Medioevo n. 221, Giugno 2015

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IL P BA AR TT M IST A ER O

MEDIOEVO n. 221 GIUGNO 2015

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Mens. Anno 19 numero 221 Giugno 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MARTIRI DIMENTICATI GUERRA/5: ARMI DA FUOCO PARMIGIANO BATTISTERO DI PARMA DOSSIER MAGNA CHARTA

Giovanni d’Inghilterra firma la



SOMMARIO

Giugno 2015 ANTEPRIMA

CALEIDOSCOPIO

ALMANACCO DEL MESE

5

RESTAURI I trionfi di Ottone

ARALDICA Un nido di nobili

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6

LIBRI Lo scaffale

112

MUSICA Canti per un’attesa

113

MOSTRE Piccoli tesori APPUNTAMENTI La sentinella nel bosco Echi di un antico naufragio Il gallo cannone L’Agenda del Mese

8 10 12 16 20

STORIE CRISTIANI D’ORIENTE Storie di martiri dimenticati di Renata Salvarani

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38 LA GUERRA NEL MEDIOEVO/5 All’alba di un mondo nuovo di Federico Canaccini

38

COSTUME E SOCIETÀ GASTRONOMIA Il Parmigiano

Il sapore? È in gran forma! di Maria Paola Zanoboni

50

SPORT Calcio, passione antica di Roberto Roveda, con la collaborazione di Francesca Saporiti

62

LUOGHI SAPER VEDERE Parma Un battistero da favola di Furio Cappelli

72

Dossier

LA MAGNA CHARTA PROVE TECNICHE DI «DEMOCRAZIA»

28

di Federico Canaccini

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MEDIOEVO Anno XIX, n. 221 - giugno 2015 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352

Illustrazioni e immagini: Bridgeman Images: pp. 31, 90/91, 95; Look and Learn: copertina (e p. 87); Ken Welsh: pp. 30/31; Hartlepool Museum Service, Cleveland, UK: p. 33; Index: p. 36; Wallace Collection, London, UK: p. 47 (basso); Liszt Collection: p. 70 (basso); British Library Board: pp. 100/101; National Archives, UK: p. 101; Lawrence Steigrad Fine Arts, New York: pp. 102/103 – Cortesia dell’autore: pp. 6-7, 12 (basso), 16, 106-110 – Cortesia Galleria Moshe Tabibnia: p. 8 – Cortesia Museo Archeologico Alta Valle Scrivia: pp. 10-11 – Doc. red.: p. 12 (alto), 28, 32, 44-45, 46, 54/55, 56, 70 (alto), 78, 79 (destra), 80/81, 94/95 – Foto Bartolomeo Perrotta: p. 12 (alto) – Mondadori Portfolio: Album: pp. 29, 51; AKG Images: pp. 38/39, 76, 88, 94 (alto), 96-99; The Art Archive: pp. 41, 59, 82, 89; Rue des Archives/Tallandier: pp. 48, 57; Leemage: pp. 62/63 – Shutterstock: pp. 34/35, 50, 74, 76/77, 77, 79 (basso), 81 (alto e basso), 84/85, 104 – DeA Picture Library: pp. 48/49, 64/65; A Dagli Orti: pp. 37, 40/41, 52 (destra), 63; Saporetti: p. 52 (sinistra); A. De Gregorio: p. 53; G. Nimatallah: pp. 68/69 – Archivi Alinari, Firenze: BnF, Dist. RMNGrand Palais/Image BnF: pp. 42/43 (alto); Paris-Musée de l’Armée, Dist. RMN-Grand Palais/Fanny Reynaud: pp. 42/43 (basso); RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Stéphane Maréchalle: p. 47 (alto); Granger, NYC: pp. 66-67 – Marka: Danilo Donadoni: pp. 56/57, 60; Giovanni Mereghetti: pp. 60/61; TCI: p. 71; Olaf Protze: pp. 72/73; Ivan Vdovin: p. 75; Fotosearch RM: pp. 78/79; Nico Tondini: p. 83 – Foto Scala, Firenze: p. 69 – Cortesia Ufficio Stampa British Library: pp. 92-93 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 30.

Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Impaginazione: Alessia Pozzato

Editore: MyWay Media S.r.l.

Collaboratori della redazione:

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Chiara Parente è giornalista. Stefania Romani è giornalista. Roberto Roveda è storico del Medioevo e giornalista. Renata Salvarani è ricercatore di storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Università degli Studi Europea di Roma. Francesca Saporiti è giornalista e storica del Medioevo. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

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In copertina incisione ottocentesca di scuola inglese in cui si immagina re Giovanni Senzaterra che firma la Magna Charta Libertatum

Nel prossimo numero dossier

Alla scoperta dei luoghi dei Templari

storie

Irlanda, terra di druidi e di santi saper vedere

La cattedrale di Otranto medioevo nascosto

Sovana, la città gioiello di Gregorio VII


Almanacco del mese

a cura di Federico Canaccini

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1 giugno 987

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2 giugno 455

Ugo Capeto viene eletto re di Francia Genserico e i suoi Vandali saccheggiano Roma U

3 giugno 1098

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4 giugno 1039

Durante la prima crociata i cristiani conquistano Antiochia Enrico III è eletto imperatore del Sacro Romano Impero

5 giugno 6 giugno 1453 U

U

Miracolo del Corpus Domini a Torino, nel corso delle rappresaglie tra Delfinato e Savoia U

7 giugno 1099

Inizia l’assedio di Gerusalemme da parte dei crociati U

16 giugno 1313

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17 giugno 1094

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18 giugno 1053

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19 giugno 1306

Nel corso della Reconquista viene sottomessa Valencia Presso Civitate (Puglia) si scontrano le truppe fedeli a Leone IX e i Normanni Nel corso delle lotte per l’indipendenza scozzese, Robert Bruce viene sconfitto a Methven dal conte di Pembroke U

U

21 giugno 1280

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22 giugno 1476

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23 giugno 24 giugno 1340

8 giugno 1290 9 giugno 1311

A Morat gli Svizzeri, alleati di Luigi XI, re di Francia, sconfiggono i Borgognoni di Carlo I

La Maestà di Duccio di Buoninsegna viene posta nel Duomo di Siena dopo un corteo per le strade della città U

10 giugno 1190

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11 giugno 1289

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12 giugno 1442

Federico Barbarossa muore da crociato, affogando nel fiume Salef (in Cilicia, nell’odierna Turchia) A Campaldino, presso Poppi, i guelfi di Firenze sconfiggono i ghibellini di Arezzo Alfonso V d’Aragona viene incoronato re di Napoli U

13 giugno 313

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14 giugno 877

A Milano viene emanato lo storico editto di tolleranza verso il cristianesimo a nome di Costantino I e Licinio I Carlo il Calvo promulga il Capitolare di Quierzy, che riconosce l’ereditarietà dei feudi U

20 giugno 451

Ai Campi Catalaunici una coalizione di barbari e Romani ferma l’orda di Attila Torino viene ceduta dal duca di Monferrato a Tommaso III di Savoia, a cui legherà la sua storia

Muore Bice di Folco Portinari, la donna che sembra potersi identificare con la Beatrice amata da Dante U

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Nasce a Certaldo lo scrittore Giovanni Boccaccio

15 giugno 1389

Prima battaglia del Kosovo, detta della Piana dei Merli, nella quale i Turchi sbaragliano l’esercito cristiano

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Presso Sluis gli Inglesi infliggono la prima sconfitta ai Francesi nella guerra dei Cent’Anni U

25 giugno 841

Lotario I sconfigge a Fontenoy il fratello Ludovico il Germanico e il fratellastro Carlo il Calvo U

26 giugno 1288

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27 giugno 1468

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28 giugno 1519

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29 giugno 30 giugno 1422

Gli Aretini sconfiggono i Senesi presso Pieve al Toppo Pio II fissa i confini, rimasti inalterati, della Repubblica di San Marino Carlo V è eletto imperatore del Sacro Romano Impero U

La vittoria di Arbedo restituisce al ducato di Milano i territori elvetici


ANTE PRIMA RESTAURI •

I tecnici intervenuti sul magnifico ciclo affrescato della Rocca di Angera non hanno soltanto dato nuova vita alle pitture, ma hanno compiuto una scoperta che suggerisce il possibile sviluppo delle scene oggi non piú visibili

I trionfi di Ottone D

opo l’ampio articolo pubblicato all’inizio di quest’anno (vedi «Medioevo» n. 216, gennaio 2015), torniamo a parlare della Rocca Borromeo di Angera. Si è appena concluso, infatti, il restauro degli affreschi firmati dal «Maestro di Angera» nella Sala della Giustizia. Realizzati all’indomani della battaglia combattuta a Desio nel 1277, i dipinti, celebrano le gesta di Ottone Visconti, arcivescovo di Milano, che nell’occasione ebbe la meglio su Napo della Torre. E rappresentano una testimonianza importante di pittura a tema profano. L’ambiente, a pianta rettangolare, in cui i Borromeo dirimevano le questioni legate al diritto, è coperto da maestose volte ogivali a crociera. Il soffitto presenta motivi ornamentali con colori brillanti e giochi geometrici che ricordano le stoffe ricamate, mentre lungo le pareti si snodano le scene, articolate in tre registri: in basso, corrono fregi decorativi a losanghe che sostenevano un velario; nella parte centrale, sono narrate le imprese di Ottone; in alto sono raffigurati i pianeti con i segni zodiacali. Le storie, che seguono la cronaca scritta da Stefanardo da Vimercate fra il 1277 e il 1295, si aprono sempre con lo stesso incipit, ovvero con la figura di Ottone a cavallo sulla sinistra. Secondo un’iconografia particolare, che sembra precorrere i cicli del Tre e In alto e in basso due immagini dell’intervento sugli affreschi della Sala della Giustizia nella Rocca Borromeo di Angera.

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Qui accanto la parete della Sala della Giustizia nella cui lunetta compare la raffigurazione di Saturno. A sinistra ancora un particolare del ciclo, nel quale si vede l’arcivescovo Ottone Visconti che rientra a Milano.

Quattrocento, le vicende di cui è protagonista Visconti sono legate agli influssi astrali e alle costellazioni dello zodiaco: il Maestro, ancora ignoto, anticipa proprio ad Angera il legame fra eventi umani e astrologia.

Un artista di grande levatura Come racconta la restauratrice Carlotta Beccaria, l’opera «è fatta tutta ad affresco, da un pittore che conosceva e usava con sicurezza le tecniche dell’epoca». Le capacità narrative e l’esuberanza cromatica con cui lavora ne fanno una figura di notevole interesse nel panorama contemporaneo, con riferimenti culturali che vanno dalla pittura veneziana a quella del Battistero di Parma (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 72-85). Sullo stato di conservazione del ciclo la Beccaria spiega: «Il restauro era volto a ridare adesione e coesione al colore, nelle zone poco stabili. Nell’ottica di garantire sopravvivenza all’opera, abbiamo praticato iniezioni nell’intonaco e abbiamo quindi rimosso numerose stuccature cementizie, con coloriture che pregiudicavano la lettura d’insieme, perché erano dissimili e catturavano lo sguardo con la loro disarmonia». Lo studio dell’intonaco originale ha rivelato che la sabbia utilizzata era di provenienza locale: cosí, per le tamponature, ne è stata usata una che fosse il piú vicino possibile a quella della preparazione duecentesca. «Eseguite le stuccature, siamo passati alla pulitura

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giugno

superficiale degli affreschi, poi abbiamo integrato le piccole lacune che nelle scene della battaglia interrompevano la leggibilità, usando l’acquerello, cioè un materiale reversibile», ricorda la Beccaria. Altrettanto è stato fatto nelle zone decorative. L’intervento, alla fine, ha restituito una lettura d’insieme piú incisiva e dettagliata, rivelando un’immagine piú piena e godibile. Inoltre, grazie al ritrovamento di una gamba di armigero a cavallo, il restauro ha anche permesso di immaginare come la scena doveva proseguire nell’area mancante (info: www.isoleborromee.it). Stefania Romani

Errata corrige con riferimento al Dossier L’umanista che andò alle crociate (vedi «Medioevo» n. 220, aprile 2015) desideriamo precisare che la medaglia in bronzo riprodotta a p. 93 (in basso) ritrae Malatesta Novello (al secolo Domenico Malatesta, 1418-1465) signore di Cesena, e non Sigismondo Malatesta, come indicato in didascalia. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori.

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ANTE PRIMA

Piccoli tesori MOSTRE • Per la prima volta, quaranta preziosi arazzi

di una importante collezione privata vengono esposti al pubblico: un’occasione da non mancare per scoprire un repertorio figurativo meno noto, ma di grande fascino

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a collezione di manufatti tessili raccolta dall’imprenditore e finanziere franco-polacco Romain Zaleski a cui è dedicata la mostra allestita presso la Galleria Moshe Tabibnia di Milano spicca per l’importanza e la peculiarità dei pezzi che la compongono (risalenti ai secoli XV-XVII), sia per la loro peculiarità. Si tratta, infatti, di arazzi di piccole dimensioni, assai rari nel loro genere, spesso provenienti da aree geografiche «anomale» per simili prodotti (come la Svizzera e la Norvegia), e con soggetti particolari: come nel caso dell’uomo e della donna selvaggi, un motivo legato a una leggenda sull’esistenza di creature dei boschi, in voga nei Paesi dell’arco alpino sul finire del Medioevo.

A destra arazzo con l’immagine di un uomo selvaggio, da una narrazione con scene di vita di creature mitologiche. Manifattura svizzera, metà del XV sec.

Oltre la mostra

Nel solco della tradizione Altri esemplari – francesi, fiamminghi e italiani – presentano invece temi piú tradizionali, quali scene tratte dalla letteratura cortese, episodi dell’Antico e Nuovo Testamento, motivi araldici e immagini del A destra grande arazzo in lana e seta con scena di Annunciazione. Manifattura di Bruxelles, 1521-1525.

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mondo vegetale e animale. Da segnalare sono anche i numerosi cuscini in tessuto d’arazzo o ricamati, raffiguranti scene bibliche e intessuti di filo d’oro e seta. E appunto al ricamo, in lana, seta e metallo, è dedicata una sezione dell’allestimento. Non mancano gli arazzi «millefiori», cosí chiamati per la decorazione a motivi vegetali, che ricorre nei manufatti fiamminghi e francesi dei secoli XV–XVI, come sfondo di composizioni figurative o di stemmi araldici.

DOVE E QUANDO

«Racconti tessuti. Arazzi e ricami dal Gotico al Rinascimento» Milano, Galleria Moshe Tabibnia fino all’11 luglio Orario ma-sa, 10,00-19,00 Info www.moshetabibnia.com

Correda l’esposizione un ricco catalogo, che riunisce i saggi di alcuni tra i maggiori esperti di storia del tessuto: Capolavori d’arte tessile. Gli arazzi e i ricami della collezione Zaleski. La Galleria Moshe Tabibnia è anche sede di un centro studi dotato di una biblioteca e di una fototeca specializzati, nonché di un laboratorio di analisi, restauro e conservazione dei manufatti tessili antichi. Fino al 24 giugno, ogni mercoledí, un ciclo di conferenze sull’argomento farà da corollario all’esposizione (il programma dettagliato è disponibile on line sul sito web della galleria). Maria Paola Zanoboni giugno

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ANTE PRIMA

La sentinella nel bosco

APPUNTAMENTI • Condiviso e conteso da alcune delle piú illustri casate liguri, il

castello di Borgo Fornari è una testimonianza importante dell’architettura medievale. Che si accinge a tuffarsi, per un giorno, nelle atmosfere dell’età di Mezzo

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ascosto tra la vegetazione dell’Appennino ligure, il castello di Borgo Fornari (Ronco Scrivia, Genova) domina l’Alta Valle Scrivia. Il nucleo originario dell’imponente struttura difensiva fu probabilmente eretto nel XII secolo, a controllo di una delle principali vie commerciali che collegavano il porto di Genova ai ricchi mercati della Pianura Padana. Raggiungibile a piedi seguendo un viottolo campestre che parte dal complesso architettonico delle Torrette a Ronco Scrivia, la roccaforte, recentemente restaurata, diviene, in estate, teatro di una suggestiva rievocazione storica. Giunta alla VII edizione, la giornata medievale di Borgo Fornari si svolge quest’anno domenica 14 giugno

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ed è una piacevole occasione per riscoprire un territorio ricco di storia e tradizioni culturali. Visite guidate, gruppi in costume, assaggi di prodotti e piatti tipici, attività didattiche e laboratori ludici per i piú piccoli, animano le antiche mura della poderosa fortezza.

Le prime attestazioni Indicato in alcuni documenti d’archivio come «Castello di Vallescrivia», forse per lo stretto collegamento con i piú importanti insediamenti fortificati disseminati nell’Alta valle del torrente Scrivia, il maniero compare già nel Privilegium di Federico Barbarossa del 1176, insieme ad altri luoghi di difesa e osservazione posseduti dal Comune

In alto la rievocazione storica nel castello di Borgo Fornari (Ronco Scrivia, Genova). e dai vescovi di Tortona. Nel XIII la rocca divenne proprietà della famiglia genovese dei Fornari, che promosse anche la nascita del borgo sottostante: il Burgi Novi Fornariorum. Passata agli Spinola nel 1253, nei secoli XIV e XV seguí le alterne vicende politiche e militari della Repubblica di Genova. In realtà, sebbene il castello e il borgo siano stati a lungo gestiti in comproprietà con altre famiglie nobili genovesi (tra le quali i Doria e gli Adorno), il loro destino fu saldamente legato a quello degli Spinola. Tuttavia, alla metà del Seicento, con la costruzione di giugno

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Palazzo Spinola nel centro del paese, la residenza castellana perse la funzione di rappresentanza, sino a divenire abitazione contadina nell’Ottocento. Il castello di Borgo Fornari si presenta oggi come l’esito di un graduale processo costruttivo, che ha interessato ristrutturazioni, demolizioni e aggiunte, a seconda dei ruoli militari e civili, assunti nei diversi periodi. Di particolare interesse è la torre, posta nel lato piú a ovest, alta circa 20 m e caratterizzata da una pianta semicircolare. Innalzata per controllare il territorio e comunicare visivamente con i vicini castelli di Monte Reale e Busalla (ambedue scomparsi), è considerata la parte piú antica dell’edificio.

Tutta la storia in un museo In occasione dei restauri, la Soprintendenza Archeologia della Liguria, in collaborazione con l’Istituto Italiano per l’Archeologia Sperimentale, ha condotto due campagne di scavo. Le indagini hanno restituito vari reperti ceramici, tra cui frammenti di smaltata spagnola e altri oggetti di vita quotidiana di ottima qualità, che attestano un elevato stile di vita. Ospiti del maniero furono anche i sovrani Francesco I di Francia, Carlo V d’Asburgo e Filippo II di Spagna. Il materiale è ora esposto al Museo Archeologico Alta Valle Scrivia, allestito nel Palazzo Marchionale Spinola a Isola del Cantone. Il percorso di visita ripercorre la storia dell’Alta Valle Scrivia dal Neolitico all’epoca feudale. Info Museo Archeologico Alta Valle Scrivia, Isola del Cantone, Genova; www.museoarcheologicoaltavallescrivia.it Orario da aprile a novembre, per visite guidate, 1ª e 3ª domenica del mese, dalle 15,00 alle 18,00; per aperture a richiesta: cell. 347 5430107, e-mail: museoarcheologico@isoladelcantone.ge.it

Un rudere suggestivo La parte residenziale era invece costituita dall’attuale «corte superiore», che, resa agibile da un attento restauro conservativo, ha mantenuto la suggestiva fisionomia di rudere. In quest’ala del fabbricato, un tempo coperta e scandita da piú piani, nella parete muraria a nord sono ancora visibili le tracce di un ampio camino, mentre di notevole pregio è il rivestimento esterno In alto una sezione dell’esposizione didattica sul Medioevo allestita nel castello. A sinistra una veduta della corte superiore del fortilizio.

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giugno

in mattoni, che ricopre la parte superiore delle murature. Ritenuto un’eccezione nella tipologia edilizia dei castelli in Liguria, è caratterizzato da una superficie decorata con un motivo ripetuto a triangoli, creato mediante una leggera sfalsatura delle mattonelle. A testimoniare la funzione residenziale dell’architettura è anche la volta in laterizi visibile nella parte di sud-est. Di essa rimane solo l’imposta a sinistra, in passato inglobata in una torretta angolare. Si tratta di un particolare stilistico molto raffinato, che attesta un intento decorativo difficilmente riscontrabile in altri fortilizi della zona e sembrerebbe risalire ai secoli XV-XVI. Nella «corte inferiore», che ospita anche il casolare ottocentesco, grazie al recupero degli spazi, al ripristino del tetto e alla costruzione dei solai lignei crollati, è stato allestito un percorso didattico, con aule e laboratori dedicati alla vita nel Medioevo. Riproduzioni e diorami contribuiscono a ricreare l’atmosfera d’un tempo. Il castello è aperto da novembre a febbraio su prenotazione; negli altri mesi, domenica dalle 10,30 alle 17,30 (agosto fino alle 18.00). Info: tel. 010 9659025, cell. 349 4986659. Chiara Parente

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ANTE PRIMA

Echi di un antico naufragio

APPUNTAMENTI • Avigliano ricorda

la sua fondazione, che la leggenda attribuisce all’equipaggio di una nave turca, associandola alla festa in onore di san Vito

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econdo un antico racconto popolare, il piccolo centro lucano di Avigliano (in provincia di Potenza) nacque nell’Alto Medioevo per iniziativa di un gruppo di «orientali», che qui si rifugiò in seguito alla perdita della propria nave durante un combattimento. In occasione delle ricorrenze nelle proprie terre d’origine, i nuovi venuti rievocavano l’episodio del vascello affondato, portando in giro per il paese un’imbarcazione al cui centro era montato un piccolo castello. La tradizione si perpetua ancora oggi annualmente, il 14 giugno, vigilia della festa di san Vito, patrono d’Avigliano. Il corteo storico è aperto dal «gran Turco», che fuma una grossa pipa, seguito dalla nave, dalla banda musicale e da 300 figuranti vestiti all’orientale, «i Turchi», che sfilano fra la folla a piedi o a cavallo, impugnando sciabole e fucili. Questa tradizione viene riproposta dalla locale associazione culturale e ricreativa dedicata a san Vito, martire cristiano nato in Sicilia nel 285 e morto il 15 giugno 304. Secondo

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In alto una veduta di Avigliano. A destra il trasporto della nave del «gran Turco» in occasione della festa che si celebra ogni anno in onore di san Vito. un’antica leggenda, a soli sette anni Vito iniziò a compiere alcuni prodigi, tanto che il governatore Valeriano lo fece arrestare, sottoponendolo a tortura per fargli rinnegare la propria fede. Si narra, inoltre, che Vito, insieme ai suoi precettori Modesto e Crescenza, fosse stato giustiziato dall’imperatore Diocleziano in Lucania, dove il fiume Tanagro confluisce nel fiume Sele.

Quella danza non s’ha da fare Oggi il santo è invocato per scongiurare il male che da lui prende il nome, «il ballo di San Vito», ovvero la corea, e contro i morsi di bestie velenose o idrofobe. L’origine del suo culto ad Avigliano risale al Medioevo, anche se, ufficialmente, è il patrono del Comune soltanto dal 1895. Nella chiesa a lui dedicata, in una teca d’argento, un tempo era custodita una reliquia del braccio del

santo, trafugata negli anni Ottanta del secolo scorso. Attualmente, la sera del 14 giugno, ha luogo la processione dalla chiesa di S. Vito alla Basilica, mentre il 15 giugno la processione percorre lo stesso percorso al contrario. Tiziano Zaccaria giugno

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Il gallo cannone APPUNTAMENTI • Il lancio di viveri come espediente per scoraggiare il protrarsi

di un assedio ricorre in un numero forse incalcolabile di versioni. Fra le tante, c’è anche quella che, in Croazia, vede protagonista un ignaro pennuto...

Đ

urdevac è una cittadina di poco meno di 10 000 abitanti, situata nella parte nord-orientale della Croazia, a 15 km dal confine con l’Ungheria. Centro di origine medievale, è citato per la prima volta nel 1267 in un documento del re Béla IV d’Ungheria, regno al quale apparteneva. Nel XV secolo divenne una città-mercato e fu circondata da mura difensive, con alcune torri e ponti d’ingresso, fortificazioni di cui oggi rimane ben poco. Storicamente, Đurdevac è molto legata alla leggenda dei «Picoki», secondo la quale, nell’estate del 1522, in una situazione disperata, i suoi abitanti ricorsero a uno stratagemma per liberarsi dalla minaccia dell’esercito turco guidato dal Bei Ulam. Dopo un precedente tentativo malriuscito di conquistare la fortificazione, il condottiero ottomano decise di mettere in atto un lungo assedio alla cittadina, allo scopo di affamarne la popolazione, fino a costringerla alla resa. Ma quando dentro le mura cittadine come cibo rimase soltanto un galletto, gli abitanti decisero di spararlo con un cannone contro i Turchi. Il Bei Ulam, credendo che Đurdevac fosse ancora ben fornita di generi alimentari, ritirò scoraggiato il proprio esercito.

Non è vero, ma ci credo Da allora i residenti del piccolo centro vennero denominati picoki, ovvero «galletti». Naturalmente si tratta di un racconto popolare che ha poco di storicamente provato, tuttavia ancora oggi il gallo è

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Due immagini della rappresentazione della «Leggenda dei Picoki», che ogni anno si organizza a Ðurdevac, per ricordare la portentosa fine dell’assedio turco del 1522.

rappresentato nello stemma araldico del Comune croato. E ogni anno, per tre giorni, alla fine di giugno (quest’anno da venerdí 26 a domenica 28), l’episodio viene rievocato, nel luogo in cui si sarebbe svolto, con una rappresentazione spettacolare, messa in scena da centinaia di comparse. Riconosciuta come patrimonio culturale immateriale della Croazia, la rappresentazione della «Leggenda dei Picoki», è solo una parte del programma di tre giorni intitolato

«Picokijada». Nel corso dell’intero week end hanno luogo vari eventi: spettacoli culturali, giochi popolari, appuntamenti artistici, ricostruzione di antichi mestieri, artigianato e tradizioni folkloristiche. Il turista può cogliere l’occasione per visitare le Đurdevacki peski, le «sabbie di Đurdevac», un piccolo deserto situato nelle vicinanze, su un territorio paludoso, con una flora e una fauna particolare, in mezzo ai boschi di pini. T. Z. giugno

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

LUOGHI DEL MISTERO Viaggio negli enigmi e nelle leggende dell’Italia medievale


IL NUOVO DOSSIER DI MEDIOEVO

Un itinerario attraverso l’intero territorio nazionale, alla scoperta di un Medioevo arcano, che spazia dal misticismo alle tradizioni esoteriche, dalla mitologia alle suggestioni letterarie: laghi, chiese, boschi, castelli, ponti, grotte, tombe, montagne, ogni angolo d’Italia nasconde un segreto...

È

davvero esistita l’opulenta città di Felik sul Monte Rosa? Quali verità hanno appurato storici e scienziati sulla Sindone di Torino e sul Sacro Catino di Genova? Cosa nasconde la grotta di San Giovanni d’Antro in Friuli? Come nacque la tradizione oracolare della Bocca della Verità? Si trovano sul fiume Busento le spoglie e il tesoro del re visigoto Alarico? Quali erano i nascondigli della terribile «Mosca Macellaia» in Sardegna? Sono solo alcuni dei temi sui quali «Medioevo» ha svolto un’indagine nel suo nuovo Dossier dedicato ai grandi misteri dell’età di Mezzo, un viaggio suggestivo e a tratti inquietante che abbraccia l’intero territorio nazionale: dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, ogni regione cela all’interno dei propri confini luoghi enigmatici e leggende che spesso si intrecciano in modo inestricabile con le vicende storiche locali. Ne scaturisce un racconto arcano, in costante

MEDIOEVO

giugno

equilibrio tra fantasia popolare e realtà, che trae ispirazione da una sorprendente multidisciplinarietà di fonti: dall’archeologia all’anatomia patologica, dalla cronaca medievale alla letteratura, dall’esoterismo alla teologia, dall’architettura all’arte, dalla chimica all’antropologia culturale, dalla semplice superstizione alle prove concrete fornite dalla tecnologia. L’Italia è una terra di misteri che la storia e la scienza non dissolvono, ma contribuiscono ad alimentare… In alto la Bocca della Verità che, dal 1632, è murata nel portico della chiesa romana di S. Maria in Cosmedin. La celebre tradizione oracolare della curiosa scultura, che, in realtà, è un chiusino di epoca classica scolpito in forma di mascherone, risale al Medioevo. Nella pagina accanto le scale interne della Torre degli Asinelli di Bologna (XII sec.), uno dei simboli della città. Alla sua costruzione sono legati enigmi architettonici e leggende.

