Medioevo n. 215, Dicembre 2014

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Mens. Anno 18 n. 12 (215) Dicembre 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 12 (215) DICEMBRE 2014

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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betlemme

indagine sulla nascita di gesú ♦ nella chiesa della natività

♦ il primo presepe della storia

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La basilica di Santa Prassede



sommario

Dicembre 2014 ANTEPRIMA

COSTUME E SOCIETÀ

restauri Incontro ravvicinato con Teodolinda Dallo stilo ai raggi infrarossi Nel nome dei committenti

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mostre Campioni di versatilità

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appuntamenti Tre ceri per i Magi Fuochi e pupe Al suono dei campanacci L’Agenda del Mese

satira Dalli al villano!

di Domenico Sebastiani

luoghi saper vedere

Basilica di S. Prassede 16 17 18 20

Un gioiello nascosto di Chiara Mercuri

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STORIE scozia Monachesimo Colomba e i suoi fratelli di Luca Pesante

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medioevo nascosto San Nazzaro Sesia

A controllo del guado

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Dossier

libri Quando Leonardo ricominciò da tre Lo scaffale

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musica Concerto in villa Cantar d’amore

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mistero a betlemme di Renata Salvarani

macchine d’assedio Tollenone

Assalto a dondolo di Flavio Russo

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CALEIDOSCOPIO

Properzia de’ Rossi di Maria Paola Zanoboni

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di Chiara Parente

personaggi

La «femina schultora»

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Ante prima

Incontro ravvicinato con Teodolinda restauri • È in

dirittura d’arrivo il restauro del magnifico ciclo affrescato che narra le vicende della principessa bavara. E, fino alla conclusione dei lavori, è possibile visitare il cantiere e avere una visione inedita delle splendide pitture

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inquecento metri quadrati di pittura, al centro di un intervento durato cinque anni e documentato da 30 000 scatti fotografici. Sono i numeri del cantiere allestito dal maggio del 2009 all’interno del Duomo di Monza, per restaurare il ciclo di pittura gotica realizzato dalla bottega degli Zavattari nella Cappella di Teodolinda. I lavori sono in dirittura d’arrivo e, prima della riapertura definitiva al pubblico, prevista dopo la Pasqua 2015, chi desideri provare l’emozione di trovarsi vis à vis con le splendide scene che narrano la vita della regina longobarda, può prenotare la visita guidata, riservata a piccoli gruppi. L’intervento, condotto dalla società che fa capo alla restauratrice Anna Lucchini, è stato promosso dalla Fondazione Gaiani, già impegnata nel riallestimento del Museo del Duomo e nella valorizzazione del patrimonio artistico della città. Le operazioni condotte nella cappella hanno fornito dati interessanti sulla tecnica pittorica, sulla tavolozza originale e sul modo in cui era organizzata la bottega

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di Franceschino Zavattari, che ha firmato nella prima metà del Quattrocento questo capolavoro del Gotico lombardo. Lui e i suoi collaboratori non hanno dipinto ad affresco, ma usando una tempera diluita con olio e uovo, secondo una pratica nota in Lombardia e non altrove.

Damasco, broccato e pelliccia «Tutto il ciclo aveva un fondo oro molto brillante, rispetto al quale gli altri colori dovevano essere altrettanto splendenti, in modo che tutto il resto dovesse reggere il confronto», spiega Anna Lucchini. Che aggiunge: «L’effetto d’insieme doveva essere quello della tavola a fondo oro, con abiti che davano l’idea del damasco rosso, del broccato, della pelliccia. Alla cappella hanno lavorato sedici pittori, alcuni con una pennellata dicembre

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UN NUOVO

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Nella pagina accanto, in alto una fase del restauro degli affreschi realizzati dagli Zavattari nella Cappella di Teodolinda del Duomo di Monza. Il ciclo fu dipinto tra il 1441 e il 1446.

Cara lettrice, caro lettore, una piccola, ma importante, novità contraddistinguerà la nostra rivista a partire dal primo numero dell’anno prossimo: la riduzione minima del formato (sarà piú «basso» di circa un centimetro) ci permette, infatti, di usare una carta di qualità superiore, piú «pesante», in grado, da un lato, di aumentare la leggibilità del testo e di valorizzare le immagini, dall’altro, di rendere la rivista piú sfogliabile, piú resistente e meno a rischio di… strappo. Un miglioramento materiale con il quale veniamo incontro alle numerose richieste che, in questo senso, ci sono pervenute da parte vostra. Rimangono inalterate, naturalmente, foliazione e qualità dei contenuti. Sperando di aver fatto cosa gradita, Vi auguro – a nome della redazione tutta e dei nostri collaboratori – buona lettura, un sereno Natale e un felice Anno Nuovo! Andreas M. Steiner

In questa pagina la scena del banchetto di nozze allestito per Teodolinda e Autari, prima (qui sopra) e dopo (in alto) il restauro. A sinistra particolare di una delle pitture durante l’esecuzione di un ritocco da parte dei restauratori.

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Ante prima A destra l’équipe che sta curando il restauro della Cappella di Teodolinda. Fino alla conclusione dell’intervento, prevista per la prossima Pasqua, è possibile visitare il cantiere. In basso l’altare maggiore del Duomo di Monza, realizzato nel 1792-98 da Andrea Appiani, in sostituzione di quello, ormai fatiscente, creato nel 1590 da Rizzardo Taurino.

Dove e quando

Cantiere di restauro della Cappella di Teodolinda Monza, Duomo Info tel. 039 326383; e-mail: info@museoduomomonza.it; www.museoduomomonza.it Note la prenotazione è obbligatoria per i gruppi corposa, altri usando toni piú velati. Man mano che si scende dai registri piú alti verso il pavimento si avverte in maniera piú sensibile l’impronta rinascimentale».

Un insieme uniforme E pur con un’uniformità di base, per esempio nell’iconografia delle teste e nella sagoma degli abiti, le scene erano declinate in modo via via diverso. Quindi la pulitura e gli ultimi interventi di ripristino hanno dovuto adeguarsi al pigmento e alla mano di ogni pittore, in modo da ottenere un insieme uniforme. Dietro ai quarantacinque episodi che ripercorrono le vicende della principessa bavara di fede cattolica, moglie prima di Autari e poi di

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Agilulfo, sono state scoperte indicazioni sul modo di trasferire il disegno: per trasporre i volti, i pittori usavano lo spolvero, incidevano profondamente i contorni dei vestiti da realizzare in argento o in oro, mentre riportavano con il cartone le architetture, ricalcate in alcuni punti. Particolari come le volte erano tracciati con il compasso e, per dare effetti di luce diversi, su cinture, armature, finimenti dei cavalli, le lamine venivano lavorate in maniera differente. Il restauro è stato preceduto da un anno di studio sullo stato di conservazione del ciclo, con indagini non invasive, come la fotogrammetria, l’uso di raggi

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infrarossi e ultravioletti, la tecnica SUSI (Strumento per la misura di Umidità e Salinità Integrato), che permette di valutare il contenuto di umidità fino a 2 cm di profondità.

Ancora una immagine che documenta le condizioni delle pitture prima e dopo il restauro. Si tratta, in questo caso, della rappresentazione dell’incontro tra Agilulfo e Teodolinda.

Come una preparazione

dell’opera firmata dalla bottega gotica. Inoltre, negli anni Sessanta del Novecento, per consolidare gli intonaci sono stati usati cemento liquido e resine Paraloid, che creano una sorta di strappo, staccando la pellicola pittorica. Cosí prima della pulitura, le restauratrici hanno dovuto mettere in sicurezza il colore con microiniezioni. Tutte le novità emerse sono state riversate in una banca dati, che rappresenterà una base importante per ulteriori studi. Stefania Romani

Ne è emerso un quadro problematico: la volta era danneggiata dal dilavamento delle piogge e restauri precedenti hanno in parte compromesso le pitture. Nel 1714, come riporta una cronaca dell’epoca, «Giovanni Valentino napoletano (…) tolse tutto il bello e il prezioso». E, in effetti, l’operazione settecentesca levò circa 1 mm di colore, per cui quello che si vede ora, a intervento ultimato, è assimilabile alla preparazione

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Ante prima restauri • Le pagine

del prezioso Liber Evangeliorum Vercellensis tornano a essere leggibili grazie alle sofisticate tecniche di ripresa adottate dal Lazarus Project

Dallo stilo ai raggi infrarossi I

l Liber Evangeliorum Vercellensis è un manoscritto molto importante che vanta un passato assai particolare: infatti, la tradizione asserisce che, intorno al 355 d.C., Eusebio, protovescovo di Vercelli e del Piemonte, abbia dettato il testo a uno scriba, durante il suo ritiro spirituale presso il santuario del Sacro Monte di Crea (Alessandria). Meglio conosciuto con il nome di Codice A, questo manoscritto è il testimone piú antico dei quattro Vangeli canonici nel testo latino detto «europeo», anteriore alla Vulgata di san Girolamo del 382 d.C. Vergato in splendida onciale tardo-antica, con abbreviazioni molto rare secondo l’uso piú antico, è impaginato su due colonne di 24 righe ciascuna, con titoli su ogni pagina e uso di inchiostro rosso all’inizio e alla fine di ogni Vangelo. Nel 1908, in seguito alla revisione della Vulgata, fu restaurato presso il laboratorio della Biblioteca Apostolica Vaticana.

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Gli strumenti impiegati per effettuare le riprese del Liber Evangeliorum Vercellensis.

In quell’occasione il manoscritto venne definitivamente separato dalla sua preziosa legatura in lamina d’argento sbalzata, datata alla metà del X secolo.

Una storia in 634 pagine Le 634 pagine sono oggi conservate in cartellette di cartoncino telato, riposte in quattro cassette di legno di ciliegio, all’indomani di un nuovo intervento di restauro, eseguito nel 1996 dallo stesso laboratorio vaticano. La storia millenaria di questo libro sacro è individuabile nelle sue pagine, tra le righe, in Timoty Leonardi, Conservatore Manoscritti e Rari dell’Archivio Capitolare mentre mostra al team del Lazarus Project un rotolo in pergamena del XIII sec. dicembre

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ogni singola traccia lasciata dal tempo. Esso resta in uso per le funzioni liturgiche fino all’Alto Medioevo per trasformarsi poi in oggetto di devozione, tanto da diventare una reliquia per contatto, venerata dal clero e da tutti i fedeli vercellesi.

Immagini ad alta risoluzione Nello scorso luglio, nella Biblioteca Capitolare di Vercelli, il team del Lazarus Project, diretto da Gregory Heyworth e Ken Boydston – rispettivamente docente del Dipartimento di inglese dell’Università del Mississippi e amministratore delegato della Megavision di Santa Barbara –, ha sottoposto ogni singolo bifoglio ad analisi basate sulla tecnologia della ripresa multispettrale che sfrutta i raggi UV e gli infrarossi per catturare una serie di scatti, poi rielaborati da un software dedicato. L’elevata risoluzione delle immagini a diversi tempi di esposizione ha dato vita a un range molto ampio di scatti a disposizione degli addetti alla rielaborazione grafica. Esistono al mondo, come ha spiegato Ken Boydston, cinque strumentazioni di questo tipo, ma quella sviluppata dalla Megavision è l’unica portatile. La rielaborazione è stata affidata a Roger Easton, professore di Imaging Science presso il Rochester Institute of Technology, e Keith Knox dell’Airforce Research Lab di Maui nelle Hawaii; entrambi, con l’aiuto di studenti dell’Università del Mississippi, hanno rielaborato le immagini nella sala di studio adiacente della Biblioteca, in modo da avere immediatamente risultati parziali dell’indagine. L’analisi multispettrale riporterà alla luce circa il 90% della scrittura ormai in gran parte danneggiata dai secoli, ridando in tal modo nuova vita a un patrimonio dell’intera cristianità. Timoty Leonardi

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Nel nome dei committenti

restauri • Riportati allo splendore originario due

dipinti del Ghirlandaio e di Arcangelo del Sellaio voluti per le cappelle di famiglia di importanti casate

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n doppio restauro ha permesso il recupero di due dipinti eseguiti alla fine del Quattrocento da Domenico Ghirlandaio e Arcangelo del Sellaio, esposti nella Galleria dell’Accademia di Firenze. Proviene dalla chiesa fiorentina di S. Maria Maddalena de’ Pazzi e fu commissionata da Stefano di Pietro di Iacopo Boni per la sua cappella, la tavola dei Tre santi (Santo Stefano, tra i santi Jacopo e Pietro), che richiamano i nomi del committente, del padre Pietro e del nonno Jacopo, e che fu eseguita dal Ghirlandaio nella fase finale della sua carriera artistica. Secondo uno schema compositivo già sperimentato, i personaggi, Santo Stefano tra i santi Jacopo e Pietro, impostati obliquamente, sono tempera su tavola di Domenico Ghirlandaio. collocati entro nicchie a valva di conchiglia, sui cui marmi si riflette 1493. Firenze, Galleria dell’Accademia. la luce proveniente da sinistra, creando effetti luministici, mentre sul pavimento prospettico si evidenzia una piccola ombra data dalla punta di metallo del bastone di Giacomo.

Quando Stefano si trasformò in Girolamo La perdita del sasso, attributo di santo Stefano, originariamente poggiato davanti alla figura, è dovuta alle modifiche apportate dai monaci del monastero cistercense che aggiunsero al diacono lunghi capelli, barba e cappello cardinalizio, cosí da farne un san Girolamo, a cui era intitolata la cappella del loro cimitero, scelta come nuova sede dell’opera. Nell’Ottocento, l’iconografia originale era stata ripristinata, ma la scansione degli elementi geometrici rimaneva sfasata per la presenza di una ridipintura scura sullo sfondo. La ripulitura ha restituito una tavolozza cromatica composta da pigmenti largamente usati nel XV secolo, come lacca rossa, cinabro e azzurrite. Non presentava, invece, gravi problemi conservativi lo strato pittorico della tavola Pietà e santi, commissionata ad Arcangelo di Jacopo del Sellaio da Francesco Ermini per ornare la cappella di famiglia nella chiesa di S. Jacopo Soprarno. Anche qui sono celebrati gli stretti congiunti del committente, tramite la presenza dei santi patroni, Francesco, Jacopo e Michele, ai lati del gruppo sacro, accompagnati dai loro attributi identificativi. Mila Lavorini

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Ante prima

Campioni di versatilità mostre • Il Museo Poldi Pezzoli rende

omaggio a Piero e Antonio del Pollaiolo, offrendo una eccezionale reunion e documentando l’eclettismo dei due fratelli

In alto Piero del Pollaiolo, Ritratto di giovane donna. Tempera e olio su tavola, 1470-1475 circa. Milano, Museo Poldi Pezzoli. A sinistra la Croce in argento e smalti traslucidi facente parte del tesoro di S. Giovanni. 1457-1459. Firenze, Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore.

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e la Donna del Pollaiolo, simbolo del Museo Poldi Pezzoli, è universalmente nota, meno conosciuta è invece l’esistenza di altri tre dipinti con caratteristiche simili e attribuiti al medesimo autore (Piero del Pollaiolo, pittore, al contrario del fratello Antonio, che fu soprattutto orafo), oggi sparsi per il mondo (agli Uffizi di Firenze, alla Gemäldegalerie di Berlino e al Metropolitan Museum di New York), che lo stesso Poldi Pezzoli ha riunito per la prima volta dopo cinque secoli. Dei quattro dipinti è stata determinata con precisione l’epoca (1465, 1470-75, e 1480 gli ultimi due), cosí come unanime è la loro attribuzione. Rimangono dicembre

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Piero del Pollaiolo, Ritratto di giovane donna. Tempera e olio su, tavola, 1480 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. oscure, però, sia le vicissitudini che li portarono a disperdersi, sia l’identità delle nobildonne raffigurate. Solo per la dama del museo milanese le ricerche condotte in occasione della mostra hanno portato all’identificazione con la consorte (forse fiorentina) del conte Giovanni II Barbiano di Belgioioso, nella cui famiglia il quadro rimase fino all’inizio del XIX secolo, per passare poi ai Borromeo ed essere infine acquistato, nel 1875, da Gian Giacomo Poldi Pezzoli.

Dai gioielli ai ricami I ritratti delle quattro dame, disposti in ordine cronologico nella sala a esse dedicata, costituiscono testimonianze importanti per l’evoluzione della moda dell’epoca e per la storia dell’oreficeria (in cui pure era specializzata la bottega polivalente dei Pollaiolo), un’evoluzione che aveva visto nel giro di pochi decenni, nella parte centrale del XV secolo, lo sviluppo straordinario a Firenze (e subito dopo anche a Milano), della manifattura dei drappi auroserici: i velluti e i broccati intessuti di preziosissimo filo d’oro e realizzati su complessi disegni che uscivano anch’essi dalle botteghe dei principali pittori, sono sapientemente riprodotti da Piero del Pollaiolo nella raffigurazione degli abiti delle giovani donne. Allo stesso modo, e con la stessa perizia, vengono riprodotti i gioielli, nella cui realizzazione la bottega dei Pollaiolo era ugualmente specializzata. I ritratti delle quattro dame finiscono perciò col rappresentare una sintesi (una sorta, forse, di «manifesto pubblicitario») delle molteplici attività svolte dai due fratelli: la pittura, in primo luogo, i disegni per i tessuti, l’oreficeria, e, non ultimo, il ricamo. E a tale proposito la mostra espone anche un manufatto importantissimo, uscito proprio

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da questo multiforme atelier e capolavoro assoluto di Antonio Pollaiolo: quattro dei 27 ricami liturgici – in oro e sete policrome – per il parato di San Giovanni (1466-1487), considerato il reperto tessile piú importante del Rinascimento italiano. Vennero realizzati, su commissione dell’Arte

di Calimala (la corporazione dei mercanti fiorentini), con la tecnica del punto serrato, la sola in grado di rendere la sottigliezza del modellato pittorico e di tradurre gli intenti di animazione della superficie, permettendo di non trascurare alcun dettaglio del disegno preparatorio: un metodo di lavorazione

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Ante prima Dove e quando

«Le dame dei Pollaiolo Una bottega fiorentina del Rinascimento» Milano, Museo Poldi Pezzoli fino al 16 febbraio 2015 Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; chiuso il martedí Info tel. 02 794889 o 796334; www.museopoldipezzoli.it costosissimo per via dei tempi molto lunghi e per l’alta specializzazione delle maestranze. Il lavoro dei ricamatori, impegnati in un compito tanto difficile, era seguito assiduamente dallo stesso maestro. La notevole qualità delle maestranze impiegate e lo stesso lungo periodo di esecuzione del parato di San Giovanni (circa un ventennio) fu di notevole impulso allo sviluppo del ricamo nella città di Dante: il che non mancò forse di stimolare anche altri pittori a cimentarsi con tecniche diverse, seguendo la via aperta dal Pollaiolo.

Nel segno della sperimentazione La sperimentazione continua e a ogni livello di tecniche e materiali nuovi, tipica delle botteghe polivalenti rinascimentali, di cui l’atelier dei due fratelli costituí forse l’esempio principale, è rappresentata alla mostra anche da un altro manufatto eccezionale: il Crocifisso in sughero, gesso, stoppa e seta dipinti, di Antonio Pollaiolo (1470-1480 circa), un’opera, cioè, polimaterica, frutto della sperimentazione di materiali nuovi, parallelamente ad altre creazioni di questo tipo che negli stessi anni vedevano protagonisti la cartapesta, il cuoio, lo stucco, il gesso. Il risultato era un’opera «povera», rispetto al marmo, al legno o ai metalli preziosi, ma infinitamente piú leggera, e – all’epoca – infinitamente meno costosa: proprio su manufatti di questo tipo, molto piú accessibili alla maggior parte delle persone, e talvolta di piccolo formato e prodotti «in serie» si basò la fortuna di molte botteghe

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rinascimentali, dando vita a una sorta di «preistoria del consumismo». Allo stesso modo si può interpretare un’altra splendida opera di Antonio Pollaiolo in mostra: lo scudo da parata con Milone di Crotone, in stucco dipinto e dorato su legno di pioppo (1460-1465 circa), leggero e maneggevole, e decisamente «avveniristico», se paragonato alle armature da parata-gioiello prodotte un secolo dopo dagli armaioli-orefici milanesi. Tra le altre opere, vale la pena di ricordare ancora il «busto di giovane in armatura da parata» in

Predica davanti a Erode, uno dei ricami in seta e filo d’oro per il parato di San Giovanni, realizzato su disegno di Antonio del Pollaiolo. 1466-1487. Firenze, Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore. terracotta (1460 circa), e la Croce del tesoro di S. Giovanni (1457-59), in lamina d’argento sbalzata, cesellata, incisa, dorata e smaltata, oltre a numerosi disegni, stampe, dipinti a soggetto mitologico a tempera e olio, e sculture in bronzo di piccolo formato. Maria Paola Zanoboni dicembre

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Ante prima

Tre ceri per i Magi appuntamenti • Ivrea si appresta a rivivere la Cerimonia dei Ceri, un

appuntamento molto sentito dalla comunità eporediese, che rinnova una tradizione nata nel Medioevo e ha il suo momento clou nel pellegrinaggio al monte Stella

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a tradizionale Cerimonia dei Ceri dà il via, il 6 gennaio, all’edizione 2015 (208ª) dello Storico Carnevale di Ivrea. Al mattino del giorno dell’Epifania suonatori di pifferi e tamburi marciano per le vie del centro cittadino e annunciano agli Eporediesi l’inizio dei festeggiamenti. Allo scoccare del Mezzogiorno, in piazza di Città, nell’androne del Palazzo Municipale, si celebra l’investitura del Generale 2015, che riceve sciabola e feluca da parte del Generale uscente. Nel pomeriggio centinaia di fedeli e appassionati si radunano nella scenografica piazza per seguire il saluto dei Credendari, ossia i membri del consiglio comunale della Credenza,e dei gruppi storici in costume medievale al Magnifico Podestà e partecipare al pellegrinaggio alla cappella dei Tre Re, in cima al monte Stella. Nella chiesetta il delegato del

vescovo riceve in dono tre ceri, che simboleggiano i tre Re Magi. L’arrivo in duomo e la santa messa sono previsti per le 16,00. Alla presenza delle autorità cittadine, del Generale 2015 e di

In alto il gruppo storico de I Credendari sfila per le vie di Ivrea in occasione della Cerimonia dei Ceri. In basso il vescovo della comunità eporediese riceve il cero votivo, donato per invocare la protezione della Madonna. tutte le componenti dello Storico Carnevale, il magnifico podestà, accompagnato dal suo seguito e dal gruppo storico I Credendari, dona al vescovo di Ivrea un cero votivo per invocare la protezione della Madonna sulla città.

«Cera bianca» per il vescovo Ripristinata dal Cerimoniale del Carnevale nel 1989, la rievocazione storica trae origine da un’antica consuetudine eporediese, chiamata processione dei «Tre Ceri». Il corteo religioso, tra i piú importanti nel Medioevo a Ivrea, era presieduto dal vescovo, dai Credendari e dai paratici cittadini. Meta del pellegrinaggio era la cappella dei Tre Re Magi, costruita

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in cima al monte Pautro, oggi chiamato monte Stella. Un tempo la Cerimonia dei Ceri, con l’offerta al vescovo di tre ceri «di cera bianca di libbre una e mezza caduna» da parte del podestà, a nome della comunità eporediese, si teneva solo in questa chiesetta e non in duomo. Situato in splendida posizione panoramica, il piccolo edificio cultuale dedicato ai Tre Re, è un interessante esempio di architettura romanica nel Canavese. Caratterizzata da un’abside semicilindrica impreziosita da una rara monofora a doppio sgancio, la cappella è stata costruita dalla comunità di Ivrea attorno al 1220, secondo la tradizione dopo il passaggio di san Francesco d’Assisi, che ne aveva suggerito la fondazione per invocare la protezione dei campi dalle frequenti grandinate, che devastavano i raccolti.

Quasi come un «teatrino» Ancora agli inizi degli anni Ottanta del Novecento sull’altare maggiore del tempietto era collocato un prezioso gruppo scultoreo, realizzato nell’ultimo quarto del XIV secolo e formato da cinque statue lignee, che raffigurano l’Adorazione dei Magi. Posizionate in una sorta di «teatrino sacro» dal fondale dipinto, ad ampliare prospetticamente la scena dei Magi, le figure sono state eseguite da uno scultore ignoto, il cosiddetto Maestro dell’Adorazione dei Magi di Ivrea, e riflettono la cultura lombarda del tardo Quattrocento. Il presepe è ora esposto al Museo Civico «Pier Alessandro Garda». Di recente, grazie ad alcuni restauri, nella chiesetta è stato recuperato un affresco attribuito alla scuola del pittore piemontese Giovanni Martino Spanzotti (1450 circatra il 1525 e il 1528). L’opera, che rappresenta la Madonna con il Bambino e san Giuseppe tra i santi Rocco e Sebastiano, risale al primo Cinquecento e in passato decorava l’altare laterale nella parete sinistra della navata. Chiara Parente

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Fuochi e pupe L’

Abruzzo conserva piú d’una tradizione incentrata sui fuochi invernali, antichi riti di purificazione della natura. In particolare ogni anno, all’alba dell’8 dicembre, nel centro storico di Atri va in scena la Festa dei Faugni, che consiste nell’accendere e portare in processione alte fascine di canne secche legate da lacci vegetali. In epoche pagane, nelle campagne circostanti il paese teramano, in inverno i contadini accendevano fuochi propiziatori in onore di Fauno, divinità protettrice di pastori e agricoltori. In era cristiana il rito dei Faugni apparve per la prima volta nel 431, dopo il Concilio di Efeso, in occasione della festa dell’Immacolata Concezione. La tradizione fu poi rinnovata dopo la traslazione della Santa Casa da Nazareth a Loreto, avvenuta, secondo la leggenda, nella notte tra il 9 e 10 dicembre 1294. Durante il prodigioso viaggio, la Santa Casa sarebbe passata sopra Atri e i fuochi avrebbero guidato il percorso degli Angeli che la trasportavano. Oggi la festa inizia la sera precedente con una veglia di preghiera, seguita dall’accensione in piazza Duomo di un grande falò. Durante la notte, i paesani attendono l’alba nelle loro case, tra cenoni, balli e tombole. Verso le 4,00 del mattino la gente torna in piazza Duomo e, alle 5,00, dopo il suono della campana della basilica concattedrale, i faugni vengono accesi col fuoco del falò. Dopo aver transitato dinnanzi alle chiese medievali cittadine, la processione termina in piazza Duomo verso le 6,00 del mattino, con la celebrazione di una messa in onore della Madonna. In serata si svolge una seconda processione che sfoggia una preziosa statua ottocentesca dell’Immacolata Concezione, a cui segue l’accensione di due «pupe», fantocci dalle fisionomie femminili animati da una persona nascosta nel loro interno. Mentre danzano al suono di una banda musicale, le pupe si accendono dei fuochi pirotecnici. Tiziano Zaccaria

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Ante prima

Al suono dei campanacci appuntamenti • Nel paesino

spagnolo di Silió, in Cantabria, il compito di scacciare gli spiriti maligni e invocare ogni bene per l’anno nuovo è affidato a una dozzina di curiosi personaggi dal volto imbrattato di nero, vestiti di pelli di pecora...

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na delle tradizioni piú radicate nella regione spagnola della Cantabria è la Vijanera, che si tiene la prima domenica di gennaio (quest’anno il 4) a Silió, villaggio situato nel territorio del Comune di Molledo. Si tratta del primo rito carnevalesco del calendario, con il quale si festeggia l’arrivo dell’anno nuovo, cercando di scacciare gli spiriti maligni dell’inverno. In questo particolare rituale sono

coinvolti una sessantina di personaggi, detti appunto le Vijaneras, tutti interpretati da uomini, fra i quali la Madama, l’Orso, il Cavaliere, il Domatore e il Vecchio, ciascuno dei quali ha una propria funzione e un proprio simbolismo. I piú importanti sono gli Zamarracos, una dozzina di uomini col volto imbrattato di nero e un cappello a forma di cono rivestito in tessuto scuro, decorato con nastri, coccarde e crine di cavallo.

Un corteo variopinto e rumoroso Gli Zamarracos indossano una sciarpa a quadretti bianchi e blu, pantaloni da lavoro azzurri, una camicia e due pelli di pecora, una legata in vita e una, piú grande, col foro per la testa. Sulle spalle hanno appesi quattro campanacci davanti e quattro dietro, dal peso complessivo di circa 40 kg, il cui suono ha il

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I pittoreschi Zamarracos, con il volto imbrattato di nero, sfilano per le vie del villaggio cantabrico di Silió (Spagna). compito di respingere gli spiriti maligni dell’inverno. Il rumoroso corteo delle Vijaneras si sviluppa per le strade di Silió verso mezzogiorno, concludendosi nella piazza del paese con una recita popolare, che analizza i fatti accaduti nell’anno precedente. Nel pomeriggio la festa si conclude con la messinscena della «morte dell’orso», raffigurato da un uomo ricoperto di pelli, a rappresentare la vittoria del bene sul male. Le origini del rito risalgono ai culti precristiani legati all’anno nuovo, quando il progressivo allungamento dei giorni rappresentava per le antiche popolazioni la rinnovata speranza di fertilità della terra. In epoca romana i rituali pagani si fusero con i culti della nuova religione cristiana, proseguendo durante il Medioevo e giungendo fino ai giorni nostri, pur in una veste ormai esclusivamente folcloristica. T. Z. dicembre

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agenda del mese

Mostre Genova Arte Ottomana, 1450-1600. Natura e Astrazione: uno sguardo sulla Sublime Porta U Palazzo Nicolosio Lomellino fino al 14 dicembre

Gli ambienti cinquecenteschi affrescati da Bernardo Strozzi (XVII secolo) del primo piano nobile di Palazzo Lomellino ospitano una selezione di opere rappresentative della produzione artistica ottomana: circa 70 oggetti, alcuni dei quali già noti al mondo accademico, altri poco conosciuti e in gran parte inediti, tra cui un Corano appartenuto a Maometto II, completo di dedica al sovrano e un importante Firmano, prestito del Museo di Arte Islamica di Berlino. Sono inoltre presenti tappeti del XV e XVI secolo, ceramiche policrome di Iznik, nonché esempi significativi della produzione tessile ottomana, come sete, velluti e broccati in oro e argento. Infine una piccola ma pregiata selezione di armi da difesa, con elmi e testiere da cavallo, marchiati con l’emblema dell’armeria imperiale turca di Sant’Irene, che ricordano la grande potenza militare della Turchia ottomana di quel periodo. info Associazione Palazzo Lomellino, tel. 393 8246228

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a cura di Stefano Mammini

berlino I vichinghi U Martin Gropius Bau fino al 4 gennaio 2015

Presentata a Copenaghen e poi a Londra, fa tappa a Berlino una delle piú ricche esposizioni sulla storia dei navigatori scandinavi. Tra gli obiettivi della rassegna, vi è quello di presentare un volto «internazionale» della cultura vichinga ritenuta in passato, erroneamente, come un sistema chiuso di valori e usanze che riflettevano la posizione di isolamento della penisola scandinava.

