Medioevo n. 214, Novembre 2014

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Ultima Thule Battaglia di Morgarten Antonio Bonfini dossier Totila e la Guerra Gotica

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

DOSSIER

TOTILA E LA GUERRA GOTICA

www.medioevo.it

M

HE

SP AR ECIA C LE

Mens. Anno 18 n. 11 (214) Novembre 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 11 (214) novembre 2014

EDIO VO M E www.medioevo.it

alla ricerca dell’ultima

THULE

un mistero nascosto nei ghiacci

NOVEMBRE 1315

Quando a Morgarten nacque la Svizzera

SPECIALE MARCHE

Antonio Bonfini, il maestro di Ascoli Francesco Sforza a Fermo

€ 5,90



sommario

Novembre 2014 ANTEPRIMA

personaggi

restauri Prediche e affreschi È l’ora di Paolo

Buda, o cara...

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Antonio Bonfini 6 8

di Furio Cappelli

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storie

Gli Sforza e le Marche

mostre La «vendetta» di Bernardino Dalla culla all’altare

9 12

appuntamenti Medioevo Oggi La fiera sotto il bosco Avvento alsaziano Di porta in porta L’Agenda del Mese

10 13 14 18 20

Il tiranno gioioso

di Francesco Pirani

64

64 CALEIDOSCOPIO

STORIE misteri L’ultima Thule Tra il ghiaccio e il fuoco di Francesco Colotta

battaglie Morgarten Cosí nacque la Confederazione di Federico Canaccini

30

macchine d’assedio Ariete testudinato

40

40

Attacco di testa di Flavio Russo

Dossier

104

la guerra «inutile» di Federico Marazzi

cartoline La Castiglia ritrovata

108

libri Lo scaffale

111

musica Melodie imperiali 112 Non vi spiaccia «l’ascoltar...» 113

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Ante prima

Prediche e affreschi

restauri • Continua

il ricollocamento degli affreschi di Buffalmacco nella loro sede originaria: il Camposanto di Pisa, dove le grandi composizioni furono volute come traduzione per immagini degli ammonimenti indirizzati dai frati domenicani al popolo dei fedeli

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el 1893, il musicista Franz Liszt compose la danza macabra per pianoforte e orchestra Totentanz, ispirandosi alla apocalittica raffigurazione del Trionfo della Morte che affrescava la parte meridionale del Camposanto di Pisa, costruito tra il XIII e il XV secolo e destinato ad accogliere le spoglie di illustri cittadini pisani, fino al 1779. Emblematica e suggestiva, interpretata spazialmente in modo libero, lontano dai canoni narrativi di scuola giottesca, la scena fu

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Sulle due pagine veduta d’insieme (nella pagina accanto, in alto) e particolari delle operazioni di restauro delle Storie degli Anacoreti affrescate, dal 1336, da Buffalmacco nel Camposanto di Pisa. eseguita da Buonamico di Martino, detto Buffalmacco, e fa parte di un ciclo pittorico iniziato nel 1336, su commissione dei frati domenicani, le cui prediche fungono da glossa per recuperare il significato di queste figurazioni. Grandi nomi prestarono il loro talento per la grandiosa opera dalla complessa trama iconografica, che occupava una superficie di 1500 mq, a decorare le pareti del Cimitero, ubicato a ridosso delle mura che chiudono il lato nord-occidentale della piazza dei Miracoli. Sintesi di arte e cultura medievale, gli affreschi furono devastati da un disastroso incendio, provocato da una granata, nel 1944 e, nell’immediato dopoguerra, vennero staccati, nel tentativo di preservare ciò che non era stato irrimediabilmente danneggiato. Seppur lentamente, i dipinti stanno «tornando a casa», grazie all’équipe di esperti che, avvalendosi delle nuove tecnologie e impiegando cellule microbiche vive per la rimozione di residui di colla animale – che provocava rigonfiamenti, crepe e perdite di strato pittorico –, sono riusciti a restaurarne vaste porzioni. Dopo avere ridato consistenza al colore che si era diffusamente polverizzato, sono stati posti teli attraversati da minicavi elettrici

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che, in caso di necessità si scaldano, evitando cosí il formarsi della condensa tra l’affresco e la parete e riducendo gli sbalzi termici. Dopo il ricollocamento nella loro posizione originaria di alcune storie, tra cui quella del Vecchio Testamento di Piero di Puccio e Benozzo Gozzoli e quella di Giobbe di Taddeo Gaddi, recentemente sono stati riposizionati alcuni tronconi con le Storie degli Anacoreti; dominata da un senso di serenità, alieno dall’orrido e tragico sentimento che pervade gli altri episodi del ciclo, la scena occupa la sezione superiore del Trionfo della Morte che, implacabile, campeggia su una massa di persone falciate, simbolo della fine che coinvolge l’umanità intera.

Una identificazione tardiva Arrampicati su balze rupestri, si vedono quattro monaci eremiti, intorno a una chiesetta, che paiono indifferenti al destino che li aspetta, intenti a opere della vita attiva e contemplativa: chi munge una capra, chi prega o legge seduto, chi guarda in basso ciò che sta accadendo. Nelle vicinanze, a sottolineare la calma dell’esistenza eremitica, si vedono animali selvatici, quali il fagiano o la lepre, mentre il monaco Macario sta all’imboccatura del sentiero che porta al promontorio per segnalare l’ardua via in salita verso il romitaggio. Scarse sono le notizie biografiche e artistiche su Buffalmacco, pittore fiorentino, a lungo considerato solo un personaggio letterario, protagonista di divertenti aneddoti e storielle nel Decamerone del Boccaccio.

Sappiamo che egli risultava iscritto per la prima volta nella Matricola dei Medici e Speziali di Firenze intorno al 1315; pertanto si deduce che potrebbe essere nato intorno al 1290-95. Morí presumibilmente nel 1340, dopo un’attività intensa che lo aveva portato a Bologna, Assisi, Arezzo e Pisa. Nonostante l’impronta che diverge dagli stilemi giotteschi, si può riconoscere nell’artista la propensione al realismo e una espressività che irrompono nello spazio dove, ai margini, trovano frequentemente posto figure che, abilmente, indirizzano il nostro sguardo verso il punto cruciale del racconto. Mila Lavorini

Errata corrige con riferimento al Dossier «Italia. Il regno impossibile» (vedi «Medioevo» n. 213, ottobre 2014), una integrazione redazionale al testo originale ha reso in modo errato la presentazione di Guido, duca di Spoleto: a p. 79, la frase «Frattanto, Guido, secondo duca di Spoleto, nonché nipote di Pipino – figlio di Carlo Magno e re d’Italia –» deve perciò leggersi in «Frattanto, Guido II, duca di Spoleto, un tempo ritenuto nipote di Pipino – figlio di Carlo Magno e re d’Italia–», poiché, come viene detto poco oltre, Guido, in base agli studi piú recenti, non risulta aver avuto rapporti di parentela con i Carolingi. Del tutto ci scusiamo con l’autore del Dossier e con i nostri lettori.

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Ante prima

È l’ora di Paolo restauri •

Il complesso meccanismo del grande orologio che sormonta il portale centrale del Duomo di Firenze, affrescato nel 1433 da Paolo Uccello, si avvia a recuperare la funzionalità originaria, per continuare a segnare il tempo... al contrario

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In alto il quadrante dell’orologio del Duomo di Firenze, affrescato nel 1433 da Paolo Uccello. Le quattro teste inserite negli angoli, sono state identificate con altrettanti Profeti o con gli Evangelisti. A sinistra il meccanismo dell’orologio.

l grande orologio del Duomo di Firenze, conosciuto come «Orologio di Paolo Uccello», perché all’artista rinascimentale si deve la decorazione del quadrante, è stato nuovamente affidato alle cure dei restauratori. L’intervento si è reso necessario per risolvere le problematiche del meccanismo, che compromettevano il funzionamento dell’orologio: presenza di sostanze nocive (agglomerati di ossido di ferro, sporco di deposito), deformazione, deterioramento e forte usura dei perni degli alberi, dei fori di rotazione, delle leve dell’ancora e dei pignoni.

La mezzanotte viene al tramonto Posizionato nella controfacciata del Duomo di Firenze, sopra la porta centrale, in un’intercapedine nascosta alla vista, l’orologio è unico al mondo non solo per la straordinaria collocazione e per l’affresco del quadrante, ma anche perché segna l’Ora Italica, un modo di concepire il tempo chiamato nell’antichità «Giuliano»

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dunque regolato nell’arco dell’anno in modo che l’ultima ora del giorno sia sempre quella del tramonto.

Quattro uomini misteriosi

(da Giulio Cesare che nel 46 a.C. promulgò il calendario elaborato da Sosigene di Alessandria). All’opposto dei quadranti moderni, l’Ora Italica – o tempo «dell’Ave Maria» o «all’Italiana» – fa avanzare l’unica lancetta sul quadrante in senso antiorario, e la 24ª ora non è la mezzanotte, bensí quella del tramonto del sole, da cui inizia il conteggio delle ore. L’orologio viene

Come riporta Giorgio Vasari («Fece Paolo, di colorito, la sfera dell’ore sopra la porta principale dentro la Chiesa, con quattro teste ne’ canti colorite in fresco»), fu il pittore fiorentino Paolo Uccello (Paolo di Dono, 1397-1475), ad affrescare nel 1433 il quadrante dell’orologio, che misura quasi 7 m di diametro. Nel quadrante l’artista rappresentò le 24 ore in numeri romani. Ai lati dipinse quattro misteriose teste di uomini con aureola, che sembrano guardare verso il centro e il basso: secondo alcuni si tratta di Profeti mentre per altri dei Quattro Evangelisti. (red.) novembre

MEDIOEVO


La «vendetta» di Bernardino mostre • San Gimignano rende omaggio al

Pintoricchio, artista a lungo sottovalutato e del quale è stata finalmente riconosciuta la grandezza. In questo caso testimoniata dagli importanti lavori realizzati negli anni del soggiorno senese

B

ernardino di Betto, detto Pintoricchio, ebbe una carriera densa di successi, lavorando ininterrottamente sotto cinque papi che gli commissionarono opere importanti. Eppure, l’artista umbro è stato a lungo relegato in una posizione secondaria nel panorama artistico rinascimentale, offuscato dalle grandi firme quattrocentesche e dal giudizio poco lusinghiero di Giorgio Vasari, che lo inserí tra coloro che sono aiutati dalla fortuna, pur non avendo alcun talento. San Gimignano ha scelto ora di celebrarlo, dedicandogli una mostra incentrata sulla pala rappresentante l’Assunta e sugli anni senesi. Il 23 ottobre 1510, fra Giovanni da Verona, intarsiatore apprezzato da papa Giulio II, appartenente alla confraternita degli Olivetani di Regola benedettina di Barbiano, nei pressi di San Gimignano, commissionò alla bottega del Pintoricchio quella che sarebbe stata la sua ultima opera documentata, la Madonna in gloria tra i santi Gregorio Magno e Benedetto.

Alla fine della carriera La Vergine si staglia imponente all’interno di una mandorla, con lo sguardo abbassato sopra i due santi, assisa sulle nubi e circondata da creature angeliche, due delle quali si abbassano a ruolo di sostegno per i suoi piedi; sullo sfondo, la città con le sue attività quotidiane e terrene

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novembre

Dove e quando

«Pintoricchio. La Pala dell’Assunta di San Gimignano e gli anni senesi» San Gimignano, Palazzo Comunale, Pinacoteca fino al 6 gennaio 2015 Orario tutti i giorni, 11,00-17,30; (25 dicembre chiuso; 1° gennaio, 12,30-17,30 Info tel. 0577 286300; e-mail: prenotazioni@ sangimignanomusei.it; www.sangimignanomusei.it Pintoricchio la Madonna del Melograno (in alto; 1508-1509, Siena, Pinacoteca Nazionale) e La Vergine Assunta tra i Santi Gregorio Magno e Benedetto. 1510-1512. San Gimignano, Pinacoteca Civica. quasi sparisce nel paesaggio che sfuma dolcemente. E la gamma cromatica è formata da delicati toni di blu, bianco e rosa. La tavola fu completata poco tempo prima della morte di Pintoricchio, avvenuta l’11 dicembre 1513 a Siena, dove si era svolta la stagione finale della sua carriera, documentata in mostra anche da altre opere provenienti dalla Pinacoteca Nazionale senese quali il tondo raffigurante la Sacra Famiglia e san Giovannino, in cui le

figure sono inserite in un paesaggio minuziosamente descritto, e la Natività, quest’ultima attribuita alla sua bottega. È inoltre presente la tempera su tavola con la Madonna col Bambino e san Giovannino, proveniente dal Museo Diocesano di Città di Castello, a rappresentare l’ambiente umbro nel quale Pintoricchio si era formato prima di recarsi a Roma e dove aveva continuato a operare prima di essere chiamato a Siena. M. L.

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Ante prima

EDIO VO M E R R

oggi

ivivere il Medioevo, rileggerne la storia nei suoi aspetti piú accattivanti e meno noti. E sfatare anche alcuni miti duri a morire, come quello del suo oscurantismo e della sua arretratezza: è questo lo scopo di «Medioevo da (ri)scoprire», un ciclo di incontri organizzato a Sant’Elpidio a Mare (Fermo) che vuole far rivivere uomini e donne del nostro passato, raccontandone gli aspetti della vita quotidiana. Protagonista delle tre conferenze, rivolte al grande pubblico, è Elena Percivaldi, medievista e saggista milanese, nonché collaboratrice di «Medioevo» (che ha anche dato il suo patrocinio all’iniziativa), da anni impegnata nella divulgazione storica. Con lei i rievocatori della Compagnia di Scherma antica Fortebraccio Veregrense. Le serate (tutte con inizio alle ore 21,30 e a ingresso libero) si terranno nella chiesa di S. Filippo (corso Baccio, 33) e nella basilica della Misericordia (piazza Matteotti), due dei luoghi piú suggestivi della città. Il primo incontro, giovedí 13 novembre, avrà come tema «I Longobardi: usi e costumi di un popolo». La saggista, che al tema ha dedicato numerosi studi, ripercorrerà i momenti salienti dell’occupazione longobarda in Italia,

con particolare attenzione al territorio marchigiano, sulla scorta dei dati archeologici e documentari. Saranno illustrati anche gli aspetti della vita materiale e l’eredità che le genti longobarde hanno lasciato nel corso del tempo: dal loro rapporto con la religione alla lingua, dalle leggi alle usanze. Grazie alla presenza dei rievocatori di Fortebraccio Veregrense, sarà inoltre possibile osservare i Longobardi «all’opera», ammirarne l’abbigliamento e vedere riproduzioni di oggetti, monili, armi e gioielli realizzati in maniera filologicamente corretta. La seconda serata, giovedí 27 novembre, ruoterà invece attorno alla presentazione de «La vita segreta del Medioevo», penultima fatica editoriale di Elena Percivaldi (Newton Compton Editori, Roma 2014). Finalista al Premio Italia Medievale 2014, il volume racconta gli aspetti meno conosciuti e piú interessanti della vita dei nostri antenati: dalla spiritualità al sesso, dai momenti liberi alla tavola, dalla medicina al rapporto con la morte e con i terrori e i tabú del tempo. Il terzo e ultimo incontro, giovedí 11 dicembre, avrà infine come tema «Divertirsi nel Medioevo: giochi e passatempi»: si racconteranno i passatempi e i divertimenti di uomini, donne e bambini del passato e A sinistra la lamina in bronzo dorato detta «di Agilulfo» (re dei Longobardi in Italia dal 591 al 616), un manufatto nel quale si fondono elementi «barbarici» con elementi tipici della cultura romano-bizantina. Firenze, Museo Nazionale di Bargello.

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si scoprirà, documenti alla mano, che non erano poi cosí diversi... da quelli dei giorni nostri. Per informazioni: Comune di Sant’Elpidio a Mare, Assessorato Cultura e Turismo: tel. 0734 8196.372373; e-mail: culturaeturismo@santelpidioamare.it, ep.pressoffice@gmail.com; www.santelpidioamare.it, www.percevalarcheostoria.jimdo.com;

Templari in terra umbra Nell’anno del settimo centenario della morte del Gran Maestro dell’Ordine del Tempio Jacques de Molay, il Comune di Perugia, oltre a promuovere il ciclo di conferenze La storia dei Templari raccontata a San Bevignate, ha anche colto l’occasione per avviare un progetto di valorizzazione del territorio arnate con il contributo del GAL Media Valle del Tevere. Fu in questa porzione del contado di porta Sole, infatti, che, nel 1238, per volontà di papa Gregorio IX, si insediarono in origine i fratres militie Templi Hierosolymitani, ai quali il pontefice aveva affidato il compito di risollevare le sorti del monastero benedettino di S. Giustino. Con la drammatica fine dell’Ordine del Tempio e in seguito alla promulgazione della Ad providam Christi vicarii (2 maggio 1312) da parte di papa Clemente V, i beni della milizia rossocrociata passarono all’Ordine fratello dei Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme, poi cavalieri di Rodi e infine cavalieri di Malta, che ancora oggi detengono la proprietà della Commenda di San Giustino. Tra le iniziative previste, è stato programmato un nuovo ciclo di conferenze, dal titolo Arna templare. In questo quadro, sabato 8 novembre, alle 16,00, presso la Biblioteca Comunale P. Federici di Ripa, Manuel Vaquero Piñeiro (Università di Perugia) presenterà una relazione su «Il contado di Porta Sole: vie di comunicazione ed economia tra Medioevo ed età contemporanea», che sarà introdotta da Attilio Bartoli Langeli (Scuola storica nazionale per l’edizione delle fonti, ISIME). Sabato 29 novembre, sempre alle 16,00, ma presso la Commenda di San Giustino d’Arna, sarà la volta di Sonia Merli (Deputazione di storia patria per l’Umbria) e Nadia Bagnarini (Università di Siena), che presenteranno la relazione su «San Giustino d’Arna: da precettoria templare a commenda dell’Ordine di Malta. Studio architettonico di un insediamento monasticocavalleresco». L’intervento verrà introdotto da Paolo Caucci von Saucken (Università di Perugia)

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L’interno della chiesa romanica compresa nel complesso conventuale benedettino di S. Giustino d’Arna. L’aspetto attuale del monumento è in larga parte frutto di restauri eseguiti in età moderna, dapprima nel 1933 e poi in seguito ai terremoti del 1984 e del 1997. L’ultimo appuntamento è in programma per sabato 13 dicembre (ore 16,00, Ripa, Biblioteca Comunale P. Federici): Mirko Santanicchia (Università di Perugia) illustrerà «Un percorso artistico nel contado di Porta Sole», introdotto da Laura Teza (Università di Perugia). Info: tel. 075 577 3206; e-mail: l.rosibonci@comune. perugia.it; http://turismo.comune.perugia.it/ Parallelamente al ciclo di conferenze – in collaborazione con il Sovrano Militare Ordine di Malta, Scriptorium, le Associazioni Culturali Arnati e la Delegazione di Perugia del FAI – è stato inoltre messo a punto un itinerario guidato con degustazione di prodotti locali che toccherà la Commenda di San Giustino, i borghi di Civitella d’Arna e Ripa nonché il complesso templare di San Bevignate, di cui si potrà visitare, grazie alla disponibilità della famiglia Rossi, anche la parte conventuale. Queste le date in programma: sabato 22 novembre, sabato 6 dicembre. Le visite, con prenotazione obbligatoria, avranno luogo a partire dalle 14,30 e prevedono la partecipazione di un numero massimo di 50 persone. Per informazioni e prenotazioni: Guide in Umbria, tel. 075 5732933. (red.)

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Ante prima

Dalla culla all’altare mostre • Che fossero

fidanzate, promesse spose o madri, alle donne si offrivano doni preziosi, il cui valore aveva anche importanti implicazioni sociali

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a nuova rassegna allestita alla Pinacoteca Züst di Rancate (Svizzera) offre una carrellata sugli oggetti regalati alle donne, nelle famiglie di alta estrazione, per fidanzamenti, matrimoni, nascite. Il percorso espositivo si articola in tre sezioni. La prima, dedicata al fidanzamento, vanta manufatti donati dal futuro marito, come gioielli, cinture, cofanetti, che, oltre all’indiscutibile valore economico hanno un significato simbolico. Fra gli altri, spicca un forzierino in avorio, del terzo quarto del Trecento, prestato dal Museo d’arte e storia di Ginevra. «Se l’avorio rimanda all’incarnato diafano della donna, la cintura allude alla castità, virtú considerata indispensabile, mentre le scene che decorano le custodie per gli specchi richiamano il desiderio dello sposo», spiega Patricia Lurati, curatrice dell’esposizione. Che continua: «qui abbiamo alcuni degli oggetti piú antichi della rassegna, legati alla sfera intima della donna. Dal Museo del Bargello di Firenze provengono una valva per specchio con l’Incontro degli innamorati, del 1300-1330, in avorio, e una seconda valva con l’Assalto al castello di Amore, mentre il Museo Civico Medievale di Bologna ha prestato un’altra custodia, in questo caso in osso, con scene galanti, dell’ultimo quarto del XIV secolo».

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Segue quindi lo spazio destinato al matrimonio, in cui hanno un ruolo di primo piano i cassoni per il corredo della futura moglie, commissionati dalla sua famiglia. Quelli esposti risalgono agli anni Settanta e Ottanta del Trecento: dopo la cerimonia nuziale la neosposa, per raggiungere la sua nuova abitazione, sfilava per la città, seguita da un corteo sfarzoso, per esporre i bauli e il loro contenuto, manifestando la sua ricchezza. «Dopo il 1450 si rafforza il ruolo del marito, quindi è lui, non piú il padre, a commissionare i cassoni, che non sfilano piú: la sposa mette la sua dote in ceste e, una volta nella casa coniugale, la sistema nelle cassapanche», osserva ancora Patricia Lurati.

L’ostentazione del potere In questo contesto, che sminuisce la donna e la sua famiglia, si collocano le leggi suntuarie, che prima limitavano il valore degli oggetti da offrire alla fidanzata, mentre nel Quattrocento diventano piú permissive, concedendo al futuro sposo d’infrangere le regole, previo pagamento di una multa, e dandogli cosí la possibilità di ostentare il suo potere e l’onore del suo casato. L’ultima sezione ruota attorno alla nascita. E qui troviamo il desco da parto, ovvero un vassoio prezioso sul quale veniva servito

Cofanetto in pastiglia dorata, bottega dei Temi morali e amorosi, inizi del XVI sec. Ginevra, Collection des Musées d’art et d’histoire de la Ville de Genève. alla puerpera il primo pasto dopo il lieto evento. Ma sono di gran pregio anche stole di pelliccia e oggetti raffiguranti zibellini, che nel bestiario medievale alludono alla fertilità. Di particolare interesse è un piccolo dipinto del 1330, la Natività della Vergine, da Losanna, realizzato da Francesco da Rimini, la cui iconografia fu ripresa nei secoli successivi. La curatrice spiega che è stato scelto perché «raffigura un interno domestico pieno di dettagli quotidiani, come sarà nel secolo successivo per le scene di nascita profane. Sembra un episodio di vita comune, ambientato in un palazzo dell’epoca, con la balia che si prende cura della bambina». Stefania Romani Dove e quando

«Doni d’amore. Donne e rituali nel Rinascimento» Rancate (Mendrisio), Pinacoteca Cantonale Giovanni Züst Orario ma-ve, 9,00-12,00 e 14,00-18,00; sa-do e festivi, 10,00-12,00 e 14,00-18,00 Info tel. +41 (0)91 8164791; www.ti.ch/zuest novembre

MEDIOEVO


La fiera sotto il bosco N

ell’Alto Medioevo, il paese trevigiano di Santa Lucia di Piave era chiamato Sub Silva, «Sotto Selva», per la presenza di un vasto bosco, e rientrava sotto il controllo del conte di Collalto. Il nome Santa Lucia venne attribuito nel 1312, quando il borgo passò sotto la proprietà del castello di San Salvatore, nella vicina Susegana. Durante il XIV secolo la piazza del paese era sede di un grande mercato stagionale con prodotti provenienti anche dal Nord Europa, legata ai primi traffici commerciali tra Venezia e le Fiandre sulla via Ungarica. Oggi, in un week end di novembre (quest’anno sabato 15 e domenica 16) rivive l’Antica Fiera di Santa Lucia di Piave, ricostruita dopo una ricerca storica effettuata negli statuti trecenteschi del Comune di Treviso. La fiera propone merci tipiche del tempo: stoffe, pelli e tessuti pregiati, canapa, lane, ceramiche, prodotti della terra e bestiame. Nelle osterie allestite per l’occasione si possono assaggiare i prodotti locali di casari e vinari, fra gli spettacoli di giullari, musici e saltimbanchi. A margine della fiera sono in programma mostre,

concerti e seminari. Sabato 8 novembre, alle 20,30, la chiesa di Collalto sarà sede del concerto L’invisibile rivelato. Il manifestarsi della santità profetica di Ildegarda di Bingen. Figura affascinante del Medioevo, Ildegarda fu religiosa, scrittrice, poetessa, filosofa, musicista, naturalista e anche consigliera politica. Sabato 15 novembre, a chiusura della prima giornata della fiera, alle 17,00, nella piazza centrale del paese si terrà lo spettacolo Tra spade e lingue di fuoco: i misteri di Marcantonio Brandolini, abate di Nervesa, con la Schola tamburi storici di Conegliano e i Cavalieri del Drago. Nella stessa giornata, alle 20,30 nel santuario parrocchiale si potrà assistere al concerto In cordis iubilo, con la corale San Salvatore e OrcheStraforte, composta da oltre 40 studenti di scuole musicali locali. Durante i due giorni della fiera, nel padiglione dell’ex filanda saranno allestiti laboratori dedicati all’antica produzione di carta con l’Officina Chartaria Patavina. Tiziano Zaccaria


Ante prima

Avvento alsaziano appuntamenti • Come ogni anno, Colmar si prepara a festeggiare il periodo

natalizio. Una girandola di luci, suoni e... sapori, che può essere l’occasione per scoprire il ricco patrimonio architettonico medievale della città

N

ella regione francese dell’Alsazia numerose tradizioni cristiane sono profondamente radicate da secoli e le festività natalizie rappresentano un evento molto atteso. Le celebrazioni iniziano alla di fine novembre con l’apertura dei mercatini dell’Avvento, particolarmente suggestivi nella pittoresca Colmar, un complesso urbanistico medievale che possiede numerose costruzioni a graticcio tipiche dell’architettura alsaziana. Quest’anno la magia del Natale di Colmar si ripete dal 21 novembre al 31 dicembre, con cinque mercatini tradizionali allestiti nella città vecchia. Un percorso di decorazioni luminose conduce lungo le strade pedonali per esplorare i mercatini, nei quali 170 espositori propongono i loro prodotti in casette di legno che ben si armonizzano con l’architettura cittadina. Fedeli alla tradizione, i residenti ornano finestre e balconi delle proprie abitazioni con corone, stelle e altri simboli dell’Avvento, mentre per le strade vengono diffuse melodie natalizie. Le bancarelle propongono oggetti della tradizione alsaziana e creazioni di ceramisti, vasai, vetrai, falegnami, intagliatori, cappellai e gioiellieri, ma, soprattutto,

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prodotti gastronomici come foie gras, salumi, vin brulé, pan di zenzero, dolci con miele, cioccolato, vaniglia o noci, brioche con frutta candita farcite con crema di mandorle, e il Berawecka, un dolce con frutta secca (fichi, albicocche, prugne, pere, uva) macerata nell’acquavite di ciliegia.

Echi del Sacro Romano Impero A margine dei mercatini vengono proposti concerti e visite guidate. Per tutto il periodo dell’Avvento, gli scolari interpretano le canzoni tradizionali seduti su barche illuminate nei canali cittadini. Nella place des Six Montagnes Noires, in una cassetta postale gigante, i bambini possono inserire le loro lettere da spedire a Babbo Natale. E ogni sera, dal crepuscolo, un’illuminazione artistica sottolinea con luci e ombre il ricco patrimonio architettonico di questa antica città fondata durante il Sacro Romano Impero. Il suo edificio religioso piú significativo, la cattedrale di S. Martino, eretta fra il XIII e il XIV secolo, è uno degli esempi piú importanti dell’architettura gotica

Colmar (Alsazia, Francia). Due immagini della città vecchia, con i tradizionali addobbi e i mercatini dell’Avvento. alsaziana. Significative sono anche la Vecchia Dogana, o Koifhus, che sorge sulla piazza omonima, risalente al 1480, e la tipica Casa Pfister, eretta nel 1537 con due belle facciate ad angolo ornate di affreschi e balconate in legno. Famoso è poi il pittoresco quartiere detto «Petite Venise», la Piccola Venezia, con numerosi edifici a graticcio dai colori vivaci costruiti a filo sull’acqua dei canali. Si narra che la tradizione di allestire gli alberi di Natale sia nata proprio in Alsazia nel Medioevo, quando gli abeti venivano decorati con piccole mele rosse che rappresentavano la tentazione, e biscotti, simboli di redenzione. Dalla fine del XVI secolo gli alberi iniziarono a essere addobbati con rose e oggetti dorati, poi via via con pan di zenzero e marzapane, finché nell’Ottocento comparvero le figure di cera, la frutta secca, le candele, le palle di vetro e le campane. T. Z. novembre

MEDIOEVO



Ante prima

Di porta in porta appuntamenti • La Città Vecchia di Gerusalemme ospita un ricco e variopinto

Festival dei Cavalieri, che, grazie alla festosa partecipazione di decine di figuranti, riporta indietro di almeno mille anni le pagine dei calendari

Due immagini del Festival dei Cavalieri che, come è ormai consuetudine, anima la Città Vecchia di Gerusalemme. essa deve il suo nome al fatto che conduce direttamente alla città di Giaffa, siutata a qualche chilometro da Tel Aviv. La rievocazione coinvolge anche la vicina Torre di Davide, un’antica cittadella costruita nel II secolo a.C., in seguito distrutta e riedificata, nell’ordine, dai conquistatori cristiani, musulmani, mamelucchi e ottomani. È bene ricordare che il nome della torre è improprio, poiché l’edificio fu costruito vari secoli dopo la tradizionale data biblica del regno

O

gni novembre per quattro giovedí (quest’anno il 6, 13, 20 e 27) la Città Vecchia di Gerusalemme si immerge nell’atmosfera magica e misteriosa del suo Medioevo. Dal crepuscolo fino a notte, per l’esattezza dalle 18,00 alle 24,00, decine di figuranti – cavalieri, musicisti, indovini, principesse, buffoni di corte, acrobati e venditori ambulanti – animano le strade all’interno delle antiche mura e i pittoreschi luoghi dei quartieri cristiano e armeno, per dare vita al Festival dei Cavalieri nella Città Vecchia. Lungo un percorso affascinante, i visitatori possono assistere gratuitamente a eventi rievocativi, giostre con la lancia, spettacoli di musica e danze medievali. Si torna cosí indietro di mille anni per un Festival che, a differenza del vero Medioevo, epoca in cui «la vita era notoriamente brutta, brutale e breve», promette quattro serate divertenti.

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La Città Vecchia è la parte di Gerusalemme racchiusa dalle mura costruite attorno al 1540, ai tempi del regno di Solimano il Magnifico, mentre il nucleo originario dell’abitato, chiamato Città di David ed edificato sul monte Sion, è rimasto all’esterno del circuito.

Divisi da cardo e decumano La Città Vecchia consta di quattro quartieri – cristiano, ebraico, musulmano ed armeno – la cui divisione ricalca l’assetto urbanistico dell’epoca romana: la zona ovest, cristiana e armena, è infatti separata da quella di musulmani ed ebrei dal cardo maximus, mentre il decumano divide i quartieri cristiano e islamico a nord, da quelli armeno ed ebreo a sud. Tradizionalmente, la Città Vecchia ha nove porte di accesso. Il percorso del Festival dei Cavalieri parte dalla Porta di Giaffa, chiamata anche «degli Amici», eretta nel XVI secolo al centro delle mura Ovest;

di Davide. Altri spettacoli vengono allestiti lungo la via del Patriarcato Armeno, fino alla Porta di Sion, eretta sempre attorno al 1540 al centro delle mura Sud, quale ingresso al quartiere ebraico. È chiamata anche «porta di Davide», poiché dà accesso al monte Sion, sul quale, secondo la tradizione, si trova appunto la tomba del re di Giuda e di Israele. T. Z. novembre

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Ante prima In questa pagina busto reliquiario di Carlo Magno, in oro e argento. Metà del XIV sec. Aquisgrana, Tesoro della Cattedrale. Nella pagina accanto la corona del Sacro Romano Impero, in oro, perle, smalti e pietre preziose, realizzata intorno al 962 per l’incoronazione di Ottone I.


il nuovo dossier di medioevo

carlo magno

L’IMPERO FRANCO E LA NASCITA DELL’EUROPA Nell’814, esattamente 1200 anni fa morí ad Aquisgrana Carlo Magno: una ricorrenza ricordata in tutta Europa con celebrazioni ed eventi espositivi, inclusa l’emissione di due francobolli da parte del Vaticano. A uno dei piú importanti personaggi della storia del nostro continente «Medioevo» dedica il nuovo dossier ora in edicola

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ome possiamo valutare la portata dell’operato di Carlo Magno? E perché, ancora oggi, la sua figura rappresenta un riferimento storico, culturale e politico per l’Europa? Per rispondere, basta dare uno sguardo a una cartina del nostro Continente e del Mediterraneo intorno all’anno 800 e poi, confrontarla con una di cinquant’anni prima, quando, alla metà dell’VIII secolo, Carlo era ancora un fanciullo e suo padre Pipino non era ancora diventato re dei Franchi: da un mosaico di Stati e popoli, sorto sulle rovine dell’impero romano, nel primo quarto del IX secolo, l’estensione del regno franco rappresenta un’entità politica di dimensioni inedite sulla scena europea dei tre secoli precedenti. Carlo Magno, dunque, come emulo medievale dei Cesari dell’antica Roma? Il nuovo Dossier di «Medioevo» illustra, in sette capitoli, i decenni che videro l’avvento della dinastia carolingia, le sfide e le relazioni internazionali, la conquista dell’egemonia militare e politica in Europa, gli eserciti, le guerre e le vittorie di Carlo, dalla sua ascesa al trono fino alla sua morte. Particolare attenzione è posta all’organizzazione dello Stato franco, alla vita commerciale, al ruolo del denaro, ai simboli del potere. Un attento esame delle architetture istituzionali (i palazzi e i monasteri carolingi) e degli strumenti di controllo e di potere (le leggi e la scrittura) tracciano un quadro vivo e affascinante dell’apparato amministrativo del nuovo impero, mentre uno sguardo oltre i confini del medesimo individua il contesto geopolitico internazionale entro il quale il regno franco si affermò. Il capitolo conclusivo è dedicato all’eredità politica e culturale dell’età di Carlo Magno, in Europa e nel Mediterraneo.