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AGENDA DEL MESE

Mostre REGGIO EMILIA PIERO DELLA FRANCESCA. IL DISEGNO TRA ARTE E SCIENZA U Palazzo Magnani fino al 14 giugno

Attorno al Maestro di Sansepolcro aleggia da sempre un velo di mistero e di enigmaticità dovuto sia ai pochi documenti che

lo riguardano, sia alla singolarità del suo linguaggio espressivo che coniuga, magicamente in equilibrio perfetto, la plasticità e la monumentalità di Giotto e Masaccio con una straordinaria capacità di astrazione e sospensione. Un’essenzialità e purezza di forme che trovano fondamento nei suoi interessi matematici e geometrici mirabilmente espressi nei trattati che ci ha lasciato: l’Abaco, il Libellus de quinque corporibus regularibus, il De Prospecitva pingendi e il da poco scoperto Archimede. Ed è proprio su questi preziosi testimoni

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a cura di Stefano Mammini

dell’opera scritto-grafica di Piero, in specie sul De prospectiva pingendi, che la mostra di Palazzo Magnani prende corpo. L’esposizione presenta la figura del grande artista nella sua doppia veste di disegnatore e grande matematico. Per l’occasione è riunito a Palazzo Magnani – fatto straordinario, per

la prima volta da mezzo millennio – l’intero corpus grafico e teorico di Piero della Francesca: i sette esemplari, tra latini e volgari, del De Prospectiva Pingendi (conservati a Bordeaux, Londra, Milano, Parigi, Parma, Reggio Emilia) i due codici dell’Abaco (Firenze), il Libellus de quinque corporibus regularibus (Città del Vaticano) e Archimede (Firenze). info tel. 0522 454437 o 444446; e-mail: info@palazzomagnani.it FIRENZE IL MEDIOEVO IN VIAGGIO U Museo Nazionale del Bargello fino al 21 giugno

La mostra evoca

categorie diverse di viaggiatori – mercanti, pellegrini, principi, artisti – e indaga sulle motivazioni che li spinsero a lasciare le proprie dimore e la propria terra per lanciarsi in avventure che, in realtà, avevano inizio proprio nel cuore delle rispettive abitazioni. Il viaggio è dunque inteso nella sua accezione piú ampia: da quello simbolico, che poteva durare poche ore o consistere nel semplice attraversamento di una strada (come nel caso della sposa che, all’indomani delle nozze, s’insediava sotto il nuovo tetto coniugale), alle grandi spedizioni militari o scientifiche.

Un’attenzione particolare è inoltre riservata alle peregrinazioni dei grandi artisti, sulle orme dei ripetuti viaggi compiuti da Albrecht Dürer tra la Germania e l’Italia. info tel. 055 2388606; www.polomuseale.firenze.it

MILANO ARTE LOMBARDA DAI VISCONTI AGLI SFORZA. MILANO AL CENTRO DELL’EUROPA U Palazzo Reale fino al 28 giugno

Ispirata in modo programmatico, ma criticamente rivisto, alla straordinaria esposizione Arte lombarda dai Visconti agli Sforza – allestita nel 1958 nella medesima sede espositiva risanata dopo i bombardamenti del 1943 –, l’attuale rassegna ripensa quel progetto nella chiave piú pertinente e attuale: quella della centralità di Milano e della Lombardia, alle radici della cultura dell’Europa moderna. Prende in esame lo stesso periodo storico, dunque dal primo Trecento al primo Cinquecento: tutta la signoria dei Visconti, poi degli Sforza, fino alla frattura costituita dall’arrivo dei Francesi. I due secoli circa di cui la mostra si occupa sono tra i piú straordinari della storia milanese e lombarda, celebrati dalla storiografia e fissati nella memoria comune come una sorta di età dell’oro, il primo momento di compiuta realizzazione di una civiltà di corte dal respiro europeo. Il percorso espositivo si articola in sezioni e sottosezioni; l’ordine cronologico illustra la progressione degli eventi e la densità della

produzione artistica: pittura, scultura, oreficeria, miniatura, vetrate, con una vitalità figurativa che soddisfa le esigenze della civiltà cortese e conquista rinomanza internazionale al punto da divenire sigla d’eccellenza riconosciuta: l’«ouvraige de Lombardie». info tel. 02 0202 TORINO RAFFAELLO: LA MADONNA DEL DIVINO AMORE U Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli fino al 28 giugno

Negli ultimi anni a Raffaello sono state dedicate mostre importanti, che hanno messo a fuoco i diversi momenti del suo percorso. Il Museo di Capodimonte vi ha partecipato con i suoi dipinti, realizzando importanti interventi di restauro e campagne di indagini che hanno contribuito significativamente alla comprensione del complesso e giugno

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affascinante iter creativo del maestro, e in particolare della celeberrima Madonna del Divino Amore, ora giunta a Torino per la prima volta. La mostra alla Pinacoteca Agnelli diventa l’occasione per presentare in maniera esauriente e significativa i risultati di questi studi e attraverso l’utilizzo di supporti digitali, che rendano fruibili le indagini riflettografiche e consentano di leggere – anche al grande pubblico – la struttura interna del dipinto e le numerose varianti e i pentimenti dell’artista durante la stesura dell’opera, in serrato dialogo con i disegni e gli schizzi preparatori del maestro urbinate conservati nelle piú prestigiose collezioni grafiche europee, due provenienti dall’Albertina di Vienna e uno dal museo delle Belle Arti di Lille. info tel. 011 0062713; www.pinacoteca-agnelli.it CONEGLIANO (TREVISO) CARPACCIO. VITTORE E BENEDETTO DA VENEZIA ALL’ISTRIA. L’AUTUNNO MAGICO DI UN MAESTRO E LA SUA EREDITÀ U Palazzo Sarcinelli fino al 28 giugno

La mostra indaga e illustra gli ultimi dieci anni dell’attività di Vittore Carpaccio (dal 1515 al 1525 circa), considerato il piú grande narratore, «teatralizzatore» e vedutista ante litteram

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giugno

nella pittura veneziana, anni che sono segnati da un’importante svolta nella sua poetica. Per l’occasione, sono state riunite opere di grandissima qualità e originalità, dipinti celebri da ritrovare come il San Giorgio che lotta con il drago di S. Giorgio Maggiore, la Pala di Pirano, il Polittico da Pozzale del Cadore, o la particolarissima Entrata del podestà Contarini a Capodistria che, nella prospettiva adottata, consente allo spettatore un insolito e realistico sguardo sulla città; opere da riscoprire come le clamorose portelle d’organo dal Duomo di Capodistria o il bellissimo Trittico di S. Fosca ricomposto per la prima volta dopo cinquant’anni, in collaborazione con Permasteelisa Group, da Zagabria, Venezia e Bergamo in occasione della mostra; e ancora dipinti da scoprire, di fatto mai visti, come la novità assoluta del Padre eterno tra i

cherubini da Sirtori (Lecco). info tel. 199 151 114; www.mostracarpaccio.it ZURIGO 1515 MARIGNANO U Museo Nazionale Svizzero fino al 28 giugno

A 500 anni dalla fine delle «guerre d’Italia», il Museo Nazionale Zurigo rievoca un periodo straordinario della storia elvetica, quando in Europa la Confederazione era una potenza militare. «1515 Marignano» spiega le cause e le conseguenze della «battaglia dei giganti», che vide schierati 30 000 uomini in entrambi gli eserciti e

fece dalle 10 000 alle 12 000 vittime. Che cosa cercavano gli Svizzeri in Lombardia? Come mai si trovarono a battersi ad armi pari per il controllo del ducato di Milano, in piena espansione economica? La mostra cerca anche di illustrare come la Svizzera accusò la sconfitta, spiega il vantaggioso trattato di pace con la Francia e sottolinea il ruolo di Marignano nella storia della Confederazione. info www.nationalmuseum.ch

CITTÀ DEL VATICANO SCULTURE PREZIOSE. OREFICERIA SACRA NEL LAZIO DAL XIII AL XVIII SECOLO U Braccio di Carlo Magno fino al 30 giugno

Antiche preziose sculture in argento, bronzo e rame dorati con gemme incastonate, opere sconosciute custodite nelle sacrestie o conservate nelle

raccolte diocesane oltre che nelle Abbazie di Casamari e di Montecassino, in alcuni istituti religiosi e comuni del Lazio, sono visibili per rendere note le plurisecolari testimonianze di fede costituite dagli straordinari capolavori di grandi artefici dovuti alla munificenza di committenti religiosi e laici. Sono statue, reliquiari antropomorfi (busti, teste, bracci) e a croce, ostensori, croci processionali, vasi sacri e suppellettili la cui decorazione privilegia il rilievo e la microscultura figurativa, fornendo un’esemplificazione significativa di quanto realizzato – dal Tardo Medioevo al Tardo Barocco –, sia nell’ambito delle «arti preziose» locali, sia in quello del patrimonio costituito da opere giunte da culture artistiche diverse. info tel. 06 69884095 URBINO LO STUDIOLO DEL DUCA. IL RITORNO DEGLI UOMINI ILLUSTRI ALLA CORTE DI URBINO U Galleria Nazionale delle Marche fino al 4 luglio

Lo Studiolo d’Urbino rispondeva all’antica idea di ricreare un ambiente adeguato a favorire studio e riflessione, radunando immagini di sapienti e oggetti rari. Un trionfo illusionistico coronato dai ritratti di 28

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AGENDA DEL MESE meccanica e cosí via, temi che lo hanno reso un alfiere dell’unità del sapere, con l’intrecciarsi continuo nella sua opera di scienze e arti. info tel. 02 92800375; www.skiragrandimostre.it/ leonardo/ PARIGI I TUDOR U Musée du Luxembourg fino al 19 luglio

Uomini Illustri, tra cui Platone, Aristotele, san Gregorio, san Girolamo, Tolomeo, Boezio... Con la fine dei Della Rovere e la devoluzione del ducato di Urbino alla Stato pontificio, ci fu lo smembramento dei dipinti: un’operazione che portò alla parcellizzazione delle immagini e cosí ciò che era stato concepito come unicum fu trasformato in una serie di ritratti individuali. Oggi solo la metà di quei ritratti è conservata nel Palazzo divenuto sede della Galleria Nazionale delle Marche, mentre le restanti 14 tavole, giunte al Museo del Louvre nel 1863, non sono mai tornate prima d’ora in Italia. Lo fanno in questa occasione, ricollocate nella loro posizione originale. info www. mostrastudiolourbino.it

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MILANO LEONARDO DA VINCI, 1452-1519 U Palazzo Reale fino al 19 luglio 2015

L’esposizione presenta una visione di Leonardo non mitografica, né retorica, né celebrativa, ma trasversale su tutta l’opera del poliedrico personaggio, considerato come artista e scienziato attraverso alcuni temi centrali individuati dai curatori: il disegno, fondamentale nell’opera del genio vinciano; il continuo paragone tra le arti (disegno, pittura, scultura); il confronto con l’antico; la novità assoluta dei moti dell’animo; il suo tendere verso progetti utopistici, veri e propri sogni, come poter volare o camminare sull’acqua (per cui è allestita un’apposita sezione); l’automazione

Fra le dinastie succedutesi sul trono inglese, quella dei Tudor, al potere tra il 1485 e il 1603, è una delle piú note. Ne fecero parte personaggi che hanno vissuto vicende quasi leggendarie – basti pensare a Enrico VIII –, ma che non devono però oscurare i molti meriti acquisiti nell’attività politica e culturale. È questo il filo conduttore della mostra al Musée du Luxembourg, che vuole dunque presentare il vero volto dei Tudor, ai quali si devono, per esempio, importanti commissioni in campo artistico – molte delle quali affidate a maestri chiamati dall’Italia – o significative scelte di campo in materia religiosa, prima fra tutte la decisione di rompere con la Chiesa cattolica romana, determinando il cosiddetto «scisma anglicano». info www. museeduluxembourg.fr

TRA QUATTRO E CINQUECENTO U Musei Civici agli Eremitani e Palazzo Zuckermann fino al 26 luglio

La presenza di Donatello a Padova innova profondamente il linguaggio della scultura in Italia e fa della città uno dei centri d’irradiazione del Rinascimento. La lezione del Maestro rivive ora in uno straordinario percorso, che dai capolavori di Donatello - uno dei rilievi della base del monumento al Gattamelata, una inedita crocifissione bronzea e i fondamentali calchi ottocenteschi con i rilievi dell’altare del Santo – conduce alla scoperta di preziose sculture in bronzo e terracotta degli artisti che continuarono e svilupparono la sua rivoluzione nell’ambito della Serenissima. Testimonianze dell’altissima qualità raggiunta da Bartolomeo Bellano, Andrea Briosco detto il Riccio e Severo da Ravenna sono riunite per

la prima volta agli Eremitani, mentre l’influenza del nuovo linguaggio rinascimentale nelle oreficerie sacre risplende nel vicino Palazzo Zuckermann, dove prosegue la mostra, con i preziosi manufatti del Tesoro del Santo. info Musei Civici agli Eremitani, tel. 049 8204551; Palazzo Zuckermann, tel. 049 8205664; http://padovacultura. padovanet.it/it/musei/ PADOVA DONATELLO SVELATO. CAPOLAVORI A CONFRONTO U Museo Diocesano fino al 26 luglio

La scelta del termine «svelato» utilizzato nel titolo non è casuale: protagonista dell’esposizione, infatti, è un Donatello che va ad aggiungersi al catalogo delle opere certe del maestro fiorentino, il Crocifisso dell’antica chiesa padovana di S. Maria

PADOVA DONATELLO E LA SUA LEZIONE. SCULTURE E OREFICERIE A PADOVA

giugno

MEDIOEVO


dei Servi. Ad affiancarlo, nel Salone dei Vescovi, sono quello realizzato per la chiesa di S. Croce in Firenze (1406-08) e quello bronzeo della basilica padovana di S. Antonio (1443-1449). L’opera, oltre che nell’attribuzione, è stata svelata anche nella sostanza, perché, sino al restauro appena ultimato, la scultura lignea si presentava con le parvenze di un bronzo, per effetto di uno spesso strato di ridipinture. Ora, invece, ne sono state recuperate la straordinaria finezza dell’intaglio e la cromia originale. info tel. 049 8761924 o 049 652855; www. museodiocesanopadova.it; https://www.facebook. com/donatellosvelato PARIGI SCULTURE SVEVE DELLA FINE DEL MEDIOEVO U Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 27 luglio

Tra il XV e il XVI secolo, la Svevia, regione storica che si estende nella Germania sud-occidentale, fra la Foresta Nera e la Baviera, fu la fucina di una produzione

MEDIOEVO

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MOSTRE • Un palazzo e la città U Firenze – Museo Salvatore Ferragamo

fino al 3 aprile 2016 info tel. 055 3562846; e-mail: museoferragamo@ferragamo.com; www.ferragamo.com

O

rganizzata in occasione delle celebrazioni del 150° Anniversario di Firenze Capitale del Regno d’Italia (1865-1870), che nel 1865 aveva in Palazzo Spini Feroni la sede del Municipio, la mostra presenta opere d’arte e documenti provenienti da musei e collezioni private e racconta le complesse vicende storiche dell’edificio e dei suoi abitanti. Le origini del palazzo risalgono al 1289, dopo che un’alluvione aveva distrutto le case degli Spini, ricca e potente famiglia proprietaria di una delle prime società bancarie d’Europa. Committente dell’edificio fu Ruggeri, detto Geri, la persona piú illustre del casato, banchiere di papa Bonifacio VIII. La celebrità di cui Geri godette presso i contemporanei si estende anche al Decamerone di Giovanni Boccaccio. Due versioni dell’opera, una del XV e l’altra del XVI secolo, documentano le due novelle dedicate alla moglie dello Spini. L’indiscussa fama di Geri si riverbera sulla dimora, che da quel momento diventa un punto di riferimento della città e delle sue vedute, come si può vedere, per esempio, anche in una magnifica xilografia di Firenze nel Quattrocento, nella quale il palazzo spicca in tutta la sua evidenza nel panorama della città. L’allestimento è dominato da due grandi forzieri che contengono le opere d’arte e i documenti: spiccano, tra gli altri, un dipinto seicentesco che raffigura l’albero genealogico degli Spini; una pergamena del 1277 che dimostra l’acquisto degli Spini di un terreno e di una casa nei pressi del ponte Santa Trinita; la storia della famiglia nel Quattrocento scritta da un discendente di Geri, Doffo; nonché l’incisione del Lasinio che riprende l’affresco di Domenico del Ghirlandaio con la Resurrezione di un bambino di Casa Spini, dipinto nella cappella Sassetti nella chiesa di S. Trinita, prospiciente il palazzo. Due modelli in scala, realizzati per l’occasione dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, riproducono l’area cittadina in cui fu costruito il palazzo, e la sua architettura, come appare nella veduta quattrocentesca. scultorea copiosa e raffinata, le cui opere si diffusero ben oltre i confini della loro regione d’origine. La rassegna parigina ne

riunisce una trentina e pone sotto i riflettori le creazioni di maestri come Niklaus Weckmann, Daniel Mauch,

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AGENDA DEL MESE Ivo Strigel, Lux Maurus o Jörg Lederer. Distribuite in un percorso cronologico e geografico, si tratta di sculture perlopiú a soggetto religioso, destinate all’arredo delle chiese, che si distinguono per la grazia dei tipi femminili e la sapiente resa dei drappeggi. Merita inoltre d’essere segnalato il fatto che la mostra riunisce alcuni gruppi da tempo smembrati e dispersi in varie collezioni museali: è il caso del Cristo in preghiera del Louvre, che «ritrova» due dei tre Apostoli dormienti (oggi al Maximilianmuseum di Augsburg), insieme ai quali animava una monumentale composizione del Monte degli Ulivi, probabilmente realizzata per l’abbazia di Wettenhausen di Kammeltal. info www.musee-moyenage.fr

MILANO SOTTO IL SEGNO DI LEONARDO. LA MAGNIFICENZA DELLA CORTE SFORZESCA NELLE COLLEZIONI DEL MUSEO POLDI PEZZOLI U Museo Poldi Pezzoli fino al 28 settembre

Negli ultimi decenni del Quattrocento, sotto il ducato di Ludovico il Moro, Milano diventò la capitale europea piú importante nella produzione e nell’innovazione delle arti del lusso oltre che della pittura, anche

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grazie alla presenza di Leonardo da Vinci. Tra gli altri, la mostra testimonia l’influenza del maestro sull’arte milanese di quel periodo attraverso un piccolo bronzo, recentemente indagato dagli studiosi: si tratta di un guerriero con scudo che riprende una piccola figura accovacciata sotto gli zoccoli di un cavallo, delineata in un’incisione che riproduce i disegni di Leonardo preparatori per il monumento equestre di Francesco Sforza, padre di Ludovico il Moro. info tel. 02 794889; www.museopoldipezzoli.it FIRENZE L’ARTE DI FRANCESCO. CAPOLAVORI D’ARTE E TERRE D’ASIA DAL XIII AL XV SECOLO U Galleria dell’Accademia fino all’11 ottobre

Quale idea del mondo aveva san Francesco? A quali spazi guardavano i suoi primi seguaci? In quali direzioni si sono sviluppate le loro azioni di evangelizzazione? Da questi interrogativi nasce la mostra allestita alla Galleria

dell’Accademia. Il percorso espositivo presenta non solo i viaggi missionari, ma la stessa idea dell’Oriente sviluppata da Francesco e dai suoi, in una sorta di ridefinizione culturale e topografica dell’ecumene. Da una parte, si susseguono mappe, codici che riportano relazioni di viaggio, attestazioni dei contatti dei latini con i Mongoli mantenuti in chiave antislamica (nel 1246 Khan Güyük scrisse a papa Innocenzo IV una lettera conservata nell’Archivio Segreto Vaticano). Dall’altra, un gruppo straordinario di reperti fa intuire la rete delle presenze cristiane che i Francescani incontrarono al loro arrivo all’interno del continente. info tel. 055 294883; e-mail: firenzemusei@ operalaboratori.com; www.unannoadarte.it MEISSEN PROST! 1000 ANNI DI BIRRA IN SASSONIA U Albrechtsburg fino al 1° novembre

Nel 1015, Meissen, assediata dalle truppe polacche, sfuggí alla devastazione perché le donne, in mancanza di acqua, soffocarono le fiamme con la birra. L’episodio è considerato il riferimento cronologico al quale far risalire una tradizione particolarmente radicata in Sassonia, alla quale si è voluto rendere omaggio con la

mostra allestita nelle sale dell’Albrechtsburg, il piú antico castello tedesco. L’esposizione affianca esperienze sensoriali, apparati multimediali, degustazioni e assaggi a una ricca selezione di materiali e documenti. Né mancano gli approfondimenti sulla

produzione, sui segreti legati alle varianti della ricetta originale, sugli strumenti impiegati e ai prodotti usati, come l’orzo e il luppolo, introdotto proprio nel Medioevo, forse negli ultimi decenni del Duecento. info www.albrechtsburgmeissen.de

Appuntamenti CANOSSA (REGGIO EMILIA) «CANOSSA: SEGNO, SIMBOLO, STORIA», CONVEGNO NAZIONALE U Teatro Comunale 6 e 7 giugno

l’occasione per fare conoscere i lavori di scavo che il Club Alpino Italiano ha promosso nell’antico borgo canossano, che hanno permesso di definire situazioni e manufatti inediti. info deputazione reggioemilia@gmail.com

LOMELLO (PAVIA) LAUMELLUM: LA GRANDE FESTA LONGOBARDA PER LE

Organizzato nel IX centenario della morte della contessa Matilde, l’incontro approfondisce temi scelti per il loro interesse scientifico, tra cui quello del castello di Canossa nel paesaggio e la relazione tra il sistema difensivo e il territorio; la storia del luogo e dei suoi edifici (la fortificazione, il «palazzo», la chiesa) e la funzione memoriale a essi legata; Canossa come centro di un potere dinastico e manifestazione della grandezza di una stirpe. Il Convegno sarà inoltre

NOZZE DI TEODOLINDA dal 19 al 21 giugno

L’edizione 2015 della manifestazione, evento unico in Lombardia, è caratterizzata dalla presenza di un campo longobardo di notevole spessore filologico culturale. Questa tre giorni longobarda giugno

MEDIOEVO


celebra l’incontro e gli sponsali tra la regina Teodolinda e il suo secondo marito Agilulfo, duca di Torino, fatti avvenuti a Lomello nell’anno 590 d.C. Sono in programma conferenze, visite guidate, nonché giochi, tornei, una mostra di riproduzioni di oggetti e monili longobardi e il banchetto reale. info Pro Loco Lomello, tel. 327 1085241; e-mail: prolocolomello@ yahoo.it; Blog: http:// prolocolomello.blogspot. it/; Facebook: https:// it-it.facebook.com/ festalongobarda

POPPI (AREZZO)

Purgatorio, dedicato alla figura di Buonconte da Montefeltro, caduto nello scontro, e verrà presentato il volume che propone una storia a fumetti dell’episodio militare. info cell. 347 1479265 oppure Biblioteca Rilliana di Poppi, tel. 0575 502220 BENEVENTO BENEVENTO LONGOBARDA. LA CONTESA DI SANT’ELIANO U Sedi varie 25-28 giugno

La manifestazione consiste in un ciclo di rievocazioni storiche incentrate sulla figura

GIORNATA DI STUDI SU DANTE. IN OCCASIONE DEL 750° DELLA NASCITA U Castello 21 giugno

Nella magnifica cornice del castello di Poppi, studiosi italiani e stranieri, tra cui Federico Canaccini, docente di storia medievale presso la Uninettuno University di Roma, nonché collaboratore di «Medioevo», affrontano vari aspetti del pensiero dantesco. Fanno da corollario all’incontro una mostra sui manoscritti danteschi della Biblioteca Rilliana e un’esposizione sulla battaglia combattuta a Campaldino nel 1289 (alla quale il poeta partecipò, nelle file dei guelfi). A conclusione della giornata, l’attrice Alessandra Aricò leggerà il V canto del

MEDIOEVO

giugno

di Arechi II, ultimo duca e primo principe di Benevento, a cui sono legati alcuni avvenimenti fondamentali per la storia di Benevento. Quest’anno è stata annunciata la partecipazione di sette gruppi storici e nel programma sono anche compresi incontri di approfondimento sulla storia dei Longobardi e sulla vita nel Medioevo. Tra questi, segnaliamo quello con Elena Percivaldi, previsto per giovedí 26, alle 18,00, nella Sala Consiliare

APPUNTAMENTI • Palio di San Pietro U Abbiategrasso (Milano)

14 giugno info www.paliodisanpietro.it

O

gni anno, nella seconda domenica di giugno, la cittadina lombarda di Abbiategrasso è animata dal Palio di San Pietro, nato nel 1980 da un’intuizione del sacerdote dell’Oratorio di S. Pietro, don Luigi Alberio con l’aiuto di Augusto Rosetta. Oggi, nella domenica che precede il Palio, le sei contrade di Gallo, Piattina, Legnano, Nuova Primavera Cervia, San Rocco e Sforza sfilano nei propri rioni, poi a fine mattinata tutti i figuranti si riuniscono nella centrale Piazza Marconi, dove sulla facciata del municipio viene mostrato alla comunità il «cencio» che andrà in premio al vincitore. La seconda domenica di giugno è il gran giorno. Si comincia al mattino con la Santa Messa propiziatoria, dopodiché, sul sagrato della chiesa di S. Pietro viene impartita la benedizione a cavalli, fantini, capitani di contrada e al cencio. Nel pomeriggio, le contrade si ritrovano nel cortile del Castello Visconteo, da dove parte una sfilata formata da figuranti in costumi medievali a piedi e a cavallo, accompagnati da gruppi di musici e sbandieratori. Il corteo si snoda nelle vie del centro per giungere al campo del Palio allestito nel quartiere Fiera. Qui il Gran Magistrato, assieme al sindaco, estrae la posizione di partenza delle sei contrade al canapo. Alle 18,00, il mossiere chiama nell’ordine stabilito i cavalli. Alla «mossa buona», cioè quella dove tutti i cavalli sono allineati allo stesso modo, il canapo viene sganciato e la corsa parte. Al termine di cinque giri di pista, il capitano della contrada vincitrice riceve il cencio dal sindaco. Tiziano Zaccaria

della Rocca dei Rettori. info www. beneventolongobarda.it; e-mail: info@ beneventolongobarda.it SIENA LA PORTA DEL CIELO U Duomo fino al 31 ottobre

L’Opera della Metropolitana torna a promuovere l’apertura straordinaria della

«Porta del Cielo», integrando alle classiche regole di prenotazione e visita guidata, nuove modalità di accesso. La visita ai Sottotetti del Duomo, della durata di 30 minuti, e alla Cattedrale con la Libreria Piccolomini può essere effettuata ogni mezz’ora in base agli orari di apertura al

pubblico della Cattedrale. Ogni visitatore riceverà in omaggio la Roof Map, uno strumento utile per l’effettuazione della visita, che si trasforma poi in un gadget da conservare come ricordo, disponibile in piú lingue. info call center

0577 286300 (lu-ve, 9,00-17,00)

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cristiani d’oriente

Storie di martiri dimenticati di Renata Salvarani

Durante l’Alto Medioevo, alcuni cristiani dei domini islamici – uccisi in odio della fede – non furono mai canonizzati. Ma quali furono i veri motivi di questa strana «rimozione»? E con quali motivazioni giustificano il sacrificio estremo le altre religioni monoteistiche, l’ebraismo e l’Islam?

T T

ra il VII e il IX secolo, l’islamizzazione è stata un fenomeno imponente, tale da interessare – tra l’Arabia, la Mesopotamia, l’Africa e il Mediterraneo – milioni di persone, aree urbane e rurali, intere società che prima erano cristiane o divise fra una molteplicità di fedi e tradizioni. La diffusione della religione fondata da Maometto non fu incruenta: il ricorso alla violenza si rivelò sistematico, sia in battaglia, sia come mezzo di pressione. Né si poteva tornare sui propri passi: l’apostasia dell’Islam e la conversione (o il ritorno) ad altre fedi erano punite con la morte, cosí come la blasfemia, allargata a includere critiche e discussioni sul Corano e sul Profeta. Proprio questi due «reati» sono i pilastri della creazione di domini politici basati sulla sharia (la legge sacra dell’islamismo, dal verbo shara’a, «iniziare», n.d.r.), nonché la causa di esecuzioni capitali di cristiani. A fronte di tutto questo, pochi, tra quanti furono messi a morte, divennero oggetto di culto nell’Alto Medioevo, inseriti nei martirologi greci, latini, armeni, siriaci, copti, africani. Le agiografie martiriali si concentrano nei circuiti dei monasteri; accenni compaiono nelle cronache cristiane; conferme o, spesso, racconti piú dettagliati sono pre-

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A sinistra Tbilisi, chiesa di S. Abo. Mosaico raffigurante Abo in posa benedicente, con in mano la croce del martirio. Nella pagina accanto l’Anticristo uccide i due testimoni, da un’edizione dei Commentari dell’Apocalisse di Beato di Liébana. XII sec. Madrid, Museo Archeologico Nazionale.

senti in fonti islamiche, arabe e persiane. Quelle di Antonio Ruwah e Abo di Tbilisi, di cui narriamo qui di seguito, sono vicende emblematiche, ma, con poche altre decine, restano quasi eccezioni sul piano della santità canonica.

Un’immagine santa come bersaglio

Antonio Ruwah era un amministratore musulmano alla corte di Harun al-Rashid, quinto califfo abbaside (766809). Come passatempo, andava a tirar sassi e frecce al monastero di S. Teodoro a Damasco. Un giorno, quando cercò di colpire l’immagine del santo, la punta tornò indietro e gli ferí la mano: sconvolto dal prodigio, arrivò al Giordano per farsi battezzare. Fu la sua famiglia a denunciarlo, aprendo per lui un lungo calvario di lusinghe, torture, profferte, che si concluse nel 799 con la decapitazione, glorificata da alcuni miracoli. giugno

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cristiani d’oriente Minsk Berlino

OCEANO ATLANTICO

Parigi

Pamplona Madrid Cordoba Gibilterra Tangeri Marrakech

Tolosa

SACRO S SA CR RO R RO MANO MA NO O ROMANO IIMPERO IM MPERO PER PE RO O

Kiev Budapest Samarcanda

ANDALUSIA

Bukhara

Roma

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Qairouan

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Kabul

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Teheran

Mar Mediterraneo Tripoli

Balkh

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Gallipoli

Tunisi

Sigilmassa

SONGHAI SON O GHA GHAII

Merv

MACEDONIA MA MAC ACEDO AC DONIA NIA Costantinopoli NIA

Granada Fez

Varsavia

OCEANO INDIANO

Aden

BORNU BOR ORNU RNU

la visione ebraica e quella islamica

Morire per non tradire... o per amore di Allah L’ebraismo non lega in alcun modo il martirio al proselitismo. L’idea di martire si trasforma nel tempo, connotandosi come elemento di radicamento dell’identità. Un gruppo di rabbini martirizzati dai Romani nell’arco di alcuni decenni, al tempo della distruzione del Secondo Tempio (70 d.C.), è noto come i «Dieci Martiri». Sono elencati nel poema Eleh Ezkerah, che si recita ogni anno nella liturgia dello Yom Kippur e in quella di Tisha BeAv, come momento di riflessione e speranza di redenzione a fronte di attacchi al popolo ebraico. Il piú conosciuto è Rabbi Akiva, che fu torturato con pettini di ferro sulla pelle: nonostante il dolore lo consumasse, ebbe la forza di proclamare la Divina Provvidenza nel mondo recitando lo Shemà, gridandone la finale Echad («Uno»).

