú d’uno rivendicava discendenze

risalenti addirittura ai fasti dell’impero romano. Ma chi furono e quali origini avevano le piú insigni casate nobiliari del Medioevo romano? Eccone, in queste pagine, una breve rassegna

A

ncora nell’Alto Medioevo si distinguevano nell’Urbe alcune stirpi di tradizione prevalentemente bizantina, i cui membri erano caratterizzati dalla titolatura aulica di duces, consules, senatores, patritii, spectabiles, clarissimi... e ricoprivano sia uffici laici ed ecclesiastici all’interno della curia papale, sia funzioni pubbliche connesse all’amministrazione cittadina. Dopo il Mille, invece, anche in virtú del consolidarsi dei primi cognomi, emersero alcune domus aristocratiche che, piú o meno lungamente, tennero la scena pubblica romana. Esse non tardarono a differenziarsi dal resto della nobiltà, sia cittadina che rurale, per l’accumulo di

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Lo stemma dei Crescenzi (in alto) e quello dei Frangipane (a sinistra), come raffigurati nell’opera Tesserae gentilitiae di Silvestro Pietrasanta (Roma, 1638). consistenti patrimoni materiali e simbolici e il possesso di numerose fortificazioni nelle campagne e a controllo delle vie di comunicazione, nonché di interi quartieri cittadini, grazie a veri e propri «castelli urbani», che in molti casi sfruttavano le strutture di monumenti dell’antichità classica. In basso variante dello stemma dei Pierleoni (a sinistra) e stemma dei conti di Segni, poi semplicemente Conti (a destra), dallo Stemmario Orsini De Marzo del Regno di Napoli.

La privatizzazione del Colosseo Il riutilizzo degli edifici antichi ai fini di insediamento e di difesa, annettendoli a sedimi di abitazione familiare e torri di piú recente costruzione, serviva, nel nostro caso, anche ad avvalorare piú o meno probabili ascendenze dalle antiche gentes dell’Urbe stessa: gli Annibaldi, una casata fra le piú eminenti del baronaggio romano nel Duecento (anche se successivamente marginalizzata), arrivarono a possedere nientemeno che il Colosseo! Il rapporto con tali monumenti definiva e caratterizzava nobilmente personalità di spicco dell’aristocrazia cittadina: come nel caso di quel Crescenzio de caballo marmoreo – si tratta dei cavalli provenienti dalle terme costantiniane posti sul Quirinale – stipite del ramo dei Crescenzi poi denominati Stefaniani. luglio

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A destra varianti dello stemma dei conti di Ceccano, dal sei-settecentesco Stemmario Orsini De Marzo del Regno di Napoli, che attinge verosimilmente a diversi codici assai piú antichi. In basso variante con scudetto angioino in capo dello stemma dei conti di Ceccano, dallo Stemmario Orsini De Marzo del Regno di Napoli. Quest’ultima, antica e potente, discendeva verosimilmente da un Crescentius judex documentato da un placito (parere) imperiale romano nel 901; essi vantavano – e forse non a sproposito – ascendenze in qualche gens romana e presto si divisero nei rami, politicamente contrapposti, dei Crescenzi Ottaviani e dei Crescenzi Stefaniani, conti in Sabina: la loro araldica era contraddistinta da crescenti parlanti, ed entrambi i rami discendevano in linea femminile dai Teofilatti. Una tradizione vorrebbe poi gli Stefaneschi, casato ai margini del baronaggio insediato in Trastevere, discendenti dai Crescenzi: a favore di tale tesi potrebbe deporre lo stemma fasciato di rosso e d’argento, le fasce del secondo cariche di sei crescenti del primo posti 3, 2, 1; per inciso, si noti che la meno nota famiglia romana dei Cernitari porta la medesima arma brisata negli smalti, cosí come i Bulgamini quella similmente variata dei Crescenzi stessi: indizio verosimile di un’origine comune; anche l’arme dei Cenci porta tale mobile araldico e il patronimico dovrebbe in piú derivare dall’aferesi del personale Crescenzio.

