Medioevo n. 213, Ottobre 2014

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SAN FRANCESCO E IL SULTANO

In un affresco di Giotto la cronaca di un incontro memorabile

COSTUME E SOCIETà

Quando a lavorare erano le donne

dossier

X secolo

Quell’impossibile

sogno del

d’italia

regno



sommario

Ottobre 2014 ANTEPRIMA archeologia Il tesoro degli artigiani

macchine d’assedio Catapulta a percussione 6

mostre Santo e taumaturgo Tre dinastie per un impero

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restauri Ogni cosa al suo posto Ritorno in Piemonte

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appuntamenti Le streghe a processo Eletto dal popolo, ma fedele al re L’Agenda del Mese

Che vi sia ciascun lo dice...

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di Flavio Russo

COSTUME E SOCIETÀ lavoro femminile Chi dice donna, dice... fatica di Maria Paola Zanoboni

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18 20 22

STORIE

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protagonisti Berta di Toscana

Caro califfo ti scrivo... di Furio Cappelli

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storie

San Francesco e il sultano

Missione a Damietta di Chiara Mercuri

luoghi radicofani Dove la Francigena tocca il cielo di Fausto Cecconi

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42

42

94 CALEIDOSCOPIO cartoline Nel castello dei nobili biscazzieri

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Dossier italia

libri Un telaio per Alessandro Lo scaffale

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musica Frottole d’amore Cittadino del mondo

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il regno impossibile 69 di Furio Cappelli


Ante prima

Il tesoro degli artigiani

archeologia • Scoperti presso Brest laboratori e

impianti per la lavorazione del ferro, al cui interno, per evitare che divenisse una preda bellica al tempo della Guerra dei Cent’anni, fu nascosto un ricco gruzzolo

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ochi anni dopo lo scoppio della Guerra dei Cent’anni (1337-1453), Brest, già al centro delle lotte per la successione alla guida del ducato di Bretagna, passò sotto gli Inglesi, che ne mantennero il controllo fino al 1397. In quei decenni convulsi si colloca la recente scoperta compiuta dall’Inrap (Institut national de recherches archéologiques préventives) nell’area suburbana di Spernot-Messioual, dove sono state intercettate due zone con resti di notevole importanza. In un caso si tratta di un’area adibita a sepolcreto in età protostorica; nell’altro, ed è quello che qui maggiormente ci interessa, sono venute alle luce strutture riferibili a laboratori artigianali e ad altri edifici databili tra il XII e il XIV secolo, uno dei

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In alto Spernot-Messioual (Brest, Francia). L’area in cui sono stati rinvenuti resti di laboratori d’età medievale e che ha restituito anche un tesoretto composto da oltre 100 monete inglesi e francesi. In basso un frammento del vaso che conteneva il tesoretto, recante l’impronta di una moneta.

quali ha restituito un tesoretto composto da poco meno di 130 monete francesi e inglesi, databili ai primi decenni del Trecento e dunque riferibili al conflitto che per oltre un secolo oppose la Francia all’Inghilterra.

Murature grossolane Chiuso in un vaso, il gruzzolo giaceva all’interno di una costruzione che, con altre due, era stata innalzata a ridosso di una corte interessata dalla presenza di tracce dell’antica rete viaria della

ottobre

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Il conflitto infinito Per «Guerra dei Cent’anni» si intende il conflitto dinastico, nazionale, economico, che oppose la Francia all’Inghilterra tra il 1337 e il 1453, con lunghi periodi di tregua. I motivi del grave contrasto traevano quasi sicuramente origine dal Trattato di Parigi del 1259 che, a titolo feudale, assegnava la Guienna alla monarchia inglese e che, di conseguenza, induceva la Francia a rivendicare tale territorio. Sullo scoppio del conflitto influí anche il tentativo inglese di sottrarre all’orbita francese i Paesi Bassi, di vitale interesse per l’economia britannica. Alla morte di Carlo IV, re di Francia e ultimo della dinastia dei Capetingi, la corona passò a Filippo VI di Valois, pur essendo rivendicata anche da Edoardo III d’Inghilterra: entrambi i re, infatti, erano imparentati con la dinastia capetingia e vantavano quindi analoghi diritti alla successione. La guerra, alimentata anche dagli interessi economici, fu inevitabile. Nel 1339 Edoardo assediò Cambrai, dando l’avvio a una serie di successi inglesi: vittoria navale a l’Écluse (1340), battaglia di Crécy (1346), presa di Calais (1347), battaglia di Poitiers (1356). Il Trattato di Brétigny (1360) concluse questa prima fase della guerra: l’Inghilterra ottenne il Ponthieu e Guines nel Nord; Guienna, Guascogna, Poitou e Saintonge nel Sud, rinunciando tuttavia a ogni pretesa sulla corona di Francia. Tra il 1372 e il 1380 il condottiero bretone Bertrand Du Guesclin riuscí a recuperare alla Francia parte del territorio occupato dagli Inglesi. Alla morte di Carlo V (1380) seguí una lunga tregua, interrotta solo da azioni sporadiche; preavviso alla ripresa delle ostilità furono le lotte dinastiche in Francia tra Armagnacchi e Borgognoni i quali, pur di prevalere, chiesero l’intervento inglese. Sconfitti ad Azincourt (1415), i Francesi non solo subirono un’altra invasione ma, con il Trattato di Troyes (1420), dovettero accettare che alla morte di Carlo VI la corona di Francia passasse a Enrico V d’Inghilterra. Poiché Enrico V zona. Del primo degli edifici si sono conservati resti di murature che ne articolavano lo spazio interno in piú ambienti, mentre nel secondo è stata individuata una stanza parzialmente scavata nel terreno, delimitata da muri piú grossolani. La terza struttura disponeva di un ambiente principale, a pianta rettangolare (11 x 4 m), al quale si aggiungeva una piccola estensione lungo il lato

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premorí a Carlo VI lasciando un erede (il futuro Enrico VI), il trattato non ebbe attuazione. Sul piano dello scontro bellico gli eventi volgevano a favore degli Inglesi che riuscirono a occupare Parigi e ad assediare Orléans. In questa fase estremamente negativa per la Francia si ebbe il provvidenziale intervento di Giovanna d’Arco. Imponendosi al re e ai suoi consiglieri, la giovane contadina ruppe l’assedio inglese e fece consacrare re Carlo VII a Reims. La successiva scomparsa di Giovanna non arrestò l’esercito francese, che giunse a recuperare tutti i territori perduti a eccezione di Calais. Senza il suggello di alcun trattato, finí la guerra, che ebbe rilevanti ripercussioni, tanto economiche quanto politiche, per entrambi i Paesi. Se durante la Guerra dei Cent’anni la Francia dovette subire le spietate lotte interne tra Armagnacchi e Borgognoni, non meno cruento fu il contrasto politico tra i grandi baroni inglesi, contrasto che portò l’Inghilterra dalla Guerra dei Cent’anni a quella delle Due Rose. La Francia invece conquistò l’unità nazionale e la monarchia potè rafforzare il suo prestigio nei confronti della grande feudalità.

orientale. In questo caso la fattura delle murature risulta piú accurata e comportò l’impiego di una malta sabbiosa di colore giallastro.

In alto l’assedio di Orléans in una miniatura dalle Vigiles de Charles VII. 1490 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Nel nome di re Edoardo

di 127 pezzi: la maggior parte reca l’effigie di Edoardo III d’Inghilterra (1312-1377), ma vi sono anche emissioni francesi e un conio della corona di Scozia. A sud di questi tre edifici sono

L’ingresso si aprivasul lato settentrionale dell’edificio, al centro del quale fu apprestato anche un focolare, e qui sono venute alla luce le monete: si tratta, in tutto,

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Ante prima stati inoltre individuati i resti di costruzioni che, come detto, possono essere interpretate come laboratori per la pratica di attività artigianali. Due di esse hanno il piano di calpestio caratterizzato da una grande chiazza circolare carboniosa, che in origine doveva essere probabilmente delimitata da un muretto a secco, verosimilmente riferibile alla presenza di un focolare.

Una lunga frequentazione

In alto due immagini delle strutture caratterizzate dalla presenza di livelli ricchi di carbone, che suggeriscono l’esistenza di un impianto artigianale. A sinistra il tesoretto di monete al momento della scoperta.

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La frequentazione sembra essere stata di lunga durata e l’impianto potrebbe avere avuto a che fare con un’area adibita ad attività metallurgiche scoperta a circa 500 m di distanza, in località Kerleguer, e scavata nel 2013: qui venne alla luce una quantità considerevole di scorie ferrose e potremmo dunque essere di fronte a un vero e proprio polo «siderurgico», la cui catena operativa andava dall’estrazione del minerale (a Kerleguer) alla produzione di utensili (a cui sarebbe stata adibita l’area emersa dagli scavi piú recenti di Spernot-Messioual). Le indagini hanno inoltre rivelato alcune fosse allineate lungo un percorso che con ogni probabilità collegava il sito dell’estrazione con l’impianto artigianale. È dunque logico ipotizzare che gli edifici scoperti fossero utilizzati come abitazioni dagli addetti all’attività metallurgica o come magazzini, che potevano accogliere sia il metallo grezzo e lavorato, sia le materie prime indispensabili per il funzionamento dei laboratori, prima fra tutte il legno. Nell’insieme, il sito di Spernot-Messioual sembra aver costituito un vasto polo produttivo, particolarmente attivo agli inizi del XIV secolo, come proverebbero i materiali ceramici e le monete. Vale infine la pena di segnalare che anche l’area interessata da presenze di epoca protostorica fu interessata da fasi di frequentazione riferibili al Medioevo. Si tratta, in particolare, di un vasto recinto e di un edificio innalzato su pali lignei in uso tra il V e il X secolo. Stefano Mammini ottobre

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Santo e taumaturgo mostre • Sebastiano, caduto per la fede al tempo

di Diocleziano, è protagonista di una ricca rassegna, che ne documenta la notevole fortuna artistica

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razie a opere provenienti da istituzioni europee e d’Oltreoceano, la Fondazione Cosso esplora la figura di san Sebastiano e le sue iconografie. Nato in Francia e cresciuto a Milano, il santo, entra nell’esercito e raggiunge il grado di tribuno della prima coorte della guardia imperiale a Roma. Condannato per la sua fede cristiana da Diocleziano, il martire sopravvive al supplizio delle frecce, ma viene di nuovo condannato e flagellato a morte. Già nel 680, dopo una pestilenza che colpisce Roma, comincia a diffondersi il culto legato a Sebastiano come taumaturgo contro le epidemie.

A destra Francesco Raibolini detto Francia (già attribuito a), San Sebastiano. 1500 circa. Venezia, Collezione privata.

Alla ricerca di un protettore «La devozione per il santo – spiega Antonio D’Amico, curatore della rassegna con Vittorio Sgarbi – è cosí radicata perché, come san Rocco, anch’egli è legato alla peste, una minaccia incombente nel Medioevo, quando contadini e popolani avevano l’esigenza di aggrapparsi a un santo secondo il bisogno del Qui sopra Tiziano Vecellio, San Sebastiano. 1529-1530 circa. New York, Collezione privata. A sinistra Pietro Della Vecchia, Martirio di San Sebastiano. 1654. Treviso, Musei Civici. momento». Il santo ha avuto fortuna anche nell’arte, perché, racconta D’Amico, «incarna l’integrità, il bello dell’anima che rimane integra, impossibile da scalfire». E viene spesso rappresentato come Apollo, da solo, legato a una colonna classica o a un albero.

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Fra i prestiti della mostra, «un dipinto da segnalare, per il sentire ancora medievale, è quello prestato dagli Uffizi e tradizionalmente attribuito a Girolamo Genga. Si tratta di un’opera poco studiata, forse riconducibile a Giuliano Bugiardini, sempre della cerchia di Luca Signorelli. Sono degni di nota il paesaggio, il tronco possente a cui il Santo viene legato e gli arcieri rappresentati nella fascia inferiore del dipinto, un po’ come accadeva nell’età di Mezzo, quando le fattucchiere arse vive

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Ante prima

Tre dinastie per un impero mostre • Tra l’XI e il XV secolo il Marocco è

una delle grandi potenze dell’Occidente islamico: un primato politico al quale si accompagna la straordinaria fioritura culturale e artistica testimoniata dalla rassegna allestita al Louvre

In alto Guercino, Martirio di San Sebastiano. 1632-1636 circa. USA, Collezione Federico Castelluccio. erano raffigurate sulla graticola. È medievale il senso del martirio, l’andare a eludere un male», conclude il curatore. Vale ancora la pena di ricordare «un Tiziano, proveniente dagli USA, esposto nel nostro Paese per la seconda volta, e affiancato a un Paris Bordon per il senso del colore tutto veneto, per l’afflato lagunare del paesaggio», precisa D’Amico. Che aggiunge: «Poi c’è un inedito di scuola caravaggesca, proveniente dagli appartamenti privati del cardinal Scola. Nelle verdure si manifesta l’amore per Caravaggio, come del resto nell’uomo appeso alle corde, in cui è fotografato tutto il dolore che emerge dall’oscurità». Stefania Romani Dove e quando

«San Sebastiano. Bellezza e integrità nell’arte fra Quattro e Seicento» San Secondo di Pinerolo (To), Castello di Miradolo fino all’8 marzo 2015 (dal 4 ottobre) Info tel. 0121 376545; fondazionecosso.it

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Fès. Il cortile della madrasa al-Attarin, costruita dal sovrano merinide Abu Said Uthman II tra il 1323 e il 1325.