Oltre a oggetti d’arte e manufatti artigianali di notevole pregio, la mostra propone la ricostruzione integrale della piú grande nave vichinga a oggi nota. Si tratta dell’imbarcazione scoperta nel 1997 a Roskilde, in Danimarca, e databile agli inizi dell’XI secolo: un legno

possente, che misurava 37 m di lunghezza, 4 di larghezza, aveva circa 80 remi e poteva trasportare un centinaio di guerrieri. info smb.museum Londra Ming: 50 anni che hanno cambiato la Cina U The British Museum fino al 4 gennaio 2015

Nelle nuove gallerie dell’ala Sainsbury, il British Museum racconta una fase cruciale della storia cinese. Nel periodo compreso tra il 1400 e il 1450, sotto la dinastia Ming, l’impero visse infatti una stagione di grandi trasformazioni, fino ad affermarsi come una sorta di superpotenza: Pechino divenne capitale e vide sorgere la Città Proibita; i confini del Paese assunsero il tracciato che, grosso modo, tuttora conservano; una nuova classe di funzionari statali si sostituí ai comandanti militari nelle gerarchie di governo; il ruolo stesso dell’imperatore subí un mutamento significativo, facendo del sovrano una sorta di icona; e, infine, venne dato un impulso decisivo alla centralizzazione dell’autorità. info britishmuseum.org ravenna IMPERIITURO. Renovatio Imperii. Ravenna nell’Europa Ottoniana U Museo TAMO e Biblioteca Classense fino al 6 gennaio 2015

1200 anni fa, il 28 gennaio 814, moriva

Carlo Magno, che concepí una forma di unità europea attraverso il Sacro Romano Impero, nel tentativo di restaurare l’antica grandezza di Roma. Un progetto politico che, tuttavia, fu presto minato da divisioni interne, destinate a protrarsi per secoli. Sul tema della Renovatio Imperii, cioè appunto la trasmissione dell’idea imperiale, è stata organizzata una mostra didattica, che ha per fulcro Ravenna ed è ospitata nelle due sedi del museo TAMO e della Biblioteca Classense, articolandosi in diverse sezioni. «Carlo Magno e l’Italia, Gli Ottoni, Ravenna e l’Italia. Il ruolo della tradizione classica e la circolazione dei modelli in epoca ottoniana a TAMO», illustra il ruolo di Ravenna come punto di riferimento culturale per Carlo Magno nella sua impresa di trasformare Aquisgrana nella Roma secunda e poi per gli Ottoni, come dimostra il sito archeologico di S. Severo a Classe. Alla Biblioteca Classense, con il titolo «Da Carlo Magno agli Ottoni, testimonianze documentarie, storiografiche, iconografiche», attorniate dalle immagini dei rappresentanti imperiali di età ottoniana – giunteci attraverso grandi esempi di miniatura provenienti dalle biblioteche d’Europa –, si

espongono nell’Aula Magna del monastero camaldolese, importanti documenti della politica degli Ottoni a Ravenna. info Museo TAMO: tel. 0544 213371, www.ravennantica.it; Biblioteca Classense: tel. 0544 482116, e-mail: segreteriaclas@ classense.ra San Gimignano Pintoricchio. La Pala dell’Assunta di San Gimignano e gli anni senesi U Palazzo Comunale, Pinacoteca fino al 6 gennaio 2015

Con questa iniziativa prende avvio un piú ampio progetto che, con cadenza annuale,

intende proporre un approfondimento critico e storico intorno ai capolavori e ai maestri presenti nelle collezioni civiche. Come questa che ora si apre su Pintoricchio e quella che è in preparazione per il 2015 su Filippino Lippi e i suoi meravigliosi tondi, ogni mostra è costruita con prestiti importanti, anche se numericamente limitati per le esigenze dello dicembre

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mostre • Una regina a palazzo. La Madonna col Bambino di Antonio Vivarini e il suo restauro U Padova – Museo Diocesano

fino al 6 gennaio 2015 info tel. 049 8761924 o 652855; e-mail: info@ museodiocesanopadova.it, www.museodiocesanopadova.it

D

spazio espositivo, scelti per raccontare una vicenda artistica che ha lasciato una testimonianza di grande rilievo nel patrimonio storico e artistico di San Gimignano. info tel. 0577 286300; sangimignanomusei.it prato CAPOLAVORI CHE SI INCONTRANO. Bellini, Caravaggio, Tiepolo e i maestri della pittura toscana e veneta nella Collezione Banca Popolare di Vicenza U Museo di Palazzo Pretorio fino al 6 gennaio 2015

La nuova esposizione allestita nelle sale del museo pratese offre l’occasione di vedere riunite le piú importanti opere d’arte provenienti dalla collezione della Banca Popolare di Vicenza, alcune delle quali mai esposte finora al grande pubblico, proponendo un ampio panorama dell’arte toscana e

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veneta tra il XV e il XVIII secolo. Riunite e ordinate nelle quattro sezioni della mostra, 86 opere, tra tavole e tele, sono messe a confronto a partire dai soggetti in esse contenute, consentendo di recuperare affinità e rimandi, e di avvicinare, nella lettura iconografica, dipinti di differente scuola e di diversa epoca e origine. Tra gli altri, si possono ammirare capolavori come la Crocifissione di Giovanni Bellini, la Coronazione di Spine del Caravaggio, la Madonna col Bambino e San Giovannino di Jacopo Bassano, la Madonna col Bambino di Filippo Lippi, il Ritratto di Ferdinando de’ Medici di Santi di Tito e il Ritratto del Doge Nicolò da Ponte del Tintoretto. info tel. 0574 19349961; palazzopretorio.prato.it, capolavori chesiincontrano.it

opo alcuni mesi di restauro, torna a risplendere la Madonna con il Bambino di Antonio Vivarini (1443 circa), rivelando particolari «inediti». La tavola era custodita nella chiesa di S. Tomaso Becket a Padova, ma originariamente era stata realizzata per la chiesa veneziana di S. Moisè e si completava con altre due tavole, oggi alla National Gallery di Londra. L’opera ora troneggia come una «regina a palazzo» nella Sala Barbarigo del palazzo Vescovile (Museo Diocesano), inserita in un percorso che ne racconta la storia e documenta in forma multimediale le fasi del restauro. Tra le particolarità emerse dall’intervento che oltre al risanamento di alcune parti, ha permesso di restituire lo sfondo floreale originario, è da segnalare l’incisione in caratteri gotici che compare sul cuscino ai piedi della Vergine: Ave Regina Coeli. «L’invocazione – scrive Carlo Cavalli nel catalogo – sembra contaminare gli incipit di due diverse antifone mariane, il Regina coeli e l’Ave Regina coelorum, già in uso nella liturgia delle ore del tempo e si lega all’iscrizione dipinta sul basamento del trono: Dignare me laudare te, Virgo sacrata. Da michi [virtutem contra hostes tuos], rispettivamente versetto e responsorio impiegati nella recita dell’Ave Regina Coelorum. Entrambe le citazioni, quella sul cuscino e quella sul trono, fanno riferimento alla regalità della Vergine, e si integravano nel piú complesso sistema di simboli e rimandi sotteso all’immagine». Una seconda considerazione, emersa dal restauro e dallo studio dell’opera, riguarda l’attribuzione. La tavola è sempre stata assegnata ad Antonio Vivarini, ma, ripercorrendo la storia e l’evoluzione della pittura della bottega

dell’artista, i curatori del restauro e della mostra ritengono che il dipinto conservi anche il contributo di Giovanni d’Alemagna, cognato di Antonio Vivarini. Accompagna l’esposizione un calendario di iniziative al Museo Diocesano che, nel mese di dicembre, prevede tre appuntamenti: martedí 2, ore 18,00 (Arte e botanica: l’hortus conclusus nella Madonna col Bambino); lunedí 8, alle 17,30 (lettura del Magnificat di Alda Merini, a cura di Roberto Pittarello, con accompagnamento musicale di Chiara De Zuani al clavicembalo); sabato 13 dicembre, ore 21,00, alla Scuola della Carità di via San Francesco viene proposto il concerto Natale in musica degli allievi dell’istituto musicale Malipiero di Padova, a sostegno del restauro.

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agenda del mese Padova VERONESE E PADOVA. l’artista, la committenza e la sua fortuna U Musei Civici agli Eremitani fino all’11 gennaio 2015

Il cromatismo limpido e armonioso, gli audaci impianti architettonici, la forza scenografica delle composizioni, perfino l’intensa drammaticità nei soggetti sacri dell’ultimo periodo: quella di Paolo Veronese è stata una pittura potente e di straordinaria forza comunicativa, capace di influire sulla produzione artistica di tanti contemporanei e d’intere generazioni d’artisti, ovunque egli sia stato chiamato a operare. Fu cosí anche a Padova, città con la quale Veronese ebbe intensi rapporti a partire dal 1556, apportando nuova linfa alla civiltà figurativa locale. La mostra prende le mosse proprio dai capolavori di Paolo Veronese conservati a Padova, riuniti per l’occasione nelle sale dei Musei Civici agli Eremitani, con la sola eccezione dell’inamovibile Pala di Santa Giustina. Nell’insieme, si possono ammirare circa cinquanta dipinti e una quarantina di stampe tratte dai lavori del pittore. info padovacultura. padovanet.it castelfranco veneto Villa Soranzo. Una storia dimenticata U Museo Casa Giorgione fino all’11 gennaio 2015

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Un fil rouge sottile ma intrigante lega Giorgione e Paolo Veronese, due dei protagonisti del Rinascimento: un filo fatto di patrizi veneti amanti dell arte – i Soranzo – di decorazioni pittoriche d’interni, di vita in villa, di temi profani e mitologici e – infine – di giovani, giovanissimi pittori, alla ribalta della scena artistica veneziana nella prima metà del Cinquecento. Un filo rievocato anche in questa mostra, a cui fa da corollario un itinerario in tema dedicato al «Trionfo della decorazione in Villa», che conduce a Villa Maser, Villa Emo e Villa Corner Chiminelli. Al centro del percorso vi sono le vicende degli affreschi realizzati da Paolo Veronese, sul volgere degli anni Quaranta del Cinquecento, nella dimora progettata da Michele Sanmicheli e costruita, poco dopo il 1540, a Treville di Castelfranco Veneto per il patrizio veneziano Piero Soranzo. info tel 0423 735626;

e-mail: info@ museocasagiorgione.it

REGGIO EMILIA L’ORLANDO FURIOSO: INCANTAMENTI, PASSIONI E FOLLIE. L’ARTE CONTEMPORANEA LEGGE L’ARIOSTO U Palazzo Magnani fino all’11 gennaio 2015

d’amore rivivono in una rassegna che legge e reinterpreta in chiave contemporanea l’immaginario ariostesco, carico di suggestioni e connessioni di evidente attualità. L’esposizione rivisita la fortuna dell’Ariosto nel passato, partendo dalla preziosa collezione delle edizioni del Furioso di proprietà della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, e propone le suggestioni esercitate dalla sua figura e dall’atmosfera, e soprattutto da specifici episodi del poema su alcuni tra i più importanti artisti contemporanei, italiani e stranieri. info palazzomagnani.it

Giovanni Züst, fino all’11 gennaio 2015

Protagonisti dell’esposizione sono i preziosi oggetti che, tra il XIV e il XVI secolo, venivano offerti alla donna per celebrare il fidanzamento, il matrimonio e la nascita di un erede: dal cofanetto contenente piccoli oggetti in avorio e costose cinture, che il futuro sposo inviava alla giovane per suggellare il fidanzamento, ai gioielli e alle suppellettili, offerte dal marito e dal suo parentado o portate in dote dalla sposa il giorno delle nozze, fino a comprendere un desco da parto e stoviglie in maiolica, utilizzati per servire alla puerpera il primo pasto rinvigorente dopo le fatiche, e lo scampato pericolo, del parto. Tra i regali nuziali figurano anche cassoni e fronti di cassoni dipinti – nei quali si riponeva il corredo –, esibiti durante il corteo che dalla dimora natale scortava la sposa a quella del marito. info tel. +41 (0)91 8164791; www.ti.ch/ zuest; e-mail: decspinacoteca.zuest@ti.ch Torino Leonardo e i Tesori del Re U Biblioteca Reale fino al 15 gennaio 2015

I personaggi de L’Orlando Furioso, le imprese di valorosi cavalieri, la passione per Angelica che diverrà poi follia

Rancate (Mendrisio) DONI D’AMORE. Donne e rituali nel Rinascimento U Pinacoteca cantonale

Nello straordinario Salone realizzato nel 1837 dall’architetto di corte Pelagio Palagi e nei due spazi espositivi del piano interrato, la Biblioteca Reale propone una selezione di oltre ottanta dicembre

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capolavori facenti parte dei propri fondi: dal celeberrimo Autoritratto al Codice sul volo degli uccelli e altri dieci fogli di Leonardo da Vinci, e poi disegni di Raffaello, Carracci, Perugino, Van Dyck, Rembrandt, Tiepolo, il Theatrum Sabaudiae, codici miniati, carte nautiche e altre opere grafiche. info tel. 011 535181; e-mail: biglietteria@ turismotorino.org; www.turismotorino.org fabriano Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento U Pinacoteca Civica «Bruno Molajoli», S. Agostino-Cappelle Giottesche, S. DomenicoCappella di S. Orsola e Sala Capitolare, cattedrale di S. Venanzio-Cappelle di S. Lorenzo e della Santa Croce fino al 18 gennaio 2015

Dipinti, pale d’altare, tavole, affreschi staccati, sculture, oreficerie, miniature, manoscritti, codici – in tutto, oltre 100 opere, descrivono il contesto culturale in cui si inscrive il progetto

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espositivo. Consolidatosi il potere longobardo su Fabriano, l’egemonia culturale dell’Umbria vide la sua affermazione nel corso del Trecento, sia dal punto di vista artistico che sotto il profilo dei valori spirituali. Del percorso espositivo fanno parte alcuni capolavori di Gentile, come la Crocefissione del polittico proveniente da Valleromita di Fabriano, ora nella Pinacoteca di Brera, o la raffinata Madonna dell’Umiltà del Museo Nazionale di San Matteo di Pisa. info mostrafabriano.it parma Cima da Conegliano e l’Emilia U Galleria Nazionale di Parma fino al 18 gennaio 2015

La presenza eccezionale nelle sale della Galleria Nazionale di Parma della Madonna dell’arancio di Cima da Conegliano, abitualmente esposta a Venezia, nelle Gallerie dell’Accademia offre l’occasione per mettere in luce una congiuntura speciale nel contesto artistico padano, a cavallo fra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento. La Madonna dell’arancio testimonia infatti ai piú alti livelli la produzione veneta di Cima nel periodo in cui dipinse la maggior parte delle opere eseguite per l’Emilia riunite per la prima volta nelle sale a Parma: la drammatica Deposizione, oggi alla

Galleria Estense di Modena ma eseguita per Alberto Pio, Signore di Carpi, la piú serena Madonna col Bambino della Pinacoteca Nazionale di Bologna, nonché la monumentale Pala dell’Annunciata, una delle ben tre tavole d’altare che il pittore di Conegliano eseguí per le chiese parmigiane; affiancare a queste le altre opere di Cima oggi conservate nella Galleria Nazionale di Parma consente un approfondimento specifico sul rapporto particolare fra cultura veneta ed Emilia, meno scontato forse di quanto non fosse il contatto con l’area bolognese o lombarda, ma sicuramente ricco di stimoli fecondi, scambi e richiami reciproci. info tel. 0521 233309 o 233617; e-mail: gallerianazionaleparma@ beniculturali.it; www. gallerianazionaleparma.it; ; genova Turcherie.

Suggestioni dell’arte ottomana a Genova U Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco fino al 18 gennaio 2015

La mostra presenta un nutrito gruppo di ceramiche liguri del XVI, XVII e XVIII secolo, di collezioni pubbliche e private, che costituiscono una testimonianza importante dei rapporti che continuano a intercorrere tra la Repubblica di Genova e l’impero ottomano in epoca moderna. Oltre ai molteplici motivi mutuati dalla splendida ceramica ottomana di Iznik, innumerevoli figure di Turchi popolano il vasellame destinato alle dimore aristocratiche genovesi, alludendo a una realtà in cui Genova e Istanbul erano unite da un filo continuo di commerci, ambascerie, rapporti politici e diplomatici. info tel. 010 5572193; e-mail: museidistradanuova@ comune.genova.it; museidigenova.it

Cerreto Guidi A caccia con Cosimo I. Armi medicee in villa U Villa medicea fino al 18 gennaio 2015

A fare da leit motiv della mostra, che riunisce una ventina di opere provenienti da sette diversi musei e istituzioni, sono sia la caccia, sia la villa stessa di Cerreto Guidi, amata da Cosimo I, dalla figlia Isabella e poi da tutti gli altri componenti della dinastia medicea. Infatti è importante ricordare le ragioni della realizzazione della Villa, luogo ideale per le partenze delle cacce, e di vedere uno dei tipi di arredo, quali gli arazzi, di cui un tempo la villa era sontuosamente ornata. Tra i materiali esposti, spiccano l’arazzo che raffigura la caccia al cinghiale con l’archibugio, accanto al quale figurano armi, perlopiú cinquecentesche, la piú rilevante delle quali è l’archibugio mediceo, probabilmente

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agenda del mese appartenuto a Francesco I. info tel. 0571 55707 o 559534; e-mail: villacerreto@ polomuseale.firenze.it parigi Il Marocco medievale. Un impero dall’Africa alla Spagna U Museo del Louvre, Hall Napoléon fino al 19 gennaio 2015

Inserita in una piú ampia serie di eventi dedicati al Paese nordafricano (e che coinvolgono il Musée Eugène Delacroix e l’Institut du monde arabe), la mostra rilegge la storia del Marocco tra l’XI e il XV secolo, un periodo di straordinaria fioritura dell’Occidente islamico. Il succedersi degli Almoravidi, degli Almohadi e dei Merinidi sancisce l’unificazione di uno spazio politico e culturale che ha nel Marocco il suo centro nevralgico e raggruppa un areale compreso fra l’Africa subsahariana e l’Andalusia. L’influenza di questi imperi, sotto i quali i confini dell’Occidente islamico vengono unificati per la prima volta, fu assai forte e si fece sentire fino all’Oriente. Per l’esposizione nella Hall Napoléon del museo parigino sono state selezionate poco meno di 300 opere, attraverso le quali si possono ammirare testimonianze significative dell’arte e dell’artigianato artistico: dalle decorazioni architettoniche alla produzione dei tessuti, dalla ceramica alla

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calligrafia. info louvre.fr

intimo splendore che avvolge il corpo virile e nudo di Sebastiano ad aver catturato l’attenzione di tutti i piú grandi artisti, dal Rinascimento ai giorni nostri, che nel desiderio di sperimentare nuove accezioni del nudo maschile, partendo dai canoni classici, si sono cimentati nella raffigurazione del santo. In tal senso la storia dell’arte gli è debitrice di capolavori assoluti, declinati in un

new york el greco a new york U The Metropolitan Museum of Art fino al 1° febbraio 2015

A 400 anni dalla scomparsa, il Met rende omaggio al pittore spagnolo di origine cretese Dominikos Theotokopulos, meglio noto, proprio in virtú delle sue origini, come El Greco. La rassegna documenta l’intera carriera dell’artista, dal suo arrivo a Venezia nel 1567, per poi passare al periodo trascorso a Roma nel 1570 e concentrarsi infine sul lungo soggiorno a Toledo, in Spagna, scelta come residenza dal 1577 fino all’anno della morte. Alla retrospettiva contribuisce anche la Frick Collection, che, per la prima volta, espone insieme i suoi tre dipinti di El Greco. info metmuseum.org parigi Viaggiare nel Medioevo U Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 23 febbraio 2015

Allestita nel frigidarium delle antiche terme oggi comprese nel complesso del Museo di Cluny, la mostra evoca categorie diverse di viaggiatori – mercanti, pellegrini, principi, artisti – e indaga sulle motivazioni che li spinsero a lasciare le proprie dimore e la propria terra per lanciarsi in avventure che, in realtà, avevano inizio proprio nel cuore delle

rispettive abitazioni. Il viaggio è dunque inteso nella sua accezione piú ampia: da quello simbolico, che poteva durare poche ore o consistere nel semplice attraversamento di una strada (come nel caso della sposa che, all’indomani delle nozze, s’insediava sotto il nuovo tetto coniugale), alle grandi spedizioni militari o scientifiche. Un’attenzione particolare è inoltre riservata alle peregrinazioni dei grandi artisti, sulle orme dei ripetuti viaggi compiuti da Albrecht Dürer tra la Germania e l’Italia. info www.musee-moyenage. fr

San Secondo di Pinerolo (To) San Sebastiano. Bellezza e integrità nell’arte fra Quattro e Seicento U Castello di Miradolo fino all’8 marzo 2015

Giovane soldato convertitosi al cristianesimo,

Sebastiano fu condannato a morte da Diocleziano, ma nulla poterono le frecce: esse trafissero il suo corpo, ma non scalfirono la sua bellezza, la sua fede, la sua integrità fisica e morale. La purezza dell’anima e l’incrollabile fede si specchiano nella sublime bellezza del giovane corpo di Sebastiano, che rimanda a quello dell’Apollo pagano, ma che nella figura del martire si riveste di sacralità e di una luce di eternità. È proprio l’aurea di bellezza e

perfetto accordo tra fede, devozione, spiritualità e raffigurazione. info tel. 0121 376545; fondazionecosso.it milano Bramante a Milano. Le arti in Lombardia 1477-1499 U Pinacoteca di Brera, fino al 22 marzo 2015

A cinquecento anni dalla morte, Donato Bramante (1443/441514) viene celebrato con una mostra che nel tratteggiarne la poliedrica personalità («cosmografo, poeta volgare, et pittore dicembre

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valente… et gran prospettivo», lo dice fra’ Sabba da Castiglione) ricostruisce il suo lungo soggiorno in Lombardia e a Milano (almeno dal 1477 fino al 1499), e l’impatto che la sua opera ha avuto sugli artisti lombardi. Spirito inquieto e ingegnoso, Donato Bramante si è sicuramente educato alla corte dei Montefeltro a Urbino, dove è stato in contatto con gli architetti, gli scultori e i pittori attivi per il duca Federico. Piero della Francesca deve avere giocato un ruolo fondamentale nella sua formazione ma, rispetto all’impegno speculativo del pittore di San Sepolcro, in Donato ha prevalso un’attitudine pragmatica, da cui sono scaturite realizzazioni che hanno rinnovato il linguaggio architettonico in Italia tra Quattro e Cinquecento. info tel. 02 72263.264 o 229; e-mail: sbsae-mi. brera@beniculturali.it; brera.beniculturali.it;

prenotazioni tel. 02 92800361; pinacotecabrera.net

Bologna Giovanni da Modena. Un pittore all’ombra di San Petronio U Museo Civico Medievale, Basilica di San Petronio fino al 12 aprile 2015 (dal 12 dicembre)

Giovanni di Pietro Falloppi, meglio noto come Giovanni da Modena, è per la prima volta protagonista di una rassegna monografica. Modenese di nascita, ma bolognese di adozione, l’artista fu autore della decorazione della Cappella Bolognini in S. Petronio (1411-12 circa), con Il Giudizio universale, Storie dei Magi e Storie di San Petronio, capolavoro assoluto della pittura tardo-gotica bolognese che, insieme alle altre testimonianze ancora presenti nella basilica, tra cui i grandi affreschi di significato allegorico nella Cappella dei Dieci

di Balia (1420), costituirà un necessario completamento del percorso espositivo. Sarà l’occasione per mettere a confronto

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periodo di attività, avviato all’inizio del XV secolo. info tel. 051 2193930; e-mail: museiarteantica@ comune.bologna.it

Appuntamenti siena Mercato nel Campo U Piazza del Campo 6 e 7 dicembre

Ispirato quest’anno al tema di EXPO 2015 «Feeding the planet/ Nutrire il pianeta, energia alla vita», torna il Mercato nel Campo, un tuffo nel Trecento tra storia ed eccellenze

enogastronomiche e artigianali. Per il ponte dell’Immacolata, in piazza del Campo verrà rievocato il «mercato grande» medievale, con 140 banchi che proporranno i migliori prodotti della tradizione senese e tipicità provenienti dall’Italia e dall’Europa, disposti seguendo le indicazioni date nel XIV secolo dalle autorità comunali, con lo stesso allineamento, la distinzione nelle due grandi aree di vendita alimentare e merceologica e il raggruppamento per categorie. info Facebook: «SienaMercato nel Campo»; Twitter: @ mercatonelcampo

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varie opere del pittore provenienti da musei e collezioni private – dipinti su tavola, affreschi e miniature – per ricostruirne il lungo

Bassano del Grappa Matilde di Canossa. La «gran contessa» e del suo tempo U Istituto Scalabrini 10 e 24 gennaio 2015

Ecco i prossimi appuntamenti del XVII ciclo di incontri organizzato dal Centro Studi Medievali Ponzio di Cluny: 10 gennaio 2015, Il ruolo delle vie di comunicazione nel «successo»matildico (Roberto Ottolini); 24 gennaio, San Benedetto Po: un monastero matildico (Angelo Chemin). info tel. 0444 1801049; e-mail: info@ ponziodicluny.it, segreteria@ponziodicluny. it; ponziodicluny.it

milano Medioevo in libreria, XIII Edizione: «Fede e devozione nel Medioevo» U Civico Museo Archeologico di Milano, Sala Conferenze 13 dicembre, 17 gennaio 2015

L’iniziativa prevede visite guidate al mattino, proiezioni

video e conferenze al pomeriggio. Ogni incontro pomeridiano ha luogo, con inizio alle ore 15,30, presso la Sala Conferenze del Civico Museo Archeologico di Milano e si apre con la proiezione di Medioevo Movie. Viaggio nel Medioevo filmato (a cura di Italia Medievale). Questi i prossimi appuntamenti: 13 dicembre 2014, ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Sepolcro, a cura di Mauro Enrico Soldi; ore 16,00: Marina Montesano: La cristianizzazione dell’Italia nel Medioevo. 17 gennaio 2015, ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Maria

del Carmine, a cura di Maurizio Calí; ore 16,00: Maria Pia Alberzoni: Francesco d’Assisi e la Chiesa di Roma. info tel. 02 45329840; e-mail: info@ italiamedievale.org; italiamedievale.org; medioevoinlibreria. blogspot.it/

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luoghi scozia

Colomba e i suoi fratelli di Franco Bruni

Nato agli inizi del VI secolo, il monaco irlandese Colomba convertí al cristianesimo gran parte della Scozia. Centro nevralgico della sua attività evangelizzatrice fu l’abbazia di Iona, da egli stesso fondata nell’arcipelago delle Ebridi, uno dei luoghi sacri piú venerati del Paese. Il complesso monumentale è tornato oggi a offrirsi all’ammirazione dei visitatori grazie a nuovi interventi di restauro


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ur nelle sue circoscritte dimensioni, Iona, minuscola isola di 800 ettari appartenente al complesso sistema delle Ebridi interne, ha avuto un ruolo fondamentale nella diffusione del monachesimo in Scozia; da lí, infatti, grazie all’opera missionaria dell’irlandese san Colomba – detto «di Iona» per non confonderlo con il piú noto san Colombano – ebbe inizio dalla metà del VI secolo il processo di cristianizzazione che interessò l’intero arcipelago e la terraferma. Nato nel 521 da una famiglia

legata al potente clan degli Uí Néill (O’Neill) di Gartan, nell’attuale contea di Donegal in Irlanda, Colomba si dedicò sin da giovane agli studi teologici a Leinster e presso l’abbazia di Clonard, sotto la guida di san Finnian.

Le prime fondazioni

A questo periodo di studi fece seguito un’intensa attività che lo vide protagonista nella fondazione di varie comunità monastiche e annesse scuole in Irlanda e poi in Scozia. Tra queste si ricordano quelle irlandesi di Derry (545), Durrow

(553) e Kells (554) nonché, in territorio scozzese, le abbazie delle non identificate isole di Himba (forse Colonsay) ed Elen, infine quelle di Mag Luinge nell’isola di Tiree, e Loch Awe sulla terraferma. Non sono chiari i motivi che spinsero Colomba a lasciare la terra natia per dedicarsi all’opera missionaria. Stando alle cronache, la scelta andrebbe collegata a un evento particolare: narra nel 1532 lo storico Manus O’Donnell, nella sua Betha Colum Cille (Vita di Columcille, nome irlandese che vuole dire «Colomba della Chiesa» e che perciò, L’abbazia di S. Colomba sull’isola di Iona, nell’arcipelago delle Ebridi (Scozia). Fondato nel VI sec. dal santo monaco irlandese a cui è dedicato, il complesso venne piú volte riedificato e ingrandito, fino all’abbandono a seguito della riforma protestante. Nelle sue forme attuali risale ai restauri del XIX e XX sec.


luoghi scozia

La «battaglia dei libri»

Scoperto il fatto, a seguito del rifiuto di restituire la copia eseguita illecitamente da Colomba, si decise di portare il caso davanti al re irlandese Diarmait mac Cerbaill, il quale, dando ragione a Finnian con la celebre frase «A ogni mucca il suo vitello, a ogni libro la sua copia» scatenò la battaglia di Cúl Dreimne (Cooldrumman nell’attuale contea di Sligo, nell’Irlanda nord-occidentale) nel 560: in quella che le cronache definiscono come la «battaglia dei libri», le sorti volsero a favore dei sostenitori di Colomba. In realtà, ben altre ragioni di natura politica provocarono lo scontro tra fazioni opposte della famiglia reale a cui lo stesso Colomba apparteneva. Fu comunque dopo questo evento bellicoso che Colomba decise di partire, insieme ad altri 12 monaci – correva l’anno 563 – per la Scozia, come atto, forse, di peniten-

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SCOZIA

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A destra cartina dell’area compresa tra Scozia e Irlanda nella quale sono riportate le piú importanti località citate nel testo, legate all’attività di san Colomba. In basso la lastra tombale di John MacKinnon, che fu abate di Iona dal 1467 al 1498.

Oceano

latinizzato, divenne Columba, da cui Colomba, n.d.r.), che, durante una visita a Finnian – fondatore del monastero di Druim Fionn e della famosa scuola di monaci irlandesi, a Moville, nella contea di Down –, Colomba, desideroso di ampliare il suo sapere, copiò in tutta segretezza un salterio di proprietà dello stesso Finnian.

Himba (?)

Moville Derry

Dunkeld

Lindisfarne

I N G H I LT E R R A

Cooldrumman

IRLANDA

Kells

Clonard Durrow

za per aver causato lo scontro di Cúl Dreimne. E a Iona fondò il primo nucleo monastico, sotto la protezione di re Conall mac Comgaill di Dál Riata (regno della Scozia occidentale comprendente la regione dell’attuale Argyll e le Ebridi interne), che lo aveva accolto. Fu lo stesso re Conall a cedere a Colomba l’isola di Iona per la sua attività pastorale. Costruito molto probabilmente con semplici strutture lignee e pietra, del primitivo monastero del VI secolo non resta purtroppo nulla. A esso era associato anche uno scripto-

rium; stando infatti ai resoconti di Adamnano (627-704), abate di Iona, noto per il Cáin Adomnáin o Legge di Adamnano – contenente una serie di leggi atte a salvaguardare l’incolumità dei civili in tempi di guerra – e per una biografia dedicata allo stesso Colomba, quest’ultimo era dedito tanto alla preghiera quanto alla scrittura di testi sacri, un’attività peraltro molto diffusa nell’ambito del monachesimo insulare e della quale ci sono pervenute ricchissime testimonianze All’indomani della morte di Co-

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Il convento agostiniano 7 1 5 6

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In alto assonometria ricostruttiva del convento agostiniano femminile di Iona, fondato nel XIII sec. da Ranaldo, discendente di una nobile famiglia gaelica: 1. chiesa; 2. sala capitolare;

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3. dormitorio; 4. refettorio; 5. chiostro; 6. sagrestia; 7. locali di servizio non meglio identificati. Qui sotto i resti oggi visibili del convento agostiniano di Iona.

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luoghi scozia lomba, nel 597, i monaci proseguirono nel suo cammino fondando nuove abbazie, tra cui quella famosissima di Lindisfarne, nel 634, grazie al beneplacito di Oswald, re di Northumbria, il quale invitò sant’Aidano, monaco irlandese vissuto a Iona, a occuparsi della nuova comunità monastica. Con l’VIII secolo iniziarono tempi duri per Iona, posta al centro di un’area geografica divenuta oggetto delle mire espansionistiche dei Vichinghi: l’abbazia subí numerosi attacchi, tra cui quelli degli anni 795, 802, 806 e 825, e molti monaci emigrarono – portando con sé le reliquie di Colomba – a Kells, nell’Irlanda del Nord, e a Dunkeld, nella Scozia orientale. A una prima fase caratterizzata da attacchi violenti, ne seguí una meno bellicosa, grazie alla cristianizzazione del popolo vichingo che, intorno al X secolo, abbracciò la nuova religione, adottando san Colomba come patrono: ne sono testimonianza le lastre tombali di Vichinghi cristianizzati, oggi esposte nel Museo di Iona. Le incursioni vichinghe perdurarono comunque fino alla fine del X secolo, quando, nel 986, un esercito danese stanziato a Dublino fece razzia del tesoro di Iona esposto nella notte di Natale, uccidendo 20 monaci.