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agenda del mese

Mostre Riggisberg Velo e ornamento: i tessuti medievali e il culto delle reliquie U Abegg-Stiftung fino al 9 novembre

Nel Medioevo, il possesso di resti mortali appartenenti a una persona venerata, oppure un qualsiasi oggetto che con essa aveva avuto una connessione, diretta o indiretta, rappresentava un tesoro. Resti che per secoli sono stati accuratamente preservati, spesso avvolti in materiali sontuosi che, nel tempo, sono diventati essi stessi reliquie, essendo venuti a contatto proprio con il corpo che proteggevano e adornavano. L’AbeggStiftung di Riggisberg, in Svizzera, istituto specializzato nel restauro e conservazione di tessili antichi, espone un’ampia selezione di

bari, castel del monte, trani

queste preziose stoffe. Protagonista dell’evento è san Gottardo, vescovo tedesco, morto nel 1038. Al momento della canonizzazione, avvenuta quasi un secolo dopo, la sua tomba nella cattedrale di Hildesheim fu aperta e il contenuto trasferito in una teca dorata, tempestata di gemme, dischiusa nel 2009 per intenti conservativi.Gli involucri portati alla luce in quell’occasione, che racchiudevano frammenti tessili e ossei, insieme a terra e sabbia, sono esposti per la prima volta. info abegg-stiftung.ch

Arnaldo Pomodoro nei Castelli di Federico II U Castello Svevo di Bari, Castel del Monte, Castello Svevo di Trani fino al 30 novembre

Artegna (UD) Il Castrum Artenia nel ducato longobardo di Forum Iulii U Castello Savorgnan fino al 13 novembre

La mostra rientra in un piú ampio progetto di valorizzazione del territorio e degli insediamenti castrensi altomedievali della regione, un progetto collegato ai programmi di sviluppo del sito UNESCO di Cividale del Friuli. Oltre a presentare i risultati delle ricerche archeologiche sul colle di San Martino, viene sottolineata la centralità dei siti castrensi nelle dinamiche di sviluppo del ducato del Friuli nell’Alto Medioevo. info tel. 0432 977811; e-mail: info@com-artegna. regione.fvg.it Basilea ROMA ETERNA U Antikenmuseum fino al 16 novembre

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a cura di Stefano Mammini

Il progetto espositivo è imperniato su una settantina di sculture provenienti dalle collezioni italiane della famiglia Santarelli e del critico e storico dell’arte Federico Zeri: opere che comprendono sculture dall’età imperiale romana fino a quella neoclassica e permettono dunque di evidenziare l’eterno fascino di Roma, con la sua capacità di assimilare e rielaborare sempre nuove correnti artistiche e integrarle nel suo ineguagliabile patrimonio culturale. Il dialogo con l’eredità classica è evidenziato tramite la comparazione di motivi ed elementi stilistici diversi, ma sempre legati l’un l’altro e inseriti nel proficuo solco della tradizione artistica dell’Urbe. info antikenmuseumbasel.ch

Le opere di Arnaldo Pomodoro vengono eccezionalmente inserite nella cornice medievale di tre dei piú famosi castelli federiciani. Gli scettri, gli scudi, le lance di luce, le stele, le sfere di Pomodoro, originali declinazioni contemporanee di emblemi antichi, articolano un dialogo ideale con questi luoghi carichi di storia, simbolo dello straordinario connubio di potere e cultura espresso dallo Stupor Mundi. info Bari, tel. 080 5213704; Castel del Monte, tel. 0883 569997; Trani, tel. 080 5286239 ename (belgio) L’eredità di Carlo Magno U Provinciaal Erfgoedcentrum fino al 30 novembre

Carlo Magno è da molti considerato come uno degli antesignani dell’unità europea, perché artefice di quel

Sacro Romano Impero che si poneva in ideale continuità con l’impero romano. In realtà, la sua costruzione politica fu da subito incrinata da divisioni che si prolungarono nei secoli, sul piano politico e religioso. 1200 anni dopo, il progetto CEC, Cradles of European Culture, e la mostra internazionale allestita a Ename propongono la storia dell’eredità di quell’impero, a partire dall’epoca immediatamente successiva, quella degli Ottoni, fino al secondo dopoguerra e al crollo del Muro di Berlino. info pam-ov.be/ename Firenze La fortuna dei Primitivi. Tesori d’arte dalle collezioni italiane fra Sette e Ottocento U Galleria dell’Accademia fino all’ 8 dicembre

Dedicata alla storia del collezionismo, la mostra indaga il contesto storico e sociale che ne favorí la nascita e analizza le singole raccolte per spiegare l’interesse che, due secoli fa, dette vita al recupero dei cosiddetti «Primitivi», cioè quei pittori che avevano preceduto Michelangelo, Raffaello e i grandi maestri che la storiografia vasariana considerava modelli insuperabili. Questo fenomeno culturale investí l’Italia dalla metà del Settecento fino all’incirca al primo ventennio dell’Ottocento, inizialmente con carattere pioneristico e novembre

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mostre • Le dame dei Pollaiolo. Una bottega fiorentina del Rinascimento U Milano – Museo Poldi Pezzoli

fino al 16 febbraio 2015 (dal 7 novembre) – info tel. 02 794889 o 796334; www.museopoldipezzoli.it

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rganizzata con il sostegno di Fondazione Bracco, la mostra è stata ideata intorno al simbolo della casa museo di Via Manzoni: il prezioso Ritratto di Dama di Piero del Pollaiolo, fra i maggiori capolavori della ritrattistica della seconda metà del Quattrocento. Protagonisti della mostra sono i quattro splendidi ritratti femminili, riferibili ad Antonio e Piero del Pollaiolo, riuniti per la prima volta nella loro storia uno accanto all’altro. Insieme alla dama del Poldi Pezzoli vengono presentati gli altri dipinti di donna attribuiti ai fratelli, provenienti da importanti istituzioni internazionali: la Galleria degli Uffizi di Firenze, la Gemäldegalerie di Berlino e il Metropolitan Museum of Art di New York. Queste opere, forse appartenenti al genere del «ritratto nuziale», sono anche un mezzo privilegiato per la rappresentazione della società di fine Medioevo: vi sono raffigurati vesti, tessuti, gioielli capaci di raccontare la vita della società dell’epoca. Oltre ai ritratti delle quattro dame vengono esposti dipinti di medio e piccolo formato e altri capolavori della bottega di Antonio, prodotti della sua grande maestria: disegni, sculture in bronzo e terracotta, oreficerie e altre opere insolite e preziose (come uno scudo da parata e un crocifisso in legno di sughero) provenienti dal Museo del Louvre di Parigi, dalla National Gallery di Londra, dal Museo Nazionale del Bargello, dal Museo Stefano Bardini e dal Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore di Firenze.

Attraverso linguaggi e strumenti innovativi, grazie alla collaborazione con JWT Italia, che si sta occupando dello sviluppo di una strategia di comunicazione attraverso il sito e i social media del Museo, il pubblico può interagire on line prendendo parte al progetto in prima persona. A corollario e a completamento della mostra sono previste molteplici iniziative diffuse sul territorio cittadino. Per il pubblico piú specialistico sono inoltre previsti momenti dedicati, tra i quali un Simposio Internazionale che si terrà martedí 13 gennaio 2015 nel Museo, di fronte ai capolavori, alla presenza di grandi professionisti ed esperti. I risultati derivanti dalle analisi condotte sulle opere, durante il lungo percorso di ricerche preparatorie alla mostra, realizzate in collaborazione con l’Opificio delle Pietre Dure e Laboratori di Restauro di Firenze, saranno resi disponibili anche on line sul sito del Museo.

occasionale, ma poi con connotazioni piú sistematiche, soprattutto all’indomani delle requisizioni e delle soppressioni di chiese e conventi da parte del governo napoleonico, che favorirono la circolazione delle opere sul mercato. info tel. 055 2388612; unannoadarte.it Genova Arte Ottomana, 1450-1600. Natura e Astrazione: uno sguardo sulla Sublime Porta U Palazzo Nicolosio Lomellino fino al 14 dicembre

Gli ambienti cinquecenteschi affrescati da Bernardo

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Strozzi (XVII secolo) del primo piano nobile di Palazzo Lomellino – che celebra il suo 10° anniversario dall’apertura al pubblico – ospitano una selezione di opere rappresentative della produzione artistica ottomana: si tratta di

circa 70 oggetti, alcuni dei quali già noti al mondo accademico, altri poco conosciuti e in gran parte inediti, tra cui un Corano appartenuto a Maometto II, completo di dedica al sovrano e un importante Firmano, prestito del Museo di

Arte Islamica di Berlino. Sono inoltre presenti tappeti del XV e XVI secolo, ceramiche policrome di Iznik – fra le produzioni fittili piú fantasiose ed eleganti nell’intero panorama ceramico islamico –, nonché esempi significativi della produzione tessile ottomana, come sete, velluti e broccati in oro e argento. Infine una piccola ma pregiata selezione di armi da difesa, con elmi e testiere da cavallo, marchiati con l’emblema dell’armeria imperiale turca di Sant’Irene, che ricordano la grande potenza militare della Turchia ottomana di quel periodo.

info Associazione Palazzo Lomellino, tel. 393 8246228

berlino I vichinghi U Martin Gropius Bau fino al 4 gennaio 2015

Presentata a Copenaghen e poi a Londra, fa tappa a Berlino una delle piú ricche esposizioni sulla storia dei navigatori scandinavi. Tra gli obiettivi della rassegna, vi è quello di presentare un volto «internazionale» della cultura vichinga ritenuta in passato, erroneamente, come un sistema chiuso di valori e usanze che riflettevano la posizione di isolamento della penisola scandinava.

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agenda del mese Oltre a oggetti d’arte e manufatti artigianali di notevole pregio, la mostra propone la ricostruzione integrale della piú grande nave vichinga a oggi nota. Si tratta dell’imbarcazione scoperta nel 1997 a Roskilde, in Danimarca, e databile agli inizi dell’XI secolo: un legno possente, che misurava 37 m di lunghezza, 4 di larghezza, aveva circa 80 remi e poteva trasportare un centinaio di guerrieri. info smb.museum

sorgere la Città Proibita; i confini del Paese assunsero il tracciato che, grosso modo, tuttora conservano; una nuova classe di funzionari statali si sostituí ai comandanti militari nelle gerarchie di governo; il ruolo stesso dell’imperatore subí un mutamento significativo, facendo del sovrano una sorta di icona; e, infine, venne dato un impulso decisivo alla centralizzazione dell’autorità. info britishmuseum.org

Londra

ravenna

Ming: 50 anni che hanno cambiato la Cina U The British Museum fino al 4 gennaio 2015

IMPERIITURO. Renovatio Imperii. Ravenna nell’Europa Ottoniana U Museo TAMO e Biblioteca Classense fino al 6 gennaio 2015

Nelle nuove gallerie dell’ala Sainsbury, il British Museum racconta una fase cruciale della storia cinese. Nel periodo compreso tra il 1400 e il 1450, sotto la dinastia Ming, l’impero visse infatti una stagione di grandi trasformazioni, fino ad affermarsi come una sorta di superpotenza: Pechino divenne capitale e vide

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1200 anni fa, il 28 gennaio 814, moriva Carlo Magno, che concepí una forma di unità europea attraverso il Sacro Romano Impero, nel tentativo di restaurare l’antica grandezza di Roma. Un progetto politico che, tuttavia, fu presto minato da divisioni interne, destinate a protrarsi per secoli. Sul tema della Renovatio Imperii, cioè appunto la trasmissione dell’idea imperiale, è stata organizzata una mostra didattica, che ha per fulcro Ravenna ed è ospitata nelle due sedi del museo TAMO e della Biblioteca Classense, articolandosi in diverse sezioni. «Carlo Magno e l’Italia, Gli Ottoni, Ravenna e l’Italia. Il ruolo della tradizione

mostra è costruita con prestiti importanti, anche se numericamente limitati per le esigenze dello spazio espositivo, scelti per raccontare una vicenda artistica che ha lasciato una testimonianza di grande rilievo nel patrimonio storico e artistico di San Gimignano. info tel. 0577 286300; sangimignanomusei.it prato

classica e la circolazione dei modelli in epoca ottoniana a TAMO», illustra il ruolo di Ravenna come punto di riferimento culturale per Carlo Magno nella sua impresa di trasformare Aquisgrana nella Roma secunda e poi per gli Ottoni, come dimostra il sito archeologico di S. Severo a Classe. Alla Biblioteca Classense, con il titolo «Da Carlo Magno agli Ottoni, testimonianze documentarie, storiografiche, iconografiche», attorniate dalle immagini dei rappresentanti imperiali di età ottoniana – giunteci attraverso grandi esempi di miniatura provenienti dalle biblioteche d’Europa –, si espongono nell’Aula Magna del monastero camaldolese, importanti documenti

della politica degli Ottoni a Ravenna. info Museo TAMO: tel. 0544 213371, www.ravennantica.it; Biblioteca Classense: tel. 0544 482116, e-mail: segreteriaclas@ classense.ra San Gimignano Pintoricchio. La Pala dell’Assunta di San Gimignano e gli anni senesi U Palazzo Comunale, Pinacoteca fino al 6 gennaio 2015

Con questa iniziativa prende avvio un piú ampio progetto che, con cadenza annuale, intende proporre un approfondimento critico e storico intorno ai capolavori e ai maestri presenti nelle collezioni civiche. Come questa che ora si apre su Pintoricchio e quella che è in preparazione per il 2015 su Filippino Lippi e i suoi meravigliosi tondi, ogni

CAPOLAVORI CHE SI INCONTRANO. Bellini, Caravaggio, Tiepolo e i maestri della pittura toscana e veneta nella Collezione Banca Popolare di Vicenza U Museo di Palazzo Pretorio fino al 6 gennaio 2015

La nuova esposizione allestita nelle sale del museo pratese offre l’occasione di vedere riunite le piú importanti opere d’arte provenienti dalla collezione della Banca Popolare di Vicenza, alcune delle quali mai esposte finora al grande pubblico, proponendo un ampio panorama dell’arte toscana e veneta tra il XV e il XVIII secolo. Riunite e ordinate nelle quattro sezioni della mostra, 86 opere, tra tavole e tele, sono messe a confronto a partire dai soggetti in esse contenute, consentendo di recuperare affinità e rimandi, e di avvicinare, nella lettura iconografica, dipinti di differente scuola e di diversa epoca e origine. Tra gli altri, si possono ammirare capolavori come la Crocifissione novembre

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di Giovanni Bellini, la Coronazione di Spine del Caravaggio, la Madonna col Bambino e San Giovannino di Jacopo Bassano, la Madonna col Bambino di Filippo Lippi, il Ritratto di Ferdinando de’ Medici di Santi di Tito e il Ritratto del Doge Nicolò da Ponte del Tintoretto. info tel. 0574 19349961; palazzopretorio.prato.it, capolavori chesiincontrano.it

Padova VERONESE E PADOVA. l’artista, la committenza e la sua fortuna U Musei Civici agli Eremitani fino all’11 gennaio 2015

Il cromatismo limpido e armonioso, gli audaci impianti architettonici, la forza scenografica delle composizioni, perfino l’intensa drammaticità nei soggetti sacri dell’ultimo periodo: quella di Paolo Veronese è stata una pittura potente e di straordinaria forza comunicativa, capace di influire sulla produzione artistica di tanti contemporanei e d’intere generazioni d’artisti, ovunque egli sia stato chiamato a operare. Fu cosí anche a Padova, città con la quale Veronese ebbe intensi rapporti a partire dal 1556, apportando nuova linfa alla civiltà figurativa locale. La mostra prende le mosse proprio dai capolavori di Paolo Veronese conservati a Padova, riuniti per l’occasione nelle sale dei Musei Civici agli

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Eremitani, con la sola eccezione dell’inamovibile Pala di Santa Giustina. Nell’insieme, si possono ammirare circa cinquanta dipinti e una quarantina di stampe tratte dai lavori del pittore. info padovacultura. padovanet.it castelfranco veneto Villa Soranzo. Una storia dimenticata U Museo Casa Giorgione fino all’11 gennaio 2015

Un fil rouge sottile ma intrigante lega Giorgione e Paolo Veronese, due dei protagonisti del Rinascimento: un filo fatto di patrizi veneti amanti dell arte – i Soranzo – di decorazioni pittoriche d’interni, di vita in villa, di temi profani e mitologici e – infine – di giovani, giovanissimi pittori, alla ribalta della scena artistica veneziana nella prima metà del Cinquecento. Un filo rievocato anche

in questa mostra, a cui fa da corollario un itinerario in tema dedicato al «Trionfo della decorazione in Villa», che conduce a Villa Maser, Villa Emo e Villa Corner Chiminelli. Al centro del percorso vi sono le vicende degli affreschi realizzati da Paolo Veronese, sul volgere degli anni Quaranta del Cinquecento, nella dimora progettata da Michele Sanmicheli e costruita, poco dopo il 1540, a Treville di Castelfranco Veneto per il patrizio veneziano Piero Soranzo. info tel 0423 735626; e-mail: info@ museocasagiorgione.it REGGIO EMILIA L’ORLANDO FURIOSO: INCANTAMENTI, PASSIONI E FOLLIE. L’ARTE CONTEMPORANEA LEGGE L’ARIOSTO U Palazzo Magnani fino all’11 gennaio 2015

I personaggi de L’Orlando Furioso, le imprese di valorosi cavalieri, la passione

per Angelica che diverrà poi follia d’amore rivivono in una rassegna che legge e reinterpreta in chiave contemporanea l’immaginario ariostesco, carico di suggestioni e connessioni di evidente attualità. L’esposizione rivisita la fortuna dell’Ariosto nel passato, partendo dalla preziosa collezione delle edizioni del Furioso di proprietà della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, e propone le suggestioni esercitate dalla sua figura e dall’atmosfera, e soprattutto da specifici episodi del poema su alcuni tra i più importanti artisti contemporanei, italiani e stranieri. info palazzomagnani.it Rancate (Mendrisio) DONI D’AMORE. Donne e rituali nel Rinascimento U Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, fino all’11 gennaio 2015

Protagonisti dell’esposizione sono i preziosi oggetti che, tra il XIV e il XVI secolo, venivano offerti alla donna per celebrare il fidanzamento, il matrimonio e la nascita di un erede. In queste occasioni la cultura del tempo conferiva alla figura femminile un ruolo fondamentale che le famiglie abbienti festeggiavano con fastose cerimonie e commissionando pregiati manufatti da offrirle in dono. Articolata in tre sezioni, la mostra propone dunque i regali

destinati alla donna: dal cofanetto contenente piccoli oggetti in avorio e costose cinture, che il futuro sposo inviava alla giovane per suggellare il fidanzamento, ai gioielli e alle suppellettili, offerte dal marito e dal suo parentado o portate in dote dalla sposa il giorno delle nozze, fino a comprendere un desco da parto e stoviglie in maiolica, utilizzati per servire alla puerpera il primo pasto rinvigorente dopo le fatiche, e lo scampato pericolo, del parto. Tra i regali nuziali figurano anche cassoni e fronti di cassoni dipinti – nei quali si riponeva il corredo –, esibiti durante il corteo che dalla dimora natale scortava la sposa a quella del marito. info tel. +41 (0)91 8164791; www.ti.ch/ zuest; e-mail: decspinacoteca.zuest@ti.ch fabriano Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento U Pinacoteca Civica «Bruno Molajoli», S. Agostino-Cappelle Giottesche, S. DomenicoCappella di S. Orsola e Sala Capitolare, cattedrale di S. Venanzio-Cappelle di S. Lorenzo e della Santa Croce fino al 18 gennaio 2015 (prorogata)

Dipinti, pale d’altare, tavole, affreschi staccati, sculture, oreficerie, miniature, manoscritti, codici – in tutto, oltre 100 opere, descrivono il contesto culturale in cui si

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agenda del mese

inscrive il progetto espositivo. Consolidatosi il potere longobardo su Fabriano, l’egemonia culturale dell’Umbria vide la sua affermazione nel corso del Trecento, sia dal punto di vista artistico che sotto il profilo dei valori spirituali. La vicinanza con Assisi e i ripetuti soggiorni di san Francesco contribuirono ad animare una vivace realtà di fede che si avvalse della pittura come di un efficace strumento propagandistico ed educativo. L’obiettivo dell’operazione è quello di ritessere la trama di questo complesso periodo, ricco di testimonianze affascinanti, ma note solo o soprattutto agli studiosi e agli appassionati d’arte, al fine di permettere, pur con un approccio di approfondimento, un’ampia divulgazione

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rivolta a un «pubblico» piú vasto ed eterogeneo. Del percorso espositivo fanno parte alcuni capolavori di Gentile, come la Crocefissione del polittico proveniente da Valleromita di Fabriano, ora nella Pinacoteca di Brera, o la raffinata Madonna dell’Umiltà del Museo Nazionale di San Matteo di Pisa. info mostrafabriano.it genova Turcherie. Suggestioni dell’arte ottomana a Genova U Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco fino al 18 gennaio 2015

La mostra presenta un nutrito gruppo di ceramiche liguri del XVI, XVII e XVIII secolo, di collezioni pubbliche e private, che costituiscono una testimonianza importante dei rapporti che continuano a intercorrere tra la

Repubblica di Genova e l’impero ottomano in epoca moderna. Malgrado la perdita delle colonie e una certa contrazione delle attività commerciali intorno alla fine del XV secolo, in Liguria i prodotti dell’arte ottomana sono ben conosciuti ed esercitano un fascino indiscutibile, come rivelano i decori della maiolica di produzione locale. Oltre ai molteplici motivi mutuati dalla splendida ceramica ottomana di Iznik, innumerevoli figure di Turchi popolano il vasellame destinato alle dimore aristocratiche genovesi, alludendo a una realtà in cui Genova e Istanbul erano unite da un filo continuo di commerci, ambascerie, rapporti politici e diplomatici. Un flusso ininterrotto di merci, ma anche e soprattutto di cultura, di opere d’arte, di linguaggi, di immagini che hanno contribuito in modo determinante a costruire la realtà odierna. info tel. 010 5572193; e-mail: museidistradanuova@ comune.genova.it; museidigenova.it parigi Il Marocco medievale. Un impero dall’Africa alla Spagna U Museo del Louvre, Hall Napoléon fino al 19 gennaio 2015

Inserita in una piú ampia serie di eventi dedicati al Paese nordafricano (e che coinvolgono il Musée

Eugène Delacroix e l’Institut du monde arabe), la mostra rilegge la storia del Marocco tra l’XI e il XV secolo, un periodo di straordinaria fioritura dell’Occidente islamico. Il succedersi degli Almoravidi, degli Almohadi e dei Merinidi sancisce l’unificazione di uno spazio politico e culturale che ha nel Marocco il suo centro nevralgico e raggruppa un areale compreso fra l’Africa subsahariana e l’Andalusia. L’influenza di questi imperi, sotto i quali i confini dell’Occidente islamico vengono unificati per la prima volta, fu assai forte e si fece sentire fino all’Oriente. Per l’esposizione nella Hall Napoléon del museo parigino sono state selezionate poco meno di 300 opere, attraverso le quali si possono ammirare testimonianze significative dell’arte e dell’artigianato artistico: dalle decorazioni architettoniche alla produzione dei tessuti, dalla ceramica alla calligrafia. info louvre.fr

San Secondo di Pinerolo (To) San Sebastiano. Bellezza e integrità nell’arte fra Quattro e Seicento U Castello di Miradolo fino all’8 marzo 2015

Quella al Castello di Miradolo è la prima mostra di grande rilievo storico-artistico interamente dedicata a san Sebastiano. Giovane soldato convertitosi al cristianesimo, Sebastiano fu condannato a morte da Diocleziano, ma nulla poterono le frecce: esse trafissero il suo corpo, ma non scalfirono la sua bellezza, la sua fede, la sua integrità fisica e morale. La purezza dell’anima e l’incrollabile fede si specchiano nella sublime bellezza del giovane corpo di Sebastiano, che rimanda a quello dell’Apollo pagano, ma che nella figura del martire si riveste di sacralità e di una luce di eternità. È proprio l’aurea di bellezza e intimo splendore che avvolge il corpo virile e nudo di Sebastiano ad aver catturato l’attenzione di tutti i piú grandi artisti, dal Rinascimento ai giorni nostri, che nel desiderio di sperimentare nuove accezioni del nudo maschile, partendo dai canoni classici, si sono cimentati nella raffigurazione del santo. In tal senso la storia dell’arte gli è debitrice di capolavori assoluti, declinati in un perfetto accordo tra fede, devozione, spiritualità e novembre

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Appuntamenti

raffigurazione. info tel. 0121 376545; fondazionecosso.it milano Bramante a Milano. Le arti in Lombardia 1477-1499 U Pinacoteca di Brera, fino al 22 marzo 2015 (dal 3 dicembre)

A cinquecento anni dalla morte, Donato Bramante (1443/44-1514) viene celebrato con una mostra che nel tratteggiarne la poliedrica personalità («cosmografo, poeta volgare, et pittore valente… et gran prospettivo», lo dice fra’ Sabba da Castiglione) ricostruisce il suo lungo soggiorno in Lombardia e a Milano (almeno dal 1477 fino al 1499), e l’impatto che la sua opera ha avuto sugli artisti lombardi. Spirito inquieto e ingegnoso, Donato Bramante si è sicuramente educato alla corte dei Montefeltro a Urbino, dove è stato in contatto

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con gli architetti, gli scultori e i pittori attivi per il duca Federico. Piero della Francesca deve avere giocato un ruolo fondamentale nella sua formazione ma, rispetto all’impegno speculativo del pittore di San Sepolcro, in Donato ha prevalso un’attitudine pragmatica, una predisposizione a essere «risoluto, presto e bonissimo inventore» (Vasari), da cui sono scaturite realizzazioni celeberrime, che hanno profondamente rinnovato il linguaggio architettonico in Italia tra Quattro e Cinquecento. info tel. 02 72263.264 o 229; e-mail: sbsae-mi. brera@beniculturali.it; brera.beniculturali.it; prenotazioni tel. 02 92800361; pinacotecabrera.net

Gambettola (FC) Dalla fattoria al Palazzone. Storie di Gambettola U Biblioteca Comunale fino al 3 maggio 2015

La costruzione di un parcheggio nella cittadina romagnola ha recentemente portato alla scoperta dei resti di un’antica fattoria costruita alla metà del Quattrocento, raro caso di edificio rurale di età rinascimentale. Dal suo scavo nasce questa mostra che espone ceramiche cinquecentesche, rinvenute perlopiú in una piccola cisterna utilizzata prima per la raccolta dell’acqua piovana e poi come discarica. Piatti, ciotole e boccali facevano parte del servizio da tavola mentre le pentole e i coperchi in ceramica grezza erano usati in cucina per la cottura e preparazione dei cibi. Le porcellane da mensa hanno decori brillanti di colore giallo/ arancio e azzurro/blu, con fogliame su fondo berettino o repertori di candelabri e robbiane. info tel. 0547 45338; e-mail: biblioteca@comune. gambettola.fc.it

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SALONE DELL’ARTE E DEL RESTAURO IV edizione U Fortezza da Basso, Padiglione Cavaniglia 13, 14 e15 novembre

Esposizione straordinaria di tre profeti di Donatello U Battistero di S. Giovanni fino al 30 novembre

La consapevolezza che la tutela del patrimonio culturale rappresenti un impegno prima di tutto sociale, pone al centro dell’attenzione le problematiche relative alle esigenze di conservazione dei beni culturali, costantemente esposti al degrado: il Salone dell’Arte e del Restauro di Firenze intende fornire risposte concrete alle domande che emergeranno da tale scenario. Ciò avverrà attraverso la conferma di presenze autorevoli e nuove sinergie. In particolare, si rinnova la collaborazione con la Fondazione Friends of Florence, grazie a cui viene proposta la II edizione del Premio «Friends of FlorenceSalone dell’Arte e del Restauro» per interventi di restauro, tutela e conservazione di beni culturali fiorentini. info tel 055 217940; e-mail info@ salonerestaurofirenze.org; salonerestaurofirenze.org

Il Battistero fiorentino ospita eccezionalmente tre grandi sculture di Donatello: il Profeta imberbe, il Profeta barbuto o pensieroso e il Profeta Geremia, scolpiti nel marmo dal maestro tra il 1415 e il 1436, e facenti parte delle sedici figure commissionate a piú artisti dall’Opera di S. Maria del Fiore per ornare il Campanile di Giotto tra il 1330 e il 1430. L’esposizione delle tre statue è resa possibile dalla temporanea chiusura del Museo dell’Opera del Duomo, dove le sculture sono conservate, che riaprirà al pubblico nell’autunno 2015 rinnovato e raddoppiato negli spazi espositivi. L’Imberbe è visibile per la prima volta dopo il restauro, condotto dalla Bottega di restauro dell’Opera, attiva dal 1296, che è intervenuta anche su altri due Profeti di Donatello: il Barbuto (o Pensieroso) e Abramo con Isacco. info operaduomo.firenze.it siena Mercato nel Campo U Piazza del Campo 6 e 7 dicembre

Ispirato quest’anno al tema di EXPO 2015 «Feeding the planet/ Nutrire il pianeta,

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agenda del mese energia alla vita», torna il Mercato nel Campo, un tuffo nel Trecento tra storia ed eccellenze enogastronomiche e artigianali. Per il ponte dell’Immacolata, in piazza del Campo verrà rievocato il «mercato grande» medievale, con 140 banchi che proporranno i migliori prodotti della tradizione senese e tipicità provenienti dall’Italia e dall’Europa, disposti seguendo le indicazioni date nel XIV secolo dalle autorità comunali, con lo stesso allineamento, la distinzione nelle due grandi aree di vendita alimentare e merceologica e il raggruppamento per categorie categorie. I prodotti saranno

esposti su banchi ispirati a quelli del passato, pronti a svelare un universo di sapori, profumi, bellezza e tipicità, nel segno dell’eccellenza che da sempre fa di Siena una vera e propria «città del gusto». info Facebook: «SienaMercato nel Campo»; Twitter: @ mercatonelcampo

Bassano del Grappa Matilde di Canossa. La «gran contessa» e del suo tempo U Istituto Scalabrini

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fino al

21 marzo 2015

Il Centro Studi Medievali Ponzio di Cluny ha dato il via al suo XVII ciclo di incontri. Ecco il calendario dei prossimi appuntamenti: 8 novembre, Matilde di Canossa, quanti miti... Un po’ di rispetto per favore! (Glauco Maria Cantarella); 22 novembre, I Canossa nella Marca di Tuscia (Andrea Puglia); 13 dicembre, Cultura e filosofia al tempo di Matilde (Alfredo Gatto); 10 gennaio 2015, Il ruolo delle vie di comunicazione nel «successo»matildico (Roberto Ottolini); 24 gennaio, San Benedetto Po: un monastero matildico (Angelo Chemin); 7 febbraio, La donazione di Matilde: documenti di carta e documenti di pietra (Enrico Dumas); 21 febbraio, Matilde com’era: nella vita privata, nelle amicizie,nella politica, nelle sue piú intime aspirazioni religiose (Paolo Golinelli); 7 marzo, La cosiddetta «architettura matildica»: viaggio alla ricerca di una comune identità nel nome di Matilde (Danilo Morini); 21 marzo, «Alla

appuntamenti • Medioevo in libreria, XIII Edizione: «Fede e devozione nel Medioevo» U Milano – Civico Museo Archeologico di Milano, Sala Conferenze

fino all’11 aprile 2015 info tel. 02 45329840; e-mail: info@ italiamedievale.org; italiamedievale.org; medioevoinlibreria.blogspot.it/

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edicata al tema della «Fede e devozione nel Medioevo», la XIII edizione di «Medioevo in Libreria» propone, com’è ormai consuetudine la formula che prevede visite guidate al mattino, proiezioni video e conferenze al pomeriggio. Le visite guidate svelano le meraviglie medievali di Milano, sviluppando un percorso volto a riscoprire il rapporto tra i Milanesi e i loro santi, selezionando e trattando singolarmente alcune chiese della città: partendo da qualche nota biografica e iconografica, e non disdegnando l’ausilio dell’agiografia, si entra di volta in volta in questi luoghi sacri per scoprirne le bellezze architettoniche e artistiche e svelando anche qualche mistero tra sacro e profano. La durata prevista per ogni visita varia da un minimo di 45 minuti circa a un massimo di circa 2 ore. Ogni incontro pomeridiano ha luogo, con inizio alle ore 15,30, presso la Sala Conferenze del Civico Museo Archeologico di Milano (ingresso da via Nirone, 7) e si apre con la proiezione del documentario Medioevo Movie. Viaggio nel Medioevo filmato (a cura di Italia Medievale), al quale fanno seguito le conferenze. 15 novembre 2014. Ore 11,00: visita guidata all’abbazia di S. Maria Rossa, a cura di Maurizio Calí. Ore 16,00: Marco Meschini, Università della Svizzera Italiana, Dalla parte di Dio. Bernardo di Chiaravalle e i Cistercensi. 13 dicembre 2014. Ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Sepolcro, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16.00: Marina Montesano, Università di Messina: La cristianizzazione dell’Italia nel Medioevo. 17 gennaio 2015. Ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Maria del Carmine, a cura di Maurizio Calí. Ore 16,00: Maria Pia Alberzoni, Università Cattolica di Milano: Francesco d’Assisi e la Chiesa di Roma. 14 febbraio 2015. Ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Maria Incoronata e Biblioteca Umanistica, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Marina Benedetti, Università degli Studi, Milano: I margini dell’eresia. 14 marzo 2015. Ore 11,00: visita guidata a S. Pietro in Gessate, a cura di Maurizio Calí. Ore 16,00: Laura Fenelli, Kunsthistorisches Institut di Firenze: Dall’eremo alla stalla. Storia di Sant’Antonio Abate e del suo culto. 11 aprile 2015. Ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Cristoforo, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Luigi Canetti, Università di Bologna: Devozione e ornamento nella religiosità medievale. sapiente, nettarea Matilde»: comunicazione letteraria e rappresentazione principesca di Matilde di Canossa (Eugenio Riversi). info tel. 0444 1801049; e-mail: info@ ponziodicluny.it, segreteria@ponziodicluny. it; ponziodicluny.it novembre

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misteri l’ultima thule

Banchi di ghiaccio nei pressi delle Thule Meridionali, in Antartide. Il piccolo arcipelago, composto da tre isole, fu cosí battezzato da James Cook, che lo individuò nel 1775, perché ritenuto simile alla favolosa Ultima Thule, considerata come terra posta ai confini del mondo.

ghiaccio fuoco

di Francesco Colotta

Tra il e il

Nel cuore del Grande Nord, ai limiti del mondo conosciuto, si trovava un’isola straordinaria, dove il clima era gelido ma il sole splendeva per mesi... Cosí Pitea di Massalia, navigatore greco del IV secolo a.C., all’indomani di un viaggio lungo e avventuroso, descrisse Thule. A molti sembrò solo una fantasia e, per lunghi secoli, il mito di quella terra estrema continuò a essere alimentato da scienziati, poeti e artisti, che si cimentarono in variegati e spesso bizzarri tentativi di identificazione... 30

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in dall’antichità poeti, navigatori e geografi si sono gettati alla ricerca di una terra posta all’estremo Nord del continente europeo della quale si raccontavano mirabilie e non solo di carattere climatico. Un’isola misteriosa, chiamata Thule, dove il sole non tramontava mai, un luogo che compariva nelle mappe e nelle opere letterarie per, poi, svanire nel momento in cui qualcuno davvero si avventurava a cercarlo. Nel tempo, l’enigma si trasformò in mito, al di là della reale esistenza di una terra che portasse quel nome. A partire dal Medioevo, in seguito, sull’onda delle leg-

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gende, l’isola divenne sinonimo di viaggio ai confini del mondo, superati i quali si accedeva a una dimensione sovrannaturale. Solo in età moderna e contemporanea si diffuse, invece, la tradizione di Thule come polo d’origine della civiltà occidentale, una tesi che forní basi teoriche a diverse correnti ideologiche gravitanti nell’area del pangermanesimo.

