Medioevo n. 217, Febbraio 2015

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MEDIOEVO n. 217 febbraio 2015

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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Il Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli

dagli amanuensi all’invenzione della stampa

simbologia

Il mistero del gallo di Carnevale

guerra nel medioevo I barbari alle porte

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Mens. Anno 19 numero 217 Febbraio 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

islam senza immagini guerra/1: i barbari gallo tempietto di cividale dossier la scrittura

Scrivete fratelli!



sommario

Febbraio 2015 ANTEPRIMA almanacco del mese

5

restauri Un gemello per san Michele In diretta dal cantiere

6 8

archeologia Il tesoro dei Vichinghi

10

musei Ritorni e novità in una luce tutta nuova

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appuntamenti Processo al tiranno Al galoppo contro... un tacchino Tutti in maschera! L’Agenda del Mese

di Marco Di Branco

di Federico Canaccini

36

36

14

COSTUME E SOCIETÀ

15 16 20

immaginario A Carnevale ogni gallo vale... di Domenico Sebastiani

50

luoghi

STORIE attualità Islam Un mondo senza immagini?

la guerra nel medioevo Contro i barbari

saper vedere Cividale del Friuli

Il Tempietto delle meraviglie 28

28

di Elena Percivaldi

Dossier

64

scrivi, fratello! di Chiara Mercuri

64 CALEIDOSCOPIO libri Caccia al soldo Lo scaffale

110 111

musica Una Cantilena di classe

113

85


MEDIOEVO Anno XIX, n. 217 - febbraio 2015 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352

Illustrazioni e immagini: Bridgeman Images: pp. 42/43; Museo Lázaro Galdiano, Madrid: copertina e p. 85; Werner Forman Archive: pp. 36/37; Musée national de la Renaissance, Ecouen: p. 57; Germanisches Nationalmuseum, Nuernberg: p. 61; Musée des BeauxArts, Rouen: p. 91 (centro); Bibliothèque nationale de France, Paris: pp. 94/95; Kunsthistorisches Museum, Wien: p. 98; Bibliothèque Municipale, Cambrai: p. 105; The Stapleton Collection: pp. 108/109 – Cortesia dell’autore: pp. 6-7, 15, 16, 76-79 – Antonio Quattrone: p. 8 – ANSA: pp. 10-11 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 12 – Ezio Moranduzzo «Morandez»: p. 14 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 28, 34, 53, 56, 60, 62-63, 88, 102, 107 – Shutterstock: pp. 29, 31 – DeA Picture Library: pp. 30, 50/51, 87, 89, 90, 96; W. Buss: p. 39; R. Bardazzi: p. 52; S. Vannini: pp. 54-55; G. Dagli Orti: pp. 58, 86, 106; A. De Gregorio: pp. 91 (alto), 97; Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 91 (basso); A. Dagli Orti: p. 93; F. Fini: pp. 102/103 – Corbis Images: Syed Jan Sabawoon/ EPA: p. 31; Caroline Seidel/DPA: p. 98/99; Alfredo Dagli Orti/The Art Archive: p. 100 – Marka: Yalid Levy: p. 33 (alto e basso) – Archivi Alinari, Firenze: Musée du Louvre, Dist. RMN-Grand Palais/Etienne Revault: p. 34/35; Granger, NYC: p. 92 – Doc. red.: pp. 40, 46, 59, 101 (basso), 104/105, 110 – Da Late Roman Infantryman, AD 236-565, Oxford 1994, disegni di Gerry Embleton: p. 44 – Da Germanic Warrior, 236-568 AD, Londra 1996, disegno di Angus McBride: p. 45 – Archivio Mozzati/Luca Mozzati: pp. 48/49 – Gianluca Baronchelli: pp. 64-71, 72/73, 75-77, 82 – Cortesia Bente Kiilerich: p. 72 (alto e basso) – E. Lessing Archive/Magnum/Contrasto: 101 (alto) – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 38/39, 46, 47, 66. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Marco Di Branco è ricercatore di storia bizantina e islamica all’Istituto Storico Germanico di Roma. Mila Lavorini è giornalista. Chiara Mercuri è dottore di ricerca in storia medievale. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Stefania Romani è giornalista. Domenico Sebastiani è dottore in giurisprudenza, cultore di tradizioni e leggende medievali. Tiziano Zaccaria è giornalista. Luca Villa è archeologo. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Editore: MyWay Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6346 Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 00696369

In copertina particolare di un olio su tavola del Maestro del Parral raffigurante san Girolamo in uno scriptorium. 1480-1490. Madrid, Museo Lázaro Galdiano

Nel prossimo numero la guerra nel medioevo/2

Franchi, Arabi e Bizantini

immaginario

La vergine e l’unicorno

saper vedere

La Fontana Maggiore di Perugia

dossier

Scienza e tecnologia nella Divina Commedia


Almanacco del mese Box titolo box titolo

Testo Box 2009 l’Assessorato all’Istruzione, formazione e lavoro della Regione Lombardia ha avviato in Valtellina l’iniziativa a cura di Federico Canaccini sperimentale Learning Week, proponendo alle scuole settimane di iniziative culturali extracurricolari. Nel panorama scolastico e formativo italiano i percorsi Learning Week, caratterizzati da una forte valenza esperienziale U 1 febbraio U 15 febbraio 1113 sul territorio e da una modalità «full immersion», sono unici per lo schema II riconosce l’ordine deglipartecipare Ospedalierial attuativo e per la possibilitàPasquale data a ogni destinatario di poter con la Pie Postulatio Voluntatis percorso formativo ritenuto piú corrispondente alle proprie esigenze. All’interno U 2 febbraio 962 Incoronazione di Ottone I del progetto «L’Orlando Furioso in Valtellina» è stata quindi inserita la Learning U 16valtellinesi», febbraioche, organizzata Week «L’immaginario ariostesco negli affreschi da parte di papa Giovanni XII (962) dal Centro di Formazione Professionale e dal Liceo Scientifico Donegani di formazione culturale U 17 febbraio U 3 febbraio 1451 di Sondrio, oltre a offrire agli studenti un momento tipicamente scolastico, permette loro il positivo inserimento in un contesto Muore Murad II, sultano ottomano; sociale e lavorativo. gli succede Maometto II U 18 febbraio 1248 Federico II viene sconfitto a Parma dai Comuni

4 febbraio 1459

U

Ferdinando I d’Aragona è incoronato a Barletta sovrano del regno di Napoli U

5 febbraio 251

Martirio di sant’Agata a Catania U

6 febbraio

8 febbraio 421

Onorio nomina Costanzo III Augusto e collega nell’impero U

9 febbraio 1111

10 febbraio 1258

U

11 febbraio 1531

U

14 febbraio 1076

mese

22 febbraio 1161

U

23 febbraio 1455

U

24 febbraio 1525

U

25 febbraio 1323

U

26 febbraio 1266

sequi doluptu rescius eni optiur, quae

U

27 febbraio 380

U

28 febbraio 870

Editto di Tessalonica: il credo niceno diviene quello ufficiale dell’impero

Disfida di Barletta

Gregorio VII scomunica Enrico IV

MEDIOEVO

U

Nella battaglia di Benevento, d’Angiò sconfigge Dida, niet quiCarlo odio Iquisquunt, soluptae? Manfredi ePediventa il nuovo re Siciliaquia nim moloressenim estisdienduci

12 febbraio

13 febbraio 1503

21 febbraio 1339

Milano e la Lega antiviscontea si scontrano nella battaglia dell’Adda

Enrico VIII è riconosciuto capo della Chiesa anglicana

U

U

Battaglia di Pavia tra l’esercito francese di Francesco I e le truppe imperiali di Carlo V

I Mongoli conquistano Baghdad

U

20 febbraio

Pubblicazione della Bibbia di Gutenberg, il primo libro a stampa della storia

Patto di Sutri, con il quale l’imperatore Enrico V impone a papa Pasquale II la restituzione dei privilegi territoriali ottenuti dalla Chiesa da Carlo Magno in poi U

U

Nasce Lotario dei conti di Segni, il futuro papa Innocenzo III

Edoardo viene eletto primo principe di Galles U

19 febbraio

Battaglia di Parabiago, tra Azzone Visconti e Lodrisio

7 febbraio 1301

U

U

Si conclude il Sesto Concilio di Costantinopoli

.

5


Ante prima

Un gemello per san Michele

restauri • Il Duomo di Orvieto

ritrova il magnifico gruppo bronzeo realizzato da Matteo di Ugolino. A coronare la cattedrale cittadina, però, c’è ora una replica perfetta, mentre l’originale è andato ad arricchire il percorso espositivo del Museo MODO

S

ulla facciata del Duomo di Orvieto, a dieci anni di distanza dalla sua rimozione, è tornato il gruppo scultoreo di San Michele Arcangelo e il Drago, che, nel frattempo, è stato sottoposto a restauro. All’esterno però, per ragioni conservative, è stata collocata una replica, mentre l’originale è esposto al MODO, il Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto. La scultura trecentesca versava in condizioni critiche: la maggior parte della patina dorata che ricopriva la superficie in bronzo era ormai andata persa, diversi punti risultavano corrosi e la struttura interna che fungeva da sostegno era piuttosto precaria. A tutto ciò vanno aggiunti i danni causati dalle polveri atmosferiche, da incrostazioni e dalla presenza di guano.

Fusione a cera persa Dopo una fase diagnostica, affrontata con tecniche non invasive, l’intervento di recupero ha riportato in luce la qualità dell’opera fusa nel 1356 da Matteo di Ugolino da Bologna, artista che in città ha firmato anche l’Agnus Dei – sempre per la facciata della cattedrale –, la cancellata della Cappella del Corporale Dove e quando

Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto Orvieto, piazza del Duomo 26 Info tel. 0763 342477; fax: 0763 340336; e-mail: info@museomodo.it; www.museomodo.it

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MEDIOEVO


Errata corrige con riferimento all’articolo «Libri, maghi e misteri» (vedi «Medioevo» n. 216, gennaio 2015) ci scusiamo con madame de Pompadour, nota per essere stata la favorita di Luigi XV, per averla incautamente coinvolta nell’Affare dei Veleni. La torbida vicenda si svolse infatti tra il 1670 e il 1680, cioè cinquant’anni prima della sua nascita e tra le gentildonne che in essa risultarono implicate c’era invece madame de Montespan (1640-1707), dama d’onore della regina, che divenne poi la favorita di Luigi XIV.

Sulle due pagine una veduta d’insieme e vari particolari del San Michele Arcangelo e il Drago, gruppo bronzeo realizzato da Matteo

MEDIOEVO

febbraio

di Ugolino da Bologna nel 1356. L’originale dell’opera è ora conservato nel Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto.

e la campana per la Torre del Maurizio. Le statue sono state realizzate con la tecnica della fusione a cera persa: nell’intercapedine fra il calco in gesso e il modello in cera l’artista versava il metallo fuso, che una volta raffreddatosi veniva ripulito e rifinito. Le diverse parti del San Michele e il Drago sono state saldate fra di loro in un secondo momento dall’officina di Matteo di Ugolino, mentre le ali sono state lavorate a freddo e quindi dorate anche sul retro, come si confaceva a una commissione importante. L’intera scultura era connotata da una resa superficiale molto alta, con particolari esaltati dalla patina d’oro. Del resto, l’angelo armigero doveva avere un ruolo di primo piano nel racconto religioso della facciata, se la sua collocazione era già prevista nel progetto su pergamena che precede l’affidamento del cantiere a Lorenzo Maitani nel 1310.

Contro il drago con una... baionetta Il tema di san Michele che sconfigge il Drago è documentato in alcuni versi dell’Apocalisse. La figura dell’Arcangelo che difende il popolo ebraico viene ripresa dalla Chiesa, che la eleva a simbolo di un cristianesimo militante, tanto che, per tutto il Medioevo, il santo viene rappresentato come un cavaliere crociato. Quello di Orvieto aveva però un’arma tarda, una baionetta di ferro aggiunta, come hanno rilevato le indagini, nel 1919. Come si è detto, sulla facciata del Duomo è stata collocata una copia del gruppo, realizzata grazie a un calco indiretto, considerata la fragilità dell’originale, e a tecniche in 3D. L’originale, che ha invece una nuova collocazione nel percorso espositivo del Museo, è esposto su un basamento antisismico, formato da due blocchi sovrapposti, progettato dall’ENEA (l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), che ha collaborato con il Museo dell’Opera anche per la tutela di altri beni cittadini. Stefania Romani

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Ante prima

In diretta dal cantiere restauri • Al termine di un intervento eseguito sotto gli occhi dei visitatori, il

pannello bronzeo della Crocifissione di Donatello torna a farsi ammirare in ogni suo dettaglio, rivelando l’eccezionale complessità e raffinatezza della composizione

È

stato da poco ultimato il restauro della Crocifissione di Donatello, eseguito «in diretta» – cioè visibile ai visitatori – nel cantiere allestito nel Museo del Bargello di Firenze. L’opera ha ora trovato degna collocazione tra il David bronzeo e il San Giorgio, capolavori dello stesso maestro fiorentino. Realizzato intorno al 1455, come opera di devozione privata per la famiglia Martelli, che aveva protetto l’artista fin dalla sua fanciullezza, il pannello in bronzo costituisce un unicum nella produzione di Donatello che, ancora una volta, ci meraviglia per la vitalità intellettuale conservata fino agli ultimi anni della sua vita. La composizione, complessa e densa di personaggi, è esaltata dalle «ageminature» d’oro e d’argento, con lastre in metallo (rame, stagno e piombo) bulinate, incastrate in alveoli, secondo la difficile tecnica dei bronzi veneto-saraceni che, proprio durante il suo soggiorno a Padova, lo scultore fiorentino aveva avuto modo di studiare.

Due particolari della Crocifissione di Donatello, prima (a sinistra) e dopo (in basso) il recente restauro. Pannello in bronzo ageminato, 1455 circa. Firenze, Museo del Bargello.

Una visione prospettica del racconto Rimossi i vari strati di cere, oli e sostanze di deposito che avevano anche appiattito gli incavi del modellato, è emersa una insospettabile ricchezza di dettagli, insieme alla naturale brillantezza della doratura, eseguita ad amalgama di mercurio. Attraverso l’uso dello «stiacciato» (rilievo bassissimo), si percepisce la visione prospettica del racconto, con i vari livelli di profondità della scena dove, allo stesso tempo, l’ordine sparisce, sovvertito da uno slancio di sperimentalismo che sconvolge la linearità dei personaggi. Superando classicismo e razionalità, in una miriade di riflessi che fanno splendere la raffigurazione, Donatello rappresenta il dramma e i moti dell’anima delle figure urlanti. Inquietudine, dolore, sgomento si fondono in un insieme vibrante, che pare comporsi intorno alla scala obliqua su cui uno sgherro pianta l’ultimo chiodo per la crocifissione di uno dei ladroni, mentre lo spazio sembra dilatarsi oltre la cornice di palme dorate. Mila Lavorini

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MEDIOEVO


Viaggio in Terra Santa/2

Tra cavalieri e sultani: alla scoperta dei castelli crociati L

e architetture militari sorte durante il dominio dei cavalieri crociati (1099-1291) figurano, ancora oggi, tra le testimonianze archeologiche piú suggestive del panorama storico-monumentale della Terra Santa. Meno conosciuti del celebre Krak dei Cavalieri (oggi in territorio siriano), i due castelli che presentiamo in questa pagina – l’uno situato nel nord del Golan, l’altro prospiciente la valle del Giordano – si distinguono non solo per lo straordinario contesto paesaggistico in cui sono calati, ma anche per i lavori di esplorazione e restauro cui sono stati sottoposti in anni recenti. Il castello di Nimrod (Qala’at al-Subeiba, «il Castello sulla grande falesia», o Qala’at Namrud) è una fortezza costruita su una rupe a 800 m sopra il livello del mare, in un territorio di straordinaria bellezza: siamo nel nord delle alture del Golan, ai confini con la Siria e il Libano. Nimrod fu costruita intorno al 1229 da un nipote di Saladino, Al-Aziz Uthman, allo scopo di presidiare il percorso che avrebbe potuto condurre i cavalieri della VI Crociata alla conquista di Damasco. In seguito fu ampliato dal sultano mamelucco Baybars, il cui nome appare ancora oggi in un’iscrizione del 1275. La fortezza di Belvoir (nota anche con il nome ebraico di Kochav ha Yarden, «la stella del Giordano»), nella Bassa Galilea, è la meglio conservata tra le fortificazioni crociate in Israele. Il suo nome è un chiaro riferimento alla sua posizione su un’altura di 400 m prospiciente la

valle del Giordano. La sua costruzione risale al tempo di Folco d’Angiò (1131-1143) e le rovine, come le vediamo oggi, rispecchiano l’aspetto che il castello aveva nel 1168, quando la fortezza e le terre circostanti vennero acquistate dall’Ordine di San Giovanni. L’edificio, a pianta quasi quadrata (120 x 100 m), con una torre su ciascun angolo della muraglia e al centro di ogni lato, era protetto da due potenti bastioni e circondato da un fossato. Le fortezze crociate di Nimrod e Belvoir fanno parte del circuito dei Parchi Nazionali di Israele, gestiti, insieme a 43 altri siti archeologici e 38 aree di interesse naturalistico, dalla National Nature and Parks Authority (la soprintendenza ai parchi nazionali e naturalistici di Israele) e sono visitabili in ogni stagione dell’anno. Info: www.goisrael.it In alto veduta aerea del castello crociato di Belvoir, nella Bassa Galilea. In basso la fortezza di Nimrod, Golan settentrionale.

informazione pubblicitaria


Ante prima

Il tesoro dei Vichinghi archeologia •

A un appassionato scozzese, armato del suo metal detector, si deve una nuova, eccezionale, scoperta: un tesoro composto da oltre 100 manufatti, perlopiĂş di produzione vichinga, e che si offre come testimonianza preziosa sulla storia dei rapporti tra le genti scandinave e la Gran Bretagna

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T

esori di grande valore vengono spesso alla luce con un modesto spiegamento di mezzi: è il caso degli oltre 100 oggetti preziosi di epoca vichinga, recentemente affiorati nell’area del Dumfries e Galloway, nella Scozia meridionale. Autore del clamoroso ritrovamento è un uomo d’affari in pensione, Derek McLennan, il quale, con l’ausilio di un semplice metal detector, ha scoperto gli antichi reperti, la cui datazione oscilla tra il IX e il X secolo. McLennan, comunque, non è nuovo a simili imprese: un anno fa, infatti, aveva recuperato una vasta collezione di monete d’argento medievali, la piú ricca finora rinvenuta nel territorio nord britannico. Già all’indomani della scoperta piú recente, l’attribuzione dei reperti non ha sollevato dubbi: secondo gli esperti del National Museum of Scotland si tratta di manufatti vichinghi provenienti dalla Scandinavia, dall’Irlanda e da altri territori dell’Europa centrale.

Tra gli oggetti piú interessanti spiccano una croce d’argento con insolite decorazioni smaltate, una spilla in oro che raffigura un uccello e un vaso carolingio in lega d’argento, considerato uno dei piú grandi del genere che sia mai stato ritrovato.

Nuova luce sulla storia scozzese Secondo il ministro della Cultura scozzese, Fiona Hyslop, la scoperta di McLennan non ha solo un grande valore in sé, ma può contribuire a far luce sulla vita della Scozia medievale e sui rapporti tra diversi popoli che in quei secoli occupavano quelle regioni. In particolare, potrebbe fornire informazioni preziose sul Sulle due pagine alcuni dei manufatti facenti parte dello spettacolare tesoro rinvenuto in Scozia. Da sinistra, in senso orario: uno spillone aureo con testa in forma

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periodo in cui i Vichinghi, in terra britannica, decisero di divenire comunità stanziali. Dal punto di vista storiografico, gli Scozzesi sono soliti considerare i predoni scandinavi come invasori e stranieri, ma in alcune zone le tradizioni norrene divennero parte integrante della cultura locale e non solo nelle lontane isole settentrionali Orcadi e Shetland. Per scongiurare possibili saccheggi, la località esatta del ritrovamento non è stata rivelata e le autorità competenti hanno predisposto un’attività di sorveglianza che possa agevolare lo studio del sito. Nel contempo, è stato avviato il restauro dei preziosi manufatti. Francesco Colotta

di uccello; il grande contenitore in lega d’argenti, di produzione carolingia, che custodiva il tesoro; una croce in argento; un bracciale in argento.

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Ante prima musei • Restituiti all’ammirazione

dei visitatori i magnifici dipinti custoditi nelle «Sale bizantine» della Galleria dell’Accademia

Ritorni e novità in una luce tutta nuova È

stato presentato nelle scorse settimane il nuovo allestimento delle «Sale bizantine» della Galleria dell’Accademia di Firenze. Si tratta dei tre ambienti nei quali è custodita l’importante collezione di tavole a fondo oro del Duecento e del Trecento, acquisite perlopiú in seguito alle soppressioni delle chiese e dei conventi attuate tra la fine del Settecento e l’Unità d’Italia. Tra i dipinti presenti, vi sono opere di grandi maestri della pittura italiana, quali Giotto, Taddeo e Bernardo Daddi, e gli Orcagna (Andrea, Nardo e Jacopo di Cione). L’intervento ha riguardato in primo luogo il rinnovamento dei pannelli didattici delle opere esposte e dell’impianto d’illuminazione delle sale, nonché il riposizionamento di alcune opere.

Le novità Tra le novità spicca lo spostamento al centro della parete maggiore della sala di sinistra (arrivando dalla Tribuna del David) dell’imponente pala d’altare (350 x 190 cm) eseguita da Jacopo di Cione e dai

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In alto e in basso due immagini delle «Sale bizantine» della Galleria dell’Accademia nel loro nuovo allestimento. Vi sono esposti capolavori databili tra Due e Trecento.

suoi collaboratori nel 1372-1373: un «trasloco» operato per far sí che l’opera s’imponga subito all’occhio del visitatore. La stessa sala accoglie inoltre due dei dipinti piú celebri della Galleria, il Compianto sul Cristo morto firmato e datato 1365 da Giovanni da Milano, e l’affresco di Giotto di Stefano, detto Giottino, con la Madonna col Bambino in trono fra otto angeli e i santi Giovanni Battista e Bernardo, staccato fra Sei e Settecento dal tabernacolo all’angolo di piazza

Dove e quando

Galleria dell’Accademia Firenze, via Ricasoli 58-60 Orario ma-do, 8,15-18,50; lu chiuso Info tel. 055 2388612; www.polomuseale.firenze.it Prenotazioni Firenze Musei: tel. 055 294883

Santo Spirito, dove una data ne testimoniava l’esecuzione nel 1356. Tuttavia, le novità principali riguardano la sala di destra dedicata ai dipinti di Giotto e dei giotteschi, dove sono ospitate anche le celebri formelle quadrilobate dipinte da Taddeo Gaddi verso il 1340, appartenenti al ciclo delle storie parallele di Gesú e di San Francesco che decoravano il bancone della sacrestia della chiesa di S. Croce. (red.) febbraio

MEDIOEVO



Ante prima

Processo al tiranno

appuntamenti • Il paese di Castello Tesino

rievoca gli anni della tirannia di Biagio delle Castellare. Un’epoca di soprusi e angherie che, tuttavia, ebbe fine quando l’uomo voltò le spalle ai Carraresi, grazie ai quali aveva fino ad allora esercitato il suo potere

O

gni cinque anni, nelle due giornate consecutive del Martedí Grasso e del Mercoledí delle Ceneri, la comunità di Castello, Cinte e Pieve Tesino rievoca il processo al Biagio, il tiranno che, nella seconda metà del Trecento, vessò per nove anni la Valle del Tesino, oggi in provincia di Trento, ai confini con il Veneto. Si inizia il Martedí Grasso, quando un corteo storico in costumi del Trecento composto da armigeri, cavalieri, giudici e avvocati va alla ricerca del tiranno, dirigendosi a piedi lungo la strada del Murello verso Castel Ivano. La ricerca si conclude nel maniero di Ivano Fracena, nel quale vengono fatti prigionieri il Biagio, la moglie e i due figli. L’indomani, Mercoledí delle Ceneri, si svolge il processo.

Udienza in piazza La prima udienza si tiene nella piazza di Pieve Tesino, sul palco allestito sotto il Municipio Vecchio, un edificio risalente al XV secolo. Accanto alla corte e ai giurati, il cancelliere espone al pubblico gli antefatti storici e il pubblico ministero elenca le malefatte del tiranno, mentre un poco convinto avvocato difensore cerca di sostenerlo. Due testimonianze inchiodano il Biagio: un primo uomo racconta che una squadraccia del tiranno gli ha saccheggiato il patrimonio, un altro riferisce che la moglie ha dovuto soddisfare le sue voglie facendo valere lo ius primae noctis. Il processo viene poi spostato nella piazza di Castello Tesino, sul palco allestito di fronte

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Due immagini della manifestazione di Castello Tesino, in occasione della quale si rievocano il processo (in basso) e la messa a morte del tiranno Biagio delle Castellare. alla chiesa di S. Giorgio, dove il dibattito si conclude con le arringhe di accusa e difesa. Dopo la lettura della condanna a morte, un fantoccio effigie del Biagio viene impiccato nella forca allestita nella stessa piazza. La rievocazione – che quest’anno è in programma il 17 e 18 febbraio – si conclude con una sbigolada (una distribuzione gratuita di spaghetti) e un gran ballo finale.

Crudele e infido Nella realtà dei fatti, Biagio delle Castellare tiranneggiò per nove anni sulla bassa Valsugana e sulla Valle del Tesino, protetto dal nobile Francesco da Carrara. Diede prova della sua infamia soprattutto quando Rodolfo d’Austria dichiarò guerra ai Carraresi, ed egli si schierò con gli Austriaci, considerandoli piú potenti. Nel 1365, però, le truppe carraresi riconquistarono la Valsugana e catturarono Biagio, che era fuggito a Castel Ivano. I Tesini ne chiesero la consegna per giustiziarlo, ma Francesco da Carrara decise di tenerlo come prigioniero. Allora i valligiani inscenarono un processo in contumacia e sulla pubblica piazza eseguirono la sentenza di morte, impiccando un fantoccio al posto del tiranno. Tiziano Zaccaria febbraio

MEDIOEVO


Al galoppo contro... un tacchino appuntamenti • La cittadina

pugliese di Palo del Colle celebra il Carnevale con il Palio del Viccio, attraverso il quale si rinnovano i fasti di una lunga e nobile tradizione equestre, cominciata al tempo degli Sforza

C

orso Garibaldi, la strada principale del centro pugliese di Palo del Colle (in provincia di Bari), ogni anno, nel pomeriggio del Martedí Grasso (che quest’anno cade il 17 febbraio), è teatro del Palio del Viccio. Tra due balconi di questo viale viene tesa una corda, dalla quale anticamente pendeva un tacchino vivo, in dialetto locale «viccio», oggi rimpiazzato da una vescica piena d’acqua, che dev’essere perforata con una lancia da un cavaliere lanciato al galoppo (una tradizione descritta, in questo numero, anche nell’articolo alle pp. 48-61 e, in particolare, nel box a p. 57). Al Palio si cimentano a turno i cavalieri dei dieci rioni cittadini di Madonna della Stella, San Vito, Torre San Rocco, Castello, Ruga Piena, Casale dei Greci, Porta Reale, Contrada Auricarro, San Sebastiano e Lago San Giuseppe. In piedi sulle staffe, in difficile equilibrio, il cavaliere deve essere abile a coordinare la postura del proprio corpo con la velocità del cavallo su una strada in salita. In occasione del Palio del Viccio, viene proposto un ricco calendario di attività e spettacoli, che si svolgono negli ultimi quattro giorni di carnevale. Si inizia il sabato, con l’investitura dei cavalieri e l’apertura di un mercatino, animato da figuranti che

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Il momento clou del Palio del Viccio: in equilibrio sulle staffe, ciascun cavaliere cerca di colpire e bucare con la sua lancia la vescica piena d’acqua che ha preso il posto dell’originario tacchino. rievocano antichi mestieri, mentre alcuni punti ristoro propongono pietanze tipiche dell’età di Mezzo. La domenica mattina, in piazza Santa Croce, i dieci rioni cittadini si sfidano nei tradizionali giochi medievali, come l’albero della cuccagna, il tiro alla corda, la corsa con le botti e il tiro con l’arco.

Nel ricordo dei primi allevatori Nel pomeriggio della domenica e per tutta la giornata del lunedí vengono riproposti il mercatino, i punti ristoro e gli spettacoli di strada, poi il Martedí Grasso – come detto – è dedicato al Palio del Viccio, le cui origini risalgono al Medioevo e vengono ricondotte alle esibizioni degli allevatori di cavalli, tutt’oggi presenti sul territorio con varie scuderie. In particolare, il Palio viene

ricollegato a un antico allevamento avviato nel 1477 nella vicina Auricarro dal duca Sforza Maria Sforza e poi sviluppato da Ludovico il Moro, il quale – pur possedendo altre «difese» in varie città pugliesi e calabresi – aveva in Palo quella piú preziosa e rinomata per le razze pregiate dei cavalli. Si narra che quando Sforza Maria arrivò in visita a Palo del Colle, gli addestratori dei cavalli si esibirono in una corsa in salita lungo la strada che portava al castello. Ma se ciò spiega l’origine del torneo cavalleresco, il «viccio» è invece comparso in epoca successiva. Il tacchino, che giunse in Europa nel Cinquecento dopo la conquista del Messico, sua terra d’origine, ha probabilmente sostituito il gallo in questo rito. T. Z.

