Medioevo n. 219, Aprile 2015

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de all mil gl a c an is o o fo rt rz e a

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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Graal

sacro calice o reliquia pagana?

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la rivolta dei vespri

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Mens. Anno 19 numero 219 Aprile 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 219 aprile 2015

EDIO VO M E



sommario

Aprile 2015 ANTEPRIMA almanacco del mese

personaggi

Bertolino da Pontecorono 5

musei Il gran ritorno della Pulzella Camera con capolavoro Un’Opera ambiziosa

6 8 14

anniversari Il marchese che volle farsi re

10

appuntamenti Sfida all’ultimo raglio Un brindisi con Gambrinus Tutti liberi! L’Agenda del Mese

18 19 20 24

Sicilia, o cara...

di Chiara Parente

mostre Arte lombarda Signori e mecenati di Serena Romano e Mauro Natale

Pasqua 1282

di Federico Canaccini

34

78

CALEIDOSCOPIO

44

vespri siciliani

78 COSTUME E SOCIETÀ

STORIE Quel Lunedí dell’Angelo...

44

la guerra nel medioevo/3 L’Europa nel mirino di Federico Canaccini

54

34

cartoline Una Pigna da scoprire

106

libri Lo scaffale

110

musica Magnifiche sopravvivenze Dall’Inghilterra dei Tudor alla Roma dei papi

111 112

54 antisemitismo Pasque di sangue di Erberto Petoia

Dossier

66

la vera storia del sacro graal di Domenico Sebastiani

87


MEDIOEVO Anno XIX, n. 219 - aprile 2015 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352 Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Mila Lavorini è giornalista. Mauro Natale è professore emerito di storia dell’arte moderna all’Università di Ginevra. Chiara Parente è giornalista. Erberto Petoia è storico delle religioni. Stefania Romani è giornalista. Serena Romano è professore ordinario di storia dell’arte medievale all’Università di Losanna. Domenico Sebastiani è dottore in giurisprudenza, cultore di tradizioni e leggende medievali. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: pp. 75, 76-77; Album: copertina (e p. 95); AKG Images: pp. 51, 104; The Art Archive: p. 92 (alto); Rue des Archives/ PVDE: pp. 100/101 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 8-9, 78-85; © Thomas Boivin/Métropole Rouen Normandie: pp. 6, 7 (alto); © Arnaud Bertereau/Agence Mona: p. 7 (basso) – Turismo Torino: pp. 10-11 – Cortesia FAI/Foto Mauro Ranzani: p. 12 – Cortesia Guicciardini e Magni Architetti Studio Associato: pp. 14, 16 – Emanuele Taddei: p. 18 – Cortesia dell’autore: pp. 19, 20 – DeA Picture Library: pp. 53, 58 (alto), 74/75 (alto e centro), 87, 92 (basso), 103; A. Dagli Orti: pp. 34/35, 40/41; M. Seemuller: p. 57 (alto); J.E. Bulloz: pp. 96/97 – Da Il Villani illustrato, Banca CR Firenze, Firenze 2005: pp. 36-39, 43 – Doc. red.: pp. 42, 71 (destra), 72 (alto), 99, 102, 105 – Cortesia Ezio Barbieri: pp. 44/45, 48-49, 50 (basso) – Shutterstock: pp. 46, 64/65 – Marka: Oliviero Olivieri: p. 47 (alto); Paolo Allegris: p. 52 – Bridgeman Images: pp. 47 (basso), 54/55, 61, 70, 71 (sinistra), 72 (basso); Werner Forman Archive: pp. 57 (basso), 98; Leemage: pp. 66/67, 69; Neil Holmes: p. 68; Christie’s Images: p. 94 – Archivi Alinari, Firenze: © BnF, Dist. RMN-Grand Palais/Image BnF: pp. 50 (alto), 90/91, 101; © RMN-Grand Palais (Domaine de Chantilly)/ Agence Bulloz: p. 90; © RMN-Grand Palais (Musée d’archéologie nationale)/Jean-Gilles Berizzi: p. 93 – Da Lotta per la Terra Santa, Milano 2012: pp. 62/63 – Giorgio Albertini: disegno a p. 56 – Corbis Images: Heritage Images: p. 58 (basso); Kim Walker/Robert Harding World Imagery: pp. 58/59 – Getty Images: Mansell: p. 60 – Foto Scala, Firenze: Foto Art Media/Heritage Images: pp. 88/89 – Cortesia Archivio fotografico Regione Liguria-Provincia di Imperia: pp. 106-109. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti

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In copertina uno dei calici identificati dalla tradizione con il Sacro Graal, oggi conservato nell’omonima cappella della Cattedrale di Valencia.

Nel prossimo numero la guerra nel medioevo

padova

Eserciti comunali e cittadini

Il Palazzo della Ragione

storie

dossier

Il mistero del quadrato magico

Pio II Piccolomini


Almanacco del mese

a cura di Federico Canaccini

U

1 aprile 457

U

2 aprile 742

Maggioriano è acclamato imperatore d’Occidente Nasce Carlo Magno

U

16 aprile 1071

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17 aprile 1492

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18 aprile 1506

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19 aprile 20 aprile 1303

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21 aprile 1509

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22 aprile 1073

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23 aprile 1014

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24 aprile 1066

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25 aprile 1327

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26 aprile 1478

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27 aprile 1296

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28 aprile 1192

U

29 aprile 1429

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30 aprile 1379

Roberto il Guiscardo conquista Bari e pone fine alla dominazione bizantina nel Mezzogiorno d’Italia

U

3 aprile 1077

I sovrani di Spagna firmano un trattato con Cristoforo Colombo per una spedizione verso le Indie Giulio II pone la prima pietra della nuova basilica di S. Pietro

U

4 aprile 5 aprile 1242

Viene costituito il Principato di Aquileia U

Al lago dei Ciudi Aleksandr Nevskij batte i Cavalieri teutonici U

6 aprile 402

A Pollenzo, l’esercito imperiale, guidato da Stilicone, ha la meglio sui Visigoti di Alarico U

7 aprile 1167

Giuramento di Pontida: la Lega Lombarda sfida Federico Barbarossa U

8 aprile 1341

U

9 aprile 1241

Francesco Petrarca è incoronato poeta in Campidoglio A Legnica (Polonia) i Mongoli sconfiggono Polacchi e Tedeschi U

10 aprile 1028

Muore il vescovo e teologo Fulberto di Chartres, che nella città francese diresse la locale scuola, facendola rifiorire

U

11 aprile 12 aprile 1204

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13 aprile 1111

U

14 aprile 1471

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15 aprile 1450

U

Durante la IV crociata Costantinopoli viene saccheggiata dalle truppe cristiane (fra gli altri, vengono trafugati i cavalli in bronzo poi ricollocati in S. Marco a Venezia) Enrico V è proclamato imperatore del Sacro Romano Impero A Barnet si combatte uno dei principali episodi della Guerra delle Due Rose Vittoria francese di Formigny: la Guerra dei Cent’Anni volge al termine

U

Bonifacio VIII fonda la Sapienza, prima Università di Roma Alla morte di Enrico VII, sale al trono d’Inghilterra Enrico VIII, uno dei piú celebri sovrani della storia Elezione di papa Gregorio VII Nella battaglia di Clontarf si decide il destino dell’Irlanda Nel cielo d’Europa appare la cometa di Halley Viene siglata una pace tra Pisa e gli Aragonesi Congiura dei Pazzi: Lorenzo de’ Medici è ferito, Giuliano ucciso Nella battaglia di Dunbar Edoardo I d’Inghilterra sconfigge gli Scozzesi Corrado di Monferrato viene assassinato da un sicario della setta degli Assassini Giovanna d’Arco raggiunge Orléans Nell’ambito dello Scisma d’Occidente le truppe fedeli a Urbano VI sconfiggono a Marino quelle di Clemente VII, che fugge ad Avignone


Ante prima

Il gran della

ritorno Pulzella

musei • È stato

I

l palazzo arcivescovile di Rouen torna ad accogliere Giovanna d’Arco. Questa volta, però, la Pulzella d’Orléans non è giunta nella città normanna in ceppi e catene, né sta per essere sottoposta agli interrogatori che si concluderanno con la condanna a morte: la giovane eroina è protagonista di una rentrée tanto virtuale, quanto trionfale. A lei è stato infatti dedicato un museo nuovo di zecca (ha aperto i battenti il 21 marzo scorso), l’Historial Jeanne d’Arc, fortemente voluto da Métropole Rouen Normandie, che ne ripercorre la straordinaria vicenda: nel gennaio del 1429, poco piú che sedicenne,

inaugurato a Rouen l’Historial Jeanne d’Arc, un museo che, allestito nel palazzo arcivescovile, ripercorre tutte le tappe salienti della vicenda dell’eroina francese

Dove e quando

Historial Jeanne d’Arc Rouen, 7, rue Saint-Romain Orario 1° ott-31 mag: ma-do, 9,45-19,45; 1° giu-30 set: ma, me, gio, do, 9,45-19,45; ve-sa, 9,45-20,45 Info www.historialjeannedarc.fr

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A sinistra replica della statua equestre di Giovanna d’Arco scolpita da Emmanuel Frémiet nel 1889. A destra piccolo busto di Giovanna d’Arco in preghiera, dall’originale scolpito nel XIX sec. da Antonin Mercié. aprile

MEDIOEVO


lo ricordiamo, Giovanna aveva abbandonato la casa paterna per presentarsi alla corte di Carlo VII, allora impegnato nella Guerra dei Cent’anni. Il sovrano le permise di poter cavalcare - senza alcun comando - alla testa dell’esercito che andava a soccorrere Orléans e la sua presenza entusiasmò le truppe, che riuscirono a liberare la città.

Un’esitazione fatale Vi furono poi nuovi successi, a Jargeau e Patay e, il 17 luglio, Carlo VII venne consacrato a Reims. I successivi tentennamenti del re furono però fatali per la ragazza, che, dopo aver attaccato senza successo a Parigi, fu ferita e poi catturata a Compiègne. Venduta a Giovanni di Lussemburgo e poi agli Inglesi,

venne fatta processare a Rouen, e, il 30 maggio 1431, fu mandata al rogo nella piazza del mercato vecchio. Di quei mesi convulsi, gloriosi, ma infine tragici il nuovo museo dà conto attraverso una ricostruzione ricca e dettagliata, che si sviluppa su oltre 1000 mq di spazi espositivi, distribuiti in cinque livelli. I curatori del progetto hanno voluto realizzare un allestimento capace di raccontare la storia di Giovanna, ma anche quella del contesto nel quale maturò la sua breve, ma clamorosa parabola.

A ritroso nel tempo Per questo motivo il percorso di visita è stato concepito in due tempi: in una prima fase, che si sviluppa in 7 sale, il visitatore viene idealmente fatto viaggiare a ritroso nel tempo fino al XV secolo, calandolo nella realtà del procedimento giudiziario a cui la Pulzella venne sottoposta, della condanna a morte

MEDIOEVO

aprile

In alto Rouen, Historial Jeanne d’Arc. Un particolare dell’allestimento della prima sala, nella cripta romanica del palazzo arcivescovile: la vicenda di Giovanna d’Arco viene qui inquadrata storicamente, descrivendo la situazione politica e sociale della Francia nel XV sec. e della successiva riabilitazione (che giunse nel 1456, con l’autorizzazione di papa Callisto III, dopo che Carlo VII, conquistata Rouen nel 1450, aveva disposto un’inchiesta sui fatti del 1431). Nella seconda parte, che occupa 3 sale, all’interno di quella che è stata denominata Mitoteca, il museo affronta il tema del dibattito storiografico e politico di cui la leggendaria figura di Giovanna d’Arco è da secoli protagonista. Una «fortuna» corroborata dalla vasta produzione letteraria e artistica, della quale vengono documentati alcuni tra gli esempi piú celebri. La creazione dell’Historial Jeanne d’Arc è stata voluta anche per raccontare la storia della prestigiosa sede che lo ospita: di qui è nata la scelta di selezionare alcuni ambienti del palazzo arcivescovile – come la cripta romanica e la cripta gotica – che meglio ne possono documentare lo sviluppo architettonico. Stefano Mammini

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Ante prima

Camera con capolavoro

musei • Riapre a Mantova il Castello di San Giorgio: torna cosí a farsi ammirare la

Camera degli Sposi e si svela un nuovo e piú ricco allestimento

S

orto tra il 1395 e il 1406, il Castello di San Giorgio è uno dei nuclei piú antichi del Palazzo Ducale di Mantova e se oggi si presenta in forme gotiche, lo si deve ai restauri eseguiti tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo. Al suo interno si conserva la gemma probabilmente piú preziosa della corte gonzaghesca, quella Camera Picta realizzata da Andrea Mantegna tra il 1465 e il 1474 e universalmente nota come Camera degli Sposi. Un capolavoro della pittura rinascimentale che da pochi giorni è tornato a farsi ammirare in tutta la sua vivacità. I danni inferti alla torre Nord-Est del Castello dal sisma del 2012 avevano infatti imposto la chiusura al pubblico del complesso, ma ora, al termine di un intervento

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In alto particolare del ciclo pittorico dipinto da Andrea Mantegna per la Camera degli Sposi: la scena ritrae Ludovico II Gonzaga e la moglie Barbara di Brandeburgo attorniati dalla corte.

L’artista realizzò gli affreschi verosimilmente tra il 1465 e il 1474. Qui sopra una veduta del Castello di San Giorgio, uno dei nuclei piú antichi del Palazzo Ducale di Mantova. aprile

MEDIOEVO


Ritratti informali e sorprendenti invenzioni I dipinti della Camera Picta (cioè «camera dipinta», come era anticamente nota) costituiscono un prototipo esemplare di concezione decorativa unitaria di un ambiente, in chiave ottica e prospettica; la miglior fruizione delle pitture si ha dal centro della stanza. Sulla parete nord è rappresentata tutta la corte in modo piuttosto informale, sorpresa nel momento in cui un messaggero (sulla sinistra) consegna una lettera a Ludovico, affiancato dalla moglie Barbara di Brandeburgo: a loro due la stanza è dedicata e per questo è nota come Camera degli Sposi (...). Sulla volta la decorazione continua con una serie di riferimenti al mondo classico, non solo nel partito decorativo ma anche nelle rappresentazioni (...). Dirompente invenzione è il celebre oculo sulla volta; da una sorta di pozzo si intravede il cielo soprastante mentre si affacciano varie figure che scrutano verso il basso (da Stefano L’Occaso, Palazzo Ducale Mantova, guida. Electa 2011). di consolidamento strutturale e miglioramento sismico, le sue porte sono state riaperte. Una salda cintura, capace di rispondere alle sollecitazioni di eventuali scosse, cinge ora la torre, mantenendo l’assetto strutturale dell’intero manufatto e degli ambienti attigui. Il ripristino e il riordino delle superfici affrescate, interessate anch’esse da distacchi e sollevamenti di colore

in alcuni punti, hanno restituito la lettura delle pareti che esaltano la casata di Ludovico II Gonzaga e di Barbara di Brandeburgo.

Un’acquisizione preziosa Il percorso del visitatore si snoda ora dalla scala elicoidale al corridoio che conduce alla «piú bella Camara del mondo» per entrare nelle stanze dei Soli e della Cappe, anch’esse

A destra fiasco in bronzo per polvere da sparo. Manifattura dell’Italia settentrionale, XVI sec. Collezione Romano Freddi. In basso l’oculo della Camera degli Sposi, con le figure «affacciate». recuperate, nelle quali è allestita la mostra della collezione Romano Freddi, con 100 opere, di cui 85 concesse in comodato d’uso al Palazzo Ducale di Mantova. Si tratta di una novità importante, poiché la raccolta concerne in gran parte l’eredità delle collezioni gonzaghesche, rappresentate da dipinti, bronzetti, maioliche, armi, arredi e manufatti che raccontano la poliedrica cultura della corte mantovana, magnificente anche negli aspetti piú ordinari della vita quotidiana. E, fino al 31 agosto, questo evento sarà amplificato dalla esposizione di un’ulteriore selezione di opere che, pur non essendo parte del comodato d’uso, vengono prestate al Castello di San Giorgio e, insieme a ceramiche del Museo di Palazzo Ducale, vanno a costituire una mostra del collezionismo privato che dialoga con le opere presenti in Palazzo Ducale di Mantova. (red.) Dove e quando

Complesso museale di Palazzo Ducale, Castello di San Giorgio Mantova, piazza Sordello Orario ma-do, 8,15-19,15; chiuso lu, 25 dicembre, 1° gennaio Info tel. 0376 224832 (biglietteria museo); tel. 0376 352100 (Palazzo Ducale); call center: 041 2411897; www.mantovaducale.beniculturali.it

MEDIOEVO

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Ante prima

Il marchese che volle farsi re

anniversari •

Il Canavese ricorda il millenario della morte di Arduino d’Ivrea. Un’occasione per scoprire i molti tesori artistici e architettonici del territorio

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A

mille anni dalla sua morte, il Canavese propone un itinerario singolarmente ricco di testimonianze legate alla vita e all’operato di re Arduino d’Ivrea (955-1015), figura di spicco nel complesso panorama politico dell’XI secolo. Alla guida di un territorio esteso fra le attuali diocesi di Ivrea, Vercelli, Novara, Vigevano e parte di quelle di Pavia e Milano, il marchese, con l’intento di dare al marchesato unità giuridica e autonomia, entrò in conflitto con i vescovi di Vercelli e Ivrea, incorrendo in due scomuniche che non sortirono alcun effetto. Nello scontro fra Arduino e i religiosi prese posizione l’imperatore tedesco Ottone III,

schierandosi con gli esponenti della Chiesa, per scongiurare il rafforzarsi della componente laica nell’area nord-occidentale. Dopo la messa al bando e la confisca dei beni, il marchese si ritirò nelle valli canavesi, meditando una riscossa che arrivò con la morte di Ottone III e la sua elezione a re d’Italia nella chiesa di S. Michele di Pavia.

Omonimo, ma non discendente Il circuito sulle orme del sovrano muove da Cuorgnè, con le torri e la «casa del re» al civico 27 di via Arduino: la struttura con porticato, monofore e cornicione ad arcatelle, risale in realtà al XV secolo, quando aprile

MEDIOEVO


venne fatta costruire da Arduino Valperga di Mercenasco, che si riteneva discendente del re d’Ivrea. Meritano una tappa anche la chiesa dedicata a san Giacomo, nella frazione di Salto, e il ponte sul fiume Orco, passaggio obbligato per i mercanti che da Ivrea si dirigevano verso la valle di Susa, facendo tappa in quello che all’epoca era un importante snodo commerciale. A Valperga, è meta del turismo religioso il santuario di Belmonte, eretto da Arduino per ringraziare la Madonna di una guarigione «miracolosa», vicino all’attuale Riserva Naturale Speciale Sacro Monte di Belmonte. Nella stessa zona, adiacente al castello, sorge la chiesa di S. Giorgio: al nucleo originario del X-XI secolo, si sono sovrapposti l’intervento romanico, testimoniato dal campanile, e la campagna trecentesca, documentata dalle navate. L’interno custodisce splendide pitture tardo gotiche.

A destra San Benigno Canavese, uno scorcio dell’abbazia di Fruttuaria. Nella pagina accanto il castello di Agliè. In basso veduta panoramica di San Benigno Canavese.

Tra fortezze e chiese

successione di scale e soppalchi che portavano fino alla sommità, coperta a botte. Accanto, rimangono le tracce di un edificio fortificato e di un ricetto, struttura difensiva e abitativa caratteristica del Medioevo torinese. Fuori dal centro, la chiesa di S. Maria in Doblazio, addossata

Anche lo snodo fra la Valle dell’Orco e la Valle Soana, Pont Canavese, è legato ad Arduino, grazie alla Torre Ferranda, un resto delle tre roccaforti che il sovrano avrebbe voluto su uno sperone roccioso. La struttura compatta ha un interno con una

MEDIOEVO

aprile

alla roccia, è stata un riferimento nella costruzione di numerose pievi nelle valli vicine. L’itinerario sulle tracce del re tocca quindi Sparone, teatro di un importante evento storico: nella rocca, citata nei documenti appena prima del Mille, Arduino si rifugiò

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Ante prima

Un calendario ricco e variegato Per il millenario di Arduino sono in calendario appuntamenti ispirati a temi come l’abbigliamento e la giustizia nel Medioevo, che fanno capo all’Associazione culturale Speculum Historiae, coinvolta anche nella realizzazione della docufiction, in uscita, Re Arduino Sans Despartir, diretta da Andry Verga e prodotta dalla canavesana Masterblack. Girato nei luoghi del Canavese, il documentario ricostruisce la vita del re con rigore filologico. È prevista anche la pubblicazione di taglio turistico I luoghi di re Arduino tra storia e leggenda. Info: speculum-historiae.org. Fra le manifestazioni del millenario anche il Torneo di maggio di Cuorgnè, la terza settimana del mese. Info: www.prolococuorgne.it In alto veduta del Castello di Masino. A sinistra il laboratorio del vicerè, uno degli ambienti del castello aperti alle visite.

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con il suo esercito, resistendo all’assedio sferratogli dall’imperatore tedesco Enrico II fra il 1004 e il 1005. Poi si rifugiò a San Benigno Canavese, nell’abbazia benedettina di Fruttuaria, in cui morí nel 1015. Le sue spoglie furono conservate nel palazzo Ducale di Agliè fino al 1764, mentre ora le sue reliquie sono custodite nella cappella di S. Carlo, nel castello di Masino, a Caravino. Fra i beni tutelati dal FAI, il maniero si apre sulla pianura canavese, raccontando la lunga storia dei conti di Valperga, che lo hanno abitato per dieci secoli. Racchiude gli ambienti di rappresentanza, molto ben conservati, che furono affrescati e arredati fra Sei e Settecento. Stefania Romani Dove e quando

Castello e Parco di Masino Caravino (Torino) Orario marzo e novembre: me-do, 10,00-17,00 (lunedí e martedí se festivi); aprile, maggio e ottobre: ma-do, 10,00-18,00 (lunedí se festivo) da giugno a settembre: ma-ve, 10,00-18,00, sa-do, 10,00-19,00 (lunedì se festivo) Info el. 0125 778100; e-mail: faimasino@fondoambiente.it aprile

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Ante prima

Un’Opera ambiziosa

Un particolare del progetto del nuovo Museo dell’Opera del Duomo di Firenze

musei • Procede a pieno regime la realizzazione del

nuovo Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, che, dal prossimo autunno, presenterà un allestimento totalmente riprogettato e arricchito, tra gli altri, dalla spettacolare ricostruzione della facciata della cattedrale

V

enticinque sale, disposte su tre piani, per un totale di 5500 mq di spazio espositivo costituiranno il nuovo Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, la cui inaugurazione è prevista per il prossimo 29 ottobre. Nata nel 1296, come istituzione comunale con dignità di magistratura, responsabile della

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costruzione della cattedrale, l’Opera ha mantenuto, nel corso dei secoli, i suoi poteri decisionali per la conservazione e la valorizzazione dell’intero complesso religioso che, attualmente, comprende anche Battistero, Cripta di S. Reparata, Cupola e Campanile. È stato l’organismo stesso a finanziare il

cospicuo investimento di 45 milioni di euro, necessari per la creazione di un ambiente moderno, nel rispetto delle caratteristiche strutturali degli edifici, collegati in un percorso unitario, che permetterà una esposizione razionale delle opere, suddivise tra arredi esterni e interni.

Una corsa contro il tempo L’ambizioso progetto architettonico, con il suo spettacolare allestimento, si sta materializzando a gran velocità, tanto che i sei anni di lavori previsti inizialmente per la sua realizzazione sono scesi a due, in modo da essere pronti per il V Convegno Ecclesiale Nazionale che aprile

MEDIOEVO



Ante prima

si terrà nel capoluogo toscano in novembre. Considerata la piú importante collezione al mondo di scultura medievale e rinascimentale, il MOD propone le firme piú prestigiose dell’arte, da Arnolfo di Cambio a Michelangelo, passando per Donatello, Luca della Robbia e Lorenzo Ghiberti, i cui capolavori troveranno adeguata sistemazione nel percorso espositivo, che avrà come punto focale la sala dell’Antica Facciata. Qui sarà riprodotto un modello a grandezza naturale in resina marmorea dell’incompiuta facciata trecentesca del Duomo, dove saranno collocate le quaranta

sculture sopravvissute dell’originale decorazione, tra cui gli Evangelisti di Donatello, Nanni di Banco, Niccolò Lamberti e Bernardo Ciuffagni.

In alto rendering della sezione prospettiva trasversale del nuovo MOD. In basso rendering della sala destinata alla replica della facciata del Duomo.

Una replica perfetta

scultoreo che decorava il campanile. Superiormente, il secondo livello sarà dedicato alla Cupola, con i modelli lignei della struttura e della lanterna, insieme a strumenti e a frammenti dei ponteggi usati da Brunelleschi, mentre una sala attigua accoglierà la raccolta di modelli architettonici presentati tra il XVI e il XVII secolo ai granduchi medicei per la facciata della cattedrale, priva di ornamenti. Da qui, si potrà accedere alla terrazza panoramica.

Di fronte a questa gigantesca replica, resa possibile grazie a un disegno del Poccianti, precedente lo smantellamento del 1586, troveranno posto le tre porte bronzee del Battistero, sormontate da altrettanti gruppi statuari risalenti al XVI secolo. In asse con questa sezione, lunga 36 m, la galleria, al primo piano, ospiterà 54 altorilievi e 16 statue, tra cui il Geremia e l’Abacuc di Donatello, che costituiscono il corpus

Dialogo tra capolavori L’ampliamento prevede anche il diverso posizionamento della Pietà di Michelangelo che, illuminata da una luce filtrata dall’alto, sarà poggiata su un basamento in pietra serena, collocato su un elevatore a scomparsa, in grado di alzarsi, in caso di inondazioni. Al gruppo marmoreo, inteso per ornare la tomba del suo autore, sarà restituita l’esatta angolazione, atta anche a evidenziare la mancanza di una gamba alla figura di Gesú. A poca distanza, la lignea Maddalena di Donatello, attualmente in restauro, la «guarderà», in un simbolico dialogo spirituale, contornata da reliquiari e dipinti con fondo oro. Mila Lavorini

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aprile

MEDIOEVO



Ante prima

Sfida all’ultimo raglio appuntamenti •

Seravezza si appresta a vivere le emozioni di un palio combattutissimo e singolare: a contendersi la vittoria sono infatti otto micci, cioè otto asini, la cui furia agonistica non fa rimpiangere l’assenza di piú nobili destrieri...

I

l piccolo centro toscano di Seravezza, in provincia di Lucca, si trova incuneato in una valle percorsa dai torrenti Serra e Vezza, discendenti dalle Alpi Apuane, che, unendosi, formano il fiume Versilia. Nel Medioevo la storia di questo borgo fu caratterizzata dalle vicende delle famiglie Corvaia e Vallecchia, spesso in guerra contro la nobiltà lucchese; solo nel 1515 si costituí in libero Comune, sviluppando poi una fiorente attività estrattiva che continuò fino al Settecento. In alto, sopra il titolo gli stemmi delle otto contrade che corrono il Palio dei Micci di Seravezza. Qui sopra un momento della corsa degli asini, che devono coprire per sei volte il percorso tracciato nello stadio. A sinistra i tamburi di due suonatori che partecipano al corteo storico.

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Oggi Seravezza è sede del municipio omonimo, ma, in realtà, il centro piú grande del Comune è Querceta, che conta circa 6000 abitanti. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, qui nacque il Palio dei Micci, che ogni anno, nella prima domenica di maggio – quest’anno il giorno 3 – anima 2000 contradaioli. Il Palio consiste in una corsa fra otto asini, detti appunto «micci» in vernacolo versiliese, guidati dai fantini in rappresentanza delle contrade costituite da alcune frazioni di Seravezza (Il Leon d’oro per Marzocchino, la Lucertola per Ripa, la Madonnina per l’omonima frazione, il Pozzo per Pozzi, la Quercia per Querceta, il Ranocchio per Ranocchiaio), a cui si aggiungono la contrada Cervia della frazione Montiscendi di Pietrasanta, e la contrada Ponte della frazione Vaiana di Forte dei Marmi.

Quel misterioso Eriberto... Si inizia in mattinata con la sfilata delle contrade in costumi storici per il centro di Querceta e con la messa nella chiesa di S. Maria Lauretana, seguita nella piazza principale dalla benedizione degli asini. Nel pomeriggio, sulla pista dello stadio comunale «Buon Riposo», situato nella vicina frazione di Pozzi, la corsa viene preceduta dal corteo del palio e da una coreografia degli sbandieratori e dei musici. Poi si passa alla gara degli asini, chiamati a percorrere sei giri del campo. Nato come corollario della festa patronale di San Giuseppe, col tempo il Palio dei Micci si è ritagliato un suo ruolo, venato di umorismo. Negli anni Sessanta, lo scrittore e poeta locale Silvano Alessandrini, che del palio fu il padre putativo, inventò il personaggio di Eriberto Bindo, detto lo Stanco. La finzione riuscí cosí bene che per anni gli studiosi medievali cercarono, inutilmente, le tracce di Eriberto negli archivi toscani. Tiziano Zaccaria

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Un brindisi con Gambrinus

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ei giorni che precedono la prima domenica di maggio, il borgo austriaco di Zell am Ziller ospita la Gauderfest, una festa popolare le cui radici risalgono al Medioevo. Un documento del 1428 riporta che gli agricoltori tirolesi e salisburghesi, ma anche i commercianti veneziani, arrivavano in questo piccolo centro del Tirolo all’inizio di maggio, nel giorno della festa parrocchiale, per il mercato annuale che si svolgeva nella Gauderlehen, nei pressi della locale fabbrica di birra Zillertal. Su questo terreno la Gauderfest è rimasta fino alla metà del Novecento, per essere poi spostata nel centro del paese, dove quest’anno si tiene da venerdí 1° a domenica 3 maggio.

Tutto un anno in un proclama Il venerdí si inizierà con il tradizionale proclama satirico dedicato a Re Gambrinus, nel quale alcuni attori popolari assumeranno il ruolo del sindaco, del prete, dell’economista, dell’imprenditore e del titolare della fabbrica di birra, ripercorrendo in maniera divertente gli eventi dell’anno passato. Nei due giorni successivi sono in programma un torneo della tradizionale lotta ranggeln, un mercato di prodotti agricoli e artigianali tirolesi, esibizioni di gruppi folcloristici, concerti di musica popolare, giochi antichi come il lancio del ferro di cavallo e stand gastronomici con la birra Zillertal. Gran finale la domenica, con la sfilata di 2000 figuranti in costumi tirolesi, bande musicali e carri addobbati trainati da cavalli e buoi. T. Z.

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Tutti liberi! I

l 26 aprile 1296 il signore locale Vuillerme de Nus concesse agli abitanti del piccolo borgo di Nus la Charte des Franchises, che venne solennemente letta in pubblico davanti alla cappella di S. Giovanni. Il termine franchigia deriva da francus, libero, e rappresenta una concessione di libertà concrete da parte dei feudatari ai propri sudditi, in cambio dell’impegno a contribuire alla difesa del territorio in caso di guerra. In sintesi, il documento del 1296 riporta che tutti gli abitanti del borgo vengono dichiarati liberi da ogni schiavitú e prestazione obbligatoria di lavoro, nonché da alcune imposte personali. Inoltre, in quella occasione, il diritto ereditario venne esteso anche alle donne, alle quali in precedenza era vietato acquistare, possedere o ereditare qualsiasi bene. In cambio, in caso di guerra, gli abitanti si impegnavano a difendere il borgo, aiutando economicamente il signore nelle spese militari.