I leoni che spezzano il pane Di radicamento trasteverino come i suddetti Stefaneschi furono anche i de Cardinale, donde i Romani e i Bonaventura/Venturini: erano un ramo minore dei de Papa/ Papareschi, che già nel XIV secolo appare in piena decadenza. Stirpe di antiche fortune e assai illustre, ma ridimensionatasi

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piuttosto precocemente fu quella dei Frangipane: essi alzavano nello scudo due leoni controrampanti nell’atto alludente di spezzare cristianamente un pane. Si fece invece cristiano, da ebreo qual era, il capostipite della casa poi papale dei Pierleoni, da cui discese il Petrus Leonis (filius), da cui prese nome la famiglia: Benedetto, appunto, Cristiano. Costoro portarono nell’arme un facile leone parlante, scaccato: si trattava forse di un’allusione dei neoconvertiti al Leo de tribu Juda, ovvero si contrapponeva esso all’aquila similmente scaccata della casata papale dei conti di Segni (donde i rami di Poli e Valmontone), che tuttavia, in

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CALEIDO SCOPIO origine, era probabilmente emblema anche prearaldico della funzione pubblica in seguito cognominizzata, analogamente ad altra stirpe comitale potente in Ciociaria e che traeva il nome dalla propria rocca di Ceccano? Se non possono essere definiti baroni di Roma in senso stretto, sia per la collocazione

A destra stemma dei Dell’Aquila conti di Fondi, poi inquartato per eredità dai Caetani, dallo Stemmario Orsini De Marzo del Regno di Napoli. A sinistra stemma parlante dei conti di Anguillara, da Tesserae gentilitiae di Silvestro Pietrasanta (Roma, 1638). In basso una variante parlante dello stemma degli Orsini romani raffigurata nel quattrocentesco Stemmario Trivulziano. sono talvolta gratificati nella documentazione da un altrimenti inspiegabile titolo comitale.

Stemma con pelliccia

esclusivamente rurale delle proprie basi patrimoniali, sia per un profilo tutto sommato piú basso, i conti di Ceccano furono tuttavia variamente imparentati con le stirpi baronali vere e proprie: allo stesso modo dei Dell’Aquila, conti di Fondi, che potrebbero tuttavia aver derivato il santo uccello (parlante) che ne caratterizzava lo stemma dal luogo d’origine della famiglia, normanna, vale a dire L’Aigle (nel dipartimento di Orne). Ciò basti, peraltro, per confutare la leggenda araldica secondo la quale le armi parlanti sarebbero indizio di origini non nobili, trattandosi di stemmi assunti a imitazione del ceto militare dal popolo, piú o meno grasso. Origini comitali, per inciso, potrebbe avere anche un’altra casata non primaria e presto decaduta, ma a ogni modo ascrivibile a pieno titolo fra il XII e il XIII secolo al novero dei baroni: i Sant’Eustachio, che vantavano essi stessi parentela con quei conti di Faenza effettivamente possessionati in Sabina già nel Duecento, e i cui membri

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La recente menzione di una casata di sicure ascendenze normanne ci induce ora a introdurne un’altra che si denominò assai verosimilmente da analoga provenienza: i Normanni poi denominati Alberteschi da un personaggio eminente della prosapia di nome Alberto. Dovettero portare un vajato, pelliccia araldica tipica della tradizione normanna, e sino all’estinzione, sopraggiunta alla fine del XIV secolo, tennero un posto non secondario sulla scena locale: caratterizzandosi per le virtú militari, piú che curiali, e per possessi rurali piuttosto che urbani. Altrettanto può dirsi, pur con qualche distinguo, per i conti di Anguillara (che successero a un ramo dei suddetti grazie a piú matrimoni), il cui centro di potere irraggiava dalla fortezza

omonima sul lago di Bracciano. Non possedendo essi corrispondenti basi nell’Urbe, si distinsero piuttosto che per uffici laici ed ecclesiastici a Roma per la tradizione del mestiere delle armi, e semmai per qualche lucrosa podesteria procurata ai suoi membri forse dal prestigio dei parenti condottieri piú che dalla perizia giuridica dei medesimi. A ogni modo, gli Anguillara finirono a propria volta «assorbiti» per le femmine all’interno della prolificissima stirpe degli Orsini, che si sovrappose al loro dominatus: e l’anguilla araldica parlante dei primi finí con il nuotare nella fascia ristretta d’azzurro che sostiene il capo dell’arme dei filii Ursi, che in seguito signoreggiarono sul borgo eponimo della casa comitale. Quest’ultima illustre casata papale, capofazione della parte guelfa nell’Urbe (ma non mancarono individui e rami di differenti simpatie) – celebre per la lunga contrapposizione ai Colonna, che furono leader della fazione filoimperiale –, discende dal piú antico ceppo gentilizio baronale dei Boveschi, che possedeva una torre dalle parti di Campo de’ Fiori, sede in seguito del castello urbano, denominato Arpakasa, di uno dei luglio