L’impresa di Pitea

Le prime, frammentarie informazioni su Thule si devono al navigatore e scrittore greco Pitea di Massalia, vissuto nel IV secolo a.C., il quale si sarebbe avventurato a

latitudini estreme per esigenze di natura commerciale. Si ipotizzò, infatti, che egli fosse stato inviato in missione dalla sua città natale (l’odierna Marsiglia) per stabilire rapporti diretti con le miniere della Cornovaglia, aggirando il monopolio cartaginese sui commerci oceanici. Appare però piú probabile che il suo fosse invece un vero e proprio viaggio di esplorazione a scopo scientifico. Dopo aver raggiunto la Scozia, si spinse ancora piú a nord e, dopo sei giorni di navigazione, approdò su un’isola, che battezzò, appunto, «Thule». Al rientro, stilò un resoconto particolareggiato del viaggio

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misteri l’ultima thule A sinistra mappa di alcune delle terre bagnate dal Mare del Nord (indicato come Oceanus Germanicus), nella quale compare anche l’isola di Thule (evidenziata dalla cornice), secondo la descrizione del navigatore e scrittore greco Pitea di Massalia. Londra, British Museum.

e lo inserí nell’opera Sull’Oceano, in larga parte perduta in seguito a uno degli incendi che colpirono la biblioteca di Alessandria, dov’era conservata. Molti dettagli su quella missione boreale sono tratti, pertanto, da rielaborazioni successive operate da scrittori greci e latini. Ma che cosa aveva visto Pitea in quello sperduto avamposto settentrionale? Il navigatore era rimasto colpito non solo dal «prodigio» della luce perenne estiva, ma anche dalla fertilità del suolo e da un suggestivo fenomeno in base al quale cielo, terra e mare sembravano fondersi, rendendo impossibile la navigazione. All’epoca quella curiosa manifestazione naturale venne definita

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«polmone marino» e, presumibilmente, era prodotta dall’effetto della nebbia che, di solito, si condensa sui blocchi di ghiaccio nel periodo estivo. Seguendo un filone ancor piú mirabolante, un altro autore greco, Ecateo di Abdera, definí Thule la terra degli Iperborei, una leggendaria popolazione nordica semi-divina prediletta da Apollo (vedi box a p. 58).

I dubbi di Strabone

Piú di uno storiografo mise in dubbio le fiabesche descrizioni su Thule, relegandole nella categoria delle fantasie letterarie. Strabone, il «padre» della geografia (64-63 a.C.-20 d.C. circa), evidenziò una palese

anomalia nelle affermazioni di Pitea: nessuno dei visitatori delle terre settentrionali aveva mai nominato la fantomatica isola nei propri resoconti e per questo definí il navigatore «un mentitore». La presunta ricchezza del suolo in un territorio dal clima gelido, inoltre, appariva poco credibile, anche basandosi unicamente sulle scarse conoscenze geografiche degli antichi. In realtà lo scetticismo di Strabone derivava anche da una sorta di pregiudizio culturale, che tendeva a non riconoscere ai territori lontani dal Mediterraneo un sufficiente grado di sviluppo e di civiltà. Le tesi politiche sul Nord «barbaro e rozzo» prevalevano sulle scarne considerazioni geologiche, in virtú delle quali risultava impossibile sopravvivere alla latitudine piú estrema, all’epoca chiamata «settimo clima». La disputa sull’introvabile Thule – che secondo lo scandinavista Luigi De Anna rappresentò la prima polemica sorta su una scoperta geografica in assoluto – coinvolse altri prestigiosi scrittori dell’età antica come Eratostene, Plinio il Vecchio, Tacito e Polibio. Una polemica simile a quella esplosa qualche secolo piú tardi, dopo il viaggio oltreoceano di Cristoforo Colombo. In compenso, gli studi piú recenti hanno dimostrato l’attendibilità del racconto di Pitea e le sue osservazioni: in particolare, quelle relative alle latitudini, alle maree e al Circolo polare artico (che forse fu il primo a determinare) sono state confermate dalle conoscenze attuali. Un altro grande protagonista della letteratura classica, Publio Virgilio Marone, forní un contributo alla soluzione di quello che allora era ritenuto un enigma, raffigurando l’isola come sinonimo di lontanovembre

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Particolare della Carta Marina di Olao Magno, con la rappresentazione dell’isola di Tile (in basso) a sud dell’Islanda. 1539. Uppsala, Universitetsbibliotek.

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misteri l’ultima thule

etimologie

Un nome mai scomparso L’etimologia di Thule sopravvive in diversi luoghi rintracciabili sulle cartine geografiche: nel nome della regione norvegese del Telemark o Thilemark, per esempio, in quello di una zona dello Jutland danese chiamata Thy o Thyland e in quello della città di Tula in Messico. Ma l’identificazione piú stretta tra il mito dell’isola nascosta e un luogo reale è avvenuta in Groenlandia. Una piccola città del nord della terra dei ghiacci è chiamata proprio Thule e rappresenta uno dei comuni piú a settentrione del mondo. È detta anche Qaanaaq (in lingua locale). Thule sono definiti anche i progenitori degli Inuit del Canada, una popolazione eschimese. Si stanziarono in Alaska nel 500, poi si trasferirono in parte in Canada nell’XI secolo e anche in Groenlandia nel XIII secolo. Proprio nell’odierna cittadina groenlandese di Thule furono trovati i primi resti archeologici di quell’antica cultura. In questa pagina manufatti riferibili alla cultura di Thule: amuleto in forma di pesce (in alto) e pettine in forma di figura femminile stilizzata decorata con motivi incisi (a sinistra), conservati entrambi nel

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Canadian Museum of History di Gatineau; in basso: figurine a fondo piatto con testa umana, ricavate da denti di mammiferi marini. 1100-1700. Anchorage, University of Alaska Museum.

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nanza: la chiamò «Ultima Thule», nel significato di terra estrema, frontiera invalicabile. In età classica questo limes si situò sempre all’interno dei confini del mondo, con indizi che potevano far pensare, di volta in volta, a diverse regioni dell’odierna Scandinavia o all’arcipelago scozzese.

Terra favolosa...

Alle soglie dell’età di Mezzo, accanto al dibattito sulla precisa collocazione dell’isola, fiorirono racconti allegorici che trasferivano le coordinate di Thule in una sfera puramente immaginifica. Nasceva la leggenda della «terra favolosa», di un regno destinato a restare una chimera e a nascondere valenze simboliche, come nei simili casi delle Isole Fortunate, dell’Avalon bretone e dell’introvabile patria del Prete Gianni. Questa rivoluzione interpretativa del mistero, che fino a quel momento era solo geografico, visse un preludio nel IV secolo, con il poema Descriptio orbis terrae di Rufo Festo Avieno: nei suoi versi la bellezza del sole di Mezzanotte di Thule si configura come metaforica fuga verso l’esotico in un’epoca di inesorabile decadenza del mondo latino.

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Incisioni raffiguranti un Inuit, visto frontalmente e di spalle, una donna e un bambino della stessa popolazione, e una scaramuccia tra Inglesi ed Eschimesi. Le illustrazioni documentano la spedizione di Martin Frobisher sull’isola di Baffin del 1577.

La ricerca di quel luogo nascosto, comunque, continuò e venne stimolata dall’accresciuto interesse sul mondo nordico generato dallo sviluppo di nuovi itinerari commerciali che collegavano il Mediterraneo al Mar Baltico. Nel VI secolo gli storici bizantini Procopio di Cesarea e Giordane identificarono l’antica Thule nella Scandinavia. Piú tardi i cronisti Adamo di Brema e Saxo Grammaticus avrebbero intravisto nell’isola il profilo dell’Islanda che, nel frattempo, era stata esplorata a fondo da un gruppo di coloni norvegesi. Proprio quest’ultima, con i

suoi contrasti geotermici tra ghiaccio e fuoco, appariva come un modello perfetto di «terra favolosa», in accordo con la tradizione letteraria che andava affermandosi.

...o simbolo religioso?

Tuttavia, nelle narrazioni medievali, dominavano perlopiú le suggestioni fantastiche, come risulta nelle pagine dell’Antonii Diogenis incredibilium de Thule insula – un racconto riportato dal patriarca bizantino Fozio nel IX secolo –, nel quale si delinea l’incantevole immagine del mare a nord dell’i-

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misteri l’ultima thule Piccolo atlante del mistero

Dall’Eldorado alla Cuccagna Molte sono le terre di cui mai fu accertata l’esistenza: dai luoghi biblici alle terre di Omero, dalle sette meraviglie al regno del Prete Gianni, e poi isole misteriose e continenti scomparsi... Le Isole Fortunate Fertilissime, furono associate alle Antille o alle Canarie. Vi risiedevano diversi eroi inviati dagli dèi greci. L’Eldorado Un luogo vanamente cercato nell’America centrale e meridionale, in cui si riteneva fossero ammassate quantità indicibili d’oro, nonché custodite antiche conoscenze esoteriche.

Atlantide La piú celebre delle terre nascoste, ricchissima di argento e metalli. Secondo la leggenda fu un potente regno, poi sommerso dal mare in un giorno e in una notte. Platone lo collocava oltre le «Colonne d’Ercole». Mu Mito corrispondente a quello atlantideo, ma ambientato sul Pacifico. In base alla tradizione il continente sorgeva tra le Hawaii e l’isola di Pasqua ed era descritto come una sorta di Giardino dell’Eden. lemuria Altro continente orientale scomparso situato nell’Oceano Indiano o nel Pacifico. Stimolò la fantasia di numerosi scrittori che lo ritenevano il luogo di nascita del genere umano, in origine composto da esseri immateriali. iperborea A volte identificata con Thule, era ritenuta dalla tradizione esoterica la terra primigenia della civiltà occidentale e i suoi abitanti venivano descritti come una razza trasparente.

avalon Il ciclo letterario legato a re Artú fece riferimento all’esistenza di un’isola nella Britannia occidentale dove, secondo alcune leggende, si rifugiò Giuseppe d’Arimatea dopo aver raccolto il sangue di Cristo in una coppa (il Graal). paese di cuccagna Di incerta collocazione. Il benessere, la pace e la felicità regnavano in questo introvabile luogo, evocato in molti testi fin dal Medioevo. terra australis Enorme continente, posto nell’estremo Sud del globo terrestre, che appariva in diverse mappe medievali. Il primo a citarlo fu Aristotele. agarthi Un altro luogo misterioso. Si trovava in Asia nelle profondità della terra. In questo regno sotterraneo si sarebbero rifugiate alcune semi-divinità insieme a «esseri illuminati» per preservare le loro conoscenze superiori.

A sinistra Rapa Nui (Isola di Pasqua). Uno dei sette moai di Ahu Nau Nau, le gigantesche sculture monolitiche antropomorfe erette tra l’VIII e il XVII sec., che rappresentano l’immagine piú caratteristica dell’isola.

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sola che conduceva nelle vicinanze della luna. In quel panorama fiabesco, illuminato da un chiarore accecante, i protagonisti dell’opera ammiravano ciò che «non si poteva neppure immaginare». Altri racconti, poi, evocavano simbolismi religiosi, facendo riferimento a una dimensione del tempo che appariva in tutta evidenza come sovrannaturale. L’arrivo del periodo in cui il sole non tramontava Nella pagina accanto, in alto manufatto votivo (tunjo) in oro di cultura Muisca con la cerimonia dell’El Dorado, durante la quale il nuovo sovrano, coperto di resina e polvere d’oro, navigava sul lago Guatavita e, dopo aver sparso oggetti d’oro, si gettava in acqua. La cerimonia ha forse ispirato il mito dell’Eldorado. 600-1600. Bogotà, Museo del Oro. In basso Il Paese di Cuccagna, olio su tavola di Pieter Brueghel il Vecchio. 1567. Monaco, Alte Pinakothek.

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era accolto come un segno divino, come il compimento di un rito che scongiurava profezie nefaste per un futuro prossimo.

Il mistero degli abitanti

Ma chi viveva su Thule? Oltre alla già citata tradizione relativa agli Iperborei, fu Procopio di Cesarea (500-565 d.C.) a dare una concreta dimensione antropologica alla leggenda. Descrivendo una terra somigliante alla penisola scandinava, lo storico bizantino riferí che gli abitanti professavano un culto di tipo solare e temevano di veder calare per sempre la notte sulla propria terra. Risultano invece ontraddittorie le testimonianze sul carattere della popolazione: secondo Procopio e Antonino Etico Istriano, i Thuliani erano aggressivi di natura; per Adamo di Brema, al contrario, avevano un’indole pacifica; mentre Ludovico Ariosto li definiva cristiani.

Non solo Ariosto, ma anche altri illustri letterati italiani dell’età di Mezzo citarono l’isola nelle loro opere: Brunetto Latini, che subí il fascino del suo suggestivo clima, e Francesco Petrarca, che la utilizzò come metafora poetica per esprimere la vastità di un sentimento. La vicenda di Thule, perciò, si rinnovava in quasi tutto l’Occidente medievale, facendo leva sul fascino dell’inconsueto e senza mai fornire precise coordinate di viaggio. Verso la fine del Medioevo, Thule tornò ad assumere i connotati acquisiti in epoca classica: un luogo ai confini del mondo, situato a latitudini estreme, ma concreto e, pur tuttavia, non irraggiungibile. Era il segno dei tempi, il sintomo del propagarsi di un’attrazione irresistibile per le esplorazioni che spingeva tanti navigatori all’avventura, con l’ambizione di conoscere le terre al di là dell’orizzonte, soprattutto

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misteri l’ultima thule quelle ritenute inaccessibili. La scoperta dell’America rese l’isola nordica un po’ meno lontana nelle mappe, privandola dell’aggettivo virgiliano di «ultima». Fu lo stesso Colombo a sottolinearlo, nella biografia scritta dal figlio Fernando, nella quale riferí di aver agevolmente raggiunto e oltrepassato Thule, in un periodo antecedente al 1492. Il testo, in realtà, cita due isole con quel nome, una piú a settentrione e l’altra, a sud, chiamata anche Frislandia, che compariva nelle mappe cinquecentesche a poca distanza dall’Islanda. Che Colombo abbia davvero visitato l’Islanda e le zone limitrofe non è provato, mentre sembra piú credibile un suo passaggio all’arcipelago scozzese delle Shetland. Nell’era delle esplorazioni, anche Thule divenne una terra «svelata», agibile, come aveva profetizzato molti anni prima Seneca nella Medea: «Nei secoli futuri – aveva scritto il filosofo - verrà il giorno in cui si scoprirà il grande segreto sepolto nell’oceano. E la potente isola sa-

rà ritrovata. Teti, di nuovo, svelerà questa contrada. E Thule, ormai, non sarà piú il paese ai confini del mondo». Seneca preannunciava, in questo modo, la scoperta di nuovi mondi, non riferendosi solo al caso specifico dell’isola di Pitea. Compiute quelle imprese non avrebbe avuto piú senso delimitare i limiti del globo terrestre con i luoghi estremi fissati degli antichi.

Il mito continua

Thule, comunque, non scomparve dall’inconscio collettivo dell’Occidente, né dalla geografia. Anche nel Rinascimento la sua fisionomia appariva sulle mappe sotto svariate

forme, in particolare nella celebre Carta Marina (1539) di Olao Magno, nella quale risultava collocata, con il nome di Tile, qualche miglio a sud-ovest dell’Islanda (vedi la foto a p. 33). Quasi piú nessun esploratore, però, si avventurava in mare a cercarla. Era il preludio del definitivo passaggio di Thule, da misteriosa isola boreale o ultima frontiera del mondo conosciuto, a territorio di esclusiva pertinenza del mito. I prodromi del fenomeno si manifestarono fin dal Seicento, in un periodo in cui gli stati del Nord Europa, in particolare i regni scandinavi, si stavano affermando sullo

Apollo vola su un cigno verso il paese degli Iperborei, frammento di piatto a figure rosse del pittore Eufronio, 520-470 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

gli iperborei

I «trasparenti» amati da Apollo L’antica leggenda sulla popolazione degli Iperborei è strettamente legata alla figura del dio greco Apollo. Incaricato da Zeus di recarsi a Delfi per introdurvi la giustizia e la poesia, decise di cambiare all’ultimo momento destinazione. E con il suo carro, guidato dai cigni, si diresse verso nord, nella terra degli Iperborei, posta tra l’Oceano e i monti Rifei. Si fermò nella loro isola per un anno, passato il quale decise di raggiungere finalmente Delfi, dove gli abitanti reclamavano da tempo la sua presenza. Il dio rimase sempre molto legato a quella popolazione nordica con la quale aveva convissuto a lungo ed era solito manifestarsi spesso al loro cospetto. L’essere prediletti da Apollo conferí agli Iperborei uno stato semi-divino, come riporta Erodoto, che li definiva «esseri trasparenti». Non conoscevano infelicità, malattie e guerre e la loro terra godeva di un clima sempre mite. Morivano solo per sazietà di vita e usavano gettarsi da una rupe a picco sul mare per porre fine ai loro giorni. La tradizione narra che nel loro regno vivevano due creature della mitologia, i Grifoni e gli Ippogrifi.

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Relazioni pericolose

Dall’esoterismo al razzismo Bevor Hitler kam (Prima che Hitler venisse) è il titolo di un libro pubblicato nel 1934 dal barone Rudolf Von Sebottendorff con il quale si intendeva dimostrare l’influenza della società segreta Thule Gesellschaft nella nascita e nell’ascesa del Partito nazionalsocialista. L’autore, appassionato di occultismo, era il capo dell’organizzazione, sorta nel 1910 e ispiratasi al mito della patria primigenia del popolo germanico, oltre che alle tesi razziste del monaco austriaco Lanz von Liebenfels. In realtà, la società si mostrò piú attiva sul piano politico che nelle pratiche esoteriche e si schierò in prima linea nelle lotte contro i governi bavaresi democratici e filo-comunisti insediatisi dopo la fine del primo conflitto mondiale. Il quartier generale della Thule era il lussuoso albergo «Vier Jahreszeiten» di Monaco, nel quale si tenevano le riunioni dei membri. Tra gli adepti figuravano i nomi di vari leader del nascente DAP (Deutsche Arbeiterpartei), il primo nucleo del Partito nazionalsocialista tedesco: Rudolf Hess, Karl Harrer, Dietrich Eckart, Anton Drexler, Alfred Rosenberg e Hans Frank. Il libro di Von Sebottendorff, uscito all’indomani della presa del potere di Hitler, non ebbe fortuna e, anzi, fu quasi subito sequestrato dalle autorità. La società Thule sopravvisse ancora qualche anno e fu poi sciolta. Stemma datato 1919 della Thule Gesellschaft, società segreta ispirata al mito della patria primigenia del popolo germanico.

Da leggere

scenario internazionale. L’exploit politico, in particolare quello della Svezia, fu affiancato da una letteratura celebrativa sulle origini delle genti nordiche, con l’intento di affermarne la superiorità culturale rispetto alle civiltà mediterranee. E un luogo leggendario, sperduto nell’Atlantico settentrionale, poteva diventare una patria ancestrale ideale, i cui fasti erano sopravvissuti all’oblio del tempo.

U Pitea di Massalia, L’Oceano, Istituti Editoriali e Poligrafici, Pisa 199 U Umberto Eco, Storia delle terre e dei luoghi leggendari, Bompiani, Milano 2013 U Jean Mabire, Thule. Il sole ritrovato degli Iperborei, L’Età dell’Acquario, Torino 2007 U Martino Menghi, L’utopia degli Iperborei, Iperborea, Milano 1998 U René Guénon, Il re del mondo, Adelphi, Milano 1995

Isola primordiale

Piú tardi, nel Sette-Ottocento, in pieno Romanticismo, il nome di Thule si impose come archetipo di un passato splendore per il quale si provava una struggente nostalgia. Il mito dell’isola primordiale si

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U Luigi G. De Anna, Thule. Le fonti e le tradizioni. Il Cerchio, Rimini 1998 U Giovanni Maria Rossi, Finis Terrae. Viaggio all’Ultima Thule con Pitea di

Marsiglia, Sellerio, Palermo 1995

diffuse perlopiú in Germania sotto l’influenza delle opere di Friedrich Gottlieb Klopstock (1724-1803), dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm (1785-1863 e 1786-1859) e di Clemens Brentano (1778-1842), in un clima culturale che vedeva l’affermarsi di radicali movimenti nazionalisti. Si teorizzava l’esistenza di un popolo primigenio (l’Urvolk), che aveva generato non solo la patria tedesca, ma anche l’intera civiltà europea.

Fu cosí che la misteriosa Thule venne eletta come uno dei luoghi d’origine delle genti germaniche e i suoi abitanti associati agli antichi Iperborei, detentori della sapienza originaria. Nel XX secolo al fascino leggendario dell’isola primordiale e degli Iperborei non furono insensibili alcune società segrete di ispirazione occultista, che, secondo alcune ipotesi, avrebbero contribuito in modo determinante all’affermazione del nazionalsocialismo. F

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battaglie morgarten

15 novembre 1315

Cosí nacque la Confederazione di Federico Canaccini

Alla testa dei suoi temibili cavalieri, Leopoldo I d’Asburgo sta attraversando la valle elvetica di Ägeri. All’improvviso, lo attacca un esercito di gran lunga inferiore, i cui uomini, Svizzeri dei cantoni di Uri e Schwyz, brandiscono picche, alabarde e armi di fortuna. In breve, le sorti dello scontro volgono in favore dei montanari e lo stesso duca austriaco si salva a stento...

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a zona delle cosiddette «Waldstätten» (Paesi forestali), le cittadine delle foreste svizzere situate allo sbocco della strada del San Gottardo, ha sempre rivestito una grande importanza sia strategica che economica. Già in epoca romana, lungo le vie principali delle aree alpine, nacquero o si espansero molte città: le tre maggiori erano Aventicum (Avenches), posta su un importante crocevia, Augusta Raurica (Augst, nei pressi di Basilea) sul Reno, e Colonia Julia Equestris (Nyon) sul Lago Lemano. Octodurum (Martigny) divenne via via un importante centro amministrativo e tappa obbligata per il passo del Gran San Bernardo, mentre Genava (Ginevra) si affermò come luogo di trasbordo delle merci dall’acqua alla terra.

Una cristianizzazione lenta

Nei territori alpini la dottrina cristiana si diffuse, sin dal IV secolo, con la creazione di varie diocesi, anche se la cristianizzazione di alcune aree fu a lungo rallentata dall’urto degli Alamanni e dalla loro successiva dominazione. E, infatti, l’esistenza del vescovado di Costanza e del monastero di San Gallo è attestata solo a partire dal VI-VII secolo. Di ciò si ha un riscontro anche nell’eredità linguistica, giacché solo le aree occupate dai Burgundi e dai Longobardi, rispettivamente a ovest e a sud, conservarono l’uso della lingua romanza.

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La battaglia di Morgarten in un’acquatinta di Johann Hürlimann. 1827 circa. Combattuto il 15 novembre 1315, lo scontro, tradizionalmente indicato come l’atto di nascita della Confederazione elvetica, vide la vittoria degli Svizzeri dei cantoni di Schwyz e Uri, guidati da Lothold, contro il potente esercito del duca Leopoldo I d’Asburgo.


battaglie morgarten Le prime attestazioni di impianti monastici sono riferibili a Romainmotier (450 circa) e Saint-Maurice d’Agaune (515). Nel corso del VI secolo furono stabilite, in modo quasi definitivo, le sedi episcopali a Sion, a Ginevra, ad Avenches e – dopo una prima fase a Losanna – dal 654 a Costanza. La ripartizione delle diocesi ricalcava sostanzialmente la suddivisione amministrativa dell’epoca della conquista romana, come risulta da un prezioso documento quale è la Notitia Galliarum (un testo contenente notizie di carattere amministrativo, cronachistico e di erudizione spicciola, n.d.r.).

Nel Sacro Romano Impero

Fra il VI e l’VIII secolo, mentre il regno burgundo veniva schiacciato, i territori alpini finivano nell’orbita dei Franchi. I sovrani carolingi ripristinarono le diocesi affidate in un primo momento a signori laici, creando unità territoriali con ampi margini di trasformazione, a seconda delle differenti spartizioni patrimoniali delle nobili famiglie a cui tali circoscrizioni venivano affidate. Infine, nel 1032, con Corrado II il Salico, l’intero territorio svizzero fu integrato nel Sacro Romano Impero. In questa fase i vescovi acquisirono ampi possedimenti e poteri di carattere politico, fiscale e giurisdizionale: al vescovo di Losanna, per esempio, toccò la contea del

A destra incisione raffigurante l’abbazia benedettina di Einsiedeln, nel cantone di Schwyz. In basso sigillo di Ludovico IV di Baviera, detto il Bavaro (1287-1347), raffigurante l’imperatore tra due aquile e con in mano il globo sormontato da una croce. XIV sec. Parigi, Centre Historique des archives Nationales.

Per i cantoni svizzeri, il regno degli Asburgo fu sempre un vicino ingombrante e minaccioso

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Vallese, mentre alcune abbazie, come San Gallo, divennero centri di veri e propri principati ecclesiastici il cui destino venne poi segnato soltanto dalla Riforma di Lutero, o addirittura dalla Rivoluzione Francese. Le rivendicazioni politiche non potevano dunque venire da questi centri di potere signorile ed ecclesiastico. Erano comunità rurali, ma anche urbane, quelle che segnarono la nascita della Confederazione svizzera, in un susseguirsi di alleanze, rivolte e richieste di autonomie dai poteri da cui piú volte erano schiacciate. I principali cantoni dell’area svizzera, Uri, Schwyz e Unterwalden, erano infatti sempre piú minacciati dalle pressioni e dalla crescente autorità degli Asburgo che, dopo la decapitazione di Corradino di Svevia (1268), avevano ri-

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novembre

vendicato il ducato e i suoi territori. Nel 1273, infatti, concluso il Grande Interregno (il periodo apertosi con la morte del re dei Romani Corrado IV, sopraggiunta nel 1254, n.d.r.), Rodolfo d’Asburgo riorganizzò i territori del regno di Germania, ripristinando il ducato svevo.

La storia si scrive sul prato

Per potenziare il controllo su questi nuovi territori, il nuovo re creò una rete di balivi e di amministratori locali, col fine di riscuotere le tasse e amministrare la giustizia in nome dell’impero. Alla morte di Rodolfo (15 luglio 1291), a cui succedette Adolfo di Nassau, i tre cantoni piú importanti decisero di sottoscrivere un’alleanza per evitare ulteriori ingerenze da parte del nuovo sovrano.

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battaglie morgarten Monumento commemorativo della battaglia

LA BATTAGLIA DI MORGARTEN

Lago di Ă„geri

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Cantone di Zugo Cantone di Schwyz fluh

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Fanteria degli Asburgo Cavalleria degli Asburgo Vie di fuga

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Il documento, vergato in latino e conservato al Museo dei Patti Federali di Schwyz, sarebbe stato redatto su un prato a Grütli (o Rütli): la tradizione vuole che sia stato firmato dai contraenti il 1° agosto del 1291, ma sull’atto non compare alcuna data precisa, e si possono leggere solo l’anno e la formula «incipiente mense Augusto».

Caccia all’uomo

Nel giugno del 1309 re Arrigo VII di Lussemburgo, futuro Imperatore del Sacro Romano Impero, confermò ai tre Paesi forestali l’immediatezza imperiale – precedentemente non riconosciuta dagli Asburgo – e li riuní in un baliaggio affidato al controllo del conte Werner von Homberg. Da allora però i rapporti tra gli Asburgo e i Paesi forestali, in particolare Schwyz, si deteriorarono. I duchi d’Austria cercarono infatti di conservare la propria signoria territoriale su Schwyz e Unterwalden. Nel 1308, inoltre, nei pressi di Königsfelden, era stato assassinato Alberto I d’Austria e la caccia all’uomo organizzata nella Svizzera centrale non fece che acuire il clima di tensione. Lo sfruttamento degli alpeggi e dei boschi era poi motivo di grande tensione tra l’abbazia di Einsiedeln, che ricadeva sotto l’influenza dagli Asburgo, e gli abitanti di Schwyz. Tali tensioni raggiunsero il culmine la notte dell’Epifania del 1314, quando gli Svittesi assediarono l’abbazia: era una evidente provocazione per suscitare una mossa da parte dei protettori austriaci del complesso benedettino. In questi stessi anni, inoltre, aspiravano al trono imperiale sia Ludovico, detto il Bavaro, che Federico, detto

la lunga strada per l’indipendenza I sec. a.C.-I sec. d.C. IV sec.-VII sec. VI sec.-VIII sec. 1032

1291 1315 1353 1383-84 1385 1386 1394 1476 1499 1648

C olonizzazione romana. Cristianizzazione dell’area svizzera I territori passano dai Burgundi ai Franchi. Le attuali regioni svizzere ricadono sotto il Sacro Romano Impero. Alleanza tra i cantoni di Uri, Schwyz e Unterwalden. Battaglia di Morgarten contro gli Asburgo d’Austria. Nuova alleanza comprendente otto membri. Berna vince la guerra di Burgdorf. Lega di Costanza. Battaglia di Sempach contro gli Asburgo d’Austria. Stipula di pace ventennale con l’Austria. Battaglia di Morat contro l’espansione borgognona. La Svizzera risulta indipendente dall’impero. Con il Trattato di Vestfalia viene riconosciuta alla Svizzera l’indipendenza.

Litografia ottocentesca realizzata per l’opera Guglielmo Tell di Gioacchino Rossini, raffigurante la scena del Giuramento dei tre Cantoni. Firmato, secondo la tradizione, il 1° agosto 1291 su un prato a Grütli (o Rütli), l’atto comportava l’alleanza tra i cantoni di Uri, Schwyz e Unterwalden contro le ingerenze imperiali e il domino degli Asburgo.

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battaglie morgarten Guglielmo Tell

L’arciere irriverente, ma infallibile Stando alla leggenda, Guglielmo Tell sarebbe nato e vissuto a Bürglen, nel cantone di Uri, ai piedi del massiccio del San Gottardo. Gli storici

Altdorf (cantone di Uri). Il monumento in onore di Gugliemo Tell, opera dello scultore Richard Kissling. 1895.