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nserita in una piú ampia serie di eventi dedicati al Paese nordafricano (e che coinvolgono il Musée Eugène Delacroix e l’Institut du monde arabe), la mostra allestita al Louvre invita a rileggere la storia del Marocco tra l’XI e il XV secolo, un periodo di straordinaria fioritura dell’Occidente islamico. Il succedersi degli Almoravidi, degli Almohadi e dei Merinidi sancisce l’unificazione di uno spazio politico e culturale che ha nel Marocco il suo centro nevralgico e raggruppa un areale compreso fra l’Africa subsahariana e l’Andalusia. L’influenza di questi imperi, sotto i quali i confini dell’Occidente islamico vengono unificati per la prima volta, fu assai forte e si fece sentire fino all’Oriente.

A destra particolare di un battente della porta monumentale della madrasa al-Attarin. Fès. Musée Dar. In basso fregio della madrasa Bu Inaniyya. Fès, Musée Dar. protagoniste assicurarono il controllo di un territorio vastissimo, che spaziava dalla fascia meridionale del Sahara al Nord dell’Algeria e dalla Tunisia ai territori dell’odierna Libia.

Scambi e commerci

Stoffe preziose e calligrafie Per l’esposizione nella Hall Napoléon del museo parigino sono state selezionate poco meno di 300 opere, attraverso le quali si possono ammirare testimonianze significative dell’arte e dell’artigianato artistico: dalle decorazioni architettoniche alla produzione dei tessuti, dalla ceramica alla calligrafia. La vicenda plurisecolare del Marocco medievale viene cosí ripercorsa in maniera vivace e articolata, offrendo una chiave di lettura fondamentale per chiunque voglia comprendere la vera natura del Marocco contemporaneo e dimostrando come la tradizione antica sia una delle chiavi della sua modernità. Il percorso espositivo si sviluppa secondo il succedersi nel tempo degli eventi piú significativi e documenta l’importanza assunta, di volta in volta, dalle città piú importanti. Da Fès a Siviglia, passando per Aghmat, Tinmal, Marrakech, Ceuta, Rabat o Cordova, si fa luce sulle opere architettoniche piú importanti, ponendo, gli uni accanto alle altre, capolavori da tempo celebrati (come il lampadario della moschea dei Kairuanesi – al-Qarawiyin – di Fès, ricavato da

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una campana razziata nel corso di una spedizione condotta in Spagna) e opere meno note, spesso frutto di scoperte recenti. Sfilano dunque elementi architettonici, arredi e oggetti destinati alla pratica del culto o d’uso quotidiano: un insieme che porta alla ribalta un universo islamico fino a oggi analizzato soprattutto sulla base delle testimonianze conservate sulla sponda andalusa. Le conquiste di cui le grandi dinastie del periodo furono

Una realtà di cui la mostra ripercorre anche le implicazioni di carattere diplomatico e commerciale: venne infatti a crearsi una rete fitta e attiva, che trasformò questa parte dell’Islam in uno dei partner privilegiati dei mercanti italiani e di quelli che operavano nei regni cristiani della Spagna settentrionale, aprendo nel contempo le porte alle piazze del sultanato mamelucco d’Egitto. Per tutta la sua durata, la mostra è accompagnata da un ricco calendario di iniziative collaterali, che comprendono visite guidate, conferenze, tavole rotonde e spettacoli; il programma completo è disponibile sul sito web del Louvre: www.louvre.fr (red.) Dove e quando

«Il Marocco medievale. Un impero dall’Africa alla Spagna» Parigi, Museo del Louvre, Hall Napoléon fino al 19 gennaio 2015 (dal 17 ottobre) Orario tutti i giorni, 9,00-17,30 (me e ve, 9,00-21,30); ma chiuso Info louvre.fr

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Ante prima

Ogni cosa al suo posto restauri • L’Opificio delle Pietre Dure

ha riportato allo splendore originario il Crocifisso monumentale scolpito nel legno di tiglio da Benedetto da Maiano e poi dipinto da Lorenzo di Credi. Un’opera eccezionale, che, liberata dalle alterazioni ottocentesche, ha recuperato tutto il suo vivido pathos

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el 1510, Lorenzo di Credi (146/1460-1537), allievo ed erede del Verrocchio, ebbe l’incarico di dipingere il Crocifisso in legno di tiglio scolpito alcuni anni prima da Benedetto da Maiano (1442-1497; vedi box qui sotto), nell’ambito di un progetto a lungo termine che prevedeva l’ammodernamento dell’area liturgica sotto la cupola brunelleschiana della cattedrale di Firenze.

Nella scia del Brunelleschi Architetto e scultore, Benedetto di Leonardo, detto da Maiano (1442-1497) fu una personalità assai notevole della cultura fiorentina del secondo Quattrocento. Iniziò la sua attività nella bottega paterna come «legnaiolo», collaborando col fratello Giuliano, la cui personalità influenzò Benedetto nelle sue realizzazioni architettoniche: il portico di S. Maria delle Grazie ad Arezzo (1490 circa), che elabora con grazia forme brunelleschiane, e palazzo Strozzi a Firenze (1489 circa, terminato dal Cronaca), che porta a esemplare equilibrio le precedenti esperienze sul palazzo fiorentino, da Brunelleschi a Michelozzo. L’opera scultorea di Benedetto da Maiano, a cui fu legata la sua maggior fama, rivela influssi di Antonio Rossellino, specialmente nei realistici ritratti, e della corrente ghibertiana, in opere che, riprendendo strutture brunelleschiane, portano l’elemento decorativo a un alto grado di finezza ed eleganza: a Firenze, il pulpito di S. Croce (1475-80), la porta tra le sale dell’Udienza e dei Gigli in Palazzo Vecchio (1481), importante complesso architettonicodecorativo, e il monumento funebre di Filippo Strozzi in S. Maria Novella (iniziato 1491); a Siena, il ciborio dell’altare maggiore in S. Domenico.

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Firenze, S. Maria del Fiore. Il Crocifisso ligneo scolpito da Benedetto da Maiano e dipinto da Lorenzo di Credi dopo il restauro. La realizzazione dell’opera fu avviata sul finire del Quattrocento e ultimata nei primi anni del Cinquecento. Morto improvvisamente, Benedetto non aveva avuto il tempo di apporvi il colore, né di consegnarlo al committente, l’Opera del Duomo, che lo acquisí dal figlio Giovanni (1486-1542 circa), dietro l’erogazione di due pagamenti. La monumentale opera fu poi deturpata da integrazioni lignee e da uno strato di pittura a finto bronzo, eseguita nel 1843 dallo scultore senese Giovanni Duprè (1817-1882): un interventio che ne occultò la delicata policromia originale, adesso recuperata grazie all’intervento di restauro realizzato dall’Opificio delle Pietre Dure.

Un ritratto realistico e intenso Rimossa la pesante patina nerastra, è emersa un’anatomia perfetta, dalla morbida muscolatura, un incarnato naturale che evidenzia i capelli, la barba e le sopracciglia di color castano, mentre rivoli di sangue rosso lacca, in leggero rilievo, scivolano fino alle labbra socchiuse, che lasciano intravedere i denti bianchi. Una umanità intensa, pregna di lirico verismo si evidenzia anche negli occhi dove si scorgono la sclera bianca e l’iride marrone chiaro. Le aggiunte ottocentesche, malamente raccordate alle parti anatomiche originali, sono state sostituite con nuovi intagli in tiglio, mentre le piccole, ma diffuse mancanze di colore sono state stuccate con gesso e colla, lisciate e successivamente integrate pittoricamente ottobre

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Particolare del volto del Crocifisso di Benedetto da Maiano, cosí come si presentava prima del restauro.

con una selezione di toni che si armonizza con quelli originali, ma riconoscibili a una visione ravvicinata.

Un perizoma azzurro come ultimo indumento

Un’immagine della stessa porzione dell’opera dopo il restauro.

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In seguito al ritrovamento di alcune tracce cromatiche e di un un filo rimasto impigliato in un chiodino, è stato dimostrato che, a differenza della fascia cortissima voluta dal Duprè, il perizoma originale era di stoffa azzurra e copriva il corpo dalla metà superiore delle cosce, fino ai fianchi. La scoperta di questi due elementi, insieme allo studio di altri crocifissi di Benedetto da Maiano che recano ancora un simile indumento, ha permesso di ricostruirne uno in tessuto di misto lino, apprettato con una resina che aiuta a mantenere intatto il panneggio. Il Crocifisso, che decora l’altare maggiore di S. Maria del Fiore, è completato da due accessori in metallo, l’aureola e la corona di spine, opera cinquecentesca di un certo Michelagnolo di Guglielmo, «octonaio». Viste le grandi dimensioni del manufatto, è stata apportata una modifica al cartiglio con la scritta I.N.R.I., che, originariamente, aveva un andamento verticale e sembrava incombere sulla testa del Cristo, ora visivamente alleggerita dall’ornamentale piastrina, scolpita in linea orizzontale, simile ad altri cartigli del medesimo autore. Mila Lavorini

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Ante prima

Ritorno in Piemonte restauri • Pittore di tavole e

vetrate, frescante, miniatore e autore di disegni per ricami, il borgognone Antoine de Lohny fu un artista versatile e un viaggiatore instancabile. E del suo passaggio nei territori sabaudi sono testimonianza due magnifici dipinti inediti recentemente presentati a Torino, in Palazzo Madama

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l termine dell’intervento di restauro che le ha interessate, sono state presentate al pubblico due opere inedite di Antoine de Lohny, la Dormitio Virginis e Sant’Agostino in cattedra, entrambe provenienti da una collezione privata. Il nome di Antoine de Lonhy è entrato con forza da piú di vent’anni negli studi sulla pittura rinascimentale piemontese: un nome storicamente accertato ha sostituito quello convenzionale attribuito all’artista proprio a partire da un’opera delle collezioni civiche torinesi, il «Maestro della Trinità di Torino». Formatosi intorno alla metà del Quattrocento in Borgogna, nello straordinario ambiente in cui interagivano e si confrontavano le piú alte innovazioni della cultura figurativa fiamminga e francese, Antoine de Lonhy si è dimostrato artista multiforme: pittore su tavola e ad affresco, miniatore e pittore di vetrate. I documenti attestano il suo passaggio nei territori del ducato sabaudo e questo spiega il ruolo che egli ebbe nella cultura figurativa piemontese, ben documentato nelle collezioni di Palazzo Madama.