I Signori delle Isole

Tra l’XI e il XII secolo le Ebridi erano principalmente sotto il controllo norvegese, benché si trattasse di un controllo nominale piú che effettivo, data la distanza geografica e la presenza di numerose isole. Ciò dovette giocare a favore di Somerled, proveniente da una nobile famiglia gaelica, il quale, attraverso una oculata politica matrimoniale – aveva sposato Raghnailt, figlia di Olaf, re di Man e delle isole –, alla metà dell’XI secolo riuscí ad acquisire il controllo su tutte le Ebridi. Anche i suoi discendenti, da cui ha avuto origine il potente clan scozzese dei Mac Donald, mantennero il controllo dell’arcipelago adottando, a partire del XIV secolo, il titolo di Lords of the Isles (Signori delle Isole).

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la vita columbae di adamnano

Gli uomini dipinti e il mostro del lago Grazie ad Adamnano, monaco irlandese alla guida dell’abbazia di Iona nel VII secolo e alla sua Vita Columbae – pervenutaci in numerose fonti manoscritte –, siamo a conoscenza della biografia di Colomba, come di altri episodi legati alla storia altomedievale scozzese. Organizzato in tre libri – Rivelazioni profetiche, Poteri miracolosi, Apparizione degli Angeli – il racconto agiografico si dilunga nelle descrizioni dei tanti miracoli compiuti dal santo, tra cui si annoverano guarigioni di malati, resurrezione dei morti, potere sulle bestie feroci, premonizioni. Famoso è l’episodio in cui si narra come Colomba, apparso in un sogno profetico a Oswald, re di Northumbria, permise a quest’ultimo di sconfiggere in battaglia il gallese Cadwallon, nel 634. Ma dei tanti episodi narrati da Adamnano, uno in particolare colpisce per il suo legame con la nascita del mito del mostro di Lochness. Si narra infatti che Colomba, durante una visita nella regione dei Pitti, nella Scozia orientale – genti cosí chiamate per l’uso di dipingersi il corpo (dal latino pictus, dipinto) –, accorse in salvataggio di un uomo aggredito da un aquatilis bestiae nell’omonimo lago: si tratta della prima menzione sulla presenza del mostro, senza la quale il Lochness, e il suo misterioso «abitante», non avrebbero raggiunto quella celebrità che ancora oggi li rendono famosi in tutto il mondo. Nel complicato susseguirsi di passaggi di potere e controllo, inevitabili furono i mutamenti introdotti anche a Iona e alla sua comunità. Al figlio di Somerled, Ranaldo, si deve, nel XIII secolo, l’arrivo sull’isola di monaci benedettini, che andarono rimpiazzando gradualmente quelli dell’Ordine fondato da Colomba. L’integrazione con i Benedettini fu comunque graduale e, come primo abate, fu eletto Cellach, un monaco appartenente all’Ordine di San Colomba. Con la ricostruzione della nuova abbazia benedettina anche le rendite aumentarono grazie ad alcune concessioni di terre dalle vi-

In alto ritratto di san Colomba, da un manoscritto (MS Rawlinson B.514) contenente la Betha Colum Cille (Vita di Columcille) di Manus O’Donnell. XVI sec. Oxford, Bodleian Library.

cine isole di Mull, Colonsay, Canna e Coll. Grazie a Ranaldo fu fondato nelle vicinanze dell’abbazia anche un monastero femminile agostiniano, a capo del quale la prima badessa fu Beathag, figlia dello stesso Somerled. L’avvento dei Benedettini non intaccò in alcun modo il culto di san Colomba, rimasto, anzi, molto vivo. Benché molte reliquie del sandicembre

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L’abbazia In alto, a sinistra il transetto del santuario di S. Colomba, in cui, anticamente, erano custodite le reliquie del santo. In alto, a destra il portale della sacrestia. XV sec. Qui accanto ricostruzione dell’abbazia di Iona cosí come doveva presentarsi alla metà del XV sec.: 1. chiesa abbaziale; 2. sala capitolare; 3. dormitorio; 4. alloggi dei visitatori; 5. refettorio; 6. residenza dell’abbate; 7. latrina; 8. Michael Chapel; 9. infermeria; 10. forno.

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A sinistra un capitello della chiesa decorato con motivi vegetali e una scena del Vecchio Testamento (Adamo ed Eva).

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luoghi scozia to fossero state portate altrove per proteggerle dagli attacchi vichinghi, a Iona se ne conservava ancora la mano. Il fortissimo sentimento di devozione verso il santo fondatore spinse peraltro l’abate Dominic MacKenzie, nel 1428, a chiedere un’autorizzazione papale per concedere l’indulgenza per i pellegrini in visita all’abbazia.

Gli anni del declino

Le sorti del complesso monastico e della sua comunità furono pesantemente condizionate dalla Riforma protestante del 1560. Già dal 1499 Iona faceva parte dell’esteso territorio controllato dal clan dei Campbell, la cui sede era nel castello di Inveraray nell’Argyll; con l’avvento della Riforma, benché molte fondazioni monastiche fossero state chiuse, Iona continuò a essere frequentata come meta di pellegrinaggio, nonostante il progressivo ridursi della comunità di monaci che continuò ad abitare l’abbazia sino al suo completo abbandono. Grazie ai restauri intrapresi a partire dall’inizio dell’Ottocento e protrattisi, in varie campagne, nel secolo successivo, oggi Iona è tornata al suo antico splendore, con la ricostruzione di quella che fu, verosimilmente, l’abbazia benedettina a partire dal XIII secolo. Situato poco distante dal porticciolo di Port nam Mairtear (Baia dei martiri), il complesso è raggiungibile percorrendo un breve sentiero che segue l’antico tracciato dello Sràid nam Marbh (Strada dei morti), di cui restano tracce di pavimentazione di granito rosso proveniente dalla vicina isola di Mull: una via processionale utilizzata anticamente dai pellegrini per raggiungere l’abbazia con il sepolcro di san Colomba, costeggiando il convento agostiniano, e il cimitero reale (Reilig Odhrain). Lungo questo tragitto troviamo

Lo scriptorium di Iona

Un «bellicoso» libro sacro Il Salterio di San Colomba, conservato a Dublino (Royal Irish Academy MS 12 R 33) è il piú antico codice pergamenaceo irlandese redatto in scrittura semionciale. Viene anche denominato Chatach («bellicoso», in gaelico) di San Colomba, a ricordo della «battaglia dei libri» scoppiata a seguito della copia del salterio di Finnian illecitamente realizzata da Colomba. Il codice contiene i Salmi 32-106, tratti dalla Vulgata della Bibbia di san Gerolamo. Benché mutilo – il manoscritto conta 58 folii dei presumibili 110 originali – presenta eleganti capitali miniate che lo apparentano con i piú tardi Vangeli di Lindisfarne e di Kells. Il volume, tradizionalmente attribuito a san Colomba, fu in realtà compilato intorno al 650, probabilmente in una delle abbazie fondate dal santo irlandese in Scozia. Anche il celebre Book of Kells (MS 58, Biblioteca del Trinity College di Dublino), un evangeliario dell’VIII secolo straordinariamente miniato e considerato un capolavoro della scrittura insulare (fortemente imparentata con la scrittura onciale), è legato alla figura di Colomba ed è infatti denominato «Grande Evangeliario di san Colomba». Con molta probabilità, i Vangeli di Kells furono per l’appunto realizzati da monaci dell’abbazia di Iona che, in seguito alle invasioni vichinghe, lasciarono l’isola per stabilirsi all’abbazia di Kells in Irlanda, una delle piú importanti comunità monastiche ispirate a Colomba.

Una pagina del Salterio di San Colomba, il piú antico codice su pergamena irlandese redatto in scrittura semionciale. 650 circa. Dublino, Royal Irish Academy.

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Qui accanto il piccolo edificio oggi noto come «Sepolcro di san Colomba». Si tratta di una costruzione posta all’esterno della chiesa abbaziale e frutto, in larga parte di restauri condotti nel 1962; tuttavia, i filari piú bassi della muratura sono databili alla metà dell’VIII sec. e potrebbero dunque coincidere con la deposizione delle reliquie del santo.

alcune croci di pietra, a connotare ancor piú la sacralità del luogo e il tragitto del pellegrino. La prima croce, finemente scolpita, è detta di McLean dal nome del suo committente, ed è anche la piú recente (fine del XV secolo): alta 3 m, presenta scene raffiguranti la Crocifissione sormontata da un giglio (simbolo mariano) da un lato, e motivi vegetali dall’altro.

Scene bibliche

Piú avanti, si incontrano quattro croci databili al IX secolo, la prima delle quali è situata accanto alla cappella di S. Oran, all’interno del cimitero reale (qui ne resta solo l’incavo in cui era alloggiata, poiché l’originale è stato ricomposto nel Museo). Seguono le due imponenti croci antistanti la chiesa abbaziale: quella di St Martin, che si è conservata intatta e raffigura, nel lato opposto alla chiesa, rilievi con scene bibliche, mentre sull’altro ricorrono decorazioni con elementi vegetali e serpentiformi. Accanto al portale della chiesa abbaziale si può vedere anche la replica moderna della croce di St John (il cui originale è conservato nel museo), raffigurante simboli animali e vegetali. Infine, antistante anch’essa la chiesa abbaziale, è la croce di St Matthew di cui resta solo la base con l’incavo di pietra mentre i frammenti sono stati riassemblati nel Museo. Le croci, tuttavia, sono solo alcune delle testimonianze che costeggiano lo Sràid nam Marbh. Lungo il percorso, si incontrano infatti i resti del convento delle suore agostiniane fondato da Ranaldo nel XIII secolo, che rappresenta uno degli esempi architettonici meglio preservati del genere. Ne sono oggi

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luoghi scozia visibili la chiesa a una navata, con cappellina laterale arricchita da un soffitto a crociera; il chiostro, il cui lato orientale è completamente scomparso insieme agli edifici adiacenti a esso; e, nel lato sud, meglio conservati, i locali di servizio, tra cui la cucina e il refettorio.

Qui giace Macbeth...

Dal convento agostiniano, di cui si può ammirare una bella lastra tombale del 1543 dell’ultima badessa Anna McLean (ora nella chiesa abbaziale di S. Colomba), si raggiunge l’ampia area cimiteriale denominata Reilig Odhrain al cui interno è collocata la cappella di S. Oran. Le numerose lastre tombali che punteggiano la zona, a dispetto del l’apparenza anonima, costituiscono una testimonianza significativa della storia di queste terre, poiché custodiscono le spoglie di numerosi personaggi di spicco. Fondato ai tempi dello stesso Colomba nel VI secolo, il cimitero, secondo la leggenda, sarebbe l’ultima dimora di numerosi re scozzesi, tra cui il celebre Macbeth; tra le personalità storiche accertate vi sono Rí Innse Gall, e i capo-clan Godred († 1187), il summenzionato Ranaldo († 1210 circa) e il norvegese Óspakr Ögmundsson († 1230). La cappella di S. Oran, con i suoi 900 anni di storia, è il piú antico edificio di Iona che si sia integralmente preservato. Caratterizzato da un portale con decorazioni d’influenza irlandese, la cappella fu utilizzata probabilmente come mausoleo di famiglia dallo stesso Somerled. Fonti d’archivio rivelano che al suo interno vi furono sepolti John († 1386) – capostipite del potente clan dei Donald – e suo figlio Donald († 1423), che assunsero rispettivamente il titolo di primo e secondo Lord delle Isole. Lasciate sulla destra la cappella e la distesa di lastre tombali che la circondano, poco piú avanti si staglia maestosa l’abbazia di S.

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Colomba, che offre un magnifico colpo d’occhio, distesa com’è su prati verdi antistanti il mare e con la vista, poco piú oltre, dell’isola di Mull. Una posizione straordinaria cosí come straordinario è il complesso che, malgrado i pesanti restauri effettuati nel corso del XX secolo, riprende fedelmente le fattezze dell’antica abbazia benedettina iniziata nel XIII secolo e terminata verso la metà del XV secolo. Il primo monumento, che in origine si presentava separato dal resto dell’abbazia, è il cosiddetto

santuario di S. Colomba: si tratta di una semplice cappella ad ala unica – ora unita, dal lato nord, al complesso abbaziale –, che anticamente dovette ospitare le reliquie del santo. Solo il basamento perimetrale è originale, mentre il resto dell’edificio è stato ricostruito nel 1962. Nella biografia di Adamnano, si racconta come spesso il sepolcro di Colomba fosse pervaso da una luce mistica e frequentata dagli angeli. La chiesa principale, iniziata anch’essa nel XIII secolo, si presenta a navata unica, con un presbiterio piuttosto esteso oltre l’al-

Nella pagina accanto, a sinistra lastra tombale di Gilbride, che fu capo del clan dei MacKinnon nella seconda metà del XIII sec. Iona, Museo. In basso una pietra con l’immagine incisa, ma fortemente abrasa, di una croce, che la leggenda vuole sia servita da cuscino a san Colomba.

tare maggiore. Varie furono le fasi costruttive e di adattamento, tra il XIII e il XVII secolo, al fine di rendere piú ospitale e funzionale il luogo di culto dato l’alto numero di pellegrini. Anche nella navata della chiesa, come nel santuario di Colomba, le fondamenta costituiscono la testimonianza piú antica della chiesa originale. Il transetto, risalente al XV secolo, presenta ampie arcate con colonne arricchite da capitelli scolpiti; elementi floreali ricorrono anche nelle arcate, una delle quali riporta, eccezionalmente, inciso il nome del suo costruttore: Donaldus O Brolchan fecit hoc opus. Ben conservato nelle sue forme originali è il lato nord del transetto (XIII secolo) con archetti ciechi, mentre quello sud (XV secolo) ospita un moderno sepolcro in marmo di Carrara dell’VIII duca di Argyll e sua moglie. Nel resto del presbiterio, nel versante est della chiesa, tra pesanti ricostruzioni e strutture originali, si trovano le lastre tombali di due dei piú importanti abati: Dominic MacKenzie (1421-1465 circa), al quale si deve anche le ristrutturazione intrapresa dell’abbazia nel XV secolo e John MacKinnon (1467-1498).

Il museo nell’infermeria

Oltre alla chiesa e al santuario di Colomba, che costituiscono i due fulcri dell’intero complesso, l’abbazia si articola nel chiostro (XIII secolo), sviluppato a nord della chiesa, ricostruito in forme moderne – le colonne binate e i capitelli sono opera di Chris Hall (1967-1997) – e comunque gradevole nella sua eledicembre

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In alto una veduta del Museo di Iona, con, in primo piano, la croce di St John, decorata con simboli animali e vegetali. VIII sec. Il manufatto era in origine collocato lungo lo Sràid nam Marbh (Strada dei Morti), la via processionale usata per raggiungere l’abbazia.

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gante semplicità. Da esso si accede alla sala capitolare, abbastanza ben preservata e ad altri locali di servizio come la residenza dell’abate, il forno, infine l’infermeria, che ora ospita il museo in cui sono raccolti interessanti reperti legati alla storia del luogo. L’abbazia di Iona, tornata oggi ai suoi antichi fasti, è ora sede di un centro ecumenico fondato nel 1938 da Padre George MacLeod, frequentato da appartenenti alle piú disparate dottrine cristiane che ravvivano il dialogo interdottrinale con attività di preghiera e discussione. Se da una parte, è andata perduta parte di quella aura mistica che aveva accompagnato per secoli i pellegrini in visita alle sacre reliquie del santo, resta tuttavia intatta la suggestiva e solitaria bellezza del luogo che tanto dovette colpire, allora come oggi, Colomba e i suoi discepoli. F

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personaggi properzia de’ rossi

La «femina schultora » di Maria Paola Zanoboni

Donna di «capriccioso e destrissimo ingegno», Properzia de’ Rossi è una figura di spicco del panorama artistico italiano. Capace di distinguersi innanzitutto nella scultura di grande formato, fu anche una virtuosa della «microtecnica», trasformando in opere mirabili tanto i blocchi di marmo, quanto i noccioli di ciliegia! Un talento puro, che dovette difendersi dall’invidia e dalle maldicenze di piú d’uno dei suoi colleghi....

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e in ambito artistico, soprattutto nella pittura, compare, seppur raramente, qualche nome di donna (si pensi a Sofonisba Anguissola, e Lavinia Fontana nel Cinquecento, ad Artemisia Gentileschi nel Seicento, o a Rosalba Carriera nel Settecento), per la scultura, invece, la presenza femminile è piú unica che rara. Molte donne, in realtà, dovevano essere coinvolte a vario titolo e con varie mansioni nei cantieri delle cattedrali, ma il riconoscimento delle loro capacità artistiche risale soltanto alla prima metà del XVI secolo, quando Baldassarre Castiglione, nel Cortegiano (1528), ammise la possibilità e persino il dovere dell’«altra metà del cielo» di farsi una cultura in campo letterario, artistico, musicale, pittorico. Seguendo appunto le orme del Castiglione, Giorgio Vasari, fonte principale di notizie su Properzia de’ Rossi, glorificava il genere femminile, additando negli esempi dell’antichità (di cui è ricca l’opera di Plinio il Vecchio) il modello atto a legittimare il nuovo ruolo sociale della donna, che doveva essere dotata, oltre che di virtú morali, anche di istruzione e di qualità intellettuali. Un secolo prima, Leon Battista Alberti, nel libro terzo del Trattato della pittura (1436), definendo le caratteristiche dell’artista (non piú lavoratore manuale, ma intellettuale), aveva invece implicitamente negato al sesso femminile l’appartenenza a questa categoria. Prima della diffusione delle teorie dell’Alberti, la società si

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In alto pendente con nocciolo di ciliegia «con piú di 100 teste», cornice in oro, smalto, diamanti, con perla. Manifattura tedesca, XVI sec. Firenze, Museo degli Argenti. Il monile è un esempio di «microtecnica», arte in cui Properzia de’ Rossi ebbe a distinguersi.

Nella pagina accanto la scultrice bolognese Properzia de’ Rossi mostra il suo ultimo bassorilievo, incisione di Alexandre-Vincent Sixdeniers, da un olio su tela di Louis Ducis. XIX sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

dimostrava decisamente piú favorevole ad accogliere le capacità artistiche femminili, che in Francia erano già apprezzate durante il Duecento. Mentre nell’arco del Trecento le corporazioni dei pittori di molte città non disdegnavano di accettare anche alcune donne, le cui capacità venivano tenute in considerazione, soprattutto nell’ambito della miniatura.

Il «femminismo» del Boccaccio

Ancora nel XIV secolo Giovanni Boccaccio andava annoverato tra i sostenitori dell’educazione artistica femminile (De Mulieribus claris, 1365 circa), e, proprio grazie ai manoscritti miniati della sua opera, emerge la testimonianza di scultrici attive nei cantieri come tagliapietre, anche se non documentate e ignorate dalle fonti scritte. dicembre

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personaggi properzia de’ rossi La «microtecnica»

Quando il cammello passò per la cruna dell’ago... La «microtecnica» ha origini molto antiche: già Plinio, nella Naturalis Historia, decantava l’abilità degli scultori di miniature, in grado di realizzare capolavori di dimensioni infinitesimali, e di trasfigurare e nobilitare anche i materiali piú modesti, acquistando per la loro bravura meriti non inferiori a quelli degli ingegneri artefici delle costruzioni piú colossali. Ancora Plinio ricorda due artisti (vissuti intorno al 100 a.C.), uno dei quali modellava in avorio formiche e altri oggetti cosí piccoli che nessuno, all’infuori di lui, riusciva a distinguerne le parti, mentre l’altro costruí, sempre in avorio, una quadriga che poteva essere coperta dalle ali di una mosca, e una nave piú piccola delle ali di un’ape. I medesimi artisti lavoravano in modo analogo anche il marmo. La sperimentazione e il virtuosismo degli antichi in questo settore stimolarono nel Cinquecento la ricerca di nuove tecniche e materiali, come i noccioli prediletti da Properzia de’ Rossi: prugne scolpite e ciliegie intagliate venivano cesellate con tale perfezione da diventare materiali preziosi. Questi oggetti esercitarono un’attrazione straordinaria sui collezionisti del Seicento, che descrivono crocifissi non piú grandi di un’unghia; cocchi con quattro cavalli, con donne all’interno e guidati da un cocchiere, cosí piccoli da stare comodamente sotto l’ala di un’ape; cammelli che passavano realmente per la cruna di un ago; altri cammelli in avorio ai piedi dei quali lottavano 40 uomini armati, anch’essi passanti per la cruna di un ago. Tale gusto aristocratico e colto

non era indirizzato soltanto verso i materiali preziosi, ma anche verso i grani decorati a intaglio inseriti nei rosari, e le «noci di preghiera», piccoli scrigni contenenti teatri tridimensionali all’interno dei quali osservare le scene sacre in miniatura. Alcuni di questi manufatti sono giunti fino a noi: la noce di preghiera con le scene della Flagellazione e della Crocifissione (inizi del XVI secolo), conservato a Vienna, al Kunsthistorisches Museum, e il grano di rosario con le scene della vita di San Girolamo (1510-20), del Victoria and Albert Museum di Londra. In epoca umanistica l’ambiente bolognese si dimostrò particolarmente fervido e disposto ad accogliere i modelli artistici dell’antichità. La passione antiquaria aveva entusiasmato gli ambienti eruditi: professori dello Studio bolognese e intellettuali della corte dei Bentivoglio scoprirono l’attrazione per l’antico, incuriositi dai testi delle fonti storiche e letterarie, e dalle testimonianze materiali di piccoli oggetti. Si diffuse in questo modo un collezionismo basato soprattutto sull’epigrafia e sulla numismatica: monete, sculture, lapidi e gemme scolpite arricchirono le raccolte di storici, letterati e poeti. Tutto questo fervore esercitò naturalmente una notevole suggestione anche sugli artisti: si moltiplicarono allora gli incisori di gemme (glittica), e quelli esperti nell’uso del niello e del bulino, e pare che proprio da uno di questi orafi intagliatori e incisori (Marcantonio Raimondi), Properzia abbia appreso i rudimenti dell’arte. La tecnica dell’intaglio su noccioli rappresentava in ogni caso una

specialità inconsueta nel mondo artistico bolognese, mentre, tra Cinque e Seicento, era molto diffusa Oltralpe, nelle città tedesche e fiamminghe, dove sugli «ossi» di ciliegie, susine e pesche venivano istoriati stemmi, volti-ritratto, figure araldiche, episodi biblici. Properzia non fu la sola a dedicarsi a questo particolarissimo tipo di arte, tanto preziosa quanto complessa. La sua attività si inserisce in un filone molto apprezzato tra la fine del Quattrocento e tutto il Cinquecento, che doveva essere praticato però, proprio per le difficoltà a esso connesse, da un numero di artisti alquanto esiguo. Oltre a quello di Properzia, si conoscono i nomi di pochi altri scultori che vi si cimentarono: il genovese Damiano Lercaro, attivo intorno al 1480, che intagliò in un nocciolo di ciliegia alcuni santi e lavorò a bassorilievo un nocciolo di pesca, rappresentandovi la Passione. La sua abilità e la sua perizia tecnica erano tali che le sue opere vennero paragonate a quelle di Prassitele e di Fidia. Nella stessa arte si cimentò poi anche un intagliatore urbinate morto nel 1609 (Filippo Santacroce), che realizzò a Genova, per il suo mecenate, le effigi dei dodici Cesari intagliate in altrettanti noccioli di susine, e alcuni crocifissi cosí minuscoli che non se ne potevano distinguere i particolari se non col microscopio. Ancora nel Seicento, uno scultore ascolano, Ottaviano Jannella (1635-1661), fu artefice di numerosi bassorilievi dello stesso genere, alcuni dei quali sono conservati a Toronto (Art Gallery of Ontario).

È possibile che Giorgio Vasari, sincero ammiratore di Properzia de’ Rossi, l’abbia anche incontrata, a Bologna, durante il soggiorno del 1529 40

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A sinistra bassorilievo raffigurante Giuseppe e la moglie di Putifarre, unica opera attribuibile con certezza a Properzia de’ Rossi, che lo realizzò ispirata, secondo la tradizione, da un amore infelice. XVI sec. Bologna, basilica di S. Petronio, Museo della Basilica. In basso Ritratto di Properzia de’ Rossi, busto in terracotta scolpito, da un autore ignoto, per il Palazzo Fibbia. 1680-1690 circa. Bologna, Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio.

Nata a Bologna (o forse a Modena) nel 1490 e morta nella medesima città nel 1530, Properzia de’ Rossi è appunto la sola scultrice («femina schultora» come dicono i documenti) di cui si abbia notizia per il XV-XVI secolo, e la prima nell’Europa moderna. L’eccezionalità del suo ruolo è testimoniata dalle parole di Giuliano da Sangallo, il quale, nel 1546, scriveva: «Dovete sapere quante donne sono per la Fiandra e per la Francia e ancora in Italia, le quali dipingono in modo che in Italia i loro quadri di pittura sono tenuti in buon pregio; ma in loco nessuno per tempo alcuno si trovò mai che donna alcuna lavorassi il marmo». La maggior parte delle notizie che la riguardano proviene dall’opera di Vasari, che dedicò a Properzia una biografia nelle Vite (1550 e 1556), colmandola di elogi per aver osato «mettersi con le tenere e bianchissime mani nelle cose meccaniche, e fra la ruvidezza de’ marmi e l’asprezza del ferro», e descrivendola come «giovane virtuosa non solamente nelle cose di casa, (…) ma in infinite scienzie, che non che le donne, ma tutti gli uomini l’ebbero invidia». Alle stra-

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personaggi properzia de’ rossi

ordinarie capacità artistiche, fatte di un «capriccioso e destrissimo ingegno» si aggiungevano – sempre secondo Vasari – la bellezza fisica e le doti canore: «Costei fu del corpo bellissima, e sonò, e cantò né suoi tempi, meglio che femmina nella sua città». Particolari, questi ultimi, che rivelano una probabile conoscenza diretta tra Properzia e il pittore aretino, risalente forse al 1529 quando Vasari trascorse un periodo a Bologna per lavorare ai fastosi allestimenti scenografici realizzati per l’incoronazione di Carlo V.

Una tecnica d’origine nordica

E ancora Vasari delinea le caratteristiche principali dell’arte di Properzia, consistenti soprattutto nella «microtecnica» (vedi box a p. 40), ovvero nella realizzazione di sculture miniaturizzate ottenute con materiali particolarissimi e innovativi , come noccioli di pesche, ciliegie e prugne, in cui istoriava bassorilievi perfetti e complessi come Natività, stemmi, scene di vario genere: «Si mise ad intagliar noccioli di pesche, i quali sí bene e con tanta pazienza lavorò, che fu cosa singolare e maravigliosa il vederli, non solamente per la sottilità del lavoro, ma per la sveltezza delle figurine che in quegli faceva, e per la delicatissima maniera del compartirle. E certamente era un miracolo veder in su un nocciolo cosí piccolo tutta la Passione di Cristo, fatta con bellissimo intaglio, con una infinità di persone, oltra i crucifissori e gli Apostoli». Si trattava di una tecnica

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di origine nordica (soprattutto tedesca) di cui rimane qualche esempio nei Musei Civici di Bologna, a Dresda, al Victoria and Albert Museum di Londra e in collezioni private tedesche. Accanto agli intagli miniaturizzati, Properzia si dedicò anche a opere di maggiori dimensioni, ottenendo, grazie al marito, una commissione presso il cantiere di S. Petronio, per scolpire le figure in marmo destinate a ornare le tre porte della facciata della chiesa. Nonostante, o forse proprio a causa della sua abilità, il suo ruolo nel prestigioso cantiere, in cui lavoravano molti artisti già affermati, fu fin dall’inizio – afferma Vasari – di decisa emarginazione: i suoi lavori le vennero pagati «un vilissimo prezzo», mentre il suo principale detrattore, Amico Aspertini, «per l’invidia sempre la sconfortò, e sempre ne disse male agli Operai». Venne il piú delle volte utilizzata in ruoli secondari, facendola operare su modelli altrui. Tuttavia, documenti di recente reperimento dicembre

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A destra Marzia scolpisce, miniatura da un manoscritto di scuola francese del De mulieribus claris di Giovanni Boccaccio. 1488-1496. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto lo stemma in filigrana d’argento della famiglia Grassi, nel quale sono incastonati undici noccioli intagliati da Properzia de’ Rossi con figure di santi e di vergini martiri. XVI sec. Bologna, Museo Civico Medievale. Nel particolare ingrandito si vede quello in cui è raffigurato san Pietro.

testimoniano la sua frenetica attività nel cantiere della basilica, tra il 1525 e il 1526, con continui pagamenti a suo favore di somme piccole (ma non eccessivamente modeste) per angeli, sibille e lavori vari per S. Petronio, e con l’attestazione delle spese sostenute dalla Fabbrica per l’acquisto dei modelli che le necessitavano.

In soccorso di un collega

Neppure prima del suo impiego nel cantiere (1525), del resto, la situazione economica della scultrice doveva essere particolarmente precaria, se nel 1514 poté spendere ben 750 lire (somma piuttosto alta per l’epoca) per l’acquisto di una casa con terreni nei pressi di Bologna, e se, nel 1518, potè concedere un piccolo prestito (8 lire) a un Bolognese che doveva riparare la propria abitazione. Nell’ottobre del 1525, quando lavorava da pochi mesi per S. Petronio, si fece addirittura garante per un pittore veneto che, incaricato di dipingere una tavola

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raffigurante la Madonna, forse non era stato in grado di pagare i materiali, per cui due falegnami suoi creditori lo avevano fatto incarcerare. Properzia si impegnò dunque a versare tutto il denaro necessario, affinché l’artista potesse uscire dal carcere e portare a compimento la sua opera. Oltre alla casa in campagna, rivenduta due anni dopo l’acquisto, la scultrice era proprietaria anche di un immobile con bottega, camino, cantina per il vino, corte, orto e pozzo, a Bologna, nella contrada di San Lorenzo, di cui aveva affittato una parte nel 1520 a un maestro vellutaio milanese, che sfrattò tre anni dopo allo scadere della locazione. Nel 1529, poco prima di morire e quando già si trovava, inferma, all’ospedale bolognese di S. Giobbe, Properzia potè rimborsare senza problemi a un notaio una somma piuttosto elevata (37 lire 12 soldi e sei denari), girandogli una lettera di cambio di un merciaio che le doveva il doppio.

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personaggi properzia de’ rossi Da leggere U Giorgio Vasari, Le Vite de’ piu

eccellenti architetti, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri, a cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi, Einaudi, Torino 1991; vol. II, pp. 729-731 U Irene Graziani, Vera Fortunati, Properzia de’ Rossi. Una scultrice a Bologna nell’età di Carlo V, Editrice Compositori, Bologna 2008 Properzia de’ Rossi, in una incisione realizzata da Niccolò de Larmessin per l’opera di Isaac Bullart, Académie des Sciences, et des Arts... 1682. Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio.

Sembra che un amore infelice le abbia ispirato uno dei migliori bassorilievi per S. Petronio, quello raffigurante Giuseppe e la moglie di Putifarre, che è anche l’unica opera a lei attribuibile con certezza. Realizzò poi anche molti capitelli in arenaria, raffiguranti animali mostruosi, per i portici di Bologna.

Passione antiquaria

La fama della scultrice si diffuse rapidamente anche fuori Bologna, raggiungendo persino papa Clemente VII, che, nel febbraio del 1530, quando si recò nella città per incoronare Carlo V, chiese di poterla conoscere constatando però che era morta da pochi giorni. L’esistenza di questa donna, conclusasi cosí precocemente e tragicamente, e ben lontana nella realtà dal modello della donna di palazzo le cui capacità artistiche rappresentavano soltanto un complemento ornamentale, fu travagliata da amori infelici, rivalità innumerevoli con i maestri del cantiere, e da ogni sorta di scontri verbali e fisici che la condussero anche in tribunale. Fu implicata in almeno due processi, uno per aver tagliato illegalmente (insieme al suo amante) nell’orto del suo affittuario, un albero da frutto e ben 24 viti; l’altro per aver aggredito, col pittore Domenico del Francia, un altro pittore del cantiere, graffiandogli il volto.