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Rabbi Haninah ben Teradion venne invece avvolto in un rotolo della Torah e bruciato vivo, imbottendogli il petto di lana umida per prolungarne l’agonia. Al tempo dell’imperatore Adriano, il martirio assume la connotazione di «santificazione del Nome», il cui atto ultimo ha luogo quando l’Ebreo è pronto a morire, piuttosto che trasgredire una qualsiasi delle tre leggi cardinali di Dio, che proibiscono l’adorazione degli idoli, l’incesto o l’adulterio e l’omicidio. Un altro modo per essere considerati qedoshim, santi, consiste nell’essere uccisi in quanto ebrei, anche se non obbligati a convertirsi, o comunque dissociarsi dalla fede ebraica. Piú complesso è il concetto di martirio nel mondo islamico, poiché include anche connotazioni legate all’azione e alla morte in

combattimento. La parola «shahid» significa «testimone» e viene utilizzata nel contesto di «coloro che testimoniano». Va interpretata nella visione unitaria dell’Islam, basata sulla piena sottomissione dell’uomo al volere di Allah. Ciò implica l’essere preparati a morire nell’esercizio di questa sottomissione. Uno shahid vede e testimonia la verità, non solo verbalmente, ma anche facendosi trovare pronto a testimoniarla combattendo e dando la propria vita per affermarla. L’obiettivo è l’affermazione della verità dell’Islam attraverso il jihad (la «guerra santa» musulmana). Allo stesso tempo, secondo la tradizione islamica, chi uccide se stesso per amore di Allah non compie un suicidio, bensí un sacrificio e va quindi considerato un martire. giugno

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A sinistra Bobastro (Andalusia, Spagna). I resti della chiesa della fortezza in cui si rifugiò Umar ibn Hafsun, quando si ribellò agli emiri di Cordova. Fine del IX sec. Nella pagina accanto cartina del bacino del Mediterraneo e del Vicino Oriente che mostra l’estensione delle aree islamizzate intorno all’anno 750.

In questo, la visione musulmana differisce radicalmente da quella cristiana, in cui il martirio è testimonianza fino al sacrificio della vita, subito e accettato, ma mai provocato con atti violenti. A destra miniatura raffigurante Azaria, Anania e Misaele che, gettati nella fornace dal re Nabucodonosor, rimangono illesi e vengono protetti da un angelo, dalla Bibbia visigotomozarabica di sant’Isidoro di Léon. 960. Léon, Archivio Capitolare.

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Abo, invece, era nato a Baghdad da una famiglia islamica eminente e si trasferí in Georgia, dove visse insieme ai funzionari dell’emirato di Tbilisi. Lí non solo si appassionò alla lingua e alla cultura, ma studiò la Bibbia e il cristianesimo, partecipando di nascosto alle liturgie. Dopo essersi fatto battezzare, si alternarono gli arresti e i tentativi dei suoi amici di liberarlo, finché fu condannato a morte come apostata. Persino nel giorno dell’esecuzione i musulmani fecero un estremo tentativo affinché si ricredesse: il boia finse per tre volte di decapitarlo, usando la spada girata dal lato non affilato. Il suo ultimo rifiuto, insieme con una lunga serie di atti di generosità e umiltà, marcò l’inizio della celebrazione della sua santità, la cui vitalità arriva fino a noi.

Un silenzio pesante

In generale, invece, una sorta di imbarazzo circonda, nelle fonti cristiane, le esecuzioni che si ripeterono nelle diverse fasi dei domini islamici. Perché alcuni cristiani uccisi in odio della fede non hanno dato origine a devozioni e non sono stati canonizzati? Che cosa ne è stato della memoria degli altri? Intorno a queste domande ruota l’essenza stessa della presenza dei cristiani (segue a p. 35)

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cristiani d’oriente I Martiri di Cordova

Isacco, Eulogio e la sposa mancata Isacco proveniva da una famiglia aristocratica, aveva imparato l’arabo da bambino ed era diventato il kâtib adh-dhimam di Cordova, l’esattore della jizya, la tassa versata annualmente ai dominatori islamici dai dhimmi, i sottomessi, Ebrei e cristiani. Era forse la carica piú alta a cui un non musulmano poteva ambire. Eppure, a un certo punto, quel ruolo dovette diventargli odioso. Quanto pesarono sulla sua coscienza le angherie e le privazioni a cui si sottoponevano i suoi fratelli nella fede per riuscire a pagare? Di quali complicità si ritenne responsabile? Non sapremo mai quali domande si sia fatto. Certo è che lasciò tutto e si ritirò nel monastero di Tabanos, fra le montagne, per rimanervi tre anni. Un giorno, però, decise di tornare in città. Guardò da fuori il palazzo dell’emiro e poi entrò nelle sale dove un tempo l’aveva servito. Chiese del cadí (dall’arabo qadi, colui che giudica) e gli si presentò davanti: gli pose alcune domande su Maometto e, non appena questi cominciò a magnificarlo, lo interruppe, per affermare, con voce alta e piana, che il suo Profeta stava invece bruciando nel profondo dell’inferno perché aveva ingannato gli Arabi. Il giudice dapprima rimase immobile, poi, senza aggiungere altro, lo schiaffeggiò. Gli altri dignitari presenti lo rimproverarono, dicendo che non si poteva colpire nessuno, se non dopo un processo. Per Isacco fu l’occasione per ribadire i dogmi della teologia cristiana: il giudizio si concluse con la condanna a morte per blasfemia e la decapitazione. L’ex esattore è considerato il primo dei «Martiri di Cordova», almeno 47 cristiani messi a morte, fra l’851 e

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l’864, per essersi professati credenti in Gesú Cristo e nella Trinità. Ad attribuirgli il primato è Eulogio, prete poi eletto vescovo, che scrisse una Memoria sanctorum per far conoscere questi testimoni della fede, l’unico testo cristiano dell’epoca che dia conto di accuse e repliche in una prospettiva di santità. Ci racconta che a essere subito attratto dall’esempio di Isacco

fu Sanctius, un bambino soldato catturato dai musulmani ad Albi, nella Francia meridionale, per poi essere inquadrato nell’esercito di Cordova. Fu decapitato due giorni piú tardi. Ancora quarantotto ore dopo l’esecuzione del «protomartire», fu la volta di altri sei, che si palesarono cristiani sfidando le limitazioni imposte: Sabiniano, Habentius, il monaco Wistremundus, il prete Pietro, Walabonsus, Geremia (parente di Isacco e fondatore del monastero in cui questi si era ritirato), e il monaco Georgios. Si presentarono al giudice facendo riferimento proprio all’autoaccusa di Isacco e gli dissero: «Esegui la sentenza e moltiplica la tua crudeltà: professiamo Gesú Cristo vero Dio e consideriamo il tuo Profeta precursore dell’Anticristo».

Al centro Acisclo Antonio Palomino, Il martirio di sant’Eulogio. Olio su tela, XVIII sec. Cordova, Basílica del Juramento de San Rafael.

La Memoria narra quindi di Maria, figlia di padre cristiano e di madre musulmana convertita, sorella di uno degli uccisi. Era entrata in un piccolo monastero, la cui badessa trent’anni prima aveva visto due dei suoi figli condannati a morte, anche in quel caso per blasfemia. Fu messa in prigione con Flora, figlia di madre cristiana e di padre musulmano, cresciuta secondo la fede del Vangelo perché il genitore era morto quando era bambina. Appena il fratello piú vecchio, islamico, volle ricondurla alla religione del padre per poi farla sposare con un altro maomettano, fuggí. Ritrovata, fu condannata a una durissima flagellazione e affidata in custodia al marito designato. Prima ancora che le sue ferite fossero guarite, fuggí di nuovo, portando con sé una sorella piú piccola e trovando rifugio in campagna. Poco dopo, però, decise di consegnarsi. Passò solo qualche giorno e una spada troncò la sua testa, insieme con quella vita che tante volte, in prigione, avrebbe potuto salvare se solo si fosse detta pentita e avesse riabbracciato l’Islam. Di lei, come degli altri, non sapremmo forse nemmeno il nome, se lo stesso Eulogio non l’avesse proposta come modello di saldezza e di eroica difesa della libertas che consente agli esseri umani di esprimere la loro natura di figli di Dio. Anch’egli imprigionato e torturato, conobbe Maria, che lo impressionò con la sua forza tranquilla. giugno

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BartolomÊ Esteban Murillo, Il santo Rodrigo. Olio su tela, 1650-55. Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister.

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cristiani d’oriente Oltre ad aver lasciato un altro Apologeticum in difesa della teologia cristiana, Eulogio fu un acceso predicatore dell’irriducibile diversità fra cristianesimo e Islam e del dovere per i battezzati di proclamare apertamente la salvezza portata da Gesú, Dio fatto uomo. Anche la sua vicenda terrena si concluse con la decapitazione, l’11 marzo 859. La testimonianza di Eulogio sottolinea come le condanne capitali per blasfemia e per apostasia fossero previste dalle leggi e tutt’altro che eccezionali, come del resto confermano le fonti arabe. Lo stesso cadí che aveva raccolto la prima autodenuncia, quella di Isacco, si mostrò stupore nimio turbatus («non si meravigliò di niente»). La novità consiste, piuttosto, nella scelta volontaria di manifestare la propria differenza teologica, nell’atto pubblico di affermare il proprio credo piú profondo, mettendo in discussione la religione dei dominatori, giudicando ciò che essi consideravano immutabile e intoccabile. La decisione libera assume, cosí, la dimensione della sfida, diventa contestazione delle leggi e scardinamento dell’equilibrio raggiunto fra dominatori e dominati, fra una comunità musulmana e una cristiana che da secoli convivono grazie a una rete di accordi, connivenze, rinunce, subordinazioni subite e accettate. Proprio le azioni di autodenuncia, susseguitesi per oltre un decennio, finirono con il preoccupare lo stesso emiro Abd ar-Rahmân II e vanno forse inquadrate in un contesto di agitazioni o, almeno, di una ribellione di parte della popolazione cristiana. Tanto che, nell’852, fu convocato un concilio di tutti i vescovi della Spagna. All’assise era presente anche il comes cristiano, che sovrintendeva alla riscossione della jizya annuale da parte dei suoi correligionari, da versare poi (in tutto o in parte) alle casse dell’emirato. Con la sola opposizione del vescovo di Siviglia, fu vietato il culto per chi

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aveva scelto il martirio volontario e si stabilí che chi non era costretto con la violenza a negare la propria fede, ma di propria volontà si offriva alla persecuzione (discrimen) non poteva essere considerato martire e andava trattato alla stregua di un suicida. Il sinodo, mai riconosciuto da Roma, viene definito nelle fonti papali diabolicum conciliabolum, ma solo apparentemente consegnò all’oblio la testimonianza di questi morti. Eulogio fu messo a morte all’indomani della sua elezione a vescovo, ma prima della sua consacrazione e della sua salita sulla cattedra di Toledo. I musulmani e i cristiani legati al loro sistema dovettero sentirsi soddisfatti: il marchio di infamia del suicidio impresso sulla sua fine sembrò la pietra tombale della ribellione. Il versamento dei tributi non subí interruzioni, né mancarono nuove conversioni all’Islam. Le condanne di cristiani per blasfemia e di musulmani passati al Vangelo per apostasia poterono continuare, di anno in anno, nel silenzio generale, senza che agli uccisi fosse riconosciuta la dignità di testimoni della fede, senza che le loro tombe venissero onorate, i loro nomi ricordati e invocati. Sono perlopiú le cronache arabe ad annotarne una serie successiva. Eppure, alcuni vescovi spagnoli riuscirono a mantenere contatti con i papi. Le storie che Eulogio aveva fatto tanto per raccontare nel suo latino rozzo e veemente furono conservate, ricopiate, fatte circolare. I nomi, almeno quelli di cui lui aveva scritto, rimasero, ripetuti nelle preghiere, tramandati di nascosto, fino a essere recepiti nel Martirologio Romano, per diventare patrimonio di devozione di tutta la cristianità latina. Il loro culto fu celebrato, in silenzio e nella paura, come un fiume sotterraneo che si ingrossa sommessamente prima di tornare in superficie, fino a diventare uno dei piú forti motivi ideali e memoriali della Reconquista.

Cordova. L’interno della cattedrale dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima. Nel 1236, con la riconquista cristiana della città, la grande moschea fu convertita nell’attuale chiesa.

Solo tra l’851 e l’864, furono ben 47 i cristiani messi a morte a Cordova: di loro sapremmo ben poco, se non ci fosse giunta la Memoria sanctorum scritta da Eulogio

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nei domini musulmani e si può cercare di rispondervi con spiegazioni di tipo psicologico e di tipo ecclesiale. La prima può essere che la memoria di questi martiri è andata perduta, o risulta cancellata, perché si è estinta la comunità cristiana a cui essi appartenevano. Si aggiungono poi motivazioni piú profonde, come la paura, il timore di raccontare, il pudore del dolore, la difficoltà di confessare l’umiliazione della sconfitta subita. Le comunità cristiane superstiti sono state private di una parte della loro memoria per imposizioni e divieti esterni o hanno rimosso questa parte della loro storia? È significativo che esse celebrassero i martiri, ma quelli del passato (uccisi durante le persecuzioni pagane, romane e sasanidi), alludendo solo genericamente a tribolazioni e angherie del loro tempo. Hanno esse stesse rinunciato a testimoniare eventi contemporanei (o vicini nel tempo), evitando di proporre i martiri come esempio e modello da seguire, per scongiurare altre persecuzioni e permettendo una forma di sopravvivenza della comunità nel tempo? Le deliberazioni del «concilio» di Cordova dell’852, tese a evitare pubbliche condanne dell’Islam e a vietare la provocazione del martirio, farebbero propendere per una risposta positiva. Ci si chiede, dunque, se, e a quali condizioni, il sangue dei martiri possa diventare seme per nuovi cristiani

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e a quale idea della presenza di questi ultimi nella società corrisponda la scelta di non celebrare quei morti e di non riconoscerli come testimoni. Nelle comunità di minoranza nei domini musulmani si radica, infatti, l’equazione fra l’Islam e il «mondo», il regno dell’Anticristo: il cristianesimo vince oltre la storia, non nel presente. Il cristiano, di conseguenza, accetta con pazienza una situazione di subordinazione e di prova, sperando nella ricompensa celeste. Ne deriva una svalutazione complessiva della società (che è altra rispetto al cristianesimo), insieme con la convinzione dell’impossibilità di interagire con la società per arrivare a modificarla. Si sarebbe, cosí, verificata una sorta di forzata rinuncia a celebrare i martiri e, insieme, a cambiare i loro carnefici.

Equilibri di potere e divisioni interne

Altre motivazioni sono implicite nelle modalità di esercizio del potere dei governanti musulmani e nel loro sistema di relazioni, convenienze e collaborazioni, che coinvolgeva le gerarchie ecclesiastiche. In un mosaico di situazioni variabili a seconda delle aree e, soprattutto dei comportamenti di emiri e califfi, hanno preso forma sistemi che definivano i limiti delle libertà individuali in un’organizzazione incentrata sul versamento della jizya, un’imposta pro capite sui non musulmani, riscossa da

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cristiani d’oriente questioni di teologia morale

Lo spirito del sacrificio Provocare il martirio è testimonianza o suicidio? Il sinodo dei vescovi riunito a Cordova nell’852 per decidere della liceità del martirio volontario affrontò questioni chiave di teologia morale e proprio sulla base di principi teologici fu poi rigettato dai papi. Al centro del dibattito è la dimensione della libertà individuale, intesa come condizione propria dell’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio ed elevato alla dignità di figlio grazie a Gesú Cristo. Essa è la condizione esistenziale indispensabile per vivere il Vangelo, la proclamazione della fede e la sua condivisione con gli altri, attraverso l’annuncio e l’amministrazione dei sacramenti. Nel cristianesimo il martire è il testimone della fede disposto a dare la vita, fino all’effusione del sangue. Non può usare alcuna forma di violenza, ma si offre come

supremo sacrificio. Autodenunciarsi come cristiani, affermando la propria diversità rispetto ai fedeli di altre religioni e motivando perché altri dèi e altri profeti vengono, invece, rifiutati non può essere considerato suicidio, anche quando susciti reazioni violente o faccia scattare sanzioni previste dagli ordinamenti giuridici. Non si tratta del semplice esercizio di una generica libertà di espressione (concetto peraltro estraneo alla mentalità medievale), bensí della manifestazione della libertas che è costitutiva dell’essere cristiano e permette all’uomo di raggiungere il fine per cui è stato creato. La morte incontrata in questo modo è martirio e testimonianza, perché rivela la profondità di adesione a Cristo e alla Verità. Nel caso dei «Martiri di Cordova» i supplizi e le esecuzioni capitali mettevano in evidenza che un

A destra Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Mosaico raffigurante il corteo dei Santi Martiri. V sec.

intero sistema di limiti e vincoli di sottomissione imposti ai cristiani era inaccettabile, poiché impediva loro di essere tali in modo autentico, inficiava il dono della fede e pregiudicava la possibilità dell’annuncio. Inoltre, dimostravano che la paura di incorrere nel reato di blasfemia impediva la testimonianza stessa del Vangelo, che non può essere dimezzato, ma va proclamato nella sua interezza. A sinistra Esfahan (Iran), moschea dello Shah. Particolare di una pittura murale raffigurante martiri sciiti caduti in battaglia. XVII sec.

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Se la teologia cristiana è percepita come bestemmia e la sua affermazione messa a tacere con la morte, il cristiano non ha altra scelta che la testimonianza di sangue, l’offerta della propria vita come pegno di verità. Viceversa, vivere senza esplicitare la completezza del messaggio evangelico non è un modo pieno di essere cristiani. Diversa ancora è la situazione di quanti

sono nati nella religione islamica (e, in un sistema basato sulla sharia, considerati musulmani dal punto di vista legale). Se si convertono al cristianesimo, i maomettani li considerano apostati e pertanto passibili di morte. Altrettanto vale per i cristiani che passano all’Islam sotto la pressione di persecuzioni e poi, in situazioni piú tranquille, tornano

funzionari cristiani (o giudei per le comunità ebraiche). A fronte della possibilità di sopravvivere, la comunità attribuiva un ruolo totalizzante alle proprie autorità, le sole in grado di trattare direttamente con i musulmani. A ciò si aggiunge il peso delle divisioni fra cristiani di Chiese diverse, che si acuivano proprio su tasse e prerogative e in occasione della scelta di vescovi e patriarchi. La vicenda del martirio di Abdun, a Baghdad, intorno all’820, dimostra che, in un mosaico di situazioni variabili – dalla tolleranza minima alle peggiori repressioni –, la memoria viene conservata quando diventa autocoscienza, mentre i contesti incerti e sfumati lasciano spazio all’azione nullificante dell’oblio. Il patriarca dei giacobiti, Ciriaco (793-817), era arrivato fino a Tikrit, nel tentativo di insediare un metropolita (dignitario della Chiesa ortodossa, a metà tra un patriarca e un arcivescovo, n.d.r.)in questo centro della provincia orientale della sua Chiesa siriaca occidentale, che lí aveva sempre avuto un ruolo secondario rispetto ai cristiani nestoriani. Pensò di aver trovato l’uomo capace di resistere e far fronte alle agitazioni di questa gente in un certo Basilio, una sorta di giudice civile, impiegato anche nell’esazione dei dazi.

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alla loro fede in Gesú. Per loro, lo stesso dichiararsi cristiani implica il rischio della vita. Anche in questi casi, dal punto di vista cristiano, la proclamazione della propria adesione al Vangelo non può essere considerata suicidio. L’esecuzione della condanna a morte (o l’omicidio, perpetrato in famiglia o da chiunque) si configura come vero e proprio martirio, poiché avviene in odium fidei.

Costui, però, «aveva la malattia dell’orgoglio», era senza moderazione, vanitoso. Entrò presto in contrasto con la popolazione di Mosul e con il monastero di Mar Matta. Ne derivarono multe e arresti, ordinati dagli emiri locali. In seguito Basilio arrivò a imporre tributi anche ai musulmani, che però ben presto si sollevarono contro di lui e iniziarono ad angariare i cristiani per colpa sua. Credendosi forte dei propri appoggi politici, il metropolita si recò a Baghdad per lamentarsi dei musulmani, i quali, però, lo precedettero e scrissero una petizione: si accusavano Basilio e un notabile della sua comunità, di nome Abdun, di aver oltraggiato il Profeta. La risposta del califfo fu l’abolizione di alcune norme che tutelavano i cristiani e l’ordine di arrestare i due incriminati. Basilio riuscí a fuggire, mentre Abdun fu catturato e si cominciò a lusingarlo, promettendogli doni, onori e cariche, se avesse abbracciato l’Islam. Quando rifiutò, si passò alle minacce e alle torture; dopo sette mesi di prigione e di supplizi, fu passato per la spada e appeso al patibolo. Miracoli si sarebbero verificati sulla sua tomba, ma il ricordo del suo sacrifico si estinse ben presto, vittima dei comportamenti dei correligionari piú che delle limitazioni islamiche. F

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la guerra nel medioevo/5

All’alba di un mondo nuovo di Federico Canaccini

Negli ultimi secoli del Medioevo, l’ideale cavalleresco tramonta per sempre: la nascita dei primi grandi Stati nazionali e regionali, unita all’introduzione della polvere da sparo, disegna equilibri nuovi. E la difesa dei propri interessi viene perseguita con uno spirito e una determinazione che poco o nulla hanno a che spartire con le gesta leggendarie dei grandi paladini di un tempo 38

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ispetto a quelli che li hanno preceduti, gli ultimi due secoli della storia della guerra del Medioevo sono molto piú ricchi di fonti, non solo documentarie, ma anche materiali. Se le canzoni di gesta del XII e del XIII secolo descrivono l’etica cavalleresca, le cronache e le fonti narrative del Trecento e del Quattrocento

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forniscono informazioni circostanziate ora sullo svolgimento di una battaglia campale, ora su un assedio, riportando singoli episodi, aneddoti se non – come già accadeva per le fonti classiche – addirittura i discorsi dei condottieri. Inoltre, tra il XIV e il XV secolo, proliferano i trattati di arte militare, testimoni di un rinnovato

El Escorial (Madrid), Monastero di S. Lorenzo, Galleria delle Battaglie. Particolare dell’affresco raffigurante la battaglia combattuta a Higueruela il 1° luglio 1431, tra le truppe di Giovanni II di Castiglia e quelle del sultano nasride Muhammed IX. Lo scontro vide prevalere le forze spagnole, ma non ebbe esiti concreti significativi.

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la guerra nel medioevo/5 Tra Quattro e Cinquecento, la redazione di numerosi trattati testimonia il rinnovato interesse per l’arte della guerra

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interesse scientifico per l’arte della guerra: Jean de Vignay traduce il Trattato militare redatto nel 1327 da Teodoro Paleologo; Honoré Bonet scrive l’Arbre des Batailles, in cui si studia il diritto in un Paese in stato di guerra; Christine de Pizan, nel 1410, redige Le livre des fais d’armes et de chevalerie; infine, nel 1449, Mariano di Jacopo, detto il Taccola, compone il De machinis, un trattato in dieci libri sulle macchine d’assedio.

Il conflitto che, tra il 1337 e il 1453, oppose i regni di Francia e Inghilterra, proprio per la sua durata eccezionale, mostra in modo esemplare l’evoluzione delle tattiche di guerra e delle armi utilizzate. Dopo che, nel 1328, Carlo IV, re di Francia, era morto senza eredi, Edoardo III il Plantageneto – nipote di Carlo, sovrano di Inghilterra e, al contempo, vassallo del re di Francia per le

Un’Europa senza pace

Gli scontri militari della fine del Medioevo hanno poi un nuovo, fondamentale protagonista: l’artiglieria, che, con il suo fragore, incute terrore sia in battaglia sia, soprattutto, negli assedi. Sono i secoli in cui l’Europa si sta trasformando in un coacervo di Stati nazionali e regionali, definiti nei propri confini e nelle proprie peculiarità anche dalle continue guerre. La penisola iberica è ormai alla fine della sua lunga Reconquista, mentre Francia e Inghilterra si trovano coinvolte in una guerra interminabile che – nell’Ottocento – fu battezzata «dei Cent’Anni». L’Italia, divisa un tempo in un pulviscolo di Comuni al Nord, inizia un lento assetto su scala regionale, mentre al Sud si sviluppa lo scontro tra Angioini e Aragonesi.

Le mirabolanti macchine del Taccola Nato a Siena intorno al 1381, Mariano di Jacopo, detto il Taccola (probabilmente per il naso aquilino) o anche l’Archimede senese, fu ingegnere e scrittore militare. A lui dobbiamo il trattato De Machinis libri decem, rimasto in forma di manoscritto e nel quale figurano numerosi disegni di particolare interesse per lo studio della storia delle armi da fuoco. Negli esempi qui illustrati si vedono una macchina con cui manovrare a distanza un ordigno incendiario (a sinistra) e una torre semovente, a mezzo della quale portare l’assedio fin sotto le mura di una città.

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la guerra nel medioevo/5

terre da lui possedute sul continente – fu escluso dalla successione regale, giacché legato alla casa reale per via materna. Gli venne preferito Filippo VI di Valois, il quale, nel 1337, confiscò i territori che Edoardo aveva in Francia. La reazione del Plantageneto coincise con la dichiarazione di guerra. Non si può comprendere la guerra dei Cent’Anni senza conoscere le mentalità dei due regni protagonisti della contesa. Mentre in Inghilterra, la concessione della Magna Charta (vedi, in questo numero, il Dossier alle pp. 87-104) aveva di gran lunga

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limitato le prerogative della corona, dando cosí potere ai baroni, nei territori del giglio vigeva ancora un sistema militare di stampo profondamente feudale.

Visioni opposte

Tale contrapposizione si riflette nelle modalità di reclutamento – basato su leva breve e mercenariato quello inglese; su sistema feudale quello francese, che diede vita a tanti piccoli contingenti privati –, ma anche nel modo stesso di concepire la guerra: mentre l’esercito inglese mostra di aver in parte abbandonato

l’ideale cavalleresco, quello francese rimane ancorato a un sistema in cui la nobiltà, a cavallo o piedi, non può concepire un coordinamento con le masse di armati anonimi. Nelle tre celebri battaglie che scandiscono il conflitto (Crecy, 1346; Poitiers,1356; Azincourt, 1415), balzano all’occhio la collaborazione tra cavalleria e fanteria inglese e il totale scollamento

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A sinistra miniatura raffigurante l’esercito reale con i suoi cannoni, da un’edizione dell’opera Vigiles de Charles VII di Martial D’Auvergne. 1484 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso spada rinvenuta nel 1974 a Castillon (Aquitania), dove si combatté, nel 1453, l’ultima battaglia della guerra dei Cent’Anni. Parigi, Musée de l’Armée.

giamenti simili, ma le armi dei mercenari erano radicalmente diverse: gli Inglesi affidavano infatti il loro tiro all’arco, mentre i Francesi gli preferirono la balestra. L’arco inglese (detto «longbow» solo in epoca vittoriana) era composto di olmo, frassino o tasso, misurava circa 180 cm e aveva una gittata di 200 m. A partire dal 1242 varie leggi obbligavano gli yeomen – i contadini liberi del regno – a tirare d’arco, prassi che divenne una sorta di sport nazionale, garantendo cosí al sovrano un efficiente contingente di arcieri. La balestra, invece, garantiva una potenza di tiro di gran lunga superiore, ma aveva lo svantaggio del caricamento piú complicato, per ottenere il quale si doveva ricorrere a un arganetto. Il numero di dardi che poteva essere scagliato era di circa 3 al minuto, contro le 10-12 frecce degli arcieri avversari.