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ancora non sono riusciti a dimostrare se quanto viene narrato su di lui sia frutto della leggenda oppure realtà. Una storia analoga, si ritrova, in effetti, in una cronaca del 1200, redatta dal danese Saxo Grammaticus, e alcuni studiosi ritengono che la leggenda sia nata in Danimarca tra il X e l’XI secolo.

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Se l’episodio della freccia e della mela, divenuto appannaggio della storia svizzera, è frutto della fantasia, risulta invece reale lo sfondo storico dell’avvenimento. Il 18 novembre del 1307, Guglielmo si sarebbe recato nel capoluogo regionale, Altdorf. Mentre attraversava la piazza principale, Tell non avrebbe rivolto il formale saluto al cappello imperiale fatto issare in cima a un’asta, alcuni mesi prima, dal balivo Gessler, l’amministratore locale inviato dagli Asburgo per amministrare la giustizia e riscuotere le tasse. Era stato imposto che il copricapo, simbolo dell’autorità imperiale, dovesse essere riverito da chiunque passasse; coloro che avessero infatti contravvenuto al rito, avrebbero rischiato la confisca dei beni o addirittura la morte. Certamente l’episodio è un’esagerazione, che vuole simboleggiare da un lato la tirannia degli Asburgo – impersonata dal balivo crudele – e, dall’altro, l’anelito di libertà, incarnato da Guglielmo, eroe semplice ma fiero. Tell non avrebbe reso omaggio al cappello, incorrendo in una sanzione. Il giorno dopo fu infatti citato

Reso immortale dalla mira straordinaria, Guglielmo Tell si rivelò anche un eccellente... barcaiolo novembre

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l’esercito

A difesa dei cantoni e... del papa pubblicamente in piazza; davanti a tutto il paese, e in particolare, di fronte al balivo e ai suoi sgherri, dovette giustificare il suo gesto. Dopo aver ascoltato l’impudente arringa di Tell, Gessler gli avrebbe concesso di avere salva la vita se avesse superato la celebre prova della mela, poggiata sulla testa del figlio Gualtiero. Il pomo fu centrato dal dardo della balestra di Gugliemo, il quale però, in caso di pericolo, aveva preventivamente nascosto una seconda freccia sotto le vesti, pronta per il tiranno. Questo costò a Tell la libertà: venne arrestato e condotto in barca verso la prigione di Küssnacht. Improvvisamente sul lago si sarebbe scatenata una tempesta e i carcerieri liberarono Tell, abile timoniere oltre che arciere, per farsi aiutare. Arrivati vicino alla riva, Tell sarebbe fuggito liberandosi dei suoi carcerieri. Infine, presso Küssnacht, nascosto dietro a un albero ai lati della «Via cava» che dal Gottardo conduce a Zurigo, Guglielmo si sarebbe vendicato, uccidendo Gessler e dando il via alla rivolta che liberò la Svizzera dal giogo asburgico. L’arciere svizzero avrebbe anche preso parte alla battaglia di Morgarten, per poi, morire, nel 1354, sacrificandosi per salvare un bambino travolto dal fiume Schächen in piena.

Prima della sconfitta subita contro la repubblica francese nel 1798, la Svizzera non era dotata di forze armate organizzate, poiché la difesa era affidata ancora ai singoli cantoni, tenuti a fornire le Milizie cantonali. A partire dal 1200, infatti, a seguito dei patti federali, la Confederazione aveva stabilito che i cantoni contraenti dovevano prestare il sostegno militare richiesto dal cantone minacciato. Pur avendo tentato alcune riforme in età moderna, la Confederazione non riuscí mai a costituire un esercito federale. Solo la Costituzione federale del 1874 attribuí all’intera Confederazione il compito di addestrare un esercito nazionale. Nei secoli del Basso Medioevo, le milizie cantonali si distinsero, soprattutto nel XV secolo, per la loro organizzazione. Il sistema da loro adottato si distingueva per la suddivisione in tre reparti fondamentali: l’Avanguardia (Vorhut), il Corpo Centrale (Gewalthut) e la Retroguardia (Nachhut). Tali eserciti, che riportarono in auge la fanteria, caduta in disuso dall’età romana, recuperarono le tattiche della falange, della antica formazione in quadrato e, sfruttando le moderne armi della picca e della temibile alabarda, riuscirono a infliggere cocenti sconfitte alla cavalleria pesante dell’avversario. I loro successi sul campo impressionarono favorevolmente i potenti dell’epoca che presero a ingaggiare reparti di mercenari svizzeri nei loro eserciti. Nel 1479 papa Sisto IV strinse un accordo coi mercenari elvetici e Giulio II nel 1506, ne assoldò 150, al comando di Kaspar von Silenen. Essi si distinsero soprattutto nella difesa di Roma nel 1523, quando dei 189 Svizzeri al soldo di papa Clemente VII, se ne salvarono appena 42. In alto alabarda in legno e ferro. Produzione germanica, 1480 circa. Leeds, Royal Armouries.

il Bello. Schieratisi a sostegno di Ludovico, i Waldstätten furono colpiti da un bando imperiale di Federico: gli Asburgo invitarono il duca Leopoldo a recarsi sul luogo per far rispettare con la forza il decreto. E studi recenti hanno mostrato che anche gli interessi asburgici per la contea di Rapperswil costituirono un fattore scatenante del conflitto. Infatti, oltre che sul territorio svittese e zughese, il duca Leopoldo voleva far valere le proprie pretese anche su tale territorio, accampando diritti su beni e uomini della ricca circoscrizione di Einsiedeln. Dopo aver concluso una campagna militare nella regione della Svevia, Leopoldo radunò le sue truppe nella cittadina asburgica di Zugo e la mattina del 15

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novembre del 1315 intraprese una marcia verso Sattel, attraversando la valle di Ägeri. Ancora non è chiaro se il suo obiettivo fosse la valle di Schwyz, i territori contesi dell’abbazia di Einsiedeln o addirittura l’intera regione del bacino superiore del lago di Zurigo. Ciò che invece le fonti riferiscono chiaramente è che gli Svittesi attaccarono l’esercito di Leopoldo mentre erano in marcia nella zona di Schornen, ai piedi del Morgarten, da cui la battaglia avrebbe preso il nome.

Attacco a sorpresa

Lo scontro è significativo per la storia militare, perché vide l’affermazione della fanteria armata di picche e alabarde contro la cavalleria pesante, una situazione precedentemente sperimentata anche nella battaglia di Courtrai, nel 1302, allorché la fanteria fiamminga annichilí la cavalleria pesante di Filippo il Bello. In buona sostanza, segnò l’inizio della fine per la cavalleria pesante come elemento tattico decisivo, a vantaggio dei picchieri, che avrebbero dominato i campi di battaglia per tutto il XIV e parte del XV secolo, fino all’introduzione dei moschetti. Gli Svizzeri – qualche centinaio di uomini, forse un migliaio –, dei cantoni di Uri e Schwyz, comandati da Lothold, presero posizione dietro il villaggio di Schornen, mentre uno sparuto gruppo di montanari si era

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battaglie morgarten le cronache

Documenti preziosi, ma da vagliare con attenzione... La cronachistica è una tipologia di fonti storiche particolarmente appetibile. I cronisti, infatti, si diffondono ampiamente sugli episodi a loro coevi, riportando anche aneddoti, discorsi e lunghe descrizioni. Ma, di contro, le cronache hanno il difetto di essere l’opera di un uomo, con le proprie idee, le proprie simpatie politiche, le proprie superstizioni: sono, insomma, poco obiettive.

Tra i cronisti contemporanei degli eventi narrati in questo articolo, possiamo ricordare Johannes von Winterthur (1300 circa-1348), che riferí in modo approfondito sulla battaglia del Morgarten e sul conflitto tra Ludovico di Baviera e Giovanni XXII. La sua descrizione dello scontro, però, è chiaramente ispirata a vicende dell’Antico Testamento tratte in particolare dai Libri di Giuditta, Ester Miniatura raffigurante una fase della battaglia di Morgarten, dallo Tschachtlanchronik, libro di cronache di Bendicht Tschachtlan e Heinrich Dittlinger. 1470. Zurigo, Biblioteca Centrale.

e Geremia, per cui risulta difficile distinguere la realtà dalla fantasia. Con le sue battaglie tra gli Ebrei e i popoli antichi, la Bibbia forniva un colossale patrimonio di modelli, informazioni, riferimenti che non poteva essere tralasciato. Ma le cifre che egli fornisce riguardo alla consistenza dell’armata austriaca, 20 000 uomini, suggeriscono di leggere la sua opera cum grano salis!

appostato sull’altura di Mattligürsch, a 1200 m di altitudine circa. Forti del loro numero –si stima tra le 2000 e le 4000 unità – e della loro cavalleria pesante, gli Austriaci avanzavano nella stretta tra il Mattligürsch e il lago di Ägeri, quando dal fianco della montagna furono colpiti da una pioggia di massi e tronchi, che gli Svizzeri avevano preparato per l’imboscata. Colta di sorpresa, la cavalleria nemica rimase disorientata, si frammentò in tanti piccoli gruppi, fu presa dal panico, e perse la sua temibile compattezza e la sua proverbiale capacità di attacco. A questo punto, Lothold, inviò parte dei suoi uomini verso il monte e attaccò con il grosso delle forze. La cavalleria austriaca, cosí scompigliata, non poteva manovrare sia per la strettezza della valle, sia perché ostacolata dalle pesanti armature che, nel corso dei decenni, furono piú volte causa di disfatte clamorose. Di contro, i corpi di fanteria svizzeri, armati di lunghe alabarde, attaccarono in colonne compatte, con l’ausilio e il sostegno dalle truppe scese dal Mattligürsch. Nel parapiglia generale la cavalleria austriaca cedette progressivamente, venne rintuzzata dalle cariche svizzere nelle gelide acque del lago, e fu infine costretta a ripiegare, travolgendo persino la fanteria che la seguiva. La battaglia fu breve, ma assai cruenta: sembra che alle 9 del mattino, ad appena due ore dall’inizio, lo scontro si fosse già concluso con la chiara vittoria sul campo dei cantoni svizzeri. Sul campo sarebbero rimasti uccisi, stando alla cronachistica del tempo, ben 1500 Austriaci, mentre gli Svizzeri avrebbero perduto solo 14 uomini. Il duca Leopoldo riuscí a stento a sfuggire alla carneficina.

Una nuova alleanza

Dopo la battaglia, in particolare gli Svittesi ebbero interesse a consolidare i legami già esistenti con Uri e Unterwalden. Il 9 dicembre del 1315, presso Brunnen, i rappresentanti dei tre Waldstätten rinnovarono il patto di reciproca alleanza, sottoscrivendo la cosid-

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Un’altra rappresentazione dello scontro che si combatté a Morgarten, in questo caso tratta dalla Amtliche Berner Chronik di Diebold Schilling il vecchio. 1484 circa. Berna, Bürgerbibliothek.

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battaglie morgarten Leopoldo I alla battaglia di Morgarten, salvato da un suo soldato. Litografia di Johann Nepomuk Geiger, 1863.

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Il monumento che celebra la battaglia di Morgarten, eretto nel 1908 presso Buechwäldli, non lontano dal luogo in cui si registrò la «prima vittoria» della Confederazione contro gli Asburgo.

e nell’Oberland bernese. Due anni piú tardi, dopo essere stati isolati da una sorta di «blocco economico», i cantoni di Uri, Schwyz e Unterwalden si decisero a stipulare un armistizio con Leopoldo, tregua che fu poi prorogata negli anni seguenti. Anche se la storiografia piú recente e accreditata ha ridimensionato di gran lunga il peso degli eventi del Morgarten, l’episodio è stato assunto come data simbolo dell’inizio dell’indipendenza della Confederazione svizzera. Oltre che da alcune commemorazioni religiose che già dal XV secolo venivano celebrate, dai primi del Novecento ha preso vita una forma laica di commemorazione di stampo nazionalistico. Nel 1908 fu infatti eretto un monumento celebrativo presso Buechwäldli e, dal 1912, fu istituita la gara del Tiro del Morgarten, alla quale – dal 1957 – si è affiancata quella con la pistola a Schornen, dove si trovano anche la Torre della Letzi e la cosiddetta Cappella del Morgarten, la cui prima menzione risale al XVI secolo. In ogni caso il fatidico 15 novembre del 1315 non segnò la fine dei contrasti in Svevia e nella Svizzera centrale, né, tanto meno, un indebolimento decisivo degli Asburgo.

Leghe antiaustriache

detta «Lettera di Morgarten». A differenza di quella contratta nel 1291, la nuova alleanza prevedeva l’adozione di una politica estera comune, una scelta che influenzò per secoli l’azione dei tre cantoni primitivi. Il patto del 1315 reintrodusse inoltre la garanzia dei diritti feudali di un tempo, revocabile nei confronti di coloro che però avessero commesso attacchi proditori contro gli alleati. Era nata una nuova alleanza, una nuova realtà politica nel mezzo delle montagne, in un territorio sino ad allora conteso dalle grandi potenze che circondavano la regione alpina: la data del 1315 fu utilizzata, sino al XIX secolo, per indicare la nascita della Confederazione svizzera. Nel marzo del 1316 il futuro imperatore, Ludovico il Bavaro, riconobbe i diritti e i privilegi dei cantoni ribelli. Il duca Leopoldo, invece, preparò nuove azioni militari che continuarono, con scontri nel Gaster

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Infatti, dopo l’acquisizione del Tirolo nel 1363 e la spartizione dei possedimenti asburgici nel 1379, il duca Leopoldo III d’Asburgo tentò di stabilire una continuità territoriale tra il Tirolo e l’Austria anteriore, attraverso il controllo su Nidau, Büren e Altreu, che erano collegate a Friburgo, e il dominio sui passi dell’Hauenstein, che garantivano l’accesso all’Alsazia. Tale strategia incontrò però la resistenza delle città confederate, in particolare di Berna e di Lucerna, Basilea e Soletta. Per fronteggiare l’ennesimo rischio di ingerenza asburgica, si crearono varie leghe cittadine, prima fra tutte la Lega di Costanza (1385), che uní Zurigo, Zugo, Soletta, Berna e, indirettamente, Lucerna ad altre 51 città della Germania meridionale. La Svizzera si preparava a un nuovo scontro e, dopo le prime scaramucce del 1385, si giunse, peraltro in modo inaspettato, alla battaglia decisiva. Nel 1386, infatti, si situa l’episodio piú importante del conflitto che oppose la Confederazione svizzera all’Austria. La cosiddetta guerra di Sempach frenò le velleità di ampliamento delle signorie territoriali asburgiche nell’area tra l’Austria anteriore e le Alpi. Infatti, l’inaspettata ma schiacciante vittoria degli Svizzeri nella battaglia di Sempach, il 9 luglio del 1386 (vedi «Medioevo» n. 186, luglio 2012; anche on line su medioevo.it) – nel corso della quale morí lo stesso duca Leopoldo III – indebolí gli Asburgo al tal punto da compromettere, per un lungo periodo, il loro predomino sui territori a sud dell’alto Reno. F

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personaggi antonio bonfini

Buda, o cara...

di Furio Cappelli

Dopo aver trascorso lunghi anni ad Ascoli Piceno, lavorando come maestro, Antonio Bonfini ha l’occasione di cambiare vita: viene presentato alla corte di Mattia Corvino e il sovrano ungherese rimane colpito da quel dotto marchigiano. È l’inizio di una seconda vita, nel corso della quale la sua sapienza e il suo ingegno trovano finalmente una degna consacrazione

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ntonio Bonfini, un maestro di scuola pubblica, ingaggiato a Recanati, nelle Marche, il 25 settembre 1486 richiese di assentarsi per poter incontrare Mattia Corvino, il sovrano umanista che nella lontana corte ungherese di Buda sfoggiava gli stessi intenti di Lorenzo il Magnifico. Nato in una famiglia oriunda di Patrignone, un piccolo castello del Piceno, il maestro, che insegnava grammatica, retorica e poesia, sembrava destinato all’apparenza a vivere la propria esperienza professionale entro gli orizzonti della sua regione. Preposto dal Comune locale agli Studia humanitatis, Bonfini poteva anche essere coinvolto in svariati incarichi di rappresentanza: per esempio comporre un’orazione da recitare in pubblico per una commemorazione funebre o per un evento di interesse generale, compresa la ricorrenza di un santo; oppure partecipare, in qualità di oratore, alle ambascerie in onore di personaggi importanti di passaggio. Nel tempo libero, il maestro si dedicava sia a impartire l’in52

In alto il ritratto (presunto) di Antonio Bonfini che compare nel Codex Philostratus Corvina, manoscritto realizzato a Firenze da Boccardino il Vecchio con la traduzione bonfiniana dell’opera dei sofisti Flavio Filostrato e Filostrato di Lemno. 14871490. Budapest, Biblioteca Nazionale Széchényi. A destra veduta di Buda, dal Civitates Orbis Terrarum di Franz Hogenberg e Georg Braun. 1572-1616. Genova Pegli, Civico Museo Navale.

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segnamento a singole persone facoltose, in qualità di istitutore, sia a sviluppare lavori di traduzione e di scrittura di un certo impegno, anche in prospettiva di ulteriori e piú solidi ingaggi. Un ottimo conoscitore del latino, oltreché del greco (quale era Bonfini), poteva infatti aspirare a mete ben piú ambiziose di quelle garantite da una scuola pubblica, come l’acquisire un ruolo stabile in un’istituzione cittadina, in qualità di segretario o consigliere. Ma poteva anche mirare a una corte principesca, il che garantiva entrate ben piú cospicue e prestigio di tutt’altro tenore. Bonfini sapeva di avere le capacità per puntare in alto e spiccò

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cosí un salto davvero considerevole, fino in Ungheria, sviluppando la sua carriera in una corte reale, con un solo fugace passaggio intermedio, presso il principe Montefeltro di Urbino.

Un antico feudo

Il padre di Antonio, il notaio ser Pietro, apparteneva a una famiglia di alto rango del già ricordato castrum di Patrignone, nei pressi di Montalto Marche (Ascoli Piceno). I suoi antenati erano forse i feudatari che controllavano l’abitato, risiedendo in origine in una casa fortificata, magari ubicata sul luogo stesso in cui fu edificato il cospicuo ed elegante palazzo di famiglia. Fatto sta che i Bonfi-

ni, almeno a partire da Pietro, si distinsero in maniera particolare nell’ambito professionale, e non cercarono mai di ottenere posizioni di forza nella vita politica, neanche durante il periodo in cui la famiglia si era trasferita ad Ascoli, nel centro della diocesi e dello «Stato» a cui Patrignone afferiva. La competenza e l’attendibilità di ser Pietro dovettero essere tenute in grande considerazione, tanto che, non appena giunto in città, nel 1425, egli fu accolto nel patriziato ascolano. Il suo trasferimento, d’altronde, era stato caldeggiato dal vicedominus di Ascoli, Bonifacio, che agiva come luogotenente di Obizzone da Carrara, signore della città e nipote di quel

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personaggi antonio bonfini

Francesco il Vecchio che fu principe di Padova e protettore di Francesco Petrarca. L’appartenenza al ceto nobiliare agevolò senz’altro gli inizi della carriera di Antonio in ambito cittadino. La posizione conseguita nella piena maturità favorí poi, nel 1456, il felice matrimonio con donna Spina, figlia del capitano Marino Della Rocca, detto Scaramuza («Scaramuccia»), distintosi nella battaglia che a L’Aquila, il 2 giugno 1424, aveva visto la disfatta del valoroso condottiero umbro Braccio Fortebraccio da Montone. Senatore di Roma per effetto di una nomina pontificia del 1431, Marino fu podestà di Firenze, e, nel 1444, podestà e capitano di Bologna. Antonio ebbe almeno sei figli, cinque femmine e un maschio, Francesco, che l’avrebbe segui54

In alto Ascoli Piceno, cattedrale di S. Emidio. La Porta della Musa, voluta dal vescovo Prospero Caffarelli (1463-1500), nunzio apostolico in Ungheria e amico di Bonfini. A destra Ascoli Piceno, il Palazzo del Popolo nella piazza omonima. Definito nel XIV sec. e poi piú volte rimaneggiato, fu sede del capitano del popolo, e, dal XV sec., degli Anziani, del podestà e delle adunanze consiliari. novembre

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In alto una veduta del borgo medievale di Patrignone (Montalto Marche, Ascoli Piceno), già castrum della famiglia di Antonio Bonfini.

to in Ungheria. E assai rivelatori sono i nomi dati a tre delle figlie: Ventidia, Laura e Beatrice. Con Ventidia volle omaggiare la memoria di un eroe della storia antica di Ascoli e della stessa Roma, il generale Publio Ventidio Basso, artefice di un memorabile trionfo sui Parti (38 a.C.). Con Laura e Beatrice, dal canto loro, il maestro omaggiava Petrarca e Dante, le «stelle fisse» nel mondo interiore di ogni fervido umanista.

Il patriarca per maestro

Antonio Bonfini, che sempre si definí Asculanus, era nato forse nel castello avito, nel 1427 (o nel 1434). Determinante nelle sue scelte di vita fu l’opportunità di avvicinarsi al mondo classico sotto la guida di un agguerrito umanista, Alberto, noto come Enoch d’Ascoli (in omaggio al patriarca biblico), che fu maestro di retorica nella città picena proprio all’epoca della giovinezza di Antonio (vedi box a p. 56). L’allievo fu di sicuro catturato dal carisma del maestro, grazie al cui esempio,

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entrò a contatto con un capillare universo di letterati e di committenti che, sotto il segno del latino classico e del greco, stava scrivendo un nuovo capitolo della storia culturale europea. Per molti anni gli incarichi di maestro di scuola pubblica e di istitutore privato assorbirono del tutto l’attività professionale di Antonio. Se come maestro rimase legato alla sua regione, l’esperienza di istitutore lo condusse anche a Firenze, a Padova e a Roma, dove poté stabilire e approfondire contatti con persone e con ambienti nuovi. Ebbe anche modo di recitare un’orazione al cospetto di Federico da Montefeltro in persona, a Gubbio, nel 1477, producendosi in un elogio del principe senz’altro congegnato nella speranza di ottenere un ingaggio alla corte di Urbino, come ha di recente ipotizzato lo studioso inglese Cecil H. Clough. Federico, a quanto pare, apprezzò le doti del Bonfini e gli concesse una generosa elargizione, ma tutto finí lí. Eppure Bonfini, ormai cin55


personaggi antonio bonfini enoch d’ascoli

Tale allievo, tale maestro Enoch d’Ascoli era stato allievo a Firenze del grande umanista Francesco Filelfo (1398-1481), avendo all’Università come «compagno di banco» il senese Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II (1458-1464). Enoch godette poi dell’amicizia di un illustre predecessore di Piccolomini sulla cattedra di S. Pietro, non meno appassionato di antichità, papa Niccolò V (1447-1455), noto per essere stato «schiavo» delle due grandi passioni del Rinascimento: l’amore per i libri e per gli edifici di stampo classico. Il pontefice gli affidò a Roma la cattedra di poesia e di eloquenza presso l’università Sapienza, e lo coinvolse nel progetto di una grande biblioteca che doveva competere e primeggiare nei confronti di quelle che si stavano formando nelle corti e nelle grandi città, a partire dall’illustre modello mediceo di San Marco a Firenze: si formava cosí il nucleo iniziale di quella Biblioteca Apostolica Vaticana, che venne poi ufficialmente fondata da papa Sisto IV (1475). Enoch poteva dare man forte a questo progetto grazie alla sua incontenibile perseveranza, che lo spingeva verso le mete piú lontane alla ricerca di codici che tramandassero opere degli antichi ignote o conosciute in modo frammentario. Come altri illustri umanisti della sua epoca, si dedicava a queste ricerche adottando per lunghi periodi uno stile di vita errabondo, esponendosi a stenti e a pericoli di ogni genere, e senza alcuna garanzia di successi e di riconoscimenti. E, nonostante sia finito, tra i tanti, nel mirino delle sferzanti satire di Poggio Bracciolini, Enoch ottenne risultati ragguardevoli. L’Agricola e la Germania di Tacito, per esempio, sono note grazie a lui, che ne riscoprí il relativo codice nell’abbazia germanica di Hersfeld, nel 1455. Morí due anni piú tardi.

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Ritratti marmorei di Beatrice d’Aragona e Mattia Corvino. Giovanni Dalmata (attribuiti), 1485-1490. Budapest, Szépmuvészeti. Antonio Bonfini è alla corte d’Ungheria nel 1487, presso la quale ottiene l’incarico

di lettore della stessa regina Beatrice. Nel 1491 si trasferisce definitivamente e il re Mattia gli commissiona la traduzione del Trattato di Architettura del Filarete e la stesura di una storia del Paese magiaro.

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Bonfini confezionò per Mattia Corvino un libello nel quale rintracciava le nobili e antiche origini del suo nome

quantenne, sentiva che qualcosa di importante sarebbe accaduto, e si era lungamente e pazientemente preparato a questa evenienza. E la grande occasione si stava finalmente avvicinando. Nel 1476 Beatrice d’Aragona (1457-1508), figlia del re di Napoli Ferdinando I (Ferrante), andò in sposa al re d’Ungheria Mattia Corvino, salito al trono nel 1458. La grande considerazione dell’umanesimo, aveva fatto di Mattia un bibliofilo e un mecenate di formidabile impegno, sia nel campo delle lettere che in quello delle arti, tanto da attrarre un gran numero di italiani alla corte di Buda (la città che nel XIX secolo si riuní a Pest formando l’attuale capitale ungherese, Budapest). Questo gemellaggio con la Penisola si arricchiva cosí con un legame di grande significato politico, dopo che era fallito il progetto delle nozze con Ippolita Sforza, figlia del duca Francesco, principe di Milano.

Missione inutile

Nel 1480, papa Sisto IV tentava di mettere pace tra Mattia e l’imperatore Federico III d’Austria allo scopo di organizzare una lega contro l’impero ottomano, e inviò a tal fine il vescovo Prospero Caffarelli di Ascoli, di nobili origini romane, come nunzio apostolico a Buda. La missione, peraltro disperata, non ebbe successo, ma Prospero, raffinato umanista e amico di Bonfini, ebbe sicuramente modo di illustrargli le impressioni riportate dall’esperienza in Ungheria, magari suggerendogli di tentare quella strada. Bonfini aveva composto una Storia in latino della sua città, concepita secondo i canoni degli autori antichi, come atto di omaggio e di riconoscenza nei riguardi di Ascoli, degna cosí di essere paragonata alle maggiori città italiane. A partire da Firenze, grazie a Leonardo Bruni (1370-1444), esse si erano infatti dotate di fastose rappresentazioni letterarie delle proprie vicende politiche e religiose. E probabil-

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personaggi antonio bonfini mente il Bonfini si riprometteva di pubblicare la sua opera con una dedica ufficiale ai magistrati ascolani, quanto meno nella prospettiva di mantenere stabilmente la sua posizione in ambito cittadino. Ma la conferma del suo incarico di maestro, sottoposta annualmente al vaglio del Consiglio generale del Comune, non era scontata. Infatti, dopo anni di attività in quel di Ascoli, nonostante il prestigio acquisito e l’opera svolta, nel 1477 Antonio subí un grave smacco: a causa di un’improvvisa ostilità maturata nei suoi confronti, la cattedra fu assegnata ad altri.

Nella città del poeta

Tuttavia, come egli stesso ricorda in un’orazione pubblica tenuta a Recanati all’inizio dell’anno scolastico successivo, nel 1478, la fortuna ebbe modo di assisterlo. Come attesta scrupolosamente il conte Monaldo Leopardi (1776-1847), padre del poeta Giacomo, Bonfini fu invitato a ricoprire l’incarico di maestro nella piccola ma fiorente città marchigiana, a condizioni addirittura migliori di quelle offerte in precedenza ad Ascoli. I Recanatesi, infatti, avendo intuito che il maestro era un professionista di grande levatura, se ne assicurarono i servigi con un contratto triennale ben retribuito. E quando, negli anni successivi, Ascoli riesaminò la candidatura di Bonfini, in alcuni casi fu Antonio stesso a respingere le

Italia e Ungheria

Un solido rapporto Frontespizio del Symposion de virginitate et pudicitia coniugali di Antonio Bonfini. Il codice fu realizzato intorno al 1485, forse per mano dello stesso Bonfini. Budapest, Biblioteca Nazionale Széchényi.

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Nel 1477 il Comune di Ascoli voltò le spalle al maestro e l’occasione fu colta al volo dalla città di Recanati

Il legame d’amicizia con il suocero re Ferrante comportò il coinvolgimento di Mattia Corvino nella politica interna della Penisola, ed ebbe sviluppi sorprendenti. Nell’aprile 1488, per esempio, durante le tormentatissime vicende che videro contrapposti papa Innocenzo VIII e il re di Napoli, novembre

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condizioni prospettate, in altri il Consiglio deliberò senz’altro a suo sfavore, assegnando il posto, per esempio, a tale maestro Pietro Antonio di Porchia. L’allontanamento da Ascoli coincise con il tentativo di entrare nelle grazie del duca di Urbino. Negli anni successivi, di fianco all’attività di maestro pubblico a Recanati, Antonio svolse in diverse occasioni la funzione di oratore, e, dal 1478, fu molto richiesto in questa veste a Loreto, il cui santuario mariano era lo scenario di molteplici ricorrenze, nonché una meta d’obbligo per i tanti personaggi illustri che viaggiavano lungo il versante adriatico della Penisola.

Ospiti illustri

E il 25 luglio 1484, come ha evidenziato la studiosa Manuela Martellini, proprio a Loreto erano presenti il cardinale Giovanni d’Aragona e Francesco d’Aragona, fratelli di Beatrice, la regina d’Ungheria. Erano entrambi di ritorno da Buda. Giovanni, già nominato da re Mattia amministratore dell’arcivescovato di Esztergom (1480), aveva compiuto una missione diplomatica per conto di papa Sisto IV, nel tentativo di coinvolgere il sovrano in una grande lega contro Venezia. Il principe Francesco era stato invece ospite dei reali per ben otto anni consecutivi, sin da quando aveva accompagnato la sorella in occasione delle nozze (1476). Con ogni probabilità, Bonfini

Pagina miniata della traduzione latina del Trattato di Architettura del Filerete, a opera di Antonio Bonfini. 1489. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

Ancona – che costituiva il principale porto adriatico dello Stato della Chiesa e che era rivale di Venezia, momentanea alleata del pontefice – fece atto di sottomissione nei riguardi di Mattia in persona, ponendosi sotto la sua protezione. Sia pure per breve tempo, l’attuale capoluogo delle Marche vide ammainare le bandiere

pontificie, e in luogo di queste furono innalzate le insegne del re d’Ungheria. D’altronde, il reame stesso di Mattia, tramite la Croazia, giungeva fino alla sponda adriatica, e vantava già un rapporto diretto con le vicende italiane, sin dall’epoca in cui Carlo II d’Angiò ebbe in sposa Maria d’Ungheria (1270),

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figlia di re Stefano V e sorella di re Ladislao IV, ultimi esponenti del ramo principale della dinastia degli Arpadi. Non dobbiamo quindi sorprenderci piú di tanto se re Mattia, ultimo sovrano della dinastia degli Hunyadi, ebbe un italiano come storiografo ufficiale del suo Paese, ossia il maestro di scuola pubblica Antonio Bonfini.

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personaggi antonio bonfini origini illustri

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Nel segno del corvo A Recanati, oltre al Symposion, Bonfini concepí un’altra opera in funzione di un possibile ingaggio a Buda, il perduto Libellus de Corvinae domus origine (Libretto sull’origine della casata Corvina). In ossequio alla dignità di raffinato umanista del sovrano ungherese, Antonio forniva una generosa spiegazione sull’origine dell’appellativo Corvino. Tutto nasceva dal corvo che, secondo Tito Livio, aveva fatto la fortuna di un giovane condottiero, Marco Valerio, impegnato in un duello contro un soldato gallo, imponente nella statura e dotato di armi vistose e risonanti (349 a.C.). Appollaiatosi poco prima del confronto, il corvo spiccò il volo all’improvviso e infierí sugli occhi del nemico. E il valoroso Mattia Corvino, secondo la dotta ricostruzione di Bonfini, discendeva indubbiamente da quel Marco Valerio Corvo (il cognome sarebbe proprio scaturito da quell’episodio), dopo che la sua famiglia emigrò alla volta della Dacia. A destra lo stemma di Mattia Corvino, al cui interno compare il corvo, dipinto sulla torre della chiesa di S. Maria Assunta (nota come chiesa di Mattia) presso il Castello di Buda, a Budapest. Nella pagina accanto pagina di codice miniato con un ritratto di Mattia Corvino, attribuito a Giovanni Ambrogio de Predis. XV sec. Volterra, Biblioteca Guarnacci.

approfittò dell’occasione preziosa, visto che tre anni dopo, nel 1487, si ritrovò a Buda con l’incarico di lettore della regina Beatrice. Proprio nel 1484, d’altronde, Antonio aveva iniziato a comporre il Symposion de virginitate et pudicitia coniugali, un trattato moralistico teso a stabilire la superiorità di una virtú, attraverso articolate conversazioni tra personaggi che appartenevano alla corte ungherese o che la frequentavano: il re e la regina, innanzitutto, che sostengono rispettivamente i principi della pudicizia coniugale e della verginità (e sarà quest’ultima virtú a trionfare, grazie a una Beatrice dal nome allusivamente dantesco), e poi i suddetti fratelli di Beatrice, Giovanni e Francesco, e altre personalità dell’ambiente. Bonfini aveva cosí immaginato un tipico convito letterario (un cenacolo) mutuato dalla tradizione 60

classica, con un’azione sviluppata nell’arco di tre giorni e ambientata in un momento di tregua nelle operazioni militari connesse all’assedio di Vienna (risoltosi vittoriosamente con la presa del 1485), durante una delle campagne sferrate da Mattia contro Federico III d’Austria.