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Ante prima appuntamenti • Molte località

Tutti in maschera! A

dagiata nell’Inntal (la valle dell’Inn), nel cuore delle Alpi nord tirolesi, si trova la città-mercato di Telfs, una delle località piú suggestive di questa regione austriaca. Qui, ogni lustro, nell’ultima domenica di carnevale, va in scena il rito dello Schleicherlaufen, tra i piú interessanti dell’intero arco alpino, con maschere dai colori sgargianti, contraddistinte da caratteristiche ben precise. I protagonisti del corteo, gli Schleicher, indossano camicia e collare bianchi, una maschera che conferisce un aspetto giovanile al loro volto, un curioso copricapo coronato di fiori e un campanaccio appeso all’abito; sfilano accompagnati da una banda musicale, fermandosi ogni tanto fra la folla per dare vita al loro ballo tradizionale. Fra le altre maschere spiccano i Laninger, dodici cavalieri simboleggianti i mesi dell’anno, i Wilden, uomini selvaggi che indossano terrificanti maschere di legno e abiti rivestiti di

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licheni, gli orsi, le quattro stagioni e il Laternenträger, il portatore di lanterna. Tutte le maschere, impersonate da soli uomini, imperversano per l’intera giornata per il centro di Telfs.

Le prime testimonianze Varie sono le ipotesi sull’origine del Carnevale Schleicherlaufen, ma la teoria piú diffusa, secondo la quale si tratterebbe di un retaggio di antichi riti precristiani, trova sempre minor credito. I primi documenti in cui la festa viene citata risalgono al 1571, per cui si può ipotizzarne l’origine nei secoli precedenti, cioé nell’Alto Medioevo. Risale invece al 1830 la prima descrizione dettagliata degli Schleicher, poi rimasti sostanzialmente immutati fino ai giorni nostri. Dal 1890 il Carnevale Schleicherlaufen ha luogo ogni cinque anni: la prossima edizione è in programma domenica 15 febbraio. Migliaia di spettatori affollano il centro austriaco nel giorno della sfilata, per applaudire il passaggio e

del Tirolo austriaco festeggiano il Carnevale con riti folkloristici che hanno radici antiche. È il caso di Telfs, il cui sgargiante Schleicherlaufen affonda le sue origini nei secoli dell’Alto Medioevo

le danze inscenate dalle maschere. Il corteo si conclude con la sepoltura di Naz, la personificazione dello spirito carnevalesco. Durante tutto l’anno nella «Noaflhaus» di Telfs si può visitare il museo tematico dedicato alla tradizione del Schleicherlaufen, che nel 2010 è stata inserita dall’UNESCO tra i Patrimoni orali e immateriali dell’Umanità. Sempre in Tirolo si inscenano altri interessanti rituali carnevaleschi. A Nassereith si può assistere allo Schellerlaufen, una vivace sfilata prodotta con maschere facciali enormi. Ad Axams, ogni anno, il giovedí grasso, si effettua la Corsa dei Wampeler, giovani mascherati con cappelli neri e camice bianche imbottite (Wampeler nel dialetto locale significa «colui con la grossa pancia»), osteggiati da cavalieri che cercano di sporcarli di fango. A Imst va in scena lo Schemenlaufen, con figuranti coperti da maschere in legno che impersonano soggetti tratti da leggende locali. T. Z. febbraio

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Ante prima Farinata degli Uberti alla battaglia del Serchio, particolare. Olio su tela di Giuseppe Sabatelli (1813-1843). 1842. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna.


il nuovo dossier di medioevo

medioevo in guerra

Armi, scontri e assedi

Un viaggio affascinante attraverso gli eventi che hanno rivoluzionato la storia: le invasioni barbariche, le crociate, la Reconquista, le lotte per l’indipendenza, la faida tra guelfi e ghibellini, i conflitti svevo-angioini, le invasioni mongole e ottomane, la guerra dei Cent’anni...

L’

epopea delle battaglie medievali può essere riletta come un lungo romanzo storico che inizia con la disgregazione di un impero e si conclude con lo scontro tra grandi regni, preludio delle guerre moderne tra superpotenze europee. Numerosi e avvincenti sono i capitoli di questo turbolento racconto: le invasioni barbariche, la Reconquista spagnola contro l’occupazione araba, l’era delle crociate, i trionfi degli imperatori germanici, la nascita dei primi prototipi di Stati nazionali, la faida tra guelfi e ghibellini, le conquiste degli Angioini, l’espansionismo mongolo e ottomano e la celebre guerra dei Cent’anni tra Francesi e Inglesi. Il ricostruire in senso cronologico l’età di Mezzo e la sua complessità politica attraverso gli eventi bellici si rivela un’operazione ardita, ma allo stesso tempo stimolante, perché in grado di scoprire dove nascono i rancori che tuttora risultano radicati nella memoria collettiva di alcune nazioni. Il nuovo Dossier che «Medioevo» dedica alla guerra presenta anche numerosi approfondimenti sulle tattiche militari e sull’evoluzione degli armamenti. Il lettore potrà ammirare splendidi disegni ricostruttivi sulle strategie degli eserciti e sugli equipaggiamenti dei soldati, apprendendo con sorpresa che nell’età di Mezzo a vincere le battaglie, non di rado, furono le truppe peggio addestrate…


agenda del mese

Mostre

a cura di Stefano Mammini

Milano

Maya. Rivelazione di un tempo senza fine U Musée du quai Branly fino all’8 febbraio

Le dame dei Pollaiolo. Una bottega fiorentina del Rinascimento U Museo Poldi Pezzoli fino al 16 febbraio

I ritrovamenti a tutt’oggi effettuati nelle loro numerose città hanno permesso di ricostruire un profilo a tutto tondo dei Maya, rivelandone le mirabili architetture, la statuaria e, in generale, le notevoli capacità sviluppate nel campo della produzione artigianale. Di tutto

Organizzata con il sostegno di Fondazione Bracco, la mostra è stata ideata intorno al simbolo della casa museo di Via Manzoni: il prezioso Ritratto di Dama di Piero del Pollaiolo, fra i maggiori capolavori della ritrattistica della seconda metà del

parigi

questo e molto altro dà conto la nuova esposizione del Musée du Quai Branly, per la quale sono state riunite oltre 400 opere, capaci di destare un’ammirazione che possiamo immaginare simile a quella provata dai primi Occidentali che per primi ebbero modo di scoprirle. Un’ammirazione che, purtroppo, con Hernán Cortés e i suoi uomini non tardò a trasformarsi, tra il XVI e il XVII secolo, in cupidigia sfrenata, segnando la fine della grande civiltà precolombiana. info www.quaibranly.fr

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Quattrocento. Protagonisti della rassegna sono i quattro splendidi ritratti femminili, riferibili ad Antonio e Piero del Pollaiolo, riuniti per la prima volta nella loro storia uno accanto all’altro. Insieme alla dama del Poldi Pezzoli vengono presentati gli altri dipinti di donna attribuiti ai fratelli, provenienti da importanti istituzioni internazionali: la Galleria degli Uffizi di Firenze, la Gemäldegalerie di Berlino e il Metropolitan Museum of Art di New York. Oltre ai ritratti delle quattro dame

dedicati, tra i quali un Simposio Internazionale che si terrà martedí 13 gennaio 2015 nel Museo. info tel. 02 794889 o 796334; www. museopoldipezzoli.it torino

vengono esposti dipinti di medio e piccolo formato e altri capolavori della bottega di Antonio, prodotti della sua grande maestria: disegni, sculture in bronzo e terracotta, oreficerie e altre opere insolite e preziose (come uno scudo da parata e un crocifisso in legno di sughero). A corollario e a completamento della mostra sono previste molteplici iniziative diffuse sul territorio cittadino. Per il pubblico piú specialistico sono inoltre previsti momenti

Cavalli Celesti. Raffigurazioni equestri nella Cina antica U MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 22 febbraio

Il MAO celebra quello che, secondo il calendario cinese, è l’anno del cavallo, esplorando uno dei simboli della storia e della cultura del Paese asiatico, attraverso opere provenienti dalle collezioni del museo e da una raccolta privata torinese e databili tra l’XI secolo a.C. e il X secolo d.C. Emblemi di nobiltà, eleganza, velocità e potenza, i cavalli si sono arricchiti nel corso del tempo di

valenze soprannaturali ammantate di resoconti leggendari. Uno dei miti piú noti è proprio quello dei «Cavalli Celesti», straordinari destrieri capaci di trasportare chi li cavalcava nelle terre degli immortali. info tel. 011 4436928; e-mail: mao@ fondazionetorinomusei.it; www.maotorino.it parigi Viaggiare nel Medioevo U Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 23 febbraio

Allestita nel frigidarium delle antiche terme oggi comprese nel complesso del Museo di Cluny, la mostra evoca categorie diverse di viaggiatori – mercanti, pellegrini, principi, artisti – e indaga sulle motivazioni che li spinsero a lasciare le proprie dimore e la propria terra per lanciarsi in

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avventure che, in realtà, avevano inizio proprio nel cuore delle rispettive abitazioni. Il viaggio è dunque inteso nella sua accezione piú ampia: da quello simbolico, che poteva durare poche ore o consistere nel semplice attraversamento di una strada (come nel caso della sposa che, all’indomani delle nozze, s’insediava sotto il nuovo tetto coniugale), alle grandi spedizioni militari o scientifiche. Un’attenzione particolare è inoltre riservata alle peregrinazioni dei grandi artisti, sulle orme dei ripetuti viaggi compiuti da Albrecht Dürer tra la Germania e l’Italia. info www. musee-moyenage.fr San Secondo di Pinerolo (To) San Sebastiano. Bellezza e integrità nell’arte fra Quattro e Seicento U Castello di Miradolo fino all’8 marzo

Giovane soldato convertitosi al cristianesimo, Sebastiano fu condannato a morte da Diocleziano, ma nulla poterono le frecce: esse trafissero il suo corpo, ma non scalfirono la sua bellezza, la sua fede, la sua integrità fisica e morale. La purezza dell’anima e l’incrollabile fede si specchiano nella sublime bellezza del giovane corpo di Sebastiano, che

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fotografie d’epoca, dall’altro quella che narrano i capolavori pittorici tibetani databili tra l’XI e il il XVIII secolo, documenti di vita religiosa, interpretati alla luce della prospettiva storica. info tel. 06 46974832; www.museorientale. beniculturali.it new york la bibbia di winchester. un capolavoro dell’arte medievale U The Metropolitan Museum of Art fino al 9 marzo

rimanda a quello dell’Apollo pagano, ma che nella figura del martire si riveste di sacralità e di una luce di eternità. È proprio l’aurea di bellezza e intimo splendore che avvolge il corpo virile e nudo di Sebastiano ad aver catturato l’attenzione di tutti i piú grandi artisti, dal Rinascimento ai giorni nostri, che nel desiderio di sperimentare nuove accezioni del nudo maschile, partendo dai canoni classici, si sono cimentati nella raffigurazione del santo. In tal senso la storia dell’arte gli è debitrice di capolavori assoluti, declinati in un perfetto accordo tra fede, devozione, spiritualità e raffigurazione. info tel. 0121 376545; fondazionecosso.it

roma Alla scoperta del Tibet. Le spedizioni di Giuseppe Tucci e i dipinti tibetani U Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» fino all’8 marzo

La cultura tibetana e la sua tradizione artistica erano virtualmente sconosciute in Occidente fino alle otto importanti spedizioni condotte da Giuseppe Tucci, fondatore della moderna tibetologia, tra il 1926 e il 1948. Le sue ardite missioni sul «Tetto del Mondo», grazie anche alla sua profonda conoscenza della lingua e della cultura locale, possono essere considerate un lascito scientifico che ancora oggi è il fondamento delle ricerche su questo lontano Paese. I

materiali che egli selezionò con grande acume scientifico e raccolse con amorevole cura, furono portati in Italia, grazie alla benevolenza del governo locale, oggi accessibili al pubblico e agli studiosi nel museo che porta il suo nome. Due sono i filoni di indagine dell’esposizione: da un lato la storia delle esplorazioni di Giuseppe Tucci, cosí come la raccontano le

La magnifica Bibbia di Winchester – considerata uno dei capolavori dell’arte medievale del XIII secolo – è per tre mesi in trasferta a New York. Commissionato probabilmente da Enrico di Blois (vescovo di Winchester, nonché nipote di Guglielmo il Conquistatore), il manoscritto è il solo manufatto superstite del tesoro della cattedrale inglese. Si compone di quattro tomi, per un totale di 468 fogli, che furono scritti, in un arco di tempo di circa trent’anni, da un solo amanuense, accanto al quale lavorarono invece non meno di sei miniatori. info metmuseum.org milano Bramante a Milano. Le arti in Lombardia 1477-1499 U Pinacoteca di Brera, fino al 22 marzo

A cinquecento anni dalla

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agenda del mese linguaggio architettonico in Italia tra Quattro e Cinquecento. info tel. 02 72263.264 o 229; e-mail: sbsae-mi. brera@beniculturali.it; brera.beniculturali.it; prenotazioni tel. 02 92800361; pinacotecabrera.net

brescia Raffaello. Opera prima U Museo di Santa Giulia fino al 6 aprile

morte, Donato Bramante (1443/44-1514) viene celebrato con una mostra che nel tratteggiarne la poliedrica personalità («cosmografo, poeta volgare, et pittore valente… et gran prospettivo», lo dice fra’ Sabba da Castiglione) ricostruisce il suo lungo soggiorno in Lombardia e a Milano (almeno dal 1477 fino al 1499), e l’impatto che la sua opera ha avuto sugli artisti lombardi. Spirito inquieto e ingegnoso, Donato Bramante si è sicuramente educato alla corte dei Montefeltro a Urbino, dove è stato in contatto con gli architetti, gli scultori e i pittori attivi per il duca Federico. Piero della Francesca deve avere giocato un ruolo fondamentale nella sua formazione ma, rispetto all’impegno speculativo del pittore di San Sepolcro, in Donato ha prevalso un’attitudine pragmatica, da cui sono scaturite realizzazioni che hanno rinnovato il

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prima del maestro, la Pala Baronci, presentando l’Angelo della Pinacoteca insieme ad altri tre grandi lavori: l’Angelo dal Louvre di Parigi, il Padre Eterno e la Madonna dal Museo Nazionale di Capodimonte. Arricchiscono la mostra il magnifico disegno preparatorio dal Palais des Beaux Arts di Lille e la copia parziale di

Dopo aver ospitato le rassegne dedicate a Giorgione, Savoldo e fra’ Bartolomeo, il Museo di Santa Giulia ha scelto Raffaello per coronare un progetto espositivo ideato per rivivere il Rinascimento. La mostra riunisce per la prima volta i frammenti dell’opera

Ermenegildo Costantini (1791) dalla Pinacoteca di Città di Castello. La realizzazione del progetto ha segnato l’avvio dell’ultima fase del percorso che porterà alla riapertura della Pinacoteca Tosio Martinengo. info tel. 030 2977834; e-mail: santagiulia@ bresciamusei.com; rinascimento. bresciamusei.com Bologna Giovanni da Modena. Un pittore all’ombra di San Petronio U Museo Civico Medievale, Basilica di San Petronio fino al 12 aprile

Giovanni di Pietro Falloppi, meglio noto come Giovanni da Modena, è per la prima

volta protagonista di una rassegna monografica. Modenese di nascita, ma bolognese di adozione, l’artista fu autore della decorazione della Cappella Bolognini in S. Petronio (1411-12 circa), con Il Giudizio universale, Storie dei Magi e Storie di San Petronio, capolavoro assoluto della pittura tardo-gotica bolognese che, insieme alle altre testimonianze ancora presenti nella basilica, tra cui i grandi affreschi di significato allegorico nella Cappella dei Dieci di Balia (1420), costituirà un necessario completamento del percorso espositivo. Sarà l’occasione per mettere a confronto varie opere del pittore

mostre • In principio. Dalla nascita dell’Universo all’origine dell’arte U Novara – Complesso Monumentale del Broletto

fino al 6 aprile info tel. 199.15.11.15; e-mail mostrainprincipio@civita.it; www.mostrainprincipio.it

U

n percorso di milioni di anni alla scoperta del Big Bang e dell’impulso creativo, in cui convivono i disegni originali di Galileo Galilei e la rappresentazione del mito di Atlante nelle opere del Guercino, le teorie di Newton e il mito di Medusa. L’obiettivo è quello di interrogarsi, e provare a rispondere, alle domande che l’umanità si pone da sempre, costruendo narrazioni diverse, mutevoli e affascinanti dell’idea dell’origine del tutto. Da sempre l’uomo guarda l’immenso alla scoperta delle origini della vita. Siamo attratti dall’origine, vogliamo conoscere l’inizio: del cosmo, della vita, di una teoria o di un’opera d’arte. Da sempre cerchiamo di sondare l’immensamente grande e osserviamo

l’infinitamente piccolo per capire da dove veniamo e dove andiamo. Scienziati, pensatori, artisti e poeti hanno dato a loro modo risposte sorprendenti per colmare il nostro desiderio di conoscenza, alimentando dopo ogni scoperta, dopo ogni rappresentazione, nuove emozioni, nuovo stupore, nuove indagini e nuove immaginazioni. Il progetto espositivo originale In Principio, offre l’opportunità di indagare e cercare di comprendere l’origine del tutto in sette sezioni: domande fondamentali generano infatti risposte esemplari. Questa mostra parla di origini: la nascita dell’universo, la formazione della Terra e della Luna, l’origine della vita sul nostro pianeta. E poi, tra le tante specie viventi, l’arrivo della nostra con l’evoluzione di alcune “specificità” umane: il febbraio

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provenienti da musei e collezioni private – dipinti su tavola, affreschi e miniature – per ricostruirne il lungo periodo di attività, avviato all’inizio del XV secolo. info tel. 051 2193930; e-mail: museiarteantica@ comune.bologna.it Gambettola (FC) Dalla fattoria al Palazzone. Storie di Gambettola U Biblioteca Comunale fino al 3 maggio

La costruzione di un parcheggio nella

cittadina romagnola ha recentemente portato alla scoperta dei resti di un’antica fattoria costruita alla metà del Quattrocento, raro caso di edificio rurale di età rinascimentale. Dal suo scavo nasce questa mostra che espone ceramiche cinquecentesche, rinvenute perlopiú in una piccola cisterna utilizzata prima per la raccolta dell’acqua piovana e poi come discarica. Piatti, ciotole e boccali facevano parte del servizio da tavola mentre

linguaggio e la parola, l’arte e il mondo simbolico. La mostra è un viaggio immersivo in sette ambienti all’interno dei quali ogni contenuto potrà essere approfondito a diversi livelli, grazie alla presenza di numerosi stimoli visivi e sonori. Sette interviste ai maggiori esperti delle diverse discipline accompagnano il visitatore di sezione in sezione, approfondendo in modo sempre divulgativo alcuni concetti portanti: dalla formazione delle galassie e dei pianeti, a quella degli esseri viventi, dalla nascita e diffusione delle lingue, all’origine delle emozioni e dei miti, fino all’emergenza delle prime manifestazioni artistiche, dalle pareti di una grotta alle sale museali. Il Broletto di Novara è un complesso architettonico medievale costituito da quattro costruzioni perimetrali a un cortile e realizzate in epoche diverse: Palazzo dell’Arengo, Palazzo dei Paratici, Palazzo dei Referendari, Palazzo del Podestà. Si trova nel cuore della città a pochi passi dal Duomo, e vi si accede tramite un passaggio ad

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le pentole e i coperchi in ceramica grezza erano usati in cucina per la cottura e preparazione dei cibi. Le porcellane da mensa hanno decori brillanti di colore giallo/ arancio e azzurro/blu, con fogliame su fondo berettino o repertori di candelabri e robbiane. info tel. 0547 45338; e-mail: biblioteca@comune. gambettola.fc.it ginevra I sovrani moche. Divinità e potere nell’antico Perú U Museo Etnografico fino al 3 maggio

Tra i I e l’VIII secolo i Moche diedero vita a uno Stato vero e proprio, vale a dire a un’organismo sociale, politico ed economico centralizzato e

gerarchizzato, pur senza avere sviluppato le principali innovazioni tecniche e intellettuali che solitamente vengono legate all’emergere delle prime civiltà «statali»: la moneta, la scrittura, l’economia di mercato, il sistema stradale… Un «controsenso» affascinante, analizzato e riccamente documentato nella mostra scelta per festeggiare l’apertura del nuovo Museo di Etnografia di Ginevra. Per l’occasione sono stati selezionati oltre 300 reperti, tra i quali spicca il corredo funerario del «Signore di Ucupe», un funzionario di alto rango vissuto nel V secolo. info www.meg-geneve.ch

arco da Piazza della Repubblica e un secondo arco da Corso Italia. Da sempre fulcro della vita civile di Novara, il Broletto, accoglie oggi, dopo un radicale restauro realizzato in occasione del 150° dell’Unità d’Italia, la prestigiosa Galleria Giannoni, composta da centinaia di dipinti e opere di artisti italiani di fama internazionale.

Bondeno (FE) Acque e bonifiche a Bondeno dal Neolitico ad oggi U Centro Sociale 2000 fino al 31 maggio

In una Regione dove da circa 3500 anni – come ci insegna la grande vasca lignea terramaricola rinvenuta a Noceto (PR) –, trattenere e rilasciare l’acqua ha rappresentato un fattore fondamentale per l’economia e la vita, oltre che una sfida strategica per la tecnologia, la mostra Aquae ricorda la centralità di questo rapporto. Il percorso inizia con un inquadramento storicoambientale del paesaggio padano nelle età precedenti la romanizzazione della pianura, prosegue con un approfondimento nell’età romana con la ricostruzione di una porzione di acquedotto romano e una visione d’insieme della centuriazione, passando poi all’età medievale. Ricca è la documentazione archivistica che attesta l’organizzazione e il controllo delle acque nei territori attualmente localizzati alla destra e alla sinistra del Panaro con pannelli e mappe di grande formato, con testi che riportano ad esempio il trattato stipulato nel 1487 fra Giovanni II Bentivoglio e Ercole I d’Este per la realizzazione della prima imponente opera di bonifica idraulica, il

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agenda del mese dal Quattrocento al Novecento in pittura, lungo il suo versante struggentemente serale e notturno. Quella in cui alcuni artisti raffigurano una manciata di stelle o un chiaro di luna, come profonde corrispondenze dell’anima. Ma anche la notte come luogo nel quale si raccolgono alcuni grandi passaggi della storia dell’arte.

mentre la quarta si sofferma sul paesaggio, dal momento del tramonto fino a quello in cui nel cielo si levano la luna e le stelle. Chiudono il percorso il pieno Novecento e un riassunto di tutti i temi affrontati, affidato a dipinti di Gauguin, Cézanne, Caravaggio, Luca Giordano e altri grandi maestri. info Linea d’ombra, call center 0422 429999; www.lineadombra.it

Oltre 100 opere, spesso rare, divise in sei sezioni e provenienti da trenta musei e collezioni di tutto il mondo, musicano questo affascinante racconto sinfonico. Un poema che inizia lungo il Nilo, dove si sedimenta l’idea della notte del mondo oltre il mondo e continua con opere di Giorgione, Caravaggio, Tiziano, El Greco... Nella terza sezione si confrontano Rembrandt e Piranesi,

Reggio Emilia

Cavamento Foscaglia meglio noto come Collettore delle Acque Alte. Vengono poi illustrate le diverse gestioni territoriali delle acque a sinistra del Panaro nel corso del tempo, portando il visitatore a conoscenza del sistema dei «serragli», sistema difensivo utilizzato nelle diverse corti dai Pico o dai Gonzaga che consentivano di arginare l’invasione delle acque. info tel. 051 6871757 vicenza TUTANKHAMON CARAVAGGIO VAN GOGH. La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento U Basilica Palladiana fino al 2 giugno

Quella allestita nella Basilica Palladiana vuole essere un’esposizione di capolavori, sensazioni, emozioni e simboli, indagando una vicenda antica, quella degli Egizi, ma soprattutto poi una seconda storia,

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PIERO DELLA FRANCESCA. Il disegno tra arte e scienza U Palazzo Magnani fino al 14 giugno (dal 14 marzo)

Attorno al Maestro di Sansepolcro aleggia da sempre un velo di mistero e di enigmaticità dovuto sia ai pochi documenti che lo riguardano, sia alla singolarità del suo linguaggio espressivo che coniuga, magicamente in

equilibrio perfetto, la plasticità e la monumentalità di Giotto e Masaccio con una straordinaria capacità di astrazione e sospensione. Un’essenzialità e purezza di forme che trovano fondamento nei suoi interessi matematici e geometrici mirabilmente espressi nei trattati che ci ha lasciato: l’Abaco, il Libellus de quinque corporibus regularibus, il De Prospecitva pingendi e il da poco scoperto Archimede. Ed è proprio su questi preziosi testimoni dell’opera scritto-grafica di Piero, in specie sul De prospectiva pingendi, che la mostra di Palazzo Magnani prende corpo. L’esposizione presenta la figura del grande artista nella sua doppia veste di disegnatore e grande matematico. Per l’occasione è riunito a Palazzo Magnani – fatto straordinario, per la prima volta da mezzo millennio – l’intero corpus grafico e teorico di Piero della Francesca: i sette esemplari, tra latini e volgari, del De Prospectiva Pingendi (conservati a Bordeaux, Londra, Milano, Parigi, Parma, Reggio Emilia) i due codici dell’Abaco (Firenze), il Libellus de quinque corporibus regularibus (Città del Vaticano) e Archimede (Firenze). info tel. 0522 454437 o 444446; e-mail: info@ palazzomagnani.it

conegliano Carpaccio. Vittore e Benedetto da venezia all’Istria. L’autunno magico di un maestro e la sua eredità U Palazzo Sarcinelli fino al 28 giugno (dal 7 marzo)

La mostra indaga e illustra gli ultimi dieci anni dell’attività di Vittore Carpaccio (dal 1515 al 1525 circa), considerato il piú grande narratore, «teatralizzatore» e vedutista ante litteram nella pittura veneziana, anni che sono segnati da un’importante svolta nella sua poetica. Per l’occasione, sono state riunite opere di grandissima qualità e originalità, dipinti celebri da ritrovare come il San Giorgio che lotta con il drago di S. Giorgio Maggiore, la Pala di Pirano, il Polittico da Pozzale del Cadore, o la particolarissima Entrata del podestà Contarini a Capodistria che, nella prospettiva adottata, consente allo spettatore un insolito e realistico sguardo sulla città; opere da riscoprire come le clamorose portelle d’organo dal Duomo di Capodistria o il bellissimo Trittico di S. Fosca ricomposto per la prima volta dopo cinquant’anni, in collaborazione con Permasteelisa Group, da Zagabria, Venezia e Bergamo in occasione della mostra; e ancora dipinti da scoprire, di fatto mai visti, come la novità assoluta del febbraio

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formazione • Master universitari in didattica e divulgazione U Ferrara – Università degli Studi, Laboratorio di Antichità e Comunicazione

info tel: 0532 455236 (attivo lu-ma, 9,00-13,00 e 14,00-18,00); cell. 389 0742424; e-mail: lac@unife.it

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l Laboratorio di Antichità e Comunicazione (L.A.C.) dell’Università degli Studi di Ferrara ha attivato anche quest’anno il master di I Livello in «Esperto in Didattica dei Beni Culturali», che consta di due curriculum: «Didattica dell’Antico» e «Didattica Museale». Il master intende formare figure professionali nel campo della didattica, della comunicazione e della divulgazione dei beni culturali. Lo stage, di 300 ore, si potrà svolgere presso siti, musei, enti, istituzioni, agenzie e aziende culturali. Il master sarà di complessivi 60 CFU, di cui 12 di stage presso editori e redazioni. Lo stesso L.A.C. ha inoltre attivato, per l’anno accademico 2014/2015, il primo master «Divulgare e comunicare l’antichità e i beni culturali», che intende formare figure professionali che possano operare in ambito radiotelevisivo, nell’editoria, nelle redazioni di quotidiani e periodici. Gli insegnamenti del master saranno tenuti da noti divulgatori della televisione e della radio e da scrittori e giornalisti delle piú importanti case editrici e riviste specializzate nel settore. Il master sarà di complessivi 60 CFU, di cui 12 di stage presso editori e redazioni.