Dal restauro allo studio La Dormitio Virginis, opera concessa in comodato al museo, non si vede in pubblico dal 1938, anno in cui il dipinto venne esposto nella

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Due immagini della Dormitio Virginis di Antoine de Lohny, prima e dopo il recente intervento di restauro.

mostra torinese dedicata a Gotico e Rinascimento in Piemonte. L’occasione straordinaria è data dalla conclusione del lungo e impegnativo restauro, seguito dalla struttura scientifica del Museo insieme alla Soprintendenza. L’altra opera presentata al pubblico è il Sant’Agostino in cattedra, in passato in una collezione bolognese

e ora tornato in Piemonte grazie all’acquisto effettuato da parte di un collezionista privato. La tavola è ora al centro delle attenzioni dei ricercatori che tentano di verificare il rapporto del pittore con le principali chiese torinesi del periodo, oltre che con il Duomo cittadino. (red.) ottobre

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Ante prima In questa pagina busto reliquiario di Carlo Magno, in oro e argento. Metà del XIV sec. Aquisgrana, Tesoro della Cattedrale. Nella pagina accanto la corona del Sacro Romano Impero, in oro, perle, smalti e pietre preziose, realizzata intorno al 962 per l’incoronazione di Ottone I.


il nuovo dossier di medioevo

carlo magno

L’IMPERO FRANCO E LA NASCITA DELL’EUROPA Nell’814, esattamente 1200 anni fa morí ad Aquisgrana Carlo Magno: una ricorrenza ricordata in tutta Europa con celebrazioni ed eventi espositivi, inclusa l’emissione di due francobolli da parte del Vaticano. A uno dei piú importanti personaggi della storia del nostro continente «Medioevo» dedica il nuovo dossier ora in edicola

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ome possiamo valutare la portata dell’operato di Carlo Magno? E perché, ancora oggi, la sua figura rappresenta un riferimento storico, culturale e politico per l’Europa? Per rispondere, basta dare uno sguardo a una cartina del nostro Continente e del Mediterraneo intorno all’anno 800 e poi, confrontarla con una di cinquant’anni prima, quando, alla metà dell’VIII secolo, Carlo era ancora un fanciullo e suo padre Pipino non era ancora diventato re dei Franchi: da un mosaico di Stati e popoli, sorto sulle rovine dell’impero romano, nel primo quarto del IX secolo, l’estensione del regno franco rappresenta un’entità politica di dimensioni inedite sulla scena europea dei tre secoli precedenti. Carlo Magno, dunque, come emulo medievale dei Cesari dell’antica Roma? Il nuovo Dossier di «Medioevo» illustra, in dieci capitoli, i decenni che videro l’avvento della dinastia carolingia, le sfide e le relazioni internazionali, la conquista dell’egemonia militare e politica in Europa, gli eserciti, le guerre e le vittorie di Carlo, dalla sua ascesa al trono fino alla sua morte. Particolare attenzione è posta all’organizzazione dello Stato franco, alla vita commerciale, al ruolo del denaro, ai simboli del potere. Un attento esame delle architetture istituzionali (i palazzi e i monasteri carolingi) e degli strumenti di controllo e di potere (le leggi e la scrittura) tracciano un quadro vivo e affascinante dell’apparato amministrativo del nuovo impero, mentre uno sguardo oltre i confini del medesimo individua il contesto geopolitico internazionale entro il quale il regno franco si affermò. Il capitolo conclusivo è dedicato all’eredità politica e culturale dell’età di Carlo Magno, in Europa e nel Mediterraneo.

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Ante prima

Le streghe a processo Due immagini della vivace Fiera delle Streghe che anima ogni anno il villaggio catalano di Sant Feliu Sasserra. spazi aperti del villaggio. Vengono proposte scene di vita quotidiana dell’epoca, con le donne che esaltano il potere curativo delle erbe, mentre le maldicenze sul loro conto si sviluppano nelle taverne, luogo d’incontro degli uomini che qui giocano a carte, bevono e discutono.

Accuse infondate

appuntamenti • Sant Feliu Sasserra, in Catalogna,

rievoca ogni anno l’epoca dei tanti processi sommari a danno di donne sospettate di legami con il maligno e la magia nera: quasi a voler esorcizzare quei tristi episodi e chiedere «perdono» a molte vittime innocenti

Cominciano cosí a circolare voci relative ad atti di stregoneria e comportamenti eretici (ma secondo gli storici, molte donne furono accusate di riti satanici e impiccate soltanto perché sospettate di aver tradito il coniuge, oppure per questioni economiche o rancori e odi tra conoscenti).

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ant Feliu Sasserra è un villaggio catalano di soli 600 abitanti, situato 80 km a nord di Barcellona, non lontano dal confine francese. Il paese fu fondato in epoca medievale intorno a una chiesa romanica del X secolo, e prende nome dal fatto che il tempio sorse su una roccia chiamata Feliu e che la sua strada principale, in una zona di montagna, è caratterizzata da numerose curve (sasserra in catalano). Il percorso faceva parte di una vecchia carrerada utilizzata per condurre il bestiame ai pascoli: la zona è infatti ricca di prati e di piacevoli panorami.

Un omaggio postumo Ogni anno, la tranquillità di Sant Feliu Sasserra viene sconvolta il 31 ottobre e il 1° novembre, quando le sue strade si affollano di gente e bancarelle in occasione della Fiera delle Streghe. Si tratta di una festa che rievoca i processi sommari celebrati nel villaggio

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contro la stregoneria durante il XVI e XVII secolo, una sorta di omaggio postumo alle donne ingiustamente condannate e impiccate. Nel corso dei due giorni, spettacoli teatrali, musicali e danze animano la piazza della chiesa e gli altri

Nel pomeriggio del 1° novembre le streghe vengono condannate e portate in processione in una cerimonia nota come «pubblico disprezzo», per poi procedere alla loro «esecuzione» in serata. Tiziano Zaccaria ottobre

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La «piazza Affari» del turismo archeologico L

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Virtuali, V-Must, coordinata da ITABC Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR, ospiterà «Digital Museum Expo», esposizione delle tecnologie piú recenti create per i musei del futuro, che si terrà oltre che a Paestum in 4 prestigiosi sedi: Museo dei Fori Imperiali nei Mercati di Traiano (Roma), Biblioteca Alessandrina (Alessandria D’Egitto), Museo Allard Pierson (Amsterdam), City Hall (Sarajevo). La Borsa si conferma un evento originale nel suo genere: sede dell’unico Salone Internazionale di Archeologia; luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio; occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e culturali, viaggiatori, appassionati; opportunità di business nella suggestiva sede del Museo Archeologico con il Workshop tra la domanda estera e l’offerta del turismo culturale e archeologico (sabato 1° novembre). Nel sottolineare l’importanza del patrimonio culturale come fattore di dialogo interculturale, d’integrazione sociale e di sviluppo economico, ogni anno la Borsa promuove la cooperazione tra i popoli attraverso la partecipazione e lo scambio di esperienze: il Paese Ospite Ufficiale nel 2014 è l’Azerbaijan. Altra novità è data dall’attenzione dei media internazionali, che quest’anno si traduce nella presenza quali media partner di Antike Welt, AS., Clio, Current Archaeology, Dossiers d’archéologie, Rutas del Mundo. Infine, la Borsa da questa edizione diventa l’evento ufficiale di «Archeo», il piú importante mensile di archeologia. Per ulteriori informazioni: www.bmta.it

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informazione pubblicitaria

a XVII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con il patrocinio di Expo Milano 2015, UNESCO e UNWTO, torna a svolgersi nell’area archeologica di Paestum: nella zona adiacente al tempio di Cerere (Salone Espositivo, Laboratori di Archeologia Sperimentale, ArcheoIncontri), nel Museo Archeologico Nazionale (ArcheoVirtual, Conferenze, Workshop con i buyer esteri) e nella Basilica Paleocristiana (Conferenza di apertura, ArcheoLavoro, Incontri con i Protagonisti). La prima novità della nuova edizione riguarda il periodo di svolgimento: la Borsa, infatti, solitamente collocata alla metà di novembre, nel 2014 avrà luogo nei giorni 30-31 ottobre 1-2 novembre, in un fine settimana che comprende due festività, al fine di incrementare il numero dei visitatori e dare agli albergatori l’opportunità di offrire pacchetti ad hoc. La XVII edizione è ricca di novità e di contenuti: Social Media & Archaeological Heritage Forum, giovedí 30 ottobre, che ospiterà «Archeoblog. Raccontare l’archeologia nel web», il secondo incontro dei blogger culturali, con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo dei beni culturali attraverso i social network; ArcheOpenData Forum. Trasparenza dell’informazione in archeologia, venerdí 31 ottobre, momento di discussione dedicato agli open data; ArcheoStartUp, sabato 1° novembre, presentazione di nuove imprese culturali e progetti innovativi; la mostra ArcheoVirtual, realizzata in collaborazione con la piú importante Rete di ricerca Europea sui Musei


Ante prima

Eletto dal popolo, ma fedele al re appuntamenti • Fervono a Londra

i preparativi per la grandiosa parata del Lord Mayor ’ s Show, la festa voluta per celebrare la storica concessione accordata dal re nel 1215, quando, per la prima volta, gli abitanti della capitale inglese poterono scegliere liberamente il proprio sindaco

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el 1215, l’anno della Magna Charta, il re d’Inghilterra Giovanni Senza Terra concesse per la prima volta ai Londinesi la facoltà di eleggere direttamente il proprio sindaco. Ogni Lord Mayor, però, una volta eletto, doveva recarsi dalla propria abitazione a Westminster, per giurare fedeltà alla corona. Col tempo, quest’atto di asservimento al potere del re divenne una parata festosa, tanto da essere trasformata nel 1535 in un rituale annuale col nome di Lord Mayor’s Show. Anticamente l’evento ricorreva il 29 ottobre, ma con l’adozione del calendario gregoriano da parte dell’Inghilterra, la data fu spostata al 9 novembre; ai giorni nostri si celebra regolarmente il secondo sabato di novembre, quest’anno il giorno 8. Occorre peraltro precisare che oggi a Londra il Lord Mayor of the City ha un semplice ruolo amministrativo all’interno dello Square Mile, il «miglio quadrato», sede del distretto finanziario, mentre il vero e proprio sindaco di Londra (Mayor of London) è una diversa autorità politica, che guida la piú vasta Greater London Authority. Alle 11,00 del giorno prefissato, il

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«sindaco» esce dalla Mansion House, e sale sulla State Coach, la fastosa carrozza di stato costruita nel 1757 e dipinta dal pittore fiorentino Giovanni Battista Cipriani, che decorò anche la Gold State Coach, tutt’oggi utilizzata dalla regina Elisabetta in alcune uscite ufficiali. Salutato da un passaggio in volo dagli aerei della Royal Air Force, il Lord Mayor prende la strada per Westminster in coda a un lungo corteo formato da decine di altre carrozze scortate da uomini in alta uniforme. Fra i numerosi corpi militari, l’Artillery Company e il Royal Fusiliers sono i reggimenti che hanno il diritto di sfilare con le baionette montate, i propri vessilli esposti e il rullar dei tamburi.

La benedizione del vescovo Il corteo avanza in mezzo alla folla, composto anche da decine di bande musicali e centinaia di figuranti in costumi folcloristici, in rappresentanza di organizzazioni, enti di beneficenza, scuole e associazioni. La parata è lunga circa 5 km, ma il percorso stesso è piú breve, tanto che la testa del corteo raggiunge la fine prima ancora che il sindaco abbia lasciato Mansion

House. Durante il suo tragitto, il Lord Mayor sosta alla Cattedrale di Saint Paul, dove sui gradini riceve la benedizione del vescovo, poi all’arrivo alle Royal Courts of Justice a Westminster giura fedeltà alla Corona dinnanzi al Lord Chief Justice e ai giudici della Queen’s Bench Division. Verso le 13,00 la parata di ritorno si ricompone ad Aldwych, dirigendosi verso Temple Place, poi transita lungo il Victoria Embankment e Queen Victoria Street, per fare infine ritorno a Mansion House, dove il sindaco passa in rassegna il picchetto della Honorable Artillery Company. La cerimonia si conclude alle 17,00 con un grande spettacolo di fuochi pirotecnici sul Tamigi. In passato, questo Show non è stato esente da disavventure. Quando il percorso prevedeva ancora il transito sul fiume Tamigi sopra una chiatta, nel 1710 una ragazza ubriaca provocò la frattura di una gamba del sindaco. Piú di recente, nel 2012, un guasto alle ruote di legno della State Coach ha costretto Roger Gifford a completare il suo ritorno alla Mansion House in una poco cerimoniosa Land Rover. T. Z. ottobre

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agenda del mese

Mostre cividale del friuli Il Crocifisso di Cividale e la scultura lignea nel Patriarcato di Aquileia al tempo di Pellegrino II (secoli XII e XIII) U Palazzo de Nordis fino al 12 ottobre

Trenta opere, alcune delle quali rarissime e mai esposte prima d’ora, accompagnano il visitatore in un viaggio alla scoperta degli esempi piú significativi di sculture lignee prodotte tra il XII e il XIII secolo nell’area altoadriatica. Simbolo della mostra è il maestoso Crocifisso ligneo tardo-romanico restaurato dalla Soprintendenza tra il 2005 e il 2012: un capolavoro prototipo per altri esemplari diffusi nelle chiese del patriarcato aquileiese almeno fino dal Duecento. info tel. 0432703070; www.passepartout.coop

a cura di Stefano Mammini

perlopiú da necropoli e comprendenti, tra gli altri, oreficerie, manufatti in vetro e armi. Oggetti di pregio, che sono però funzionali alla ricostruzione del contesto nel quale vennero fabbricati e utilizzati e dunque permettono di fare luce sul modus vivendi, sul sentimento religioso e sulle attività produttive e commerciali delle genti a cui vanno ascritti. Un panorama che dunque giustifica l’«età dell’oro» evocata dal titolo della mostra. info rmo.nl fiesole Fiesole e i Longobardi U Museo Civico Archeologico fino al 31 ottobre

