Medioevo n. 220, Maggio 2015

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DE IL PA LL PA DO A LA VA RA Z GI ZO O NE

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

www.medioevo.it

DOSSIER

Pio II e la crociata del papa umanista

SAPER VEDERE

Il Palazzo della Ragione a Padova

PROTAGONISTI Giovanni dalle Bande Nere

Maria

Ritratto di un mistero medievale

€ 5,90

www.medioevo.it

Mens. Anno 19 numero 220 Maggio 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 220 MAGGIO 2015 MARIA GIOVANNI DALLE BANDE NERE GUERRA/4: ESERCITI COMUNALI PALAZZO DELLA RAGIONE DOSSIER PIO II

EDIO VO M E



SOMMARIO

Maggio 2015 ANTEPRIMA ALMANACCO DEL MESE MOSTRE Francescani a Khanbaliq Mille anni ben portati

5 6 8

APPUNTAMENTI Medioevo oggi Tre ceri per tre santi Sulle orme del Carmagnola Dal Golgota alle Fiandre L’Agenda del Mese

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RESTAURI La partenza di Pio

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COSTUME E SOCIETÀ

CALEIDOSCOPIO

MEDICINA MILITARE

ARALDICA Nel segno di Tegrimo

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MUSICA Dall’isola dei cori La pazienza suona bene Note per Lucrezia

110 111 112

Giovanni dalle Bande Nere

Il capitano e il chirurgo

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di Paola Cosmacini

STORIE ICONOGRAFIA La Vergine Maria

Immagini per un mistero di Erberto Petoia

LA GUERRA NEL MEDIOEVO/4 Non si scherza coi fanti! di Federico Canaccini

44

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LUOGHI 54

SAPER VEDERE Padova Nel palazzo delle stelle di Furio Cappelli

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54

Dossier

68

L’UMANISTA CHE ANDÒ ALLE CROCIATE di Furio Cappelli

83


MEDIOEVO Anno XIX, n. 220 - maggio 2015 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352

Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa: copertina (e p. 6), pp. 7, 8 (alto; foto Manfred Lhose), 9 (alto), 12 – Doc. red.: pp. 8 (basso), 9 (basso), 35 (basso), 40, 50, 60, 71 (basso), 72, 94 – Cortesia dell’autore: pp. 14, 17 (basso), 18, 104-108, 113 – Cortesia don Maurizio Ceriani: pp. 16, 16/17, 17 (alto) – DeA Picture Library: p. 71 (alto); A. Dagli Orti: pp. 30/31, 52-53: G. Nimatallah: pp. 33, 47, 83 (primo piano); G. Dagli Orti: pp. 42, 88, 90-91, 96, 101, 102; A. Vergani: p. 46 (alto); L. Romano: p. 97 – Mondadori Portfolio: Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 32; AKG Images: pp. 37, 51, 63; Album: pp. 48, 85; Rue des Archives/PVDE: p. 83 (secondo piano); Electa/Bruno Balestrini: p. 93 (alto, a sinistra); Electa/Remo Bardazzi: p. 93 (alto, a destra); Leemage: pp. 93 (basso, sinistra e destra), 98; Electa/ Sergio Anelli: p. 95 – Foto Scala, Firenze: pp. 35 (alto), 80, 89 – Archivi Alinari, Firenze: p. 74, 76-79; BnF, Dist. RMN-Grand Palais/Image BnF: pp. 36, 39; RMN-Grand Palais (Musée de Cluny-Musée national du Moyen-Âge)/ Jean-Gilles Berizzi: p. 38; Bridgeman Images: pp. 41, 65; Raffaello Bencini: pp. 44/45, 46 (basso) – Bridgeman Images: pp. 54/55, 60/61; per gentile concessione di Viscount Coke and the Trustees of Holkham Estate, Norfolk: pp. 58/59; Cortesia delWarden and Scholars of New College, Oxford: p. 62; Archives Charmet: p. 100 – Cortesia Osprey Publishing: Christa Hook: disegni alle pp. 56/57; Adam Hook: disegno a p. 64 – Da Il Villani illustrato, Banca CR Firenze, Firenze 2005: p. 66 – Marka: Marco Scataglini: pp. 68/69, 73 (alto); SuperStock: pp. 75, 81 – Shutterstock: pp. 70, 86/87 – Francesco Corni: disegno a p. 73 – Marco Borggreve: p. 110 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 49, 61, 84. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it

Editore: MyWay Media S.r.l.

Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Paola Cosmacini è radiologa presso l’Unità Operativa di Radiologia, Ospedale Maggiore, Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena di Milano. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Chiara Parente è giornalista. Erberto Petoia è storico delle religioni. Stefania Romani è giornalista. Renata Salvarani è ricercatore di storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Università degli Studi Europea di Roma. Tiziano Zaccaria è giornalista.

Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6346 Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369

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In copertina il volto della Vergine nella Madonna col Bambino in trono fra sei angeli, sant’Elisabetta d’Ungheria e san Ludovico di Tolosa del Maestro di Figline. Tempera con fondo oro su tavola, 1320 circa

Nel prossimo numero storie

I martiri «non santi» della Chiesa d’Oriente

il parmigiano

Storia e fortuna di un formaggio

saper vedere

La cappella di Teodolinda a Monza

dossier

15 giugno 1215: la Magna Charta


Almanacco del mese

a cura di Federico Canaccini

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1 maggio 1328

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2 maggio 3 maggio 1241

Con la ratifica del trattato di Edimburgo-Northampton, l’Inghilterra riconosce la Scozia indipendente U

Davanti all’isola del Giglio, la flotta di Pisa e di Federico II attacca quella genovese con a bordo i prelati diretti al concilio di Lione

4 maggio 1471

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A Tewkesbury (Gloucestershire, Inghilterra) gli York annientano le forze leali ai Lancaster U

5 maggio 553

Si apre a Bisanzio il secondo concilio ecumenico

6 maggio 1527

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I Lanzichenecchi di Carlo V saccheggiano Roma U

7 maggio 558

A Bisanzio crolla la cupola di S. Sofia. L’imperatore Giustiniano ne ordina subito la ricostruzione U

8 maggio 1429

Giovanna d’Arco libera Orléans dall’assedio inglese U

9 maggio 1087

Le reliquie di san Nicola vengono traslate a Bari

U

16 maggio 1204

Dopo la conquista crociata di Costantinopoli, Baldovino IX è eletto primo imperatore latino d’Oriente U

17 maggio 547

A Ravenna Massimiano inaugura la basilica di S. Vitale U

18 maggio 1012

Consacrazione di papa Benedetto VIII, dei conti di Tuscolo

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19 maggio 20 maggio 325

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21 maggio 996

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Si apre a Nicea il primo concilio ecumenico Il sedicenne Ottone III sale al trono del Sacro Romano Impero U

22 maggio 1455

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23 maggio 1430

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24 maggio 1153

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25 maggio 1085

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26 maggio 1249

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27 maggio 1234

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28 maggio 1503

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29 maggio 1176

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30 maggio 1431

Nel corso della guerra delle Due Rose, a St Albans, Riccardo, duca di York, sconfigge e cattura re Enrico VI I Borgognoni catturano Giovanna d’Arco presso Compiègne Malcolm IV, detto il Vergine per la sua giovane età, diventa re di Scozia

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10 maggio 1297

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11 maggio 1395

Battaglia di Fossalta: Enzo, il figlio di Federico II, viene catturato dai Bolognesi

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12 maggio 1328

A Steding (Germania) un esercito crociato seda nel sangue una rivolta contadina facendo migliaia di vittime

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13 maggio 1497

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14 maggio 1264

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15 maggio 1252

Bonifacio VIII scomunica i suoi nemici, i cardinali Colonna Viene creato il ducato di Milano. Gian Galeazzo ne ottiene il titolo da Venceslao di Lussemburgo Nel corso delle lotte tra Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro, a Roma viene incoronato l’antipapa Niccolò V Alessandro VI scomunica Girolamo Savonarola Simone di Montfort diviene anche governatore d’Inghilterra in seguito alla cattura di Enrico III nella battaglia di Lewes La bolla Ad extirpanda di Innocenzo IV ammette, per la prima volta, l’uso della tortura nei processi inquisitoriali

Muore papa Gregorio VII

Trattato di pace eterna tra Scozia e Inghilterra A Legnano le truppe della Lega Lombarda hanno la meglio sull’esercito di Federico Barbarossa A Rouen finisce sul rogo la Pulzella d’Orléans U

31 maggio


ANTE PRIMA

Francescani a Khanbaliq MOSTRE • Gli eredi del Poverello di

Assisi seppero diffonderne il messaggio ben oltre i confini delle terre natie. Un’opera di «propaganda» che, in realtà, si basava su una visione sinceramente ecumenica del mondo conosciuto

Capolettera miniato da un Salterio-Innario. 1448- 1450. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. DOVE E QUANDO

«L’arte di Francesco. Capolavori d’arte e terre d’Asia dal XIII al XV secolo» Firenze, Galleria dell’Accademia fino all’11 ottobre Orario ma-do, 8,15-18,50; chiuso il lunedí Info Tel. 055 294883; e-mail: firenzemusei@ operalaboratori.com; www.unannoadarte.it Maestro di Figline, Madonna col Bambino in trono fra sei angeli, sant’Elisabetta d’Ungheria e san Ludovico di Tolosa (particolare). Tempera con fondo oro su tavola, 1320 circa. Figline Valdarno, Collegiata di Santa Maria Assunta. delle stuoie» e dell’istituzione della «provincia di Terra Santa», fin dal viaggio compiuto da Francesco in Egitto e – probabilmente – a Gerusalemme (vedi «Medioevo» n. 213, ottobre 2014; anche on line su medioevo.it). La stessa Città Santa appare sia come fulcro devozionale di una imago mundi che di europeo ha poco o nulla, sia come incipit dell’Asia, porta verso un mondo variegato e aperto alla prospettiva del Vangelo.

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uale idea del mondo aveva san Francesco? A quali spazi guardavano i suoi primi seguaci? In quali direzioni si sono sviluppate le loro azioni di evangelizzazione? Questi interrogativi sono stati la base delle ricerche da cui è nata la mostra «L’arte di Francesco: capolavori d’arte e terre d’Asia dal XIII al XV secolo», allestita a Firenze presso la Galleria dell’Accademia. L’Oriente si impone come orizzonte originario della fondazione dei Frati Minori, prima ancora del «capitolo

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Quando il khan dei Mongoli scrisse al papa Il percorso espositivo presenta non solo i viaggi missionari, ma la stessa idea dell’Oriente sviluppata da Francesco e dai suoi, in una sorta di ridefinizione culturale e topografica dell’ecumene. Da una parte, si susseguono mappe, codici che riportano relazioni di viaggio, attestazioni dei contatti dei latini con i Mongoli mantenuti in chiave antislamica (nel 1246 Khan Güyük scrisse a papa Innocenzo IV una lettera conservata nell’Archivio Segreto Vaticano). maggio

MEDIOEVO


Dall’altra, un gruppo straordinario di reperti fa intuire la rete delle presenze cristiane che i Francescani incontrarono al loro arrivo all’interno del continente. La prima comunità nestoriana si impiantò in Cina nel 633 e rimase attiva fino al X secolo, all’interno di un sistema ben piú ampio di relazioni, contatti, circolazioni di annunci e interpretazioni, contaminazioni con l’universo buddhista. Durante il dominio della dinastia Yuan (1279-1368) questi gruppi di cristiani acquistarono importanza e si diffusero ulteriormente, soprattutto nelle aree settentrionali. Con loro e con la loro versione del cristianesimo ebbero a che fare i «frati della corda», che si trovarono a predicare in un contesto in cui Gesú non era del tutto sconosciuto, ma, piuttosto, faceva parte di una stratificazione secolare di credenze, mutuazioni A sinistra Cimabue, San Francesco. Tempera e oro su tavola, con aureola raggiata in rilievo, 1280 circa. Assisi, Museo della Porziuncola. In basso Nino Pisano, San Francesco. Marmo, 1362-1368. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.

Capolettera miniato dal Graduale del Proprio e Comune dei santi del Maestro della Bibbia di Gerona e Maestro della Bibbia di Modena. 1280-1290. Bologna, Museo Civico Medievale.

e assimilazioni. Ne sono testimonianza sessanta croci in metallo oggi conservate al Museo della Hong Kong University, oggetti devozionali di uso comune, perlopiú a forma di croce greca, alcune delle quali mostrano evidenti fusioni con motivi simbolici buddhisti e centro-asiatici. Gli incontri con questi mondi e le situazioni che si svilupparono sono descritti nei testi degli stessi Francescani. Solo per citare un caso, il frate fiammingo Guglielmo di Rubruck (1220 circa-1293) dà conto di una sorta di concilio convocato da Möngke Khan in occasione del quale i Francescani rappresentarono i cristiani sia latini che nestoriani, senza distinzioni, alla presenza di buddhisti e altri gruppi.

L’avventuroso viaggio del beato Odorico Di reperto in reperto, viene tratteggiato un universo di viaggi, esplorazioni ed echi, generato a partire dalla declinazione propriamente francescana del cristianesimo, che negli spazi sconfinati dell’Asia aveva trovato un alveo privilegiato. Cosí, un grande affresco staccato dalla chiesa di S. Francesco a Udine di cultura tardo-gotica introduce il visitatore alla straordinaria vicenda umana del beato Odorico da Pordenone (1286-1331), il quale, intorno al 1314, intraprese una spedizione incredibile, sostenuto dal fervore missionario che lo portò prima in Asia Minore, per incontrare poi i Mongoli della dinastia Yuan negli anni 1323-28, e infine in India. Rientrato in patria dopo un viaggio rocambolesco Odorico riferí al Papa lo stato delle missioni in Oriente in una dettagliata Relatio. La sua vicenda fu solo una delle ultime dell’epopea francescana in Asia orientale, generata dall’impulso stesso dell’azione di Francesco e iniziata nel 1245 con Giovanni da Pian del Carpine († 1252), culminata con Giovanni da Montecorvino (1247-1328), consacrato nel 1313 primo vescovo di Khanbaliq (Pechino). Renata Salvarani

MEDIOEVO

maggio

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ANTE PRIMA MOSTRE • La

bevanda simbolo della Germania ha origini antiche, ora rievocate da una delle sue capitali, la sassone Meissen

Mille anni ben portati N

ell’Albrechtsburg di Meissen, castello tardo-gotico situato a una trentina di chilometri da Dresda, si celebra il millenario della birra sassone. Il maniero, che è il piú antico della Germania, svetta su una collina, controllando un tratto dell’Elba cruciale già nel Medioevo. Le sale che ospitano la rassegna hanno maestose volte a crociera, vetrate ampie, armature, arredi, postazioni interattive, su pavimenti a losanghe. E non è un caso che la storia della bevanda tanto amata dai Tedeschi venga riproposta proprio nella località menzionata mille anni fa: nel 1015, il 13 settembre, Meissen, assediata dalle truppe polacche, nell’ambito di uno scontro durato un quindicennio, si raccolse attorno al maniero e sfuggí alla devastazione perché le donne, in mancanza di acqua, soffocarono le fiamme proprio con la birra.

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Citato in una cronaca redatta dal vescovo dell’epoca, Thietmar von Merseburg, l’episodio è considerato il riferimento cronologico al quale far risalire una tradizione particolarmente radicata in Sassonia: la cervogia, infatti, non è solo un simbolo di questa terra, ma ne segna l’identità e l’immaginario collettivo. E, fin dal Medioevo, ha avuto un ruolo privilegiato nell’alimentazione, anche perché considerata piú sicura sul piano igienico rispetto all’acqua, spesso contaminata.

Un’esposizione da gustare La mostra coinvolge i visitatori attraverso esperienze sensoriali, apparati multimediali, degustazioni, assaggi che li accolgono a partire dal maestoso cortile del castello. Accanto a boccali e bicchieri che danno una panoramica di tutta la filiera, sono esposti documenti, maggio

MEDIOEVO


fotografie, riproduzioni. Ma ci sono anche approfondimenti sulla produzione, sui segreti legati alle varianti della ricetta originale, sugli strumenti impiegati e ai prodotti usati, come l’orzo e il luppolo (Humulus lupulus), introdotto proprio nell’età di Mezzo, forse negli ultimi decenni del Duecento (della pianta, lo ricordiamo, si utilizzano le infiorescenze femminili, essiccate all’aria, che sono ricche di ghiandole contenenti sostanze aromatiche che conferiscono alla birra il caratteristico sapore amaro, n.d.r.). Il luppolo, che aggiunse freschezza al gusto della bevanda, dandole una maggiore garanzia di conservazione, sostituí un misto di erbe chiamato

DOVE E QUANDO

«Prost! 1000 anni di birra in Sassonia» Meissen, Albrechtsburg fino al 1° novembre Orario tutti i giorni, 10,00-18,00 Info www.albrechtsburg-meissen.de

MEDIOEVO

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In alto un tipico impianto per la mescita della birra. A sinistra la produzione della birra in una tavola dell’incisore svizzero Jost Amman, dal trattato Eygentliche Beschreibung aller Stände auff Erden..., pubblicato per la prima volta a Francoforte nel 1568. Nella pagina accanto, in alto l’Albrechtsburg di Meissen, che ospita la mostra sui mille anni della birra sassone. Nella pagina accanto, in basso illustrazione medievale raffigurante un monaco intento alla preparazione della birra.

«Grut», fatto con corteccia di quercia, prugnolo, bacche di ginepro, anice, rosmarino, genziana, semi di cumino. Poiché il Grut si rivelava talvolta allucinogeno, se non addirittura mortale, si diffuse la credenza che esistessero le «streghe della birra», arse sul rogo fino al tardo Cinquecento.

Prima le donne e poi i monaci Il processo produttivo, in un primo tempo portato avanti quasi esclusivamente dalle donne, si radicò in parte anche nei monasteri, dove i religiosi migliorarono progressivamente aroma e contenuto nutritivo della bionda: alla versione leggera, destinata al consumo quotidiano, si aggiungeva quella a gradazione alcolica maggiore, bevuta nelle occasioni speciali. L’uso del tino di coccio e di recipienti in rame hanno dato poi un gusto piú raffinato al celebre prodotto. Solo nel 1516 la ricetta della birra viene codificata, per la prima volta, da Guglielmo IV duca di Baviera, con il Reinheitsgebot (Editto della purezza), che prevedeva l’uso esclusivo di orzo, o malto d’orzo, luppolo e acqua pura. Stefania Romani

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ANTE PRIMA

EDIO VO M E OGGI

C C

ividale del Friuli torna longobarda: il 30 e 31 maggio, nell’affascinante borgo sul Natisone, si svolge infatti la terza edizione della manifestazione storico-rievocativa «AD 568. Cividale primo Ducato», che ricostruisce un momento di vita quotidiana del VI secolo: l’epoca, cioè, in cui i Longobardi invasero l’Italia e si stabilirono in maniera definitiva sul territorio, dando vita a un regno destinato a durare due secoli. L’evento è di grande importanza per la valorizzazione dell’identità di Cividale, che con il Tempietto Longobardo e i resti del Complesso Episcopale fa parte, insieme ad altre sei località italiane, del sito seriale «I Longobardi in Italia. I luoghi del Potere (568-774 d.C.)», inserito nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità UNESCO.

Dal convegno al campo La manifestazione si avvale quest’anno del supporto del Comune di Cividale e, come già per la scorsa edizione, anche della collaborazione del Museo Archeologico Nazionale di Cividale, che conserva i corredi delle necropoli locali. Il Museo ospita il convegno «Dalla produzione nell’Italia longobarda alla riproduzione nella rievocazione storica», che ha tra i suoi relatori Elisa Possenti, Marina De Marchi, Vittorio Fronza, Marco Valenti, Alessandra Negri, Irene Barbina, Alessandra Marcante, Alessandro Pacini, Tobias Eisenkolb. Lo spettacolare Belvedere sul Natisone, a ridosso del Ponte del Diavolo, accoglie invece il campo storico, allestito da La Fara-Rievocazione Longobarda e Fortebraccio Veregrense. Arricchiscono il panorama alcuni gruppi provenienti dall’estero, che permetteranno un confronto tra i Longobardi e i popoli con cui entrarono in contatto nell’età delle Migrazioni: gli ungheresi Avar Age Living

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Historical Association per gli Avari; i tedeschi Nors Farandi e Hedningar-Europa zur Merowingerzeit per Franchi, Alamanni e Bavari; Numerus Invictorum per i Bizantini.

La tomba dell’orefice Secondo una formula già ampiamente rodata, i rievocatori offrono uno spaccato di vita quotidiana dell’età altomedievale (scene di desco, artigianato, attività dei fabbri, tessitura) arricchito da percorsi didattici. La novità principale di questa edizione è la ricostruzione del rito funebre dell’orefice di Grupignano, operata da La Fara sulla base dei materiali rinvenuti nell’omonima tomba risalente al VII secolo (tra cui un’incudine e altri utensili). Sono previste anche visite guidate, un’introduzione alla falconeria, conferenze su moda, armamenti e cucina in età merovingia (a cura dell’associazione Hedningar) e un’introduzione sul Tempietto Longobardo di Cividale (a cura di Elena Percivaldi, che al tema ha dedicato uno dei suoi contributi piú recenti: vedi «Medioevo» n. 217, febbraio 2015). Completano il programma stage di spada, la rappresentazione di un’ordalia e dimostrazioni marziali (a cura di Fortebraccio Veregrense). Chiudono i «racconti intorno al fuoco», che ripropongono memorie e tradizioni orali longobarde. «AD 568. Cividale Primo Ducato» è organizzata da Associazione La Fara, con la collaborazione di Compagnia di scherma antica Fortebraccio Veregrense e Perceval Archeostoria e si avvale del patrocinio istituzionale di Comune di Cividale, Provincia di Udine, FriuLIVEneziaGiulia Turismo, e culturale di E.M.A.i.A. (Early Middle Ages In Action), del mensile «Medioevo» e della Società Friulana d’Archeologia. Per informazioni: e-mail: infoad568@lafara.eu; tel. 328 3119698; http://ad568.jimdo.com maggio

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

La partenza di Pio RESTAURI • Si è appena concluso

l’intervento su uno dei quadri della straordinaria biografia dipinta di Enea Silvio Piccolomini. Un motivo in piú per scoprire (o riscoprire) uno dei monumenti piú significativi del primo Cinquecento italiano ed europeo

I

l Dossier di questo numero è dedicato alla crociata mancata di papa Pio II, il «papa umanista» (vedi alle pp. 83-102), la cui vicenda biografica fu magnificamente riassunta e raccontata per immagini dal Pinturicchio nella Libreria Piccolomini di Siena. All’interno del monumento (che, in realtà, a dispetto del nome, è parte della canonica del Duomo) si è appena concluso un intervento di restauro, che ne ha interessato una delle scene affrescate e le due vetrate. La scena apre il ciclo con le storie di Pio II, dipinto da Pinturicchio tra il 1503 e il 1508, ma alla cui ideazione ha partecipato anche il suo giovane compagno di bottega Raffaello. In particolare, i restauri hanno riguardato vari frammenti di intonaco pittorico distaccati lungo una vecchia lesione che coinvolge la pittura in senso longitudinale. La scena presenta il giovane Enea Silvio mentre muove a cavallo alla volta del Concilio di Basilea e la tempesta infuria sul mare. Al di là del protagonista, rappresentato con i lunghi capelli, suscita l’attenzione dello spettatore il ricchissimo corteo di notabili, ecclesiastici, cavalieri, paggi e alabardieri. Per avere un quadro preciso della scena bisogna rivolgersi, in particolare, ai Commentarii, l’autobiografia di Pio II, ma anche

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Siena, Libreria Piccolomini. La partenza di Enea Silvio Piccolomini per Basilea, dove intendeva rivendicare il suo diritto alla nomina a cardinale, nel ciclo con le storie di Pio II affrescato dal Pinturicchio. 1503-1508.

ad altre fonti. Il primo episodio, dunque, sia nei resoconti letterari sia nella rappresentazione figurativa, è concepito come un evento effettivamente accaduto di cui si forniscono le esatte coordinate temporali e geografiche.

Al seguito di Domenico Capranica Enea Silvio all’età di ventisette anni dà inizio alla sua avventura terrena, mettendosi al seguito di Domenico Capranica, il quale passa da Siena diretto al Concilio di Basilea, dove intendeva rivendicare i suoi diritti per la nomina a cardinale proclamata

da Martino V, ma non confermata dal suo successore Eugenio IV. Il viaggio si rivela pieno di rischi sia per la perfidia umana (vedi il comportamento del signore di Piombino, Iacopo Appiani) sia per la violenza degli elementi e la furiosa tempesta. Il passaggio di Domenico Capranica fu per il giovane eroe una vera e propria occasione offerta dalla sorte per un mutamento delle sue condizioni ed Enea Silvio la coglie prontamente. Enea dunque si incammina verso il suo destino sospinto dalla virtú e dalla fortuna. (red.) maggio

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Tre ceri per tre santi APPUNTAMENTI • Gubbio si appresta a celebrare una festa dalle origini

antichissime, in cui la devozione popolare assume forme davvero spettacolari

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gni 15 maggio, Gubbio celebra la Festa dei Ceri, una tradizione risalente alla seconda metà del XII secolo, quando il Comune umbro la dedicò al vescovo Ubaldo Baldassini, morto il 16 maggio 1160. La festa attuale nasce dalla trasformazione di un’originaria offerta di cera, che le corporazioni medievali donavano al patrono cittadino Ubaldo. Oggi i Ceri sono tre grandi macchine ottagonali in legno, intarsiate e dipinte, pesanti 300 kg circa e alte 7 m, sormontate rispettivamente dalle statue di sant’Ubaldo protettore dei muratori e degli scalpellini, san Giorgio, protettore dei commercianti, e sant’Antonio Abate, protettore dei contadini e degli studenti. La base a forma di «H» ne permette lo spostamento sulle spalle di portatori, detti ceraioli, che indossano pantaloni bianchi e una camicia con i colori della propria fazione: gialla per Sant’Ubaldo, azzurra per San Giorgio, nera per Sant’Antonio. La divisa comprende anche una fascia rossa legata in vita e un fazzoletto rosso sulle spalle.

Colazione a base di baccalà La giornata del 15 maggio inizia all’alba, con la sveglia alla città data da un gruppo di tamburini e dal suono del Campanone di piazza Grande. Alle 9,00 prende il via il «corteo dei Santi»: le tre statue che coronano i Ceri sfilano per le vie del centro storico, fino al Palazzo dei Consoli; a seguire, sotto gli arconi dello storico edificio, i ceraioli consumano la tradizionale colazione a base di baccalà. Poco prima di mezzogiorno, i vari pezzi dei Ceri escono dal Palazzo dei Consoli e vengono montati in piazza Grande. Il clou della giornata avviene in serata, dalle

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18,00, quando tra due ali di folla i Ceri vengono portati di corsa per le vie cittadine in un percorso prestabilito di 4 km circa. Dopo alcune brevi soste e un ultimo tratto interamente in salita, il veloce corteo si conclude sul sagrato della basilica di S. Ubaldo, in cima al monte Ingino. L’ordine di partenza e di arrivo è comunque prestabilito e non può essere alterato: nella basilica entra sempre per primo il Cero di Sant’Ubaldo, seguito da quello di San Giorgio e infine da Sant’Antonio.

Cambi al volo Per gli Eugubini l’importante è che il Cero di propria appartenenza non cada, poiché la corsa è resa difficile dal peso delle barelle, dall’altezza che le rende instabili, dalle asperità del percorso e dai cambi al volo effettuati tra i ceraioli. Durante il trasporto, infatti, le squadre dei portatori, formate da otto persone, si alternano, guidate da un capodieci, che è posizionato nella parte anteriore e vigila sul cambio delle varie mute, mentre due capocinque, posti nella parte posteriore, lo aiutano a tenere in linea la corsa della «macchina» e a sterzare nelle curve. La festa ha un prologo nella prima domenica di maggio, quando i Ceri vengono portati in corteo in posizione orizzontale, con molti bambini che si divertono a cavalcarli. Nelle settimane successive al 15 maggio si tengono anche le corse dei Ceri Mezzani e dei Ceri Piccoli, nelle quali i portatori sono scelti rispettivamente tra gli adolescenti e i bambini, e le macchine sostituite da repliche in scala piú leggere. Tiziano Zaccaria maggio

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Sulle orme del Carmagnola APPUNTAMENTI • Casei Gerola accoglie una delle

piú importanti rievocazioni storiche italiane. Per due giorni, la cittadina lombarda torna all’età di Mezzo e rivive imprese eroiche, tradimenti e matrimoni illustri. Tutto nel segno di una «svista» d’autore...

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l 30 e 31 maggio Casei Gerola (Pavia), borgo rurale adagiato nella fertile piana al confine tra Piemonte e Lombardia, rievoca una data importante, legata alla storia del paese e dell’antico ducato di Milano. Secondo la tradizione, nel 1416, Lancellotto Beccaria, signore di Casei dal 1410, non rispettò il giuramento di fedeltà nei confronti di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, nonostante avesse ricevuto in cambio della solenne dichiarazione l’infeudazione delle località di Casei Gerola, Silvano Pietra e Serravalle. Il nobile casellese non solo venne meno alla promessa data, ma tramò anche contro l’ignaro Visconti, ordendo un complotto insieme al duca di Ferrara, ai Malatesta di Rimini e al marchese del Monferrato, Teodoro II. Lancellotto arrivò addirittura a dichiarare guerra a Filippo Visconti, il quale schierò contro le truppe del Beccaria le armate ducali, comandate dal Capitano Generale Francesco Bussone, detto il Carmagnola, dal nome del suo paese natale, situato a sud di Torino. Stanchi dei soprusi e della tirannia esercitata dal Beccaria, anche gli abitanti di Casei si schierarono a fianco dei Visconti e dei soldati capitanati dal Carmagnola,

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fornendo 25 balestrieri e 70 pavesari (fanti cosí denominati dal pavese, il grande scudo di forma piú o meno quadrangolare di cui erano equipaggiati; vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 54-66). La battaglia si concluse con la conquista del castello da parte delle forze armate del Carmagnola. E Lancellotto, fatto prigioniero, venne condotto in catene a Pavia e, giudicato colpevole di tradimento, fu impiccato nella piazza pubblica.