Per volere di Tommaso I Nell’odierna regione ai confini con Francia e Svizzera, i primi a godere di queste franchigie furono gli abitanti di Aosta, ai quali furono concesse nel 1191 direttamente dal conte Tommaso I di Savoia. In quella prima Charte viene citata anche la famiglia «de Nus», che all’epoca risiedeva ancora ad Aosta, nel Palazzo Ansermin, nell’odierna piazza Plouves. Gli abitanti di altri borghi valdostani, come Torgnon, Antey, Fenis, Saint-Marcel, Cly e appunto Nus, dovettero attendere ancora un secolo prima di vedersi

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appuntamenti • A Nus, in Val d’Aosta,

si rievoca il provvedimento con cui il signore locale volle regolare il rapporto con i suoi sudditi nel segno della liberalità

È in programma anche il torneo di «Palla Antica», una sorta di calcio ante litteram, nel quale due squadre composte da sei elementi cercano di condurre nella porta avversaria un pallone di pezza utilizzando ramazze di frasche.

Sulla via consolare

concedere le stesse libertà dai rispettivi signori. Oggi la concessione del 1296 viene rievocata annualmente a Nus in un week end di fine aprile, quest’anno in programma sabato 26 e domenica 27. La rievocazione propone una sfilata storica con oltre 500 figuranti in costumi d’epoca, un mercatino artigianale, un torneo di spade, spettacoli di musica e danza, dimostrazioni di tiro con l’arco e falconeria, degustazioni di piatti storici e della tradizione locale, attività ludiche e didattiche per i bambini. La domenica mattina, dopo la messa solenne con coro e musici, viene riproposta l’antica usanza del Recorderis, ovvero l’offerta di tocchi di pane bianco e nero farciti con noci, fichi e castagne.

L’antico borgo di Nus si trova nella valle centrale della Dora Baltea, a una dozzina di chilometri da Aosta. Fu fondato in epoca romana, quando era una mansio, ovvero un punto di sosta, lungo la via consolare delle Gallie. Il toponimo Nus deriva dal latino nonus, nove: il borgo si trovava infatti a 9 miglia romane da Augusta Prætoria Salassorum, l’odierna Aosta. Nel Medioevo la famiglia dei signori di Nus esercitò la propria autorità sul territorio dall’XI al XVI secolo. A loro appartenne il Castello situato sull’alto promontorio sopra al borgo, in località Plane, risalente con ogni probabilità a un periodo precedente al XIII secolo, data la forma e l’antichità delle sue pietre (anche se il suo nome comparve per la prima volta soltanto in un documento del 1287). Nei due secoli successivi il maniero fu modificato fino alle forme attuali, oltre agli ultimi lavori di restauro eseguiti nel 1595, necessari dopo lo scoppio di un incendio. Nell’Ottocento, con l’estinzione della famiglia dei signori di Nus, il castello andò in rovina; in tempi recenti è stato recuperato dall’amministrazione comunale. T. Z. aprile

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Alle origini del «Made in Italy»

L’economia milanese e italiana nel Medioevo

A destra elmo forgiato dall’armaiolo milanese Lucio Piccinino. 1565. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Rüstkammer. Nella pagina accanto Benvenuto Cellini, spilla da cappello con Leda e il cigno. 1528-30. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.


il nuovo dossier di medioevo Armaioli, tessitori, gioiellieri, fabbricanti di occhiali... Sono solo alcuni dei protagonisti, spesso anonimi ma non per questo secondari, della straordinaria fioritura dell’attività manifatturiera che fece dell’Italia la culla dell’alto artigianato e del primo design industriale

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on parole estasiate, il chimico, mineralogista e metallurgista senese Vannoccio Biringuccio ebbe a esprimere al massimo grado la sua ammirazione per la capitale del ducato sforzesco, che aveva avuto occasione di visitare all’inizio del Cinquecento, rimanendo affascinato da una bottega per la lavorazione dell’ottone. Le sue frasi manifestano nel modo piú compiuto quel clima, di cui doveva essere intrisa la Milano dell’epoca, improntato all’esaltazione di ogni attività in quanto specchio dello splendore dell’ingegno e del potere dell’arte. Da almeno due secoli, infatti, la città era una sorta di «grande fabbrica», in cui si producevano merci di ogni tipo, spesso di lusso e di altissima qualità, che trovavano sbocco fin dal Trecento nei principali mercati europei, e soprattutto in quello raffinato di Avignone, dove nel XIV secolo si era

stabilita la corte papale. La sperimentazione incessante in ogni campo dello scibile umano – che aveva dominato l’attività del suo piú illustre «cittadino adottivo», Leonardo da Vinci – caratterizzava, sul finire del Quattrocento, la maggior parte dei settori, favorita dal fervore che la corte rinascimentale degli Sforza promuoveva, soprattutto all’epoca di Galeazzo Maria e di Ludovico il Moro. Da questa preziosa e ammirata testimonianza prende le mosse un emozionante viaggio nella storia: il nuovo Dossier di Medioevo vi porterà, infatti, alla scoperta delle origini, spesso insospettate, di molte di quelle che oggi chiamiamo le «eccellenze» della nostra produzione manifatturiera. Per scoprire che dietro quella semplice etichetta, Made in Italy, si cela una storia lunga e avvincente...


agenda del mese

Mostre brescia Raffaello. Opera prima U Museo di Santa Giulia fino al 6 aprile

Dopo aver ospitato le rassegne dedicate a Giorgione, Savoldo e fra’ Bartolomeo, il Museo di Santa Giulia ha scelto Raffaello per coronare un progetto espositivo ideato per rivivere il Rinascimento. La mostra riunisce per la prima volta i frammenti dell’opera prima del maestro, la Pala Baronci, presentando l’Angelo della Pinacoteca insieme ad altri tre grandi lavori: l’Angelo dal Louvre di Parigi, il Padre Eterno e la Madonna dal Museo Nazionale di Capodimonte. Arricchiscono la mostra il magnifico disegno preparatorio dal Palais des Beaux Arts di Lille e la copia parziale di Ermenegildo Costantini

a cura di Stefano Mammini

(1791) dalla Pinacoteca di Città di Castello. La realizzazione del progetto ha segnato l’avvio dell’ultima fase del percorso che porterà alla riapertura della Pinacoteca Tosio Martinengo. info tel. 030 2977834; e-mail: santagiulia@ bresciamusei.com; rinascimento. bresciamusei.com novara In principio. Dalla nascita dell’Universo all’origine dell’arte U Complesso Monumentale del Broletto fino al 6 aprile

Allestita nel complesso medievale del Broletto, la mostra illustra un percorso che si snoda lungo un arco cronologico vastissimo e nel quale convivono i disegni originali di Galileo Galilei e la rappresentazione del mito di Atlante nelle opere del Guercino, le

teorie di Newton e il mito di Medusa. L’obiettivo è quello di interrogarsi, e provare a rispondere, alle domande che l’umanità si pone da sempre, costruendo narrazioni diverse, mutevoli e affascinanti dell’idea dell’origine del tutto. Da sempre l’uomo guarda l’immenso alla scoperta delle origini della vita. Siamo attratti dall’origine, vogliamo conoscere l’inizio: del cosmo, della vita, di una teoria o di un’opera d’arte. E scienziati, pensatori, artisti e poeti hanno dato a loro modo risposte sorprendenti per colmare il nostro desiderio di conoscenza, alimentando dopo ogni scoperta, dopo ogni rappresentazione, nuove emozioni, nuovo stupore, nuove indagini e nuove immaginazioni. info tel. 199 151 115; e-mail mostrainprincipio@ civita.it; www.mostrainprincipio.it Bologna Giovanni da Modena. Un pittore all’ombra di San Petronio U Museo Civico Medievale, Basilica di San Petronio fino al 12 aprile

Giovanni di Pietro Falloppi, meglio noto

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come Giovanni da Modena, è per la prima volta protagonista di una rassegna monografica. Modenese di nascita, ma bolognese di adozione, l’artista fu autore della decorazione della Cappella Bolognini in S. Petronio (1411-12 circa), con Il Giudizio universale, Storie dei Magi e Storie di San Petronio, capolavoro assoluto della pittura tardo-gotica bolognese

dipinti su tavola, affreschi e miniature – per ricostruirne il lungo periodo di attività, avviato all’inizio del XV secolo. info tel. 051 2193930; e-mail: museiarteantica@ comune.bologna.it

che, insieme alle altre testimonianze ancora presenti nella basilica, tra cui i grandi affreschi di significato allegorico nella Cappella dei Dieci di Balia (1420), costituirà un necessario completamento del percorso espositivo. Sarà l’occasione per mettere a confronto varie opere del pittore provenienti da musei e collezioni private –

Cosimo I de’ Medici per la Sala de’ Dugento di Palazzo Vecchio, i venti arazzi cinquecenteschi raffiguranti la storia di Giuseppe costituiscono una delle piú alte testimonianze dell’artigianato e dell’arte rinascimentale. I disegni preparatori furono affidati ai maggiori artisti del tempo, primo fra tutti Pontormo. Ma le prove

roma Il Principe dei sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Bronzino U Palazzo del Quirinale, Salone dei Corazzieri fino al 12 aprile

Commissionati da

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predisposte da quest’ultimo non piacquero a Cosimo I, che decise di rivolgersi ad Agnolo Bronzino, allievo di Pontormo e già pittore di corte, e a cui si deve parte dell’impianto narrativo della serie. Tessuti alla metà del XVI secolo nella manifattura granducale, tra le prime istituite in Italia, furono realizzati dai maestri arazzieri fiamminghi Jan Rost e Nicolas Karcher sui cartoni forniti da Agnolo Bronzino, Jacopo Pontormo e Francesco Salviati. Dal 29 aprile la mostra, la cui realizzazione è stata resa possibile dal sostegno della Fondazione Bracco, sarà presentata a Milano, in Palazzo Reale. Successivamente (dal 16 settembre al 15 febbraio 2016, farà tappa a Firenze, in Palazzo Vecchio). info www.quirinale.it roma Lorenzo Lotto e i tesori artistici di Loreto U Museo Nazionale di Castel Sant’angelo fino al 3 maggio

Il Museo-Antico Tesoro di Loreto, ospitato negli ambienti del cinquecentesco Palazzo Apostolico della città, adiacente alla basilica della Santa Casa, prende vita a seguito dei periodici trasferimenti di opere e oggetti d’arte che, dalla metà dell’Ottocento, interessarono la basilica e gli altri ambienti contigui. Il museo viene

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inaugurato ufficialmente l’8 settembre 1951, ma solo molti anni dopo, il 15 giugno 1974, viene aperto in maniera continuativa al pubblico. L’8 settembre 1997 viene inaugurata la ristrutturazione del museo, in nuovi e piú ampi locali. L’attuale mostra è organizzata in vista di un piú scientifico e razionale riallestimento delle collezioni museali del Museo-Antico Tesoro della Santa Casa di Loreto e per proporre a un pubblico piú vasto, e internazionale, che visita gli spazi del Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, questo ricco e prezioso patrimonio di arte e di fede. Il percorso della mostra si snoda con una scelta significativa dei dipinti di Lorenzo Lotto, segue l’iconografia lauretana, poi opere già collocate sugli altari e altri ambienti della basilica e infine preziosi reperti del Tesoro della

basilica, scampati alle razzie napoleoniche. info tel. 06 32810; http://castelsantangelo. beniculturali.it Gambettola (FC) Dalla fattoria al Palazzone. Storie di Gambettola U Biblioteca Comunale fino al 3 maggio

La costruzione di un parcheggio nella cittadina romagnola ha recentemente portato alla scoperta dei resti di un’antica fattoria costruita alla metà del Quattrocento, raro caso di edificio rurale di età rinascimentale. Dal suo scavo nasce questa mostra che espone ceramiche cinquecentesche, rinvenute perlopiú in una piccola cisterna utilizzata prima per la raccolta dell’acqua piovana e poi come discarica. Piatti, ciotole e boccali facevano parte

del servizio da tavola mentre le pentole e i coperchi in ceramica grezza erano usati in cucina per la cottura e preparazione dei cibi. Le porcellane da mensa hanno decori brillanti di colore giallo/arancio e azzurro/blu, con fogliame su fondo berettino o repertori di candelabri e robbiane. info tel. 0547 45338; e-mail: biblioteca@comune. gambettola.fc.it

e riccamente documentato nella mostra scelta per festeggiare l’apertura del nuovo Museo di Etnografia di Ginevra. Per l’occasione sono stati selezionati oltre 300 reperti, tra i quali spicca il corredo funerario del «Signore di Ucupe», un funzionario di alto rango vissuto nel V secolo. info www.meg-geneve.ch

ginevra

New york

I sovrani moche. Divinità e potere nell’antico Perú U Museo Etnografico fino al 3 maggio

Gli indiani delle pianure: artisti della terra e del cielo U The Metropolitan Museum of Art fino al 10 maggio

Tra il I e l’VIII secolo i Moche diedero vita a uno Stato vero e proprio, vale a dire a un organismo sociale, politico ed economico centralizzato e gerarchizzato, pur senza avere sviluppato le principali innovazioni tecniche e intellettuali che solitamente vengono legate all’emergere delle prime civiltà «statali»: la moneta, la scrittura, l’economia di mercato, il sistema stradale… Un «controsenso» affascinante, analizzato

A conclusione di un tour inziato a Parigi nel 2014, giunge al Metropolitan una rassegna che documenta la produzione artistica e artigianale di alcune delle piú importanti culture dei nativi americani, soffermandosi, in particolare, sui gruppi stanziati nelle grandi aree di pianura. I materiali selezionati – tra cui pitture, disegni, sculture in pietra e legno, monili, abiti cerimoniali, copricapi e tessuti ricamati – abbracciano un orizzonte cronologico assai ampio. Si tratta di un mondo in larga parte perduto e l’esposizione ha perciò un altissimo valore di recupero e

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agenda del mese vicenza TUTANKHAMON CARAVAGGIO VAN GOGH. La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento U Basilica Palladiana fino al 2 giugno

testimonianza d’una realtà che l’Occidente «civilizzato» ha a lungo e colpevolmente relegato ai margini della storia. info www.metmuseum.org Bondeno (FE) Acque e bonifiche a Bondeno dal Neolitico ad oggi U Centro Sociale 2000 fino al 31 maggio

In una regione dove da circa 3500 anni – come ci insegna la grande vasca lignea terramaricola di Noceto (PR) –, trattenere e rilasciare l’acqua ha rappresentato un fattore fondamentale per l’economia e la vita, oltre che una sfida strategica per la tecnologia, la mostra Aquae ricorda la centralità di questo rapporto. Il percorso inizia con un inquadramento storico-ambientale del paesaggio padano nelle età precedenti la romanizzazione della pianura, prosegue con un approfondimento nell’età romana con la ricostruzione di una porzione di acquedotto

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e una visione d’insieme della centuriazione, passando poi all’età medievale. Ricca è la documentazione archivistica che attesta l’organizzazione e il controllo delle acque nei territori attualmente localizzati alla destra e alla sinistra del Panaro con pannelli e mappe di grande formato, con testi che riportano ad esempio il trattato stipulato nel 1487 fra Giovanni II Bentivoglio e Ercole I d’Este per la realizzazione della prima imponente opera di bonifica idraulica, il Cavamento Foscaglia meglio noto come Collettore delle Acque Alte. Vengono poi illustrate le diverse gestioni territoriali delle acque a sinistra del Panaro nel corso del tempo, portando il visitatore a conoscenza del sistema dei «serragli», sistema difensivo utilizzato nelle diverse corti dai Pico o dai Gonzaga che consentivano di arginare l’invasione delle acque. info tel. 051 6871757

Quella allestita nella Basilica Palladiana vuole essere un’esposizione di capolavori, sensazioni, emozioni e simboli, indagando una vicenda antica, quella degli Egizi, ma soprattutto poi una seconda storia, dal Quattrocento al Novecento in pittura, lungo il suo versante struggentemente serale e notturno. Quella in cui alcuni artisti raffigurano una manciata di stelle o un chiaro di luna, come profonde corrispondenze dell’anima. Ma anche la notte come luogo nel quale si raccolgono alcuni grandi passaggi della storia dell’arte. Oltre 100 opere,

spesso rare, divise in sei sezioni e provenienti da trenta musei e collezioni di tutto il mondo, musicano questo affascinante racconto sinfonico. Un poema che inizia lungo il Nilo, dove si sedimenta l’idea della notte del mondo oltre il mondo e continua con opere di Giorgione, Caravaggio, Tiziano, El Greco... Nella terza sezione si confrontano Rembrandt e Piranesi, mentre la quarta si sofferma sul paesaggio, dal momento del tramonto fino a quello in cui nel cielo si levano la luna e le stelle. Chiudono il percorso il pieno Novecento e un riassunto di tutti i temi affrontati, affidato a dipinti di Gauguin, Cézanne, Caravaggio, Luca Giordano e altri grandi maestri. info Linea d’ombra, call center 0422 429999; www.lineadombra.it

Reggio Emilia PIERO DELLA FRANCESCA. Il disegno tra arte e scienza U Palazzo Magnani fino al 14 giugno

Attorno al Maestro di Sansepolcro aleggia da sempre un velo di mistero e di enigmaticità dovuto sia ai pochi documenti che lo riguardano, sia alla singolarità del suo linguaggio espressivo che coniuga, magicamente in equilibrio perfetto, la plasticità e la monumentalità di Giotto e Masaccio con una straordinaria capacità di astrazione e sospensione. Un’essenzialità e purezza di forme che trovano fondamento nei suoi interessi matematici e geometrici mirabilmente espressi nei trattati che ci ha lasciato: l’Abaco, il Libellus de quinque corporibus regularibus, il De Prospecitva pingendi e il da poco scoperto Archimede. Ed è proprio su questi preziosi testimoni dell’opera scritto-grafica di Piero, in specie sul De prospectiva pingendi, che la mostra di Palazzo Magnani prende corpo. L’esposizione presenta la figura del grande artista nella sua doppia veste di disegnatore e grande matematico. Per l’occasione è riunito a Palazzo Magnani – fatto straordinario, per la prima volta da mezzo millennio – l’intero corpus grafico e teorico aprile

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di Piero della Francesca: i sette esemplari, tra latini e volgari, del De Prospectiva Pingendi (conservati a Bordeaux, Londra, Milano, Parigi, Parma, Reggio Emilia) i due codici dell’Abaco (Firenze), il Libellus de quinque corporibus regularibus (Città del Vaticano) e Archimede (Firenze). info tel. 0522 454437 o 444446; e-mail: info@palazzomagnani.it firenze il Medioevo in viaggio U Muso Nazionale del Bargello fino al 21 giugno

accezione piú ampia: da quello simbolico, che poteva durare poche ore o consistere nel semplice attraversamento di una strada (come nel caso della sposa che, all’indomani delle nozze, s’insediava sotto il nuovo tetto coniugale), alle grandi spedizioni militari o scientifiche. Un’attenzione particolare è inoltre riservata alle peregrinazioni dei grandi artisti, sulle orme dei ripetuti viaggi compiuti da Albrecht Dürer tra la Germania e l’Italia. info tel. 055 2388606; www.polomuseale.firenze.it Milano Arte lombarda dai Visconti agli Sforza. Milano al centro dell’Europa U Palazzo Reale fino al 28 giugno

La mostra evoca categorie diverse di viaggiatori – mercanti, pellegrini, principi, artisti – e indaga sulle motivazioni che li spinsero a lasciare le proprie dimore e la propria terra per lanciarsi in avventure che, in realtà, avevano inizio proprio nel cuore delle rispettive abitazioni. Il viaggio è dunque inteso nella sua

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Ispirata in modo programmatico, ma criticamente rivisto, alla straordinaria esposizione Arte lombarda dai Visconti agli Sforza – allestita nel 1958 nella medesima sede espositiva risanata dopo i bombardamenti del 1943 –, l’attuale rassegna ripensa quel progetto nella chiave piú pertinente e attuale: quella della centralità di Milano e della Lombardia, alle radici della cultura dell’Europa moderna. Prende in esame lo stesso periodo storico, dunque dal primo

Trecento al primo Cinquecento: tutta la signoria dei Visconti, poi degli Sforza, fino alla frattura costituita dall’arrivo dei Francesi. I due secoli circa di cui la mostra si occupa sono tra i piú straordinari della storia milanese e lombarda, celebrati dalla storiografia e fissati nella memoria comune come una sorta di età dell’oro, il primo momento di compiuta realizzazione di una civiltà di corte dal respiro europeo. Il percorso espositivo si articola in sezioni e sottosezioni; l’ordine cronologico illustra la progressione degli eventi e la densità della produzione artistica: pittura, scultura, oreficeria, miniatura, vetrate, con una vitalità figurativa che soddisfa le esigenze della civiltà cortese e conquista rinomanza internazionale al punto da divenire sigla d’eccellenza riconosciuta: l’«ouvraige de Lombardie». info tel. 02 0202 torino Raffaello: la Madonna del Divino Amore U Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli fino al 28 giugno

Negli ultimi anni a Raffaello sono state dedicate mostre importanti, che hanno messo a fuoco i diversi momenti del suo percorso artistico. Il Museo di Capodimonte

ha partecipato con i suoi dipinti a queste iniziative, realizzando importanti interventi di restauro e campagne di indagini che hanno contribuito significativamente alla comprensione del complesso e affascinante iter creativo del maestro, e in particolare della celeberrima Madonna del Divino Amore, ora giunta a Torino per la prima volta. La mostra alla Pinacoteca Agnelli diventa l’occasione per presentare in maniera esauriente e significativa i risultati di questi studi e attraverso l’utilizzo di supporti digitali, che rendano fruibili le indagini riflettografiche e consentano di leggere – anche al grande pubblico – la struttura interna del dipinto e le numerose varianti e i pentimenti dell’artista durante la stesura

dell’opera, in serrato dialogo con i disegni e gli schizzi preparatori del maestro urbinate conservati nelle piú prestigiose collezioni grafiche europee, due provenienti dall’Albertina di Vienna e uno dal museo delle Belle Arti di Lille. info tel. 011 0062713; www.pinacoteca-agnelli.it conegliano Carpaccio. Vittore e Benedetto da venezia all’Istria. L’autunno magico di un maestro e la sua eredità U Palazzo Sarcinelli fino al 28 giugno

La mostra indaga e illustra gli ultimi dieci anni dell’attività di Vittore Carpaccio (dal 1515 al 1525 circa), considerato il piú grande narratore, «teatralizzatore» e vedutista ante litteram nella pittura veneziana, anni che sono segnati da un’importante svolta

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agenda del mese

nella sua poetica. Per l’occasione, sono state riunite opere di grandissima qualità e originalità, dipinti celebri da ritrovare come il San Giorgio che lotta con il drago di S. Giorgio Maggiore, la Pala di Pirano, il Polittico da Pozzale del Cadore, o la particolarissima Entrata del podestà Contarini a Capodistria che, nella prospettiva adottata, consente allo spettatore un insolito e realistico sguardo sulla città; opere da riscoprire come le clamorose portelle d’organo dal Duomo di Capodistria o il bellissimo Trittico di S. Fosca ricomposto per la prima volta dopo cinquant’anni, in collaborazione con Permasteelisa Group, da Zagabria, Venezia e Bergamo in occasione della mostra; e ancora dipinti da scoprire, di

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fatto mai visti, come la novità assoluta del Padre eterno tra i cherubini da Sirtori (Lecco). info tel. 199 151 114; www.mostracarpaccio.it Zurigo 1515 Marignano U Museo Nazionale Svizzero fino al 28 giugno

A 500 anni dalla fine delle «guerre d’Italia», il Museo Nazionale Zurigo rievoca un periodo straordinario della storia elvetica, quando in Europa la Confederazione era una potenza militare. «1515 Marignano» spiega le cause e le conseguenze della «battaglia dei giganti», che vide schierati 30 000 uomini in entrambi gli eserciti e fece dalle 10 000 alle 12 000 vittime. Che cosa cercavano gli Svizzeri in Lombardia? Come mai si trovarono

a battersi ad armi pari per il controllo del ducato di Milano, in piena espansione economica? La mostra cerca anche di illustrare come la Svizzera accusò la sconfitta, spiega il vantaggioso trattato di pace con la Francia e sottolinea il ruolo di Marignano nella storia della Confederazione.

però oscurare i non pochi meriti acquisiti nell’attività politica e culturale. È questo il filo conduttore della mostra al Musée du Luxembourg, che vuole dunque presentare il vero volto dei Tudor, ai quali si devono, per esempio, importanti commissioni in campo artistico – molte delle quali affidate a maestri chiamati dall’Italia – o significative scelte di campo in materia religiosa, prima fra tutte la decisione di rompere con la Chiesa cattolica romana, determinando il cosiddetto «scisma anglicano». info www. museeduluxembourg.fr Padova DONATELLO E LA SUA LEZIONE. Sculture e oreficerie a Padova tra Quattro e Cinquecento U Musei Civici agli Eremitani e Palazzo Zuckermann

fino al 26 luglio

La presenza di Donatello a Padova innova profondamente il linguaggio della scultura in Italia e fa della città uno dei centri d’irradiazione del Rinascimento. La lezione del Maestro rivive ora in uno straordinario percorso, che dai capolavori di Donatello - uno dei rilievi della base del monumento al Gattamelata, una inedita crocifissione bronzea e i fondamentali calchi ottocenteschi con i rilievi dell’altare del Santo – conduce alla scoperta di preziose sculture in bronzo e terracotta degli artisti che continuarono e svilupparono la sua rivoluzione nell’ambito della Serenissima. Testimonianze dell’altissima qualità raggiunta da Bartolomeo Bellano, Andrea Briosco detto il Riccio e Severo da

info www.nationalmuseum.ch

Parigi I Tudor U Musée du Luxembourg fino al 19 luglio

Fra le dinastie succedutesi sul trono inglese, quella dei Tudor, al potere tra il 1485 e il 1603, è una delle piú note. Ne fecero parte personaggi che hanno vissuto vicende quasi leggendarie – basti pensare a Enrico VIII –, ma che non devono aprile

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mostre • Lo Studiolo del Duca. Il ritorno degli Uomini Illustri alla Corte di Urbino U Urbino – Galleria Nazionale delle Marche fino al 4 luglio info www.mostrastudiolourbino.it

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o Studiolo d’Urbino, esempio capitale di una tipologia che conta pochi esemplari superstiti, rispondeva all’antica idea di ricreare un ambiente adeguato a favorire studio e riflessione, radunando immagini di sapienti – con i quali instaurare un dialogo virtuale – e oggetti rari con cui nutrire lo spirito. Un luogo di piccole dimensioni, collocato nel cuore dell’appartamento del Duca e adiacente

agli spazi domestici, tra gli ambienti destinati alle funzioni pubbliche e quelli deputati al sacro; composto da un continuum di tarsie lignee di bottega fiorentina (Giuliano, Benedetto da Maiano e bottega, con cartone di Botticelli per le Virtú e forse Francesco di Giorgio Martini) con raffigurati libri, strumenti musicali e scientifici, armi e insegne, clessidre e personificazioni allegoriche che compaiono sui ripiani della finta panca e fanno capolino da finte ante socchiuse. Un trionfo illusionistico coronato, tra rivestimento ligneo e soffitto, dai ritratti appunto di 28 Uomini Illustri: Platone, Aristotele, san Gregorio, san Girolamo, Tolomeo, Boezio, sant Ambrogio, Agostino,

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Cicerone, Seneca, Mosé, Salomone, Omero, Virgilio, san Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Euclide, Vittorino da Feltre, Pio II, Bessarione, Solone, Bartolo, Alberto, Sisto IV, Ippocrate, Pietro d’Abano, Dante Alighieri, Francesco Petrarca. Con la fine della dinastia dei Della Rovere e la devoluzione del ducato di Urbino alla Stato pontificio, ci fu lo smembramento dei dipinti dello Studiolo: un’operazione di rimozione «devastante» che portò alla parcellizzazione delle immagini con il taglio del supporto ligneo. Ciò che era stato concepito spazialmente e strutturalmente come unicum, un sistema organico fatto di aggregazioni e rimandi interni – reso ora esplicito anche dagli esami dei supporti – fu trasformato in una serie di ritratti individuali con la perdita del disegno unitario, dei riferimenti al Duca, del messaggio implicito. Oggi solo la metà dei ritratti è conservata nel Palazzo divenuto sede della Galleria Nazionale delle Marche, mentre le restanti 14 tavole, giunte al Museo del Louvre nel 1863, non sono mai tornate prima d’ora in Italia. Lo fanno in questa occasione, ricollocate nella loro posizione originale. L’eccezionale ricomposizione dello Studiolo è accompagnata da un apparato multimediale – per approfondire l’opera e il contesto storico e artistico nel quale essa ebbe origine, rievocando il clima della corte urbinate nell’ultimo decennio di vita del duca di Montefeltro, e per visualizzare il percorso d’indagine e studi condotto in questi anni –, ma anche da poche e importanti opere scelte. Cosí le testimonianze urbinati degli artisti che lavorarono per lo Studiolo si affiancano a opere che illustrano la personalità, il gusto e la cultura di Federico e di quanti gli furono accanto. Tra queste, possiamo ricordare: il San Sebastiano di Pedro Berruguete e la Comunione degli Apostoli di Giusto di Gand; il Ritratto di Guidobaldo da Montefeltro di Bartolomeo della Gatta e quello di Battista Sforza, di Domenico Rosselli; o, ancora, i due tondi marmorei raffiguranti Federico e Ottaviano Ubaldini.


agenda del mese Ravenna sono riunite per la prima volta agli Eremitani, mentre l’influenza del nuovo linguaggio rinascimentale nelle oreficerie sacre risplende nel vicino Palazzo Zuckermann, dove prosegue la mostra, con i preziosi manufatti del Tesoro del Santo. info Musei Civici agli Eremitani, tel. 049 8204551; Palazzo Zuckermann, tel. 049 8205664; http://padovacultura. padovanet.it/it/musei/ padova Donatello svelato. Capolavori a confronto U Museo Diocesano fino al 26 luglio

La scelta del termine «svelato» utilizzato nel titolo non è casuale: protagonista dell’esposizione, infatti, è un Donatello che va ad aggiungersi al catalogo delle opere certe del maestro fiorentino, il Crocifisso dell’antica chiesa padovana di S. Maria dei Servi. Ad affiancarlo, nel Salone dei Vescovi, sono quello realizzato per la chiesa di S. Croce in Firenze (1406-08) e quello bronzeo della basilica padovana di S. Antonio (1443-1449). L’opera, oltre che nell’attribuzione, è stata svelata anche nella sostanza, perché, sino al restauro appena ultimato, la scultura lignea si presentava con le parvenze di un

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Appuntamenti milano Medioevo in libreria, XIII Edizione: «Fede e devozione nel Medioevo» U Civico Museo Archeologico di Milano, Sala Conferenze 11 aprile

Ultimo appuntamento della rassegna, che prevede al mattino la visita guidata, e, nel pomeriggio, la proiezione video e la conferenza. L’incontro bronzo, per effetto di uno spesso strato di ridipinture. Ora, invece, ne sono state recuperate la straordinaria finezza dell’intaglio e la cromia originale. info tel. 049 8761924 o 049 652855; www. museodiocesanopadova.it; https://www.facebook. com/donatellosvelato Parigi Sculture sveve della fine del Medioevo U Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 27 luglio

Tra il XV e il XVI secolo, la Svevia, regione storica che si estende nella Germania sud-occidentale, fra la Foresta Nera e la Baviera, fu la fucina di una produzione scultorea copiosa e raffinata, le cui opere si diffusero ben oltre i confini della loro regione d’origine. La rassegna parigina ne riunisce una trentina e pone sotto i riflettori le creazioni di maestri

come Niklaus Weckmann, Daniel Mauch, Ivo Strigel, Lux Maurus o Jörg Lederer. Distribuite in un percorso cronologico e geografico, si tratta di sculture perlopiú a soggetto religioso, destinate all’arredo delle chiese, che si distinguono per la grazia dei tipi femminili e la sapiente resa dei drappeggi. Merita inoltre d’essere segnalato il fatto che la mostra riunisce alcuni gruppi da tempo smembrati e dispersi in varie collezioni museali: è il caso del Cristo in preghiera del Louvre, che «ritrova» due dei tre Apostoli dormienti (oggi al Maximilianmuseum di Augsburg), insieme ai quali animava una monumentale composizione del Monte degli Ulivi, probabilmente realizzata per l’abbazia di Wettenhausen di Kammeltal. info www.musee-moyenage.fr

pomeridiano ha luogo, con inizio alle ore 15,30, presso la Sala Conferenze del Civico Museo Archeologico di Milano e si apre con il documentario Medioevo Movie. Viaggio nel Medioevo filmato (a cura di Italia Medievale), al quale fa seguito la conferenza:

11 aprile, ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Cristoforo, a cura di Mauro Enrico Soldi; ore 16,00: Luigi Canetti, Università di Bologna: Devozione e ornamento nella religiosità medievale. info tel. 02 45329840; e-mail: info@ italiamedievale.org; italiamedievale.org; medioevoinlibreria. blogspot.it/

CASTELDELCI (RN) Giornate medievali nelle terre dei Montefeltro 18-19 aprile

Nel secondo week end di aprile, nel cuore della Valmarecchia, a Casteldelci (Rimini), si celebra l’antico territorio di caccia dei Montefeltro, signori di aprile

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appuntamenti • La Porta del Cielo U Siena – Duomo

fino al 31 ottobre info call center 0577 286300 (attivo dal lunedí al venerdí, 9,00-17,00)

L’

Opera della Metropolitana torna a promuovere l’apertura straordinaria della «Porta del Cielo», integrando alle classiche regole di prenotazione e visita guidata, nuove modalità di accesso. La visita ai Sottotetti del Duomo, della durata di 30 minuti, e alla Cattedrale con la Libreria Piccolomini può essere effettuata ogni mezz’ora in base agli orari di apertura al pubblico della Cattedrale. Ogni visitatore riceverà in omaggio la Roof Map, uno strumento utile per l’effettuazione della visita, che si trasforma poi in un gadget da conservare come ricordo, disponibile in piú lingue. È inoltre possibile acuistare, fino all’esaurimento delle disponibilità, il biglietto All Inclusive Opa Si Pass Plus: tale formula consente non solo di accedere alla Porta del Cielo, ma di completare il tour, visitando gli altri siti del Complesso Museale del Duomo di Siena (Cattedrale e Libreria Piccolomini, Museo dell’Opera Metropolitana e panorama dal Facciatone, Battistero e Cripta sotto il Duomo). Al percorso si accede attraverso la magnifica facciata del Duomo, fiancheggiata da due imponenti torri terminanti con guglie che si proiettano verso l’alto. All’interno di

questo sperduto e affascinante lembo di terra, fra Toscana, Emilia-Romagna e Marche. Sabato 18, si inizia, nella tarda mattinata, con un trekking sui sentieri storici, visitando la chiesa di S. Maria in Sasseto (antico convento camaldolese del 1100), un antico mulino sul fiume Senatello, il ponte medievale, il borgo di Casteldelci; dopo il pranzo, sono previste letture di brani tratti da libri sul Medioevo (a cura dell’Associazione «Culturanatura»; info e prenotazioni: Alfredo Spanò, tel. 334 8282010).