Fibule, aghi crinali, raffinati manufatti in vetro, gioielli, ma soprattutto armi: spade, cupidi di lance, coltelli e punte di freccia. E poi ornamenti di cinture, vasellame e

Leida Medioevo dorato U Rijksmuseum van Oudheden fino al 26 ottobre

Come si viveva ai tempi dei sovrani merovingi (400-700 d.C.), cioè dopo la caduta dell’impero romano e prima dell’ascesa di Carlo Magno? Che non siano stati «secoli bui» è un dato ormai acquisito e, a ulteriore riprova, il Museo di Antichità di Leida presenta una spettacolare selezione di reperti, provenienti

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utensili vari. Questi i reperti, in buona parte mai esposti al pubblico, della mostra allestita nelle sale del Museo Archeologico di Fiesole. Il percorso presenta una sessantina di reperti databili fra gli ultimi

decenni del VI e tutto il VII secolo, che sono stati rinvenuti in contesti di sepolture, le cui prime scoperte risalgono alla fine dell’Ottocento. Fra questi si annoverano le crocette, esempio di tecnica orafa, i raffinati calici in vetro soffiato e l’umbone di scudo riccamente decorato. Di particolare suggestione sono poi le ricostruzioni delle tombe: quattro quelle esposte e relative a un guerriero, una donna d’alto lignaggio, un maestro d’ascia e una bambina. All’interno del percorso della mostra sono presenti anche due manichini con ricostruzioni di personaggi in costume longobardo. info tel. 055 5961293; e-mail: infomusei@comune. fiesole.fi.it. trento Dosso Dossi. Rinascimenti eccentrici al Castello del Buonconsiglio U Castello del Buonconsiglio fino al 2 novembre

Quello che fu il Magno Palazzo del potente principe vescovo Bernardo Cles accoglie una vasta selezione di opere firmate dall’artista che l’allora signore di Trento aveva chiamato nel 1531 a decorare alcune delle sale piú prestigiose della sua residenza, Dosso Dossi (al secolo Giovanni di Nicolò Luteri). Per il pittore, all’epoca poco piú che quarantenne,

«CAPPELLA DELLE RELIQUIE» IN PALAZZO PITTI U Museo degli Argenti fino al 2 novembre

quella commissione costituí una ulteriore e prestigiosa conferma dell’apprezzamento che la sua opera andava riscuotendo. Insieme al fratello Battista, Dosso si trattenne per circa un anno a Trento: al termine del soggiorno, i due avevano lavorato alla decorazione di ben 19 sale del palazzo, sulle quali è stato appunto costruito il percorso dell’esposizione, che presenta una quarantina di tele, fra cui un ritratto del grande medico e umanista Niccolò Leoniceno che, sotto forma di marchio tipografico, reca la firma dello stesso Dosso Dossi. info tel. 0461 233770; e-mail: museo@castello delbuonconsiglio.tn.it; buonconsiglio.it firenze SACRI SPLENDORI. IL TESORO DELLA

Nel 1616 veniva consacrata la «Cappella delle Reliquie» in Palazzo Pitti, luogo simbolo della devozione delle granduchesse di Toscana e degli ultimi granduchi della famiglia Medici. Costruita da Cosimo I negli anni Sessanta del Cinquecento, la cappella, a pianta ottagonale, dal 1610 fu oggetto di importanti lavori di abbellimento voluti dall’arciduchessa d’Austria e granduchessa di Toscana Maria Maddalena d’Asburgo, moglie di Cosimo II de’ Medici, per custodirvi i reliquiari preziosi che costituivano una parte importante delle sue collezioni. Altrettanto decisivo fu il ruolo di Cristina di Lorena, suocera di Maria Maddalena, alla quale si deve la creazione del primo, cospicuo nucleo di reliquiari confluito poi alla sua morte nella raccolta della nuora. Uno straordinario insieme di opere

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mostre • Bartolo da Sassoferrato a Siena nel VII centenario della sua nascita U Siena – Biblioteca Comunale degli Intronati

fino al 18 ottobre info tel. 0577 280704; bibliotecasiena.it

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er una città come Siena, nella quale si era diffusa una cultura giuridica già dalla seconda metà del XII secolo, quando si ha notizia di un maestro di giurisprudenza presso la chiesa di S. Vincenzo (e nella quale l’insegnamento del diritto, fin dal 1240, è stato alla base della nascita del suo Studio e ne ha sempre costituito un’eccellenza), è quasi un obbligo partecipare alle iniziative per celebrare il VII centenario della nascita di colui che è stato considerato l’esponente piú insigne della scuola dei commentatori e uno dei piú grandi giuristi di ogni tempo: Bartolo da Sassoferrato (1314-1357). Un personaggio, la cui opera ha rappresentato uno dei punti piú alti della riflessione giuridica medievale e si pone sicuramente alla base del diritto comune europeo e per il quale era stato creato, subito dopo la sua morte, il motto nemo bonus iurista nisi sit bartolista, che è forse la sintesi piú efficace dell’importanza riconosciutagli dai suoi contemporanei. La Biblioteca Comunale degli Intronati conserva moltissime edizioni delle opere di Bartolo, le piú antiche e rare delle quali vengono presentate al pubblico in questa mostra. Il motivo di tale dovizia di volumi bartoliani, naturalmente, è da ricercarsi in quanto illustrato di sopra: la centralità dell’insegnamento giuridico nello Studio senese e l’importanza del pensiero di Bartolo nella storia del diritto. Al ricordo del VII centenario della nascita di Bartolo da Sassoferrato si è poi scelto di unire un’altra ricorrenza, quella dei cinque anni dalla scomparsa di Domenico Maffei, avvenuta il 4 luglio del 2009. Il legame non è artificioso, né occasionale, né si tratta di un semplice atto dovuto, poiché, finora, non era stato ricordato

che fu accresciuto ulteriormente dalla granduchessa Vittoria della Rovere e da suo figlio, il granduca Cosimo III, diventando uno dei piú vasti tesori sacri d’Europa. Attraverso un minuzioso lavoro di archivio la mostra restituisce

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un’immagine di queste preziosissime collezioni, testimonianza della profonda devozione della famiglia granducale e al contempo simbolo di prestigio e di magnificenza, fonte di denaro e coagulo di identità collettiva.

adeguatamente colui che non è stato solo uno dei massimi studiosi contemporanei del diritto, conosciuto e apprezzato a livello mondiale, e un docente universitario di fama internazionale, ma anche un grande e raffinato bibliofilo senese, seppur d’adozione (Maffei era nato ad Altamura, in Puglia, nel 1925). Proprio quest’ultimo aspetto della sua figura lo collega a pieno titolo con il presente evento, perché la sua ricchissima biblioteca conserva preziosi volumi di Bartolo (una cui selezione viene esposta in mostra), non tanti quanti ne possiede la Comunale, ma non meno interessanti; oltre tutto, questi vengono ad arricchire la presenza a Siena di edizioni bartoliane, perché sono pubblicazioni che non figurano nel fondo degli Intronati. Ciò costituisce, quindi, un valore aggiunto per questa iniziativa: non solo presenta un ulteriore legame fra Bartolo e Siena, ma instaura un collegamento «a tre» fra il giurista trecentesco, la Biblioteca Comunale degli Intronati e lo studioso-bibliofilo, che giustifica l’abbinamento delle due ricorrenze. Due cinquecentine provengono anche da un’altra raccolta senese, il Fondo antico della Banca Monte dei Paschi di Siena, a testimoniare la diffusa presenza di testi bartoliani in città. Infine, la scoperta della presenza nella Biblioteca Comunale «Gaetano Badii» di Massa Marittima di sette rari incunaboli, tre dei quali non presenti agli Intronati, ci ha convinto a presentarli al pubblico, anche se non sono direttamente legati a Siena, ma in considerazione dello stretto legame storico culturale che ha sempre legato le due città.

info tel. 055 2388709; unannoadarte.it

Bath Nuovo Mondo, antiche mappe U American Museum in Britain fino al 2 novembre

Organizzata per salutare la pubblicazione del

relativo catalogo ragionato, la mostra si basa sui documenti che fanno parte della collezione di mappe storiche di Dallas Pratt, uno dei fondatori dell’American Museum in Britain di Bath. Le carte documentano il mutare e l’arricchirsi

delle conoscenze geografiche, resi possibili dal susseguirsi dei grandi viaggi di scoperta e di esplorazione alla volta delle Americhe. Tra il XV e il XVII secolo il «volto» del Nuovo Mondo cambiò piú volte e, grazie alle informazioni

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agenda del mese ricevute dai navigatori, geografi e disegnatori poterono tempestivamente aggiornarne le cartografie. info americanmuseum.org Riggisberg Velo e ornamento: i tessuti medievali e il culto delle reliquie U Abegg-Stiftung fino al 9 novembre

Nel Medioevo, il possesso di resti mortali appartenenti a una persona venerata, oppure un qualsiasi oggetto che con essa aveva avuto una connessione, diretta o indiretta, rappresentava un tesoro. Resti che per secoli sono stati accuratamente preservati, spesso avvolti in materiali sontuosi che, nel tempo, sono diventati essi stessi reliquie, essendo venuti a contatto proprio con il corpo che proteggevano e adornavano. L’AbeggStiftung di Riggisberg, in Svizzera, istituto specializzato nel restauro e conservazione di tessili antichi, espone un’ampia selezione di queste preziose stoffe. Protagonista dell’evento

è san Gottardo, vescovo tedesco, morto nel 1038. Al momento della canonizzazione, avvenuta quasi un secolo dopo, la sua tomba nella cattedrale di Hildesheim fu aperta e il contenuto trasferito in una teca dorata, tempestata di gemme, dischiusa nel 2009 per intenti conservativi.Gli involucri portati alla luce in quell’occasione, che racchiudevano frammenti tessili e ossei, insieme a terra e sabbia, sono esposti per la prima volta. info abegg-stiftung.ch Artegna (UD) Il Castrum Artenia nel ducato longobardo di Forum Iulii U Castello Savorgnan fino al 13 novembre

La mostra rientra in un piú ampio progetto di valorizzazione del territorio e degli insediamenti castrensi altomedievali della regione, un progetto collegato ai programmi di sviluppo del sito UNESCO di Cividale del Friuli. Oltre a presentare i risultati delle ricerche archeologiche sul colle di San Martino, viene sottolineata la centralità dei siti castrensi nelle dinamiche di sviluppo del ducato del Friuli nell’Alto Medioevo.

info tel. 0432 977811; e-mail: info@com-artegna. regione.fvg.it

Basilea ROMA ETERNA U Antikenmuseum fino al 16 novembre

Il progetto espositivo è imperniato su una settantina di sculture provenienti dalle collezioni italiane della famiglia Santarelli e del critico e storico dell’arte Federico Zeri: opere che comprendono sculture dall’età imperiale romana fino a quella neoclassica e permettono dunque di evidenziare l’eterno fascino di Roma, con la sua capacità di assimilare e rielaborare sempre nuove correnti artistiche e integrarle nel suo ineguagliabile patrimonio culturale. Il dialogo con l’eredità classica è evidenziato tramite la comparazione di motivi ed elementi stilistici diversi, ma sempre legati l’un l’altro e inseriti nel proficuo solco della tradizione artistica dell’Urbe. info antikenmuseumbasel.ch

fabriano Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento U Pinacoteca Civica «Bruno Molajoli», S. Agostino-Cappelle Giottesche, S. DomenicoCappella di S. Orsola e Sala Capitolare, cattedrale di S. Venanzio-Cappelle di S. Lorenzo e della Santa Croce fino al 30 novembre

Dipinti, pale d’altare, tavole, affreschi staccati, sculture,

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del polittico proveniente da Valleromita di Fabriano, ora nella Pinacoteca di Brera, o la raffinata Madonna dell’Umiltà del Museo Nazionale di San Matteo di Pisa. info mostrafabriano.it bari, castel del monte, trani oreficerie, miniature, manoscritti, codici – in tutto, oltre 100 opere, descrivono il contesto culturale in cui si inscrive il progetto espositivo. Consolidatosi il potere longobardo su Fabriano, l’egemonia culturale dell’Umbria vide la sua affermazione nel corso del Trecento, sia dal punto di vista artistico che sotto il profilo dei valori spirituali. La vicinanza con Assisi e i ripetuti soggiorni di san Francesco contribuirono ad animare una vivace realtà di fede che si avvalse della pittura come di un efficace strumento propagandistico ed educativo. L’obiettivo dell’operazione è quello di ritessere la trama di questo complesso periodo, ricco di testimonianze affascinanti, ma note solo o soprattutto agli studiosi e agli appassionati d’arte, al fine di permettere, pur con un approccio di approfondimento, un’ampia divulgazione rivolta a un «pubblico» piú vasto ed eterogeneo. Del percorso espositivo fanno parte alcuni capolavori di Gentile, come la Crocefissione