Tutta «colpa» di Alessandro Manzoni In seguito alla vittoria conseguita, Francesco Bussone fu nominato conte di Casei dal duca di Milano. In realtà, sebbene non sia mai stato designato come tale, il capitano di ventura è piú noto come il «conte di Carmagnola»: l’errata denominazione è dovuta alla trascrizione dello scrittore Alessandro Manzoni, che cosí intitolò una sua tragedia, incentrata appunto su Bussone (Il Conte di Carmagnola, 1820). In segno di stima e di riconoscenza, il Carmagnola ricevette anche in moglie Antonia Visconti, nipote del duca milanese e le nozze della celebre coppia si celebrarono a Casei. Nella cittadina lombarda il famoso

condottiero visse anche alcuni anni ed ebbe come residenza il broletto. Di quest’antico edificio è rimasta l’ala orientale, posta di fronte alla trecentesca collegiata di S. Giovanni Battista. Entrambi i monumenti, ritenuti interessanti esempi di gotico lombardo, sono visitabili nei giorni della rievocazione storica. Momento clou della manifestazione è l’allestimento del bivacco e dell’alloggiamento dei soldati, che, predisposto da 45 compagnie di scherma medievale e di rievocazione e costituito da oltre 70 tende montate, piú i velari e i relativi accessori, è considerato tra i piú maggio

MEDIOEVO


Dal Golgota alle Fiandre

Qui accanto il broletto di Casei Gerola (Pavia) che fu per alcuni anni la residenza del capitano di ventura Francesco Bussone, meglio noto, anche se impropriamente, come «conte di Carmagnola».

APPUNTAMENTI • Il panno che

testimoniava il gesto pietoso di Giuseppe d’Arimatea giunse a Bruges nel 1150. E, da allora, il sacro resto è all’origine di una festa popolare grandiosa, che la cittadina belga celebra ogni anno, nel giorno dell’Ascensione grandi e spettacolari accampamenti organizzati negli eventi di rievocazione medievale in Italia. Nel corso della manifestazione gli armigeri si sfidano in tre tornei di scherma, ispirati alle regole dei principali trattati di scherma medievale: duecentesco, trecentesco in armatura pesante e coreografico con parti anche recitate.

La benedizione della spada

Qui sopra un momento della rievocazione storica di Casei Gerola. A destra la processione che ogni anno, nel giorno dell’Ascensione, porta per le vie di Bruges la reliquia del Santo Sepolcro.

MEDIOEVO

maggio

Durante la solenne funzione religiosa, che si tiene domenica nella collegiata, alle 11,00, ai vincitori dei tornei viene consegnato il Palio di San Fortunato. Ciascun guerriero riceve anche la benedizione della spada, secondo un antichissimo rito che risale a san Bernardo. La battaglia finale, con l’assalto al castello che fu per secoli la roccaforte dei Beccaria, si svolge anch’essa domenica, alle 18,00. Giocolieri, falconieri, artisti di strada, cene medievali, disfide tra streghe e un singolare mercato medievale con la riproduzione di botteghe e antichi mestieri animano le vie del centro storico che, circondato da fossati e resti di mura medievali, conserva il millenario impianto urbanistico di tipo romano, con strade parallele ai due assi principali. Chiara Parente

N

el 1150, al termine della seconda crociata, Teodorico d’Alsazia, conte delle Fiandre, portò a Bruges la preziosa reliquia del Sacro Sangue: un panno macchiato di sangue e sigillato in un cristallo, con il quale, secondo la leggenda, Giuseppe d’Arimatea lavò il corpo e le ferite di Cristo. Sarebbe stato Baldovino III d’Angiò, re di Gerusalemme, a consegnare a Teodorico il cimelio, che in precedenza era stato probabilmente conservato nel

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ANTE PRIMA Alcuni dei figuranti che sfilano durante la processione del Sacro Sangue di Bruges.

palazzo imperiale di Costantinopoli. Giunto a Bruges il 7 aprile 1150, assieme alla moglie Sibilla, il conte depositò il Sacro Sangue nella locale cappella di S. Basilio. Conservata durante l’anno nella Cattedrale, la reliquia, nel giorno dell’Ascensione (quest’anno il 15 maggio), viene oggi portata in solenne processione per le strade della cittadina belga. Il lungo corteo è composto da quasi duemila figuranti e da una serie di «quadri» rievocativi divisi in quattro parti: Antico Testamento, Nuovo Testamento, parte storica e Venerazione del Sacro Sangue. Il corteo è animato da cavalieri, corporazioni, magistratura e clero, che sfilano in pompa magna fra la folla.

La corporazione degli scaricatori La celebrazione è menzionata per la prima volta in un documento datato 1291 della corporazione dei pijnders, gli scaricatori di porto, che fa riferimento all’obbligo imposto dal Comune alle corporazioni cittadine di partecipare al corteo religioso. Nel 1310 la municipalità di Bruges decise di unire la processione del Sacro Sangue, che allora si svolgeva attorno alle mura cittadine ogni 3 maggio, all’annuale Fiera di Maggio. Nei secoli XV e XVI il corteo, composto da scene bibliche dette

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«misteri», si arricchí dei Giganti, grandi fantocci in legno e cartapesta raffiguranti personaggi storici delle Fiandre. Il corteo attuale trae ispirazione dal Quattrocento, la cosiddetta «età d’oro» di Bruges: all’epoca, infatti, la città divenne uno dei piú importanti porti del Nord Europa, nonché un fiorente centro commerciale e residenza dei duchi di Borgogna.

Tutti «uomini d’onore» Nello stesso secolo venne fondata la Confraternita del Sacro Sangue, che tutt’oggi si propone di preservare la reliquia e promuoverne la venerazione; i suoi 31 membri sono tenuti a risiedere a Bruges e a essere «uomini d’onore». Durante le cerimonie, i confratelli indossano il tradizionale abito di seta nera ricamata e il loro presidente si riconosce per la preziosa e vistosa collana. Dopo il 1578 Bruges divenne calvinista, per cui la processione fu sospesa, per essere poi ripresa al momento della controriforma, nel secolo successivo. Nel 2009 l’evento è stato riconosciuto dall’UNESCO come Patrimonio culturale immateriale dell’Umanità. T. Z. maggio

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

ALLE ORIGINI DEL «MADE IN ITALY»

L’economia milanese e italiana nel Medioevo

A destra elmo forgiato dall’armaiolo milanese Lucio Piccinino. 1565. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Rüstkammer. Nella pagina accanto Benvenuto Cellini, spilla da cappello con Leda e il cigno. 1528-30. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.


IL NUOVO DOSSIER DI MEDIOEVO Armaioli, tessitori, gioiellieri, fabbricanti di occhiali... Sono solo alcuni dei protagonisti, spesso anonimi ma non per questo secondari, della straordinaria fioritura dell’attività manifatturiera che fece dell’Italia la culla dell’alto artigianato e del primo design industriale

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on parole estasiate, il chimico, mineralogista e metallurgista senese Vannoccio Biringuccio ebbe a esprimere al massimo grado la sua ammirazione per la capitale del ducato sforzesco, che aveva avuto occasione di visitare all’inizio del Cinquecento, rimanendo affascinato da una bottega per la lavorazione dell’ottone. Le sue frasi manifestano nel modo piú compiuto quel clima, di cui doveva essere intrisa la Milano dell’epoca, improntato all’esaltazione di ogni attività in quanto specchio dello splendore dell’ingegno e del potere dell’arte. Da almeno due secoli, infatti, la città era una sorta di «grande fabbrica», in cui si producevano merci di ogni tipo, spesso di lusso e di altissima qualità, che trovavano sbocco fin dal Trecento nei principali mercati europei, e soprattutto in quello raffinato di Avignone, dove nel XIV secolo si era

stabilita la corte papale. La sperimentazione incessante in ogni campo dello scibile umano – che aveva dominato l’attività del suo piú illustre «cittadino adottivo», Leonardo da Vinci – caratterizzava, sul finire del Quattrocento, la maggior parte dei settori, favorita dal fervore che la corte rinascimentale degli Sforza promuoveva, soprattutto all’epoca di Galeazzo Maria e di Ludovico il Moro. Da questa preziosa e ammirata testimonianza prende le mosse un emozionante viaggio nella storia: il nuovo Dossier di Medioevo vi porterà, infatti, alla scoperta delle origini, spesso insospettate, di molte di quelle che oggi chiamiamo le «eccellenze» della nostra produzione manifatturiera. Per scoprire che dietro quella semplice etichetta, Made in Italy, si cela una storia lunga e avvincente...


AGENDA DEL MESE

Mostre NEW YORK GLI INDIANI DELLE PIANURE: ARTISTI DELLA TERRA E DEL CIELO U The Metropolitan Museum of Art fino al 10 maggio

A conclusione di un tour inziato a Parigi nel 2014, giunge al Metropolitan una rassegna che documenta la produzione artistica e artigianale di alcune delle piú importanti culture dei nativi americani, soffermandosi, in particolare, sui gruppi stanziati nelle grandi aree di pianura. I materiali selezionati – tra cui pitture, disegni, sculture in pietra e legno, monili, abiti cerimoniali, copricapi e tessuti ricamati – abbracciano un orizzonte cronologico assai ampio. Si tratta di un mondo in larga parte perduto e l’esposizione possiede perciò un altissimo valore di recupero e testimonianza d’una realtà che l’Occidente «civilizzato» ha a lungo e colpevolmente relegato ai margini della storia. info www.metmuseum.org BONDENO (FE) ACQUE E BONIFICHE A BONDENO DAL NEOLITICO AD OGGI U Centro Sociale 2000 fino al 31 maggio

In una regione dove da circa 3500 anni – come ci insegna la grande vasca lignea

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a cura di Stefano Mammini

terramaricola di Noceto (PR) –, trattenere e rilasciare l’acqua ha rappresentato un fattore fondamentale per l’economia e la vita, oltre che una sfida strategica per la tecnologia, la mostra Aquae ricorda la centralità di questo rapporto. Il percorso inizia con un inquadramento storico-ambientale del paesaggio padano nelle età precedenti la romanizzazione della pianura, prosegue con un approfondimento nell’età romana con la ricostruzione di una porzione di acquedotto e una visione d’insieme della centuriazione, passando poi all’età medievale. Ricca è la documentazione archivistica che attesta l’organizzazione e il controllo delle acque nei territori attualmente localizzati alla destra e alla sinistra del Panaro con pannelli e mappe di grande formato, con testi che riportano ad

esempio il trattato stipulato nel 1487 fra Giovanni II Bentivoglio e Ercole I d’Este per la realizzazione della prima imponente opera di bonifica idraulica, il Cavamento Foscaglia meglio noto come Collettore delle Acque Alte. Vengono poi illustrate le diverse gestioni territoriali delle acque a sinistra del Panaro nel corso del tempo, portando il visitatore a conoscenza del sistema dei «serragli», sistema difensivo utilizzato nelle diverse corti dai Pico o dai Gonzaga che consentivano di arginare l’invasione delle acque. info tel. 051 6871757 VICENZA TUTANKHAMON CARAVAGGIO VAN GOGH. LA SERA E I NOTTURNI DAGLI EGIZI AL NOVECENTO U Basilica Palladiana fino al 2 giugno

Quella allestita nella Basilica Palladiana vuole essere un’esposizione di capolavori, sensazioni, emozioni e simboli, indagando una vicenda antica, quella degli Egizi, ma soprattutto poi una seconda storia, dal Quattrocento al Novecento in pittura, lungo il suo versante struggentemente serale e notturno. Quella in cui alcuni artisti raffigurano una manciata di stelle o un

chiaro di luna, come profonde corrispondenze dell’anima. Ma anche la notte come luogo nel quale si raccolgono alcuni grandi passaggi della storia dell’arte. Oltre 100 opere, spesso rare, divise in sei sezioni e provenienti da trenta musei e collezioni di tutto il mondo, musicano questo affascinante racconto sinfonico. Un poema che inizia lungo il Nilo, dove si sedimenta l’idea della notte del mondo oltre il mondo e continua con opere di Giorgione, Caravaggio, Tiziano, El Greco... Nella terza sezione si confrontano Rembrandt e Piranesi, mentre la quarta si sofferma sul paesaggio, dal momento del tramonto fino a quello in cui nel cielo si levano la luna e le stelle. Chiudono il percorso il pieno Novecento e un riassunto di tutti i temi affrontati, affidato a dipinti di Gauguin, Cézanne, Caravaggio, Luca Giordano e altri grandi maestri. info Linea d’ombra, call center 0422 429999; www.lineadombra.it REGGIO EMILIA PIERO DELLA FRANCESCA. IL DISEGNO TRA ARTE E SCIENZA U Palazzo Magnani fino al 14 giugno

Attorno al Maestro di Sansepolcro aleggia da sempre un velo di mistero e di enigmaticità dovuto sia

ai pochi documenti che lo riguardano, sia alla singolarità del suo linguaggio espressivo che coniuga, magicamente in equilibrio perfetto, la plasticità e la monumentalità di Giotto e Masaccio con una straordinaria capacità di astrazione e sospensione. Un’essenzialità e purezza di forme che trovano fondamento nei suoi interessi matematici e geometrici mirabilmente espressi nei trattati che ci ha lasciato: l’Abaco, il Libellus de quinque corporibus regularibus, il De Prospecitva pingendi e il da poco scoperto Archimede. Ed è proprio su questi preziosi testimoni dell’opera scritto-grafica di Piero, in specie sul De prospectiva pingendi, che la mostra di Palazzo Magnani prende corpo. L’esposizione presenta la figura del grande artista nella sua doppia veste di disegnatore e grande matematico. maggio

MEDIOEVO


Per l’occasione è riunito a Palazzo Magnani – fatto straordinario, per la prima volta da mezzo millennio – l’intero corpus grafico e teorico di Piero della Francesca: i sette esemplari, tra latini e volgari, del De Prospectiva Pingendi (conservati a Bordeaux, Londra, Milano, Parigi, Parma, Reggio Emilia) i due codici dell’Abaco (Firenze), il Libellus de quinque corporibus regularibus (Città del Vaticano) e Archimede (Firenze). info tel. 0522 454437 o 444446; e-mail: info@palazzomagnani.it FIRENZE

spedizioni militari o scientifiche. Un’attenzione particolare è inoltre riservata alle peregrinazioni dei grandi artisti, sulle orme dei ripetuti viaggi compiuti da Albrecht Dürer tra la Germania e l’Italia. info tel. 055 2388606; www.polomuseale.firenze.it MILANO ARTE LOMBARDA DAI VISCONTI AGLI SFORZA. MILANO AL CENTRO DELL’EUROPA U Palazzo Reale fino al 28 giugno

Ispirata in modo programmatico, ma criticamente rivisto, alla

espositiva risanata dopo i bombardamenti del 1943 –, l’attuale rassegna ripensa quel progetto nella chiave piú pertinente e attuale: quella della centralità di Milano e della Lombardia, alle radici della cultura dell’Europa moderna. Prende in esame lo stesso periodo storico, dunque dal primo Trecento al primo Cinquecento: tutta la signoria dei Visconti, poi degli Sforza, fino alla frattura costituita dall’arrivo dei Francesi. I due secoli circa di cui la mostra si occupa sono tra i piú straordinari della storia

TORINO

IL MEDIOEVO IN VIAGGIO U Museo Nazionale del Bargello fino al 21 giugno

La mostra evoca categorie diverse di viaggiatori – mercanti, pellegrini, principi, artisti – e indaga sulle motivazioni che li spinsero a lasciare le proprie dimore e la propria terra per lanciarsi in avventure che, in realtà, avevano inizio proprio nel cuore delle rispettive abitazioni. Il viaggio è dunque inteso nella sua accezione piú ampia: da quello simbolico, che poteva durare poche ore o consistere nel semplice attraversamento di una strada (come nel caso della sposa che, all’indomani delle nozze, s’insediava sotto il nuovo tetto coniugale), alle grandi

MEDIOEVO

maggio

momento di compiuta realizzazione di una civiltà di corte dal respiro europeo. Il percorso espositivo si articola in sezioni e sottosezioni; l’ordine cronologico illustra la progressione degli eventi e la densità della produzione artistica: pittura, scultura, oreficeria, miniatura, vetrate, con una vitalità figurativa che soddisfa le esigenze della civiltà cortese e conquista rinomanza internazionale al punto da divenire sigla d’eccellenza riconosciuta: l’«ouvraige de Lombardie». info tel. 02 0202 RAFFAELLO: LA MADONNA DEL DIVINO AMORE U Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli fino al 28 giugno

straordinaria esposizione Arte lombarda dai Visconti agli Sforza – allestita nel 1958 nella medesima sede

milanese e lombarda, celebrati dalla storiografia e fissati nella memoria comune come una sorta di età dell’oro, il primo

Negli ultimi anni a Raffaello sono state dedicate mostre importanti, che hanno messo a fuoco i diversi momenti del suo percorso. Il Museo di Capodimonte vi ha partecipato con i suoi dipinti, realizzando importanti interventi di restauro e campagne di indagini che hanno contribuito significativamente alla comprensione del complesso e affascinante iter creativo del maestro, e in particolare della celeberrima Madonna del Divino Amore, ora giunta a Torino per la prima volta. La mostra

alla Pinacoteca Agnelli diventa l’occasione per presentare in maniera esauriente e significativa i risultati di questi studi e attraverso l’utilizzo di supporti digitali, che rendano fruibili le indagini riflettografiche e consentano di leggere – anche al grande pubblico – la struttura interna del dipinto e le numerose varianti e i pentimenti dell’artista durante la stesura dell’opera, in serrato dialogo con i disegni e gli schizzi preparatori del maestro urbinate conservati nelle piú prestigiose collezioni grafiche europee, due provenienti dall’Albertina di Vienna e uno dal museo delle Belle Arti di Lille. info tel. 011 0062713; www.pinacoteca-agnelli.it CONEGLIANO (TREVISO) CARPACCIO. VITTORE E BENEDETTO DA VENEZIA ALL’ISTRIA. L’AUTUNNO MAGICO DI UN MAESTRO E LA SUA EREDITÀ U Palazzo Sarcinelli fino al 28 giugno

La mostra indaga e illustra gli ultimi dieci anni dell’attività di Vittore Carpaccio (dal 1515 al 1525 circa), considerato il piú grande narratore, «teatralizzatore» e vedutista ante litteram nella pittura veneziana, anni che sono segnati da un’importante svolta nella sua poetica. Per l’occasione, sono state riunite opere di grandissima qualità e

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AGENDA DEL MESE originalità, dipinti celebri da ritrovare come il San Giorgio che lotta con il drago di S. Giorgio Maggiore, la Pala di Pirano, il Polittico da Pozzale del Cadore, o la particolarissima Entrata del podestà Contarini a Capodistria che, nella prospettiva adottata, consente allo spettatore un insolito e realistico sguardo sulla città; opere da riscoprire come le clamorose portelle d’organo dal Duomo di Capodistria o il bellissimo Trittico di S. Fosca ricomposto per la prima volta dopo cinquant’anni, in collaborazione con Permasteelisa Group, da Zagabria, Venezia e Bergamo in occasione della mostra; e ancora dipinti da scoprire, di fatto mai visti, come la novità assoluta del Padre eterno tra i cherubini da Sirtori (Lecco). info tel. 199 151 114; www.mostracarpaccio.it ZURIGO 1515 MARIGNANO U Museo Nazionale Svizzero fino al 28 giugno

A 500 anni dalla fine delle «guerre d’Italia», il Museo Nazionale Zurigo rievoca un periodo straordinario della storia elvetica, quando in Europa la Confederazione era una potenza militare. «1515 Marignano» spiega le cause e le conseguenze della «battaglia dei giganti»,

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che vide schierati 30 000 uomini in entrambi gli eserciti e fece dalle 10 000 alle 12 000 vittime. Che cosa cercavano gli Svizzeri in Lombardia? Come mai si trovarono a battersi ad armi pari per il controllo del ducato di Milano, in piena espansione economica? La mostra cerca anche di illustrare come la Svizzera accusò la sconfitta, spiega il vantaggioso trattato di pace con la Francia e sottolinea il ruolo di Marignano nella storia della Confederazione. info www.nationalmuseum.ch

CITTÀ DEL VATICANO SCULTURE PREZIOSE. OREFICERIA SACRA NEL LAZIO DAL XIII AL XVIII SECOLO U Braccio di Carlo Magno fino al 30 giugno

Antiche preziose sculture in argento, bronzo e rame dorati con gemme incastonate, opere sconosciute custodite nelle sacrestie o conservate nelle

raccolte diocesane oltre che nelle Abbazie di Casamari e di Montecassino, in alcuni istituti religiosi e comuni del Lazio, sono visibili per rendere note le plurisecolari testimonianze di fede costituite dagli straordinari capolavori di grandi artefici dovuti alla munificenza di committenti religiosi e laici. Sono statue, reliquiari antropomorfi (busti, teste, bracci) e a croce, ostensori, croci processionali, vasi sacri e suppellettili la cui decorazione privilegia il rilievo e la microscultura figurativa, fornendo un’esemplificazione significativa di quanto realizzato – dal Tardo Medioevo al Tardo Barocco –, sia nell’ambito delle «arti preziose» locali, sia in quello del patrimonio costituito da opere giunte da culture artistiche diverse. info tel. 06 69884095 URBINO LO STUDIOLO DEL DUCA. IL RITORNO DEGLI UOMINI ILLUSTRI ALLA CORTE DI URBINO U Galleria Nazionale delle Marche fino al 4 luglio

Lo Studiolo d’Urbino rispondeva all’antica idea di ricreare un ambiente adeguato a favorire studio e riflessione, radunando immagini di sapienti e oggetti rari. Un trionfo illusionistico coronato

dai ritratti di 28 Uomini Illustri, tra cui Platone, Aristotele, san Gregorio, san Girolamo, Tolomeo, Boezio... Con la fine dei Della Rovere e la devoluzione del ducato di Urbino alla Stato pontificio, ci fu lo smembramento dei dipinti: un’operazione che portò alla parcellizzazione delle immagini e cosí ciò che era stato concepito

come unicum fu trasformato in una serie di ritratti individuali. Oggi solo la metà di quei ritratti è conservata nel Palazzo divenuto sede della Galleria Nazionale delle Marche, mentre le restanti 14 tavole, giunte al Museo del Louvre nel 1863, non sono mai tornate prima d’ora in Italia. Lo fanno in questa occasione, ricollocate nella loro posizione originale. info www. mostrastudiolourbino.it MILANO LEONARDO DA VINCI, 1452-1519

U Palazzo Reale fino al 19 luglio 2015

L’esposizione presenta una visione di Leonardo non mitografica, né retorica, né celebrativa, ma trasversale su tutta l’opera del poliedrico personaggio, considerato come artista e scienziato attraverso alcuni temi centrali individuati dai curatori: il disegno, fondamentale nell’opera del genio vinciano; il continuo paragone tra le arti (disegno, pittura, scultura); il confronto con l’antico; la novità assoluta dei moti dell’animo; il suo tendere verso progetti utopistici, veri e propri sogni, come poter volare o camminare sull’acqua (per cui è allestita un’apposita sezione); l’automazione meccanica e cosí via, temi che lo hanno reso un alfiere dell’unità del sapere, con l’intrecciarsi continuo nella sua opera di scienze e arti. info tel. 02 92800375; www.skiragrandimostre.it/ leonardo/ PARIGI I TUDOR U Musée du Luxembourg fino al 19 luglio

Fra le dinastie succedutesi sul trono inglese, quella dei Tudor, al potere tra il 1485 e il 1603, è una delle piú note. Ne fecero parte personaggi che hanno vissuto vicende quasi leggendarie – basti pensare a Enrico VIII –, maggio

MEDIOEVO


ma che non devono però oscurare i molti meriti acquisiti nell’attività politica e culturale. È questo il filo conduttore della mostra al Musée du Luxembourg, che vuole dunque presentare il vero volto dei Tudor, ai quali si devono, per esempio, importanti commissioni in campo artistico – molte delle quali affidate a maestri chiamati dall’Italia – o significative scelte di campo in materia religiosa, prima fra tutte la decisione di rompere con la Chiesa cattolica romana, determinando il cosiddetto «scisma anglicano». info www. museeduluxembourg.fr PADOVA DONATELLO E LA SUA LEZIONE. SCULTURE E OREFICERIE A PADOVA TRA QUATTRO E CINQUECENTO U Musei Civici agli Eremitani e Palazzo Zuckermann fino al 26 luglio

La presenza di

MEDIOEVO

maggio

Donatello a Padova innova profondamente il linguaggio della scultura in Italia e fa della città uno dei centri d’irradiazione del Rinascimento. La lezione del Maestro rivive ora in uno straordinario percorso, che dai capolavori di Donatello - uno dei rilievi della base del monumento al Gattamelata, una inedita crocifissione bronzea e i fondamentali calchi ottocenteschi con i rilievi dell’altare del Santo – conduce alla scoperta di preziose sculture in bronzo e terracotta degli artisti che continuarono e svilupparono la sua rivoluzione nell’ambito della Serenissima. Testimonianze dell’altissima qualità raggiunta da Bartolomeo Bellano, Andrea Briosco detto il Riccio e Severo da Ravenna sono riunite per la prima volta agli Eremitani, mentre

l’influenza del nuovo linguaggio rinascimentale nelle oreficerie sacre risplende nel vicino Palazzo Zuckermann, dove prosegue la mostra, con i preziosi manufatti del Tesoro del Santo. info Musei Civici agli Eremitani, tel. 049 8204551; Palazzo Zuckermann, tel. 049 8205664; http://padovacultura. padovanet.it/it/musei/ PADOVA DONATELLO SVELATO. CAPOLAVORI A CONFRONTO U Museo Diocesano fino al 26 luglio

La scelta del termine «svelato» utilizzato nel titolo non è casuale: protagonista dell’esposizione, infatti, è un Donatello che va ad aggiungersi al catalogo delle opere certe del maestro fiorentino, il Crocifisso dell’antica chiesa padovana di S. Maria dei Servi. Ad affiancarlo, nel Salone dei Vescovi, sono quello realizzato per la chiesa di S. Croce in Firenze (1406-08) e quello bronzeo della

basilica padovana di S. Antonio (1443-1449). L’opera, oltre che nell’attribuzione, è stata svelata anche nella sostanza, perché, sino al restauro appena ultimato, la scultura lignea si presentava con le parvenze di un bronzo, per effetto di uno spesso strato di ridipinture. Ora, invece, ne sono state recuperate la straordinaria finezza dell’intaglio e la cromia originale. info tel. 049 8761924 o 049 652855; www. museodiocesanopadova.it; https://www.facebook. com/donatellosvelato PARIGI SCULTURE SVEVE DELLA FINE DEL MEDIOEVO U Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 27 luglio

Tra il XV e il XVI secolo, la Svevia, regione storica che si estende nella Germania sud-occidentale, fra la Foresta Nera e la Baviera, fu la fucina di una produzione scultorea copiosa e raffinata, le cui opere si diffusero ben oltre i confini della loro regione d’origine. La rassegna parigina ne riunisce una trentina e pone sotto i riflettori le creazioni di maestri come Niklaus Weckmann, Daniel Mauch, Ivo Strigel, Lux Maurus o Jörg Lederer.