I primi eserciti nazionali dell’avversario. Le cariche di cavalleria pesante dei nobili francesi sono tanto baldanzose quanto disordinate e vanno a cozzare contro un ordinato esercito inglese, perlopiú composto da arcieri prezzolati, non certo di nobili natali, ma rigorosamente disciplinati e spronati dal sovrano in persona. I due contendenti adottavano, tra le fila dei men-at-arms, equipag-

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Durante il secolare conflitto, al di là delle trasformazioni tattiche, il fenomeno piú innovativo fu la nascita di vere identità nazionali e di autentici eserciti permanenti legati ai regni. Gli Stati potevano finalmente contare su una forza militare propria, evitando di ricorrere a professionisti della guerra, mercenari o nobili feudatari che fossero. Tra il 1445 e il 1448, con le Compagnies d’ordonnance du roi, i sovrani di Francia costituirono un abbozzo di

esercito permanente formato da cavalieri e fanti, suddivisi in squadre di balestrieri, arcieri e picchieri. Nel 1469, ispirandosi a tale modello, il duca di Borgogna diede vita a un esercito permanente, composto da cavalieri, arcieri, fanti e artiglieri. Tuttavia, questa formazione ideale subí numerosi rovesci contro eserciti meno regolari, ma forse piú efficaci: i cosiddetti «quadrati» svizzeri e gli squadroni dei lanzichenecchi, entrambi armati di picche lunghe. Accantonate dai tempi della falange macedone di Alessandro Magno, le lance lunghe tornarono in auge verso gli inizi del Duecento in Italia, dove venivano impiegate da gruppi di fanti in posizione statica. Nel corso del Quattrocento, gli Svizzeri trasformarono l’uso della picca lunga (5 m), creando appunto composte formazioni quadrate (Gevierte Ordnung), composte da migliaia di picchieri, che passarono all’azione offensiva, riportando numerosi successi militari e assicurando l’indipendenza ai cantoni (vedi «Medioevo» n. 214, novembre 2014; anche on line su medioevo.it). Altrettanto fecero i mercenari provenienti dal Sacro Romano Impero, i quali, nel Cinquecento, mutarono la tecnica adottata dagli Svizzeri. Infatti, anziché impugnare le picche, tenendole tra l’anca e la spalla, i Lanzi le appoggiavano sulla spalla destra, afferrandole con la mano sinistra e bilanciandole con la destra, appoggiata sul fondo dell’asta, il cosiddetto calzuolo. A suon di picche e alabarde anche Roma cadeva nel 1527, nel celebre Sacco. Già dalla fine del XII secolo, si era diffusa in tutta Europa la pra-

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la guerra nel medioevo/5 tica di assoldare gruppi di soldati a pagamento. Queste bande erano una vera piaga, giacché, terminata la loro missione, si davano sovente al saccheggio, trasformando i luoghi che avrebbero dovuto difendere in territori da depredare. In Europa erano tenuti in grande considerazione i mercenari originari delle Fiandre e della Lombardia. Altrettanto temuti, almeno sino alla metà del Trecento, erano i balestrieri genovesi, cosí come quelli provenienti dal Nord della Germania, assoldati anche dai sovrani francesi nel corso del conflitto contro il regno inglese. I re di Francia però avevano la pessima abitudine di assoldare i mercenari per periodi brevi, considerati i costi elevati di questi «affitti», e cosí costoro (detti dai Francesi «écorcheurs», cioè scorticatori), si davano a razziare il Paese. Il problema si ingigantí quando alcuni ufficiali francesi presero a non pagare lo stipendio ai mercenari o, per lucrare ulteriormente, iniziarono ad arruolare – «a prezzi stracciati» – malviventi anziché professionisti, promettendo come paga il profitto delle loro razzie. Solo Carlo VII, alla metà del XV secolo, riportò l’ordine, nominando commissari che dovevano controllare gli eserciti, le paghe e il buon funzionamento delle milizie «a noleggio». In Italia, nel corso del Trecento, queste bande, organizzate in compagnie, furono capitanate dapprima da condottieri stranieri, poi italiani. Giovanni dalle Bande Nere, Gattamelata, Fortebraccio, Micheletto Attendolo, Bartolomeo Colleoni, solo per citare i piú noti, erano i leader di altrettanti microeserciti, dei quali sceglievano i membri, provvedendo all’addestramento, all’armamento e, naturalmente, allo stipendio. Una volta assemblate, queste compagnie, ora dette condotte, venivano messe sul mercato e presentate ai signori del tem-

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po (mostra) i quali le esaminavano accuratamente, scegliendo (o scartando) gli uomini da assoldare. Per il tempo in cui la condotta era stata ingaggiata (ferma), vi era l’obbligo di combattere solo per il signore che aveva già versato un anticipo, bloccando cosí il mercato. Si poteva combattere «a soldo disteso», correndo rischi maggiori, o «a mezzo soldo», esponendosi a rischi limitati e sotto un comandante nominato dal «datore di lavoro». Terminato questo incarico il condottiero poteva schierarsi sotto un’altra bandiera, senza però poter combattere – per due anni almeno– contro il signore a cui aveva in precedenza offerto i suoi servigi.

Una novità... dirompente

Gli assedi e le battaglie degli ultimi secoli del Medioevo sono tragicamente ritmati dal rombo dei cannoni. La prima menzione della ricetta per la polvere da sparo compare nel trattato De nullitate magiae, scritto da Roger Bacon nel XIII secolo. E sappiamo di come, nel 1262, i musulmani avessero utilizzato i cannoni durante l’assedio, poi fallito, della città spagnola di Niebla. Dopo una prima svolta, collocabile nell’ultimo

quarto del XIV secolo, la tecnica di fusione e fabbricazione dei cannoni e delle varie bocche da fuoco, è notevolmente migliorata. Agli inizi del secolo seguente, tra le fila degli eserciti notiamo ormai una schiera di genieri, specialisti delle armi da fuoco, convocati e stipendiati direttamente dai sovrani o dai signori del tempo e trattati alla stregua dei nobili uomini d’arme. Nel corso degli assedi le città erano sottoposte a uno sfibrante stress psicologico, causato dal continuo lancio di pietre, scagliate dalle bombarde e dai trabucchi. Nella sola domenica del 17 ottobre 1428, piovvero su Orléans 124 proiettili, alcuni dei quali raggiungevano il notevole peso di ben 116 libbre; nel 1430, a Lagny, se ne contarono 412 in un sol giorno! Oltre a distruggere le abitazioni e le fortificazioni nemiche, l’artiglieria aveva anche il delicato compito di coprire gli uomini del genio: questi corpi, infatti, inviati a scavare fossaIn basso la lastra tombale del sarcofago di Sir Richard Pembridge (†1375), Cattedrale di Hereford, Regno Unito. Nella pagina accanto particolare del ginocchio della statua, in cui si può cogliere l’evoluzione tecnica dell’armatura.

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La vita affidata all’acciaio

Sino al XIII secolo l’armatura di un cavaliere era rimasta sostanzialmente inalterata. Essa era composta da un usbergo, una cotta di maglia metallica che doveva impedire l’affondo di armi da taglio o frenare l’urto di dardi. Ma già nel XIII secolo si notano piccole innovazioni e la nascita di piccole placche metalliche, mirate a rinforzare il vestito di anelli intrecciati. All’inizio della guerra dei Cent’Anni era invalso l’uso del camaglio (1), una porzione di maglia metallica a forma di cappuccio, riservata alla protezione

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del capo. Cosí facendo l’elmo pentolare, simbolo stesso della nobiltà, ma assai pesante, poteva essere finalmente alleggerito. Si passò quindi a un elmo aperto (2), solidale col camaglio, che proteggeva collo, gola e spalle. Per il volto fu creata una visiera semovente, il bacinetto, che assunse le forme piú svariate: a testa di cane, di porco, a becco di passero. Visuale e aerazione erano garantite da piccole fessure. Le protezioni rigide, ideate in primo luogo per gli arti, furono dapprima in cuoio, poi in ferro, infine in acciaio. Le lastre tombali, sulle quali i cavalieri vengono raffigurati armati, permettono di seguire queste evoluzioni. Le zone piú nevralgiche, la gola e le articolazioni, furono protette da dischi, conchiglie (3) e alette di acciaio, successivamente da lamelle di articolazione le cui alette protettive furono fissate nelle forme stereotipate di «picche» e «fiori». Alla fine del XIV secolo compare anche il petto d’armatura, fuso in un unico pezzo d’acciaio, su cui la sopravveste seguiva la moda del tempo, passando da un lungo abito sopra al ginocchio a quello che copre appena le natiche. Sopra la veste compare la cintura (4), impreziosita da gemme e che serve anche come sospensorio per la spada. Il cavaliere è ormai protetto da piastre che lo ricoprono dalla testa ai piedi; le ultime tracce di maglia metallica sono scomparse, sostituite da lamelle rivettate. Si tratta dell’armatura bianca, detta cosí per la peculiarità di brillare al sole e riflettere la luce in modo quasi abbacinante.

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

ti, trincee o gallerie, dovevano approfittare della fase di fuoco amico per portarsi sotto le mura, come consigliava il teorico della guerra francese Jean de Breuil. Gli esperti dell’arte militare avevano opinioni diverse sull’impiego dei cannoni: Philippe de Clèves, per esempio, suggeriva nei suoi scritti di porre i cannoni in serie, distanziandoli una quarantina di passi dai fossati e facendoli sparare quotidianamente, almeno 40 colpi ciascuno. Sotto il tiro continuo e non facilmente regolabile di queste bocche di fuoco, era piú probabile che perdessero la vita anche i comandanti che, invece, in battaglia, potevano riparare nelle retrovie: fu quel che accadde al conte di Salisbury,

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centrato da un colpo di bombarda, durante l’assedio di Orléans capeggiato da Giovanna d’Arco.

Mura sempre piú spesse

Per contrastare la pioggia di proiettili, i difensori iniziarono a ingrossare le mura delle fortezze – superando talvolta i 10 m di spessore – e a praticare aperture alla base delle torri ove piazzare cannoni per rispondere al fuoco. Le feritoie, sino ad allora strette e verticali, divengono circolari per ospitare le nuove armi che rispondono ai suggestivi nomi di falcone e falconetto, basilisco, serpentina e altri ancora. Nel maggio 1453, sotto i colpi dei cannoni turchi, cade la capitale dell’impero romano d’Oriente: Co-

stantinopoli. Tra il 7 e il 18 aprile le mura edificate da Costantino vengono bersagliate da migliaia di proiettili sparati da una batteria di 68 cannoni che praticano brecce attraverso le quali vengono lanciate le cariche di fanteria scelta, che i difensori riescono però a respingere. E anche i quattordici cunicoli sotterranei, scavati dai musulmani nel tentativo di minare le mura della città, vengono neutralizzati. Infine, i giannizzeri di Maometto II hanno ragione delle stremate forze cristiane e, all’indomani della presa della città – che viene ribattezzata Istanbul –, danno inizio alla conquista dei Balcani. Negli stessi anni, ma all’estremo opposto del continente europeo, i re cattolici, ricacciano oltre Gibilterra giugno

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Qui sopra e qui sotto pugnale da lanzichenecco con il suo fodero. XVI sec. Parigi, Museo del Louvre. A sinistra I cinque lanzichenecchi, acquaforte dell’artista tedesco Daniel Hopfer (1471-1536). 1530 circa. In basso picche con punte di varia foggia. XV-XVI sec. Londra, Wallace Collection.

gli ultimi avanzi delle presenza musulmana sulla penisola iberica, completando la Reconquista. Dopo le vittorie cristiane del XIII secolo, aperte dal successo a Las Navas de Tolosa (1212) e proseguite con la presa di Cadice (1262), per oltre due secoli la provincia di Granada rimase di fatto in mano agli infedeli. Solo con l’accordo tra i sovrani di Castiglia e Aragona, sancito dal matrimonio tra Isabella e Ferdinando (1469), furono gettate le fondamenta di un vero e proprio Stato nazionale spagnolo che volse dunque le proprie energie all’unificazione della penisola. Dal 1481 al 1492 il territorio di Granada fu teatro di operazioni militari intraprese da entrambi i lati: il sultano nasride Abu Hasan con-

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la guerra nel medioevo/5 La battaglia di Sluis

Il primo atto di un conflitto infinito Dal punto di vista strettamente militare, l’inizio della guerra dei Cent’Anni viene fatto coincidere con uno scontro navale, anche se le battaglie piú famose furono scontri campali, combattuti esclusivamente su suolo francese. Dopo la rottura con il sovrano transalpino, avvenuta nel 1337 con la confisca da parte di Carlo IV dei territori inglesi sul continente, due anni piú tardi Edoardo III terrorizzò le regioni del Cambrai e Thièrache e strinse alleanze col conte d’Olanda e il duca di Brabante nonché con Jacob van Artevelde, che controllava le Fiandre. Nel 1340 il re inglese decise di tornare sul continente, dopo aver ottenuto rinforzi, benché inferiori a quelli da lui sperati. Sapendo che la moglie del Plantageneto, Filippa di Hainaut, gli aveva dato alla luce un figlio a Gand, il re di Francia inviò una flotta al comando dell’ammiraglio Hugues Quieret e del tesoriere regio Jean Béhuchet nel porto di Sluis, nelle Fiandre, per impedire l’attracco a Edoardo. Dopo aver saputo della flotta francese, il Plantageneto prese la risoluzione di affrontare in mare il nemico: era il 24 giugno 1340. Possediamo varie versioni della battaglia, tra cui il racconto di Jean Froissart, incluso nelle sue Cronache. Nessuno dei due contendenti, in effetti, era

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esperto di guerra navale: il re inlgese non aveva mai condotto una flotta in battaglia e i due francesi erano piú abili in raid e azioni di pirateria. Rispetto a quella nemica, la flotta transalpina era però di gran lunga superiore. Poteva infatti contare su numerosi legni, abitualmente di stanza a Rouen (all’arsenale del Clos-desGalees), grazie ai quali i sovrani francesi ordinavano incursioni sino Portsmouth, Southampton e Guernsey. I luogotenenti francesi, decisi a impedire l’accesso al re inglese, piazzarono una lunga linea di navi all’ingresso della baia di Sluis, unendole con catene, per fare in modo che lo scontro si trasformasse in una sorta di battaglia terrestre. Grazie a questo accorgimento, i Francesi crearono una barriera impenetrabile per il nemico, ma al contempo pregiudicarono il movimento delle singole imbarcazioni. Edoardo sistemò allora la propria flotta su tre linee, alternando una nave con a bordo i men-at-arms a due di arcieri. L’attacco inglese, riferiscono diverse fonti, sorprese i Francesi, i quali avevano di contro il sole abbagliante di giugno, che nascose le vele dei vascelli nemici. La prima nave a essere attaccata, verso mezzogiorno, fu la Christopher, un’ammiraglia inglese catturata dai Francesi due anni prima: giunti a contatto, vi fu un

fitto lancio di frecce e verrettoni, che precedette un terribile corpo a corpo, che si protrasse per un giorno e per una notte interi. Il re in persona aveva assunto il comando delle forze inglesi, mentre la flotta francese era composta anche da mercenari genovesi e normanni e fu relativamente semplice per il Plantageneto avere presto la meglio. giugno

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A sinistra miniatura raffigurante la battaglia navale combattuta, nel 1340, di fronte a Sluis, nei Paesi Bassi, da un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart. 1470-1475. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto sigillo di Edoardo III, re d’Inghilterra. Collezione privata.

quistò la città di Zahara (1481), ma, qualche anno piú tardi, perse il porto di Malaga (1487), ultima di una serie di fortezze moresche cadute in mano ai cristiani.

Granada liberata

Mentre la battaglia infuriava, la costa di Sluis si riempí di Fiamminghi, i quali giocarono un ruolo determinante, giacché presero a salvare gli Inglesi che giungevano a nuoto a riva e a uccidere gli scampati francesi. Alla fine della giornata sembra che i Francesi caduti fossero 25-30 000, contro i 9000 inglesi. Solo alcune navi genovesi, sotto il comando di Egidio Boccanegra,

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riuscirono a scampare al disastro di Sluis. Edoardo III aveva distrutto la flotta francese, fino ad allora nettamente superiore a quella inglese, allontanando ogni possibilità di invasione delle isole britanniche e ponendo le premesse affinché il resto del conflitto fosse combattuto sul suolo francese, con catastrofiche conseguenze per l’economia e il morale di casa Valois.

Infine, dopo un lungo assedio, furono stabilite le condizioni di resa della fiorente città di Granada. Il 2 gennaio 1492 il re spagnolo scriveva al pontefice: «La città di Granata si è arresa a noi con l’Alhambra e tutte le fortificazioni che la costituiscono (...). Comunico a Vostra Santità una cosí grande fortuna, ossia che dopo tante pene, spese, sacrifici di vite e di sangue dei nostri sudditi e regnicoli, questo regno di Granata, che per settecentottanta anni è stato occupato dagli Infedeli, sotto il vostro regno e col vostro aiuto, è stato conquistato». Dieci anni piú tardi un giovane spagnolo, poco piú che trentenne, si imbarcava con la spedizione di Nicolas de Ovando, nuovo governatore dell’isola di Hispaniola: il suo nome era Francisco Pizarro e con i suoi archibugieri sottomise l’impero inca nel 1532. Dieci anni prima la capitale dell’impero azteco, Tenochtitlán, era caduta sotto i colpi dei cannoni di Hernán Cortés. Il mondo medievale non era del tutto concluso: si apriva una feroce fase di conquista con armi e modalità di guerra che appartenevano agli ultimi secoli di quello che abitualmente chiamiamo Medioevo. Lo scenario però era completamente mutato e l’Europa stessa era oramai proiettata verso un mondo nuovo, anzi verso il Nuovo Mondo. F (5 – fine; le puntate precedenti sono state pubblicate nei nn. 217-220, febbraio-maggio 2015)

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costume e società parmigiano

Il sapore? È in gran forma! di Maria Paola Zanoboni

Nato forse per caso, il parmigiano seppe subito farsi apprezzare e divenne un prodotto di grande successo, tanto che, già alla metà del Trecento, Giovanni Boccaccio lo elesse tra i simboli del leggendario paese di Bengodi! Una fortuna che, dal Medioevo a oggi, non ha conosciuto flessioni e ha fatto del cascio parmesano uno degli alfieri dell’enogastronomia italiana

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e origini di una delle eccellenze gastronomiche italiane, il parmigiano, sono molto antiche, e localizzate in un’area ben precisa: presupposto indispensabile per produrne le sue grandi forme era infatti l’ampia disponibilità di latte sufficientemente grasso e quindi tratto da bovini ben nutriti (per 20 kg di prodotto finito ne occorrono 300 kg), il che poteva avvenire soltanto in determinate aree geografiche. Fin dal Duecento, nella striscia di pianura adagiata lungo la via Emilia, fra Pieve Modolena e Borgo San Donnino (Fidenza), molte aziende agricole benedettine disponevano di prati copiosamente irrigati, che consentivano di allevare un buon numero di capi di bestiame, e potevano giovarsi della vicinanza di un’arteria di comunicazione importante, quale era apunto la via Emilia. L’area andò quindi allargandosi verso sud, fino a Fontanellato e poi alla diocesi di Reggio. Per oltre 1000 anni (dal 781 al 1828), i borghi della zona (Montecchio, Sant’Ilario e altri) furono soggetti al vescovo di Parma, per cui il formaggio prodotto dai Benedettini veniva chiamato «parmigiano». Anche un’altra zona andò affermandosi in questo settore: quella a sud di Milano, sulla riva sinistra del Po, tra il Ticino e l’Adda, dove, nella seconda metà del Trecento – quando l’intensificazione delle colture irrigue conferí un ruolo crescente

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al foraggio e allo sfruttamento dei bovini da latte – i Cistercensi, grandi promotori di bonifiche, cominciarono a produrre il grana lodigiano. I monaci erano particolarmente esperti in materia: promossero ovunque nuove tecniche di fabbricazione, e a loro si deve l’ideazione della maggior parte dei prodotti caseari del Centro Europa. Formaggi che differivano nettamente da quelli tipici del bacino mediterraneo e del Medio Oriente, composti quasi esclusivamente di latte di capra e di pecora.

Antichi pregiudizi

Tuttavia, sui formaggi stagionati a base di latte vaccino gravarono a lungo molti pregiudizi: già nell’antica Grecia erano ritenuti malsani, e, ancora nel XVI secolo, il medico senese Pietro Andrea Mattioli (1501-1578) concordava nel giudizio negativo: «Il cascio vecchio è veramente di tutti il peggiore: infiamma il sangue, fa sete, digerisce malagevolmente, genera pietre e renelle nelle reni e nella vescica, oppila il fegato, ristagna il corpo, e genera cholera e humori malinconici». A esso contrapponeva «il cascio dolce», cioè il pecorino toscano. Ciononostante in quest’epoca il grana si era ormai affermato da tempo, ottenendo un consenso senNella pagina accanto miniatura raffigurante la vendita del formaggio, da un’edizione del Tacuinum sanitatis. XIV sec. giugno

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IN COLLABORAZIONE CON

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costume e società parmigiano Il venditore di formaggio parmigiano, incisione seicentesca da uno dei disegni di Annibale Carracci per la serie Arti di Bologna.

za eguali, tanto che, nel Trecento, Boccaccio, descrivendo il favoloso «paese di Bengodi», lo aveva dipinto come il luogo in cui i maccheroni rotolavano su montagne di parmigiano. Ma la sua origine doveva risalire almeno al secolo precedente, come prova un atto notarile del 1254 (vedi box alle pp. 58-59). Ulteriori riscontri si hanno poi nel 1344, in documenti che definiscono «parmesan» il cacio stagionato di latte vaccino, indicando cosí il formaggio consumato dai priori del Comune di Firenze. E, nel 1351, anche i registri criminali del Comune di Bologna citavano «XXXII formagias casei parmensis magna».

Un «esperimento» ben riuscito

Il parmigiano nacque probabilmente per caso, come esito degli esperimenti condotti da un’officina monastica al fine di ottenere un formaggio a lunga conservazione. Il suo segreto consisteva nel far cuocere il latte per due In basso Formaggio di Piacenza, particolare di un’incisione di Giuseppe Maria Mitelli. XVII sec. Roma, Istituto Centrale per la Grafica.

Nella pagina accanto Ferrara, Palazzo Schifanoia, Salone dei Mesi. Particolare dell’affresco raffigurante il mese di agosto con scene di vita contadina. 1470 circa.


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costume e società parmigiano impieghi, consumo e prezzi

Una delizia piú costosa della carne Le fonti tardomedievali testimoniano l’impiego del parmigiano in numerose ricette: oltre che come condimento per lasagne e maccheroni, entrava nella preparazione di torte, zuppe, ravioli. Maestro Martino, cuoco di Francesco Sforza, del patriarca di Aquileia e del condottiero Gian Giacomo Trivulzio, utilizzava il «caso parmesano bono» per una sua specialità chiamata «torta papalle», e lo raccomandava per i ravioli, per la «torta grassa cum riso» e per condire i vermicelli cotti nel brodo. Nello stesso periodo, il XV secolo, all’Ospedale fiorentino degli Innocenti, il parmigiano veniva acquistato appositamente per condire piatti di pesce. I manuali di cucina cinquecenteschi

ne suggeriscono anche il consumo diretto in «fettucce» o a pezzi. Si trattava in ogni caso di un formaggio molto costoso, il cui consumo era perciò limitato ai ceti piú agiati. La documentazione aziendale Datini, in cui il grana compare abbondantemente, ne testimonia prezzi elevatissimi: nella Firenze della fine del Trecento il costo di 1 libbra di vitello era inferiore a quella di 1 libbra di parmigiano, e a Pisa il prezzo del grana superava quello dell’arista di maiale. Sul prezzo di vendita, oltre alla complessità del processo di lavorazione, gravavano non poco il trasporto e il guadagno del rivenditore che, alla fine del Trecento, sempre nella contabilità Datini, oscillava tra il 38% e il 50%.

A seconda del peso e della grandezza delle forme, la stagionatura durava dai 3 ai 5 anni volte, intervallando tra il primo riscaldamento (a bassa temperatura) e il secondo (a temperatura piú alta), un periodo di riposo in cui, dopo aver aggiunto il caglio, si procedeva a sminuzzare il composto con un ramo secco di biancospino. Il nuovo formaggio venne chiamato «grana» per via dei minuscoli frammenti della cagliata visibili in superficie. Le operazioni successive di salatura e stagionatura ricalcavano quelle già in uso per i pecorini destinati a una conservazione prolungata.

Caselle e cascine

La necessità di lavorare giornalmente ingentissime quantità di latte con una tecnica particolare impose l’allestimento di apposite strutture – chiamate caselle in Emilia e cascine in Lombardia –, formate da 3 ambienti (casello, la stanza di lavorazione del latte, salatoio e casera, cioè magazzino per la stagionatura) e dotate dell’attrezzatura necessaria: dalle enormi caldaie (che potevano raggiungere i 70 kg di peso) ai mestoli, secchi, mastelli, taglieri, setacci da caglio di ogni tipo, dalla pala di legno

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per sollevare il formaggio al lungo bastone per rimescolarlo, dalla frusta di rami di biancospino per sminuzzare la cagliata, al «banco per voltare il formaggio» e alle impalcature a piani multipli per la stagionatura delle forme. La lavorazione veniva avviata nel casello, un camerone quadrato, formato da pilastri in mattoni che sorreggevano una tettoia ed erano collegati fra loro da un muricciolo alto 1 m e sormontato da assi di legno che arrivavano fino alla soffitta. Al centro di questo spazio si trovava il «focolare», una nicchia semicircolare scavata nel pavimento, dalla quale si innalzava una colonna in legno provvista di un braccio sporgente a cui si appendeva la caldaia (in rame, con manico in ferro semicircolare). Focolare e caldaia erano protetti da un muretto, avente la funzione di impedire l’eventuale propagarsi delle fiamme. In un angolo si trovava un grande tavolo in legno, inclinato e terminante a triangolo, sul quale si posava il formaggio per farne scolare il siero. In un altro angolo c’era la tinozza coperta per fare il burro (zangola). giugno

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Attigui al casello erano il salatoio e il magazzino per la stagionatura. Inoltre, nei pressi del caseificio veniva costruita sempre una ghiacciaia in muratura, in cui si conservava la neve utilizzata per la conservazione del burro.

La cucina grassa. Una allegoria, olio su tavola di Pieter Aertsen. 1565-1575. Copenaghen, Statens Museum

Caglio, sale e... zafferano

rami di biancospino. Si aggiungeva quindi lo zafferano (1 grammo per ogni quintale di latte) – consuetudine sicuramente vigente già nel XV secolo e che si protrasse fino al XIX –, per dare al formaggio una colorazione piú marcata, e si procedeva infine alla cottura vera e propria (intorno ai 50°), che poteva durare oltre 1 ora. Estratta dalla caldaia con un’apposita pala, la forma veniva quindi rivoltata e messa a scolare in un mastello. Dopo un paio di giorni, quando il formaggio era stato rivoltato e rifinito piú volte, iniziavano le operazioni di salatura, che richiedevano dalle 3 alle 5 settimane. La stagionatura durava in genere 3 o 4 anni, qualche volta anche 5, a seconda delle dimensioni e del peso. La prima descrizione di questo processo e dell’aspetto del grana è contenuta nella Summa lacticinorum del

La prima fase della lavorazione consisteva nel lasciar riposare per una notte intera, in appositi mastelli, il latte munto la sera (dai 300 ai 500 litri); al primo mattino, si procedeva poi alla separazione della panna affiorata in superficie (che veniva poi lavorata a parte nella zangola per ottenere il burro). Il latte veniva allora travasato in una caldaia a forma di campana capovolta, e portato alla temperatura di circa 35° (verificata manualmente e in base alle «bollicine»), mentre il casaro lo mescolava. Venivano quindi aggiunti il caglio, che innescava il processo di coagulazione, e il sale. Terminata la coagulazione, si portava velocemente il composto a una temperatura superiore ai 35°; poi, a fuoco spento, si procedeva a spezzare il piú possibile il coagulo con la frusta di

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for Kunst. La minuzia nei dettagli, tipica della pittura fiamminga, consente di riconoscere le diverse vivande.

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costume e società parmigiano medico piemontese Pantaleone da Confienza (1487), il quale cosí ne parla: «Sono grossi e larghi, di peso di circa 100 libbre e piú, ma di solito di circa 55 (18 kg circa); sono di bello aspetto, infatti li conservano puliti in modo tale che nella loro crosta non rimane nessuna sporcizia. Li ispezionano infatti spesso, pulendo la crosta, manipolandola e raschiandola perchè venga eliminato ogni sudiciume. In bellazza superano tutti i formaggi che io abbia visto, eccetto quelli inglesi, che pure sono assai belli. Per quanto riguarda la bontà, sono saporiti e buoni soprattutto quelli fatti in primavera e di stagionatura media, cioè di 3 o 4 anni, e questo varia a seconda della grandezza dei formaggi, poiché i piú grandi si conservano per un tempo maggiore (…). Alcuni poi li ungono periodicamente con burro fresco, e cosí si conservano piú a lungo. Ma i formaggi di questo tipo sono fatti con latte di vacca, perciò grandi e burrosi, sebbene ne sia stata estratta una forte quantità di burro. (…) La bontà dei pascoli contribuisce molto alla loro maggiore bontà, e i pascoli lungo il Po, come quelli di montagna, quasi ovunque producono erbe buone e utili per migliorarne il sapore». Alla fine del Quattrocento, dunque, si realizzavano in genere forme di circa 18 kg. Molto piú piccole, invece, erano quelle prodotte un secolo prima, esportate dal mercante pratese Francesco Datini (che apprezzava molto il parmigiano): oscillavano tra le 8 libbre (2,7 kg circa) e le 21 libbre (7,3 kg circa). Pantaleone da Confienza prosegue la descrizione lodando l’abilità dei casari del luogo nel calcolare la quantità di caglio, i tempi di coagulazione e quelli di cottura. Una perizia davvero notevole, considerando che nel Medioevo non esistevano strumenti capaci di misurare la temperatura, e il latte assai spesso perveniva al caseificio in condizioni non ottimali, date l’assenza di macchinari per la refrigerazione e le condizioni igieniche precarie. Il casaro non era un semplice artigiano, chiamato a curare la produzione e la conservazione del prodotto, ma un vero imprenditore, che assumeva in proprio la conduzione di tutta l’azienda. Si trattava, in genere, di un ricco affittuario, che prendeva in consegna, con atto notarile, i terreni da foraggio e il bestiame, e che gestiva il caseificio ivi esistente (o che comunque era in grado di impiantarvelo). Tale figura rimase al vertice del sistema produttivo dal XV al XVIII secolo, trasformandosi in un semplice artigiano retribuito giornalmente dal lattarolo solo nell’Ottocento.