Arnaldo Pomodoro nei Castelli di Federico II U Castello Svevo di Bari, Castel del Monte, Castello Svevo di Trani fino al 30 novembre

Le opere di Arnaldo Pomodoro vengono eccezionalmente inserite nella cornice medievale di tre dei piú famosi castelli

federiciani. Gli scettri, gli scudi, le lance di luce, le stele, le sfere di Pomodoro, originali declinazioni contemporanee di emblemi antichi, articolano un dialogo ideale con questi luoghi carichi di storia, simbolo dello straordinario connubio di potere e cultura espresso dallo Stupor Mundi. info Bari, tel. 080 5213704; ottobre

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Castel del Monte, tel. 0883 569997; Trani, tel. 080 5286239 ename (belgio) L’eredità di Carlo Magno U Provinciaal Erfgoedcentrum fino al 30 novembre

Carlo Magno è da molti considerato come uno degli antesignani dell’unità europea, perché artefice di quel Sacro Romano Impero che si poneva in ideale continuità con l’impero romano. In realtà, la sua costruzione politica fu da subito incrinata da divisioni che si prolungarono nei secoli, sul piano politico e religioso. 1200 anni dopo, il progetto CEC, Cradles of European Culture, e la mostra internazionale allestita a Ename propongono la storia dell’eredità di quell’impero, a partire dall’epoca immediatamente successiva, quella degli Ottoni, fino al secondo dopoguerra e al crollo del Muro di Berlino. info pam-ov.be/ename Firenze La fortuna dei Primitivi. Tesori d’arte dalle collezioni italiane fra Sette e Ottocento U Galleria dell’Accademia fino all’ 8 dicembre

Dedicata alla storia del collezionismo, la mostra indaga il contesto storico e sociale che ne favorí la nascita e analizza le singole raccolte per spiegare l’interesse che, due secoli fa, dette vita al recupero dei cosiddetti «Primitivi», cioè quei

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pittori che avevano preceduto Michelangelo, Raffaello e i grandi maestri che la storiografia vasariana considerava modelli insuperabili. Questo fenomeno culturale investí l’Italia dalla metà del Settecento fino all’incirca al primo ventennio dell’Ottocento, inizialmente con carattere pioneristico e occasionale, ma poi con connotazioni piú sistematiche, soprattutto all’indomani delle requisizioni e delle soppressioni di chiese e conventi da parte del governo napoleonico, che favorirono la circolazione delle opere sul mercato. info tel. 055 2388612; unannoadarte.it Genova Arte Ottomana, 1450-1600. Natura e Astrazione: uno sguardo sulla Sublime Porta U Palazzo Nicolosio Lomellino fino al 14 dicembre

Gli ambienti cinquecenteschi affrescati da Bernardo Strozzi (XVII secolo) del primo piano nobile di Palazzo Lomellino – che celebra il suo 10° anniversario dall’apertura al

pubblico – ospitano una selezione di opere rappresentative della produzione artistica ottomana: si tratta di circa 70 oggetti, alcuni dei quali già noti al mondo accademico, altri poco conosciuti e in gran parte inediti, tra cui un Corano appartenuto a Maometto II, completo di dedica al sovrano e un importante Firmano, prestito del Museo di Arte Islamica di Berlino. Sono inoltre presenti tappeti del XV e XVI secolo, ceramiche policrome di Iznik – fra

le produzioni fittili piú fantasiose ed eleganti nell’intero panorama ceramico islamico –, nonché esempi significativi della produzione tessile ottomana, come sete, velluti e broccati in oro e argento. Infine una piccola ma pregiata selezione di armi da difesa, con elmi e testiere da cavallo, marchiati con l’emblema dell’armeria imperiale turca di Sant’Irene, che ricordano la grande potenza militare della Turchia ottomana di quel periodo. info Associazione Palazzo Lomellino, tel. 393 8246228

berlino

Londra

I vichinghi U Martin Gropius Bau fino al 4 gennaio 2015

Ming: 50 anni che hanno cambiato la Cina U The British Museum fino al 4 gennaio 2015

Presentata a Copenaghen e poi a Londra, fa tappa a Berlino una delle piú ricche esposizioni sulla storia dei navigatori scandinavi. Tra gli obiettivi della rassegna, vi è quello di presentare un volto «internazionale» della cultura vichinga ritenuta in passato, erroneamente, come un sistema chiuso di valori e usanze che riflettevano la posizione di isolamento della penisola scandinava. Oltre a oggetti d’arte e manufatti artigianali di notevole pregio, la mostra propone la ricostruzione integrale della piú grande nave vichinga a oggi nota. Si tratta dell’imbarcazione scoperta nel 1997 a Roskilde, in Danimarca, e databile agli inizi dell’XI secolo: un legno possente, che misurava 37 m di lunghezza, 4 di larghezza, aveva circa 80 remi e poteva trasportare un centinaio di guerrieri. info smb.museum

Nelle nuove gallerie dell’ala Sainsbury, il British Museum racconta una fase cruciale della storia cinese. Nel periodo compreso tra il 1400 e il 1450, sotto la dinastia Ming, l’impero visse infatti una stagione di grandi trasformazioni, fino ad affermarsi come una sorta di superpotenza: Pechino divenne capitale e vide sorgere la Città Proibita; i confini del Paese assunsero il tracciato che, grosso modo, tuttora conservano; una nuova classe di funzionari statali si sostituí ai comandanti militari nelle gerarchie di governo; il ruolo stesso dell’imperatore subí un mutamento significativo, facendo del sovrano una sorta di icona; e, infine, venne dato un impulso decisivo alla centralizzazione dell’autorità. info britishmuseum.org

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agenda del mese ravenna IMPERIITURO. Renovatio Imperii. Ravenna nell’Europa Ottoniana U Museo TAMO e Biblioteca Classense fino al 6 gennaio 2015

1200 anni fa, il 28 gennaio 814, moriva Carlo Magno, che concepí una forma di unità europea attraverso il Sacro Romano Impero, nel tentativo di restaurare l’antica grandezza di Roma. Un progetto politico che, tuttavia, fu presto minato da divisioni interne, destinate a protrarsi per secoli. Sul tema della Renovatio Imperii, cioè appunto la trasmissione dell’idea imperiale, è stata

di riferimento culturale per Carlo Magno nella sua impresa di trasformare Aquisgrana nella Roma secunda e poi per gli Ottoni, come dimostra il sito archeologico di S. Severo a Classe. Alla Biblioteca Classense, con il titolo «Da Carlo Magno agli Ottoni, testimonianze documentarie, storiografiche, iconografiche», attorniate dalle immagini dei rappresentanti imperiali di età ottoniana, arrivate a noi attraverso grandi esempi di miniatura provenienti dalle biblioteche d’Europa, si espongono nell’Aula Magna del monastero camaldolese, importanti documenti della politica degli Ottoni a Ravenna. info Museo TAMO: tel. 0544 213371, www.ravennantica.it; Biblioteca Classense: tel. 0544 482116, e-mail: segreteriaclas@ classense.ra San Gimignano

organizzata una mostra didattica, che ha per fulcro Ravenna ed è ospitata nelle due sedi del museo TAMO e della Biblioteca Classense, articolandosi in diverse sezioni. «Carlo Magno e l’Italia, Gli Ottoni, Ravenna e l’Italia. Il ruolo della tradizione classica e la circolazione dei modelli in epoca ottoniana a TAMO», illustra il ruolo di Ravenna come punto

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Pintoricchio. La Pala dell’Assunta di San Gimignano e gli anni senesi U Palazzo Comunale, Pinacoteca fino al 6 gennaio 2015

Con questa iniziativa prende avvio un piú ampio progetto che, con cadenza annuale, intende proporre un approfondimento critico e storico intorno ai capolavori e ai maestri presenti nelle collezioni civiche. Come questa che ora si apre su Pintoricchio e quella

che è in preparazione per il 2015 su Filippino Lippi e i suoi meravigliosi tondi, ogni mostra è costruita con prestiti importanti, anche se numericamente limitati per le esigenze dello spazio espositivo, scelti per raccontare una vicenda artistica che ha lasciato una testimonianza di grande rilievo nel patrimonio storico e artistico di San Gimignano. info tel. 0577 286300; sangimignanomusei.it prato CAPOLAVORI CHE SI INCONTRANO. Bellini, Caravaggio, Tiepolo e i maestri della pittura toscana e veneta nella Collezione Banca Popolare di Vicenza U Museo di Palazzo Pretorio fino al 6 gennaio 2015 (dal 5 ottobre)

La nuova esposizione allestita nelle sale del museo pratese offre l’occasione di vedere

riunite le piú importanti opere d’arte provenienti dalla collezione della Banca Popolare di Vicenza, alcune delle quali mai esposte finora al grande pubblico, proponendo un ampio panorama dell’arte toscana e veneta tra il XV e il XVIII secolo. Riunite e ordinate nelle quattro sezioni della mostra, 86 opere, tra tavole e tele, sono messe a confronto a partire dai soggetti in esse contenute, consentendo di recuperare affinità e rimandi, e di avvicinare, nella lettura iconografica, dipinti di differente scuola e di diversa epoca e origine. Tra gli altri, si possono ammirare capolavori come la Crocifissione di Giovanni Bellini, la Coronazione di Spine del Caravaggio, la Madonna col Bambino e San Giovannino di Jacopo Bassano, la Madonna col Bambino di Filippo Lippi, il

Ritratto di Ferdinando de’ Medici di Santi di Tito e il Ritratto del Doge Nicolò da Ponte del Tintoretto. info tel. 0574 19349961; palazzopretorio.prato.it, capolavori chesiincontrano.it

Padova VERONESE E PADOVA. l’artista, la committenza e la sua fortuna U Musei Civici agli Eremitani fino all’11 gennaio 2015

Il cromatismo limpido e armonioso, gli audaci impianti architettonici, la forza scenografica delle composizioni, perfino l’intensa drammaticità nei soggetti sacri dell’ultimo periodo: quella di Paolo Veronese è stata una pittura potente e di straordinaria forza comunicativa, capace di influire sulla produzione artistica di tanti contemporanei e d’intere generazioni d’artisti, ovunque egli sia stato chiamato a operare. Fu cosí anche a Padova, città con la quale Veronese ebbe intensi rapporti a partire dal 1556, apportando nuova linfa alla civiltà figurativa locale. La mostra prende le mosse proprio dai capolavori di Paolo Veronese conservati a Padova, riuniti per l’occasione nelle sale dei Musei Civici agli Eremitani, con la sola eccezione dell’inamovibile Pala di Santa Giustina. Nell’insieme, si possono ammirare circa cinquanta dipinti e una quarantina di stampe ottobre

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tratte dai lavori del pittore. info padovacultura. padovanet.it castelfranco veneto Villa Soranzo. Una storia dimenticata U Museo Casa Giorgione fino all’11 gennaio 2015

Un fil rouge sottile ma intrigante lega Giorgione e Paolo Veronese, due dei protagonisti del Rinascimento: un filo fatto di patrizi veneti amanti dell arte – i Soranzo – di decorazioni pittoriche d’interni, di vita in villa, di temi profani e mitologici e – infine – di giovani, giovanissimi pittori, alla ribalta della scena artistica veneziana nella prima metà del Cinquecento. Un filo rievocato anche in questa mostra, a cui fa da corollario un itinerario in tema dedicato al «Trionfo della decorazione in Villa», che conduce a Villa Maser, Villa Emo e Villa Corner Chiminelli. Al centro del percorso vi sono le vicende degli

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affreschi realizzati da Paolo Veronese, sul volgere degli anni Quaranta del Cinquecento, nella dimora progettata da Michele Sanmicheli e costruita, poco dopo il 1540, a Treville di Castelfranco Veneto per il patrizio veneziano Piero Soranzo. info tel 0423 735626; e-mail: info@ museocasagiorgione.it REGGIO EMILIA L’ORLANDO FURIOSO: INCANTAMENTI, PASSIONI E FOLLIE. L’ARTE CONTEMPORANEA LEGGE L’ARIOSTO U Palazzo Magnani fino all’11 gennaio 2015

I personaggi de L’Orlando Furioso, le imprese di valorosi cavalieri, la passione per Angelica che diverrà poi follia d’amore rivivono in una rassegna che legge e reinterpreta in chiave contemporanea l’immaginario ariostesco, carico di suggestioni e connessioni di evidente attualità. L’esposizione rivisita la fortuna

dell’Ariosto nel passato, partendo dalla preziosa collezione delle edizioni del Furioso di proprietà della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, e propone le suggestioni esercitate dalla sua figura e dall’atmosfera, e soprattutto da specifici episodi del poema su alcuni tra i più importanti artisti contemporanei, italiani e stranieri. info palazzomagnani.it Rancate (Mendrisio) DONI D’AMORE. Donne e rituali nel Rinascimento U Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, fino all’11 gennaio 2015 (dal 12 ottobre)