Distribuite in un percorso cronologico e geografico, si tratta di sculture perlopiú a soggetto religioso, destinate all’arredo delle chiese, che si distinguono per la grazia dei tipi femminili e la sapiente resa dei drappeggi. Merita inoltre d’essere segnalato il fatto che la mostra riunisce alcuni gruppi da tempo smembrati e dispersi in varie collezioni museali: è il caso del Cristo in preghiera del Louvre, che «ritrova» due dei tre Apostoli dormienti (oggi al Maximilianmuseum di Augsburg), insieme ai quali animava una monumentale composizione del Monte degli Ulivi, probabilmente realizzata per l’abbazia di Wettenhausen di Kammeltal. info www.musee-moyenage.fr

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AGENDA DEL MESE

Appuntamenti MONTALBANO ELICONA (MESSINA) ARNALDO DA VILLANOVA E LA SICILIA, CONVEGNO INTERNAZIONALE 7, 8 e 9 maggio

L’appuntamento costituisce il primo convegno che in Italia sia mai stato interamente dedicato alla poliedrica personalità di Arnaldo da Villanova (1240 circa-1311), medico di papi e di sovrani, filosofo e riformatore religioso, diplomatico, autore di numerose opere mediche e teologiche. Pur non essendo siciliano, Arnaldo si lega per vari motivi alla Sicilia, una regione che, oltre a fornirgli ospitalità, ha accolto le sue idee di riforma religiosa, sociale e politica alla corte del re Federico III d’Aragona, per conto del quale svolse numerosi incarichi e

missioni diplomatiche e che, in accordo con la tradizione locale, avrebbe anche accolto le sue spoglie mortali a Montalbano Elicona. Le comunicazioni in programma hanno quindi come sfondo tematico l’isola, con particolare riferimento alla biografia degli ultimi anni di vita del Villanova (argomento finora poco indagato), alle opere da lui dedicate a Federico III, all’influenza del suo pensiero di riformatore religioso sulla legislazione di questo sovrano e, in ultimo, alle problematiche relative alla sua morte. info e-mail cultura@ comune.montalbanoelicona. me.it; cell. 331 7063239 ROMANS D’ISONZO (GORIZIA) ROMANS LANGOBARDORUM U Area dei laghetti Fipsas 15-17 maggio

visite guidate, valorizzazione del parco didattico presso la necropoli, cucina longobarda, musica dal vivo, nonché un mercato. info www.invictilupi.org; e-mail: invictilupi@gmail. com; cell. 333 6157615 ITALIA V GIORNATA NAZIONALE ADSI U Sedi varie 23 e 24 maggio

La rievocazione storica, giunta alla sua terza edizione, ha per tema le leggende del popolo longobardo. La manifestazione ha come cuore un grande campo storico, e, nel corso dei tre giorni, si susseguiranno conferenze, spettacoli, esibizioni di combattimento, dimostrazioni di falconeria, attività e laboratori didattici,

L’iniziativa promossa dall’Associazione delle Dimore Storiche Italiane prevede quest’anno l’apertura di oltre 200 dimore. Si svolge in concomitanza con EXPO 2015 e sarà occasione anche per la riscoperta della tradizione enogastronomica italiana, di cui i proprietari di dimore storiche sono attenti custodi. Infatti, oltre a visitare gratuitamente cortili, palazzi, ville e giardini, usualmente

non aperti al pubblico, i visitatori saranno guidati dai proprietari alla scoperta di affascinanti residenze di campagna, sede di aziende agricole, e di cantine italiane di prestigio. info www.adsi.it; Twitter: @dimorestoriche CANOSSA (REGGIO EMILIA) «CANOSSA: SEGNO, SIMBOLO, STORIA», CONVEGNO NAZIONALE U Teatro Comunale 6 e 7 giugno

Organizzato nel IX centenario della morte della contessa Matilde, l’incontro approfondisce temi scelti per il loro interesse scientifico, tra cui quello del castello di Canossa nel paesaggio e la relazione tra il sistema difensivo e il territorio; la storia del luogo e dei suoi edifici (la fortificazione, il «palazzo», la chiesa) e la funzione memoriale a essi legata; Canossa come centro di un potere dinastico e

APPUNTAMENTI • La Tonna U Civita di Bagnoregio (Viterbo)

7 giugno info e-mail: info@latonnadicivita.it

A

rroccato su una rupe di tufo, il borgo laziale di Civita di Bagnoregio si anima due volte l’anno per le sue festività religiose: la prima domenica di giugno, dedicata alla Madonna Liberatrice, e la seconda domenica di settembre, dedicata al Santissimo Crocifisso. In entrambe le occasioni viene proposta la Tonna, un palio corso a dorso d’asino, animale che in passato era l’unico mezzo di trasporto per raggiungere il paese fra

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i ripidi sentieri che si inerpicavano fino alla cima della rocca. I fantini effettuano tre giri in tondo di piazza San Donato, da cui piazza rotonda o «tonna» appunto. Dopo le eliminatorie, si disputa la finale per aggiudicarsi il palio, uno stendardo dipinto ogni anno da un artista locale. I festeggiamenti possono essere l’occasione per visitare un borgo affascinante, ricco di storia e splendide vedute naturali. maggio

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manifestazione, evento unico in Lombardia, è caratterizzata dalla presenza di un campo longobardo di notevole spessore filologico culturale. Questa tre giorni longobarda celebra l’incontro e gli sponsali tra la regina Teodolinda e il suo

secondo marito Agilulfo, duca di Torino, fatti avvenuti a Lomello nell’anno 590 d.C. Sono in programma conferenze, visite guidate, nonché giochi, tornei, una mostra di riproduzioni di oggetti e monili longobardi e il banchetto reale.

manifestazione della grandezza di una stirpe. Il Convegno sarà inoltre l’occasione per fare conoscere i lavori di scavo che il Club Alpino Italiano ha promosso nell’antico borgo canossano, che hanno permesso di definire situazioni e manufatti inediti. info deputazione reggioemilia@gmail.com

LOMELLO (PAVIA) LAUMELLUM: LA GRANDE FESTA LONGOBARDA PER LE NOZZE DI TEODOLINDA dal 19 al 21 giugno

L’edizione 2015 della

Civita è una frazione del Comune di Bagnoregio, situata in posizione isolata, ed è oggi raggiungibile soltanto attraverso un ponte pedonale in cemento armato. La progressiva erosione della collina e della vallata circostante, che ha dato vita ai tipici calanchi, da tempo minaccia la frazione, che per questo è conosciuta anche come «la città che muore». Tiziano Zaccaria

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info Pro Loco Lomello, tel. 327 1085241; e-mail: prolocolomello@ yahoo.it; Blog: http:// prolocolomello.blogspot. it/; Facebook: https:// it-it.facebook.com/ festalongobarda

rievocazioni storiche incentrate sulla figura di Arechi II, ultimo duca e primo principe di Benevento, a cui sono legati alcuni avvenimenti fondamentali per la storia di Benevento. Quest’anno è stata annunciata la partecipazione di sette gruppi storici e nel programma sono anche compresi incontri di approfondimento sulla storia dei Longobardi e sulla vita nel Medioevo. Tra questi, segnaliamo quello con Elena Percivaldi, previsto per giovedí 26, alle 18,00, nella Sala Consiliare della Rocca dei Rettori. info www. beneventolongobarda.it; e-mail: info@ beneventolongobarda.it

BENEVENTO

SIENA

BENEVENTO LONGOBARDA. LA CONTESA DI SANT’ELIANO U Sedi varie 25-28 giugno

LA PORTA DEL CIELO U Duomo fino al 31 ottobre

La manifestazione consiste in un ciclo di

L’Opera della Metropolitana torna a promuovere l’apertura straordinaria della «Porta del Cielo»,

integrando alle classiche regole di prenotazione e visita guidata, nuove modalità di accesso. La visita ai Sottotetti del Duomo, della durata di 30 minuti, e alla Cattedrale con la Libreria Piccolomini può essere effettuata ogni mezz’ora in base agli orari di apertura al pubblico della Cattedrale. Ogni visitatore riceverà in omaggio la Roof Map, uno strumento utile per l’effettuazione della visita, che si trasforma poi in un gadget da conservare come ricordo, disponibile in piú lingue. info call center

0577 286300 (lu-ve, 9,00-17,00)

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iconografia la vergine maria

r e p i n i g a m m I Quali sono le vere fonti che, nei secoli e millenni, hanno contribuito a «creare» una delle piú complesse figure della religione cristiana? E come poteva conciliarsi la normale e umanissima venuta al mondo di Gesú con la verginità di colei che l’aveva generato? Particolare della faccia anteriore dello schienale della cattedra vescovile in avorio di Massimiano, decorata con scene della Natività. VI sec. Ravenna, Museo Arcivescovile. Nel pannello che qui compare sulla sinistra, è raffigurata l’incredulità dell’ostetrica: poiché si rifiutò di credere alla verginità della Madonna, la donna fu punita con la paralisi delle mani e poté guarire solo dopo aver toccato il Cristo neonato.

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un miste

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di Erberto Petoia

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immagine di Maria, cosí come la vediamo oggi nelle diverse rappresentazioni artistiche, e le sue variegate forme cultuali sono il risultato di un secolare processo di stratificazione di dogmi e speculazioni teologiche. Sebbene la madre di Cristo sia una delle figure piú complesse, problematiche e discusse della religione cristiana, con una profonda incidenza storica e dottrinale, i Vangeli canonici si interessano a lei solo in prospettiva della missione salvifica del figlio. In un certo senso, la storia di Maria si sviluppa con il trascorrere dei secoli, alimentata dai documenti delle prime comunità cristiane, dagli scritti apocrifi, dall’esegesi patristica, dai testi sacri delle grandi religioni storiche come l’Islam, dai Concili, e, in età moderna e contemporanea, dai riti liturgici e dalle forme di pietà popolare. Al centro di speculazioni teologiche e dottrinali, di dispute anche aspre e violente, Maria, nella storia della Chiesa, si trova stretta tra il dogma e la pietà di matrice cattolica e le restrizioni protestanti, che ne limitano il ruolo e l’esistenza stessa a un semplice aspetto simbolico del grande disegno messianico. Agli albori del cristianesimo, il dibattito era stato alimentato soprattutto dalla stringatezza delle fonti canoniche.

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iconografia la vergine maria

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A sinistra Padova, Cappella degli Scrovegni. Particolare del ciclo con scene della Vita e Passione di Cristo raffigurante la Natività. Gli affreschi furono eseguiti da Giotto, tra il 1303 e il 1305. Maria compare qui nella posizione distesa, tipica delle puerpere.

Maria, infatti, compare solo due volte nel Vangelo di Giovanni, accanto a Gesú, alle nozze di Cana (Giovanni, 2, 1-5), e ai piedi della croce e dinnanzi al sepolcro (Giovanni 19, 25-26). Maggiore spazio trova in Matteo e Luca, nei cosiddetti Vangeli dell’infanzia, che, insieme alle elaborazioni degli apocrifi, hanno costituito il nucleo centrale e la fonte di ispirazione delle raffigurazioni e rappresentazioni della Natività e di altri episodi della vita della Vergine. In entrambi i Vangeli, Maria viene presentata già come promessa sposa di Giuseppe, come la Vergine di

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Nazareth che, rimasta incinta per opera dello Spirito, partorirà per volere di Dio il suo figlio Gesú.

Dalla viva voce di Maria

Luca è l’evangelista che le dedica maggiore attenzione, collocando Maria al centro del dramma e diventando cosí la fonte scritturale di tutti i grandi misteri sulla Vergine. Nel suo Vangelo, infatti, troviamo le storie dell’Annunciazione, della Visitazione, della Natività, della Purificazione e di Gesú nel Tempio. Un’antica tradizione voleva che Luca avesse appreso la storia della Nascita di Cristo direttamente dalla

Roma, basilica di S. Maria Maggiore. Particolare del mosaico dell’arco trionfale. V sec. Maria sta filando, secondo uno schema che, oltre a sottolinearne la regalità, voleva forse nobilitare tale attività, presentata come bassa e servile dal polemista anticristiano Celso.

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iconografia la vergine maria bocca di Maria, di cui aveva riportato fedelmente le parole, e che ne avesse anche ritratto l’immagine. La scarna narrazione evangelica non può tuttavia essere la fonte ispiratrice di quell’abbondanza di dettagli sulla nascita, l’aspetto, l’età, la morte e i diversi episodi della vita della Vergine che ricorrono copiosi nelle pitture, nelle sculture, nei canti, negli inni e nelle rappresentazioni drammatiche. Ai nuclei essenziali della narrazione evangelica si aggiungono elementi tra loro molto diversi, talvolta frutto di pura fantasia, delle tradizioni orali e degli scritti extra-canonici, tra cui un ruolo determinante hanno avuto i Vangeli apocrifi (narrazioni che vanno ricondotte a precise esigenze dottrinarie di scuole eretiche o di movimenti interni della storia di formazione del dogma).

Una famiglia «inventata»

I testi apocrifi ricostruiscono l’intera vicenda di Maria, con particolare attenzione per temi controversi e dibattuti, quali il suo concepimento, la nascita, l’infanzia, l’adolescenza, il fidanzamento, la nascita e l’infanzia di Gesú, la sua presenza alla morte di Giuseppe, alla Passione e alla Resurrezione del Figlio, e la fine della sua vita. Uno dei primi problemi che gli apocrifi aiutano a risolvere investe la genealogia davidica di Maria, considerata il presupposto storico della sua illibatezza, per sottrarre alle mani eretiche una prova contro l’incarnazione verginale e a favore della paternità carnale di Giuseppe. Gli apocrifi inventano cosí un ceppo familiare, formato da personaggi extrascritturali, i piú noti dei quali sono Gioacchino e Anna, che entrarono a far parte della liturgia e della tradizione della Chiesa orientale e di quella cattolica. In realtà, si vuole cosí insinuare la tesi di una seconda concezione verginale, quella di Anna, la quale avrebbe partorito anch’essa dallo Spirito Santo, dopo

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un’annunciazione speculare a quella della Vergine. La storia di Anna e Gioacchino, la nascita di Maria, la sua presentazione al tempio all’età di tre anni e altri episodi della sua infanzia, in particolar modo nella versione del Protovangelo di Giacomo, un testo apocrifo del II secolo, ebbero da questo momento un’ampia diffusione e furono rappresentati in dipinti, vetrate o nelle navate delle chiese, in diverse scene del ciclo della Natività di Maria, al punto da imporsi come personaggi ed episodi della narrazione canonica. Il Protovangelo non colma soltanto una lacuna biografica, ma ha lo scopo di dimostrare che Maria, persino nella prima infanzia, si tenne lontana da ogni possibile contaminazione e tentazione terrena e mette in rilievo l’eccezionalità della sua figura, immediatamente riconosciuta dal sacerdote del tempio come uno strumento di redenzione per gli Ebrei. Il Protovangelo introduce anche l’episodio dell’affidamento a Maria di una parte del lavoro di fabbricazione del velo del tempio. E il particolare della Vergine intenta a filare quando riceve la visita e l’annuncio dell’angelo Gabriele entra nell’iconografia già dal V secolo, trasformandosi in un tema costante in quasi tutte le Annunciazioni, sia nei mosaici – come per esempio a S. Maria Maggiore a Roma –, sia nei rilievi e nei dipinti. Apparentemente banale, il tema della filatura, oltre a sottolineare la regalità di Maria, sembra abbia anche lo scopo, almeno nella sua redazione protoevangelica, di nobilitare la tessitura, presentata come attività bassa e servile dalla calunniosa insinuazione del polemista anticristiano Celso. Nel Discorso Veritiero (178-180 circa), Celso fa infatti raccontare da un Giudeo che Gesú sarebbe stato il figlio illegittimo, frutto di un adulterio, di una povera filatrice di un villaggio ebraico. Il padre sarebbe stato un soldato romano, di

nome Pantera, e Maria, dopo essere stata ripudiata dal marito artigiano, avrebbe partorito di nascosto il figlio, il quale sarebbe fuggito in Egitto spinto dalla povertà, apprendendo in quella terra le arti magiche, grazie alle quali si sarebbe rappresentato come un dio. Nel tentativo di confutare le accuse di illegittimità nei confronti di Gesú (che circolavano già nel I secolo) avanzate dagli Ebrei, gli scritti piú o meno coevi, come il Protovangelo, tornano piú volte sulla condizione agiata di Maria e sulla sua purezza, insistendo costantemente sulla specificazione etnica e religiosa di coloro che vengono chiamati a verificare la sua verginità dopo il parto, come, per esempio, nell’episodio della levatrice ebrea punita per la sua incredulità.

Il nodo cruciale

Nel Medioevo, la figura di Maria venne investita proprio dallo spinoso problema della sua verginità, su cui, con l’esegesi dei testi canonici, il dibattito non tardò ad accendersi. In particolare, ci si chiedeva se tale verginità, affermata in maniera categorica nei passi neotestamentari, fosse da riferirsi solo al momento del concepimento di Cristo o se dovesse intendersi come verginità perpetua: ante partum, in partu e post partum. Gli stessi testi canonici sembrano offrire argomenti contro la tesi della verginità di Maria, evidenziando la presenza di Giuseppe, indispensabile a garantire al bambino Gesú Nella pagina accanto, in alto Gentile da Fabriano, Annunciazione. 1420-1425. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. Nella composizione compare il raggio di luce che s’avvicina al grembo di Maria. Nella pagina accanto, in basso Würzburg (Baviera), Marienkapelle. Il rilievo sul portale nord della chiesa che raffigura l’annunciazione e nel quale è rappresentata la conceptio per aurem (il concepimento per via auricolare). XV sec. maggio

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Il mistero del concepimento

Lo Spirito Santo e le sue vie Nei primi secoli della Chiesa cristiana si afferma l’idea di un’impregnazione attraverso un canale diverso da quello normale, quale tentativo di superare le difficoltà a far accettare il dogma della verginità di Maria. Prende cosí forma la soluzione della conceptio per aurem, ovvero dell’inseminazione attraverso l’orecchio al momento dell’annunciazione, che ritroviamo come prima testimonianza nel Vangelo armeno dell’infanzia, un testo di difficile datazione e approssimativamente collocato tra il IV e XII secolo, ma probabilmente redatto sulla scorta di una versione molto piú antica. Accanto alla conceptio per aurem, esiste anche una conceptio per os, il concepimento per bocca, tipica della tradizione islamica. Nel Corano, Maryam, la vergine Maria, ricorre piú volte e vi è menzione esplicita del concepimento verginale per insufflazione dello Spirito Santo. Nell’Annunciazione, (segue a p. 36)

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A sinistra miniatura raffigurante l’Annunciazione, dal Libro d’Ore all’uso di Parigi detto Libro d’Ore di Rohan, perché realizzato nell’atelier dell’omonimo Maestro. 1418 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella scena, Gabriele è inginocchiato dinanzi a Maria mentre il bambino Gesú si dirige in volo verso di lei lungo un raggio di luce. Nella pagina accanto Simone Martini, Annunciazione, anta del polittico Orsini (oggi smembrato). 1333-1337. Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten.

Gabriele le soffia il proprio respiro nelle pieghe del suo manto, e lei, indossandolo, rimane incinta; mentre secondo altre tradizioni, lo spirito entrò in Maryam attraverso la bocca. Il tema della concezione auricolare di Maria sopravvisse, in forme diverse, fin quasi alla fine del Medioevo, nelle piú dotte disquisizioni patristiche, nei canti, nella letteratura, e trovò ampio sviluppo nelle raffigurazioni pittoriche e nei rilievi, in cui il tema è trattato in maniera ora velata, ora esplicita. L’opera che meglio rappresenta il tema della conceptio per aurem è un rilievo del XV secolo raffigurante l’annunciazione, sul portale nord della Marienkapelle di Würzburg, in Baviera. In alto abbiamo, seduta sul trono celeste, la figura di Dio padre dalla cui bocca parte un tubo che la congiunge all’orecchio di Maria;

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lungo il tubo, che presso l’orecchio di Maria assume la forma di una colomba, scivola gattoni il piccolo bambino Gesú. Nel Libro delle Ore del Maestro di Rohan, del XV secolo, Gabriele è inginocchiato dinnanzi a Maria, mentre il bambino Gesú si dirige in volo verso di lei lungo un raggio di luce. Nell’Annunciazione degli affreschi della fine del XIV secolo della basilica di S. Caterina, a Galatina, in provincia di Lecce, la Vergine compare in un interno, appena interrotta la lettura, mentre in cielo l’Eterno è accompagnato dalla corte angelica e il Verbo, una testolina sorridente, viene portato in volo da una corona di serafini ed è pronto a discendere nel ventre di Maria. L’insufflazione dello Spirito Santo tramite l’annuncio di Gabriele alla Vergine assume spesso la forma di una salutatio angelica riprodotta maggio

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come una sorta di cartiglio che entra nell’orecchio di Maria, il cui esempio piú celebre è forse l’Annunciazione (1333) di Simone Martini conservata negli Uffizi a Firenze. Nei pittori del XV secolo il raggio di luce divina che emana dal Padre, come nell’Annunciazione di Melchior Broderlam (1393-1399), o che discende piú genericamente dal cielo, si avvicina all’orecchio di Maria o, in alternativa, al suo grembo, come nell’Annunciazione (1421-1425) di Gentile da Fabriano.

l’inserimento nella famiglia e nella discendenza davidica, o, anche, con il riferimento ai fratelli di Gesú e alla purificazione della puerpera secondo la legge mosaica a cui Maria si era assoggettata dopo il parto. Le contese teologiche, dottrinali e dogmatiche causarono non poche fratture nella Chiesa dei primi secoli – fin dal concilio di Nicea (325) – e non coinvolsero soltanto il tema della purezza e, quindi, l’eccezionalità della madre di Gesú, ma la natura stessa di Cristo. A lungo si trascinò, tra le altre, la polemica sui «misteri strepitosi», come Ignazio di Antiochia (35-107) aveva definito non solo la verginità di Maria, ma anche il suo parto. Ne è prova il Protovangelo di Giacomo, con il famoso episodio della inspectio vaginae da parte dell’ostetrica incredula – raffigurato, per esempio, in uno dei rilievi della cattedra di Massimiano a Ravenna –, che cosí si rivolge a Maria che ha appena partorito: «Maria, disponiti a modo poiché nei tuoi riguardi si apre un dibattito di non lieve conto».

Santa genitrice

Per evitare che potesse diventare lo strumento della negazione della divinità di Cristo, Maria fu proclamata Theotokos (in latino Deipara o Dei genitrix), «colei che ha generato Dio» dal Concilio di Efeso (431). In quella sede Cirillo di Alessandria (370444) proclamò il nuovo dogma: «Se qualcuno non confessa che l’Emmanuele è Dio nel vero senso della parola, e perciò la Santa Vergine è Madre di Dio perché ha generato secondo la carne il Verbo che è da Dio, sia anatema». Il problema della verginità di Maria ha profondamente influenzato anche la sua raffigurazione che, nella storia dell’iconografia, subisce il maggior numero di cambiamenti per quanto riguarda la postura e l’atteggiamento. Inizialmente distesa, nella tipica condizione della puerpera – come nella Natività di Andrej Rublëv (XIV secolo) o in quella affrescata da Giotto nella

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iconografia la vergine maria A sinistra pannello in avorio raffigurante la Dormizione della Vergine, ovvero il suo passaggio (transitus) dalla vita terrena a quella celeste. Fine del X-inizi dell’XI sec. Parigi, Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge. Nella pagina accanto miniatura con la scena della Deposizione, dal Libro d’Ore di Rohan. 1418 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Cappella degli Scrovegni a Padova (1303-1305) –, passa a una posizione sollevata, poi seduta, per assumere, infine, la postura a noi piú nota, che è quella inginocchiata e adorante di tante pitture. Se la figura di Maria è preponderante nel ciclo della Natività fin dai primi secoli, la sua comparsa come figura centrale nella Passione di Cristo fu il risultato di un processo lento, ma graduale, scaturito da una profonda svolta religiosa e spirituale. Nella Passione descritta dai Vangeli, solo lo scritto di Giovanni (19, 25-26) accenna alla sua presenza ai piedi della Croce, mentre negli altri sinottici Maria è del tutto assente. Il rapporto madre-figlio ispirò, però, una serie di storie, un’infinità di dipinti e di sculture, attraverso le quali la Crocifissione, la Deposizione e la Sepoltura acquistano realtà e

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trasmettono il senso doloroso della perdita e dell’agonia, e che si concretizza nella figura di Maria come Mater Dolorosa, culto che comincia a diffondersi in Italia, Francia, Inghilterra, Olanda e Spagna alla fine dell’XI secolo, per raggiungere il pieno splendore nel XIV, grazie anche all’opera dei Francescani.

Il dolore e il pianto

Parallelamente alle crude descrizioni della passione di Gesú e Maria della letteratura devozionale medievale, si affermano nell’arte, a partire dal XIII secolo, tre soggetti in particolare che esprimono la partecipazione di Maria alla Passione del figlio: la Pietà, la Madonna dei Sette dolori e la Mater Dolorosa. Soggetti che finirono spesso con l’acquisire una propria autonomia, come la Pietà di Michelangelo nella basilica di

S. Pietro a Roma. Nel XIII secolo l’episodio della Passione ricevette particolare attenzione da parte dei drammaturghi medievali, che misero in risalto il dolore materno alla vista del figlio sofferente nel Planctus Mariae, una composizione liturgica di tipo teatrale in cui si cerca di tradurre il pianto o il lamento di Maria per la morte del figlio, per arrivare – nel XIV secolo – alla messa in scena drammatica del suo dolore, che la fa giacere svenuta ai piedi della Croce. Tali forme di pietà religiosa, che riducono il piano divino a vissuta passione umana, erano destinate a suscitare perplessità e condanne da parte della teologia «culta», ancora legata all’antica visione di un contegno austero e ascetico da parte della Vergine ai piedi della Croce. Nella disputa dottrinaria volta a stabilire se Maria avesse provato gaudium o dolorem in presenza della morte redentrice del figlio, prevale quasi sempre la visione di una Vergine stoica e confortata dalla fede, completamente preparata a sostenere ogni tormento con dignità. È questo l’avviso, per esempio, del pensatore e teologo Riccardo di San Vittore († 1173), che dimostra fede e fermezza, come anche del teologo francese Alano di Lilla (1128 circa-1202 circa). Anche la devozione popolare per l’Addolorata si afferma contro le decise resistenze della teologia cattolica, che negava il valore ortodosso della rappresentazione di Maria afflitta. Una rappresentazione di carattere ereticale, secondo l’abate Jean-Baptiste maggio

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iconografia la vergine maria Madonne nere e Madonne arboree

I mille volti di un culto A partire dal Medioevo e con il suo culmine nel XV secolo, la figura di Maria si frammenta, nel tempo, in una miriade di culti, tra cui spiccano per diffusione e numero quelli delle Madonne nere e delle Madonne arboree. Le Madonne di colorito scuro, di derivazione bizantina o di produzione locale su modello bizantino, hanno avuto larga diffusione soprattutto nell’area del Mediterraneo e le ritroviamo disseminate in vari santuari d’Europa, come per esempio a Chartres, Rocamadour, Le-Puy-en-Velay e Orléans, in Francia; Czestochowa (Polonia); Montserrat e Tenerife, in Spagna. Celebri, per culto e per devozione, sono le Madonne nere italiane di Loreto (presso Ancona), Tindari (presso Patti, Messina), S. Maria Maggiore a Roma, Mamma Schiavona, come viene chiamata la Madonna nera di Montervergine (Avellino) o la Madonna della Bruna venerata nella Chiesa del Carmine a Napoli. L’origine Thiers (1636-1703), che contrasta profondamente con la narrazione evangelica di Giovanni, in cui si dice che la Madre «stava», non che «piangeva» presso la croce. Per l’abate, alla madre di Cristo non si addice il lamento delle popolane in lutto, perché è consapevole della missione salvifica del figlio: Thiers considera deprecabili le espressioni stesse dello Stabat Mater, che presentano la Madre come «dolorosa» e «lacrimosa». Sul destino della Vergine dopo la morte del figlio, del quale i testi canonici non forniscono alcuna notizia, si deve nuovamente fare ricorso agli apocrifi. La prima menzione compare nel Transitus Virginis o Dormitio Mariae, un testo risalente al IVV secolo (ma probabilmente redatto sulla base di un nucleo centrale del

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di questo modello di Madonna sembra vada ricercato nella leggenda, molto diffusa durante il Medioevo, di san Luca che avrebbe ritratto la Vergine di persona e il cui dipinto sarebbe stato poi alla base di quel processo di trasferimento del sacro da Oriente a Occidente – tramite immagini e reliquie oppure opere realizzate in loco, ma sul modello di quello orientale –, per accrescere il prestigio di Chiese e di ordini religiosi. Nella cultura popolare ogni Madonna ha una sua identità e diventa oggetto di devozione, anche se le diverse Marie sono legate tra loro da un rapporto di parentela, attestata dal termine «sorelle». I differenti appellativi e raffigurazioni iconografiche hanno dato luogo, in Campania, alle leggende delle Madonne viste come sette sorelle, di cui sei belle e bianche e una brutta e nera, la quale si rifugia a Montevergine a causa del suo aspetto. Tali Madonne, rimandano a una complessità di tematiche, in cui vengono a coniugarsi identificazione tra divinità e fedeli, per la stessa pelle

II-III secolo), attribuito a un certo Leucio, discepolo di san Giovanni. Il documento riporta gli ultimi istanti della vita di Maria, sottintendendo, già nel titolo, che non si è trattato di una morte normale e che non c’è stata corruzione nelle sue spoglie, e anticipando implicitamente il concetto di assunzione.

Gli apostoli al capezzale

Avuta la notizia della sua prossima dipartita da un messaggero celeste, Maria si prepara fisicamente e spiritualmente, prega il Figlio di venire personalmente a prendere la sua anima, circondata dagli apostoli, prodigiosamente trasportati al suo capezzale dai loro luoghi di missione. Espresse le sue ultime volontà, il giorno dopo il Signore viene a prendere la sua anima e la porta in cielo.

Al terzo giorno dopo la sepoltura, Gesú e gli angeli prelevano il corpo di Maria dalla tomba e lo conducono in paradiso, dove si ricongiunge con l’anima. Il tema della dormitio della Vergine diventa molto popolare grazie alla diffusione, nel XIII secolo, della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine; e, dopo il Concilio di Trento (1545-1563), la dormizione della Vergine si trasforma in assunzione. Le storie dei miracoli e le leggende sulla sua morte, dalle quali venne tratta una versione accettabile e fatta propria da tutta la Chiesa medievale, non mancarono di influenzare profondamente il dogma dell’Assunzione, dichiarato articolo di fede da Pio XII nel 1950, che confermò la data del 15 agosto per commemorarne la festività, già istimaggio

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bruciata e resa scura dal sole, e significati del simbolismo cromatico, laddove il colore scuro comunica l’effetto dell’ignoto, della paura e del mistero. Un’altra categoria di figure mariane, dai forti poteri taumaturgici, ampiamente diffusa in Italia e in altri Paesi cattolici, è quella delle Madonne «arboree», la cui particolarità sta nel fatto che a partire dalle stesse leggende di fondazione, ognuna di esse appare fortemente connotata da precisi e significativi riferimenti a un determinato albero. La pianta diventa quasi un attributo della divinità stessa e quasi sempre riscontrabile nelle loro specifiche denominazioni, come per esempio per le Madonne della Pioppa, del Faggio, dell’Olmo, la Beata Vergine del Salice o la piú nota Madonna della Quercia (albero, quest’ultimo, privilegiato quale luogo di apparizione). L’origine del culto sembra svilupparsi secondo modelli prefissati, in cui predomina la ierofania arborea tramite la quale la Vergine si rivela tra i rami di un albero, di solito agli «innocenti mediatori», ovvero fanciulli, verginelle, pastorelli, pii eremiti, chiedendo che sul quel luogo venga eretto un edificio per il suo culto. A questi culti sono spesso associati riti terapeutici e magico-sacrali, fondati su schemi comportamentali che garantiscono una certa sicurezza nel quadro esistenziale di molte società rurali, e della cui efficacia la Madonna diventa garante. tuita nel 600 dall’imperatore Maurizio per tutto l’impero romano.

Un dogma «pericoloso»

Di tutti gli esseri viventi, Maria gode del privilegio unico di essere assunta fisicamente in cielo, senza che il suo corpo subisca la corruzione. Grazie allo stato verginale che l’aveva resa esente dal peccato, essa diventa cosí il modello femminile e materno che la Chiesa propone per ogni donna, ma configurandosi al tempo stesso come la totale negazione della sessualità, dell’identità e della realtà femminile. Il dogma della verginità di Maria fu determinante nella creazione di un modello asessuato di santità, e finí per minare lo stesso cristocentrismo della Chiesa cattolica: devozione e religiosità si spostano in maniera con-

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A destra dipinto raffigurante la Madonna Nera della cattedrale di Le-Puy-enVelay (Francia), all’interno della teca donata dal re Luigi XI (1423-83). XVII sec. Le Puy-en-Velay, Musée Crozatier. Nella pagina accanto la Madonna Nera di Montevergine (Avellino), nota anche come Mamma Schiavona.