Come titolo di pagamento

Nel corso del Quattrocento si registrano numerosi casi di monasteri benedettini che cedevano in locazione in blocco i loro terreni (nei quali non erano spesso piú in grado di effettuare le migliorie necessarie) a conduttori facoltosi, i quali ne subaffittavano poi una parte a imprenditori casari in possesso delle conoscenze tecniche e

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A sinistra Fontanellato, Parma. Un casaro intento alla lavorazione del Parmigiano Reggiano durante una manifestazione pubblica. A destra particolare di una miniatura raffigurante la preparazione del formaggio, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. XIV sec. Nella pagina accanto, in basso San Secondo, Parma. La Rocca dei Rossi (XIV-XV sec.), che, come altre importanti famiglie patrizie, avviarono un’azienda casearia.

dei capitali necessari alla produzione del grana. I monaci pattuivano una parte del censo in forme di formaggio. In questo settore, come già in altri che promettevano buone prospettive di guadagno, entrava talvolta anche l’aristocrazia nobiliare-mercantile della zona, e talora persino importanti personaggi della corte sforzesca. Alla fine del Quattrocento comparve sul mercato il grana prodotto nelle aziende dei grandi feudatari, tra i quali figurano grandi sovvenzionatori di bonifiche come i Gonzaga di Novellara, i Sanvitale di Fontanellato, i Rossi di San Secondo Parmense e i Landi di Piacenza, che acquisirono in vario modo estesi possedimenti di provenienza benedettina, continuandone la tradizione casearia. Nel 1523, Alessandro Gonzaga diede in affitto la cascina a un imprenditore caseario, corredandola di 100 mucche, e impegnandosi a fornire ogni anno 40 carri di legna da impiegare nella produzione del formaggio e della ricotta. L’affittuario, oltre al canone di locazione, avrebbe dato al proprietario ogni anno 1 vitello, 1 forma di grana, e un certo quantitativo di burro e di ricotta. Tre anni piú tardi, ancora il Gonzaga affittò altri terre(segue a p. 60)

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costume e società parmigiano

Come un vitalizio Quando, il 25 aprile del 1254, il notaio genovese Guglielmo Vegio rogò uno tra i tanti documenti che uscivano dalla sua penna, certo non immaginava l’importanza storica di ciò che stava scrivendo, pur nell’asciutto e tecnico frasario dello stile notarile. Si trattava della vendita di una casa nel centro di Genova, ceduta dalla vedova Giovanna Mureti Mallone a Isabella, badessa del monastero di San Pietro de Prata (di Prà), per una cifra di 50 lire di denari genovesi e un vitalizio di 6 mine di grano e un mezzo cantaro di «casei Paramensis», ovvero di formaggio parmigiano («et quia dictum monasterium debet ei dare anuatim usque dum vixerit ipsa Iohanna eidem Iohanne minas sex frumenti sive grani et medium cant[arii] casei Paramensis»). È questa la prima attestazione

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documentata dell’esistenza del nostro formaggio. Il tenore del documento è molto chiaro: per risolvere probabili difficoltà economiche, la vedova Giovanna vendette una casa di sua proprietà già ipotecata, riservandosi però il diritto di ricevere dalle monache a cui cedeva lo stabile, finché fosse stata in vita, una buona quantità di frumento e di formaggio; non però un cacio fresco reperibile facilmente in loco o un altro formaggio «vecchio», bensí formaggio parmigiano. Il rogito notarile, infatti, specifica che alla vedova dovrà essere consegnato «casei Paramensis», probabilmente preferito ad altri formaggi per la lunga conservabilità e per lo straordinario valore nutritivo, oltre che, non possiamo escluderlo, per soddisfare i gusti personali della signora Giovanna.

In alto la raccolta in cui è compreso l’atto notarile del 1254 recante la prima menzione a oggi nota del parmigiano. Genova, Archivio di Stato.

Genova era, nel Medioevo, uno dei mercati piú fiorenti e commercialmente sviluppati del Mediterraneo e tra i suoi banchi presso Porta Sant’Andrea e a Soziglia i formaggiai smerciavano numerosi tipi di formaggio provenienti sia dall’entroterra, come le giuncate di Aggio, sia via mare, come il cacio di Chiavari e i pecorini di Sardegna. Non è di poco conto la notizia comprovata dal documento che riportiamo, ovvero che su questo mercato era disponibile continuativamente un formaggio identificato come parmigiano e che doveva avere già allora precise caratteristiche che lo identificavano e giugno

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ne facevano un prodotto riconoscibile e ben distinguibile. Chi lo pretende, cioè la vedova Giovanna, sa cosa vuole e lo fa scrivere a rogito: cosí, mentre si garantisce un vitalizio, ci informa che sulla piazza di Genova, a metà del Xlll secolo, già si acquistava questo formaggio proveniente dal Parmense. L’indicazione «caseum Paramensis», che ritorna nel documento due volte, contribuisce ad avvalorare le ipotesi avanzate in precedenza da altri autori: le tecniche per la produzione del formaggio grana dovevano essere state sviluppate almeno dal XII secolo, perché la sua fama potesse diffondersi e consolidarsi già nel Duecento. La sua presenza a Genova nel 1254 lascia pensare che da tale mercato e dal suo porto il parmigiano potesse raggiungere altre piazze sia in Italia sia nel Mediterraneo. Non solo, ma il documento genovese conferma che la qualifica «Paramensis», ovvero parmigiano, indica non solo una precisa e inconfondibile tipologia di formaggio, ma anche che tale prodotto e la tecnica per la sua produzione nascono nel territorio parmense, pur diffondendosi successivamente in tutta l’area padana. L’imbreviatura (minuta) originale del documento è conservata presso

LE DATE DA RICORDARE XIII secolo Prime indicazioni sulla presenza del formaggio parmigiano. XIV secolo I monasteri benedettini e cistercensi giocano un ruolo fondamentale nella tecnica di produzione. Ha inizio l’esportazione in Toscana e da lí verso i porti del Mediterraneo. XV secolo Nel Parmense e nel Reggiano la produzione casearia si diffonde; il formaggio «maggengo» primaverile-estivo è considerato il migliore. Il parmigiano viene impiegato nei banchetti rinascimentali. XVI secolo Il parmigiano si diffonde in Europa. Un caseificio cinquecentesco produce 2000-3000 kg di formaggio all’anno con forme estive di 16 kg l’una. Il parmigiano è citato dai maggiori cuochi del tempo per ricette con la pasta o per il dessert. XVII secolo Lo sviluppo commerciale porta nel 1612 al primo documento ufficiale a tutela dell’origine. XVIII secolo Inizia la transizione dalle grandi «vaccherie» dei nobili ai caseifici con diversi conferenti del latte. XIX secolo I caseifici ottagonali divengono manufatti di indubbia bellezza. La «grande cuisine» francese diffonde l’uso del parmigiano a livello mondiale. 1928 Creazione del primo Consorzio di Tutela a Reggio Emilia. 1930 Sono circa 2600 i caseifici in attività. 1934 Creazione del Consorzio volontario Grana tipico su base interprovinciale. 1938 Viene ufficializzato il nome Parmigiano-Reggiano. 1951 Convenzione Internazionale di Stresa sulle denominazioni dei formaggi. 1954 Legge italiana sulle denominazioni d’origine. 1992 Regolamento CEE 2081 sulle DOP. 1996 Il Parmigiano Reggiano diventa DOP europea. 2006 Regolamento UE 510 sulle DOP. Cristoforo Grassi, Veduta di Genova nel 1481. Tempera su tela, 1597. Genova, Galata Museo del Mare.

l’Archivio di Stato di Genova (fondo notai antichi, cart. 28, p. 171v-172r), e ne esiste una trascrizione settecentesca, con alcuni errori. Il commento alla scoperta che qui pubblichiamo, per gentile concessione del Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano, è tratto da: Alessio Concari, Silvia Testa (a cura di), Milleduecentocinquantaquattro. La prima testimonianza scritta del formaggio Parmigiano-Reggiano.

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costume e società parmigiano A sinistra Fontanellato, Parma. Un momento della sagra del Parmigiano Reggiano. A destra Fontanellato, Parma, veduta dell’interno della Rocca Sanvitale, altra casata che si dedicò alla produzione del parmigiano.

Usi e costumi

Un formaggio che giova al matrimonio... Il parmigiano poteva spesso trasformarsi in dono nuziale: in occasione del matrimonio di Ercole II d’Este, figlio di Alfonso I, con Renata, figlia del re di Francia Luigi XII (1528), la comunità di Modena regalò agli sposi, tra le altre cose anche 4 forme di grana piacentino del peso totale di circa 130 kg. Pochi anni prima (1503) il duca Ercole I aveva indotto tutti i sudditi facoltosi di Ferrara e del territorio a regalare ai novelli sposi Alfonso I e Lucrezia Borgia una quantità sorprendente di generi alimentari: nella sola notte dell’Epifania vennero radunate oltre 300 forme di grana. ni, corredati questa volta di 140 mucche e di tutta l’attrezzatura per fare il formaggio, impegnandosi a fornire 45 carri di legna annui. Il casaro affittuario gli avrebbe versato annualmente, oltre al canone di locazione, 2 forme di grana prodotto in maggio, considerato il migliore, burro e ricotta.

Un dono sempre molto apprezzato

La precarietà nella buona riuscita del grana faceva sí che le poche forme perfette diventassero, per la loro eccezionale bontà, un prodotto di valore inestimabile, destinato a principi, imperatori, cardinali e papi, sempre felici di riceverlo in dono. Dal Medioevo in poi molti documenti attestano l’invio di ricchi omaggi consistenti in forme di parmigiano a personaggi illustri. Nel 1476, per esempio, gli Anziani della comunità di Reggio regalarono 2 forme ai frati del monastero delle Grazie, a titolo di ringraziamento per aver ritrovato e restituito al Comune gli Statuti cittadini andati perduti. Nel 1477 è documentata l’antica usanza del Comune di Parma

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di regalare ogni anno ai duchi di Milano «una soma de melone che se appellano “Schocie” con del formazo parmesano da usare cum quelle». Fin dal Trecento il parmigiano veniva esportato in tutta la Penisola: a Firenze, Pisa, Livorno, Bologna, Genova, in Piemonte; nel Quattrocento anche a Roma, e, nel tardo Cinquecento, a Napoli e Palermo. Da Porto Pisano e da Livorno parte della produzione proseguiva il suo viaggio verso altri centri del Mediterraneo. Nel XVI secolo il mercato del grana aveva ormai raggiunto livelli europei. La fortunata e continua ricerca di nuovi sbocchi commerciali era dovuta non solo alle sue qualità intrinseche, ma anche alla sua inalterabilità durante i trasporti. All’inizio dello stesso XVI secolo la piazza di Venezia costituiva un importante centro di smistamento del prodotto verso i paesi dell’Europa centro-settentrionale e verso il Medio Oriente, mentre nel Seicento il grana era sicuramente esportato anche in Inghilterra: un importante personaggio del governo britannico narra infatti di aver seppellito nel giardino di casa, per pregiugno

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Da leggere Sul parmigiano in particolare U Mario Iotti, Storia del formaggio di grana «Parmigiano Reggiano» (1200-1990), Aedes Muratoriana, Modena 1991 U Mario Zannoni, Il parmigiano-reggiano nella storia, Silva Editore, Parma 1999

servarli dal rovinoso incendio londinese del 1666, vari oggetti preziosi, tra cui anche del «Parmezan cheese». Sono dunque numerosi i viaggiatori italiani e stranieri che, dal XVI secolo in poi, visitando l’Italia settentrionale, non mancarono di annotare le qualità di questo formaggio, precisandone importanti aspetti tecnici ed elogiandone la bontà. Tra loro, spicca il bolognese Leandro Alberti, inviato nel 1532, in qualità di inquisitore generale dell’Ordine domenicano, a visitare la Lombardia al di qua del Po, di cui parlò appunto nella Descrittione di tutta Italia. Rimase colpito in particolare dalla bellezza e dalla fertilità del territorio parmense: «Sorgonsi belle e larghe campagne dove sono buoni e grossi pascoli per gli animali, e fra gli altri le grandi mandrie di vacche, dalle quali se ne cava tanto latte per fare il cascio, che è quasi da non credere, a quelli che non l’averanno veduto. Onde è nominato il detto cascio, per la sua bontà, per tutta Italia col Piacentino e Lodigiano». E sullo stesso argomento l’autore ritorna parlando di Piacenza: «Si veggono nella pianura larghi prati (…) per

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Sul formaggio in genere U Irma Naso, Formaggi nel Medioevo. La «Summa lacticinorum» di Pantaleone da Confienza, Il Segnalibro editore, Torino 1990 U Pantaleone da Confienza, Trattato dei latticini, a cura di Emilio Faccioli, con saggio introduttivo di Irma Naso, Slow Food Editore, Bra 2001 U Maria Giagnacovo, Formaggi in tavola. Commercio e consumo del formaggio nel basso Medioevo. Un contributo dell’Archivio Datini di Prato, Aracne, Roma 2007

notrigare gli armenti de i quali in gran numero se ne ritrova in questo paese per fare il cascio, e i quali se ne conduce gran quantità e tanta grandezza e di tanta bontà che per tutta Europa è in gran ammirazione e estimazione. (…) Et per la grande abbondanza di latte, che cavano dagli animali di esso paese, fanno le forme di cascio alcuna volta tanto larghe e grosse, che risultano per diametro larghe due piedi e mezzo [1 m circa] e di peso di 200 libbre [70 kg]». F

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costume e societĂ sport

Calcio

passione antica

di Roberto Roveda, con la collaborazione di Francesca Saporiti

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In un recente film italiano si immagina una partita di pallavolo giocata con grande partecipazione dai cardinali chiamati a eleggere il nuovo papa. Una finzione, in fondo, non troppo lontana da quanto accadeva nella Firenze del Quattrocento, quando a battersi come calcianti furono anche personaggi eminenti, fra cui tre futuri pontefici

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entinaia di persone urlanti si azzuffano sul campo da gioco rincorrendo una palla: un’invasione di campo? No, nessuna scorrettezza, anzi, tutto si svolge secondo le regole e nel pieno fair play: consisteva in questo, infatti, nella Francia del Nord e in Cornovaglia, la soule, un gioco di palla tradizionalmente di ambito rurale, attestato fin dal XII secolo. Secondo quanto si è potuto ricostruire, nella soule – detta anche choule – non vi erano limiti al numero di partecipanti: ogni squadra era formata da tutti gli uomini «validi» dei due o piú villaggi o parrocchie che si contrapponevano nella sfida. Le occasioni per queste sfide potevano essere le piú varie: dalle ricorrenze religiose alla festa del raccolto, fino a lieti eventi, come nascite e matrimoni – nel qual caso si giocava spesso scapoli contro ammogliati –, e in campo potevano azzuffarsi per guadagnarsi la vittoria anche piú di duecento persone. La palla contesa era in cuoio o in vescica di maiale, riempita di crusca, fieno, muschio o crine di cavallo, a seconda di quello che la stagione e le possibilità dei giocatori offrivano. Il campo di gioco aveva dimensioni

Nobile al gioco del calcio, acquerello di Giovanni di Grevembroch. XVIII sec. Venezia, Museo Correr.

A sinistra l’inizio di una partita di soule, in Bretagna, in una illustrazione da Breiz-Izel, ou vie des Bretons de l’Armorique. XIX sec.

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costume e società sport variabili dalla decina alle centinaia di metri, includendo anche fossati, ruscelli, boschi, stagni o zone paludose. Non certo a caso, le cronache dell’epoca narrano che quaranta uomini annegarono in una palude nel corso di una partita di soule a Pont-l’Abbé. La metà campo, luogo di avvio del gioco, poteva essere il confine tra due parrocchie, la piazza principale del villaggio, il sagrato della chiesa, ma anche il cimitero o il castello del signore locale. Anche se giocata con intenti ludici e in occasione di feste importanti, la soule era uno sport molto combattuto, spesso violento. Come in un mix di calcio e rugby, l’obiettivo di ciascuna squadra era spingere la palla usando mani, piedi o bastoni verso la porta avversaria, spesso delimitata da una semplice riga sul terreno o rappresentata dalla piazza del villaggio avversario. Nasi contusi, braccia rotte, caviglie slogate erano all’ordine del giorno: non esistevano penalità per gioco violento, anzi le ferite venivano mostrate con orgoglio da chi si era battuto fieramente sul campo, spesso anche per piú giorni.

Affresco raffigurante un gruppo di giovani intenti al gioco della palla, da una tomba della Necropoli Portuense, a Roma. II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano.

grecia e roma

Quando Augusto giocava all’harpastum...

Divieti inutili

Neppure i divieti reali – fra cui quello del 1365 di Carlo V di Francia –, né la minacce di scomunica da parte delle autorità ecclesiastiche riuscirono ad arginare l’entusiasmo e arrestare la pratica del gioco. Un gioco che coinvolgeva anche la nobiltà e il clero locale, tanto che nelle campagne francesi la soule sopravvisse fino agli inizi del XX secolo. Quella per il gioco della palla era una passione travolgente già in epoca medievale. Una vera e propria «febbre», che ricorda da vicino quello che accade oggi negli stadi e che accompagna l’uomo fin dalle epoche piú lontane. Anche i Vichinghi, che nell’immaginario comune vengono dipinti come uomini costantemente intenti a compiere scorrerie e a ubriacarsi di idromele, giocavano a palla, nell’estremo Nord dell’Europa, in

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La sfera sembra aver stregato l’uomo da sempre, ma sono i Greci e i Romani ad averci lasciato testimonianze sui primi antenati del calcio moderno. Molte attività ludiche e ginniche dell’età classica si svolgevano con la palla, con regole e attrezzi diversi: tra questi la feninda, di cui abbiamo una sorta di telecronaca in un passo del commediografo greco del IV secolo a.C. Antifane: «Prese la palla ridendo e la scagliò ad uno dei suoi compagni. Riuscí ad evitare uno dei suoi avversari e ne mandò a gambe all’aria un altro. Rialzò in piedi uno dei suoi amici, mentre da tutte le parti echeggiavano altissime grida “È fuori gioco!”, “È troppo lunga!”, “È troppo bassa!”, “È troppo alta!”, “È troppo corta!” “Passala indietro nella mischia!”». I Romani rimasero affascinati da questi sport con la palla, conosciuti durante le campagne elleniche, e si appassionarono in particolare all’harpastum. Si trattava di un gioco molto fisico, il cui nome derivava da quello della palla utilizzata: piccola, dura e piena – solitamente giugno

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di stoppa o lana – l’harpastum veniva contesa in una competizione piuttosto violenta, con mischie e corpo a corpo per impadronirsene, in uno scontro con regole che variavano di volta in volta. Era un gioco praticato sia dalle persone comuni nelle vie e nelle piazze, sia dai gladiatori per mantenersi in allenamento, sia da soldati e legionari per spezzare la noia della vita militare. Sembra che lo stesso Augusto, sfibrato dalla guerra con Antonio, abbia abbandonato le faticose esercitazioni equestri e di scherma per rilassarsi giocando a palla. L’harpastum, però, non doveva essere un gioco propriamente rilassante: tra gli atleti in campo – da 9 a 30 per squadra, in competizione in uno spiazzo con fondo di sabbia –, pochi abbandonavano il terreno di gioco sudati ma illesi, mentre era frequente che i giocatori subissero gravi ferite, in alcuni casi anche mortali. Non quindi all’harpastum, ma a una sorta di antica forma di pallavolo faceva riferimento il medico romano Galeno

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quando, nel III secolo d.C., consigliava il gioco della palla quale attività salutare, adatta anche alle persone anziane che nelle ville piú lussuose si fanno costruire appositi sphaeristeria, riscaldati durante la stagione invernale. Né si riferiva all’harpastum quando simili consigli erano diretti alle fanciulle, poiché il grande medico considerava il gioco della palla il solo, tra tutti gli esercizi fisici, incapace di procurare danno, se praticato con moderazione. Dello stesso parere, in epoca cristiana, si mostrò il teologo Clemente Alessandrino, il quale, nelle sue opere pedagogiche, annoverava il gioco della palla tra le attività utili per l’educazione dei fanciulli. Non particolarmente salutari, né tantomeno educative, sembrano però tutte le diverse forme di gioco con la palla praticate nelle città e nei villaggi dell’impero, cosí come i numerosi sport con la sfera a cui si dedicavano le diverse tribú barbare che premevano ai confini e che finirono per travolgere la civiltà romana intorno alla metà del V secolo.

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costume e società sport Islanda, Scandinavia e Danimarca. In particolare gli uomini, giovani e adulti, praticavano il knattleikr: poco loquaci per natura, i Vichinghi non ne hanno lasciato ampie descrizioni, ma da alcune saghe nordiche sappiamo che era uno sport in cui gli atleti, divisi in due squadre, ciascuna con un capitano, si contendevano una palla dura e pesante. Obiettivo dell’incontro era riuscire a portare la palla all’estremità del campo avversario, colpendola a mani nude o con un bastone.

Scontri e urla

Il gioco era regolato da un preciso codice di possibili falli e infrazioni: non era però punito il contatto con l’avversario, anzi, lo scontro era alla base della competizione stessa e nelle lotte che avvenivano in campo era il piú forte ed esperto ad avere la meglio. E non si trattava solo di una battaglia giocata a pugni e placcaggi, ma anche condita da espressioni colorite: urla di guerra e minacce accendevano il parapiglia sul terreno di gioco e l’intimidazione era una delle armi utilizzate contro gli avversari, tanto quanto la sopraffazione fisica. Per giocare, si adottava una mise apposita, antenata delle divise sportive in uso ancora oggi. Il pubblico che assisteva numeroso a questi eventi – che duravano dalla mattina fino a notte fonda, in tornei che potevano protrarsi per settimane, coinvolgendo clan provenienti anche da territori molto lontani – partecipava attivamente con invettive e incitamenti circondando il terreno di gioco, accuratamente delimitato. A seconda della stagione, il knattleikr si disputava su campi erbosi o sul ghiaccio: in quest’ultimo caso i Vichinghi cospargevano le suole dei loro stivali di bitume o di sabbia per garantirsi una maggiore aderenza al suolo. Tuttavia, che fosse erba o ghiaccio, la consistenza del terreno di gioco non impensieriva gli atleti: era il gioco stesso a essere duro e violento,

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In alto xilografia raffigurante alcuni ragazzi puritani che, giocando a calcio di sabato e dunque trasgredendo al riposo comandato, vengono puniti da Dio con l’annegamento. 1671. A sinistra incisione raffigurante giochi con la palla, dalla Description et Histoire naturelle du Groenland di Hans Egede. 1763.

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senza esclusione di colpi, tanto che anche la legislazione dell’epoca si premurava di salvaguardare l’incolumità dei partecipati; il Grágás, un codice del XII secolo, annotava che ogni partecipante al knattleikr poteva abbandonare il campo in qualsiasi momento: certo l’onore dell’atleta che rinunciava cosí allo scontro doveva uscire malconcio, quasi quanto il corpo.

La versione celtica

Se è vero, come narrano alcune fonti coeve, che già tra il II e il III secolo i Germani sfidavano spesso i Romani non solo sul campo di battaglia, ma anche in prove di abilità, tra cui i giochi con la palla, la passione del questo tipo di sport era fortemente radicata nel mondo celtico e sopravvisse nei secoli successivi. Anche prima del IX secolo era diffuso il cnapan (o knappan), un gioco tradizionale gaelico che affondava le sue radici nella cultura celtica, ma che, in seguito all’evangelizzazione dell’isola britannica, andò a coincidere con la celebrazione delle principali festività cristiane.

«Protagonista» del gioco era una palla di legno, anche se non si trattava di una comune sfera. Secondo le regole del cnapan, infatti, la notte prima della partita, la palla veniva intrisa di unto, facendola bollire per almeno dodici ore nel grasso di maiale o di altri animali, cosí da renderla viscida e sfuggente, quasi impossibile da agguantare e colpire con i piedi, aumentando il livello di difficoltà e imprevedibilità del gioco. Ma qual era lo scopo della competizione? Le regole non differivano molto dai giochi di cui abbiamo già parlato: anche in questo caso si fronteggiavano due squadre composte da giovani e adulti di uno o piú villaggi, con l’obiettivo di aggiudicarsi la palla e conquistare l’estremità del campo avversario. Non c’erano limiti alla foga con cui la palla poteva essere conquistata, solo l’uccisione di un avversario veniva considerata un eccesso. In caso di pericolo, le regole non scritte della competizione prevedevano che il gioco potesse essere fermato al grido: «Heddwch!» («Pace!»). Attenzione però a non abusare con questo tipo

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costume e società sport di interruzioni, considerate fallo gravissimo se richieste per motivi futili. Cosí, pesti e malconci, i giocatori spesso dichiaravano chiusa la partita solo a notte fonda. Il cnapan era uno spettacolo molto partecipato in particolare in occasione del carnevale, ma la tradizione di organizzare giochi con la palla nei giorni di Shrovetide – nome che nei Paesi anglosassoni identificava il carnevale cristiano – era diffusa in tutta la Britannia, con attestazioni certe a partire dall’XI secolo, sia nei villaggi, sia nelle piazze di Londra. Inizialmente la pratica del gioco, cosí fortemente radicata nella cultura del territorio, non fu ostacolata dai sovrani, che anzi in alcune occasioni vi partecipavano piú o meno attivamente – la letteratura epica narra che anche re Artú subí il fascino della sfera! –, ma già dal XIII-XIV secolo questo sport, ormai diffuso con il nome di large football, venne visto come fattore di disordine e possibile sovversione sociale e quindi duramente represso, anche se con esiti praticamente nulli.

Uno stile tutto fiorentino

La grande «vivacità» del gioco con la palla, il suo carattere campanilistico e carnascialesco e la generale avversione del potere nei suoi confronti ritornano anche nelle manifestazioni di «calcio» nostrane. Nelle stesse vie che nel XIII secolo avevano visto nascere un modo nuovo di fare poesia, un dolce stile cantato in versi dai poeti fiorentini del calibro di Dante Alighieri, comparve anche un nuovo modo di giocare al pallone. Un irriverente poemetto anonimo del Quattrocento è la prima testimonianza scritta di una pratica che probabilmente creava scompiglio per le strade di Firenze da almeno un secolo: il calcio fiorentino. Luogo prediletto degli incontri erano le piazze cittadine – dove ancora oggi, a distanza di secoli, è possibile leggere i divieti «al giuoco di palla e pallottole et ogni altro strepitoso» –, ma

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A destra Giovanni Stradano (Jan Van der Straet), Gioco del calcio in Piazza S. Maria Novella. 1562-1572. Firenze, Palazzo Vecchio, Sala di Gualdrada.

ogni posto e occasione erano buoni per fare una partita: addirittura, si narra che, nel 1490, un inverno particolarmente rigido si tramutò in festa il giorno in cui sull’Arno ghiacciato ci si ritrovò «e vi si fece palla». Nel calcio fiorentino – particolare mix di calcio e rugby in cui la palla poteva essere colpita sia con i pugni sia con i piedi – due erano le squadre in campo, composte generalmente da ventisette giocatori in livrea: l’attività di ciascun atleta – anzi, dei «calcianti», com’erano detti all’epoca – sul campo da gioco non era casuale, ma dettata dal ruolo rivestito all’interno del proprio schieramento. In ciascun gruppo, infatti, vi erano giocatori «specializzati» proprio come nel calcio professionistico moderno. La formazione tipo prevedeva solitamente 15 Innanzi, che avevano il ruolo di attaccanti, supportati poi da 4 Sconciatori – assimilabili ai moderni centrocampisti – e da 8 Datori, gruppo internamente organizzato in Datori innanzi (terzini e trequartisti) e Datori indietro (difensori). Una tale ressa in campo richiedeva ben sei arbitri che, dall’alto di una tribuna laterale, supervisionavano il gioco, cercando di scongiurare che la competizione sfociasse in rissa.

Giocatori illustri

Quei calcianti faranno strada... La passione per il calcio fiorentino non risparmiava nessuno in città, tanto che tra gli appassionati del pallone vi furono anche tre futuri papi: Giulio de’ Medici, eletto poi pontefice con il nome di Clemente XII, Leone XI (Alessandro de’ Medici) e Urbano VIII (Maffeo Barberini). Chi immagini i tre prelati dignitosamente seduti in tribuna a gustarsi lo spettacolo della mischia che si contendeva la palla di cuoio in piazza Santa Croce si sbaglia di grosso: i tre predestinati al soglio pontificio, nell’esuberanza della giovinezza, hanno infatti fatto parte, scarmigliati e sudati, delle squadre di giugno

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A destra Firenze, Palazzo dell’Antella. Disco in marmo che segnava la linea mediana del campo di gioco del calcio fiorentino. 1565. Uno analogo si trova sul lato opposto della piazza, che è quella di Santa Croce, sede storica della competizione.

calcianti che si azzuffavano per conquistare la vittoria tra le grida del pubblico in occasione di banchetti nuziali o feste civiche. Ancora senza tiara, né anello piscatorio rincorrevano il pallone tra le nuvole di polvere che si alzavano nel campo da gioco e nascondevano le possibili scorrettezze messe in atto per cercare di impossessarsi della sfera. Certo qualcosa di molto diverso dall’attuale Campionato di Calcio Vaticano o dalla Clericus Cup, torneo calcistico patrocinato dalla Santa Sede.

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costume e società sport A sinistra lo schema di gioco del calcio fiorentino, da Memorie del calcio fiorentino. Firenze, 1688. Nella pagina accanto una partita di calcio fiorentino in piazza della Signoria, nel 1932.