Appuntamenti

Bassano del Grappa Padre eterno tra i cherubini da Sirtori (Lecco). info tel. 199 151 114; www.mostracarpaccio.it Parigi I Tudor U Musée du Luxembourg fino al 19 luglio (dal 18 marzo)

Fra le dinastie succedutesi sul trono inglese, quella dei Tudor, al potere tra il 1485 e il 1603, è una delle piú note. Ne fecero parte personaggi che hanno vissuto vicende quasi leggendarie – basti pensare a Enrico VIII –, ma che non devono però oscurare i non

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pochi meriti acquisiti nell’attività politica e culturale. È questo il filo conduttore della mostra al Musée du Luxembourg, che vuole dunque presentare il vero volto dei Tudor, ai quali si devono, per esempio, importanti commissioni in campo artistico – molte delle quali affidate ad artisti chiamati dall’Italia – o significative scelte di campo in materia religiosa, prima fra tutte la decisione di rompere con la Chiesa cattolica romana, determinando il cosiddetto «scisma anglicano». info www. museeduluxembourg.fr

Matilde di Canossa. La «gran contessa» e del suo tempo U Istituto Scalabrini 21 febbraio, 7 e 21 marzo

Questi i prossimi incontri organizzati dall’associazione: 21 febbraio, Matilde com’era: nella vita privata, nelle amicizie,nella politica, nelle sue piú intime aspirazioni religiose (Paolo Golinelli); 7 marzo, La cosiddetta «architettura matildica»: viaggio alla ricerca di una comune identità nel nome di Matilde (Danilo Morini); 21 marzo, «Alla sapiente, nettarea Matilde»: comunicazione letteraria

e rappresentazione principesca di Matilde di Canossa (Eugenio Riversi). info tel. 0444 1801049; e-mail: info@ ponziodicluny.it, segreteria@ponziodicluny. it; ponziodicluny.it milano Medioevo in libreria, XIII Edizione: «Fede e devozione nel Medioevo» U Civico Museo Archeologico di Milano, Sala Conferenze 14 febbraio, 14 marzo

L’iniziativa prevede visite guidate al mattino, proiezioni e conferenze al pomeriggio. Ogni incontro pomeridiano ha luogo, con inizio alle ore 15,30, presso la Sala Conferenze del Civico Museo

Archeologico di Milano e si apre con la proiezione di Medioevo Movie. Viaggio nel Medioevo filmato (a cura di Italia Medievale). Questi i prossimi appuntamenti: 14 febbraio, ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Maria Incoronata e Biblioteca Umanistica, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Marina Benedetti, Università degli Studi, Milano: I margini dell’eresia. 14 marzo, ore 11,00: visita guidata a S. Pietro in Gessate, a cura di Maurizio Calí. Ore 16,00: Laura Fenelli, Kunsthistorisches Institut di Firenze: Dall’eremo alla stalla. Storia di Sant’Antonio Abate e del suo culto. info tel. 02 45329840; e-mail: info@ italiamedievale.org; italiamedievale.org; medioevoinlibreria. blogspot.it/

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attualità islam

Un mondo di Marco Di Branco

senza

immagini? I terribili fatti di cronaca dello scorso gennaio hanno riacceso il dibattito su quale sia la vera natura dell’ideologia islamica in merito all’utilizzazione delle immagini. Una questione troppo spesso sbrigativamente liquidata, bollando come «iconoclasta» una cultura che, a ben vedere, non è mai stata veramente tale... 28

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L L’

assassinio di vignettisti e giornalisti del settimanale satirico francese Charlie Hebdo, avvenuto a Parigi il 7 gennaio 2015, per mano di musulmani fondamentalisti, desiderosi di punire l’«empietà» di alcune vignette pubblicate dal periodico, ci impone, in primo luogo, di solidarizzare con le vittime di questo atroce attentato. E tuttavia, come ha scritto all’indomani dell’evento Claudio Lo Jacono, direttore dell’Istituto per l’Oriente «Carlo Alfonso Nallino» e uno dei piú importanti islamisti italiani, alla condanna del folle gesto e alla solidarietà «si deve accompagnare un esame il piú possibile attento e preciso dei motivi», aggiungendo che sarà «opportuno vigilare affinché le prevedibili reazioni a una cosí sanguinosa offesa sappiano colpire esclusivamente gli assassini e i loro mandanti interni ed esterni, e non gli incolpevoli fedeli d’una fede che non autorizza in alcun modo terrorismo e ottusa violenza».

Un rapporto complesso

Le vignette satiriche sul Profeta dell’Islam comparse per la prima volta alcuni anni fa su vari quotidiani europei, e pubblicate in piú occasioni dallo stesso Charlie Hebdo, oltre a suscitare la protesta di un gran numero di musulmani in tutto il mondo, hanno provocato in Occidente, come «effetto collaterale», il riaccendersi della curiosità sul tema, affascinante, del ruolo e della liceità delle immagini nel mondo islamico. Chiunque abbia visitato una moschea sa bene come si tratti di luoghi privi di immagini sacre, e come, in generale, non vi si trovino rappresentazioni di esseri viventi; tuttavia, la consapevolezza di questa diffidenza per le immagini – che l’Islam peraltro condivide con l’ebraismo – è spesso fonte di equivoci. Per esempio, si ritiene comunemente che il divieto delle immagini

sia connesso con lo «spirito semitico», senza considerare che questo stesso «spirito» si è espresso nella creazione di grandi correnti artistiche ricche di rappresentazioni di esseri animati: si pensi all’arte assiro-babilonese, all’arte palmirena e a quella dei Nabatei di Petra. L’avversione per le icone non è, dunque, una caratteristica dei popoli semitici: lo fu, tutt’al piú, di una loro piccola parte – gli Israeliti – e, anche in questo caso, per un periodo limitato della loro storia. Un punto fondamentale è invece quale sia stata l’attitudine dell’Islam primitivo, e soprattutto quella del Profeta, rispetto ai monumenti figurati. In effetti, Maometto non fu quel feroce iconoclasta dipinto dalla tradizione, e nel Corano non troviamo una chiara condanna delle immagini. Solo un passo del libro sacro dell’Islam lascia dei dubbi: «astenetevi dalla contaminazione degli awtan, astenetevi dal discorso mendace!» (XXII 30). Qui, infatti, non sappiamo con certezza se intendere il termine awtan come «immagini» o «idoli». In ogni caso, sarebbe inutile cercare nel Corano la precisa interdizione delle immagini che troviamo invece nell’Antico Te-

In alto penne in bambú per l’esecuzione di calligrafie. Le punte degli strumenti conservano tracce di inchiostro blu e nero. Nella pagina accanto Granada. Particolare della decorazione di una nicchia dell’Alhambra, con elaborate calligrafie e motivi ornamentali in stucco. XIV sec.

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attualità islam Nella pagina accanto Bamiyan (Afghanistan). La nicchia in cui si ergeva una delle statue colossali del Buddha, distrutte con l’esplosivo da fanatici talebani nel marzo 2001. A sinistra pittura murale di epoca fatimide, da Fustat, la prima città di fondazione islamica in Egitto, oggi un quartiere del Cairo. X-XII sec.

stamento (Deuteronomio V 8): «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassú in cielo né di ciò che è quaggiú sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a quelle cose e non le servirai».

I pittori di Medina

Nel Corano, inoltre, non v’è traccia di divieti nei riguardi delle rappresentazioni profane, e infatti nell’Islam primitivo abbondano oggetti e ornamentazioni figurate: la tradizione ci parla di pittori che decoravano le case di Medina – la città in cui Maometto si era rifugiato al momento dell’ègira (622 d.C.), facendone la sua capitale – e nell’epoca del califfato omayyade (661750 d.C.) grandi cicli pittorici ornavano le sontuose residenze dei sovrani, quei «castelli del deserto» resi celebri dalle descrizioni di Lawrence d’Arabia nei Sette pilastri della saggezza. Ancora oggi, a Qusayr ‘Amra, nella steppa che circonda Amman, la capitale della Giordania, è possibile visitare un palazzo risalente all’epoca omayyade, in cui è conservato uno splendido ciclo di dipinti, oggi sotto la protezione dell’UNESCO, che è stato recentemente al centro di un accurato restauro da parte di una missione italiana diretta da Giovanna De Palma (vedi box a p. 33). In questi stessi palazzi gli archeologi hanno anche rinvenuto statue

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il primo califfo; e di un altro commerciante di Mecca, il quale, durante un viaggio in Siria, sarebbe stato condotto in una casa decorata da pitture, e avrebbe identificato fra esse l’immagine del Profeta. Narrazioni come queste, se pure appartengono a quel particolare tipo di letteratura il cui scopo principale era di fornire ogni sorta di prove della missione profetica di Maometto, sono comunque di notevole antichità e rivelano un mondo saturo di immagini a carattere religioso, facendo balenare la possibilità che raffigurazioni del Profeta – ben attestate, in epoche piú recenti, in molte regioni del mondo islamico – fossero presenti, in contesti di tipo privato, anche nel periodo iniziale dell’Islam.

Iconoclastia islamica

che rappresentano i califfi o forse i grandi personaggi della storia islamica. Fra i musulmani era diffusa anche l’arte del ritratto: le prime monete da loro coniate – che imitano i tipi persiani e bizantini – recavano infatti la figura del sovrano armato di spada. Nei primi secoli dell’Islam esistevano infine numerosi racconti relativi alla diffusione delle immagini del Profeta: in uno scritto sui «segni della profezia» dell’erudito

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musulmano Abu Bakr Ahmad bin al-Husayn al-Bayhaqi – attivo nella prima metà dell’XI secolo d.C. – al capitolo intitolato «Ciò che è noto riguardo all’immagine (sura) del Profeta Maometto e a proposito delle immagini dei Profeti che lo hanno preceduto in Siria», l’autore narra, per esempio, di un mercante meccano contemporaneo del Profeta che, in un monastero di Bosra, avrebbe avuto modo di vedere le immagini dipinte di Maometto e di Abu Bakr,

Tuttavia, già nei primi decenni dell’VIII secolo si era verificato un importante episodio di iconoclastia islamica, provocato da un decreto del califfo omayyade Yazid ibn ‘Abd al-Malik: dovette trattarsi di un provvedimento territorialmente limitato ed esplicitamente anticristiano, inquadrabile nel piú vasto contesto delle teorie iconoclastiche elaborate in àmbito ebraico e bizantino. La vera svolta nell’atteggiamento islamico nei confronti dell’immagine si ha però con l’avvento della nuova dinastia che alla metà dell’VIII secolo sostituisce gli Omayyadi alla guida dei musulmani: gli Abbasidi. Costoro spostano la capitale dell’impero da Damasco alla Mesopotamia, dove fondano Baghdad, e rompono, sia dal punto di vista politico-amministrativo sia dal punto di vista artistico, con la tradizione ellenistico-romana, guardando piuttosto all’eredità persiana. In questo periodo prende forma quella grande opera di raccolta di tradizioni riguardanti Maometto che, insieme allo stesso Corano e al consenso della comunità,

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attualità islam

costituiscono le fonti della teologia e della legge islamica. In tali tradizioni l’atteggiamento nei confronti delle immagini è fortemente negativo: secondo alBukhari, curatore, attorno al IX secolo, di una monumentale silloge di «detti e fatti del Profeta dell’Islam», Maometto avrebbe espresso una ferma condanna della pittura, affermando che nel Giorno del Giudizio gli artisti sarebbero stati puniti da Dio nel modo piú severo, in quanto usurpatori della funzione creativa spettante appunto solo ed esclusivamente al Creatore. Il passo successivo è la formalizzazione del divieto assoluto di produrre o uti-

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lizzare immagini, perché «gli angeli non entreranno in una casa dove c’è un dipinto», e perché coloro che le creano «mentono contro Dio e sono suoi nemici». Questo divieto tradizionale non fu comunque sempre rispettato e i giuristi stessi escogitarono vari accomodamenti: in molte regioni del mondo musulmano sovrani e ministri amanti delle arti promossero la creazione di opere pittoriche di notevolissimo livello, un’eco delle quali si ritrova nelle splendide miniature che, soprattutto a partire dal X secolo, illustrano i manoscritti islamici in lingua araba, turca e persiana, in cui ampio spazio è dato al

racconto visivo delle vicende biografiche del Profeta dell’Islam e della sua famiglia.

Polemiche e distorsioni

Le vicende relative al rapporto dell’Islam con la sfera delle immagini sono dunque assai complesse e, in larga misura, non riconducibili alle categorie del pensiero artistico occidentale. Nei nostri mezzi di comunicazione di massa, che si sono ampiamente occupati del problema in occasione dell’affaire delle vignette, si è invece imposta una lettura semplicistica e fuorviante, imperniata su un’astratta – e incongrua – polarizzazione tra Islam «massimalista» e febbraio

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Qusayr ‘Amra

Musicanti e ballerine

In alto Qusayr ‘Amra (Giordania). Particolare delle pitture che ornano le volte dell’edificio, realizzato nell’VIII sec., per volere del califfo omayyade Al-Walid I.

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Lo straordinario «ciclo» pittorico della residenza omayyade di Qusayr ‘Amra, circa 80 km a est di Amman, costituisce un vero e proprio enigma iconografico che, fin dalla sua scoperta casuale, nel giugno del 1898, non ha mancato di stimolare l’acume e la fantasia degli studiosi. Vi spiccano scene di vita di corte e di vita quotidiana, rappresentazioni di re e di profeti, immagini di musicanti e di ballerine discinte. Alle difficoltà implicite nei caratteri del monumento – quasi un unicum nella storia dell’arte islamica – si sono presto uniti gravi problemi di conservazione dei dipinti, in parte causati anche dagli improvvidi tentativi dello scopritore, Alois Musil, di rimuoverne alcune parti: i restauri spagnoli dell’équipe di Martín Almagro, condotti negli anni Settanta del secolo scorso, sono infatti valsi ad arrestare l’incalzante degrado della pellicola pittorica, non certo a riportarla alle condizioni in cui si trovava al momento della scoperta, alterando anzi il dato iconografico con integrazioni non sempre pertinenti; al contrario, il recente intervento italiano di restauro, guidato da Giovanna De Palma, ha permesso il recupero di alcune scene e di molti dettagli già visibili al tempo di Musil.

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Qui sopra e in alto ancora due particolari dei dipinti che ornano le pareti della residenza omayyade di Qusayr ‘Amra.

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attualità islam Quando il Profeta indossa il velo Il Corano non vieta esplicitamente le immagini, e tanto meno vieta di rappresentare il Profeta; tuttavia, esistono alcuni hadith (tradizioni riportate da dotti musulmani con valore giurisprudenziale) che proibiscono di raffigurare qualsiasi essere vivente, compresa, ovviamente, la figura di Maometto. La preoccupazione principale di questi dotti è che le immagini possano incoraggiare l’idolatria. Nell’arte islamica, alcune immagini ritraggono il Profeta dell’Islam con il volto velato (come nella miniatura con l’arcangelo Gabriele che gli rivela la sura 8 del Corano, riprodotta qui a destra e conservata al Museo del Louvre di Parigi) oppure attraverso il simbolo di una fiamma, anche se non mancano miniature in cui se ne propone la raffigurazione umana senza lo schermo di velature o simboli.

In alto miniatura raffigurante Maometto (a destra), che, sul cavallo fantastico Buraq, sorvola il Mar Nero, guidato dall’arcangelo Gabriele (al centro), dal Miraj-nâmeh (Libro dell’ascensione del Profeta). 1436. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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«progressista». Secondo alcuni intellettuali, anche musulmani, operanti in Occidente, nella controversia sulle immagini una parte del mondo islamico avrebbe fatto prevalere un’interpretazione «massimalista», vietando anche la raffigurazione iconica del Profeta, e indirettamente ponendo un blocco su tutta la creazione artistica nell’Islam. Nei periodi di ripiegamento dell’Islam o di irrigidimento delle società musulmane,

tali questioni diverrebbero facilmente anche questioni politiche. Questa ricostruzione, oltre a essere palesemente errata dal punto di vista storico (basti ricordare che l’ostilità nei confronti delle immagini si afferma in uno dei periodi di maggior fioritura culturale dell’Islam, e che se a tale ostilità si è talvolta derogato nella pratica, nessun musulmano, per quanto «progressista», ha mai esplicitamente teofebbraio

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rizzato la liceità delle immagini in campo religioso), è del tutto priva di fondamento anche per ciò che concerne la storia dell’arte: lungi dal costituire un blocco su tutta la creazione artistica, il particolare rapporto dell’Islam con l’iconografia ha invece rappresentato uno stimolo straordinario alla nascita di forme artistiche originali quali la calligrafia o l’arabesco, nel quadro di una contrapposizione fra spazio

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pubblico, rigorosamente non figurativo, e spazio privato, dove le immagini possono invece dispiegarsi liberamente.

Un compito arduo

Nel tentativo di autoaccreditarsi come critici di ogni fondamentalismo, tali commentatori tendono purtroppo a ingabbiare la millenaria vicenda islamica in schemi rozzi e prevedibili che poco hanno a che

fare con l’autentica ricerca storica, e si avvicinano pericolosamente alla propaganda. Se si vuole lavorare per la pace e la comprensione reciproca è invece necessario andare oltre le facili banalizzazioni e riscoprire le sfumature e le complessità: si tratta di un compito arduo, ma, come soleva dire il Profeta Maometto, è nostro dovere seguire la via della scienza, dovessimo per questo andare fino in Cina. F

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la guerra nel medioevo/1

Contro i barbari

di Federico Canaccini

Fin dall’antichità, l’esperienza della guerra è stata dai piú deprecata come «scienza della distruzione». Tuttavia, non pochi intellettuali, fanatici o estremisti, hanno visto in essa una potenza purificatrice: per Eraclito il polemos era «il padre di tutte le cose e di tutti i re», per sant’Agostino la violenza era legittimata ai fini dottrinali, san Tommaso teorizzò la «guerra giusta», infine, fu «unica igiene del mondo» per Tommaso Marinetti. Ma Platone scriveva che «solo i morti hanno visto la fine della guerra» e gli avvenimenti dei nostri giorni sembrano purtroppo dargli ragione...

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li eventi succedutisi nel Novecento hanno dato un grande impulso alla ricerca di una pace nel mondo, un obiettivo effimero, che l’uomo sembra incapace di perseguire. Ciononostante, nel dramma della violenza, della barbarie e della guerra, siamo costretti a rinvenire l’evoluzione della tecnica e della scienza, volta però alla morte e allo sterminio. Nel condannare con forza la guerra , si deve dunque registrare che, nel corso dei millenni, l’uomo ha perfezionato l’arte militare, passando dal lancio delle pietre alle frecce, dalla catapulte alle balestre, dall’onagro al fucile. In cinque appuntamenti tenteremo qui di ripercorrere le vicende che accompagnarono i dieci secoli del Medioevo, durante i quali l’arte della guerra subí, come in altre epoche, variazioni, trasformazioni ed evoluzioni a volte paradigmatiche. Inizieremo dal confronto-scontro tra Roma e i Ger-

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mani, per poi soffermarci sul successo di questi ultimi, con la realizzazione dei regni romano-barbarici. Seguendo diacronicamente i secoli medievali, giungeremo a un altro grande incontro-scontro: quello con l’Islam, celebrato dalle spedizioni armate, note con il nome di crociate. Superando l’anno Mille, incontreremo nuove realtà, quali i Comuni e le città, in sanguifebbraio

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noso contrasto con re, papi e imperatori. Infine, con la nascita dei regni nazionali, verremo a conoscenza delle lotte di cui l’Europa fu teatro, alla fine del Medioevo. Ogni puntata conterrà un approfondimento sulle armi e sugli armati, sulle tattiche, su alcuni protagonisti e sarà brevemente descritto un episodio militare, esemplare per il periodo o l’argomento trattati.

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Particolare del sarcofago noto come Grande Ludovisi, con scene di battaglia tra Romani e barbari. III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps. I rilievi, disposti su tre registri, raffigurano nella parte alta i vincitori, al centro i combattenti e, in basso, i barbari vinti.

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la guerra nel medioevo/1 INVASIONI BARBARICHE E REGNI ROMANO - GERMANICI (IV-VII secolo) PITTI M ARE DEL NORD

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Come poté la macchina militare romana, che aveva conosciuto secoli di successi incontrastati, essere piegata dai popoli germanici, quei barbari che, già dal IV secolo, sembravano minacciare i confini della Romanitas? Quali dinamiche portarono a ripetute sconfitte e alla scomparsa dell’impero? «L’impero romano è premuto da ogni lato dalle urla furibonde delle tribú dei barbari, la cui astuzia minaccia le sue frontiere da ogni fronte». Cosí un anonimo descrisse le condizioni dell’impero nella seconda metà del IV secolo e, dopo un trentennio, la situazione non era affatto migliorata. San Girolamo, infatti, in una lettera scriveva: «Non posso neppure elencare senza orrore tutte le calamità che attanagliano il nostro tempo. Da venti e piú anni, da Costantinopoli alle Alpi Giulie, scorre sangue romano. Le province dei Balcani e dell’Europa

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centrale sono in preda ai Goti, ai Sarmati, ai Quadi, agli Alani, agli Unni, ai Vandali, ai Marcomanni che le devastano, le straziano e le depredano».

Il ritiro dalla Britannia

La relativa quiete del III secolo, garantita dalle riforme dell’imperatore Diocleziano, da una serie vittorie militari e dalla scelta di abbandonare alcune aree seriamente minacciate (parte dell’Africa, la Dacia, gli Agri Decumati, comprendenti all’incirca i territori posti a est del Reno, nord del Danubio e a sud del fiume Meno), fu solo il segnale di decisioni ben piú serie e drastiche, prese nel corso del IV secolo e sancite nel 407 dalla scelta di Costantino III di abbandonare la Britannia, lasciando che i Bretoni «vivessero a modo loro, senza seguire il costume romano» e si difendessero dalle minacce oramai febbraio

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Principali migrazioni dei popoli barbari

Situazione politica all’anno 476 Unni Alani, Vandali e Suebi Ostrogoti Visigoti Franchi Burgundi Alamanni Angli, Sassoni e Juti Pitti e Scoti Longobardi Britanni Razzie e spedizioni marittime di deiVandali Vandali Impero Romano tempo romano alal tempo di Diocleziano (284-305) Divisione dell’Impero dell’impero da parte di Teodosio (395)

M A R

N E R O Trebisonda

Costantinopoli

In basso Roma. Uno dei rilievi di età traianea (II sec. d.C.) riutilizzati nella decorazione dell’arco di Costantino che raffigura lo stesso Traiano alla guida delle truppe contro i barbari. Il monumento fu solennemente dedicato dal Senato all’imperatore «cristiano» all’inizio del suo decimo anno di regno, il 25 luglio del 315 d.C.

insostenibili dei Pitti, dei Sassoni e degli Scoti: le truppe furono probabilmente richieste da Stilicone, in Gallia, per difendere i territori continentali dell’impero. Da quando, nel 376, l’intero popolo dei Goti Tervingi – detti Visigoti o Goti dell’Ovest – aveva superato il Danubio (congelatosi durante un inverno memorabilmente rigido), i Balcani erano divenuti teatro di scorrerie e tappa di un piú lungo viaggio che, attraverso l’Italia, li aveva portati a stabilirsi nelle ricche province della Gallia Narbonense e poi nella Spagna. Con percorsi diversi, altri popoli devastarono le province: la penisola iberica era caduta sotto il controllo dei Suebi, degli Alani e di gruppi di Vandali, poi migrati in Africa dove insediarono il loro regno, con a capo il loro carismatico sovrano Genserico. La Gallia cadde sotto il controllo dei Burgundi, degli Alemanni e dei Franchi. L’Italia stessa e il Caput Mundi, Roma, cedettero alle pressioni e al dominio ostrogoto e dovettero subire, piú volte, l’onta del saccheggio.

Numeri tutt’altro che impressionanti

Dalle stime elaborate dagli storici, sulla scorta delle fonti in nostro possesso, è emerso che le genti germaniche che schiacciarono le armate imperiali non erano particolarmente numerose. Le cifre si aggirano tra i 10 000 e i 30 000 maschi adulti per ciascuna popolazione. Gli Alamanni che combatterono ad Argentoratum (nei pressi dell’odierna Strasburgo, n.d.r.) nel 357, per esempio, dovevano essere circa 25 000. L’esercito che sconfisse Valente ad Adrianopoli (vedi box a pp. 46-47), nel 378, era

D’ORIENTE

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la guerra nel medioevo/1

Battaglia tra Germani e Romani sul Reno, olio su tela del pittore tedesco Friedrich Tüshaus (1832-1885), 1876. Münster, LWL-Museum für Kunst und Kultur.

composto da circa 20 000 Ostrogoti e altrettanti Visigoti e 16 000 dovevano essere i Vandali di Genserico che sottomisero Cartagine. Ai numeri non particolarmente impressionanti, vanno aggiunte, rispetto all’esercito romano, una minore disciplina e una tattica piuttosto semplice, basata, quest’ultima, sull’urto e sullo sfondamento. Il modo di guerreggiare non sembra differire da quello attestato nel I secolo d.C. da Tacito nella Germania: «Usano poche spade o spiedi. Portano aste piccole, con poco e stretto ferro, ma molto letali al punto che con esse combattono sia da vicino che da lontano. Quando sono a cavallo si armano solo dello scudo e dell’asta. I fanti tirano molte frecce, tutti insieme, a lunga distanza, nudi o vestiti di una piccola tunica. Non hanno molti abbellimenti: solo gli scudi sono decorati con colori sgargianti e in pochi hanno la corazza, appena uno o due l’elmo o la celata. Non hanno cavalli belli, veloci o di maneggio come i nostri. La loro forza principale risiede nella fanteria, ma combattono in buona proporzione tra cavalieri e fanti veloci, scelti tra i giovani, e messi davanti alle schiere che vengono ordinate a cuneo».

Solo i guerrieri sono liberi

Sebbene non disponessero di un sistema militare efficiente, alcune popolazioni eccellevano nella cavalleria, altre nel tiro coll’arco, altre ancora nell’uso dell’ascia o della spatha. Rispetto ai Romani, però, mancavano to-

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Comitatenses (armate di terra)

Dux

Duces

(generale al comando di 2 o piú legioni)

Legatus (comandante di legione)

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Legioni

Auxilia

(truppe d’appoggio)

Comandante federato Foederati (alleati)

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talmente di rigore militare e della conoscenza dell’ars bellica. Ma come si spiegano, allora, le rapide vittorie dei Germani? Innanzitutto, occorre considerare che le popolazioni barbare erano società dedite alla guerra, basate sul suo esercizio, permeate dall’idea stessa della guerra: essere un uomo libero significava essere in grado di combattere, essere un guerriero. Tacito scrive che presso i Germani «era considerato vile procacciarsi col sudore ciò che si poteva ottenere febbraio

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Senato

imperatori soldati

(ruolo nominale)

Schema che illustra la struttura di comando dell’esercito romano in età tardo-imperiale, con ruoli separati tra il magister equitum e il magister peditum, al posto del successivo ruolo complessivo di magister militum, per il comando delle truppe dell’impero romano d’Occidente.

Imperatore

(in Occidente)

Cesare

(in Occidente)

Magister militum

(comandante generale delle truppe)

Magister peditum

Magister equitum

(comandante della fanteria)

(comandante della cavalleria)

Limitanei

(truppe preposte al controllo dei confini)

Legioni

Praefectus classis (comandante della flotta)

Dux

Duces

Legates

Erario militare (istituto di gestione delle spese belliche)

(generale al comando di 2 o piú legioni)

Legatus

(comandante di legione)

Auxilia

Flotta

(truppe d’appoggio)

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••••••••••••••••••••••••••••• col sangue». Presso i barbari il reclutamento coinvolgeva tutti i maschi adulti compresi tra l’adolescenza e la vecchiaia: fin tanto che le forze li sostenevano, essi combattevano. Persino l’onomastica germanica attesta questa concezione militaresca: Riccardo (possente ardito), Ruggero (lancia gloriosa), Guglielmo (volontà elmo), Gerardo (lancia forte), Ludovico (combattimento di gloria), Gertrude (sicurezza di lancia), Matilde (possente in battaglia).

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Dovette poi giocare un fattore determinante la fama dei Barbari, il cosiddetto «furor teutonicus», che gettava nel panico la popolazione romana. Gli autori coevi, come Sidonio Apollinare, Velleio Patercolo, Isidoro di Siviglia o Ammiano Marcellino, ce li descrivono come enormi, rozzi, ebbri di birra, violenti, educati alla guerra, alla ferocia, pronti a sfidare il pericolo e la morte, sprezzanti della paura. Di fronte a questi gruppi di barbari – che però ignoravano le tecniche di

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la guerra nel medioevo/1

La difesa dei confini

Una rete capillare di castelli e fortini Nell’epoca del tardo impero, quando le minacce e le pressioni sui confini si fecero sempre piú pesanti, aumentò sensibilmente la costruzione di fortificazioni lungo il limes orientale. Un documento redatto nei primi anni del V secolo attesta che lungo il Danubio sorgevano almeno 89 castella, 57 costellavano il limes orientale che univa il Mar Nero all’Egitto, 46 fortificazioni dovevano proteggere le province d’Africa, 23

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castella erano a difesa dell’isola britannica e almeno 24 erano stati edificati in Gallia. Per scongiurare possibili pericoli, che però i fatti mostravano ormai dilaganti, si consigliava di edificare una torre, una fortificazione ogni chilometro e mezzo, creando quella che, nelle intenzioni dei suoi ideatori, doveva essere una maglia impenetrabile. Un simile progetto, considerata la vastità del confine imperiale, era naturalmente

irrealizzabile e, probabilmente, si sarebbe rivelato anche inutile. Oltre alle torri, infatti, avrebbero dovuto essere reclutati anche adeguati contingenti militari, pronti a difendere quelle eventuali fortificazioni, che però non esistevano. Nel VI secolo, poi, Giustiniano potenziò quelle stesse frontiere. Solo sul Danubio, Procopio ricorda 80 fortificazioni, mentre ne nomina centinaia in Dacia, Mesia e ancora in Macedonia, in Tracia, in Tessaglia e in Grecia. febbraio

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Gli strateghi bizantini fornivano consigli su dove e su come scegliere un sito da fortificare. Esso doveva essere in altura, per garantire una buona visibilità e una difesa naturale, doveva essere fornito di cave di roccia e di boschi, per eventuali riparazioni e per il fuoco. All’interno del circuito murario inoltre doveva essere presente una fonte sorgiva, cosí da garantire, in caso di assedio, acqua agli… assediati!