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In alto stemmi Orsini, Frangipane, Tebaldeschi, Savelli, da Tesserae gentilitiae (Roma, 1638). A destra stemma dei Colonna nel quattrocentesco Stemmario Trivulziano. Qui accanto variante dello stemma dei Prefetti di Vico, da Tesserae gentilitiae (Roma, 1638). principali rami cittadini degli Orsini: e a rigore il primo dei papi attribuiti a questi ultimi, Celestino III, sommo pontefice dal 1191 al 1198, uscí dai Boveschi, derivando i primi il proprio gentilizio solo da un nipote ex fratre del papa, Orso di Bobone di Pietro.

Nel segno dell’aquila imperiale I Colonna, invece, abbandonarono probabilmente una piú antica insegna contraddistinta da un’aquila araldica – c’è chi vorrebbe di nero,

scaccata d’oro in campo di rosso, chi semplicemente di nero in campo d’oro: nel primo caso, identica a quella dei succitati conti di Segni; nel secondo, a uno dei piú noti emblemi della potestas publica imperiale dei loro antenati comites de Tuscolana/conti di Tuscolo – che, come detto, ne avrebbe significato la dignitas funzionariale, per adottare anch’essi un’arme parlante, caratterizzata dalla bicromia argento/rosso, tipica dell’araldica filoimperiale. Pur non rientrando nel novero delle famiglie baronali in senso stretto, ma per ribadire ancora una volta la probabile origine pubblica dell’aquila in alcune insegne araldiche, vale qui la pena ricordare che i Prefetti di Vico, a lungo avversari degli

Anguillara e capifazione dei ghibellini a Viterbo, alzarono uno stemma d’azzurro, all’aquila d’argento, imbeccata e membrata d’oro, linguata di rosso, accostata da sette palle del secondo, quattro in capo e tre in punta: appoggiandosi ora al potere imperiale ora a quello pontificio, essi avevano dinastizzato la carica di praefectus Urbis. Stupisce invece trovare la campagna dello stemma degli Orsini, per esempio, caratterizzata da un bandato d’argento e di rosso che, mutuando evidentemente gli smalti dalla Reichsfahne imperiale, in area lombarda caratterizza gli stemmi di alcune stirpi leader della fazione ghibellina: cosí dei Rusca/Rusconi in Stemma monogrammatico di un ramo varesino della casata ghibellina degli Arrigoni, originari della Val Taleggio (a sinistra) e stemma dei Savelli romani (qui accanto), dallo Stemmario Trivulziano.

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CALEIDO SCOPIO A destra stemma dei conti dei Marsi, dallo Stemmario Orsini De Marzo del Regno di Napoli. Qui sotto stemma dei Caetani, da Tesserae gentilitiae (Roma, 1638). In basso gli stemmi Orsini, Frangipane, Tebaldeschi, Savelli, da Tesserae gentilitiae (Roma, 1638). area comense, come degli Arrigoni di Val Taleggio, a cavallo fra la diocesi di Bergamo e la Valsassina soggetta al presule milanese (uno dei molti rami di questi ultimi, tra l’altro, entrò in seguito a far parte del patriziato romano). Ma tale bandato caratterizza anche gli stemmi di altre famiglie baronali romane dal profilo politico meno accentuato o piú ondivago: cosí, infatti, almeno i Savelli, per tacere dei Tebaldeschi che degli Orsini dovrebbero esser ramo, e dunque nulla questio circa la somiglianza dei loro stemmi. Non dovremo tuttavia stupirci se qualche documento riemerso dall’oblio di qualche archivio pubblico o privato potrà un giorno permetterci di ricollegare genealogicamente anche l’altra illustre stirpe romana – e fors’anche i Frangipane? – alla ramificatissima genealogia lato sensu orsiniana: non va infatti dimenticato che ai Boboni/ Boveschi antenati degli Orsini è attribuito il suddetto semplice bandato di rosso e d’argento, che potrebbe esser poi stato brisato dalla