Protagonisti dell’esposizione sono i

preziosi oggetti che, tra il XIV e il XVI secolo, venivano offerti alla donna per celebrare il fidanzamento, il matrimonio e la nascita di un erede. In queste occasioni la cultura del tempo conferiva alla figura femminile, solitamente relegata all’ambito domestico, un ruolo fondamentale che le famiglie abbienti festeggiavano con fastose cerimonie e commissionando pregiati manufatti da offrirle in dono. Articolata in tre sezioni, ciascuna dedicata a uno dei felici eventi, la mostra propone dunque i regali destinati alla figura femminile: dal cofanetto contenente piccoli oggetti in avorio e costose cinture, che il futuro sposo inviava alla giovane per suggellare il fidanzamento, ai gioielli e alle suppellettili, offerte dal marito e dal suo parentado o portate in dote dalla sposa il giorno delle nozze, fino a comprendere un desco da parto e stoviglie in maiolica, utilizzati per servire alla puerpera il primo pasto rinvigorente dopo le fatiche, e lo scampato pericolo, del parto. Tra i regali nuziali figurano anche cassoni

e fronti di cassoni dipinti – nei quali si riponeva il corredo –, che venivano esibiti durante il corteo che dalla dimora natale scortava la sposa a quella del marito, per poi essere collocati all’interno della camera padronale. info tel. +41 (0)91 8164791; www.ti.ch/ zuest; e-mail: decspinacoteca.zuest@ti.ch Gambettola (FC) Dalla fattoria al Palazzone. Storie di Gambettola U Biblioteca Comunale fino al 3 maggio 2015

La costruzione di un parcheggio nella cittadina romagnola ha recentemente portato alla scoperta dei resti di un’antica fattoria costruita alla metà del Quattrocento, raro caso di edificio rurale di età rinascimentale. Dal suo scavo nasce questa mostra che espone ceramiche cinquecentesche, rinvenute perlopiú in una piccola cisterna utilizzata prima per la raccolta dell’acqua piovana e poi come discarica. Piatti, ciotole e boccali facevano parte del servizio da tavola mentre le pentole e i coperchi in ceramica grezza erano usati in cucina per la cottura e preparazione dei cibi. Le porcellane da mensa hanno decori brillanti di colore giallo/ arancio e azzurro/blu, con fogliame su fondo berettino o repertori di candelabri e robbiane. info tel. 0547 45338; e-mail: biblioteca@comune. gambettola.fc.it

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agenda del mese

Appuntamenti bergamo

Siena

BERGAMOSCIENZA XII edizione

DIVINA BELLEZZA, scopertura del Pavimento del Duomo fino al 27 ottobre

3-19 ottobre

Conferenze, laboratori, open day, mostre, spettacoli e incontri con Premi Nobel e scienziati di fama mondiale propongono temi complessi con un linguaggio semplice e divulgativo. Oltre 150 eventi gratuiti indagano ambiti diversi: medicina, biologia, energia, neuroscienze, chimica, ma anche archeologia, sociologia, scienze naturali, tecnologia, robotica, informatica e ancora matematica, fisica, astrofisica, ingegneria e architettura. Da segnalare, fra gli altri, le conferenze sul primo popolamento dell’Eurasia da parte dell’uomo e sul contributo delle tecnologie moderne al recupero di testi antichi. info bergamoscienza.it

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La cattedrale senese scopre il suo pavimento a commesso marmoreo straordinario, unico, non solo per la tecnica utilizzata, ma anche per il messaggio delle figurazioni, un invito costante alla Sapienza. Abitualmente, il prezioso tappeto di marmo è protetto dal calpestio dei visitatori e dei numerosi fedeli. info operalaboratori.com Siena Esposizione della Madonna del Latte di Ambrogio Lorenzetti U Cripta sotto il Duomo fino al 31 ottobre

Tempera su tavola realizzata da Ambrogio Lorenzetti intorno al 1340, la Madonna del Latte può essere considerata come il paradigma iconografico di questo soggetto. L’esposizione della tavola nella Cripta è stata l’occasione per realizzare un percorso all’interno del Complesso monumentale del Duomo (Museo e Cattedrale) al fine di illustrare la tematica della Madonna del Latte. Nel periodo dell’esposizione sono inoltre organizzate visite guidate lungo l’itinerario mariano (Madonna del Latte di Paolo di Giovanni Fei e Polittico di Gregorio di Cecco nel Museo

appuntamenti • Erat hoc sane mirabile in regno Langobardorum… Insediamenti montani e rurali nell’Italia longobarda, alla luce delle ultime ricerche Convegno Nazionale di Studi U Monte Sant’Angelo (FG) – Auditorium

comunale «Convento delle Clarisse» 9-12 ottobre info Gruppi Archeologici d’Italia: tel. 338 1902507; www.gruppiarcheologici.org; e-mail: archeogruppo@alice.it - Comune di Monte Sant’Angelo: tel. 349 8749297 o 368 3370183; e-mail: assessorecultura@montesantangelo.it

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ell’ambito della collaborazione instaurata con l’Associazione Italia Langobardorum dei siti longobardi UNESCO e con l’Assessorato ai Beni Culturali del Comune di Monte Sant’Angelo, i Gruppi Archeologici d’Italia propongono un convegno dedicato agli insediamenti montani e rurali del popolo longobardo in Italia, un tema che si avvale dello sviluppo recente di fruttuose indagini in contesti abitativi e fortificati. Il titolo dell’incontro evoca un passo di Paolo Diacono (Hist. Lang. III, 16) relativo al clima di serenità e sicurezza instaurato dal re Autari dopo l’anarchia ducale durata dieci anni, ed è stato scelto anche con un intento attualizzante: inviare – attraverso la storia – un forte richiamo e un monito ai rappresentanti delle istituzioni italiane, affinché, in un momento cosí delicato per il nostro Paese, tendano con determinazione a operare a favore dell’unità nazionale, garanzia di stabilità, concordia e benessere. Il calendario dei lavori è stato formulato tenendo conto che nel secondo fine settimana di ottobre i GAI organizzano, come è ormai consuetudine, le Giornate Nazionali di Archeologia Ritrovata, un evento che promuove la valorizzazione e la tutela dei beni culturali e che in questa occasione è incentrato sul Santuario Micaelico di Monte Sant’Angelo al Gargano (FG). dell’Opera, Altare Piccolomini in Duomo). info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@ operalaboratori.com; operaduomo.siena.it firenze Esposizione straordinaria di tre profeti di Donatello U Battistero di S. Giovanni fino al 30 novembre

Il Battistero fiorentino ospita eccezionalmente tre grandi sculture di Donatello: il Profeta imberbe, il Profeta barbuto o pensieroso e il Profeta Geremia, scolpiti nel marmo dal

maestro tra il 1415 e il 1436, e facenti parte delle sedici figure commissionate a piú artisti dall’Opera di S. Maria del Fiore per ornare il Campanile di Giotto tra il 1330 e il 1430. L’esposizione delle tre statue è resa possibile dalla temporanea chiusura del Museo dell’Opera del Duomo, dove le sculture sono conservate, che riaprirà al pubblico

nell’autunno 2015 rinnovato e raddoppiato negli spazi espositivi. L’Imberbe è visibile per la prima volta dopo il restauro, condotto dalla Bottega di restauro dell’Opera, attiva dal 1296, che è intervenuta anche su altri due Profeti di Donatello: il Barbuto o pensieroso e Abramo con Isacco. info operaduomo.firenze.it ottobre

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protagonisti berta di toscana

Caro califfo ti scrivo... di Furio Cappelli

Nei primi anni del X secolo, una nobildonna toscana – un po’ indiscreta e un po’ millantatrice – scrive una lettera al signore di Baghdad: in essa si proclama sovrana di un reame favoloso e, in nome della sua potenza, chiede che le sia concessa la stessa considerazione accordata all’impero bizantino. Il destinatario della missiva, però, le risponde a tono...

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orre l’anno 293 dell’ègira, cioè dell’emigrazione (dall’arabo hijra) di Maometto da Mecca a Medina. Rispetto alla nascita di Cristo, siamo dunque tra il 905 e il 906. Mentre il califfo al-Muktafi (902-908) è impegnato in una delle sue consuete battute di caccia, nelle riserve che si estendono a nord della capitale, un eunuco giunge proprio a Baghdad per recare a corte una lettera indirizzata al sovrano. Il segretario del califfo la esamina con molto interesse, poiché viene da lontano. È scritta in latino, secondo gli usi dei Franchi (cosí nel mondo arabo-persiano si designano i popoli europei). Una lingua che egli non sa decifrare, ma possiamo immaginare che abbia apprezzato l’accuratezza e l’eleganza dell’impaginazione, nonché l’utilizzo di un telo di seta come supporto, in luogo della pergamena. Il latore del documento, d’altra parte, è in grado di anticipare a voce molti dettagli sulle circostanze che hanno determinato la redazione e l’invio della misteriosa lettera. Basta infatti che esponga la

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Berta, figlia di Lotario II di Lotaringia, scrive al califfo al-Muktafi di Baghdad, nella ricostruzione immaginata da Luca Rocchi per la sezione «Da Lucca a Baghdad», allestita da Vincenzo Moneta e Silvana Bartolini, in occasione della della mostra «Arte in Lucca», tenutasi nello scorso giugno presso il Real Collegio di Lucca.

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protagonisti berta di toscana da berta a marozia, donne di polso 860-865 Periodo in cui si colloca presumibilmente la nascita di Berta, figlia naturale di Lotario II, re di Lotaringia. Sua madre è la concubina Waldrada. prima del 880 Berta si sposa con Teobaldo, conte di Lorena. 880-885 Permanenza della coppia in Lorena. In questo periodo nascono probabilmente i primi due figli: Ugo, futuro re d’Italia, nato forse nell’881; Teutberga, che riprende il nome della moglie di Lotario II. 885-887 Permanenza della coppia in Provenza, dopo che Teobaldo, costretto a fuggire dalla Lorena, aveva trovato rifugio presso il locale re Bosone, suo cugino, acquisendo il titolo di conte di Arles. In questo periodo nascono probabilmente gli ultimi due figli della coppia: Bosone (che riprende il nome del sovrano provenzale), futuro marchese di Toscana; Ermengarda (che riprende il nome della regina di Provenza, figlia dell’imperatore Ludovico II), futura marchesa di Ivrea. 890 (?) Dopo la morte di Teobaldo, Berta si risposa con Adalberto II il Ricco, marchese di Toscana. 891-894 In questo periodo nascono probabilmente i due figli di Adalberto e Berta: Guido, che riprende il nome del duca di Spoleto, poi re d’Italia (zio e alleato di Adalberto); Lamberto, che riprende il nome del figlio e successore del predetto Guido di Spoleto. 894 Dopo la morte di Guido di Spoleto, Adalberto si schiera con il re germanico Arnolfo di Carinzia, ma ritira il suo appoggio quando questi giunge in Italia. 898-899 Marinai toscani intercettano e catturano un convoglio musulmano partito dall’Africa. 900 Istigato da Berta, Adalberto sostiene la discesa in Italia di Ludovico di Provenza, ma si schiera poi con il suo avversario Berengario, vista la mancata salita di Ugo, figlio di Berta, al trono di Provenza. 905 Dopo essere stato catturato e accecato per ordine di Berengario, Ludovico affida la Provenza a Ugo, figlio di Berta. 905-906 Contatti diplomatici tra Berta e il califfo Muktafi. 906-907 Adalberto, fiancheggiato da Berta, ostacola Berengario mentre prepara la sua incoronazione imperiale, che viene rimandata. 915 agosto Muore Adalberto. Berta, in qualità di reggente, è costretta a riconoscere l’autorità di Berengario per consentire l’ascesa di suo figlio Guido al marchesato. 916-917 Ermengarda, figlia di Berta, si sposa con il marchese Adalberto di Ivrea. 920 Dopo che Ugo, figlio di Berta, ha tentato senza successo di detronizzare Berengario, la donna e suo figlio Guido sono tratti in arresto a Mantova, ma vengono poi liberati. 925 Guido, figlio di Berta, si sposa con Marozia, spregiudicata nobildonna romana. L’8 marzo Berta muore.