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Roma. Ancora un rilievo dell’arco di Costantino raffigurante la battaglia di Verona, combattuta nei pressi della città veneta nel 312 tra l’esercito dello stesso Costantino e quello di Massenzio e che si risolse con la vittoria del primo, preludio all’affermazione definitiva ottenuta a Ponte Milvio.

assedio –, spesso le porte delle città venivano aperte spontaneamente, proponendo patti e pagando tributi, piuttosto che affrontare la furia barbarica.

L’aumento degli effettivi

L’esercito romano del tardo impero, almeno in apparenza, manteneva invece una solida struttura, specie grazie alle riforme di Diocleziano e di Costantino. Quest’ultimo, a differenza del suo predecessore, aveva aumentato il numero degli effettivi, creando nuovi reparti di cavalleria (catafractarii e clibanarii) e di fanteria (auxilia e vexillationes). L’esercito era poi stato nettamente diviso tra comitatenses, gli eserciti di manovra, e limitanei, stanziati lungo le frontiere, a loro volta suddivisi in ripenses o castellani. Già con Diocleziano, si erano creati reparti, i succitati vexillationes, di circa 500 unità, estrapolati dalle legioni per particolari finalità militari. Questi soldati erano veri e propri professionisti della (segue a p. 46)

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la guerra nel medioevo/1 Armi e armati a confronto Il soldato romano del tardo impero era equipaggiato in primo luogo con un’arma in asta. Questa poteva essere una lancea, che era divenuta dal III secolo l’arma principale della fanteria romana, o uno spiculum, un giavellotto lungo quasi 2 m, con una punta di ferro di circa 30 cm. La cavalleria, invece, aveva a disposizione una spada, ensis, piú lunga del gladium della prima età imperiale e che i soldati romani iniziarono a chiamare spatha, cosí come facevano i Germani.

L’EQUIPAGGIAMENTO di un legionario nel III sec. Ciascun soldato disponeva di uno spiculum (1), cioè un giavellotto, e uno scudo (2) a sezione convessa (3), nel cui incavo era possibile sistemare i mattiobarbuli (4), dardi che venivano scagliati a mano.

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SOLDATI appartenenti al corpo degli Auxilia palatina (truppe d’appoggio), creati da Costantino agli inizi del IV sec. Sono qui illustrati con equipaggiamento pesante (1) e leggero (2).

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Infine, nell’incavo dello scudo, che dal IV secolo veniva decorato con il chrismon (il monogramma di Cristo formato dalle lettere greche chi e ro), potevano trovare posto i dardi, detti mattiobarbuli, da scagliare manualmente, formati da un’asta di legno della lunghezza di una ventina di cm, con una punta metallica delle stesse dimensioni, dotata di alette per la direzione e del peso di circa 200 g. Il costo di produzione relativamente basso rese piuttosto diffuso il loro impiego. Vegezio, agli inizi del V secolo, ricorda come due legioni si fossero particolarmente distinte nell’uso dei mattiobarbuli, al punto da essere designate come guardia del corpo dell’imperatore Diocleziano. febbraio

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I Germani arrivarono a punire con la morte la perdita dello scudo

A differenza dei Romani, il cui equipaggiamento, nella gran parte dei casi, veniva fornito dallo Stato e comprendeva un kit ben accessoriato e diversificato, i Germani erano provvisti di un insieme di armi relativamente povero, tra cui spiccavano – come pezzi originali e di indubitabile efficacia – l’ascia da tiro, detta francisca, e la spatha, le cui dimensioni potevano raggiungere quasi il metro. L’ascia era soprattutto un’arma da lancio che i Franchi, a detta di Procopio, scagliavano tutti assieme «a un dato segnale e sin dal primo

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GUERRIERO ALAMANNO del III-IV sec. Il suo equipaggiamento è quello tipico degli uomini stanziati lungo la frontiera del Reno: 1. lancia; 2. scramasax (lungo coltello a un taglio); 3. francisca (ascia da lancio); 4. spatha; 5. scudo; 6. elmo, ornato da penne e da una pelle d’animale, solitamente una martora.

scontro». Se lanciata, poteva colpire il nemico a 4, 8 o 12 m di distanza. Lancia e spada erano simboli non solo del guerriero, ma del sovrano stesso: per i Longobardi, addirittura, era la lancia ad avere il primato, fin quando non fu sostituita dalla spada, simbolo della ritualità carolingia. La lancia poteva presentarsi nella variante dell’angone, un’asta di ferro molto sottile munita a una estremità di una punta con uncini ricurvi, rivolti verso il basso. La spada a due tagli era molto rara, spesso decorata e probabilmente utilizzata dai cavalieri, considerato il baricentro spostato verso la punta. Le armi piú diffuse tra i guerrieri di questi secoli, erano però, piú semplici e meno costose della spatha. Tra queste primeggiava lo scramasax. Il termine, che troviamo citato per la prima volta da Gregorio di Tours nella sua Historia Francorum, deriva da scrama= che produce ferite, e sax= coltello. Lo scramasax, in effetti, era un lungo coltellaccio, a una sola lama, che poteva raggiungere i 60 cm di lunghezza e che risultava assai utile nei combattimenti corpo a corpo. Appartiene invece all’apparato difensivo l’arma per eccellenza del guerriero barbarico: lo scudo. Esso viene consegnato al guerriero quando raggiunge la maggiore età: «Lo scudo rappresenta l’onore del combattente e perderlo o abbandonarlo, è vergognoso», come attesta Tacito, «al punto che la sua perdita può anche essere punita con l’impiccagione». L’uso della cotta di maglia, composta da circa 40 000 anelli di ferro (lorica), che veniva indossata sopra una tunica, era limitato a pochi nobili e ai guerrieri delle classi superiori, a causa dei costi elevati, cosí come anche l’uso dell’elmo, o galea, che poteva essere un semplice casco di metallo rinforzato in cuoio e stoffa, provvisto o meno di paraguance o paranaso.

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la guerra nel medioevo/1

Una tattica aspramente criticata

Piú di un ingranaggio di questa macchina militare, però, non funzionava a dovere. Se, nei secoli seguenti, la tattica di Costantino di concentrare le milizie nelle città (centri nevralgici della futura Europa), si

la battaglia di adrianopoli

9 agosto 378, una disfatta tragica BULGARIA

GEORGIA

Adrianopoli

Istanbul

ARMENIA

Bolu Ankara

GRECIA

guerra, con un salario regolare (in denaro o in beni consumabili, la cosiddetta Annona), un armamento di difesa e offesa omogeneo, prodotto e fornito dallo Stato nelle circa quaranta fabricae sparse nelle province dell’impero. I milites godevano di numerosi privilegi e, dopo ventiquattro anni di onorato servizio, potevano ritirarsi e, grazie alla emerita missio, fruire – oltre che dei privilegi fiscali – di una cifra di denaro che gli consentiva di comprare un terreno o di avviare un’attività commerciale.

Izmir

Konya

Antalya

TURCHIA Adana

Rodi Cipro

IRAQ

SIRIA

Gli eventi militari vengono spesso scelti dagli storici come tappe che segnano il passaggio di epoche, per i cambi di dinastie, le cadute di regni e le ascese di nuovi sovrani. La battaglia combattuta il 9 agosto del 378 ad Adrianopoli (presso l’odierna Edirne, in Turchia), è uno di questi eventi di svolta sia per la storia d’Occidente che per la storia militare. Di certo, nei secoli che segnano il passaggio dal mondo antico

Nella pagina accanto schema del dispiegamento e dei movimenti dell’esercito dell’imperatore romano Valente e delle truppe del re goto Fritigerno, durante la battaglia combattuta il 9 agosto del 378 ad Adrianopoli.

Medaglione aureo di Valente, che trovò la morte nella battaglia di Adrianopoli. 375-378. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Al dritto, l’effigie dell’imperatore; al rovescio, il sovrano avanza a cavallo verso una donna dalla corona turrita, prosternata, che sorregge una fiaccola (forse una personificazione dell’Oriente); in esergo, una figura distesa (forse una personificazione di Antiochia).

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Eserciti a confronto al Medioevo, il giorno di Adrianopoli è uno dei momenti piú significativi. Per la prima volta l’esercito regolare romano veniva sconfitto in modo schiacciante dalle genti barbare. Quella di Adrianopoli non è infatti paragonabile alle disfatte precedentemente patite dalle legioni nel corso degli ultimi secoli di vita dell’impero giacché, in questo caso, si trattò di una débacle su territorio romano, a eserciti schierati. Bisogna tornare al 216 a.C. per incontrare un disastro analogo, quello inflitto a Roma da Annibale, sulla piana di Canne. L’imperatore stesso, Valente, cadde in battaglia sotto i dardi dei Goti, rendendo il disastro totale. La disfatta ebbe cosí un’eco ancora maggiore. Alcuni storici hanno voluto ravvisare in Adrianopoli un prologo del modo di combattere tipico del Medioevo, per il ruolo decisivo che avrebbe avuto la cavalleria gota. Ma di fatto, gli eserciti barbarici, furono sempre composti perlopiú da fanti, con ali di cavalieri, peraltro ancora non dotati della staffa, elemento determinante nell’evoluzione della figura di cavaliere. Indubbiamente gli Ostrogoti, vissuti a contatto con i popoli delle steppe piú dei Visigoti, avevano ben appreso l’arte del guerreggiare a cavallo. Approfittando del caos generale, essi avevano superato il limes, senza autorizzazione imperiale, concessa invece ai Visigoti, con alla testa i propri capi Alateo e Safrace. Unitisi ai cugini Visigoti, guidati da Fritigerno, e ad altri contingenti di Alani e Unni, puntarono su Marcianopoli, poco lontano dall’attuale Odessa, spinti dalla fame. L’imperatore d’Oriente si trovò di fronte alla drammatica scelta: temporeggiare in attesa dei rinforzi di Graziano, Augusto della parte occidentale, frattanto impegnato

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Fanteria romana Cavalleria romana Fanteria gotica Cavalleria gotica Carri

Fritigerno

Valente

con gli Alamanni sul medio corso del fiume Reno, oppure affrontare in battaglia Fritigerno con le sole forze orientali. Le fonti non aiutano a comprendere per quale motivo Valente decise di affrontare da solo i Goti: nelle Storie di Ammiano Marcellino si legge di come un mediatore ecclesiastico avesse fornito stime errate sugli effettivi dei nemici. Non è da escludere che Valente non volesse condividere con Graziano, già vittorioso sul Reno, la gloria e la fama. La battaglia iniziò con un attacco non preventivato di truppe romane, rapidamente respinto ai Goti. Fu poi la volta dello scontro tra le legioni e la fanteria barbarica, mentre le ali di cavalieri

imperiali tentavano una manovra di accerchiamento. A questo punto, però, il ritorno della cavalleria ostrogota, in missione di foraggiamento, rovesciò le sorti della battaglia: rovinando sul fianco destro dell’esercito imperiale, oltre ad abbatterne il morale, ne destabilizzò gli equilibri. Valente in persona si mise a capo della riserva, ma fu tutto inutile. Travolto dalla carica di cavalieri ostrogoti e dal rinnovato vigore della fanteria nemica, la sconfitta si tradusse in una rotta e in una carneficina. Il corpo di Valente non fu mai piú trovato e, assieme a lui, caddero oltre 10 000 soldati romani.

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la guerra nel medioevo/1 Il castello di al-Hallabat (nell’attuale Governatorato di Zarqa, Giordania). La struttura sorse come fortino romano costruito per proteggere la Via Nova Traiana dagli assalti delle

tribú beduine; nel IV sec. fu allargato e trasformato in un castello con torri ai quattro angoli, per poi subire ulteriori rimaneggiamenti in epoca bizantina e islamica.

rivelò quella corretta, sul momento fu aspramente criticata, poiché evitava il confronto col nemico al suo primo apparire, sul confine. Di fatto, il rischio maggiore non veniva tanto dal lasciar entrare i Germani nei territori imperiali, quanto piuttosto dal tenere i soldati occupati in azioni di polizia urbana, piú che in una tensione militare costante lungo le frontiere. La permanenza in città, infatti, oltre che fiaccare le truppe, le avvicinò a pratiche di corruzione e di interessi radicati nei centri urbani. Anche le modalità di reclutamento furono uno dei motivi di indebolimento dell’esercito romano. Esso era costituito dai figli dei soldati che, come ogni altro mestiere, ne ereditavano la professione. Vi erano poi i militari di leva, convocati annualmente dal governo insieme a uomini abili e arruolabili che i proprietari terrieri erano tenuti a fornire allo Stato. Infine si potevano accogliere volontari, sia romani che di origine barbarica. In realtà, i cives romani non erano affatto interessati al mestiere delle armi, a motivo dei rischi a cui si andava incontro, della durezza della disciplina e della prolungata lontananza da casa. Il mestiere del miles, nonostante alcuni indubitabili vantaggi, era impopolare, al punto da non comparire neppure tra i personaggi del romanzo latino. La naturale indole guerresca dei Germani e il progressivo rifiuto all’arruolamento dei Romani sono gli ingredienti del progressivo imbarbarimento delle legioni che, nel corso del tardo impero, si trasformano in un coacervo multietnico, multilinguistico e multiculturale.

Il «gemito degli orfani e delle vedove»

Tuttavia, la presenza dei Germani sul suolo romano e «la fine dell’impero», non vanno lette come una devastazione a senso unico. Se leggiamo le fonti di parte romana, possiamo trovare almeno un ulteriore indizio utile a comprendere il successo – non solo militare, ma anche politico – dei Germani. Scrive Salviano: «Ci si meraviglia che noi non sappiamo piú sconfiggere i Goti! Ma non si considera che i Romani preferiscono vivere tra i Goti, anziché tra i Romani! I nostri connazionali non solo non intendono assolutamente fuggire ai Barbari e tornare a noi, ma ci abbandonano per riparare tra quelli. Il gemito degli orfani e delle vedove e dei poveri sale ogni giorno fino a Dio e invoca la fine di tanti mali al punto da invocare – orrendo a dirsi – la venuta dei nemici».

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Quali sono i mali a cui fa riferimento Salviano, dovendo escludere ovviamente le violenze dei barbari? È lo stesso autore a fornirci la risposta, elencando i plurimi mali della società romana: «La disonestà dei governanti, le persecuzioni e le rapine di coloro che convertirono le esazioni pubbliche in guadagni personali, trasformando in proprio bottino le indizioni dei tributi e, quali belve feroci, li divorarono». «Quasi tutti coloro che sono di nazionalità romana si dilaniano a vicenda», chiosa infine san Paolino, forse vescovo di Narbona. Erano i Romani le belve feroci, non i barbari: e, almeno per una parte, furono essi stessi ad autodistruggersi. Oggi la maggior parte degli storici vede nel periodo denominato «tardo antico» una fase di continuità – anche in ambito militare – piú che un momento di febbraio

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frattura causato dalle invasioni barbariche. E di fatto, come abbiamo visto, non furono tanto i barbari a modificare l’assetto militare romano, quanto piuttosto motivazioni interne. Possiamo concludere offrendo un breve, ma certo non esaustivo, elenco di concause che trasformarono – già prima del 476, anno in cui viene deposto Romolo Augustolo, ultimo imperatore d’Occidente e perciò considerato come la data canonica della fine dell’impero – le strutture militari romane.

Tra continuità e sperimentalismo

Nei secoli del tardo impero, infatti, si susseguirono numerosi casi di guerre civili, frammentando gli eserciti e – se si può dar credito alle poche fonti scritte prevenuteci a riguardo – mettendo in luce logistiche diverse e variegati sistemi di comando; fu poi abbandonato un

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sistema centralistico che, in ambito militare, diede vita a una nuova concezione di network fortificato, anticipatore di un’esigenza propria del Medioevo e in particolare dei secoli a cavallo del Mille; l’equipaggiamento dell’esercito romano mostra sia continuità con l’antico che un certo sperimentalismo, come l’uso di truppe clientelari o il ricorso a fortificazioni su poggi e colline in cui rifugiarsi e, infine, si deve registrare proprio la crescente perizia adottata nell’arte della fortificazione, preludio alla grande fase medioevale. Nel prossimo numero, in cui si entra nel vivo dell’età di Mezzo militare, tratteremo il periodo dell’Alto Medioevo, il successo dei Carolingi, le armi degli eserciti dei nuovi regni barbarici che sostituirono l’impero romano, quelle del sopravvissuto impero romano d’Oriente e quelle di un nuovo protagonista: gli Arabi. F

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immaginario il gallo di carnevale

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di Domenico Sebastiani

Carnevale ogni gallo vale...

Signore delle aie, araldo del nuovo giorno e, soprattutto, animale carnascialesco per eccellenza: quella del re del pollaio è un’immagine multiforme e variegata, un po’ come il suo piumaggio. Un ricco repertorio di figure allegoriche, che affonda le sue radici nell’età antica e, nel Medioevo, conobbe una notevole fortuna e fu anche oggetto di riletture in chiave letteraria e artistica Giovani greci fanno combattere i galli (o Il combattimento dei galli), olio su teal di Jean-Léon Gérôme. 1846. Parigi, Musée d’Orsay.

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l gallo trova largo spazio nell’ambito delle feste calendariali: oggetto di varie usanze a Natale, per il Calendimaggio, in estate per la festa di san Pietro o per la Madonna di metà agosto, a Carnevale il pennuto diviene il protagonista d’eccezione. Presenza di spicco nella mitologia e nella cultura del mondo classico, il gallo ricorre anche nelle tradizioni nordiche: troviamo per esempio Vídófnir, il gallo che «tutto risplende d’oro» e che vive sull’albero cosmico di Mimir (altra versione del frassino Yggdrasill), oppure Salgófnir, che compare nella Helgakvida Hundingsbana II, o, ancora, il gallo Gullinkambi «cresta d’oro». Nel Medioevo la simbologia del gallo diventa ambivalente. I bestiari lo ritraggono come un

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immaginario il gallo di carnevale animale coraggioso, che non esita ad affrontare la volpe, il lupo e addirittura il leone, e nei trattati ne viene lodata l’audacia, cosí come la sua vigilanza costante, l’affetto nei confronti delle sue galline e la sua generosità, dal momento che con loro spartisce il cibo. Il suo canto segnala i luoghi abitati e funge anche da orologio naturale.

Un orologio vivente

Il gallo canta a ore fisse, sia di giorno che di notte e, come le campane e meglio della candela, indica le ore, scandisce il normale avvicendarsi delle vicende cosmologiche. In questo è molto simile all’asino e al suo raglio, come è riportato in una compo-

sizione d’impronta giullaresca composta in dialetto rustico padovano, l’Alfabeto dei villani: «D’aseni e gagii (galli) aldom (udiamo) sonar le ore». Nella tradizione e nel folklore rimane radicata la convinzione che il canto del gallo abbia un potere apotropaico: preannunciando l’arrivo della luce mattutina, esso tiene lontani i fantasmi, i demoni e tutte le creature diaboliche dell’oscurità (attestazioni in tal senso si riscontrano anche nell’Amleto di Shakespeare). Allo stesso tempo, un gallo che non canta suscita inquietudine e angoscia nella popolazione. Al proposito, riportiamo un’osservazione dello storico e medievista francese Jean-Claude Schmitt: «La concezione cristiana del tempo tranquillizzava, poiché per essa tutto aveva un senso. Lo si vede quando dei contadini vengono a supplicare san Germano di Auxerre di rendere il canto al loro gallo, colpito da improvviso mutismo. Una vera maledizione! Non che abbiano bisogno di un gallo per riconoscere l’alba, ma perché un silenzio tanto pesante non lascia presagire nulla di buono. Il santo non capisce troppo bene cosa ci sia sotto la loro richiesta, ma, per spirito di carità, acconsente a fare un piccolo miracolo… per rendere la voce al volatile e la tranquillità ai contadini».

A destra miniatura raffigurante l’Aurora che porta l’alba, mentre un un contadino che sta infilandosi i calzoni entra nel pollaio, da L’Epître d’Othéa, opera compresa nella raccolta di lavori di Christine de Pizan riunita nel MS Harley 4431. 1410-1411. Londra, British Library. A sinistra Leonardo da Vinci, studio di animale, gallo. Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi.

Il nunzio del giorno

Del simbolismo del gallo e del suo rapporto con il sole si impadroniscono i primi esegeti cristiani. Dio si identifica con il sole e il gallo, cantando l’arrivo della luce solare, annuncia quindi la venuta di nostro Signore, invitando gli uomini ad alzarsi, a mettersi al lavoro e a

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pregare. Si può pensare a sant’Ambrogio che, nell’inno Ad galli cantum, afferma: «Già canta il nunzio del giorno, sentinella attenta nella notte profonda, luce notturna ai viandanti, che divide una parte della notte dall’altra (...). Quando canta il gallo ritorna la speranza, viene ridonata la salute ai malati, viene riposto il pugnale del malfattore, torna la fede a coloro che sono caduti nel peccato». Oppure a san Basilio di Cesarea, il quale sottolinea la funzione del gallo come sprone al lavoro: «Guarda come il gallo domestico ti sveglia, spronandoti al lavoro, gridando con la sua voce acuta e annunziando in anticipo il sole che sta avanzando; si leva di buon mattino assieme ai viandanti e conduce gli agricoltori alla mietitura» (Omelia VIII, 7, sull’Exaem.).

Come un buon pastore

Gli autori, naturalmente, citano il canto del gallo anche per ricordare l’episodio evangelico dell’apostolo Pietro che rinnega Cristo prima dell’arresto: mentre era notte, il discepolo, stretto dalla paura e dal dubbio, tradisce il Maestro, ma giunta la luce del giorno ritrova la fede e si pente del proprio peccato. Per questo l’uccello appare come l’immagine del buon pastore che invita i cristiani alla penitenza e la sua figura campeggia inizialmente sui campanili delle chiese dedicate a san Pietro. Successivamente, come sottolinea lo storico e antropologo Michel Pastoureau, l’usanza si estese a tutte le chiese della cristianità romana, dato che il gallo di Pietro diventa l’animale vigile per eccellenza, che sorveglia i dintorni e che allontana le forze del male con il suo canto benefico. Se l’esegesi cristiana antica è perlopiú favorevole al gallo, via via i bestiari associano allo stesso caratteristiche meno positive: esso è un animale vanitoso, convinto della sua bellezza, fiero delle sue penne e della sua cresta, cammina come un pavone e tenta a sua volta di fare la ruota.

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immaginario il gallo di carnevale È geloso, non condivide le sue galline, per cui si scontra frequentemente con altri galli in combattimenti, sempre violenti e spesso mortali. Il gallo, inoltre, è poligamo e ardente da un punto di vista sessuale, per cui simbolicamente risulta attributo della lussuria, a volte raffigurata come un uomo che cavalca un gallo, a cui fa da contraltare l’attributo positivo della fecondità e della fertilità. Talvolta, come evidenzia lo storico e iconografo Charbonneau Lassay, l’immagine di una donna a cavallo di un cinghiale e con in mano un gallo simboleggia invece la collera e l’ira. Senza dimenticare poi che, nella credenza popolare, il gallo nero fu associato ai riti magici e alle streghe. Un’altra credenza tramandata dai testi medievali è quella secondo la quale, ormai vecchio, il gallo inizia a deporre le uova: se queste vengono covate dall’aspide o dal drago danno origine a un animale terrificante, ossia il basilisco, un mostro per metà gallo e per metà serpente, velenoso e capace di uccidere con il semplice sguardo.

Zuffe proverbiali

Pur godendo fin dall’antichità di una sua dignità, il gallo rimane sempre un animale tipicamente contadino, un uccello «povero», vittima del disvalore versato nei confronti delle bestie che condividono la vita quotidiana dell’uomo, anche se sono a lui utili. Il gallo non regna nelle altezze dei cieli, né si libra in volo come un’aquila o un falco: esso è re, ma del pollaio. È sovrano tra le galline, razzola nell’aia o nel cortile, pur se ha un atteggiamento per certi versi fiero. Proverbiali sono le sue zuffe con gli altri galli, cosí come la sua propensione ad atteggiamenti sessuali aggressivi. «Galletto» viene definito colui che è spavaldo, che si pavoneggia, che è focoso e anche attaccabrighe. Sono probabilmente questi alcuni tra gli aspetti – anche al limite del comico – insieme ad altri caratteri sedimentatisi nei se-

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un animale apotropaico

La tromba del mattino Lo storico francese Michel Pastoureau evidenzia come diversi autori medievali paragonino il gallo ai monaci, che come lui cantano le ore del giorno, ovvero al clero secolare, che veglia sui fedeli come i galli sulle galline. Un liturgista della fine del XIII secolo, Guglielmo Durante, sottolinea il potere al contempo salvifico e apotropaico dell’animale che, «simbolo di vittoria e di vigilanza, ha il potere di scacciare i demoni con il suo canto: si rivolge a Dio con il suo grido per affrettare l’aurora del Giudizio finale e della vita eterna». Già il poeta cristiano Prudenzio (Cath., Inno primo) lodava il gallo con questi versi: «L’aligero nunzio del giorno preannuncia col suo canto l’avvicinarsi della luce. Si dice che i demoni erranti, rallegrati dalle tenebre della notte, atterriti dal canto del gallo, si disperdano qua, e là, pieni di terrore». coli, che ne hanno fatto un animale protagonista nel periodo dell’inversione e degli eccessi carnevaleschi. Il gallo ricorre nei riti agrari e di fertilità. Già l’etnologo inglese James Frazer (1854-1941), nel Ramo d’Oro (1890), riteneva che l’animale fosse una delle sembianze assunte dallo «spirito del grano» e, a questo

proposito, enumerava varie pratiche e rituali che lo vedevano protagonista, tra cui, di particolare pregnanza, i duelli che contemplavano l’eliminazione fisica del pennuto: «Lo spirito del grano viene anche ucciso in sembianza di gallo. In alcune località della Germania, dell’Ungheria, della Polonia e della Picardia, i febbraio

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Sulle due pagine La Brigue (Francia meridionale), santuario della Notre-Dame des Fontaines. Una delle scene affrescate nel 1491 da Giovanni Canavesio: Pietro rinnega Gesú Cristo e il gallo (particolare in questa pagina) canta per annunciare il tradimento dell’apostolo.

Anche in William Shakespeare, il gallo, definito «trumpet to the morn» («tromba del mattino»), ha la capacità di far dileguare i fantasmi. È ciò che avviene in Amleto, quando lo spettro del re di Danimarca si dissolve al canto del pennuto. La situazione è al centro del dialogo tra Bernardo, Orazio e Marcello che hanno assistito all’evento dai bastioni del castello di Elsinore: «Io ho udito che il gallo, ch’è la tromba del mattino, con la sua gola dal suono alto e acuto, risvegli il dio del giorno; e, al suo richiamo, o nel mare o nel fuoco, o in terra o in aria, lo spirito vagante ed errabondo s’affretta al suo confino: e della verità di ciò ha dato la riprova quel che abbiam visto ora».

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immaginario il gallo di carnevale mietitori mettono un gallo nel grano che sarà tagliato per ultimo e lo rincorrono per tutto il campo, o lo seppelliscono nel terreno fino al collo; poi gli mozzano la testa con un colpo di falce (…). Nei pressi di Klausenburg, in Transilvania, si usa seppellire un gallo nel campo, lasciandone fuori solo la testa. Poi un giovane prende la falce e lo decapita in un colpo solo. Se non ci riesce, viene chiamato gallo rosso per tutto l’anno, e tutti temono che il raccolto successivo sarà cattivo». «Nei pressi di Udvarhely, sempre in Transilvania, si lega un gallo vivo nell’ultimo covone e lo si uccide con uno spiedo. Poi lo si spenna, si getta via la carne e se ne conservano, invece, pelle e piume fino all’anno seguente; e, a primavera, i chicchi dell’ultimo covone vengono mescolati alle piume del gallo e sparsi sul terreno da dissodare. Nulla potrebbe indicare piú chiaramente l’identificazione del gallo con lo spirito

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del grano. Il fatto di legare il gallo nell’ultimo covone e di ucciderlo, identifica l’animale con la pianta e la sua morte col taglio degli steli. Quello di conservarne le piume fino a primavera per mescolarle al grano da semina tratto proprio da quel covone in cui era stato legato, e spargerle poi sui campi, identifica il volatile con il grano stesso; e il suo potere rinvigorente e fecondatore, come incarnazione dello spirito del grano, è cosí indicato nella maniera piú evidente».