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Domenica 19, dalla mattina, nel borgo medievale di Casteldelci, sarà attivo un mercatino, con artigiani, un’antica zecca clandestina e venditori tipici del tempo. Nel pomeriggio poi si riprende con la visita in costume medievale, dei gruppi storico-rievocatori, un colorato corteo di cavalieri e cortigiane, che ripercorrerà le strade antiche calpestate dai signori dei Montefeltro. Verso le ore 20,00, la manifestaizone si chiude con la cena medievale (per info e prenotazioni, Elsa: tel 0541 915454). info valmarecchia.org

queste si inseriscono scale a chiocciola, quasi segrete perché nascoste alla vista dei visitatori, che portano ai tetti. Giunti sopra le volte stellate della navata destra, si inizia un itinerario riservato a piccoli gruppi che riserva scoperte ed emozioni. È infatti possibile camminare «sopra» il sacro tempio e ammirare suggestive viste panoramiche «dentro» e «fuori» della cattedrale. Sono aperte al visitatore le multicolori vetrate di Ulisse De Matteis con la rappresentazione degli Apostoli, dalle quali i turisti si affacceranno all’interno della cattedrale con la vista del pavimento, dei principali monumenti scultorei e dell’interno della cupola con il «pantheon» dei santi senesi. Si percorre dunque il ballatoio della cupola dal quale si può contemplare l’altar maggiore, la copia della vetrata di Duccio di Buoninsegna, con al centro la mandorla di Maria Assunta, e i capolavori scultorei. Gli affacci esterni offrono splendidi panorami della città e della campagna circostante. Si entra, infine, dietro il prospetto della facciata nel terrazzino che si affaccia su piazza del Duomo con la vista dello Spedale di S. Maria della Scala.

Ferrara restauro XXII edizione U Quartiere Fieristico dal 6 al 9 maggio

Forte del patrocinio di EXPO Milano 2015, il Salone di Ferrara, RESTAURO, si propone ancora una volta come «mediatore» tra conservazione del passato e innovazione, presentando al pubblico la modernità nel restauro con il meglio dei materiali e delle tecnologie presenti sul mercato, e il consueto dialogo tra spazi espositivi e di riflessione, dibattito e formazione professionale, tra pubblico e privato. Tra le novità di questa

edizione, spicca un’ipotesi concreta di Smart Museum, ovvero una proposta di spazio espositivo allestito anche attraverso l’uso di applicazioni tecnologiche che ne facilitino il percorso museale e la didattica. Suggerendo, grazie all’apporto di start up e aziende che operano nel campo dello sviluppo di percorsi museali e turistici, una risposta alle

problematiche esistenti annesse ad accessibilità, fruizione e promozione di un luogo che deve essere testimonianza di qualità di un patrimonio culturale raccolto e intelligentemente conservato ma anche innesco di interrelazioni spaziali. info tel. 051 6646832 o 051 860965; e-mail: info@salonedelrestauro. com; www. salonedelrestauro.com

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A Palermo, un soldato francese offese una donna che stava recandosi alla preghiera del Vespro: la reazione di un giovane deciso a vendicare l’affronto innescò una sommossa che, sostenuta dai nobili, si diffuse in tutta la Sicilia. Fino a trasformarsi in una guerra che dilaniò l’isola per ben vent’anni

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vespri siciliani di Federico Canaccini

Pasqua 1282

Quel Lunedì dell’Angelo... L

a primavera del 1282 era trascorsa in Sicilia in un fermento febbrile: gli agenti del re di Napoli, Carlo I d’Angiò, avevano setacciato l’isola col fine di requisire grano, maiali, bestiame per foraggiare la grande spedizione che il sovrano stava allestendo in vista di una crociata verso Bisanzio e la Terra Santa. La calma che regnava era, di fatto, solo apparente.

Erulo Eroli, I Vespri siciliani. Olio su tela, 1890-1891. Palermo, Galleria d’Arte Moderna.

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L’origine della rivolta del Vespro può essere fatta risalire alla lotta tra gli Svevi e l’alleanza formata dal papa e Carlo I d’Angiò. Dopo la sua duplice vittoria a Benevento (1266) e a Tagliacozzo (1268) contro Manfredi e Corradino (vedi «Medioevo» nn. 169 e 199, febbraio 2011 e agosto 2013; anche on line su medioevo.it), il sovrano angioino era rimasto l’unico e indiscusso signore del Regno di Sicilia. Clemente IV, pontefice che, date le sue origini – era originario della Linguadoca –, non nascondeva le proprie simpatie per la Francia, lo lasciò libero di agire e Carlo sfruttò questa sua autonomia rivelandosi un sovrano spregiudicato, crudele e molto pratico. Le condanne a morte emesse contro Corradino e i suoi ufficiali – ed eseguite a Napoli nel 1268 – segnarono l’inizio di una politica di espropri dei beni e delle

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vespri siciliani eroi anonimi, femminili, popolari

Dina, Clarenza e la resistenza messinese Della rivolta del Vespro si sa molto, ma molto è probabilmente anche frutto della fantasia. L’identità di colui che uccise Droetto ci è ignota: non è il marito, che soccorre la moglie, nella narrazione cronachistica, ma rimane anonimo. Durante la rivolta, nelle cronache, si cita poi piú volte la partecipazione della «gente» e del «popolo». Durante l’assedio di Messina, si distinsero due donne, Dina e Clarenza, che avrebbero dato l’allarme, suonando le campane, per avvisare la popolazione di un attacco angioino. Evidentemente le donne erano state coinvolte nelle ronde e, supponendo che i due nomi siano di fantasia, diverse attestazioni ci mostrano come anche le donne ebbero un ruolo nella rivolta. Durante la resistenza messinese, alle esose richieste di Carlo, i Messinesi «tutti» avrebbero risposto: «Prima di arrenderci a questi patti, mangeremo i nostri figli! Preferiamo morire tutti dentro la nostra città, colle nostre moglie e i nostri figlioli, che andare morendo per tormenti, prigionieri in altri paesi». Sulla resistenza messinese, e la partecipazione delle donne, circolava anche una canzoncina, riportata da Giovanni Villani e che recitava: «Deh com’egli è gran pietate, delle donne di Messina, veggendole scapigliata, portando pietre e calcina, Dio gli dea briga e travaglia, chi Messina vuol guastare». proprietà dei ghibellini e di quanti avevano mostrato fedeltà agli Svevi, per distribuirli poi ai suoi ufficiali. Carlo, inoltre, rinnovò i vescovi e gli abati, creando un’intera classe dirigente, sia laica che ecclesiastica, a lui fedele, con il tacito avallo del papa.

Il rimpianto per Manfredi

Il sovrano aveva una serie di obiettivi, tra cui il miraggio di un’espansione in Epiro, in Acaia e nelle terre ancora controllate da Bisanzio, una città e un impero che già da tempo volgevano al declino. Dopo la conquista crociata del 1204, i territori bizantini, ormai allo sbaraglio, erano divenuti facile preda di sovrani senza scrupoli. Ma, per finanziare spedizioni militari, Carlo dovette tassare i propri sudditi e in particolare la Sicilia che, dal suo arrivo, non era piú il centro del dominato, avendo traslato la capitale da Palermo a Napoli. La poca attenzione del

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sovrano angioino per l’isola, fedelissima a Federico II e agli Svevi, è attestata anche dalla rarità delle sue visite: tra il 1270 e il 1271 il re sbarcò in Sicilia una sola volta, non per una visita di cortesia, ma per imbarcarsi alla volta della Terra Santa come crociato. Ripensando agli anni di Manfredi, che sembravano duri, qualcuno, osservando il terribile regime angioino, disse: «Ci sembrasti lupo rapace, adesso ci appari agnello mansueto». Nella primavera del 1282 i marinai siciliani erano in fermento, perché Carlo I si apprestava a imbarcarsi: i suoi agenti fiscali avevano spreVignetta raffigurante lo scoppio della rivolta dei Vespri Siciliani nella città di Palermo, dall’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani oggi nota come manoscritto Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana. aprile

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Iniziata al grido di ÂŤMorte ai Francesi!Âť, la rivolta percorse rapidamente i vicoli di Palermo, divampando come un incendio MEDIOEVO

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vespri siciliani Un’altra illustrazione tratta dal manoscritto Chigiano: papa Martino IV e Carlo I d’Angiò sono stati informati dello scoppio della rivolta (si noti l’espressione angosciata del re) e il pontefice affida a due legati (una coppia di frati domenicani) due lettere sigillate. 1370-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana.

muto le casse dell’isola, creando un generale clima di risentimento e malcontento. Ma ciò che accadde la sera del 30 marzo fece sí che questi progetti angioini d’outremer non vedessero mai la luce.

Esplode la rivolta

Palermo, 30 marzo 1282, Lunedi dell’Angelo. Scorrendo le diverse cronache che si soffermano sugli eventi del 1282, è possibile ricostruire con buona probabilità quel che accadde di fronte alla chiesa del S. Spirito, a circa mezzo miglio dalle mura della città, sul ciglio di una gola in cui scorre l’Oreto. Una piccola folla attendeva l’inizio della funzione dei Vespri in piazza, chiacchierando e cantando. Improvvisamente, apparve un drappello di cavalieri angioini che si uní alla popolazione, dalla quale fu accolto con silenzio e freddezza. Tra i soldati, probabilmente ebbri di vino, si distingueva un sergente di nome Drouet. Cosí, ne La guerra del Vespro (opera a cui la censura borbonica impose il generico titolo Un periodo

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delle istorie siciliane del secolo XIII), lo storico, arabista e patriota Michele Amari (1806-1889) rievocò i fatti: «Droetto francese, per onta o licenza, a lei si fa come a cercare d’armi nascose; e le dà di piglio, e nel bel seno alla man si fa strada. La pudica donna cadde in braccio allo sposo; lo sposo soffocato di rabbia: “Oh muoiano, urlò muoian questi francesi una volta”. A ciò come folgore dall’accorsa folla s’avventa un giovan gagliardo; afferra Droetto; il disarma; il trafigge; ei medesimo senza dubbio trucidato pur cade; restando ignoto il suo nome, e l’essere, e se amor di colei, impeto di nobil animo, o altissimo pensiero il movesse a dar via al riscatto». Amari, dunque, nota come non fu il marito a vendicare l’offesa, ma un anonimo giovane che avrebbe dato inizio alla sollevazione generale. Quando gli altri uomini del drappello accorsero per vendicare il compagno ucciso, si trovarono circondati dagli altri siciliani, armati di pietre, spade e coltelli. Nessuno dei Francesi scampò e in quel momento le campane delle chiese suonarono i Vespri. La rivolta contro gli Angioini era iniziata: al grido di «Morte ai

Francesi!» essa percorse rapidamente i vicoli di Palermo, divampando come un incendio in poche ore, una volta accesa la favilla.

Un moto spontaneo?

Nei giorni seguenti, gli incidenti non fecero che aumentare, con violenza e intensità crescenti. Gli storici sono ancora incerti sulle cause della sommossa: se sia stata una reazione spontanea, dopo anni di malcontento, oppure sia stata preorganizzata di concerto con gli Aragonesi, che subito la abbracciarono, e finanziata dai Bizantini, che temevano l’attacco angioino. Questa seconda ipotesi pare suffragata da un passo dell’autobiografia dell’imperatore bizantino, Michele VIII Paleologo: «Se osassi affermare di essere stato uno strumento di Dio per liberare i Siciliani, starei dicendo solo la verità». Piú probabilmente, si trattò di una serie di concause e, in ogni caso, dopo il primo episodio, gli abitanti di Palermo immediatamente si sollevarono contro gli occupanti e, per le strade della città, si consumò un terribile eccidio. I ribelli cercavaaprile

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no i Francesi nelle taverne, nelle case, nelle chiese e non risparmiavano nessuno. Persino le donne siciliane che avevano avuto la sventura di sposare uomini di origini francesi seguivano i mariti nello stesso tragico destino. Quando i Siciliani si trovavano di fronte al dubbio – dal momento che i Francesi, terrorizzati, si erano nascosti tra la folla – per sciogliere ogni dilemma ricorrevano a uno shibboleth, uno scioglilingua, prassi comune all’epoca. La parola «ciciri»,

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da pronunciare senza incappare nel francese «scisciri», era il segno di riconoscimento utilizzato in quelle ore drammatiche: chi non la pronunciava correttamente era passato a fil di spada. Solo durante la prima notte di rivolta, a Palermo, furono uccisi 2 o 3000 francesi.

La fuga a Vicari

Pochissimi, tra cui il giustiziere Jean de St. Remy, riuscirono a fuggire e a riparare nel castello di Vicari. Nel frattempo i rivoltosi si erano dati

un autogoverno municipale, con un capitano, Ruggero Mastrangelo, e altri rappresentanti, quali Enrico Baverio, Nicola d’Ortoleva e Nicola d’Ebdemonia. L’indomani, il neonato governo siciliano inviò Ancora una vignetta del manoscritto Chigiano raffigurante Carlo I d’Angiò che riceve un cardinale e un Messinese, i quali, gli presentano una lettera con i termini dell’eventuale resa della città (che compare sulla destra). 1370-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana.

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vespri siciliani I Vespri e il Risorgimento

Un tema di successo, nonostante le censure Nell’Ottocento, il tema della rivolta siciliana contro gli Angiò divenne un motivo ricorrente nell’arte italiana giacchè, come scrisse Michele Amari «gridava la rivoluzione senza che il vietasse la censura». Ne La guerra del Vespro (1843), lo storico ancora legato al Romanticismo, vedeva nella rivolta una connotazione popolare, ma il reperimento di fonti nuove e il loro studio, fecero del saggio dell’intellettuale siciliano la prima di

una serie di opere caratterizzate da una riflessione storica che passò poi, dalle iniziali polemiche neoghibelline contro la Curia romana, a un esame delle fonti legato alla nascente storiografia positivistica. Francesco Hayez, pittore romantico, propose tre versioni dell’episodio storico, datate 1822, 1827 e 1846. L’intento era chiaramente patriottico e i quadri si trovavano ad assumere il significato

di lotta contro l’invasore, che fosse spagnolo, francese o austriaco. Negli stessi anni Giuseppe Verdi rappresentò all’Opera di Parigi il melodramma I Vespri Siciliani. In Italia, il chiaro intento patriottico, fu annullato dalla censura, che presentò l’opera verdiana ora sotto l’anonimo e insignificante titolo di Giovanna di Guzman (e l’azione spostata in Portogallo), ora sotto quello di Batilde di Turenna.

Francesco Hayez, La sposa di Ruggier Mastrangelo da Palermo insultata dal francese Droetto è vendicata con la morte di questo (I Vespri Siciliani). Olio su tela, 1844-46. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

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alcuni emissari per trattare la resa del fortilizio di Vicari, protetto dallo sparuto gruppo di soldati scampati all’eccidio. Nel corso delle trattative il giustiziere fu comunque freddato da colpi di frecce. Nei giorni seguenti la rivolta aveva raggiunto Corleone e da lí furono inviate truppe di ribelli per aiutare Trapani, Messina e Caltanissetta, dove tutti i Francesi furono uccisi. Le cronache riportano che solo Guglielmo Porcelet, vice giustiziere della Sicilia Occidentale, venne risparmiato e imbarcato per la Provenza, assieme alla sua famiglia, per la sua condotta mite e per la sua onesta reputazione.

Liberi dal giogo angioino

Dopo 15 giorni di rivolte, solo Messina era rimasta sotto il controllo angioino. Erberto d’Orléans comandava le truppe e la flotta a difesa della città. Inoltre la principale famiglia della nobiltà cittadina, i Riso, parteggiava per Carlo. Ciononostante Erberto, alla fine di aprile, dimostrò di non fidarsi piú della popolazione locale e quando inviò un contingente francese – anziché messinese – per difendere Toarmina, ne provocò il risentimento e la rivolta. Ora tutta l’isola era libera dal giogo angioino. Nel momento di maggior vigore della ribellione, i Siciliani inviarono messi a papa Martino IV, chiedendogli di rimettere l’isola sotto la giurisdizione pontificia, e sperando di poter cosí ottenere una autonomia simile alle città del Patrimonio, come per esempio era accaduto al ricco e potente Comune di Perugia. Nelle Cronache, il cronista Giovanni Villani afferma che quando gli ambasciatori siciliani salutarono il pontefice recitando «Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi», Martino IV avrebbe provocatoriamente risposto citando il Vangelo: «Salve, re dei Giudei. E lo schiaffeggiarono». I rapporti del papa con Carlo d’Angiò, e l’amicizia tra i

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vespri siciliani

Siciliani, gli Aragonesi e Bisanzio, impedivano di fatto al pontefice di accogliere le istanze degli ambasciatori siculi, benché – con buona probabilità – ne riconoscesse le ragioni: la pesante fiscalità imposta alla Sicilia gli era ben nota e il fatto stesso che l’isola fosse stata ridotta a mera provincia, con minor presenza regia, aveva reso i giustizieri

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sempre piú liberi di spadroneggiare senza un reale controllo, cosa di cui lo stesso papa si lamentò.

Il diniego del papa

Il rifiuto di Martino IV, probabilmente, aprí la strada a nuove trattative (a meno che queste non fossero già iniziate prima, come alcuni storici ipotizzano) con Pietro III

d’Aragona il quale, avendo sposato la figlia di Manfredi, rivendicava il trono di Sicilia in nome degli Hohenstaufen: «pro exaltacione predecessorum nostrorum» ebbe a scrivere in una missiva. I motivi di rivalità tra Pietro e Carlo erano molteplici: la Provenza era stata sotto dominio aragonese prima di passare, per eredità, nelle aprile

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Ancora un’illustrazione tratta dal manoscritto Chigiano. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana. La scena rappresenta Carlo II d’Angiò (riconoscibile dal cappello a punta) fatto prigioniero da Ruggero di Lauria. A sinistra un’altra vignetta dal manoscritto Chigiano. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana. La scena rappresenta Carlo d’Angiò costretto ad abbandonare l’assedio di Messina per la strenua resistenza della popolazione locale, in aiuto della quale era accorsa la flotta di Pietro III d’Aragona. Il sovrano angioino si riconosce a bordo della nave raffigurata in secondo piano.

mani degli Angiò. Inoltre i mercanti di Barcellona, che trafficavano col Nord Africa, non apprezzavano il controllo di Carlo su Tunisi. Appena poche settimane dopo i Vespri, Pietro III salpava da Barcellona con una flotta armata – cosí almeno aveva dichiarato – per una crociata contro l’emiro di Tunisi. Ma la flotta virò (se mai era stata preparata per

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l’altro obiettivo) verso Palermo, dove i messi aragonesi furono accolti con grandi onori. Si valutò immediatamente la proposta di invitare Pietro a cingere la corona di Sicilia e il sovrano non si fece attendere. Dopo essere entrato a Trapani in agosto, a settembre faceva il suo ingresso trionfale in Palermo. La guerra tra Aragonesi e Angioini proseguí per altri vent’anni, ben oltre la data di morte dei due sovrani, Carlo I e Pietro III, occorsa per entrambi nel 1285. Il conflitto visse fasi alterne e vi furono episodi eclatanti, come la cattura del re angioino, Carlo II, detto «lo Zoppo», fatto prigioniero nella battaglia di Napoli (5 giugno 1284) dalle truppe aragonesi comandate da Ruggero di Lauria.

La pace, finalmente

Le ostilità si conclusero solo nel 1302, con la cosiddetta Pace di Caltabellotta, che sancí la definitiva divisione del Regno: la Sicilia – ora chiamata Regno di Trinacria – sotto il dominio aragonese, e il Mezzogiorno, chiamato Regno di Napoli, controllato dagli Angiò. Sulla verità storica dell’evento rimangono alcune zone d’ombra. Probabilmente i Siciliani, realmente trascurati e oppressi, furono sobillati dagli Aragonesi, organizzati da Giovanni da Procida e finanziati a loro volta dall’imperatore bizantino,

interessato a evitare l’attacco angioino. La ribellione popolare creò una situazione che obbligò Carlo a rinviare la spedizione in Oriente, frenata anche dal papa. La data potrebbe essere stata anche fortuita e l’episodio davvero la molla scatenante. Ma, a leggere le parole del Paleologo, sembrerebbe essere stata pianificata. In tutto ciò, l’Aragonese si trovò forse davvero spiazzato o fu anche questo il tassello di un disegno piú ampio? Sembra comunque certo che il primo impulso venne dal basso e non ha avuto molti eguali nella storia d’Italia. Parlare di «rivoluzione popolare» sarebbe antistorico, considerato ciò che accadde pochissimi mesi piú tardi con l’Aragonese. Ma il progetto e l’ambizione di un’organizzazione «comunale» sotto l’egida papale erano moderni; la capacità organizzativa messa in moto dai Siciliani fu altrettanto all’avanguardia e la caparbietà di resistere in modo solidale a un sovrano energico e spregiudicato come Carlo I d’Angiò, senza precedenti. Come ebbe a scrivere Antonio Gramsci: «È incredibile come i Siciliani, dal piú infimo strato alle cime piú alte, siano solidali tra loro. Mi sono persuaso che realmente i siciliani fanno parte a sé». Questa solidarietà, attestata nella cronachistica del tempo, fu certamente una carta vincente nella rivolta dei Vespri. F

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personaggi bertolino da pontecorono

Sicilia, o cara...

di Chiara Parente

Quella di Bertolino da Pontecorono è una storia «al contrario»: ribaltando un luogo comune fin troppo abusato, si dipana, infatti, nel segno della scelta di abbandonare le brume padane per insediarsi (e far fortuna) sotto il caldo sole di Trinacria...

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he le migrazioni dal Sud al Nord d’Italia siano a senso unico, intendendo il primo (non solo della Penisola, ma anche del Mediterraneo) come un luogo povero, assolato e immobile e il secondo come un’area ricca di opportunità oltre che di risorse naturali e civiltà, è un pregiudizio tanto ripetuto quanto ingiustificato, nonché smentito a piú riprese dalle ricerche storiche. Sono numerose, infatti, le pergamene e le carte conservate negli archivi, che, se opportunamente e adeguatamente interrogate, a partire dall’età normanna, durante il cancellierato dell’arcivescovo di Palermo Stefano di Perche (1166-1168), sino al pieno Settecento, informano sui trasferimenti di genti dal Nord al Sud dell’Italia, soprattutto in Sicilia (vedi «Medioevo » n.184, maggio 2012). Ancora oggi la larga diffusione del cognome «Lombardo» nell’intera isola e la sopravvivenza di penetrazioni linguistiche gallo-italiche in determinate località richiamano una radicata presenza di nuclei provenienti dalla Lombardia e dal Piemonte: si tratta di flussi migratori probabilmente iniziati attorno al 1040, al seguito di Giorgio Maniace (il generale bizantino che riconquistò all’impero tra il 1038 e il 1040 la città di Siracusa e gran parte della Sicilia orientale, sottraendole alla dominazione musulmana, n.d.r.) e di Arduino (un avventuriero di origine milanese, già al servizio dello stesso Maniace, n.d.r.), e continuati in conseguenza dell’alleanza matrimoniale tra gli Altavilla e gli Aleramici.

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Veduta prospettica di Corleone in un’acquaforte realizzata tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII sec. Il trasferimento di famiglie lombarde in Sicilia è attestato a partire dall’XI sec. aprile

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Nell’onomastica e nei dialetti della Sicilia moderna si possono individuare sopravvivenze dell’antica penetrazione lombarda MEDIOEVO

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personaggi bertolino da pontecorono lombardi a corleone

Gli «effetti collaterali» di una presenza significativa La concessione di Corleone da parte di Federico II ai Lombardi di Oddone di Camerana e la loro adesione quasi immediata al tumulto del Vespro, sono gli avvenimenti che hanno caratterizzato la storia della Sicilia nel corso del XIII secolo. Gli esiti di tali eventi, gravidi di conseguenze sul piano etnico, religioso, socio-economico e politico, si sono protratti anche nel secolo successivo. Innanzitutto, ai musulmani di religione islamica, messi in fuga sulle montagne circostanti Corleone dagli incalzanti assalti di Federico II, si sono succeduti i Lombardi, cristiani di religione e di fede ghibellina, con ovvie ripercussioni sull’economia, la composizione sociale e le scelte politiche conseguenti. Inoltre al villanaggio, che caratterizzava il

regime delle terre dei musulmani (gli Arabi erano villani ascrittizi, cioè legati al padrone della terra con un vincolo significativamente riduttivo delle libertà personali), si sostituí la concessione delle terre con tutti i diritti di possesso. I Lombardi che trasferiscono la residenza a Corleone ebbero terre e diritti di erbatico e legnatico nei boschi demaniali. A un’economia piú libera corrisposero quindi una maggiore circolazione di prodotti, un aumento di scambi e una maggiore diversificazione a livello sociale: non soltanto contadini, ma anche commercianti a medio e lungo raggio. L’incardinamento dei Lombardi a Corleone ebbe riflessi anche sull’impianto urbanistico dei quartieri della città, mutandone l’aspetto e talvolta ridisegnandone il tracciato all’interno della cinta

muraria. Infine l’adesione sollecita dei Lombardi alla rivolta del Vespro, a quasi cinquant’anni di distanza dal loro arrivo a Corleone, avviò il sodalizio con Palermo, che portò anche privilegi economici con l’esenzione da vari tributi. La documentazione piú antica è attualmente conservata nell’Archivio di Stato di Palermo, nel fondo di pergamene del monastero di S. Maria del Bosco di Calatamauro. Grazie a queste carte sono state analizzate la topografia dell’insediamento lombardo a Corleone in rapporto con gli altri gruppi etnici presenti, le usanze civili (cariche, matrimoni, contratti commerciali), le famiglie e la loro articolazione nelle successive generazioni, l’idioma e i termini usati, che rimandano direttamente alle consuetudini linguistiche dei luoghi di provenienza.

Nel corso del Duecento, in particolare, la profonda Posta in una conca fertile e ricca d’acque, Corleone crisi economica e sociale nelle città della Pianura padaera uno dei centri rurali piú importanti del Val di Mazana, aveva costretto molti lombardi a cercare nuove terre ra e dell’entroterra palermitano. Abitata soprattutto da da abitare, nella speranza di un tenore di vita migliore Arabi e, di conseguenza, rimasta spopolata, la località e con la prospettiva di favorevoli insediamenti era considerata un importante nodo viario nei collegasu altre piazze commerciali. La primenti tra Palermo e Trapani, attraverso Salemi e ma cessione di terre in Meridione Calatafimi, e tra Palermo e Agrigento. a un gruppo di Lombardi, forteUn presidio cristiano e ghibellino mente motivato a dare un taglio Inoltre, trovandosi lungo l’asse commerciale netto al proprio passato, risale pontecurone di comunicazione fra Palermo e la sua riserva al 1237. In quell’anno l’imperaagricola del retroterra, rappresentava la giusta tore Federico II, alla ricerca di un risposta sia agli scopi dei nuovi venuti – in valido alleato nella lotta contro i buona parte mercanti desiderosi di inSaraceni e nel ripopolamento su base sediarsi in un’area dove i commerci latina degli spazi urbani lasciati disabierano piú sviluppati e di radicartati dagli Arabi, cacciati dalla Sicilia si ai vertici economico-politici e deportati a Lucera, in Puglia, dedella società siciliana –, sia ai cise di concedere la terra di Corleoprogetti dell’imperatore, intenne al miles Oddone de Camerana zionato a creare in questa citda Brescia e ad alcuni homines de tadina un presidio cristiano di partibus Lombardiae, ritenuti accesi parte ghibellina. sostenitori dell’imperatore contro i corleone Nel gennaio del 1264 giunse a tentativi di supremazia del papato.