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iconografia la vergine maria madre misericordiosa

Tutti sotto il mantello Una particolare raffigurazione di Maria è quella che la vede nelle vesti di protettrice del genere umano dai mali del mondo e che prende, a seconda dei casi, il nome di Madonna della «Misericordia», dell’«Aiuto», della «Consolazione», «Notre-Dame de Consolation» in Francia, «Schutzmantelmadonna» («Madonna dal mantello protettivo») in Germania, ecc. Prime raffigurazioni che vanno sotto questo nome si hanno a partire dal XIV secolo, e la Madonna compare generalmente sola, cioè senza il bambino in braccio, e con un ampio mantello che tiene sollevato con le braccia o aiutata da due angeli. Sotto lo Schutzmantel trovano posto una varietà di personaggi, che possono essere membri di una confraternita religiosa o congregazione di mestieri, vescovi e papi, re e imperatori, rappresentati come piccoli bambini al confronto delle divinità, secondo le convenzioni medievali di simboleggiare le gerarchie spirituali facendo ricorso alla differente grandezza delle persone umane e divine. Con il diffondersi di questa tipologia iconografica, sotto il mantello della Vergine finí per trovare riparo l’intera umanità, suddivisa in uomini e donne, i primi a destra le seconde a sinistra, come nel bellissimo affresco della Madonna dell’Aiuto nel Battistero dell’Antelami a Parma (inizi del XV secolo), opera di un maestro anonimo, o nella celebre Madonna della Misericordia di Piero della Francesca (1444-1464), elemento centrale del polittico realizzato per la confraternita del borgo di Sansepolcro. Secondo alcuni storici dell’arte, questa tipologia di Madonna sarebbe nata in Umbria, mentre a Roma, fin dal XIII secolo, certe confraternite rappresentavano i loro membri inginocchiati sotto il mantello protettore della Madonna. Tra le origini storiche di questo modello figurativo va annoverato il teologo e scrittore tedesco Cesario di Heisterbach (1180 circa-1240 circa), il quale, nel Dialogus Miraculorum, composto tra il 1220 e il 1230, riporta la visione di un frate cistercense, ordine a cui lui stesso apparteneva, il quale, rapito in estasi e portato in Paradiso, aveva avuto modo di vedere nascosti sotto le pieghe dell’ampio mantello della Vergine i monaci di Citeaux, a lei cari piú di tutti gli altri. Tale visione fu presto adottata da altri ordini, dai Domenicani, dalle Carmelitane e persino dai Gesuiti, i quali sostennero che, nel XVI secolo, a un loro confratello spagnolo era apparsa la Vergine abbigliata in modo sfarzoso, con abiti tempestati di diamanti che abbracciava tutti i membri della Compagnia di Gesú, proprio come fa la «chioccia con i suoi pulcini». Questo modello andò diffondendosi sempre piú tra il XIV e il XVI secolo, creando non pochi problemi di ordine teologico, tanto che nel Concilio di Trento (1545-1563) ne venne dichiarata ufficialmente l’eterodossia e fu bandito dall’iconografia religiosa, perché implicava la sovranità e l’autonomia della Madonna e a nulla valsero i tentativi degli artisti di limitare tale visione, raffigurandola con il Bambino Gesú in braccio. Piero della Francesca, Madonna della Misericordia, parte centrale dell’omonimo polittico. Olio su tavola, 1445-1462. Sansepolcro, Museo Civico.

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siderevole dal mistero centrale della figura di Cristo al culto e alla devozione della Madonna, dando vita a una mariologia che rappresenta un ostacolo all’unità ecumenica dei cristiani, riproposta con vigore, ancora in tempi recenti, in particolare con il pontificato di Karol Wojtyla. F

Da leggere U Enrico

Dal Covolo, Aristide Serra, Storia della mariologia.

Dal modello Biblico al modello letterario, Città Nuova, Roma

2009

U Klaus Schreiner, Vergine,

madre, regina. I volti di Maria nell’universo cristiano, Donzelli Editore, Roma 1994; U Marina Warner, Sola fra le donne. Mito e culto di Maria vergine, Sellerio, Palermo 1990 U Mario Erbetta (a cura di), Gli apocrifi del Nuovo Testamento. Vangeli. Infanzia. Passione. Assunzione di Maria, vol. 2, Marietti, Casale Monferrato 1981

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medicina militare giovanni dalle bande nere

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Il capitano e il chirurgo di Paola Cosmacini

Nel novembre 1526, Giovanni dalle Bande Nere è una delle prime vittime eccellenti della polvere da sparo. Ferito gravemente, non sopravvisse alle cure prestate da un medico valentissimo, Abraham Portaleone, che pure tentò il tutto per tutto, sottoponendolo alla rischiosa amputazione di una gamba

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Firenze, Palazzo Vecchio. Giovanni dalle Bande Nere difende il Ponte Rozzo sul Ticino, affresco di Giovanni Stradano e Giorgio Vasari. 1556-1559. Il celebre condottiero, figlio di Giovanni de’ Medici e di Caterina Sforza, ebbe il noto soprannome dopo aver mutato le bande da bianche in nere alla morte di papa Leone X, quartogenito di Lorenzo de’ Medici e Clarice Orsini, che nel 1522 l’aveva assoldato come capitano di ventura.

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ovembre 1526. Giovanni de’ Medici, capitano generale della fanteria italiana dell’esercito della Lega Santa (vedi box a p. 47), cerca di contrastare le migliaia di fanti alemanni calati dal Tirolo. È una delle «guerre d’Italia» tra l’imperatore Carlo V d’Asburgo e il re di Francia Francesco I di Valois, quest’ultimo ora a difesa di papa Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici. Il capitano de’ Medici si è accampato fuori Mantova, a Gabbiana, e da lí indirizza una lettera a Francesco Maria I della Rovere (1490-1538): «A Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, supremo comandante dell’esercito pontificio. Il parer mio è che essendo le truppe italiane non disciplinate, né avvezze ad osservar gli ordini, non possano le nostre fanterie di appiedati sostenere l’urto in campo aperto delle schiere alemanne, anche se costoro non dispongono di artiglieria e sia piú tosto conveniente, travagliare le armate di questi lanzichenecchi con scaramuzze e colpi di mano, infastidendoli ed ostacolandoli piú di tutto nelle vettovaglie, che è il solo modo per condurli in qualche disordine e vincere gente di tale ordinanza. In fede ed obbedienza Giovanni de’ Medici».

Audace e impetuoso

Ha idee geniali questo giovane capitano intriso di ideali cavallereschi, abituato fin dall’infanzia, per espressa volontà della madre, alla disciplina militare e a indossare pesanti armature. Fin da ragazzo, infatti, il suo mestiere si rivela segnato: è il «mestiere delle armi». «Se bene giovane di animo ferocissimo, la sperienza e la virtú erano superiori agli anni», scrive di lui Francesco Guicciardini. E, per Niccolò Machiavelli, Giovanni è «audace, impetuoso,

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I Medici

Giovanni di Bicci 1360-1429 m. Piccarda Bueri

RAMO CADETTO DEI POPOLANI

RAMO PRINCIPALE DI CAFAGGIOLO

Cosimo il Vecchio 1389-1464 m. Contessina de’ Bardi

Lorenzo il Vecchio 1395-1440 m.Ginevra Cavalcanti

Piero il Gottoso 1416-69 m. Lucrezia Tornabuoni

Pier Francesco 1430-76 m.Laudomia Acciaiuoli

Lorenzo il Magnifico 1449-92 m. Clarice Orsini

Lucrezia 1470-? m. Jacopo Salviati

Piero lo Sfortunato 1472-1503 m. Alfonsina Orsini

Maria Lorenzo Salviati duca 1499-1543 d’Urbino m. Giovanni 1492-1519 dalle Bande m. Maddalena Nere d’Auvergne Cosimo I vedi ramo cadetto

Caterina 1519-1589 m.Enrico II re di Francia

Giovanni 1475-1521 papa Leone X dal 1513

Giuliano 1453-78

Lorenzo il Popolano 1463-1503 Signore di Piombino

Giulio 1478-1534 papa Clemente VII dal 1523

Pier Francesco 1487-1525 m. Maria Soderini

Alessandro duca di Firenze 1511-1537 m. Margherita figlia di Carlo V

Lorenzino 15141548 assassino del duca Alessandro

Francesco I 1541-1587 m. Giovanna d’Austria e Bianca Cappello Maria 1573-1642 m. Enrico IV re di Francia

Ferdinando II 1610-1670 m. Vittoria Della Rovere Cosimo III 1642-1723 m. Margherita Luisa d’Orléans

Anna Maria Ludovica 1667-1643 m. Giovanni Guglielmo Neuburg Elettore Palatino

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Giovanni il Popolano 1467-98 m. Caterina Sforza

Leopoldo cardinale 1617-1675 Gian Gastone 1671-1737 m. Anna Maria di Sassonia

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La Lega Santa

«Fuori i barbari!» Per Lega Santa, si intende l’alleanza stretta nel 1511 da papa Giulio II con i cantoni svizzeri, Venezia, Ferdinando II il Cattolico d’Aragona ed Enrico VIII d’Inghilterra per cacciare dall’Italia Luigi XII, dopo che questi aveva convocato a Pisa un concilio per far dichiarare decaduto il pontefice. Al grido di «Fuori i barbari!», Giulio II volle attribuire alla guerra,

Giovanni dalle Bande Nere 1498-1526 m. Maria Salviati

Cosimo I granduca dal 1569 1519-1574 m. Eleonora di Toledo e Camilla Martelli Ferdinando I cardinale e poi granduca 1549-1609 m. Cristina di Lorena Cosimo II 1590-1621 m.Maria Maddalena d’Austria

Cosimo II 1590-1621 m.Maria Maddalena d’Austria In alto Gian Paolo Pace, detto l’Olmo, Ritratto di Giovanni dalle Bande Nere. 1545 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. Nella pagina accanto, in alto Firenze, giardino di Boboli. Lo stemma mediceo nella Grotta del Buontalenti. Nella pagina accanto, in basso Firenze, Palazzo Vecchio. Giorgio Vasari, Ritratto di Caterina Sforza, madre di Giovanni dalle Bande Nere. Affresco, 1556-1559.

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che ne seguí, l’aspetto di rivolta italiana contro l’invasore francese. In realtà, essa era mossa da forze interessate a eliminare un competitore troppo pericoloso. I Francesi sbaragliarono la Lega a Ravenna (1512), sotto la guida di Gaston de Foix, ma la morte del generale sul campo di battaglia impedí loro di cogliere i frutti della vittoria e dovettero rivalicare le Alpi.

di gran concetti». Oltre che feroce, esperto, audace e impetuoso Giovanni è quindi virtuoso e intelligente; e anche fortissimo. Alto 1 m e 78 cm, ha un fisico robusto, con ossa grosse e modellate dall’attività fisica e dalla pratica dell’equitazione. A ventotto anni, quando scrive la lettera, è già anche pieno di cicatrici, il suo setto nasale si presenta deviato dall’esito di una frattura, regalo di uno dei molti duelli sostenuti, che gli sono valsi anche profonde ferite a entrambe le braccia. L’ambizioso Giovanni è temuto, ma non da tutti stimato in un mondo di «intrighi e inganni della politica»: è considerato un venale voltagabbana per il suo cambiar ripetutamente campo soltanto per lucro.

I primi anni in convento

Il 6 aprile 1498, quando nasce, a Forlí, viene chiamato Ludovico: sua madre è la grande Caterina Sforza, signora della città e figlia illegittima di Galeazzo Sforza; il padre – terzo marito di Caterina – è l’ambasciatore di Firenze a Forlí, Giovanni de’ Medici (un Medici di un ramo cadetto), il quale muore poco dopo la nascita del figlio. Cosí che Caterina vuol mutare il nome del bambino in quello di Giovanni. Madre e figlio vengono presto divisi: per questioni di eredità, l’infante è rinchiuso a Firenze nel convento di S. Vincenzo, fino all’età di 5 anni. Una volta fuori, vive sei anni con la madre (fino alla morte di costei) e poi con Lucrezia de’ Medici, figlia di Lorenzo il Magnifico, sposa del potentissimo Jacopo Salviati. Non c’è quindi da meravigliarsi se, fin da bambino, il giovane dimostri un temperamento violento e già nei primi anni dell’adolescenza abbia un compor-

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medicina militare giovanni dalle bande nere Tiziano, Ritratto di Federico II Gonzaga, duca di Mantova. Olio su tavola, 1529. Madrid, Museo del Prado.

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S. Daniele PRINCIPATO DI TRENTO Belluno (Patriarcato) Cividale Trento DUCATO Pordenone Aosta Bergamo Como Aquileia (Asburgo) DI Masserano DUCATOMilano Brescia S. Vito (Patriarcato) Vicenza Novara Treviso (Patriarcato) SAVOIA Lodi Verona Vercelli Venezia Padova Casale DI Pavia Cremona Torino S. Evasio Mantova Piacenza REPUBBLICA Guastalla Carpi Po Asti . Alessandria Saluzzo ARCH.RDATO Ferrara DI VENEZIA Parma M FER MILANO N O Pola M Novellara Modena MARCH. Genova Correggio DI SALUZZO Ceva Bologna Ravenna MARCH. REP. DI Mirandola DI CEVA Tenda GENOVA Carrara Albenga Rimini REPUBBLICA Ventimiglia Lucca Firenze Urbino Pisa Nizza Monaco DI FIRENZE Ancona Volterra Arezzo STATO Bellinzona

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Sul proprio «mestiere», Giovanni ha idee ben chiare e si dimostra da subito abile stratega e ottimo interprete della scienza militare, combattendo con una propria armata perlopiú al servizio dell’élite finanziaria fiorentina e dei due papi di famiglia (Leone X e Clemente VII). «Tra gli italiani non vi è un capo militare che i soldati seguono piú volentieri, e altrettanto rispettato e temuto dagli spagnoli» scrive

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Mar Reggio

Sicilia (dal 1282 agli Aragonesi) Catania Girgenti (Agrigento) Siracusa

tamento rissoso. A 18 anni sposa Maria (1499-1543), figlia di Lucrezia e Jacopo. Il loro unico figlio, il geniale Cosimo (1519-1574), fu poi il capostipite della dinastia dei granduchi di Toscana.

Imboscate e scaramuzze

Messina

Ionio

L’assetto geopolitico dell’Italia all’indomani della Pace di Lodi (1454).

Machiavelli a Guicciardini. In particolare, nelle guerre d’Italia, scrive Pietro Aretino, suo fraterno amico, «l’idea del de’ Medici era quella di infastidire con incursioni improvvise, di giorno e di notte, tanto che all’uopo, il capitano de’ Medici ha fatto brunire tutte le armature, per sorprendere il nemico anche col buio». L’armata senza paura di Giovanni de’ Medici era fatta di fanti e di cavalieri o, meglio, di picchieri e tiratori, di lancieri e archibugieri: una truppa perfettamente addestrata, coesa, molto disciplinata e ardimentosa, e quindi perfetta per la guerriglia diremmo oggi «di logoramento», fatta di imboscate e scaramuzze. Nel novembre 1526 Giovanni ha il compito di ritardare la marcia dei mercenari tedeschi guidati da Georg

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medicina militare giovanni dalle bande nere Le nuove indagini A destra Firenze, S. Lorenzo, Museo delle Cappelle Medicee. L’apertura della tomba di Giovanni dalle Bande Nere e di sua moglie, Maria Salviati.

A sinistra la cassa del condottiero, cosí come si è presentata al momento della ricognizione. A destra i paleopatologi impegnati nell’analisi e nella documentazione dei resti ossei.

Qui accanto il cranio di Giovanni. Le recenti indagini hanno fugato i dubbi sull’ipotesi che la sua morte fosse stata causata dal medico Abraham Portaleone, che invece tentò con ogni mezzo di salvarlo, sottoponendolo a una rischiosa amputazione. Nella pagina accanto xilografia cinquecentesca raffigurante un intervento di amputazione della gamba.

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von Frundsberg (1473-1528) prima che riescano ad attraversare il Po e vadano a unirsi all’esercito imperiale. Per intanto essi sono riusciti a transitare per il Mantovano grazie al consenso del marchese di Mantova, il giovane Federico II Gonzaga (1500-1540), il quale li ha fatti entrare per una delle porte fortificate del Serraglio mantovano. Federico, che nel 1521 aveva ricevuto l’investitura imperiale direttamente da Carlo V, è uno dei numerosi nemici personali di Giovanni. Diversi in tutto e per tutto, i due giovani si odiano cordialmente. Occorre, però, escogitare qualcosa di speciale per annientare l’armata del de’ Medici: quel Gran Diavolo – come lo chiamano «per l’incomparabile furia e terribilità» – attacca infatti i lanzichenecchi con insistenza ed efficacia, tanto che, malgrado la grande superiorità numerica, rischiano di soccombere. Si decide dunque per un’imboscata, per una di quelle scaramuzze tanto amate dal de’Medici.

Il capitano è ferito

Alla sera del 25 novembre nel marchesato di Mantova appunto, presso la fornace di Governolo, proprio dove il Mincio si getta nel Po, a meno di 20 km dalla città, i lanzichenecchi si fanno attaccare in prossimità del guado. La scaramuzza si tramuta all’improvviso in un inferno di fuoco: i dodici falconetti – gli stessi negati per lettera a Giovanni da Alfonso I d’Este (1476-1534), duca di Ferrara – aprono il fuoco. Imboscata e tradimento. «Il signor Gioannino» – come lo chiama con affetto ipocrita Alfonso d’Este, che in questa guerra oltre all’artiglieria fornisce all’esercito imperiale viveri e polveri – stramazza a terra con il suo cavallo, colpito da una palla partita da quelle nuove e micidiali bocche da fuoco. Il colpo arriva mentre Giovanni si accorge dell’imboscata e sta per ripararsi tra i suoi: fracassa dunque l’arto dalla parte posteriore, non protetta dallo schiniere. Scrive Guicciardini: «Accostatosi piú arditamente perché non sapeva che avessino artiglierie, avendo essi dato fuoco a uno de’ falconetti, il secondo tiro percosse, e roppe la gamba». È un momento emblematico: dalla piccola storia si passa alla grande storia. Se siamo ancora lontani da un totale cambiamento dello scenario bellico (e lo stesso Machiavelli sembra non accorgersene, continuando a esaltare i fanti e le armi bianche nell’Arte della Guerra), ancora una volta sono le armi nuove a fare la differenza e colpendo Giovanni si cambia il corso della storia. L’esercito tedesco potrà attraversare il Po poco piú giú, a Ostiglia, e puntare su Roma per andare a saccheggiarla. Ma noi torniamo alla piccola storia. Giovanni è a terra, colpito alla gamba destra: proprio quella dell’anno prima, quando, il 18 febbraio, era stato ferito a Pavia da un colpo di archibugio. Immediatamente trasportato a Piacenza per le prime cure, era stato visitato quattro giorni piú tardi dal medico personale del Gonzaga, giunto da Mantova per espressa richiesta del re di Francia:

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è uno specialista ebreo, Abraham ben David Ariè Portaleone, membro della comunità ebraica che a Mantova è ben tollerata. Figlio a sua volta di un famoso medico, Benjamin, Abraham aveva già curato con successo Loyso Gonzaga (1494-1549), ferito in battaglia a un occhio e a una gamba. Anche quello di Abraham è dunque un mestiere delle armi, ma le sue si chiamano rasoio, coltello lunato, sega da osso e cauterio. Egli osserva la ferita d’arma da fuoco già trattata con la comune pratica di spalmare olio di sambuco bollente, secondo la tecnica insegnata da Giovanni da Vigo (1450-1525). Vede il ragazzone che scalpita nel suo letto e smania per tornare a combattere. Decide di non amputare: a parer suo, il giovane ce la può fare benissimo. Tra i due si stabilisce un rapporto fatto di complicità e di fiducia, il migliore che si può auspicare tra medico e paziente. Sapendo che le ferite d’arma da fuoco suppurano velocemente e frequentemente, Abraham medica

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medicina militare giovanni dalle bande nere con quotidiana pazienza la ferita, asportando complessivamente sessanta frammenti d’osso e molti pezzetti di piombo. In circa due mesi, l’arto appare risanato: il malato è debolissimo, ma guarito dalla terribile ferita. A Governolo la situazione appare da subito piú grave. Vi è «fracasso dell’osso». Con la gamba maciullata, Giovanni viene a fatica trasportato per i primi soccorsi in quelle quattro case che sono a San Nicolò Po, qualche ansa del fiume sopra Governolo. Il tempo è pessimo: nevica. I fanti suoi compagni d’arme sono in preda al panico: la nuova artiglieria leggera li ha sorpresi, ma ancor meno si aspettavano il ferimento del loro carismatico comandante. Quando si riprendono – l’indomani – trasportano Giovanni a Mantova. Federico questa volta

esita a lasciare entrare il ferito in città e occorre l’autorità di Pietro Aretino per ricoverarlo mentre infuria la bufera di neve. Viene ospitato in contrada Grifone, da Loyso, caro amico e compagno d’armi a Governolo. Non si perde tempo. La mattina seguente accorre il cerusico. È Abraham: una mano sapiente, uno sguardo amico. Ma se lo sguardo è amico, il colpo d’occhio del medico non perdona. Il quadro clinico appare gravissimo. Se quella di qualche mese prima era una ferita da arma da fuoco leggera, questa lo è da artiglieria. Abraham è uno dei primi medici a vedere di che cosa sono capaci queste nuove armi: egli ha esperienza di armi bianche e di archibugi, ma non ancora di falconetti. Capisce, però, che non c’è piú nulla da fare: il medico sa già che, pur intervenendo, la prognosi sarà infausta.

A mali estremi...

È troppo sapiente per non capire immediatamente che la situazione risulta compromessa: vi è una semiamputazione traumatica su un arto ancora in fase di guarigione. Sa di non poter guarire Giovanni, ma può «prendersi cura» del giovane amico: osa allora l’inosabile contravvenendo, solo apparentemente, al supremo principio primum non nocere. Deve ciò a Giovanni: a quel ragazzo che conobbe scalpitare nel letto e che ora invece, febbricitante, è immobile e sofferente e sta correndo verso lo sphacelum. «Per via del guasto che s’è formato nella ferita e non porti il percosso a infettare il resto del corpo, non resta altro che tor via la gamba»: se ben comprese, le parole sanno piú di consolazione. Il medico interviene immediatamente. Subito al di sopra di dove si era già formato il callo osseo del pregresso trauma, sega quel che rimane. Abraham, in pratica, completa l’amputazione che il falconetto aveva iniziato, regolarizza i monconi, netta la ferita, cerca di portar via il focolaio settico iniziale, cauterizza con il ferro rovente. Le complicanze, si sa, potranno andare dal collasso cardio-circolatorio all’emorragia, dalla setticemia alla embolia grassosa. Giovanni morirà per setticemia. Il suo calvario, vissuto con febbre altissima tra stato stuporoso e delirio, durerà tre giorni e, nella notte tra il 29 e il 30 novembre, l’amico Aretino annota che «mentre il suo animo dormiva fu occupato dalla morte». Venne sepolto con la sua armatura e «a ciascuno che lo vedeva pareva vivo, avendo l’immagine nel viso e negli occhi, e la stessa terribilità e alteratezza che in vita aveva», scrisse Giovan Girolamo de’ Rossi (1505-1564), uno dei nipoti di Caterina Sforza. Sulle due pagine l’armatura scelta come veste funebre di Giovanni dalle Bande Nere, forgiata da un laboratorio di Innsbruck. 1520. Firenze, Museo Stibbert.

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La storia fin qui raccontata nasce dallo studio delle spoglie di Giovanni de’ Medici condotto nell’ambito del progetto «Giovanni dalle Bande Nere» (vedi «Medioevo» n. 193, febbraio 2013; anche on line su medioevo.it). È stato un medico, Gino Fornaciari (a capo della Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa), a compilare la cartella clinica di Giovanni, avvalendosi anche della TAC e del microscopio stereoscopico, al fine di acquisire dati non riscontrabili alla semplice osservazione macroscopica. Completano il quadro clinico la presenza di numerose ernie vertebrali, quelle cosiddette di Schmorl, e la deformazione «a cuneo» della V vertebra lombare che avevano modificato la colonna vertebrale di questo giovane soldato, cresciuto in un «vestito di ferro». Fin dall’adolescenza Giovanni, che sovraccaricava il dorso con pesi cospicui, sottoponendosi a stress biomeccanici precoci e costanti, aveva deformato la sua colonna. Non solo. Aveva tutti i disturbi tipici dei cavalieri: le cavità acetabolari si erano già ovalizzate e le inserzioni dei muscoli erano ipertrofiche. Per quanto riguarda la ferita di Governolo, i monconi tibiale e peroneale lasciati da Abraham Portaleone sono piuttosto lunghi. La tibia fu segata a circa metà della diafisi e l’operazione interessò unicamente la porzione laterale; la porzione mediale si presenta «scheggiata» dal trauma del falconetto e caratterizzata da proliferazione di callo osseo, segno di riparazione della ferita precedente. Il perone è stato reciso alla sua estremità distale. È da dire che, in presenza di un arto praticamente maciullato, con una lesione ampia e obliqua, causata da una semi-amputazione traumatica, l’atto chirurgico del cerusico appare perfetto. Esso si inscrive nell’arte della chirurgia dell’inizio del XVI secolo. Abraham Portaleone agí dunque al meglio delle sue possibilità. È definitivamente assolto dalle calunnie protrattesi nei secoli, che lo volevano al vertice di un vero e proprio complotto politico ordito da Federico Gonzaga, il quale si diceva avesse armato la mano del cerusico ebreo: una mano odiosamente venefica o volutamente incapace. Infatti, già qualche anno dopo la morte di Giovanni, de’ Rossi aveva dato inizio a

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una sarabanda di maldicenze, scrivendo che il medico «vi lasciò del percosso tanto che il rimanente si putrefece, talché necessariamente ne seguí poi la morte sua troppo acerba e crudele, sí per l’età ancora verde, e sí per il bisogno che aveva di lui tutta l’Italia in quel tempo».

La chirurgia «innovata» dalle armi

Nel Cinquecento comparvero le armi da fuoco «pesanti» e l’artiglieria, modificando le ferite, pose al chirurgo problemi inediti. La maggiore gravità e profondità delle lesioni, lo stritolamento e talora l’asportazione di interi segmenti d’arto, la penetrazione di frammenti d’abito nel tragitto della ferita, l’attrito e la contusione delle parti molli, la commozione del sistema nervoso con conseguente stato stuporoso, richiedevano nuovi metodi di applicazione e un indirizzo terapeutico piú razionale. Ciò obbligò a innovare gli interventi, a tentare amputazioni fino ad allora praticate eccezionalmente, a modificare l’emostasi, che si praticava semplicemente con il cauterio rovente. All’inizio del XVI secolo, infatti, se eseguite, le amputazioni erano solo quelle sotto il ginocchio e il moncone tibiale veniva lasciato piuttosto lungo, proprio come aveva fatto Abraham Portaleone. Solo nel 1564 il chirurgo francese Ambroise Paré (15101590) fissò in 5 dita trasverse – 10 cm circa – la lunghezza del moncone da lasciare al di sotto del ginocchio (Dieci Libri di Chirurgia, Libro VII, Cap. XI). Quanto alle amputazioni di coscia, pericolosissime per l’elevato rischio di emorragia massiva per rottura della arteria femorale, non venivano eseguite. Una delle prime amputazioni al disopra del ginocchio venne descritta da William Clowes (1540-1604), il piú abile dei chirurghi di Elisabetta I, in A Profitable and Necessarie Booke of Observations, for all those that are burned with the flame of Gun-powder... (Londra, 1596), dopo l’introduzione della tecnica di legatura arteriosa adottata per la prima volta da Paré. E fu ancora Paré a modificare la medicazione: al posto di olio di sambuco bollente, si cominciò a spalmare sulle ferite d’arma da fuoco una lozione lenitiva e disinfettante di «tuorlo d’uovo, essenza di rosa e trementina». F

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la guerra nel medioevo/4

Non si

di Federico Canaccini

scherza coi fanti! Nell’Italia dei Comuni e, piú in generale, nell’Europa del Duecento, si registrano innovazioni importanti nelle tecniche belliche. La piú significativa è la crescente efficacia dei reparti appiedati che, un po’ ovunque, mettono a nudo la vulnerabilità di chi, invece, combatteva a cavallo. E cosí il cavaliere, uno dei simboli del Medioevo, continuò a essere un eroe vittorioso quasi soltanto nell’arte o nella letteratura

I I

l Duecento è da molti considerato l’aetas aurea del Medioevo: crescono le città, vengono fondate le prime università, nascono organizzazioni politiche, prosperano le banche e i commerci. E abbiamo già visto come, nei secoli attorno al Mille, l’Europa avesse cominciato a rifiorire sia economicamente che demograficamente. In terre a forte identità commerciale e artigianale, come l’Italia, la Provenza e le Fiandre, questo fenomeno coincise con la ripresa delle città che, nell’Alto Medioevo, avevano perso di importanza a favore delle tenute signorili e dell’economia di castello. In particolare, l’Italia centro-settentrionale presentava una situazione del tutto peculiare: l’eredità romana era ben piú profonda che nel resto delle ex province dell’im-

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Miniatura raffigurante la battaglia vinta dagli Inglesi sugli Scozzesi, nel 1341, presso il castello di Wark, in Scozia, da un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart. 1470-1475. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In secondo piano, si vede Catherine Montacute, duchessa di Salisbury, che lascia il maniero: si narrava, infatti, che Edoardo III, il re inglese, ne fosse follemente innamorato, e, dopo aver concluso vittoriosamente lo scontro, l’avesse convinta a diventare sua amante.

pero e la densità di fondazioni risalenti all’epoca repubblicana era altissima. Se immaginassimo di tracciare un cerchio avente un diametro di appena 100 km e come centro Firenze, vi troveremmo comprese tutte le grandi città della Toscana di Dante; e altrettanto accadrebbe con la Lombardia dei tempi del Barbamaggio

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la guerra nel medioevo/4 Gli uomini dei grandi scudi La tavola illustra l’equipaggiamento dei pavesari, i reparti di fanteria che si diffusero negli eserciti comunali dal XII secolo e che prendono nome dal pavese, uno scudo amplissimo (1), forse di origine slavo-occidentale. Infitto in terra, esso costituiva una valida difesa per i fanti, che lo usavano anche, accostato a numerosi altri, come riparo (pavesata). La sua vasta superficie, piú o meno quadrangolare, si prestava ad accogliere stemmi e altri simboli araldici dipinti (vedi box a p. 66). Il pavesaro disponeva di un’arma inastata, con lame di varia foggia (2), che, in molti casi, apparteneva alla classe delle lanze longhe (3). La testa era protetta dal bacinetto (4), un copricapo metallico che poteva anche essere indossato sotto il cappello. Alla cintura sono appesi la 2

borsa (5) e il baselardo (6), un lungo pugnale, con il suo fodero (7). L’abbigliamento comprendeva una sorta di camicione imbottito, con maniche lunghe o corte (8), sul quale si indossava la cotta di piastre metalliche (9). Per le mani, infine, si utilizzavano guanti in cuoio, parzialmente rivestiti in maglia d’acciaio (10). 6 1 7

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rossa o il Veneto di Ezzelino da Romano. L’Italia comunale pullulava di centri in espansione, che si battevano per il predominio sul territorio circostante: il contado.