Giochi mortali

Non è certo casuale che usanze molto simili, intrise di violenza, si svolgessero anche in Spagna durante il periodo carnevalesco, specchio del diffuso rituale che richiede il festeggiamento del Carnevale e la sua conseguente uccisione, e che prevede la personificazione dello stesso in alcuni animali (orso, maiale e cosí via). A quanto riferisce

l’etnologo Julio Caro Baroja (19141995), il gioco spagnolo tipico di bambini e ragazzi in tale ricorrenza era quello «del gallo». Nella letteratura classica spagnola i riferimenti a questo gioco e al personaggio a esso legato, il «re dei galli», sono molti: dai vari testi si ricava che tale pratica fosse in uso già dal XV secolo, se non da epoche precedenti. Durante il periodo carnevalesco precettori e ragazzi maschi organizzavano una festa nel corso della quale i ragazzi davano la caccia a un gallo per poi ucciderlo, lanciandogli contro arance o infilzandolo con uno strumento appuntito. Talvolta l’animale veniva interrato, lasciando spuntare solo la testa, ed era oggetto del lancio di pietre. Riferisce ancora Baroja che «nelle Asturie, il rito conosce diverse varianti. Di solito la domenica di Carnevale, o domenica grassa, gli scolari escono accompagnati dal maestro in aperta campagna, portando


A destra raffigurazione allegorica in cui la Generosità, a cavallo di un gallo, addomestica l’Avarizia, a sua volta immaginata in groppa a una scimmia, dal Rondeau des Vertus. Primo quarto del XVI sec. Ecouen, Musée national de la Renaissance. Nella pagina accanto Saulieu (Borgogna), basilica di Saint-Andoche. Capitello romanico raffigurante un combattimento tra galli. XIII sec.

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immaginario il gallo di carnevale

con loro un gallo comperato con il contributo di tutti. Verso le tre del pomeriggio, il maestro ordina di liberare l’animale. I bambini lo braccano fino a quando il gallo esausto si accascia. Quindi lo tirano a sorte. Un tempo, l’animale stremato veniva appeso a testa in giú a un albero e i bambini, con gli occhi bendati e una spada di legno in mano, si cimentavano nell’ardua impresa di spiccargli di netto la testa». In altre regioni veniva appeso per le zampe a una corda e i giovani, a piedi o a cavallo, cercavano di tagliarli di netto la testa, cantando una canzone di scherno nei confronti del pennuto, che non avrebbe piú rivisto le sue galline né salutato

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il sorgere del sole. Il tutto si concludeva con un banchetto a base di galli e galline.

Simbolo di lussuria

Baroja, oltre ad accennare alle citate tesi di Frazer, ne segnala altre, piuttosto singolari: secondo una il sacrificio carnevalesco del gallo si giustificherebbe come espediente per non lasciare il pennuto vedovo e solo, dal momento che tutte le galline sono state mangiate durante i bagordi. Secondo un’altra il gallo simboleggerebbe la tentazione della lussuria, che deve essere soppressa all’avvicinarsi della Quaresima. Questi giochi crudeli non si svolgevano solo in Spagna o nei luoghi

segnalati da Frazer: rituali simili si trovano un po’ in tutta Europa, Italia compresa. Nel Canavese, per esempio, l’inizio del Carnevale era annunciato dalla pratica della «decapitazione del gallo», cosí come in Calabria si svolgeva «il gioco del galluccio»: si seppelliva un galletto vivo, lasciandone fuori la testa, che persone bendate e disorientate da parecchi giri dovevano cercare di colpire. Chi riusciva a centrare il bersaglio aveva in premio l’animale. Ma anche in diverse località abruzzesi vi era la consuetudine, da parte della gioventú, di seppellire galli fino alla testa e poi prenderli a sassate o a colpi di pertica, oppure di tagliare la testa con le sciabole a febbraio

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A sinistra Roma, basilica di S. Clemente. Particolare del mosaico della conca absidale nel quale figura una contadina che dà del becchime ai polli. XII sec. A destra un tacchino scelto come vittima designata della festa del pitû, che si organizzava in occasione dell’ultima domenica di Carnevale nel Monferrato.

La festa del pitû

Carnevale triste per il tacchino Ne Le origini del teatro italiano, Paolo Toschi (studioso di tradizioni popolari, 1893-1974), riporta la variante rituale in cui era un povero tacchino a essere oggetto delle attenzioni della gioventú del Monferrato. L’ultima domenica di Carnevale gruppi di giovani organizzavano la «festa» per il pitû, ossia il tacchino. Un esemplare dell’animale veniva ben ingrassato e poi portato solennemente in piazza, scortato da un corteo e acclamato dalla folla. Il tacchino veniva legato con la testa che penzolava da un palo e i giovani cavalieri facevano a gara, al galoppo, nel tentativo di staccare con colpi di bastone la testa del povero animale. Quando l’esecuzione aveva buon fine, la folla andava in delirio. A questo punto subentrava una seconda fase, caratterizzata da un alto contenuto satirico e parodico. Un giovane, con tuba e occhiali, dava lettura del testamento lasciato dal tacchino, un testamento particolare, perché il pennuto non si limitava a donare – come in altri casi – le parti del suo corpo, ma impartiva degli ammonimenti ai soggetti della comunità locale, scoprendo cosí le magagne e le malefatte di ciascuno. Motivo di grande ilarità e risa, coloro che erano i destinatari delle notizie burlesche cercavano di far buon viso a cattivo gioco, sforzandosi di ridere insieme agli altri ma meditando internamente la rivincita per l’anno successivo.

In tutta Europa l’associazione del gallo alle feste carnascialesche ha spesso connotati crudeli e sanguinari polli appesi al davanzale delle finestre delle ragazze del luogo. L’antropologo Paolo Giardelli, invece, testimonia come simili rituali folklorici fossero ben radicati anche nell’arco alpino, tra l’Alto Adige e la Val d’Aosta: «A PontSaint-Martin, Ponbozet, Champorcher, Ayas il martedí di Carnevale si tagliava la testa al gallo. Il volatile veniva appeso a una corda tesa tra due pali. Il gallo era legato per le zampe a testa in giú. Tutti coloro che volevano provare erano bendati e due maschere accompagnavano il concorrente vicino al gallo, scuotendo dei campanacci perché non potessero sentire le ali del gallo che sbattevano. Con il falcetto si

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potevano tentare tre colpi. Chi riusciva a tagliare la testa al gallo, era il vincitore. La sera il pollo era cucinato e mangiato in compagnia».

Il mondo alla rovescia

Lo stesso autore evidenzia come l’atto di lasciare libero il gallo per poi rincorrerlo, catturarlo e ucciderlo (la cosiddetta «corsa del gallo») mostri come vi sia un processo di immedesimazione tra il pennuto e il Carnevale. Infatti, nel gergo, l’espressione «correre il carnevale» equivale al concetto di festeggiare la ricorrenza. Emblematico è anche il fatto che tra le confraternite di giovani, il risultare vincitore nelle varie gare – combattimento

dei galli, uccisione, decapitazione e cosí via – ossia conseguire il titolo di «re dei galli», contiene in sé gli elementi di un mondo alla rovescia tipicamente carnevalesco: un nuovo sovrano succede infatti al gallo, che è il re del cortile e dell’aia, cioè della «bassa corte». Molto diffuso è anche il combattimento tra i galli, una pratica che affonda le radici nell’antichità e che è sempre stata connotata da una duplice valenza: simbolo di vittoria ma anche di amore erotico. Se i combattimenti tra galli si sono sempre svolti, è soprattutto durante il periodo di Carnevale che le gare hanno trovato il loro maggior spazio, nonostante i divieti. Uno scon-

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immaginario il gallo di carnevale tro tra galli, al cospetto dei rispettivi proprietari, si trova scolpito in un capitello della basilica di SaintAndoche a Saulieu, risalente al XIII secolo. L’arcivescovo di Bordeaux, attorno al 1260, si doveva addirittura pronunciare contro il dilagare in ambito scolastico del gioco – considerato occasione di peccato e perdita di tempo – proibendolo sotto pena di anatema. Gli interdetti non servivano a molto, se si pensa che durante il Medioevo le gare e i combattimenti tra galli erano diffusissimi, e riIl basilisco in una tavola a colori realizzata per un libro per bambini della fine del Settecento.

masero cosí in voga fino al Settecento, quando i ragazzi delle scuole portavano con sé il proprio gallo, pronto alla sfida. In palio c’era il titolo di Re dei Galli.

Capo per un anno

Il ragazzino proprietario del gallo vincitore aveva diritto di ricoprire per un anno il ruolo di capo della confraternita, e di essere sempre accompagnato da uno stuolo di condiscepoli. In piena età illuministica, durante il periodo carnevalesco, riaffiora-

vano ancora richiami alle medievali feste dei Folli e degli Innocenti. Dal punto di vista iconografico, il gallo è infatti associato al folle carnevalesco. Le medievali «confraternite dei folli» portavano in testa un berretto detto coqueluchon (da coq, gallo), sormontato da una testa di gallo o dalle penne, poi sostituite dalla cresta, piú o meno stilizzata. Comune era la compresenza nel copricapo di elementi appartenenti al pennuto e di lunghe orecchie d’asino, che era anch’esso simbolo degli stolti e dei pazzi. Ma il cappuccio, tenendo conto della cresta eretta e dell’ardore sessuale dei galli, si presentava anche come un simbolo fallico. Non era dunque raro vedere associati al berretto anche due sonagli, a mo’ di testicoli. Questo aspetto sessuale e fecondatore dell’associazione folle-gallo si può scorgere osservando numerose illustrazioni medievali e rinascimentali. Il folle condivide alcune caratteristiche con la figura del selvaggio, con tutte le creature che sono partecipi del mondo dei vivi e di

Il basilisco

Un temibile reuccio I bestiari medievali caratterizzano il basilisco come un ibrido mostruoso, contraddistinto dal corpo di gallo e dalla coda di serpente. Tale topos iconografico, che giunge fino alle soglie della modernità, non trova riscontro nelle fonti classiche. I testi antichi, infatti, nonostante gli riconoscessero una superiorità indiscussa sulle serpi, tanto da valergli l’epiteto di rex serpentium, a causa del suo veleno letale e della sua capacità di uccidere con il solo sguardo, lo descrivono nell’aspetto esteriore di un normale serpente. La prima citazione del basilisco è attribuibile al testo greco dei Theriaca di Nicandro di Colofone (II secolo a.C.), mentre in seguito il medico e naturalista greco Dioscoride (attivo nel I secolo d.C.) studia la sintomatologia patologica derivante dal morso del rettile.

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quello dei morti, che attingono alle potenze primigenie della natura e sono apportatrici di vita e fertilità. Ne deriva, a livello iconografico, la rappresentazione del folle nel ruolo di amante o di propiziatore di coppie di innamorati. Una curiosa variante ci presenta, in una xilografia risalente al XVI secolo, un folle con tipico berretto con le orecchie di

asino che mesce l’acqua dell’eterna giovinezza tramite il suo organo sessuale in forma di gallo.

La «covata dei folli»

Ancora, è da ricordare il singolare motivo della «covata dei folli», in cui campeggia la figura del folle – indeterminato nella sua connotazione sessuale – che co-

Acquamanile in bronzo in forma di gallo. Produzione tedesca, 1300 circa. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum. Nel Medioevo, simili recipienti contenevano l’acqua con cui lavarsi le mani prima e dopo i pasti.

Il basilisco inizia ad assumere connotazioni leggendarie con la Naturalis historia di Plinio il Vecchio (che scrive nel I secolo d.C.): il suo aspetto è ancora serpentiforme, ma è caratterizzato dalla presenza di una macchia bianca sulla testa, simile a un diadema, evidente emblema di regalità e superiorità sugli altri serpenti. Ciò varrà a legittimare l’etimologia del termine basilisco, derivante dal greco basileus o, piú probabilmente, dal suo diminutivo basiliskos (piccolo re). Da Plinio in poi il basilisco diventa un serpente il cui veleno è talmente tossico e pestilenziale da ammorbare uomini e animali, fonti d’acqua e vegetazioni, fino a rendere il territorio sterile e desertico. Altra terribile prerogativa del mostro, presente in Isidoro di Siviglia (560 circa-636), Alessandro di Neckam (1157-1217) e soprattutto Pietro d’Abano (1250-ante 1318), è il suo sguardo letale: con una semplice occhiata può uccidere a grande distanza uomini e persone. Durante il periodo medievale il suo aspetto

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va un uovo enorme che si sta schiudendo e che contiene i piccoli folli, ovvero il folle in compagnia di una nidiata. In tutti questi casi tali personaggi hanno tratti comuni con uccelli, in particolare appunto con il gallo. Maschere carnevalesche con fattezze di gallo – non legate al tema del folle – sono testimoniate infine anche in altre aree europee, come in Germania fin dal secolo XV. Ma si ritrovano anche negli attuali carnevali europei, basti pensare al «coqjupon» di Cassel o il «cavaliere gallo» di Rottweil, ovvero alle maschere della Bulgaria occidentale e del nord-est imitanti l’aspetto di gallo (likove e koukové), che spesso procedono in fila e che nel corso delle rappresentazioni sono poi messe a morte. In tutt’altro ambito, anche nei palii che si correvano nel periodo medievale a Verona, tra Carne-

esteriore cambia in relazione alle sue particolari modalità di nascita: a cominciare da Beda le trattazioni prevedono che nel caso in cui un gallo, in tarda età, faccia un uovo e questo venga covato da un animale velenoso (come un rospo, un aspide o un drago) nel periodo della canicola, da ciò si origina il terribile basilisco, a metà strada tra un gallo e un serpente. Gli antidoti ai suoi poteri mortali sono fondamentalmente due: da un lato al suo sguardo si può sopravvivere facendolo riflettere in uno specchio. Dall’altro l’unico animale capace di attaccarlo efficacemente è la piccola donnola, simbolo di purezza, che lo affronta e lo sconfigge a costo della propria vita. La donnola riesce a sopravvivere al veleno del serpente mangiando prima foglie di ruta, come scrive l’astrologo e poeta Cecco d’Ascoli (1269-1327) nell’Acerba: «La donola, trovando della ruta, // combatte con costui e sí l’accide // chè ‘l tosco con costei si atuta».

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immaginario il gallo di carnevale

In alto galli e galline in un olio su tela del pittore olandese Melchior d’Hondecoeter (1636-1695). Collezione privata. A sinistra rappresentazione della festa dell’Asino facente parte di una serie di illustrazioni della fine dell’Ottocento dedicata alle feste popolari. Si può notare come uno dei personaggi in primo piano indossi un copricapo sormontato da una cresta di gallo.

vale e Quaresima, il gallo evidenzia la sua forte dimensione carnascialesca. Come ricorda lo studioso Marino Zampieri, lo statuto di Cangrande (1328) stabiliva che nella corsa podistica di Verona, all’ultimo arrivato spettasse come premio un gallo, che egli doveva portare alla vista di tutti, pubblicamente, fino alla città. Gli statuti successivi modificarono la procedura, disponendo che tale perdente dovesse portare il gallo non usque in civitatem (cioè fino

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alla città), ma per civitatem, cioè per la città, con evidente giubilo dei cittadini spettatori.

I guanti del perdente

Un gallo era il premio per gli ultimi arrivati e comunque per i «non vincitori» anche in palii di altre città, come Pavia, Mantova, Bologna, Ivrea, Ferrara, Modena e Firenze. È importante notare che, assieme al gallo, al perdente veniva donato anche un paio di guanti, che dove-

vano servire al soggetto per tenere appollaiato sul braccio l’animale e mostrarlo alla folla senza farsi ferire dagli artigli o dagli speroni. Col tempo, il numero dei guanti aumentò in quanto, probabilmente, il gallo veniva passato di mano in mano dalla gente che assisteva alla sfilata. L’ultimo arrivato della corsa, all’interno del festoso corteo della domenica (che prendeva il nome di «gran galloria»), acquistava quindi per un giorno il titolo di «re del galfebbraio

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Da leggere U Giovanna Maria Pintus, Storia di

lo». Considerando che, in altre città, ai vincitori del palio veniva assegnato come premio un pennuto (ma trattavasi di un nobile falco), risulta evidente – a contrario – la situazione che si veniva a creare in quel di Verona. Questa assumeva i contorni di una parata caratterizzata dall’inversione e dall’abbassamento: infatti il perdente è un falconiere abbassato a «galliere», è un personaggio comico-grottesco che ricalca modi e atteggiamenti propri dell’aristocratica arte della falconeria, ma sul pugno inguantato non reca un astore o un falcone, bensí un comune gallinaceo da cortile. Ci piace concludere con le parole dello stesso Zampieri, che racchiudono efficacemente il significato simbolico rivestito dal volatile nell’ambito delle ritualità del Carnevale: «La rumorosa sfilata con il gallo assume i contorni di una “gal-

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loforia”, una festa della fecondità per molti versi simile alla falloforia della Grecia antica: “processione del fallo” che uomini con maschere animalesche portavano in giro per la campagna in un’atmosfera d’ebbra licenza».

Un corteo chiassoso

«Come i fallofori dionisiaci, il veronese re del gallo e il suo chiassoso sfrenato corteggio, sul finire dell’inverno recavano in processione per pascoli e seminati (…) l’animale simbolo del fallo e della potenza generatrice, l’uccello terragno che, ignorando le altezze del falco, non vola in cielo a predare altri uccelli, ma raspa in terra a nutrirsi di insetti nocivi alle colture e gode a razzolare nei mucchi di fimo, il “letame” che a giugno “allieterà” i campi di messi rigogliose. Sbattendo vigorosamente le ali il magico volatile

un simbolo: il gallo, in Sandalion, Vol. 8-9, 1986; pp. 243-267 (anche on line: http://eprints. uniss.it); U Francesco Maspero, Bestiario antico, Piemme, Casale Monferrato, 1997 U Julio Caro Baroja, Il Carnevale, Il Melangolo, Genova 1989; U Paolo Giardelli, Il gioco dei galli, in Maschere e Corpi. Percorsi e ricerche sul Carnevale, a cura di Franco Castelli e Piercarlo Grimaldi, Atti del I Convegno Internazionale (Rocca Grimalda, 12-13 ottobre 1996), Edizioni dell’Orso, Alessandria 1999; U Marino Zampieri, Il palio, il porco e il gallo, Cierre edizioni, Verona 2008 U Jean-Claude Schmitt, Medioevo superstizioso, Laterza, Bari 2004 U Michel Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Einaudi, Torino 2012 U Louis Charbonneau Lassay, Il bestiario del Cristo, Arkeios, Roma 1994 U James G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton Compton, Roma 2006 U Claude Gaignebet e Jean-Dominique Lajoux, Arte profana e religione popolare nel Medio-Evo, Fabbri, Milano 1986; U Paolo Toschi, Le origini del teatro italiano, Bollati Boringhieri, Torino 1999 (1955)

avviva i soffi di zefiro riportando la vita nella campagna addormentata; con la potenza del suo canto disperde le forze malefiche che si sono addensate nel buio delle lunghe notti invernali, ridesta i semi sopiti sotto le zolle. La sua cresta solare è un annuncio di luce e calore; la coda falcata, come la luna nuova di Carnevale, evoca la falce messoria del contadino, promessa di pingui raccolti, di spighe gonfie di chicchi». F

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saper vedere cividale del friuli

Il Tempietto delle meraviglie di Elena Percivaldi

L’oratorio voluto dai re Astolfo e Giseltrude è uno dei monumenti piú insigni di Cividale. Un luogo raccolto e intimo, che, pur avendo perduto molta della sua decorazione originaria, costituisce una testimonianza sublime non solo dell’arte e dell’architettura longobarde, ma di tutto il Medioevo europeo

Cividale del Friuli. Uno scorcio del Tempietto Longobardo, monumento che, secondo le ipotesi oggi piú accreditate, fu innalzato dalla coppia reale formata da Astolfo e Giseltrude, che regnò dal 749 al 759.

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ntrando oggi nel Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli, si rimane impressionati, per il contrasto con l’ambiente raccolto, dalla grazia monumentale delle sei figure femminili che dominano la parte superiore della parete ovest. Alte quasi 2 m, sono scolpite in stucco ad altorilievo, ma, nonostante l’imponenza, comunicano un senso di celestiale leggerezza. La loro verticalità è accentuata dal panneggio dell’abito, che le rende simili a colonne, e il loro candore irreale si sposa benissimo con il ruolo che rivestono nel piccolo edificio, quello cioè di sante in atteggiamento ieratico. L’aspetto etereo attuale non deve però trarre in inganno: un tempo queste statue, assieme alle altre decorazioni in stucco delle lunette, presentavano un vivacissimo rivestimento policromo che contrastava col bianco dei rivestimenti in marmo. Insieme alle volte coperte di mosaici d’oro e agli affreschi alle pareti che rappresentavano il Cristo, la Vergine, santi e martiri, costituivano una composizione sfarzosa e magniloquente in cui tutte le figure, come in una corale polifonica, sembravano elevare al cielo un canto di preghiera.

Come uno scrigno

Di tutto ciò, a parte le sei statue (in origine erano dodici), non rimangono oggi che pochi lacerti, sopravvissuti ai terremoti e alle ristrutturazioni successive. Il cosiddetto «Tempietto» (ma il nome è improprio: sarebbe forse meglio chiamarlo «oratorio») fu fondato in età longobarda. Patrimonio dell’Umanità UNESCO dal giugno 2011, è da un oltre un millennio parte integrante del Monastero di S. Maria in Valle. Il suo fascino resta immutato: un po’ per la sua storia, lunga e travagliata, di certo per le sue origini oscure. Ma, soprattutto, per la grande quantità di capolavori che racchiude e che lo fanno somigliare a uno scrigno di pietre preziose. L’edificio, di piccole dimensioni, è formato da un

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saper vedere cividale del friuli Dove e quando AUSTRIA TRENTINOALTO ADIGE Ampezzo

Tolmezzo

Cimolais

SLOVENIA

S. Daniele del Friuli

Pordenone

VENETO

S. Vito al Tagl.

Cividale del Friuli Udine Codroipo

Gorizia Palmanova

Latisana

Trieste

In basso il complesso del monastero di S. Maria in Valle, che sorge a strapiombo sul Natisone e racchiude al suo interno il Tempietto Longobardo.

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Tempietto Longoabardo e Monastero di S. Maria in Valle Cividale del Friuli, piazzetta San Biagio Orario 01.10-31.03: lu-ve, 10,00-13,00 e 14,00-17,00; sa-do e festivi, 10,00-17,00; 01.04-30.04: lu-ve, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; sa, do e festivi, 10,00-18,00 Info www.tempiettolongobardo.it; www.monasterodisantamariainvalle.it Museo Cristiano e Tesoro del Duomo Cividale del Friuli, via Candotti, 1 Orario me-do, 10,00-13,00 e 15,00-18,00 Info tel./fax 0432 730403; Parrocchia S. Maria Assunta: tel./fax 0432 731144; e-mail: info@mucris.it presbiterio coperto da tre volte a botte e da un’aula quadrata sormontata da volta a crociera. Il pavimento era in opus sectile policromo, oggi parzialmente conservato, con esagoni neri alternati a triangoli bianchi. Tre pareti su quattro presentavano affreschi accuratamente disposti sul piano simbolico: a ovest il Cristo benedicente tra gli arcangeli Michele e Gabriele, a nord la Vergine col Bambino anch’essa tra i due arcangeli, a sud – si tratta di un’ipotesi, in quanto la decorazione è interamente perduta – san Giovanni Battista tra Elisabetta e Zaccaria. Un progetto iconografico ben preciso, elaborato allo

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scopo di ribadire il dogma delle due nature di Gesú annunciato dal Precursore. Il registro superiore delle pareti ovest, sud e nord era occupato dalla monumentale teoria di dodici statue di sante femminili, in stucco e colorate. Negli arconi comparivano figure affrescate di santi. Di tutto ciò sopravvivono solo sei martiri e le altrettante statue collocate sulla parete ovest: le altre crollarono, insieme alla copertura originaria delle volte, durante il terremoto dell’inverno 1222-23. L’edificio fu restaurato in modo ben piú rudimentale solo una ventina d’anni dopo: ma nel frattempo, la ricca policromia degli stucchi, esposta alle intemperie, era andata perduta per sempre. Ignoti ne sono gli artefici, ma sicuramente – come vedremo analizzando le decorazioni – doveva trattarsi di artisti di formazione e cultura bizantine: con grande probabilità, si trattava di maestranze emigrate a seguito della politica iconoclasta (ossia di distruzione delle immagini sacre) inaugurata nei primi decenni dell’VIII secolo dall’imperatore Leone III Isaurico. Di loro, forse, conserviamo uno dei nomi: tale Paganus, che si firmò accanto a una delle finestre, e che probabilmente era il capomastro. Ma i Bizantini, o comunque i «forestieri» maestri d’arte, non furono gli unici a lavorare al Tempietto di Cividale. A giorni, o alla bisogna – soprattutto se il lavoro andava consegnato in fretta –, si reclutavano artigiani e artisti locali. Sembra suggerirlo il fatto che stucco e pittura sono posati direttamente sul muro delle pareti, secondo una tecnica attestata a livello regionale.

Degno di un re

A quando risale l’oratorio? Abbandonata la tesi espressa da Michele della Torre nel 1807 secondo la quale l’edificio sarebbe stato in origine un tempio romano dedicato a Vesta, fino alla fine degli anni Quaranta del Novecento l’opinione prevalente – basata su raffronti di carattere iconografico e stilistico – restò quella elaborata da Carlo Cecchelli, ossia che il Tempietto fosse stato realizzato in età carolingia. Negli anni Cinquanta, invece, partendo dagli studi condotti dai norvegesi Hjalmar Torp, Ejnar Dyggve e Hans Peter L’Orange, iniziò a farsi strada l’ipotesi – oggi generalmente accettata – di una datazione intorno alla metà dell’VIII secolo. L’opera sarebbe stata realizzata come cappella palatina da una coppia regnante di prestigio. Non era facile, tuttavia, stabilire il nome dei fondatori: l’imponente iscrizione dedicatoria in esametri latini che corre lungo la parete est dell’aula e le tre del presbiterio, emersa nel 1951, è purtroppo fortemente lacunosa e il nome dei «pios auctores» committenti dell’edificio non sono piú leggibili. L’ipotesi di identificazione, avanzata da Torp e L’Orange nel 1977, e oggi generalmente accettata, è quella che vuole l’oratorio edificato da Astolfo e Giseltrude, che regnarono tra il 749 e il 756.

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Sia gli elementi scolpiti, sia gli affreschi del monumento, sebbene i primi fossero stati realizzati in un momento di poco antecedente, erano parte dello stesso schema ornamentale ed estetico, fortemente voluto dai prestigiosi committenti come forma di autorappresentazione. La già citata iscrizione dedicatoria, per quanto lacunosa, fornisce importanti indizi in merito. Le lettere, eleganti e ben modellate, erano infatti dipinte di bianco su fondo porpora, secondo il modello in voga nel VI secolo a Costantinopoli. La loro maestosità, accentuata dallo sfondo colorato, doveva richiamare visivamente l’aspetto dei codici miniati e lo stesso fondo porpora – che in Oriente era evocativo della corte imperiale – è qui un elemento fortemente simbolico a ulteriore conferma della committenza regia.