Un’oasi di bellezza

In questo modo il Symposion bonfiniano, contrapponendo le raffinate conversazioni agli scenari di guerra, sembra alludere a quel concetto di ritiro in un’oasi di bellezza e di serenità che è alla base del Decameron del Boccaccio, dove i narratori si rifugiano in un giardino mentre infuria la peste. Ormai introdotto a corte, Bonfini si presentò a Mattia munito del Symposion e di altre opere espressamente concepite per ottenere la benevolenza dei reali,

e si affidò anche a due traduzioni dal greco in latino e alla Storia di Ascoli, oggi perduta, che non aveva voluto presentare ai suoi ingrati concittadini, preferendo dedicarla alla regina Beatrice. L’umanista ottenne il plauso del re ungherese su tutta la linea: nell’immediato, divenne, come accennato, lettore di Beatrice, e fu anche incaricato di tradurre in latino il Trattato sull’Architettura che il Filarete aveva dedicato a Francesco Sforza. Il re, infatti, come si conveniva a un mecenate di stampo schiettamente rinascimentale, era appassionato dei fondamenti teorici della nuova arte, e intendeva farli propri per realizzare la sua costruzione ideale: la sua utopia di un potente regno cristiano, dalle solide radici antiche, nel cuore dell’Europa centro-orientale. Aveva scarsa dimestichezza con l’italiano, e per accedere appieno novembre

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personaggi antonio bonfini nemo propheta in patria... 1427 o 1434 Presumibile anno di nascita di Antonio Bonfini. 1470 Bonfini risulta già da tempo incaricato presso la scuola pubblica gestita dal Comune di Ascoli. 1476 Beatrice d’Aragona, figlia di re Fernando I (Ferrante) di Napoli, viene data in sposa al re Mattia Corvino d’Ungheria. 1477, settembre Bonfini pronuncia a Gubbio un’orazione al cospetto del duca Federico di Montefeltro. 1478 Bonfini si trasferisce a Recanati. Inizio della sua attività di oratore a Loreto. 1482 Riconferma dell’incarico di docenza a Recanati, dove Bonfini ottiene anche la cittadinanza. 1484 Durante il suo soggiorno a Recanati, Bonfini inizia a comporre il Symposion de virginitate et pudicitia coniugali, ambientato a Vienna, e con i reali di Ungheria come personaggi principali. 1486 Ottenuta una licenza di due mesi dal suo incarico di docente, si mette in viaggio per un’udienza nella regione oltralpina della Rezia, al cospetto dei reali di Ungheria. Presenta ai sovrani cinque sue opere di composizione e di traduzione, a sostegno della propria candidatura al servizio della loro corte. 1487 È presente alla corte di Buda con l’incarico di lettore della regina Beatrice d’Aragona. 1490 Muore re Mattia. Il suo figlio naturale Giovanni, già insignito erede al trono, viene accantonato dai nobili del Regno, che gli preferiscono Ladislao II. 1491 Bonfini si trasferisce definitivamente in Ungheria. 1492 Bonfini consegna a Ladislao le prime quattro decadi della sua Storia dell’Ungheria. Ottiene il diploma di nobiltà e la corona di poeta. Subisce un colpo apoplettico, e un progressivo peggioramento della sua salute. 1492-93 Soggiorno di Bonfini a Ferrara, per le ricerche necessarie alla composizione della Storia. 1502 Morte e sepoltura del Bonfini a Buda.

Bonfini fu incoronato poeta da Ladislao II, un onore che aveva avuto un solo precedente nella storia d’Ungheria 62

ai contenuti del Filarete aveva bisogno della traduzione di Bonfini. Sicuramente, poi, Mattia gradí il libretto che riscriveva in forme mitologiche la storia della sua famiglia, ma rimase soprattutto colpito dalla Storia di Ascoli. Antonio, infatti, doveva darvi sfoggio di grandi capacità rievocative, con il pieno possesso delle abilità retoriche di uno storico antico come Tito Livio, che conosceva egregiamente. Il soggetto prescelto, poi, questa città delle Marche di remote origini, e con vicende e personaggi di spicco, ma poco nota ai piú, dovette essere arduo per la mancanza di imprese analoghe, e il risultato finale, a maggior ragione, doveva brillare per originalità e ingegno.


A destra Budapest, palazzo reale di Buda. Il monumento in onore di Antonio Bonfini eretto nel 1927.

Cosí, per un gioco del destino, l’opera consacrata alla propria città di provenienza, una volta presentata alla corte di Mattia, pose le premesse a un progetto di tutt’altro segno e di ben altra consistenza. Lo storico della città di Ascoli avrebbe dovuto scrivere la prima storia «monumentale» dell’Ungheria.

Un grande affresco storico

Dal momento che era stato cosí abile a comporre dal nulla, o quasi, la storia della propria città, secondo il re sarebbe stato la persona giusta per costruire un grande affresco storico su quel Paese, che solo allora si affacciava sul mondo della grande cultura letteraria. E per la riuscita di un’impresa siffatta era richiesta proprio la conoscenza dei classici. Non occorrevano una puntuale ricostruzione documentaria, né un’aderenza scrupolosa ai fatti. L’immagine dell’Ungheria doveva risultare fascinosa, autorevole e soggiogante e lo stesso Mattia Corvino doveva emergere come colui che aveva fatto rinascere il Paese sotto un duplice aspetto. Egli, infatti, incarnava il valore di Attila, visto in una luce tutt’altro che negativa come fondatore dell’impero magiaro, e, in quanto discendente dell’eroico Marco Valerio, aveva per giunta fatto risorgere in quelle terre l’immortale segno dell’Urbe. L’opera, che valse a Bonfini l’epiteto di «secondo Erodoto», richiese molti anni di elaborazione, durante i quali Antonio fece la spola tra l’Italia e l’Ungheria, e rimase incompiuta (mancano i cinque libri finali). Si intitola ReNella pagina accanto lapide commemorativa di Antonio Bonfini eretta nel 2008 presso la chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Óbuda (Budapest), nel luogo in cui il maestro venne sepolto.

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rum Ungaricarum Decades, poiché si sviluppa in cinque decadi, di dieci libri ciascuna, secondo lo schema consacrato da Tito Livio. Mattia Corvino morí nel 1490, mentre Bonfini era nel mezzo dell’impresa. Il successore Ladislao II, salito al potere estromettendo il figlio naturale di Mattia, Giovanni, e poco sensibile al mito del re Corvino, favorí comunque la prosecuzione del progetto, confidando, invano, in un congruo spazio finale da dedicare agli anni del suo regno. Fu lui, peraltro, a insignire l’Asculanus della corona di poeta, un onore che aveva un solo precedente nella storia del regno ungherese. Molto probabilmente, Ladislao fu grato all’umanista per la solenne orazione pronunciata ai funerali del proprio padre, il re di Polonia Casimiro IV. Antonio ottenne, per giunta, l’assunzione tra i nobili del Paese, con uno stemma che sfoggiava il leone boemo dell’insegna reale. Afflitto da una malattia che iniziò a manifestarsi nel 1496, Bonfini, ormai ultrasessantenne, chiese invano di tornare a Recanati, ma pur restando a corte non poté comunque completare il suo capolavoro. Morí nel 1502, e fu sepolto nella chiesa di S. Margherita di Buda. Il suo epitaffio latino,

oggi perduto, recitava: «In questa tomba giace il Bonfini, originario del Piceno. Sapiente e umile, era uno scrittore brillante. Qui riposano le sue ossa, ma, cosa che è piú importante di queste, la terra ungherese possiede la Storia che egli le ha dedicato». F

Da leggere U Giuseppe Fabiani, Ascoli nel

Quattrocento, vol. I, Società Tipolitografica Editrice, Ascoli Piceno 1958 U Gerhard Rill, Antonio Bonfini, in Dizionario biografico degli italiani, a cura della Fondazione Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma; anche on line su treccani.it U Nel segno del Corvo. Libri e miniature dalla biblioteca di Mattia Corvino, catalogo della mostra (Modena, 2002-2003), Il Bulino edizioni d’arte, Modena 2002; anche on line su Bibliotheca Corviniana Digitalis (corvina.oszk.hu) U Manuela Martellini, Antonio Bonfini. Un umanista alla corte di Mattia Corvino, Sette Città, Viterbo 2007 U Mattia Corvino e Firenze. Arte e umanesimo alla corte del re di Ungheria, catalogo della mostra (Firenze, Museo di San Marco, 2013-2014), Giunti, Firenze 2013

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gli sforza e le marche A sinistra ritratto di Francesco Sforza, da un codice miniato. 1480. Milano, Biblioteca Trivulziana.

Il tiranno di Francesco Pirani

gioioso

Personaggio di spicco del Quattrocento italiano, Francesco Sforza, prima di strappare Milano ai Visconti, condusse un esperimento politico di eccezionale importanza: la trasformazione in un vero e proprio Stato dei territori marchigiani e di parte dell’Umbria 64

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olgendo lo sguardo al secolo precedente, Niccolò Machiavelli (1469-1527) osservava che tutti i maggiori condottieri del primo Quattrocento aspiravano a ottenere un proprio Stato, cosí da trarne onore e potenza. A suo avviso, i piú nomati fra di loro erano il conte di Carmagnola, Francesco Sforza e Niccolò Piccinino. In effetti, questi professionisti delle armi riuscirono a ritagliarsi uno spazio di prim’ordine sul proscenio italiano e, in qualche caso, a impiantare un vero e proprio Stato territoriale. Le condotte militari, infatti, non assicuravano soltanto lauti guadagni a chi le gestiva, ma servivano anche a stabilire raccordi politici, pur instabili e mutevoli, fra potenze grandi e piccole. In questo scenario Francesco Sforza si inserí con successo, compiendo una brillante carriera: in un tormentato trentennio, egli riuscí a dismettere le vesti dell’avventuriero militare per diventare uno degli arbitri della politica italiana. Nei libri di storia, la figura dello Sforza è legata soprattutto al coronamento del suo successo, ottenuto con la conquista del ducato di Milano nel 1450. Non tutti sanno, però, che, nel ventennio precedente, egli fu protagonista del piú straordinario esperimento, mai tentato da un condottiero, di fondare un proprio Stato: fra il 1433

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In alto frontespizio miniato con Francesco Sforza attorniato da condottieri. Età rinascimentale. Firenze, Galleria degli Uffizi.

e il 1446 riuscí infatti a creare dal nulla un proprio dominio nelle Marche e in parte dell’Umbria orientale, approfittando dell’estrema debolezza del potere papale in quelle zone. Si trattò di un originale tentativo, nel quale si fondevano elementi di forte creatività e doti d’improvvisazione, in una cornice dominata dal continuo mutare degli equilibri politici e delle alleanze militari.

Tra autonomismo e sudditanza

Se dunque, con Machiavelli, si può dire che l’Italia del primo Quattrocento era attraversata da «uomini sanza stato», cioè da condottieri privi di una loro compagine territoriale ereditata per via dinastica, non per questo andrà sottovalutata la loro capacità di creare un proprio dominio in modo tutt’altro che effimero. Vediamo ora quali furono le caratteristiche salienti dello Stato sforzesco nelle Marche, una regione che pullulava di città piccole e medie, gelose della propria tradizione autonomistica, fino ad allora sottoposte in modo oscillante all’autorità dello Stato papale.

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gli sforza e le marche Quella di Francesco Sforza fu un’ascesa fulminante e apparentemente irresistibile

In alto Siena, Duomo, Libreria Piccolomini. Ritratto di papa Eugenio IV, particolare del ciclo affrescato delle Storie di Pio II, opera del Pinturicchio, e della sua bottega. 1503-1508. A sinistra Fabriano. Uno scorcio della piazza Centrale (piazza del Comune).

Le Marche rappresentavano allora una pedina nel piú ampio scacchiere dell’Italia, ove i progetti di egemonia delle maggiori potenze si susseguivano con una varietà di esiti militari e di alleanze politiche, che può apparire perfino scoraggiante a chi voglia ricostruirne gli sviluppi. Francesco Sforza esercitò il mestiere delle armi in tutta la Penisola, dalla Calabria, ove fu nominato viceré appena ventenne, alla Pianura padana: fu protagonista di tante battaglie, spesso combattute lontano dalla regione in cui volle fondare una propria dominazione territoriale. Quali erano dunque i vantaggi personali che il capitano d’armi si aspettava dalla creazione di un vero e proprio ordinamento statale nelle Marche centro-meridionali? Quando

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il futuro duca di Milano diresse le sue truppe contro le regioni dello Stato pontificio, lo fece in qualità di condottiero al servizio di Filippo Maria Visconti. In meno di tre settimane, fra la fine del 1433 e l’inizio del 1434, riuscí ad assoggettare l’intera area compresa fra il fiume Esino e il Tronto e a occupare alcune città dell’Umbria orientale e del Lazio settentrionale.

Meglio l’accordo del contrasto

A papa Eugenio IV, di fronte alle fulminanti conquiste militari, non restava che cercare di attutire i colpi: per evitare la rovina piú totale, si decise cosí a nominare Francesco Sforza gonfaloniere della Chiesa, cioè novembre

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comandante in capo dell’esercito pontificio, nonché signore della città di Fermo e vicario in alcuni importanti centri umbri, quali Todi e Gualdo Tadino. Forte di questa legittimazione, lo Sforza decise di tenere per sé le terre occupate e non per il Visconti, in vece del quale aveva mosso guerra al papa. Il gesto provocò l’ira del duca di Milano, il quale prontamente gli inviò contro un altro abile condottiero, il Piccinino, ma lo Sforza riuscí molto abilmente a superare ogni ostacolo e a realizzare fieramente i suoi propositi. Immediatamente dopo la conquista militare, Francesco chiamò a sé i rappresentanti delle città e stipulò con loro i capitoli di dedizione. I governanti dei Comuni marchigiani intendevano cosí garantirsi la benevolenza del nuovo regnante, sollecitandone lo spirito di conciliazione e cercando di distogliere le sue armi dalla propria città. La concessione dei capitoli di dedizione divenne subito una prassi uniforme: gli ambasciatori delle comunità presentavano richieste articolate e puntuali, mentre spettava al condottiero accordare il proprio avallo a ciascuna di esse.

Patti di governo

Si diffondeva cosí un modello pattizio del potere, destinato a godere in seguito di larga fortuna all’interno dello Stato pontificio. Nelle Marche i patti di dedizione conobbero un’applicazione fino ad allora sconosciuta: furono proprio le condizioni d’emergenza venute a crearsi dopo la fulminea occupazione sforzesca a suggerire ai governi cittadini l’impiego di tale pratica, sperimentata ora in modo diffuso e uniforme. Anche le comunità di modesta dimensione erano in grado di stipulare accordi diretti con il signore, che non intese minimamente scalfire il policentrismo caratteristico delle Marche. Nei patti di dedizione le comunità richiesero a Francesco Sforza la grazia di essere accolte sotto il «governo et regimento de la sua illustre Signoria»; promisero, inoltre, di essere «buoni e devoti e fedeli servitori»; gli offrirono il pieno dominio sulla città, sul contado e sulle fortificazioni. In tutti i casi era avanzata la richiesta di confermare gli statuti, gli ordinamenti e i privilegi già in essere, soprattutto nel campo della giustizia. Le altre richieste vertevano sul mantenimento del peso fiscale allo stesso livello degli anni precedenti, sotto la monarchia papale: non di rado venivano addirittura richiesti sgravi fiscali, in considerazione dell’indigenza in cui versava ogni città. Ogni variazione sul tema ruota attorno alla concessione graziosa da parte del signore. Lo Sforza poté accettare di buon grado molte delle richieste, ma negò alle comunità la facoltà di poter eleggere liberamente

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Medaglia di Francesco Sforza realizzata da Sperandio da Mantova. 1466 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Al retto, il busto corazzato del duca; al verso, un edificio rinascimentale.

il podestà, che doveva invece essere scelto nella ristretta cerchia dei suoi fedeli. La generale accondiscendenza di Francesco Sforza dimostra come egli, fin dal principio, intendesse fondare un potere di tipo principesco: era lui ad accordare il beneplacito de gratia spetiali a ogni richiesta, oppure a esercitare la mera liberalitas. Non per questo si evitò l’insorgere di tensioni. Nel caso di Fabriano, prima di stipulare il testo dei capitoli, furono necessarie frequenti ambascerie: la ricca documentazione locale ci restituisce appieno le vivaci discussioni, avvenute nei consigli comunali di quella città e animate da ottima competenza giuridica, per proporre allo Sforza le condizioni piú vantaggiose. Alla fine, le speranze dei Fabrianesi dovettero arrendersi di fronte alla volontà del condottiero, che decise di stabilire sulla loro città un dominio diretto attraverso la nomina di un plenipotenziario, dotato di poteri straordinariamente ampi. Alla comunità fu ingiunto di giurare fedeltà al luogotenente sforzesco e di accettare le sue riforme: in questo caso, ogni tentativo di negoziazione andò deluso e prevalse nettamente la posizione del capitano d’armi.

Principe lungimirante

Non dobbiamo immaginare il potere territoriale di Francesco Sforza come uniforme, bensí dosato in maniera diversa a seconda dei casi, in un difficile equilibrio, che la dice lunga sulla sua lungimiranza

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gli sforza e le marche il girfalco di fermo

Una fortezza inespugnabile Per ostentare un potere principesco, gli Sforza vollero trasformare il Girfalco di Fermo in una corte raffinata, paragonabile a quella degli altri Stati italiani. Il Girfalco era l’area sommitale del colle su cui si sviluppava la città, ove sorgevano la cattedrale e alcuni palazzi pubblici: qui, dalla metà del Trecento, avevano fissato la residenza coloro che erano riusciti a imporre la propria autorità su Fermo, cosí da ricavarsi uno spazio separato dal resto dell’area urbana. Negli anni della dominazione sforzesca, Alessandro elesse il Girfalco a sua stabile dimora. Nell’ottobre 1443, durante l’assedio posto a Fermo dal re di Napoli Alfonso d’Aragona, un suo ambasciatore, Bartolomeo Facio, descrisse esattamente il Girfalco come un’ampia roccaforte, cinta da molte torri e considerata inespugnabile. Non dobbiamo però immaginarlo come un unico e maestoso edificio, sulla falsariga di quelli che si vedono nelle miniature francesi tardo-gotiche, ma come un vasto spazio chiuso da possenti fortificazioni, ove sorgevano diversi edifici, ciascuno con una funzione: residenziale, amministrativa e militare.

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Francesco Sforza prese possesso del Girfalco nel gennaio 1434: vi fece il suo ingresso trionfale sotto un baldacchino, preceduto da dodici uomini armati, ciascuno con una bandiera in mano e tutti intonando inni. Secondo una cronaca coeva, alla cerimonia parteciparono gli esponenti dell’oligarchia cittadina, ognuno con un proprio ruolo: chi era addetto a portare il baldacchino (fra questi un dottore in legge), chi a recare gli scettri del potere, indossando i guanti; tutti erano invitati a prendere parte alla liturgia del potere predisposta dal nuovo signore della città. Piú tardi, nel giugno 1442, Bianca Maria Visconti giunse nel Girfalco sotto un baldacchino di seta celeste fatto allestire dal Comune e portato da sei optimi cives: la dama era preceduta da un corteo di damigelle e accompagnata dalla folla festante; nel palazzo, i convitati festeggiarono fino a tarda notte. Sempre in queste stanze, nel marzo 1444, nacque Galeazzo Maria, figlio primogenito del principe: in occasione del suo battesimo si tenne una giostra con molti armigeri. Lo sfarzo principesco non doveva però impressionare i cittadini fermani.

Questi vedevano nel Girfalco un’area off limits, una cittadella militare stabilmente occupata dagli Sforza: piú che una raffinata corte doveva apparire ai loro occhi come l’odiosa espressione di un potere tirannico. Si comprende bene allora come il sentimento civico di spossessamento di tale area urbana culminasse, fra la fine del 1445 e l’inizio del 1446, in un’aperta rivolta armata del popolo contro Alessandro Sforza, asserragliato con le sue milizie nel Girfalco. L’assedio durò tre mesi e all’indomani della resa i cittadini vollero abbattere con furia le fortificazioni di quell’area e radere al suolo molti edifici, eccezion fatta per la cattedrale. Per la comunità quello spazio andava rimosso, anche in considerazione del suo valore simbolico. Cosí, una volta ottenuto l’avallo del vescovo, nel febbraio 1446, il popolo fermano si diede a demolire le strutture fortificate del Girfalco: il legname, i coppi e il ferro recuperato furono venduti e con il ricavato si ripararono le mura cittadine. Alla metà del Quattrocento, i Fermani potevano rallegrarsi del fatto che fosse definitivamente sanata una ferita nel cuore della loro città e riappropriarsi di quello spazio.

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A destra miniatura raffigurante le nozze tra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, celebrate il 25 ottobre 1441 a Cremona. XV sec. Collezione privata. In basso veduta di Fermo, dominata dal colle del Girfalco, fortificato dagli Sforza. La loro rocca fu però abbattuta dai Fermani nel 1446, dopo la rivolta contro Alessandro, fratello di Francesco.

politica. Cosí, se i Fabrianesi furono sottoposti a un regime gravoso, gli abitanti della vicina città di Camerino furono accolti dal principe come benivoli amici e quali tributarii, dunque come alleati speciali che riconoscevano in maniera piuttosto blanda l’autorità sforzesca.

Rapporti diretti

Nel caso di Tolentino, invece, i patti di soggezione mostrano una dura sottomissione per la comunità, mentre per Fermo o per Osimo le misure appaiono piú miti. Lo Stato sforzesco fu dunque un esperimento fondato su rapporti peculiari fra principe e città, in una cornice dominata dal policentrismo amministrativo. Francesco Sforza e i suoi ufficiali si spostavano infatti con molta facilità da una città all’altra e non esisteva un «capoluogo» regionale, nonostante il ruolo di maggior rilevanza accreditato ad alcuni centri maggiori, quali Fermo, Jesi e Macerata. L’arduo compito che Francesco Sforza dovette affrontare all’indomani della sua occupazione militare delle Marche fu quello di allestire dal nulla un apparato istituzionale funzionale al suo Stato. Pur imitando nell’impianto i consolidati assetti dello Stato pontificio, il condottiero non poteva certo attingere a quei funzionari, né far leva sui maggiorenti cittadini, che andavano costruendo la loro fortuna politica attraverso il dialogo con il papato. Dunque, sul piano dell’ordinamento, lo

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Stato sforzesco assunse necessariamente una marcata dimensione familistica. In poco tempo, il clan degli Sforza si arrogò il monopolio delle cariche amministrative. La lontananza di Francesco Sforza dalle Marche imponeva l’assidua presenza di un alter ego di assoluta fiducia, individuato nella persona di Alessandro, suo fratello, insignito del titolo di vice-marchese e ben presto stabilitosi a Fermo. La gerarchia dei poteri accordava poi un ruolo di primo piano al tesoriere generale, al quale erano affidate competenze finanziarie non dissimili da quelle che, fino a poco tempo prima, aveva esercitato la stessa carica

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gli sforza e le marche Un prezioso codice miniato

Il messale De Firmonibus di Fermo A Fermo, negli anni della dominazione sforzesca, fu portata a termine la decorazione miniata di un prezioso codice: il sontuoso messale commissionato dal vescovo Giovanni de Firmonibus verso il 1420 e ultimato con una splendida miniatura di Giovanni Ugolino da Milano, nel 1436. Questo raffinato manufatto, oggi esposto al Museo Diocesano di Fermo, attesta la diffusione di stilemi lombardi nella sua ricca decorazione e costituisce anche una fonte straordinaria per la storia della città.

Le miniature sono tutte ispirate alla devozione mariana: esse non si limitano a ritrarre soggetti sacri ma in un caso si mette in scena un’importante festa religiosa, che investiva l’intera comunità. Ogni anno si celebrava infatti a Fermo la solennità dell’Assunta, il 15 agosto, con un ricco corteo che si snodava lungo le vie cittadine e che ancor oggi rivive in un’accurata rievocazione storica. La pagina piú celebre del messale raffigura il fastoso e gioioso corteo cittadino che si dirige verso la

chiesa cattedrale. La scena riproduce l’immagine idealizzata di un mondo cortese, nel quale ruoli sociali e spazi istituzionali sono ben definiti, perfino stigmatizzati nella postura, cosí come nell’elegante abbigliamento alla moda dei figuranti. L’immagine interpreta e trasfigura la realtà storica: in essa si può forse vedere una replica orgogliosa, da parte dei dotti committenti, alla dura dominazione sforzesca e un richiamo a un’antica tradizione civica di cui andare fieri.

A sinistra Fermo. La facciata duecentesca della cattedrale di S. Maria Assunta in Cielo. L’edificio sacro è l’unico sopravvissuto alla distruzione della fortezza del Girfalco, avvenuta nel 1446. Nelle sue forme attuali risale al Settecento. A destra una pagina del messale De Firmonibus di Fermo. 1436. Fermo, Museo Diocesano. Nella parte inferiore è rappresentato il corteo per la solennità dell’Assunta.

nello Stato papale. Un ruolo rilevante spettava inoltre al luogotenente nella curia generale, che diffondeva i dispacci del principe, inviava messaggeri alle comunità, convocava i parlamenti generali, dirimeva le questioni insorte fra le città.

Un continuo succedersi di conflitti

Rispetto al passato, le innovazioni introdotte da Francesco in campo istituzionale furono vigorose. L’organigramma delle magistrature approntate dal condottiero fu frutto di un abile impegno creativo, giocato sul filo delle fedeltà personali e della coesione familiare. In questo contesto, un ruolo politico importante era accordato ai podestà cittadini, quasi sempre imposti dall’alto. I quindici anni della dominazione sforzesca possono essere riassunti in un susseguirsi incessante di conflitti fra il principe e le comunità sulla nomina e sull’operato dei podestà. In qualche caso disponiamo delle relative lettere di raccomandazione inviate da Francesco Sforza alle diverse città e anche della successiva corrispondenza con le magistrature comunali. Molto spesso i consigli dei Comuni tentavano di proporre una candidatura di proprio gradimento, ma questa era quasi sempre rifiutata dal principe. Seguivano regolarmente annosi contenziosi e anche vibranti proteste da parte delle comunità, che lamentavano anche casi di malversazione, ma il finale era sempre lo stesso e il principe riusciva a

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gli sforza e le marche Sulle due pagine un angelo (a sinistra) e il ritratto di un santo affrescati nell’atrio della cattedrale dell’Assunta, Duomo di Fermo. XIII sec. Nella pagina accanto, a sinistra cartina dell’area marchigiana con, in evidenza, le principali località citate nel testo.

imporre ovunque la sua volontà. L’esito di questo braccio di ferro appare ben sintetizzato da un oratore nel consiglio comunale di Macerata, allorché in un’adunanza pubblica ammise che di fronte a ogni ingerenza del principe «fu d’uopo chinar la testa». La presenza del clan sforzesco nelle Marche fu pervasiva. L’abbondante documentazione conservata ci

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restituisce l’immagine di una fitta rete di luogotenenti con funzioni militari e di ufficiali minori con incarichi diplomatici presso le singole comunità. Gli anni della dominazione sforzesca determinarono pertanto un quadro di straordinaria vivacità politica nelle città marchigiane. Non si vuole per questo negare che la militarizzazione dello Stato fu strenua, né che gran parte novembre

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delle relazioni fra gli Sforza e le comunità vertesse sulla richiesta di uomini armati, sull’imposizione di tasse per finanziare le ingenti spese di guerra, sul presidio del territorio. Tutto ciò è fin troppo ovvio per uno Stato fondato da un condottiero. Nelle fonti documentarie comunali la richiesta di armati appare martellante e si è indotti a credere che le comunità minori pagassero il prezzo piú alto: a volte le pretese del principe appaiono esorbitanti, come, per esempio, quando giunse a chiedere la disponibilità di un uomo armato per ogni famiglia, cosa che accadde a Fermo nel 1442 e ad Arcevia nel 1445. Inoltre, ogni onere legato all’alloggio e al vettovagliamento delle truppe ricadeva sulle finanze delle città. Numerose sono poi le attestazioni relative alla brutalità delle milizie e alla devastazione delle campagne e dei castelli, operate dalle soldatesche.

Le raccomandazioni dei podestà

Tuttavia, pur senza voler fare del revisionismo storico, occorre riconoscere che le Marche non costituirono per Francesco Sforza soltanto un serbatoio di uomini armati, bensí uno spazio regionale in cui sperimentare inedite forme di potere e intessere una fitta trama di rapporti che travalicano la sfera militare. In quegli anni si diffuse, infatti, una prassi diplomatica duttile e onnipresente, e il raccordo fra principe e città fu costante e capillare, piú di quanto lo era stato negli anni precedenti sotto lo Stato pontificio. Basterà leggere, a proposito, il minutario di lettere relativo al piccolo centro di Serra San Quirico, fra Jesi e Fabriano. Nel registro si susseguono le raccomandazioni dei podestà fatte da Francesco Sforza, i mandati esecutivi di Alessandro, le mediazioni sussidiarie di Giovanni Attendolo (un altro fratello di Francesco), infine l’attiva presenza di Lucia di Torgiano, madre di Francesco, che risedette qui per un paio d’anni. La donna intervenne costantemente su molti fronti: dalla riparazione di «una logia che si cascha», alla composizione extragiudiziale di numerose liti, dalle cause dotali alle violenze intrafa-

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gli sforza e le marche miliari perpetrate ai danni delle giovani spose. Pertanto la presenza sforzesca nella vita comunitaria, in questo come in altri centri, si dimostra capillare e capace perfino di orientare la vita quotidiana. L’aspirazione di Francesco Sforza a fondare nelle Marche un potere principesco rappresenta l’elemento piú dirompente della vicenda fin qui considerata. Si tratta di un fattore innovativo da ogni lato lo si voglia osservare: per il condottiero, che discendeva da umili origini, promuovere stili di vita e rappresentazioni del potere di natura principesca significava ambire a un riscatto sociale, in vista di progetti piú ambiziosi; per le comunità marchigiane, abituate all’algida tradizione di potere dello Stato papale, voleva dire compiere un salto culturale profondo e repentino.

La gloria come bene condiviso

Il potere sforzesco, insomma, fu, per cosí dire, «performativo», capace cioè di dar vita a situazioni del tutto inedite. Innovativo, per esempio, appare il reiterato inVeduta di Todi, città umbra di cui Francesco Sforza, nel 1434, fu nominato signore da papa Eugenio IV. La mossa del pontefice, inserita in una piú ampia serie di riconoscimenti, mirava ad arginare il crescente potere del futuro duca di Milano.

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vito, rivolto dal principe alle comunità urbane, a condividere i suoi sentimenti di gioia. Tanto nell’allestimento di feste e di banchetti, quanto nelle visite del condottiero, tanto nei dispacci riguardanti le vittorie militari, quanto nelle piú svariate cerimonie pubbliche, gli Sforza richiamavano sempre i Marchigiani alla gioia, intesa come segno di partecipazione alla gloria del principe, che si sarebbe cosí riversata sulle comunità soggette. Cosí, nel 1438, un tesoriere sforzesco intervenne nel consiglio comunale di San Severino per comunicare la volontà di Francesco di imporre nuove tasse, in modo da poter accogliere degnamente Bianca Maria Visconti, sua ambíta sposa, con «immensa festa et ludibria». Allo stesso modo, l’anno seguente, in occasione del matrimonio di Isotta, figlia naturale di Francesco, con Andrea Matteo d’Acquaviva, duca d’Atri, Alessandro Sforza invitò tutte le comunità delle Marche a fare «trionfi ed allegrezze». L’esultanza investiva non solo le feste civili, com’è ovvio pensare, ma anche i successi militari. Le fonti abbondano di testimonianze sui fuochi di giubilo accesi nelle campagne all’indomani di ogni vittoria riportata dal condottiero, non appena la notizia fosse giunta fin nelle piú remote contrade. Quasi commoventi, per la loro ingenua sincerità, suonano le parole usate nell’agosto 1442 da un capitano dell’esercito sforzesco, per comunicare al-

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la piccola comunità di Serra San Quirico il matrimonio fra Sforza, figlio di Francesco, e Maria, primogenita del re Alfonso d’Aragona: «Io in questa sera per le bone novelle brusierò el mondo, et cosí conforto voi». L’uso del volgare, del resto, ben si addiceva alle missive di questo tipo, mentre il latino era impiegato per i rapporti ufficiali. Le cerimonie civili organizzate nelle città marchigiane per accogliere Francesco Sforza acquistano una solennità fino ad allora sconosciuta per quelle stesse città. L’opportunità di ospitare Francesco o Alessandro era avvertita non solo come un onore, ma anche come un titolo preferenziale nelle relazioni con il potere principesco. Per tutta la durata della dominazione sforzesca, ogni città non faceva altro che prepararsi al meglio in vista della venuta del principe, che poi regolarmente eludeva al suo proposito a causa di impegni militari che ne richiedevano altrove la presenza.