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In alto veduta della Corleone attuale, in provincia di Palermo. A destra miniatura raffigurante la lavorazione del formaggio, da un’edizione del Tacuinum sanitatis. 1390-1400. Parigi, Bibliothèque nationale de France. La produzione casearia è attestata tra le attività praticate dai Pontecorono.

Corleone una seconda migrazione, guidata dalla famiglia Curto. Definiti «lombardi», poiché allora per Lombardia s’intendeva la gran parte della Pianura padana, questi uomini provenivano soprattutto dalla città e dai territori compresi nell’odierna provincia piemontese di Alessandria (Sale, Sarezzano, Pontecurone, Rosano) e dall’Oltrepò pavese (Mondondone, Nazzano, Cecima) nella provincia lombarda di Pavia. Un distretto geografico ben preciso, che ai tempi di Federico I di Svevia e del nipote Federico II era devastato da continue guerre, spesso mascherate dall’appartenenza al campo filoimperiale o antimperiale, dovute alla presenza dei confini territoriali dei Comuni di Tortona e di Piacenza, con l’intrusione di Pavia ai danni delle prime due città. L’adesione immediata e spontanea dei Lombardi ghibellini alla rivolta del Vespro, nel marzo del 1282 (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 34-43), legò indis-

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personaggi bertolino da pontecorono Armeni a Pontecurone

Echi di un antico percorso... Non sappiamo se Bertolino sia mai andato a Pontecurone, se abbia avuto rapporti commerciali con alcuni abitanti del remoto paese d’origine o quale fosse la professione esercitata dai suoi avi prima di migrare al Sud. A riprova della mobilità di uomini e merci nel Medioevo, in questo tranquillo paese di pianura, adagiato sulle rive del torrente Curone, vi erano, nell’età di Mezzo, una chiesa e un ospedale armeni, costruiti sulla Via Romea, che attraversava l’abitato. Il complesso, intitolato a san Pietro e fondato dai monaci dell’Ordine di San Basilio, era frequentato da pellegrini e mercanti, anche provenienti da terre lontane. In seguito ai trattati commerciali siglati nel 1201 tra il re Leone I d’Armenia e Genova e Venezia, i mercanti della Persia che, seguendo le rotte di mare sbarcavano nelle due città portuali per dirigersi nell’entroterra, percorrevano infatti le strade di pellegrinaggio e forse non casualmente, ma per scelta, perché su di esse si viaggiava con maggior sicurezza. Risale all’8 novembre 1210 il testamento con cui Eustorgio Curione, un facoltoso abitante di Pontecurone, donò le sue proprietà ai Basiliani di S. Pietro, con obbligo ai medesimi di erigere nel borgo un ospizio per gli infermi e i viandanti e di designare annualmente due religiosi per l’assistenza e la direzione della struttura. Le espressioni utilizzate nel lascito suggeriscono che prima della costruzione dell’ospedale, avvenuta sicuramente dopo il 1210, a Pontecurone i Basiliani fossero già titolari della chiesa di S. Pietro. Nelle grandi città del Nord d’Italia, mete di pellegrini e fulcri economici per i mercanti, le fondazioni dei monasteri armeni sembrano essere piú tarde rispetto a quella di Pontecurone: Genova è del 1308, Milano del 1344, Venezia del 1348, Pavia del 1613. Ogni data non è fine a se stessa, ma legata quasi sempre a motivazioni storiche e politiche della città in questione. Viene da chiedersi se il borgo di Pontecurone, inizialmente chiamato «burgus in strata», non sia stato scelto proprio a ricordo di una storia passata. Se cosí fosse, si completerebbe il percorso cadenzato da una distanza giornaliera con Padova, e S. Pietro di Pontecurone sarebbe stata la prima o una delle prime fondazioni di un itinerario attrezzato per coloro che, mercanti e pellegrini, armeni o no, viaggiavano sulla direttrice Genova-Venezia. solubilmente il destino della colonia lombarda a quello degli altri abitanti di Corleone, rimasti fedeli alla causa sveva. Ma come avvenne il trasferimento di questi intraprendenti uomini? Sicuramente per mare. A bordo di galee, navi a remi e a vela, da guerra e da trasporto leggero. Si trattava di un viaggio da un’economia agricola depressa e povera a una civiltà commerciale vivace, cosmopolita e culturalmente molto attiva. Tra i Lombardi migrati nel XIII secolo dall’Oltrepò Pavese e dal Tortonese per trasferirsi in un primo momento a Scopello e quindi a Corleone, c’è anche la famiglia da Pontecorono. Originari di Pontecurone, in provincia di Alessandria, sono indicati nelle pergamene anche come Pontechorono, Pontecurono e Pontecorona. Rappresen-

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tano una delle casate piú importanti tra quelle lombarde a Corleone e costituiscono un caso particolare, perché i loro iniziali commerci erano legati al mare piú che all’hinterland agricolo.

Membri della borghesia mercantile

Orgogliosi della propria affermazione e consapevoli di far parte della classe emergente dopo i fatti del Vespro, i membri di questo clan familiare appartengono alla borghesia mercantile e sono definiti nelle fonti documentarie burgenses, ossia liberi «borgesi». Residenti nella città, praticano i commerci. In rapporto al regime di beni burgensatici, sono caratterizzati dalla libera e diretta proprietà, hanno beni urbani e sono propensi a investire i ricavi aprile

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A destra carta nautica su pergamena realizzata dal capitano di nave e cartografo maiorchino Jaume Olives. 1553. Pavia, Biblioteca Universitaria. Nella pagina accanto pergamena con un elenco delle proprietà e degli affittuari di San Pietro in Ciel d’Oro in Pontecurone, località d’origine di un folto gruppo di Lombardi di Corleone. Seconda metà del XII sec. Pavia, Archivio di Stato.

enrico de nazano

L’ostilità di un canonico potente I Lombardi di Corleone sono sempre stati al centro della storiografia e della memoria collettiva siciliana, perché schierati in prima fila, accanto ai Palermitani, nelle vicende del Vespro e della successiva guerra ventennale, svoltasi dal 1282 al 1302 e conclusasi con la pace di Caltabellotta. Tuttavia, il ricordo di un gruppo di Lombardi trasferitisi a Corleone dall’area dell’attuale Oltrepò Pavese e dal Tortonese, è confinato nell’isola. Nessuna memoria è infatti rimasta nella ripetitiva erudizione locale degli ultimi secoli. Ma che cosa ha decretato questa damnatio memoriae? La colpa è da imputare al loro implacabile avversario, Enrico de

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Nazano, un ecclesiastico di rango, canonico nella cattedrale di Pavia nel 1302, e, almeno nel 1306, appartenente all’Ordine domenicano. Il cognome/soprannome lo denunzia come originario di Nazzano, un piccolissimo centro dell’Oltrepò Pavese, in cima a un’altura ancora oggi esistente, da cui provenivano anche alcuni Lombardi migrati a Corleone. Visto il limitatissimo numero degli abitanti del luogo egli era, forse, un parente proprio degli stessi nuovi Corleonesi. Irrimediabilmente ostile alla parte angioina, Enrico de Nazano, ancora pochi mesi prima della pace di Caltabellotta, mentre i Lombardi corleonesi combattevano accanitamente contro gli Angioini

stanziati nei dintorni di Trapani, a nome del pontefice raccolse forzosamente denaro tra il clero pavese per il finanziamento della guerra in Sicilia, e continuò nella raccolta di fondi per lo stesso scopo anche poco dopo l’avvenuta pace. Il passaggio dal clero secolare a quello regolare nell’Ordine Domenicano, ne indica ancor piú la decisa scelta di campo. In questa nuova veste (è attestato nel convento domenicano di S. Tommaso almeno fino al 1232) l’uomo di Chiesa poté utilizzare gli strumenti dell’Inquisizione, (per esempio il processo, preceduto dal sequestro preventivo del patrimonio), per troncare definitivamente ogni legame con i lontani conterranei emigrati.

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personaggi bertolino da pontecorono

La Carta Pisana, che comprende l’Oceano Atlantico orientale, il Mediterraneo e parte del Mar Nero. Datato tra il 1275 e il 1300 si tratta del piú antico esemplare di portolano a oggi noto. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

e gli utili, provenienti dalle loro attività, in possedimenti terrieri e in beni stabili. Dopo l’arrivo in Sicilia, l’attività delle prime generazioni dei da Pontecorono, forse, è stata svilita al rango di usurai e di commercianti/pirati. In realtà, essi praticavano l’allevamento e ne esportavano i prodotti: carni, cuoio, pellami, formaggi. E il fatto che producessero formaggi in un ambiente assai poco favorevole suggerisce una elevata conoscenza delle tecniche casearie, a ulteriore riprova dell’evoluta cultura materiale di cui i Lombardi erano portatori, oltre che di una raffinata tecnica militare.

è anche il termine siri (prima del nome del capostipite), usato agli inizi del Trecento dai notai per indicare un uomo di rispetto, e motivo di orgoglio sia per la persona alla quale era attribuito, che per la famiglia. Nel 1285 Bertolino (o Bertolo o Bertolla) de Pontecorono de Coriliono, di professione mercator (mercante), è habitator Pisarum, abita a Pisa. Mentre il padre e i fratelli avevano dimora a Corleone, Bertolino, infatti, pur recandosi sovente dalla famiglia, ha i propri centri di interesse nella

Primo di nove fratelli

L’esponente piú significativo della famiglia, è Bertolino de Pontecorono, anche citato nelle fonti d’archivio con i toponimi Pontecorone e Pontecarono. Nato da siri Bernardo (morto nel 1303) e Solomea Cavallo (deceduta nel 1307), Bertolino appartiene alla seconda generazione dei Pontecorono. Primo di nove fratelli – Pietro, Guglielmo, Giacomo, Puccio, Vanni ed Enrico di discendenza certa, Giovanni di discendenza probabile e Perrino illegittimo –, ha un figlio, chiamato Guglielmo iunior, detto Lemus, probabilmente in memoria dello zio (Guglielmo senior). Alla morte del padre Bernardo, Bertolino eredita beni mobili e immobili in Corleone. A suggerire l’agiata condizione sociale dei Pontecorono

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Qui sotto il dorso dell’astrolabio detto Caird (dal nome del suo ex proprietario), di probabile fattura ispano-moresca. 1230 circa. Greenwich, National Maritime Museum. Simili strumenti erano utilizzati per il calcolo del tempo, la navigazione e le osservazioni astronomiche. Nella pagina accanto, in basso pergamena recante lo schizzo di una galea. Inizi del XIII sec. Venezia, Archivio di Stato.

Alcune pergamene siciliane fanno sapere che Bertolino nel 1284-1285 era stato accusato di pirateria, processato e assolto: un’accusa che ha pesato a lungo sulla storiografia ai suoi danni. Siamo ai primi anni della guerra del Vespro ed egli, secondo alcuni Trapanesi – Tommaso Mustazolo, Federico Guercio, Bartuccio Mazarella –, li avrebbe assaliti «cum quadam galea armata de gente Pisanorum» nei pressi di Pantelleria, mentre si trovavano «in quadam barcha eorum onerata oleo», sottraendola loro insieme con tutto il carico. La scelta di una ciurma pisana mette Bertolino in relazione con il circuito filosvevo in Italia, in quanto Pisa, al pari dei Lombardi di Corleone, era decisamente schierata con la famiglia imperiale.

I garanti alla sbarra

città marinara, dove, negli anni 1285-1305, investe somme importanti in imprese di mare. Probabilmente, legami e gli interessi economici «pisani» di Bertolino e dei Pontecorono, si inseriscono in una corrente di traffici e di rapporti sia politici che economici tra la Sicilia e Pisa, in una direzione non univoca, che sembra risalire all’epoca musulmana. I porti dell’isola erano allora una tappa fondamentale per il commercio nel Mediterraneo e in regioni lontane.

Pisa, interlocutore privilegiato

La presenza pisana in Sicilia si era consolidata con l’avvento dei Normanni, grazie agli aiuti forniti dai mercanti della città toscana prima a Roberto il Guiscardo e poi a Ruggero nella conquista dell’isola, scalo importante per l’approvvigionamento di materie prime e di cereali e per lo smercio dei propri prodotti lavorati. Alla fine del XIII secolo, dopo il tumulto del Vespro, che aveva portato alla ripresa dei rapporti tra ghibellini toscani e siciliani, Pisa aveva raggiunto una posizione economica privilegiata anche rispetto a Genova. Inoltre, la presenza di mercanti pisani colmava le carenze imprenditoriali dell’isola.

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La sentenza è stata emessa a Palermo il 14 dicembre dell’anno 1284 in mancanza di accusatori, che non si erano presentati davanti al giudice per ribadire le proprie accuse e non avevano spiegato i motivi della loro assenza. Durante lo svolgimento del processo l’imputato si era dovuto recare per affari urgenti e improrogabili in Toscana e per questo aveva presentato come garanti Francesco de Cosmerio, Salvo de Salicedo, Manfredo de Mirualdo e Orlando Cavallo. Documenti d’archivio sinora inediti, fanno invece nuova luce su questo personaggio, che appare in una diversa e piú importante posizione. Non piú come mercante-pirata, ma come un affidabile uomo di mare, partecipe delle vicende pisanogenovesi precedenti e successive alla battaglia della Meloria (1284) e come un valoroso combattente per mare durante la guerra del Vespro. Egli, infatti, è presente nei punti chiave del Mediterraneo, e in particolare a Tunisi, il cui porto, allora fondamentale punto di incontro dei traffici dalla Spagna fino all’Egitto, ancora negli anni 1288-1289 risentiva delle conseguenze della battaglia della Meloria tra Pisani e Genovesi, che continuavano le ostilità con speronamenti e assalti tra imbarcazioni nello specchio di mare antistante. Proprio a Tunisi, nel 1289, Bertolino, insieme a un socio, con la propria galera, tramite la quale avrebbe anche praticato la pirateria – mentre si trattava in realtà di blocco navale –, trasportò in due riprese un carico di monete (rispettivamente 1600 e 300 doppie d’oro di Mir) fino a Sousse. Le monete, in entrambi i casi, erano

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personaggi bertolino da pontecorono Pietro da Pontecorono

Un «potente mercante e usuraio» Se per gli ultimi da Pontecorono le notizie sono scarse, il problema non si pone per uno dei fratelli di Bertolino, Pietro, citato in 82 documenti, nella maggior parte dei quali risulta impegnato in prima persona. Trasferitosi definitivamente a Corleone nei primi anni del Trecento, attraverso un’abile politica di investimenti finanziari, spostò gli interessi economici dal mare alla terra. Morí probabilmente nel 1339. Citato come un «potente mercante e usuraio», Pietro era un tipico rappresentante di quell’eterogeneo ceto di «uomini nuovi», che, in seguito alla rivolta del Vespro, aveva sostituito la nobiltà

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cavalleresca con i mercanti e con una gamma molto varia di professioni. Risultava privo di una specializzazione ben precisa, – come accadeva in quegli anni –, anche se trattava di preferenza derrate alimentari e soprattutto orzo e frumento. La sua politica appare diretta a consolidare la posizione famigliare. Infatti, se da una parte tendeva all’affermazione economica personale, mediante un’abile attività di compravendita di beni immobili, prestiti di denaro e affari, piú o meno leciti e abilmente camuffati; dall’altra, in conseguenza dell’acquisita sicurezza finanziaria, mirava a un piú preciso inserimento nel tessuto sociale e nei

gangli amministrativi di Corleone per sé e per i propri eredi: il figlio Bernardo e i nipoti Pietro e Giacomo. Per due trienni, 1324-26 e 1334-37, Pietro ricoprí la carica di giudice, raccolse i fondi per la costruzione del ponte di San Marco in qualità di sindicus et procurator su incarico dell’Universitas di Corleone e partecipò attivamente agli avvenimenti politici, quando, in occasione della spedizione angioina di Brucato, sulla costa siciliana tra Termini e Cefalú, riforní il castello superiore di Corleone di armi e viveri per sei armigeri. La sua escalation sociale nell’ambito della comunità corleonese emerge anche dai termini syr, discretus vir, con i

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quali è designato nelle carte notarili. Non è possibile conoscere l’entità del patrimonio economico e fondiario di Pietro all’inizio della sua attività, ma si sa che nel corso degli anni riuscí ad accaparrarsi numerosi beni immobili: case, casalini, vigne, giardini. Non tutte le proprietà di cui Pietro entrò in possesso furono frutto di regolari transazioni commerciali. Dietro alcune di esse pesava l’ombra dell’usura, che egli esercitava anche con la vendita di derrate alimentari, soprattutto frumento, in maniera piú o meno evidente. A destra xilografia raffigurante un usuraio, da un’edizione del poema didattico-satirico Das Narrenschiff (La nave dei folli) di Sebastian Brant, pubblicato per la prima volta nel 1494. Nella pagina accanto ancora uno scorcio di Corleone: in primo piano, la rupe sovrastata dal Castello Sottano.

state inviate dal medesimo mittente: Manuele Tavanno. Bertolino, che a Tunisi agisce nel fondaco dei Genovesi, viene scambiato per un genovese. Un’altra esperienza di Bertolino e della sua famiglia in area mediterranea è testimoniata dalla procura, affidatagli con un atto del 1298, da Guglielmo di Simone di Nissa (identificabile con tutta probabilità con la città di Nizza). In questo caso Bertolino è incaricato di riscuotere i crediti di Guglielmo, ovunquesi trovino, con piena libertà di richiedere arbitrati e di presentarsi in giudizio;

incarico che riceve in virtú della sua affidabilità e notorietà. A partire dalla complessa figura di Bertolino e dei da Pontecorono, seguendo i viaggi dei «Lombardi» in terre, nelle quali si parlano l’arabo, l’ebraico (o la lingua usata dagli Ebrei del Mediterraneo) e il greco, si aprono cosí nuove prospettive di ricerca, con approfondimenti che implicano un ampliamento degli spazi e dei confini geografici su questa e altre sponde del Mediterraneo. Si ringraziano Ezio Barbieri e Mafalda Toniazzi per la documentazione inedita fornita. F

Da leggere U Ezio Barbieri, Scambi culturali tra

l’Italia del Nord, la Sicilia e il Nord Africa, in L’Italia e la cultura europea (Atti del Convegno, Cracovia, 17-18 ottobre 2013), in corso di stampa U Iris Mirazita, La borsa di un usuraio: Pietro de Pontecorono mercante Corleonese, in Aspetti e Momenti di Storia della Sicilia (Sec. IX-XIX),

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Accademia nazionale di scienze lettere e arti di Palermo, Palermo 1989 U Iris Mirazita, Strutture urbane e società a Corleone nel XIV secolo, in Annali dell’Università di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 7, La Memoria, Palermo 1993. U Iris Mirazita, Una famiglia «lombarda» a Corleone nell’età del Vespro, in

Scritti in onore di Francesco Giunta, Centro di studi tardoantichi e medievali di Altomonte, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1989. U Paola Bertolina, Gli Armeni a Pontecurone, in Boghos Levon Zekiyan (a cura di), Ad Limina Italiae. In viaggio per l’Italia con mercanti e monaci armeni, Editoriale Programma, Padova 1996.

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la guerra nel medioevo/3

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L’Europa nel mirino di Federico Canaccini

Gli scenari bellici che prendono forma a cavallo dell’anno Mille sono caratterizzati dalle manovre di aggressione che, da piú parti, convergono verso il cuore dell’Occidente. Ne sono protagonisti i Saraceni, gli Ungari e i Vichinghi, le cui sortite disegnano nuovi equilibri politici. Dal canto suo, il Vecchio Continente reagisce con le prime guerre sante...

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on la morte di Ludovico il Pio (840) l’unità dell’impero carolingio si frantumò e, ben presto, dopo l’illusoria parentesi di Carlo il Grosso, si delinearono tre nuovi grandi territori, corrispondenti, grosso modo, all’Italia, alla Germania e alla Francia. Si andava incontro alla cosiddetta «età feudale», un sistema politico fatto di un pulviscolo di potentati locali, mescolati ai grandi poteri laici ed ecclesiastici. A cavallo dell’anno Mille, le attività militari dell’Occidente medievale assunsero forme nuove. Se i primi secoli del Medioevo erano stati testimoni delle migrazioni di interi popoli, tra il IX e il X Tavola raffigurante Carlo Martello a Poitiers, dove, nell’ottobre del 732, il re franco fermò l’avanzata delle truppe musulmane guidate da Abd al-Rahman, da The History of France di Émile de Bonnechose. 1839.

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secolo si assistette a un fenomeno nuovo: mentre l’impero carolingio andava dissolvendosi, l’Europa veniva attaccata da sud dai Saraceni, da est dagli Ungari e da nord dai Vichinghi. Non si trattava piú di migrazioni, ma di veri e propri raid con saccheggi e devastazioni.

I Saraceni

La prima ondata dell’espansione islamica si concluse con la nascita del califfato abbaside, alla metà dell’VIII secolo, che controllava un territorio esteso dalla Spagna alla Persia. Nel 732, gli Arabi furono frenati da Carlo Martello nella celebre battaglia di Poitiers, grazie al «muro di scudi» dei Franchi. Ben presto, però, dalle basi marittime del Nord Africa e della Spagna, i Saraceni lanciarono spedizioni contro i territori meridionali d’Europa: nell’827 completarono la conquista della Sicilia, e nell’843, risalendo il Tevere, saccheggiarono addirittura Roma e le coste laziali. Colpita nuovamente da questi brutali saccheggi, l’Urbe dotò i suoi

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la guerra nel medioevo/3 luoghi piú preziosi di fortificazioni: comparvero cosí i primi castelli del Medioevo. È la civitas leonina, la futura città di S. Pietro: una città nella città. Tramite un muro realizzato con le pietre del mausoleo di Adriano, papa Leone III (e poi Leone IV) protesse la basilica e i palazzi annessi dalle future incursioni. Vennero inoltre fortificate le basiliche extramurarie di S. Paolo, di S. Lorenzo – la cosiddetta Laurenziopoli – e S. Sebastiano, e anche la città di Ostia, ormai decaduta, vide sorgere il piccolo insediamento turrito di Grego-

riopoli, edificato da papa Gregorio IV nell’830 in difesa degli abitanti del litorale, oggetto di frequenti attacchi pirateschi. Infine, per dare riparo alle «pecorelle smarrite» nelle campagne laziali, il «pastore» Leone IV fondò, nell’entroterra, addirittura una nuova città, che battezzò Leopoli (Cencelle), destinata a ospitare gli sfollati di Civitavecchia (vedi «Medioevo» n. 210, luglio 2014; anche on line su medioevo.it).

Gli Ungari

Gli Ungari (o Magiari), provenienti dall’Asia, furono sospinti nei territori dell’antica Pannonia dai Peceneghi (una popolazione turco-tartara, originaria della Siberia, n.d.r.), su richiesta di Bisanzio. Dalla Pannonia, tra l’898 e il 955, lanciarono, una trentina di spedizioni devastanti contro Germania, Francia e Italia. Armati alla leggera, come i nomadi delle steppe, gli Ungari «uccidevano pochi con la spada, ma migliaia con le frecce», come scrisse l’abate Reginone di Prum († 915). Imparare l’arte del saettare da cavallo era

essenziale per una popolazione nomade, dedita perlopiú all’allevamento di mandrie in un terreno sconfinato come la steppa. In caso di attacco da parte di un predatore, sia che fosse un animale che il razziatore di un clan rivale, il pastore a cavallo doveva essere in grado di dissuadere con celerità l’aggressore: e l’arco, unito alla velocità sul cavallo, era l’arma ideale. Le armate delle steppe si schieravano perlopiú in piccoli gruppi che, solitamente, dopo aver circondato il nemico, lo bersagliavano con una pioggia di frecce, pronti poi a ritirarsi velocemente nel caso di una improvvisa reazione dell’avversario. Fonti arabe ci informano sulla precisione del tiro dei cavalieri nomadi, capaci di scoccare dieci-dodici frecce al minuto, contro le due dell’avversario. Giovanni da Pian del Carpine, inviato nel 1254 presso il khan dei Mongoli, cosí descrisse la loro prassi guerresca: «Quando vedono i nemici vanno contro di essi e ognuno si pone a tre o quattro tiri di freccia dai suoi avversari. Se vedono che non possono superarli, si ritirano e ciò fanno per ingannare i nemici e per indurli a seguirli in luoghi dove preparano inside. E se i nemici li inseguono sino a lí, li circondano e cosí li

L’armatura dei Vichinghi A sinistra l’equipaggiamento tipico di un hirdman, cioè di un soldato che componeva stabilmente un hird, l’unità-base dell’esercito vichingo. Si noti l’elmo provvisto della mascherina che proteggeva gli occhi e il naso (qui accanto, l’esplosione). Lo scudo (in basso) aveva forma circolare ed era di grandi dimensioni; veniva fabbricato con legno rivestito in pelle e provvisto di un umbone molto sporgente. Nella pagina accanto, in basso elmo in ferro e bronzo con mascherina, dalla nave-sepoltura n. 1 di Vendel (Uppland, Svezia). VII sec. Stoccolma, Historiska Museet.

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In alto particolare dell’«arazzo» di Bayeux (si tratta, in realtà, di un telo ricamato) raffigurante un gruppo di cavalieri in battaglia sul campo di Hastings. 1066-1077. Bayeux, Musée de la Tapisserie de Bayeux.

feriscono e li uccidono». L’attacco finale era reso ancor piú terribile dalle urla di guerra dei Magiari: il loro spaventoso «Huy Huy» fu registrato con orrore dal cronista Liutprando da Cremona alla fine del X secolo. Nel 954, un esercito forte di circa 50 000 Ungari mosse attraverso la Baviera, la Francia e l’Aquitania: si presentarono come alleati del duca di Lotaringia, ribelle all’imperatore Ottone I. Ma i saccheggi oltre i confini imperiali mostrarono le loro vere intenzioni e l’imperatore riuscí a riunire attorno a sé i nobili tedeschi, divisi in lotte interne, per far fronte comune contro la minaccia magiara. Alla fine del giugno 955, una seconda, imponente, armata ungara si presentò in Baviera, ma questa volta, presso il fiume Lech, venne affrontata dall’esercito imperiale, formato da circa 8000 cavalieri pesanti, grazie ai quali Ottone

riuscí a piegare un esercito ben piú numeroso, ma composto da truppe leggere. La superiorità tattica, l’armamento pesante e una maggiore coordinazione furono gli elementi che diedero la vittoria all’imperatore, scongiurando il ritorno della minaccia ungara in Europa.

I Vichinghi

Gli attacchi piú devastanti furono però condotti dagli abitanti dei Paesi scandinavi, i Vichinghi (vedi anche «Medioevo» n. 205, febbraio 2014; anche on line su medioevo.it). Di origine germanica, si erano insediati in Norvegia, Svezia e Danimarca e i loro spostamenti costituiscono, di fatto, l’ultima ondata delle grandi migrazioni indoeuropee. Abili carpentieri, intraprendenti marinai, mercanti e feroci guerrieri, i Normanni (di fatto, Vichinghi e Normanni possono essere considerati sinonimi, n.d.r.) veleggiarono verso sud con le loro navi, mettendo a ferro e fuoco gran parte d’Europa. Dalla Norvegia mossero verso le

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la guerra nel medioevo/3 Isole Britanniche, dalla Danimarca verso i territori carolingi, dalla Svezia puntarono contro la Russia e, attraverso il Dnepr e il Don, giunsero fino al Mar Nero. I Vichinghi erano molto legati alle loro armi, simbolo esterno della loro forza fisica e del valore militare. Come ancora accade in alcune società odierne – nello Yemen, per esempio –, l’arma rappresentava il prestigio sociale e tanto piú essa era istoriata, ricca e preziosa, tanto piú alto era il rango che il guerriero occupava nella società nordica. Le armi vichinghe giunte sino a noi sono perlopiú quelle rinvenute nelle sepolture, giacché, nel viaggio che avrebbe condotto i guerrieri nel Valhalla, il «paradiso» dei Vichinghi, le armi dovevano essere al fianco del defunto.

Nomi «parlanti»

L’arma principale, che riceveva anche un «nome parlante» (nei poemi in norreno troviamo, per esempio, citate Brynjubitr: «azzanna usbergo», Langvass: «lunga e affilata») era la spada, in genere a doppio taglio, benché in Norvegia fossero in uso lame a taglio singolo, dette Sax. Stando alle fonti coeve, le lame dei

In alto Oseberg, Norvegia. La nave vichinga in corso di scavo, in una foto del 1904. Oggi conservata nel Museo delle Navi Vichinghe di Oslo (foto a destra), l’imbarcazione, databile al IX sec.,

è in legno di quercia, misura 22 m di lunghezza ed è decorata in stile animalistico. Venne utilizzata come sepoltura femminile, forse per la regina Åsa Haraldsdottir di Agder.

Qui sopra terminazione di un albero decorata in stile zoomorfo, dalla nave vichinga di Oseberg, ritrovata all’inizio del XX sec. in un tumulo funerario. Oslo, Museo delle Navi Vichinghe.

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Navi vichinghe

Le signore dei mari Non riusciremmo a immaginare il successo militare degli uomini del Nord, privandoli dei loro temibili vascelli, quei drakkar che prendono nome dalla testa di serpente o di drago che ne ornava la prua. Gli scavi archeologici di Gokstad e Oseberg ci hanno restituito due vascelli del IX secolo, praticamente integri e cosí possiamo avere un’idea precisa di come fossero costruite simili navi. Dalla fine del IX secolo cominciano ad apparire termini quali drakkar, snekkja e skeid, a indicare navi affusolate, in grado di fendere l’acqua e specificamente costruite per spedizioni piratesche. Grazie alle loro lunghe navi i Normanni, riuscirono a risalire fiumi come la Senna, ben

oltre Parigi. La lunghezza degli scafi era stabilita in base al numero dei remi: la piú piccola veniva chiamata trettensesse, una nave con 13 panche di voga, cioè 26 remi. Quando nel 1028 re Canuto invase l’isola britannica, disponeva di 1400 navi, probabilmente condotte da 32 rematori ciascuna. Benché navi piú grandi dovessero essere rare, il ritrovamento del grande drakkar di Roskilde, conferma che questi vascelli potevano raggiungere le considerevoli dimensioni di 37 m di lunghezza, 4 di larghezza e 68 rematori: una nave simile, detta non a caso «lungo serpente», è citata nella Saga dei Volsunghi, opera in prosa, scritta in Islanda alla fine del Duecento.