Il fascino del classico

Il richiamo a forme estetiche bizantine, e piú in generale all’arte classica, da parte dei «barbari» non deve stupire. Già i Goti, e in particolare Teodorico, avevano attinto alla tradizione orientale: basti citare i numerosi edifici pubblici e di culto di Ravenna, e i palazzi pubblici che il sovrano fece costruire a Monza, Verona e Pavia nonché, in queste ultime due città, il ripristino di mura e fortificazioni. Con l’arrivo dei Longobardi, l’imitazione del modello antico fu interrotta, anche e soprattutto per via della differente struttura sociale dei nuovi invasori, di tipo fortemente tribale: al concetto di capitale fissa e stanziale, e di conseguenza dotata di edifici pubblici per l’amministrazione e la rappresentanza, si sostituí quello di capitale «mobile», con il re che si spostava tra Pavia, Verona e Milano, e tutt’intorno un florilegio di centri di potere comandati da funzionari con compiti politicomilitari, i duchi. Ma dopo la morte di Alboino e del successore Clefi, terminato il decennio di anarchia militare durante il quale il neonato regno rimase senza una guida, i duchi, nel 584, scelsero come nuovo sovrano Autari e dotarono la monarchia di un demanio tratto dalle terre conquistate. Già con lui, ma soprattutto con Agilulfo, che ne sposò la vedova Teodolinda, poté cosí iniziare una nuova fase della storia longobarda: quella del consolidamento del potere, incarnata dalla dinastia cosiddetta «bavarese» (la regina era figlia del baiuvaro Garibaldo). In quest’ottica, la coppia regnante si rifece, per motivi di ordine ideologico, politico e religioso, al modello classico come elemento di assoluto prestigio utile al rafforzamento del regno e al superamento delle divisioni etnico-religiose tra vincitori e vinti anche tramite la conversione del loro popolo al cattolicesimo. A questo atteggiamento si saldò una solida politica di evergetismo (la pratica di dispensare doni alla collettività, n.d.r.), che si declinò in particolare nella ristrutturazione di basiliche (come S. Simpliciano a Milano: le

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saper vedere cividale del friuli Una storia plurisecolare 568-569 Guidati da Alboino, i Longobardi invadono l’Italia. Il re insedia a Cividale il primo duca, suo nipote Gisulfo. 572 Conquista di Pavia. I Longobardi sono padroni di buona parte della Penisola. 610 Cividale viene distrutta dagli Avari. Dopo la ricostruzione, in località Valle, a ridosso del fiume Natisone, viene eretta la Gastaldaga, sede del gastaldo, il funzionario che rappresentava il re (residente a Pavia) e amministrava in suo nome il potere. 730-756 Patriarcato di Callisto. 737 Callisto decide il trasferimento della sede del patriarcato da Cormons (dove si era rifugiato per sfuggire ai Bizantini) a Cividale. Conflitto con il duca Pemmone, che lo imprigiona. 737 Pemmone viene deposto da re Liutprando, che insedia al suo posto il figlio Ratchis. 744-749 Primo regno di Ratchis. 744 Il fratello di Ratchis, Astolfo, ne prende il posto come duca del Friuli. 749-756 Regno di Astolfo e Giseltrude. Edificazione del Tempietto. Metà dell’VIII Fondazione del monastero femminile secolo di S. Maria in Valle. 752 L’abate Anselmo fonda un monastero a Nonantola, nel Modenese. 756-757 Secondo regno di Ratchis. 757-774 Regno di Desiderio. 774 Carlo Magno sconfigge i Longobardi e ne conquista il regno. 830 Un diploma di Lotario e Ludovico II sancisce la donazione al patriarca di Aquileia della giurisdizione del monastero di S. Maria in Valle. Fine del Il monastero di S. Maria si amplia in IX-inizi del seguito al trasferimento di alcune X secolo monache da Salt di Povoletto. 1222-23, Un terremoto fa crollare le volte inverno e distrugge parte delle decorazioni del Tempietto. 1242-1250 La badessa Gisla de Pertica ordina la ricostruzione delle parti superiori dei muri crollati e il rifacimento delle volte, dotando il monastero di un circuito di mura esterne. 1371-1402 Altri interventi a opera della badessa Margherita della Torre: costruzione

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degli stalli lignei addossati alle pareti dell’aula, edificazione della sacrestia, elevazione della quota del pavimento. 1533 L’Inventio reliquiarum, riprendendo un documento precedente, menziona il ritrovamento di reliquie nel Tempietto il 5 maggio 1242. 1751 Scoperta di tre tombe longobarde nel complesso di S. Maria in Valle. 1807 L’ufficiale francese Etienne Marie Siauve promuove i primi studi sul Tempietto a seguito della pubblicazione del canonico Michele della Torre di una dissertazione sul monumento corredata da disegni poi ripresi e pubblicati da Albert Lenoir a Parigi nel 1844. 1839 Lorenzo D’Orlandi pubblica il primo libro sul Tempietto. 1842 Il Comune di Cividale acquista il Tempietto. 1859 Messa in sicurezza del monumento. 1859-60 Primo restauro del monumento e pubblicazione dei risultati. Nei decenni febbraio

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La sala del Museo Cristiano e Tesoro del Duomo in cui si conserva l’altare in pietra detto «di Ratchis», perché da questi commissionato prima di salire al trono nel 744. Il monumento appare illuminato dal proiettore che ne suggerisce la policromia originaria. In secondo piano è il Battistero detto «di Callisto», perché fatto erigere dall’omonimo patriarca (737-756).

successivi viene costruito un nuovo accesso al Tempietto. 1902 Nuovi restauri. 1926 Realizzazione dell’attuale copertura con il tetto a tre falde. 1940-45 Erezione di protezioni in muratura per evitare danni bellici. 1958-68 Nuovi restauri. 1977-87 Nuovi restauri per riparare i danni del terremoto del 1976. 1998 Restauro degli stalli lignei del coro. 2011, L’UNESCO inserisce Cividale nella 26 giugno World Heritage List quale parte del sito seriale «Longobardi in Italia: i luoghi del potere (568-774)» (gli altri sono: il complesso monastico di S. Salvatore-S. Giulia, Brescia; il castrum con la torre di Torba e la chiesa di S. Maria foris Portas, Castelseprio; la basilica di S. Salvatore, Spoleto; il Tempietto del Clitunno, Campello sul Clitunno; il complesso di S. Sofia, Benevento; il santuario di S. Michele, Monte Sant’Angelo).

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tegole recano il bollo di Adaloaldo) e nella fondazione di chiese (S. Giovanni Battista a Monza, riccamente dotata da Teodolinda) e palazzi (sempre a Monza, il palatium che risaliva a Teodorico, con il celebre ciclo di affreschi, perduti, rappresentanti i costumi dei Longobardi citato da Paolo Diacono): tutti edifici sontuosamente decorati che dovevano ribadire agli occhi della collettività il prestigio e il potere ormai raggiunto dai sovrani. Al modello estetico romano, seppure reinterpretato secondo la sensibilità peculiare dei Longobardi, si ispirarono in maniera sistematica tutti i re, da Liutprando (al potere dal 716 al 744) in poi. Frutto di questa «rinascenza» sono proprio i grandi capolavori di Cividale (oltre al Tempietto, l’Altare di Ratchis e il Battistero di Callisto), Pavia e Brescia. E questo recupero di forme e stili antichi continuò in seguito, in età carolingia e ottoniana, declinato in innumerevoli varianti, tra le quali spicca il ciclo di affreschi di S. Maria foris Portas a Castelseprio (vedi «Medioevo» n. 207, aprile 2014; anche on line su medioevo.it). Le basiliche, in particolare, con il loro ricco apparato decorativo e la dotazione di reliquie e oggetti preziosi, diventarono un vero e proprio status symbol, che sostituí a tutti gli effetti i ricchi corredi tombali un tempo deposti nelle sepolture e ormai, dopo la conversione al cattolicesimo, quasi del tutto abbandonati. E anche il Tempietto di Cividale, fatto edificare come cappella palatina, va interpretato in quest’ottica.

Nel cuore della Gastaldaga

L’area, in località «Valle», dove oggi sorge il Tempietto era leggermente discosta dal centro vero e proprio della città, data anche la sua posizione a strapiombo sul fiume Natisone. Pur essendo compresa nella cinta della città romana di Forum Iulii, si trovava a ridosso delle mura in prossimità della Porta Brossana, da cui partiva la strada verso est. Dopo la distruzione di Cividale operata dagli Avari nel 610, fu fortificata e divenne la sede operativa e di rappresentanza del gastaldo del re, ossia del funzionario che rappresentava ufficialmente il sovrano, residente a Pavia. I suoi compiti erano estesi e comprendevano competenze militari, amministrative (relativamente ai beni demaniali), fiscali e giudiziarie. La Gastaldaga – che nei documenti compare come curtis regia o sacrum palatium: la prima menzione è in un diploma di Berengario I giunto in trascrizione piú tarda – apparteneva al demanio regio e fu dotata, con ogni probabilità sin da subito, anche di una cappella privata, una costruzione semplice a pianta rettangolare, utilizzata anche come cimitero nobiliare, come mostrano i ricchi corredi emersi nel 1751 e oggi esposti al Museo Archeologico Nazionale di Cividale. La dedica era a san Giovanni Battista: un santo molto «popolare» sin dall’inizio del VII secolo nel delicato momento del passag-

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saper vedere cividale del friuli La parete ovest del Tempietto con le sei figure femminili che dominano la parte superiore; nella parte inferiore, la lunetta sopra l’ingresso reca l’immagine di Cristo tra gli arcangeli Michele e Gabriele. La teoria di statue e gli affreschi proseguivano anche sulle pareti laterali, ma sono andati perduti,

gio dei Longobardi, per volontà della coppia regnante costituita da Agilulfo e Teodolinda, dal paganesimo al cattolicesimo. Durante il regno di Astolfo, all’interno della Gastaldaga, e precisamente a nord-est del presbiterio di S. Giovanni, fu costruito il Tempietto. La sua funzione era di oratorio-satellite, che dipendeva, liturgicamente, dalla chiesetta madre ma era da questa separato, probabilmente perché adibito a mausoleo oppure alla custodia di reliquie. Di queste ultime non si hanno notizie dirette, ma, secondo una fonte del 1533, l’Inventio reliquiarum, il 5 maggio 1242 fu scoperta una cassa «multum antiqua et modo extraneo fabricata», dentro la quale erano custodite, appunto, preziosissime reliquie. E quando la cassa fu aperta, narra la cronaca, un profumo meraviglioso si sparse per tutta la città.

La donazione al patriarca

Proprio a causa del suo utilizzo come oratorio privato, il Tempietto non è menzionato nel primo documento a noi giunto che riguarda il complesso. L’atto, un diploma emesso dagli imperatori Lotario e Ludovico II, risale all’830 e riguarda la donazione al patriarca di Aquileia della giurisdizione su un «monasterium puellarum» che si trova «iuxta basilicam santi Iohannis»: tale monastero femminile, dedicato a santa Maria, era stato inserito nella Gastaldaga verso la metà dell’VIII secolo per ospitare, secondo una prassi abbastanza comune, le figlie della nobiltà longobarda destinate a non maritarsi. La chiesa di S. Giovanni, però, non era compresa nella donazione, ma faceva ancora parte della Gastaldaga. In seguito, tra la fine del IX e gli inizi del X secolo, l’intero complesso fu donato al monastero, che si allargò probabilmente a seguito del trasferimento in S. Maria delle monache del monastero di Salt di Povoletto, non lontano da Cividale, fondato da tre nobili longobardi e dalla loro madre Piltrude che ne fu la prima badessa. Probabilmente le pie donne ne portarono con sé le spoglie. La tradizione vuole che esse riposassero nella tomba, cosiddetta «di Piltrude», che sorgeva nel presbiterio del Tempietto, e la nomina come fondatrice del monastero. Ma si tratta di una leggenda: il sarcofago, smontato nell’Ottocento, conteneva i resti di tre individui, ma fu realizzato in epoca molto piú recente – dopo il XIII secolo –, utilizzando lastre scolpite risalenti alla tarda età longobarda che, molto probabilmente, facevano parte dell’ambone o pulpito della prima chiesa di S. Giovanni.

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Nell’inverno tra il 1222 e il 1223 un terremoto colpí la zona e danneggiò gravemente l’edificio, facendo crollare le decorazioni delle pareti nord e sud e le volte decorate a mosaico. I danni furono riparati solo una ventina di anni piú tardi, quando – fra il 1242 e il 1250 – la badessa Gisla de Pertica fece ricostruire le parti superiori dei muri crollati e rifare le volte, dotando il complesso di un circuito di mura esterne. Durante questo arco di febbraio

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tempo, con molta probabilità, l’esposizione agli agenti atmosferici cancellò la vivace policromia che caratterizzava gli stucchi: quando un’altra badessa, Margherita della Torre, tra il 1371 e il 1402, fece costruire gli stalli lignei addossati alle pareti dell’aula e la sacrestia sopraelevando il pavimento, i colori dovevano essere già scomparsi del tutto. Tra il Duecento e il Settecento il monastero di S. Ma-

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ria prosperò e si ingrandí, fino a occupare tutta l’area che si sviluppa sull’attuale via Monastero Maggiore, lungo la sponda del Natisone, da piazza San Biagio e dalla Porta Brossana sino giungere a occidente all’altezza del Duomo. Nel 2011, Monastero e Tempietto sono stati dichiarati, insieme ad altri sei monumenti, Patrimonio dell’Umanità UNESCO come parte del sito seriale «Longobardi in Italia: i luoghi del potere».

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saper vedere cividale del friuli

Sulle due pagine confronto tra alcune delle statue superstiti del Tempietto e la proposta di ricostruzione della loro policromia originaria formulata dalla studiosa Bente Kiilerich; nel particolare in basso, sono affiancate due ipotesi alternative per le vesti della statua A, la prima a sinistra nella sequenza.

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Le statue

La parete oggi piú importante è quella ovest, perché conserva la teoria di sei statue realizzate in stucco, una miscela di gesso, calce e polvere di marmo: sono le uniche superstiti delle dodici originarie, che rappresentano altrettante sante. Le sei statue, tutte con aureola, sono piú grandi del naturale: le loro misure variano da 1,93 a 1,99 m. Sono disposte tre sulla destra e tre sulla sinistra, simmetricamente rispetto a una finestra ad arco a tutto sesto delimitata da due colonne sormontate da capitello

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e ornata da un motivo a gigli. Le due ai lati della finestra, raffigurate leggermente di tre quarti, vestono tunica e palla alzata a coprire la testa e indicano la finestra fonte della luce che simboleggia Cristo, il Salvatore. Le altre quattro, in posizione frontale, riccamente vestite e decorate con collare gemmato e diadema, reggono nelle mani la corona del martirio e la croce. Per alcune di esse è stata ipotizzata l’identificazione con le martiri Chiona, Irene, Agape e Sofia, ma gli elementi a supporto sono troppo labili. Il modello si rivela febbraio

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comunque orientale, ed è stato proposto un suggestivo confronto con le figure, coeve, che compaiono incise su placchette d’avorio, di cui – forse – rappresentano la versione magnificata. La teoria di statue è incorniciata da due nastri, che corrono sopra e sotto, e presentano una decorazione stellata. Le altre sei statue, oggi perdute, erano collocate sulle pareti sud e nord. Come gli altri elementi in stucco, si presentano interamente bianche, ma in origine erano vivacemente colorate, come dimostrano tracce (labili)

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di pigmento rinvenute negli occhi, lungo le sopracciglia e in alcune parti delle vesti. Sappiamo, però, da varie fonti che di prassi lo stucco era ricoperto di colore oppure di lamina d’oro. A parte le tracce di pigmento rinvenute nel corso di successivi restauri, altri indizi a conferma sarebbero alcuni particolari degli ornamenti delle statue, impossibili da scorgere da terra se non adeguatamente messi in risalto grazie al colore. Di recente, Bente Kiilerich ha provato a ricostruire l’aspetto originario delle statue e dei fregi. La studiosa

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saper vedere cividale del friuli A destra l’iscrizione dedicatoria in esametri latini (purtroppo lacunosa) che corre lungo la parete sud e le tre pareti del presbiterio, con lettere eleganti e ben modellate dipinte in bianco su fondo porpora.

Decorazione in stucco (Cristo in trono?)

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Assonometria ricostruttiva del Tempietto Longobardo con la dislocazione di alcune delle decorazioni piú importanti.

Il monumento in sintesi

Un manifesto della «rinascenza liutprandea» 3 Perché è importante Il Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli è la testimonianza meglio conservata e piú spettacolare di scultura e decorazione in stucco di epoca altomedievale. Insieme all’Altare di Ratchis e al Battistero di Callisto, custoditi nel Museo del Duomo della stessa Cividale, costituisce uno degli esiti piú alti dell’arte longobarda al momento della sua massima fioritura, che si registra nell’VIII secolo, durante la cosiddetta «rinascenza liutprandea».

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3 Il Tempietto Longobardo nella storia L’edificio fu realizzato, come cappella privata, dai sovrani Astolfo e Giseltrude, tra il 749 e il 756, nel cuore della Gastaldaga cittadina, che ospitava la residenza del funzionario regio (gastaldo). L’iscrizione dedicatoria, lacunosa, non permette un’attribuzione certa. Tuttavia, lo sfarzo e la qualità delle decorazioni presuppongono una commitenza di assoluto prestigio quale doveva essere la famiglia di Pemmone, duca del Friuli (Cividale), padre proprio dei due futuri sovrani Astolfo e Ratchis.

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A sinistra un’immagine della parete est del Tempietto, con, in primo piano, il pavimento in opus sectile.

3 Il Tempietto Longobardo nell’arte L’edificio e la sua complessa decorazione furono realizzati da maestranze bizantine, in collaborazione con artisti e artigiani locali. Gli stucchi, leggermente precedenti gli affreschi, furono probabilmente rivestiti di colore (oggi purtroppo scomparso) dagli stessi pittori che lavorarono alle pareti. La monumentalità delle statue superstiti, accentuata dalla verticalità del panneggio degli abiti, non è inferiore alla loro composta grazia.

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ha innanzitutto esaminato le tracce di pigmento ancora conservate; poi le ha confrontate con esempi di fregi e vestimenti simili che compaiono in mosaici e affreschi, a cominciare dalle pitture coeve presenti nello stesso Tempietto di Cividale. Il risultato è suggestivo. Partendo dal presupposto che gli affreschi e gli stucchi siano da leggere come parte dello stesso schema decorativo, simbolico ed estetico, i colori usati rappresenterebbero la chiave che suggerisce come doveva declinarsi la policromia delle statue. L’ipotesi di fondo è che gli artisti che colorarono gli stucchi fossero gli stessi che dipinsero le pareti. Sulla base di questa ricostruzione, il motivo a doppia «S» e i gigli dovevano essere dorati, mentre i vitigni erano color porpora e si stagliavano su una base di terra verde. Le statue, invece, erano caratterizzate da vesti riccamente decorate, con panneggi che variavano dal rosso porpora, in varie sfumature verso il blu e il violetto. I motivi ornamentali sulle vesti erano dorati e impreziositi, come i gioielli, da elementi in blu zaffiro. I volti, come le mani, venivano lasciati in bianco: spiccavano gli occhi, con l’iride rossa, mentre le sopracciglia erano evidenziate in porpora e le labbra colorate in rosso. L’intera teoria di statue si stagliava su un fondo blu.

I fregi

I fregi a vitigno in stucco presentano forti similitudini con quelli presenti in S. Salvatore a Brescia, ma secondo recenti studi richiamerebbero ancor piú da vicino quelli, piú antichi (datati al 310), che decorano l’arco di Galerio a Tessalonica. Questi ultimi, però, erano in marmo e non in stucco. La scelta di un supporto diverso ebbe, verosimilmente, ragioni di carattere economico, ma non solo: lo stucco, infatti, è meno costoso del marmo, ma è anche piú facile da modellare per maestranze che, probabilmente, erano meno esperte nella lavorazione di un materiale piú nobile, ma tecnicamente piú impegnativo. Il motivo «a doppia S», classico dell’VIII secolo, che caratterizza la parte inferiore delle lunette (al di sotto di quello a gigli) è ricavato da modelli romani precedenti e ampiamente attestati. Si tratta di un motivo caro all’arte longobarda perché ricorre nella decorazione di fibule e di altri oggetti.

Gli affreschi

Sulle pareti vi sono pitture in vario stato di conservazione: il Cristo con Arcangeli raffigurato nella lunetta occidentale rimase sempre visibile, mentre la Vergine con Bambino e Arcangeli della parete settentrionale fu coperta – come gli altri – da intonaco e venne svelata solo dai restauri del 1958. Purtroppo, gran parte dei particolari sono andati perduti, cosí come la decorazione della parete sud. Decorazioni a stucco incorniciano le lunette superstiti.

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Parete ovest

La lunetta sopra l’ingresso occidentale reca l’immagine di Cristo tra gli arcangeli Michele e Gabriele. Il Salvatore è in atteggiamento benedicente: in mano tiene il Vangelo, ricoperto da una preziosa legatura gemmata. Torp ha legato la resa del volto del Cristo, incorniciato dai capelli chiari, all’iconografia imperiale introdotta da Costantino e ripresa dai suoi successori: dal punto di vista simbolico, rimanda quindi alla cristianizzazione del culto imperiale elaborata dal primo biografo di Costantino, Eusebio di Cesarea, per il quale l’imperatore era «l’immagine vivente del Logos, il Figlio di Dio».

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Al di là delle convinzioni personali, Costantino operò un’identificazione tra la sua figura e quella del Sol Invictus (vedi anche «Medioevo» n. 215, dicembre 2014). Il Cristo del Tempietto è, dunque, una rielaborazione tipicamente bizantina del ritratto imperiale, in cui la figura del regnante e del Cristo-Sole-Logos, «Luce del Mondo», sono un tutt’uno inscindibile.

Parete nord

L’affresco della lunetta settentrionale è stato riportato alla luce nel settembre del 1958 in pessimo stato di (segue a p. 82) febbraio

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In alto, sulle due pagine particolare dell’affresco con l’immagine di Cristo tra gli arcangeli Michele e Gabriele. A destra, in alto particolare dell’affresco che si conserva sulla parete ovest e che, probabilmente, è quanto resta di una teoria che correva su almeno tre pareti Qui accanto particolare degli stucchi che ornano la parete ovest: nella fascia superiore, i gigli, e in quella inferiore i fregi a vitigno con motivo «a doppia S».

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saper vedere cividale del friuli I tesori restituiti: una mostra nel monastero di S. Maria in Valle A sinistra veduta aerea del complesso cividalese di S. Maria in Valle. Nella pagina accanto, in alto, a sinistra frammento di lastra decorata con un motivo tipico delle sculture del terzo quarto dell’VIII sec., dagli scavi presso il Tempietto Longobardo. Nella pagina accanto, in alto, a destra la statua lignea di Maria in una foto d’epoca, quando era collocata nella finestra della parete settentrionale del Tempietto Longobardo.

prevista la realizzazione di un nuovo sistema di approfondimento con contenuti multimediali, consultabili anche via web, che accompagna la visita all’esposizione e al Tempietto Longobardo.

Il monastero di S. Maria in Valle e il Tempietto Longobardo sono luoghi ricchi di storia e di bellezza. Legati, perlomeno dall’età longobarda, a importanti sedi del potere civile e religioso, nel corso dei secoli hanno costituito sia lo scrigno di pregiate architetture e opere d’arte, sia gli ambiti in cui si è svolta la vita quotidiana di un nucleo di pertinenza regia e di un cenobio femminile. Gran parte di questo patrimonio è purtroppo andata perduta. Alcune rilevanti opere d’arte, giunte fino a noi, sono state invece custodite, per esigenze di tutela, in diverse sedi museali cividalesi, dove però non sono sempre visibili o ben identificabili. Altre testimonianze, finora sconosciute, sono state restituite dalla terra, grazie a indagini archeologiche, effettuate anche negli ultimi anni.

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La volontà di rendere fruibili questi tesori del passato, nel luogo stesso da cui provengono e del quale svelano i lunghi trascorsi e i diversi aspetti, ha spinto l’Amministrazione comunale di Cividale del Friuli, proprietaria del monastero, a promuovere, in collaborazione con la Soprintendenza ai Beni Archeologici e con quella ai Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Friuli-Venezia Giulia, un’esposizione in cui riunire, per la prima volta, le piú significative testimonianze. La mostra è collocata nella settecentesca cappella per l’eucarestia delle monache di clausura, attigua alla chiesa di S. Giovanni in Valle, lungo il braccio del chiostro che conduce alla fronte del Tempietto Longobardo. È dunque pienamente integrata nel percorso di visita al complesso, costituendone un arricchimento. In quest’ottica è

RACCONTARE UN GRANDE PASSATO Al visitatore viene dunque offerto un percorso che, attraverso manufatti di grande qualità artistica e reperti archeologici, punta a raccontare in maniera innovativa la millenaria storia del Monastero di S. Maria in Valle e della Gastaldaga longobarda. L’area, già parte della città romana, fu infatti sede delle corte regia longobarda, residenza del Gastaldo, prima di ospitare il cenobio che, dal Medioevo, rappresentò una delle principali istituzioni non solo di Cividale ma di tutta la Patria del Friuli. Tuttora, costituisce un complesso monumentale di indubbia rilevanza nel contesto cittadino, nel quale le architetture del Tempietto Longobardo e della chiesa di S. Giovanni in Valle, entrambe di origine longobarda, appaiono imperniate attorno al chiostro settecentesco. luogo d’arte e di potere Un primo approfondimento riguarda l’origine e l’evoluzione del complesso monastico nell’area di Valle, a partire dalla tarda età longobarda. Le opere esposte evidenziano la centralità febbraio

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che questo luogo ebbe in passato, in particolar modo in età medievale. Si tratta, infatti, di manufatti dal valore storico e artistico unico, che rappresentano in modo emblematico la ricchezza dell’apparato liturgico del monastero nel corso del tempo e, probabilmente, appartenevano alla chiesa principale del cenobio, prima di essere ricollocati in altre sedi. Eccezionale è la Croce di S. Maria in Valle, finora conservata, ma non esposta, nel Museo Archeologico Nazionale. Si tratta di una croce astile di età altomedievale, poi rilavorata, in lamina d’argento con dorature, decorata a sbalzo con tipici motivi del periodo. Rappresenta il corrispondente cividalese della «Croce di Desiderio» del monastero di S. Giulia a Brescia. A sinistra e a destra frammento di stucco decorato e tessere di mosaico rinvenuti nell’area del Tempietto Longobardo.

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saper vedere cividale del friuli A sinistra frammento di archetto di un tegurio esagonale, presumibilmente pertinente al fonte battesimale della Gastadaga longobarda della metà dell’VIII sec. In basso piatto in ceramica graffita, dalla tavola del monastero post-medievale. Nella pagina accanto, a sinistra la croce astile di S. Maria in Valle.

strutture abitative semplici: capanne lignee con pareti in argilla. L’evoluzione della corte regia longobarda e la sua connotazione sociale e monumentale emergono invece dall’analisi delle testimonianze riguardanti la chiesa di S. Giovanni: un complesso monumentale pertinente all’ambito regio fin dalla sua origine e che risulta il piú rilevante edificio di culto cittadino dopo la cattedrale. La crocetta aurea e il disco con raffigurazione di cervo, sempre in oro, presentati in questa sezione, costituiscono ciò che rimane di piú ricchi corredi tombali rinvenuti, nel Settecento, in importanti sepolture longobarde poste all’interno della chiesa. Si tratta di manufatti databili alla prima metà del VII secolo e che testimoniano sia la fase altomedievale dell’edificio sia lo stretto legame con le piú alte sfere della nobiltà longobarda.

Altrettanto pregiate sono le statue lignee di dolenti, Santa Maria e San Giovanni, opere dell’inizio del XIII secolo, probabilmente eseguite da un maestro collegato allo scultore del famoso crocefisso ligneo del Duomo di Cividale. L’area di Valle e la Corte del Re Il percorso espositivo si addentra poi nelle questioni relative all’affermarsi della Gastaldaga longobarda in questo settore della città. Oltre alle limitate tracce delle preesitenze piú antiche, di epoca romana, vengono illustrate le prime fasi dell’insediamento altomedievale, testimoniate da elementi della cultura materiale e da

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L’esistenza della chiesa già nella prima età longobarda sembra confermata dai resti scultorei provenienti dal luogo di culto. Nella mostra sono presentati quelli piú significativi della fase originaria – un architrave con teoria di agnelli e una lunetta con pavoni, pertinenti a un portale – e dei successivi rinnovamenti dell’apparato liturgico. Vi è poi la proposta di riferire al nucleo cultuale della corte regia anche la porzione di un archetto di tegurio esagonale che doveva esser posto su un fonte battesimale, le cui tracce sono forse individuabili nelle strutture emerse negli scavi dietro l’attuale abside del S. Giovanni. Appare simile, per qualità, a quello voluto dal patriarca Callisto per ornare il fonte battesimale del vicino Duomo, nel quinto decennio dell’VIII secolo. Il Tempietto Longobardo L’oratorio di S. Maria in Valle, piú comunemente conosciuto come Tempietto Longobardo, è un monumento su cui ancora si discute e che non ha smesso di stupire, rivelando sempre nuovi aspetti. Alcuni elementi provenienti dagli scavi archeologici compiuti agli inizi del secolo scorso e negli ultimi anni, presentati per la prima volta nella mostra, oltre a chiarire la situazione relativa alla sua edificazione, in un’area della Gastaldaga già occupata da altre strutture, consentono di precisare alcuni particolari della sua originaria decorazione, a integrazione di quanto tuttora conservato e osservabile in situ al suo interno. Tra i vari reperti spiccano resti inediti della decorazione a stucco che abbelliva le pareti e numerose tessere musive in paste vitree di vario colore, alcune con foglia d’oro, che fanno immaginare la pregiata decorazione delle volte dell’aula e del presbiterio,

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In alto, a destra crocetta longobarda con decorazione antropomorfa, dalle sepolture dentro la chiesa di S. Giovanni in Valle.

difficilmente intuibile per l’attuale visitatore del monumento, vista l’assenza di tracce. Alcuni frammenti di vetri policromi da finestra, alquanto rari per il periodo, segnalano la presenza di vetrate riccamente decorate, contribuendo a completare il quadro dei caratteri ornamentali di un edificio che appare sempre piú un prezioso scrigno di tesori d’arte. La vita nel cenobio Nell’ultima parte dell’esposizione si possono invece rivivere aspetti della vita del monastero durante l’età medievale e post-medievale, svelati dagli oggetti emersi sia dai contesti d’uso che dal cimitero delle monache, individuato presso la chiesa. Oltre alle

monete, databili dall’età ottoniana all’epoca veneziana, sono esposte suppellettili comuni, della quotidianità, nonché elementi del vestiario e monili appartenuti o utilizzati dalle monache. Particolare risalto è dato a un nucleo di manufatti post-medievali pertinenti alla tavola del convento. Si tratta di ceramiche decorate e di vetri, tra cui un bellissimo calice, rinvenuti in una fogna portata alla luce dagli scavi in un ambiente contiguo alla sede della mostra e sul quale sarà possibile affacciarsi durante la visita. Uno scorcio, sicuramente suggestivo, su uno spaccato di vita delle monache, in grado anche di mostrare la ricca sovrapposizione delle fasi storiche e strutturali del complesso. Luca Villa

Dove e quando «Preziosi ritorni nel monastero» Cividale del Friuli, monastero di S. Maria in Valle dal 25 febbraio Info tel. 0432 710460; e-mail: info@tempiettolongobardo.it; www.tempiettolongobardo.it

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saper vedere cividale del friuli L’affresco sulla parete esterna dell’oratorio, ora inglobata nel monastero di S. Maria e visibile solo dai corridoi di clausura.