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L’arte di Raffaello rappresentò il modello culturale di Properzia, che, a sua volta, influenzò la pittura del Parmigianino, costituendo una figura chiave di passaggio nell’evoluzione del modo di rappresentare la figura umana e nella tecnica compositiva. Nella sua formella principale rivive il fascino neoellenizzante di certi stucchi delle Logge Vaticane: a Bologna infatti era assai viva la passione antiquaria, di cui era esponente, tra l’altro, Amico Aspertini, che, come già ricordato, fu il principale rivale di Properzia nel cantiere di S. Petronio. È evidente, dunque, l’orientamento verso i modelli greci, seppur aggiornati su quelli romani e temperati dal naturalismo padano. Nello stesso bassorilievo sono presenti anche influssi michelangioleschi, individuabili soprattutto nella plasticità delle figure, in una scena realizzata con effetti squisitamente pittorici, in cui i volumi sono trattati in modo da permettere a luci e ombre di scivolare dolcemente sulle superfici del marmo. La fortuna di Properzia crebbe nel tempo, raggiungendo l’apice in epoca romantica, quando le sue sventure e la sua morte precoce e tragica ispirarono numerose opere letterarie e teatrali. F dicembre

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costume e società

Rozzi, volgari, creature poco piú che bestiali: era questa, nel Medioevo, la considerazione che molti avevano dei contadini e che trovò ampia eco nell’opera di poeti e cantastorie. Poi, però, qualcosa cambia e i campagnoli si fanno scaltri e brillanti, capaci di tener testa ai cittadini piú smaliziati e perfino al saggio per eccellenza, il re Salomone!

Dalli al villano!

di Domenico Sebastiani

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N

ella società romana antica non esisteva un autentico sentimento anti-contadino: la contrapposizione era piuttosto tra libertas e servitus, piú che tra urbanitas e rusticitas, e poteva essere criticato chi si fosse comportato inurbaniter, ossia secondo dettami difformi dalla civiltà dell’Urbe. Lo stesso termine paganus indicava, in origine, l’abitante del villaggio

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(pagus) o del borgo, per cui la contrapposizione con l’urbanus risulta tenue, connotandosi negativamente solo per le abitudini arretrate del primo rispetto alle novità della città. Con l’avvento del cristianesimo, chi abitava in campagna iniziò a incarnare il ruolo di colui che era depositario dell’antica religione degli antenati e il paganus si iden-

Rissa tra contadini per il gioco delle carte, olio su tavola di Pieter Bruegel il Giovane. 1619. Collezione privata.

tificò in chi si opponeva, con il suo mondo magico-religioso, alla nuova religione ufficiale. Il pius agricola (il «buon contadino»), coincidente sia con il paganus che con il pauper, cominciò quindi a essere visto con sospetto.

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costume e società Tuttavia, solo nel Medioevo crebbe l’acredine contro la campagna, la villa e chi vi abita, ormai appellato anche villanus. Le cause di tale processo, che da un punto di vista letterario origina la cosiddetta «satira contro il villano» – paragonabile per intensità e violenza solo a quella contro la malizia delle donne e contro la corruzione del clero – sono state a suo tempo ricondotte dallo studioso di letteratura medievale Domenico Merlini da un lato al disprezzo da parte della classe aristocratica, esplicitata dall’opera di compiacenti menestrelli, dall’altro all’antagonismo della stessa plebe cittadina – perlopiú artigiana – nei confronti delle masse di contadini che si riversavano in città nella seconda metà del XIII secolo, dopo l’abolizione della servitú della gleba.

Simile a una bestia

La natura del villico è improntata al mos bestiarum: chi abita nel castello, nella corte o nella città può dirsi «uomo», ma chi si trova al di fuori di questi confini, a contatto con con la natura selvaggia, partecipa di una condizione semiferina. Jacques Le Goff ci dice che nella mentalità e nel sistema dei valori medievali alla città fa da contraltare la foresta, incarnazione non solo geografica ma anche mentale della selvatichezza. Lo stesso Guglielmo d’Alvernia, vescovo di Parigi nella prima metà del XIII secolo, affermava che gli abitanti delle città «sono veri uomini in confronto ad altri esseri umani che non sono propriamente umani, ma animali». La natura del villano appare impregnata di animalità e di escrementizio. Il rustico ha l’aspetto di una bestia piú che di un uomo, e sembra che un misterioso legame lo colleghi ai soffi, ai venti apportatori di anime e di vita, ai peti e ai rumori peteggianti dei rituali carnascialesci e di rovesciamento. L’elemento del «peto» si trova nei primi componimenti satirici in versi che attaccano impietosamente il contadino. Rutebeuf, poeta france-

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se attivo nel XIII secolo, proveniente quasi sicuramente dalla Champagne ma poi trasferitosi nell’ambiente parigino, ci ha lasciato una delle piú famose e feroci invettive contro la figura del villano.

Il Paradiso negato

Nel Peto del villano (vedi box a p. 54), il contadino, oltre a non avere accesso in Paradiso, è rifiutato anche dai diavoli dell’Inferno, ammorbati dalle sue esalazioni pestilenziali. Se in Retebeuf troviamo già il filo conduttore tra il villano e la materia «bassa e corporea», il motivo viene rafforzato dal giullare lombardo che si fa chiamare Matazone da Caligano, borgo nei pressi di Pavia (XIII secolo). Nella sua Nativitas rusticorum, la natura infima del villano è

Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila. Contadino che affila la falce, particolare dell’affresco del mese di Luglio, nel Ciclo dei Mesi attribuito al Maestro Venceslao. Entro il 1407.

dimostrata dalla sua venuta al mondo, dal momento che nasce dal peto di un asino, mentre il cavaliere è generato già adorno e vestito in modo mirabile (vedi box alle pp. 50-51). L’invenzione di Matazone serve a sviluppare l’accostamento del rustico, già parzialmente presente nei fabliaux (plurare di fabliau, racconto in versi tipico del Medioevo francese, in cui si narrano storie comiche e spesso immorali in toni crudamente realistici e talora satirici, n.d.r.), con lo sterco e con gli animali da soma, che, come lui, sono costretti dicembre

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Capitello decorato con un rilievo raffigurante un contadino intento alla vendemmia, dalla chiesa abbaziale benedettina di Moutiers-Saint-Jean (Borgogna), demolita nel XIX sec. 1125 circa. Parigi, Museo del Louvre.

solo a lavorare e a sostenere le fatiche della vita. Tale familiarità con le bestie, con il letame, con la fatica, unita alle elementari condizioni di sussistenza, divennero da quel momento in poi gli attributi negativi e ineludibili del villano.

Per ordine di Giove

L’origine vile del villano viene ripresa dal poeta Teofilo Folengo (1491-1544), il quale, nell’Orlandino, attribuisce al villano una nascita simile a quella descritta da Matazone, ma piú articolata, nel punto in cui narra che i villani nascono per ordine di Giove dalle ballotte di sterco d’un asinello. Commentando i versi di Matazone, lo studioso Piero Camporesi, evidenzia l’identità tra il «vilan puzolento» e lo stultus (il «villan pazzo»), l’uomo dei campi, nero, brutto, piccolo e deforme: egli è un «uomo-asino», che si contrappone agli equites, ossia ai cavalieri «uomini-cavallo», che sono padroni e dominatori e quindi anche alti, belli e rosei. Altro aspetto repellente del villano è il suo cattivo odore: a riprova di ciò, il fabliau francese Du vilain asnier (L’asinaio) afferma che il nostro avverte come insopportabili i profumi e può convivere solo con la puzza dei suoi simili. In ogni caso, anche quando non vi sia un accostamento specifico tra il villano e l’asino, il contadino mantiene sempre una natura bestiale piú che umana, assimilato agli orsi-uomini selvatici e, conseguentemente, ai demoni agresti della tradizione pagana, come silvani, fauni, satiri e cosí via. Il «bestiario villanesco»

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costume e società Sulle due pagine acquerelli su pergamena di Giuseppe Maria Crespi (detto lo Spagnolo), facenti parte della serie dedicata al Bertoldo di Giulio Cesare Croce: Cacasenno cavalca alla rovescia (a sinistra) e Bertoldo pensa di eludere con la lepre le minacce della regina (nella pagina accanto). 1736. Bologna, Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio.

le origini

Un parto... «rumoroso»! Ne Il detto del villano, Matazone da Caligano descrive la venuta al mondo del villano, ricollegandola al peto di un asino:

«Como fo l’istoria De soa (del villano) natevità, Voyo che mi intendà. Là zoxo, in uno hostero, Sí era un somero;

De dré si fé un sono Sí grande come un tono; De quel malvaxio vento Nascé el vilan puzolento»

(«Voglio che voi sentiate come fu la storia della sua nascita [del villano]. Laggiú, in una casa, c’era un somaro; fece da dietro un suono grande come un tuono: da quel cattivo vento nacque il villano puzzolente»). Memore della sua origine, il villano non deve nemmeno lamentarsi per il fatto di essere trattato duramente. Prosegue infatti Matazone:

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risulta molto ampio: il testo anticofrancese Des XXIII manières de vilains, parla di vilain porcin (villano porcino), chenin (canino), pou covez (poco covato), mossus (coperto di muschio), ramagé (che vive nei boschi, selvaggio, feroce) e asnin (asinino). Attributi, tutti, che rimandano a categorie animali, ovvero alla natura selvaggia del villico, ovvero ancora – come nel caso del pou covez – all’aspetto di un nano, a un vero aborto della natura.

«Progenie maledetta»

«El vilan di mala fede Queste parole no crede, Ma è voyo che sapia Ch’ele son tute verità. Che nesun asino che sia May no va solo per via

Che un vilan o doi No ge vada da poi, E valo confortando E seco rasonando Però che son parente E nati d’una zente».

Il componimento termina elencando le prestazioni e i lavori che il signore può pretendere dal villano; si tratta probabilmente di esagerazioni, ma sufficienti a far capire in quali condizioni vivessero i contadini nell’Italia settentrionale. In Mistero buffo, Dario Fo ha ricostruito il testo della Nativitas rusticorum di Matazone, unendo, per esigenze di continuità e di logica, vari frammenti in una versione leggermente differente dall’originaria. Una variante del peto «generatore» figura nel Gargantua et Pantagruel di François Rabelais (1494-1553): il gigantesco Pantagruele, con un enorme peto, prima partorisce «cinquantatremila omettini, tutti nani e contraffatti», poi, con un’altra scorreggia, «altrettante piccole donne», e dà a tutti il nome di «Pigmei».

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Nel 1587, facendo riferimento alla malizia del villano, lo scrittore Tommaso Garzoni (1549-1589), lo paragona al serpente: l’accostamento con il rettile, simbolo del Male, testimonia che il profondo disprezzo nei confronti del villano non proviene solo dai signori feudali o dalle plebi cittadine, ma è ampiamente condiviso dal clero. E ancora, il frate Francesco Moneti (1635-1712), nella Cortona convertita, immagina un Gesuita che si rivolge alla popolazione della città e marchia i villani di qualsiasi infamia. Essi sono «progenie maledetta», macchinatori di rovina altrui, eretici, maliziosi come il «serpente antico», furfanti e cosí via, fino a essere tacciati di accompagnarsi con il vizio pure dentro la tomba. L’odio verso i villici esplode in forme talmente virulente che si assiste alla loro equiparazione con i Giudei: sia gli uni che gli altri sono marchiati come perfidi, scellerati e ostinati. La cosa paradossale, sottolinea lo studioso Gino Benzoni, è che gli Ebrei, pur tacciati come «sconoscenti», se rinnegano la fede dei padri e riconoscono l’Avvento del Salvatore possono avere ingresso tra i catecumeni, riscattandosi e acquistando una piena dignità nella società civile. Al rustico, invece, tutto ciò viene negato, perché non potrà mai modificare il suo status: «Chi villano nasce, villano muore». L’odio feroce contro i campagnoli si tramuta nell’accusa del piú abominevole dei misfatti, il deicidio. Sebbene i Vangeli nulla dicano in proposito, i villani diven-

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costume e società I Versus de Unibove

Quando il bovaro ne sa una piú del diavolo! Poema latino ritmico, i Versus de Unibove furono composti verso la fine dell’XI secolo da un autore anonimo, di estrazione monastica o clericale, probabilmente presso l’abbazia cluniacense di S. Pietro di Gembloux (nell’odierna provinvia vallona di Namur, in Belgio). Unibos si chiama cosí perché possiede un solo bue (Unus Bos, «Un-bue»). Perso il suo unico possedimento, il contadino decide di scuoiarlo e di portare la pelle al mercato per venderla e ricavarne qualcosa. Il guadagno risulta ben misero, ma, sulla via del ritorno, mentre sta soddisfacendo un bisogno fisiologico, l’uomo strappa un ciuffo d’erba per pulirsi e rinviene un tesoro consistente in tre vasi pieni di monete d’argento. Per accertarsi del valore del gruzzolo, manda il figlio maggiore a casa del prevosto, afficnhé questi possa dargli una bilancia con cui pesare le monete contenute nelle pentole. Il prevosto, insospettito, dopo aver seguito il ragazzo e scoperto che Unibos è entrato in possesso di un tesoro, insieme al sindaco e al sacerdote accusa il contadino di essersene appropriato in maniera indebita. Al che Unibos risponde dicendo di aver ricavato le monete vendendo la pelle del suo bue e invita i suoi accusatori a fare altrettanto con il loro bestiame. I tre, convinti, uccidono le loro mandrie, scuoiano gli animali e si recano al mercato, dove però si rendono conto che Unibos ha mentito. Allora tornano da lui per vendicarsi, ma nel frattempo il villano ha preparato un altro tranello. Al loro ingresso, trovano Unibos che suona una bucina (un corno o una tromba) e danza attorno alla moglie che giace a terra come morta, coperta di sangue di maiale: a un certo punto la donna «resuscita» miracolosamente e, una volta ripulitasi, appare con un aspetto che sembra ai tre piú giovane e bello di prima. Unibos fa credere ai suoi avversari che sia merito della bucina magica, che possiede la virtú di ridare vita, giovinezza e bellezza. I tre cadono di nuovo nell’inganno, si fanno vendere lo strumento e a turno uccidono le proprie mogli tentando poi, vanamente, di farle resuscitare. Prevedendo che i tre si presenteranno per farsi giustizia, nel frattempo Unibos prepara un altro tranello: con l’unica moneta d’oro che gli è rimasta del tesoro, fa credere che la sua giumenta abbia la capacità di «cacare» monete d’oro. Il giudice, il sindaco e il prete, scoperto l’ennesimo tiro del contadino, lo catturano e lo rinchiudono in una botte, con l’intento di buttarlo in mare e disfarsi di lui in modo definitivo.

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Ma Unibos, per prendere tempo, offre una bevuta ai tre con i pochi spiccioli che gli sono rimasti ed essi se ne vanno nell’osteria a bere alla sua salute. Mentre il villano è chiuso nella botte, passa un mandriano di porci il quale, incuriosito, chiede ad Unibos come mai si trovi in quella condizione. Astutamente, il contadino gli risponde che i suoi paesani vogliono in questa maniera convincerlo ad accettare la carica di praepositus del suo villaggio, carica che egli non vuol ricoprire. Il mandriano, allora, propone a Unibos uno scambio: lui, che accetterebbe volentieri di diventar giudice, entrerà nella botte, mentre Unibos se ne andrà via con i suoi porci. Avvenuto lo scambio, sindaco, prevosto e sacerdote, mezzi ubriachi, gettano la botte in mare, credendo di essersi liberati per sempre del villano, quindi fanno ritorno al loro villaggio, ma con grande sorpresa incontrano Unibos che porta al pascolo una mandria di porci. I tre chiedono al villano come abbia fatto a salvarsi e soprattutto come si sia potuto procurare una mandria di porci. Unibos, ormai vincitore, li beffa con l’ennesimo inganno e fa credere loro che ha trovato la mandria di porci nel fondo del mare: «Ehi, perché non mi avete gettato fin da bambino in quei posti da cui ritorno beato e piú esperto di prima? Spinti dall’odio, mi avete gettato in un posto simile al paradiso, dove c’è una tale quantità di maiali che nessuno è in grado di contarli». Sindaco, prevosto e sacerdote, ormai sconfitti, decretano la loro stessa fine: cadono per l’ennesima volta nel trabocchetto e si gettano a capofitto nella profondità delle acque dove, naturalmente, periscono. dicembre

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante il mese di Novembre simboleggiato da un contadino intento alla raccolta delle ghiande per i maiali, da un manoscritto di scuola francese del Breviario d’amor del Matfre Ermengau. XIII sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de el Escorial.

tano coloro che hanno crocifisso Gesú, essi son dunque «ladri crudeli, porci e farisei», «maledicti agrestes», e il rustico «alter Judas».

La satira positiva

Come in tutti i racconti, anche nella satira del villano si riscontra un’altra faccia della stessa medaglia. A un certo punto, infatti, forse addirittura con un processo parallelo, la satira si fa «positiva». Invece delle solite invettive scagliate dai giullari, si cominciano a trovare oscuri cantori che narrano le astuzie con cui il villano si sottrae all’arroganza dei potenti. Il villico, quale creatura semiferina, sembra dunque trasformarsi in un altro animale al quale è paragonabile simbolicamente: la volpe astuta, che, nel Roman de Renart, si oppone al lupo Isengrino, personificazione dell’arrogante classe colta feudale. L’antica malizia demoniaca del villano muta in astuzia: del resto al contadino è stata sempre riconosciuta la dote della furbizia, ed egli per questo ne saprebbe una piú del diavolo. «Scarpe grosse e cervello fino», si direbbe al giorno d’oggi, e l’origine del proverbio non è casuale. Con la sua astuzia il villico comincia ad alzare la testa contro il dominio dei potenti, a ribellarsi e a prendersi gioco di essi. Grazie alla sua furba eloquenza, il contadino, che prima era bandito sia dall’altezza dei cieli che dalle profondità degli inferi, ora, nel fabliau Du Vilain qui conquist Paradis par plaid, riesce a battere i santi Pietro, Tommaso e Paolo, tanto che, alla fine, Dio accetta le sue ragioni e gli rende giustizia, accogliendolo in Paradiso. Un vento nuovo e democratico sembra spirare a favore del villano.

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Numerosissime sono, perciò, le novelle che dipingono villani furbi. Nella miriade di intrecci, quattro figure di villani si stagliano su tutte le altre: Unibos, Campriano, Marcolfo e Bertoldo, personaggi che, nonostante una certa differenziazione, sono riconducibili a una matrice comune. I prime due rappresentano il contadino che, con i suoi trabocchetti, si prende gioco dei rappresentanti di altre classi sociali, i secondi ci presentano il villano deforme che, grazie alla sua «sapienza» naturale, riesce a interloquire con saggi e sovrani.

L’opera di un chierico

I Versus de Unibove (vedi box a p. 52) si sostanziano in un divertente poemetto anonimo, probabilmente scritto attorno all’XI secolo da un chierico del Belgio vallone o della Francia del Nord. Si tratta della

Ancora un acquerello di Giuseppe Maria Crespi, raffigurante Bertoldino (figlio di Bertoldo) che getta il forziere col denaro contro le rane. 1736. Bologna, Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio.

prima versione letteraria di un racconto in cui il contadino, bersaglio privilegiato della letteratura medievale precedente, viene rappresentato in luce positiva, anche, se da un punto di vista allegorico, la trama ha verosimilmente un significato piú complesso. La caratteristica di Unibos è la calliditas, la furbizia, che gli permette di superare difficoltà e pericoli. I suoi avversari sono il praepositus (il prevosto/ giudice), il maior villae (il sindaco) e il presbiter (il parroco), ossia i simboli del potere costituito. Dopo aver trovato per caso un tesoro mentre porta a vendere al

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costume e società il peto del villano

I demoni appestati Il poeta Rutebeuf, ne Le pet au vilain, racconta che un diavolo, accorso in punto di morte del rustico a prendere la sua anima, attacca – in base alla credenza medievale secondo cui il soffio vitale di un individuo usciva dal suo deretano – un sacco di cuoio al posteriore del villico, per non farsi sfuggire l’ambita preda. Il contadino, però, la sera precedente, per guarire, aveva mangiato laute e grasse cibarie, tanto che la pancia gli si era tesa come un tamburo. Per liberarsi dal «peso», il villano si sforza a tal punto da emettere un peto deflagrante, che il demone racchiude immediatamente nel sacco, convinto che sia appunto lo spirito vitale dell’infermo. Libera poi il contenuto dell’involucro all’Inferno, ma questo si rivela un «puzzo» che appesta gli altri demoni. Questi, inferociti contro il villano, lo maledicono e concordano di non far mai piú entrare l’anima di un villano agli inferi, perché questa non può che essere fetente. Ecco un ampio stralcio del fabliau di Rutebeuf nella traduzione di Alberto Limentani:

«Un villano una volta s’ammalò, e l’Inferno era già preparato a ricevere l’anima di lui, come vi narro e dico in verità. Lí sul posto era venuto un diavolo, perché la legge fosse rispettata; e, appena sceso là dentro, quel diavolo gli attacca al culo un sacco di cuoio, perché il demonio crede senza fallo che è dal culo che se n’esce l’anima. In alto Parigi, Notre Dame. Testa di demone in una curiosa espressione di disgusto. XIII sec. Si può immaginare una smorfia analoga sui volti dei poveri demoni appestati dalle ammorbanti «esalazioni» del villano di Rutebeuf.

mercato le pelli del suo unico bue, il contadino esce vittorioso e indenne dalle peripezie in cui si dipana la trama, grazie al suo ingegno e alle spassose beffe che tesse ai danni degli altri personaggi, fino alla loro eliminazione finale. L’ammonimento finale «Non bisogna prestar fede

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Ma il villano, per guarire, la sera Aveva preso una buona pozione: s’era abboffato tanto manzo all’aglio e tanto brodo grasso e bollente, che la sua pancia non era allentata, ma tesa come corda di chitarra. Non sospetta che è lí lí per morire: si dà guarito se fa una scorreggia. In quest’impegno egli tutto si sforza, in questo sforzo mette ogni sua forza; tanto si sforza, tanto ci s’impegna, tanto si gira, tanto si rimena, che ne vien fuori un peto scatenato. Il sacco è pieno; subito lo lega il diavolo, che per penitenza, gli era balzato in piedi sulla pancia (bene a proposito dice il proverbio: “chi stringe troppo si caca di sotto”). Cammina e cammina, giunge alla porta d’Inferno il diavolo, il peto nel sacco. Entra e vi scarica il sacco e il resto, e il peto scappa fuori sull’istante: eccovi ora tutti quanti i diavoli pieni di furia e tutti scalmanati a maledire anima di villano. E l’indomani tennero capitolo e s’accordarono in questa decisione, che nessuno abbia a portarci anima che mai esca dal corpo di un villano: non può accadere che non sia fetente. D’accordo presero questa decisione, sicchè né in Paradiso né in Inferno è mai concessa l’entrata ai villani: avete udito il fatto come sta…».

ai suggerimenti ingannevoli del nemico: questo racconto lo dimostra per l’eternità» ha indotto però studiosi come Ferruccio Bertini e Francesco Mosetti Casaretto a ipotizzare che dietro la figura di Unibos si nasconda il diavolo, l’inimicus per antonomasia.

La rivincita del popolino

Filiazione di Unibos è la Storia di Campriano il contadino, la cui prima edizione viene datata verso la fine del XV o al principio del XVI secolo. Scritto probabilmente da un toscano nel tardo Quattrocento, il

poemetto ebbe un grande successo, poiché soprattutto il popolo minuto apprezzava i racconti in cui si celebrava il povero che riusciva ad avere la meglio su signorotti e grassi borghesi con le sue astuzie. La Storia di Campriano – la cui trama ricalca quella dei Versus de Unibove, e che, a sua volta, influenzò componimenti successivi – racconta di un contadino poverissimo, padre di sei figlie, il quale, con l’inganno, riesce a far acquistare in rapida successione ad alcuni mercanti: un asino, facendo loro credere che la dicembre

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Miniatura raffigurante una danza di contadini, dal Libro d’Ore di Carlo d’Angouleme, illustrato da Robinet Testard. 1480-85 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

bestia abbia la capacità di defecare monete; una pentola dal potere di bollire senza fuoco; un coniglio in grado di fare il messaggero; una tromba con la virtú magica di resuscitare i morti. Infine riesce ad avere la meglio sui mercanti, che vogliono ucciderlo, inducendoli a gettarsi in un fiume, grazie a un altro stratagemma. Se Unibos e Campriano rappresentano il topos del villico che riesce a gabbare a forza di inganni e trame insidiose i rappresentanti dei ceti altolocati, con Marcolfo e Bertoldo si entra nel campo piú complesso del contadino che, da creatura mostruosa e semiferina, si trasforma in esponente di una sapienza arcaica e alla rovescia – una sorta di «antisapienza» – in grado di tener testa a menti illuminate e/o conquistare la fiducia di re e potenti.

Alla corte di re Salomone

Il primo caso è quello della saga nota come Dialogus Salomonis et Marcolfi, opera di antichissime origini, le cui testimonianze si rinvengono in un lungo arco temporale, dal V fino al X-XII secolo, in aree geografiche e culturali molto vaste e differenti. La sistemazione definitiva di questa tradizione orale, incentrata su un’altercatio o contradictio Salomonis, si è avuta nel 1434 per mano forse di un chierico o comunque di un dotto legato all’ambiente ecclesiastico, il quale scrisse il Dialogus Salomonis et Marcolphi, contenuto in un codice del monastero di Neumünster a Würzburg, in Baviera. Dalla Germania l’operetta giunse a Venezia, dove fu oggetto di numerose volgarizzazioni, segnate da interventi censori atti a smorzare la carica eversiva e oscena del linguaggio. Nel Dialogus la leggendaria figura di Salomone, re saggio per eccellenza, deve sostenere un contraddittorio con Marcolfo, vil-

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lano rozzo e deforme: il re propone massime di saggezza, in gran parte citazioni bibliche, mentre il villico le deforma e le stravolge con la sua eloquenza furba e scurrile, rivendicando il diritto a un nuovo ordinamento sociale, basato su precise istanze materiali e non su principi teorici, facendosi in qualche modo portatore di esigenze che potrebbero già definirsi «borghesi». Alla fine Salomone, stanco di

essere oscenamente sbeffeggiato da Marcolfo, lo caccia dal palazzo e, di fronte al suo gesto di estrema irriverenza – l’uomo mostra al re le sue pudenda –, lo condanna all’impiccagione. Marcolfo, però, con l’ennesimo artifizio retorico, riesce a scampare alla morte. Il tema del confronto tra Salomone e Marcolfo fu ripreso dal geniale cantastorie bolognese Giulio Cesare Croce, il quale, in pieno

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Danza di contadini (particolare), olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1568 circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

Seicento, scrisse Le sottilissime astutie di Bertoldo, a cui aggiunse successivamente Le piacevoli et ridicolose simplicità di Bertoldino. Anche in questo caso, il contadino Bertoldo, che appartiene alla «zente bestiale» dei villani, si ritrova al cospetto di un potente, che non è un personaggio biblico, ma un re. A differenza di Marcolfo, Bertoldo viene collocato da Croce in un Medioevo leggendario e vago, alla corte veronese di Alboino, famoso per la sua crudeltà, e intorno al quale si erano formate leggende e racconti che si intrecciavano e si confondevano con quelli del re Teodorico. Bertoldo si presenta alla corte del sovrano e, con fare sfacciato, senza alcun rispetto per l’autorità, va a sederglisi accanto. Tale comportamento suscita scandalo e meraviglia tra i presenti: il re, allora, sottopone Bertoldo a una serie di indovinelli, ai quali l’orrido contadino risponde brillantemente, ricorrendo a un linguaggio farsesco e basato sulla tautologia. A poco a poco, il villano entrato a corte conquista la simpatia del re, fino a diventarne il saggio consigliere. Rifacendosi al modello di Marcolfo, Bertoldo si presenta subito come una sorta di uomo-mostro, di bestia umana che scende dalle solitudini dei monti ed entra nel palazzo regale. Come dice Camporesi, egli si fa portatore dell’antica cultura diaboli: i contadini erano considerati come ministri del demonio e la Sferza dei Villani (un’opera satirica della seconda metà del XV secolo, n.d.r.) li raffigurava come incapaci di dire l’Avemaria e il Paternostro, o altre orazioni, «perché non hanno niuna divozione». Anche nell’aspetto esteriore Bertoldo deve rispecchiare la figura del villico quale creatura infera legata al sottosuolo, al regno dei morti, al mondo plutonico e dionisiaco, denso di fecondità e ricchezza. Quindi è una sorta di grottesca maschera di Carnevale, con

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Da leggere U Domenico Merlini, Saggio di ricerche

sulla satira contro il villano con appendice di documenti inediti, Loescher, Torino 1894 (anche on line all’indirizzo: www.classicitaliani.it/ critica_htm/merlini01.htm) U Luciana Borghi Cedrini, La cosmologia del villano. Secondo testi extravaganti del duecento francese, Edizioni Dell’Orso, Alessandria 1989 U Ferruccio Bertini, Francesco Mosetti Casaretto, La beffa di Unibos, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2000 U Rutebeuf, I fabliaux, a cura di Alberto Limentani, Carocci, Roma 2007 U Rosanna Brusegan (a cura di), Fabliaux. Racconti francesi medievali, Einaudi, Torino 1980 U Ferruccio Bertini, Il contadino

componenti animalesche: il capo enorme, gli occhi rossi come di fuoco, le ciglia come setole di porco, la bocca storta, i denti come quelli di cinghiale, la barba folta e cadente come quella di un becco, le gambe caprine come quelle di un satiro e, per finire, orecchie asinine.

Potenze del sottosuolo

Sia Marcolfo che Bertoldo incarnano gli inferiori – ossia le potenze del sottosuolo – che si scontrano con i superiori, cioè con le forze che hanno il dominio su ciò che sta sopra, e alla fine prevalgono, «perché solo ciò che sta sotto può superare il precario mondo che è di sopra» (Camporesi). Ad avviso dello stesso Camporesi, tuttavia, sussiste una differenza fondamentale tra il personaggio di Marcolfo e quello di Bertoldo che a esso si ispira: il vecchio contadino, oltre a essere un rustico briccone, è portatore di una carica sacrilega, eretica ed eversiva, e si pone come contestatore della religione ortodossa, parodizzando sulla Bibbia e su Dio. Pur impersonando il grottesco e mostruoso villano che con la sua astuzia si fa beffe dei potenti, nella figura di Bertoldo traspare invece la concezione secondo cui l’uo-

medievale, ovvero il profilo del diavolo (una nuova interpretazione dei Versus de Unibove), in Maia 47 (1995); pp. 325-341 U Francesco Mosetti Casaretto, Unibos e il «pio bove», ne L’Immagine riflessa, 11, 2002, pp. 111-139 U Quinto Marini (a cura di), Il dialogo di Salomone e Marcolfo, Salerno Editrice, Roma 1991 U Piero Camporesi, La maschera di Bertoldo, Garzanti, Milano 1993 U Gino Benzoni, Una razza semiferina: i villici, in Salvatore Geruzzi (a cura di), Uomini, demoni, santi e animali tra medioevo ed età moderna, Biblioteca dell’Accademia Sperelliana, GubbioFabrizio Serra Editore, Pisa-Roma 2010; pp. 185-198.

mo rimane sostanzialmente ciò che di lui ha fatto la natura, con esclusione della possibilità di raggiungere un’effettiva uguaglianza sociale e di classe. Cosí come l’asino non può cambiare la sua natura nonostante gli sforzi, allo stesso modo i villani, pur entrando a palazzo e indossati i panni dei cortigiani, rimangono sostanzialmente villani. Bertoldo non accetta l’educazione e la cultura di corte dei signori. Egli rimane fedele alla sua natura di villano fino alla morte, che sopravviene proprio perché smette di vivere da contadino, ma non di sentirsi tale. Costretto infatti a uno stile di vita che non gli è proprio, sottoposto a un regime alimentare a base di carni sanguinolente dei barbari del Nord e privato dei suoi fagioli, cipolle e rape, pian piano appassisce e muore, si dissolve e ritorna alla terra generatrice e feconda, come recita il suo epitaffio: «In questa tomba tenebrosa e scura // Giace un villan di sí difforme aspetto, // Che piú d’orso che d’uomo avea figura; // Ma di tant’alto e nobile intelletto // Che stupir fece il mondo e la natura. // Mentr’egli visse e fu Bertoldo detto, // Fu grato al Re; morí con aspri duoli // Per non poter mangiar rape e fagiuoli». F

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Un gioiello nascosto

di Chiara Mercuri

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Nella Roma degli imperatori infuriano le persecuzioni e una giovane cristiana, Prassede, cerca di proteggere i suoi confratelli e di dare degna sepoltura ai piú sfortunati. Il confronto, però, è impari e, alla fine, anche lei soccombe. Secoli dopo, papa Pasquale I decide di onorarne la memoria e le dedica una nuova grande chiesa, voluta a immagine e somiglianza della basilica vaticana di S. Pietro

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poche centinaia di metri dalla Stazione Termini, il piú grande e frequentato scalo ferroviario di Roma, proprio accanto alla sontuosa basilica di S. Maria Maggiore, che sovrasta il rione Esquilino nella sua opulenza barocca, sorge un vero e proprio gioiello dell’architettura dell’età di Mezzo: la basilica di S. Prassede. È una chiesa in mattoni rossi, quasi incastrata tra i vicoli, priva di facciata ornata, senza decorazioni marmoree, né un campanile che si stagli nel paesaggio cittadino, ma che, tuttavia, è uno degli edifici piú importanti e meglio conservati della Roma medievale, e in special modo dell’età carolingia. Un periodo in cui la città riemergeva a fatica dalle nebbie dell’Alto Medioevo, per disvelare al mondo l’eredità del suo intatto prestigio, e consegnarne una parte ai monarchi germanici del nascente Sacro Romano Impero. La chiesa riveste un’importanza eccezionale anche perché chi voglia avere la visione della S. Pietro medievale, la basilica preesistente a quella attuale realizzata nel Cinquecento, in S. Prassede può farlo semplicemente varcandone la soglia. Infatti, per esplicita intenzione del pontefice, l’edificio fu realizzato a imitazione della basilica vaticana dell’epoca, seppur su scala ridotta: a tre navate, coperto da un tetto a capriate, dotato di una vasta abside e preceduto da un ampio atrio, si può apprezzare nella sua vastità solo una volta entrati, visto

Roma, basilica di S. Prassede. Un angelo indica a Pietro e Paolo l’ingresso della Gerusalemme celeste, particolare del mosaico dell’arco trionfale. IX sec.