Politici di «importazione»

In una prima fase queste città si diedero un assetto politico basato sul sistema «consolare», con rappresentanti tratti dal patriziato di antiche origini e, in un secondo momento, un sistema detto «podestarile», che

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europee la chiamata alle armi avveniva su base feudale, nella Penisola essa fu integrata con una ripartizione amministrativa delle città, cioè la suddivisione in parrocchie e in quartieri. In pratica, ogni porzione amministrativa, ogni famiglia, ogni parrocchia, ogni quartiere, doveva fornire un certo numero di soldati e di cavalli o un corrispettivo pagamento, in base al censo.

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Cavalieri di sangue blu 8

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invece prevedeva l’assunzione da parte del Comune di un politico professionista, proveniente da fuori e perciò (almeno sulla carta) meno invischiato nelle lotte cittadine che avevano provocato forti scissioni e vere e proprie guerre civili. Conflitti dei quali dà conto il cronista Giovanni Villani: «E cominciarono dissensione e battaglia cittadina in Firenze, onde la città si cominciò a sgominare e a partirsi i nobili e tutto il popolo, e chi tenea dall’una parte e dall’altra. E in piú

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parti della città si combattero piú tempo. (…) Avvenne che le dette battaglie duraro piú tempo, combattendosi a’serragli, ovvero isbarre, da una vicinanza all’altra, e alle torri l’una all’altra e con manganelle (catapulte) e altri dificii si combatteano insieme di dí e di notte». La crescita economica ebbe i suoi riflessi anche nel mondo della guerra, a cominciare dal reclutamento, per il quale l’Italia comunale sviluppò un sistema veramente originale: infatti, mentre in molte città

Una famiglia nobile avrà dunque assicurato un numero maggiore di soldati rispetto a una modesta famiglia di artigiani. I cavalieri (feditori) venivano arruolati tra i milites, i nobili che potevano permettersi cavalli da guerra e armature, costosissime. Anche nel resto d’Europa gli eserciti si formavano con queste modalità: solo i ceti piú abbienti, che erano i nobili, potevano sostenere le spese per il mantenimento dei cavalli e dunque i cavalieri erano di estrazione aristocratica. Questo almeno sin quando i populares, i mercanti, non si arricchirono quanto (se non piú) degli uomini di sangue blu. Nelle fanterie, invece, militavano gli strati inferiori della società. E, piú in generale, la classe media poteva fornire sia cavalieri che fanti. In campo, perciò, non venivano schierati solo «cavalieri», cioè i nobili che trascorrevano il loro tempo allenandosi e dedicandosi alla caccia, ma uomini (la cui età spesso era compresa tra i 15 e i 70 anni) che durante l’anno erano presi dai propri affari e che, nei mesi estivi, dovevano assolvere ai loro doveri militari. Tra questi gruppi, i meglio armati erano i «pavesari» (dal nome del loro grande scudo, il pavese; vedi box qui accanto), dietro al quale si difendevano dalle cariche nemiche. In battaglia poteva dunque capitare di incontrare orefici, banchieri, poeti, mercanti, politici, cuochi: nel corso della campagna contro Arezzo, per esempio, si conobbero i poeti Cecco Angiolieri e Dante Alighieri.

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la guerra nel medioevo/4 Il popolo in battaglia

Armi...«improprie» Con lo sviluppo delle città comunali, nacquero associazioni che inquadravano le milizie cittadine, composte da artigiani e semplici cittadini, in base alle ripartizioni urbane. Le milizie urbane erano dotate di armi in asta che, nel corso dei decenni, mutarono forma, traendo spesso ispirazione dagli attrezzi dei campi e da lavoro, come per esempio lo spiedo o la roncola pennata. Lo sperimentalismo di queste armi in asta è testimoniato dalla varietà dei modelli elaborati nel tempo: si passa dalle 13 forme attestate nel XII secolo, alle 20 del secolo seguente, che diventano 26 nel Trecento, 31 nel Quattrocento e ben 43 nel Cinquecento! I nomi di queste armi furono quanto mai vari e originali. Nelle varie aree dell’Europa medievale, si incontrano berdiche e falcioni, roncole e ronconi, forche e tridenti, asce e grappini, martelli e alighieri. E, ancora, lanze longhe e quadrelloni, picche e puntoni, e poi spiedi, ronche e persino… pipistrelli! Verso la fine del Duecento, però, molte città italiane e fiamminghe, erano in grado di arruolare un numero di militi superiore alle necessità. Questi soldati, invece di oziare, trasformarono allora il dovere della leva in una professione redditizia: il mestiere delle armi. Dagli inizi del Trecento, con frequenza sempre maggiore, essi offrivano (a pagamento!) i loro servizi ad altri signori o ad altre città, se non addirittura a regni lontani: divennero per esempio famosi in tutta Europa i balestrieri genovesi e savonesi, assoldati dai sovrani francesi nel corso della guerra dei Cent’Anni (1339-1453).

Soldati in affitto

Poteva accadere che alcune milizie (come la fanteria fiamminga) godessero di un periodo di successo breve ed effimero, a causa dei rapidi cambiamenti di tattiche o di metodi di organizzazione. Altri gruppi invece, come la fanteria proveniente dalla Navarra e armata di giavellotti, furono richiesti per quasi tutto

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Miniatura raffigurante la battaglia di Crécy, 1477. Norfolk, Holkham Hall. Combattuto il 26 agosto 1346, fu il primo grande scontro della guerra dei Cent’anni tra Edoardo III d’Inghilterra e Filippo VI di Francia. Nell’occasione, sebbene fosse in palese inferiorità numerica, l’armata inglese, soprattutto grazie ai suoi espertissimi arcieri, riuscí a prevalere sulle truppe francesi.

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la guerra nel medioevo/4 il Trecento. Altri contingenti poi, meno specializzati e quindi «affittabili» a prezzi ribassati, venivano ingaggiati per ingrossare le fila piú che per la loro abilità militare e non godevano sempre di buona reputazione: gli Irlandesi o gli Scozzesi, per esempio, erano ritenuti poco affidabili e in piú di un caso si rivelarono un acquisto azzardato.

Il declino dei cavalieri

Dalla fine del Duecento le tattiche di combattimento mutarono rapidamente: crebbe l’importanza della fanteria, mentre la cavalleria pesante, di origine feudale, diedi i primi segni di cedimento. I cambiamenti sociali, culturali ed economici del tardo Medioevo determinarono questo lento processo che, protraendosi per almeno altri tre secoli, condusse, in epoca moderna, al totale predominio delle truppe di fanteria. L’apprezzamento per queste ultime era già iniziato in Europa, col tramonto delle crociate: in piú di una battaglia combattuta in Oriente i nobili europei avevano infatti prevalso grazie ai corpi appiedati. Prima del 1200, arcieri e balestrieri non erano del resto sconosciuti, ma l’uso delle armi tra la povera gente – che spesso adattava a scopi bellici ordigni abitualmente destinati alla caccia o ad altre attività (vedi box a p. 58) – veniva visto con sospetto dalla Chiesa e sufficienza dalla cavalleria. Addirittura, nel 1139, il Secondo Concilio Laterano condannò l’impiego dell’arco e della balestra in guerre tra cristiani (in seguito fu considerata lecita l’uccisione degli infedeli con le stesse armi): di fatto, la nobiltà aveva ottenuto dalla Chiesa una protezione contro il rischio di essere uccisi da un nemico appostato a distanza, anonimo e magari non blasonato. Nel 1302, a Courtrai, nelle Fiandre, le milizie cittadine annichilirono la cavalleria pesante france-

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11 luglio 1302, courtrai

La battaglia degli Speroni d’Oro Il 18 maggio del 1302, in quello che è passato alla storia come «il mattino di Bruges», piú di 3000 soldati francesi furono massacrati dai cittadini fiamminghi della località belga. Le truppe erano state inviate dal re di Francia, Filippo il Bello, per frenare rivolte e velleità di indipendenza della contea delle Fiandre dalla corona francese. La popolazione sapeva che la strage avrebbe suscitato la reazione ancor piú violenta del re francese e fu perciò mobilitata la milizia cittadina, inviando richieste di aiuto alle altre città fiamminghe. Di queste, la sola Gand, rivale di Bruges, rifiutò di prestare soccorso. Presero il comando dell’esercito Guy di Namur e Willem van Jülich, rispettivamente figlio e nipote di Guido di Dampierre, imprigionato da Filippo il Bello due anni prima, per essersi ribellato. Dopo la rivolta di Bruges i Fiamminghi putarono su Oudenaarde e poi su Courtrai, che fu presa d’assedio il 26 giugno, per liberarla dal controllo francese. Filippo inviò dunque un’armata per sedare la rivolta e, l’11 luglio, i due eserciti si trovarono schierati fuori dalle mura della città assediata. La battaglia è stata narrata da diversi cronisti dell’epoca e, per il suo risultato straordinario, divenne un vanto della storiografia fiamminga.

In alto miniatura raffigurante la battaglia di Courtrai (o degli Speroni d’Oro), dalle Grandes Chroniques de France. Fine del XIV sec. Londra, British Library. Nella pagina accanto gli schieramenti francesi e fiamminghi a Courtrai. In basso punte degli «spiedi» utilizzati dai Fiamminghi e ribattezzati «goedendag». Courtrai, Kortrijk 1302.

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Fiamminghi Francesi

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Campo francese

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L’esercito fiammingo contava, verosimilmente, tra gli 8000 e i 10 000 effettivi, perlopiú fanti, protetti da una cotta di maglia e armati di picche, spade e una sorta di spiedo che, da quel giorno, fu detto«goedendag» («buongiorno»); in campo scesero anche alcuni balestrieri e nobili a cavallo. I Francesi, guidati dal conte di Artois, Roberto, schierarono invece 4-5000 fanti e 3000 cavalieri pesanti, il fiore della nobile cavalleria. Molti di questi signori, per fare sfoggio del loro prestigio e della loro ricchezza, indossavano speroni d’oro, che hanno poi dato nome allo scontro. (segue a p. 62)

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la guerra nel medioevo/4 In basso cassa detta «di Courtrai», poiché sulla fronte è decorata a intaglio con scene che raffigurano appunto la battaglia combattuta nel 1302 da Fiamminghi e Francesi. XIV sec. Oxford, Ashmolean Museum.

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I Fiamminghi si schierarono con il fiume alle spalle e i fossi d’irrigazione di fronte, su un’unica lunga linea. Roberto d’Artois ordinò invece su tre schiere i suoi uomini. Dopo uno scambio di tiri di balestra, la fanteria francese avanzò, rintuzzando, con una certa facilità, le truppe avversarie. Prima che i fanti potessero avere ragione delle milizie fiamminghe, Robert d’Artois le fece però indietreggiare, per lasciare ai cavalieri il piacere di completare l’opera. Ma la carica dei nobili non riuscí a sfondare la compatta massa dei Fiamminghi. Al fallimento del primo assalto fece eco il secondo, che aggiunse solo caos e impaccio.

I fanti fiamminghi fecero quadrato e iniziarono a disarcionare a colpi di picca i cavalieri nemici. Il disastro fu completo quando molti Francesi vennero scaraventati nei fossi di irrigazione, dove morirono affogati o furono finiti dai fanti fiamminghi, i quali, beffardamente, prima di ucciderli, gli urlavano: «Goedendag!». Oltre la metà dei nobili francesi, compreso Roberto d’Artois, rimase sulla piana di Courtrai e gli speroni d’oro furono staccati dalle armature dei caduti e portati in trionfo a Bruges. La fanteria cittadina aveva sconfitto la cavalleria pesante del re di Francia: si apriva una nuova epoca della guerra medievale.

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Basilica di Saint-Denis (Parigi). Particolare della tomba di Roberto II d’Artois, caduto a Courtrai l’11 luglio 1302.

se a suon di picche (vedi box alle pp. 60-62). Nel 1311, alla battaglia presso il lago di Copaide (Grecia), una fanteria catalana armata alla leggera e una piccola unità di cavalleria sconfissero le truppe di cavalleria e fanteria pesanti del duca d’Atene, Gualtiero V di Brienne.

I corni di Scipione

A Campaldino, nel 1289 (vedi «Medioevo» n. 197, giugno 2013; anche on line su medioevo.it), la fanteria guelfa accerchiò la cavalleria feudale ghibellina, con a capo Arezzo, in una morsa letale: protetti dai lunghi pavesi, i Fiorentini e i guelfi avevano lasciato «di costa da ciascuna ala della schiera de’pavesari e de’balestrieri, e di pedoni a lance lunghe». Una tattica mutuata dalla strategia romana, e, in particolare, dai corni di fanteria del tempo di Scipione: si combatté «alla maniera degli antichi», come scrisse Dino Compagni. «E coll’ ale ordinate da ciascuna parte de’ pedoni, rinchiusono tra di loro i nemici, combattendo aspra pezza». In Inghilterra, Edoardo I utilizzò la fanteria nelle campagne contro il Galles, terra in cui la cavalleria pesante era ostacolata da colline e montagne. Ai pochi cavalieri, il Plantageneto affiancò arcieri, bale-

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strieri, carpentieri e fossori, e, grazie alla costruzione di piccole fortificazioni e avamposti, il re ottenne successi decisivi. La Scozia, invece, oppose una resistenza fortissima: la regione era animata da forti sentimenti indipendentisti (vedi «Medioevo» n. 212, settembre 2014; anche on line) e gli Scoti combattevano in formazioni dette schiltrons, squadroni quadrati o circolari, composti da soldati armati di picca o lancia. Non trattandosi di professionisti, ma di contadini, la tipologia e la qualità delle loro armi variavano considerevolmente: gli uomini delle prime linee erano solitamente protetti da una cotta di maglia e da un elmo, mentre le schiere seguenti indossavano protezioni in cuoio o solo parti di maglia metallica. Dopo i primi successi riportati da Edoardo I nel 1296, l’invasione della Scozia ebbe inizio nel 1298, con 3000 cavalieri pesanti e 13 000 fanti, 10 000 dei quali erano arcieri armati alla leggera. La disfatta patita a Stirling Bridge (1297), per mano di William Wallace, mostrò tuttavia quanto la cavalleria inglese fosse vulnerabile; un anno piú tardi, invece, presso Falkirk, la cooperazione tra arcieri e cavalieri diede la vittoria a Edoardo (vedi box alle pp. 64-65).

Nel 1307, all’indomani della morte del sovrano, suo figlio, Edoardo II, abbandonò la campagna contro la Scozia e Robert Bruce approfittò del vuoto di potere che si era venuto a creare. Cosí facendo, provoco però la reazione dell’Inghilterra: Robert decise allora di seguire l’esempio di Wallace e organizzò i suoi 6000 fanti in tre schiltrons. Il 24 giugno del 1314, a Bannockburn, la cavalleria inglese «cozzò contro le picche scozzesi, come contro un bosco secco. Ciò provocò una grave e orribile morte di cavalli, mentre altri rimasero bloccati per un lungo tempo» come si legge nella Cronaca di Lanercost. Gli arcieri inviati da Edoardo per disperdere gli schiltrons furono annientati da una riserva di cavalleria scozzese lanciata solo a questo punto da Robert Bruce: fu la mossa che decretò la vittoria.

Edoardo III alla riscossa

La sconfitta, però, serví di lezione agli Inglesi e il nuovo re, Edoardo III, ricorrendo all’impiego congiunto di arcieri e cavalieri smontati, ottenne le sue piú brillanti vittorie, sempre contro eserciti numericamente superiori: Halidon Hill (1333), Crécy (1346), Nevil(segue a p. 66)

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Falkirk, il trionfo degli arcieri Nella pagina accanto ricostruzione degli schieramenti e dei movimenti delle truppe nella battaglia di Falkirk (22 luglio 1298). Il grosso delle truppe scozzesi è schierato in quattro grandi formazioni statiche, gli schiltrons (A); fra l’una e l’altra si trovavano gli arcieri (B), mentre William Wallace e la sua cavalleria (C) erano tra il fianco destro dei lancieri e il bosco di Callendar. La cavalleria inglese formò quattro batailles: sul fianco sinistro (D), quella di Giovanni di Varenne; alla sua destra, gli uomini guidati da Henry de Lacy, Humphrey de Bohun e Roger Bigod; sul fianco destro, i reparti di Anthony Bek e dello stesso re Edoardo. Queste formazioni attaccarono gli Scozzesi, anche se Lacy, Bohun e Bigod (E) furono costretti a ripiegare sulla sinistra da un tratto paludoso del Glen Burn. La cavalleria di Wallace fu infine respinta e per la maggior parte fuggí attraverso il bosco (F). I cavalieri inglesi attaccarono allora gli schiltrons, senza però riuscire a sfondare. Fu decisivo il successivo attacco degli arcieri, che abbatterono le formazioni statiche scozzesi. Nei riquadri sono illustrati un cavaliere inglese che attacca un arciere scozzese in fuga (1) e un segmento di uno schiltron pronto al combattimento (2).

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In alto Il Gioco del Ponte dei Pisani. Dipinto di scuola italiana, XVII sec. Firenze, Museo Stibbert.

Le battagliole

Giochi di guerra Tra il 1000 e il 1300 gli eserciti delle città medievali, che non avevano alcun tipo di inquadramento organizzativo finalizzato all’addestramento, erano in larga parte formati da strati sociali diversi. Ma se i nobili erano soliti trascorrere gran parte del proprio tempo a cavallo – per cacciare e combattere – chi andava a ingrossare le fila della fanteria non aveva occasione per esercitarsi. Nel Basso Medioevo, con forme diverse, i Comuni idearono perciò battaglie simulate dette «battagliole», cioè battagliucce, scaramucce. Equipaggiati con armi in legno, i contendenti, si scontravano in piazza, sui ponti, con un accanimento dettato anche dall’appartenenza alle diverse fazioni, ai diversi rioni. Nel 1387, sul ponte di Santa Trinita, a Firenze, la battagliola divenne il pretesto per una resa dei conti tra famiglie rivali fiorentine, Strozzi e Capponi. A Pisa, si combatteva il «giuoco del mazzascudo», nel quale due squadre, del Gallo e della Gazza, si affrontavano sul ponte di Mezzo. A Venezia, infine, sui ponti che attraversavano i canali, si combattevano le «guerre di canne», scontri di poco conto, ma tenuti in grande considerazione. La Serenissima le organizzava in concomitanza con eventi eccezionali, come accadde in occasione di una visita del duca di Ferrara, o di quelle di alcuni ambasciatori giapponesi e diplomatici turchi.

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l’araldica

Mostrami lo scudo e ti dirò chi sei Tra il XII e il XIII secolo, sugli scudi dei cavalieri iniziano a comparire simboli e disegni, talvolta semplici schemi di colori, in altri casi figure di animali – reali o fantastici –, che preannunciano l’introduzione dell’araldica. Sul finire del 1100, infatti, attraverso i tornei medievali, incontriamo i primi araldi che, dopo aver radunato i cavalieri, ne annunciavano l’entrata in campo e alla fine proclamavano il vincitore. Siamo in un periodo di scarsa alfabetizzazione e quindi piú che le parole, parlavano i disegni. Gli araldi dovevano conoscere bene gli stemmi e i simboli araldici, giacché il viso del cavaliere era nascosto (anzi, celato!) dalla celata dell’elmo. Non dobbiamo perciò stupirci del fatto che gli araldi stilassero elenchi con i simboli di tutti i partecipanti e che annotassero gli stemmi dei principi, dei sovrani e dei loro vassalli, dando cosí vita alle prime raccolte di insegne, basate sulla composizione e divulgazione di descrizioni costituite dal minor numero possibile di parole (pur mantenendo l’univocità dell’individuazione). I simboli potevano evocare la forza (come un leone, l’animale piú diffuso negli stemmi), o essere legati verbalmente al nome della stessa famiglia (le pere dei Peruzzi, le rondini dei Rondinelli), le cosiddette «arme parlanti». Sugli scudi e sulle gualdrappe, oltre allo stemma familiare, potevano aggiungersi simboli che mostravano l’orientamento politico, per esempio il «rastrello» rosso degli Angiò o il «capo» dell’impero, l’aquila nera su sfondo oro. In caso di matrimoni, lo stemma avito poteva «inquartarsi» o «partirsi» con quello della casata acquisita, dando luogo a ulteriori complicazioni di lettura. La battaglia di Benevento (26 febbraio 1266) in una vignetta tratta dall’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani. 1350-1375. Città del Vaticano,

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Biblioteca Vaticana. Da notare, sugli scudi, il «rastrello» rosso degli uomini di Carlo I d’Angiò e l’aquila nera degli imperiali guidati da Manfredi, re di Sicilia.

le’s Cross (1346), Poitiers (1356) e Najera (1367). In tutte queste battaglie, infatti, gli Inglesi ebbero la meglio grazie all’uso massiccio dell’arco lungo e al coordinamento tra fanteria leggera, arcieri e men-atarms: tale strategia diede i suoi frutti migliori nel lungo conflitto con la Francia, la Guerra dei Cent’Anni. L’evoluzione delle truppe appiedate aprí una nuova strada per l’arte della guerra. Tramontata l’epoca del divario tra nobili (cavalieri) e contadini (fanti), nacque la figura del nobile coperto di armatura bianca, in piastre metalliche, tale da garantirgli una difesa totale, il man-at-arms, e quella della fanteria pesante. Perfino re Enrico V, ad Azincourt (25 ottobre 1415), smontò da cavallo dopo aver pronunciato il suo discorso, per combattere a fianco dei suoi, a piedi. E gli squadroni di fanti svizzeri divennero un modello tattico che fece scuola nei secoli finali del Medioevo, che saranno argomento della prossima e ultima puntata di questo viaggio tra gli eserciti dell’età di Mezzo. F

NEL PROSSIMO NUMERO ● La fine del Medioevo: Stati, cannoni e mercenari maggio

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saper vedere padova

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Voluto, innanzitutto, come sede delle attività giudiziarie, lo splendido edificio che per i Padovani fu, fin da subito, il «Salone», si caratterizza per lo straordinario ciclo affrescato che ne orna le pareti. Un racconto per immagini vivace e articolato, che descrive l’influsso degli astri e dei cicli cosmici sulla vita dell’uomo 68

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Nel palazzo delle stelle

Una delle pareti affrescate del Palazzo della Ragione. Il grandioso ciclo fu realizzato tra il 1420 e il 1425 da Niccolò Miretto, in sostituzione del precedente, dipinto da Giotto e andato distrutto a causa di un incendio.

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di Furio Cappelli 69


saper vedere padova

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l Palazzo della Ragione di Padova era già una solida realtà, quando il giudice-cronista Giovanni da Nono (1275 circa-1346) lo presentò sotto forma di una visione. Nella Visio Egidii Regis Pataviae, immaginò, infatti, che un angelo fosse sceso a confortare il mitico re Egidio, dopo che era fuggito a Rimini, mentre la «sua» Padova veniva cancellata dalle fiamme appiccate dal feroce Attila. E che, per infondere speranza al re affranto, l’angelo avesse cantato le lodi della città destinata a risorgere dalle rovine, ben piú grande e splendente di quella annientata dal re unno. L’angelo passò dunque in rassegna la cerchia delle mura urbiche, le case e torri gentilizie, i mercati e i palazzi pubblici. Tra questi ultimi, si soffermò sull’edificiosimbolo principale, il Palazzo della Ragione, prevedendo che sarebbe stato innalzato poco prima della salita al trono imperiale di Federico II di Svevia: il sovrano, infatti, venne incoronato dal papa nel 1220, mentre il palazzo era già stato realizzato tra il 1218 e il 1219. L’area prescelta dai Padovani era interessata dal corso di un ruscello e da uno specchio d’acqua, presso il quale gli abitanti erano soliti andare a pesca. «Questo palazzo occuperà un’area pari ad un campo. Le fondamenta di esso saranno fatte con grandi pietre squadrate, legate insieme con ferro e piombo. La larghezza di tali fondazioni sarà di quattro piedi e quella del muro, costruitovi sopra, di tre. Ma l’altezza

Nella pagina accanto, in alto pianta di Padova, in cui al centro, facilmente riconoscibile dalla sagoma bombata della copertura, è il Palazzo della Ragione. XVII sec. Padova, Biblioteca Civica.

del muro, compresi i merli, sarà di sessanta cubiti». La grande mole dell’edificio, tutto realizzato in laterizio, sarebbe stata impreziosita dal marmo rosso di Verona, sia sulle colonnine delle finestre, sia sulle quattro rampe di scale simmetriche che avrebbero dato accesso al piano nobile, direttamente dalle piazze prospicienti: due sul fronte meridionale, verso la piazza delle Erbe, e due sul fronte settentrionale, verso la piazza della Frutta. In capo alle

Dove e quando Palazzo della Ragione Padova, piazza delle Erbe Orario feb-ott: tutti i giorni: 9,00-19,00; nov-gen: tutti i giorni, 9,00-18,00; chiuso il lunedí; su prenotazione, è possibile anche visitare i sotterranei, laddove recenti scavi archeologici hanno individuato una domus romana e le probabili fondazioni del piú antico palazzo pubblico, attestato nel XII secolo Info tel. 049 8205006; www.padovanet.it; http://padovacultura.padovanet.it

La facciata del Palazzo della Ragione che prospetta su piazza della Frutta. La costruzione dell’edificio prese avvio nel 1218 e si concluse nell’anno successivo.

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scale, quattro solenni portali, con il frontone sostenuto da grandi colonne anch’esse di marmo, avrebbero portato all’aula in cui si sarebbe amministrata la giustizia. Oggi quegli ingressi non sono piú impreziositi dalle colonPADOVA ne marmoree, ma presentano sul timpano quattro bassorilievi quattrocenteschi dedicati a letterati illustri della città. Varcata la soglia, si entra in un unico, vastissimo ambiente, tanto che l’intero palazzo è noto ai Padovani come il Salone della città. All’epoca di Giovanni da Nono, bancate di legno e tramezzi di muratura ne suddividevano invece lo spazio, per ricavare settori e ambienti ben distinti. Sul lato orientale, per esempio, come attestano gli affreschi

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superstiti a tema religioso sulla fascia inferiore della parete, era situata una cappella. Sui fronti maggiori, lungo le pareti rivolte alle piazze, si succedevano le cattedre lignee destinate ai giudici.

A ciascuno il suo disco

Ciascun magistrato era addetto a un comparto (disco) reso immediatamente riconoscibile dall’insegna dipinta sulla parete (quelle oggi osservabili sono in larga parte rifacimenti settecenteschi di pitture già rinnovate nel XIV e nel XV secolo). Secondo questo sistema ingegnoso, deliberato nel 1271, ogni tribunale era intitolato a un animale desunto dal consueto repertorio dei bestiari medievali, senza disdegnare gli esseri di pura fantasia, come il drago o l’unicorno. In questo modo, i (segue a p. 74)

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Il monumento in sintesi

Simbolo dell’orgoglio cittadino 3 Perché è importante Il Palazzo della Ragione di Padova è una delle piú cospicue residenze superstiti del potere pubblico medievale. La sua rilevanza non è solo dovuta alle sue ampie dimensioni, ma alla sua scrupolosa articolazione in stretto rapporto con gli ambienti della vita economica. Il piano nobile, grazie alle soluzioni tecniche e agli apporti decorativi del Tre-Quattrocento, costituisce uno sgargiante insieme di rara completezza. 3 Il Palazzo della Ragione nella storia Segno eloquente di autonomia, orgoglio e intraprendenza, il Palazzo della Ragione segna il culmine della vicenda del libero Comune della Padova medievale. L’edificio, infatti, trae ragion d’essere dalle decisioni di una comunità che riesce a creare e a mantenere un proprio spazio di vitalità politica e commerciale, senza

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subire imposizioni da forze esterne o da poteri signorili, fatta salva la parentesi del dominio ghibellino di Ezzelino III da Romano. 3 Il Palazzo della Ragione nell’arte La fase originaria si ricollega agevolmente alla tradizione dei palazzi civici dell’area padana. Grazie all’apporto di Fra’ Giovanni degli Eremitani, gli aspetti piú originali dell’edificio, in rapporto alla realtà civica, vengono esaltati con grande sapienza tecnica e formale. Perso l’originale giottesco, il ciclo astrologico di Niccolò Miretto è comunque un complesso pittorico straordinario per estensione e per accuratezza.

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A destra santa Giustina, compatrona della città di Padova, raffigurata in cattedra, nella fascia ad affresco che corre sopra alla porta della Scala del Vino. XIV sec. Nella pagina accanto una veduta del Salone. In origine, il vasto spazio (80 x 27 m), non si presentava come un unico ambiente, ma era suddiviso in piú comparti da bancate in legno e tramezzi in muratura. In basso spaccato dell’edificio, che ne illustra l’articolazione e sottolinea la caratteristica sagoma del tetto, che lo rende simile allo scafo di un’imbarcazione.