Una coppa piena di monete

A Fabriano, nel 1438, la comunità provvide a far dipingere a proprie spese l’arme di Francesco Sforza negli spazi urbanistici piú importanti; in vista dell’arrivo del principe in compagnia di Bianca Maria Visconti, il consiglio comunale deliberò di offrirgli in dono una coppa d’argento contenente al suo interno 300 ducati

Da leggere U Giovanni

Benadduci, Della signoria di Francesco Sforza nella Marca e peculiarmente in Tolentino (dicembre 1433-agosto 1447), Tolentino 1892 (ristampa

anastatica: Bologna 1980) Katherine Isaacs, Condottieri, stati e territori

U Ann

nell’Italia centrale, in Federico da Montefeltro. Lo stato le arti la cultura, I, a cura di Giorgio Cerboni Baiardi,

Giorgio Chittolini, Pietro Floriani, Bulzoni, Roma 1986; pp. 23-60 U Francesco Pirani, «Sunt Picentes natura mobiles novisque studentes». Francesco Sforza e le città della Marca di Ancona (1433-1447), in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche, 110 (2012);

pp. 149-190 Zaira Laskaris, Un monumento da sfogliare. Il messale De Firmonibus di Fermo, Aracne, Roma 2013 U Massimo Temperini (a cura di), La Cavalcata U Caterina

dell’Assunta e la città di Fermo. Storia, arte, ritualità, araldica, Andrea Livi Editore, Fermo 2011 U Filippo Andrenacci, La Festa di Santa Maria a Fermo dal medioevo ai giorni nostri, Andrea Livi Editore, Fermo

2011

in moneta sonante. A San Severino, invece, Alessandro Sforza fu ricevuto nel 1441 con ogni onore: dopo una messa solenne nella chiesa maggiore, i priori del comune gli consegnarono le chiavi delle porte cittadine, inneggiando «Vivat Dominus!» e inscenando una liturgia del potere per mezzo di solenni processioni, accompagnate da palme d’ulivo. L’aspetto piú eclatante di tutto ciò risiede nel ricorso alla gioia quale sentimento capace di descrivere le relazioni di potere fra principe e comunità. Tuttavia, l’aspirazione sforzesca a dar vita a un potere principesco fallí per piú di una ragione: la costante lontananza fisica del principe, che vanificava l’insistenza su uno speciale legame fra questi e le città governate; la stridente contraddizione fra il giubilo, di cui si nutriva la comunicazione politica sforzesca, e il cupo fondamento di quel potere, basato sul controllo militare e sull’esorbitante richiesta di tasse e uomini per la guerra. Infine, all’interno delle città, gli ufficiali imposti dagli Sforza non riuscirono mai a creare un consenso: i ceti dirigenti, pur facendo buon viso a cattiva sorte, rimasero ostili alla dominazione sforzesca e un po’ ovunque si susseguirono episodi di ribellione (ad Ascoli se ne contarono tre, tutte soffocate nel sangue, soltanto per l’anno 1443). In breve, lo Stato sforzesco, per dirla con Machiavelli, non era riuscito «a far le barbe», cioè a mettere solide radici nelle Marche. Cosí, al repentino mutare della situazione politica italiana e anche all’approssimarsi della mèta tanto ambíta dallo Sforza, cioè l’acquisizione del titolo di duca di Milano, quello stato affacciato sull’Adriatico si dissolse con la stessa rapidità con cui era stato creato. F

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di Federico Marazzi

Nel 534, il re goto Teodato fa deportare e poi uccidere Amalasunta, figlia del grande Teodorico. Costantinopoli giudica l’evento come un oltraggio intollerabile e, nella primavera del 535, i Bizantini muovono alla riconquista dell’Italia: è l’inizio di un conflitto lungo e sanguinoso, che, accompagnato da epidemie e carestie, lascia la Penisola in condizioni disastrose

La guerra «inutile»

Ritratto del re ostrogoto Baduela, meglio noto come Totila, «l’immortale». Olio su tavola di Cristofano dell’Altissimo, 15521568 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. Nel corso della guerra grecogotica sconfisse piú volte le truppe bizantine e riconquistò buona parte della penisola italiana, arrivando a occupare anche Roma e la Sicilia.


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irca lo stesso tempo anche i Goti, che per concessione dell’imperatore si erano stabiliti in Tracia, si levarono in armi contro i Romani avendo a capo Teodorico, patrizio già in Bisanzio salito al seggio consolare. Zenone imperatore, però, accortamente traendo partito dalle circostanze, esortava Teodorico a recarsi in Italia ed ivi, azzuffatosi con Odoacre, procacciare a sé e ai Goti il dominio dell’impero occidentale; dacché assai meglio era, e tanto piú per un uomo arrivato alla dignità senatoriale, conquidendo il tiranno esser principe de’ Romani e degli italiani tutti, anziché mettersi al grave repentaglio di una guerra coll’imperatore». Cosí lo storico Procopio di Cesarea, vissuto nel VI secolo (vedi box a p. 90), con la prosa un po’ desueta del suo piú celebre traduttore italiano, Domenico Comparetti, condensa gli antefatti lontani di una delle catastrofi belliche piú lunghe e devastanti mai vissute dalla nostra Penisola: la cosiddetta «guerra greco-gotica». Molti considerano i tre decenni abbracciati dal conflitto, dal 535 (anno del suo accendersi) al 553 (anno della sua conclusione ufficiale), come la vera frontiera che separa l’antichità dal Medioevo. La

ricostruzione storica odierna esita ad attribuire a un singolo evento la patente di fattore decisivo e totalizzante, in grado di scandire il passaggio da un’epoca a un’altra e preferisce leggere questi cambiamenti come il frutto di processi di lunga durata, catalogandoli come lente transizioni e non come rapidi mutamenti.

Genesi di un conflitto

Tuttavia, la guerra greco-gotica (o «goto-bizantina», come alcuni preferiscono chiamarla) non costituí, a rigor di logica, un singolo evento, bensí una concatenazione di fatti che, al di là delle vicende militari, coinvolsero profondamente la vita sociale, economica e politica della Penisola lasciandola, alla cessazione delle ostilità, in condizioni assai diverse (e non migliori) rispetto a quelle che la caratterizzavano al momento del suo inizio. Come tutti i grandi conflitti che hanno segnato la storia dell’umanità, anche quello fra gli Ostrogoti e i Romani d’Oriente (che gli storici moderni hanno ribattezzato «Bizantini») non esplose all’improvviso, ma fu determinato da molteplici cause. La piú importante di esse è

A destra Verona, basilica di S. Zeno. Duello tra Teodorico e Odoacre, re degli Eruli, particolare della lastra attribuita al maestro Guglielmo, scolpita con scene che offrono la piú antica rappresentazione della «leggenda di Teodorico». XII sec.

A sinistra Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Particolare di un mosaico, con raffigurate alcune navi nel porto di Classe. VI sec. Nel 540 a Ravenna il generale bizantino Belisario sconfisse il re ostrogoto Vitige (536-540), asserragliatosi nella città, e lo condusse a Costantinopoli con la sua famiglia.

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probabilmente proprio quella che ricordava Procopio: Teodorico e il ruolo che egli aveva avuto nelle vicende dei decenni precedenti. Il capo degli Ostrogoti era stato dirottato verso l’Italia insieme al suo popolo proprio dal governo di Costantinopoli, al fine di alleggerire la pressione che la loro presenza nei Balcani esercitava sulle frontiere dell’impero d’Oriente. Ma lo scopo era anche quello di cacciare dalla Penisola Odoacre, il capo militare (a sua volta di origine germanica), che, nel 476, aveva deposto l’ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo Augustolo. Egli si era visto riconoscere dall’imperatore di Costantinopoli allora in carica, Zenone, la potestà del governo sull’Italia, su parte della Dalmazia e sulle regioni alpine del Norico e della Rezia. Nei dodici anni in cui aveva go-

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vernato l’Italia, Odoacre non aveva mai compiuto atti ostili nei confronti dell’impero, ma a Costantinopoli vigeva l’orientamento che non si dovesse mai permettere ai barbari che occupavano le province dell’impero di consolidare troppo il proprio potere, e ciò in ossequio alla regola secondo cui, prima o poi, esse avrebbero dovuto essere ricondotte sotto la legittima sovranità imperiale.

Divide et impera

Mettere i capi barbari gli uni contro gli altri era perciò una strategia ricorrente. E a maggior ragione essa poteva trovare buoni motivi per essere applicata quando l’oggetto che la riguardava direttamente era l’Italia, culla dell’impero e terra in cui si trovavano Roma e Ravenna. È quindi difficile dire se lo spostamento di Teodorico in direzione

della Penisola sia stato organizzato motu proprio dal re goto e dalla sua gente, ovvero in quale misura sia stato effettivamente incoraggiato e sostenuto da Zenone e dal suo governo. Le fonti del tempo non sono tutte concordi in merito: quelle piú vicine a Teodorico optano ovviamente per la prima soluzione, mentre quelle di parte imperiale (e tra queste Procopio) preferiscono sottolineare il ruolo avuto da Costantinopoli nella «regia» dell’evento. In ogni caso, i Bizantini non avevano tenuto conto delle caratteristiche di colui che avevano inviato contro Odoacre (e del suo popolo) e che fecero sfumare i loro piani, miranti a un’Italia debole, se non addirittura prona ai voleri imperiali. È ancora Procopio di Cesarea, che non può certo essere sospettato di parteggiare per i Goti (dato che

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Dossier fu al servizio del generale Belisario, capo dell’esercito bizantino durante le operazioni da quest’ultimo condotte nella prima parte della guerra), a dirci con quale carattere e con quali risultati Teodorico fosse riuscito a prendere in mano le redini della Penisola: «Non volle invero egli rivestirsi né del titolo né delle insegne dell’imperatore romano, e visse portando il titolo di rex (ché cosí i barbari sogliono chiamare i loro principi): nel governo

però de’ suoi sudditi usò di tutti gli attributi, quanti sono piú essenzialmente imperiali. Poiché prese grandissima cura della giustizia e ferma mantenne l’osservanza delle leggi, e il territorio custodí ben difeso contro i barbari confinanti, avendo toccato il sommo se altri mai, cosí del senno come del valore». «Nè quasi mai avvenne ch’egli facesse torto ad alcuni de’ suoi governati, né che ad altri permettesse di tanto osare (...). Tiranno era Teodorico di nome,

ma di fatto era un vero e proprio imperatore, non punto inferiore ad alcuno di quanti in quella dignità ne’ primi tempi di essa si distinsero: e grande affetto portarono a lui Goti e Italiani, diversamente dal comun uso umano. (...) Rimasto in carica per trentasette anni, venne a morire dopo essere stato spavento de’ nemici tutti, e lasciando un rimpianto di sé fra i sudditi». Teodorico è una delle figure piú affascinanti della storia antica e

Teodorico gestí abilmente i rapporti con Costantinopoli, per esempio fornendo aiuto all’imperatore Zenone odoacre tremisse del re Odoacre in nome dell’imperatore Zenone, a cui Odoacre era ufficialmente sottomesso. Zecca di Milano, 476-477 circa. Al retto: il busto di profilo del sovrano incoronato e la scritta D N ZENO PERP AUG; al verso: la croce tra due rami di palma

leone I Busto dell’imperatore d’Oriente Leone I (457-474), padre di Ariadne, moglie di Zenone. V sec. Parigi, Museo del Louvre. Ufficiale di origine dacica, Leone succedette a Marciano (457) grazie all’appoggio di Aspar, capo delle milizie gotiche addette alla difesa dell’impero.

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ariadne valva di dittico in avorio raffigurante probabilmente l’imperatrice bizantina Ariadne, moglie dell’imperatore Zenone, assisa in trono, incoronata e con in mano un globo sormontato dalla croce. Fine del V-inizi del VI sec. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

medievale, e incarna quasi il simbolo del passaggio da un’epoca a un’altra (vedi anche «Medioevo» n. 198, luglio 2013; anche on line su medioevo.it). Sarebbe impossibile tracciarne qui compiutamente il profilo, ma – oltre alle cose già dette su di lui da Procopio – varrà la pena ricordarne anche qualcun’altra, che riveste particolare importanza nella prospettiva degli eventi della guerra greco-gotica. Quando era ancora un bambino di sette-otto anni, Teodorico era stato inviato in ostaggio a Costantinopoli, come di frequente avveniva in quell’epoca al fine di garantire, attraverso questi «pegni», la fedeltà dei barbari ai patti stabiliti con l’impero. Siamo intorno al 460, e già da qualche anno gli Ostrogoti si erano stanziati nei Balcani settentrionali (fra le odierne Ungheria e Romania) come federati dei Romani d’Oriente, dopo il crollo dell’impero degli Unni di Attila, che avevano occupato quelle stesse regioni.

L’arte del governare

Sino al compimento della maggiore età Teodorico rimase nella capitale imperiale, dove avrebbe ricevuto un’educazione anche di tipo letterario. Sicuramente, in quel periodo ebbe modo di imparare molte cose riguardo l’amministrazione dello Stato romano e, in genere, sulla vita politica e le dinamiche interpersonali che vigevano a corte. Divenuto re del suo popolo nel 474, alla morte del padre Teodemiro, Teodorico gestí con grande abilità le relazioni con Costantinopoli. Costruí un rapporto politico e personale molto intenso con il nuovo imperatore Zenone, fornendogli un aiuto rilevante quando quest’ultimo, fra il 475 e il 476, dovette fron-

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teggiare la ribellione di Basilisco, fratello della vedova dell’imperatore Leone I, di cui Zenone aveva sposato la figlia Ariadne. Non è escluso, perciò, che l’incoraggiamento (o quanto meno l’assenso) imperiale allo spostamento degli Ostrogoti verso l’Italia fosse stato pensato come una soluzione ottimale al fine di poter contare, in un’area simbolicamente cosí importante e strategicamente cosí

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Cesarea

delicata, su un partner affidabile e, tutto sommato, abbastanza influenzabile sotto il profilo politico.

Affidabile, ma autonomo

Sicuramente affidabile Teodorico lo fu. Non compí mai atti di ostilità nei confronti dell’impero e, anzi, le conquiste realizzate nel territorio del regno dei Franchi ebbero l’effetto di mettere sotto pressione lo Stato post-romano che, piú di tutti, aveva

Mar Mediterraneo Re g n o de i Va nda l i

Cartagine

guadagnato autonomia nei confronti dell’impero stesso, dopo la dissoluzione della sua parte occidentale. Influenzabile, però, Teodorico non lo fu di certo, e di sicuro non nel senso di poter essere manovrato dalla corte di Bisanzio. Soprattutto, con il passare degli anni e segnatamente nel corso del primo e del secondo decennio del VI secolo, il re ostrogoto era riuscito a consolidare il suo potere in Italia, novembre

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controllando con efficacia i focolai di conflitto che potevano sorgere dalla convivenza di Goti e Romani sullo stesso territorio e dal fatto che i due popoli seguivano confessioni religiose diverse. Il suo prestigio era perciò progressivamente cresciuto, di pari passo a spazi di autonomia sempre maggiori guadagnati nello scenario politico euro-mediterraneo, apparendo di fatto agli occhi dei contempora-

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Sulle due pagine l’assetto geopolitico dell’Europa al tempo del regno di Teodorico (493-526). A destra Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Mosaico raffigurante l’imperatore Giustiniano I in tarda età: si tratta della probabile rielaborazione di un ritratto del re ostrogoto Teodorico. VI sec.

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Dossier nei come un imperatore-vicario dell’Occidente. Come ha sottolineato lo storico francese Georges Tate (1943-2009), nella sua monumentale biografia dell’imperatore Giustiniano, sino alla conclusione del regno di Anastasio (491-518), «gli imperatori hanno accettato questa formula bastarda, perché costituisce il male minore, anche se li umilia. Questa ha il vantaggio di salvaguardare il mito dell’unità e dell’eternità dell’impero e di preservare la pace nei Balcani». Ma dopo il 518 le cose cambiarono. Al trono salí Giustino I, al cui fianco operò da subito il nipote Giustiniano, destinato a succedergli nel 527. La coppia inaugurò una politica religiosa molto meno tollerante rispetto a quella del predecessore, incardinata sul principio che in tutte le terre dell’impero (quindi inclu-

l’esercito bizantino

Truppe cosmopolite «al soldo» dei generali «Sentivo bestemmiare in alamanno e in goto…» Cosí Francesco Guccini, nella sua celebre canzone dedicata alla Bisanzio di Giustiniano, rievocava in un solo verso l’atmosfera multicolore e, diremmo oggi, multietnica, della capitale dell’impero romano d’Oriente nel VI secolo. Era un impero in cui, negli atti ufficiali, sempre meno si parlava latino e sempre piú greco. Ma proprio perché era un impero, lo Stato su cui Giustiniano regnò per quasi quarant’anni non era appannaggio di questo o quel popolo. Esso era bensí un mosaico di genti che intersecavano i loro destini all’interno di un «sistema» che si riteneva fosse stato costruito su ispirazione divina per garantire in eterno all’umanità ordine e civiltà. Anche i cosiddetti barbari (e cioè coloro che provenivano dal di fuori dei suoi confini), potevano perciò aspirare a divenire «Romani», una volta che si fossero sottomessi all’autorità dell’imperatore, avessero rinunciato alla loro indipendenza e seguito le leggi, pagando le tasse all’erario e contribuendo alla difesa dei confini. Magari non avrebbero perso la loro identità d’origine da un giorno all’altro, ma il fatto che molti di loro fra il V e il VI secolo avessero raggiunto posizioni di vertice all’interno dell’amministrazione e, soprattutto, nell’esercito, testimonia che non contava tanto da dove si provenisse, ma cosa si fosse disposti a fare per difendere l’idea di «Roma Aeterna». L’esercito era quindi lo specchio in grado di riflettere piú

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fedelmente il caleidoscopio di genti e destini che ruotava intorno alle sorti dell’impero. Quello portato in Italia da Belisario e Narsete non faceva eccezione. Procopio descrive con dovizia di particolari i nomi delle zone e dei popoli di provenienza dei gruppi che componevano i reparti guidati dai generali che affiancarono i due comandanti in capo. Ricorda Giorgio Ravegnani, uno dei maggiori esperti italiani di storia militare bizantina, che all’interno dell’impero «le migliori zone di reclutamento erano offerte dalla Tracia, l’Illirico, l’Armenia e i territori montuosi dell’Asia Minore, particolarmente l’Isauria. Zone in cui gli uomini erano piú facilmente staccati dalla terra, sia per la dinamica interna delle società locali che per l’insufficienza delle risorse». In effetti, le masse contadine costituivano l’ambiente sociale preferenziale per il reclutamento dei coscritti, poiché la legislazione imperiale escludeva i commercianti, gli appartenenti alle amministrazioni cittadine, i funzionari pubblici alle dipendenze dei governatori provinciali e, in genere, schiavi e liberti. I coscritti formavano le unità che venivano poi distribuite a presidiare il territorio o inviate sui fronti di guerra. Fra questi si annoveravano le unità dei cosiddetti buccellarii, e cioè quelli che erano pagati direttamente dalla borsa (buccella) dei generali piú importanti, come per esempio Belisario, e che costituivano una sorta di loro guardia del corpo. Come già avveniva da circa due secoli, novembre

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se quelle a esso solo nominalmente sottoposte, come l’Italia o l’Africa settentrionale), dovesse prevalere l’ortodossia cattolica. L’obbiettivo non era solo quello di regolare i conti con una serie di situazioni presenti all’interno dei confini delle aree direttamente controllate da Costantinopoli, ma anche quello di creare dissidi all’interno di regni – come quello africano dei Vandali e quello degli Ostrogoti che dominava su Italia e dintorni – nei quali le popolazioni «barbare» che vi si erano stanziate e i loro re erano sí cristiani, ma di confessione ariana, mentre le popolazioni autoctone erano cattoliche. Nel regno ostrogoto si aggiunse poi il problema della delicata successione a Teodorico. Il re era ormai anziano (nel 520 aveva quasi raggiunto i settant’anni) e non aveva figli

maschi. Aveva fatto sposare sua figlia Amalasunta al nobile visigoto Eutarico, al quale Giustino (per il momento ancora sulla difensiva nei confronti del regno ostrogoto) concesse nel 519 l’onore del consolato, riconoscendo cosí la volontà di Teodorico di proporlo come successore al trono. Ma nel 523 Eutarico morí e suo figlio Atalarico non poté succedergli come candidato al trono, essendo ancora un bambino.

I dubbi dei senatori

A questo punto, forse per effetto dell’indirizzo politico imperiale, negli ambienti dell’aristocrazia italica riuniti nel Senato di Roma, sorsero dubbi sulla continuità del potere ostrogoto. Uno dei membri piú importanti dell’assemblea, Albino, cercò di intavolare contatti epistolari con la corte di Costantinopoli

Ricostruzioni dell’equipaggiamento dell’esercito bizantino: fanti e arcieri (nella pagina accanto) e, in basso, buccellarii

per discutere sulla successione di Teodorico, ma le sue lettere vennero intercettate. Per ritorsione, il re lo fece mettere sotto processo, ma, avvertendo probabilmente il pericolo che l’infedeltà nei suoi confronti potesse coinvolgere anche altri personaggi dell’élite romana che partecipava al governo del regno, avviò un’azione repressiva di piú ampia portata che coinvolse anche Severino Boezio, l’esponente forse piú illustre del gruppo. La reazione imperiale profittò della tensione creata da questi eventi e la acuí deliberatamente, decretando l’illegittimità del culto ariano in tutte le terre dell’impero, compresi quindi anche i regni «barbarici», ancora considerati parte di esso. Il provvedimento mirava a delegittimare Teodorico e i Goti di fronte ai Romani e quindi a destabilizzare ul-

in armatura pesante. Pagati direttamente dai propri generali, questi ultimi ne costituivano una sorta di guardia personale.

anche al tempo di Giustiniano una componente significativa delle truppe era costituita da «barbari». Il loro reclutamento poteva avere modalità assai diverse fra loro: arruolamenti individuali ovvero di contingenti «prestati» ai Romani da popoli alleati dell’impero ma che non partecipavano «ufficialmente» alla guerra, oppure ancora patti di federazione con capi barbari scesi in campo con le loro milizie a fianco degli imperiali. Nel racconto di Procopio di Cesarea ricorrono, per esempio, frequenti menzioni di cavalieri «Mauri» (e cioè probabilmente appartenenti alle popolazioni berbere dell’Africa appena conquistata) e si ricorda la partecipazione di un contingente di Longobardi alla battaglia ingaggiata a Gualdo Tadino fra Narsete e Totila. Apparentemente strano a dirsi, sono ricordati anche diversi casi di singoli Goti o di gruppi di essi (questi ultimi soprattutto nelle fasi conclusive della guerra) passati sotto le insegne imperiali, ma non mancano anche Romani che fecero il percorso opposto. Nel corso degli assedi è infine ricordata la presenza di milizie ausiliarie reclutate fra la popolazione civile.

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1. Il dittico consolare in avorio detto «di Oreste», realizzato per la sua nomina a console nel 530. Londra, Victoria and Albert Museum. Nella fascia superiore, su entrambe le valve, compaiono, all’interno di clipei, i ritratti di Amalasunta e di suo figlio Atalarico, durante il cui regno Oreste esercitò il suo mandato. 2. Nel registro centrale di ambedue le valve del dittico compare il ritratto di Oreste, seduto su una sella curule, che regge in una mano la mappa circensis (il rotolo di tela con il quale si dava il via alle corse) e, nell’altra, lo scettro. Alla sua sinistra sta la personificazione di Costantinopoli, con un disco e una verga, e, alla destra, quella di Roma, che impugna invece i fasci.

3. Nella fascia inferiore, su entrambe le valve, sono raffigurati due bambini che svuotano sacchi pieni di monete.

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teriormente la pace interna al regno. Il re reagí inviando a Costantinopoli il papa allora in carica, Giovanni I, con l’obiettivo di persuadere l’imperatore a ritirare i decreti anti-ariani. Il prevedibile insuccesso della sua missione si ritorse però sul pontefice che, al rientro in Italia, venne imprigionato a Ravenna e, poco dopo, morí in carcere. Tale gesto mise il re in una posizione di diretto conflitto con la Chiesa romana, nonostante egli si fosse adoperato per far eleggere subito il successore di Giovanni, nella persona di Felice IV. In ogni caso, Teodorico non ebbe il tempo di valutare i frutti della sua contromossa, poiché morí poco dopo.

Anni di instabilità

Gli successe il nipote Atalarico, sotto la reggenza della madre Amalasunta, la cui posizione si rivelò sin da subito assai complessa. Nel regno ostrogoto, gli anni compresi fra il 526 e il 535 trascorsero in un clima di grande incertezza e fra continui rovesciamenti di fronte tra la fazione che intendeva continuare la politica seguita da Teodorico negli ultimi anni di regno e quella opposta, che invece tentava di ricucire relazioni piú equilibrate fra Goti e Romani e di evitare la radicalizzazione del confronto con l’impero d’Oriente. Seppur incline a non sbilanciarsi, Amalasunta era apparentemente piú propensa alla ricostruzione di un rapporto di buon vicinato con l’impero, se non di vera e propria acquiescenza nei suoi confronti. Alcune fonti parlano addirittura di manovre che la regina avrebbe tessuto per fuggire dall’Italia con il tesoro del regno e rifugiarsi a Costantinopoli. Certo è che, quando l’esercito imperale iniziò la guerra di conquista del regno dei Vandali, fra le odierne Tunisia e Algeria, Amalasunta concesse alla flotta proveniente da Costantinopoli di utilizzare basi d’appoggio in Sicilia. Contemporaneamente, poiché agli inizi del 534 suo figlio era morto, cercò di proteggersi sul fronte interno, contraendo un matrimo-

nio di convenienza con il cugino Teodato con il quale aveva concordato che sarebbe rimasta comunque lei a gestire le redini del potere. Ma Teodato – che le fonti ricordano come un personaggio ambiguo e corrotto, disprezzato da Teodorico – non mantenne la parola e la fece arrestare, deportare sul lago di Bolsena e infine uccidere a tradimento (vedi «Medioevo» n. 204, gennaio 2014; anche on line su medioevo.it). A Costantinopoli la notizia dell’omicidio fu considerata (piú o meno pretestuosamente) come un atto che delegittimava i vertici del regno ostrogoto e che poteva quindi autorizzare l’impero a intervenire manu militari. Nello stesso anno 534 le campagne d’Africa si erano ormai concluse con l’abbattimento del regno vandalo, ma la situazione non era del tutto tranquilla e pacificata. In particolare, perché le popolazioni berbere delle aree interne, che già avevano dato parecchio filo da torcere ai Vandali, non avevano accettato di essere consegnate da un dominatore a un altro. La prospettiva d’intraprendere una nuova guerra in Italia, per quanto ampiamente presa in considerazione, non poteva perciò essere attuata a cuor leggero, anche perché – oltre a obbligare a lasciare in sospeso le questioni ancora aperte in Africa – erano evidenti i rischi di un attacco al regno goto. Per quanto politicamente indebolito rispetto agli «anni d’oro» di Teodorico, si trattava di una compagine da non sottovalutare sotto il punto di vista militare e, soprattutto, i suoi domini si estendevano su un’area ben piú vasta e geograficamente ostica rispetto a quella dominata dai Vandali.

Una previsione fallace

I Bizantini aprirono comunque le ostilità nella primavera del 535, cercando d’intimidire piú che di aggredire apertamente gli Ostrogoti, probabilmente confidando nella possibilità che le divisioni presenti al loro interno (e la scarsa reputazione di cui godeva Teodato) producessero in tempi brevi il risultato di

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Dossier spillone per capelli fibula orecchino

il tesoro di Domagnano

anello

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pendenti di collana

Catenelle per coltellini

borchie decorative

puntali dei foderi di coltellini

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Fotomosaico degli oggetti facenti parte del Tesoro di Domagnano (San Marino), un prezioso complesso di gioielli, considerato uno dei piú importanti ritrovamenti dell’Italia ostrogota. Fine del V-primo quarto del VI sec. Rinvenuti casualmente in territorio sammarinese alla fine dell’Ottocento, i gioielli furono poi venduti sul mercato antiquario e sono attualmente conservati presso varie raccolte pubbliche e private.

che, soprattutto, portò Belisario a varcare lo stretto di Messina e a iniziare la risalita della Penisola. Tutto il Sud (dove sin dal tempo della conquista dell’Italia i Goti erano poco o per nulla presenti) cadde senza colpo ferire e l’avanzata si arrestò solo alle porte di Napoli, difesa da un presidio ostrogoto di una certa rilevanza e protetta da un sistema di fortificazioni difficile da espugnare. L’assedio durò qualche settimana, sino a quando un soldato di Belisario scoprí che era possibile penetrare in città attraverso il cunicolo di un acquedotto. La sortita fu organizzata nottetempo e, quando i Goti e i Napoletani si accorsero che i Bizantini erano penetrati in città, permettendo l’ingresso anche alle truppe acquartierate al di fuori, era ormai troppo tardi per reagire. Caduta Napoli, molti fra i Goti in armi compresero che la difesa

i Romani negoziarono con Belisario l’apertura delle porte della città in cambio dell’uscita da essa della guarnigione gota che Vitige aveva lasciato a sua difesa. Cosí, all’inizio di dicembre del 536, esattamente sessant’anni dopo la deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente, Roma tornò in mano all’impero. Sul piano simbolico, il successo di Belisario fu di enorme portata: i presidi goti ancora presenti nell’Italia mesgretolarne la resistenza. E invece, ridionale si sciolsero, si ritirarono o una guerra iniziata con la convinsi consegnarono ai Bizantini, che, a zione che sarebbe stata «rapida e questo punto, controllavano metà indolore» si trasformò in poco temdella Penisola. po in un incubo dal quale uscire si Ma Roma era un trofeo assai piú rivelò complicato e doloroso. facile da conquistare che da manteLe prime iniziative furono perciò nere, soprattutto se a doverla premirate a colpire la periferia del residiare era un esercito che probagno e videro due armate bizantine bilmente non raggiungeva i 10 000 muovere verso la Dalmazia e la Sieffettivi. Difendere 20 chilometri cilia. Il capoluogo dalmata, Salona, di mura e 14 porte maggiori (senza venne conquistato quasi subito e contare le posterule) che si aprivacosí fu anche per la Sicilia, con l’ecno in corrispondenza delle strade cezione di Palermo, dove principali, era un comil presidio goto resistette pito complesso, che riLa presa di Roma da parte di per qualche tempo. Ma chiedeva una strategia Belisario, nel 536, fu un successo alla fine del 535 l’isola ben pianificata. Inoltre, era interamente in maall’interno delle mura dall’altissimo valore simbolico no bizantina e il generaviveva una popolazione le Belisario, reduce dai che, sebbene non piú trionfi africani, celebrò la sua con- del regno non poteva piú essere la- numerosa come ai tempi in cui Roquista con un corteo a Siracusa (che sciata nelle mani di un re non solo ma era capitale dell’impero, contadella Sicilia bizantina divenne poi la inetto sul piano militare, ma anche va ancora diverse decine di migliacapitale) l’ultimo giorno dell’anno. sospettato di star tramando una re- ia di abitanti e andava a sua volta Rientrarono allora in azione le sa senza condizioni agli imperiali. difesa e mantenuta in vita, insieme diplomazie. Teodato ritenne di aver La guarnigione di stanza a Roma alle chiese e al clero cattolico. già perduto la guerra e cercò di ne- si ammutinò e proclamò re Vitige. Come già ricordato, le forze del goziare la pace con gli ambasciatori Questi non apparteneva alla stirpe generale bizantino probabilmente imperiali presenti a Ravenna, of- di Teodorico e perciò, per legittima- non superavano i 10 000 uomini, frendo condizioni che oscillavano re la propria posizione, obbligò Ma- considerando che, per rafforzare le fra il riconoscimento di un pieno tasunta, la figlia ancora in vita di proprie posizioni, egli aveva dovuto protettorato imperiale sul regno Amalasunta, a sposarlo. Poco dopo inviare guarnigioni alla conquista goto (amputato comunque di Si- Teodato, che cercava di fuggire da di varie piazzeforti disseminate fra cilia e Dalmazia) e la capitolazione Roma verso Ravenna, fu catturato e Umbria e Toscana, tra cui Narni, totale, che prevedesse la sua fuga a ucciso. Il nuovo re scelse di evitare Spoleto e Perugia: esse furono scelte Costantinopoli e la concessione in un immediato scontro frontale con con lo scopo di presidiare l’itinerario suo favore di una ricca rendita e di Belisario, e preferí trasferirsi a nord, principale che conduceva da Roma onorificenze imperiali. Nell’aprile riorganizzare l’esercito e negoziare a Ravenna e, quindi, di preparare il del 536 quelli che sembravano ac- con i Franchi un trattato che, at- terreno per il balzo successivo in dicordi ormai conclusi furono però traverso la cessione della Provenza, rezione della capitale del regno goto. rimessi in discussione dall’effimero evitasse che essi – mettendosi d’acPrima di poter pensare a portasuccesso militare riportato dai Go- cordo con i Bizantini – gli potessero re la guerra nel cuore del territorio ti in Dalmazia. Si scatenò allora la piombare alle spalle. nemico, Belisario avrebbe dovuto controffensiva imperiale, che non Venuti a conoscenza dell’ap- dovuto affrontare la prova piú diffisolo recuperò le aree perdute, ma prossimarsi dell’armata bizantina, cile: Vitige, infatti, rafforzato il pro-

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Dossier Procopio di Cesarea

Uno storico embedded, ma non privo di livore Nato a Cesarea di Palestina (situata fra le odierne Tel Aviv e Haifa) intorno al 540, Procopio si formò a Gaza, studiando presso la celebre scuola di diritto fiorente allora nella città. Si trasferí nel 527 a Costantinopoli, dove poco dopo venne in contatto con Belisario, che lo assunse come proprio segretario. Da quel momento in poi le vite dei due personaggi rimasero legate a doppio filo sino al momento del ritorno di Belisario dalla prima campagna d’Italia (540). Procopio fu quindi testimone oculare sia delle guerre condotte da Belisario sul fronte persiano, poi di quelle in Africa contro i Vandali e, infine, della prima parte di quelle italiane. Poté anche assistere personalmente a due eventi rilevanti accaduti a Costantinopoli: la rivolta di Nika, che nel 532 stava per travolgere Giustiniano, e l’epidemia (forse di peste bubbonica) che colpí la capitale nel 542. Pur non essendo stato direttamente presente sul fronte, Procopio fu in grado tuttavia di descrivere in dettaglio anche tutte le fasi successive della guerra in Italia, lasciandocene un resoconto credibile e appassionante. Come ha rilevato lo storico tedesco Hans-Georg Beck, è difficile immaginare chi sia stato il «committente» della grande opera storica di Procopio sulle guerre di Giustiniano. Sicuramente non l’imperatore, la cui azione non sempre è tratteggiata in modo positivo e anzi, non di rado, è descritta in maniera apertamente critica; ma forse neppure Belisario, il quale, sebbene rimanga sempre ai suoi occhi un modello di probità e di coraggio, non manca di essere anche raccontato nei momenti bui e di frustrazione, vissuti di fronte alle vicende non certo esaltanti della sua seconda spedizione in Italia.