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discendenza! Fra le famiglie uscite, come i Boveschi/ Orsini, dall’aristocrazia originariamente urbana, possiamo annoverare ancora i Capocci del Rione Monti e i Boccamazza: ma se i primi furono piú resilienti, i secondi erano già in piena decadenza nella prima metà del Trecento.

Fantasie e realtà Infine, piú recenti – ma anche piú durature – furono le fortune baronali di un’altra grande stirpe, resa immortale dal calembour dantesco: «Se’ tu già cosí ritto, se’ tu già costí ritto, Bonifazio?» (Inferno, XIX, vv. 52-53). Se ci pare pura fantasia il voler ascrivere – come pur qualcuno vorrebbe – i Caetani di Bonifacio VIII a un medesimo ceppo con la prosapia consolare pisana dei Gaetani (che alzavano tra l’altro arme affatto differente), non ci sembra invece impossibile la tradizionale discendenza dei primi dagli antichi ipati (consoli) bizantini di Gaeta, e il gentilizio dovrebbe denunciarne la piú antica origine da quella città, baluardo di Bisanzio nella Langobardia minor, piuttosto che esser patronimico dal personale Cajetanus. Ma non va sottovalutata neppure, a nostro parere, la somiglianza dell’arme dei Caetani

con quella dei conti dei Marsi: donde discendono per esempio, e con similare stemma, i Di Sangro napoletani. Della pietas nei confronti dei propri antenati resta monumento la vasta opera erudita dedicata alle memorie storico-genealogiche della Domus Caietana da uno dei suoi ultimi discendenti, Gelasio (1877-1934), singolare figura di gentiluomo dal multiforme ingegno. E la nipote Lelia (1913-1977) ha avuto il merito di continuare con amore il meraviglioso giardino paesaggistico all’inglese che lo zio aveva voluto lussureggiasse fra quel che resta del borgo di Ninfa (www.fondazionecaetani. org), un luogo affscinante e suggestivo che lo scrittore e storico tedesco Ferdinand Gregorovius (1821-1891) paragonò a una sorta di Pompei impaludata. Niccolò Orsini De Marzo luglio

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CALEIDO SCOPIO

Curarsi con le piante TESORI DI CARTA • Il Manoscritto

296 della Biblioteca Statale di Lucca raccoglie importanti testimonianze sull’arte medica e, in particolare, il dettagliato Herbarius compilato da un autore noto come Pseudo Apuleio

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ucca fu capitale della Tuscia longobarda fin oltre la metà dell’VIII secolo, per poi cadere sotto il dominio dei Franchi. In questo periodo di passaggio si registrò un significativo risveglio culturale, testimoniato, tra l’altro, da alcuni preziosi codici che ci sono stati tramandati e che rappresentano un patrimonio poco studiato e sconosciuto ai piú. Tra questi spicca l’Herbolarium et materia medica, che contiene ben 12 trattati di medicina, il piú importante dei quali viene attribuito a un autore anonimo, indicato come Pseudo Apuleio. Conservato presso la Biblioteca Statale di Lucca, il codice risale al IX secolo. Membranaceo, composto da 109 carte, il Manoscritto 296 – questa è la segnatura – presenta una bellissima scrittura minuscola carolina a linee piene, con titoli, numeri e iniziali in rosso. Dalla carta 1 all’81 si possono ammirare numerose miniature di piante e di animali, la cui fattura fa pensare ai copisti dell’Italia Settentrionale. Tale ipotesi è confermata dal fatto che sulla carta 35v si trova un’iscrizione in lettere greche: «Lodericos me scripsit in Mantoa», il che conferma come il codice si trovasse in quella città subito dopo la sua compilazione. Non sappiamo come sia poi giunto a Lucca, né chi sia Loderico, probabilmente il copista di un monastero non identificabile.