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saper vedere padova convenuti, sia pure analfabeti, erano in grado di riconoscere con facilità il disco nel quale risiedeva il giudice preposto alla causa di proprio interesse. Come un monito inquietante, al centro della sala era situata la pietra del Vituperio (oggi trasferita in un angolo). Già attestata nel 1261, la pietra è, in sostanza, un singolare sedile a forma di campana che sormonta un podio di tre gradini. Il nome deriva dall’epigrafe che si legge tutt’intorno: Lapis vituperii et cessionis bonorum. Il debitore insolvente era costretto a sedervisi, di fronte a una folla vociante opportunamente adunata, scalzo e vestito solo di camicia e mutande. La messa alla berlina prevedeva poi tre giri intorno alla pietra, durante i quali il condannato gridava: «Cedo bonis!» («Rinuncio ai beni!»), con ciò accettando la procedura di esproprio ai suoi danni. Era poi costretto all’esilio e poteva rientrare con il consenso dei creditori, ma, in caso di recidiva, avrebbe subito nuovamente l’onta del vituperio, con l’aggiunta di una serie di secchiate di acqua gelida.

Giotto: un nome, una garanzia

Tra il 1310 e il 1346, proprio sulle cattedre del Salone aveva esercitato la propria professione il nostro giudice-cronista Giovanni da Nono, il quale, nella sua «visione profetica», ricorda il ciclo pittorico che alla sua epoca coronava le pareti. Era un’opera che aveva visto allestire con i propri occhi, affidata a un maestro di indiscussa levatura, Giotto, già ben noto a Padova per gli affreschi che Enrico Scrovegni gli aveva commissionato per la propria cappellamausoleo dell’Arena (1303-1305; vedi «Medioevo» n. 201, ottobre 2013, anche on line su medioevo.it) e per avere lavorato anche al Santo, ossia presso la basilica francescana di S. Antonio, realizzando alcuni affreschi oggi perduti. Il vastissimo lavoro di decorazione svolto presso il Palazzo della Ragione, d’altro canto, fu distrutto da un furioso incendio scoppiato nella notte del 2 febbraio 1420. Un testimone, l’umanista Sicco Polenton, scrisse a ridosso del tragico evento, otto giorni dopo: «[Il palazzo fu] consunto dopo appena duecento anni, mentre noi lo ritenevamo perpetuo! In un batter d’occhio le travi di larice, vetuste, arsero in una fiammata, e la volta eminente crollò col piombo liquefatto. [il soffitto ligneo, allora come oggi, era infatti completamente rivestito sull’esterno da lastre di piombo, n.d.a.]. Tanta massa di legname in sole tre ore fu divorata da un fuoco cosí rapido che di quanti erano accorsi, chiamati dalle grida e dal suono delle trombe e delle campane, molti vi-

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MARZO (Ariete) Il ciclo affrescato inizia con il mese primaverile, del quale sono qui illustrati i i primi riquadri. Nella fascia in alto, un airone e una cortigiana; a sinistra, l’apostolo Andrea; a destra, due cavalieri con falcone e, in basso, un vescovo tra due dame. Nel 1440, il medico Michele Savonarola, che ne fu seguace, ricondusse al medico e filosofo Pietro d’Abano l’ispirazione di questa grandiosa composizione: d’Abano, infatti, pur ammettendo che Dio fosse la causa prima di ogni cosa, sosteneva che le «cause seconde», individuate dalla scienza astrologica, agivano sulla realtà a prescindere dall’intervento divino.

dero le ceneri, pochissimi il fuoco. Periti i dipinti di Giotto e le cattedre dei giudici! Tutti ora vanno errando smarriti per strade della città, come colombi scacciati dal nido. E che dire della distruzione dei documenti? Mancando gli scritti che parlavano ora risorgeranno le liti che ormai tacevano». Non si hanno certezze sulla tecnica adottata da Giotto per la sua opera. Si trattò forse di un ciclo affrescato, come quello realizzato in sua sostituzione all’indomani del disastro, ma poteva anche trattarsi di un lavoro direttamente montato sulla struttura lignea del soffitto, costimaggio

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tuito da tavole dipinte a tempera e incorniciate, come un gigantesco polittico. In ogni caso, Giovanni da Nono attesta che i dipinti erano a carattere profano, componendo un grande «almanacco» di astrologia, come gli affreschi quattrocenteschi che possiamo oggi ammirare.

Sotto un manto di stelle

A completamento della decorazione, il soffitto era già rivestito di un manto di stelle dipinto su tavola, ripristinato durante i lavori di restauro del 1420-25, allorché si

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contarono oltre 7000 stelle d’oro su fondo blu. Il nuovo soffitto, invece, corrispondente alla struttura attuale e messo in opera dopo i gravi danni causati dalla tromba d’aria del 1756, è completamente spoglio. Il manto stellato fungeva da raccordo e da naturale coronamento del ciclo astrologico, ma era anche coerente con l’ispirazione generale dell’edificio, soprattutto nella forma definitiva assunta nel Trecento. L’ingegnoso frate-architetto Giovanni degli Eremitani aveva sperimentato nella chiesa padovana dei pro-

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saper vedere padova CRONOLOGIA 1166 Prima menzione di un palazzo comunale padovano, probabilmente sul luogo dell’attuale Palazzo della Ragione. 1174 Un incendio distrugge centinaia di case della città, in gran parte edificata in legno. Padova risulta avere 15 000 abitanti. 1175 Il podestà forestiero subentra al Collegio dei Consoli nel governo comunale. 1215-1216 Gli statuti comunali prevedono norme «antimagnatizie» a tutela dei diritti del popolo. 1218 Prende l’avvio l’erezione del Palazzo della Ragione, che viene concluso l’anno seguente. 1237-1256 Dominio di Ezzelino III da Romano, fiancheggiato dall’imperatore Federico II di Svevia. 1271 Vengono disposte le insegne che all’interno del Salone dovevano distinguere i diversi tribunali, con il ricorso a una serie di animali-simbolo. 1281 Viene completato il Palazzo del Podestà. La città ha una popolazione di 27-30 000 abitanti. 1285 Vengono completati il Palazzo del Consiglio e il Palazzo degli Anziani. 1303-1305 Giotto è all’opera presso la Cappella degli Scrovegni. 1306-1309 Fra’ Giovanni degli Eremitani provvede alla sopraelevazione del Palazzo della Ragione, in funzione del nuovo soffitto carenato. 1319 ca. Lo stesso Fra’ Giovanni porta a compimento i due portici con loggiato sui fronti rivolti alle piazze. 1338 Con l’ascesa al potere di Ubertino, si apre il periodo della signoria dei Carraresi. 1405 Padova passa sotto il dominio di Venezia. 1420, Durante la notte, da una bottega situata nel mezzanino, 2 febbraio si sviluppa un gigantesco incendio che provoca gravissimi danni al Palazzo della Ragione. 1420-1425 Lavori di restauro con l’appoggio del governo veneziano. Il soffitto viene ricostruito su direzione dell’ingegnere navale Bartolomeo Rizzo. Il ciclo astrologico viene ridipinto in toto dal padovano Niccolò Miretto. Le coperture lignee dei portici e delle logge vengono sostituite da soffitti a volta. Vengono realizzate le balaustre delle logge stesse e delle scalinate, in candida pietra d’Istria e marmo rosso di Verona. 1433 Risultano già eseguiti i portichetti di aggiunta sui prospetti principali. 1756, Una tromba d’aria scoperchia il palazzo, imponendo la quasi 17 agosto totale ricostruzione del soffitto. 1819 Su donazione di Giovan Battista Belzoni, il Salone si arricchisce di due statue egizie del XIII secolo a.C., oggi trasferite ai Musei Civici. 1837, Su donazione di Giorgio e Giordano Capodilista, il palazzo 11 dicembre accoglie il grande cavallo ligneo da parata, opera quattrocentesca di anonimo artefice. Durante il rimontaggio, viene sottoposto a restauri e a integrazioni. 2005 Giunge a termine il minuzioso restauro del ciclo astrologico.

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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MARZO (Ariete) La parte finale della sezione dedicata al mese di Marzo (a sinistra). Nella fascia in alto, una casa con un topo nel solaio e, a destra, due donne litigiose; al centro, Marte in trono e un ponte che attraversa un fiume vorticoso; in basso, un arrotino e il laboratorio di un fabbricante di balestre. APRILE E MAGGIO Una sequenza delle scene religiose interposte tra i mesi di Aprile e di Maggio (a destra). Nella fascia in alto, l’allegoria della Teologia e la raffigurazione della Pace; al centro, il Sangue di Cristo che sgorga da una croce posta su un altare, a destra l’adorazione dell’Agnello. Le due immagini sono separate da un sole dorato in rilievo; in basso, un edificio merlato, a destra un sacerdote asperge il sangue di Cristo su alcuni fedeli.

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pri confratelli (Eremiti di sant’Agostino o Agostiniani) un articolato soffitto a sezione polilobata, che doveva richiamare la forma della carena di una nave. La volta lignea cosí articolata si prestava a coprire la vasta aula con un forte senso di audacia tecnica e di esaltazione dello spazio. E i Padovani, nel 1306, pensarono bene di coinvolgere Fra’ Giovanni, per rendere ancor piú avvincente la mole del Palazzo della Ragione. La sua perizia nell’allestire soffitti di effetto su ampie superfici suggeriva infatti di riconfigurare l’edificio proprio in funzione di una copertura assai originale e impegnativa. Le pareti furono rialzate di 6 m, ma non si cercava di competere in altezza con le altre componenti del paesaggio urbano. Si cercava bensí di realizzare una forma inconfondibile, tale da spiccare con maggior forza nello scenario delle due piazze del mercato, che erano (e sono tuttora) il fulcro della vita economica e sociale della città. Il soffitto carenato, con le sue profilature a sesto acuto e la sua forma bombata, magnificava il palazzo sia

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FEBBRAIO (Pesci) Una sezione degli scomparti del mese finale del ciclo (a destra). Nei riquadri superiori, un dromedario alato e un’allegoria della costellazione del Sacrarium; al centro, due scene di investitura che simboleggiano l’autorità religiosa; nella fascia inferiore, due Sapienti a confronto e un nobile che dona il mantello a un povero. DICEMBRE (Capricorno) La fascia finale della sezione dedicata al mese invernale (nella pagina accanto). In alto, una coppia di amanti stretti in un amplesso (si nota il resto della pittura sovrapposta per «censura»); al centro, grandeggia Saturno; in basso si osserva un uomo triste che legge. Nella fascia a fianco, in apertura del mese di gennaio, una montagna sormonta l’effigie di san Pietro.

all’interno che all’esterno. Fu sigillato da costose lastre di piombo e contornato da una merlatura a pinnacoli assai particolare, di vaga ispirazione orientale, che competeva con gli analoghi esotismi del Palazzo Ducale di Venezia, l’eterna rivale di Padova. La decorazione astrologica di Giotto, corredata dal manto di stelle, dava al Salone una chiara dimensione cosmica e ne faceva una sorta di gigantesca nave che solcava trionfalmente le vie del cielo. L’effetto non era fine a se stesso, ma perfettamente attinente alla rigorosa «macchina» dell’amministrazione della giustizia. Dice infatti il giurista Giovanni da Viterbo (XIII secolo), richiamato dagli studiosi Maria Beatrice Rigobello e Francesco Autizi: «Come il navigante dirige e governa la nave con l’albero e con il timone, cosí il podestà dirige e governa la città con la giustizia e il diritto». E dal momento che, in base alla scienza astrologica, leggere la mappa del cosmo consente di penetrare la natura di

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ogni individuo e di svelarne le inclinazioni, proprio la raffigurazione dello Zodiaco si presta bene a esaltare il ruolo del giudice, chiamato a valutare gli atti e la personalità degli uomini.

Il rapporto con il mercato

Tanta profusione di scienza e di arte era frutto di un impegno comunitario, e il fascino del Palazzo della Ragione sta proprio nella sua capacità di innervare una raffinata sapienza filosofica ed estetica nel vivo della realtà padovana. Il Salone, infatti, è il culmine delle piazze, integra l’ambiente urbano senza isolarsi ed è letteralmente permeato dalla vivace realtà del mercato, come già nella originaria concezione duecentesca. Come già ricordato, l’aula di giustizia è collegata da scaloni esterni. Un passaggio trasversale collega nel mezzo dell’edificio le due piazze e interseca le botteghe che si susseguono lungo i lati principali. I portici piú an-

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A sinistra particolare della sezione dedicata al mese di Gennaio, con una scena di vita familiare. Nella pagina accanto particolare raffigurante il segno zodiacale del Cancro.

tichi sono inseriti nel solido volume della struttura duecentesca, mentre Fra’ Giovanni aggiunge su entrambi i lati due nuovi portici con loggiato che ampliano il volume dell’edificio, coinvolgendo ancor piú le piazze su cui prospetta. Non si potrebbe raffigurare meglio la straordinaria coesione tra vita politica, amministrazione della giustizia ed economia in una florida e popolosa città comunale del Medioevo italiano. Come se non bastasse, i quattro scaloni che collegano l’aula di giustizia prendono nome dal genere delle merci vendute nei pressi: gli Osei (uccelli), il Vin, le Erbe e i Ferri. Al Salone si accede salendo la Scala dei Ferri che dà su Piazza delle Erbe. La porta corrispondente è sormontata dall’effigie scultorea di Pietro d’Abano (1255 circa-1315 circa), il medico e filosofo che fu grande protagonista dell’ambiente universitario padovano. Viaggiatore nelle terre d’Oriente, profondo studioso di Averroè (1126-1198) e della cosmologia araba, ebbe vita difficile nel difendere le sue convinzioni riguardo agli

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influssi degli astri sulle attitudini e sui destini dell’uomo. Pietro, infatti, non negava che Dio fosse la causa prima di ogni cosa, ma non ammetteva che tutto fosse riconducibile direttamente alla sua volontà: in base al proprio pensiero, le «cause seconde», individuate dalla scienza astrologica, agivano sulla realtà a prescindere dall’intervento divino.

La città difende l’«eretico»

La Chiesa, naturalmente, contrastò le sue teorie. Lo scienziato morí nel corso del terzo processo intentato a suo carico dall’Inquisizione, e subí una condanna per eresia post mortem, cosicché la sua salma fu dissepolta e messa sul rogo. Ma la città rimase sempre al suo fianco e lo difese costantemente, serbandone la memoria con orgoglio. In particolare, il medico suo seguace Michele Savonarola, nel 1440, riconduce a lui l’ispirazione del ciclo astrologico che Giotto realizzò nel Salone: quello stesso ciclo che, dopo la distruzione del 1420, fu poi rimaggio

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proposto nella forma attuale dal pittore padovano Niccolò Miretto, in collaborazione con un maestro ferrarese non meglio identificato. Il ciclo pittorico che oggi si può ammirare è ricchissimo e sorprendente. Sono rari gli accenti «moderni» di gusto tardo-gotico, come se prevalesse la volontà quasi «filologica» di riproporre lo stile e l’impaginazione del ciclo perduto. Lo sviluppo complessivo sulle quattro pareti impegna un «circuito» di 217 m, senza soluzione di continuità. Le 319 scene sono in massima parte ripartite su tre fasce, lungo sequenze di 9 comparti (3 x 3), secondo un concetto generale di trasparente riferimento simbolico, dal momento che 3 è il numero perfetto della Trinità. Ogni mese è introdotto dalla raffigurazione di uno dei dodici Apostoli, a rimarcare il ruolo della «causa prima» (Dio) nei destini dell’uomo. La stessa volontà di stabilire un nesso diretto tra astrologia e Rivelazione è data da una sequenza di immagini a carattere religioso e da singole scene (l’Elemosina di San Marco, in omaggio a Venezia, e l’Incoronazione della Vergine) che si interpongono nella rappresentazione dei Mesi.

Il ciclo delle stagioni

Il ciclo prende avvio dall’angolo sud-orientale, con il mese di Marzo. A est, infatti, sorge il sole, e Marzo apre la primavera, e con essa il ciclo delle stagioni, all’insegna del risveglio, della ritrovata vigoria, che può spingere anche a comportamenti violenti o collerici. Come in ogni mese, dopo la raffigurazione dell’Apostolo (in questo caso Sant’Andrea), che impegna lo spazio corrispondente a due fasce, nella fascia centrale spiccano la personificazione del mese stesso, il segno dello Zodiaco e la personificazione del pianeta corrispondente. Di fianco a una elegante scena cortese con due giovani cavalieri con falcone, Marzo ha le solari sembianze di un robusto cacciatore che suona due corni. L’Ariete è raffigurato in salita, perché inizia a esercitare la sua influenza. Marte, dalla testa raggiata, si presenta come un guerriero vestito all’antica, solennemente seduto in trono. Tutt’intorno, si snoda l’evocazione dei caratteri connessi, insieme a scene dedicate ai mestieri, secondo la tradizione iconografica dei ca-

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lendari medievali. Queste ultime, vivaci e dettagliate, punteggiano la fascia inferiore, dove troviamo un pescivendolo e un arrotino. Ma è l’evocazione dei caratteri che stupisce e affascina, per varietà di soggetti e di ispirazione. Dall’alto verso il basso, per esempio, scorrendo le fasce, si incontrano una donna nuda adagiata sul letto, un’evocazione del mitico Ercole, una scena di infanticidio, una casa deserta con un topo nel solaio, due enigmatiche grotte, un cavaliere che si accanisce contro una donna calpestandola con gli zoccoli della propria cavalcatura, un suicida. Tra i tanti episodi di presa immediata che si incontrano, mese dopo mese, basterà ricordare la «conturbante» scena degli amanti (Dicembre), in seguito censurata con la sovrapposizione di una immagine di dama in posa stante, oppure l’intensa scena di gruppo ambientata all’interno di una casa, di fronte al fuoco, per simboleggiare il mese di Gennaio. Per gli aspetti piú sottili ed «esotici», si possono ricordare i singolari richiami alla figura del dromedario, presente anche in versione alata (Febbraio), o l’immagine emblematica di un tipico mausoleo islamico (Giugno). In simili dettagli si coglie bene un’agguerrita cultura enciclopedica, che unisce l’Oriente all’Occidente nel segno della grandezza di Padova. D’altronde, a prestar fede a un generoso cronista del Quattrocento, Paolo Ongarello, lo stesso Fra’ Giovanni degli Eremitani, per realizzare il fantastico soffitto carenato, aveva preso spunto da un edificio visitato durante un viaggio nella lontana India. F

Da leggere U Serena Romano, La O di Giotto, Skira,

Milano 2008 U Elisabetta Antoniazzi Rossi (a cura di), Il Palazzo

della Ragione a Padova, Skira, Milano 2007 U Maria Beatrice Rigobello, Francesco Autizi,

Palazzo della Ragione di Padova. Simbologie degli astri e rappresentazioni del governo, Il Poligrafo, Padova 2008

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di Furio Cappelli

A sinistra ritratto di Federico III d’Asburgo. Olio su tavola, fine del XV-inizi del XVI sec. (da un originale di Hans Burgkmair il Vecchio). Vienna, Kunsthistorisches Museum. Il sovrano laureò poeta Enea Silvio Piccolomini nel 1442, e, a sua volta, fu da questi incoronato imperatore, nel 1452. A destra uno dei ritratti di Pio II nella Libreria Piccolomini del Duomo di Siena (per la descrizione, vedi a p. 88).

L’UMANISTA CHE ANDÒ ALLE

CROCIATE

Pio II, papa colto e raffinato, aveva anche un’anima «guerriera»... Preoccupato per l’espansione ottomana e deluso dall’inerzia militare dei regni europei, decise di prendere l’iniziativa progettando un’impresa ambiziosa: dopo aver tentato, invano, di accordarsi con Maometto II, indisse una crociata contro il sultano


Dossier

I I

ntorno al Natale del 1460, compaiono a Roma strani figuri: ovunque passino, attraggono l’attenzione generale e suscitano, in particolare, la gioia di frotte di ragazzini, che ne rimangono affascinati. Quei pittoreschi personaggi provengono dalla lontana Asia: c’è un cavaliere che mette soggezione con la sua corporatura imponente e un altro, ormai anziano, ha un’aria molto dignitosa e suscita curiosità per la coroncina di capelli in cima alla testa rasata, che lo fa sembrare un monaco. Un omaccione dalla fame pantagruelica, il piú vistoso del gruppo, è capace di divorare dieci chili di carne al giorno; sfoggia una barba foltissima, talmente irsuta da far pensare alla pelliccia di una marmotta, ha una cresta di capelli che si erge tra due chieriche e porta vistosi orecchini pendenti. Guida la singolare masnada alla corte del papa un Francescano che per anni è stato nunzio pontificio in Oriente: fra’ Ludovico da Bologna (1420 circa-1479 circa). Già in missione per conto di papa Niccolò V (1447-1455), all’epoca della cadu-

ta di Costantinopoli (1453), il frate era entrato in azione per fronteggiare l’incombente pericolo dell’espansione ottomana. Il suo compito consisteva nello stabilire contatti con le comunità cristiane e con i potenziali alleati delle terre al di là del Bosforo. Questi ultimi, infatti, sembravano decisi ad allearsi contro il Grande Turco, il sultano Maometto II (1451-1481), che stava fagocitando nel suo impero tutti i potentati dell’Asia Minore.

Un viaggiatore nato

Fra’ Ludovico, espertissimo e loquace conoscitore dei misteriosi popoli dell’Est, era l’uomo giusto per la situazione. Non era affatto colto e non aveva neanche conseguito gli ordini religiosi, ma possedeva una solida propensione per i viaggi e gli affari in terra straniera, con un’abilità che gli derivava forse dal sangue, visto che apparteneva a una famiglia di ricchi commercianti. Non a caso era in rapporti di grande intesa con Michele Alighieri, presunto discendente del Fiorentino, un diplomatico e mercante che faceva

Nella pagina accanto miniatura raffigurante Maometto II di fronte alla colonna serpentina di Costantinopoli. Istanbul, Biblioteca del Palazzo di Topkapi. Il monumento, in bronzo, si trovava in origine nel tempio di Apollo a Delfi e venne fatto trasportare da Costantino nella sua capitale sul Bosforo, per ornare l’area dell’ippodromo. In basso le fasi dell’espansione dell’impero ottomano.

la spola tra la Toscana e Trebisonda, sulla sponda turca del Mar Nero (vedi box alle pp. 86-87). Fra’ Ludovico fu dapprima inviato nelle regioni del Caucaso, poi, tornato a Roma con un carico inesauribile di notizie, venne rinviato ancor piú lontano, nel regno cristiano dell’Abissinia (Etiopia) e in India. La sua assenza fu breve, viste anche le distanze (a suo dire) percorse: dopo un solo anno, infatti, era di nuovo a Roma. Niccolò, intanto, era deceduto, e il frate sciorinò i suoi prodigiosi resoconti all’anziano papa Callisto III (14551458), che nutriva invano il progetto di una crociata antiturca.

Vienna Venezia Roma

Algeri

Belgrado

Nicopoli

Costantinopoli Edirne (Istanbul) Amasya Ankara Salonicco Bursa Otranto Konya

Tbilisi Chaldiran Tabriz

Tunisi

Baghdad Tripoli

Mar Mediterraneo Alesssandria

Gerusalemme

Bassora

Il Cairo Espansione 1300-1451 Acquisizioni di Maometto II (1451-81) Acquisizioni di Selim I (1512-20)

Medina La Mecca

Acquisizioni di Solimano il Magnifico (1520-66) Espansione dal 1566 al 1683 Confine dell’impero alla sua massima estensione (1683-99)

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MEDIOEVO


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Dossier Un’etimologia discussa

Perché si dice «Perdere (o non perdere) la trebisonda»? Le espressioni «non perdere la trebisonda», «mi gira la trebisonda» nascono dal ruolo-chiave della città turca nei traffici intercontinentali. Chi non raggiungeva Trebisonda aveva perso l’orientamento. Di conseguenza, chi «perde la trebisonda» ha gravi problemi di autocontrollo. Situato sulla sponda meridionale del Mar Nero, lo Stato di Trebisonda costituí per un anno l’estrema sopravvivenza dell’impero bizantino, dopo la caduta nel Peloponneso del despotato di Morea (1460). È perciò probabile che «perdere la trebisonda» significasse in origine subire una disfatta definitiva. Il piccolo impero nacque nel 1204, dopo la conquista crociata di Costantinopoli. La dinastia regnante era quella dei Comneni, che rivendicavano i propri diritti sul trono bizantino dopo essere stati destituiti Era poi giunta la volta di papa Pio II, il quale tentava di tradurre in realtà il sogno di una grande alleanza contro il sultano con tenacia inesauribile. Uomo coltissimo, il pontefice non ebbe in principio alcuna riserva su quel frate, e lo nominò nunzio in Oriente nel 1458. Fra’ Ludovico entrò in azione con la consueta prontezza e questa volta fece le cose in grande. Raccolse infatti una schiera di messi, che lo accompagnarono nel viaggio di ritorno, per attestare nelle corti europee l’impegno dei rispettivi sovrani.

Alla corte di Federico III

La comitiva attraversò la Colchide, sulla sponda orientale del Mar Nero, nell’attuale Georgia, attraversò prima il Don e poi il Danubio, passando in Ungheria, e fece tappa in Germania, alla corte dell’imperatore Federico III d’Asburgo (14521493). Qui, per la verità, risultano solo due inviati a fianco del frate: l’anziano cavaliere tonsurato e l’omaccione dalla fame smisurata, che compaiono di seguito a Roma. L’uno si proclamava inviato del «re di Persia», mentre l’altro rispondeva agli ordini del «re di Georgia». In

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Il monastero di Sumela, nella provincia di Trebisonda (Turchia). Il complesso sarebbe stato fondato nel IV sec.

nel 1185. Finché non finí nelle mani del Gran Turco, nel 1461, Trebisonda rappresentò effettivamente un avamposto strategico su una direttrice commerciale assai battuta. Sebbene il suo territorio avesse un’estensione piuttosto misera, era dunque uno Stato economicamente solido e in grado di stabilire rapporti con potentati di vario genere, sia in Asia Minore che in Europa, con risvolti politici e militari seriamente vagliati da Maometto II. L’idea di un’alleanza antiturca fu perseguita dal piú autorevole degli ultimi sovrani, Giovanni IV Comneno (Kalo-Joannes, 1429-1459), il quale, anche in questa prospettiva, aveva dato la mano della propria splendida figlia Caterina a Uzun Hasan (il «Piccolo Turco»), signore del Montone Bianco (1453-1478), della dinastia turkmena degli Aq Qoyunlu.


Oltre che con il papa, risultano attivati, o almeno abbozzati, contatti diplomatici dei Comneni con Firenze, Milano, Venezia, con il re di Francia, con il duca di Borgogna e con l’imperatore Federico III. Il fronte antiottomano poteva cosí assumere una dimensione euro-asiatica, ma tali intenti rimasero lettera morta. In questa trama, senz’altro autentica, si inserisce l’ambigua tessitura di fra’ Ludovico.


Dossier

Tutta la vita in una Libreria Il 29 giugno 1502, a Roma, il cardinale Francesco Todeschini Piccolomini, nipote di Pio II, stipulò con il Pinturicchio (al secolo Bernardino di Betto) il contratto per la decorazione della biblioteca ricavata, a partire dal 1492, dalla trasformazione di alcuni locali della canonica del Duomo di Siena. Gli affreschi, eseguiti tra il 1505 e il 1507, illustrano in dieci riquadri la vita e le vicende di Enea Silvio Piccolomini, basandosi su

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La Vita di Pio II scritta dall’umanista Giovanni Antonio Campano e sui Commentarii dello stesso Pio II. In questa scena è rappresentata la Dieta indetta dal pontefice a Mantova, nel giugno del 1459, per esortare i sovrani cristiani d’Europa alla crociata contro i Turchi, che avanzavano nei Balcani e in Ungheria. Nel gennaio del 1460 la riunione si risolse con un nulla di fatto, a causa degli interessi discordanti dei principi. maggio

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realtà, il cavaliere, noto a Pio II come Nicola Tefelo, era un messo di tale Giorgio VII, sovrano del piccolo regno di Karthalia (Georgia); il gigante, invece, noto allo stesso papa come Cassadan Carceca, doveva essere inviato da Qwarqware II, duca (atabeg) di Zamtche, sovrano di un altro piccolo Stato al confine con l’«impero» bizantino di Trebisonda, oggi in territorio turco.

Un clamoroso abbaglio?

Federico III si era convinto che gli inviati fossero degni di fede, e si adoperò per rispondere alle promesse di aiuti militari che venivano dall’Oriente. Si trovò tuttavia in imbarazzo quando l’inviato del «re di Persia» chiese di potergli baciare i piedi. L’uomo insisteva e non sentiva ragioni, sostenendo che, senza quell’atto di prosternazione, non avrebbe avuto il coraggio di tornare in patria: riteneva forse di essere già al cospetto del papa? Fra’ Ludovico passò poi per Venezia e Firenze e giunse infine a Roma, alla testa dei figuri che animarono le strade con una dirompente nota di colore. Tra gli altri, al gruppo si sarebbe aggiunto il messo del favoloso regno del Prete Gianni (poteva essere un inviato, vero o presunto, del re cristiano dell’Abissinia), un uomo di elevata dottrina, esperto di teologia e di astrologia. Si era anche aggregato il già citato Michele Alighieri, come inviato dell’«imperatore» Davide II Comneno di Trebisonda (1459-1461). La colorita comitiva era trattata in pompa magna ovunque, come si conveniva ai rappresentanti dei popoli stranieri devoti a Cristo. Un entusiasmo gioioso per il cibo accomunava gli Asiatici: nessuno di loro faceva i complimenti a tavola, in particolare il

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Mitra di Pio II. XV sec. Pienza, Museo Diocesano. Come altri paramenti a lui appartenuti, questo copricapo è oggi custodito nella «città ideale» che Pio II volle ricavare dal borgo natale di Corsignano. La realizzazione dell’ambizioso progetto, affidato all’architetto Bernardo Rossellino, ebbe inizio nel 1459, ma i lavori si fermarono nel 1464, con la morte del papa e dello stesso Rossellino.

famelico messo del «re di Georgia». Nelle udienze di fronte al papa, ciascuno di loro pronunciava poche parole in una lingua incomprensibile, con la solennità di toni che era richiesta dalle circostanze. Fra’ Ludovico provvedeva a fare da portavoce e da traduttore in italiano: l’etichetta oratoria richiedeva il latino, che però aveva studiato poco e male e dunque saltava a piè pari la lingua dei Cesari, adducendo la scusa che, a forza di stare in Oriente, l’aveva dimenticata...