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Ma in quella che può essere considerata la piú controversa delle opere di Procopio, Belisario viene, almeno in parte, raccontato sotto una luce di tutt’altro genere. Mi riferisco alla cosiddetta Storia Segreta, una sorta di contro-biografia al vetriolo su Giustiniano e sua moglie Teodora, di cui, oltre alla coppia imperiale, è protagonista proprio la moglie di Belisario, Antonina. La donna, descritta come una prostituta – non per necessità, ma per la dissolutezza della sua natura –, sarebbe stata la causa di diversi infortuni incorsi a Belisario. Questi, pazzamente

innamorato di lei, avrebbe dovuto accettarne e coprirne le numerose infedeltà coniugali e si sarebbe cosí frequentemente ridicolizzato di fronte alla sua cerchia, indulgendo spesso a comportamenti indegni del suo ruolo e del suo valore. Sebbene il generale venga ritratto piú come «vittima» che come complice dei comportamenti della moglie, alleata in intrighi e dissolutezze di ogni genere con l’imperatrice Teodora, dalle pagine della Storia Segreta la sua figura (ma anche quella di Antonina) ne esce sicuramente sotto una luce ben diversa rispetto a quella delineata nei libri delle Guerre. novembre

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LE GUARNIGIONI MILITARI OSTROGOTE NELLA PENISOLA ITALIANA Tridentum Trid Tr id den entu um Comum C Co omu m m Mediolanum d Ticinum (P (Pavia) Dertona D De rtona (Tortona) (To (T Tortoonaa)

Tarvisium T Ta rvisium ((Treviso) Treviso) o) Verona

Placentia Ravenna Faesulae Faes Fa essu ullae laaee (Fiesole) (Fi (F ieso s le so le)

Caesena C Ca essen e a

Ariminum (R (Rimini)

Urbinum Urbi Ur bin bi nu um Auximum A Auximu um Petra Pe etr tra Pe PPertusa rtussa rt (Osimo) (O o) del Furlo) ((Gola (G Gol ola de ol el Fu url rlo) o) o) PPerusia Pe eru usi siaa Firmum Spoletium SSp polleettiu tiu ium m Clusium (F (Fermo) C Cl u iu us i m (Spoleto) (Sp (S pole po leto to)) (Chiusi) (C Chi hius ussi)

Urviventus Ur U v veenttus vi us (Orvieto) (Or (O Orrvieeto t )

Tuder Tu T udeer (Todi) (T Tod odi)) odi)

Asculum A As scu ulu lum um (Ascoli (A Asc scol o i Piceno) ol P ce Pi ceno) nno)) no

Reate Re eaatte (Rieti) (Rie (R ietiti) ie i)

Roma R Ro maa Tibur Tibu Ti bu ur Portus (Tivoli) (T Tiv ivol volli)) Beneventum Be eneeve ven ent ntum ntum u Cumae C Cu uma m e ma (Cuma) (C (Cum Cuma) a)) Neapolis Ne N eap a ol oliss

Aceruntia Acer Ac eu er un ntia (Acerenza) (Ace (A cere ce renz re n a) nz

Roscianum R Ro scciaanu num m (Rossano) (R Rosssa s no no) o)

Città fortificate con guarnigioni ostrogote durante la guerra ostrogoto-bizantina (secondo Procopio) Fortezze Sedi di comites goti Capitali

Nella pagina accanto Ravenna, basilica di S. Vitale. Particolare del mosaico raffigurante l’imperatore Giustiniano I circondato dalla sua corte, tra cui si riconosce il generale Belisario (con la barba). VI sec.

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Panormus PPa normus normu

prio esercito, era nel frattempo tornato a Roma per cingerla d’assedio, sperando che proprio le difficoltà tecniche e logistiche insite nella difesa della città potessero portare infine Belisario alla capitolazione. Le pagine che Procopio di Cesarea dedica all’assedio goto di Roma

SSyracusae Sy yra racu cusae cusa cu saae

sono forse tra le piú celebri e appassionanti che egli abbia mai scritto e stupisce che, sino a oggi, la sua avvincente narrazione non sia stata utilizzata come base per una sceneggiatura cinematografica. L’assedio si protrasse sino al marzo del 538 e il suo svolgimento

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Dossier fu scandito sia da episodi di vero e proprio scontro militare, sia da confronti giocati soprattutto sul piano psicologico. Da un lato i Goti cercavano di minare il morale degli assediati (e soprattutto della popolazione civile), sia rendendo complicato l’approvvigionamento di acqua e viveri, sia invitandoli alla defezione e offrendo la prospettiva di condizioni di vita migliori di quelle che il ritorno alla sovranità imperiale (e il coinvolgimento diretto nella guerra) sembrava aver prodotto. Dall’altro lato, Belisario cercava di fiaccare la volontà degli assedianti organizzando sortite improvvise fuori delle mura e assalti ai campi trincerati che essi avevano predisposto intorno alla città: azioni che, piú di infliggere danni rilevanti alle truppe gote, volevano dimostrare la loro incapacità a tenere sotto controllo il circuito delle mura e, quindi, a frustrarne la fiducia nella vittoria finale.

La paura del tradimento

In realtà, la pressione psicologica su ambedue le parti era pesantissima. Belisario era comprensibilmente ossessionato dalla possibilità che qualcuno dei suoi (o, piuttosto, qualcuno degli ausiliari che aveva reclutato fra i civili) si vendesse al nemico, aprendogli di soppiatto una delle porte cittadine, oppure che lo strisciante malcontento provocato dalle privazioni derivanti dall’assedio sfociasse in aperte sedizioni. Per alleggerire la pressione, riuscí a far uscire dalla città donne, bambini e tutti coloro che non reputava utili alla gestione delle operazioni militari. Vitige, d’altra parte, doveva continuamente riorganizzare la dislocazione delle truppe lungo le mura, parare le scorrerie dei Bizantini e intercettare i convogli che venivano loro inviati in aiuto dal Sud con truppe, denaro e vettovaglie. Da un certo punto in poi, il problema principale divenne quello di gestire focolai di infezioni e malattie che iniziarono a diffondersi nei campi trincerati.

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Questa debilitante e interminabile partita a scacchi si concluse solo nella primavera del 538, e non perché uno dei due contenenti avesse avuto ragione dell’altro. Fu infatti l’arrivo di truppe fresche da Costantinopoli, guidate da un ufficiale di nome Giovanni – soprannominato «il Sanguinario» –, a consentire a Belisario di avviare una spedizione nel Piceno, che portò alla conquista di Rimini e a minacciare Ravenna. A Vitige erano poi anche giunte voci che la moglie, Matasunta, stesse tramando con Giovanni per consegnargli la città e offrirglisi in sposa. Il re goto fu cosí costretto a levare le tende e a correre rapidamente al Nord. La battaglia di Roma venne definitivamente vinta da Belisario, il quale aveva dato prova di eccellenti capacità nel gestire l’inferiorità numerica con il nemico e di averlo fatto difendendo una piazzaforte di enormi dimensioni. Nelle settimane successive, a Belisario riuscí un altro colpo a effetto: la conquista di Milano. Piano piano, la morsa sembrò stringersi intorno a Ravenna e la vittoria finale apparve vicina a Belisario. Ma, come un miraggio, la meta si allontanò improvvisamente, e non per colpa dei Goti. Per la prima volta, infatti, all’interno dell’esercito imperiale s’incrinò la compattezza d’intenti e di azione che aveva sin lí permesso, malgrado le difficoltà, di avere sempre la meglio sul nemico. Fra le guarnigioni inviate da Costantinopoli a rinforzo delle truppe di Belisario vi era infatti un’unità che, secondo Procopio, assommava a circa 5000 uomini, comandata da un certo Narsete.

Un eunuco al comando

Costui non era un militare di carriera, bensí un eunuco, di età piuttosto avanzata; proveniva però dall’entourage di Giustiniano ed era un individuo scaltro ed esperto delle dinamiche politiche interne alla corte. Procopio, che evidentemente aveva in Belisario il suo campione, ritiene che l’invio di Narsete fosse stato deciso a Costantinopoli proprio per indeboli-

re Belisario, che Giustiniano avrebbe iniziato a temere come un possibile rivale a causa dei suoi clamorosi successi militari. Stando sempre a Procopio, Narsete avrebbe iniziato ad agire in modo da creare discordia fra i capi delle diverse unità militari dislocate sul territorio, minando l’obbedienza che essi avevano sino ad allora garantito a Belisario. La situazione sul campo era tutt’altro che semplice. Le città conquistate nel Piceno e la stessa Milano erano distribuite sul territorio italiano a pelle di leopardo, intervallate da aree di cui ancora sfuggiva il controllo. Rimanendo in Italia centrale, Procopio riferisce per esempio che, a fronte della conquista di Spoleto, Perugia, Rimini e Ancona, vi erano centri come Osimo, Orvieto e Urbino che erano ancora saldamente in mano gota. Inoltre, il protrarsi della guerra da ormai oltre due anni iniziava a creare sofferenze enormi alla popolazione e non contribuiva a facilitare l’azione nelle aree in cui il confronto militare era ancora in corso.

Il declino di Narsete

Le esitazioni causate dalle divisioni interne al comando bizantino permisero ai Goti di cogliere un successo insperato. Milano, ridotta alla fame, fu costretta alla resa; le truppe imperiali vennero fatte prigioniere, ma la popolazione fu sottoposta a massacri e violenze e – è ancora Procopio a riportarlo – le donne vennero consegnate come preda di guerra al contingente di Burgundi unitosi alle truppe gote. Lo smacco rappresentato da questo evento finí per screditare Narsete a tal punto da obbligare Giustiniano a richiamarlo a Costantinopoli. Belisario cominciò a riconquistare terreno e, nonostante azioni di disturbo condotte dai Franchi e la prosecuzione delle campagne di diffamazione condotte a suo danno presso l’imperatore, riuscí infine a cingere d’assedio Ravenna e a persuadere Vitige a capitolare. Era l’estate del 540 e, dopo quasi un quinquennio di guerre, la vittoria finale novembre

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Miniatura raffigurante il generale Belisario ricevuto dall’imperatore Giustiniano I, da un manoscritto della Chronique des Rois de France. XV sec. Chantilly, Musée Condé.

sembrava ormai raggiunta. Ma fu un’illusione. Belisario venne richiamato a Costantinopoli, portando con sé Vitige, la moglie Matasunta e i figli. Giustiniano concesse al re una rendita e un dignitoso ritiro dalle scene, ma non fu altrettanto generoso con il suo generale, per il quale provava invidia e timore, anche perché gli erano giunte voci che Belisario avesse intavolato trattative segrete con i Goti per mercanteggiare la loro resa in cambio della sua proclamazione a re d’Italia. A Belisario fu perciò

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negato l’onore del trionfo pubblico, anche se la sua popolarità nella capitale era tale da costringerlo a girare scortato per controllare l’entusiasmo degli ammiratori. Non è difficile immaginare che Giustiniano potesse effettivamente aver creduto alle voci sull’infedeltà del generale e volesse perciò cautelarsi; ma, in realtà, il ritiro di Belisario dall’Italia era dipeso anche dal riaccendersi della guerra sul fronte persiano.

Leggerezze gravissime

In ogni caso, a Costantinopoli fu clamorosamente sottostimata la capacità di reazione che i Goti erano ancora in grado di esprimere e, probabilmente, vi fu una altrettanto grave leggerezza nel valutare i problemi di gestione che l’ammi-

nistrazione dell’Italia poneva, dopo i danni arrecati da una guerra protrattasi cosí a lungo. Gli errori piú gravi furono quelli di non ricostituire una catena di comando militare che facesse capo a un solo soggetto, com’era accaduto durante le campagne di Belisario, e di pretendere di recuperare le risorse per la ricostituzione dell’amministrazione civile gravando sulle spalle della popolazione locale, imponendole, con metodi anche brutali, una tassazione troppo onerosa. Tutto questo avveniva mentre ai Goti era rimasto comunque il controllo della maggior parte delle terre al di là del Po. Anche per loro non era facile riorganizzarsi dopo la perdita della capitale e la scomparsa di un capo carismatico come Vitige.

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Nella pagina accanto litografia ottocentesca raffigurante l’ingresso a Roma di Belisario durante la guerra greco-gotica. L’Urbe fu «conquistata» dal generale nel 536, ma fu poi ripresa dal re Totila nel 546 e sottoposta a saccheggio. Abbandonata dai Goti, venne quindi nuovamente occupata da Belisario. In questa pagina follis in bronzo di Teodato, re degli Ostrogoti. Zecca di Roma, 534-36. Londra, British Museum.

Quest’ultimo aveva ceduto solo di fronte alla possibilità che all’Italia e ai Goti, attraverso un accordo con Belisario, venisse garantita una parziale indipendenza o, quanto meno, una condizione che non prevedesse la totale e incondizionata sottomissione all’impero. Fra i suoi si oscillava ancora fra diversi propositi: arrendersi definitivamente agli imperiali, lottare per mantenere l’indipendenza delle aree transpadane, oppure riaprire la partita e cercare di riconquistare posizioni piú favorevoli per una trattativa con l’impero, non piú giocata solo sulla difensiva. Alla fine prevalse quest’ultimo orientamento e nel 541, dopo la rapida elezione e l’altrettanto rapida eliminazione di due re, Ildibado ed Erarico, venne eletto Baduela, passato alla storia soprattutto per il soprannome che si guadagnò sul campo: Totila, cioè «l’immortale».

Le vittorie di Totila

Nell’inverno del 542, venuto a conoscenza della riorganizzazione militare avviata dai Goti, Giustiniano ordinò di passare al contrattacco, inviando un esercito alla volta di Verona. Ma la mancanza di coordinamento fra i comandanti rese la spedizione inefficace e costrinse le truppe imperiali a un ripiegamento dall’altra parte del Po. Una mossa che le espose al contrattacco di Totila, il quale, con una manovra aggirante, piombò alle loro spalle e, nella pianura presso Faenza, le sba-

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ragliò. L’episodio ebbe luogo nella primavera del 542 e offrí il destro al re goto per allestire una campagna fulminante che, evitando Roma e Ravenna, lo spinse verso sud. Inflisse una nuova sconfitta ai Bizantini presso Fiesole e quindi dilagò nel Sannio, nella Puglia e, attraverso la Lucania, raggiunse la Calabria. Anche Napoli, che in un primo tempo aveva resistito, si arrese. Solo a questo punto Totila decise di riaprire i giochi per la conquista di Roma.

Il sovrano alternava alle iniziative militari abili mosse propagandistiche, soprattutto operando in favore delle categorie sociali, come i contadini, che piú avevano sofferto l’inasprirsi delle esazioni fiscali imperiali. All’inizio del 543, i Goti avevano ripreso in mano buona parte dell’Italia, ma non Roma, né Ravenna né la Sicilia e non è chiaro quante delle piazzeforti presenti nelle regioni centro-meridionali fossero effettivamente sotto il loro controllo. Fra il 543 e il 550 l’andamento della guerra, pur non registrando recuperi significativi da parte degli imperiali, non volse neppure definitivamente in favore di Totila.

Anche la ricomparsa sul campo di Belisario, finalmente inviato in Italia da Giustiniano nell’estate del 544, non sortí effetti decisivi, se non quello di riprendere il controllo delle regioni piú meridionali della Penisola. Un successo a cui fece però da contraltare lo smacco della caduta di Roma.

Un’occasione mancata

Totila l’aveva messa sotto assedio nella primavera del 545 e, questa volta, a difenderne le mura non c’era un comandante delle capacità di Belisario (che cercò ripetutamente, ma invano, di raggiungerla e rifornirla), bensí il generale Bessa. Questi, pur riuscendo a contenere gli assalti nemici, non mostrò altrettanta sagacia nella gestione dei problemi crescenti patiti dalla popolazione assediata. Procopio lo accusa anzi di aver profittato della carestia determinata dall’assedio per lucrare ai danni dei Romani, speculando sui prezzi dei generi alimentari. Alla fine, nel dicembre del 546, dopo l’ennesimo tentativo fallito di farvi giungere vettovaglie, Belisario accusò un crollo fisico e si ammalò. I Romani intuirono che la partita era persa: il giorno 17 fu aperta la porta Asinaria e i Goti entrarono in città, mentre i Bizantini si diedero alla fuga, insieme alla popolazione civile. Totila ordinò il saccheggio della città che poi, abbandonata anche dai Goti, secondo Procopio sarebbe rimasta deserta per diverse settimane. L’evento, circondato nei secoli da un’aura inquietante e surreale degna dei migliori copioni della fantascienza cinematografica, non fu però sfruttato al meglio da Totila. Muovendo il grosso delle truppe verso sud, permise a Belisario di riprendere Roma e di cogliere cosí l’unico vero successo di questa sua

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Dossier seconda spedizione in Italia. Il generale bizantino rimase nella Penisola ancora sino all’estate del 548, in un alternarsi sul campo di scontri senza reale importanza, salvo la riconquista di Capua. Il problema continuava a essere la scarsa convinzione con cui, da Costantinopoli, l’imperatore sosteneva la sua azione, determinando una situazione in cui, alla fine, fu lo stesso Belisario a chiedere di essere rimosso dal comando e di rientrare alla base. La partenza di Belisario rimise Totila in condizione di agire senza piú avere di fronte un rivale in grado di contrastarlo. Nel 550 egli riuscí perfino a rimettere piede in Sicilia, saccheggiandola in lungo e in largo, ma commettendo l’errore di non occuparla permanentemente – se non in minima parte – e permettendo cosí ai Bizantini di reinsediarvisi poco dopo. Contemporaneamente, vennero riprese anche Roma e la Dalmazia e numerosi contingenti bizantini passarono dalla parte dei Goti. Totila parve sul punto di aver

portato a termine la sua missione e sembra che, in qualche modo, fra il 550 e il 551, stesse iniziando a volgere le sue attenzioni alla ricostruzione del regno, piegato dal protrarsi della guerra. Forse, però, sottovalutò troppo frettolosamente le capacità di ripresa e l’esperienza politico-strategica dell’impero.

In cerca di alleati

Giustiniano aveva avviato un’attenta opera di alleanze con i popoli (Eruli, Gepidi e Longobardi) allora stanziati nelle aree interne dei Balcani. L’imperatore intendeva garantirsi mano libera per il passaggio attraverso quelle regioni di una nuova spedizione militare diretta verso l’Italia ed eventualmente trovare in loco disponibilità a formare contingenti di truppe da affiancare a quelle imperiali. Inoltre, la scomparsa di Teudeberto, il piú attivo dei re franchi nell’intervenire sullo scenario italiano, forniva l’occasione per entrare in Italia da nord, senza dover combattere contemporaneamente contro Goti e Franchi.

Monete del re ostrogoto Totila con immagini della Vittoria alata che regge la croce e un globo sormontato dalla croce. 541-552. Abbazia di Montecassino, Museo dell’Abbazia.

All’inizio, il comando della nuova spedizione era stato affidato a Germano, nipote dell’imperatore e secondo marito di Matasunta, figlia di Teodorico. Ma la morte improvvisa dello stesso Germano ritardò l’avvio delle operazioni e obbligò Giustiniano a scegliere un nuovo comandante, che fu individuato nella persona di Narsete, il personaggio che abbiamo già visto all’opera durante la fase finale della prima campagna di Belisario. Nel frattempo, insediatosi a Roma, Totila cercava di riallacciare i rapporti diplomatici con l’impero, inviando un’ambasceria a Giustiniano con proposte di pace che, però, pretendevano che si riconoscesse il fatto compiuto del ripristino del dominio goto sull’Italia. Un’arma vincente che il re goto aveva saputo utilizzare con efficacia per contrastare i Bizantini sul campo in genere loro piú favorevole, era stata quella di aver saputo allestire flotte da guerra. Esse erano state in grado di mettere sotto controllo le rotte marittime che, lungo l’Adriatico, lo Ionio e il Tirreno, avevano permesso di bloccare rifornimenti e rincalzi alle truppe bizantine ancora presenti in Italia. Ma fu proprio una clamorosa vittoria navale conseguita contro la flotta gota al largo di Senigallia, nell’estate del 551, a smuovere le residue esitazioni nei comandi bizantini per avviare di nuovo le azioni militari sulla terraferma.

Per via d’acqua

Nella pagina accanto cartina nella quale sono riassunti i principali movimenti degli eserciti nel corso delle due fasi in cui può essere divisa la guerra greco-gotica.

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Entrando dalle Alpi Giulie, Narsete dovette risolvere il problema della presenza di contingenti franchi che, nel quadro dell’ambigua alleanza istituita con i Goti, in realtà presidiavano in modo abbastanza stabile e autonomo le aree del Veneto ed erano presenti anche fra Piemonte e Lombardia. Inoltre, Totila aveva fatto fortificare diversi punti lungo l’itinerario di terra che collegava la zona dell’Adige a Ravenna. Procopio afferma che Narsete riuscí ad aggirare ambedue gli ostacoli muovendo le truppe lungo novembre

MEDIOEVO


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536

Regno degli Ostrogoti NNaarsresetes

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Rom ma Roma 5366 546 547 549 552 Neeapolis olis is Neapolis (N Napooli) (Napoli) 53 5 536 36 3 65 54 543 43 43

Campagne ne delle le e truppe pe biz bi bizantine zanti tine tin (prima fase faase della guerra guerraa greco-gotica) gre gr g eco-g o-gotica) o-g

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544 54 5 4 44 Hydrunt Hydruntu tum tum Hydruntum (Otranto) o)

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M ar Mar TTirren ir r en o

Nuove ccampagne ampagne ne bizantine (secondaa fase della el a guerra ella gu gue ue erra greco-gotica) greco-gotic greco reco gotic otica) ca) Battaglie e principali 552

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Anno della conquista/assedio (nel colore degli assedianti)

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le lagune costiere e utilizzando la fitta trama di corsi d’acqua che, allora, permetteva di transitare dal Veneto alla Romagna senza mai dover mettere piede sulla terraferma. Totila, che si trovava a Roma, dovette assistere senza poter reagire al ricongiungimento delle truppe di Narsete con quelle ancora presenti

MEDIOEVO

novembre

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535 535 53 35

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536 53 5 3 36 6

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a Ravenna, avvenuto alla metà di giugno del 552. Narsete, a questo punto, decise di affrontare direttamente il re goto, senza attardarsi a consolidare le proprie posizioni nel Nord. Aveva sotto di sé un esercito stimato in circa 30 000 effettivi, che per l’epoca costituiva una forza enorme, e riteneva di potersi gioca-

o

re il tutto per tutto in una partita finale che, comunque fosse andata, avrebbe avuto un esito mortale per uno dei due contendenti. Totila gli venne incontro da Roma e i due eserciti si trovarono l’uno di fronte all’altro nella valle di Gualdo Tadino, lungo la via Flaminia. Narsete ebbe l’abilità di atten-

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Dossier

dere che Totila fosse il primo a gettarsi all’attacco, in modo da bloccarne la cavalleria con una manovra a tenaglia che finí per annientarla, sbaragliando poi anche il resto delle truppe. Lo stesso Totila fu ferito mortalmente nei combattimenti e perse la vita poco dopo. Il colpo ricevuto con la battaglia di Gualdo Tadino fu durissimo, ma non ancora mortale. La sfida con l’impero ormai non era piú alla pari, ma i Goti sopravvissuti all’evento e quelli che non vi erano stati coinvolti e ancora controllavano diverse città e piazzeforti italiane

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cercarono di riorganizzarsi, proclamando a Pavia un nuovo re nella persona di Teia. L’anno proseguí fra massacri (inferti da ambo le parti soprattutto alla popolazione civile e ai senatori che i Goti tenevano in ostaggio), scontri di minore entità e un progressivo espandersi della riconquista bizantina.

La battaglia decisiva

Inaspettatamente, l’ultimo e decisivo scontro avvenne in Campania, dove Narsete si era diretto con il grosso dell’esercito cercando di assalire Cuma, città nella quale Totila

aveva depositato parte rilevante del tesoro regio. Per tentare di fiaccare il potenziale offensivo di Narsete e costringerlo a rinunciare al suo obbiettivo, Teia attaccò battaglia nelle campagne fra Nola e Nocera, ai piedi dei monti Lattari. La battaglia, che si svolse nella seconda metà di ottobre del 552, costò anche in questo caso la vita al re, la cui testa mozzata fu innalzata su una lancia per mostrare ai Goti l’inutilità della resistenza. I manuali di storia considerano questo episodio come l’atto conclusivo di un conflitto durato novembre

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Affresco del ciclo con le Storie di Sant’Ercolano raffigurante Totila che conquista Perugia e la decapitazione del santo (547), opera di Benedetto Bonfigli. 1461-1480 circa. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, Cappella dei Priori.

diciassette anni. Ma la realtà sul campo era ben diversa: l’Italia era ancora in preda al caos e ai Bizantini sfuggiva ancora il controllo di diverse aree. Solo nella primavera del 555 Narsete riuscí ad avere ragione di una nutrita guarnigione asserragliata a Conza – nell’attuale provincia di Avellino – composta, oltre che da Goti, anche da Alamanni e Franchi. Nell’autunno dell’anno precedente i Bizantini dovettero respingere una nutrita spedizione composta proprio da uomini appartenenti a questi due ultimi popoli, sconfiggendola infi-

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ne sul campo, ancora una volta in Campania, presso il varco dell’Appia sul Volturno.

Posizioni ambigue

Non è chiaro a che titolo agisse questo corpo di spedizione dei Franchi, né perché gli altri gruppi appartenenti a questo stesso popolo fossero penetrati in Italia e, in alcuni casi, vi si fossero insediati ormai da qualche tempo. La posizione dei re merovingi che si spartivano il territorio del regno franco era stata sempre piuttosto ambigua sia verso i Goti, sia verso i Bizantini. Essi non avevano mai

ufficialmente lanciato campagne di conquista contro la Penisola, ma non è da escludere che i gruppi armati penetrati entro i suoi confini avessero potuto agire come «avanguardie» di un progetto di piú ampio respiro da realizzare dopo che la guerra fra Goti e Bizantini avesse definitivamente sfiancato entrambi. In effetti, le azioni militari poste in essere da Narsete e dai suoi contro le residue sacche di resistenza gote e franche, presenti soprattutto in area padana, si protrassero sino al 562. La reale durata della guerra gotica è quindi molto piú estesa nel tempo di quanto tradizionalmente si tenda a credere e occupa quasi un trentennio. Anche tenendo conto di questa cronologia prolungata, parlare di superamento vero e proprio dello stato di guerra o, quanto meno, di insicurezza diffusa sul suolo italiano sarebbe imprudente. Alle sanguinose vicende di questo conflitto seguirono, infatti, solo sei anni piú tardi, quelle dell’invasione longobarda. E le informazioni che le fonti propongono suggeriscono che essa era avvenuta in un quadro in cui il controllo dei Bizantini su diverse aree del Nord Italia era ancora assai precario. Per un breve periodo, però, l’Italia intera era rientrata, almeno formalmente, sotto le insegne imperiali. Ma di che cosa erano veramente tornati in possesso i Bizantini? Andando a ritroso nel tempo, è difficile trovare altri momenti in cui la Penisola aveva visto tutto il proprio territorio interessato da eventi bellici cosí intensi, prolungati e distruttivi. Soprattutto, questa guerra – che alla fine divenne una vera lotta senza quartiere – ebbe luogo in una fase storica in cui l’Italia disponeva di ben poche risorse alle quali attingere per riprendere fiato. Nell’agosto del 554 Giustiniano aveva emanato la cosiddetta «Prammatica Sanzione», con la quale intendeva mettere mano alla riorganizzazione amministrativa della Penisola e predisporre una sorta di «Piano Marshall» per la sua ricostruzione. Ma, a differenza di quanto poterono fare gli Stati Uniti nell’ultimo dopo-

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Dossier guerra, l’impero romano d’Oriente non era in grado d’investire risorse sufficienti a far decollare di nuovo quella che, alla fine dei conti, era una provincia posta alla periferia dei suoi immensi domini, il cui cuore Slavi e Persiani minacciavano ben piú da vicino. Roma. Una veduta di Porta Asinaria, attraverso la quale, durante la guerra greco-gotica, entrarono in città prima Belisario (536) e poi Totila (546).

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Quella gotica fu perciò una «guerra inutile»? Volendo valutarne gli effetti al di là dell’immediato successo, sicuramente sí. Massacri, distruzioni materiali, il diffondersi di una micidiale epidemia (di peste?) portata probabilmente dalle trup-

pe sbarcate da Oriente, l’annichilimento delle vecchie classi dirigenti e gli sconvolgimenti sofferti dalla vita già grama delle popolazioni rurali: tutto questo non valse neppure a garantire all’Italia un equilibrio politico stabile e duraturo. Molti storici ritengono anche che l’enorme salasso in termini di

All’indomani del conflitto, Giustiniano cercò di risollevare le sorti della Penisola, ma l’impresa si dimostrò inattuabile

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uomini e risorse che l’impero subí per portare a termine la guerra abbia costituito la premessa per i successivi rovesci che, a distanza di ottant’anni dalla morte di Giustiniano, ne ridussero i territori della metà, chiudendolo per i successivi cinquecento anni nel ristretto recinto delle aree elleni-

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che e anatoliche, con marginali propaggini in Italia. Una parola va poi spesa anche per ricordare che questo immane conflitto (e gli intrighi politici che lo avevano preceduto) rase al suo-

lo l’esperimento portato avanti da Teodorico di realizzare una pacifica convivenza fra Goti e Romani. È difficile provare a immaginare cosa ne sarebbe stato di quel progetto, dopo la morte del grande re, anche se non si fosse scatenata l’apocalisse militare dei trent’anni suc-

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Dossier Per saperne di piú I testi di Procopio sulla guerra gotica (a cui sono dedicati gli ultimi quattro libri della Storia delle guerre) e la Storia Segreta sono disponibili in italiano, in varie edizioni. Per il primo, si ricordano quella a cura di Elio Bartolini e con la traduzione di Domenico Comparetti (ristampato da Editori Associati-Longanesi, 1994 e poi ancora da Garzanti nel 2007) e quella, in prosa piú moderna, curata da Filippo Maria Pontani (pubblicata da Newton Compton nel 1974, ma oggi quasi introvabile). Per il secondo, sono disponibili l’edizione curata e tradotta da Federico Ceruti (Rusconi, 1977), quella curata da Federico Conca e tradotta da Paolo Cesaretti (BUR Rizzoli, 1996) e infine quella tradotta e curata da Lia Cresci Sacchini (Garzanti, 2008). Sulle vicende della guerra, manca purtroppo in italiano una sintesi che le tratti in modo specifico, e si deve quindi ricorrere a opere sul periodo che ne danno comunque un resoconto sufficientemente dettagliato. Si possono proporre a tal fine le pagine del I volume del ponderoso studio sul Tardo Impero Romano di Arnodl H.M. Jones dedicate ai regni di Giustino I e Giustiniano (Il Saggiatore, 1968) e quelle sulla riconquista bizantina dell’Italia nel volume I Bizantini in Italia di Giorgio Ravegnani (Il Mulino, 2004). Piú recentemente (2006) si è aggiunta la monumentale biografia su Giustiniano di Georges Tate (Salerno Editrice), che dedica ampio spazio a questi eventi. Sugli antefatti della guerra e sulla situazione del regno ostrogoto dall’età di Teodorico sino agli anni del conflitto è anche molto utile il volume di Claudio Azzara Teoderico, edito nel 2013 da Il In alto la battaglia combattuta nell’ottobre 552 ai piedi dei Monti Lattari, in una litografia a colori tratta da un dipinto di Alexander Zick. 1890. Lo scontro,che oppose il vittorioso esercito bizantino di Narsete ai Goti di Teia (la figura al centro, vestita di nero), portò alla morte del sovrano barbaro, segnando simbolicamente l’epilogo della guerra greco-gotica.