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che il suo esterno è quasi del tutto celato dalle case rinascimentali e barocche che le si sono addossate nel corso dei secoli.

Condannati a morte

La chiesa fu eretta da Pasquale I, pontefice tra l’817 e l’824, e dedicata a Prassede, una giovane fanciulla romana che aveva vissuto proprio su quel fianco del colle Esquilino tra il I e il II secolo. Aiutata dalla sorella Pudenziana, Prassede era stata una protagonista e vittima delle persecuzioni. Secondo la tradizione, la giovane, proveniente da una famiglia cristiana, avrebbe nascosto nella propria abitazione un gruppo di cristiani ricercati: scoperti dai persecutori, furono arrestati e condannati a morte. Prassede riuscí a trovarne i corpi e dare loro una sepoltura cristiana presso la catacomba di Priscilla, sulla via Nomentana, dove già riposavano il padre Pudente, la sorella Pudenziana e il fratello Novato, e sarebbe morta a causa dello sfinimento prodotto dalla febbrile ricerca delle spoglie dei confratelli, consumata dal dolore e dalla ferocia dell’autorità romana. Come presto si comprenderà, la devozione di Prassede verso i corpi dei martiri, capace di giungere fino all’estremo sacrificio, fu proprio uno degli aspetti che portarono Pasquale I a indicarla come esempio e a dedicarle la grandiosa basilica. Già dopo l’avvento di Costantino e la progressiva cristianizzazione delle istituzioni romane, cioè tra IV e V secolo, la casa di Pudente, padre di Pudenziana e Prassede, fu dedicata al culto; secondo la tradizione, in essa erano stati ospitati Pietro e

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Qui sopra la facciata della basilica di S. Prassede, voluta da papa Pasquale I

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Basilica di S. Prassede Roma, via di Santa Prassede 9/a (l’entrata originaria, aperta solo per le celebrazioni maggiori, è segnalata dal protiro originale che si affaccia – stretto tra le case – su via di San Martino ai Monti) Orario feriale, 7,30-12,00 e 16,00-18,30; festivo, 8,00-12,00 e 16,00-18,30; durante la celebrazione della Santa Messa non è possibile visitare la chiesa; gli orari possono subire cambiamenti e si suggerisce di verificare contattando la chiesa Info tel. 06 4882456; e-mail: basilicas.prassede@libero.it dicembre

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A sinistra, sulle due pagine il mosaico del catino absidale, con il Cristo dell’Ultimo Avvento, attorniato dagli apostoli Pietro e Paolo, che gli presentano le sante Prassede e Pudenziana. Sono poi visibili un giovane (forse il fratello Novato), e papa Pasquale con il modello della basilica, coronato da un’aureola quadrata, a indicare che è ancora vivente.

preferirono farsi uccidere piuttosto che riconoscere l’autorità divina dell’imperatore – vennero sepolti pietosamente in tali luoghi, in genere in sepolture umilissime, e furono qui ricordati e venerati dall’intera comunità. Le catacombe presto presero il nome del piú illustre dei martiri che vi era sepolto: Sebastiano, Domitilla, Priscilla, Agnese, ecc.

Sulle tombe dei martiri

Paolo durante la loro permanenza a Roma. L’abitazione sorgeva presso la sommità del Cispio, uno dei rilievi piú significativi dell’Esquilino, sulla cui cima – imbiancata, secondo la leggenda, da una miracolosa nevicata – fu poi eretta la chiesa dedicata alla madre di Gesú, la grandiosa basilica di S. Maria Maggiore.

Oltre le mura della città

Sia la chiesa in onore di Pudente, che quella dedicata a Maria, non contenevano reliquie o corpi di martiri. In età paleocristiana, infatti, sebbene nelle aree abitate venissero aperte numerose chiese – e spesso fossero scelti luoghi in cui i martiri avevano vissuto –, la gran parte degli edifici religiosi veniva eretta là dove i corpi erano stati se-

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polti, e quindi fuori dalle mura. Sin dai tempi della Roma arcaica, una severa legge stabiliva che le zone sepolcrali dovessero sorgere fuori dal «pomerio», cioè dalla zona abitata. Le cinte murarie ricalcavano piú o meno tale perimetro, entro il quale «nessuno doveva essere seppellito, né arso», secondo una consuetudine che fu mantenuta sempre, e contraddetta solo da casi rarissimi e del tutto eccezionali. In età imperiale, dunque, anche la comunità cristiana – come i pagani, gli Ebrei e gli appartenenti alle altre confessioni – avevano acquistato terreni per farvi sorgere i propri cimiteri comunitari, quelli che poi divennero note come «catacombe». I martiri cristiani – uomini e donne che all’epoca delle persecuzioni

Dopo la pace costantiniana, mano a mano che il cristianesimo si faceva spazio nella topografia urbana, sulle tombe dei martiri sorsero edifici di culto specifici, detti martyria, o basiliche «ad corpus». Le piú famose divennero quelle dedicate ai due piú celebri esponenti della comunità cristiana, tra i primi a subire il martirio: san Pietro, la cui tomba sorgeva nella necropoli vaticana, e san Paolo, seppellito lungo la via Ostiense. Nei secoli successivi, segnati dal declino dell’impero, Roma conosceva un afflusso continuo di pellegrini e visitatori che venivano a pregare sulle tombe dei martiri; e decine di chiese martiriali – forse centinaia – sorsero all’esterno delle mura, lungo le vie consolari. Le cupe latebre delle catacombe sotterranee, agli occhi dei fedeli, divennero il simbolo della resistenza antipagana, rifugio dei cristiani nei tempi gloriosi in cui la Chiesa era perseguitata, missionaria, povera, tenuta in vita solo dalla forza della fede. Esistono numerose guide per pellegrini, scritte proprio tra il VII e l’VIII secolo, che illustrano la densità della topografia cristiana «extra muros». All’interno della cinta urbana di Roma, invece, a parte gli edifici (segue a p. 64)

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saper vedere s. prassede forme e colori di un capolavoro In basso i ritratti a mosaico di Teodora (a sinistra), madre di Pasquale I, e santa Prassede nella cappella di S. Zenone, che si apre nella navata destra della basilica.

Nella pagina accanto, in alto, a destra l’interno della basilica, che si articola in tre navate (con le laterali scandite da varie cappelle), con vasta abside e ampio atrio.

Il monumento in sintesi

Un tripudio di mosaici e l’opera di un bambino prodigio 3 Perché è importante La basilica fu realizzata da Papa Pasquale I nella prima metà del IX secolo per custodire le ossa dei martiri traslate dalle catacombe della campagna romana. È il maggior capolavoro architettonico e artistico in perfetto stato di conservazione della Roma carolingia. 3 S. Prassede nella storia La chiesa fu realizzata a imitazione – su scala ridotta – della basilica di S. Pietro, e ci offre la visione di come doveva apparire la chiesa vaticana prima che fosse trasformata dagli interventi rinascimentali e barocchi. 3 S. Prassede nell’arte La basilica custodisce – nell’abside e nella cappella dedicata a Zenone – una decorazione musiva di eccezionale pregio artistico e di altissimo valore

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simbolico. Oltre ai mosaici dell’età di Pasquale, la basilica conserva diverse opere d’arte; tra esse vanno almeno ricordati gli affreschi, anch’essi del IX secolo, che si trovano all’estrema sinistra dell’antico transetto, ora alla base del campanile, e che raffigurano storie di martiri. Nella cappella posta in fondo alla navata sinistra, va segnalata la tomba del cardinale Pantaleon Anchier de Troyes (che fu titolare della basilica dal 1282 al 1286), attribuita ad Arnolfo di Cambio. Infine, presso il terzo pilastro della navata, sul lato destro, va ricordata la memoria funebre del vescovo Giovanni Battista Santoni, con busto del defunto, da alcuni considerato una primissima opera di Gian Lorenzo Bernini (1610 circa), che l’avrebbe realizzata all’età di circa dieci anni.

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In alto, a sinistra pianta della basilica: 1. protiro; 2. cortile; 3. pozzo; 4. cappella di S. Carlo Borromeo; 5. cappella Olgiati; 6. cappella di S. Giovanni Gualberto; 7. altare maggiore; 8. arco trionfale; 9. cappella del Crocifisso; 10. cappella del cardinale CoĂŤtivy; 11. cappella di S. Zenone; 12. Colonna della Flagellazione; 13. cappella Cesi. Qui sotto assonometria ricostruttiva della basilica.

A destra il disco di porfido al centro del pavimento della basilica che copre il pozzo nel quale Prassede avrebbe raccolto con una spugna il sangue dei martiri.

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saper vedere s. prassede usati per il culto degli abitanti, esistevano ben pochi santuari: c’era S. Giovanni in Laterano, all’epoca dedicata al Salvatore, che era la chiesa cattedrale della città, sede del vescovo, cioè del papa; e poi c’era il già ricordato santuario mariano di S. Maria Maggiore; e, infine, la chiesa in Hierusalem, poi nota come S. Croce in Gerusalemme, dove erano conservate le reliquie gerosolimitane che l’imperatrice Elena, madre di Costantino, avrebbe riportato dalla Terra Santa. Tali chiese, quindi, non erano, né potevano essere, «ad corpus».

La minaccia saracena

La situazione cambiò repentinamente verso la metà dell’VIII secolo. Da una parte il declino del potere bizantino in vaste regioni della Penisola, tra cui Roma, e dall’altro il conflitto sempre piú aperto tra Longobardi e Chiesa di Roma, schierata dalla parte dei Franchi, provocarono la fine della sicurezza della campagna romana. A ciò dette il colpo di grazia l’affacciarsi sul Tirreno, con insediamenti costieri tra Lazio e Campania, di attivi navigli saraceni, cioè italo-arabi. Bande di predoni e saccheggiatori apparivano di colpo fuori dalle

medioevo allo stato (quasi) puro 140 circa La giovane cristiana Prassede cura l’inumazione di venti martiri nella catacomba di Priscilla. 817 Papa Pasquale I edifica la nuova basilica a imitazione della chiesa di S. Pietro in Vaticano e la dedica a Prassede; vi trasferisce migliaia di ossa provenienti dalle catacombe romane e vi fa realizzare un’importante decorazione musiva. XIII secolo Viene aggiunto il campanile e si fanno interventi sui pilastri (prima metà) e su parte del transetto. XVI secolo Sotto Carlo Borromeo sono curati i rifacimenti della (seconda metà) scalinata d’accesso, del portale centrale e si realizza la copertura a volte nelle navate laterali. Sono decorate le pareti della navata centrale. 1730 Viene risistemata l’area del presbiterio e della cripta; si realizza l’attuale ciborio. 1918-1937 Vengono restaurati e in parte ripristinati gli elementi medievali della basilica originaria.

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In alto l’ingresso alla cappella di S. Zenone. La finestra soprastante il portale è incorniciata da medaglioni a mosaico con il busto del Cristo, degli apostoli e dei martiri. A destra il mosaico della Madonna con Bambino nell’abside sopra l’altare della cappella di S. Zenone. XIII sec. dicembre

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mura della città; assalivano pellegrini, viandanti e – in taluni casi – gli stessi santuari. La situazione si fece sempre meno sostenibile, finché la Chiesa – ormai unico potere costituito nella città e nella regione laziale – decise di smobilitare la gran parte dei santuari extraurbani, e traslare le spoglie dei martiri all’interno delle mura. È un fenomeno di portata enorme, noto come «traslazione delle reliquie». Dalle catacombe s’iniziò a portar via, con i carri, le spoglie dei martiri, che si cercò di rintracciare e catalogare con minuzia, affidandosi agli elenchi ecclesiastici, agli atti delle passioni e alla tradizione devozionale. In molti casi si procedette con ordine, in altri – insieme a quelle dei santi – dalle catacombe furono portate via decine e forse centinaia di ossa di defunti che avevano semplicemente cercato di farsi seppellire il piú possibile vicino alle tombe piú venerate. In tal modo, il numero di reliquie e «corpi santi» si moltiplicò in maniera geometrica.

Per le ossa di san Paolo

Il processo di traslazione durò diverse decine di anni, e occupò numerosi pontefici tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo. Rallentava o s’intensificava a seconda dell’intensità della minaccia longobarda, delle voci sui saccheggi saraceni, sull’endemica pericolosità della zona. Alcuni santuari vennero fortificati e mantenuti cosí com’erano; nessuno ebbe il coraggio di spostare le ossa di Paolo, per esempio, e intorno alla sua chiesa sorse la Giovannipoli, in onore di Giovanni VIII, il pontefice che la tramutò in un vero e proprio castello inespugnabile. Altrettanto accadde alla tomba di Lorenzo, lungo la via Tiburtina, che divenne la Laurenziopoli, cinta da mura e torri merlate. Diverso fu il caso della tomba forse piú famosa: quella di san Pietro in Vaticano. I Romani dovettero assistere con orrore al saccheggio – da parte di pirati saraceni – del santuario, posto anch’esso fuori dalle mura, sebbene a poca distan-

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Raccolse il corpo della santa dalla catacomba di Priscilla e fece altrettanto con quello dei suoi familiari. Il corpo di Pudenziana, sorella di Prassede, venne portato nella chiesa esquilina eretta, secoli prima, nella casa del padre Pudente e, da quel momento, l’edificio fu noto come S. Pudenziana. Per l’altra sorella, Prassede, Pasquale decise invece di realizzare un nuovo edificio. Il progetto architettonico della basilica fu certamente seguito e curato in modo personale dal nuovo pontefice, e rispondeva a un interesse preciso, che abbracciava diversi aspetti di natura religiosa, politica e culturale. Va anche accennato il fatto che forse, a poca distanza dal sito scelto per l’erezione della nuova chiesa, ne esisteva una piú piccola e vetusta, dedicata alla santa, presso la quale sembra che lo stesso Pasquale avesse officiato come prete in giovane età.

2300 corpi

In alto uno scorcio dell’interno della cappella di S. Zenone, decorato con mosaici che rappresentano varie figure tra cui santa Agnese, santa Pudenziana e santa Prassede (nella pagina accanto il particolare di due sante).

za da esse. Sconfitti gli Arabi grazie a una temporanea alleanza navale con Napoli e Gaeta, i prigionieri furono poi costretti – da papa Leone IV – a realizzare una cinta muraria che correva intorno alla basilica e la collegava, passando per la fortificazione del mausoleo di Adriano (l’odierno Castel Sant’Angelo), alle mura urbane, poste al di là del Tevere. Cosí, alla metà del IX secolo, la basilica vaticana divenne un santuario cittadino. Salvo tali casi – ai quali si può aggiungere S. Sebastiano lungo la via Appia – il resto delle memorie

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cristiane nella campagna romana fu del tutto abbandonato; le entrate delle catacombe finirono presto occultate dai rovi e le chiese martiriali – perfino quelle piú maestose – furono lasciate crollare. All’interno della città, affluirono invece centinaia, anzi migliaia di corpi di martiri, che furono distribuiti in un gran numero di chiese urbane. Ma per la gran parte di queste reliquie, papa Pasquale I, il pontefice che portò a termine l’ultima fase della traslazione, pensò a un deposito unico, costruito appositamente. Pasquale, che era dotato di grande passione antiquaria e spiccato interesse per la committenza artistica e architettonica, decise di rievocare la figura della giovane ragazza che aveva dedicato la propria vita alla cura delle sepolture dei martiri, fino a lasciarsene sfinire: Prassede.

Il pontefice decise che la nuova basilica doveva riprodurre, sia pure in scala ridotta, quella di S. Pietro in Vaticano, sia come richiamo al mondo del primo cristianesimo, sia come segnale del pieno compimento dell’immensa operazione di traslazione delle reliquie e dell’entrata in Urbe dei corpi santi. La tradizione riporta che nei vasti sotterranei della chiesa Pasquale fece sistemare qualcosa come 2300 corpi, traslati dalle catacombe. Il nuovo tempio fu ornato da mosaici di suggestiva bellezza, giunti a noi integri; ma occorre dire che il fatto che la basilica si presenti come imitazione di quella vaticana del tempo di Carlo Magno aggiunge di per sé valore e fascino all’edificio, visto che, anche nell’aspetto architettonico, salvo alcuni piccoli interventi successivi, esso si è conservato in modo eccezionale. S. Prassede, infatti, presenta l’accesso originario, preceduto da una breve gradinata, che introduce in un atrio organizzato come un vasto ambiente quadrilatero, all’e-

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saper vedere s. prassede Le reliquie

La Colonna, il letto e il pozzo Nella basilica di S. Prassede si conserva una preziosa reliquia proveniente dalla Terra Santa: la Colonna della Flagellazione. Con l’avvio delle crociate, in Occidente affluí un grande numero di reliquie gerosolimitane. Proprio a seguito delle guerre sante giunse a Roma, nel 1223, sotto il pontificato di Onorio III, la terza parte della Colonna della Flagellazione, in diaspro sanguigno, alla quale sarebbe stato appunto legato Cristo. Il monolite è oggi venerato in un vano che si apre a destra dell’ingresso della cappella di S. Zenone. Tuttavia, le prime attestazioni della presenza di tale reliquia nella chiesa risalgono solo alla metà del Quattrocento. Il suo arrivo in città è attribuito al cardinale Giovanni Colonna, che fu cardinale titolare della basilica. La tradizione sostiene che il cardinale, all’epoca legato apostolico e condottiero dell’esercito crociato, sarebbe caduto prigioniero dei Saraceni intenzionati a segarlo vivo. Il volto del cardinale sarebbe però improvvisamente divenuto luminoso ed essi, atterriti, l’avrebbero liberato regalandogli, in luogo di martirizzarlo, la colonna. Oltre alla Colonna, nella basilica sono custodite reliquie legate alla memoria di Prassede: in fondo alla navata sinistra si conserva il letto in cui la giovane avrebbe dormito: una tavola marmorea. Al centro della chiesa, invece, vi è un grande disco di porfido, che si tramanda fosse destinato a coprire il pozzo usato da Prassede per raccogliere – con una spugna – il sangue dei martiri. Infine, sotto l’altare si conservano – in sarcofagi di riutilizzo – le spoglie di Prassede e di molti altri santi. poca sistemato a quadriportico. La facciata è disadorna, semplice, con la porta sormontata da finestre regolari come quelle di una qualsiasi antica aula romana. L’interno si articola in tre navate su colonne, parzialmente diaframmate da pilastri e setti murari in età bassomedievale. La navata centrale era da principio illuminata da dieci finestrelle, che nel Cinquecento furono chiuse e ridotte a quattro, ma rese piú grandi. Le navate laterali, invece di essere quattro come nell’originaria basilica vaticana, sono due,

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ma ben poco rimaneggiate rispetto al progetto di Pasquale. L’arco trionfale, che conclude la navata centrale, accompagna l’accesso a un transetto poco profondo, sormontato da un’abside unica, al di sotto della quale si stende la cripta sotterranea, dove Pasquale aveva fatto stipare ìi corpi di martiri. La cripta ha forma semianulare, proprio come quella realizzata da Gregorio Magno a S. Pietro in Vaticano, e serviva a permettere ai pellegrini di accostarsi ai corpi santi, passando nel corri-

doio sotterraneo, senza interrompere il servizio religioso che si svolgeva sopra di esso.

Splendori carolingi

Arco trionfale, abside e una cappella (che si apre nella navata destra) furono rivestiti da magnifici mosaici. Il risultato è un vero e proprio gioiello architettonico, in grado di riportarci alla Roma carolingia, anche per la scelta di una decorazione volutamente semplice e spoglia, costituita da colonne e mattoni, su cui gli interventi successivi sono risuldicembre

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A sinistra un’altra immagine dell’interno della cappella di S. Zenone. Nella pagina accanto la Colonna della Flagellazione, custodita in un reliquiario di bronzo dorato eseguito nel 1898 su disegno di Duilio Cambellotti.

complesso significato simbolico e allegorico, oltre a una valenza artistica e politica. Il mosaico rappresenta il Cristo dell’«Ultimo Avvento», che si libra in un cielo azzurro cupo, ravvivato da nuvole rosse, rosa, bianche e grigio-azzurre. Su un prato verde, Pietro e Paolo gli presentano Prassede, Pudenziana, un giovane uomo (forse il fratello Novato), e Pasquale recante un modello della basilica e contraddistinto dall’aureola quadrata che segnala che esso è ancora vivente.

Sotto il segno della fenice

tati di scarsissimo impatto; non tali, però, da soffocare la suggestione paleocristiana, che era proprio ciò che Pasquale intendeva ricercare. In scala ridotta, dunque, l’attuale seminascosta S. Prassede è la S. Pietro che videro papa Leone e Gregorio Magno, e imperatori come Carlo e i suoi successori; l’edificio di cui vagheggiarono i pellegrini che per secoli si incamminarono alla volta di Roma da ogni angolo del continente. Un miraggio, piú che un edificio di culto. L’insieme di tali effetti, fu voluto e studiato da Pasquale, che

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intendeva davvero riprodurre l’immensa chiesa costantiniana dedicata a Pietro. L’obiettivo era appunto tramutare la basilica di Prassede in uno scrigno, un prototipo, una chiesa «ad corpus» – anzi «ad corpora» – destinata a conservare e tramandare il ricordo fisico e spirituale dei martiri traslati dalle catacombe. I mosaici realizzati da Pasquale sono presenti, come già accennato, nel catino absidale, nell’arco posto al di sopra di esso, nell’arco trionfale e infine in una cappella dedicata a Zenone. Hanno come si vedrà, un

Ai lati della composizione, sono rappresentate due palme, all’interno di una delle quali si annida una fenice. Il Cristo ha la mano destra alzata per mostrare i segni dei chiodi e la mano sinistra racchiusa attorno a un rotolo. Sopra il Cristo è la dextera dei, che, emergendo tra le nuvole, impone al figlio la corona della gloria. Le due palme richiamano il Paradiso: la fenice raffigurata nella palma sinistra è simbolo di morte e di rinascita. Al di sotto di questa parte culminante del mosaico absidale, ve n’è un’altra inferiore, anch’essa ricca di immagini e simboli, separata dalla rappresentazione stilizzata del fiume Giordano, come ricorda la scritta Iordanes. Vi sono rappresentati 13 agnelli, al centro dei quali è l’Agnus Dei, Cristo raffigurato come Agnello, posto su una piccola altura da cui sgorgano i quattro fiumi del Paradiso, che scorrono nella direzione dei quattro punti cardinali, che simbolicamente rappresentano anche i quattro evangelisti. I sei agnelli per lato, che guardano in direzione dell’Agnello-Cristo, raffigurano i dodici apostoli; ai lati dei due gruppi di apostoli vi sono le rappresentazioni delle città di

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saper vedere s. prassede

La cripta semianulare della basilica, con preziosi sarcofagi di recupero contenenti le spoglie di santa Prassede, parte di quelle di santa Pudenziana e di altri martiri. L’ambiente era stato costruito per ospitare i corpi, si dice, di ben 2300 martiri, traslati dalle catacombe.

Betlemme (a sinistra) e di Gerusalemme (a destra). Questa parte inferiore del catino absidale è chiusa dall’iscrizione fatta apporre da papa Pasquale I.

Echi dell’Apocalisse

L’arco absidale riprende temi e simboli dall’Apocalisse di Giovanni. All’interno di un medaglione blu vi è ancora la rappresentazione del Cristo come Agnus Dei: è seduto su un trono, ai cui lati ci sono i sette candelabri, che l’Apocalisse

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identifica con le chiese dell’Asia: Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea. Ai piedi del trono c’è un rotolo bianco, attraversato da sette segni neri: il rotolo dei sette sigilli, anch’esso citato nell’Apocalisse di Giovanni. Completano la rappresentazione quattro angeli, raffigurati in piedi, sopra delle piccole nubi. Vi sono poi i quattro evangelisti, ciascuno con in mano il proprio vangelo: a destra, l’aquila (Giovanni) e il toro (Luca); a sinistra, un uomo (Matteo) e il leone (Marco). Si apre infine la processione mistica dei ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse vestiti di bianco, che offrono a Cristo corone d’oro. L’arco trionfale – che segnala la conclusione della navata centrale e l’accesso al transetto – presenta,

all’interno di una cittadella stilizzata (la Gerusalemme celeste), 21 personaggi. Al centro vi è Cristo con una tunica rossa, affiancato da due angeli; al di sotto, a sinistra, le figure di Maria e Giovanni Battista, a destra, santa Prassede; seguono i dodici apostoli, sei per lato. All’estremità sinistra si trova Mosè che tiene in mano una tavola con la scritta Lege (legge), e a destra il profeta Elia che tende le braccia verso Cristo. A fianco a Elia, vi è la raffigurazione di un angelo, che reca un libro (simbolo dell’Antico Testamento), e una canna. All’esterno della cittadella, su due ordini, sono rappresentati gli eletti di cui parla l’Apocalisse. Quelli dell’ordine superiore sono suddivisi in due gruppi, a destra e a sinistra, entrambi guidati da un angelo dicembre

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che indica loro l’entrata della città: si possono riconoscere Pietro e Paolo (a destra), vescovi (con casula e pallio), martiri (con la corona), donne riccamente vestite, ufficiali (con la clamide). In particolare il corteo di sinistra è aperto dalle sante Pudenziana e Prassede, seguite da una figura vestita di verde – un alto dignitario – e da un’altra con il pallio, probabilmente un papa. Nell’ordine inferiore, sono raffigurati altri eletti, in modo indistinto, che agitano rami di palma. Secondo lo storico dell’arte Richard Krautheimer, l’eco di tipologie espressive paleocristiane è qui del tutto evidente sia nei motivi presenti nel catino, sia in quelli dell’arco absidale e dell’arco trionfale. La citazione del patrimonio figurativo del IV e V secolo rientra in un’operazione mirata di politica culturale: richiamare la tipologia espressiva paleocristiana, estromettendo i canoni bizantini che avevano caratterizzato l’arte romana nei secoli VII e VIII.

Una città indifesa

Del resto, sin dalla notte di Natale dell’anno 800, ovvero a partire dall’incoronazione di Carlo Magno (vedi «Medioevo» n. 5, maggio 2012; anche on line su medioevo. it), la sede pontificia si è legata, in modo ormai indissolubile, al mondo carolingio europeo, cui essa ha traslato l’eredità romana tramite l’ascesa del neo imperatore. Quando Pasquale sale sul trono di Pietro, nell’817, Roma è una città che non riesce a controllare neppure il proprio contado, e, come abbiamo visto, è stata costretta ad abbandonare i suoi stessi santuari posti fuori dalle porte della città. Una città, dunque, mal difesa e povera, che però rivendica il suo ruolo di depositaria di ciò che resta del prestigio e del fascino del potere imperiale romano. È lei, attraverso la consacrazione degli imperatori franchi, a imporsi come garante del carisma imperiale. Una dicotomia, quella tra papato e impero, che segnò per secoli la storia

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europea, tra vicendevole riconoscimento e lotta per l’egemonia. Cosí, il richiamo di Pasquale I alla Chiesa del tempo di Costantino, cioè delle origini, passa anche per la frattura artistica – dopo quella politica, avvenuta da tempo – con il mondo bizantino. Il patrimonio figurativo d’influsso bizantino rimase comunque vivissimo e segnò ancora per secoli il mondo italiano, almeno fino al primo dischiudersi dell’arte schiettamente italiana tra Due e Trecento.

La cappella di Zenone

Nella basilica di S. Prassede la commistione tra elementi paleocristiani – vissuti quasi come epopea nazionale – e l’influenza bizantina si riflette maggiormente in un piccolo monumento, perfettamente conservato: la cappella di S. Zenone. Voluta dallo stesso Pasquale in onore della madre Teodora, la cappella si apre nella sua navata destra e costituisce uno dei piú importanti capolavori dell’arte medievale presenti a Roma. Interamente rivestita di tessere musive, la cappella presenta uno dei piú antichi esempi esistenti di pavimento in opus sectile a marmi policromi. Di rilievo, per il richiamo ai mausolei tardo-imperiali, è la stessa pianta cruciforme con volta a crociera sorretta da colonne angolari. Il vero capolavoro è il mosaico della volta, che rappresenta il Cristo entro un medaglione sorretto da quattro angeli, secondo un prototipo ravennate. Sulla facciata esterna, la finestra soprastante il portale è incorniciata da un doppio giro di medaglioni con il busto del Cristo, degli apostoli e dei martiri. Sulla parete interna della stessa facciata, san Pietro e san Paolo indicano un trono adorno di gemme sul quale è insediata una croce: è l’etimasia, anch’essa già rappresentata a Roma nel V secolo. L’intradosso dell’arco sopra l’altare è decorato da volute classiche di acanto con uccelli e animali, riecheggianti anch’essi motivi ravennati.

Da leggere U Caterina Giovanna Coda,

Duemilatrecento corpi di martiri: la relazione di Benigno Aloisi (1729) e il ritrovamento delle reliquie nella Basilica di Santa Prassede in Roma, Edizioni della Biblioteca Vallicelliana, Roma 2004 U Richard Krautheimer, Roma. Profilo di una città, 312-1308, Edizioni dell’Elefante, Roma, 1981

L’interno – intradossi, nicchie, pareti – è decorato con altre figure (angeli, santi, martiri), ma in particolare da Teodora, definita «episcopa», in quando madre del vescovo di Roma. Essa vi è rappresentata con il nimbo quadrato, secondo una tipologia paleocristiana. La decorazione musiva ancora ricca di motivi e narrazioni, tra cui va segnalata una splendida Madonna col Bambino del XIII secolo, rappresentata nella piccola abside ricavata sopra l’altare. In ultima analisi, dunque, la basilica di S. Prassede è il frutto di una rilettura – «anche» bizantina – dell’arte paleocristiana, con un chiaro richiamo alle radici spirituali o, se vogliamo, ideologiche, del mondo romano imperiale. Una nuova Roma politica era rinata nell’anno 800 con la consacrazione di Carlo Magno da parte del pontefice: era il ritorno dell’impero a Roma tre secoli dopo la sua caduta. Insieme all’Urbe, risorse anche – dalle ceneri dell’antica città costantiniana, con le sue basiliche e le reliquie dei suoi martiri – una nuova estetica della città medievale; una città, ormai, dell’Europa carolingia, che però intendeva stagliarsi su quel nuovo scenario, carica del lustro e del prestigio, lasciatole in eredità dal proprio indimenticabile passato. F

Nel prossimo numero ● La rocca di Angera

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di Renata Salvarani

Mistero a

Betlemme

Non tutti sanno che la ricorrenza della nascita di Gesú non figurava affatto tra le celebrazioni dei primi cristiani. Ma come si spiega questo strano silenzio? Come mai l’esatta data dell’evento, su cui i padri della Chiesa ebbero a discutere a lungo, appare ancora oggi avvolta nel mistero? E perché questo straordinario episodio, cosí importante e centrale per la stessa consapevolezza identitaria dell’Occidente, assume la sua potente valenza celebrativa solo nel Basso Medioevo?