Promesse esagerate

Papa Pio II sembrò convinto che i messi stranieri fossero attendibili, anche se, in molti casi, le folte schiere di soldati da loro promesse erano pari (se non superiori) all’intera popolazione maschile dei piccoli potentati coinvolti: forse l’urgenza di porre in atto una campagna militare faceva velo alla sua perspicacia. Le istintive perplessità del pontefice dovevano comunque fare i conti con la lusinghiera accoglienza riservata a fra’ Ludovico a Venezia e a Firenze, città mercantili frequentate da stranieri di ogni risma, nelle quali sembrava quindi impossibile che un eventuale impostore di tal fatta potesse ingannare qualcuno. Alla metà del gennaio 1461 la comitiva ripartí da Roma alla volta delle corti di Francia e di Borgogna. Pio II riaffidò a fra’ Ludovico la mansione di nunzio papale e lo insigní dell’onore del patriarcato della Chiesa romana in Oriente. Cosí facendo, il papa accolse una precisa richiesta della delegazione straniera, naturalmente formulata per voce del diretto interessato. Tuttavia, il pontefice adottò le cautele richieste dal caso, adducendo il fatto che occorreva stabilire con

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Dossier Ancora due scene facenti parte del ciclo della Libreria Piccolomini. A sinistra Pio II, eletto papa, fa il suo ingresso in S. Giovanni in Laterano. Nella pagina accanto in qualità di vescovo di Siena, Enea Silvio Piccolomini presiede all’incontro tra l’imperatore Federico III ed Eleonora d’Aragona, avvenuto il 24 febbraio 1452, nei pressi di Porta Camollia (uno degli accessi alla città toscana, che si riconosce sullo sfondo).

chiarezza quali territori sarebbero stati compresi nel raggio d’azione del patriarcato. Fra’ Ludovico, quindi, era solo patriarca in pectore, dal momento che avrebbe potuto fregiarsi a tutti gli effetti di quel titolo solo al termine dell’inchiesta. Giunti in terra d’oltralpe, i messi asiatici ebbero un’accoglienza festosa e cordiale, vista anche la curiosi-

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tà che suscitavano negli ambienti di corte. Il successo delle loro apparizioni fu tale che iniziarono a raggranellare soldi in gran quantità.

Messi poco credibili

Quando però si trovavano nelle udienze ufficiali, risultavano assai poco plausibili come rappresentanti di Stato, proprio per essersi

mostrati come circensi o guitti, che, dopo l’esibizione, passano in mezzo al pubblico per la questua con il cappello in mano. Nessuno dette quindi seguito ad alcun accordo per la crociata antiturca. In compenso, i messi poterono presenziare ai funerali solenni di re Carlo VII di Valois (1422-1461). Il duca Filippo III di Borgogna («il maggio

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Dossier Buono», 1419-1467), che si era so- re ritorno nel «suo» Oriente. Men- IV (1431-1447), Enea aveva deciso lennemente proposto come difen- tre fra’ Ludovico faceva perdere le di allinearsi alle tesi «repubblicane» sore della fede e liberatore del San- sue tracce, stava per concludersi il propugnate dal concilio di Basilea to Sepolcro, fu designato dagli am- terzo anno di pontificato del vero (1431-1449), laddove era stato probasciatori come re di Gerusalem- protagonista di questa rocambo- fondamente attaccato il pontificato me. Nella lettera che gli avrebbe lesca vicenda, Pio II. Chi era, dun- romano. I Padri riuniti nell’assemindirizzato re Giorgio «di Persia», que, l’allora titolare della cattedra blea, in sostanza, rivendicavano una Chiesa libera dagli impacci di d’altronde, gli stessi ambasciatori di san Pietro? Nato Enea Silvio Piccolomini una esosa sede apostolica, che gofurono paragonati ai re magi. I successi della pittoresca de- (1405-1464), di nobile famiglia se- vernava i propri fedeli in modo prelegazione, però, si interruppero nese, una volta eletto, Pio II aveva potente e autoritario, curando solo bruscamente: Pio II aveva raccolto scelto il nome senza riferirsi affatto i propri privilegi. Enea partecipò notizie sconcertanti su fra’ Ludovi- alla figura dell’omonimo pontefice anche all’elezione dell’antipapa Feco, ed era furioso. Si seppe, infat- che l’aveva preceduto secoli prima lice V (1440-1449), il duca-eremita ti, che, prima di tornare in Italia, (Pio I, papa e martire, morí nel 154). Amedeo VIII di Savoia («il Pacifiil frate s’era guadagnato favori a In ossequio alla sua cultura umani- co»), e scrisse una convinta difedestra e a manca, in Ungheria e stica, e al tempo stesso con profon- sa delle tesi conciliariste – che poi in Germania, rilasciando generose da coscienza del ruolo che andava a sconfessò – talmente vigorosa da dispense per conto del papa, senza svolgere, volle bensí creare un gioco essere messa al bando dalla Chieaverne minimamente l’autorizza- di rispondenze tra il proprio nome sa, finendo d’altra parte tra i testi di zione. Una volta giunto in Francia, di battesimo e quello assunto, cosí riferimento dei futuri propugnatori poi, aveva trasgredito gli ordini, da rievocare l’immortale epiteto di della Riforma protestante. Nel 1444, però, il fallispacciando per ufficiale la mento della spedizione crosua carica di patriarca. Il In età avanzata, dopo essersi ciata a Varna, in Bulgaria soggetto era evidentemente un impostore, e, di condistinto come abile diplomatico, (vedi «Medioevo» n. 202, 2013; anche on liseguenza, ogni sua parola Pio II abbracciò la vita sacerdotale novembre ne su medioevo.it), sgretola doveva essere sottoposta a le sue certezze e segna l’inifortissime riserve. E cosí, quando la comitiva ri- «pio Enea» coniato da Virgilio per zio del percorso che lo conduce a una svolta definitiva. Enea sente l’immientrò a Roma, le furono negati gli l’eroe del suo poema. L’impegno contro l’invasore nenza del pericolo e comprende che onori precedentemente concessi e fra’ Ludovico venne duramente re- turco fu il punto centrale della sua non è piú il tempo di rincorrere ideadarguito: perse ogni diritto al titolo azione. D’altronde, l’avanzata ot- li, magari coerenti e legittimi, ma pepatriarcale, ma evitò la prigione, tomana determinò una svolta pro- ricolosi da propugnare in una realtà visto che comunque guidava una fonda nella sua vita e nelle sue con- che deve essere unita e compatta di delegazione straniera, sulla cui at- vinzioni. Prese gli ordini sacri piut- fronte al nemico di tutti i credenti, tendibilità non c’erano conferme o tosto tardi, compiuti quarant’anni ormai giunto alle soglie dell’Europa. smentite di sorta. Il papa riaffidò i (1446), solo dopo aver mutato le Proprio quel pontificato autoritario, messi al frate, veri o presunti che proprie convinzioni nei riguardi del forte della sua sovranazionalità, defossero, ma l’inguaribile ciarlata- papato, rinunciando al contempo a ve porsi alla guida dei popoli. Enea no continuò a comportarsi come un’esistenza votata agli agi, alla vita abbandona le sue idee repubblicane, se nulla fosse accaduto: giunto a di corte e alle gioiose frequentazio- e abbraccia con forza l’idea universaVenezia, raggirò alcuni vescovi, ni femminili. Prima di quella data, listica e monarchica del papato: si fa sfoggiando le credenziali raccolte Enea è essenzialmente un diploma- egli stesso araldo e vessillo di questa presso la curia papale, e li indus- tico abilissimo e raffinato, incorona- idea, divenendo papa nel 1458. Tra il 1462 e il 1463 scrive i Comse a consacrarlo come sacerdote to poeta alla corte dell’imperatore e patriarca. Non appena la noti- Federico III, dopo aver iniziato la mentarii rerum memorabilium, una zia giunse alle orecchie del papa, propria carriera come segretario al monumentale opera di storia convenne subito emanato un ordine servizio del cardinale Domenico Ca- temporanea dove le grandi vicende dei popoli sono intrecciate alla di cattura. Il patriarca della Sere- pranica di Fermo. Proprio sull’esempio del Capra- sua autobiografia. Da quelle pagine nissima si attivò subito, ma il frate si era dileguato: messo sull’avviso nica, che per un certo periodo fu emerge con chiarezza che egli abdal doge, aveva pensato bene di fa- spietato avversario di papa Eugenio bracciò le nuove convinzioni con

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Il principe «mostruoso» In alto medaglia in bronzo di Sigismondo Malatesta realizzata dal Pisanello. 1445. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Del principe di Rimini vengono proposti il profilo (dritto) e un ritratto a figura intera, in armatura. In basso un’altra medaglia di Sigismondo, in questo caso realizzata da Matteo de’ Pasti. 1446. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. Al dritto, il busto del principe; al rovescio, una Crocifissione.

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Dossier Sigismondo Malatesta

A ciascuno la sua reliquia Dopo aver subito sconfitte e condanne, Sigismondo Malatesta ottenne il perdono del pontefice. E proprio lui, che si era prodigato a intrecciare ambigui rapporti con il sultano, fu poi ingaggiato dai Veneziani nella guerra antiturca. Assunto il comando delle truppe di terra nel 1464, mostrò valore e determinazione, ma non riuscí a piegare la forza del nemico. Costretto a lasciare il campo di battaglia nel 1466 senza aver riportato alcuna vittoria, ebbe comunque la soddisfazione di recuperare il corpo del filosofo

Giorgio Gemisto Pletone (1355 circa1450 circa), profondo conoscitore del pensiero platonico e avversario dell’ortodossia bizantina. Le ossa del Greco furono sepolte con grande onore nelle Arche Malatestiane di Rimini, il «tempio pagano» e mausoleo personale di Sigismondo. Papa Pio fu sepolto in S. Pietro, nella cappella di S. Andrea (poi demolita), dove era stata riposta la testa dell’apostolo dedicatario, fratello dello stesso san Pietro. Erano stati cosí riuniti in un solo luogo i fondatori delle Chiese di Oriente e di Occidente. Condotta In alto Rimini, Tempio Malatestiano. La tomba del filosofo Giorgio Gemisto Pletone. A sinistra Roma, S. Pietro. La monumentale statua di sant’Andrea commissionata da papa Urbano VIII allo scultore fiammingo François Duquesnoy e posta alla base di uno dei pilastri della cupola della basilica. 1629.

grande senso del dovere, sfidando una costituzione assai debole, bersagliata di continuo da malori e da malattie. E, dall’alto della sua cattedra, Enea non rinunciò affatto alla severa visione della Chiesa che lo aveva condotto a parteggiare per i Padri di Basilea. Il suo è uno sguardo disin-

in Ancona da Tommaso Paleologo, poi depositata a Narni, la testa di sant’Andrea era stata infine trasferita a Roma, con un solenne apparato che richiamò grandi masse di fedeli, l’11 aprile 1462, nella ricorrenza della Domenica delle Palme. Venne nell’occasione intonato un carme che nella strofa finale si rivolgeva al papa «che solo contro i Turchi con animo tenace osò attraversare alti monti, chiamando all’armi; e volentieri offre il proprio capo perché il mondo intero veneri di Cristo il nome, e della nostra salvezza veda la via il perfido nemico». cantato sul mondo, senza alcuna remora. Emergono con spietata nettezza la codardia e l’indifferenza dei sovrani europei che disdegnano di affrontare il sultano, ma non si salvano nemmeno i cardinali che lo attorniano, in molti casi veri campioni di faziosità, di invidia e di rapacità senza freni. Le pagine dei Commentarii dedicate al conclave che determinò la sua elezione, sono al riguardo straordinarie. Non c’è da stupirsi se furono sottoposte a una scrupolosa censura al momento della pubblicazione a stampa, ai tempi della Chiesa controriformista (1584). Enea-Pio tratteggia mirabilmente l’ansia di primeggiare dei candidati, la tendenza a creare conventicole che sfornano maldicenze a danno degli avversari. Il testimone-narratore non esita a ricorrere alla forte immagine maggio

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Rimini, Tempio Malatestiano. Particolare dell’affresco di Piero della Francesca che mostra Sigismondo Malatesta, inginocchiato e con le mani giunte, nell’atto di pregare san Sigismondo, suo protettore. 1451.

delle mosche richiamate in massa dall’ingordigia ed evoca con sferzante ironia la spartizione della tunica di Cristo tra i soldati, al momento della crocifissione: «Veniva venduta la tunica di Cristo senza Cristo». Come dire che si mercanteggiavano gli onori e si dimenticava che quegli onori comportavano sacrifici e responsabilità. Si raggiunge il culmine con una riunione segreta, indetta nelle latrine (trasformate, nella prima edizione a stampa, in un «luogo insolito»), in occasione della quale il cardinale Guglielmo di Rouen, favorito del re di Francia, cercò di garantirsi l’elezione offrendo favori di ogni genere in contropartita: «Luogo ben degno fu quello per eleggervi un papa di tal fatta; e dove meglio che nelle latrine stringere turpi patti?». Per papa Pio, Maometto II è un nemico e un eretico, ma i due non

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ebbero mai modo di conoscersi o di stabilire relazioni di alcun genere. Di conseguenza, il papa non ha una particolare preclusione nei riguardi del sultano. Il pontefice coltivò semmai un odio sconfinato per un principe di «mostruosa» condotta, cristiano e sottomesso alla Santa Sede, e a maggior ragione esecrabile: Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468), signore di Rimini (vedi box a p. 94).

«Veleno dell’Italia tutta»

«Il suo animo inquieto e la sua mente perversa hanno sempre preferito la guerra alla pace». «Principe di ogni nequizia», «veleno dell’Italia tutta»: sin da giovane, a detta del papa, il nobile era tristemente noto per la sua sfrenata lussuria. Aveva iniziato la sua turpe carriera travestendosi da donna e «ora faceva la parte della

femmina, ora effemminava i maschi». Al culmine di una sequenza interminabile di violenze e di sacrilegi, aveva trasformato la chiesa riminese di S. Francesco nel suo mausoleo (le Arche Malatestiane), ossia in un «tempio pagano» fatto su misura «per gli adoratori dei demoni», nel quale eresse una tomba-ara in onore della sua amante, la «divina» Isotta. Spirito indomabile e privo di remore, Sigismondo si trovò presto ai ferri corti con il papa, e, nel 1461, fu invischiato in una guerra a tutto campo contro Pio II e i suoi alleati: Federico da Montefeltro sul fronte romagnolo, e il duca Francesco Sforza, principe di Milano, in appoggio a re Ferrante di Napoli. Per giunta, il papa istruí un processo a carico di Malatesta, a conclusione del quale, nel 1462, venne giudicato colpevole di eresia. Furono al-

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Dossier lestiti due roghi, uno di fronte a S. Pietro, l’altro in Campo de’ Fiori, e in entrambi l’immagine-fantoccio del principe, «piú vera del vero», fu inghiottita dalle fiamme purificatrici. Nel mentre, l’«eretico» non esitò a stabilire ambigue relazioni di amicizia con il sultano. Il medaglista e architetto Matteo De’ Pasti, emissario di Malatesta, si imbarcò alla volta di Costantinopoli portando con sé, tra l’altro, una carta d’Italia assai particolareggiata. La nave fu intercettata dai Veneziani, e Matteo finí in prigione. Venne poi liberato (dicembre 1461), ma il compromettente documento alimentava i sospetti su una grave macchinazione di Sigismondo, che avrebbe nientemeno previsto uno sbarco turco sulla Penisola per mettere finalmente a tacere la prepotenza dei suoi avversari.

La lettera al sultano

Preso atto della totale ignavia dei dignitari cristiani, giunta al punto tale che essi iniziavano a tramare l’invasione turca della Penisola, alla fine del 1461 il papa scrisse una lettera di proprio pugno indirizzata direttamente al sultano. Se qualcuno doveva fare accordi con lui, l’unica autorità a cui spettava di diritto questa incombenza era quella del sommo pontefice. Egli, in realtà, non inviò, né pensò di spedire quella lettera. Essa doveva costituire un monito e un momento di riflessione in una situazione interna assai difficile e contrastata, laddove i presidi della cristianità rischiavano di aprire le porte al nemico per semplice debolezza o per opportunismo. Di fronte alle posizioni politiche filoturche, o ai tentativi di conciliazione tra cristianesimo e Islam, papa Pio sceglie un atteggiamento brillantemente provocatorio. Volta le spalle ai re e ai principi cristiani, presi nelle loro mischie e nei loro affari, e ripone le speranze nella difesa della fede nelle mani stesse di Maometto II! Sebbene devoto al Profeta dell’I-

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In alto Istanbul. La Fortezza delle Sette Torri o (Yedikule Hisari) costruita per volere del sultano Maometto II il Conquistatore. 1458. A sinistra Gentile Bellini, Ritratto di Maometto II detto il Conquistatore. 1480. Istanbul, Museo del Palazzo di Topkapi.

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slam, il sultano si era impegnato a salvaguardare la Chiesa ortodossa di Costantinopoli, ergendosi a suo capo, e il papa, forse suggestionato da ciò, vi scorge la figura di un «nuovo Costantino», l’imperatore che, pur essendo pagano, fu un convinto difensore della fede cristiana. Maometto II è anche un nuovo barbaro, puro e coraggioso, di quella stirpe turca, ossia «scitica» (indo-persiana), che nulla ha a che fare con gli Arabi, essendo erede dei Mongoli e dei Tartari. Come i Franchi e i Germani di un tempo, può anch’egli aspirare alla salvezza e alla gloria in Cristo: come il franco Carlo Magno, insomma, può diventare il nuovo imperatore di Roma. Per cingere la corona dei Cesari con la benedizione del papa, gli è sufficiente accettare il battesimo, rinunciando all’eresia: un passo facile, visto che, alla base dell’Islam, secondo il papa, altro non c’è che una travisazione del messaggio di Cristo messa in atto da un monaco ribelle, tale Sergio. E dunque, per trionfare su Roma, basta l’acqua del sacro fonte battesimale (aquae pauxillum)... E se i Turchi dovessero considerare la conversione come un affronto e scatenare una guerra civile, tutte le potenze occidentali accorrerebbero di corsa in aiuto del sultano cristianizzato! La lettera fittizia al sultano, con

i suoi guizzi di fantapolitica ante litteram, rilanciava l’idea della crociata in modo davvero tagliente. Nella sua limpida quanto spietata argomentazione, il papa mostra che l’unica alternativa alle armi è l’ineluttabile sottomissione al nemico, negoziabile con onore solo nell’ipotesi generosa e chimerica di una improbabile conversione del sultano.

Il papa passa all’azione

Se l’opera fosse stata pubblicata sin da subito, avrebbe potuto suscitare vergogna, stupore e indignazione: l’idea di conferire il Sacro Romano Impero a un despota orientale avrebbe potuto innescare un vespaio di polemiche, e tutte le corti, giudicate incapaci, torpide e imbelli, si sarebbero forse trovate in imbarazzo e magari qualcuno si sarebbe deciso a fare qualcosa. Ma il papa non dovette confidare troppo in simili reazioni e preferí non sganciare quell’«ordigno» ideologico ad alto potenziale. Pio II era ormai convinto di dover scendere in campo personalmente, in un atto di estremo sacrificio. Nel frattempo, si era verificato un miracolo: intorno al 1460, nell’entroterra di Civitavecchia, e piú precisamente nell’area dei Monti della Tolfa, erano stati scoperti ricchi giacimenti di allume (in una località che, da allora, prese il

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Il sacrificio di Titus Dugovics, olio su tela di Sandor Wagner. 1859. Budapest, Galleria Nazionale Ungherese. Nelle fasi finali dell’assedio di Belgrado, i Turchi erano riusciti a salire sulle mura e a issare il proprio vessillo, ma Dugovics, un soldato serbo, si lanciò contro di loro e, conscio di non poterli soverchiare, si gettò nel vuoto, trascinando con sé la bandiera nemica.

nome di Allumiere), un minerale assai richiesto dalle industrie tessili, poiché fondamentale nei processi di coloritura della lana. Fino a quel momento giungeva quasi esclusivamente dall’Asia. Ora, nel cuore dello Stato della Chiesa, se ne trovano scorte immense, che destabilizzano la bilancia commerciale dell’impero ottomano e garantiscono entrate finanziarie prima inimmaginabili da destinare senza indugio alla lotta contro gli «infedeli». Nel marzo 1462, Enea-Pio poté dunque compiere il gran passo: si pose alla guida della crociata, indossando le vesti di un redivivo Goffredo da Buglione.

Come una banca

Nell’aprile 1463 cade la colonia veneziana di Argo, nel Peloponneso, e tutte le restanti colonie greche sono in pericolo, il che rimette in discussione la politica non-interventista condotta fino in ultimo dalla Serenissima. Il 24 luglio si giunge alla agognata pace tra re Mattia Corvino di Ungheria e l’imperatore Federico III: finalmente il valoroso sovrano ungherese può tornare a occuparsi a tutto campo della minaccia ottomana. Il 23 settembre 1463 il papa si dichiara pronto a partire: gli basta l’appoggio della Borgogna e dell’Ungheria, e confida nella partecipazione di Venezia. Con una brillante metafora, paragona la Chiesa a una banca che al momento si mostrava insolvente verso i propri creditori: i «clienti» che su di lei avevano investito, ossia i fedeli in Cristo, avevano ora il diritto di ricevere come contropartita ciò che era stato loro prospettato. Era giunto il momento del riscatto e della salvezza. Il 19 ottobre, grazie all’impegno del cardinal Bessarione, si firma il trattato che vede costituirsi una lega antiturca tra il papato, Venezia e l’Ungheria. Già il 6 ottobre viene bandita la nuova crociata. Tre giorni dopo la costituzione della lega, si pubblica il bando, che suscita un’enorme sen-

sazione in tutta Europa. Frotte di pellegrini, tra le cui fila affluiscono sbandati di ogni genere che anelano a impugnare le armi contro il sultano, si muovono in gran numero, anche dalla lontana Scozia. Il papa sente che la morte è vicina e vuole a tutti i costi essere presente nel momento in cui le sue navi da guerra prendono il largo. Molti segni lasciano presagire che si tratti di una falsa partenza. Il duca Filippo di Borgogna si è tirato indietro, per via di un divieto imposto dal suo re. Francesco Sforza non risponde all’appello, e le prime iniziative militari dei Veneziani si sono risolte in un disastro cocente, con il giubilo dei Fiorentini, che vedono nella guerra antiturca una buona occasione per la fine della Serenissima. Tuttavia, pur senza farsi illusioni, il papa non demorde: il 18 giugno 1464 celebra la messa solenne in S. Pietro e inalbera il vessillo della croce che guiderà le truppe alla vittoria. La gloriosa spedizione salperà da Ancona ed Enea-Pio si mette subito in viaggio, sfidando l’aggravarsi dei suoi malori. Giunge a destinazione il 19 luglio. La città brulica di pellegrini, ma della flotta non c’è traccia. Quasi un mese dopo, l’11 agosto, arrivano da Venezia due grandi navi. Passa un solo giorno, e il doge Cristoforo Moro in persona giunge nel capoluogo marchigiano alla testa di dodici galee. La flotta è in porto, pronta per partire.

Un novello Goffredo

Il sogno di Enea-Pio si è finalmente concretizzato, ma il nuovo Goffredo da Buglione è atteso in altri campi di battaglia. Nella notte tra il 14 e il 15 agosto esala il suo ultimo respiro. Le navi ritornano a Venezia e sulla crociata cala il sipario. I pellegrini assistono impotenti alla fine repentina della loro avventura e devono per giunta far fronte allo scoppio improvviso di un’epidemia di peste. Il doge, proprio per paura di un (segue a p. 102)

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Dossier GLI ANNI DEL PIO ENEA 1405 Enea Silvio Piccolomini nasce a Corsignano, in Val d’Orcia (Siena). Eletto papa come Pio II, eleverà il suo castello natio a sede episcopale, e lo trasformerà nella «città ideale» di Pienza (in onore di Pio). 1431 Incontro con il cardinale Domenico Capranica di Fermo, che intende recarsi al concilio di Basilea per scendere in lizza contro papa Eugenio IV. 1442 Enea viene incoronato come poeta a Francoforte al cospetto dell’imperatore Federico III. 1443 In una lettera indirizzata al padre, Enea risulta avergli affidato un figlio illegittimo avuto da una donna inglese. 1444 Distruzione della spedizione crociata a Varna (10 novembre). Enea scrive la Storia di due amanti, fortunatissima elegia in latino dell’amore terreno. Inizia a manifestare la volontà di prendere i voti. 1445 Missione diplomatica per conto di Federico III alla corte di papa Eugenio IV, da cui Enea ottiene il perdono dopo averlo fieramente contrastato al concilio di Basilea.

1447 Consacrazione sacerdotale. 1450 Enea è vescovo di Siena. 1450 circa Riscrive secondo una nuova ottica «papista» il suo resoconto del concilio di Basilea, sconfessando le sue precedenti posizioni «repubblicane». 1452 Si celebra l’ultima incoronazione imperiale in Roma, in onore di Federico III. Enea tiene un’orazione nel Concistoro sostenendo la necessità di una guerra santa. 1453 Caduta di Costantinopoli (19 maggio). Papa Niccolò V bandisce la crociata contro i Turchi (30 settembre). 1454 I principi elettori tedeschi, riuniti nelle diete di Ratisbona e di Francoforte, sono sordi agli incitamenti di fra’ Giovanni da Capestrano, che vuole organizzare un’armata per una spedizione antiturca. 1456, Assedio e battaglia di Belgrado. I Turchi 14-22 luglio sono respinti e Maometto II viene ferito. 1458 Elezione di Enea al soglio di S. Pietro con il nome di Pio II. 1459 Il 24 febbraio Pio II fa il suo solenne rientro a Siena in veste di papa. Viene canonizzata santa Caterina. Il 1° giugno ha inizio il concilio di Mantova per coalizzare i potentati europei contro il Gran Turco. Il 20 giugno, con la caduta di Semendria, la Serbia è in mano ottomana. 1460 Fine del concilio (14 gennaio), sostanzialmente fallito. Maometto II conquista il despotato di Morea (Peloponneso). Nel periodo natalizio giunge a Roma fra’ Ludovico da Bologna con una delegazione straniera al seguito. Nel giorno stesso di Natale, Pio II scomunica Sigismondo Pandolfo Malatesta. 1461 Cadono Sinope e Trebisonda sul Mar Nero. Roma è coinvolta nei torbidi di una rivolta aizzata da Giovanni d’Angiò, pretendente al trono di Sicilia. Ritorno a Roma di fra’ Ludovico con la sua delegazione, alla quale Pio II nega gli onori concessi in precedenza. Alla fine dell’anno, il papa scrive la Lettera a Maometto. 1462, marzo In un discorso a porte chiuse tenuto alla presenza di sei cardinali, il papa rivela di maggio

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Un’altra scena del ciclo della Libreria Piccolomini. Enea Silvio viene laureato poeta dall’imperatore Federico III. All’epoca (l’evento ebbe luogo nel 1442), il futuro papa non aveva ancora preso gli ordini sacerdotali e si era distinto soprattutto come diplomatico. Nella pagina accanto pagina miniata di un codice con il ritratto del re d’Ungheria Mattia Corvino, opera di Giovanni Antonio De Predis. 1487. Volterra, Biblioteca Guarnacci.

volersi mettere alla guida delle truppe crociate. 1462, Nella ricorrenza della Domenica delle 11 aprile Palme, solenne traslazione della testa di sant’Andrea apostolo nella basilica di S. Pietro. 1462, maggio Su concessione dello Stato pontificio, ha inizio lo sfruttamento delle miniere di allume nel territorio di Tolfa (Roma). 1462, Cade l’isola di Lesbo, colonia genovese, 23 settembre a seguito di una dura offensiva di Maometto II. 1463, aprile Cade la fortezza di Argo (Peloponneso), colonia veneziana. 1463, Pio II annuncia ufficialmente ai 23 settembre cardinali che procederà al bando della crociata e si metterà alla testa

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delle truppe, anche con due soli alleati al fianco. 1463, Bando della crociata (6). Costituzione ottobre della lega antiturca (19). Pubblicazione del bando (22). 1464, marzo Defezione di Filippo di Borgogna, che recede dagli impegni assunti col papa. 1464, Messa solenne in S. Pietro. Il papa, 18 giugno gravemente malato, dà l’ultimo saluto all’Urbe e parte per Ancona. 1464, Il papa giunge in Ancona. Risiede nel 19 luglio palazzo episcopale di fianco al duomo di S. Ciriaco. 1464, Arrivo in Ancona delle navi veneziane. 11-12 agosto per la flotta allestita contro i Turchi. 1464, Morte di Pio II. 14-15 agosto

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Dossier la fine dei paleologi

Tommaso e Demetrio, uniti nella soggezione La vicenda di fra’ Ludovico da Bologna fa seguito alla caduta di Morea (Peloponneso), l’ultimo presidio dei Paleologi. I despoti Demetrio e Tommaso, fratelli dell’ultimo imperatore Costantino XI (1448-1453), si erano suddivisi il dominio della penisola, ed erano spesso in disaccordo. Li univa solo la soggezione nei riguardi di Maometto II, il quale finí per limitare considerevolmente il loro territorio. Tommaso, orgoglioso e spregiudicato, cercò di esautorare il fratello e di scacciare i Turchi. Demetrio, di animo debole, si mise sotto la protezione del sultano, che ottenne ben presto la resa degli ultimi capisaldi. A nulla giovò una spedizione di truppe inviata in Grecia con il concorso del

papa e del principe di Milano (estate 1459). Si riuscí a recuperare Patrasso, ma ben presto il contingente si disperse dietro il miraggio di facili prede. Tommaso prese residenza a Roma e nell’Urbe trovò sistemazione definitiva la testa di sant’Andrea apostolo che aveva condotto con sé, e che gli permise di ottenere dalla curia papale un ottimo appannaggio. Demetrio fu detronizzato, ma ottenne da Maometto II alcune concessioni che gli assicurarono un discreto tenore di vita, e finí i suoi giorni nei panni del monaco Davide. Anni dopo, nel 1472, la figlia di Tommaso, Zoe, andò in sposa al gran principe russo Ivan III e Mosca si fregiò cosí del titolo di erede dell’impero bizantino. La scena del ciclo della Libreria Piccolomini in cui il Pinturicchio ha immaginato l’arrivo di Pio II ad Ancona, dove il papa si recò per dare avvio alla crociata. Della città si riconosce, in alto, la cattedrale di S. Ciriaco, idealizzata in forme rinascimentali.

possibile contagio, si guarda bene dal mettere piede a terra, e rinuncia persino a rivolgere l’estremo saluto al papa morente. Si conclude cosí l’impresa del «pio Enea», sul colle Guasco, all’ombra del duomo di S. Ciriaco che domina dall’alto la riviera adriatica. Il mare segnò l’estremo orizzonte della sua vita terrena, e in quel porto, per un attimo, balenò come uno scintillio improvviso di luce la sua impresa esaltante e paradossale di papa umanista e condottiero: fu l’ultima crociata della storia, e fu la piú memorabile, proprio perché si risolse in una sfida al destino. V

Da leggere U Enea Silvio Piccolomini (Papa Pio II), I commentarii,

a cura di Luigi Totaro, Adelphi, Milano 2008 U Franz Babinger, Maometto il Conquistatore e il suo tempo,

Einaudi, Torino 1967 U Franco Cardini, Le crociate tra il mito e la storia,

Istituto di Cultura Nova Civitas, Roma 1971 U Eugenio Garin, Ritratti di umanisti, Sansoni,

Firenze 1971; pp. 9-39 U Marco Pellegrini, Pio II, in Enciclopedia dei Papi,

Fondazione Treccani, Roma 2000, disponibile on line su treccani.it U Luca D’Ascia, Il Corano e la tiara. L’epistola a Maometto II di Enea Silvio Piccolomini (papa Pio II), Pendragon, Bologna 2001

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CALEIDO SCOPIO

Nel segno di Tegrimo ARALDICA • La vicenda plurisecolare dei conti Guidi

presenta piú d’una lacuna. Che, tuttavia, si può forse colmare grazie all’esame delle loro insegne

C

on la dislocazione delle circoscrizioni pubbliche di riferimento e la disgregazione delle strutture statuali di origine carolingia incentrate sulle sedi episcopali cittadine, la funzione istituzionale dei conti de civitate venne meno, a favore dei vescovi locali, i quali, appoggiandosi alla propria curia vassallatica e a un ceto privilegiato di iudices, sostituirono progressivamente i primi nella funzione giudiziaria. Il titolo comitale, dunque, si svuotò delle originarie prerogative, ma numerose stirpi che traevano origine da quei detentori dell’autorità pubblica conservarono un potere considerevole, e, complice il fenomeno dell’incastellamento, gettarono la base di signorie che, da fondiarie, divennero propriamente territoriali, avendo per centro un castello o una curtis da cui la varia discendenza si denominò, patrimonializzando il titolo che,

in alcuni casi, divenne in seguito cognome vero e proprio. Fu questo il caso dei conti di Segni, poi suddivisi nei rami che presero il nome da Segni, appunto, da Poli e da Valmontone, sede dei rispettivi centri di potere: inurbandosi nella Città Eterna, essi si cognominarono in seguito, per antonomasia, semplicemente Conti.