Normanni, avevano una resistenza eccezionale, grazie all’assemblaggio di piú strisce di metallo secondo uno schema a intreccio in diagonale, detto «a spina di pesce»: ciò conferiva una robustezza e una elasticità senza pari. Le decorazioni, a intarsio o agemina, potevano essere in argento, bronzo, stagno, ottone o rame. La scure, abbandonata in Europa come arma da guerra, fu reintrodotta proprio dai Vichinghi, che ne perfezionarono l’uso, creandone almeno una decina di tipi differenti. Tra questi, lo skeggöx, o ascia barbuta, cadde in disuso già nel VII secolo, per essere sostituita dal breidox, una grande ascia da usare a due mani, utilizzata ancora dai Danesi a Hastings, nel 1066. Completava l’armamento offensivo una lancia in frassino. Tirarla con precisione, era segno di grande abilità e prestigio: nella saga dedicata a Olaf (segue a p. 64)

Abili carpentieri, intraprendenti marinai, mercanti e feroci guerrieri, i Vichinghi veleggiarono verso sud con le loro navi, mettendo a ferro e fuoco l’Europa

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la guerra nel medioevo/3 le macchine d’assedio

Gatti, arieti e... asini che volano come proiettili La poliorcetica è l’arte di attaccare le città fortificate, una prassi studiata già nell’antichità. Le «macchine» impiegate in un assedio possono essere suddivise in tre gruppi: da assalto, nevrobalistiche e a contrappeso. Al primo gruppo appartenevano quelle che

consentivano l’avvicinamento alle mura, il loro superamento o la loro distruzione. Se le scale erano un bersaglio fin troppo facile, ci si ingegnò per costruire torri di legno (chiamate fuori dall’Italia «belfredo» o «battifredo») montate su ruote e mosse dall’interno. «La torre era spaventevole a vedersi, anche perché avanzava senza che si conoscesse la causa del movimento, come un gigante che emerge dalle nuvole», scriveva Anna Comnena nell’Alessiade. L’interno della torre si articolava in vari piani e l’ultimo era solitamente fornito di un ponte mobile, pronto a vomitare, sulle mura nemiche, decine di guerrieri

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armati. Furono utilizzate anche tettoie mobili dette «vigne», «troie» o «gatti», con le quali ci si avvicinava alle mura per dar loro il guasto. Allo stesso modo si poteva portare fin sotto le mura un «ariete»: il nome si doveva alla punta di metallo fusa appunto in forma di testa d’ariete, tramite la quale si tentava lo sfondamento. Altra via, rischiosissima, era quella di scavare gallerie per minare le fondamenta delle mura. Puntellati da travi, i tunnel venivano fatti crollare tramite il fuoco, solo una volta giunti sin sotto i bastioni nemici, a meno che il tutto non cedesse quando i lavori erano ancora in corso. Le macchine nevrobalistiche erano invece quelle che, sfruttando il rapido svolgimento di corde precedentemente ritorte, permettevano di scagliare da lontano frecce, pietre o altri ordigni. Appartengono a questo gruppo, molto sfruttato nel mondo antico, le balliste, l’onagro e le piú celebri catapulte. Per la difficoltà di costruzione e di utilizzo, l’impiego delle macchine «a torsione» fu piuttosto raro nel Medioevo, durante il quale, invece, presero piede le macchine a contrappeso, come il mangano e la petriera. Esse erano formate da un’asta posta in bilico su un supporto: da un lato vi era l’ordigno, dall’altro delle corde, tirando le quali, si scagliava il proiettile. Dette litobole, cioè lanciatrici di pietre, tali macchine iniziano a comparire in fonti bizantine, dall’VIII secolo. A queste si deve aggiungere il temibile trabucco, menzionato per la prima volta in Italia nel 1189 e che, alle corde succitate, vide sostituire un contrappeso stabile, in grado di imprimere il movimento alla pertica senza la necessità di una trazione manuale. Tramite simili macchine potevano essere catapultati anche cadaveri per diffondere malattie, come accadde a Giaffa nel 1347, oppure asini addobbati con mitrie episcopali, «manganati» dai Fiorentini ad Arezzo nel 1289, per insultare gli Aretini, ridicolizzando il loro vescovo, se non addirittura il loro patrono, il prelato e martire Donato. A sinistra incisione novecentesca raffigurante due diversi tipi di trabucco, macchina d’assedio che fu in uso fin verso la metà del XV sec. aprile

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Miniatura raffigurante l’assedio dei crociati a San Giovanni d’Acri (concluso vittoriosamente nel 1191), da un’edizione dell’Estoire d’Outremer. XII sec. Lione, Bibliothèque municipale.

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la guerra nel medioevo/3 La conquista di Gerusalemme La prima crociata si concluse, tra il giugno e il luglio del 1099 con l’assedio di Gerusalemme. Ecco, in queste pagine, una ricostruzione grafica dell’evento, con la successione delle sue fasi piú salienti.

17. 13-15 luglio: i crociati sferrano l’attacco finale verso le mura settentrionali, guadagnando una posizione solida il 15 luglio.

10. Goffredo di Buglione, Roberto di Normandia, Roberto delle Fiandre e Tancredi si muovono a sinistra per attaccare l’estremità orientale delle mura sul lato nord. XXX

4. Scorreria crociata a Nablus per procurarsi cibo e altri rifornimenti.

CROCIATI

9. 9-10 luglio 1099: durante la notte la seconda torre d’assedio viene posta in posizione per l’attacco finale.

ROBERTO DI NORMANDIA ROBERTO DELLE FIANDRE

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D E

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XXX CROCIATI

1. 13 giugno 1099: Presi da un entusiasmo fanatico, i crociati lanciano il primo assalto alla città che viene respinto.

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quartiere ebraico

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tancredi

porta di damasco

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quartiere cristiano

CROCIATI

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goffredo di buglione 6. I Francesi del Nord costruiscono una seconda torre d’assedio utilizzando legname locale.

A

2

C 1

7. Gli uomini di Goffredo di Buglione arretrano dalle mura per proteggere la costruzione della seconda torre d’assedio.

2. 13 giugno 1099: posizione della scala d’assedio crociata durante il primo assalto.

FORZE CROCIATE 1. 2. 3. 4.

Raimondo di Tolosa, 7-12 giugno Goffredo di Buglione, 7-13 giugno Tancredi, 7-13 giugno Roberto di Normandia e Roberto delle Fiandre, 7-13 giugno 5. Scala d’assedio crociata durante il primo assalto, 13 giugno 6. Goffredo di Buglione, 13-15 luglio 7. Tancredi, 13-15 luglio 8. Roberto di Normandia e Roberto delle Fiandre, 13-15 luglio 9. Raimondo di Tolosa, 13-15 luglio 10. Torre d’assedio di Raimondo di Tolosa 11. Seconda torre d’assedio, 13-15 luglio

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5. Viene portato legname dalla costa, forse da navi disarmate, per costruire una torre d’assedio per Raimondo di Tolosa.

XXX GUARNIGIONE FATIMIDE

IFTIKHAR AL-DAWLA

16. Iftikhar al-Dawla sposta il suo quartier generale alla Cittadella.

19. 15 luglio: le truppe fatimidi che difendono le mura meridionali si ritirano sulla Cittadella quando vengono a sapere che i crociati si sono aperti un varco a nord. Gli uomini di Raimondo di Tolosa fanno irruzione in città, ma si comportano con piú moderazione dei loro cugini del Nord.

13. Raimondo di Tolosa si sposta a destra per mettersi di fronte all’angolo sud-occidentale delle mura prima dell’attacco finale del 13-15 luglio.

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8. 8 luglio 1099: tutto l’esercito crociato va in processione religiosa, attorno a Gerusalemme, che culmina nei sermoni sul Monte degli Ulivi.

12. La guarnigione fatimide costruisce cinque mangani per distruggere la seconda torre d’assedio nel momento in cui attacca le mura settentrionali.

FORZE fatimidi 11. Alcuni difensori si spostano per presidiare le mura nord-orientali e far fronte alla minaccia crociata.

Monte degli Ulivi

18. 15 luglio: i crociati sfondano le difese a nord e iniziano a massacrare la popolazione ebraica e musulmana della città. CUPOLA DELLA ROCCIA

A. Primo quartier generale di Iftikhar al-Dawla B. Quartier generale di Iftikhar al-Dawla nella Cittadella C. Guarnigione fatimide e milizia di Gerusalemme, 13 giugno D. Guarnigione fatimide e milizia di Gerusalemme, 13-15 luglio E. Mangani fatimidi

20. 15-16 luglio: sul Monte del Tempio si assiste a scene particolarmente raccapriccianti dove i crociati massacrano indiscriminatamente un gran numero di difensori e di civili.

HARAM AL-SHARIF MOSCHEA DI AL-AQSA

3. La guarnigione fatimide e la milizia di Gerusalemme presidiano le mura nordoccidentali per far fronte al primo assalto crociato.

quartiere musulmano

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cittadella

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porta di sion

14. Parte della forza difensiva fatimide si sposta per presidiare le mura a sud e far fronte alla nuova minaccia da parte di Raimondo di Tolosa. XXX CROCIATI

raimondo di tolosa 15. La guarnigione fatimide costruisce nove mangani per abbattere la torre d’assedio di Raimondo di Tolosa.

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la guerra nel medioevo/3

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Tryggvason, il protagonista deve la sua fama al saper scagliare due lance contemporaneamente, una per mano. L’apparato difensivo dei Normanni era costituito da uno scudo circolare, dipinto, rinforzato da una striscia di ferro o bronzo, con un umbone centrale a protezione dell’impugnatura. L’elmo, diffusissimo tra gli uomini del Nord, era solitamente formato da quattro spicchi, tenuti assieme da bandelle rivettate. Sono stati rinvenuti esemplari con paranaso e anche con i tipici frontali «a occhiali», come quello di Gjermundbu, risalente al X secolo. Infine la broyne, o cotta di maglia, ebbe scarsa diffusione nei primi secoli della vicenda vichinga, ma gli esemplari rinvenuti mostrano un’evoluzione che la trasformò in una vera e propria veste in metallo, lunga sino ai polpacci.

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La reazione dell’Occidente agli attacchi portati da Saraceni, Ungari e Vichinghi fu diversificata e una delle piú eclatanti strategie per sfuggire al pericolo determinò la trasformazione radicale del territorio europeo, dando vita, come già accennato, a uno dei simboli del Medioevo stesso: il castello.

Il castello

Del resto, non si possono immaginare il Medioevo e l’Europa senza castelli. Eppure vi furono secoli in cui le colline e i picchi che costellano l’Occidente accoglievano soltanto boschi popolati da lupi, mentre i centri abitati sorgevano nelle aree di fondovalle, serviti dalle comode e capillari strade basolate romane. Proprio nei secoli della dissoluzione carolingia, però, l’Europa prese a popolarsi di piccole fortificazioni (in legno e terra, piú che in pie-

tra), che garantivano in primis una residenza ai signori che potevano permettersi di intraprendere una simile iniziativa, poi un punto di osservazione del territorio circostante e una difesa naturale, nonché un rifugio, in caso di attacco, per la popolazione del circondario. È dunque opportuno sottolineare che la gran parte delle fortezze che oggi vediamo in molte regioni europee, appartiene alla fase finale della lunga storia del castello, trattandosi di edifici nati per controllare aree periferiche o come residenze di nobili famiglie. Prima dei secoli a cavallo del Mille, i laboratores vivevano, senza protezioni, in mezzo ai propri campi, magari non lontano dalle abitazioni di altri contadini, ma in un sostanziale isolamento, con una piccola chiesa rurale di riferimento in cui erano amministrati aprile

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Siria. Il Krak des Chevaliers, nella contea di Tripoli, tra Tortosa ed Emesa. Costruito dagli Ospitalieri, il fortilizio resistette ai musulmani dalla metà circa del XII sec. fino al 1271, quando fu espugnato dal sultano mamelucco Baibars.

gnori, laici ed ecclesiastici, approfittarono del vuoto di potere lasciato dal crollo dell’apparato carolingio, per instaurare un controllo politicoeconomico sulla popolazione inerme; dall’altro la necessità di creare difese contro le incursioni saracene, vichinghe e ungare.

La crociata

i sacramenti. Tra il X e l’XI secolo, invece, il paesaggio si trasformò completamente: con i castelli, residenze in primo luogo dei bellatores, nacquero insediamenti accentrati e costruzioni per la difesa. Gli abitanti dei piccoli borghi, vivevano addossati gli uni agli altri, in un dedalo di viuzze perlopiú concentriche, con, al centro, la torre del signore. Le campagne, un tempo abitate da case sparse, ora risultano disabitate: gli orti, che richiedevano maggior cura, furono disposti immediatamente a ridosso delle mura. Allontanandosi, dall’abitato si succedevano invece colture che richiedevano sempre meno attenzioni, in ordine di produttività decrescente: le vigne, gli alberi da frutto, le aree seminative e, infine, la macchia e il bosco. Il castello nasceva dunque per esigenze plurime: da un lato i si-

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Come accennato nella puntata precedente (vedi «Medioevo» n. 218, marzo 2015), la disfatta bizantina di Manzikert (1071) spinse l’imperatore di Costantinopoli a chiedere aiuto ai signori e alla Chiesa d’Occidente. Nei secoli in cui la spinta selgiuchide travolse la Terra Santa, l’Europa viveva un momento di particolare rinascita demografica. Dopo il crollo del VI-VII secolo, a cavallo dell’anno Mille il boom demografico raggiunse livelli mai visti prima. Si iniziarono a disboscare foreste per far posto a nuovi insediamenti, si bonificarono paludi e, nuovamente e in massa, si riattraversò il Mediterraneo per raggiungere le terre d’oltremare: era la prima volta dai tempi dell’impero romano. Il fenomeno delle crociate – spedizioni armate volte a liberare il Sepolcro di Cristo –, non può non essere incluso in questo processo demografico e di miglioramento del tenore di vita dei secoli attorno al Mille. Le missioni, infatti, furono organizzate anche per mantenere aperte le vie commerciali con l’Oriente, con cui l’Occidente intratteneva molti scambi. A capo dei gruppi di soldati vi erano molti giovani nobili, esclusi dalle norme ereditarie dalla successione nel feudo, ben educati nell’arte militare e in cerca di fortuna. Provenienti perlopiú dalla Francia, essi offriro-

no il loro aiuto dapprima ai regni cristiani di Spagna, impegnati nel ricacciare i musulmani, in quel lungo processo detto Reconquista. Successivamente, in concomitanza con un rinnovato fervore e una nuova aggressività verso il mondo musulmano, essi risposero, assieme a molti altri, nobili e non, alla chiamata di papa Urbano II, il quale, nel 1095, al concilio di Clermont-Ferrand, chiamò a liberare Gerusalemme in nome di Cristo. Se sino a quel momento la Chiesa si era sforzata di far rispettare le tregue e la cosiddetta Pace di Dio (un periodo durante il quale le operazioni militari dovevano essere interrotte), altrettanto sforzo profuse nel convogliare queste energie contro un popolo che «non ha rivolto il suo cuore verso Cristo e non ha affidato il suo animo al Signore, ma che anzi ha invaso in quelle contrade le terre dei cristiani», diceva Urbano II. «Chi dunque ha il dovere di punirli, se non voi ai quali il Signore ha accordato su tutte le altre nazioni l’insigne gloria delle armi?». Nasceva la guerra santa, in cui combattimento spirituale, combattimento reale e martirio si mescolavano in una pericolosa miscela. Se i nemici da combattere erano «schiavi dei demoni», come scrisse Fulcherio di Chartres, l’esito può essere uno solo: combattere o perire, e, morendo, ottenere la remissione di tutti i peccati. Qualsiasi risultato garantirà la vittoria al crociato: se ucciderà il nemico, sopprimerà il demonio; se morirà, guadagnerà la palma del martirio. Con le crociate, la Chiesa influenzò ancor piú profondamente le mentalità guerresche in Occidente, creando un nuovo ideale di soldato cristiano dopo quello già sperimentato positivamente, nel IV secolo, con Costantino contro il pagano Massenzio. F

Nel prossimo numero ● L’età degli eserciti comunali e cittadini

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storie antisemitismo

Pasque di sangue

di Erberto Petoia

Nel XII secolo prese le mosse una deliberata azione di vilipendio nei confronti delle comunità ebraiche, accusate di compiere riti poco meno che stregoneschi in occasione delle festività pasquali. Fu l’inizio di una campagna dai toni spesso violentissimi, che pose le basi per la diffusione di un piú generale e tragico sentimento antisemita

N N

ella storia dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo, la Pasqua ha spesso rappresentato uno dei momenti di massima negazione e di violenza esercitate dalla maggioranza cristiana nei confronti degli Ebrei. Ne sono testimonianza alcuni riti religiosi e temi superstiziosi, tra cui quello, molto diffuso e ancora riproposto nei canti delle processioni del Venerdí Santo soprattutto delle popolazioni dell’Italia centro-meridionale, del ruolo attivo del «Giudeo maledetto» nella crocifissione di Cristo. Accuse violente ed emarginanti che, in forme e con modalità diverse, attraversano la storia cristiana nel corso dei secoli e trovano massima espressione durante il Medioevo, epoca in cui assumono rilevanza e pericolosità sociale, codificando rigidamente l’inferiorità degli Ebrei. A partire dal XII secolo prende forma in Europa, quasi come creatio ex nihilo, l’infamante «accusa del sangue» nei confronti delle comunità ebraiche, secondo la quale, in occasione della loro Pasqua (Pesach), esse si macchiavano del crimine di crocifissione e cannibalismo rituali, uccidendo i bambini sottratti ai cristiani e usandone il sangue per impastare le azzime. Infatti, tranne qualche notizia sporadica, e comunque insufficiente e irrilevante

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Miniatura raffigurante il Seder, la cena rituale che apre la festività di Pesach (la Pasqua ebraica) e che prevede l’astinenza da ogni cibo lievitato. XV sec. Parma, Biblioteca Palatina.

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storie antisemitismo Eye (Suffolk, Inghilterra), chiesa di S. Pietro e Paolo. Particolare di una pala d’altare raffigurante William di Norwich, il ragazzo dodicenne che fu trovato morto alla vigilia di Pasqua e del cui omicidio fu accusata la locale comunità ebraica. XV sec.

per la creazione del mito, a partire dall’antichità e fino al tardo Medioevo, non sono documentate accuse simili nei loro confronti. Del tutto assente negli scritti antiebraici classici di Apione (grammatico e poligrafo alessandrino del I secolo d.C.) e di Socrate Scolastico (avvocato presso la corte di Costantinopoli e teologo, attivo nel IV secolo d.C.), la prima accusa di omicidio rituale – che tuttavia si diffuse soltanto in ristretti ambienti ecclesiastici – si trova nella Expugnationis Hierosolymae, un testo poco noto del VII secolo del monaco bizantino Antioco Strategos: vi si narra di molti cristiani che, durante la conquista persiana di Gerusalemme del 614, rifiutandosi di disconoscere il Messia, furono immolati «proprio nello stesso modo in cui comprano pecore per il sacrificio». L’accusa del sangue e di omicidio rituale è altresí assente negli scritti teologici dei piú accaniti e feroci rappresentanti dell’antigiudaismo medievale, come per esempio Agobardo da Lione (IX secolo), il quale si limita ad accusare gli Ebrei di rapire fanciulli cristiani per venderli come schiavi ai Mori di Spagna.

I Benedettini orchestrano la calunnia

Il mito fondante dell’accusa dell’omicidio rituale di bambini cristiani da parte degli Ebrei va ricercato nell’opera di alcuni monaci benedettini e della gerarchia ecclesiastica che, nel XII secolo, a Norwich, in Inghilterra, formularono per motivi diversi l’accusa e la alimentarono sapientemente, forse nemmeno del tutto inconsapevoli delle disastrose e cruente conseguenze. Nel 1150, infatti, il monaco gallese Thomas di Monmouth scrive la sua Vita et Miracula Sancti pueri Wilhelmi Norwicensis, un ampio e dettagliato resoconto agiografico in cui narra della morte di un ragazzo di 12 anni, di nome William, avvenuta alla vigilia di Pasqua del 1144. Il cadavere martoriato del ragazzo venne rinvenuto in un bosco alla periferia della città e l’omicidio fu attribuito agli Ebrei che, secondo le accuse, lo avevano rapito e ucciso per scopi rituali. L’opera di Thomas di Monmouth fu fondamentale nel trasformare il caso di un assassinio irrisolto, o di morte accidentale, nell’accusa di omicidio rituale per fini religiosi contro gli Ebrei e per dare vita al culto di un santo martire, che, già nelle prime settimane dopo il decesso, aveva cominciato a operare miracoli. Grazie a lui, infatti, prende forma un nuovo modello di santità, quello dei pueri a Judaeis necati, i quali, per essere stati crocefissi dagli Ebrei durante la settimana di Pesach e di Pasqua, in una sorta di ripetizione rituale, diventano simbolicamente altrettanti «Cristi in microcosmo». Ma la conseguenza piú pericolosa dell’opera di Thomas fu l’introduzione della testimonianza di un personaggio, reale o inventato, il quale non soltanto confermava l’episodio dell’uccisione, ma svelava segreti e

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Miniatura raffigurante un Ebreo con un pane azzimo (matzah), alimento base del Seder, cena rituale che prevede l’astinenza da ogni cibo lievitato in ricordo del pane mangiato dagli Ebrei durante la precipitosa fuga dall’Egitto. XV sec. Parma, Biblioteca Palatina.

motivi finora sconosciuti. Si trattava di Teobaldo di Cambridge, presunto ebreo convertitosi al cristianesimo proprio grazie ai miracoli operati dal piccolo William, il quale rivelò che i rappresentanti delle comunità ebraiche si riunivano ogni anno a Narbona, nel Sud della Francia, per organizzare il sacrificio e lo spargimento del sangue di un cristiano, e adempiere cosí a precetti contenuti nelle antiche scritture dei loro padri. Qui si sceglieva a sorte la nazione in cui si sarebbe tenuto il sacrificio, mentre gli Ebrei del Paese prescelto avrebbero deciso in quale città compierlo, e, nel 1144, la scelta era caduta sull’Inghilterra e su Norwich.

Una colpa collettiva

Il rituale, in dispregio e odio verso Gesú Cristo – la cui uccisione da parte dei propri avi ne aveva causato la schiavitú e la dispersione per il mondo – era volto ad accelerare la liberazione del popolo d’Israele e il suo ritorno in Palestina. Le rivelazioni di Teobaldo, evidentemente frutto del pensiero dell’autore e dell’ideologia religiosa dominante dell’epoca, stabiliscono per la prima volta l’idea di una colpa collettiva di tutti gli Ebrei negli omicidi rituali e non solo di singoli individui o di una singola collettività. Un’altra testimone, una serva cristiana di nome Eleazar, che si trovava opportunamente

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storie antisemitismo

all’interno della casa dell’Ebreo in cui era avvenuto l’omicidio, riferí invece i dettagli della crudele cerimonia della crocifissione e dell’atroce supplizio del ragazzo, a cui avevano preso parte gli Ebrei del luogo.

Persecuzioni e massacri

Dall’Inghilterra, con dinamiche che ricordano quelle del fenomeno della stregoneria, le accuse di omicidi rituali si diffondono in altri Paesi Europei, arricchendosi di volta in volta di nuovi spunti ed elementi. Casi simili si verificarono a Gloucester nel 1186, a Bury St. Edmunds nel 1181, a Bristol nel 1183, a Winchester nel 1192, di nuovo a Norwich nel 1235, a Londra nel 1244, a Lincoln nel 1255 e, verso la fine del 1200, ancora a Bristol, si registra addirittura un caso di infanticidio rituale plurimo. Se nell’episodio del piccolo William, i rappresentanti della comunità ebraica evitarono il processo e la morte solo grazie alla protezione del re, la scoperta di altri casi

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di «crocifissioni di infanti», come quelli sopra citati, portò al massacro di intere comunità ebraiche. Nel 1171 l’accusa aveva varcato i confini inglesi e aveva raggiunto la Francia, dove 31 Ebrei della comunità di Blois furono imprigionati , torturati e bruciati sul rogo per aver ucciso e buttato nell’acqua un bambino cristiano (altre fonti parlano di 55 vittime). Nel 1235, il caso di Fulda, in Germania (vedi box alle pp. 74-76), segnò un punto di svolta nell’accusa di omicidio rituale, che fino a questo momento si era sempre concentrata sulle torture inflitte alle vittime e sul tema della ripetizione della crocifissione, «in dispregio alla passione di Cristo». Qui, per la prima volta, compare una seconda imputazione, legata al nuovo motivo dell’«accusa del sangue», ovvero del cosiddetto «cannibalismo rituale». Gli Annali di Erfurt e gli Annali di Marbach riferiscono che, nel Natale del 1235, a Fulda, 34 Ebrei furono passati a fil di spada, accusati di aver ucciso cinque figli di aprile

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Nella pagina accanto xilografia raffigurante il martirio di Simonino da Trento, da un’illustrazione realizzata da Michael Wohlgemut per il Liber chronicorum di Hartmann Schedel, pubblicato a Norimberga nel 1493. In basso incisione raffigurante il monumento funebre di Ugo di Lincoln, dall’opera Anglia Judaica di D’Blossiers Tovey, pubblicata nel 1738.

Piccoli martiri

Non c’è solo Simonino... Oltre alla figura di Simonino da Trento, altri bambini ritenuti vittime di omicidi rituali da parte degli Ebrei sono stati venerati come santi o beati nel nostro Paese. Per esempio, a Marina di Massa, fino a tempi non remoti, persisteva la venerazione di Dominichino del Val, patrono dei chierichetti, e bambino ritenuto vittima dell’omicidio rituale nel 1250 a Saragozza: si narra che fosse stato crocifisso a una parete con i chiodi e colpito a morte al fianco con una punta di ferro. La sua memoria è stata tenuta viva nei secoli dalla pubblicistica spagnola fino agli inizi del Settecento e, malgrado la Chiesa cattolica avesse dichiarato infondato storicamente il personaggio, la devozione fu introdotta in Italia in tempi abbastanza recenti per opera di un frate. Al nome del santo inesistente sono intitolati a Marina di Massa una chiesa, un quartiere, e, a tutt’oggi, un premio letterario.

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In alto Caluga (Bassano del Grappa). Particolare dell’affresco nell’edicola sorta sul luogo della morte di Lorenzino Sossio: i carnefici ebrei martirizzano il giovane; i loro volti sembrano volutamente scalpellati per rendere difficilmente riconoscibile la scena.

Una situazione analoga è attestata a Marostica, in provincia di Vicenza, dove si venera il beato Lorenzino Sossio, bambino di cinque anni trovato morto e con il corpo orrendamente ferito durante la Settimana Santa del 1485 in Valrovina. Come scrisse Prospero Lambertini (il futuro papa Benedetto XIV) nel De Servorum Dei Beatificatione et Beatorum Canonizatione (1734-1738), «fu svenato dagli Ebrei in odio della Fede di Cristo, e dal giorno del suo martirio fino al presente, in Marostica (…) è riconosciuto e venerato come martire». A Lorenzino è tuttora dedicata una festa annuale, con fiera e chiesa.

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storie antisemitismo un carpentiere che vivevano fuori dalle mura della città (mentre i loro genitori erano a messa) e di aver dato fuoco alla casa mentre si allontanavano. L’omicidio era stato compiuto al fine di procurarsi il sangue, che raccolsero in sacche cerate, da conservare e utilizzare per il die sabbato sancto, ovvero per la celebrazione della Pasqua ebraica. L’accusa del consumo di sangue in occasione della Pasqua, tendenziosamente e artatamente costruita in seguito a questo episodio dai circoli clericali che facevano capo a Corrado di Marburg, si fece, da questo momento in poi, sempre piú ricorrente e divenne il motivo prevalente fino a tempi molto piú recenti. Nonostante l’imperatore Federico II avesse istituiIn basso particolare di una miniatura raffigurante la circoncisione di un neonato. 1450-1480. Gerusalemme, Israel Museum. Fra le molte dicerie legate all’«accusa del sangue», vi era quella secondo la quale quello sottratto ai bambini cristiani, essiccato e ridotto in polvere, avesse capacità emostatiche e accelerasse il rimarginarsi della ferita del prepuzio.

tra fede e propaganda

Un pregiudizio duro a morire Gli ultimi decenni dell’Ottocento fecero registrare una recrudescenza della tradizionale accusa del sangue e di omicidi a scopo rituale, prediligendo come vittime sempre i bambini cristiani, con pubblicisti cattolici impegnati a dimostrare la veridicità di una colpa cosí palesemente priva di qualsiasi concretezza storica e utilizzata dalle diverse forme di antigiudaismo e antisemitismo. A partire dalla Rivoluzione francese e fino alle soglie del Novecento, non solo la Chiesa cessò di far sentire la sua voce contro tali accuse – che sono ancora vive nell’Europa centrale e orientale e nei Paesi arabi –, ma la maggioranza della stampa cattolica (tra cui testate autorevoli come La Croix, L’Osservatore Cattolico e La Civiltà

Il giornalista cattolico Davide Albertario (1846-1902).

to una commissione d’inchiesta sul caso di Fulda, che aveva mandato assolti gli Ebrei – perché aveva riconosciuto la severa interdizione mosaica di cibarsi del tutto da ogni tipo di sangue, come sancito nei dei testi sacri ebraici, quali il Bereshit e il Talmilloth –, l’episodio si trasformò nel mito fondante dell’accusa del sangue che, a partire dal XIII secolo, si diffuse in maniera inarrestabile in gran parte dell’Europa.