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A destra una delle pagine dell’Herbarius dello Pseudo Apuleio, compreso nel Manoscritto 296. Lucca, Biblioteca Statale. Verosimilmente, vi fu un trasferimento di diversi codici in epoca posteriore, quando la città toscana, posta sulla via Francigena, era divenuta uno snodo cruciale di collegamento tra il Nord e il Sud della Penisola Italiana e dell’Europa. Da lí passavano pellegrini, crociati, mercanti e monaci che avrebbero potuto portare nelle loro bisacce anche qualche codice prezioso.

Operette in cerca d’autore Le dodici operette contenute nel Manoscritto 296 sono perlopiú anonime, salvo quelle che invece riportano il nome del loro autore – Galeno, Dardano, Antonio Musa, Sesto Placito –, oltre, naturalmente, allo Pseudo Apuleio, il cui Herbarius va dalla carta 2r alla 18r (purtroppo, alcune carte dell’opera sono andate perdute). Nel testo apuleiano sono descritte oltre trenta piante officinali con le rispettive proprietà curative, illustrate da disegni.

Gli autori delle 12 opere contenute nel codice, si rifanno direttamente alla scienza medica conosciuta nel mondo classico, in particolare quello greco: si tratta, quindi, di una importante testimonianza del lento passaggio dall’eredità culturale classica a quella dell’Alto Medioevo nell’ambito della medicina, un processo dal quale ebbe origine la celebre scuola medica di Salerno. Alcuni esempi di quanto contenuto nell’Herbarius dello Pseudo Apuleio ci fanno meglio comprendere la cura riposta dall’autore nella sua compilazione. Innanzitutto, le denominazioni di ogni specie sono riportate in piú lingue: greco, luglio

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ispanico, gallico, dacio, oltre, ovviamente, al latino. «La pianta Arnoglossa (detta anche «lingua d’agnello», è una pianta della famiglia delle Plantaginacee, che ha foglie a forma di lancia con un’infiorescenza a spiga e nasce nei terreni incolti del continente europeo, n.d.a.) nasce in molte paludi e nei prati. Per il mal di testa, porre la radice della pianta sospesa al collo. Il dolore al capo se ne andrà miracolosamente». Particolarmente interessante, e per certi versi divertente, risulta la digressione sulla mandragola «che espelle tutti i mali» assicura lo Pseudo Apuleio. «Si dice che la radice della mandragola abbia forma di uomo; la sua corteccia intinta nel vino, viene data a coloro che vogliono seccare il corpo per tornare in salute. Cura da diversi dolori, fa passare il mal di testa se applicata alla fronte». L’autore dà persino consigli su come prevenire il mal di denti: «Affinchè il tuo dente sia sempre sano, trita il seme della senape in un mortaio fino a ridurlo in polvere. Metti la polvere in mezzo cucchiaio di miele e aggiungi tre cucchiai di acqua fredda. Mescola con diligenza e lava i tuoi denti quotidianamente».

Per curare l’imperatore Nel Manoscritto 296 è contenuto anche il De herba vettonica, definito dagli studiosi «Libello mutilo», in quanto una parte è stata danneggiata da un incendio. L’opera è attribuita ad Antonio Musa, uno degli archiatri dell’imperatore Augusto, che guarí il sovrano da una grave malattia di fegato, che lo stava portando alla morte, con la tecnica dell’idroterapia, che lo rese famoso. Secondo alcuni studiosi, l’erba vettonica o betonica, corrisponderebbe all’arnica montana; altri la identificano invece con la Betonica Officinalis, della famiglia delle Labiate. Musa precisa inoltre che

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In questa pagina ancora alcune carte dell’Herbarius dello Pseudo Apuleio, le cui ricette sono sempre accompagnate da disegni esplicativi.

i greci la chiamavano Bionites. Il libello è diviso in capitoli, segnati con numerazione romana, a ognuno dei quali corrisponde il malanno che l’erba vettonica è in grado di curare. Anche in questo caso gli esempi sono probanti: Capitolo XXIII: «Per la calcolosi il malato beva 3 dracme di Betonica in 8 bicchieri di acqua calda, aceto scillitico e miele» (la dracma era un’unità di misura che corrisponde a 3,4 g circa). Capitolo XXXIII: «Per i malati di itterizia, cioè di morbo regio, che hanno colorito giallo, si è sperimentato che riesce efficace l’erba Betonica, somministrata frequentemente in 3 bicchieri di vino». Capitolo XLII: «Per il morso dei serpenti, si spalmeranno sopra la ferita sei dracme di Betonica tritata in 3 bicchieri di vino nero». La conclusione del trattato di