Bernardino, pittore di sangue blu Cosí accadde anche per la discendenza dei conti del Seprio, di stirpe franca. Perso il loro centro di potere di Castelseprio, distrutto dai Milanesi nel 1287, essi decaddero e si dispersero: ma, non immemore delle ascendenze comitali, anche il pittore milanese Bernardino de’ Conti, fra Quattro e Cinquecento, firmava i propri dipinti senza omettere di aggiungere al titolo de Comitibus – ormai divenuto mero gentilizio – il predicato de Castro Seprii. Talvolta, tuttavia, alcune antiche

stirpi di conti rurali non assunsero (solo) il predicato del castello o dell’area che era la sede del loro potere, ma si denominarono (anche) da un ascendente bonae memoriae: per restare in area toscana, fu cosí per gli Alberti, gli Aldobrandeschi, i Berardenghi, gli Ardengheschi, i Pannocchieschi e i Gherardeschi. Ma per venire all’oggetto del nostro discorso, i Guidi fecero di piú: e spesse volte essi sono menzionati col cognome di Conti Guidi o, anche tutt’uno, Contiguidi, quasi a significare l’inscindibilità della dignità comitale dalla famiglia. Il loro capostipite storico, infatti, fu un Teudegrimo/Tegrimo, vissuto nella prima metà del X secolo, che avrebbe ricoperto la carica di conte palatino in Toscana: dignità palatina, del resto, che aveva rivestito l’avo materno della moglie Ingelrada (figlia di Martino duca di Ravenna e di un’altra Ingelrada), il cui padre fu, appunto, un conte palatino di nome A sinistra stemmi portati distintamente dai Guidi, secondo il genealogista bavarese Jacob Wilhelm Imhof.

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Hucpold/Uboldo. Da quest’ultimo, tramite il figlio omonimo, discesero due Willa/Gisla.

Ma che bella insegna... La prima, figlia di Bonifacio duca di Spoleto e nipote del precedente, fondò la Badia fiorentina e fu madre di Ugo marchese di Tuscia († 1001), il quale, secondo Dante (Par., XVI, 127-130), concesse di brisare (la brisura è la pezza che si introduce nell’arma originaria di una famiglia per distinguerne i rami cadetti, n.d.r.) la propria bella insegna a un certo numero di case magnatizie cittadine. La seconda, nipote del suddetto Bonifacio e figlia di un Teobaldo che rivestí la medesima dignità ducale, fu invece moglie del nipote ex filio del nostro Tegrimo, Tegrimo II di Guido I, fondatore dell’abbazia di Strumi presso il castello di Poppi; da questo Guido si cognominò propriamente

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l’illustre stirpe, che professava ex natione la legge longobarda. Un rebus che fece scervellare a lungo gli storici originò invece dal dato che i Guidi conti di Romena figuravano per contro vivere secondo la Legge Ripuaria (raccolta delle antiche norme consuetudinarie e legislative dei Franchi Ripuari, cosí chiamati perché, al tempo delle invasioni barbariche, si erano stanziati sulle rive, ripae, del Reno, n.d.r.), denotando cosí, verosimilmente, differente ascendenza etnica: come poteva darsi? Aveva un

Nella pagina accanto in alto lo stemma oggi portato dai Guidi di Volterra, che verosimilmente coincide con quello dei primi conti Guidi. Qui accanto lo stemma portato originariamente dal casato secondo Luigi Passerini.

Qui accanto stemma dei Guidi di Bagno (da Pompeo Litta et alii, Famiglie Celebri Italiane).

ramo potuto mutare il diritto tradizionale di riferimento, forse per matrimonio? Lo sviluppo piú accurato della genealogia dimostra l’esatto contrario: il caso volle, infatti, che una figlia di Guido II (figlio del suddetto Tegrimo, secondo di questo nome), di cui i documenti non ci hanno per ora rivelato il personale, andasse sposa ad altro Guido comes, figlio di un conte Alberto. Questi sí, viventi secondo la Legge Ripuaria. Constatiamo dunque – cosa del resto non insolita per l’epoca – come il grande albero dei conti Guidi abbia avuto in realtà, perlomeno per quanto concerne l’ascendenza mascolina, non una, ma due, egualmente comitali, radici! Dobbiamo a questa duplice ascendenza la duplicità dell’arme

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CALEIDO SCOPIO gentilizia segnalata dal genealogista bavarese Jacob Wilhelm Imhof? E la cromía dell’inquartato in croce di Sant’Andrea d’argento e di rosso (ancora portato dai Guidi di Volterra, che si vuole usciti dal medesimo ceppo), deriva forse, come la succitata e piú o meno leggendaria bella insegna di Ugo marchese (di rosso, a tre pali d’argento), piú anticamente dalla Blutfahne (il vessillo color sangue) imperiale che sventolava ai placiti comitali presieduti dai nostri, piuttosto che significare, piú tardivamente, le simpatie almeno all’origine filoimperiali della bellicosa – ne fa fede il ricorrente personale Guidoguerra... – consorteria? Tale bicromia argento/rosso, infatti, caratterizza molte casate che rivestirono la dignitas comitale nel Regnum Italiae (per esempio i Gherardeschi/ Della Gherardesca pisani o i Conti romani): cosí come la piú celebre insegna d’oro, all’aquila di nero, che si diffuse piú tardi in capo, a significare le simpatie ghibelline di chi l’assunse (e che, non a caso, già troviamo però nella sullodata arme gherardesca).

araldici, ci sembra verosimile che l’arme portata da una ramificazione ancora sussistente del casato, quello dei conti di Bagno di Romagna/ Guidi di Bagno, un inquartanto in croce di Sant’Andrea d’oro e d’azzurro, ripetendo la bicromia dello stemma degli Angiò, ossia dei leader della fazione filopapale/ guelfa, debba significare una svolta in quest’ultimo senso – con adeguata brisura dello stemma – della fiera schiatta, un tempo come detto tenacemente filoimperiale (al punto che i primi suoi storici,

La buona Gualdrada

Spartizione fra maschi A proposito dei rapporti anche araldici intercorrenti fra i Guidi e i Gherardeschi, ricordiamo che uno studioso tedesco, Hansmartin Schwarzmaier, ha ipotizzato, tra l’altro, la possibile discendenza del capostipite dei primi, il succitato Tegrimo I, da un unico ceppo potente nell’area già nel IX secolo, e da cui sarebbero discesi anche i Gherardeschi e i Cadolingi: e, in effetti, i possessi territoriali di queste stirpi – tra l’altro tutte etnicamente longobarde – erano contigui, e ciò potrebbe far presumere una divisione degli stessi fra tutti i maschi, secondo la tradizione giuridica di quel popolo. Per tornare, invece, alla possibile simbologia politica degli smalti

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confische di beni e demolizioni di castella alla ripartenza... Se, ancora nel 1191, Arrigo VI riconfermava a Guidoguerra III un patrimonio che contava circa duecento fra villae e castelli con i relativi diritti regi, e nel 1220 Federico II faceva lo stesso a favore dei di lui figli, già all’epoca di Dante Guidoguerra V, del ramo di Dovadola e che il poeta relega fra i sodomiti (Inf., XVI, 34-39), era divenuto leader della parte guelfa, cui del resto si erano o si sarebbero avvicinati ben presto diversi esponenti dei rami di Battifolle e Romena; e qualcuno, come il conte Simone del ramo di Battifolle, cuciva persino alla propria arme il capo angioino (d’azzurro, carico di tre gigli d’oro, posti tra i quattro pendenti di un lambello di rosso), come documentato dalla copertina del volume dei suoi atti al tempo in cui era reggente a Prato (1317).

quali il Gamurrini e l’Ammirati, ne volevano il capostipite cugino di Ottone I: un’eventualità per niente impossibile, visti gli alti parentadi a cui abbiamo accennato). La politica familiare, del resto, con il progressivo venir meno dell’autorità imperiale nel regno italico e con il contemporaneo rafforzarsi del potere guelfo fiorentino sul contado cittadino e oltre, ondeggiò alquanto e non fu esente da molte ambiguità: donde riavvicinamenti alla sua causa in occasione di discese dell’imperatore, e successivi bandi,

Né dobbiamo dimenticare che, precedentemente, Guidoguerra II era stato caro a Matilde di Canossa, che lo avrebbe infine adottato (egli porta il titolo marchionale, ma forse per eredità della madre Ermellina Alberti): e non possiamo attribuire certo alla Gran Contessa sentimenti particolarmente caldi per l’impero... Che a tale nuovo indirizzo politico abbia poi contribuito il pensiero per il patrimonio immobiliare che – mercé il matrimonio con la buona Gualdrada, figlia del magnate fiorentino Bellincion Berti de’ Ravignani – Guidoguerra IV e i suoi discendenti si erano trovati a possedere proprio nel cuore storico della città del giglio, ove, nel proprio palatium di S. Maria in Campo, i conti risiedevano sempre piú spesso, e, soprattutto, dopo le piú o meno forzose cessioni delle piú prossime fra le proprie fortificazioni rurali a Firenze? Per concludere, diverse famiglie nobili vantano, in maniera piú o maggio

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Stemma utilizzato, secondo il Passerini, nel ramo dei Guidi conti di Modigliana, Porciano, Palagio e Urbecche.

per il cognome materno secondo le disposizioni testamentarie (1530) dell’avo materno del capostipite Carlo di Francesco Guidi di Poppi, Domenico di Guidello Guidelli. Il medesimo Passerini, pur con qualche riserva sulla filiazione, include nella propria genealogia anche la famiglia tuttora sussistente dei conti Guidi di Volterra: d’altro canto, essa aveva avuto sentenza favorevole (1719) dal Magistrato Supremo fiorentino per la propria discendenza dallo storico casato, e il semplice inquartato in croce di Sant’Andrea d’argento e di rosso tuttora campeggia sulla dimora del conte Ruggero Guidi di questo ramo, ossia sul castello medievale di Casalappi in Val di Cornia (www. castellodicasalappi.it), anticamente appartenuto ai Gheradeschi.

Una spedizione fallimentare

meno documentata, discendenza dai conti Guidi, i quali, dopo aver rischiato l’estinzione, dovrebbero a ogni modo tutti rampollare da Guidoguerra IV e da Gualdrada: cosí i Guidelli di Casalgrande presso Sassuolo, che solo nel Settecento aggiunsero al proprio gentilizio quello di conti Guidi, da cui secondo Luigi Passerini (autore delle tavole genealogiche dei Guidi nei fascicoli delle Famiglie Celebri Italiane di Pompeo Litta, a cui abbiamo ampiamente attinto per queste note) pur discendevano in linea maschile, ma che avevano abbandonato

Dai medesimi conti di Poppi – che rimasero a mal partito in seguito alla fallimentare avventura del conte Francesco a fianco di Filippo Maria Visconti (con cui vantava parentela tramite la moglie) contro Firenze, dovendo abbandonare alla repubblica l’avito castello per riparar a Bologna sotto la protezione dei Bentivoglio – vorrebbero invece discendere i De Puppi di Cividale del Friuli, conti dal 1703 per diploma di Leopoldo I,

Nella pagina accanto stemma attribuito dal Passerini al ramo dei Guidi conti di Dovadola. A destra stemma utilizzato, secondo il Passerini, nel ramo dei Guidi conti di Battifolle e Poppi.

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CALEIDO SCOPIO A sinistra restituzione grafica di una medaglia raffigurante Gian Antonio Guidi di Modigliana, conte di Urbecche (al dritto) e lo stemma dei Guidi conti di Porciano (al rovescio). In basso stemma dei conti di Gangalandi come raffigurato in un codice del XVII sec. Collezione privata.

Un legame probabile

un non troppo dissimile inquartato d’argento e di nero (cosí in una copia posteriore del perduto Libro Antiquo dell’Arme del 1302, servito da fonte a Bernardo Benvenuti, priore di S. Felicita e antiquario del Gran Principe Ferdinando de’ Medici, per la compilazione del proprio priorista): una coincidenza?

A nostro parere, molti indizi permetterebbero invece di ricollegare ai Guidi con ottima probabilità l’antica e non meno bellicosa consorteria dei conti di Gangalandi, che prende il nome dallo scomparso castello presso Lastra a Signa (di una cui torre resta forse traccia nel campanile dell’omonima pieve romanica di S. Martino). Ciò lascerebbe ritenere l’antico possesso di castelli in area già soggetta ai Cadolingi conti cittadini di Prato e rurali di Fucecchio (estintisi a vantaggio dei conti Alberti, ma anche dei Guidi, che si sovrapposero al loro piú risalente dominatus), il titolo comitale portato dai membri del casato ab immemorabili, la stretta osservanza ghibellina, ma, soprattutto, la loro arma antica: un inquartato in croce di Sant’Andrea di nero e d’argento, che null’altro crediamo che probabile brisura del semplice stemma originario dei conti Guidi. Per inciso, che l’arma gentilizia dei Ravignani – ravennati – fiorentini donde venne la buona Gualdrada è

O forse esisteva un nesso prima dei celebrati sponsali di Gualdrada, magari in linea cognatica, fra la casa comitale tosco-romagnola e quella magnatizia che trae con tutta probabilità il gentilizio piú antico dalla provenienza geografica da una zona, la Romània, in cui i Guidi ebbero primo stanziamento e illustri parentadi?

e per contro già ascritti al Consiglio Nobile di quella città già nel 1365: anteriormente perciò alla caduta di Poppi. Questi ultimi portano, come i Guidi, un inquartato in croce di Sant’Andrea: il 1º di nero, il 2º d’azzurro, il 3º e il 4º di rosso, diaprati d’oro.

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Qualche volta, sia pure con prudenza, dove non arrivano i documenti scritti ci conducono quelli figurati: gli stemmi, appunto.

La punizione dei felloni E ci permettono di ipotizzare soluzioni che, alla luce dell’altra documentazione disponibile, parrebbero avventate. Porsi gli interrogativi è il primo passo per trovare delle risposte, a ogni buon conto. E certo sarebbe interessante poter vedere quell’affresco sul muro dell’Officio della Condotta menzionato dal Passerini in cui l’effigie del fedifrago Azzo, del ramo dei Guidi conti di Romena, è «appiccata per un piede con lo scudo pendente dal collo e portante lo stemma rovesciato, siccome praticavasi coi cavalieri felloni», secondo quanto prescritto da un decreto, datato 30 ottobre 1424, emesso dai Dieci di Balia al tempo della vittoriosa guerra che oppose Firenze a Filippo Maria Visconti. Stessa pena infamante, nella medesima emergenza bellica, la signoria prescriveva per il congiunto Guelfo (nomen non sempre omen...), del ramo di Dovadola, che aveva preferito militare sotto la vipera che Melanesi accampa, piuttosto che per le insegne repubblicane fiorentine. Se non ci è dato vederli, cerchiamo di immaginare. Niccolò Orsini De Marzo maggio

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CALEIDO SCOPIO

Dall’isola dei cori MUSICA • The Hilliard Ensemble esplora la

produzione di compositori, celebri e non, del XVI secolo. Il risultato è un’antologia di grande fascino e ricca di sorprese, capace di esaltare il talento interpretativo di una formazione che è da tempo un riferimento piú che autorevole per la musica antica

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a musica polifonica antica inglese vanta una tradizione secolare, anche grazie al contributo di numerosi ensemble corali. Sulla scia delle istituzioni piú celebri, nel secolo scorso, sono poi nati molti gruppi, che hanno incrementato ancor piú la passione per la musica vocale. Tra questi, The Hilliard Ensemble, composto da quattro voci maschili (David James, controtenore; Rogers CoveyCrump e Steven Harrold, tenori; Gordon Jones, baritono), si distingue da sempre per scelte repertoriali,

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che percorrendo la polifonia primitiva sino al XVI secolo, ne esaltano il talento interpretativo. Per l’antologia Transeamus (ECM 2408, 1 CD, www.ecmrecords.com), l’ensemble propone un eccezionale repertorio del XV secolo, con brani tanto insoliti quanto poco conosciuti, offrendo una notevole varietà di stili compositivi – dalle 2 alle 4 voci –, con ascolti da compositori quali John Plummer, Walter Lambe,

William Cornysh, il misconosciuto Sheryngham, intercalati ad autori anonimi, ma non meno interessanti per le soluzioni musicali proposte.

Alla corte di Enrico VI Spicca il contirbuto di Plummer, un musicista attivo durante il regno di re Enrico VI e legato alla corte da una serie di incarichi ufficiali, di cui ascoltiamo Anna mater e O pulcherrima mulierum. Colpisce, in particolare, il primo dei due brani, in cui si esalta la figura di Anna, madre della Vergine Maria: un mottetto di grande semplicità, ma, al tempo stesso, straordinariamente suadente per la sua capacità di evocare immagini di grande bellezza attraverso elementi minimi. Altrettanto evocativo è Stella Caeli, di Lambe, raro ascolto di un compositore vissuto nella seconda metà del XV secolo. Un ascolto «mariano» ci introduce alla figura di Cornysh, morto nel 1523, il cui stile si distacca leggermente dai precedenti ascolti per la maggiore modernità di linguaggio. maggio

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Tra i brani non anonimi di rarissimo alscolto vi è anche il mottetto di Sheryngham Ah gentle Jesu. Una composizione strutturata in forma dialogica, in cui le due voci superiori rappresentano un peccatore che dialoga con il Cristo in croce (affidato alle due voci piú gravi): altro esempio di elementare costruzione musicale ma drammaticamente efficace.

Echi di polifonie primitive Anche tra i numerosi brani anonimi non mancano le sorprese. Per esempio, il cantilenante triplum che apre l’antologia, Thomas gemma Cantuariae/Thomas cesus in Doveria, i cui testi, ispirati a san Tommaso da Canterbury, fanno da base a una struttura contrappuntistica che ricorda le polifonie primitive del XII e XIII secolo. Di tutt’altro tenore è il tono incantatorio di Lullay, I saw, una splendida e raffinata ninnananna che fa da contraltare a un altro prezioso brano a due voci, There is no rose, come anche Marvel not Joseph. Nella loro semplicità compositiva – splendidi in questo senso anche Ah! My dear son e Sancta mater gratiae – tutti questi brani esprimono atmosfere di grande suggestione lirica attraverso stilemi compositivi quasi ipnotici, ottenuti attraverso un materiale musicale semplicissimo, egregiamente valorizzato in questa esecuzione. Nonostante questa loro semplicità melodico-compositiva, le partiture costituiscono quasi un banco di prova per il gruppo The Hilliard Ensemble, la cui performance risulta tanto raffinata quanto efficace nell’esaltare queste musiche, perlopiú inesplorate, attraverso un sofisticato lavoro interpretativo sui testi e sulla loro resa musicale. Franco Bruni

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La pazienza suona bene

MUSICA • L’opera di un filologo dell’Ottocento

e il certosino intervento sulla rilegatura di un antico codice hanno permesso il recupero di partiture quattrocentesche che si credevano ormai perdute e gettano luce sulla misconosciuta figura del compositore tedesco Heinrich Laufenberg

U

n triste destino ha accomunato molti codici musicali medievali: dallo smembramento per il riciclo dei preziosi quanto resistenti fogli pergamenacei alla dispersione per incuria umana, senza contare le distruzioni causate dagli eventi bellici. Ad alcune di queste circostanze ci riporta l’antologia Kingdom of Heaven. Music by Heinrich Laufenberg (c. 1390-1460) and his contemporaries (RAM 1402, 1 CD, www.ramee.org), con brani tratti appunto da due codici legati da una sorte fatale. Nel primo caso si tratta di un codice contenente musiche di Heinrich Laufenberg, presumibilmente autografo e conservato presso la Neukirche di Strasburgo (Temple Neuf) che andò distrutta – e con essa la collezione libraria – nel corso della guerra franco-prussiana nell’agosto del 1870. Solo per un caso fortuito, molte di queste musiche ci sono pervenute grazie alla trascrizione

dei testi e delle musiche effettuate, tre anni prima della distruzione, dal filologo Philipp Wackernagel che nel 1867 ne editò i testi stessi.

Un compositore misterioso Grazie a queste trascrizioni delle parti letterarie e di alcune delle musiche, si è potuto ricostruire la produzione musicale di questo musicista nato a Freiburg im Breisgau e della cui vicenda biografica molto poco sappiamo. Fu, la sua, una produzione principalmente devozionale, con testi in lingua tedesca attribuibili allo stesso Laufenberg ovvero a suoi contemporanei, messi in musica per voce e accompagnamento strumentale in una varietà di organici. Con queste partiture si cimentano dunque Agnieszka Budzinska-Bennett (voce, arpa, symphonia), Jane Achtman (viella, campanelli), Marc Lewon (voce, liuto a plettro, viella), componenti

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CALEIDO SCOPIO

Note per MUSICA • Spesso

bollata solo come una Dark Lady, la piú famosa esponente femminile dei Borgia fu, in realtà, anche una mecenate colta e raffinata, appassionata di danza e musica. Come prova questa raccolta di brani composti in suo nome

P

dell’Ensemble Dragma, a cui si associano per l’occasione Hanna Marti (voce, symphonia) e Elizabeth Rumsey (viella). Attraverso un complesso lavoro di edizione, queste musiche risplendono in tutto il loro devozionale intimismo e lasciano emergere la propensione del compositore tedesco per melodie facilmente eseguibili dalla comunità dei fedeli per le quali furono concepite.

Il tesoro nella rilegatura Alle partiture di Laufenberg si intercalano alcuni brani liutistici tratti da un altro manoscritto, risalente al 1460 e di cui solo di recente se ne sono scoperti alcuni frammenti ritrovati in una rilegatura di un codice proveniente da S. Ciriaco a Brunswick, ora conservati presso lo Staatsarchiv di Wolfenbüttel (cod. VII B Hs Nr. 264). Grazie a un paziente lavoro filologico sul complesso sistema di intavolatura, Marc Lewon è riuscito

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a portare alla luce queste magnifiche composizioni per liuto – perlopiú trascrizioni di chanson polifoniche del XV secolo – qui presentate in prima assoluta. A rendere ancor piú interessante l’ascolto contribuisce il fatto che la fonte da cui i brani sono tratti è anche la piú antica intavolatura per liuto pervenutaci. Nel suo insieme, questo Kingdom of Heaven ci riconduce a una dimensione quasi domestica del fare musica, lontana dai clamori delle opere polifoniche scritte nel Quattrocento per le cattedrali e/o per i grandi eventi. Le atmosfere evocate dall’Ensemble Dragma, che con questa antologia si cimenta nella sua prima registrazione discografica, evocano adeguatamente lo spirito di questo repertorio, con scelte interpretative convincenti, volte a sottolineare la devozionalità popolare come anche l’intimità del raffinato tocco del liutista. F. B.

ersonaggio piuttosto chiacchierato della dinastia Borgia, soprattutto perché «vittima» della intensa politica matrimoniale voluta dal padre, papa Alessandro VI, Lucrezia, in realtà, fu una donna di potere, dotata di una forte personalità e di grande cultura, con capacità decisionali che la portarono, in assenza del padre, a farne le veci in qualità di «vicariessa». In Lucrezia. La figlia del papa Borgia 14801519 (CDM 0025.13.1, 1 CD, www. micrologus.it), la sua biografia viene commentata con brani d’epoca. La passione per la musica e la danza furono d’altronde elementi sempre presenti nella vita di Lucrezia, in particolar modo durante la sua permanenza ferrarese, in seguito al matrimonio contratto nel 1501 con Alfonso, figlio del duca Ercole d’Este.

Omaggio alle origini Ferrara era una delle corti piú prestigiose dell’epoca, dedita al mecenatismo artistico, e grazie anche a Lucrezia, il piú grande compositore di frottole attivo a quel

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Lucrezia tempo, Bartolomeo Tromboncino (1470 circa-post 1535), acquistò ancor piú notorietà, assecondando i raffinati gusti musicali della duchessa e componendo anche frottole in castigliano, nell’intento di rendere omaggio alle origini stesse della famiglia dei Borgia.

«Fulgida per beltade» Patrizia Bovi, alla guida del gruppo Medusa – formato da voce e arpa (che vedono impegnata la stessa Bovi), liuto e viola da mano (Crawford Young), arpa (Leah Stuttard), dulce melos e percussioni (Gabriele Miracle) – non poteva non iniziare questo itinerario biografico con un’ottava rima tratta dal IX libro di Frottole pubblicato dal Petrucci a Venezia nel 1508, nel quale si parla di quella dama fulgida per beltade e per valore figlia di papa e di virtú sovrana: un brano che ci cala in un’atmosfera cortese, in cui la voce si lascia accompagnare dalle pacate sonorità di strumenti a corda particolarmente adatte alla dimensione intimistica

di questo repertorio. Interessante risulta la scelta registico-musicale di intercalare brani piú noti a ottave rime riferentisi alla biografia di Lucrezia, con testi composti per l’occasione; a questi ultimi vengono associate melodie di Marchetto Cara e Benedetto Gareth, entrambi attivi nel XV secolo, secondo la diffusa tradizione orale dei poeti improvvisatori, che adattavano melodie preesistenti a nuovi testi.

Sulla scia dei cantastorie La narrazione musicale si sviluppa lungo un duplice asse, traendo ispirazione sia dalla prassi orale dei cantastorie che allietavano le corti accompagnandosi con il liuto o la viola, sia proponendo un repertorio piú aulico. Vari personaggi/ musicisti/compositori/ letterati costellano questa antologia: da coloro che con Lucrezia ebbero una costante

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collaborazione professionale – è il caso, oltre a Tromboncino, di Nicolò da Padova, Serafino Aquilano – ovvero attivi nello stesso ambito cronologico (quali Domenico da Piacenza, Heinrich Isaac, Hayne van Ghizeghem, Juan del Encina, Guillaume Dufay, Josquin Desprez). Come è nel suo stile, Patrizia Bovi, artefice di questa originale biografia in musica, adotta un approccio avulso da ogni intento puristico e/o belcantistico, favorendo piuttosto una vocalità naturale che, in specifici contesti, sfocia in un canto popolare volutamente privo di ricercatezze sonore. Una scelta coraggiosa, ma che probabilmente ci avvicina ancor piú allo spirito di questo variegato repertorio. F. B. A sinistra il profilo di Lucrezia Borgia su una medaglia in bronzo coniata per lei e per Alfonso I d’Este. Scuola mantovana, 1502. Bologna, Museo Civico Archeologico.

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