I santi martiri

Ai lati degli arconi, sopravvivono solo sei figure di santi e martiri, ultimi resti di una teoria che correva su almeno tre pareti: cinque sono nella parete d’ingresso, e uno – l’unico che conserva parzialmente il nome, per quanto lacunoso: [SANCTUS HAD]REANUS, sant’Adriano – in quella settentrionale. Tutti sono caratterizzati dalla posizione frontale e fissa; il volto somiglia a quello della Vergine nella lunetta. È impossibile trarre conclusioni circa la loro funzione specifica, visto che solo uno di essi può essere identificato con certezza. Vale la pena però sottolineare che Adriano, martire, fu titolare della basilica in cui, secondo Paolo Diacono, vennero sepolti i sovrani Ansprando e Liutprando. È probabile, comunque, che i santi e le sante raffigurate in vario modo alle pareti avessero la funzione di protettrici e protettori della coppia reale che fondò il Tempietto, e quindi, per estensione, dell’intero regno. Si ringraziano per le autorizzazioni alle riprese fotografiche: Comune di Cividale del Friuli, parrocchia di S. Maria Assunta di Cividale del Friuli e Arcidiocesi di Udine. F

Nel prossimo numero ● La Fontana Maggiore di Perugia

Da leggere

conservazione. Esso rappresenta la Vergine col Bambino (Theotokos, ossia «Madre di Dio») contornata dagli arcangeli Michele e Gabriele, in piedi, con la Madonna probabilmente poggiante su un piedistallo. Gli arcangeli hanno con sé i tradizionali scettro e globo crucifero, che simboleggiano la signoria del Creato. La Vergine, nota Torp, non sorregge il Figlio ma lo indica: l’immagine è quindi quella della Vergine Hodighitria, «colei che mostra la via» (cfr Gv. 14, 5-6 che riporta l’autodefinizione del Cristo: «Io sono la via»), i cui prototipi iconografici risalgono al V secolo. La lunetta della parete sud è andata perduta. Ancora secondo Torp, raffigurava san Giovanni Battista con Elisabetta e Zaccaria. Per lo studioso norvegese, le tre lunette con Cristo, la Vergine e il Precursore apparterrebbero dunque a un progetto iconografico ben preciso, che «rappresenterebbe un adattamento alle esigenze della committenza longobarda di un tema che, presso i Bizantini, simbolizza le due nature di Gesú».

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U Laura Chinellato, Maria

U Silvia Lusuardi Siena

Teresa Costantini, L’altare di Ratchis. L’originaria finitura policroma: prospetto frontale e posteriore, in Forum Iulii, XXVIII (2004); pp. 133-156 U Faustino Nazzi, L’epigrafe dell’ara di Ratchis a Cividale del Friuli, in Forum Iulii XXVI (2002); pp. 77-119 U Hans Peter L’Orange, Hjalmar Torp, Il tempietto Longobardo di Cividale, in Acta ad Archeologiam et Artium Historiam pertinentia, VII, 1-3 (1977-1979), «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1993

(a cura di), Cividale longobarda. Materiali per una rilettura archeologica, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2002. U Vittorio Foramitti, Il Tempietto Longobardo nell’Ottocento, Edizioni del Confine, Udine 2008 U Hjalmar Torp, Il Tempietto longobardo. La cappella palatina di Cividale, Comune di Cividale del Friuli, 2006 U Valentino Pace (a cura di), L’VIII secolo: un secolo inquieto, Atti del convegno internazionale di studi. Cividale del Friuli (4-7 dicembre 2008), Comune di Cividale del Friuli, 2010 febbraio

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di Chiara Mercuri

Scrivi,

fratello! San Girolamo nello scriptorium, olio su tavola del Maestro del Parral. 1480-1490. Madrid, Museo Lázaro Galdiano.

Nel corso del Medioevo, grazie all’intensa attività degli amanuensi che operavano negli scriptoria dei grandi complessi monastici, la scrittura viene codificata in forme nuove. Si pongono cosí le basi per gli sviluppi di quello che sarà l’esito piú importante e ancora oggi ben visibile: l’invenzione della stampa. Una vera e propria rivoluzione, che, senza le penne d’oca di tanti anonimi scrivani, Gutenberg non avrebbe mai potuto elaborare


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e prime forme codificate di scrittura furono messe a punto già nel IV millennio a.C. in Mesopotamia, ma furono i Romani, molto piú tardi, a dare vita a una tradizione grafica uniforme. La scrittura aveva subito una graduale normalizzazione, che ebbe come esito la messa a punto di due soli tipi grafici: la capitale epigrafica (corrispondente al nostro stampato maiuscolo) e la corsiva, di uso privato. La prima era diffusa in tutto l’impero, grazie al sistema di insegnamento scolastico che andava dalla Britannia all’Africa del Nord e che prevedeva due livelli: la prima alfabetizzazione (scrivere, leggere e fare di conto) e l’istruzione superiore, attraverso la quale ci si specializzava nei vari rami del sapere. La capitale epigrafica veniva scalpellata seguendo un canone geometrizzante a inquadramento bilineare sulle strutture architettoniche in pietra, pubbliche o private, e tale scrittura veniva utilizzata, con poche varianti, anche per la produzione libraria, che si organizzava in botteghe preposte alla copiatura e al commercio dei libri, detti volumina.

Supporti piú duttili

La diffusione sempre piú massiccia, in età repubblicana, di un uso sociale della scrittura portò anche allo sviluppo e alla normalizzazione della corsiva. Essa scaturí dalla necessità di eseguire il tratteggio con rapidità e anche dalla facilitazione dovuta al tipo di supporto scrittorio. Si trattava, infatti, di un materiale decisamente piú duttile della pietra: tavolette cerate, intonaco, terracotta, papiro. La corsiva era caratterizzata dal tratteggio morbido, dalle forme arrotondate, inserite in un ideale sistema quadrilineare che permetteva lo svettare dal corpo delle lettere di aste superiori e inferiori con presenza di numerose legature. Ben presto tale forma di «preminuscola» (in quanto conteneva insieme caratteri maiuscoli e

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In alto pergamena copta con un passo del Vangelo di Luca in scrittura onciale di tipo biblico. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto pagina miniata della Genesi di Vienna, codice su pergamena tinta di porpora di probabile produzione siriana. Metà del VI sec. d.C. circa. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

minuscoli) sostituí, nella produzione libraria, la capitale e venne utilizzata anche per la stesura di scritture documentarie e amministrative. La diffusione del cristianesimo portò alla formazione di un nuovo pubblico di lettori formato dai fedeli. A partire dalla fine del IV secolo d.C. (dopo che l’editto di Costantino aveva dato pieno riconoscimento alla religione cristiana), essi si mostrarono desiderosi di avvicinarsi ai testi dei loro autori di riferimento: Agostino, Ambrogio, Origene, Gerolamo, Eusebio di Cesarea. Cosí, per

soddisfare tale necessità, nacque un tipo di scrittura nuova, l’onciale, una scrittura in buona sostanza maiuscola (malgrado la presenza di alcune lettere minuscole, come h, p, u, v), che presentava forme molto piú eleganti della capitale romana. L’onciale nacque per influenza della minuscola biblica greca e per iniziativa di alcuni scribi nordafricani, che adattarono le forme dell’alfabeto latino. Essi imposero alla scrittura latina, tramite l’uso della penna d’oca, un tratteggio morbido ed elegante, che le conferí la stessa forma febbraio

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arrotondata della minuscola greca. In linea, poi, con il programma ideologico della nuova religione, l’onciale manteneva (seppure in forme curvilinee e sofisticate) la stessa chiarezza e leggibilità della capitale romana. Venne anche detta «scrittura libraria», in quanto serviva come canone per la copiatura dei libri, e, nel V secolo, era ormai divenuta, anche a livello scolastico, l’unico tipo di scrittura in uso in tutto l’impero romano. Tale quadro unitario fu spazzato via dalla sparizione, in età medievale, del sistema scolastico romano e, con il crollo dell’impero, mutò anche il sistema di produzione dei libri. Nel mondo romano questi ultimi venivano copiati manualmente in botteghe gestite da artigiani laici a cui si rivolgeva una clientela di vario tipo e di diversa estrazione sociale. Con l’avvento del Medioevo, invece, i centri di produzione si spostarono esclusivamente negli scriptoria monastici (vedi box a p. 94), che producevano libri a uso esclusivo del centro religioso. Il mondo dei laici, del resto, non richiedeva piú simili prodotti, in quanto era ormai quasi del tutto analfabeta. Nel Medioevo, infatti, solo i monaci continuarono a essere pienamente alfabetizzati nel senso che diamo oggi al termine, ovvero persone in grado di leggere e utilizzare ogni tipo di scrittura: corsivo, stampato, maiuscolo e minuscolo. Tra i laici, che nella quasi totalità dei casi non ricevevano un’alfabetizzazione di base, emersero lettori e scrittori ibridi: molti laici erano in grado di leggere i documenti, ma non la scrittura libraria, mentre i

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notai longobardi sapevano scrivere solo in corsivo, ovvero nel ductus degli atti notarili (il vocabolo latino ductus, «condotto», «tracciato», indica appunto il tracciato della scrittura a mano, il modo di scrivere, il disegno delle lettere: elementi utili per stabilire la provenienza, l’epoca dei documenti, n.d.r.). Comparve cosí un bizzarro genere di alfabeta, funzionale alla sua sola mansione sociale. L’avvento dei regni romano-barbarici diede vita a un sistema grafico estremamente eterogeneo. In

In alto miniatura rafifgurante la Madonna con il Bambino, dal Libro di Kells. 800 circa. Dublino, Trinity College. Nella pagina accanto pagina miniata contenente parte delle tavole canoniche di Eusebio di Cesarea, facente parte anch’essa del Libro di Kells. 800 circa. Dublino, Trinity College.

Spagna nacque la visigotica, nell’Italia meridionale la beneventana e la barese, in Francia la merovingica e nelle isole britanniche l’insulare.

Lettere oblunghe

Insieme all’Italia, la Gallia era il Paese piú romanizzato d’Europa anche per ciò che concerneva l’assetto culturale e amministrativo. Qui l’onciale subí un cambiamento detto «compressione laterale delle lettere», che si schiacciarono le une contro le altre e si allungarono in maniera esagerata, con aste che svettavano dal corpo della lettera, assumendo un carattere ornamentale. Gli occhielli non erano piú tondi ma, per effetto dello schiacciamento, oblunghi. La Britannia era invece uno dei Paesi meno romanizzati e, in età tardoantica, i Romani avevano abbandonato l’isola a seguito delle invasioni degli Angli e dei Sassoni. Papa Gregorio Magno (540 circa-604) inviò Agostino di Canterbury (primo arcivescovo d’Inghilterra, morto tra il 604 e il 609) e numerosi monaci a rievangelizzare la regione, fondando nuovi centri religiosi. Fu cosí che il monachesimo occidentale conobbe in quelle regioni una fioritura particolare, che ebbe come conseguenza la nascita di monasteri importanti, che si dedicarono anche alla copiatura dei codices (libri) portati da Roma. Anche in Irlanda il lavorio di copiatura dei testi cristiani fu incessante. L’isola, infatti, non era mai stata colonizzata dai Romani e si vedeva per la prima volta raggiun(segue a p. 92)

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Dossier Dal papiro alla carta

Una lunga evoluzione

il papiro Greci e Romani scrivevano a inchiostro sulla carta di papiro confezionata in lunghi fogli che venivano avvolti. I libri formati da interi rotoli di papiro erano detti volumina ed erano conservati in capsae o thecae cilindriche.

la pergamena Nel Medioevo si scriveva quasi esclusivamente su pergamena, costituita da pelle di vitello, capra o pecora. La piú apprezzata era la prima, bianca e morbidissima, mentre nei centri insulari, Irlanda e Gran Bretagna, si diffuse una pergamena di basso pregio: dura al tatto, grigiastra e rigida. Inizialmente, la pergamena venne utilizzata a imitazione del papiro, avvolta in rotoli, ma in seguito si cominciò a farne fogli piegati in due o in tre, a imitazione dei polittici o dei trittici di legno che i Romani usavano per scrivere nelle scuole (le cosiddette tavolette cerate). Successivamente si iniziò a cucire e rilegare con legno piú fogli di pergamena, fino a ottenere la forma dei nostri attuali libri, che nel Medioevo venivano denominati «codices»..

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il codice Tra il IV e il V secolo, si assistette a un vero e proprio processo di «codicizzazione» del mondo occidentale (come lo definí il grande paleografo Armando Petrucci), ovvero di trasferimento dei testi della cultura greca e latina dai volumina ai codici in pergamena. A differenza del papiro, che veniva scritto solo nel «recto» del foglio, il codex (proprio come il nostro libro attuale) permetteva di essere scritto fronteretro, ovvero «recto» e «verso». Le pagine seguivano una numerazione progressiva che, a differenza della nostra, era computata per foglio e non per pagina. Ogni foglio di codice si divide in due facciate, denominate con lo stesso numero distinto in r o v, recto o verso (per esempio, foglio 19r, foglio 19v). Anche i codices, come i rotoli di papiro, potevano essere cancellati e riutilizzati grazie alla pietra pomice. In alto resurrezione di Lazzaro e Cristo davanti a Pilato, pagine miniate del Codex purpureus Rossanensis, manoscritto del Nuovo Testamento, di probabile produzione siriaca. VI sec. Rossano, Museo Diocesano. Nella pagina accanto frammento di intonaco dipinto raffigurante un giovane con un

Qui sotto codice miniato aperto, particolare di un olio su tavola di Gerard David. 1509 circa. Rouen, Musée des Beaux-Arts.

rotolo di papiro (volumen), da Ercolano. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Qui sotto pagina miniata con scena di battaglia della Ilias picta Ambrosiana, manoscritto greco di probabile produzione alessandrina. Fine del V-inizi del VI sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

la carta La carta fece la sua comparsa in Cina all’inizio del II secolo a.C., ma raggiunse l’Europa solo intorno al 1000, passando attraverso il mondo arabo. Tuttavia, la sua significativa diffusione si ebbe solo a partire dal XV secolo, quando si legò allo sviluppo della stampa, soppiantando la vecchia pergamena, che rimase emblema della cultura medievale.

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Dossier la miniatura

Il virtuosismo degli illustratori «Miniatura» deriva dal termine minium, che designa la sostanza di colore rosso (solfuro di mercurio) usata per le iniziali, i titoli e le rubriche di un testo. Miniare significava dunque scrivere in rosso. In seguito, invece, passò a indicare l’illustrazione eseguita a tempera nella pagina di un testo. Nel Medioevo l’arte della miniatura fu detta anche alluminatura o illuminatura, dall’alumen (allume di rocca) utilizzato per far reagire chimicamente alcune materie coloranti vegetali. L’arte della miniatura si sviluppò grazie al passaggio dal rotolo al L’iniziale figurata del Vangelo di Marco, decorata con una figura umana e un motivo zoomorfo, dal Libro di Kells. 800 circa. Dublino, Trinity College. Nella pagina accanto pagina del Libellus de signis coeli, manoscritto dello pseudo Beda, composto a Montecassino, probabilmente sotto l’abbaziato di Bertario (856-883). IX sec. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

ta dal clero britannico, che fondò numerosi monasteri e scriptoria. In tale area si sviluppò un tipo di scrittura denominata «minuscola insulare», caratterizzata da triangoli (chiamati «denti di lupo») applicati all’estremità delle aste, dall’uso di archi acuti nelle curve e di aste discendenti prolungate. Le lettere maiuscole si ottennero attraverso la curiosa fusione tra lettere capitali latine e caratteri runici. Tale scrittura si mantenne pressoché invariata per tutto l’arco del Medioevo, fino a passare, con alcune mo-

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codice, avvenuto tra il I e il III secolo d.C., e decadde con l’avvento della stampa, nel XV secolo. Per tutto il Medioevo Il libro rappresentò quindi un luogo privilegiato per l’espressione della cultura artistica. La scrittura libraria medievale fu concepita per entrare in rapporto con l’illustrazione che l’accompagnava quando si trattava di testi di lusso che prevedevano la realizzazione di illustrazioni. Tuttavia, anche quando si trattava di codici piú modesti, essi venivano decorati con splendide lettere iniziali, dette «incipitali» (da incipit, inizio), che non solo raggiungevano dimensioni notevoli (in molti casi l’intera pagina), ma presentavano elementi ornamentali a intreccio, o vere e proprie figure inserite nell’occhiello delle lettere. A seconda di come veniva ornata, l’iniziale prendeva il nome di «decorata», se ornata da motivi vegetali, zoomorfi difiche, alla stampa con la denominazione di «caratteri gaelici». I Visigoti, che occuparono la Spagna dalla seconda metà del V secolo, erano una delle popolazioni germaniche che conobbero un forte processo di romanizzazione. Essi utilizzarono la lingua e la scrittura romane, che rimasero in uso nella Penisola iberica fino alla conquista araba (711-714). A partire da quel periodo, la corsiva iberica di origine romana si abbellí di aste e finiture ornamentali arabeggianti, con tratteggi sinistrorsi, modulo sottilissimo e filiforme, lettere addossate le une alle altre. Per influenza della lingua araba, aumentò anche l’uso di abbreviazioni con omissione

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o antropomorfi; «figurata», se conteneva figure umane o animali; «istoriata», se raffigurava intere storie. Le miniature per l’età medievale rivestono la stessa importanza che ebbero in altre epoche le arti maggiori, quali la pittura monumentale, il mosaico, la scultura e l’arte orafa. Inoltre, a causa della perdita di molti cicli ad affresco, la miniatura è una delle piú preziose testimonianze iconografiche dell’epoca. Nel Basso Medioevo la professione del miniatore raggiunse una sempre maggiore affermazione sociale, in quanto necessitava di molti anni di apprendistato (fino a sette) presso un maestro o una bottega. Ciò dimostra la grande importanza raggiunta, presso i medievali, dall’arte della miniatura, solo a torto giudicata «minore» dai moderni. Piú di un pittore, infatti, praticò anche l’arte della miniatura: famoso è il caso di Simone Martini.

delle vocali. Anche in Italia si continuò a usare a lungo la minuscola libraria romana, ma, tra il IX e il X secolo, nel monastero benedettino di Montecassino fu creata la beneventana, che, a partire dall’XI secolo, si diffuse in tutti i monasteri benedettini d’Italia.

Il primato benedettino

Montecassino aveva raccolto l’eredità grafica degli scriptoria dell’Italia settentrionale, in particolare di Nonantola (maggiore centro scrittorio d’Europa), a seguito della distruzione, nel 774, del regno longobardo da parte dei Franchi. I monaci che si erano rifugiati nella Langobardia minor portarono

avanti quel processo di normalizzazione di una scrittura italica che si compí attraverso la definizione di uno stile uniforme dal tratteggio fluido e dalle forme rotondeggianti: lettere accostate le une alle altre, con uso fisso dei legamenti. Il canone definitivo di tale scrittura venne raggiunto solo nell’XI secolo, per iniziativa dell’abate di Montecassino, Desiderio (il futuro papa Vittore III, 1027-1087), sotto il cui governo vennero copiati i codici piú preziosi del centro, grazie all’adozione di una penna particolare: mozza a sinistra, per il cui effetto si producevano tratti molto spessi verso destra, ma sottili verso sinistra. La grafia cosí prodotta creava un gran-

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Dossier Lo scriptorium e la copiatura dei libri

La «fabbrica» dei certosini «Arrivati al sommo della scala entrammo, per il torrione orientale, allo scriptorium e quivi non potei trattenere un grido di ammirazione. Il secondo piano non era bipartito come quello inferiore e si offriva quindi ai miei sguardi in tutta la sua spaziosa immensità. Le volte, curve e non troppo alte (...) racchiudevano uno spazio soffuso di bellissima luce, perché tre enormi finestre si aprivano su ciascun lato maggiore, mentre cinque finestre minori traforavano ciascuno dei cinque lati esterni di ciascun torrione; (...) L’abbondanza di finestre faceva sí che la gran sala fosse allietata da luce continua e diffusa, anche se si era in un pomeriggio d’inverno. Le vetrate non erano colorate come quelle delle chiese, e i piombi di riunione fissavano riquadri di vetro incolore, perché la luce entrasse nel modo piú puro possibile, non modulata dall’arte umana, e servisse al suo scopo, che era di illuminare il lavoro della lettura e della scrittura (…). I posti piú luminosi erano riservati agli antiquarii, gli alluminatori piú esperti, ai rubricatori e ai copisti. Ogni tavolo aveva tutto quanto servisse per miniare e copiare: corni da inchiostro, penne fini che alcuni monaci stavano affinando con un coltello sottile, pietrapomice per rendere liscia la pergamena, regoli per tracciare le linee su cui si sarebbe distesa la scrittura. Accanto a ogni scriba o al culmine del piano inclinato di ogni tavolo, stava un leggío, su cui posava il codice da copiare, la pagina coperta da mascherine che inquadravano la linea che in quel momento veniva trascritta. E alcuni avevano inchiostri d’oro e di altri colori. Altri invece stavano solo leggendo libri, e trascrivevano appunti su loro privati quaderni o tavolette» (Umberto Eco, Il Nome della Rosa). Centro della produzione del libro manoscritto in età altomedievale è lo scriptorium, posto generalmente all’interno di una grande abbazia e, piú raramente, a fianco di una chiesa-cattedrale. Accanto allo scriptorium sorgeva la biblioteca, che però,

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nell’Alto Medioevo, non era un luogo organizzato in maniera funzionale alla consultazione e allo studio, quanto alla conservazione dei libri. Nello scriptorium si preparava la pergamena, si rigavano le pagine, si copiava il testo, lo si decorava con illustrazioni e, infine, se ne eseguiva la legatura. Per la copiatura – generalmente –, erano gli stessi monaci a eseguire il paziente lavoro (da cui l’espressione «certosino», colui che esegue un lavoro paziente e preciso), a cui erano stati preparati fin da giovanissimi, non appena si mostravano inclini a padroneggiare una grafia chiara e leggibile. Negli scriptoria potevano lavorare anche persone esterne al monastero, soprattutto per ciò che atteneva alla miniatura (vedi box alle pp. 92-93). Di solito, infatti, erano i laici a illustrare i manoscritti, una volta terminata l’opera di copiatura, anche se nei codici la distinzione tra calligrafo (scrittore) e miniatore (illustratore) rimane ambigua. Nell’Alto Medioevo, gli scrittori, in genere chiamati «copisti», eseguivano i testi in maniera non uniforme tra i vari centri di produzione. Ciascuno seguiva un proprio canone, che finiva per contraddistinguerlo. A partire dal IX secolo, gli scriptoria divennero vere e proprie scuole di scrittura, presso le quali maestri specializzati inventarono canoni codificati, che diedero vita a vere e proprie tipologie grafiche. Ancora oggi, da una semplice analisi grafica, è possibile comprendere da quale centro scrittorio provenga un determinato manoscritto. Il copista, scrittore e traduttore Jean Miélot al lavoro nello scriptorium, miniatura di Jean I Le Tavernier. 1456 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. febbraio

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Dossier A sinistra pagina dal manoscritto cassinese dei Sermones et homiliae diversorum Patrum, in scrittura beneventana, con lettera C iniziale decorata da motivi vegetali. 1072 circa (abbaziato di Desiderio). Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino. Nella pagina accanto Preghiera del Diacono, particolare miniato dal rotolo I degli Exultet di Bari, in scrittura beneventana di tipo barese. XI sec. Bari, Museo Diocesano della Cattedrale. Questi manoscritti liturgici erano illustrati in senso inverso al testo per facilitarne la visione ai fedeli allorché il celebrante, durante le funzioni, dall’alto del pulpito svolgeva il rotolo via via che procedeva nella lettura.

de effetto visivo, in quanto ottenuta con un ductus estremamente contrastato nei vuoti e nei pieni, facilmente riconoscibile per i suoi caratteristici «rombi». In Puglia la beneventana acquisí una tipizzazione particolare, la «barese». Nell’XI secolo nella regione si

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era riaffermata la presenza bizantina che aveva reso piú diretta l’influenza dei modelli greci che portarono le forme della beneventana ad assumere un aspetto estremamente tondeggiante; le aste si ridussero anche grazie all’adozione della penna greca a punta rigida: il tratteggio

si fece sottile e uniforme. Intanto dalla Gallia, sin dal IX secolo, per volontà di Carlo Magno e della sua corte, si era imposto un tipo di scrittura estremamente semplificata, che prese il sopravvento su tutte le altre tipologie grafiche. L’innovazione faceva parte dell’amfebbraio

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Dossier Placca in avorio intagliato di scuola carolingia, probabilmente copertura di un codice, raffigurante san Gregorio Magno nell’atto di scrivere e tre scribi. 850-875 circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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bizioso programma di rinascita culturale messo in atto dall’imperatore, e che aveva come obiettivo la formazione di personale amministrativo alfabetizzato e una maggiore uniformità culturale all’interno del ricostituito impero. Per arrivare al tipo di scrittura voluto da Carlo Magno fu riadattata la minuscola romana, tramandata dai codici del IV e V secolo. La corte carolingia fece copiare e diffondere in tutto l’impero tali codici, con l’intento di uniformare il sistema grafico.

L’avvento della carolina

La minuscola romana fu in parte rinnovata, attraverso la trasformazione ulteriore – in senso minuscolo – di alcune lettere. Il modulo fu mantenuto semplice ed equilibrato nelle forme, estremamente leggibile, quasi privo di legamenti e abbreviazioni. Tale scrittura, che prese il nome di carolina, si diffuse come scrittura ufficiale in tutti i centri dell’impero. Il suo successo fu tale da divenire, con alcune varianti, il

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All’indomani dell’avvento di Carlo Magno vede la luce un nuovo tipo di scrittura, di cui si conserva traccia anche nei moderni caratteri a stampa Il manoscritto noto come Paderborner Epos, nel quale è citato l’incontro a Paderborn tra Carlo Magno e papa Leone III. 799-primi anni del IX sec.

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Nella pagina accanto particolare della Madonna del Magnificat di Sandro Botticelli, con la mano della Vergine che intinge una penna d’oca in un calamaio. 1481-1485 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi, A destra miniatura raffigurante san Dunstan, arcivescovo di Canterbury, mentre copia la Regola di San Benedetto. 1170 circa. Londra, British Library.

modello per l’alfabetizzazione di base dell’epoca, ed è ancora oggi in uso per il nostro abecedario della scuola primaria (mentre per il maiuscolo continuiamo a servirci della capitale epigrafica romana). La carolina forní anche la base di uno dei piú diffusi caratteri a stampa. Dopo il Mille, con la rivitalizzazione dei centri urbani e la nascita delle scuole cattedrali, l’insegnamento venne riorganizzato secondo il canone delle arti liberali, fissato dallo scrittore Marziano Capella (attivo nella prima metà del V secolo) in due gruppi: del sapere letterario (il cosiddetto Trivio: grammatica, retorica, dialettica) e del sapere scientifico (il cosiddetto Quadrivio: aritmetica, musica, geometria e astronomia).

Come un’architettura

Nella seconda metà dell’XI secolo comincia ad affermarsi in Francia, Inghilterra e Germania l’uso di una nuova penna d’oca, con taglio obliquo a sinistra, che, come abbiamo visto anche per il caso della scrittura beneventana, produceva un grande contrasto tra lo spessore dei tratti grossi e l’esilità dei tratti sottili. L’uA sinistra penne e portapenne. XV sec. Parigi, Musée de ClunyMusée national du Moyen Âge.