Natività di Gesú, affresco del Beato Angelico. 1438-1455. Firenze, Museo di San Marco.


Dossier

P P

erché la festa della Nascita di Gesú ha per il cristianesimo delle origini un’enfasi molto minore rispetto a quella della sua Resurrezione? Per quali ragioni sembra stentare a emergere nella sensibilità diffusa e non risulta ugualmente sentita in tutte le aree dell’ecumene? Quando e in quali forme si è cominciato a vivere la solennità liturgica dell’evento di Betlemme? La ricorrenza non figura nei primi elenchi delle festività cristiane e Origene (teologo vissuto tra la fine del II e la prima metà del III secolo, n.d.r.) ricorda che solo i peccatori festeggiavano la data del compleanno e, anche in seguito, essa faticava a essere celebrata con enfasi. Le motivazioni teologiche (prima fra tutte la superiore importanza della vittoria sulla morte rispetto al venire in questo mondo caduco) non bastano a spiegare il silenzio e le mezze luci che avvolgono la festa nei primi secoli. Un percorso complesso, intessuto di meditazioni, approfondimenti pastorali, slanci mistici, creatività celebrative ha portato a una percezione forte di quel momento della storia della Salvezza soltanto nel Basso Medioevo.

Una data oscillante

In una lunga prima fase è incerta anche la collocazione al 25 dicembre: la prima menzione della ricorrenza risale al 336 e si riscontra nel Chronographus, redatto nel 354 a Roma da Furio Dionisio Filocalo. Probabilmente, la fissazione nel calendario è frutto di piú elementi: forse influenze ebraiche e una certa sovrapposizione con il periodo della festa di Chanukkah (la «festa delle luci», che commemora la riconsacrazione del Tempio, n.d.r.), nonché motivazioni interne al cristianesimo. Su tutte, si impone la coincidenza pagana della festa del Natalis Solis Invicti (vedi box alle pp. 76-77) con la celebrazione della nascita di Cristo, Natività mistica (particolare), olio su tela di Sandro Botticelli. 1500. Londra, National Gallery.

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Dossier il sol invictus

Gesú nelle vesti del Sole Un giovane con il capo aureolato da cui si dipartono raggi luminosi, accanto a cavalli bianchi con elementi allusivi a un carro, è raffigurato su fondo dorato nella Necropoli vaticana, sulla volta del Mausoleo dei Giulii. Il mosaico (vedi foto alla pagina accanto) risale al 250 circa, è particolarmente raffinato e prosegue con foglie e tralci di vite. Proprio questi elementi lo collocano nel contesto dell’iconografia cristiana delle origini e confermano l’ipotesi che si tratti di una raffigurazione di Gesú risorto nelle vesti di Helios-Sol Invictus. Le prime comunità ricorrevano frequentemente a immagini pagane per veicolare i contenuti del Vangelo, ma in questo caso la sovrapposizione fra diverse dimensioni religiose è piú profonda. Il culto solare ha origini orientali: le celebrazioni del rito della nascita del Sole in Siria ed Egitto erano di grande solennità e prevedevano che i celebranti, ritiratisi in appositi santuari, ne uscissero a mezzanotte, annunciando che la Vergine aveva partorito il Sole, raffigurato come un infante. Il culto acquisí importanza a Roma per la prima volta con l’imperatore Eliogabalo (sebbene vi siano monete antecedenti del Sole, risalenti almeno all’epoca di Caracalla), che tentò prematuramente di imporre il culto di Elagabalus Sol Invictus, il Dio-Bolide solare della sua città natia, Emesa, in Siria. Fece costruire un tempio dedicato

alla nuova divinità sul Palatino. Nel 222, con la sua morte violenta questo culto cessò di essere praticato a Roma, anche se molti imperatori continuarono a essere ritratti sulle monete con l’iconografia della corona radiata solare per quasi un secolo. Il Sol Invictus, inoltre, compare come divinità associata al culto di Mitra. Nel 274, Aureliano trasferí a Roma i sacerdoti del Sol Invictus e ufficializzò il culto solare di Emesa, edificando un tempio sulle pendici del Quirinale e creando un nuovo corpo di sacerdoti (pontifices Solis Invicti), con l’obiettivo di evidenziare un forte elemento di coesione. In varie forme, il culto del Sole, infatti, era presente in tutte le regioni dell’impero. Anche molte divinità grecoromane, come Giove e Apollo, erano identificate con il sole. Nella loro difficoltà a cogliere la teologia cristiana, molti romani ritenevano che i cristiani fossero devoti al Sol Invictus. L’imperatore Adriano scriveva: «Gli adoratori di Serapide sono cristiani e quelli che sono devoti al dio Serapide chiamano se stessi Vicari di Cristo». Lo ammetteva anche Tertulliano: «Molti ritengono che il Dio cristiano sia il Sole perché è un fatto noto che noi preghiamo rivolti verso il Sole sorgente e che nel Giorno del Sole ci diamo alla gioia». Questa confusione era senz’altro favorita dal fatto che Gesú era risorto nel primo giorno della settimana, quello che i pagani dedicavano al sole, e perciò i cristiani avevano l’abitudine di festeggiare proprio in quel giorno.

Rilievo raffigurante il Sole, la Luna e Giove Dolicheno barbato, da Roma, via Tasso. Seconda metà del II-prima metà del III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano.

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Nella pagina accanto, in alto moneta di Costantino con, al rovescio, il Sol Invictus. Zecca di Londinium, 316-317 d.C.

Anche la decisione di celebrare la nascita di Cristo in coincidenza con il solstizio d’inverno ha dato origine a molte controversie. Da una parte, infatti, elementi comuni a piú culti potevano favorire la diffusione del cristianesimo, ma, dall’altra, si affermava sempre piú l’esigenza di definire le simbologie proprie del messianismo biblico e quelle riferite direttamente a Gesú Cristo (a partire dal simbolismo teologico della luce che caratterizza tutto il Vangelo di Giovanni e ricorre nelle Lettere di san Paolo). La confusione durò per alcuni secoli. Anche Costantino fece raffigurare il Sol Invictus sulla sua monetazione ufficiale, con l’iscrizione SOLI INVICTO COMITI. Nel 321 stabilí che il primo giorno della settimana (Dies Solis) doveva essere dedicato al riposo. Nel 330 ufficializzò la Natività di Gesú in coincidenza con la festività pagana della nascita di Sol Invictus. E Teodosio, con l’editto di Tessalonica primulgato nel 380, stabiliva che l’unica religione di Stato era il cristianesimo di Nicea, bandendo di fatto ogni altro culto, compreso quello per il Sole. Tuttavia ancora ottant’anni piú tardi, nel sermone pronunciato per il Natale del 460, papa Leone I scriveva: «È cosí tanto stimata questa religione del Sole che alcuni cristiani, prima di entrare nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto che viene ripetuto per mentalità pagana. I cristiani devono astenersi da ogni apparenza di ossequio a questo culto degli dèi». indicato nel Libro di Malachia come nuovo sole di giustizia. Proprio questa ricorrenza era riuscita, in età tardo-antica, a coniugare istanze di celebrazione imperiale con i culti orientali presenti a Roma. Vi si innestarono anche elementi della tradizione popolare e contadina: nello stesso periodo del solstizio d’inverno si celebravano riti legati al mondo rurale, tra cui i Saturnali in onore del dio dell’agricoltura, segnati da scambi di doni e sontuosi banchetti. L’identificazione fra Cristo e il Sole, infatti, è espressa nel cantico di Zaccaria, come riportato nel Vangelo di Luca. Nello stesso testo la missione del Battista prepara la venuta del Signore, descritto come «un sole che sorge dall’alto». Con un’eviden-

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Necropoli vaticana, Mausoleo dei Giulii. Particolare del mosaico raffigurante un giovane, verosimilmente identificabile con Gesú, risorto nelle vesti di Helios-Sol Invictus. 250 d.C.

te sovrapposizione della simbologia pagana sulla nascente iconografia cristiana, cosí è ritratto Gesú in un mausoleo della necropoli vaticana (vedi foto in questa pagina). Betlemme e Gerusalemme risentirono della diffusione di questi aspetti, ma proprio lí dove Dio si era manifestato e reso visibile si pose l’accento sulla straordinarietà della teofania, piú che su singoli eventi: tra Natività, Epifania e Battesimo di Gesú si creano slittamenti e diversificazioni negli usi delle sedi episcopali.

Una nobile pellegrina

Egeria (o Eteria, una pellegrina di alto lignaggio vissuta nel IV secolo, n.d.r.), nel suo Itinerarium, racconta

che, per fare memoria del Natale, il vescovo di Gerusalemme con il clero si recava in processione a Betlemme, dove tutti i riti si svolgevano durante la notte. La presentazione di Gesú al Tempio era celebrata 14 giorni dopo, ma il calcolo inizia dal 6 gennaio. Si presume, quindi, che questa fosse la data del Natale negli anni Ottanta del IV secolo in quell’area. Contestualmente, dal racconto della pellegrina emerge l’importanza attribuita alle ricorrenze legate alla Theotokos (letteralmente «Colei che genera Dio», uno degli attributi della Vergine, n.d.r.), intorno alla quale si polarizzavano le tensioni dogmatiche del dibattito cristologico, la contrapposizione fra eresie e ortodossia sulle due nature, umana e divina di

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Dossier La porta di S. Sabina

Quei racconti scritti nel legno Le formelle della porta in legno di cipresso della basilica di S. Sabina, a Roma, fissano l’iconografia cristiana dei primi secoli, ponendosi come esito di un’elaborazione che, nella città dei papi, unisce schemi orientali, greci, ebraici e altri propriamente locali, classici e imperiali. Realizzate alla metà del V secolo, le scene dell’Antico e del Nuovo Testamento si fanno narrazione e descrizione di eventi, spazi e ambienti, che si ricompongono in un ordine, non rigido né sequenziale, intorno alla dimensione della Salvezza e delle sue manifestazioni. La tavoletta con la Crocifissione, la piú antica che rappresenti realisticamente Gesú fra i due ladroni, dimostra quanto la riflessione teologica sulla natura umana di Cristo fosse ormai acquisita anche nella sensibilità dei fedeli, i quali dovevano aver superato il pudore del dolore che finora aveva impedito di guardare Dio nel momento piú basso dell’ignominia della morte e del sacrificio compiuto per riscattare la stirpe di Adamo. Tuttavia, per presentare l’Incarnazione, si sceglie ancora di

scolpire una teofania piuttosto che descrivere l’avvenimento della grotta di Betlemme, cosí come si legge nel Vangelo di Luca. La scena è collocata nella fascia piú alta, insieme con la Crocifissione, l’Angelo che annuncia alle donne la Resurrezione e la Rivelazione di Gesú ai discepoli a Emmaus. L’Epifania è evocata dalle tre figure dei Magi, poste in fila e di profilo da sinistra: indossano un berretto frigio e portano in mano doni rappresentati come dischi. La Vergine è sulla destra, seduta in alto su un trono di rocce, e tiene in braccio il Bambino, sollevandolo verso i tre sapienti. Non compaiono altri elementi: la composizione è cosí essenziale da suggerire che i personaggi fossero già ben identificabili in base a una caratterizzazione ormai acquisita. La porta è infatti l’elemento della basilica destinato a essere percepito sia dai fedeli, sia dai non cristiani, una sorta di diaframma fra il mondo esterno e i misteri che si celebrano all’interno. In basso l’Adorazione dei Magi scolpita in una delle formelle in legno di cipresso della basilica romana di S. Sabina. Metà del V sec.

In alto miniatura con l’Adorazione dei Magi, opera dello scriptorium dell’abbazia di Reichenau. X-XI sec. Brescia, Biblioteca Queriniana.

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Gesú Cristo che tanto spazio ebbero nei primi secoli e nei concili. Un’attestazione indiretta della fluidità delle ricorrenze è una corrispondenza attribuita a Cirillo di Gerusalemme e papa Giulio I. Il primo avrebbe dichiarato che il suo clero non poteva effettuare nello stesso giorno la processione a Betlemme e quella al Giordano per il battesimo

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di Cristo e avrebbe chiesto di stabilire la vera data della Natività in base ai documenti relativi al censimento. Giulio avrebbe stabilito il 25 dicembre. E anche ad Antiochia la festa venne accolta nel 386, grazie all’opera del padre della Chiesa Giovanni Crisostomo (344/354-407) proprio in relazione con il calendario in uso nella città di Pietro.

Ambivalenze si registrano anche nei testi liturgici gerosolimitani dei secoli successivi e nelle consuetudini delle Chiese vicinoorientali (fino a oggi), mentre a Roma il Natale fu riconosciuto precocemente fra le feste maggiori grazie alla solennità della celebrazione stazionale che si svolgeva in S. Maria Maggiore, con la presenza

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Dossier s. maria maggiore

La Natività di Arnolfo di Cambio L’esistenza di un «presepio» all’interno della basilica romana di S. Maria Maggiore, sull’Esquilino, risale al 432, quando papa Sisto III creò, nella primitiva costruzione paleocristiana, una «grotta della Natività» simile a quella di Betlemme. Fin da allora, tra i due luoghi si stabilí una trama di legami grazie ai pellegrini che attraversavano il Mediterraneo e facevano tappa alla Tomba di Pietro e nelle basiliche patriarcali. Alla figura di Elena, madre di Costantino, si fa risalire la presenza all’interno di preziosi frammenti del legno della Sacra Culla (cunabulum), oggi custoditi nella teca della Confessione. Si tratta di cinque assicelle di acero, conservate insieme con altre reliquie (tessuti e tituli) che un tempo, nel periodo natalizio, venivano collocate nel centro della navata principale, esposte alla venerazione dei fedeli. La grotta di Sisto III fu mantenuta nei secoli successivi, finché, nel 1288, papa Nicolò IV commissionò ad Arnolfo di Cambio una raffigurazione scultorea della Natività, forse la prima realizzata come gruppo di figure a tutto tondo. Molti furono i rifacimenti e i cambiamenti nella basilica: quando papa Sisto V volle eretta nella navata destra una grande cappella intitolata al Santissimo Sacramento, nel 1590, ordinò, all’architetto Domenico Fontana di trasferirvi senza demolirla, l’antica «grotta della Natività» con i superstiti elementi scultorei di Arnolfo di Cambio. Oggi l’insieme è conservato nel museo che valorizza i resti archeologici e le fasi costruttive del complesso.

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del papa e di tutti i monaci delle celle circostanti. La sua origine è legata alla basilica costruita sull’Esquilino da papa Liberio ed è attestata dai primi decenni del IV secolo grazie alla Depositio martyrum («25 decembris, VIII kal. Ian. Natus Christus in Betleem I»).

Tra incensi e canti

Si svolgeva durante la Vigilia e nella notte, fino al mattutino (nella liturgia romana, l’ufficio notturno e la prima delle ore canoniche, n.d.r.): la cattedra papale veniva collocata nel presbiterio, tutt’intorno si bruciavano incensi e si levavano canti, mentre le lectiones facevano memoria dell’evento di Betlemme, enfatizzando il ruolo di Maria. Con la festa della Madre di Dio si concludeva l’ottava di Natale, secondo una

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scansione temporale che univa (e unisce) i diversi aspetti del mistero dell’Incarnazione. L’introduzione di riti simili anche a Milano si fa risalire a sant’Ambrogio (333 o 340-397), nel contesto di una creativa circolarità liturgica che interessava tutte le Chiese nei territori dell’impero e faceva perno intorno a Roma. Questi sviluppi contribuirono a radicare nei fedeli il senso della solennità del Natale, celebrata nelle cattedrali, in piena notte, nel cuore dell’inverno. In parallelo, nel silenzio delle celle e dei chiostri andò sviluppandosi una teologia monastica incentrata sulla tenerezza e su un’intima vicinanza alle profondità dei misteri della Salvezza. Ne faceva parte anche la corporeità fragile di quel Dio Bambino, capace di parlare dal buio e dal freddo di una grotta soltanto

ai semplici, che si erano spogliati di tutto per poterlo sentire. È cosí che gli evangeliari miniati generati negli scriptoria di Reichenau, Montecassino e Fonte Avellana indulgono sui particolari della scena di Betlemme, colorandola di accenti che solo una sensibilità cosí viva poteva cogliere in profondità. I grandi corali moltiplicano gli inni di lode, a dare eco ai canti degli angeli scesi a interrompere la notte intirizzita e disperata dei pastori. Le meditazioni ripetute nei refettori e nei cori creano una polifonia di concetti teologici che risuona dalle Isole Britanniche, alla Scandinavia, alle foreste germaniche, alle nebbie della Pianura Padana, ai romitori fra le rocce sull’Appennino. Dovettero restare a lungo incomprensibili per i fedeli, e forse nemmeno presentabili nelle pre-

A Roma, la celebrazione piú solenne del Natale aveva luogo, alla presenza del papa, nella basilica di S. Maria Maggiore Roma, basilica di S. Maria Maggiore. Il gruppo della Natività realizzato da Arnolfo di Cambio su incarico di papa Niccolò IV. 1291.

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diche coram populo, l’eccezionalità dirompente dell’evento, tanto sconvolgente da non essere accettato dai piú; il parto verginale ed estatico di Maria; la presenza muta di Giuseppe, custode al servizio di un Bambino di cui non è padre (in tutto simile ai monaci che sono chiamati a generare solo spiritualmente); i sapienti inginocchiati davanti a un re che non ha alcuna sembianza di potere e sconvolge ogni logica umana. Eppure vi si meditò per secoli, esaminando e rielaborando le implicazioni, imitando nei gesti e negli atteggiamenti quegli esempi che, cosí, continuavano a farsi carne nelle grandi abbazie come nelle chiese piú sperdute, nella vita quotidiana dei religiosi. Beda il Venerabile (dottore della Chiesa e «padre» della storia inglese, 672-735, n.d.r.) ne trasse una sorta di sintesi, una semplificazione tanto scarna e lineare da non suscitare né dubbi, né scandalo e perciò utile come base per altre omelie, de-

stinate a essere riadattate di volta in volta, nel tentativo di spiegare tanta immensità nel crogiolo delle diverse barbarie dell’Europa altomedievale. Oltre quattro secoli piú tardi, san Bernardo di Chiaravalle (1090/91-1153) riannodò emblematicamente le fila di quelle riflessioni mistiche per riportarle su un piano teologico unificante. I quattro sermoni In Nativitate Domini riprendono tutti gli elementi piú teneramente umani del racconto evangelico (le fasce morbide in cui è avvolto il Neonato, le lacrime della Vergine, la stanchezza dei pastori, l’angoscia di Giuseppe), ma ogni aspetto è ricondotto all’economia generale della Salvezza e al legame inscindibile fra la Grotta, la Croce, il Sepolcro e l’Eucarestia. La figura di Maria si staglia come felix mulier, benedicta in mulieribus, il cui «sí» è la condizione stessa per il compimento della redenzione. È cosí che, anche sul piano liturgico, il Natale finí per apparire tanto importante quanto la Pasqua, della quale è premessa e anticipazione. La sua cifra, l’umiltà insita nell’Incarnazione, si fa cosí istanza esistenziale per tutti, motivo di cambiamento di vita: la meditazione apre la strada a una precisa teologia morale, non solo per i religiosi, ma soprattutto per i laici.

Un bimbo come gli altri

Che cosa era avvenuto dopo il Mille nella sensibilità dei piú? I pellegrinaggi, prassi sempre piú diffusa, contribuirono a far emergere il desiderio di vedere e toccare i Luoghi della Salvezza, a partire proprio dalla mangiatoia di Betlemme e dal campo in cui i pastori rimasero ad ascoltare l’annuncio degli angeli. Al contempo, moltiplicarono i racconti e le descrizioni di quel mondo, aggiungendo particolari vicini a chi ascoltava, prodigi, immagini di stelle, re devoti e conversioni miracolose. L’abitudine a vedere Gesú raffigurato in braccio a Maria, sulle pareti delle chiese, nei portali scolpiti, dentro le cripte e le cappelle, aiutò a pensarlo sempre piú come un bim-

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Dossier Giotto e il presepe di Greccio

Il miracolo «umanizzato» Giotto raffigura il presepe di Greccio nella Basilica Superiore di Assisi. Circa settant’anni dopo la realizzazione voluta da san Francesco, la scena è ambientata in una chiesa, con un’evidente clericalizzazione del «miracolo». È collocata nell’area del presbiterio riservata ai celebranti, descritta con

estremo realismo, a suggerire la sovrapposizione fra la Natività, la celebrazione dell’Eucarestia e la concretezza della vita popolare. Sono rappresentati con minuzia il ciborio, i frati che cantano nel coro, un pulpito visto dal lato dell’ingresso e una croce lignea obliqua, vista da dietro, che pende verso la navata.

Una folla di persone assiepate dietro l’iconostasi guarda Francesco, in ginocchio, che prende in mano il Bambino. L’atmosfera è quella dell’estasi, ma anche della curiosità e dell’incredulità, in un gioco di elementi che crea un capolavoro del tutto innovativo nella storia della pittura medievale. A sinistra Assisi, basilica papale di S. Francesco, Basilica Superiore. Il particolare del Bambino, sorretto dalle mani di san Francesco, nell’affresco di Giotto che rappresenta il presepe. 1297-1300. A destra la veduta d’insieme della scena.

bo in tutto simile agli altri, vicino e inerme, lí presente, da guardare e accarezzare per chiunque volesse avvicinarsi. L’accesso piú frequente alle letture e una predicazione piú legata alla semplicità del quotidiano fece-

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ro entrare la narrazione della Natività in una memoria condivisa, intessuta di emozioni e sentimenti, intrecciata con i ricordi e le esperienze personali. Il desiderio di una spiritualità piú intima e individualizzata, basata sulla imitatio Christi e

su un’immedesimazione profonda nei misteri della salvezza portò, soprattutto i laici, a enfatizzare il momento della Nascita di Gesú, vissuto come inizio della condivisione di tutte le difficoltà umane da parte di Dio fatto carne. dicembre

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Su questo sostrato si inserisce la svolta devozionale impressa da san Francesco e dai Francescani, destinata a creare una vera e propria tradizione, giunta fino a noi. È la Legenda maior (la biografia dell’Assisiate scritta da san Bonaventura,

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n.d.r.) a riportare come il santo, in memoria del Natale di Cristo «ordinò che si apprestasse il presepe, che si portasse il fieno, che si conducessero il bue e l’asino; e predicò sulla natività del Re povero; e, mentre il santo uomo teneva la sua orazione, un cavaliere scorse il vero

Gesú Bambino in luogo di quello che il santo aveva portato». La situazione del miracolo, quindi, è la predicazione: il fine è fare vivere ai presenti la profondità del mysterium Incarnationis, perché le loro esistenze mutino radical-

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Dossier parole per l’estasi

Da Ambrogio alla Legenda aurea Ad Ambrogio, arcivescovo di Milano, si deve un inno In Nativitate Domini, che è la sintesi teologica piú completa del superamento delle contraddizioni fra ortodossia ed eresie che hanno segnato i primi secoli del cristianesimo, intorno al dogma dell’Incarnazione. La prima parte ripropone il tema biblico del volto di Dio che si manifesta nella sua venuta. Segue l’affermazione della straordinarietà del concepimento virginale e del parto («Vieni, redentor delle genti, // mostra il parto della Vergine // e guardi con meraviglia tutto il mondo: // questo è un parto che si addice a Dio»). Vengono poi sottolineate l’uguaglianza di Gesú rispetto al Padre e il suo ingresso nell’umanità per riscattarla. L’ultima strofa è un’invocazione alla luce che, da quella notte a Betlemme, rischiara il destino del mondo: «Già risplende il tuo presepe; // e la notte irradia una nuova luce, // che nessuna tenebra oscuri, // ma risplenda di fede perenne». Il testo liturgico ebbe larga diffusione, contribuendo a sviluppare una sensibilità nei confronti della festa che, nell’ambito dei monasteri, seguí un proprio percorso teologico e devozionale. Uno dei cardini ne è la Homilia Natalicia. In Nativitate Domini di Beda, ripresa e copiata innumerevoli

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volte tra un’abbazia e l’altra. Commenta il racconto del Vangelo di Luca sviluppandone le implicazioni teologiche, ma evidenziando anche i sentimenti e le relazioni intime tra Maria e il Bambino. Tanto che, in epoca carolingia, si affermarono meditazioni propriamente mariane dell’evento, che insistono sulla centralità della Madonna nella storia della Salvezza. Bernone di Reichenau (teorico musicale benedettino, † 1408, n.d.r.), nel suo De Nativitate, tesse una lode mistica del suo essere donna e madre di tutta l’umanità redenta grazie al sacrificio di Gesú, iniziato nella grotta di Betlemme, consumato sulla croce del Golgota e reiterato nell’Eucarestia. Fuori dai chiostri i toni sono piú semplici, piú grezze le considerazioni, ma si assiste a un parallelo percorso di immedesimazione nel mistero della Nascita del Cristo, che, via via, comincia a essere vissuto come un momento di gioia, forse poco comprensibile ma tanto avvolgente e cosí intensa da cambiare mentalità, gesti e scelte. La Laude 64 del poeta francescano Iacopone da Todi († 1306) è un invito ripetuto, rivolto ai pastori e a ciascuno: «Venite a cantare!». Il «fantino» appoggiato nella mangiatoia sta lí, al centro

dell’esistenza di ogni uomo, a sconfiggere la guerra e le infermità, a premiare con la sua stessa fragile esistenza chi lo cerca e l’ha aspettato, chi ancora è nell’errore, chi è umiliato e stanco. Le sue poche parole in volgare altro non sono che un’eco fissata sulla pagina di canti e preghiere levati sempre piú spesso da laici toccati da devozioni che facevano loro sentire la vicinanza tutta umana di un Gesú che è venuto per loro, a condividerne le fragilità e le sofferenze. Quell’intima vicinanza ha dato origine a testi, credenze, rievocazioni, altre storie intrecciate con la storia.

Esito e compendio di questa genesi collettiva bassomedievale è la Legenda VI contenuta nella Legenda aurea di Jacopo di Varazze (1228/30-1290). Vi compaiono tutti gli elementi del racconto del Natale. La data è basata sulla cronologia fissata da Eusebio di Cesarea, la pax augustea è ritenuta la condizione per l’annuncio della Salvezza, le circostanze del censimento l’occasione provvidenziale per lo spostamento di Maria e Giuseppe a Betlemme. L’arrivo nel piccolo centro della Giudea è mutuato da tradizioni apocrife (Liber de infantia Salvatoris). dicembre

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A destra Roma, basilica di S. Maria in Trastevere. La Natività di Gesú, uno dei quadri delle Storie della Vergine, eseguite da Pietro Cavallini (1273-1308) negli ultimi decenni del XIII sec. Nella pagina accanto Roma, chiesa di S. Maria in Aracoeli. Affresco raffigurante una Madonna con Bambino detta «del Rifugio». Artista di scuola viterbese, XV sec.

Il bue e l’asino hanno un rilievo centrale («ideo praesepe ibi constructum erat»), al pari della leggenda secondo la quale sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, avrebbe portato a Roma i resti della culla improvvisata. Ampio spazio è dato al racconto che vuole che Augusto, su ispirazione di una sibilla, abbia visto la Vergine con Gesú in grembo in apparizione, sul Campidoglio, nel luogo che poi sarebbe diventato la chiesa di S. Maria in Aracoeli (la stessa narrazione è anche nei Mirabilia urbis Romae, inserita nelle tessiture di significati legate ai pellegrinaggi).

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mente. Siamo nel 1223 a Greccio, sulla strada che da Stroncone prosegue verso Rieti. Lí Francesco ha un amico aristocratico, Giovanni: è lui a preparare tutto l’allestimento, gli animali, la greppia, poche suppellettili. Per l’occasione sono stati fatti venire molti frati da fuori; uomini e donne arrivano festanti dai casolari, portando ceri e fiaccole per diradare l’oscurità e ricreando cosí, nel modo piú semplice, la luce della stella che si accese nel cielo per illuminare tutti i giorni e tutti i tempi.

L’estasi di Francesco

Quando arriva, il santo vede che tutto è predisposto secondo le sue direttive; manca solo il fieno, che viene aggiunto; poi sono fatti entrare nel locale il bue e l’asinello. Tutt’intorno risuonano le voci, i frati cantano lodi al Signore lungo la notte, i contadini restano lí intorno

con le loro torce. Francesco è estatico di fronte al presepio e quando, lí accanto, un sacerdote celebra solennemente la Messa, anche lui prova una pienezza che non aveva mai assaporato prima. La predica che seguí non dovette aggiungere grandi spiegazioni teologiche: tutto era già nell’essenzialità dei gesti e nella concretezza dell’umanità dei partecipanti, immedesimata in quella di Cristo nel fare memoria della Natività e riscattata dal sacramento dell’Eucarestia. Cinque anni dopo, in quel luogo, venne costruito un altare e fu innalzata una chiesa, dedicata a san Francesco. La rappresentazione del presepio e la sua riproduzione in miniatura, da allora, si sono moltiplicate innumerevoli volte in tutta la cristianità, a materializzare la vicinanza di un Dio che ha voluto condividere il destino dell’uomo. V

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Dossier

La basilica della natività

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an Girolamo (347 circa-419) attesta che i Romani avevano eretto sul Luogo dove Gesú era stato crocifisso e sepolto una statua di Afrodite e un grande tempio dedicato a Zeus, mentre là dove era venuto al mondo, si venerava Adone: «Betlemme, ora nostra, luogo eccelso in tutto il mondo del quale il salmista canta “la verità è sorta dalla terra”, era adombrata da un bosco sacro a Thamuz, cioè Adone, cosí nella grotta in cui un tempo Cristo neonato aveva emesso i suoi vagiti si preferiva piangere l’amantucolo di Venere». Dopo la rivolta di Bar Kokhba (scatenata, nel 131 d.C., dalla decisione di Adriano di far ricostruire Gerusalemme come città pagana, con un tempio dedicato a Giove Capitolino, n.d.r.) l’imperatore avviò una violenta e sistematica repressione degli Ebrei, accompagnata dalla diffusione dei culti pagani nella loro terra e dalla cancellazione dei loro luoghi di culto. A questi vennero assimilati anche gli spazi memoriali cristiani che, però, proprio in questo modo vennero obliterati e marcati cosí da essere nuo-

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vamente riconoscibili. È Eusebio di Cesarea, nella Vita di Costantino, a descrivere la demolizione delle costruzioni pagane e la riscoperta di quegli spazi, quando divennero liberamente oggetto di devozione da parte dei cristiani.

Un dedalo di grotte

A Betlemme la costruzione della basilica dovette iniziare intorno al 330, su iniziativa dell’imperatore Costantino e di sua madre Elena, in corrispondenza di un sistema di grotte e cavità che recano segni di piú antiche devozioni. Tutt’oggi si estendono sotto l’edificio principale e hanno assunto, nei secoli, significati e dedicazioni diversificati (vedi disegno a p. 93). L’ingresso della Grotta della Natività è posto lateralmente al punto in cui si venera la nascita di Gesú, ma si ipotizza che nel IV secolo fosse collocato davanti, nella zona presbiteriale. Il suo spazio è molto stretto e angusto: le mura, originariamente irregolari, formano un perimetro quasi rettangolare. Le pareti naturali furono abbellite già

in epoca costantiniana, poi ricoperte di marmo tre secoli dopo. Si iniziò a venerare l’altare della Natività solo quando, in età bizantina, fu creato questo spazio. Lí, a destra, sta il pozzo detto «dei Magi», ricordato piú volte nei resoconti di pellegrinaggio: nella cisterna si sarebbe riflessa la luce della stella che indicava dove fosse il Messia. Cosí scriveva Epifanio il Monaco nell’XI secolo: «E sul lato settentrionale della spelonca ci è un pozzo senza fondo, e nell’acqua del pozzo si vede la stella che fu compagna dei Magi». Nei pressi è la Grotta di San Giuseppe, oggi pesantemente rimodernata. Nell’antro si vedono le fondazioni di un muro costantiniano e un arco precostantiniano che attestano come, già nel I-II secolo, il luogo fosse usato come sepolcreto «ad sanctos», secondo una consuetudine diffusa nelle prime comunità cristiane: si riteneva che farsi collocare a contatto con i resti dei martiri o in un luogo memoriale avvicinasse alla Resurrezione. All’esterno, è possibile attraversare le mura di appoggio delle dicembre

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In questa pagina Betlemme, olio su tela di Ermanno Corrodi (1810-1892). Collezione privata. In basso, a destra, si riconosce la Grotta della NativitĂ . Nella pagina accanto Betlemme. La piazza antistante la chiesa della NativitĂ , in una foto dei primi del Novecento.