Antonio Musa è particolarmente affascinante: l’erba vettonica, infatti, non avrebbe soltanto proprietà adatte a guarire il corpo, ma «protegge l’animo e il corpo degli uomini, i viaggi notturni, i luoghi consacrati, i tumuli, gli incubi e ogni cosa sacra». Alessandro Bedini

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CALEIDO SCOPIO

La lira s’addice alla Galizia MUSICA • Jordi Savall ha ripreso,

a distanza di vent’anni, la ricerca sul patrimonio iberico: è nata cosí un’antologia di grande interesse e, come sempre, caratterizzata da una sensibilità interpretativa forse impareggiabile

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ercorsi alla ricerca di sonorità perdute, prassi musicali desuete che si perdono nella notte dei tempi, come gli strumenti rari di cui non restano, perlopiú, che tracce nell’iconografia medievale: è quanto ritroviamo nell’ultima proposta discografica di Jordi Savall. Con La Lira d’Espéria II. Galicia (AVSA9906, 1 CD, www.alia-vox. com), il musicista e musicologo catalano ritorna dopo vent’anni – era il 1994 quando uscí il primo «volume» de La Lira d’Espéria – a un progetto musicale incentrato su tre strumenti della tradizione medievale: la ribeca, la viella e il rebab (quest’ultimo di tradizione moresca). A evocare questo insolito programma musicale sono la lira, che, insieme alla cetra, è strumento di origine greca, e l’Espéria, toponimo con i Greci designavano le due penisole: l’iberica e l’italica. Nella prima, durante l’VIII secolo, la lira antica, nelle sue varie declinazioni, viene ad associarsi alla tecnica dell’archetto (propria degli strumenti succitati) grazie all’influenza araba: una prassi ampiamente documentata anche dalle miniature di manoscritti mozarabici del X secolo. L’antologia ci riporta dunque ai tempi in cui lo sviluppo della tecnica ad arco attraverso la diffusione

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della vihuela (castigliano) o viola d’arc (catalano) ha dato vita a un vasto repertorio che ritroviamo negli ambienti di corte, ma anche in espressioni musicali piú popolari, attraverso musiche devozionali (è il caso delle cantigas di Alfonso el Sabio) ovvero nelle monodie trobadoriche, in cui il canto era accompagnato dagli strumenti qui proposti.

Il re compositore Protagonista della raccolta è la Galizia, con una scelta che prende spunto da fonti scritte, come appunto le cantigas de Santa Maria di Alfonso X, o da materiali tramandati oralmente sino a oggi e provenienti da varie regioni galiziane. Risalenti al XIII secolo, le cantigas costituiscono un corpus eccezionale, al cui interno risulta ancora oggi impossibile stabilire quanto sia effettivamente opera del sovrano. Uomo colto, Alfonso fu senza dubbio il «regista» creativo della raccolta, composta da monodie con accompagnamento

strumentale in onore della Vergine Maria dispensatrice di miracoli, descritti in vivide scenette di vita quotidiana, ricorrendo a una metrica e a melodie semplici, ma di grande efficacia comunicativa. Musiche che furono probabilmente eseguite anche con i soli strumenti – è la scelta adottata in questa occasione – di cui il violista Savall esalta la purezza. Frutto della tradizione orale sono i restanti brani, le cui «esotiche» denominazioni (cantos de ciegos, gaitas, danzas, bailes, cantos de terra) provano l’esistenza di un patrimonio ricchissimo, qui rivitalizzato anche grazie alle preziose testimonianze iconografiche. La registrazione esalta la dimensione cameristica delle composizioni scelte da Savall per questo ritratto a tutto tondo di antichi strumenti ad arco, le cui sonorità primitive vengono proposte con l’accompagnamento di Pedro Estevan e David Mayoral, che si cimentano in un variopinto tripudio di percussioni. Franco Bruni luglio

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