Interpretazioni deliranti

Il sangue sottratto ai fanciulli cristiani aveva anche una funzione terapeutica e magico-stregonica, secondo le accuse o le interpretazioni delle deposizioni degli imputati per omicidio rituale. Al sangue, spesso essiccato o ridotto in polvere, si attribuivano notevoli capacità emostatiche e, per questo motivo, veniva conservato e utilizzato per rimarginare la ferita del prepuzio dei bambini circoncisi. Inoltre, il sangue dei bambini cristiani, ingerito, serviva a curare l’epilessia, a eliminare il forte fetor judaicus, di cui erano accusati di essere portatori, a frenare le emorragie da epistassi o da mestruazioni troppo abbondanti e, secondo una originale e delirante interpretazione del domenicano Rodolfo da Sélestat, a frenare le dolorose e

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Cattolica, solo per citarne alcune) tese a schierarsi apertamente con chi sosteneva la verità della leggenda del sangue. Questa nuova ondata di accuse trovò spazio particolarmente sulle pagine della Civiltà Cattolica, nella persona del gesuita Giuseppe Oreglia di Santo Stefano, che già da tempo farneticava di un complotto giudaico-massonico-liberale per la distruzione della Chiesa cattolica e della civiltà cristiana. Complice il silenzio-assenso delle autorità ecclesiastiche, la campagna proseguí indisturbata e padre Oreglia, nell’articolo del 7 luglio 1881, provò a dimostrare come persino la bolla di Innocenzo IV del 1247 non costituisse affatto una condanna dell’accusa del sangue, producendo, qualche mese dopo, la prova dell’esistenza «di una legge religiosa talmudico-rabbinica, la quale

obbligava gli Ebrei a celebrare la loro Pasqua con il sangue cristiano». Si trattava della traduzione commentata del testo degli atti del processo di Trento, conservati nell’Archivio Segreto Vaticano e che nessuno studioso aveva mai potuto visionare. Un ulteriore contributo alla polemica antiebraica cattolica di fine Ottocento, venne da Davide Albertario, sacerdote-giornalista lombardo, massimo propagandista italiano dell’antisemitismo e uno dei protagonisti piú noti del movimento cattolico intransigente del tardo Ottocento, che si contraddistinse per l’asprezza polemica e per i contenuti violentemente intolleranti, tra cui l’accusa di omicidio rituale, propagandata dalle pagine dell’Osservatore Cattolico. L’accusa di omicidio rituale, serví ad Albertario per difendere la causa cattolica,

abbondanti mestruazioni dei maschi giudei, puniti in questo modo per la colpa, diretta o indiretta, di deicidio. Per la stessa colpa di deicidio, secondo il frate Tommaso di Cantimprè (1201-1270 o 1272), il loro sangue era irrimediabilmente inquinato e perciò necessitavano di trasfusioni di salvifico plasma cristiano per alleviare gli infiniti malanni e le intollerabili sofferenze fisiche e morali che ne derivavano. Gli Ebrei sarebbero stati anche i responsabili della diffusione della infirmitas pestifera, la Peste Nera, che colpí l’Europa tra il 1347 e il 1353; per diffondere il contagio essi avrebbero confezionato sacchetti di una speciale sostanza a base di sangue umano essiccato, erbe, orina e polvere d’ostia consacrata, accomunando in un’unica accusa quella del sangue e quella della profanazione dell’ostia, ad inteficiendam et destreuendam totam legem Christiana, per uccidere e distruggere tutta la cristianità. La posizione ambigua assunta dalla Chiesa favorí il diffondersi e il perpetuarsi di tali superstizioni, e a nulla valsero i pochi, seppur autorevoli, tentativi per negare e smitizzare l’«accusa del sangue». Le autorità ecclesiastiche si pronunciarono ufficialmente a riguardo, a partire dalla bolla di Innocenzo IV del 9 luglio 1247, che aggiunge un codicillo al testo della Constitutio pro Judaeis

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ultimo baluardo contro la modernità secolarizzatrice (di cui gli Ebrei emancipati sono simbolo) e contro il sistema liberale affermatosi in Italia con l’unificazione a scapito della Chiesa. E contro coloro che ritenevano false le accuse di omicidio rituale, scagliava la sua ira, come si legge in uno dei suoi articoli: «Ora venite a sdilinquire di pietà, pei bevitori del sangue d’innocenti bambini! Ora fate appello ai governi per proteggere… gli assassini! I giornali civili, imparziali, onesti, dovrebbero anzitutto invocare luce, giustizia, severità, dovrebbero esigere che la si faccia finita una buona volta con questo rito selvaggio, bestiale, orribile. (…) Pietà per mignatte insaziabili, per cospiratori eterni! Rientrino nella legalità, mostrino sensi d’umanità, se legalità e umanità vogliono in proprio favore».

di Callisto II, volto a scagionare gli Ebrei dall’imputazione ricorrente di omicidio rituale e «di utilizzare sangue umano nei loro riti». Tuttavia, nei fatti, l’atteggiamento della Chiesa dimostrò come tali divieti rimanessero un atto formale e come, al contrario, fosse lecito che i cattolici continuassero ad accusare gli Ebrei di uccidere i cristiani per consumarne ritualmente il sangue. Infatti, dichiarata insensata e assurda da diverse bolle pontificie, l’accusa veniva rilanciata dalla predicazione della base del clero e di molti rappresentanti di ordini monastici.

L’(inutile) intervento del papa

Condannata dagli imperatori, veniva riproposta nel culto dei santi e beati come William di Norwich, Ugo di Lincoln, Werner di Oberwesel, e di altri fanciulli saliti agli onori dell’altare per essere stati uccisi dai perfidi Giudei. Nel 1272 papa Gregorio X fu costretto a intervenire ancora una volta per sradicare la credenza che gli Ebrei, in ottemperanza alle loro leggi religiose, consumassero sangue di bambini cristiani durante il pasto comunitario (sacrificium) e dispose che tale imputazione non potesse giustificare detenzioni e interrogatori. Ma l’accusa del sangue si era ormai profondamente radicata, e andava sempre piú delineandosi e perfezio-

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storie antisemitismo nandosi quel parallelismo tra le fantasiose celebrazioni ebraiche e il rito eucaristico, sulla cui base, nei secoli successivi, maturò la convinzione che gli Ebrei, durante il periodo pasquale, impastassero le loro azzime con sangue di bambini cristiani. Ciò spinse prima Martino V, nel 1422, e poi Nicola V, nel 1447 – quest’ultimo dietro alle suppliche di alcuni Ebrei di Spagna – a emanare le bolle che vietarono, rispettivamente, in maniera drastica la predicazione violenta contro gli Ebrei e condannarono quanti avessero cercato di persuadere gli altri cristiani del fatto che gli Ebrei non possono celebrare le loro festività «senza un fegato o un cuore di qualche cristiano». A indurre i cristiani ad accusare gli Ebrei di tali e altri orrendi crimini erano spesso l’odio, l’invidia o la cupidigia, come denunciava papa Paolo III nella bolla del 1550: il documento esortava tutti i principi regnanti a impedire energicamente questo genere di persecuzioni e cercava di ripristinare la tradizionale linea di condanna della Chiesa nei confronti dell’accusa del sangue, entrata in profonda crisi dopi i fatti di Trento.

La triste fine del piccolo Simone

Il 24 marzo del 1475, il Mercoledí Santo della settimana di Pasqua, il conciapelli Andrea aveva denunciato alle autorità tridentine la scomparsa del figlio Simone, di due anni e mezzo, e aveva chiesto al podestà di perquisire le case degli Ebrei, poiché era voce diffusa che «nei giorni della settimana santa, se lo possono fare con facilità e segretamente, rapiscono bambini cristiani e li uccidono». Probabilmente le affermazioni del conciapelli erano anche il risultato delle prediche di Bernardino da Feltre, guardiano del convento di Trento, il quale, nel periodo della quaresima, si era ripetutamente e violentemente scagliato contro gli Ebrei. Il corpo di Simone venne ritrovato due giorni dopo, orribilmente straziato, nelle acque di una roggia, nei pressi dell’abitazione di alcuni Ebrei. Dietro le insistenze dello stesso Bernardino da Feltre, che aveva provveduto opportunamente a fornire al podestà chiare e precise direttive sulle confessioni da estorcere agli imputati – e in flagrante violazione della bolla di Gregorio X del 1272 – una trentina di persone appartenenti alle tre famiglie di Ebrei residenti a Trento, per ordine del principe-vecovo Giovanni Hinderbach (1418-1486), fu sottoposta a processo, torturata e alla fine costretta a confessarsi colpevole. Influenzato anche dai continui miracoli che Simone aveva cominciato a operare, il processo si concluse con l’esecuzione di 15 dei presunti colpevoli e la confisca dei loro beni. Il processo di Trento ebbe due risvolti significativi: da un lato prese avvio una profonda campagna antiebraica, dall’altro vennero fissati in forme piú teologiche – e relegando in secondo piano quelle magico-terapeutiche – i dettagli e l’essenza stessa del rito. Infatti, do-

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L’ostia profanata

I fatti di Fulda Durante il XIII secolo, accanto all’accusa di infanticidio rituale, agli Ebrei comincia a essere imputata anche la profanazione delle ostie, contenenti il sangue e il corpo di Cristo. Il mito attribuisce a uomini e donne la colpa di sottrarre ostie consacrate dalle chiese per usarle in riti stregonici o, piú semplicemente, per calpestarle e profanarle. Nata all’interno delle culture folkloriche europee, nelle quali il furto dell’ostia era solitamente attribuito alle streghe (che se ne sarebbero servite per la preparazione dei loro filtri o per realizzare fatture mortali), l’accusa si trasforma ben presto in uno specifico capo d’imputazione contro le comunità giudaiche: in particolare, In alto, sulle due pagine le prime due scene della predella dipinta da Paolo Uccello per la pala d’altare con la Comunione degli Apostoli poi realizzata da Giusto di Gand (1473-1474). 1467-1468 circa. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. Basata sulla vicenda di un Ebreo parigino accaduta nel 1290 e narrata da Giovanni Villani, l’opera rappresenta le storie del Miracolo dell’ostia profanata:

nel primo riquadro, una donna cristiana cede un’ostia consacrata a un mercante ebreo; nel secondo, si vede l’interno della casa dell’Ebreo, dove l’ostia cuoce in un pentolino sul camino: poiché si tratta del corpo di Cristo, la particola comincia a sanguinare e il liquido che, colando sul pavimento, esce da sotto la porta, richiama l’attenzione di un gruppo di persone, che cerca di sfondare la porta per entrare. aprile

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A sinistra la terza scena mostra l’ostia che viene ricondotta a un altare da una processione, presieduta da un papa con il triregno. Potrebbe trattarsi di Bonifacio VIII, che, nel 1295, fece erigere a Parigi una cappella votiva per l’evento miracoloso.

A destra nel quarto riquadro la donna che aveva venduto l’ostia al mercante sta per essere impiccata. Sulla scena, inserita in un paesaggio campestre, veglia un angelo, forse a suggerire la possibilità di una redenzione.

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storie antisemitismo A sinistra la quinta scena della predella di Paolo Uccello: l’Ebreo, con la moglie e i due figlioletti, viene messo a morte, sul rogo.

all’indomani del Concilio Lateranense IV del 1215, una prevalente corrente di teologi fu interessata a difendere, attraverso episodi miracolistici, la controversa tesi della reale presenza del corpo e del sangue di Cristo nell’ostia consacrata dal prete. Gli Ebrei diventano cosí i protagonisti negativi di questi miracoli, che seguono un modello fisso e ripetitivo: il sacrilego, o piú spesso la sacrilega, rubano l’ostia e la portano a casa dove la friggono. Qui, il sangue di Cristo comincia a fluire abbondantemente dall’ostia fritta, si sparge per la casa e arriva fino sulla strada, rendendo cosí manifesto il delitto consumato. Ne conseguono un processo sommario e la condanna al rogo del colpevole. Nel 1298 a Röttingen, una cittadina della Franconia, in seguito all’accusa nei confronti degli Ebrei cittadini di aver profanato un’ostia, in corpus Domini deliquerunt, un nobile del luogo, tale Rindfleisch, organizzò una banda armata per vendicare l’offesa, dando cosí inizio a stermini e violenze, che causarono la morte di migliaia di Ebrei, in diverse città della Franconia, della Baviera e dell’Austria. Di un caso analogo fu teatro nel 1478 Passau, dove, per la stessa accusa, l’intera comunità venne processata, molti mandati al rogo, alcuni forzatamente convertiti, e al

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posto della sinagoga dove si sarebbe consumato il sacrilegio fu eretta una chiesa, luogo di successivi miracoli. Dai Paesi di lingua germanica, la superstizione trasmigrò ben presto in Italia, dove la troviamo raffigurata nei vari momenti del sacrilegio fino al rogo dell’Ebrea accusata del furto negli scomparti della celebre predella di Paolo Uccello del Miracolo dell’ostia profanata (1467-1468 circa), conservata a Urbino, nella Galleria Nazionale delle

Marche. Residui di questo rituale antigiudaico permangono in Italia, fino a tempi non molto lontani, dando origine, per esempio, a Trani a un culto della «sacra padella», nella quale un’Ebrea avrebbe fritto un’ostia furtivamente sottratta. Nella seconda metà del secolo scorso l’arcivescovo Carata riportò in vita questa devozione già soppressa nel Settecento dal vescovo Davanzati, il quale, con maggiore acume, aveva dichiarato falsa la credenza e il culto illegittimo. aprile

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po il processo, l’accusa del sangue si diffuse nell’Italia settentrionale e neanche l’iniziale intervento di Sisto IV riuscí a fermare l’ondata pubblicistica e predicatoria antiebraica sollevata e orchestrata da Hinderbach, con l’ausilio delle omelie francescane, soprattutto nei sermoni del periodo di quaresima; una predicazione che contribuí in maniera determinante alla diffusione del culto del piccolo Simone e ad aumentare l’ostilità e le violenze contro gli Ebrei. Il giovane e presunto martire divenne infatti un simbolo del fenomeno in questione, grazie alla sua beatificazione e al riconoscimento del suo culto da parte di Sisto V nel 1588. Un culto che, da allora in poi, la Chiesa non ha mai cercato realmente di ostacolare, e che solo nel 1965, sull’onda della svolta conciliare, è stato abolito, rimuovendo la salma del giovane dal tempio che la ospitava. A sinistra l’ultimo riquadro della predella: all’ombra di un altare sotto un’abside molto simile a quello inserito nella scena della riconsacrazione (vedi a p. 75), angeli e demoni si contendono l’anima della donna sacrilega.

e il suo sangue, ottenuto mediante una simbolica crocifissione e mischiato nelle azzime e nel vino, diventa l’elemento indispensabile per celebrare il pasto comunitario e per propiziare religiosamente la distruzione della cristianità.

Bambini al posto degli agnelli

L’accusa del sangue nei confronti degli Ebrei nasce quindi per effetto di un ribaltamento negativo del sacrificio di Cristo: il popolo che ha ucciso Gesú continua a versare sangue cristiano, in una ripetizione rituale che vede protagonista un Gesú bambino anziché adulto. E cosí, il posto degli agnelli da latte crocifissi dagli Ebrei durante la Pasqua – in spregio alla Passione di Cristo, secondo una piú antica accusa – viene preso dai bambini martiri, novelli Agnus Dei, sostituti simbolici attraverso i quali si perpetuano l’omicidio di Cristo e lo spargimento del suo sangue. Fatti mitologici, non veri, che neppure la storicizzazione, attraverso i processi, riuscí a collocare nella giusta luce, poiché viziati, innanzitutto, da dinamiche e procedimenti in cui ebbero grande ruolo le confessioni estorte con la tortura e poi dall’atteggiamento dei giudici, interessati piú che altro a costruire prove in chiave antigiudaica, ad avvalorare le presunzioni delle accuse e a confermare le convinzioni derivanti dalla loro cultura teologica. L’accusa di usare sangue cristiano per impastare le azzime di Pesach finisce cosí, come già nella lucida analisi dello storico Furio Jesi, per configurarsi come una reversione del mito: pur rievocando sacralmente il sacrificio eucaristico, i cristiani lo ribaltano in senso negativo e ne attribuiscono l’inversione ai diversi, agli Ebrei, i quali, in virtú della stessa logica, diventano anche i pugnalatori di ostie consacrate. F

Da leggere U Ariel Toaff, Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi

L’altro aspetto importante, emerso dal processo di Trento è la preoccupazione dei magistrati di dimostrare come il rito dell’uccisione dei bambini cristiani e il consumo del loro sangue siano parte fondamentale e segreta della religione e della ritualità ebraica, evidenziandone cosí lo stato di corruzione, mentre gli scopi terapeutici del rito e dell’uso del sangue sono marginali e accessori, e risultano completamente assenti quelli a magici e stregoneschi. Si delinea cosí l’essenza stessa della cerimonia della Pesach ebraica, che diventa una sorta di antirito eucaristico, al cui centro viene collocato lo stesso Cristo, nella figura dell’innocente fanciullo cristiano di turno;

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rituali, Il Mulino, Bologna 2007 Per alcune sue posizioni, il libro ha suscitato polemiche roventi tra le comunità ebraiche italiane e internazionali, ed è stato strumentalmente usato da pericolosi reazionari per chiedere, in totale dispregio della verità storica, il ripristino dei culti di Simonino da Trento e degli altri bambini vittime degli omicidi rituali ebraici. U Massimo Introvigne, Cattolici, antisemitismo e sangue. Il mito dell’omicidio rituale, SugarCo, Milano 2004 U Ruggero Taradel, L’accusa del sangue. Storia politica di un mito antisemita, Editori Riuniti, Roma 2002 U Alfonso Maria Di Nola, Lo specchio e l’olio. Le superstizioni degli italiani, Laterza, Roma-Bari 1993 U Furio Jesi, L’accusa del sangue. Mitologie dell’antisemitismo, Morcelliana, Brescia 1993

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mostre arte lombarda

Signori di Serena Romano e Mauro Natale

e mecenati

I circa duecento anni che videro avvicendarsi alla guida di Milano i Visconti e gli Sforza furono una vera e propria «età dell’oro». Una stagione forse irripetibile, che, nel campo della produzione artistica, tenne a battesimo opere eccezionali. A poco meno di cinquant’anni dalla mostra che per prima celebrò quella straordinaria parabola, un nuovo progetto espositivo ripercorre le fasi salienti di un’avventura avvincente

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rte lombarda dai Visconti agli Sforza: cosí Gian Alberto Dell’Acqua (1909-2004) e Roberto Longhi (1890-1970) chiamarono la grande esposizione che si aprí a Milano nell’aprile del 1958, nello stesso Palazzo Reale che oggi accoglie la nostra. L’omaggio, ovviamente deliberato da parte di chi scrive, vuole segnalare fin dal primo momento un fatto certo ben chiaro a tutti coloro che studiano e amano l’arte lombarda del tardo Medioevo e del Rinascimento: la mostra di Longhi e Dell’Acqua, sbalorditiva per numero e qualità degli oggetti, per novità e nettezza di visione storica, riuscí, allora, a trasformarsi in una tappa di studio e di giudizio critico ben superiore a quelli, talora effimeri, degli eventi espositivi; divenuta filtro per l’intero campo di studio, nessuno piú, da allora, ha potuto prescindere – magari per discuterli e criticarli – dagli inquadramenti longhiani; da lí sempre, ancora, ci si muove. Concise all’estremo le schede sugli oggetti, asciutta, ma a dir poco ispirata, l’introduzione di Longhi, che sdegna note e apparati critici ed espone il succo

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Due scomparti originariamente appartenenti al Polittico di Sant’Andrea dipinto dall’artista milanese Carlo Braccesco, attivo nella seconda metà del XV sec.: San Paolo (a sinistra) e San Pietro. 1495 circa. Collezione privata.

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mostre arte lombarda A destra la fuga in Egitto raffigurata in una pagina del Libro d’Ore miniato attribuito a un seguace di Michelino da Besozzo e altri miniatori. XV sec. Como, Pinacoteca Civica.

Medaglioni marmorei con i ritratti di Ludovico Sforza (in alto) e Gian Galeazzo Maria Sforza. Attribuiti a Benedetto Briosco e alla sua bottega. 1490 circa. Washington, National Gallery of Art.

essenziale della riflessione sua e dei suoi compagni di lavoro: tanto che il catalogo del 1958 ha ancora un posto d’onore sul tavolo di tutti gli studiosi di oggi. Radicato nei traumi e nei gravissimi rischi della guerra, il progetto di mettere in scena e dare lustro all’arte lombarda era il punto d’arrivo del lungo lavoro di ricerca, di valorizzazione e di restauro svolto, oltre che dal già citato Dell’Acqua, da Fernanda Wittgens e Franco Russoli; del ruolo che tutti loro, personalità di alto livello morale e intellettuale, avevano svolto negli istituti di tutela cittadini per difendere il patrimonio milanese e lombardo durante la guerra; ma era, soprattutto, l’affermazione di un’identità, la dimostrazione della grandezza di una tradizione culturale e artistica, finalmente liberata, come scrisse Longhi, «dagli ultimi residui del lungo complesso d’inferiorità che l’ha ostinatamente tenuta in soggezione al confronto d’altre regioni d’Italia». A Palazzo Reale, l’arte lombarda si presentava come la solida e originale manifestazione di una regione geograficamente compatta e politicamente strutturata

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di cui i curatori e Roberto Longhi rintracciavano e rivendicavano l’autonomia espressiva («Ma resta pure lombarda la conclusione che è di immergere tutto il quadro in un bagno di ori»). L’allestimento minimalista, le cui immagini si sono conservate nelle fotografie di Mario Perotti, rinunciava a qualsiasi ornamento o ammiccamento, in geniale contatto con le ricerche artistiche contemporanee della Milano vivacissima e fertile degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento.

Quando si dice «lombardo»...

Al centro della riflessione della mostra del 1958 e dei suoi precedenti era, dunque, il concetto di «lombardo». A sua volta edificato su molti decenni ormai di ricerche, non solo italiane, che hanno lavorato sul dettaglio e sui concetti di fondo, con moltissime nuove scoperte, restauri, ri-datazioni, ri-attribuzioni, il progetto di questa nuova rassegna non poteva non essere profondamente diverso da quello del 1958. Per la mostra di oggi ci si è preoccupati molto meno di andare a cercare gli elementi di «vero» lombardismo aprile

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A destra Michelino da Besozzo, Sposalizio della Vergine. Tempera e oro su tavola, 1430 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. Questa è una delle due sole opere certamente attribuibili al piú famoso dei pittori e miniatori lombardi attivi nella prima metà del XV sec. sotto l’egida dei Visconti.

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mostre arte lombarda Leonardo

Un Palazzo per due L’esposizione presenta una visione di Leonardo non mitografica, né retorica né celebrativa, ma trasversale su tutta l’opera del poliedrico personaggio, considerato come artista e scienziato attraverso alcuni temi centrali individuati dai curatori: il disegno, fondamentale nell’opera di Leonardo; il continuo paragone tra le arti: disegno, pittura, scultura; il confronto con l’antico; la novità assoluta dei moti dell’animo; il suo tendere verso progetti utopistici, veri e propri sogni, come poter volare o camminare sull’acqua per cui sarà allestita in mostra una apposita sezione; l’automazione meccanica e cosí via, temi che lo hanno reso un alfiere dell’unità del sapere, con l’intrecciarsi continuo nella sua opera di scienze e arti. La mostra intende rivolgersi a un pubblico vasto e non di soli specialisti e si proporrà di illustrare, attraverso dodici sezioni, le tematiche centrali nella carriera artistica e scientifica di Leonardo, trasversali nella sua lunga estensione, venendo ad abbracciare non solo gli anni della sua formazione fiorentina, ma anche i due soggiorni milanesi, fino alla sua permanenza in Francia, sottolineando cosí alcune costanti della sua visione artistica e scientifica. Dal percorso espositivo risulterà chiara anche la sua vocazione all’interdisciplinarietà e al continuo intrecciarsi di interessi, attraverso l’approccio analogico allo studio dei fenomeni e alla loro rappresentazione grafica, riassunti e culminanti nei suoi dipinti piú tardi.

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La sequenza del percorso espositivo presenta opere autografe di Leonardo – dipinti, disegni e manoscritti –, introdotte dalle opere dei suoi predecessori (pittori, scultori, tecnici, teorici) che possano contestualizzare il contributo di Leonardo nella storia dell’arte, della scienza e della tecnica e offrire nel contempo una visione della figura di Leonardo artista e scienziato del suo tempo, senza concessioni alla mitografia e alla banalizzazione. Due sezioni finali, tuttavia, mostreranno anche l’influenza di Leonardo pittore e teorico dell’arte in età moderna e la formazione del suo mito, incentrato sulla Gioconda. (red.)

In alto Leonardo da Vinci (o Lorenzo di Credi), Piccola Annunciazione. Olio su tavola, 1475-1478. Parigi, Museo del Louvre. A sinistra Leonardo da Vinci, Ritratto di donna (La belle ferronière). Olio su tavola di noce. 1495 circa. Parigi, Museo del Louvre. A destra Leonardo da Vinci, Studio per Madonna Litta. Punta metallica su carta preparata blu, 1490 circa. Parigi, Museo del Louvre.

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Dove e quando «Leonardo, 1452-1519» Milano, Palazzo Reale fino al 19 luglio (dal 15 aprile) Orario lu, 14,30-19,30; ma-me-ve-do, 9,30-19,30; gio, sa, 9,30-22,30 Info tel. 02 92800375 (attivo lu-sa, 8,00-18,30); www.comune.milano.it/ palazzoreale Catalogo Skira

In alto Michelino da Besozzo (attribuito), Madonna del Roseto (Madonna col Bambino e santa Caterina). Tempera su tavola trasportata su tela, prima metà del XV sec. Verona, Civici Musei d’Arte, Museo di Castelvecchio.

– essendo chi scrive scettico sull’identificare senz’altro un dato primigenio nell’istinto realistico o in altri elementi pur importantissimi – e molto di piú, invece, di ricomporre, nel ritratto della produzione artistica di epoca viscontea e sforzesca, i tratti di un’immensa e dinamica convergenza di elementi di una cultura che (per situazione storica, geografica e politica) nasce al cuore dell’Europa medievale e moderna e a essa rimane costantemente aperta, fino a che gli eventi politici ne cambiano i connotati, inaugurando una fase storica strutturalmente diversa.

Percorsi sovranazionali

Le parole di Enrico Castelnuovo – «Lo spazio artistico è un oggetto sfuggente, senza spartiacque fissi né confini linguistici, uno spazio non sovrapponibile a quello fisico, politico, linguistico e che può variare secondo il punto di vista da cui viene considerato» – suonano ancora perfettamente attuali. È uno spazio percorso da tragitti di mode e di commerci, del tutto trasversali e – detto con un termine certo anacronistico – sovranazionali:

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mostre arte lombarda l’ouvraige de Lombardie, la definizione in certa misura anche misteriosa che affiora negli inventari del duca di Berry – a indicare, verosimilmente, la miniatura lombarda culminante nell’opera di Giovannino de’ Grassi e Michelino da Besozzo –, era la sigla di un conseguimento di stile e di gusto vincente (un «Made in Italy» ante litteram) ignaro di frontiere politiche e diplomatiche o, se mai, agevolato da esse, oggetto di esportazione e imitazione, radice, alla fine, di sviluppi giganteschi, come quelli dei Limbourg o dei pittori fiamminghi.

Storie di committenza

Inoltre, sarebbe impossibile, oggi, parlare di Lombardia senza aprire le frontiere della storia dell’arte verso i campi limitrofi, che ne mostrano, fra l’altro, anche la crucialità, in quanto sistema complesso di comunicazione, strumento retorico, apparato di potere. La scelta degli oggetti che abbiamo schierato in Palazzo Reale narra lo svolgersi di una straordinaria storia di committenza, quella viscontea e poi sforzesca, il cui ruolo cruciale abbiamo voluto segnalare fin dall’apertura nel percorso espositivo, che – contraddicendo la disposizione cronologica sulla quale è imperniato tutto il resto della mostra – è aperto dalla serie di medaglioni tardo-quattrocenteschi con i ritratti dei Visconti e degli Sforza. Per di piú la mostra, e naturalmente il catalogo, sono

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strutturati in sezioni (inesistenti nel 1958, dove tutto il percorso fluiva ininterrotto dall’inizio alla fine scandito dalla suddivisione per artisti), in larga parte ancorate alla successione dei personaggi al potere, da Azzone a Ludovico il Moro. Per approfondire le diverse tematiche, non possiamo che rinviare ai saggi e alle schede del catalogo; ma vogliamo sottolineare come il ritmo delle sezioni abbia voluto segnalare altrettante soglie degli sviluppi artistici lombardi: l’avvio in rottura con Azzone, che apre le frontiere a Giovanni di Balduccio e Giotto e cambia cosí la geografia artistica del Trecento italiano, e subito il costituirsi, graduale e anche bizzarro, dell’arte di corte con Galeazzo e Bernabò; l’affermarsi, alla chiusura del Trecento, dell’ambiziosissimo progetto di Gian Galeazzo, francofilo per gusto e per scelte diplomatiche, affiancato in Milano dal turbolento, internazionale, ma anche protezionista, talvolta arroccato, cantiere del Duomo. Poi, quasi tutta la prima metà del Quattrocento vede come protagonista il lungo regno di Filippo Maria, che si confonde in parte con molti tratti di quello di Francesco Sforza e anche di Galeazzo Maria nell’insistenza degli ori e del lusso tardo (tardissimo) gotico: una cifra stilistica cosí forte da spiegare perché le due rispettive sezioni della mostra, la terza e la quarta, si sovrappongano in parte nella cronologia, indicando però le strade diverse che a un certo punto Francesco Sforza favorisce,

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dando spazio – ancora una volta – agli artisti forestieri e al linguaggio rinnovato dei Toscani e dei Ferraresi. La conclusione, nella quinta sezione dedicata a Ludovico il Moro, conduce il visitatore oltre la soglia che era stata della mostra del 1958, attraverso le presenze di Bramante e di Leonardo e fino a osservare il rivolgimento del linguaggio artistico milanese e lombardo anche al di là del Maestro della Pala Sforzesca che chiudeva la mostra di Longhi e di Dell’Acqua. L’affiancamento, in Palazzo Reale, di Arte lombarda alla mostra monografica su Leonardo, risulta a questo punto una felicissima e opportuna integrazione in un panorama storico comune (vedi box alle pp. 82-83).

«Stranieri» a Milano

La corte, insomma, è la protagonista forte, anche se non l’unica, della storia che la mostra racconta: la corte lombarda quale nucleo politico al cuore dell’Europa. Nelle dinamiche che si mettono in campo internamente e attorno a essa, si forgia l’immagine del principe e lo stile assume valore di elemento identitario, diventando fattore di gareggiamenti sociali e mondani; l’arte lombarda compie un percorso unico e riconoscibile, aperto e chiuso, per cosí dire, dagli «stranieri»: Giotto al principio, Bramante e Leonardo alla fine. È nell’apertura, anzi nella pionieristica ricerca di orizzonti ben oltre quelli locali che l’esperimento visconteo e sforzesco appare straordinariamente moderno e avanzato, contrastando il dato protezionistico e introverso, pur esistente, con l’apertura alle proposte, alle ricerche, agli status symbol forestieri. Il sistema dell’«importazione» implica immediatamente scalini e mutamenti anche bruschi di gusto e di linguaggio, e dunque dislivelli, sacche di resistenza. Abbiamo quindi cercato di rappresentare anche livelli diversi della produzione, da quella limitrofa dei fiancheggiatori di regime, a quella religiosa non sempre coincidente Nella pagina accanto Maestro Paroto, polittico realizzato per la pieve di S. Siro a Cemmo, in Valle Camonica, raffigurante la Madonna con il Bambino, il committente e otto Santi. Tempera su tavola. 1447 circa. Brescia, Fondazione CAB, Istituto di cultura «G. Folonari». A destra Bonino da Campione, Prudenza. Marmo. 1357 circa. Washington, National Gallery of Art.

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Dove e quando «Arte lombarda dai Visconti agli Sforza. Milano al centro dell’Europa» Milano, Palazzo Reale fino al 28 giugno Orario lu, 14,30-19,30; ma-me-ve-do, 9,30-19,30; gio, sa, 9,30-22,30 Info tel. 02 92800375 (attivo lu-sa, 8,00-18,30); www.comune.milano.it/palazzoreale Catalogo Skira con l’arte di corte, via via sempre piú allargata, fino a rappresentare la produzione in luoghi e per fasce sociali meno elitari. La trasmissione dei modelli di stile e di iconografia si accompagna a una piú dettagliata e modulata indagine sulle tecniche: da cui, per esempio, l’attenzione portata alla scultura lignea e all’arredo, per quanto possibile rappresentati in mostra con pezzi assolutamente eccezionali. Il ritratto non è certo esaustivo, ma il numero di oggetti in mostra, che quasi tocca le 300 unità, dice della volontà di offrire un numero almeno sufficiente di sfumature e casistiche, e parla della ricchezza certamente ancora inesausta del patrimonio artistico lombardo.