Ufficialmente per evitare queste degenerazioni, ma piú probabilmente per permettere ai nobili di godere di un privilegio in piú, il calcio fiorentino poteva essere praticato solo da gentiluomini iscritti in un apposito elenco comunale, riservato ai piú degni. Come in un

arcaico album di figurine, possiamo leggere, tra le fila dei calciatori dell’epoca, i nomi altisonanti dei signori delle corti italiane, quali Cosimo I granduca di Toscana, Alessandro duca di Firenze, Lorenzo duca d’Urbino e anche di futuri pretendenti al soglio pontificio

il kemari giapponese

Gli antipodi del calcio

(vedi box alle pp. 68-69). Piero de’ Medici applicò un vero e proprio mecenatismo anche all’ambito calcistico, attirando in Firenze i giocatori piú dotati del tempo.

Una partita «eversiva»

Come abbiamo detto, proclami e divieti non potevano impedire alla gente comune di scendere in strada e continuare a giocare a palla ogni volta che se ne presentava l’occasione. A mettere fine ai giochi non riuscirono neppure guerre e privazioni, come accadde il 17 febbraio del 1530, quando in piazza Santa Croce – nella Firenze dichiarata repubblica dopo la cacciata dei Medici – i giovani della città si misero audacemente a giocare al pallone, a ridosso delle mura cannoneggiate dall’esercito imperiale di Carlo V, che voleva restaurare la signoria nel capoluogo toscano. Ancora una volta il gioco del calcio si fece beffe del potere costituito, incarnando tutta la carica eversiva dell’attività ludica.

Mentre in Europa giocatori scalmanati rincorrevano il pallone, contendendoselo senza esclusione di colpi, anche nell’Oriente esistevano diversi giochi con la palla, lontani dal calcio del Vecchio Continente non solo geograficamente, ma anche culturalmente. A partire dall’VIII secolo, infatti, in Giappone nacque e si affermò tra la nobiltà un raffinato gioco a squadre con la palla: il kemari. In esso tutti i giocatori collaboravano con l’obiettivo di mantenere la sfera in gioco, palleggiandola con le diverse parti del corpo: testa, piedi, ginocchia, schiena e gomiti, ma non con le mani. La palla, mari, era in pelle di cervo, riempita con crine di cavallo o, secondo alcune rare tradizioni, con i capelli di una fanciulla. Il campo da gioco era un’area quadrata delimitata ai quattro angoli da alberi differenti: salici a sud-est, ciliegi a nord-est, pini a nord-ovest e aceri a sud-ovest. A inizio partita i giocatori si distribuivano a coppie nei quattro angoli per un totale di 8 persone in campo. Ogni partecipante doveva effettuare tre palleggi, prima di passare la palla. Scopo del gioco è quello di non far mai cadere il pallone: secondo una testimonianza giunta fino a noi, nel corso di una partita disputata nel 1208, furono effettuati oltre 2000 palleggi!

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Una carica dotata anche di un forte potere di contagio, dato che il calcio gradualmente si diffuse in tutte le principali città italiane, in un caleidoscopio di varianti. «In Prato, già Terra, oggi Città, in Toscana, non piú che dieci miglia distante di Firenze, si fa il giuoco del calcio, non meno che in Firenze. Ma se nel giuoco di Firenze si usano piccoli palloncini, e si percuotono col pugno armato di solo guanto» – racconta il medico e letterato seicentesco Francesco Redi – «in Prato si adoperano di que’ pallon grossi, co’ quali si suol giuocare il giuoco del pallon grosso ed in questo A sinistra Mari O Dasu Musume (Ragazza che toglie un mari dalla sua scatola), xilografia a colori. 1787. Collezione privata.

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giuoco del calcio de’ pratesi, non si dà al pallone col pugno, ma sempre col calcio: anzi rarissime son quelle volte che se gli dà col pugno».

A ciascuno la sua calza

E il calcio non era una questione solo toscana: il Protonotaro apostolico di Bologna nel 1580 si trovò a dover bandire dalla città emiliana quel «gioco del calzo, gioco di palla simile al calcio fiorentino» per poter ristabilire l’ordine in città ed «evitare risse, scandali et inimicizie». L’editto rimase però inascoltato e a Bologna continuò a spopolare questo gioco del calzo, cosí detto perché le squadre che si affrontavano sul terreno di gioco indossavano calze di diverso colore, cosí da distinguersi al meglio nelle feroci mischie. Insomma, ogni nuova tradizione, ogni variante nata sul campo

Da leggere U Sergio Salvi e Alessandro Savorelli,

Tutti i colori del calcio. Storia e araldica di una magnifica ossessione, Le Lettere, Firenze 2008 U Gabriele Manu e Scialanga Marco, Football tra storia e leggenda. Dalle origini al calcio moderno, Bradipolibri, Ivrea 2012 U Richard D. Mandell, Storia culturale dello sport, Laterza, Roma-Bari 1989 U Luciano Ravagnani e Pierluigi Fadda, Storia del rugby dalle origini ad oggi, SEP, Genova 2007

da gioco rappresentava un nuovo calcio d’inizio per un gioco, quello con la palla, ancora oggi diffuso, nelle sue molteplici varianti, in ogni angolo del nostro pianeta. F

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Un battistero da favola

di Furio Cappelli

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Voluto come teatro solenne del rito del battesimo, l’edificio consacrato dal vescovo Obizzo Sanvitale è uno dei monumenti piú insigni dell’arte medievale italiana. A caratterizzarlo, è soprattutto il complesso scultoreo realizzato da Benedetto Antelami, che affida alla pietra la singolare rivisitazione in chiave cristiana di un’antica leggenda tramandata nella lontana India e divenuta popolare in Occidente grazie all’opera di Eutimio, un monaco del Monte Athos vissuto a cavallo dell’anno Mille

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n’antica storia di origini indiane narra le peripezie di un uomo che fugge terrorizzato. Lo insegue un possente unicorno imbizzarrito. In preda alla paura, l’uomo non vede bene dove mette i piedi e scivola cosí in un burrone. Fortunatamente, sull’orlo del precipizio si protende un solido arbusto, che il malcapitato riesce ad afferrare e, per un momento, pensa cosí di aver trovato un nascondiglio perfetto. Ma poi si avvede che due grossi topi, uno bianco, l’altro nero, stanno rosicchiando la base della pianta

Parma, piazza Duomo. La Cattedrale (a sinistra) e il Battistero.

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saper vedere parma Dove e quando Battistero Parma, piazza Duomo Orario 9,00-12,30 e 15,0018,45 Museo Diocesano Parma, vicolo del Vescovado, 3/A Orario 9,00-12,30 e 15,0018,30 Cattedrale Parma, piazza Duomo Orario 09,00-12,30; 15,0019,00. Info www.cattedralediparma.it http://turismo.comune.parma.it

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Parma, Battistero. Particolare del timpano del portale meridionale (detto «della Vita»), la cui decorazione scultorea, realizzata da Benedetto Antelami, si ispira alla leggenda indiana

su cui ha trovato rifugio. Il loro lavoro è ormai alla fine e, di lí a poco, l’arbusto si schianterà. Sul fondo del burrone attende ansioso un drago, dalle cui narici si protendono lingue di fuoco. A quel punto, la vittima guarda verso l’alto. Ignora la pianta che sta per schiantarsi e il drago pronto a divorarlo e riesce ad assaporare una goccia di miele che stilla da un ramoscello: la sua dolcezza è tale che tutte le avversità, per un attimo, sembrano dissolte.

Immagini allegoriche

L’unicorno che insegue l’uomo incarna la morte; il burrone nel quale egli precipita è il mondo pieno di insidie; i topi che rosicchiano l’arbusto (la vita) rappresentano il tempo (infatti uno è bianco e l’altro è nero, come la luce e l’oscurità, il giorno e la notte); il drago, invece, allude agli orrori dell’Inferno. D’altro canto, la dolcezza della goccia di miele di Barlaam e Ioasaf, riletta in chiave cristiana. 1196-1216. Al centro della lunetta compare il fanciullo che, rifugiatosi su un albero per scampare al drago, prende il miele da un favo.


condensa le gioie di un’esistenza intera: è uno di quei piaceri ingannevoli a cui ci si aggrappa quando si vive nel presente, senza badare al proprio destino e alla salvezza della propria anima. È questo l’insegnamento che trassero dalla storia i predicatori cristiani, favorendone l’ampia fortuna nell’immaginario medievale. La parabola del burrone e del miele si diffuse a Bisanzio e poi in Occidente dopo essere stata incastonata dal monaco Eutimio (955-1028) nella Storia di Barlaam e Ioasaf. Ed è sorprendente l’interpretazione che ne fornisce lo scultore Benedetto Antelami nella lunetta dell’ingresso sud (il portale della Vita) del Battistero di Parma. L’uomo della storia si è mutato in un fanciullo rifugiatosi nella folta chioma di un albero. Nella stretta connessione iconologica che lega la decorazione esterna all’interno dell’edificio, il protagonista infantile fa da pendant al Gesú Bambino che, nella lunetta interna, è il protagonista della Presentazione al Tempio. L’anima del fedele può smarrirsi tra le insidie del mondo, ma anche trovare la salvezza nell’insegnamento di Cristo. La goccia di miele, evocata da un grande favo, è cosí letteralmente soverchiata dalla poderosa raffigurazione della fede, l’unica forza a cui ci si può affidare contro l’inesorabile scorrere del tempo, e contro la minaccia degli Inferi.

benedire il Battista. All’interno, nella fronte marmorea dell’altare, lo stesso Battista è affiancato da un sacerdote benedicente, figura dello stesso Cristo. Benedicendo il proprio Precursore (definito tale nei Vangeli), Gesú lo assume in cielo nella somma schiera degli eletti, tanto da apparire di fianco a sé insieme alla Vergine. Cosí san Giovanni è infatti raffigurato nel ciclo pittorico interno, in corrispondenza del «suo» altare. Le acque del Giordano percorrono in basso le lunette dei portali, creando allusive linee ondulate. I rami d’albero che corrono lungo gli stipiti del portale della Vergine, sui lati esterni, inquadrano le genealogie di Giacobbe (che culmina in Cristo, il nuovo Mosè) e di Jesse (che culmina nella Vergine), mentre, sui lati interni, i girali d’acanto trasfondono l’Albero della vita, con le anime dei fedeli simboleggiate da colombe po-

Una coreografia solenne

Il richiamo alla salvezza nella fede è dato dal Cristo dell’Apocalisse che campeggia al centro dell’architrave, affiancato dall’agnello mistico che simboleggia il suo sacrificio e da san Giovanni Battista, colui che ha iniziato il Cristo stesso battezzandolo nelle acque del Giordano. E proprio al Battista è dedicato l’edificio, deputato in primo luogo al rito del battesimo dei fedeli. Nella coreografia solenne che caratterizzava la cerimonia, nei battesimi di gruppo celebrati nella ricorrenza della notte di Pentecoste e del Sabato Santo, il portale della Vita era l’ingresso riservato ai neofiti. Il vescovo, seguito da un corteo di chierici, entrava dalla porta nord, l’ingresso solenne rivolto alla piazza prospiciente la cattedrale di S. Maria. Il rito si apriva con il battesimo di un Giovanni e di una Maria, due neofiti che assumevano cosí il nome dei santi a cui il battistero e la cattedrale erano rispettivamente dedicati. E, inevitabilmente, la porta nord, nota come il portale della Vergine, celebra entrambi i patroni. Nella lunetta, la Madonna in trono col Bambino riceve l’omaggio dei Magi, mentre san Giuseppe riceve da un angelo l’ispirazione della fuga in Egitto (la lunetta interna mostra il ritorno dalla fuga). L’architrave, come una sorta di predella, racconta le storie del Battista. Perno e avvio della narrazione è la scena del battesimo nel Giordano, in cui Cristo figura al tempo stesso come neofita e sacerdote. Compare, infatti, nell’atto di

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La lunetta interna del portale meridionale del Battistero, con la scena della Presentazione al Tempio.

sate sui rami, a cui si aggiunge un gallo a destra, emblema della vigilanza assicurata dalla Chiesa. E l’immagine dell’albero paradisiaco, carica di un grappolo d’uva, simbolo del «vino spremuto dal torchio della croce» (sono le parole del teologo Fulberto di Chartres, X-XI secolo), ritorna affiancata da due angeli sul portale del Redentore, al culmine dell’archivolto, nel mezzo della schiera degli Apostoli. È il secondo ingresso di rappresentanza, rivolto a ovest, verso il vivo della città, sulla direttrice di uno dei decumani dell’impianto urbanistico antico, oggi in parte ricalcato dalla Strada del Duomo. Nella lunetta si staglia Cristo in trono tra gli angeli nell’atto di benedire gli astanti. Mostra con evidenza i segni della Passione, e il gruppo angelico che si trova sulla destra esibisce la croce del supplizio: una croce di legno vivo, con la corteccia e le bugne lasciate dai rami recisi.

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saper vedere parma PER LA MAGGIOR GLORIA DELLA VERGINE

Il monumento in sintesi

Suggestioni classiche e vitalismo gotico 3 Perché è importante Il Battistero di Parma è una delle piú cospicue chiese battesimali sorte in Italia a partire dal XII secolo, quando alcune città, Firenze per prima, decisero di celebrare con un monumento autorevole la loro autonomia e la loro intraprendenza. Non è solo un edificio religioso, ma l’emblema di una realtà civica, in cui la dimensione sacra e la dimensione laica sono armoniosamente compenetrate. 3 Il Battistero nella storia Sorto in un momento di fattiva collaborazione tra il Comune e il potere vescovile, il Battistero di

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Parma si colloca in una fase nodale della storia della città, all’epoca in cui si consolidò il suo orientamento filopapale, per effetto delle lotte contro Federico Barbarossa. 3 Il Battistero nell’arte La sua conformazione architettonica rigorosa e compatta restituisce l’effetto di un monumento antico. La decorazione scultorea messa a punto da Benedetto Antelami e dai suoi collaboratori si inserisce in questo insieme con meticolosa attenzione, unendo la suggestione della classicità al vitalismo dell’arte gotica, in perfetto accordo con la piú autorevole tradizione padana.

In alto la lunetta del portale settentrionale, (detto «della Vergine»), con la raffigurazione della Vergine con il Bambino assisa in trono, tra i Magi e san Giuseppe. Nella fascia sottostante sono rappresentate scene dalla vita di san Giovanni Battista.

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Portale della Vergine. Particolari della decorazione dello stipite sinistro (in alto), con la genealogia di Giacobbe, e di quello destro (a sinistra), con la Vergine in cima all’Albero di Jesse.

La linfa che percorre quelle fibre è fonte di rigenerazione, alla stessa stregua dell’acqua lustrale del battesimo: la croce di Cristo è il lignum vitae e si riallaccia cosí all’Albero della vita evocato al culmine dell’archivolto, nel mezzo dei due angeli musicanti. E lo stesso Antelami aveva già fatto ricorso alla croce di legno vivo, nella lastra della Deposizione eseguita nel 1178 per lo smembrato pulpito della vicina cattedrale.

Un giudice dal volto umano

Sebbene eserciti il ruolo di giudice supremo, il Signore del mondo non si mostra soverchiante e minaccioso. Nell’architrave, infatti, assistiamo alla resurrezione dei morti, suddivisi nei gruppi degli eletti e dei dannati, ma sono gli angeli a mostrarsi attivi in questa opera di ripartizione delle anime risorte, e tra i due gruppi non emerge la consueta contrapposizione drammatica tra chi giubila per la salvezza e chi si dispera per l’eterno castigo. L’accento è cosí posto, in definitiva, su Cristo come fonte di salvezza e lo spettatore non è chiamato a impressionarsi per le atrocità dell’Inferno. Piuttosto, viene invitato a compiere una precisa scelta di rettitudine. Il concetto è sviluppato nella decorazione degli stipiti, che immerge i precetti della carità cristiana nel vivo del mondo medievale, nelle due grandi dimensioni della città e della campagna. Sullo stipite sinistro, un nobile benefico si prende

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saper vedere parma MISERICORDIA E RESURREZIONE A sinistra particolare dello stipite sinistro del portale del Redentore, in cui sono raffigurate le Opere di Misericordia; nella foto, dall’alto: vestire gli ignudi, visitare i carcerati, dissetare gli assetati. A destra al centro della lunetta, Cristo assiso in trono mostra le stigmate, attorniato da angeli che reggono i simboli della Passione; in basso, a sinistra, san Giovanni Evangelista assiste alla scena. Nel fregio sottostante, la resurrezione dei morti, chiamati al suono delle trombe da due angeli. Intorno alla lunetta, sono raffigurati gli Apostoli, e, alla sommità dell’archivolto, l’Albero della Vita tra due angeli che suonano le trombe. In basso veduta d’insieme del portale che permette di apprezzare il complesso programma figurativo. Nella pagina accanto particolare dello stipite destro, dove un sinuoso tralcio di vite delimita sette scene che illustrano la la Parabola della Vigna.

cura dei meno fortunati: carcerati, malati, pellegrini, poveri affamati, assetati o ignudi. Definito beatus dalle epigrafi, il benefattore mette cosí in atto le sei Opere di misericordia. Sullo stipite destro, un robusto viticcio fa da palcoscenico, sostituendosi alla rigorosa architettura in cui agisce il beatus cittadino.

Atmosfere agresti

Ci troviamo, infatti, nel mondo rurale, e il duplice tralcio di vite accoglie le figure disponendo alternativamente, a sinistra o a destra, il benefattore di campagna, a seconda dell’andamento del girale. Viene cosí illustrata la parabola evangelica della vigna, che evoca quella del Signore, fondata sulla giustizia e sulla rettitudine. Il padrone convoca aiutanti di età differente, a partire da un fanciullo. Nell’ultimo riquadro, in alto, i sei operai, alla fine della giornata, si ritrovano tutti insieme per ricevere lo stesso compenso, indipendentemente dalla loro età e dal tempo che hanno impiegato, esattamente come il Signore assegna la salvezza nella stessa misura, sia a chi si è comportato rettamente lungo tutta la propria vita, sia a chi si è pentito all’ultima ora. Le gioie del Paradiso sono poi evocate nella lunetta interna, dove il re David è contornato da musici e danzatori ed è egli stesso intento a suonare il salterio (un antico strumento a corda). Con un singolare virtuosi-

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smo, ai lati del re si aprono due feritoie che mettono in contatto visivo e in corrispondenza simbolica i rispettivi protagonisti della lunetta interna e della lunetta esterna. Il Cristo giudice che esibisce le ferite della passione è tutt’uno con il re David intento a suonare. Come due facce della stessa medaglia, essi sono cosí chiamati a esprimere il nesso profondo tra morte e resurrezione, tra sacrificio e salvezza, tra rettitudine e gioia eterna. Il complesso delle immagini che percorrono e punteggiano l’esterno dell’edificio è poi costituito da gruppi di figure statuarie e da un fascione di formelle istoriate. Le statue, oggi presenti in copia sul monumento (gli originali sono al Museo Diocesano), raffigurano gli arcangeli Michele e Gabriele di fianco al portale della Vergine, a difesa dell’ingresso principale. Sui lati adiacenti, due nicchie accolgono invece illustri personaggi dell’Antico Testamento. A sinistra si osservano due profeti: re David (che torna in veste di musico nella lunetta interna ovest) e Natan. A destra compaiono invece Salomone e la regina di Saba, simbolo dei popoli lontani che portano doni al re.

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Nelle celebrazioni dell’Epifania, l’arrivo della regina era messo sullo stesso piano della venuta dei Magi al cospetto di Gesú Bambino, gli stessi Magi raffigurati nella lunetta del portale principale. Il fregio noto come «zooforo» cinge tutto il perimetro dell’edificio e, formella dopo formella, propone un catalogo degli esseri viventi del mondo terrestre, che noi distinguiamo in reali e fantastici, ma che erano accomunati nei bestiari dell’epoca, «manuali di zoologia» su misura dell’immaginario medievale.

Una fausta congiuntura

Il prisma ottagonale del Battistero, impreziosito dall’uso del marmo bianco e rosso di Verona, è una presenza di grande fascino nel cuore della città medievale. Ancora oggi si innalza autorevole, suscitando sorpresa e soggezione non appena ci si affaccia sulle direttrici che conducono alla piazza della Cattedrale. Oltre a essere un edificio sacro, è un perno simbolico della città comunale, prima ancora che si realizzasse il definitivo palazzo civico (fino ad allora il Comune coabitava con il potere giugno

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A destra uno dei lati esterni del Battistero. Nella nicchia, le statue di re David e Natan, opera di Benedetto Antelami (gli originali sono nel Museo Diocesano). Sulle due pagine particolare della lunetta interna del portale del Redentore, con re Davide che suona il salterio attorniato da musici e danzatori, simbolo della beatitudine del Paradiso. In basso le statue di Salomone e della Regina di Saba, anch’esse di Benedetto Antelami, in un’altra nicchia sul perimetro esterno del Battistero (gli originali si trovano nel Museo Diocesano).

religioso nello stesso complesso del palazzo episcopale). Il suo progetto si concretizza in un momento molto particolare, in una fausta congiuntura che vedeva un rapporto di collaborazione tra il vescovo e le autorità laiche. Dopo i gravi dissidi culminati nella scomunica del podestà da parte del vescovo Bernardo II, il successore Obizzo (1194-1224) avviò una proficua politica di distensione. Due anni dopo la sua salita in cattedra, si ebbe la gettata delle fondazioni del Battistero, in forma di cerimonia pubblica. Tra i partecipanti figurava Guido de Adam, padre del cronista parmense Salimbene (1221-1287/88). Lo stesso Salimbene de Adam, come egli ricorda con orgoglio, fu battezzato nell’edificio, non ancora completo ma già in funzione, nel 1221. La prima cerimonia si svolse al suo interno il 9 aprile 1216, nella ricorrenza del Sabato Santo, con il primo battesimo collettivo, riservato ai neofiti della città di Parma e dell’intera diocesi. Come nel caso di Firenze, il Battistero fu realizzato ex novo. Forse esisteva un battistero correlato all’antica Cattedrale paleocristiana, ma se ne era perso il ricordo e non

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saper vedere parma LE DATE DA RICORDARE 1178 Benedetto Antelami realizza la Deposizione per la Cattedrale di Parma. 1181 Primi accenni alla sede comunale istituita presso l’Episcopio nella piazza antica della Cattedrale. 1192 Il Comune di Parma scende in lizza contro il vescovo Bernardo II promulgando uno statuto che pone dei limiti al potere episcopale. Il presule reagisce scomunicando il podestà. 1194 Inizia l’episcopato di Obizzo. 1196 Si gettano le fondazioni del Battistero. Benedetto Antelami «firma» il Portale della Vergine. 1216, Nell’occasione del Sabato Santo, si tiene 9 aprile la prima cerimonia di battesimo collettivo all’interno del nuovo edificio. 1221 Inizia il trasferimento della sede comunale nel nuovo palazzo istituito nell’attuale piazza Garibaldi. 1224 Morte del vescovo Obizzo. 1229 Il cronista Salimbene de Adam attesta la composizione della salma all’interno del Battistero di un proprio congiunto, Bernardo di Oliviero. 1247 Federico II assedia la città. 1248 Il Carroccio di Parma viene esposto nel Battistero per celebrare la vittoria dell’esercito cittadino sulle truppe di Federico II. 1250 Decorazione pittorica della cupola, per mano circa di artisti ignoti, forse locali, ma che fanno propri i canoni dello stile bizantino. 1255 Il Comune approva una norma che prevede una pena a carico di tutti coloro che assumano comportamenti indecorosi nei pressi del Battistero. 1262 Il Comune si attiva per migliorare la percezione del monumento, provvedendo all’abbattimento di taluni edifici circostanti che creano disturbo. 1270 Consacrazione solenne a opera del vescovo Obizzo Sanvitale. 1282 Il carro con il gonfalone civico viene esposto all’interno del Battistero per celebrare la vittoria dei Parmensi sul margravio (marchese) del Monferrato. 1295 A seguito di una situazione di gravi lotte intestine, il Comune minaccia l’abbattimento del Battistero qualora una fazione decida di trasformarlo in un deposito d’armi. A destra l’altorilievo di Benedetto Antelami che propone l’allegoria del mese di Settembre, di cui è simbolo un contadino intento alla vendemmia; sotto di lui, si riconosce la personificazione del segno zodiacale della Bilancia.

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In alto veduta dell’interno del Battistero; si distinguono, a destra, la porta del Redentore; a sinistra, la porta della Vita; al centro, il fonte battesimale ottagonale.

se ne conservavano tracce. Il rito battesimale veniva celebrato in precedenza nella Cattedrale romanica, utilizzando un fonte per la consueta modalità ad abluzione tuttora in uso. Con l’erezione del Battistero, il fonte venne trasferito al suo interno, simbolicamente surclassato dall’enorme vasca centrale, ricavata da un monolite di marmo (un solo blocco di pietra scavato e modellato), rifornita e svuotata grazie al flusso sottostante del Canale Maggiore. Vi si riportò in auge il prestigioso rito a immersione, che rimandava ai primordi della Chiesa e ai centri piú illustri di irradiazione della fede, come la Roma papale o la Milano ambrosiana. Cosí esaltato, il sacramento aveva anche un prezioso significato laico, poiché dava corso all’esistenza giuridica dei nuovi protagonisti della collettività parmense, che proprio lí assumevano il proprio nome. L’edificio era anche lo sfondo di solenni celebrazioni funebri: numerose sepolture si accalcavano tutt’intorno. In quanto punto di eccellenza della comunità, era poi luogo di esibizione della gloria di Parma. Nel 1248 vi fu esposto il Carroccio, all’indomani della vittoria riportata su Federico II. La data di fondazione del Battistero (1196) è la stes-

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sa menzionata nell’architrave del portale della Vergine («tolti quattro anni al 1200»), laddove si ricorda anche lo scultore principale e il probabile architetto dell’edificio, Benedetto Antelami. Già attivo in Cattedrale nel 1178, deve il proprio appellativo a quei magistri Antelami che erano attestati a Genova nel 1157 come lapicidi e scalpellini specializzati, provenienti dalla vallata del fiume Intelvi, tributario del Lago di Como.

Rielaborazioni e suggestioni

Benedetto si ricollega alla grande tradizione della scultura romanica padana, incarnata da Wiligelmo e da Niccolò, con il loro senso spiccato di evidenza plastica della figura, e aggiorna quel repertorio con una sensibilità classica e un’apertura verso le novità della scultura gotica delle cattedrali d’Oltralpe filtrate da uno spirito prettamente italico. L’arcangelo Michele, per esempio, è addirittura il frutto della rielaborazione di un fusto di statua antica dedicata a un personaggio della scena pubblica, un «togato» della Roma classica, e forse anche la testa dell’Arcangelo è la rielaborazione di un volto antico. Quanto alle suggestioni gotiche, nelle lunette dei portali ricorrono nessi significativi con l’impaginazione delle corrispettive composizioni delle chiese dell’Île-de-France: da Chartres alla NotreDame di Parigi, da Bourges a Nantes.

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L’interno della cupola del Battistero, impreziosito da un magnifico ciclo pittorico, eseguito in tempera a secco e perfettamente conservato. L’opera è forse attribuibile a maestri locali.

I 16 lati della conformazione interna, che duplicano l’ottagono esterno (antichissimo simbolo del rito battesimale), evocano la cerchia dei dodici apostoli abbinata al 4 dei punti cardinali, degli Evangelisti e delle stagioni. Varcato il portale della Vergine, domina la scena la vasta decorazione pittorica della cupola, legata ad artisti forse locali di robusta cultura bizantina, attivi intorno al 1250. È un raro complesso decorativo medievale integralmente e ottimamente conservato. I dipinti sono eseguiti con la tecnica della tempera a secco (non si tratta quindi, propriamente, di affreschi). Tutt’intorno alla stella culminante centrale a cui tutto si rapporta, si succedono gli Apostoli e gli Evangelisti. Segue una teoria di Profeti interrotta dalla triade del Cristo, del Battista e della Vergine, con l’aggiunta di san Giovanni Evangelista. Nel registro seguente, ritroviamo le storie del Battista, mentre le lunette della fascia d’imposta raccontano la storia di Abramo, corredata, ai lati delle finestre, da figure di religiosi nell’atto di ammaestrare.

Simbolo di contiguità

Queste sedici lunette alla base della cupola, dove forse all’origine non erano previste finestre, né dipinti, dovevano verosimilmente accogliere, in principio, i famosi altorilievi dei mesi e delle stagioni. È un ciclo incompleto e privo di finiture policrome, come quelle recuperate dagli ultimi restauri nell’ambito di tutto il restante corpus antelamico. Vivaci e al tempo stesso solenni, di una compostezza classica, le sculture sono oggi in rassegna, in modo chiaramente incongruo, all’altezza della prima loggetta interna. Nella loro collocazione prevista in origine – in base all’ipotesi di Chiara Frugoni –, avrebbero magnificamente espresso la contiguità tra il tempo degli uomini e la dimensione celeste. I bassorilievi antelamici murati nelle nicchie mostrano, ai lati del Cristo in gloria, una schiera di angeli delle diverse specie, tra i quali si inserisce una figura originariamente aptera (senza ali), un uomo, come ha evidenziato ancora Chiara Frugoni: si prefigura cosí il giorno in cui l’uomo stesso, ormai del tutto purificato, potrà accedere al rango delle piú alte gerarchie del mondo eterno. F

Da leggere U Chiara Frugoni (a cura di), Benedetto Antelami e il battistero di Parma, Einaudi,

Torino 1995. U Arturo Carlo Quintavalle, Benedetto Antelami, in Enciclopedia dell’Arte Medievale,

Fondazione Treccani, Roma 1991, disponibile anche on line su Treccani.it U Chiara Frugoni, Il battistero di Parma. Guida a una lettura iconografica, Einaudi,

Torino 2007. U Alfredo Bianchi, Manuela Catarsi Dall’Aglio (a cura di), Il Museo Diocesano di

Parma, Silva, Parma 2004.