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In alto pagina miniata con scene di cucina, dal manoscritto dei Luttrell-Psalter, una raccolta di 150 salmi commissionata da Sir Geoffrey Luttrell di Irnham. 1320-1340. Londra, British Library. A destra Treviso, Seminario Vescovile. Monaci in lettura, particolare dell’affresco dei Quaranta personaggi illustri dell’Ordine Domenicano, di Tommaso da Modena. 1532. Sui libri e nelle colonne sono riportati testi in scrittura gotica.

so del nuovo strumento comportò anche la sparizione di curve negli archi delle lettere. Al loro posto si generarono veri e propri angoli acuti, come quelli in uso nello stesso periodo nelle strutture architettoniche prodotte dall’arte gotica. Proprio a motivo della primitiva area di adozione della nuova grafia (il Nord Europa) e della presenza di tali angoli, in età umanistica tale nuova scrittura fu denominata gotica. Essa conobbe una diffusione straordinaria in quanto si affermò come scrittura propria dell’insegnamento uni(segue a p. 107)

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Dossier il commercio dei libri

I primi «bibliofili»

Nel XIII secolo il centro di produzione del libro si sposta al di fuori del monastero. Se nell’Alto e pieno Medieovo, solo i monaci padroneggiavano pienamente la tecnica della scrittura e della lettura, con la rinascita dei centri urbani, una piú vasta classe di alfabeti si affaccia sulla scena sociale. Con lo sviluppo delle università, tra il XII e il XIII secolo, una cultura laica comincia a trovare un suo spazio a fianco di quella religiosa, fino ad allora dominante. Nel 1158, Bologna ricevette il suo riconoscimento da parte dell’autorità imperiale e, nei primi anni del XIII secolo, seguirono anche le Università di Parigi e di Oxford, alle quali si aggiunsero, poco piú tardi, Padova (1222), Napoli (1224), Roma (1303), Perugia (1308) e

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Pisa (1340). Ciò portò a un aumento della richiesta di libri da parte degli studenti, e, di conseguenza, alla creazione di un vero e proprio commercio librario, che si organizzò in forme imprenditoriali molto avanzate. Si diffusero, infatti, accanto a ogni centro universitario, botteghe di cartolarii e di stationarii. I primi producevano le pergamene, mentre i secondi si specializzarono nella copiatura dei libri di testo. Le università di Parigi e Bologna inventarono un modo di produzione del libro basato sul sistema della «pecia». Esso consisteva nella preparazione di copie ufficiali, chiamate «exemplaria», che venivano approvate e corrette dal collegio dei professori. In un secondo momento, tali copie venivano depositate presso gli febbraio

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In basso, sulle due pagine lezione di teologia alla Sorbona, miniatura dalle Postilles sur le Pentateuque di Nicolas de Lyre. XV sec. Tours, Bibliothèque Municipale.

Una lezione al collegio di Legge e la bottega di un venditore di libri, particolari della pagina miniata da un manoscritto di scuola italiana della Novela super Sexto di Jean André. XIV sec. Cambrai, Bibliothèque Municipale.

stationarii, ufficialmente riconosciuti da ciascuna università. Tali esemplari venivano affittati, a prezzi prefissati, ai copisti (di norma laici), i quali realizzavano le repliche secondo l’ordinazione ricevuta. A volte i copisti erano gli stessi studenti, i quali con tale attività si pagavano gli studi, e potevano anche essere donne. I libri universitari non venivano mai consegnati in volume unico, ma divisi in fascicoli (detti «pecie»), in maniera che lo stesso testo potesse essere duplicato da piú copisti contemporaneamente nelle sue diverse parti. Tali fascicoli servivano anche come unità di misura per il pagamento del lavoro del copista. Il lavoro di scrittura e miniatura divenne cosí un vero e proprio mestiere,

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esercitato da professionisti specializzati, organizzati in corporazioni e residenti in uno stesso quartiere della città. Vari documenti danno conto dei contratti di incarico o dei compensi relativi alla realizzazione dei libri secondo le varie mansioni: pro scriptura, pro miniatura, pro copiatura. La nascita di un ceto borghese e mercantile trasformò il libro, da oggetto raro, in strumento di lavoro. Si iniziò, infatti, a commissionare libri finalizzati allo studio e alla pratica dell’attività notarile, medica, giudiziaria, cancelleresca, ecc. Nel XIV e nel XV secolo, poi, la produzione aumentò ancora, a motivo delle richieste da parte di ricchi committenti laici, ormai pienamente alfabetizzati, di libri a uso privato: studio, lettura, preghiera.

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Dossier Johann Gutenberg

L’invenzione della stampa I caratteri mobili erano stati inventati alla metà del Mille in Cina. Si trattava di blocchi di creta a forma di ideogrammi dell’alfabeto cinese, che venivano incollati su un supporto e premuti su carta, dopo aver ricevuto un bagno d’inchiostro. Nel XIII secolo, sempre in Cina, tali caratteri vennero sostituiti con quelli intagliati nel legno. Circa un secolo piú tardi, sempre in Asia, si passò all’invenzione dei caratteri mobili in metallo. L’idea di tale procedimento si diffuse attraverso i commerci anche in Europa, dove la nascita delle università e l’introduzione della carta avevano portato a un notevole aumento della richiesta di libri.

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Johann Gutenberg (1394/1399-1468), maestro orafo-numismatico della corporazione degli orafi di Magonza, ebbe l’idea di riprodurre meccanicamente i manoscritti miniati vergati a mano dagli amanuensi. Per analogia con le tecniche usate dai metallurgi per lo stampo dei sigilli e delle le iniziali su ceralacca, egli coltivò il progetto di utilizzare un principio analogo a quello del rilievo per realizzare timbri capaci di stampare inchiostro su carta senza limiti di tiratura. Realizzò allora i «piombini», timbri in metallo con lettera in piombo, caratteri mobili che potevano essere spostati a piacimento per realizzare il testo da stampare. In seguito, intrecciò un sodalizio con l’orafo Johann Fust e il calligrafo Peter Schöffer: il primo doveva garantirgli il finanziamento necessario al progetto, il secondo fornire consigli utili sulle tecniche di riproduzione delle lettere. Da tale sforzo, nel 1455, nacque la prima edizione a

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stampa, che fu quella di una Bibbia. I primi libri stampati da Gutenberg mantennero ancora lo spazio per le miniature che venivano eseguite a mano in un secondo tempo. Anche per tale motivo e per il bassissimo numero di esemplari tirati, i primi esemplari si rivelarono estremamente antieconomici, e non ancora in grado di competere con quelli realizzati dai copisti specializzati. Per Johann Gutenberg, assorbito dall’esclusivo carattere sperimentale della sua ricerca, l’eccezionale scoperta si trasformò in un vero e proprio tracollo finanziario: impossibilitato a restituire gli innumerevoli prestiti a Johann Fust, fu da questi portato in giudizio e, privato di tutti i suoi mezzi di produzioni, finí la sua vita in povertà. Negli anni successivi, la tecnica da lui inventata si perfezionò altrove, in particolare in Italia. La messa a punto, proprio in Italia, della tecnica della stampa determinò un cambiamento degli stessi caratteri. Gutenberg aveva infatti realizzato piombini che riproducevano i caratteri gotici, mentre gli Italiani

adottarono i caratteri della «carolina» che, con alcune varianti, erano divenuti quelli della scrittura dominante in Italia nel Quattrocento: l’umanistica. La prima stamperia sorta fuori dalla Germania fu quella dell’abbazia benedettina del monte Subiaco (presso Roma), che poté avvalersi del lavoro di avviamento di due artigiani tedeschi, Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz. Sempre per iniziativa di due fratelli tedeschi, Johann e Wendelin Speier, Venezia (dove i due furono attivi tra il 1468 e il 1477) divenne in pochi anni il maggiore centro per la produzione di testi a stampa d’Europa e si specializzò nella produzione di testi filosofici. Milano e Firenze si caratterizzarono come centri di produzione dei testi di carattere religioso e letterario, mentre Bologna trasferí sui caratteri mobili la sua tradizionale primazia nel campo del diritto e della scienza. Tutti i libri stampati nel Quattrocento, vennero denominati «incunaboli», in quanto libri «in culla» (in latino «cuna»). Mentre quelli stampati nel corso del Cinquecento presero il nome di cinquecentine.

Nella pagina accanto Gutenberg inventa la stampa, olio su tela di Jean-Antoine Laurent. 1830. Grenoble, Musée de Grenoble. In basso una copia della Bibbia di Gutenberg, detta anche «delle 42 righe», il primo libro stampato con caratteri mobili, con testo organizzato su due colonne e miniature realizzate a mano. 1455. Magonza, Gutenberg Museum.

versitario, giunto alla sua massima fioritura nel XIII secolo. In tutta Europa i centri universitari fecero lievitare il mercato del libro manoscritto. Le esigenze di carattere didattico portarono alla creazione di un perfetto inquadramento delle parole all’interno delle righe, che conferí al nuovo sistema grafico un aspetto stretto e serrato, con scarso sviluppo delle aste. Ciò permetteva di far entrare molte piú parole all’interno di una singola pagina, soprattutto se essa veniva copiata con incolonnamento doppio: è stato stimato che un testo scritto in gotica occupa un terzo di pagina, rispetto a un suo corrispettivo vergato in carolina. Al fine di creare un prodotto il piú possibile economico, tale scrittura fu anche caratterizzata dall’impiego massiccio delle abbreviazioni che dovevano ve-

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Dossier La stamperia di Gutenberg cosí come fu immaginata in una incisione cinquecentesca. Collezione privata.

locizzare la copiatura e la lettura dei testi. Esse si ottenevano per contrazione della parola, tramite la soppressione di lettere o di sillabe intermedie. Per indicare le sillabe cadute si usavano di norma il punto e virgola, l’apostrofo o un semplice trattino sovrascritto. Il punto e virgola (a volte trasformato in «2» soprascritto) di norma sostituiva la sillaba «er» (come subt; per «subpter»); l’apostrofo posto in alto sul rigo indicava la caduta della sillaba «us» come Domn’ per «Dominus», bon’ per «bonus» o adorem’ per «adoremus». Il semplice trattino posto al di sopra di un gruppo di lettere era il sistema piú diffuso per indicare la caduta di vocali o consonanti, come nel caso di Sto per «Sancto». Il trattino su una lettera singola indicava l’omissione di una o piú consonanti (di solito «m» ed «n») come nel caso di hoium per «hominum», oppure noia per «nomina», di «e» per «est». La lettera «p» veniva abbreviata in tre modi diversi: con lineetta sovrascritta per «prae», con lineetta tagliata a croce nell’asta discendente per «per» e con lineetta a taglio obliquo nell’asta discendente per «pro». Le abbreviazioni venivano poi sempre impiegate nel caso dei «nomina sacra»: DS per «Deus»; IHS XPS per «Iesus Christus»; DNS per «Dominus», SS per «Sancti» (da cui la nostra abbreviazione «santi», per esempio Piazza SS. Apostoli, ovvero piazza santi Apostoli e non «santissimi» come erroneamente si ritiene).

Uno strumento elitario

Alcuni segni abbreviativi mantenevano nella loro veste grafica una scarsa relazione con la sillaba o la parola che sostituivano, come nel caso del numero 7, che corrispondeva alla congiunzione «et». Poiché Oltralpe tale segno veniva impiegato con taglio verticale dell’asta,

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esso si rivela estremamente utile per distinguere, a colpo d’occhio, la gotica italica da quella transalpina. La contrazione della maggior parte delle parole che componevano il testo rese tale scrittura fruibile solo da parte di persone altamente istruite, in grado di sciogliere correttamente i segni abbreviativi e di distinguere

le singole lettere che spesso presentavano aste verticali in comune. I fattori che favorirono la straordinaria diffusione della nuova scrittura furono senz’altro, come abbiamo detto, il suo impiego in ambito scolastico e universitario e la pratica, da parte degli «intellettuali», di iniziare a scrivere e copiare febbraio

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da sé le proprie opere. Fu tuttavia il mutato quadro economico-sociale a decretare il vero e duraturo successo della nuova scrittura: la rinascita dei centri urbani, l’ascesa di una nuova classe sociale ricca e ambiziosa, la ripresa dell’uso abituale della lettura e della scrittura e, in particolare, l’affermarsi dell’idea che tali

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strumentalità rappresentassero un elemento di distinzione sociale. Tali fattori incisero profondamente sull’immaginario prima ancora che sulle pratiche, facendo sí che nei secoli a venire, e ancora oggi, s’identificasse – a torto - l’età medievale tutta con i caratteri acuti e serrati della scrittura gotica. V

Da leggere U Armando Petrucci, Breve

storia della scrittura latina, Bagatto Libri, Roma 1989 U Luisa Miglio, Donne, scrittura e libri nel Medioevo, Viella, Roma 2008

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caleido scopio

Caccia al soldo libri • Se quello medievale era un mondo

«perennemente affamato di denaro», quali erano le soluzioni piú diffuse per far fronte a un simile bisogno?

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rutto di un convegno tenutosi a Bologna nel 2012, il volume affronta un argomento di notevole attualità, quello delle concessioni di credito – nella molteplicità delle sue forme – tra il Duecento e l’Ottocento: credito alle attività commerciali e manifatturiere; credito «improprio», mascherato cioè da finta elemosina destinata a enti religioso-assistenziali; credito «informale», come quello al consumo per le compravendite al dettaglio, ampiamente diffuso, in ambito urbano e rurale, in ogni parte d’Europa, fin dal XIII secolo. Ne emerge il quadro di un fenomeno tutt’altro che marginale e di una società legata – a ogni livello - a questa pratica da nodi molto stretti, in una miriade di forme diverse. Gli operatori tradizionali del settore (banchieri, cambiatori, Monti di Pietà), infatti, non ne detenevano affatto l’esclusiva, non essendo

la loro attività sufficientemente estesa e diffusa: in un mondo perennemente affamato di denaro, una molteplicità svariata di forme di finanziamento diverse e inusitate si dipanava capillarmente a ogni livello e in ogni strato sociale, sorretta dall’inventiva e dalla preparazione tecnica dei soggetti coinvolti.

Un’istituzione innovativa In questo panorama l’istituzione dei Monti di Pietà (avvenuta intorno alla metà del XV secolo a opera dei Francescani) fu decisamente innovativa, sia per il modo di operare, sia per la natura pubblica e solidaristica del prestito che concedeva. La circolazione dei pegni, infatti, offriva una risposta alla continua necessità di piccole somme per curare economie asfittiche, e risolvere, almeno temporaneamente, la precarietà continua di famiglie al limite della povertà, consentendo L’attività di un banco in una incisione dal Libro di Mercatantie et usanze de paesi. 1490 circa. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.

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Mauro Carboni, Maria Giuseppina Muzzarelli (a cura di) Reti di credito. Circuiti informali, impropri, nascosti (secoli XIII-XIX) Bologna, Il Mulino, 439 pp. 32,00 euro ISBN 978-88-15-25190-9 www.mulino.it anche di combinare le esigenze di chi disponeva di modesti capitali da investire (che depositava al Monte), e di chi aveva bisogno di un piccolo finanziamento a condizioni non rovinose. Fin dall’epoca medievale non era irrilevante, poi, il problema del finanziamento alle imprese artigiane, in particolare quando si trattava di attività con alti costi (per le materie prime o i macchinari). La questione poteva essere risolta mediante il ricorso a un socio finanziatore, o con il tentativo, da parte dell’artigiano stesso, di ottenere credito in vario modo: per esempio mediante il pagamento posticipato e dilazionato delle materie prime (come avveniva a Roma nel Quattrocento per l’edilizia), o la richiesta ai mercanti di somme garantite da un pegno (a volte abiti e oggetti preziosi). La fiducia generata dai vincoli di vicinato e dall’appartenenza alla febbraio

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medesima categoria rappresentava in genere la motivazione principale alla concessione del credito.

Donne imprenditrici Tra gli erogatori di prestiti per attività manifatturiere e commerciali non mancavano le donne, sempre propense a investire proficuamente la propria dote in traffici che rendessero loro un piccolo interesse, o a finanziare l’attività dei mariti. A Roma, nel secondo Quattrocento, la cosa era tanto diffusa che esistevano figure femminili, le «imperlatrici», dotate delle competenze tecniche necessarie a valutare i preziosi che altre donne cedevano in pegno per ottenere somme da investire in attività manifatturiere. Donne che erogavano piccoli prestiti si trovano nel Trecento e nel Quattrocento un po’ in tutta Europa (numerosi gli esempi in Catalogna) e riguardavano in buon numero persino le religiose che non esitavano a investire in tal modo la propria dote monacale. Al di fuori dei grandi circuiti finanziari che facevano capo ai grandi mercanti-banchieri o ai professionisti dell’attività feneratizia, esistevano dunque reti creditizie informali che attraversavano la società rivitalizzandola. Fin dal XIV secolo, il credito informale rivestiva un ruolo altrettanto fondamentale nel commercio al dettaglio: la maggior parte dei generi alimentari, infatti, veniva acquistata con pagamenti dilazionati nel tempo, come rivela chiaramente la contabilità degli ospedali. Quanto al credito «improprio», i saggi contenuti nel volume mostrano come confraternite, ospedali e luoghi caritativo-assistenziali costituissero, fin dal Medioevo, vere e propire «aziende» collettrici della ricchezza proveniente da lasciti ed elemosine, che ridistribuivano sotto forma di sussidio a favore dei bisognosi. Maria Paola Zanoboni

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Lo scaffale Massimo Oldoni L’Ingannevole Medioevo Nella storia d’Europa: letterature «teatri» simboli culture

Liguori Editore, Napoli, 2 tomi indivisibili, 1026 pp. complessive, 32 tavv. col. f.t.

73,99 euro ISBN 978-88-207-5415-0 www.liguori.it

Esiste una landa ancora da scoprire, in quel Medioevo che ci illudiamo di conoscere: è l’universo della letteratura mediolatina. Scorrere i nomi degli scrittori latini dell’«età di Mezzo», infatti, significa spesso trovarsi di fronte a emeriti sconosciuti. Vi sono letterati noti per le loro vicende personali piú che per la loro opera, come il grande Abelardo, consegnato all’eternità grazie alla sua infausta storia d’amore con Eloisa. E tengono banco citazioni fortunatissime, ripetute infinite volte: quando si parla della rinascita dell’Anno Mille, per esempio, è d’obbligo citare il monaco Rodolfo il Glabro, perché sua è l’immagine di un mondo che si ricopre d’incanto di una «candida veste» di ampie e splendide chiese. Ma, al di là di quel brano celeberrimo, sappiamo citare uno dei tanti passi altrettanto significativi che costellano le Storie di Rodolfo? E di lui, che

cosa sappiamo? Ma, piú in generale, cosa sappiamo della cultura letteraria del Medioevo? Di sicuro, viene d’istinto il ricorso a un’altra immagine di grande fortuna, coniata proprio da un letterato medievale, Bernardo di Chartres. Per l’arcidiacono della cattedrale francese, gli uomini del suo tempo, in rapporto alla sapienza degli antichi, sono come nani sulle spalle dei giganti:

piccoli di statura, certo, ma, una volta saliti fin lassú, capaci di guardare piú in là dei loro illustri predecessori. È un omaggio reverente o, al contrario, una sfida sorniona alla tradizione classica? Nella sua vasta «scorribanda» lungo i molti percorsi che si irradiano dal cuore pulsante del mondo mediolatino, Massimo Oldoni si affida alle numerosissime fonti indagate, che fanno

da solido tessuto all’esposizione, in originale e in versione tradotta (e in molti casi si tratta di traduzioni proposte per la prima volta ai lettori italiani). Esperto in materia di lunga data, ma anche brillante comunicatore, Oldoni rinuncia subito a un’impostazione sistematica, e si affida a un’inesauribile vena narrativa. Agli occhi di chi si immagina una letteratura esaurita nelle problematiche religiose, stanca, ripetiva, priva di mordente, povera di stile, abbarbicata all’esempio degli antichi come unica fonte di ispirazione, si dipana un caleidoscopio portentoso. Il Medioevo latino si rivela come una irriverente boîte à surprise, una scatola comodamente etichettata, ma che, una volta aperta, ci riserva sorprese a non finire: un mondo pieno di sfaccettature, disseminato di inganni, proprio perché nutrito di realtà, di esperienza diretta, di viva voce. E questo mondo cosí nuovo e portentoso, nella lingua come nei contenuti, si muove consapevolmente verso la modernità, sicché si può parlare di una letteratura (e di un’epoca) «in transito», non di semplice

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caleido scopio transizione. Quel che vediamo, in definitiva, non è un esile ponte tra due massicce sponde, ma una corrente vorticosa che confluisce nella nostra stessa identità. Furio Cappelli

34,00 euro ISBN 978-88-15-25189-3 www.mulino.it

impreziosendosi man mano che nuovi tessuti e materiali entravano nell’uso comune. Dai manufatti in cotone sempre piú sofisticati, si passò alla seta, progressivamente arricchita di fili d’oro e ricami, e al preziosissimo bisso, materiali che i pittori, a partire dal XIII secolo, fecero a gara nel rappresentare. Trattandosi di un accessorio tipicamente femminile, da un capo all’altro dell’Europa l’organizzazione produttiva e commerciale di questo manufatto era completamente in

Oggi ritenuto espressione tipica del mondo islamico, il velo, in realtà, era assai diffuso anche in Occidente: fin dall’antichità greca e romana abbondano le testimonianze sull’uso femminile di portare il capo coperto, un’abitudine che caratterizzò anche l’epoca medievale. Denso di significati simbolici di ogni tipo, che arrivavano a toccare la sfera filosofica e quella del diritto, tale accessorio finí per diventare, dal Due/Trecento in poi, un complemento di moda indispensabile tanto nei corredi che nell’uso quotidiano, arricchendosi e

sempre nuovi e sempre piú sofisticati per aggirare di volta in volta i divieti. La moda aveva insomma trasformato l’obbligo alla copertura del capo per umiltà in una ostentazione di ricchezza e originalità. Perciò, quando alla fine del Quattrocento, e ancor piú nel Cinquecento, si diffusero veli di seta sempre piú elaborati, in molte città la legislazione intervenne, limitando l’utilizzazione dei metalli preziosi e vietando l’uso di copricapi inadeguati. Il volume, che costituisce la pubblicazione degli atti di un convegno tenutosi a Bologna nel 2013, prende appunto in esame tutte le possibili tematiche connesse a questo accessorio, da quella produttiva e commerciale, a quella artistica, a quella filosofica, simbolica e giuridica. Maria Paola Zanoboni

mano alle donne. Fin dal Duecento tanto i legislatori che i frati nelle loro prediche si erano occupati della copertura del capo femminile, raccomandando veli modesti al posto di ghirlande e ornamenti eccessivi, con il risultato di stimolare nelle interessate l’ideazione di articoli

Maureen C. Miller Vestire la Chiesa Gli abiti del clero nella Roma medievale

Maria Giuseppina Muzzarelli, Maria Grazia Nico Ottaviani, Gabriella Zarri (a cura di) Il velo in area mediterranea tra storia e simbolo. Tardo medioevo – prima Età moderna Bologna, il Mulino, 456 pp., ill.

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Viella, Roma, 127 pp., 33 ill. f.t.

22,00 euro ISBN 978-88-6728-290-6 viella.it

In un’epoca, come quella medievale, in cui la comunicazione visiva prevaleva su un analfabetismo

imperante e in cui il modo di proporsi di fronte alla società era parte essenziale di una strategia volta a imporre il proprio ruolo politico, elementi come l’abbigliamento e l’apparato ornamentale a esso relativo, hanno avuto un ruolo simbolico fondamentale. E, sin dalla prima era cristiana, una certa sensibilità verso la caratterizzazione visiva dello status clericale è andata affermandosi anche attraverso lo splendore sartoriale, grazie a scelte atte a rimarcare il potere spirituale e secolare del papa e delle altre gerarchie ecclesiastiche. Tematica di grande interesse, lo studio dell’abbigliamento clericale e della sua evoluzione rivela un’interessante prospettiva da cui osservare lo sviluppo del potere della Chiesa e, soprattutto, le dinamiche sorte attorno a eventi come la lotta per le investiture e la riforma gregoriana. Maureen C. Miller analizza il fenomeno

con linguaggio semplice e lineare, e traccia la storia dell’abbigliamento clericale, con una particolare attenzione all’ambiente romano, sottolineandone le peculiarità e illuminandoci sui numerosi elementi ricavati sia dalle fonti storiche, sia dalle testimonianze iconografiche che corredano il volume. Una particolare attenzione viene rivolta ai dati iconografici tratti dagli affreschi della basilica inferiore di S. Clemente a Roma, dove ben evidente si manifesta l’adozione della moda d’Oltralpe, caratterizzata da abbigliamenti lussuosi, che andranno affermandosi nel XII e XIII secolo; una tendenza confermata da numerose testimonianze ricavate dagli inventari papali, in cui si citano indumenti liturgici di provenienza germanica, inglese ma anche cipriota, spagnola e tartara (panni tartarici). A riprova dell’ostentazione della figura del papa e del suo potere spirituale, nel tentativo, riuscito, di affermazione della propria autorità monarchica sulla Chiesa universale. Franco Bruni febbraio

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Una Cantilena di classe

musica • L’ensemble diretto da Stefano Albarello offre un’ennesima riprova della

sua maestria e versatilità, spaziando in maniera convincente da composizioni tipiche dell’arte trobadorica a partiture nate nell’ambiente della corte carolingia

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anto mi allietano gioia e canto e allegrezza, sollazzo e cortesia (…) Dunque so bene che madonna tiene le chiavi di tutti i beni che io attendo e spero, e niente di ciò senza lei posso avere». Tratte dalla canso «Tant m’abelis joys et amors», queste parole esprimono perfettamente l’universo poetico del trovatore Berenguer de Palol. Nato in Catalogna, sono molto scarse le notizie biografiche su questo personaggio, vissuto nel XII secolo. Sebbene si conservi solo una decina di composizioni a lui attribuibili, la sua produzione rappresenta un vero e proprio manifesto poetico dell’arte trobadorica, che dal XII al XIV secolo si diffuse in molte regioni d’Europa. Nelle sue liriche traspare in maniera potente il sentimento dell’uomo/poeta/amante verso la donna amata, decantato nelle sue varie sfaccettature: dal tormento amoroso, all’irraggiungibilità dell’oggetto desiderato, alla pura contemplazione, sino al completo soggiogamento psicologico che spinge il poeta a fare di tutto pur di ricevere le attenzioni dell’amata.

liutista, che si esprime in una delicata voce di falsetto. Bellissime sono le melodie di Berenguer, anche se, in realtà, non è possibile stabilire con certezza assoluta se sia stato autore delle musiche come dei testi; sicuramente si tratta di sviluppi melodici di particolare bellezza e che la voce di Albarello asseconda con un fare quasi sinuoso, con

Le sonorità recuperate Nell’antologia Joys amors et chants. Berenguer de Palol - XII cent. (Passacaille 978, 1 CD, www. passacaille.be) ascoltiamo dieci cansos del trovatore catalano, interpretate dall’Ensemble Cantilena Antiqua, uno dei rarissimi gruppi italiani consacratosi al repertorio medievale. Ottimo è il lavoro di recupero delle sonorità originali come anche l’approccio vocale, affidato a Stefano Albarello, direttore dell’ensemble, nonché

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tenui glissandi a rimarcare i languidi sentimenti descritti nei testi. Con Paolo Faldi ai flauti, Gianfranco Russo alla viella e Marco Muzzati al salterio e alle percussioni, si completa un quadro sonoro piuttosto affascinante nella sua dimensione intimistica, offrendo un’interpretazione che esprime al meglio la vita «amorosa» del poeta.

Alla corte di Aquisgrana Spostandosi a ritroso di qualche secolo, in piena età carolingia, il disco Epos. Musica dell’era carolingia (Passacaille 974, 1 CD, www. passacaille.be) propone brani monodici di raro ascolto, espressione di quel ritorno alla classicità che ha caratterizzato l’ambiente culturale alla corte di Aquisgrana. In questo audace esperimento, ritroviamo l’Ensemble Cantilena Antiqua, qui alle prese con un repertorio tramandatoci in un codice a notazione neumatica, in cui l’aleatorietà della grafia musicale lascia ampio spazio interpretativo all’esecutore. Grazie alla lunga frequentazione dei repertori medievali da parte dell’ensemble, l’operazione risulta anche in questo caso felicemente riuscita. I grandi autori della tradizione classica e tardo-antica, come Orazio, Boezio e soprattutto l’Eneide virgiliana, riecheggiano in questi frammenti melodici, senza tralasciare alcuni toccanti brani legati alle cronache dell’epoca come il Planctus Karoli sulla morte di Carlo Magno e quello sulla battaglia di Fontenoy (841). Tratte dal manoscritto Lat. 1154 della Biblioteca Nazionale di Francia, le monodie, vengono riportate mirabilmente in vita dalla voce di Albarello, il quale offre qui un’interpretazione piú asciutta e discreta, con una particolare cura nella scelta del campionario strumentale che vede protagonisti strumenti di classica memoria in uso in quel periodo come la lyra, la cythara, le tibiae, la fidula e il salterio. Franco Bruni

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