Un patrimonio da scoprire

Arte lombarda dai Visconti agli Sforza si apre alla vigilia di EXPO 2015 e ne riceverà i visitatori sino alla fine di giugno, offrendo loro, oltre che al pubblico milanese, lombardo e italiano, uno spaccato della cultura visiva di quella che gli storiografi definivano come l’età dell’oro lombarda, dopo la frammentarietà comunale e prima dell’invasione straniera. L’integrazione con quanto è conservato nei musei e nelle chiese di Milano e di tutta la Lombardia sarà indispensabile, da parte di un pubblico di destinazione estremamente variegato e necessariamente attivo nel rendere complementare il patrimonio culturale permanente e quello pur sempre transitorio, radunato per qualche mese nelle sale di Palazzo Reale. La mostra, prodotta dal Palazzo Reale di Milano e da Skira, commissari Mauro Natale e Serena Romano, si è avvalsa di un cospicuo numero di studiosi e amici, che hanno collaborato al progetto, dirigendone le sezioni: Laura Cavazzini, Marco Rossi, Emanuela Daffra, Francesca Tasso, Marco Albertario, Federico Cavalieri, Vito Zani, Stefania Buganza, Frédéric Elsig, Pier Luigi Mulas. Moltissimi sono stati, inoltre, gli autori delle schede del catalogo, numerosissime, piú di 250. F

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di Domenico Sebastiani

Galaad, Bors e Perceval (Parsifal) inginocchiati in preghiera davanti al Graal, illustrazione tratta da un’edizione manoscritta de La Quête du Saint Graal (romanzo composto agli inizi del XIII sec.). 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

La vera storia del Sacro

Graal

Il calice per il quale si batterono i valorosi cavalieri della Tavola Rotonda sarebbe stato usato da Gesú nell’Ultima Cena. Per altri, invece, era la coppa in cui Giuseppe d’Arimatea aveva raccolto il sangue del Salvatore crocifisso... E come valutare, infine, chi, per l’«invisibile» reliquia, invoca, a torto o a ragione, tradizioni ancora piú antiche, risalenti, addirittura, all’età dei Celti?


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rancesco Zambon, grande studioso della materia graalica, ha recentemente affermato che, senza dover accogliere la tesi secondo cui il Graal risultava essere una metafora del Santo Sepolcro e i suoi romanzi una trasposizione fantastica delle vicende delle crociate, non si può negare lo stretto legame tra l’ideazione di questo grande ciclo romanzesco e la profonda attrazione esercitata in Occidente – soprattutto a partire dalla prima crociata – dalle reliquie della Passione di Cristo. Nel pensiero cristiano, infatti, il Graal venne a identificarsi con il calice dell’Ultima Cena, contenente il sangue di Gesú. Ciò sembrerebbe confermato dalla sincronia esistente tra lo sviluppo del ciclo del Graal e le tre crociate intraprese a partire dal 1188, nonché dagli stessi committenti dei vari romanzi, i quali, nella gran parte dei casi, erano militanti della fede. Basti pensare che Filippo d’Alsazia, conte di Fiandra e destinatario del Conte du Graal di Chrétien de Troyes, condusse una crociata contro gli Albigesi e poi partí per la Terra Santa nel 1190 ove morí. Ma non fu sempre cosí: per comprendere appieno il significato dei primi romanzi del Graal, Zambon insiste sul fatto che occorre inquadrarli all’interno della cornice narrativa in cui essi appaiono, ossia la «materia bretone» e le avventure che ruotano attorno alla corte di re Artú. Una materia che affonda le proprie radici nella mitologia celtica. Il Graal appare sulla scena letteraria con il Perceval di Chrétien de Troyes (scritto tra il 1182 e il 1183),

Miniatura raffigurante Giuseppe d’Arimatea che raccoglie il sangue di Gesú Cristo, da un’edizione manoscritta de La Quête du Saint Graal. Inizi del XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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romanzo rimasto incompiuto e noto anche come Le Conte du Graal. In esso si narrano le avventure di un rozzo e sciocco giovane gallese, l’omonimo protagonista del racconto, il quale viene allevato nella foresta dalla madre senza essere educato alle regole cavalleresche e ignorando perfino il suo nome, fino a quando, un giorno, vede passare alcuni cavalieri, rimane affascinato dalle armature scintillanti e decide di recarsi alla corte di re Artú per divenire anch’egli cavaliere.

Una luce sfolgorante

Dopo aver ricevuto alcuni precetti da un gentiluomo, Perceval si congeda da Artú e parte per alcune avventure. Un giorno arriva al Castello del Re Pescatore, ove viene accolto e partecipa a un lauto banchetto. Il sovrano è afflitto da una ferita inguaribile, che provoca desolazione a tutto il regno, e davanti a Perceval passano vari oggetti fantastici, tra cui una lancia sanguinante e «un graal», portato da una fanciulla, dal quale emana una luce sfolgorante. Ricordando un precetto cavalleresco, il giovane gallese non chiede cosa sia il Graal e a che cosa sia destinato, e la mancata domanda impedisce la guarigione del Re Pescatore e il rifiorire del regno. Il giorno dopo Perceval si sveglia e trova il castello vuoto, poi incontra una damigella che lo rimprovera per non aver posto la domanda salvifica. Per tutto il resto del racconto, il protagonista cercherà di rimediare alla sua mancanza. Solo in seguito uno zio eremita spiegherà a Perceval che il Graal conteneva una sola ostia che da quindici anni era l’unico nutrimento del padre del re infermo. Nel testo, Chrétien non parla «del Graal», ma di «un graal», in modo generico, dando a intendere che il termine fosse a lui noto come semplice nome comune. Infatti, sebbene vi siano ancora dispute etimologiche in proposito, il vocabolo largamente attestato, dal Medioevo in poi, in una vasta zona geografica

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Dossier Nella pagina accanto miniatura raffigurante la processione del Sacro Graal, da un’edizione della Prima continuazione del Conte du Graal. 1330 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso Galaad, Bors e Perceval si accingono a imbarcare il Graal, da un’edizione del Roman du Chevalier Tristan et de la reine Yseult. XV sec. Chantilly, Musée Condé.

che va dalla Spagna alla Francia settentrionale, designava recipienti di solito usati a scopi alimentari, come piatti, scodelle o secchi. In definitiva, cosí come nel Lancelot aveva fatto della «carretta» il centro della storia, Chrétien potrebbe essersi ripetuto anche in questo caso e il suo romanzo andrebbe inteso quindi come «il racconto del piatto». Riannodando i fili del discorso, Zambon, ha sottolineato che la vicenda e l’ambientazione del Perceval hanno un contenuto cristia-

no appena accennato: si dice infatti che il Graal è una cosa «molto santa» e che contiene un’ostia, e null’altro. La cristianizzazione in senso proprio del Graal e la sua definizione come «veissel», ossia come il calice in cui Gesú celebrò il sacramento dell’Ultima Cena e ove fu poi raccolto il suo sangue dopo la crocifissione, si ebbe solo piú tardi, con il Joseph d’Arimathie o Roman de L’Estoire dou Graal del piccardo Robert de Boron, scritto alla fine del XII secolo, seguito poi dal Merlin e dal Perceval per costituire la cosiddetta Trilogia di Robert de Boron.

L’influenza celtica

Lo stesso Zambon ha sottolineato come l’intero episodio della visita di Perceval al castello del re Pescatore, sembri richiamare alcuni racconti irlandesi noti con il nome di echtra («avventura»), in particolare l’Esta-

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Un’etimologia discussa si profetica del fantasma (anteriore al 1056). Appaiono evidenti le analogie tra i due componimenti, come la presenza di una dimora oltremondana sotto forma di castello, un sovrano che la presiede, una ragazza che porta una coppa simbolo di regalità per consegnarla al designato, il motivo della domanda. Il racconto di Chrétien sembra quindi inquadrarsi in una cornice dalle caratteristiche ben consolidate. Del resto, è ormai assodato dalla gran parte degli studiosi che, sotto un profilo storico-filologico, i romanzi graalici – soprattutto quelli del primo periodo –, benché sicuramente di impostazione cristiana, possiedano un substrato celtico di base. Le dispute nascono nel momento in cui si discute se questi motivi pagani siano stati adottati coscientemente dagli autori o siano elementi, ormai folklorizzati, tra-

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Ma perché si chiama Graal? Non del tutto risolta è la questione sull’origine del termine graal. Nel romanzo di Chrétien de Troyes, lo zio eremita spiega a Perceval che quel graal non contiene «lucci, lamprede o salmoni», come si sarebbe potuto immaginare, ma solo un’ostia che dà nutrimento al padre del Re Pescatore. Da ciò si potrebbe dedurre che normalmente un graal dovesse contenere grandi pesci, come quelli indicati nel testo. E Hélinand, monaco di Froidmont di poco posteriore a Chrétien, scrive che «per Gradalis o Gradale si intende in francese una scodella (o coppa o piatto) larga e un poco profonda, in cui abitualmente si presentano ai ricchi cibi raffinati con la loro salsa, disposti in successione, un boccone di seguito all’altro; il suo nome in volgare è graalz, perché è caro e gradito a chi vi mangia, sia per il contenitore, fatto di argento o di altro metallo prezioso, sia per il contenuto, cioè la varietà di cibi prelibati». In effetti, nella zona di Troyes, la parola da tempo designava un piatto o una scodella, ma il termine era (ed è) presente in una vasta area, che va dalla Catalogna alla Francia. Cosí nell’Est e nel Settentrione francesi abbiamo forme come griau, gruau, gruiau, greal, grô, grôlot, grau, mentre nel Sud abbiamo gardale, gresal, grasal, gral, grial. Oggi si tende a far derivare il termine da cratis, «graticcio», con un suffisso – alis, o dal greco kratêr, «coppa», incrociato con [vas] garale, «recipiente per la salsa dei pesci», ma le ipotesi non sono unanimi.

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Dossier Calderoni con proprietà magiche ricorrono negli antichi racconti gallesi e irlandesi, spesso coniugati ai banchetti dell’Oltretomba: essi hanno funzioni di abbondanza e al contempo di rinascita e resurrezione. Le due proprietà, infatti, si intersecano e si sovrappongono, tanto che non è sempre agevole poter fare una classificazione precisa. Ciascun bruidhen, ostello dell’oltretomba irlandese, aveva il suo inesauribile calderone dell’abbondanza e della rigenerazione, attributo di ogni dio tribale.

Miniatura raffigurante i cavalieri eletti e il Graal, da un’edizione della Queste del Saint-Graal (La Quête du Saint Graal) illustrata da Pierart dou Tielt. 1351. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

tamento tra il Graal, inteso come calice, vaso o contenitore che dir si voglia, e i magici calderoni della tradizione gallese-irlandese. Al fine di poter cogliere le similitudini morfologiche tra questi oggetti, è perciò opportuno passare brevemente in rassegna i paioli attestati nella mitologia e nella letteratura celtiche.

mandati e riemersi sotto un profilo letterario. In ogni caso, come osserva la storica Marina Montesano, nessuno studioso serio – pur seguace della pista celtica – ritiene che il Graal sia un revival pagano, ossia un «sistema mito-cultuale precristiano travestito da credenza o da leggenda eucaristica cristiana». Queste veloci notazioni evidenziano il possibile imparen-

A banchetto con Goibniu

I racconti ci parlano di festini e di calderoni in cui gli animali, soprattutto maiali, venivano uccisi per poi rinascere ed essere di nuovo mangiati. In uno di questi ostelli oltremondani il dio fabbro Goibniu teneva il suo banchetto, il Fledh Ghoibhnenn: chi mangiava e beveva alla sua tavola non poteva invecchiare o morire. Attributi simili possedeva Mac Da Thó, re del Leinster, ma in realtà sovrano oltremondano e signore del banchetto dell’aldilà. La divinità celtica piú strettamente connessa ai calderoni di abbondanza e rinascita è l’irlandese Daghda, dio padre e capo dei Túatha Dé Danann. I suoi attributi erano un’enorme clava e un altrettanto enorme paiolo: la prima aveva un’estremità che uccideva i vivi, l’altra che faceva rivivere

Il calderone di Gundestrup Sin dalla tarda età del Bronzo, nell’Europa pre-celtica, si usavano catini in metallo nell’ambito di riti connessi a festini e banchetti, forse per riscaldare bevande o cuocere la carne. Nella successiva età del Ferro, i calderoni sono collegati ritualmente all’acqua. Di notevoli dimensioni, essi venivano infatti deposti deliberatamente in laghi e paludi. Ne abbiamo esempi in territorio ceco, nell’antica Britannia, nonché in Danimarca. E, dal Paese scandinavo, proviene il piú famoso dei calderoni celtici, quello di Gundestrup (vedi foto), oggi conservato nel Museo Nazionale di Copenaghen.

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È composto al 96% di argento puro ed era originariamente dorato; alto circa 36 cm, ha un diametro di 65 e una capienza di 130 l circa. Consta di una placca di base, nonché di cinque placche interne e sette esterne, con scene mitologiche. Il calderone fu forgiato probabilmente tra il II e il I secolo a.C., in Romania o in Tracia, da artigiani che usarono simboli e immagini talvolta diversi da quelli tipici dell’Europa occidentale. Tuttavia, gli stilemi sono in larga parte celtici, cosí come la raffigurazione delle armi e le immagini cultuali appartengono alla cultura celtica o romano-celtica. aprile

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i morti, il secondo era invece fonte inesauribile di cibo. Un altro calderone magico compare nel racconto gallese di Culhwch e Olwen: Ysbaddaden, padre di Olwen, impone al giovane Culhwch, per poter sposare sua figlia, il superamento di una serie di prove. Tra esse, riportare la coppa di Lywr che contiene i liquori piú preziosi, il corno di Gwlgawt Gododdin per versare da bere, il paniere di Gwyddneu, in cui ciascuno trova il cibo che piú preferisce, nonché il paiolo magico di Diwrnach il Gaelo, che cuoce in un attimo la carne per i guerrieri valorosi e si rifiuta di farlo per i codardi.

Dispensatori di sapienza

Oltre ai calderoni di abbondanza, si segnalano alcuni esempi di recipienti che donano sapienza: valga per tutti il racconto gallese La Caldaia di Ceridwen, in cui l’omonima dea vuole preparare l’elisir della conoscenza per il figlio nato bruttissimo, e a questo scopo utilizza una magica caldaia. Per sbaglio, però, tre gocce del liquido che bolliva nella pentola cadono, scottando un dito del giovane servo Gwion, il quale, portandolo istintivamente alla bocca, acquisisce immediatamente la conoscenza al posto del predestinato. La dea Ceridwen, per vendicarsi, rincorre Gwion, che cerca di salvarsi tramite varie metamorfosi; alla fine la dea mangia il giovane trasformato in chicco d’orzo. Dopo nove mesi Ceridwen darà alla luce un bimbo bellissimo, ossia Taliesin, il futuro bardo di Britannia. La proprietà forse piú interessante dei calderoni celtici è quella che li caratterizza come soglia tra la vita e la morte. Si ha a che fare in tal caso con il cosiddetto «Calderone della Rinascita» – Peir Dadeni in lingua locale – che si trova soprattutto nella letteratura gallese, anche se i recipienti di cui si parla sono spesso di origine irlandese. L’esempio pa-

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Bronzetto raffigurante Sucellus, da Orpierre (Provenza, Francia). Saint-Germain-en-Laye, Musée d’Archéologie nationale. Divinità romano-celtica, Sucellus aveva per attributi una clava e una pentola, strumenti di morte e resurrezione, e ne è stata ravvisata l’affinità con il Daghda della tradizione irlandese.

radigmatico ci viene dalla storia di Branwen, figlia di Llyr, contenuta nel Secondo Ramo del Mabinogi, la cui vicenda, in sintesi, è la seguente. Il popolo della Britannia (ossia del Galles settentrionale), capeggiato da Bendigeidfran (Brân il Benedetto), e gli Irlandesi, sotto il regno di Matholwch, decidono di suggellare con un matrimonio un’alleanza

politica: Branwen, sorella di Brân, viene offerta come sposa al re irlandese. La notizia del fidanzamento manda su tutte le furie il fratellastro Evnissyen, che mutila i cavalli del re irlandese. Per evitare che la situazione precipiti, Brân si offre di riparare il torto, donando a Matholwch vari oggetti, tra cui il prezioso e magico Calderone della Rinascita. Come spiega lo stesso Brân, il paiolo ha questa virtú: «Se oggi ti viene ucciso un uomo, non hai che da gettarvelo dentro, e domani egli starà meglio di prima, salvo che non potrà piú parlare». Accettata la proposta di Brân, il re irlandese sposa la giovane gallese e torna in patria. A distanza di tempo, però, i parenti di Matholwch convinco-

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no il re che l’offesa subita all’epoca non è stata riparata e lo inducono a vendicarsi, umiliando la sposa Branwen, che viene collocata come sguattera in cucina e deve anche subire maltrattamenti fisici. Giunta la notizia in Galles, scoppia una guerra sanguinosa tra il regno di Britannia e quello d’Irlanda, du-

rante la quale gli Irlandesi mettono in azione il pentolone magico per far rivivere i guerrieri uccisi, fino a quando Evnissyen riesce a spaccare il calderone. Alla fine lo scontro ha effetti devastanti da entrambe le parti. Brân il Benedetto viene ferito a un piede da una lancia avvelenata, e ordina ai sette compagni superstiti

di mozzargli la testa, che continuerà a condurli e proteggerli durante il viaggio di ritorno per poi essere seppellita a Londra sulla Bianca Collina, dopo una sosta della compagnia di oltre ottant’anni in un tipico banchetto oltremondano. Oltre a essere strumenti di abbondanza e rinascita, i paioli celtici erano legati anche a culti sacrificali e all’idea della morte: secondo la testimonianza di Strabone, tra i Cimbri, popolazione germano-celtica, vi erano sacerdotesse che, gladio in mano, conducevano i prigionieri di guerra – incoronati di fiori – presso un grande bacile di rame, indi li sgozzavano. Nello stesso Perlesvaus, il protagonista del racconto si vendica dei suoi nemici riempiendo un paiolo con il loro sangue, poi vi immerge il loro capo con la testa, in modo tale che muoia soffocato.

Fonte di nutrimento

In alto uno dei calici identificati dalla tradizione con il Sacro Graal. Conservato nella Cattedrale di Valencia, consiste in una coppa in agata posta su un supporto medievale, con la base formata da una coppa rovesciata in calcedonio. Nella pagina accanto John William Waterhouse, Studio per il Cerchio Magico. Olio su tela, 1886. Collezione privata.

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Caratteristiche simili a quelle dei paioli celtici si riscontrano nel Graal. Anch’esso ha proprietà «alimentari», ed è strumento di guarigione, dispensatore di vita e di morte. La funzione «nutritiva» del Graal in Chrétien de Troyes è solo accennata: come abbiamo visto, in tal caso esso contiene un’ostia che vale come unico nutrimento del padre del Re Pescatore. L’idea del Graal come dispensatore di cibi, in senso quasi magico, è invece enfatizzata nei romanzi successivi – ormai pienamente eucaristici –, che però sembrano recuperare motivi celtici arcaici. Per esempio, nella Prima continuazione del Conte du Graal, il Graal compie un miracolo quando Gawain arriva al castello e nutre tutti i presenti, dispensando pane e vino: «Poi, attraverso una porta, vide entrare il Graal, che rapidamente fece apparire il pane e lo collocò davanti ai vari cavalieri. Infine versò il vino in grandi coppe di oro fino, come farebbe un maggiordomo, e le pose sulle tavole davanti ai nobili signori e al loro seguito». Anche

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Dossier nel Lancelot-Graal, l’apparizione del Graal è associata al miracolo di dispensare nutrimento puramente materiale, dal quale sono esclusi, coloro che non si dimostrano degni. Infatti tutti vengono nutriti «con i cibi piú prelibati che si possano descrivere, mentre il palazzo olezzava di aromi deliziosi come se si fossero sprigionate tutte le essenze esistenti al mondo»; tutti tranne Gawain, il quale, incapace di resistere alla tentazione della lussuria, è distratto dalla visione di una bella fanciulla e pensa soltanto a lei, dimenticandosi di venerare il sacro vaso. Il piú delle volte la funzione di nutrimento fisico del Graal si accompagna a quella spirituale: nella Seconda Continuazione, Gawain afferma che la vista del catino gli fu di grande conforto. E, nella Quête, il Graal appare alla corte di Artú il giorno di Pentecoste e nutre tutti i commensali, che sembrano illuminati dalla grazia dello Spirito Santo: la sala risulta colma di fragranza, «come se fossero state sparse tutte le spezie del mondo» e man mano che passa vicino alle tavole, ogni convitato trova davanti a sé i cibi che desidera.

Strumento di guarigione

Passando alle proprietà taumaturgiche, nel Lancelot del Lancelot-Graal, il calice appare ben tre volte come strumento di guarigione. Nel primo caso Gawain, ferito e malconcio dopo essere stato colpito durante una lotta da un cavaliere, vede arrivare il Graal, annunciato da profumi soavi e canti melodiosi; quando il canto ha fine e il Graal viene portato via, egli si sente nuovamente sano e forte come se non avesse mai avuto dolori e ferite. Nel secondo caso, Perceval ed Ector, fratello di Lancillotto, si scontrano in un cruento duello, senza riconoscersi. Ormai in fin di vita e senza essere neppure capaci di raggiungere l’eremo vicino per l’estrema unzione, vedono all’improv-

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L’apparizione del Sacro Graal ai cavalieri della Tavola Rotonda in una miniatura da un’edizione del Lancelot du Lac compilata da Michel Gonnot. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

viso un grande fulgore, e un vaso a forma di calice coperto da sciamito bianco. Pregando e in segno di reverenza si inchinano nonostante il profondo dolore: «Improvvisamente accadde qualcosa di meraviglioso, tanto che entrambi si sentirono sani e forti, guariti dalle ferite». Il terzo episodio vede protagonista Lancillotto, che viene colpito da improvvisa follia: in questo caso il cavaliere viene portato dal re Pelles nel Palazzo delle Avventure, con la convinzione che sarebbe stato guarito dalla potenza del Santo Graal e avrebbe riacquistato il senno. Cosa che puntualmente si realizza. Anche in altri episodi, disseminati tra i vari romanzi, il Graal dimostra poteri taumaturgici come quando, nella Quête, un cavaliere che si trova ferito in una cappella viene guarito dalle ferite, mentre Lancillotto, che assiste alla scena, è incapace di muoversi. Cosí come nelle leggende celtiche i calderoni possedevano poteri di morte, il Graal è anche, cristianamente, strumento di morte e resurrezione allo stesso tempo. Ciò si verifica soprattutto nei confronti di coloro che cercano di svelarne il contenuto: ne La Queste del Saint Graal, Lancelot cade in uno stato di incoscienza per ventiquattro giorni, dopo aver assistito alla liturgia del Graal. Lo stesso Galaad, che è l’eroe puro per eccellenza e il predestinato alla visione finale del contenuto della coppa, non può sopravvivere a essa: comincia a tremare violentemente per tutto il corpo, prega e ringrazia il Signore per aver esaudito il suo desiderio,

indi si inginocchia e stramazza al suolo perché l’anima sta lasciando il suo corpo.

Un archetipo universale

Se le influenze celtiche, soprattutto in relazione ai primi romanzi graalici, sembrano inoppugnabili, occorre segnalare anche la presenza di opinioni diverse. I detrattori della pista aprile

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celtica adducono, oltre alla vaghezza delle argomentazioni, che sarebbe sbagliato cercare di individuare esclusivamente nel mondo galleseirlandese, motivi che, invece, sembrerebbero avere una dimensione universale. Per esempio, alla metà del IX secolo, il vescovo Audrado di Sens compose un poemetto, il De fonte vitae, nel quale si parla di un

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viaggio nel luogo piú bello del mondo, dove scaturisce la Sorgente della Vita alla quale si può attingere solo possedendo un vaso speciale. In questa immagine simbolica, tipicamente cristiana, già compariva il simbolo di una coppa; del resto, Audrado si rifaceva a fonti bibliche e classiche, nonché a echi della tradizione greca e orientale,

anche se non è da escludersi che nel mondo altomedievale potessero riemergere immagini provenienti dal substrato celtico e germanico. Si deve sottolineare, del resto, che il calice e la coppa sono grandi archetipi, presenti in tutto il mondo euroasiatico-mediterraneo. Per cui troviamo rimandi importanti (segue a p. 101)

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Dossier tradizioni profane e cristiane

Dai trofei dei Celti alle teste «immortali» dei santi decollati Nel Peredur, racconto in prosa gallese, inserito nella raccolta nota come Mabinogion e la cui prima attestazione scritta risale all’inizio del XIII secolo, il protagonista assiste a una scena che ricorda molto da vicino quella del Perceval, ma non si parla di Graal. Al castello del Pescatore, viene portata in processione una lancia dalla cui punta colano tre rivoli di sangue, mentre due fanciulle portano in un grande vassoio la testa mozzata di un uomo. Si saprà poi che il Re Pescatore è stato ferito dalle incantatrici di Caer Loyw, dalle quali Peredur è stato iniziato all’arte guerriera, e che le stesse hanno assassinato un cugino di Peredur, la cui testa è quella che si trova nel vassoio. Il romanzo si snoda verso la vendetta finale del protagonista ai danni delle streghe. Assai dibattuta è l’effettiva datazione dell’opera: alcuni ritengono che il Peredur e il Perceval derivino da una fonte comune piú antica, scritta od orale, altri sono propensi a considerare il Peredur una rivisitazione del Perceval, in cui l’autore ha inserito elementi piú marcatamente celtici. In ogni caso il romanzo ribadisce quanto la testa umana rivestisse grande valore presso i Celti, i quali la vedevano come un potente simbolo della persona divina. Nel periodo romano-celtico, gli dèi erano molto spesso rappresentati con teste enormi, o addirittura in forma di teste senza corpo, come attestato da statue in bronzo o sculture in pietra ritrovate a Bouray (Seine-et-Oise), a Carvoran nel Northumberland e a Caerwent (Gwent). I Celti praticavano la decapitazione ed erano soliti applicarla nei confronti delle loro vittime di guerra (il possesso del capo mozzato del nemico equivaleva ad appropriarsi di tutte le forze dell’avversario di cui la testa era depositaria) delle quali appendevano le teste alle selle dei propri cavalli o le infilzavano su pali, ovvero le offrivano come trofei agli dèi nei templi o le conservavano nelle proprie dimore come beni preziosi. La decapitazione veniva praticata con un rituale particolare e forse era atta a facilitare l’entrata del defunto nell’aldilà.

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La decapitazione ricorre anche nella letteratura celtica e nella mitologia vernacolare. Nel Secondo Ramo del Mabinogi, Brân il Benedetto, ferito durante una spedizione contro gli Irlandesi, ordina ai suoi compagni di tagliargli la testa e di seppellirla nella Bianca Collina di Londra, a protezione del regno dagli invasori. Nonostante la decapitazione, la testa continua a vivere, a parlare e incoraggiare i suoi uomini, a mo’ di talismano. Nella storia irlandese di Finn, Lomna, suo giullare, viene decapitato e la sua testa, infilzata su un palo, continua a parlare. La testa dell’eroe dell’Ulster Conall Cernach era enorme e possedeva poteri magici: gli uomini dell’Ulster, colpiti da fiacchezza in seguito alla maledizione di Macha, ripresero vigore bevendo latte dalla testa di Conall. I guerrieri irlandesi conservavano le «palle di cervello», realizzate mescolando la materia cerebrale dei nemici con fango calcareo, come preziosi talismani. Conchobar, re dell’Ulster e padre adottivo di Cúchulainn, viene ucciso da una palla di cervello fatta con la testa di Meas Geaghra, re del Leinster. Anche la letteratura arturiana annovera numerosi esempi di teste mozzate o decapitate. E, per quanto concerne il Beheading Game o «gioco della decapitazione», l’esempio piú famoso si ha in Sir Gawain e il Cavaliere Verde, opera del tardo XIV secolo. Anche la tradizione norrena conosce tradizioni simili: nella Saga degli Ynglingar, Odino usa la testa del saggio Mímir per ricevere consigli. Numerosi santi risultano cefalofori, come Miniato, Dionigi, Luciano, Massiano e Giuliano e, seppur decollati, continuano a vivere e a celebrare funzioni religiose. Ma la testa decapitata ricorda anche l’episodio del Profeta Giovanni nel Nuovo Testamento, cosí come quello di David che taglia la testa a Golia. Tornando al Peredur, Marina Montesano ritiene che coppa-contenitore e testa abbiano originariamente radici semantiche comuni: «Si tratta di nessi estremamente arcaici, che tuttavia permangono immutati nelle lingue europee. Nel Peredur, allora, possiamo dire che il Graal non contiene la testa, ma è la testa». aprile

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In alto miniatura raffigurante il Beheading Game, dall’edizione originale del poema Sir Gawain e il Cavaliere Verde. Tardo XIV sec. Londra, British Library. Nella pagina accanto testa in pietra di produzione celtica, dall’Inghilterra sud-occidentale. Dorchester, Dorset County Museum.

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In alto miniatura raffigurante Parsifal ed Ettore de Maris guariti dal Graal, da un’edizione della Terza continuazione del Conte du Graal. 1330 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra mentre Lancillotto dorme, un cavaliere prega presso la cappella del Graal, da un’edizione della Queste del Saint-Graal (La Quête du Saint Graal). 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

nella Bibbia, in cui si parla di coppa della salvezza, di benedizione o di castigo, di calice del dolore o di coppe traboccanti simbolo di gioia e abbondanza, ma lo stesso oggetto assume rilievo nella tradizione vedica o brahmanistico-induista; nella cultura islamo-persiana troviamo il re Gemshid che possiede una coppa nella quale si può vedere tutto l’universo. Non dobbiamo dimenticare,

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a tal fine, che il Parzival di Wolfram von Eschenbach – ove il Graal assume curiosamente la forma di una pietra preziosa – è unanimemente ritenuto un romanzo dalle forti influenze indo-iraniche.