Mulino, che affronta anche il tema della strategia politicomilitare di Vitige e Totila. Piú ricco è il panorama delle opere sulla storia militare e le tecniche belliche del tardo impero romano e di quello bizantino, che intersecano il proprio racconto con quello sulle truppe «barbariche» che molto spesso combatterono fra le fila dell’esercito imperiale. Si ricordano in particolare gli studi del già ricordato Giorgio Ravegnani: Soldati di Bisanzio in età giustinianea (Jouvence, 1988) e I Bizantini e la guerra. L’età di Giustiniano (Jouvence 2004); il libro di Warren Treadgold, Bisanzio e il suo esercito (284-1081) (Libreria Editrice Goriziana, 2007); il volume di Giuseppe Cascarino e Carlo Sansilvestri, L’esercito romano. Armamento e organizzazione, vol. IV, L’Impero d’Oriente e gli ultimi Romani (Il Cerchio, 2012). Ma non si può tralasciare il ponderoso lavoro di Edward Luttwak La grande strategia dell’Impero Bizantino, pubblicato da Rizzoli nel 2009. Sui retroscena dell’opera di Procopio e sulla sua biografia personale, di fulminante e appassionante lettura è il libro di Hans-Georg Beck, Lo storico e la sua vittima. Teodora e Procopio (Laterza, 1988).

cessivi. È però certo che, guardando a quanto avvenne fra il VI e il VII secolo nella Gallia dominata dai Franchi e nella penisola iberica controllata dai Visigoti, l’assenza di episodi altrettanto traumatici produsse una «transizione» molto piú morbida fra l’epoca in cui l’impero di Roma era ancora integro e quella che usiamo definire come «Medioevo».

Un trapasso doloroso

In Italia questo trapasso avvenne in maniera assai piú dolorosa e,

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dopo la fine della guerra gotica, si dovettero attendere almeno cento anni per rivedere un po’ di luce in fondo al tunnel di uno sfacelo economico e sociale per noi oggi difficile da immaginare. Su questo quadro di fondo, l’arrivo dei Longobardi non incise, di per sé, in modo cosí pesante come si potrebbe a prima vista immaginare, ma certamente rappresentò il definitivo punto di «non ritorno» fra un passato ormai consumato e un futuro ancora tutto da scrivere. V novembre

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macchine d’assedio ariete testudinato

Attacco di testa

di Flavio Russo

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L’ariete è la macchina d’assedio forse piú popolare ed è anche una delle prime mai approntate dall’uomo. Il suo utilizzo fu ampio e diffuso anche in epoca medievale, poiché non era certo venuta meno una delle condizioni essenziali per la riuscita di un assedio: l’abbattimento delle mura nemiche

Con l’avvento delle armi da lancio, il raggio entro cui cadevano pigne o cocchi si ampliò al pari della letalità degli impatti, formando una superficie di terreno talmente mortifera da far, non di rado, rinunciare alla prosecuzione dell’investimento dopo le prime perdite. La si chiamò perciò dominio, anche se, in realtà, era solo una fascia di rispetto, nella quale, peraltro, i tiri piú violenti erano quelli che impattavano ai piedi delle mura. Lí, infatti, si abbattevano le pietre di qualsiasi peso, che, come un filo a piombo, cadevano sulla verticale, costituendo cosí la difesa piombante, di brevissimo raggio, ma di enorme potenzialità distruttiva. Non a caso la si accentuò incrementando l’altezza delle mura e, piú ancora tentando, sin dal II millennio a.C., di mutare la traiettoria verticale dei proietti in orizzontale, munendo il piede delle mura di una scarpa inclinata di 45° per farli rimbalzare verso l’esterno. Insignificante era la gittata, ma micidiale il suo esito, poiché risultava impossibile prevederne la direzione.

La fase cruciale dell’assedio

Les Baux-de-Provence (Francia). Ricostruzione di un ariete medievale realizzata nel pressi del locale castello. Simili macchine d’assedio replicavano, senza sostanziali differenze, i prototipi messi a punto in età antica e, in particolare, la versione elaborata in epoca romana.

I I

l verbo «fortificare» significa letteralmente rendersi piú forti per sperare di resistere a un aggressore, ma, in origine, veniva piuttosto inteso come il rendersi irraggiungibili: chi non può essere catturato è di fatto il vincente. Perciò, se si riusciva a sfruttare il vantaggio dell’altezza – l’ostacolo naturale che conserva a tutt’oggi il suo valore dissuasivo –, l’immunità era garantita. La conferma si ebbe quando, per sottrarsi alle fiere, i «pasti» designati scamparono ai loro denti arrampicandosi su di un albero e costringendo le belve a desistere da quel primordiale assedio. Se poi l’albero fosse stato un pino o una palma da cocco, i frutti si sarebbero trasformati in proietti che, dopo qualche doloroso impatto, avrebbero scacciato l’animale, trasformando la rudimentale fortificazione da meramente passiva in attiva.

MEDIOEVO

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Quale che fosse la tecnica ossidionale adottata, veniva il momento in cui, serrate le distanze, si doveva intraprendere il superamento delle mura, scavalcandole o sfondandole: nel primo caso, con larghe scale d’assalto; nel secondo, tramite gli urti cadenzati dell’ariete. In entrambi i frangenti, tuttavia, si doveva operare nell’anzidetta micidiale fascia di terreno immediatamente antistante alle mura, dove chiunque avesse osato penetrarvi, anche per pochi istanti, sarebbe stato maciullato dai lanci delle pietre, bruciato dai getti di liquidi ustori o trafitto dai quadrelli. Il classico scudo da combattimento, tenuto sul capo, non offriva alcuna protezione e risultava del tutto inadeguato, al pari della classica formazione a testuggine dei legionari valida contro la ricaduta dei dardi nemici, ma decisamente velleitaria contro gli impatti di pietre del peso di un mezzo quintale scagliate da una ventina di metri di altezza. Poiché l’accostamento al piede delle mura era comunque inevitabile, occorreva ideare una macchina apposita, una testuggine al contempo tanto robusta e ampia da poter proteggere una squadra di otto-dodici serventi, necessari per la manovra, che ricevette perciò la definizione di «ariete testudinato». Se il criterio informatore fu subito chiaro, trattandosi di una sorta di tetto a due falde, quello costruttivo richiese una maggiore perizia. I Romani non furono certamente i primi a cimentarsi con quel tipo di scudatura mobile, ma ne furono gli ottimizzatori, rendendola facile e rapida da montare, nonché agevole da trasportare, ispirandosi alle travate delle coperture per garantirne la resistenza. Le sue due falde avrebbero dovuto innanzitutto formare fra loro un angolo molto acuto per favorire la deviazione laterale dei proietti, come i tetti facevano con la neve. Per sopportare gli impatti, dovevano essere formate con tavoloni sostenuti da travi, posti a breve intervallo

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macchine d’assedio ariete testudinato

l’uno dall’altro. Inoltre il loro piede, per scongiurarne la divaricazione che poteva essere causata dalla violenza degli impatti, andava bloccato con travi orizzontali, come piú tardi si fece con le catene delle capriate. A rendere coesa l’intera struttura provvedevano un massiccio trave di colmo, al quale veniva sospeso l’ariete, e due altri travi di base di identico spessore, al di sotto dei quali venivano posti i rulli per la manovra di accostamento.

Le modifiche degli ingegneri ellenistici

vitabilmente strette e di modesto diametro, sarebbero in breve affondate nel terreno, frustrando il ricorso a piste approssimate. Per proteggersi dai tiri delle artiglierie elastiche e potersi cosí accostare fino al limite esterno della difesa piombante si utilizzò un’altra macchina, concettualmente simile, ma piú ampia e leggera, definita per la sua somiglianza vinea, vigna. Al pari della testuggine, anche la vinea era ricoperta e rivestita con pelli appena scuoiate in funzione ignifuga e zolle erbose in funzione ammortizzante, e in rari casi persino di lastre di ferro. Come accennato, la testuggine trovò ampia utilizzazione fin quasi ai giorni nostri e del resto anche il carro armato ne è per molti aspetti l’ultima derivazione. Non stupisce dunque che Viollet-le-Duc se ne sia occupato nel suo trattato con notevole aderenza storica e senza alcun anacronismo tecnico. Ecco la sua descrizione di commento alla tavola inerente: «Includiamo di seguito fra le macchine d’assedio gli arieti testudinati, che erano già utilizzati nell’antichità presso i Greci e i Romani come pure piú tardi presso i Bizantini, e che saranno dismessi soltanto all’inizio del XVI secolo, impiegandosi ancora durante il XV, col nome di gatti, vinee e torri. L’ariete o montone consisteva in un lungo trave, alla cui estremità anteriore stava fissata una testa di ferro, sospeso orizzontalmente in equilibrio per mezzo di funi o di catene, e azionato da diversi uomini agenti sulle corde avvinte alla sua parte posteriore. Imprimendo a questo palo di legno un movimento di va e vieni, si sconnettono i conci dei paramenti murari, fino a farli svellere e crollare». «I serventi, nel frattempo, si riparano sotto una tettoia ricoperta di pelli fresche, di letame o di erba sia per attutire gli

Quanto all’ariete, dobbiamo immaginarlo come un lungo e poderoso tronco di legno, inizialmente utilizzato dagli Assiri non per battere le mura alla base, ma per demolirle in sommità, come una sorta di palanchino gigante. In età ellenistica fu modificato, trasformandolo in un tronco oscillante, non di rado lungo una dozzina di metri e del peso di varie tonnellate, munito anteriormente di una massa di bronzo o di ferro, foggiata a forma di testa di caprone. Per la sua rilevanza incrementava in maniera cospicua il peso complessivo della testuggine che, di conseguenza, avanzava a stento e a costo di ingenti perdite. Per accelerare la manovra e ridurre le vittime, si ricorse a paranchi posti a distanza di sicurezza, le cui gomene, fissate alla macchina, dopo aver girato intorno a pali infissi dinanzi alle mura col favore delle tenebre, venivano alate, determinandone il lento accostamento. Sebbene in molte ricostruzioni grafiche gli arieti testudinati siano raffigurati muniti di rotelle, tale soluzione risulta troppo debole per sopportare il peso della macchina e degli impatti. Senza contare che le rotelle, ine-

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novembre

MEDIOEVO


A destra la tavola in cui Emmanuel Viollet-le-Duc ricostruisce l’ariete testudinato di epoca medievale e ne illustra il funzionamento. Nella pagina accanto, in alto ricostruzione grafica di un ariete testudinato di epoca romana. Come si può osservare, gli spioventi della copertura formano un angolo molto acuto, cosí da facilitare la deviazione dei colpi scagliati contro la macchina dagli assediati. Nella pagina accanto, in basso ricostruzione grafica di vinea (letteralmente, vigna), anch’essa di età romana. Rispetto all’ariete, questa variante della macchina aveva una struttura piú ampia e leggera.

impatti dei proietti nemici, sia per evitarne l’incendio innescato dal lancio di materiali infiammabili da parte degli assediati. La macchina nella sua interezza è posta su rulli o rotelle, per farla avvicinare al piede delle mura tramite un cabetsano o delle leve. Gli assediati intanto cercano di schiantare l’ariete con il lancio di pesanti travi che vengono fatte piombare sulla sua testa non appena inizia a percuotere il muro; similmente cercano di agganciare la stessa testa ferrea mediante una doppia ganascia di ferro che chiamano “lupo” o “louve”. L’ariete se arriva a percuotere le porte in breve tempo le abbatte (...)». «Per offrire la minima presa ai proietti dei difensori, la copertura dell’ariete si costruiva molto inclinata, come una sorta di robusto tetto a due falde con una cresta verso l’estremità posteriore, il tutto ricoperto da tavoloni molto spessi, rinforzati con bandelle di ferro e rivestiti, come detto, di pelli fresche equine o bovine, splamate di terra grassa impastata con erba o letame». «La fig. 31 mostra la carpenteria di questa macchina, privata dei tavoloni e dei pannelli. L’ariete A, una trave di 10 m di lunghezza almeno, era sospeso a due catene parallele B fissate al sotto-colmo in modo di ottenere un perfetto equilibrio. Per mettere in movimento questa trave e ottenerne un poderoso urto, delle funi erano attaccate a un terzo circa della sua lunghezza in C, in modo di consentire a otto, dieci o dodici uomini, di collocarsi su entrambi i suoi lati. Piazzatisi saldamente si sarebbero mossi cosí: un piede D restava fisso, piede destro per gli uomini a destra e piede sinistro per quelli a sinistra. Il primo

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movimento era quello rappresentato nella figura E: consisteva, stando la trave nella sua posizione di riposo AH, nel tirarla indietro, finché dopo qualche sforzo coordinato, la trave si fosse portata nella posizione A’H’. A quel punto il secondo movimento dei serventi era quello F. La trave percorreva allora tutto lo spazio. Il terzo movimento è rappresentato in G. La testa dell’ariete impatta nell’ostacolo della muraglia, mentre i serventi continuano la manovra ripetendo i movimenti E ed F. È chiaro che la corsa KL fatta da una trave di 10 m di lunghezza doveva produrre un effetto devastante sulla base della muraglia. La testa della trave era armata con una massa di ferro avente press’a poco la forma di una testa di ariete (dett. P)». F

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caleido scopio

La Castiglia ritrovata cartoline • Dopo un lungo abbandono, il castello marchionale di Saluzzo

recupera lo splendore originario e offre un viaggio nella storia del territorio, sulle orme dei marchesi che per quattro secoli ne detennero il controllo

L

a splendida corona delle Alpi Cozie, dominata dal massiccio del Monviso, fa da cornice all’imponente castello marchionale di Saluzzo (Cuneo), che domina la cittadina sottostante. L’attuale fisionomia del complesso architettonico, chiamato la Castiglia, è il risultato dei tanti ampliamenti e rimaneggiamenti, commissionati nel tempo dai discendenti della potente dinastia dei Saluzzo, che ne mantenne la proprietà per quattro secoli. Il fortilizio fu innalzato per volontà di Tommaso I, tra il 1270 e il 1286, in sostituzione del precedente avamposto militare, eretto nel 1120 (circa) su di un dosso della dorsale collinare a sud della città, in località Castel Soprano. La nuova architettura, posta piú in basso rispetto alla precedente, garantiva un miglior controllo militare e politico sia sul Borgo Superiore, che sulle magistrature civiche saluzzesi. Nel Trecento la Castiglia divenne una vera e propria roccaforte. A pianta quadrangolare, era

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circondata da una cortina di mura con quattro torri cilindriche sporgenti verso l’esterno.

Da fortezza a residenza signorile Tra la fine del Trecento e i primi anni del Cinquecento, la fortezza fu ingrandita con nuovi apparati di difesa e, trasformata in fastosa dimora di famiglia, venne adeguata alle ambizioni culturali di Tommaso III (fine del XIV secolo) e di Ludovico II, marchese di Saluzzo dal 1475 al 1504. A fornire l’occasione per radicali interventi sull’edificio furono i danni provocati dall’assedio dell’esercito del duca di Savoia Carlo I, avvenuto nel 1487, e le nozze del marchese Ludovico II con Margherita di Foix, celebrate nel 1492. Per contrastare l’introduzione delle armi da fuoco, le cortine furono sostituite da terrapieni o da muraglioni inclinati a scarpa e furono innalzate la grande torre circolare sull’angolo nord-orientale e la retrostante torretta, che, impostate per poter resistere alle

cannonate meglio degli alti torrioni medievali, rafforzavano i lati piú esposti agli attacchi dei nemici. Nell’ala riservata a residenza signorile, corrispondente alla parte dell’edificio verso mezzogiorno, la zona principale era costituita dagli appartamenti marchionali, articolati attorno a una corte interna e a una serie di costruzioni minori, disposte su di un cortile piú vasto. Il degrado e l’abbandono del fabbricato iniziarono con l’occupazione francese del marchesato (1549-1588) e la successiva annessione al ducato di Savoia. Adibito a sede dei governatori, degli uffici governativi e a caserma, nel 1825, dopo una lunga parabola discendente, lo storico edificio fu destinato a casa penale, funzione che aveva già svolto nel XVIII secolo. La drastica trasformazione comportò lo stravolgimento dell’ala in cui era collocata la residenza nobiliare e la conseguente distruzione delle decorazioni quattrocentesche. novembre

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Un museo per non dimenticare Le vecchie celle di isolamento della Castiglia, situate nel seminterrato, ospitano ora il Museo della Memoria carceraria. L’istituzione penitenziaria, dall’apertura nel 1828 alla chiusura nel 1992, ha accompagnato gran parte della storia del regno di Sardegna e dello Stato nazionale: la fase risorgimentale, i primi decenni dell’Unità d’Italia, il ventennio fascista e l’avvento della repubblica. A ciascuno di questi periodi storici corrisponde una diversa concezione della pena e una differente scelta di politica criminale. Personaggi noti (da Tocqueville a Bentham, da Lombroso a Pellico e Cavour), guardiani e funzionari dello Stato sconosciuti al grande pubblico, raffigurati in ologrammi parlanti (il penitenziarista Petitti e il suo amico saluzzese Giovanni Eandi, il primo direttore del carcere Giacomo Caorsi e la «Giulia delle carcerate», Giulia Falletti Colbert marchesa di Barolo), pericolosi briganti e poveri emarginati finiti in carcere per piccoli reati, compongono la storia della Castiglia, considerata il primo carcere moderno del regno sabaudo. Una sezione del museo è riservata al fenomeno della reclusione per motivi politici e religiosi. Infatti alla fine del Seicento la Castiglia è stata tristemente protagonista della deportazione del popolo valdese, mentre nell’Otto e Novecento vi sono stati rinchiusi alcuni patrioti rinascimentali, tra i quali Mazzini e Gioberti, e dei detenuti antifascisti. A sinistra una veduta di Saluzzo (Cuneo). Alle spalle del profilo della città, si staglia la sagoma del massiccio del Monviso (3841 m), la cima piú alta delle Alpi Cozie. In basso l’allestimento di una sala del castello saluzzese, noto come la Castiglia. distrutte nel XIX secolo, sono state ritrovate tracce nel corso di alcune ristrutturazioni.

La rinascita

La turris magna rotunda, il massiccio torrione circolare che sporge dall’angolo nord-est della cortina muraria, compreso tra gli ampliamenti finanziati da Ludovico II probabilmente negli anni 14901491, è una delle poche strutture rimaste integre. La sua funzione era duplice: difendere il castello da un attacco proveniente dalle abitazioni del Borgo Superiore e, nel contempo,

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rendere piú efficiente la difesa della porta d’accesso situata, come oggi, nel punto di raccordo tra il muro settentrionale e lo stesso torrione. L’interno della torre si articola su due piani, voltati e collegati fra loro con scalette, corridoi e piccoli ambienti, da cui era possibile proteggere per mezzo di armi da fuoco il lato orientale del castello. Di queste strutture di collegamento,

Dal 1992 un lungo lavoro di recupero ha interessato il castello, di recente adibito dal Comune di Saluzzo a sede museale. L’itinerario di visita si snoda dai sotterranei ai sottotetti e include anche il percorso di ronda nei resti delle antiche mura, eccezionale punto panoramico sulla catena del Monviso e sulla pianura fino alle Langhe e a Torino. Il terzo piano della manica ottocentesca ospita il Museo della Civiltà cavalleresca, inaugurato nello scorso febbraio. Nato dalla collaborazione scientifica del Comune di Saluzzo con la Società per gli studi storici, archeologici e artistici della provincia di Cuneo, il percorso espositivo illustra i tratti principali dell’identità culturale espressa dai marchesi di Saluzzo e dai ceti dirigenti a loro collegati fra XII e XV secolo

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caleido scopio particolare alla poesia trobadorica, alla novella di Griselda narrata nel Decamerone di Boccaccio, che ha come protagonisti il marchese di Saluzzo, tale Gualtieri, e una giovane e bella popolana di nome Griselda, e al Livre du Chevalier Errant) collocano i marchesi di Saluzzo e alcuni membri del loro gruppo dirigente al centro di un sistema di relazioni intessute con il papato, l’impero, l’Inghilterra, il regno di Francia, quello di Aragona e gli Stati piccoli e grandi della Penisola italiana. L’impianto della narrazione segue un circuito ad anello e si articola in undici sale. Ciascuna di esse è dedicata a un aspetto o a un periodo storico significativo della società cavalleresca e cortese nel marchesato e incentrata su uno o piú personaggi principali dei singoli momenti storici.

Multimedialità e realtà virtuale

Ancora un particolare dell’allestimento del Museo della Civiltà cavalleresca, che occupa il 3° piano della manica ottocentesca e presenta i tratti salenti dell’identità culturale espressa dai marchesi di Saluzzo e dai ceti dirigenti a loro collegati fra il XII e il XV sec. attraverso allestimenti multimediali, ricostruzioni scenografiche di ambienti ed elementi architettonici tratti da miniature del Livre du Chevalier Errant e da edifici quattrocinquecenteschi del Saluzzese. L’impostazione culturale fa riferimento al contesto italiano ed europeo, chiave di lettura del patrimonio storico-artistico del

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territorio. Infatti, al pari di Mantova, Ferrara e Urbino, anche Saluzzo fu la capitale di un piccolo, ma dinamico principato territoriale e uno dei centri dell’Italia settentrionale piú significativi dal punto di vista intellettuale e artistico fra Medioevo e Rinascimento. Matrimoni, carriere ecclesiastiche e militari, riferimenti letterari (in

Una sezione tematica riguarda le donne dei Saluzzo fuori dal mito ed è stata realizzata per sviluppare, a partire dalle tematiche proposte dall’eredità petrarchesca, una conoscenza piú approfondita della storia delle donne, soprattutto nel Saluzzese. Una biblioteca digitale permette ai visitatori di scegliere, sfogliare e richiudere virtualmente alcuni testi con semplici movimenti delle mani, mentre le postazioni touch screen consentono di consultare alcuni preziosi manoscritti e, ai piú giovani, interazioni ludicodidattiche. Nel 2012 il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MiBACT), ha riconosciuto la Castiglia quale «Luogo del contemporaneo». Un’intera ala, sita nella manica ottocentesca, è stata dedicata alla collezione permanente dell’Istituto Garuzzo per le Arti Visive di Torino (IGAV) e a mostre temporanee, installazioni d’arte contemporanea e performance di artisti. Info: IAT ufficio tel. 0175 46710; e-mail: iat@comune.saluzzo.cn.it Chiara Parente novembre

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Lo scaffale Annliese Nef e Fabiola Ardizzone (a cura di) Les dynamiques de l’islamisation en Méditerranée centrale et en Sicile: nouvelles propositions et découvertes récentes Le dinamiche dell’islamizzazione nel Mediterraneo centrale e in Sicilia: nuove proposte e scoperte recenti

École française de RomeEdipuglia, Roma-Bari, 428 pp., ill. n/b et coul.

59,00 euro ISBN 978-88-7228-735-4 publications.efrome.it edipuglia.it

Frutto di un convegno tenutosi a Palermo nel 2012, il volume costituisce un significativo punto di arrivo, ma anche di partenza, per le molte prospettive di ricerca sul tema discusso. Un argomento, l’islamizzazione nel Mediterraneo centrale e in Sicilia, tornato in auge negli ultimi decenni e qui sviluppato grazie a una ricca silloge di studi rivolti ai secoli IX-XI, caratterizzati da

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scambi tra la Sicilia e l’Ifriqiya, senza dimenticare il ruolo svolto dall’Egitto, Malta, Sardegna, Pantelleria, ecc. Centrale è il concetto di «islamizzazione», intendendo per essa la complessa serie di dinamiche sociali che hanno portato a una categorizzazione della società secondo modelli ben precisi che passano per l’educazione, la lingua, la cultura materiale. Dai vari contributi si evince come i mutamenti socio-culturali – grazie all’esame delle fonti scritte e «materiali» – si siano realizzati secondo tempi e ritmi diversificati a seconda delle aree geografiche. Articolato in quattro sezioni, il volume si sofferma sulla Sicilia nel Mediterraneo islamico; sul processo di islamizzazione nel Mediterraneo centrale; sulle evoluzioni sociali, le strutture urbane e le culture materiali; infine, sull’esame dei contesti rurali. Ampio è lo spettro delle tematiche affrontate e delle fonti esaminate: da quelle linguistiche a quelle letterarie, dal sistema monetario all’organizzazione delle gerarchie amministrative, dai reperti ceramici a quelli archeozoologici.

Il costante raffronto tra le realtà indagate definisce, alla luce delle nuove scoperte, un panorama quanto mai diversificato grazie a un approccio comparativo in cui il legame tra storia e sociologia assume un ruolo chiave nello studio di questo processo storico. Franco Bruni Città e campagne del Basso Medioevo Studi sulla società italiana offerti dagli allievi a Giuliano Pinto

Leo S. Olschki Editore, Firenze, 266 pp.

30,00 euro ISBN 978-88-222-6321-6 olschki.it

Docente di storia medievale nelle Università di Siena e Firenze, Giuliano Pinto viene omaggiato dai suoi allievi con una raccolta di saggi che vuole testimoniare dell’importanza del suo lungo magistero. Gli undici contributi confluiti nella silloge sono in molti casi dedicati a realtà e personaggi fortemente caratterizzati in senso localistico, ma si tratta di una «minorità» solo apparente, poiché, dai Comuni rurali delle Marche al beato Orlando de’ Medici – solo per citare due degli argomenti affrontati –, ogni singola vicenda viene analizzata e inserita nel piú ampio

contesto storico e sociale dell’Italia bassomedievale. Ne scaturisce un panorama variegato, che, soprattutto da parte di quanti abbiano intrapreso gli studi di medievistica, può essere utilmente preso a modello metodologico per lo sviluppo delle proprie ricerche. Il che, data la natura del volume, dimostra quanto fruttuosa sia stata la lezione di Pinto. Stefano Mammini

dall’estero Clifford R. Backman The Worlds of Medieval Europe

Oxford University Press, New York, 672 pp., ill. b/n

54,95 USD ISBN 978-0-19-937229-4 oup. com

A dodici anni dalla prima edizione, Clifford Backman propone una terza e aggiornata versione di questo prezioso manuale, che, in 600 pagine circa, ripercorre oltre mille anni di storia, dal III al XV secolo. Numeri a parte, la trattazione è,

però, tutt’altro che elencativa e, pur seguendo il succedersi nel tempo degli avvenimenti piú importanti, l’autore – docente di storia alla Boston University – procede per grandi quadri problematici: vengono dunque affrontati tutti i temi che maggiormente hanno contribuito a caratterizzare l’età di Mezzo, dalla diffusione del cristianesimo al formarsi di un vero e proprio potere ecclesiastico, dall’avvento della dinastia carolingia (con la conseguente restaurazione di un potere di stampo imperiale) alla elaborazione del sistema feudale. Fra le novità di questo aggiornamento, spiccano poi il piú ampio spazio assegnato ai capitoli che si occupano della società ebraica, del ruolo della donna, delle questioni economiche e della cultura islamica. S. M.

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caleido scopio

Melodie imperiali musica • Incoronazioni, nozze, battesimi: ecco

un pregevole saggio di come le vicende politiche e personali degli Asburgo abbiano ispirato alcuni grandi compositori della scuola polifonica fiamminga

C

ollocati cronologicamente tra la seconda metà del XV e la prima metà del XVI secolo, i brani dell’antologia From the Imperial Court. Music for the House of Hapsburg (HMU 807595, 1 CD, www. harmoniamundi.com) offrono un eccezionale campionario della migliore tradizione polifonica fiamminga. A unire gli 11 superbi mottetti è il loro legame, piú o meno diretto, con gli Asburgo; in particolare con Massimiliano I – andato in nozze nel 1477 con Maria di Borgogna –, suo figlio Filippo il Bello – marito di Giovanna di Castiglia – e i figli di questi ultimi Carlo V e suo fratello Ferdinando I, entrambi futuri imperatori del Sacro Romano Impero. Interessante è l’organizzazione dell’antologia, che non segue la successione cronologica dei brani, ma opta per un accostamento del tutto personale dei mottetti, volto a evidenziare le svariate modalità

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del contrappunto fiammingo, che trovò nella Capilla Flamenca, presso la corte di Carlo V, una delle manifestazioni piú alte in termini di prestigio e di livello qualitativo. Ad aprire e chiudere questo straordinario percorso musicale sono rispettivamente un gioioso Jubilate Deo dello spagnolo Cristóbal de Morales, scritto nel 1538 in occasione della pace raggiunta tra Carlo V e Francesco I di Francia, e il bellissimo mottetto Virgo prudentissima di Heinrich Isaac, maestro di cappella di Massimiliano I dal 1497 al 1517, composto in occasione della Dieta del 1507, durante la quale Massimiliano venne confermato imperatore del Sacro Romano Impero.

Una chanson di successo Saltando da una generazione all’altra della scuola polifonica fiamminga, si ascoltano due pregevoli versioni di Mille regretz, nota chanson popolare e particolarmente amata da Carlo V, di cui Josquin Desprez e Nicolas Gombert hanno lasciato una superba lettura polifonica: intimistica nella versione a quattro voci di Desprez, piú solenne e complessa in quella a sei voci di Gombert. Al clima melanconico delle sudette chanson, si accosta anche il mottetto Absalon fili mi, struggente esempio di deplorazione in musica, a dimostrazione di come anche un linguaggio fatto di alto tecnicismo come il contrappunto fiammingo possa esprimere grande drammaticità; il brano è di Pierre de la Rue (1460-1518), maestro di

cappella alla corte di Borgogna, e fu composto per la morte prematura di Filippo re di Castiglia (figlio di Massimiliano I) e reggente della Borgogna per conto del padre. Stesso melanconico clima si respira nel Quis dabit oculis di Ludwig Senfl (1486-1543) scritto per la morte di Massimiliano I. Alla figura di Carlo V ci riportano le composizioni di Jacob Clemens non Papa (1510-1555) con Carole magnus eras, in cui viene osannata la figura di Carlo V, nonché il mottetto di Thomas Crecquillon (1505-1557) dedicato a sant’Andrea, patrono dell’Ordine del Toson d’oro, al quale appartenne lo stesso Carlo V. Interprete d’eccezione di questa antologia è il giovane gruppo inglese Stile Antico, composto da 16 voci miste, la cui peculiarità è quella di esibirsi senza direttore; un modus operandi insolito, ma che permette a ogni singolo componente – come d’altronde accade in ensemble strumentali da camera – di intervenire personalmente alimentando una proficua sinergia di intenti interpretativi. Il risultato è brillante, con emissioni vocali curatissime, fraseggio elegante, lettura attenta e padronanza della sintassi polifonica, e un approccio particolarmente sensibile nell’utilizzo delle masse corali e/o dei soli. Franco Bruni novembre

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Non vi spiaccia «l’ascoltar...»

musica • Di probabili origini bresciane, Vincenzo Capirola firmò una raccolta di

musiche per liuto giunta fino a noi grazie a un codice riccamente illustrato, redatto con il preciso intento di tramandare ai posteri le composizioni del suo autore

A

partire dal Medioevo, il liuto è una presenza costante nell’iconografia sacra e non è un caso che i primi esempi di musica strumentale apparsi in Italia e in Europa siano spesso, tra XV e XVI secolo, composizioni a esso destinate, redatte nel formato di intavolatura, ossia con un sistema in cui vengono indicate le corde e la diteggiatura richiesta per l’esecuzione. Accanto a una produzione che prevedeva l’accompagnamento al canto – una tradizione che caratterizza in particolar modo il XVI secolo – il liuto fa capolino come strumento solista a Venezia, con la prima pubblicazione che gli viene dedicata dallo stampatore Ottavio Petrucci nel 1507. Da quel momento in poi si moltiplicano le raccolte antologiche e cresce anche l’interesse dei compositori, che iniziano a «pensare» in termini strumentali pur tenendo a modello la musica vocale.

alla piacevolezza del gesto sonoro». Singolare è la fonte manoscritta, oggi conservata alla Newberry Library di Chicago, grazie alla quale ci sono pervenute le sue musiche. Commissionata nel 1517 dallo stesso Capirola a un certo signor Vidal, la raccolta si presenta infatti con tanto di prefazione – insolita presenza nelle raccolte musicali manoscritte

Eleganza e gentilezza

e al contrario ben diffusa nelle stampe musicali –, ma, soprattutto, colpiscono le preziose decorazioni floreali e animali, che, con eccellente gusto decorativo, ricordano da vicino le ricche ornamentazioni dei codici medievali miniati. Nel tentativo di colpire tanto l’occhio quanto l’udito, il libro nasce dalla volontà, ben dichiarata nella prefazione, di essere tramandato ai posteri anche grazie alla sua nobile

Alla produzione liutistica di Vincenzo Capirola, d’origini bresciane, nato nel 1474 e morto a Venezia nel 1550, è dedicata l’antologia Vincenzo Capirola. Non ti spiacqua l’ascoltar... Opere per liuto 1517 (TC470301, 1 CD, www.tactus. it), con una scelta di musiche che esprimono appieno il nascente gusto per un linguaggio strumentale che riporta «alla eleganza, alla gentilezza,

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fattura. Ed è probabilmente grazie alla ricchezza decorativa che il manoscritto non è andato disperso o distrutto.

Echi di Spagna Se dunque il primo intento è stato rispettato, anche dal punto di vista musicale i brani di Capirola colpiscono nel segno, proponendo alcuni genere come il ricercare, piuttosto diffuso all’epoca, nonché trascrizioni di brani vocali in cui ricorrono i nomi di notissimi compositori di frottole come Marchetto Cara e Bartolomeo Tromboncino, le cui musiche furono spesso oggetto di trascrizioni liutistiche, vista la grande fortuna incontrata dalla frottola negli ambienti di corte. Alcuni dei brani si ispirano alla Spagna come il Ricercar XI, eseguito non al liuto ma alla vihuela, strumento di origini spagnole e con il primo imparentato. Che si tratti di brani virtuosistici o meno, il liutista Paolo Cherici si muove con grazia tra le delicate sonorità dei brani di Capirola, ognuno dei quali si fa portavoce di una intimità garbata, e di un’emozionalità misurata, come d’altronde suggerisce una rara indicazione di dinamica aggiunta sul manoscritto, «tocca pian piano». Atmosfere musicali che esaltano il gusto raffinato che tanto caratterizzò l’ambiente di corte tra Quattro e Cinquecento. F. B.

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