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Dossier stra da cui, sporgendosi, si vede un ampio foro circolare che, a sua volta, inquadra il sottostante luogo del presepe. L’altare cerimoniale era probabilmente situato a poca distanza dalla costruzione ottagonale, nella navata centrale, per legare, come in S. Pietro in Vaticano, il martyrium e la basilica. Il pavimento di quest’ultima era totalmente coperto da un tappeto musivo, rinvenuto tra il 1932 e il 1934 con il sostegno del governo inglese e visibile grazie a botole aperte sul piano di calpestio attuale. La superficie saliva in direzione della zona absidale, con un dislivello che variava tra i 75 e i 31 cm, ed era rivestita da riquadri musivi a motivi geometrici e vegetali, realizzati con una finezza che consentiva di esprimere una vasta gamma di sfumature: ogni 10 cmq sono state usate 200 tessere, mentre nei mosaici comuni della stessa area se ne utilizzava la metà o addirittura meno.

Simboli e acronimi

Betlemme. Un frate in preghiera davanti all’altare nella Grotta della Natività.

tre successive ricostruzioni dell’abside, una di epoca costantiniana e due diverse di età bizantina, una delle quali potrebbe essere un tentativo progettuale non realizzato. Nell’anfratto roccioso intitolato ai Santi Innocenti doveva trovarsi una fossa comune nella quale furono rinvenute molte ossa. Un’altra cavità è dedicata a san Girolamo, che spesso pregò in questi siti. In un muro sono collocati tre sepolcri, disposti come era nello stile delle sepolture nelle campagne laziali, la cui presenza ha fatto ipotizzare che a Betlemme vi fossero fedeli delle comunità latine, che mantennero l’abitudine di seppellire come nell’uso romano delle catacombe. Non è un caso che qui, sulla

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base di una tradizione piú che millenaria, siano venerate le memorie di Paola e di sua figlia Eustochio, aristocratiche romane che scelsero di seguire Girolamo in Terra Santa e che, con ogni probabilità, appartenevano al gruppo che collaborò alla traduzione della Bibbia e dei Vangeli, la straordinaria operazione di mediazione culturale e linguistica che vide la luce proprio fra le rocce e i deserti della Giudea.

Il complesso costantiniano

L’edificio costantiniano prevedeva sopra la Grotta della Natività, nel lato orientale della basilica, una costruzione ottagonale rialzata di tre gradini, il martyrium. Al centro dell’ottagono è situata una balau-

Eccezionale è la rappresentazione di un gallo, nel transetto nord, con riferimento evidente alla Resurrezione. Nell’angolo sinistro della navata centrale, aprendo la botola di legno, si può vedere un monogramma con le lettere ΙΧΘΥΣ («pesce», in greco antico) il segno usato nell’antichità per indicare il nome di Cristo (acronimo delle parole: Iesous Christos Theou Yios Soter, «Gesú Cristo Figlio di Dio Salvatore»). Un uso simile dell’acronimo veniva fatto in epoca classica all’ingresso delle case patrizie romane, assieme alla rappresentazione dei busti dei proprietari. Per questo è stato ipotizzato che il simbolo segnasse il punto dell’antico ingresso alla zona sacra e alla «casa di Gesú»: forse qui era aperto l’accesso alla grotta sottostante. Originariamente, all’esterno della struttura costantiniana era un cortile che permetteva l’accesso all’atrio, costituito da colonne e da navate grandi un quarto rispetto a quelle della basilica. Il cortile, molto ampio, serviva da luogo di sosta per i pellegrini. dicembre

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A destra Madaba (Giordania), chiesa di S. Giorgio. La città di Betlemme nel mosaico noto come «carta di Madaba», la piú antica rappresentazione cartografica della Terra Santa cristiana. Metà del VI sec. In basso veduta di Betlemme, in una foto dei primi del Novecento. Al centro, la basilica della Natività.

Questi spazi furono considerati sufficienti finché la comunità locale rimase poco numerosa e i flussi dei viaggi di fede non raggiunsero dimensioni rilevanti. Nel VI secolo l’imperatore Giustiniano commissionò nuovi lavori, che furono realizzati contemporaneamente al cantiere della basilica Nea, dedicata alla Madre di Dio a Gerusalemme. La basilica di Betlemme, riedificata dopo le distruzioni causate

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dalla rivolta dei Samaritani contro Roma (484 d.C.), era imponente: misurava 53,90 m di lunghezza per 26,20 di larghezza nelle cinque navate (35,82 m nel transetto). Il pavimento dell’atrio fu rialzato di circa 1 m e venne aggiunto un nartece.

Un fulcro ideale

La creazione di un complesso cosí articolato, che manteneva gli edifici in elevato in contatto diretto con

le cavità ipogee, è il risultato di una serie di fasi, sviluppate di pari passo con l’incremento di importanza della festa della Natività e in relazione con i monasteri dei deserti circostanti, per i quali Betlemme rimase un fulcro ideale, verso cui confluire per le liturgie delle ricorrenze maggiori. Viandanti ed eremiti provenienti dall’intera ecumene mantennero la basilica in contatto con tutte le Chie-

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Dossier nel cuore della basilica A sinistra la stella che segna il luogo in cui, secondo la tradizione, Gesú sarebbe venuto alla luce. In basso assonometria della basilica della Natività di Betlemme: 1. piazza della Natività; 2. porta dell’Umiltà; 3. navata principale; 4. Grotta della Natività; 5. scala che porta alla Grotta; 6. basilica greco-ortodossa; 7. convento francescano; 8. Grotta di S. Girolamo; 9. chiesa di S. Caterina; 10. convento greco-ortodosso; 11. cortile dei Greci ortodossi; 12. cortile degli Armeni; 13. convento armeno.

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A sinistra la scala e la porta che danno accesso alla Grotta della Natività.

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A destra il piazzale antistante la basilica della Natività in una foto dei primi del Novecento. Qui sotto assonometria ricostruttiva del complesso della Natività e del piazzale antistante, che coincide con l’atrio della basilica costantiniana.

In basso la porta d’accesso alla basilica della Natività, alta appena 1,20 m, in una foto dei primi del Novecento. È detta «dell’Umiltà», perché le sue dimensioni obbligano a piegarsi per poterla varcare.

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se, facendone un polo devozionale aperto alle diverse elaborazioni teologiche e agli sviluppi delle liturgie. Nel 614 la chiesa riuscí a salvarsi dalla distruzione dei Persiani, forse grazie alla presenza di una raffigurazione dei Magi nel costume nazionale persiano. Fu risparmiata anche dall’invasione araba e, nei secoli successivi, è stata ulteriormente estesa, con la costruzione di nuove cappelle e celle monastiche.

I mosaici di età crociata

Nel XII secolo Betlemme era tappa di fede primaria, luogo di incontri fra notabili di tutto il mondo, sede episcopale. I crociati non modificarono il grande edificio giustinianeo, né il sistema delle cavità ipogee, ma rivestirono completamente la basilica di mosaici, creando un capolavoro unico, compendio dell’arte figurativa dei regni cristiani d’Oriente, fusione fra gli stili del mondo bizantino, le iconografie latine e germaniche, ed elementi locali. Queste composizioni musive sono state realizzate con una tecnica raffinata, sperimentata a Costantinopoli e nella Sicilia normanna: scene e figure si stagliano su fondi dorati e sono enfatizzate da superfici rilucenti date da piccoli riquadri di madreperla. Le tessere sono state posate inclinate verso il basso, per far risaltare i colori all’occhio di chi osservava dal basso, a diversi metri di distanza: entrando, i fedeli dovevano essere vivacemente colpiti e avvolti dall’insieme. Purtroppo oggi questo non avviene: solo una piccola parte dei mosaici, lungo la navata centrale, è

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Dossier attualmente visibile; altri sono ancora sotto le intonacature dei secoli successivi o sono andati perduti. La dettagliatissima descrizione di padre Francesco Quaresmi nelle Elucidatio Terrae Sanctae (1626) ci fa rimpiangere la bellezza e la compiutezza semantica e teologica del ciclo, uno dei piú elaborati di tutto il Medioevo, frutto di una precisa visione ecclesiologica in cui la Chiesa di Roma si rapportava con tutte le componenti dell’ecumene cristiana proprio a partire dai Luoghi Santi.

I sette concili

Al primo livello, sul lato destro, sono rappresentati san Giuseppe e gli antenati di Cristo, secondo il Vangelo di Matteo, le cui iscrizioni sono in latino. Simmetricamente, nel lato sinistro doveva essere rappresentata la genealogia secondo il Vangelo di Luca. Nella seconda teoria, intervallati da fasci di foglie d’acanto, sono rappresentati i sette concili ecumenici (Nicea, 325; Costantinopoli, 381; Efeso, 431; Calcedonia, 451; Costantinopoli II, 553; Costantinopoli IIII, 680; Nicea II, 787), i quattro concili provinciali (Ancira, 314; Antiochia, 272; Sardica 347; Gargres, IV secolo) e i due sinodi locali (Laodicea, IV secolo; Cartagine, 254). Ogni concilio è evocato da un edificio sacro e spiegato con l’aiuto di un cartiglio in cui si esplicita la decisione presa in quella occasione. Nel livello piú alto delle teorie era visibile la raffigurazione di angeli in processione, diretti verso la Grotta della Natività, vestiti di tuniche bianche. Nel catino dell’abside centrale era rappresentata la figura della Vergine con il Bambino e, nell’arco absidale, l’Annunciazione di Maria, tra i profeti Abramo e Davide. Sulle mura sottostanti si succedevano scene della vita della Madonna, tratte anche dagli scritti apocrifi. Sulla controfacciata, sopra il portale d’ingresso, compare l’Albero di Iesse, con Gesú e i profeti. L’insieme è una testimonianza storica diretta dell’eccezionalità dell’esperimento culturale ed ec-

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le grotte sotto la basilica

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Planimetria delle grotte: 1. scale d’accesso alla Grotta della Natività; 2. Grotta della Natività; 3. Altare della Natività; 4. Grotta della Mangiatoia; 5. corridoio di collegamento; 6. Altare di S. Giuseppe; 7. Grotta grande; 8. Grotta degli Innocenti; 9. Altare della Vergine; 10. Grotta di Eusebio di Cremona e delle SS. Paola ed Eustochio; 11. Grotta di S. Girolamo e cenotafio; 12. arco a volta precostantiniano e fondamenta costantiniane; 13. grotte con tombe ad arcosolio e altare degli Innocenti; 14. uscita verso la chiesa di S. Caterina; 15. abside orientale della basilica.

la decorazione a mosaico In alto una veduta della navata centrale della chiesa della Natività. Le botole che si vedono nel pavimento sono state aperte per consentire la visione dei sottostanti mosaici riferibili alla fase costantiniana del monumento, uno dei quali è illustrato nella foto a sinistra. A destra mosaico parietale della navata centrale raffigurante Gesú che entra a Gerusalemme nella Domenica delle Palme.

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Dossier La basilica della Natività nell’opera di Bernardino Amico

Betlemme disegnata

Dopo la fine dei regni crociati, il complesso di Betlemme fu trasformato in una sorta di cittadella-fortezza, dotata di pozzi e forni, del tutto autosufficiente, in grado di resistere – sotto il dominio dei Mamelucchi e poi degli Ottomani – ai periodi di maggiore ostilità anticristiana. La sua struttura e le sovrapposizioni di cui è frutto sono descritte con minuzia e precisione («secondo le regole della prospettiva A sinistra particolare della riproduzione di un’immagine di san Girolamo, disegnata e descritta da Bernardino Amico nel Trattato delle piante e immagini degli edifizi di Terra Santa, opera stampata per la prima volta nel 1619.

e dalla loro vera grandezza») topografica da Bernardino Amico nel suo Trattato delle piante e immagini degli edifizi di Terra Santa, stampato a Firenze nel 1619 (e poi l’anno successivo). L’opera è il frutto di sopralluoghi e misurazioni, realizzati a piú riprese dall’architetto francescano di origine salentina che, nel 1596, fu a Gerusalemme come Guardiano del Santo Sepolcro, poi a Betlemme, dove abitò nella cella che era stata di Girolamo e, nel 1597, fu eletto prefetto dell’Ordine al Cairo. Il Trattato è dedicato al granduca di Toscana Cosimo, con l’esplicita richiesta a intraprendere e guidare una spedizione armata per il recupero dei Luoghi Santi alla cristianità. Insieme con la Elucidatio Terrae In basso la Grotta della Natività e la Tomba di Rachele nei disegni di Bernardino Amico. Nella pagina accanto il frontespizio del trattato scritto dall’architetto francescano, originario di Gallipoli.

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prima del 1169, nelle ultime decadi della presenza politica latina, che termina nel 1187), ma anche il fatto che i committenti sono sia il re crociato che l’imperatore bizantino, un esempio di collaborazione unico che esalta l’importanza rivestita a quel tempo dal santuario.

Maestri greci?

Sanctae di Francesco Quaresmi (1626), è considerata la base per gli studi successivi della scuola archeologica dei Francescani che, nell’ultimo secolo, ha avuto come capisaldi i padri Bellarmino Bagatti, Virgilio Corbo e Michele Piccirillo. I suoi punti di forza sono proprio la conoscenza dei luoghi affidati ai Francescani, la partecipazione agli scavi condotti durante rifacimenti e manutenzioni, la continuità della memoria storica e le straordinarie raccolte documentarie dello Studium Biblicum Franciscanum a Gerusalemme.

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clesiastico realizzato dai crociati. Focas, pellegrino nel 1168, riporta di avervi visto l’immagine del suo imperatore bizantino, Costantino Porfirogenito: si tratta di una chiara attestazione del fatto che, anche dopo lo scisma del 1154, esistevano strette relazioni tra le Chiese d’Oriente e Roma, cui anche i Latini d’Oltremare guardavano come autorità prima. Inoltre un’iscrizione, posta nell’abside principale, menziona insieme i nomi di Manuele Comneno e Amalrico I di Gerusalemme. Se ne ricava non solo la datazione dei mosaici (devono essere stati realizzati

Una comunanza ancora piú intensa, fatta di vita, di tecniche e di soluzioni da ricercare dovette caratterizzare i protagonisti del cantiere. È molto probabile che le maestranze fossero locali: le firme dei mosaicisti, Efram e Basil, nomi di origine siriana, sono un buon indicatore. Tuttavia è anche possibile ipotizzare che siano intervenuti maestri o progettisti greci, ma è altrettanto evidente che chi ha elaborato queste decorazioni conosceva bene i grandi monumenti della Terra Santa, realizzati da artisti provenienti da Occidente, oppure era egli stesso «europeo». È significativo che, nella fascia decorativa della navata che separa le raffigurazioni dei concili dalle grandi figure degli angeli in alto, sia posta una striscia decorativa in cui compare una maschera animale tipica dell’arte romanica. Il ciclo musivo, cosí come i codici miniati usciti dagli scriptoria di Gerusalemme e dei monasteri piú legati ai Latini, altro non doveva essere se non un compendio del crogiolo di immagini, sensibilità e relazioni che ha reso possibile la breve esperienza istituzionale dei Regni crociati. La loro caduta, a Betlemme, non ha interrotto quelle forme di convivenza, che hanno continuato a esprimersi anche nella celebrazione di riti diversi in lingue diverse, secondo una divisione degli spazi e dei tempi regolata su base consuetudianaria e, oggi, codificata nel cosiddetto status quo, che ripartisce l’uso della basilica e delle grotte fra Francescani, Greci e Armeni, secondo uno schema simile a quello del Santo Sepolcro e della chiesa della Tomba della Madonna. V

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macchine d’assedio tollenone

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Assalto C di Flavio Russo

a dondolo

A una delle piú semplici ma efficaci macchine d’assedio fu assegnato un nome quasi giocoso: tollenone, ricavato dalla somiglianza dell’ordigno con le altalene. Un dispositivo che, in chiave meno cruenta, ebbe largo impiego nell’approvvigionamento idrico e che, ancora oggi, vanta numerosi epigoni, per esempio nei giacimenti petroliferi...

ome abbiamo piú volte ricordato, l’esigenza di violare le mura assediate contemplava tre diverse modalità operative: al di sopra, per scavalcamento; attraverso, per sfondamento in breccia; al di sotto, per mina. In pratica, però, per millenni non si andò oltre la prima, avvalendosi della piú semplice e longeva «macchina» ossidionale: la scala. Nel tempo, l’umile attrezzo subí progressivi perfezionamenti, che ne incrementarono soprattutto la robustezza e la lunghezza, fermo restandone il criterio informatore. Non deve perciò sorprendere che Emmanuel Viollet-le Duc ne abbia descritto un tipo alquanto elaborato, da lui definito «scala a puntelli mobili» e che, piú propriamente, andrebbe etichettato «a sollevamento meccanico», illustrandolo con l’abituale nitidezza grafica.

La «piú ingegnosa» delle scale

Cosí la sua esposizione (vedi tavole a p. 98): «La scala dotata di puntelli mobili fra tutte quelle impiegate negli assedi sembra essere stata la piú ingegnosa. La figura 33 ne fornisce il prospetto nel disegno A. Il congegno nel suo insieme è poggiato su di un telaio a ruote, che si trasportava ai piedi delle mura da scalare, e si compone di una scala BC in due sezioni, munita di rotelle poste alla base B, unite tramite un asse chiuso da un paio di bulloni; queste rotelle, fatte a foggia di pulegge, come è indicato nel disegno del dettaglio O, s’impegnano sui longheroni DE del telaio; a due anelli di ferro, fissati all’estremità dei bulloni, stanno avvinte due corde che dopo essere passate in altrettante pulegge di rinvio F si avvolgono sui tamburi laterali

Illustrazione raffigurante il tollenone, macchina da guerra utilizzata per scavalcare le mura, secondo la descrizione contenuta nella Poliorcetica di Enea Tattico (355 a.C.).

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A sinistra un pozzo munito di shaduf, un semplice bilanciere utilizzato, utilizzato sin dall’antichità in Egitto e Mesopotamia, per attingere piú facilmente l’acqua, che funziona con un principio analogo a quello del tollenone.

Ricostruzione grafica del tollenone. Si notano le funi fissate al braccio piú corto della trave orizzontale asimmetrica che, tirate da una squadra di serventi, portavano all’abbassamento del braccio stesso e al conseguente innalzamento di quello piú lungo, con il cassone di legno in cui erano alloggiati vari uomini.

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macchine d’assedio tollenone

La tavola di Emmanuel Viollet-le-Duc in cui viene ricostruita graficamente la scala da assedio «a puntelli mobili» e illustrato il suo funzionamento.

dei verricello G. Ponendolo in rotazione per mezzo di due manovelle, si porta il piede della scala da B a B’. A quel punto, i puntelli HI a loro volta si portano ruotando in HI’, trasformando il triangolo BHI nel triangolo B’HI’, per cui, mentre la sua base si stringe, la sommità della scala C, che a riposo poggia sulla traversa K si innalza in C’. Tirando allora la fune L, si abbatte sui merli delle mura da scalare il doppio gancio di ferro, imperniato sulla sommità della scala, bloccandola (…) Questo tipo di scala era molto largo, affinché almeno tre uomini potessero salirvi durante l’assalto». La larghezza della scala non poteva eccedere quella ricordata dal trattatista per l’ascensione di tre assaltatori affiancati, una soluzione che, tuttavia, non ne riduceva affatto i gravissimi rischi: risultava infatti facile abbatterla lateralmente e altrettanto agevole sopprimerne gli attaccanti non appena giunti in sommità, affannati dalla salita e privi di adeguate armi lunghe.

Dall’acqua al petrolio

Sebbene Viollet-le-Duc vi accenni appena, ambedue le anzidette deficienze furono superate con l’avvento di una piú complessa macchina da scavalco, il tolleno o tollenone (oppure cicogna, secondo altre fonti, o anche, non di rado, persino altaleno), etimo da cui deriva per le evidenti somiglianze l’altalena. Somiglianze che si rintracciano, per concezione e logica d’impiego, anche nelle odierne piattaforme a sollevamento idraulico adibite alla manutenzione delle linee aeree elettriche e dei lampioni stradali, per la potatura degli alberi, per la rimozione di sporti pericolanti, ecc. Dal punto di vista storico, il tollenone può considerarsi, al pari del trabucco, una derivazione del bilanciere usato per prelevare in maniera meno faticosa l’acqua dai pozzi. Piú noto come shaduf, esso consentí, e ancora consente di poter

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adempiere a quel logorante lavoro, e, nella sua ultima veste, pompa il petrolio dai pozzi. Stando alle fonti, il tollenone è sicuramente attivo nel 355 a.C., menzionato nella Poliorcetica di Enea Tattico. Consisteva in una trave ruotante in un piano verticale a una cui estremità era appesa una sorta di cesta o, piú in generale, un cassone di legno capace di ospitare diversi uomini. La trave era imperniata asimmetricamente a una forcella tramite un fulcro orizzontale, e questa era a sua volta imperniata verticalmente tramite un altro fulcro, posto sulla sommità di un massiccio palo. Una squadra di serventi, tirando verso il basso con funi il braccio piú corto della trave, provocava l’innalzamento di quello piú lungo con il relativo cassone di legno. Raggiunta un’altezza superiore alle mura assediate, la trave veniva fatta ruotare orizzontalmente, portando il cassone sopra gli spalti e consentendo cosí agli assalitori di porvi piede senza alcuno sforzo. Durante la manovra, i dardi scagliati dal suo interno costringevano i difensori ad allontanarsi dal settore, facendovi insediare gli attaccanti; tale operazione presentava le maggiori potenzialità di riuscita nel crepuscolo dell’alba. L’ingegnere militare Pietro Sardi cosí descrisse tale macchina: «Il tollenone era un albero da Nave, piantato vicino alle muraglie à traverso del quale era accomodato un legno, come una Antenna, da un capo della quale era attaccata una catena, qual sostentava una cassa ferrata capace di otto o dieci uomini; dall’altra parte, erano adattate funi, con le quali per forza di molti soldati tiravano in alto (à guisa di Antenna) il legno trasversale, e stando i soldati securi dentro il cassone, bersagliavano il difensore, e lo levavano dalle diffese e finalmente calacto il cassone sopra le mura denudate di difensori s’impadronivano della Città» (dal Corno dogale della architettura militare, Venezia 1639). F dicembre

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medioevo nascosto san nazzaro sesia

A controllo del guado

di Chiara Parente

Sorta nei pressi del fiume Sesia, dal cui letto provengono i grandi ciottoli impiegati nella costruzione del campanile, l’abbazia intitolata ai santi Nazario e Celso è un complesso architettonico di estremo interesse, al quale, fin dalla fondazione, fu assegnato un importante ruolo strategico. E che, dopo i recenti restauri, può nuovamente sfoggiare le sue eleganti architetture e un prezioso ciclo affrescato

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l paese di San Nazzaro Sesia (in provincia di Novara, a 17 km da Vercelli), formato da un agglomerato di case rurali e da alcuni cascinali sparsi tra le risaie della Bassa novarese, è compreso nel Parco Naturale Lame del Sesia e dominato dall’imponente abbazia fortificata dei SS. Nazario e Celso, ritenuta una delle fondazioni monastiche piú antiche del Piemonte. L’erezione dell’abbazia risale agli anni 1039-1053 ed è attribuita a Riprando, vescovo di Novara e conte di Pombia. La sua costruzione, vicino a un preesistente castello, a cui era collegata una chiesa forse dedicata ai santi Nazario e Celso, rientrava nella volontà dell’illustre casato, che all’epoca non aveva vita facile. Uno degli obiettivi principali di Riprando, quindi, era quello di controllare parte dei beni e delle prerogative della famiglia proprio attraverso il nuovo ente monastico, affidato nel 1040 (circa) ai monaci benedettini. È suggestivo pensare che il colto vescovo novarese abbia ingaggiato maestranze edotte in manufatti aggiornati sui grandi cantieri subalpini dell’XI secolo. I resti dell’absidiola meridionale, dell’altare quadrangolare e di un

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breve tratto di muro perimetrale del millenario tempietto, si possono ancora osservare al di sotto della grata metallica dell’attuale sacrestia. Già nel Mille la chiesa e il campanile, posto a nord, si congiungevano direttamente. L’alta torre – eretta con grandi ciottoli ricavati dal greto del Sesia e dallo spietramento dei campi circostanti, uniti a elementi in pietra di età romana e conci rettangolari di candida quarzite – ha pianta quadrata e si eleva per otto piani.

Portici e portali

Un suggestivo nartece incornicia la facciata della chiesa. Due sono le ipotesi sulla datazione di quest’atrio: quella della contemporaneità alla fondazione di Riprando e quella di una cronologia risalente al secondo quarto del XII secolo. Attualmente, dell’originale quadriportico rettangolare, si conservano due maniche longitudinali, scandite in due piani. Al pianterreno l’atrio è dotato di due portali archivoltati: uno nell’ultima campata della manica nord e l’altro nella penultima campata della manica sud. Il primo comunica con lo spazio esterno di rispetto, il secondo con il chiostro.

San Nazzaro Sesia (Novara), abbazia dei SS. Nazario e Celso. Madonna in trono con Bambino tra angeli e, ai lati, san Sebastiano e sant’Agata martirizzata tramite il taglio dei seni, affresco sulla parete di fondo della navata laterale destra della chiesa. XV sec.

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medioevo nascosto san nazzaro sesia la ricostruzione

Nel segno delle «pietre cotte» sia Se

La ricostruzione della chiesa abbaziale, commissionata San Nazzaro Biella dall’abate e conte Antonio Barbavara, documenta cosa significhi Sesia costruire una chiesa in laterizio fra Piemonte e Lombardia nel Novara Milano Vercelli Quattrocento e, soprattutto, connotarla di peculiari apparati decorativi in cotto, Avigliana tanto da attribuirle un’inconfondibile matrice di scuola costruttiva. Torino Po Alessandria A San Nazzaro le partite di terrecotte stampate (o «pietre cotte») appaiono Tortona Asti Carmagnola distribuite principalmente sulla facciata della chiesa e nel chiostro e possono Monviso Bra essere anche di servizio, come negli archi intrecciati con trilobi di risulta, che Acqui Terme coronano la fronte e marcano le fasce perimetrali del luogo di culto. Cuneo La struttura della fabbrica, i portali ogivali entro cornice Mondoví MAR quadrangolare e i materiali impiegati, realizzati da artisti del LIGURE cotto di consumata esperienza, suggeriscono il confronto tra San Nazzaro, la chiesa di S. Lorenzo a Mortara (Pavia) e una densità di derivazioni In basso la di ambito lomellino-novarese. La pista tracciata rende cosí omaggio ai tanti maestri lombardi (o facciata a lombardo-piemontesi, poiché la diocesi lomellina di Vigevano è stata istituita solo nel 1530), che capanna della hanno esportato un modo di costruire e decorare in Piemonte, nella Roma sistina o nella Svizzera chiesa, costruita lemanica di cultura sabauda. A San Nazzaro, però, il modello mortariense si è evoluto. interamente in Il genere geometrico, modernizzatosi, viene reso piú frivolo da stampi piú mossi, cotto, chiusa dalle per esempio fioroni, putti vendemmiatori, tralci ondulati. Ma è l’esecuzione di due ali laterali mattoni formati, stampi plastici e stemmi dei Barbavara, dipinti sui capitelli ottagonali dell’atrio romanico in laterizio, a raccordare il complesso sannazzarese alla grande civiltà quattrocentesca della a due livelli. terracotta padana, equiparando il nostro abate ad altre figure di estimatori della terracotta in tutte le sue potenzialità, quali Giorgio di Challant, priore di Sant’Orso ad Aosta, e Giorgio Valperga, priore dei Giovanniti di Lombardia ad Asti.

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Questioni di stile

Le «stranezze» di un’abbazia In Italia settentrionale l’atrio su due livelli non si trova facilmente. A San Nazzaro, poi, di analogie architettoniche e stilistiche con il piú noto quadriportico della basilica di S. Ambrogio a Milano, splendido manufatto di maggior monumentalità, ma a un solo piano, c’è forse un’eco lontana. Non solo. L’abbazia di San Nazzaro non fu l’unica costruzione dei conti di Pombia e dei diretti discendenti a essere dotata di un nartece occidentale. Nelle loro fondazioni i conti incoraggiarono l’erezione di corpi occidentali di tipologia molto diversa, scegliendo per l’architettura di San Nazzaro un atrio imparentato con la galilea (portico e vestibolo situato davanti alla chiesa, n.d.r.) cluniacense, piuttosto che con le tipologie di corpo occidentale diffuse nel Nord Italia. San Nazzaro, però, non era un monastero cluniacense e, al di fuori di quest’Ordine, la galilea fu impiegata raramente. Allora a San Nazzaro, che cluniacense non era, è possibile cogliere rimandi all’architettura di quella matrice? Può darsi. Dopo che nel 1083 il conte Guido II, appartenente alla stessa famiglia dei Pombia, beneficiò Cluny con una cospicua donazione, i conti del Canavese, suoi discendenti, tennero sotto controllo il priorato cluniancese di San Pietro di Castelletto. Un influsso cluniacense su San Nazzaro potrebbe perciò risultare plausibile. Altrettanto dubbia è la specifica funzione del nartece. Nel Medioevo gli avancorpi si prestavano a molteplici scopi. Accanto a un uso liturgico, possedevano funzioni commerciali e/o assistenziali per poveri e malati, oppure erano sede di rogito per atti notarili. Anche per San Nazzaro, quindi, non è detto che lo spazio dei portici fosse esclusivamente destinato ai catecumeni, i quali, non essendo battezzati, non potevano partecipare ai riti religiosi.

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Affresco di Giovanni Antonio Merli raffigurante, da sinistra san Celso e una martire, san Nazzaro a cavallo, santa Caterina d’Alessandria e san Rocco. 1480.

Nel 1152, alla Dieta di Würzburg, Federico I confermò a Guido di Biandrate, discendente dei conti di Pombia, tutti i domini nel Novarese, compresa l’abbazia di San Nazzaro, che formò un’unica circoscrizione amministrativa con Biandrate di Mezzo, Vicolungo e Casalbeltrame. La zona limitrofa all’abbazia fu bonificata e le acque del Sesia, canalizzate, divennero via di comunicazione, protezione naturale e risorsa fondamentale per la resa economica del territorio. I monaci crearono anche un hospitalis per viandanti e pellegrini, con celle e priorati tutt’attorno.