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In alto Lucca, Duomo. La lapide di Adalberto II il Ricco, marchese di Toscana e marito di Berta di Lorena, morto il 17 agosto 915. A suffragio dell’anima del marito, Berta fece ampie donazioni ai canonici della cattedrale di S. Martino (Duomo della città), che gli tributarono solenni esequie e, forse, composero l’elogio funebre che celebra le sue virtú militari e la sua «bontà».

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Miniatura raffigurante una scena di navigazione, da un’edizione manoscritta delle maqamat (componimenti in prosa rimata) di al-Hariri. 1237. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

propria storia personale. Ha ricevuto perfino l’incarico di trasmettere un messaggio segretissimo, da affidare esclusivamente all’orecchio del califfo. L’eunuco Alí al-Hadim era al servizio dell’emiro Ibrahim II (875-902), della dinastia aghlabide, la cui corte era insediata a Kairouan (Tunisia), nell’ambito di un’ampia fascia costiera corrispondente in parte alle attuali Algeria, Tunisia e Libia. Quel territorio costituiva il governatorato dell’Ifriqiyya (dal latino «Africa»). Da lí prendevano il largo quei Mori («Mauritani») che seminavano scompiglio nel cuore del Mediterraneo europeo. Risoluto, sanguinario e un po’ folle, Ibrahim («Abramo»), con la presa di Taormina, nel 902, aveva concluso la conquista della Sicilia, e solo la morte per dissenteria, presso Cosenza, gli impedí l’avanzata verso Roma.

Contro i pirati saraceni

Pisa, città marinara in via di affermazione, doveva essere già da tempo divenuta una testa di ponte nella lotta contro i Saraceni. Con ogni probabilità, infatti, il suo porto era il fulcro delle attività di difesa costiera messe in atto dai duchi-conti di Lucca (in seguito marchesi

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di Toscana). Sembra infatti che da Pisa partisse l’operazione antipiratesca coordinata dal duca Bonifacio II nell’828. Il convoglio si diresse verso una base dei pirati sulla costa nordafricana, nei pressi di Cartagine. A giudicare dalle fonti di parte cristiana, fu sferrato un attacco vittorioso, mentre gli storici arabi parlano di una disfatta degli «infedeli». Quale che sia stato l’esito dello scontro, proprio nell’828, re Lotario I (818-855) affidò a Bonifacio II la difesa della Corsica. Adalberto I, figlio di Bonifacio, noto dall’846 come marchese di Tuscia (circoscrizione che comprendeva larga parte della Toscana), ereditò la qualifica di tutor dell’isola, e, nello stesso anno, fu coinvolto da Lotario I in una missione contro i Saraceni. In questo scenario si colloca l’intercettazione di una spedizione africana, pronta ad azioni di saccheggio e di pirateria. Il comandante della squadra era proprio l’eunuco Alí al-Hadim, il cui convoglio, costituito da tre navi con un equipaggio complessivo di 150 uomini, finí in mano ai marinai toscani e fu condotto, presumibilmente, a Pisa. Al momento della redazione della lettera, erano trascorsi sette anni dal fortunato abbordaggio, che si col-

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protagonisti berta di toscana LA A FORMA FFORM FORMAZIONE OR RM MAZ AZIONE ZION ZIO ONE ED DE DELLE ELLE LLE DINASTIE D DINASTI DINAS E SOTTO CALIFFI ABBASIDI SO SO SOTT OT TT T TO T O I CA C ALLIIFF FFI A FFI ABBA BB BB BA ASSIDI A

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loca quindi tra l’898 e l’899. Dopo la cattura, l’eunuco rimase al servizio dei marchesi di Toscana con probabili incarichi di agente e segretario. Di sicuro, se già non la possedeva, acquisí una buona padronanza della lingua locale, ed ebbe modo di illustrare ai suoi nuovi signori la realtà dell’impero islamico. La conoscenza del mondo musulmano da parte di questi ultimi pare si limitasse all’emirato nordafricano degli Aghlabidi, poiché, come sembra, essi ignoravano l’esistenza di un capo supremo residente nella lontana Persia, il califfo appunto. Cosí, almeno, risulta proprio dalla lettera inviata a Baghdad.

Un progetto ambizioso

L’idea di entrare in contatto con il piú potente sovrano dell’Islam non viene però al marchese Adalberto II, ma a sua moglie Berta. È lei a farsi carico di ogni preparativo, ed è lei che scrive personalmente al califfo, senza chia-

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A sinistra le dinastie islamiche sotto i califfi abbasidi. In basso l’assedio di Messina in una miniatura dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skylitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

mare in causa il marito. Facendo affidamento su Alí alHadim, che si offre di compiere la missione, organizza le cose in grande. Non vuole sfigurare agli occhi del sovrano orientale, anzi, si qualifica come potente regina «dei Franchi» (ossia europea), e, come tale, mette insieme un vasto assortimento di doni, a rappresentare quanto di meglio c’è nel suo Paese, e a prova di quanto sia grande il suo desiderio di ottenere l’amicizia del califfo: 50 spade, 50 scudi, 50 lance «franche», 20 vesti ricamate con fili d’oro, 20 eunuchi slavi, 20 schiave slave «belle e graziose», 10 grandi cani da caccia che non temono alcunché, 7 falchi, 7 sparvieri, un padiglione di seta. Non mancano cose davvero prodigiose: 20 vesti «che cambiano colore a ogni ora del giorno», confezionate probabilmente con la lana-marina prodotta in Andalusia, utilizzando le fibre estratte da alcuni favolosi molluschi; 3 uccelli «franchi», non meglio definiti, che ottobre

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fungono da allarme in caso di cibi o bevande avvelenati: non appena avvertono il sentore di una sostanza venefica, emettono uno strido «orrendo» e sbattono vivamente le ali; infine, alcune perle di vetro che consentono di estrarre dalla carne, «senza dolore», frecce e punte di lancia, anche se le ferite si sono già cicatrizzate (la studiosa Catia Renzi Rizzo ipotizza che le perle fossero in realtà grani di metallo dall’aspetto vetroso, capaci di attrarre il ferro delle armi conficcate, grazie al magnetismo: le ematiti, per esempio, reperibili nella stessa Toscana, possono fungere da calamite naturali).

Armi, schiavi, cani...

Il carico predisposto da Berta è un attendibile repertorio delle merci preziose maggiormente trattate sulle piazze europee. Di produzione tipicamente «franca», in linea con la grande tradizione metallurgica delle genti

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Kairouan (Tunisia). La Grande Moschea (detta anche di Sidi Oqba), edificata una prima volta verso il 670, e poi, dopo vari ampliamenti, demolita e ricostruita nell’836 dagli Aghlabiti.

germaniche, sono le armi e gli scudi, la cui altissima qualità (soprattutto delle spade) era nota nell’Islam, e, anche se la vendita agli «infedeli» ne era severamente proibita, la loro esportazione era fiorentissima. Il triste mercato degli Slavi, anch’essi assai apprezzati nell’Islam per la loro prestanza e per la carnagione chiara, era una voce importante nel commercio mediterraneo, tanto che, forse esagerando, si è detto che Venezia stessa basò la sua fortuna sulla vendita di questi «articoli». I cani selezionati in Europa settentrionale, specie Oltremanica, in Anglia, facevano davvero molta impressione per la loro taglia e per la loro impavidità, anche davanti alle bestie piú feroci. Se prestiamo fede al cro-

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protagonisti berta di toscana L’epitaffio di una regina

In questa tomba giace sepolto il corpo di una contessa, Berta, la benigna, la pia, di illustre stirpe. Colei che in tutto fece onore all’origine regale, fu moglie di Adalberto duca d’Italia. Di rango nobiliare, discendeva dall’alto ramo dei re dei Franchi: lo stesso re Carlo, il pio, fu suo avo. Figlia di Lotario, era di piacevole aspetto, e ancor piú piacevole per la bontà degli atti: ancora piú bella, grazie ai propri meriti. Durante la vita in questo mondo

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terreno, rimase felice: nessun nemico poté avere ragione di lei. Decidendo con sapienza, governava su molti fronti, e sempre era con lei la grazia immensa del Signore. Da molte parti giungevano numerosi conti al suo cospetto, per richiedere un dolce colloquio. Come una madre assai affettuosa, dette ricetto a molti esuli in miseria, e sempre fece donazioni a favore dei pellegrini. Questa donna risplendette di sapienza, e, come una forte colonna,

fu virtú, luce e gloria di tutta la patria. L’8 marzo lasciò questa vita: viva in pace di fianco al Signore. La sua morte, ahimé, rattrista tante persone per il dolore: piangono i popoli di Oriente e di Occidente. Ora geme l’Europa, ora è in lutto tutta la Francia, cosí come la Corsica, la Sardegna, la Grecia e l’Italia. Voi che leggete questi versi, dite tutti: «Il Signore doni a lei la luce perpetua». Amen. Morí nell’anno del Signore 925.

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La lapide sepolcrale della «regina» Berta, morta l’8 marzo 925, conservata nel Duomo di Lucca. L’iscrizione celebra la nobile

stirpe, la bellezza e le virtú della marchesa, per la cui morte «piangono i popoli di Oriente e di Occidente».

un problema. L’attuale emiro Ziyadat Allah III (903-909) potrebbe facilmente intercettarlo, se sbarcasse sulle coste africane con tanta merce con sé. In tal caso, i doni verrebbero sequestrati. La marchesa Berta, allora, decide di differire la spedizione dei doni stessi, e intanto invia il suo eunuco a Baghdad, con la sola lettera. Un inserviente «franco», addetto al guardaroba califfale, è in grado di tradurre la lettera in greco. A quel punto, lo stesso segretario del califfo è in grado di tradurla, dal greco, in arabo. E come reagisce, davanti a un’iniziativa cosí imprevista, il capo supremo dell’Islam? Con un misto di diffidenza e di incredulità, si può supporre, visto che fino a quel momento nessuno gli aveva mai parlato di una «regina Berta», ben piú potente, per estensione dei propri domini e consistenza dei propri eserciti, dello stesso imperatore di Bisanzio. Il ragionamento della donna è di una chiarezza pari alla sua spavalderia. Se il califfo al-Muktafi ha concesso la sua amicizia a Bisanzio, deve anche concederla a Berta, visto che ella non ha nulla da invidiare ai propri umili dirimpettai del Bosforo. La «regina», inoltre, dichiara di essere stata in amicizia con l’emiro dell’Ifriqiyya, prima che ne venisse sventata la spedizione piratesca. Fatto che, naturalmente, ha compromesso i precedenti rapporti. E ora che, grazie all’eunuco Alí, «intelligente e pronto», è venuta a sapere della potenza e dell’autorevolezza del califfo di Baghdad, è ben lieta di dedicare a lui ogni attenzione.

Come una «supermonarca»

nista Notkero, quelli inviati in dono da Carlo Magno al califfo Harun al-Rashid nell’802, non battevano ciglio neanche di fronte a un leone feroce. Liutprando di Cremona ricorda invece che i cani inviati in dono nel 927 dal re d’Italia Ugo di Provenza (figlio di Berta) all’imperatore bizantino Romano I (920-944), dovettero essere trattenuti a fatica quando si trovarono di fronte al sovrano orientale: bardato com’era di vesti strane, mai viste prima, i cani lo scambiarono per un mostro, e gli si stavano avventando addosso. Quanto ai doni di tipo tessile, è difficile stabilire se fossero di produzione locale. Potevano essere anche acquistati su piazze straniere, immessi da empori (come quelli gestiti dagli Ebrei) che facevano da intermediari sulle lunghe distanze, oppure ottenuti con azioni di pirateria. Nel caso delle lane-marine, come ipotizzato dallo storico Carlo Guido Mor, si sarebbe comunque trattato di prodotti della Spagna musulmana, «riciclati» nella speranza che a Baghdad fossero poco noti. Approntato il carico dei doni, Alí, a quanto pare, pone

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Berta scrive che la sua signoria si sviluppava su ventiquattro regni, ciascuno con una propria lingua. La stessa Roma avrebbe fatto parte del suo favoloso reame. Mettendosi in una luce cosí immaginifica, quella donna prefigura il caso del Prete Gianni, il leggendario sovrano-sacerdote orientale dal quale giunsero pompose lettere, recapitate, tra gli altri, a Federico Barbarossa (vedi «Medioevo» n. 180, gennaio 2012; anche on line su medioevo.it). Anche in quel caso, in un’ottica europea, si giocava su conoscenze geografiche su larga scala assai confuse: ancora nel XIII secolo si discuteva su dove fosse il reame del Prete Gianni, che finí per essere collocato in Etiopia. L’Europa stessa era conosciuta in modo sempre piú fumoso man mano che ci si inoltrava in Oriente, e, confidando su ciò, la marchesa cercò di impressionare il califfo spacciandosi per una «supermonarca». L’autrice della lettera si assume in prima persona la responsabilità delle proprie millanterie, ma, forse, osò troppo proprio con il riferimento a Roma, dato che il persiano Ibn Rustah, nel suo Libro dei monili preziosi (903-913), riporta una testimonianza di viaggio da cui risulta chiaramente che l’Urbe è dominata da «un re chiamato il Papa». Come poteva una donna esercitare la signoria su una città che a Baghdad risultava in mano

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a un re-sacerdote? Il fatto è che Berta dice di essere piú potente dei Bizantini. Di conseguenza, per surclassare Costantinopoli, la città piú famosa del proprio reame doveva essere necessariamente Roma, definita «la grande». Il gioco era rischioso, ma la carta dell’Urbe doveva essere tentata. L’episodio della cattura delle navi dell’emiro aghlabide, menzionato da Berta nella lettera, doveva lasciare indifferente al-Muktafi, poiché l’Ifriqiyya era sostanzialmente sganciata dall’autorità califfale, e tale autonomia, concessa a malincuore, era stata sempre mal sopportata dai sovrani abbasidi di Baghdad. Ma ora che il potere degli emiri nordafricani era in crisi (tanto che la dinastia aghlabide, nel 909, fu spazzata via dai Fatimidi dell’Egitto), Berta avrà forse pensato che un’iniziativa diplomatica con il califfo poteva contribuire a debellare la piaga della pirateria musulmana. Con l’aiuto dei «Franchi», il califfo poteva ribadire la propria autorità sull’Ifriqiyya, rafforzandosi anche sul fronte bizantino, in cambio di garanzie a favore della «regina» per il controllo delle isole (Corsica e Sardegna) e per la libera circolazione nel corridoio tirrenico. Questa, come gli storici tendono a credere, doveva essere la proposta espressa nel messaggio segreto affidato da Berta all’eunuco Alí.