Veicolo di regalità

Senza soffermarci sul mondo greco antico, torniamo a dare uno sguardo alla tradizione germanica, ove la coppa possiede un evidente significato di trasmissione della regalità, come testimoniato dall’episodio in cui la regina Teodolinda offre il calice ad Agilulfo, che lei stessa ha scelto per succedere al defunto marito Autari (590 d.C.); una circostanza che denota forti somiglianze con il sistema mitico-simbolico celtico, in cui la regalità e l’abbondanza si sovrappongono nella figura della coppa-bacile, di solito offerta all’eroe vittorioso. Nella stessa tradizione norrena il bacile e i suoi equivalenti – coppa, calderone o tinozza – hanno un valore sacrale. Il bacile è il

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Dossier Il Graal e il Sampo

La prodigiosa opera del fabbro Ilmarinen Il Kalevala, poema finnico ritrascritto da Elias Lönnrot (1802-1884), offre un interessante parallelo folklorico. Vi si narra che un giorno il grande mago Väinämöinen trasportò il fabbro Ilmarinen nella terra del Nord, per fargli forgiare il Sampo. Dopo aver trascorso tre giorni e tre notti nella fornace di Pohja, Ilmarinen fabbricò prima un arco d’oro e d’argento, poi una barca rossa, un vitello e infine un aratro. Il saggio però non rimase soddisfatto, per cui il fabbro rigettò nel braciere il frutto del suo lavoro. Poi si rimise all’opera e finalmente il Sampo cominciò a contenitore di liquidi sacri, in esso si fa fermentare la birra, bevanda destinata agli dèi e da sottrarre al possesso dei giganti: di questo parla l’episodio di Thor e Týr, i quali si recano presso il gigante Hymir per impadronirsi della preziosa caldaia che servirà per preparare la birra per gli dèi, e distruggono la coppa magica del gigante. Il bacile è inoltre dispensatore di saggezza e nutrimento: chi beve l’idromele in esso contenuto acquista il dono della sapienza e della poesia, cosí come si narra che nella Valhalla si trovi il magico calderone Eldhrímnir nel quale il cuoco Andhrímnir cucina il cibo dell’immortalità per i guerrieri di Odino. Siamo insomma al cospetto di un oggetto, la coppa, che sembra essere archetipo di abbondanza, salvezza e regalità nelle varie culture indoeuropee. D’altra parte autori come Joël Grisward hanno cercato di interpretare il mito del Graal alla luce della teoria trifunzionalista di Georges Dumézil e di intravedere nei tre oggetti base del corteo del Graal altrettanti talismani delle tre

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prendere forma: «Con grande arte fece il Sampo: // un mulino, la farina, // ed un altro sal versava, // e denaro un terzo dava». Nell’ottica del Kalevala, poema che incarna la mentalità di una società contadina, il Sampo rappresenta la fonte di benessere, ricchezza e abbondanza di beni materiali, come appunto la farina, il sale e il denaro. Alcuni autori hanno voluto trovare analogie tra il Sampo e il Graal: questo anche perché, all’interno del Kalevala, il ciclo che lo riguarda racconta la guerra tra gli uomini del Sud – ossia lo sciamano Väinämöinen, il fabbro Ilmarinen e il

cavaliere Lemminkäinen – e il popolo del Nord, governato dalla strega Pohjola, la quale detiene il magico oggetto avendolo sottratto a coloro che lo hanno creato dalla materia magmatica grazie all’arte, alla scienza e al canto magico. Cosí come nei romanzi graalici, anche qui siamo di fronte una cerca, cioè a un viaggio dei tre eroi nel paese della strega, e nella stessa triade formata da Väinämöinen, Ilmarinen e Lemminkäinen (che in fondo incarnano le tre funzioni indoeuropee di Dumézil) possono intravedersi similitudini con il personaggio di Perceval.

In alto tavola raffigurante Aegir che, insieme alla moglie Ran e alle loro nove figlie, prepara la birra in grandi calderoni. Nella pagina accanto Akseli Gallén-Kallela, Fucina di Sampo, ispirato a un episodio del Kalevala. Olio su tela, 1893. Helsinki, Ateneumin Taidemuseo. aprile

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Dossier il graal nella letteratura: una cronologia

Un’opera di grande successo, fra «continuazioni» e varianti Non è sempre agevole districarsi tra i numerosi romanzi del Graal. Di seguito si riportano le opere fondamentali. In alcuni casi, peraltro, permangono incertezze sulla paternità e datazione dei singoli scritti. Perceval ou le Conte du Graal, composto tra il 1182 e il 1183 dal poeta della Champagne Chrétien de Troyes e lasciato incompiuto. In quest’opera compare per la prima volta il Graal, dai contorni abbastanza vaghi, anche se può ricondursi a un piatto o contenitore. Quattro continuazioni del romanzo di Chrétien, ossia: 1) Prima continuazione (1200 circa), attribuita a Wauchier de Denain e nota anche come Continuazione Galvano, in quanto il nipote di Artú ha un ruolo preminente; in questo romanzo il Graal dispensa automaticamente cibo e non è recato in processione, ma si muove sospeso a mezz’aria; 2) Seconda continuazione (1200 circa), anonima e nota anche come Continuazione Perceval. Qui Perceval arriva al castello del Graal, dove vede sfilare la processione, e si legge che il recipiente contiene il sangue di Cristo; 3) Terza continuazione (1210-1220 circa), attribuita a Manessier; in questo caso la processione comprende una lancia, un piccolo vassoio e il Graal, che, invece di contenere sangue, torna a essere un recipiente che dispensa cibo; Perceval succede allo zio Re Pescatore e, quando muore, Graal, lancia e vassoio ascendono al cielo;

4) Quarta continuazione (1230 circa), attribuita a Gerbert de Montreuil. Peredur (1200 circa), opera anonima in prosa gallese facente parte di una raccolta di undici racconti (tramandati in due codici gallesi, il Libro Bianco di Rhydderch e il Libro Rosso di Hergest) denominata Mabinogion. In questo racconto, intriso di elementi celtici, il Graal si trasforma in un vassoio che contiene la testa mozzata di un uomo, il cugino dello stesso Peredur. Le Roman de l’Estoire dou Graal o Joseph d’Arimathie (1200 circa), romanzo in versi del piccardo Robert de Boron. Nel romanzo si afferma per la prima volta che il Graal è il calice in cui Gesú celebrò il sacramento dell’Ultima Cena e in cui Giuseppe di Arimatea raccolse il sangue stillato dalle ferite di Gesú crocifisso. Il Sacro Graal, in questo modo, diventa in maniera esplicita una reliquia cristiana. Didot Perceval (inizio del XIII secolo), romanzo in prosa francese che prende il nome dal libraio parigino che fu proprietario del manoscritto. È parte di una trilogia che dovrebbe essere la versione in prosa delle opere in versi di Robert de Boron, delle quali sono pervenute solo l’Estoire e pochi versi del Merlin. Parzival (1205-1216 circa), del poeta tedesco Wolfram von Eschenbach. In quest’opera il Graal viene descritto come una pietra preziosa dotata di facoltà vivificatrici e della capacità di elargire cibo, ed è custodito da un ordine di cavalieri, i Templesein. Perlesvaus, Le Haut Livre du Graal (1191-1212 circa), romanzo in prosa francese, composto nel Nord della Francia o nel Belgio. Nel Perlesvaus il Graal è il recipiente in cui fu raccolto il sangue di Cristo in croce da «quelli che credevano in Lui». La particolarità risiede nel fatto che, quando il corteo con il Sacro Vaso passa davanti a Galvano, costui vede nella reliquia prima la forma di un bambino, poi un uomo crocifisso con una lancia conficcata nel costato. Lancelot-Graal o Ciclo Vulgato, redatto da autori anonimi tra il 1215 e il 1235, è il piú completo e importante resoconto della materia di Bretagna. Esso è formato da cinque rami: Estoire del Saint Graal, Merlin, Lancelot, Queste del Saint Graal e Mort Artu.

Calice e patena in oro, dalla tomba dell’arcivescovo Ruotbert di Treviri (931-956). Metà del X sec. Treviri, Liebfrauenkirche.

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Da leggere U Francesco Zambon, Metamorfosi del

Graal, Carocci, Roma 2012 U Mariantonia Liborio (a cura di), Il

Dopo avere assunto le sembianze di un’aquila, il gigante Thjazi cerca di impedire agli Asi la preparazione dell’idromele, che sta fermentando nel calderone. Tavola realizzata da Ólafur Brynjúlfsson per un’edizione del Sæmundar og Snorra Edda, manoscritto islandese del XVIII sec.

funzioni-base delle società indoeuropee: la coppa talismano della funzione magico-regale, la lancia di quella guerriera, la patena di quella produttiva. Su un altro versante, antropologi come Frazer, Durand e LéviStrauss hanno voluto interpretare il mito del Graal sotto aspetti dif-

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ferenti, che rimandano in alcune occasioni – si pensi alle teorie del linguista e antropologo russo Vladimir Propp – a mitemi che si ritrovano con costanza nelle fiabe, ossia la ricerca di oggetti magici che assicurano salute, abbondanza e felicità. In conclusione, siamo alle prese con cosí tante e differenti let-

Graal: i testi che hanno fondato la leggenda, Mondadori, Milano 2005 U Franco Cardini, Massimo Introvigne, Marina Montesano, Il Santo Graal, Giunti, Firenze 1998 U Sherman Loomis Roger, Il Graal. Da mito celtico a simbolo cristiano, Luni, Milano-Trento 2007 U Richard Barber, Graal, Piemme, Casale Monferrato 2004; U Massimiliano Macconi e Marina Montesano (a cura di), Il Santo Graal. Un mito senza tempo dal Medioevo al cinema, De Ferrari, Genova 2002 U Emilio Renda, Il Sacro Graal. Tra mito, leggenda, letteratura e storia, Sellerio, Palermo 2006 U Gabriella Agrati, Maria Letizia Magini (a cura di), La leggenda del Santo Graal, Mondadori, Milano 1995 U Gabriella Agrati, Maria Letizia Magini (a cura di), Saghe e leggende celtiche, Mondadori, Milano 1982 U Robert de Boron, Il libro del Graal. Giuseppe di Arimatea-MerlinoPerceval, a cura di Francesco Zambon, Adelphi, Milano 2005 U Margarete Riemschneider, Miti pagani e miti cristiani. Fonti delle saghe del Graal e di Artú e loro relazioni, Rusconi, Milano 1997 U Thomas William Hazen Rolleston, I miti celtici, Longanesi, Milano 1994

ture del mito e dell’«oggetto Graal» nonché a influenze culturali cosí diverse, da poter affermare di avere a che fare con il risultato di un sincretismo mitico (che può avere, tuttavia, una sua coerenza di fondo). E l’aura di sacralità e di mistero che ha sempre circondato la leggenda del Graal, fin dalla sua apparizione nella letteratura medievale, è la chiave per comprendere il fascino che riesce a evocare anche nell’immaginario odierno. V

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Una Pigna da scoprire cartoline • Lontano dai riflettori

del Festival della Canzone e dal tifo degli appassionati di ciclismo, Sanremo custodisce un centro storico incantevole. Un cuore antico che regala scorci suggestivi e monumenti di fattura squisita

In alto Sanremo. Una fontana che ha come elemento principale una pigna scolpita a rilievo, scelta a evocazione del nome con cui è conosciuto il centro storico della cittadina ligure. A sinistra uno scorcio tipico del quartiere medievale di Sanremo. Nella pagina accanto il torrione della Ciapéla (detto anche Torre Saracena), un bastione che in origine era compreso nelle mura della città.

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ittadina in cui si fondono tradizione e modernità, Sanremo viene generalmente ricordata per il Festival della Canzone italiana, il Casinò costruito nel 1905 in stile liberty e la Milano-Sanremo, atteso appuntamento ciclistico per sportivi e appassionati. Ma la vera Sanremo, quella autentica, lontana dai luoghi comuni, è un’altra. A pochi metri dalle boutique di via Matteotti, dalle splendide residenze signorili nel corso degli Inglesi, dai lussuosi alberghi di corso dell’Imperatrice si trova la Pigna, il cuore antico e suggestivo dell’abitato.

Una successione di «gironi» Chiamata dai Sanremesi Scarpeta, per il suo sviluppo in altezza, la Pigna si è progressivamente ampliata nell’area del castrum Sancti Romuli, già occupata nel 979, e deve la propria denominazione alla perfetta conformazione urbanistica a «gironi» concentrici, disposti su differenti livelli lungo i fianchi del colle della Madonna della Costa. Alla città vecchia si accedeva un tempo varcando sedici porte, ancora aprile

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censite nella Pianta della città di San Remo da Matteo Vinzoni nel 1753. Oggi, in seguito ai danni provocati dalle guerre, dal terremoto del 1887 e dall’incuria, si conservano solo quattro di quegli accessi. Tra questi, Porta Santo Stefano (1321), ad arco gotico, è uno degli ingressi principali al centro storico medievale, secondo per estensione solo a quello di Genova. Oltrepassato il portone d’accesso, un intricato labirinto di saliscendi in selciato, talvolta a gradoni lastricati serpeggianti, talaltra a strette e lunghe scarpate acciottolate, collega palazzi patrizi, edifici pubblici e abitazioni rustiche a camminamenti sotterranei, vecchi loggiati e minuscoli carrugi.

Le vacanze dell’imperatrice A Sanremo i primi grandi alberghi sono stati costruiti nell’Ottocento, per soddisfare un turismo d’élite internazionale. Tra i numerosi personaggi che hanno soggiornato in questa stazione climatica dal signorile fascino mediterraneo, c’è anche l’imperatrice Maria Aleksandrovna. L’illustre ospite, in ricordo del suo soggiorno (1874) e anche in considerazione delle esigenze spirituali dell’elevato numero di connazionali, che amavano trascorrere lunghi periodi a Sanremo, ha finanziato la costruzione della chiesa russo-ortodossa di S. Basilio. Situato vicino al Casinò, il tempio è stato costruito in stile neomedievale «moscovita» con cupole policrome di varie dimensioni e croci dorate.

Tracce di un’antica sapienza Sui muri degli edifici, serrati gli uni agli altri senza soluzione di continuità, fanno qua e là capolino le finestre disposte in apparente disordine, e i piccoli usci, mentre da davanzali e balconi strabordano odorosi cespi di basilico, origano e maggiorana. Di tanto in tanto si apre qualche piazzetta, un minuscolo slargo ornato da una fontana, da un altarino. Qui, ovunque, le pietre sono materia prima per un vivace campionario di sapienti capacità creative e secolari tecniche costruttive: nella pavimentazione, nei rivestimenti, nelle scale, negli stipiti, nei bassorilievi delle costruzioni. Per secoli questo borgo è stato luogo d’incontri e scambi per i residenti e di trappole urbane per il nemico. Donato in età bizantina da Gallione, funzionario del fisco imperiale, a san Siro, vescovo di Genova, che vi tenne un corescopicus (vicevescovo) fino al secolo X, il Castrum Sancti Romuli fu, in epoca altomedievale, feudo della diocesi di Albenga e dei conti di Ventimiglia. Attorno al Mille passò definitivamente sotto la giurisdizione del vescovo di Genova; nel 1297 divenne possesso della nobile famiglia Doria; infine, nel

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In alto ancora due immagini del quartiere di Pigna. Elemento caratteristico l’uso sapiente della pietra, di volta in volta adattata alle esigenze strutturali degli edifici. Accuratamente commessi, sono in pietra anche i ciottoli e i blocchetti usati per i selciati. 1359, fu annesso ai territori della Repubblica di Genova. Ancora oggi, seppur con qualche variante, la contrada rispetta un modello insediativo che caratterizza l’architettura dell’età medievale in Liguria e forma una rete protettiva creata per rassicurare chi risiede nei vicoli, guardati dalle torri all’entrata e all’uscita. Non solo.

Archi «all’arrembaggio» Nei carrugi agili e arditi archi gettati tra un’abitazione e l’altra anche con funzione antisismica, sembrano abbordare le case, proprio come avviene da una galea all’altra. Questo sistema abitativo, configurandosi come la scelta di un modus vivendi che corrisponde in tutto e per tutto a una precisa struttura socio-antropologica, concorre a favorire l’isolamento e l’austerità degli abitanti, senza negare la sua estrema utilità per chi vive tra continue turbolenze dentro e fuori città. Costantemente minacciata dai saccheggi, nel XVI secolo Pigna subí i devastanti attacchi dei pirati barbareschi: Dragut, Charo Mustafà, Barbarossa e Occhialí.

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Piazza Eroi Sanremesi, a forma di vasto triangolo irregolare, congiunge la Pigna con il quartiere del Piano di San Remo e la zona di San Siro, l’altro nucleo storico della città, sviluppatosi in stretta relazione con l’asse stradale della via romana Iulia Augusta. In quest’area si trovano i principali e piú antichi edifici di culto sanremesi: la cattedrale, il battistero e la canonica di S. Siro. La cattedrale romano-gotica è stata eretta fra il XIII e il XIV secolo in pietra viva, sui resti di una basilica protoromanica a tre navate, ancora situata 3 m sotto l’attuale pavimentazione, e ricorda nei moduli stilistici la chiesa di S. Michele ad Albenga. La facciata, piú volte restaurata, conserva l’originale rosone centrale. I due portali laterali, ornati da sculture (l’Agnello pasquale tra due palme, piú antico, e la Madonna in trono tra due santi) scolpite entro lunette a ogiva sono trecenteschi. Invece il campanile cuspidato risalente all’epoca tardo-medievale, è stato mozzato dai genovesi come punizione per la ribellione della città nel 1753.

Qui sotto la piazzetta dei Dolori, cosí denominata perché anticamente la Confraternita della Madonna dei Sette Dolori aveva la sua sede nel vicino Oratorio di S. Sebastiano.

Le grandi fabbriche civili, religiose e militari La repressione ha portato anche alla demolizione del castello sulla collina. Con quelle pietre la Serenissima Repubblica ha edificato in prossimità del mare il Forte di Santa Tecla. A lato della cattedrale si erge il battistero. Innalzato su resti di strutture romane d’età imperiale, risulta dalla trasformazione della primitiva chiesa romanica di S. Giovanni, a tre navate, in luogo di culto

Uno scrittore tra i carrugi Negli anni Cinquanta a godersi la libertà di una passeggiata tra i carrugi di Pigna c’era anche lo scrittore Italo Calvino (1923-1985). Attratto dalla complessità architettonica del quartiere, vi ambientò il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), e ne trasse ispirazione per la stesura delle sue Città Invisibili (1972). Nelle combinazioni interpretative delle città descritte nel libro i vicoli chiaroscuri della Pigna si ritrovano rielaborati in vari modi: nelle città sottili, nelle città del desiderio, nelle città degli scambi. A sinistra una delle numerose scale che raccordano i diversi livelli del quartiere di Pigna, che si sviluppa essenzialmente in altezza, assecondando l’orografia del sito.

a pianta centrale. Accanto al battistero c’è la canonica di S. Siro. Un antico palazzo con facciate a vista, che dà all’interno nel «Resetto», la piazza-chiostro dei canonici limitata a sud dalle case canoniche e interposta tra la canonica e il battistero, e all’esterno su piazza del Mercato e sul torrione della Ciapéla (detta anche Saracena), un secolare bastione in passato inglobato nelle antiche mura. Restaurata di recente, la canonica, ingentilita al piano superiore da bifore del XII secolo, è stata costruita in pietra calcarea scura proveniente dalle cave di Verezzi, lavorata a blocchi di medie dimensioni, ben squadrati e a corsi regolari, taluni anche a bugnato. Ritenuta un raro esempio di architettura romanica a uso civile in Liguria, presenta molte e significative affinità stilistiche con il Palazzo Vescovile di Fréjus, in Provenza. Chiara Parente

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Lo scaffale Franco Cardini Istanbul Seduttrice, conquistatrice, sovrana Il Mulino, Bologna, 336 pp.

16,00 euro ISBN 978-88-15-25357-6 www.ilmulino.it

Istanbul non si conquista perché è lei la vera conquistatrice. Affascinante, superba, sovrana, sono solo alcuni degli aggettivi

che si confanno a quella che fu denominata la Nuova Roma, Bisanzio, Costantinopoli e infine, dal 1453, Istanbul. Tra Baedeker e libro di storia, Franco Cardini ripercorre le tappe salienti della storia della città e delle civiltà che l’hanno popolata e continuano ad abitarla. A chi desideri visitarla, l’autore suggerisce di partire dall’Augusteion costantiniano, dal quale iniziavano le strade e si misuravano le distanze per

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tutto l’impero. Da lí si raggiungono facilmente S. Sofia, la Moschea Blu, Sultan Ahmet, e tutte la altre mete turistiche tradizionali. Sottoposta a ripetuti attacchi e conflitti, prima con gli Avari, nel VII secolo, in precedenza con i Persiani e poi con l’incombente Islam, Costantinopoli è riuscita per secoli a mantenere la sua specificità, oltre che la sua indipendenza. Fu orgogliosa delle sue famiglie regnanti di basileis: i Macedoni, i Comneni e poi i Paleologi, che trasformarono la capitale in uno scenario abbagliante di monumenti, palazzi, chiese. Nel 1204 la sciagurata spedizione occidentale che va sotto il nome di quarta crociata, con il conseguente e fittizio impero latino d’Oriente, diede una prima, seria spallata a quello che era stato l’impero romano d’Oriente. Ma dovettero passare altri due secoli e mezzo prima che Costantinopoli cadesse sotto l’urto del sultano ottomano Maometto II detto al-Fatih, il Conquistatore, per diventare Istanbul. Tuttavia ai sultani ottomani, in primo luogo a Solimano il

Magnifico, si debbono la costruzione del Topkapi, la loro reggia, dell’arsenale nel quartiere di Kasim Pasa e di tanti altri monumenti, palazzi, moschee che ancora oggi fanno di Istanbul «la città delle città». Alessandro Bedini Ileana Benati Mura In volo con Diana Il simbolismo delle streghe

Edizioni Ulivo, Balerna (Svizzera), 134 pp., ill. b/n

23,00 euro ISBN 978-8898018-27-7 www.edizioni-ulivo.ch

Retaggio di paure ancestrali, la caccia alle streghe toccò, nel Medioevo, vette di

scelte da Ileana Benati per costruire questo saggio sull’argomento, che riepiloga gli aspetti piú significativi del fenomeno. La trattazione è articolata in due parti: nella prima sezione, dopo un breve inquadramento storico, l’autrice sceglie alcuni dei temi che maggiormente connotavano la percezione delle streghe (dai legami con il diavolo alla celebrazione dei riti sabbatici); la seconda parte è quindi riservata alla descrizione delle tavole, alcune delle quali firmate da grandi maestri, quali Albrecht Dürer o Goya. Stefano Mammini Marcello Guazzerotti A caccia in Maremma La pratica venatoria nel Medioevo (VII-XVI secolo) Edizioni Effigi, Arcidosso (Grosseto), 134 pp., ill. col.

13,00 euro ISBN 978-88-6433-936-0 www.cpadver-effigi.com

particolare intensità e violenza, alimentata da credenze e superstizioni. Logica conseguenza fu dunque il fiorire di una ricca aneddotica e di una non meno copiosa letteratura. A quel patrimonio si ispirano le tavole della Collezione Invernizzi

All’indomani della sua comparsa sulla Terra, l’uomo aveva nella caccia una delle risorse fondamentali per la sopravvivenza. Molti millenni piú tardi, grazie all’avvento dell’economia produttiva, basata sull’agricoltura e

l’allevamento, lo scenario mutò radicalmente, ma la pratica venatoria non venne mai meno, seppur incidendo in misura diversa sul sostentamento. A partire dai secoli del Medioevo, si registrò una ulteriore e importante evoluzione, quando la caccia, almeno per i ceti piú elevati della società, si trasformò soprattutto in un’occasione di svago. Di questo complesso fenomeno e, in particolare, del suo sviluppo nell’età di Mezzo, dà conto il saggio di Marcello Guazzerotti, che sceglie come osservatorio una realtà ben definita e limitata, la Maremma, ma non per questo meno significativa. Il saggio è articolato e ricco di informazioni, molte delle quali desunte da recenti ricerche archeologiche, e, pur nella sua brevità, definisce un quadro esauriente e puntuale. Che ha come corollario una rassegna iconografica delle piú significative attestazioni della pratica venatoria nel territorio maremmano. S. M. aprile

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musica •

Alcuni manoscritti della Biblioteca Capitolare di Montecassino restituiscono una preziosa testimonianza del canto beneventano

Magnifiche sopravvivenze I

l canto detto «beneventano» interessò dal punto di vista liturgico-musicale l’area occupata, appunto, dal ducato longobardo di Benevento. Linguaggio musicale a sé stante, caratterizzato da peculiarità ritmico-melodiche e stilistiche che lo avvicinano, in qualche maniera, al canto ambrosiano dell’area milanese, esso dovette subire una battuta d’arresto quando, nel 1058, durante una visita a Montecassino di papa Stefano IX, venne vietata ogni pratica liturgico-musicale che si discostava dal canto romano. Una decisione che determinò la perdita quasi totale di un repertorio di grande interesse, del quale, fortunatamente, ci sono pervenute alcune sporadiche testimonianze conservate nel ricco archivio dell’abbazia di Montecassino. A queste rarità è dedicata l’antologia Chants de la Cathédrale de Benevento (HMA1951476, 1 CD, www. harmoniamundi.com) in una riproposizione discografica, a distanza di oltre vent’anni, che nulla ha perso del suo fascino e del suo altissimo

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valore artistico e musicologico. La scelta si sofferma su brani della liturgia della Settimana Santa, con ascolti tratti dall’Ufficio dell’adorazione della Croce, dalla veglia pasquale e dalla Messa di Pasqua, tutti provenienti dai manoscritti 38 e 40 della Biblioteca Capitolare di Montecassino e miracolosamente sopravvissuti insieme ad altri brani di tradizione «romana».

Echi del mondo bizantino Tra gli elementi di questo repertorio che piú colpiscono vi è senz’altro l’uso della lingua greca, presente in cinque brani dell’ufficio dell’adorazione della croce: un dato piuttosto indicativo della vicinanza culturale col mondo bizantino. Altro fattore che connota fortemente queste musiche è lo stile melismatico dei passaggi solistici, che non può non richiamare alla mente le influenze delle tradizioni liturgiche orientali (d’altronde ben presenti anche nel canto ambrosiano). La lettura dell’Ensemble Organum,

guidato da Marcel Pérès, è semplicemente eccezionale nel dare voce a monodie che incantano pur nella loro apparente semplicità. Da notare l’utilizzo del bordone vocale a sostegno del solista; una scelta interpretativa ispirata evidentemente alle forme piú primitive di improvvisazione polifonica, dove lunghe note gravi cantate dal coro intervengono a sostegno «armonico» – anche se parlare di armonia è del tutto fuori luogo per questo repertorio – della voce solista. Tra i cantanti, una lode particolare va a Lycourgos Angelopoulos, al quale sono affidati i brani in lingua greca; una voce di rara bellezza, il cui canto melismatico è arricchito da raffinati glissandi, uso di microtoni e modulazioni. Franco Bruni

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caleido scopio

Dall’Inghilterra dei Tudor

alla Roma

dei papi

sommario • The Sixteen, gruppo

inglese da tempo accreditatosi come uno dei migliori interpreti del repertorio quattro-cinquecentesco offre due nuovi e significativi saggi delle sue brillanti capacità interpretative ed esecutive

C

on The Voice of the Turtle Dove (COR 16119, 1 CD, www.thesixteen. com), antologia in cui la colomba (dove) del titolo – espressione dell’amore devoto – ritorna nello straordinario brano Vox patris caelestis di William Mundy (1530-1591), è la musica inglese del XV e XVI secolo a essere protagonista di una eccellente interpretazione del gruppo inglese The Sixteen. Rinomato ensemble specializzatosi nel repertorio quattro-cinquecentesco, The Sixteen torna, con questa registrazione, a un repertorio che ha segnato gli albori della carriera del gruppo, proponendo musiche di Richard Davy (1465-1521) e John

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Sheppard (1515 circa-1558 circa) oltre al summenzionato Mundy. Un ampio excursus storico-musicale, che copre gli ultimi decenni del XV secolo sino prima metà del successivo, un’epoca in cui l’Inghilterra conobbe fasi drammatiche in seguito ai violenti conflitti religiosi, cosí come momenti di grande fermento culturale.

Una tradizione illustre Sotto il regno dei Tudor, infatti, vennero create e/o completate alcune delle piú belle cappelle tardo-gotiche d’Inghilterra, spesso annesse a istituzioni

universitarie, che ospitarono ensemble corali – ancora oggi esistenti – a cui alcuni dei compositori presentati in questa raccolta furono legati nel corso della loro carriera. È il caso, per esempio, del Magdalen College di Oxford, presso il quale studiò Davy, divenendone maestro di cappella e organista (1490), un incarico che, un cinquantennio piú aprile

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tardi, venne assunto da Sheppard (1540); Mundy, vissuto nel pieno del XVI secolo, al contrario, ebbe una brillante carriera a Londra, dove fu corista presso l’abbazia di Westminster, la cattedrale di St Paul e, infine, venne nominato Gentleman della Chapel Royal.

Tutto in un giorno Tratti da un famoso codice musicale, l’Eton Choirbook, compilato alla fine del XV secolo, i tre mottetti di Davy sono una delle presenze di maggior interesse di questa antologia, con l’antifona O domine caeli terraeque creator, di cui le cronache narrano che fu composta in un solo giorno («hanc antiphonam composuit Ricardus Davy uno die Collegio Magdalenae Oxoniis»): un brano di grande fattura, con un’esclamazione sulla O del versetto iniziale di straordinaria potenza comunicativa. Dello stesso viene presentato un secondo mottetto in inglese, Ah, mine heart, con una singolare intonazione solistica iniziale a cui segue lo sviluppo polifonico inframezzato da sezioni solistiche. Interessanti anche i quattro ascolti dedicati a Sheppard – databili alla prima metà del XVI secolo) e, in particolare, il responsorio In manus tuas I e III, da eseguirsi durante le preghiere notturne della Compieta, in cui allo spettacolare trattamento polifonico delle voci, si alternano versetti in gregoriano (alternatim), procedura che ricorre anche nel Libera nos. Alla metà del XVI secolo ci riconducono, infine, i due ascolti di Mundy: Adolescentulus sum ego e Vox patris caelestis, tratto, quest’ultimo, dal Cantico dei Cantici. Harry Christopher, alla direzione dei Sixteen, si muove in assoluta sintonia con questo repertorio, frequentato sin dalla fondazione del gruppo nel 1979, con una evidente capacità di «colorare» le linee polifoniche con intenti interpretativi e un fraseggio efficacemente

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consoni al repertorio; d’altronde le voci dell’ensemble offrono quanto di meglio ci si possa aspettare da un gruppo vocale dedito alla polifonia, con una precisione, pulizia e fusione di suono di rara bellezza.

Emozioni forti Al medesimo ensemble ci riporta un altro ascolto, dedicato alla scuola romana cinquecentesca, incarnata dal suo massimo esponente, Giovanni Pierluigi da Palestrina, con una scelta di mottetti e una messa legati alla liturgia della Pentecoste. In Giovanni Pierluigi da Palestrina. Vol. 5 (COR 16124, 1 CD, www.thesixteen. com), i Sixteen ci regalano ancora emozioni forti, con la loro capacità di navigare tra gli intrecci polifonici di un compositore che seppe fondere in maniera sublime l’eredità del contrappunto quattrocentesco con una visione dello stesso in cui a dominare non è piú l’arzigogolato verticalismo polifonico, ma un senso orizzontale della melodia. Ne scaturisce un linguaggio

assolutamente rinnovato, dove alle spigolosità quattrocentesche si contrappone un gusto melodico, quasi armonico, del tessuto musicale. Nei mottetti ascoltiamo in alcuni casi l’alternatim con i versetti del gregoriano, e lo stesso fa da leit motiv nella Missa Iam Christus astra ascenderat, che si basa sull’omonimo inno pentecostale tratto dall’antica monodia liturgica. A un repertorio di tipo devozionale invece ci riconducono i tre mottetti tratti dal Cantico dei Cantici, pubblicati nel 1583-1584, altra prova incredibile della maestria di Palestrina. Conclude questa splendida raccolta il Magnificat quarti toni, in cui ritorna l’alternatim con i versetti in gregoriano (versi dispari) che appunto si alternano alla lettura polifonica (versi pari) in cui le 18 voci dei Sixteen stupiscono per la bellezza dell’esecuzione dando, in questo caso, uno spessore interpretativo denso e carico di emozione. F. B.

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