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di Federico Canaccini

Prove tecniche di

«democrazia»

Ottocento anni fa, cedendo alle pressioni dei baroni, il re d’Inghilterra Giovanni Senzaterra ratificava la Magna Charta Libertatum. Da quel giugno del 1215, il documento è passato alla storia come un atto di straordinario valore politico, anche se ha probabilmente usurpato la fama di provvedimento illuminato e liberale Incisione ottocentesca di scuola inglese in cui si immagina re Giovanni Senzaterra che firma la Magna Charta Libertatum, dalla raccolta Epochs and Episodes of History. Collezione privata. L’atto venne siglato dal sovrano il 19 giugno 1215.


Dossier

N «N

essun uomo libero sarà arrestato, privato dei propri beni messo fuori legge o esiliato (…) se non mediante il giudizio dei suoi pari o del diritto del suo paese». Cosí recita l’articolo 39 della Magna Charta Libertatum, uno dei documenti piú famosi della storia medievale e, forse, dell’umanità, essendo considerato il primo atto di Costituzione scritta. In realtà, la questione è assai piú intricata e, per comprendere il significato di questo prezioso pronunciamento, emanato nel 1215, occorre tornare indietro nel tempo, ancor prima della conquista normanna dell’Inghilterra (1066-1071), quando le terre d’Oltremanica erano controllate dai Sassoni. Dalla metà del X secolo, infatti, le varie formazioni politiche presenti nell’isola erano state unificate sotto il re anglosassone, il cui rito di incoronazione, come del resto molte altre prassi, era legato a doppio filo con la tradizione carolingia: in fondo, la storia dell’Inghilterra non può essere scissa da quella della Francia.

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Il sovrano anglosassone aveva subito affidato ai grandi possidenti fondiari il coordinamento militare dei territori da loro controllati, detti «earldoms». Nonostante questa novità amministrativa, il regno rimaneva comunque ripartito secondo le antiche suddivisioni di tradizione germanica delle «centene», raggruppate in macro-aree dette «shires» (contee) e controllate dagli agenti della corona, gli «sheriffs» (da «shirereeve», cioè intendente di contea).

Nuovi equilibri

All’indomani della battaglia di Hastings (1066) il nuovo re, Guglielmo duca di Normandia, detto il Bastardo, e ribattezzato il Conquistatore dopo la vittoria, puntò a rafforzare l’unità organizzativa già presente sull’isola, ma con un’accortezza tale da garantirgli la quasi totale preminenza. In primo luogo, eliminò le circoscrizioni controllate dagli «earls», dopo di che distribuí ai vassalli parcelle territoriali, munite spesso di fortificazioni, i «manors», mantenendo, però, un maggior nu-

A destra particolare della tela ricamata (piú nota come «arazzo») di Bayeux raffigurante la battaglia di Hastings. XI sec. Bayeux, Musée de la Tapisserie. In basso una delle copie conformi al documento originale della Magna Charta Libertatum. Londra, British Library.

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Dossier mero di castelli sotto il diretto controllo della corona. Il normanno Guglielmo era giustamente sospettoso e, vent’anni piú tardi, fece redigere il Domesday Book, un dettagliato inventario delle terre del neonato regno d’Inghilterra, tramite il quale veniva calcolata l’esazione fiscale e che, per la sua rarità, è oggi un documento essenziale per gli studi demografici del Medioevo. Con questo sistema, il sovrano risultava il maggior proprietario fondiario del regno e perciò pretendeva un giuramento da ogni possessore di terre. Oltre al giuramento però, Guglielmo poteva esigere anche una serie di redditi di natura feudale: pur essendo il re, infatti, era in fondo ancora un signore che concedeva feudi. Tributi erano previsti, per esempio, nei casi di vendita del feudo (relevium) e di esenzione dal servizio militare (scutagium).

Gli uffici della corona

Tale patrimonio fondiario venne ben presto inquadrato in una struttura incaricata di curare, amministrare e incrementare i beni della corona: la cosiddetta domus regia, la household. Le varie mansioni erano ripartite tra i piú vicini collaboratori del re, responsabili dell’esazione dei tributi, del sistema di polizia, della cancelleria. Per questo gli uffici assunsero nomi simbolici e metaforici: «camera del re», «cantina del re», «cappella», «stalla», «aula»… Guglielmo – che in ciò fu subito imitato dagli Angioini – cominciò dunque a cirGruppo scultoreo in bronzo raffigurante Giovanni Senzaterra che firma la Magna Charta, assistito da Stefano Langton, arcivescovo di Canterbury, e da un barone. 1880 circa. Salisbury, Cattedrale.

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gli anni della magna charta

L’età inquieta dei Plantageneti 1066

Il duca di Normandia Guglielmo sconfigge a Hastings le truppe anglosassoni. Nel giorno di Natale viene incoronato re a Westminster. 1085 Ha inizio la redazione del Domesday Book, il grande catasto di tutte le terre del regno d’Inghilterra. 1087 Morte di Guglielmo il Conquistatore, al quale succede il figlio, Guglielmo il Rosso. 1100 Guglielmo il Rosso muore in un incidente di caccia. Gli succede il fratello Enrico I. 1106 Enrico I conquista la Normandia, che, nella divisione dell’eredità paterna, era stata assegnata a un altro figlio, Roberto Gambacorta. 1135 Enrico I muore. Stefano di Blois, figlio della sorella di Enrico, Adele, si fa incoronare re. 1154 Muore re Stefano. Enrico II Plantageneto sale sul trono d’Inghilterra. 1170 Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, viene ucciso nella sua cattedrale. 1189 Morte di Enrico II. Gli succede il figlio Riccardo. 1192 Di ritorno dalla crociata, Riccardo naufraga sulle coste istriane e viene fatto prigioniero da Leopoldo d’Austria, che lo consegna all’imperatore Enrico VI. 1193 Approfittando della prigionia del fratello, Giovanni Senzaterra si fa riconoscere re d’Inghilterra. 1199 Morte di Riccardo. Gli succede il fratello Giovanni. 1208 Re Giovanni si oppone alla nomina pontificia dell’arcivescovo di Canterbury. Papa Innocenzo III lancia sull’Inghilterra l’interdetto. 1213 Giovanni riconosce Stefano Langton, nominato dal papa, quale arcivescovo di Canterbury, e si riconcilia cosí con il pontefice. 1214 Cocente sconfitta inglese a Bouvines. Con il trattato di Chinon Giovanni cede alla Francia tutti i territori a nord della Loira. 1215 Giovanni è costretto a ratificare la Magna Charta Libertatum, con la quale riconosce l’autorità dei baroni e i limiti di quella regia. 1216 Morte di re Giovanni. Gli succede il figlio Enrico III. condarsi di una vera e propria curia, forse ispirandosi all’entourage fiammingo, formata da vassalli diretti, sia laici che ecclesiastici. La situazione mutò radicalmente con l’ascesa al trono di Enrico I (1100-1135), poiché, dopo avere ereditato sia il titolo di duca di Normandia che quello di re inglese, egli riorganizzò l’amministrazione del patrimonio, puntando sulla centralizzazione delle entrate, che dovevano essere rendicontate puntualmente dai signori davanti alla corte «dello Scacchiere» (cosí chiamata per via del manto scaccato che veniva posto sul tavolo della riunione per facilitare i conteggi). Dal 1129 fu introdotta la figura

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del «Cancelliere» che affiancò quelle del «Giustiziere» e del «Vicerè», che si preoccupava di far le veci del sovrano sulla sponda della Manica dalla quale questi era assente.

La Common law

Una svolta ulteriore si ebbe con Enrico II Plantageneto, il quale, pur mostrandosi disposto ad aprire l’amministrazione della giustizia ai maggiori signori locali, con le cosiddette Assise di Clarendon (11641166), si pose al di sopra delle leggi, dando vita alla Common law: il re sovrintendeva a tutte le questioni giuridiche, delle quali, in sua assenza, si occupava il Gran Giustiziere. Dal (segue a p. 94)

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Dossier Visitiamo insieme

Un resoconto, un pollice e altre storie... Frasetta in latin totaspit apisi dolendis dolum, inum, sim abo. Aped est faccus, officius, od quam

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Nel Regno Unito, l’ottavo centenario della firma della Magna Charta Libertatum ha dato il via a numerose celebrazioni, fra le quali spicca, per la ricchezza e la varietà dei materiali selezionati, la rassegna in corso presso la British Library di Londra. Come ha sottolineato Claire Breay, tra i curatori del progetto espositivo, «Magna Charta: Legge, Libertà, Lascito riunisce manoscritti e oggetti che abbracciano mille anni di storia e rievocano il contesto in cui l’atto venne promulgato, le sue innumerevoli emulazioni – susseguitesi in In alto miniatura raffigurante re Giovanni Senzaterra a caccia. XIV sec. Londra, British Library. A sinistra statua raffigurante il barone Geoffrey de Mandeville. 1847. Londra, Palace ofbox Westminster Collection. Titoletto da fare A destra Charles Buchel, Ritratto di In alto: Herbert ehent, Beerbohm estorem Tree aliquinei respanni doluptatio del te non eiundus dolupta tiorit eos amet explabo. re Giovanni Iquis etper lacilil int Kingutem Johncon di William rehenisque lam la doluptatem sinto beriorere. A sinistra: Shakespeare. ehent, estorem Olio su tela, aliqui1900. res doluptatio te non eiundus dolupta tiorit eos amet explabo. Londra, IquisVictoria et laciland int utem Albertcon Museum. rehenisque lam la doluptatem sinto beriorere.

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Da leggere

box tit approf

U I. Del Punta, Il fallimento della

Titoletto box bureau

compagnia Ricciardi alla fine del secolo XIII: un caso esemplare?, in «Archivio Storico Italiano», CLX , 2 tutto(2002), il mondo secoli –, il processo pp.per 221-268 cheU A. ne Castellani, ha fatto unI. Del simbolo Punta,universale Lettere di libertà e giustizia. dei Ricciardi di Lucca ai loro La Magna non nacque compagniCharta in Inghilterra (1295come un pronunciamento di 1303), Roma 2005 stampo democratico, ma come U A. Sapori, Studi di Storia soluzione pratica(Secoli a unaXIII-XIV-XV), crisi politica Economica 3 di 800 voll., anni Firenze fa. Il percorso espositivo che 1955-1967 abbiamo allestito vuole quindi indurre U J. D. Hicks, Una teoria della storia il visitatore a valutare il significato economica, Torino 1971 assunto dalla Magna Charta nel U C.M. Cipolla, Storia economica corsodell’Europa del tempo,pre-industriale, le vie attraverso le qualiBologna essa ha1997 assunto il suo status di icona e il suo significato, e le ragioni U M. De Cecco, W il mercato ma per lecon quali, a distanza di i soldi dello Stato,otto “Affarisecoli, e essafinanza”, abbia conservato 8 settembreintatta 2008 la forza espressa la sua U M. Decon Cecco, Quelemanazione». male oscuro del Tra biglietto gli oltreverde, 200“Affari oggetti e finanza”, presentati, fanno bella mostra 29 settembre 2008

di sé due delle quattro copie della stesura originale del documento, risalenti al fatidico 1215, ma anche reperti di natura decisamente diversa, come, per esempio, due denti e l’osso di uno dei pollici di re Giovanni Senzaterra, recuperati in occasione della ricognizione della sua tomba, effettuata nel 1797. Né mancano le nuove acquisizioni, tra le quali

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Si fa spesso riferimento in questi tempi nei media a «moneta di carta» e perfino a una «economia di carta». Ma cosaes’intende Dove quando esattamente con queste espressioni? Il concetto non è dei piú semplici, e probabilmente la spiegazione piú«Magna chiara inCharta: propositoLegge, è stata fornita Libertà, da un noto storico dell’economia italiano, Carlo MariaLascito» Cipolla: «Supponiamo Londra, British Library che Tizio depositi 100 fiorini presso la Banca Medici. fino quindi al 1° settembre La banca deve pagare un interesse sui depositi deve guadagnare. Per Orario 9,30-18,00; guadagnare la banca presta a terzi una frazione deilu, depositi ricevuti, contando ma, d’un 9,30-20,00; sul fatto che i depositi non vengono ritirati tutti colpo daime-ve, loro legittimi 9,30-18,00; sa, 9,30-17,00; proprietari e quindi una parte dei depositi resta sempre depositata nella do e di festivi, banca. Supponiamo che la banca Medici reputi poter11,00-17,00 “rischiare” un 25 per Info www.bl.uk cento dei depositi detenuti. Dei 100 fiorini depositati da Tizio la banca Medici presterà quindi 25 fiorini a Caio. Caio prende a prestito i 25 fiorini per poter pagare il suo fornitore Sempronio e versa a costui i 25 fiorini presi a prestito In alto, a destra la preparazione di una dallailbanca Medici. Ricevutidii 25 li deposita presso la banca spicca piú antico resoconto quelfiorini Sempronio delle opere nella mostra. pagherà(quando un interesse mentre segnaesposte a suo favore nei libri cheCapponi accaddela aquale Runnymede In basso appartenute contabili un deposito 25 fiorini. punto pantofole esistono sul mercato 125 Giovanni si incontrò con di i baroni), delA questo all’arcivescovo Hubert Walter (†1205). fiorini e cioè i 100 fiorini che risultano nei libri contabili della banca Medici e quale è stata ritrovata una stesura Canterbury, Cattedrale. che sono diattribuibile proprietà ai di monaci Tizio e 25 fiorini che risultano dai libri contabili della manoscritta, banca Capponi e che di proprietà di Sempronio. I banchieri sostengono dell’abbazia scozzese di sono Melrose. di non creare moneta e di agire (red.) soltanto come intermediari, ma in effetti, trasferendo la moneta da un conto, all’altro creano moneta». In alto, a sinistra il primo ritratto noto di re Giovanni. Opera di artista ignoto, 1620. Londra, National Portrait Gallery. A centro pagina miniatura raffigurante il presunto avvelenamento di Giovanni Senzaterra. XIII sec. Londra, British Library.

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Dossier A destra la pagina del manoscritto Verses on the kings of England from William I to Henry VI in cui compare il ritratto di Enrico I, corredato da un breve riepilogo degli eventi succedutisi durante il suo regno. Post 1431. Londra, British Library.

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1130 la monarchia amministrava un sempre piú cospicuo registro dei salari e delle entrate e iniziò a riunire queste Assise (a Clarendon nel 1166, a Northampton dieci anni piú tardi). Nel giro di pochi decenni era stata insomma messa in moto una macchina burocratica che, nel 1177, coinvolgeva sino a 2000 persone.

Verso l’assolutismo

Il potere regio scavalcava i vari signori, ma urtava anche i grandi ecclesiastici e, soprattutto, l’autonomia della Chiesa: oltre alla secolare immunità del clero veniva nuovamente messa in discussione persino la libertà di eleggere i vescovi. Si era da poco giunti a una tregua nella

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lotta tra Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV per le investiture episcopali, ma anche il sovrano d’Inghilterra tentava con tutte le sue energie di controllare i vari soggetti, provando a emergere, sul suo territorio di competenza, come la sola figura preminente e indiscutibile. Gli si oppose però l’energico arcivescovo di Canterbury, Thomas Becket il quale dapprima fu costretto a riparare in Francia e poi, rientrato in Inghilterra, venne barbaramente ucciso (vedi box a p. 98). Tale politica non si fermò dinnanzi all’ostilità pontificia ed Enrico, una volta abolite le clausole

In alto monete battute durante il regno di vari sovrani inglesi, da Guglielmo I (1066-1087) a Enrico III (1216-1272). Cambridge, Fitzwilliam Museum.

Oltre a essersi inimicata gli esponenti della grande nobiltà, la monarchia aveva imboccato la via dello scontro con la Chiesa Litografia raffigurante i funzionari dello Scacchiere (l’erario del regno), che ricevono e pesano danari versati per il pagamento delle imposte, da A short History of the English People, pubblicato da John R. Green nel 1874.

piú dannose per il clero, riprese il suo modus operandi, imponendo una tassazione generale – detta taglia – ispirata al «danegeld» (il «denaro dei Danesi»), l’imposizione collettiva un tempo effettuata per costituire un fondo con cui comprare la partenza dei Danesi.

Il re «che guarisce»

In quegli anni, in Francia come in Inghilterra, andava formandosi l’idea sacrale di monarchia: il sovrano si ammantò di poteri miracolosi, divenne un guaritore, un «re taumaturgo», per citare l’omonimo saggio dello storico francese Marc Bloch (1886-1944). I baroni d’Inghilterra, però, non erano ancora disposti ad assecondare i desideri del loro re. Attuato dai Plantageneti, l’allargamento dei diritti fiscali e giudiziari spettanti al re iniziò a scricchiolare quando, alla fine del XII secolo, i baroni del regno cominciarono a rivoltarsi contro tale sistema. Il governo dei re inglesi aveva il difetto di affidarsi troppo spesso alle capacità di tecnici del diritto o delle finanze, come Ranulfo de Glanville o

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Dossier Walter Map (uomini che, peraltro, provenivano non di rado dal continente). La crescita economica posteriore al Mille si registrava anche in Inghilterra e i nobili accumulavano patrimoni e ricchezze ragguardevoli, che non passarono certo inosservati agli occhi della curia regia. Da quei guadagni, infatti, il sovrano traeva – e intendeva continuare a farlo – il denaro per finanziare le ripetute spedizioni militari che costellarono quei decenni. I proventi derivanti dal patrimonio reale venivano costantemente integrati con tassazioni generali, con imposte di tipo feudale, spesso ulteriormente aggravate da nuovi balzelli.

Tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, divennero sempre piú frequenti le richieste straordinarie di tributi e versamenti per tutti gli uomini sottoposti alla Common law: nel 1188, nel 1193, nel 1203, nel 1207. I nobili poi, venivano ulteriormente vessati con tasse legate al loro dovere di auxiliari del re o andando ad aumentare il corrispettivo dello scutagium.

Sotto la scure del fisco

Si provi a immaginare il ruolo degli sheriffs in questi decenni: incoraggiati dal sovrano a riscuotere le tasse, questi scherani dovevano risultare piú che invisi alla popolazione, col-

pita da nuove misure fiscali. E non sarà difficile immaginare qualche sheriff piú che zelante, incline ad «arrotondare» a modo suo le esazioni. Gli anni seguenti fecero registrare la svolta. In un clima di tensione e di scontri, re Giovanni (vedi box in queste pagine) cercò l’alleanza con il pontefice, pur di fronteggiare la politica d’espansione del suo rivale, Filippo Augusto. Il Senzaterra giunse al punto di dichiararsi vassallo del papa nel 1213, anno in cui osò imporre una nuova tassa sui feudi (reprise of fief), salvo poi subire la disfatta sul campo di battaglia di Bouvines nell’anno seguente (vedi «Medioevo» n. 210, luglio 2014; an-

Giovanni Senzaterra

Una vita all’insegna delle rivalse e dei complotti Figlio di Enrico II ed Eleonora d’Aquitania, Giovanni nacque a Oxford nel 1167. È passato alla storia con il soprannome di «Senzaterra» (John Lack-land) per essere rimasto, ultimo tra gli otto figli del re, senza titoli e possedimenti. Nel 1173 tramò insieme con i fratelli contro il padre nella rivolta capeggiata

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da Enrico il Giovane, primogenito del sovrano e coreggente. Quattro anni piú tardi, divenne signore d’Irlanda, a seguito dell’invasione normanna dell’isola avvenuta nel 1169-71. Dopo avere ereditato il trono – alla morte di Enrico II, nel 1189 –, il fratello maggiore, Riccardo Cuor di Leone, partendo per la terza

crociata, gli affidò imprudentemente la reggenza. Giovanni, infatti, durante la sua assenza, tentò di usurpargli il trono, ma senza successo. Rappacificatosi con Riccardo, rientrato in Inghilterra, gli successe nel 1199. Nel 1206 si oppose alla nomina di Stefano Langton quale arcivescovo di

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Sulle due pagine miniature tratte da un’edizione delle Chroniques de France (o de St Denis). 1332-1350. Londra, British Library. Raffigurano un assedio portato dalle truppe del re francese Filippo II (nella pagina accanto) e la firma del trattato di pace stipulato dallo stesso Filippo con Giovanni Senzaterra, il 18 settembre del 1214, a Chinon.

Canterbury, sfidando l’interdetto di papa Innocenzo III. Impose una pesante politica tributaria e proseguí la lotta contro i nobili del regno. Dopo aver sottomesso il Galles e i nobili irlandesi, riprese la guerra contro Filippo II Augusto di Francia, sulla cui antica ostilità al re inglese facevano leva i baroni del regno.

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Pesantemente sconfitto a Bouvines da Filippo II (1214) e stretto su piú fronti, si vide costretto a firmare, nel 1215, la Magna Charta Libertatum, con cui riconosceva importanti privilegi alla nobiltà inglese. Tuttavia, approfittando del fatto che alcuni baroni avevano attaccato i suoi territori, convinse il

papa a sciogliere l’obbligo di rispettare la Charta. Abile diplomatico e fine politico, Giovanni indusse Innocenzo III a scomunicare gli avversari, che gli avevano opposto addirittura il delfino Luigi, figlio di Filippo II di Francia. Nel corso di queste lotte interne, morí improvvisamente a Newark, il 10 ottobre 1216.

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Dossier Thomas Becket

Un arcivescovo «scomodo» Dopo aver studiato a Londra, Parigi, Auxerre e Bologna, Thomas Becket, figlio di un mercante londinese, tornò in patria e, nel 1154, venne nominato arcidiacono a Canterbury. La sua carriera fu fulminea e, l’anno seguente, Enrico II lo creò cancelliere del regno d’Inghilterra. Il favore del sovrano, di cui Thomas aveva assecondato la politica di contenimento delle sempre piú pressanti richieste dei baroni, favorí la sua elezione ad arcivescovo di Canterbury, nel 1162. Ma se aveva appoggiato il sovrano contro le ingerenze baronali, Thomas non poté fare altrettanto a proposito dei diritti ecclesiastici su cui Enrico voleva esercitare un analogo controllo. Gli attriti non tardarono a manifestarsi: nel 1164 l’arcivescovo negò il proprio assenso alle costituzioni di Clarendon, che stabilivano i diritti della corona in materia ecclesiastica. Thomas non poteva accettare che i chierici fossero sottoposti al giudizio secolare, anziché al diritto ecclesiastico, né, tantomeno, il controllo delle elezioni episcopali da parte regia. La situazione precipitò e Becket dovette riparare sul continente. Solo nel 1170 potè rientrare in patria, ma, il 29 dicembre di quello stesso anno, durante la celebrazione liturgica, quattro sicari, assimilati ai cavalieri dell’Apocalisse dalla retorica pontifica, lo assassinarono nella Cattedrale: dopo essere stato «sagittatus», Thomas Becket fu finito a colpi di spada ai piedi dell’altare. L’arcivescovo di Sens, il 25 gennaio 1171, pubblicò l’interdetto contro gli Stati di Enrico II, a cui fu proibito l’ingresso in chiesa e i vescovi che si erano ribellati all’arcivescovo Becket, vennero immediatamente che on line su medioevo.it). Giovanni usciva sconfitto su tutti i fronti: aveva perduto militarmente contro Filippo Augusto e politicamente sia contro il pontefice che contro i nobili inglesi. I vassalli approfittarono di questo momento di debolezza del sovrano, obbligandolo a ridiscutere i diritti che ormai da tempo inter-

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scomunicati. Papa Alessandro III, in aprile, confermò le condanne. L’anno seguente, il 21 maggio 1172, ad Avranches, Enrico II ricevette l’assoluzione dai legati papali e, nel 1173, Thomas Becket veniva canonizzato come santo e martire da papa Alessandro, divenendo simbolo della difesa delle libertà della Chiesa. Nel 1174, il re fu costretto a una pubblica penitenza sulla tomba dell’arcivescovo oramai santo. Nella fantasia dei cronisti – come per esempio il fiorentino Giovanni Villani (1276-1348) – l’uccisione dell’arcivescovo da parte del re sarebbe stata punita da Dio. Dando credito a voci confuse, il cronista riporta che, poco dopo l’omicidio, il sovrano sarebbe morto in un incidente di cavallo. In realtà, visse ancora fino al 1189. Ma diamo spazio alle parole del cronista, che forse confuse la morte del sovrano con quella di suo figlio Goffredo (1186): «Questo Arrigo fu quegli che fece uccidere il beato Tommaso arcivescovo di Conturbiera, perch’egli lo riprendea de’suoi vizi, e togliea le decime della Santa Chiesa, onde Iddio fece gran iudicio che poco appresso cavalcando per Parigi col re Luis, gli si traversò uno porco tra’ piedi del cavallo e fecelo cadere, e subitamente della caduta morío». L’episodio ispirò lo scrittore Thomas S. Eliot (1888-1965) il quale, nel 1935, compose il dramma Assassinio nella Cattedrale. Scritta all’epoca in cui il fascismo, il nazismo e il comunismo avevano preso piede in Europa, l’opera ha un forte carattere di opposizione ai totalitarismi e sottolineava, in particolare, la sovversione dei valori e degli ideali della Chiesa cattolica.

correvano tra il re-signore e i suoi baroni-vassalli. E cosí, il 15 giugno 1215, Giovanni dovette concedere ai baroni riunitisi a Runnymede, poco lontano da Windsor, un atto con cui si riconoscevano diritti reciproci. Il documento che sancisce la vittoria dei signori inglesi nei confronti del proprio re è appunto la Magna

Charta Libertatum, con la quale i vassalli vedevano finalmente accolte molte delle loro richieste e limitate le pretese straordinarie sino ad allora avanzate dai Plantageneti. L’atto, infatti, prevedeva che, ogni qualvolta si intendeva istituire una nuova tassa, il sovrano avrebbe dovuto convocare baroni ed ecclegiugno

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Miniatura raffigurante l’assassinio di Thomas Becket da parte di quattro cavalieri guidati da Reginald Fitzurse, da un Salterio di produzione inglese. 1220 circa. Londra, British Library.

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Dossier

siastici per tenere un parlamentum. In realtà, ciò che agli occhi di molti potrebbe apparire come la nascita delle garanzie delle libertà individuali era un atto di epoca feudale, una concessione unilaterale del re che, fra l’altro, fu dichiarata nulla dopo appena due mesi dal papa e dallo stesso re Giovanni (24 agosto 1215). Inoltre ciò che il monarca era stato costretto a sottoscrivere, sotto le pressioni dei baroni e dei prelati, fu riformulato da suo figlio, Enrico III. Con il nuovo sovrano, il «parlamento», citato nella Magna Charta, divenne un’assemblea di tipo giudiziario, peraltro sottoposta al controllo di funzionari regi.

Scoppia la rivolta

A sua volta, Enrico III subí un destino affine a quello del padre. Nel 1258 si ebbe in Inghilterra una nuova rivolta, questa volta capeggiata da Simone di Montfort, conte di Leicester e figlio del tristemente noto Simone IV, l’uomo che comandò la crociata contro i Catari. Simone reclamava l’istituzione di consigli, l’affidamento dell’amministrazione della giustizia alla piccola nobiltà (e non a commissari regi), lo sviluppo di corti comitali e una rigida e severa epurazione.

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In alto disegno raffigurante la battaglia di Evesham e la morte di Simone di Montfort, il 4 agosto 1265, da un’edizione della Chronica Roffense di Matteo Paris. Inizi del XIV sec. Londra, British Library.

il documento

Una carta per tutte le libertà La Magna Charta Libertatum si compone di 60 capitoli, che accoglievano le richieste dei baroni concernenti le garanzie della propria autonomia e in parte limitavano i poteri del sovrano nei confronti dei sudditi. Il documento fu redatto, nella sua forma definitiva, dopo la morte di Giovanni, dal legato pontificio Guala Bicchieri, dal Gran Giustiziere, Uberto di Burgh, e dal reggente di Enrico III d’Inghilterra, Guglielmo il Maresciallo. Gli articoli non avevano numerazione, che è quindi convenzionale. Ci sono pervenute solo quattro copie conformi all’originale del 1215, due delle quali sono conservate nella cattedrale di Salisbury e nella British Library. «Giovanni, per grazia di Dio, re d’Inghilterra, signore d’Irlanda, duca di Normandia e di Aquitania e conte di Angiò, agli arcivescovi, abati, conti, baroni, funzionari della foresta, sceriffi, giudici, intendenti, servitori ed a tutti i balivi e fedeli sudditi, salute». Dopo i saluti alle autorità, ecclesiastiche e laiche, l’atto si apre con disposizioni di carattere costituzionale, riguardanti la libertà e l’inviolabilità della Chiesa (art. 1), dei cittadini e ancora le libertà e il rispetto delle consuetudini delle città, dei porti e dei borghi e in particolare il divieto di imporre nuove tasse senza la consultazione e il consenso del Commune Consilium Regni (artt. 12 e 14). «Sappiate che noi, per timore di Dio e per la salvezza dell’anima nostra e di quella di tutti i nostri predecessori ed eredi, per l’onore di Dio ed il prestigio della santa Chiesa, e per la riforma del regno nostro, su consiglio dei nostri venerabili padri, Stefano giugno

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arcivescovo di Canterbury, primate di tutta l’Inghilterra e cardinale di Santa Romana Chiesa (...) ed altri nostri fedeli sudditi: In primo luogo abbiamo concesso a Dio ed abbiamo confermato con questa nostra carta, per noi ed i nostri eredi in perpetuo, che la Chiesa inglese sia libera, ed abbia i suoi diritti integri e le sue libertà intatte (...)». Seguono disposizioni sulla risoluzione di conflitti feudali e norme che conferiscono particolari prerogative ai baroni, come per esempio il diritto per ogni uomo libero di essere giudicato da una corte di suoi pari (art. 39) e il divieto di arresto arbitrario da parte del re, la proporzionalità della pena rispetto alla colpa (art. 20). «Abbiamo anche concesso a tutti gli uomini liberi e consenzienti del nostro regno, per noi ed i nostri eredi di sempre, tutte le libertà sottoscritte, che essi ed i loro eredi ricevano e conservino, da noi e dai nostri eredi». Altri articoli sono dedicati alle magistrature, locali e centrali, con speciale attenzione alla Court of Common Pleas – da allora definitivamente insediata a Westminster –, con articoli sui diritti dei proprietari terrieri, sugli scambi e sui commerci. Alcune di queste norme appaiono particolarmente restrittive del potere regio: l’ultima, in particolare, prevedeva la creazione di una commissione di 25 nobili che, in caso di renitenza, avrebbe dovuto imporre al sovrano il rispetto della Charta.