Un confine instabile

Nel XIII secolo l’ente monastico, posto nei pressi del guado del Sesia, fu fortificato e divenne una «testa di ponte» per il controllo dell’area di cerniera, che situata oltre l’ampio letto del fiume, rappresentava un confine instabile tra le giurisdizioni comunali delle città rivali di Vercelli

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medioevo nascosto san nazzaro sesia le storie di benedetto

Sperimentazioni artistiche tra il Ticino e il Sesia Le Storie di san Benedetto, affrescate nel chiostro e restaurate dalla Soprintendenza del Piemonte (2003-2005), suggellano la prestigiosa stagione di rinnovamenti architettonici e decorativi, promossa da Antonio Barbavara nel lungo arco di tempo in cui ha retto il complesso monastico (1429-1466). In passato, l’intenso rapporto del ciclo con le fasi finali della pittura gotica in Lombardia e, nel contempo, con le prime aperture alla nuova civiltà figurativa rinascimentale, aveva suggerito l’intervento nel cantiere di due maestri, attivi attorno al 1460. Il primo, ancora legato alla tarda cultura di Michelino da Besozzo, diffusa dagli Zavattari e dai Bembo, l’altro piú aggiornato sulle prime sperimentazioni del Foppa. Recenti riletture propongono invece di attribuire le Storie a un’unica personalità e di datarle al 1465, alla conclusione quindi dei lavori commissionati e Novara. Il campanile assunse cosí anche il ruolo di bastione di difesa e avvistamento sulla piana circostante, attraversata da importanti direttrici stradali: la via Francigena, la via Regia – che, tracciata in epoca romana, congiungeva il Vercellese con la Lombardia –, la via Biandrina – sulla riva sinistra del Sesia –, la via della Calce – che portava alle cave di Sostegno, nel Biellese –, e la via della Lana, che collegava ai pascoli dell’Alto Biellese. La potenza dell’abbazia cominciò a diminuire nel Duecento, a causa delle pretese dei vescovi di Vercelli, che le imposero il versamento di ingenti tasse. Nel XV secolo il Sesia delimitava il confine tra il Ducato di Milano e i possedimenti sabaudi. Al di qua del fiume, confinanti con il paese di San Nazzaro, c’erano le località di Recetto e Cassinale, soggette alla famiglia Arboreo, fedele ai Savoia, mentre a sud le terre erano spartite tra Novara e Vercelli. Divenuta un cuneo milanese in terre sabaude, la badia riacquistò importanza strategica. I duchi di Milano cominciaro-

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dall’abate. Ciò permette di inserire l’opera del Maestro di San Nazzaro nelle dinamiche storico-artistiche, che segnano l’arte figurativa della corte lombarda di Galeazzo Maria Sforza, quando si assiste all’ultima rivitalizzazione dell’esperienza di Michelino da Besozzo e al consolidarsi di un linguaggio ispirato all’antico, promosso da Filarete e Foppa. Ma c’è dell’altro. A San Nazzaro si avverte come nel XV secolo il confine fra il ducato di Milano e quello di Savoia sia solo una ripartizione politica. Infatti le Storie di san Benedetto non solo documentano un capitolo importante della pittura quattrocentesca nell’Piemonte orientale, ma, inserite in un’ottica di divulgazione delle esperienze lombarde fra il Ticino e il Sesia, vanno lette come il necessario presupposto storico-artistico dei cantieri decorativi di S. Marco a Vercelli e del tramezzo (Storie di Cristo) di S. Nazzaro della Costa a Novara.

no a interessarsene e nominarono suo abate il conte Antonio Barbavara. Durante la reggenza Barbavara (1429-1466) si compirono parecchie opere, volte al miglioramento della realtà agricola. Furono introdotte nuove colture, bonificati i campi del circondario, ripristinati gli antichi diritti di acqua del Sesia e ripopolate le terre con altre piante.

L’oculatezza dell’abate

Proprio l’agricoltura rappresentò uno degli interessi a cui l’abate si dedicò con tenacia. Ottimo amministratore, gestí con avvedutezza queste terre – che producevano grano, uva, miglio, segale e fave – e adibí a magazzini i solai e i depositi dei fabbricati rurali annessi al complesso monastico. Inoltre potenziò il preesistente castello con torri e mura merlate, costruí per sé una dimora signorile, in cui ospitò il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza con la corte, e ristrutturò la chiesa, il chiostro e la sala capitolare. La chiesa abbaziale, consacrata nel 1450 e terminata nel 1461, per

la sapiente distribuzione dei volumi e il pregio delle decorazioni, è ora considerata «la miglior espressione dell’architettura lomellina del tempo». Le soluzioni adottate nella planimetria e nella distribuzione dei volumi della fabbrica non sono innovative. Anzi, l’architetto ripete soluzioni che spopolano da tempo nella zona. Difficilmente avrebbe potuto essere altrimenti, se si considera che a Milano le prime timide risposte alle novità cosiddette rinascimentali, importate dalla Toscana dal Filarete, si avvertono solo negli anni finali dell’abbaziato del Barbavara, mentre in area sabauda i cantieri, incoraggiati dalle committenze di rango piú alto, ripropongono il lessico caratteristico del gotico fino agli inizi del XVI secolo. L’edificio cultuale, a pianta rettangolare, è suddiviso in tre navate, separate da due file di pilastri compositi, coperte da un unico tetto e illuminate dal grande oculo della facciata, dalle monofore trilobate del blocco absidale e dalle tre grandi finestre quadrangolari di età moderna dicembre

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Uno scorcio del chiostro quattrocentesco, tra i cui archi si notano scene del ciclo delle Storie di San Benedetto, oggi attribuito a un unico artista, denominato Maestro di San Nazzaro. 1465 circa.

della parete meridionale. All’interno fu adottato un sistema uniforme: a ciascuna delle quattro campate quadrate della navata centrale, poco piú alta rispetto alle navi laterali, corrisponde una campata rettangolare nelle navatelle minori. La lieve differenza di quota tra le navate, realizzata tramite un sapiente artificio, crea un impianto definito «alzato a sala a gradoni (o gradinature)», che già in uso nei decenni centrali del XII e nei primi del XIII secolo, continua ad avere fortuna nel Quattrocento. I costruttori armonizzarono sapientemente la nuova costruzione con l’antistante quadriportico. L’ampiezza della ricca incorniciatura quadrangolare del portale maggiore coincide con quella della navata centrale dell’atrio, mentre il raccordo delle falde dei tetti è mediato da un bordo di mattoni sporgenti, doppio nel fianco sud e nell’abside. I portali sono due. Uno si trova in facciata e l’altro, dal quale oggi si accede all’interno, nel fianco meridionale, in corrispondenza della terza campata. Forniti

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di slanciate strombature di profilo ogivale, impreziosite da una ricca decorazione in cotto, terminano con archi a sesto ribassato.

Gli affreschi del chiostro

Il chiostro, quadrangolare, è annesso al fianco meridionale della chiesa. Scandito su due livelli è testimone di una cultura architettonica conservatrice, non ancora aperta ai fermenti di novità che in area lombarda iniziano a serpeggiare alla metà del Quattrocento. Nel pianterreno, affacciato sull’esterno tramite ampie arcate a sesto acuto, arricchite dalla lussureggiante decorazione in cotto delle ghiere, si snoda un notevole ciclo a fresco, dedicato alle Storie di san Benedetto (vedi box a p. 104). Le scene sono inserite in semplici riquadri sovrapposti, ciascuno illustrato da un titulo esplicativo in volgare. Alla morte del Barbavara, l’abbazia fu concessa dal papa in commenda a esponenti della curia romana. Fra costoro ci sono membri delle famiglie Arcimboldi, Fieschi,

Spinola, Sforza e Confalonieri. Raramente, però, gli abati commendatari dimorarono a San Nazzaro. Di conseguenza, nonostante le rendite ancora elevate dell’ente abbaziale, la mancanza di un controllo diretto, lo spadroneggiare dei fittavoli, le guerre, le epidemie e le minacce del Sesia, di cui era stata abbandonata la cura degli argini, provocarono la decadenza del complesso religioso con la fuga di buona parte degli abitanti e l’abbandono dei campi, che col tempo divennero sterili e incolti. Divenuto nel 1573 un vicariato perpetuo con cura d’anime, il monastero, all’inizio dell’Ottocento, fu acquistato per 277 415 lire dai due fratelli francesi Isnard e trasformato in cascina. I lavori di recupero, iniziati nel 1958 per volontà del parroco di San Nazzaro Sesia, hanno riportato il manufatto all’antico aspetto quattrocentesco. Info: Abbazia Benedettina dei SS. Nazario e Celso; tel. 0321 834073, e-mail: visiteinabbazia@ gmail.com L’abbazia offre anche ospitalità nella foresteria. F

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Quando Leonardo ricominciò da tre

libri • Il 16 marzo 1500 Ludovico il Moro viene

sconfitto da Luigi XII, re di Francia, che occupa Milano. Il maestro vinciano lascia la città e, nel contempo, comincia a lavorare per la corte del vincitore: nasce cosí un nuovo, enigmatico capolavoro...

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a ragione Carlo Pedretti nello scrivere che «Quello che qui si descrive è chiaramente un racconto incalzante col quale un regista del nostro tempo predisporrebbe una scena cinematografica». La ricostruzione della storia del dipinto leonardesco noto come Madonna dei fusi, al quale il volume è dedicato, si dipana infatti con un ritmo avvincente, che potrebbe costituire la materia di un soggetto a metà tra il biopic e il thriller. Al centro della vicenda c’è dunque un piccolo quadro, o, per essere piú esatti, la terza versione di un piccolo quadro che uno dei testimoni chiave, Fra Pietro da Novellara, cosí descrive in una lettera del 1501: «El quadretino che fa è una Madona che sede come se volesse inaspare fusi, el Bambino posto il piede nel canestrino dei fusi».

Il canestrino scomparso E già qui prende corpo uno dei molti enigmi che connotano l’opera, dal momento che il canestrino con gli utensili per la filatura citati dal Novellara, e dai quali il quadro ha preso il nome, in realtà non compaiono nella composizione, o, almeno, in quella che è oggi la sua versione definitiva. L’«inchiesta» di Pedretti e Margherita Melani offre dunque piú di un indizio su cui lavorare e i due studiosi la svolgono con maestria, proponendo un saggio che, senza mai scadere nell’aneddotica, riesce a sviluppare le considerazioni di carattere storico, artistico, iconologico e documentario in una forma godibile anche per i non addetti ai lavori. Di grande importanza è la definizione della genesi della Madonna, la cui prima versione prese forma su commissione di Florimond Robertet, segretario del re di Francia

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Luigi XII: si tratta, infatti, di una circostanza che si incrocia con un momento storicamente cruciale, che vede Leonardo costretto a lasciare Milano, in seguito alla sconfitta subita da Ludovico il Moro, appunto per mano delle truppe del sovrano transalpino nel marzo del 1500.

La versione di Isabella Ed è verosimilmente per effetto di un successivo soggiorno a Mantova che il maestro riceve l’incarico di eseguire una replica di quel quadretino da parte di Isabella d’Este, riconosciuta come la destinataria della versione analizzata nel volume. Supposizioni e confronti incrociati si susseguono pagina dopo pagina, facendo appello a ogni tipo di fonte disponibile, prime fra tutte le

Nella pagina accanto la Madonna Crespi, terza versione della Madonna dei fusi di Leonardo da Vinci. 1506-1508. Collezione privata. In basso Sant’Anna, la Vergine col Bambino e l’oca. Olio su tavola (incompiuto) di Leonardo da Vinci. 1510-1513. Parigi, Museo del Louvre.

Carlo Pedretti e Margherita Melani La Madonna dei Fusi di Leonardo da Vinci. Tre versioni per la sua prima committenza francese CB Edizioni, Poggio a Caiano (FI), 144 pp., ill. col. 84,00 euro ISBN 978-88-97644-36-1 cbedizioni.com

lettere e le annotazioni dello stesso Leonardo e le osservazioni su opere simili, come nel caso della Sant’Anna oggi conservata al Louvre, attraverso le quali si supplisce alla scarsezza di informazioni dirette e all’assenza di disegni o cartoni preparatori. E, grazie a una tessitura attenta e minuziosa, la trama acquista consistenza e definizione, offrendo indicazioni plausibili sulla datazione, che Carlo Pedretti pone «ai primi anni del Cinquecento, al piú tardi intorno al 1508», e sulle vicissitudini antiche e moderne del dipinto, alle quali è dedicato l’ampio capitolo Documenti e disegni di Margherita Melani. A corollario, si collocano il profilo di Florimond Robertet e un’ampia raccolta di Apparati. Stefano Mammini

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caleido scopio

Lo scaffale Paola Pinelli Tra argento, grano e panni Piero Pantella, un operatore italiano nella Ragusa del primo Quattrocento Firenze University Press, Firenze, 176 pp.

16,90 euro ISBN 978-88-6655-438-7 www.fupress.com

Frutto di indagini condotte negli archivi di Firenze, Pisa, Prato e Dubrovnik, il volume delinea la complessità degli scambi che ruotavano intorno a Ragusa, collocata lungo le rotte marittime e le strade che portavano a Costantinopoli, un fiorire di traffici reso ancora piú intenso dalla ricchezza di argento delle miniere balcaniche. L’autrice ricostruisce il sistema commerciale della città nella prima metà del Quattrocento, basato su transazioni che avevano il loro fulcro nello scambio di argento balcanico con grano pugliese e pannilana di media qualità importati dall’Italia, transazioni in mano per la maggior parte a operatori veneziani, piacentini, veronesi, mantovani e soprattutto toscani (fiorentini e pratesi). Il commercio dell’argento serbo-bosniaco, la cui abbondanza nella regione viene descritta dai cronisti

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quattrocenteschi con toni da favola, venne monopolizzato dalla città dalmata, libera dai vincoli veneziani che opprimevano gli altri centri urbani circostanti. Alcuni imprenditori locali intervennero anche direttamente nel finanziamento dell’attività estrattiva, acquistando quote di proprietà delle miniere. Dagli anni Venti del Quattrocento anche i mercanti stranieri si inserirono nel commercio del metallo prezioso, svolgendo però soprattutto la funzione di intermediari tra Ragusa e le altre principali piazze europee; rimase agli operatori locali, invece, il commercio diretto con i siti minerari, per motivi dovuti probabilmente all’ignoranza della lingua e alla difficile raggiungibilità dei siti stessi. Gli uomini d’affari italiani, che pure avevano notevoli interessi in tutta la regione, limitavano infatti i propri contatti a Ragusa, lasciando agli operatori locali quelli con l’entroterra, sia per problemi linguistici, sia per giustificati timori a inoltrarsi in un territorio considerato selvaggio e ostile. Non costituirono perciò mai società nella zona, ma si limitarono a inviare

nella città dalmata propri rappresentanti. Gli elevati i profitti del settore minerario, che potevano raggiungere il 17-18%, attiravano investimenti sempre piú cospicui. L’argento veniva venduto in gran parte a Venezia (capitale finanziaria del commercio raguseo), a Prato, Napoli, Firenze, o inviato in Puglia (Trani, Barletta, Manfredonia) per ottenere in contropartita carichi di grano, olio e lana. Le città toscane

svolgevano un ruolo notevolissimo in questi traffici, e in modo particolare la compagnia fiorentina dei Cambini, che esportava da Ragusa dai 70 ai 100 kg di metallo all’anno, quantitativi che andarono aumentando dalla metà del Quattrocento. L’abbondanza dell’argento aveva anche dato origine nella città dalmata a un fiorente artigianato per la creazione di suppellettili preziose

da tavola, gioielli, ornamenti, fibbie, bottoni. Altro sbocco fondamentale furono le zecche di Napoli e dell’Aquila. I metalli estratti nei Balcani (oltre all’argento anche oro, rame, ferro piombo) e la presenza di altre materie prime di pregio, come la preziosissima cocciniglia, avevano dato origine alla fioritura dell’economia della regione nei primi decenni del Quattrocento, alimentando anche una notevole domanda di prodotti di lusso da parte delle corti dei sovrani serbi e dei despoti croati: i pannilana di alta e media qualità provenienti dalle città italiane (Venezia, Firenze, Prato, Mantova, Verona, Piacenza) rappresentavano uno degli articoli piú richiesti. Questo commercio era prevalentemente in mano ai mercanti ragusei, che frequentavano in gran numero le botteghe dei lanaioli fiorentini. Il terzo polo del commercio della città dalmata era rappresentato dagli approvvigionamenti di grano: la drammatica esiguità dei terreni coltivabili rendeva necessaria, infatti, una politica di

centralizzazione del controllo delle derrate alimentari, tale da prevedere accordi e incentivi ai mercanti stranieri per l’importazione del cereale, acquistato soprattutto in centri della Puglia come Trani, Bari, Manfredonia e Barletta, situati al di là dell’Adriatico quasi di fronte a Ragusa. Il grano veniva stoccato in fosse pubbliche e venduto nel fondaco del comune a prezzi calmierati. Altro cardine dell’economia ragusea del XV secolo fu la manifattura laniera, avviata verso il 1420 grazie a provvedimenti governativi volti a favorirne lo sviluppo a opera di imprenditori italiani (fiorentini e pratesi in particolare). La politica di attrazione promossa dall’autorità pubblica prevedeva esenzioni, facilitazioni e privilegi che comprendevano il mettere a disposizione un locale idoneo allo svolgimento dell’attività, un prestito pluriennale senza interessi per avviare la produzione, e un premio per ogni panno realizzato. Gli interventi statali si spinsero fino al punto da realizzare, tramite finanziamenti pubblici, edifici capaci di accogliere le fasi di lavorazione dicembre

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caleido scopio richiedenti maggiori investimenti (tintura, tiratura, follatura), da appaltare poi a lanaioli italiani. La politica governativa a favore degli stranieri mutò decisamente indirizzo dagli anni Trenta del Quattrocento, quando si cominciò invece a privilegiare gli imprenditori locali che ormai si erano impossessati delle tecniche e dei segreti di lavorazione. Un fenomeno che provocò l’abbandono progressivo della città da parte dei lanaioli italiani. Maria Paola Zanoboni

donne? Che cosa mangiavano? Quali erano i loro divertimenti? E come vivevano i rapporti di coppia? L’indagine riserva molte sorprese, tratteggiando i contorni di un’epoca non proprio «buia», ben lontana dagli stereotipi denigrativi: «Questo saggio – si legge nell’introduzione – si propone di restituire ai suoi protagonisti carne, ossa e sangue. Mostrando che i nostri antenati, pur cosí lontani nel tempo, non

Elena Percivaldi La vita segreta del Medioevo

Newton Compton Editori, Roma, 472 pp.

5,00 euro ISBN 978-88-541-6726-1 www.newtoncompton.com

C’è un Medioevo poco conosciuto, che la storiografia tradizionale solitamente non racconta. È un profilo «non convenzionale» dell’età di Mezzo, offuscato dai grandi eventi, quali sono le battaglie, le rivolte popolari, le lotte fra papato e impero. Un mondo nascosto, che contiene frammenti di quotidianità piú autentica, come svela Elena Percivaldi in questo saggio. Come si viveva davvero mille anni fa? Come si vestivano gli uomini e le

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erano poi cosí diversi da noi». Molto ricca si presenta la galleria di storie e tipologie di comportamenti, divisi in capitoli, a partire dalla condizione delle categorie considerate tradizionalmente meno protette, i bambini e le donne, che non furono, tuttavia, troppo spesso oggetto di discriminazioni.Temi di comune percezione, come l’abbigliamento, i viaggi e la cucina sono, poi, affiancati

da argomenti piú curiosi, come per esempio il modo di vivere la sessualità, la diffusione di tabú e paure che incidevano maggiormente nella psiche dell’uomo medievale. Altri interessanti capitoli indagano sugli approcci terapeutici della scienza medica di quei secoli, sul rapporto della società con la morte, sulla vita artistica e culturale e sul vasto universo degli esclusi (prostitute, omosessuali, banditi, ladri ed Ebrei). Non manca, infine, una panoramica sugli aspetti piú misteriosi della storia della Chiesa, dalla vita nei monasteri all’irruzione delle eresie. Francesco Colotta Maria Gemma Tomaino Roberto di Molesme e la fondazione di Cîteaux Nelle principali fonti storiche dell’XI e del XII secolo e nella Vita s. Roberti (XIII secolo) Edizioni Nerbini, Firenze, 446 pp.

28,00 euro ISBN 978-88-6434-082-1 www.nerbini.it

Opera di taglio specialistico, il saggio ripercorre la vicenda dell’abate (e poi santo) francese Roberto di Molesme (1028 o 1029-1111), al quale si deve la fondazione del

monastero di Cîteaux, che fu il nucleo originario dell’ordine cistercense e ne divenne ben presto il centro propulsore. Come scrive padre Altermatt nella Prefazione, l’opera non è una biografia vera è propria, ma una «ricerca scientifica», che, comunque, traccia il profilo di Roberto di Molesme con dovizia di dettagli. Ne risulta un’analisi approfondita e documentata, che non solo permette di valutare l’operato del personaggio, ma anche l’importanza assunta dalla creazione dell’ordine cistercense nella storia del monachesimo. Stefano Mammini Luca Frigerio Bestiario medievale Animali simbolici nell’arte cristiana Àncora Editrice, Milano, 528 pp., ill. col.

59,00 euro ISBN 978-88-514-1215-9 www.ancoralibri.it

Dai leoni stilofori di tante fabbriche

romaniche alle decine di aquile che, di volta in volta, alludono al potere imperiale o all’evangelista Giovanni, l’arte e l’architettura del Medioevo pullulano di immagini d’animali. Una sorta di giardino zoologico immaginario, che Luca Frigerio prova a sintetizzare e sistematizzare in questo ricco volume, provvisto di un corredo iconografico adeguato

all’impresa. Ne risulta un volume di lettura piacevole, che potrà senz’altro offrire risposte puntuali – e spesso sorprendenti – agli interrogativi che spesso suscitano in noi le visite di chiese e castelli, nei quali è facile imbattersi in presenze all’apparenza «inspiegabili». Con un approccio quasi linneano, questo Bestiario è suddiviso in sezioni rispettivamente dicembre

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dedicate agli animali selvaggi, a quelli domestici e poi alle creature del cielo e delle acque. Per poi concludere con la schiera, non meno vasta, degli esseri mostruosi e fantastici. S. M.

per i piú piccoli Valentina Evangelista I misteri del sacro bosco di Bomarzo Un’insolita guida al parco Scienze e Lettere, Roma, 95 pp., ill. a colori di Emanuele Carosi

15,00 Euro ISBN 978-88-6687-059-3 scienzeelettere.com

Il volume apre una collana – Terre incantate – rivolta ai bambini e dedicata a luoghi italiani pieni di fascino e un poco misteriosi. In quest’ottica la scelta del parco di Bomarzo, voluto da Pierfrancesco Orsini

per comprendere il testo: si tratta davvero di una guida insolita. L’autrice ha immaginato che due bambini – Fiammetta e Aldo – attraverso la tela di un quadro di Salvador Dalí, abbandonato nella soffitta della casa del loro nonno, siano riusciti a entrare in un bosco sacro, appunto il parco di Bomarzo, dove da secoli era in corso una lotta tra il Bene e il Male con quest’ultimo sul punto di prevalere. Non vogliamo svelare l’esito dello scontro, ma possiamo dire che Fiammetta e Aldo si sono comportati in maniera coraggiosa (non vuol dire che non abbiano avuto paura) e intelligente. Vogliamo svelare invece che durante la loro avventura i due bambini hanno avuto modo di osservare con attenzione – addirittura di dialogare – con

ancora leggere. Una per tutte, la celebre: Ogni pensiero vola. In proposito Fiammetta chiede: «Cosa vuol dire la strana scritta?». Un gigantesco volto di pietra le risponde: «Ehmm… allora, come posso spiegartelo… diciamo che quando tu pensi a qualcosa e lo desideri molto intensamente, quel pensiero riesce a volare e a portarti dove vuoi». Corredato da numerosi e ben fatti disegni di Emanuele Carosi, il libro, è un esperimento riuscito di una guida insolita e divertente. Giuseppe M. Della Fina

dall’estero Charalambos Bakirtzis, Eftychia KourkoutidouNikolaidou, Chrysanthi Mavropoulou-Tsioumi Mosaics of Thessaloniki. 4th-14th century Kapon Editions, Atene, 360 pp., ill. col.

97,98 euro ISBN 978-960-6878-36-7 kaponeditions.gr

nel 1552, quasi s’imponeva. Il sottotitolo del libro costituisce la chiave

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dicembre

alcuni monumenti del parco e riflettere su alcune delle iscrizioni che vi si possono

Assemblando migliaia di tessere multicolori, i mosaicisti attivi a Tessalonica (l’odierna Salonicco) in epoca bizantina hanno dotato la città greca di un patrimonio straordinario. Un patrimonio tutelato e studiato dagli autori del volume in oltre

quarant’anni di attività svolta presso il locale eforato (istituzione che possiamo considerare equivalente alle nostre soprintendenze). In particolare, i tre studiosi furono chiamati a coordinare il recupero e il restauro delle opere danneggiate dal forte

terremoto che colpí Salonicco nel giugno 1978 e proprio da quell’esperienza derivano molte delle osservazioni e delle acquisizioni che vengono ora divulgate. Pur avendo nel corredo iconografico uno dei suoi punti di forza (la campagna fotografica è stata in massima parte realizzata ad hoc per l’occasione), l’opera offre dunque molto piú di un libro illustrato, poiché consente di scoprire nel dettaglio le vicende storiche e architettoniche dei contesti ai quali i mosaici appartengono. E non è difficile scoprire come la quantità e la qualità delle opere siano tali da fare di Salonicco una vera e propria Ravenna macedone. S. M.

Debby Banham e Rosamond Faith Anglo-Saxon Farms and farming

Oxford University Press, Oxford, 352 pp., ill. b/n

65,00 GBP ISBN 978-0-19-920794-7 www.oup.com

Per dare l’idea dell’importanza del fenomeno analizzato, gli autori esordiscono scrivendo che: «Senza l’agricoltura anglosassone, l’Inghilterra non avrebbe avuto una storia». E, di fronte a un’asserzione cosí decisa, non resta che verificare:

le argomentazioni di Banham e Faith si sviluppano in una dozzina di densi capitoli, che analizzano tutti gli aspetti piú importanti dell’attività svolta da contadini e allevatori. Un’indagine approfondita, che, dall’analisi della cultura materiale allo studio delle forme di gestione del territorio, restituisce un quadro esauriente e vivace, tale da giustificare il presupposto iniziale. S. M.

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caleido scopio

Concerto in villa S

e le origini del madrigale ci riportano indietro al Trecento arsnovistico, periodo segnato da una esplosione di genere musicali e letterari, è sicuramente dalla seconda metà del Quattrocento e per tutto il secolo successivo che questo genere vocale profano conosce il suo massimo splendore: i primi timidi tentativi di fondere testo e musica, si trasformano in un linguaggio altamente raffinato, frutto della perfetta simbiosi tra espressione musicale e sentimento poetico. Un percorso iniziato nella seconda metà del XV secolo, quando alcuni compositori fiamminghi, istruiti alle piú ferree leggi del contrappunto, già riescono a unire il pathos poetico al linguaggio musicale.

musica • Una registrazione

effettuata nella splendida villa palladiana di Godi propone suoni e atmosfere del madrigale

teatralità insita in queste partiture, con un’attenzione particolare per i modi in cui esse venivano eseguite. Non abbiamo, dunque, la classica rappresentazione da concerto, bensí cinque cantori seduti attorno a un tavolo, ovvero in altre

La musica va (anche) in scena Al madrigale e alle sue infinite forme espressive è dedicata un’antologia superba, The Book of Madrigals (ACC 20304, 1 DVD, www.accentus.com), che, oltre a offrire un assaggio piuttosto ricco di questo genere, ha il pregio di proporcelo – evento assai raro nella discografia antica – in forma visiva, unendo dunque all’espressione musicale tutta la

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situazioni del tutto plausibili, in un contesto nel quale il fare musica era innanzitutto dettato dal piacere personale e non era condizionato dalla presenza di un pubblico. Tale progetto non poteva trovare peraltro un’ambientazione

migliore della villa palladiana Godi (Lugo di Vicenza), dove, tra tripudi architettonici e affreschi d’ispirazione mitologica, l’ensemble Amarcord trova l’atmosfera ideale per la sua performance.

Un genere e le sue declinazioni Toccando tutte le corde del sentimento umano e riunendo, in questo programma, repertori italiani, francesi, inglesi, tedeschi e spagnoli, i madrigali qui raccolti ci permettono di comprendere al meglio anche la versatilità di questo genere. Tra i 22 brani proposti, sono da citare per la loro struggente bellezza Triste départ di Nicolas Gombert (1495-1560), come anche le atmosfere notturne di Toutes les nuit del celeberrimo Orlando di Lasso (1532-1594), ovvero le laceranti e visionarie dissonanze di Io tacerò/In van dunque di Carlo Gesualdo da Venosa (1566-1613). Dai toni sommessi di questi brani eseguiti in notturna a lume di candela, si passa ad altri decisamente piú briosi, in cui l’ironia e il gioco onomatopeico sono elementi ricorrenti, come il Rallegratevi meco di Orazio Vecchi (1550-1605), o il Cucú, cucú di Juan del Encina (1468-1529) e dicembre

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l’esilarante Lucia celu di Orlando di Lasso (1532-1594). Di quest’ultimo è anche l’unico lied in lingua tedesca, Im Mayen hört man die Hanen krayen, mentre alla cultura elisabettiana ci riportano i due ascolti dedicati a John Dowland (1563-1626), con due brillanti esecuzioni di Come away e Come again, sweet love. Alternandosi tra tormenti amorosi, toni giocosi e parodie di brani – geniale quella di Vecchi sul madrigale Anchor che col partire, trasformato in Anchor ch’al parturire – non potevano mancare elementi popolareggianti, che evidenziano quanto anche l’aulico linguaggio madrigalistico abbia ereditato dall’elemento popolare, sottolineati da brani come Scaramella va alla guerra di Josquin Desprez (1440-1521), Chi la gagliarda di Baldassarre Donato (1530-1603) e due famosissimi brani anonimi del tempo, come la tourdion (un tipo di danza) Quand je bois du vin clairet e la Tarantella del Gargano.

Cinque voci per cinque lingue L’ensemble tedesco Amarcord rivela una notevole maturità artistica nell’adottare il giusto approccio interpretativo verso un repertorio che non finisce mai di stupire per le infinite capacità di diversificarsi con soluzioni musicali sempre nuove e originali. Le cinque voci maschili sembrano perfettamente a proprio agio nell’esibirsi in altrettante lingue; e la stessa bravura esprimono davanti alla cinepresa, rivelando grandi capacità attoriali, a cui si aggiungono, in alcuni momenti, altrettanto bravi strumentisti alla viola da gamba, tiorba, chitarra e percussioni. Ottima è anche la regia, che indugia, con riprese interne ed esterne, tra le bellezze del contesto architettonico, raggiungendo un ottimale equilibrio tra il piano visivo e quello sonoro. Franco Bruni

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Cantar d’amore musica • Il gruppo Alla Francesca propone un ricco

e articolato omaggio all’arte dei trovatori, interpretando molte composizioni famose e lasciando spazio, con esiti davvero lusinghieri, all’improvvisazione

S

enza il contributo dell’arte dei trovatori, poeti/musicisti girovaghi – e non solo – provenienti dall’Occitania e attivi tra XII e XIV secolo, oggi conosceremmo ben poco della musica medievale. A occupare il ruolo principe nella lirica trobadorica è l’amore, cantato in tutti i suoi aspetti: dalle pene dell’affetto non corrisposto, all’idealizzazione della donna, all’attesa delle luci dell’alba che divideranno i due amanti dal loro segreto incontro. In Trobar & Joglar (AGO017, 1 CD, www.agogique.com) il gruppo Alla Francesca ci propone alcune melodie dei piú celebri trovatori dell’epoca, in un excursus che pone l’accento sulla prassi improvvisativa che caratterizzò l’arte di questi poeti/cantori, con rivisitazioni strumentali di brani vocali famosi. D’altronde, in questo repertorio l’improvvisazione è tanto piú opportuna, essendoci la maggior parte della lirica trobadorica pervenuta con i soli i testi, mentre la notazione musicale si ritrova in codici piú tardi – dal XIII secolo in poi – aumentando, dunque, le distanze tra la tradizione scritta e quella orale.

Ora leggero e piacevole, ora chiaro e diretto Tra gli illustri trovatori che ascoltiamo spicca Arnaut Daniel, con la sestina Lo ferm voler; personaggio stimato da Dante, che lo reputa «miglior fabbro del parlar materno», e noto tra l’altro, proprio per l’invenzione della sestina. Segue Jaufré Rudel, cantore per eccellenza dell’amore lontano, ovvero Bernart de Ventadorn, considerato tra i migliori rappresentanti del trobal leu, il «poetare» leggero e piacevole, di cui ascoltiamo la canso Can l’erba frescha. A uno «stile leggero» ci riconduce anche l’improvvisazione sulla canso Reis glorios di Giraut de Bornelh, il doctor del trobar, che si fece portabandiera dello stile chiaro e diretto. Un pot-pourri multilinguistico è il brano di Raimbaud de Vaquieras Eras quan vei verdeiar, in cui si uniscono al provenzale altre quattro lingue. Accanto ai grandi nomi, vengono proposti anche brani anonimi, le cui tematiche si allargano al lamento della malmaritata (Coineta sui, si com n’ai gran cossire), oppure la tenson Bona donna, tan vos ai fin coralge, in cui due donne dibattono animosamente su temi amorosi. Molto suggestivi risultano anche i brani eseguiti in versione strumentale, di cui i solisti del gruppo Alla Francesca offrono letture accattivanti. La delicata voce di Brigitte Lesne, che si adopera anche nell’arpa-salterio, si muove tra le voluttuose melodie trobadoriche con grande charme; a lei si accompagnano la voce di Vivabiancaluna Biffi, che ritroviamo anche alla viola ad arco, i flauti medievali di Pierre Hamon, mentre la ritmica (tamburini e campane) è affidata a Carlo Rizzo. F. B.

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