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Il documento contenente la versione definitiva della Magna Charta, redatta a nome del re Enrico III nel 1225. Kew (Richmond, Surrey), The National Archives.

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Dossier Enrico venne sconfitto nella battaglia di Lewes (1264), fu fatto prigioniero assieme a suo figlio, il principe Edoardo I e, messo alle strette, cedette, per poi ritrattare tutto, forte soprattutto dell’appoggio del re di Francia Luigi IX, che lo sosteneva. Un anno piú tardi, il 4 agosto 1265, nella battaglia di Evesham, Simo-

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ne di Montfort venne sbaragliato e ucciso dalle truppe guidate dal principe Edoardo. La prassi cavalleresca di prendere prigionieri e, in caso di resa, risparmiare la vita agli sconfitti non venne rispettata e tutti i baroni ribelli, Simone di Montfort e suo figlio Enrico in testa, furono giustiziati.

Enrico III riprese il controllo del regno, ma, ormai anziano e stanco, affidò il trono a Edoardo. Questi si mostrò impaziente di saldare i conti e cosí, al Parlamento convocato a Winchester, tutti i ribelli furono privati delle loro proprietà. In dicembre il Lincolnshire provò a sollevarsi, ma la rivolta venne imme-

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diatamente soffocata, eliminando cosí ogni sacca di resistenza. L’ultimo scoglio della vicenda era rappresentato dal castello di Kenilworth (Warwickshire), ancora occupato da una guarnigione ribelle, che non intendeva cedere. Nell’estate del 1266 il fortilizio fu cinto d’assedio, ma senza successo, perché gli

assediati resistettero fieramente, intuendo a quale destino sarebbero andati incontro. Alla fine di ottobre, il sovrano emanò il Dictum of Kenilworth, in forza del quale i ribelli sarebbero potuti tornare in possesso delle loro terre dopo aver pagato un’ammenda proporzionale al coinvolgimento nella rivolta. All’inizio,

gli uomini asserragliati nel castello rifiutarono l’offerta, ma entro l’anno giunsero a piú miti consigli e infine accettarono. Alla luce di quanto fin qui esposto, a che cosa è dunque dovuta la fortuna della Magna Charta, considerato che, pochi mesi dopo la sua emanazione, l’atto fu dichiarato John MacVicar Anderson, Veduta di Westminster da Lambeth. Olio su tela, 1859. Collezione privata. Il grandioso edificio, che oggi vediamo nelle forme neogotiche conferitegli alla metà dell’Ottocento, ingloba i resti della primitiva fabbrica medievale, sede del primo Parlamento.

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Dossier Una delle strutture superstiti del castello di Kenilworh (Warwickshire, Inghilterra), al cui interno, nel 1265, si asserragliò un manipolo di baroni ribelli che non intendeva piegarsi al re Edoardo.

nullo dal papa (24 agosto 1215) e dallo stesso re Giovanni? Né va sottovalutato il fatto che, a voler essere rigorosi, il documento non è altro che una concessione regia, anche se poi, in pratica, risulta essere un vero e proprio contratto tra il sovrano e i baroni e quindi non tra il re e il suo popolo! Nel 1258 il Gran Consiglio, che già si definiva Parlamento, insorse contro vari abusi e favoritismi, imponendo un nuovo Comitato dei Venticinque, preposto alla riforma dello Stato. Le successive rivolte, in particolare quella di Montfort, diedero vita alle Provvisioni di Oxford, a ulte-

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riore conferma della Magna Charta. Nonostante i tentativi di sottrarvisi, le nuove norme furono poi ribadite dalle Provvisioni di Westminster.

Una gloria immeritata?

La strada sembrava insomma farsi piú agevole, ma, in realtà, il Parlamento era destinato a rimanere ancora a lungo una semplice assemblea di stampo feudale. E allora, perché attribuire alla Magna Charta ciò che apparentemente non possiede? Peraltro il già citato articolo 39, a ben guardare, non prevedeva alcuna sanzione e – particolare non di poco conto – rimase inapplicato

sino al 1628, cioè fino a quando non fu emanata la Petition of Right, approvata da Carlo I. La Magna Charta Libertatum è stata interpretata, soprattutto dalla storiografia liberale, come l’atto di nascita della democrazia inglese, come un documento capace di impedire alla monarchia di degenerare nell’assolutismo. In realtà, come già detto, l’atto mirava a garantire maggiormente le autonomie dei signori e non quelle del popolo, con una visione oligarchica – e non certo democratica – del potere. Ciononostante, anche il potere dei baroni veniva in qualche modo ridimensionato e, rispetto al continente, questa fu effettivamente una novità: il signore non poteva piú esigere, per esempio, un contributo economico straordinario dai propri dipendenti liberi, se non in casi ben precisi e prestabiliti, come l’investitura a cavaliere del figlio o per costituire la dote della figlia da maritare. Simili limitazioni, garantite in Inghilterra dal re, vennero ottenute nel resto d’Europa, ben piú tardi e con fatica, dalle comunità dei contadini dai propri signori, grazie alle «carte di franchigie». Benché, come si è visto, lo stesso re Giovanni avesse considerato la Magna Charta come un atto disonorevole, ottenuto dai baroni in un momento di debolezza della corona ed estorto con la forza, esso fu anche il segnale della capacità di concepire il potere in senso piú ampio e moderno. Per questo motivo può essere letto come la manifestazione di un potere monarchico progredito, in grado di ammettere un’amministrazione e una legislazione del regno allargate. Di sicuro, e comunque, un documento che ha fatto la storia. V giugno

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Un nido di nobili ARALDICA • La Comacina sembra quasi un’isola

«in miniatura». Eppure quel fazzoletto di terra nelle acque del lago di Como ha una storia plurisecolare, di cui sono state protagoniste molte importanti casate, tra castelli, barche e foglie di pungitopo...

O

gni anno, in occasione della festa di San Giovanni (24 giugno), in quel fine settimana il cielo che sovrasta la Zoca de l’oli (la conca ancor oggi oliviera che dal Dosso di Lavedo giunge ad Argegno, all’imbocco di quella Val d’Intelvi che fu culla dei magistri Antelami) s’illumina di fuochi d’artificio, e l’Isola Comacina viene avvolta da bagliori e fumi rossastri, mentre una voce evoca la distruzione da parte dei Comensi della munitissima isola (1169). Il suo paesaggio appare oggi selvatico e soffuso di una quiete pastorale, e solo si scorge oltre alla Locanda dell’Isola la seicentesca chiesa intitolata al Battista.

Munificenza di sangue blu Ma, prima dell’implacabile adaequatio solo comasca, essa ospitava, oltre che un munito castello ancora oggi evocato nel nome dialettale dato al luogo (castél), fior di abbazie, chiese e cappelle, che i ricchi abitanti di quella roccaforte avevano largamente beneficiato con donazioni di terre anche lontane. E tale munificenza, come vedremo, li avrebbe aiutati non poco, quando dovettero abbandonare quel nido di nobili (per evocare il suggestivo titolo del romanzo di Ivan Turgenev) messo letteralmente a ferro e fuoco. Almeno in principio, il destino di quest’isola era stato in un certo qual modo quasi speculare a quello di Venezia: essa fu uno

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In alto blasone dei conti di Venegono, uno dei rami in cui si suddivisero i conti franchi del Seprio, il cui stemma originario è raffigurato nello scudetto, dallo Stemmario Bosisio.

Qui sopra e in basso gli stemmi dei Rusca-Rusconi, di legge longobarda, e dei Raimondi comaschi, contraddistinti entrambi dalle foglie di rusco (altro nome del pungitopo), parlanti nel caso dei primi, dallo Stemmario Trivulziano.

degli ultimi caposaldi dell’esarcato in Langobardia, che ne affidò le sorti, come in origine nel caso veneziano, a un magister militum. Di tali rappresentanti dell’autorità pubblica bizantina resta memoria storica solo di un Francione, il quale, nel 590, dopo un lungo assedio, arrese onorevolmente l’isola al re longobardo Autari. Essa fu cosí incorporata nel territorio facente capo al duca di Bergamo, mentre, dopo la conquista franca, venne associata al comitato lecchese.

Un vescovo senza scrupoli Poco sappiamo delle vicende storiche della Comacina nei decenni che precedono l’anno Mille, se non che fu distrutta per la prima volta – ma evidentemente presto ricostruita – nel 964, per mano di un presule comasco, il vescovo Waldo, sostenitore di Ottone I e che sembrerebbe denunciare nel nome ascendenze germaniche, come del resto gran parte della media e piccola aristocrazia locale: dei Rusca/Rusconi, futuri signori di giugno

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Como, conosciamo, infatti, l’origine longobarda, cosí come di altre casate consolari della metropoli lariana (per esempio dei de Piro/Peri, pure signori del castello di Grumello in Valtellina, oggi appartenente al Fondo per l’Ambiente Italiano, FAI). La piú alta aristocrazia dell’area, per contro, era piuttosto d’origine franca: cosí gli Attonidi, conti di Lecco, e i prolifici conti del Seprio; e, proprio sull’Isola Comacina, due esponenti di queste illustri prosapie comitali, il conte Atto, ultimo della dinastia, e il conte Nantelmo del conte Rostaing di Castelseprio, sono documentati attori di una compravendita di beni fondiari nel marzo 961: forse a quell’epoca le turbolenze che agitavano il Regnum Italiae consigliarono loro di arroccarsi in quel ridotto lariano.

A destra stemma alludente dei Guardinsacchi, cives comensi viventi a legge romana, dallo Stemmario Bosisio. Qui sotto stemma dei Giovio, già de Castello de Insula, di legge romana, dallo Stemmario Bosisio.

In basso stemma dei Castelli San Nazaro, già de Castello de Insula, di legge romana, dallo Stemmario Bosisio.

Una fase turbolenta Ma senza successo, visto che qualche anno dopo, come già ricordato, il battagliero vescovo di Como ebbe ragione della difesa opposta sull’Isola da quel conte di Lecco medesimo, aiutato dai Ghisalbertini, conti di Bergamo. Se la documentazione residua ci restituisce poche notizie di

In basso una suggestiva veduta dell’Isola Comacina, fazzoletto di terra emersa lungo 600 m e con un perimetro di 2 km circa.

famiglie viventi a legge romana – e quindi probabilmente di tale ascendenza etnica, anche – nella città di Como (ci vengono in mente solo i Guardinsacchi, antica stirpe consolare), per contro ci apparirebbe seguire quel diritto la totalità delle famiglie isolane. Il toponimo del borgo di Sala,

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In alto stemma del ramo menaggino dei Greppi isolani, dallo Stemmario Bosisio. A destra stemma dei Molo isolani come raffigurato nel quattrocentesco Stemmario Carpani. Como, Museo Civico.

Qui sopra stemma parlante del ramo comense dei Greppi isolani, dallo Stemmario Bosisio.

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prospiciente all’Isola sulla terraferma, suggerisce un etimo longobardo (dal vocabolo sala, equivalente del latino palatium) ed è quindi verosimile ipotizzare che vi fosse uno stanziamento degli stessi Longobardi; tuttavia, in zona doveva sussistere un nucleo di possessores di tradizione latamente romana, cospicuo per censo e all’origine di molte famiglie. Queste ultime, talvolta mutando il gentilizio, permasero ai vertici della gerarchia sociale dei luoghi che le accolsero una volta costrette a lasciare l’isola ancora fumante per la terraferma lariana e le valli circonvicine ove detenevano possessi fondiari – anche come vassalli delle succitate istituzioni religiose da essi stessi largamente in precedenza beneficiate.

Centro studi «Nicolò Rusca»-Archivio storico della diocesi di Como, aut. n. 60 del 29 aprile 2015). È questo, in primo luogo, il caso dello stemma dei Giovio – casato reso illustre dagli storici e umanisti Paolo (1483-1552) e Benedetto (1471-1545), fratelli e ascendenti di altro storico, Giovanni Battista (1748-1814) –, ma anche di quello della stirpe feudale valtellinese dei Castelli de Sancto Nazario: casate che la documentazione archivistica ci permette di affermare con sicurezza discendenti dai de Castello de Insula! Di tale castello isolano all’origine del primigenio gentilizio resta solo una

Memorie di fasti lontani Anche l’antico nome di Varenna – località situata in territorio sicuro: sottoposto all’arcidiocesi di Milano, acerrima nemica della metropoli lariana –, che fu effettivamente prima se non definitiva tappa per molte di loro, rispecchiava nell’antico nome di Insula Nova la memoria della loro origine, che a lungo si mantenne, malinconicamente quanto orgogliosamente, nel ricordo dei discendenti. Alcune famiglie isolane, tuttavia, non si limitarono a serbare viva nella tradizione familiare l’origine isolana, ma vollero perpetuarla nei propri stemmi, che talvolta possono anche denunciare un piú risalente gentilizio, come nei casi che andremo a esaminare attingendo soprattutto a un armoriale settecentesco del lago di Como, il cosiddetto Stemmario Bosisio (qui utilizzato per gentile concessione del

memoria parlante quanto consueta nell’arme di questi ultimi, che dovrebbero aver derivato il predicato attuale dall’aver avuto in seguito dimora in Como presso la chiesa intitolata al santo eponimo. Il curioso stemma – che possiamo chiamare topografico – dei Giovio, raffigura in cuore allo scudo una torta araldica dai contorni merlati e stilizza chiaramente l’isola fortificata d’origine, il castél! Analogamente, l’arme gentilizia dei Greppi, fioriti in numerose località del Lario e in Bassa Valtellina, ma originari dell’Isola, caricano del grép giugno

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(cane in dialetto laghée...) parlante analogo, seppur non merlato, bisante posto in cuore al proprio scudo... Ancor meno lascia all’immaginazione lo stemma dei Molo, originari dell’Isola e probabilmente cognominati dall’aver avuto dimora presso il molo per antonomasia: che è raffigurato su di un’isola fortificata da cui salpa per altri lidi un veliero. Da un loro ramo passato a Bellinzona nell’attuale Canton Ticino nacque nella seconda metà del Quattrocento, il cancelliere ducale Giovanni, mentre dovrebbe discendere da un ramo trasmigrato nei secoli scorsi in Germania – come molte altre casate lariane – lo scrittore Walter Reichsritter (cavaliere dell’Impero) von Molo (1880-1958). L’identità di stemma con i suddetti prova la discendenza dai Molo anche dei Giulini, che presero nome dalla località frazione di Mezzegra in Tremezzina (ben nota quale scenario della fine di Mussolini e di Claretta Petacci): da una loro diramazione passata a Gera Lario venne il ramo ascritto al Patriziato Milanese (1750) e decorato del titolo comitale di Vialba e Villapizzone (1768) proprio nella persona di Giorgio (1714-1780), autore delle monumentali – e fondamentali, per quanto datate – Memorie spettanti alla storia, al governo, ed alla descrizione della Città e della campagna di Milano nei Secoli Bassi (Milano, 1760-65). Da un ramo passato in Germania nel XVIII secolo (Giulini di Giulino) uscí invece il longevo Georg Otto (1858-1954), chimico e industriale che godette invece del non meno prestigioso titolo di «re dell’alluminio».

A destra due varianti dello stemma dei Balbiani, stirpe di legge romana nota dal X sec. raffigurate nel quattrocentesco Stemmario Trivulziano.

A sinistra stemma dei Giulini, simile a quello dei Molo e un cui ramo fiorí anche a Piuro, in Valchiavenna, raffigurato dallo storico valtellinese Giustino Renato Orsini (1883-1964). Successivamente, la Comacina, abbandonata, passò dal vescovo comasco Leone Lambertenghi, vissuto a cavallo fra Due e Trecento, all’antica casata locale dei Vaccani di Lenno, per tornare in seguito in mani «isolane».

Nuovi passaggi di mano

La vendetta dei Comaschi

nella distruzione di Como, perpetrata dal Comune lombardo al termine della guerra decennale (1118-1127) che oppose le città, e le cui vicende sono narrate nel di poco posteriore e anonimo poema epico significativamente tramandato con il titolo di De bello et excidio urbis Comensis. L’opera viene attribuita tradizionalmente a un Raimondi di antica casata comense forse affine ai Rusca (portano infatti nel proprio stemma foglie di rusco, altro nome del pungitopo), ma certamente non va ascritta a un isolano.

Per tornare alla nostra isola, esigue sono le vicende posteriori all’accennata distruzione a opera dei Comaschi del 1169: cosí essi si vendicarono, infatti, dell’appoggio fornito dagli Isolani ai Milanesi

A destra stemma del conte Giovanni Balbiani, podestà di Bologna nel 1460, partito con al 1° un’impresa sforzesca, raffigurato nel settecentesco Stemmario Bolognese Orsini De Marzo.

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Essa fu infatti permutata (1500) con la contea di Chiavenna dai conti Annibale e Alessandro Balbiani, che cedettero obtorto collo quel feudo allo spregiudicato condottiero filofrancese Gian Giacomo Trivulzio (1440-1518) in cambio delle pievi di Isola e Lenno: e una carta geografica opera di Alexis-Hubert Jaillot dal titolo Le Duché de Milan dans toute son

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CALEIDO SCOPIO étendue (Parigi 1706) ancora indica significativamente l’isola con la dicitura di I. Comasina ou Balbiana. Ma quei conti, prossimi all’estinzione almeno nella discendenza legittima (durarono invece a Chiavenna i discendenti illegittimi dei feudatari locali fino al XVIII secolo, mentre ancora sussistono i Balbiani in altri rami sul Lario, e assai probabilmente nella discendenza dei Vassalli di Malenco), non rinverdirono i fasti medievali del luogo: che infine, in esecuzione delle volontà testamentarie (1917) del cavalier Augusto Giuseppe Caprani, passò brevemente al re dei Belgi Alberto I, il quale, nel 1920, la donò a propria volta all’Italia, che ne affidò la gestione all’Accademia di Brera. La fastosa villa rinascimentale che prende nome dall’antica località all’origine del gentilizio della suddetta casa comitale (de Balbiano) è attualmente villeggiatura privata di una facoltosa famiglia moscovita. Un destino simile è toccato a un’altra proprietà passata nel Settecento per le raffinate mani Stemma dei Caprani della pieve d’Isola, la cui araldica potrebbe far ipotizzare un’origine isolana, analogamente ai Greppi, dallo Stemmario Bosisio.

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del cardinale Angelo Maria Durini (1725-96), dei conti di Monza, e che dai soliti Balbiani prese nome: la villa Balbianello (che sorge sul promontorio omonimo, sito di un preesistente piccolo convento francescano, e dove il cardinale di origine cernobbiese Tolomeo Gallio, già nel Cinquecento, eresse una villa di delizie poi passata ai nipoti duchi d’Alvito nel Regno di Napoli – donde il toponimo Dalvito che caratterizza la punta nella carta settecentesca sopra ricordata), che è oggi uno dei fiori all’occhiello del FAI.

Con la testa rivolta a Nord A essa si accede via terra e via lago, luogo d’incanto senza eguali, riportato all’antico splendore e ridonato alla fruizione di tutti noi da altro conte di ben piú fresca nomina (1973: per lettere patenti di Umberto II), ma evidentemente animato da un sentire profondamente signorile: Guido Monzino (1928-1988), filantropo ed esploratore, e, last but not least, appartenente alla famiglia fondatrice dei grandi magazzini Standa. Egli riposa in pace, secondo le proprie disposizioni testamentarie, con la testa rivolta in direzione del Nord, nella ghiacciaia della villa che aveva tanto amato. Oggi l’antico castél è un ameno luogo di villeggiatura per artisti belgi e italiani, ospitati nelle ville erettevi su disegno dell’architetto razionalista locale Piero Lingeri, e meta del piú colto turismo internazionale, mentre un Antiquarium allestito nel borgo prospiciente di Ossuccio ospita i reperti restituiti dagli scavi e dalle immersioni archeologiche promossi in primo luogo dall’architetto Luigi Mario Belloni (1927-2004) e dalla moglie Mariuccia Belloni Zecchinelli (1917-2011), a cui esso è intitolato (www.isola-comacina.it). È invece passata da poco tempo al

Raffigurazione dello stemma dei Vassalli di Malenco, pieve di Sondrio, a opera dello storico valtellinese Giustino Renato Orsini (1883-1964). FAI la cosiddetta Torre del Soccorso, detta altrimenti «del Barbarossa», per donazione (2010) di Rita Emanuela Bernasconi, figlia dell’architetto Clemente Bernasconi che la restaurò con amorevole cura: verosimilmente, essa era compresa nel sistema fortificato sulla terraferma facente capo all’isola, ma è ora essa stessa in pericolo per una progettata variante alla strada che, in luogo di correre in galleria, per risparmio si vorrebbe far correre lí presso, minacciando la quiete e la bellezza ineffabile di luoghi tra l’altro posti sotto la protezione dell’UNESCO. Possiamo infine ripercorrere le orme dei Romani seguendo ciò che resta dell’antica strata regia, l’attuale Strada Regina, che una provvidenziale Greenway pedonale ha almeno parzialmente preservato dalle esigenze – talvolta irrispettose della storia e del paesaggio – della moderna viabilità: piú o meno consapevoli turisti, essa ci permette non solo di percorrere un bel sentiero panoramico, ma di immergerci a ritroso con la fantasia nel vero cuore pulsante del Medioevo lariano. Niccolò Orsini De Marzo giugno

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Marco Di Branco Angelo Izzo L’elogio della sconfitta Un trattato inedito di Teodoro Paleologo marchese di Monferrato

e

Viella, Roma 2015, 99 pp.

20,00 euro ISBN 978-88-6728-388-0 www.viella.it

Marchese di Monferrato, nonché figlio dell’imperatore bizantino Andronico II, il principe Teodoro Paleologo (1270-1338) è ricordato per la stesura di due trattatelli dedicati rispettivamente all’arte bellica – gli Enseignements our ordenances pour un seigneur qui a guerres et grans gouvernments a faire, già oggetto di edizione critica – e le Divisions sur la maniere des richeces et povretez de ce monde, che raccoglie alcune considerazioni etico-morali sulla ricchezza e la povertà. Originali risultano le considerazioni di questo personaggio, il quale, negli Enseignements, collocabili a metà strada tra gli specula principum e i trattati militari bizantini, parte dal presupposto che essendo la guerra e il disordine la

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condizione naturale dell’essere umano, si sofferma sulla pratica bellica nelle sue varie angolazioni, offrendo uno spaccato realistico delle problematiche a essa legata e dando una serie di consigli – è forte qui la presenza dell’esperienza maturata sul campo dall’autore – senza dimenticare i principi etici che sottendono a un buon governo. Una trattazione nella quale è evidente

l’impostazione aristotelica, moderata dalla presenza del pensiero neoplatonico che nelle Divisions, di cui viene qui presentata l’edizione in lingua originale con traduzione italiana, si fa preminente. Questo secondo trattato parla della ricchezza e la povertà, inserendosi in un dibattito sul concetto

di filantropia piuttosto diffuso tra le gerarchie ecclesiastiche bizantine, assai sensibili al problema dell’impoverimento generale del popolo. Peculiare si rivela la posizione assunta da Teodoro nelle Divisions: invece di auspicare la messa in atto di un sistema assistenzialistico e/o collaborativo tra le classi sociali, egli si pone piuttosto in forte polemica contro la ricchezza, in una visione della povertà quale unica condizione alla ricompensa celeste. E questo ci riporta a un concetto neoplatonico in cui la vita «mondana» è concepita come fase transitoria verso l’ascesa alla dimensione divina. Benché le fonti originali dei due trattati, originariamente scritti in greco e tradotti in latino dallo stesso autore, siano andate perdute, è grazie al volgarizzamento in francese del frate Jean de Vignay (effettuato intorno agli anni Trenta del XIV secolo, in un clima, quello francofono, particolarmente ricco di letteratura sull’argomento) che le Divisions, oggetto di

questa editio princeps, vengono presentate per la prima volta nella traduzione di de Vignay e con il testo italiano a fronte. Franco Bruni Vincenzo Farinella Alfonso I D’Este Le immagini e il potere Officina Libraria, Milano, 1042 pp., ill. col. e b/n

65,00 euro ISBN 978-88-89854-33-4 www.officinalibraria.com

Raffinato mecenate o ruvido uomo d’arme? In passato, piú d’uno studio sulla pittura ferrarese del XV e XVI secolo ha fatto emergere il profilo di un committente spesso subordinato alle scelte iconografiche dei suoi artisti, oppure di un uomo nostalgico dei propri trascorsi militari, non alieno a un gusto un po’ lascivo. Gli studi e le mostre internazionali degli ultimi decenni su Dosso Dossi, principale pittore di corte, hanno, invece, gradualmente, contribuito a ribaltare tale punto di vista, rivelando nel duca una personalità acuta e raffinata, con tratti di originalità e perfetta

consapevolezza delle proprie scelte in campo culturale e figurativo. Proseguendo questo secondo filone, Alfonso I D’Este, Le immagini e il potere concentra la trattazione su questo personaggio, che svolse un ruolo di primo piano nel panorama politico e culturale del suo tempo, nell’intento di tributargli la meritata

attenzione di cui fino a oggi è stato oggetto solo di riflesso. L’esposizione puntuale, chiara e scorrevole e l’efficace strutturazione dei contenuti rendono il volume di agile e piacevole consultazione. Tra gli apparati, oltre 300 tavole illustrate a colori e in bianco e nero, l’indice dei nomi e una ricca sezione bibliografica. Paolo Leonini giugno

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Canti per un’attesa MUSICA • Il fenomeno dei pellegrinaggi ebbe risvolti anche in ambito musicale.

Nacquero cosí melodie semplici, composte a beneficio dei fedeli, per rendere piú piacevole il tempo che li separava dall’«incontro» con le immagini sacre e le reliquie

I

l fascino dei loca sacra ha costituito, soprattutto nel Medioevo, una forte attrattiva per i fedeli, che hanno percorso centinaia, se non migliaia di chilometri per raggiungere e venerare le reliquie di santi e pregare davanti al loro sepolcro, ovvero celebrarne le immagini miracolose. Quale che fosse l’oggetto di devozione, vennero organizzandosi veri e propri circuiti di pellegrinaggio e tutta una serie di attività a essi connesse, come l’ospitalità dei forestieri. Ben presto, all’interno di questa piú ampia geografia del sacro, si affermano alcune mete principe, prima fra tutte Santiago de Compostela. Restando in terra spagnola, per l’esattezza catalana, oltre al culto di san Giacomo, anche quello per la Vergine Nera di Montserrat ha conosciuto un grande successo dalla fine del IX secolo, quando alcuni pastori – narra la leggenda – furono guidati in una grotta che custodiva un’immagine della Madonna. Su quel luogo fu costruita una cappella/ santuario, che poi divenne un vero e proprio monastero. Legata al repertorio devozionale praticato dai pellegrini in attesa di venerare l’immagine della Vergine, l’antologia Le Livre Vermeil de Montserrat (Paraty 414125, 1 CD,

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http://new.paraty.fr) ricrea con apprezzabile verosimiglianza e festoso entusiasmo le atmosfere che si dovettero respirare nei secoli XIV e XV. Un’operazione resa possibile da un prezioso manoscritto della fine del Trecento, le Llibre Vermell, che raccoglie le disposizioni in materia musicale, nonché coreografica, previste per i fedeli, alle quali si aggiunge una decina di brani da

cantare e danzare per restare vigili durante l’attesa che precedeva la venerazione della statua.

Brani semplici e orecchiabili Disposizioni e repertori, dunque, che la dicono lunga sull’importanza dell’elemento coreutico-musicale legato alla venerazione mariana di Montserrat. Seppur limitato

nel numero di brani pervenutici, il repertorio è piuttosto variegato tanto da includere sia brani monodici che polifonici, su testi che si alternano tra latino, catalano e occitano. Lo stile è tutt’altro complesso e dunque, anche nel caso delle polifonie, prevalgono contrappunti semplici e il carattere ritmico e melodico delle composizioni gioca un ruolo preponderante nel favorire l’orecchiabilità di un repertorio destinato essenzialmente a un pubblico esecutore privo di una specifica educazione musicale. Ottima si rivela la scelta interpretativa di Bruno Bonhoure e Khaï-dong Luong, alla direzione del gruppo La Camera delle Lacrime, accompagnato per l’occasione dal Jeune Chœur de Dordogne e dal Festival Sinfonia en Périgord, che ripropongono questo percorso sonoro con una caratterizzazione fortemente popolareggiante. Ampio è il ricorso a strumenti della tradizione medievale – flauti a becco, salterio, vielle, percussioni varie –, che scandiscono ritmi e «colorano» in maniera efficace la performance vocale. Ben riusciti risultano anche i brani di tipo responsoriale dove alla voce solista si alterna il coro e/o interludi strumentali. Franco Bruni

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