Un’alleanza matrimoniale?

È difficile stabilire se, in tal caso, la marchesa credesse davvero alla fattibilità del progetto, vista l’impossibilità, per lei, di mettere insieme un esercito in linea con

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In alto veduta di Lucca. Al centro è la chiesa di S. Michele già denominata «in Foro» nell’VIII sec. L’edificio attuale, forse rifondato nella seconda metà dell’XI sec., era in via di completamento nel 1143. Nella pagina accanto l’«Avorio di Romano», placca che ricopriva un evangelario con raffigurato Cristo che incorona due personaggi tradizionalmente identificati con l’imperatore Romano II e Berta (Eudocia), nipote della «regina» Berta di Toscana. XI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France, Cabinet des Medailles.

simili pretese. Magari le bastava solo ottenere un documento ufficiale del califfato, da esibire come prova della sua autorevolezza ai propri nemici «infedeli» e ai propri stessi alleati e concorrenti cristiani. Se cosí fosse, non sarebbe da escludere l’affascinante ipotesi del filologo pakistano Muhammad Hamidullah, che ha reso nota in dettaglio la storia dell’ambasceria di Berta nel 1953, grazie a una fonte egiziana dell’XI secolo. La proposta, a suo avviso, doveva vertere su un’alleanza matrimoniale. Berta, insomma, avrebbe potuto prospettare le proprie nozze col califfo, glissando sul fatto di essere cristiana e di avere già un marito vivo e vegeto. Al-Muktafi, in ogni caso, non dette molto credito all’ambasceria. In prima battuta, dispose una lettera di riscontro dai toni piuttosto duri e solo in un secondo momento optò per un atteggiamento piú morbido, ma non privo di asprezze. Già il differimento dei doni costituiva una situazione inusuale nei rapporti diplomatici del tempo e poteva far nascere qualche ottobre

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L’eunuco, olio su tavola del pittore orientalista austriaco

Ludwig Deutsch (1855-1935). 1903. Londra, Najd Collection.

Adalberto II il Ricco. In una certa misura, occorre ammettere che il convulso contesto storico del momento aiutava non poco. Con il crollo dell’impero carolingio, l’Europa cristiana era in mano a un pulviscolo di potentati, il trono imperiale era vacante (905-915) e la stessa Roma, con il papa in testa, era sotto il controllo della famiglia di Teofilatto, con la patrizia Teodora e sua figlia Marozia in prima fila.

perplessità. Anzi, il fatto che i doni stessi sarebbero stati recapitati al califfo soltanto dopo che l’eunuco Alí avesse preso la strada del ritorno, suonava come un’offerta condizionata: si poteva credere, insomma, che Berta volesse concedere i suoi omaggi solo dietro la garanzia del ritorno del suo servo, riservandosi di Il furor della regina non inviare alcunché se non avesse gradito il tenore Proprio all’epoca dell’ambasceria a Baghdad, Berengadelle risposte del califfo. È difficile, in verità, che il sovrano abbia creduto rio I, re d’Italia (888-924), cercò di giungere nell’Urbe per cingere la corona imperiale, ma Berta affiancò con alla storia del grande reame di Berta. Tanto che nella successo il proprio marito in una vera e propria opera sua risposta, pur senza smentirla, tiene a sottolineare di sbarramento, senza risparmiarsi una certa veemenza che egli conosce bene tutti i popoli e, mettendo in atto quando voleva ottenere informazioni sugli spostamenti una sottile umiliazione, afferma che non è nella propria del nemico: l’arcivescovo di Ravenna, al riguardo rilutindole vantarsi del numero dei regni su cui il califfato tante, ebbe a lamentarsi del suo furor. esercita la sua signoria. Al-Muktafi, Berta era figlia di un re, disceninoltre, sottolinea che sono in tanti a Da leggere dente di Carlo Magno: suo padre desiderare una corrispondenza con Lotario II, sovrano della Lotaringia il califfo. Egli risponde ben volentieU Giorgio Levi Della Vida, La (855-869), era infatti nipote di Ludori, ma – ecco un altro fendente alla corrispondenza di Berta di vico il Pio, figlio del grande impera«regina» – non sempre si tratta di un Toscana col Califfo Muktafi, tore. E non era stato proprio Carlo a segno di amicizia: lo è solo nel caso in in Rivista Storica Italiana, LXVI cercare l’amicizia del califfo Harun alcui vi sia una rispondenza di interessi (1954), n. 1, pp. 21-38; Rashid? Magari nella stessa Toscana tra le parti. In tutti gli altri casi si tratU Carlo Guido Mor, Una lettera era ancora ben vivo il ricordo dell’apta di semplice cortesia. di Berta di Toscana al Califfo prodo a Pisa dei messi dell’illustre soNello specifico, egli non si prodi Bagdad, in Archivio Storico vrano orientale (801), che recavano nuncia su come devono essere definiItaliano, CXIII (1954), notizie sull’invio ad Aquisgrana del ti i propri rapporti con Berta. Si limita pp. 299-312; celebre elefante Abul al-Abbas (vedi in modo generico ad affermare che U Carlo Guido Mor, Berta di Toscana, «Medioevo» n. 192, gennaio 2013; anella è preferita in base a un preciso in Dizionario Biografico degli che on line su medioevo.it). criterio di precedenze, stabilite in baItaliani, a cura della Fondazione Sposata in prime nozze con il conse alle situazioni e ai crediti ottenuti Treccani, Istituto dell’Enciclopedia te di Arles, Berta era riuscita ad assipresso la corte califfale: sembrerebbe Italiana, Roma; anche on line su curare un ruolo in Provenza al proche il posto di Berta non sia in cima treccani.it prio figlio Ugo, che cinse la corona di alla classifica. Si raccomanda infine U Catia Renzi Rizzo, Riflessioni su re d’Italia nel 926. Sua figlia Ermendi tener conto di ciò in futuro, come una lettera di Berta di Toscana garda si legò al marchese di Ivrea, e, a dire che eventuali contatti succesal califfo Muktafi: l’apporto tramite le nozze di Guido con la posivi dovranno richiedere maggiore congiunto dei dati archeologici tente Marozia, Berta si proponeva di attenzione: «Sappi ciò e agisci di cone delle fonti scritte, in Archivio mettere le mani su Roma, da tempo seguenza nello scrivere e inviare mesStorico Italiano, 2001, reperibile nelle mire dei marchesi di Toscana. saggi al Principe dei credenti e nel on-line su Reti Medievali. Insomma, di illustre stirpe regacondurti confidenzialmente verso di le, ricca, scaltra e determinata pialui, a Dio piacendo». A questo punto, il califfo consegnò la lettera all’eunu- nificatrice, bella donna (e ammaliante manipolatrice, co, al quale aveva anche affidato la risposta al messaggio se prestiamo fede a Liutprando di Cremona), Berta era all’altezza delle proprie vanterie. E che suscitasse segreto. Non richiese e non inviò alcun dono, ma diede un grande rispetto, lo testimonia la sua pregevole laad Alí un po’ di denaro per le spese di viaggio. La missiopide sepolcrale, conservata tutt’oggi nella cattedrale ne in ogni modo non si concluse, perché l’inviato di Berta di Lucca. Senza timore di esagerare, il poeta che comperse la vita lungo la strada. La preziosa lettera califfapose i versi dell’epitaffio racconta che la sua morte le, che, al di là dei contenuti, costituiva forse l’obiettivo fece sensazione ovunque. Tutto il mondo si trovò in principale della spedizione, non giunse mai a Lucca. lutto. Una nipote che si chiamava Berta come lei, fiViene spontaneo chiedersi, a questo punto, come Berta avesse potuto proporsi in maniera tanto ardita a glia naturale di Ugo, nel 944 fu data in sposa, con il nome di Eudocia, al futuro imperatore bizantino un sovrano straniero, visto che, in sostanza, ella era la Romano II (959-963). F semplice moglie di un pur potente vassallo, il marchese

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Missione a Damietta

di Chiara Mercuri

Settembre 1219, accampamento crociato sul Delta del Nilo: le truppe cristiane sono fiaccate dalle epidemie e lo sconforto regna sovrano. In quel frangente giunge Francesco d’Assisi, che tenta invano di dissuadere i comandanti dal dare battaglia. La sconfitta sarà rovinosa. Un mese dopo, il Santo varca le linee dell’accampamento per recarsi dal vincitore, il sultano Malik al-Kamil, nipote di Saladino...

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il settembre del 1219, sul delta del Nilo i crociati sono accampati e attendono di attaccare la città di Damietta. Da anni, ormai, coloro che combattono nel nome di Cristo hanno rinunciato a puntare direttamente su Gerusalemme, obiettivo troppo difficile da riconquistare e mirano, invece, a impadronirsi di alcune roccaforti commerciali, sperando di poter poi giocare la carta dello scambio. Una volta presa Damietta, chiave del Nilo, strategico porto musulmano, si potranno aprire le trattative con il sultano per ottenere in cambio la Terra Santa, che resta la vera meta. Una tale strategia sarebbe stata impensabile nei primi anni di predicazione della crociata, quando il

solo nome di Gerusalemme – liberata e accessibile, senza restrizione alcuna per i pellegrini cristiani – era capace di suscitare il reclutamento massiccio di mezzi e di uomini. Sono passati piú di cent’anni da quando Pietro l’Eremita ha infiammato le piazze con la sua rozza predicazione, incitando i cavalieri cristiani a prendere le armi e rivolgerle contro «gli infedeli» che «impudentemente» controllano la Città Santa.

La propaganda del papa

Nel 1095 all’indizione della prima crociata, il papa ha dovuto soffiare sul fuoco, risvegliare l’immagine del Santo Sepolcro perduto, eccitare gli animi contro l’Islam, gridare allo scandalo dei pellegrini cristiani

costretti a chiedere permessi e ottenere – solo per concessione – di potersi recare a pregare sulla tomba di Cristo. A quell’epoca, quando nella propaganda cristiana si stigmatizza lo scontro totale tra cristianità e Islam, non si poteva prospettare ai pellegrini armati, investiti nell’impresa ultramarina, una meta diversa da Gerusalemme. Ma agli inizi del XIII secolo, l’afflato dei primi appelli si è ormai attenuato, e quella che appariva un tempo come una missione dai contorni nobili e mitizzati ha assunto sempre piú la crudezza e l’odore di una guerra come tutte le altre. Da quando poi, i musulmani, nel 1187, hanno ripreso ai crociati la città di Gerusalemme, spingendoli nei ter-

L’attacco a Damietta, olio su tavola di Cornelis Verbeeck. 1625-1635 circa. Huntington, The Heckscher Museum of Art. L’artista rappresenta l’attacco della flotta crociata (alle cui navi assegna sembianze tipiche del XVII sec.), avvenuto nel 1218, alla città nilotica di Damietta, porto strategico per i musulmani, mentre i difensori tentano di impedire l’ingresso delle navi nemiche stendendo una catena tra le torri erette sulle rive del fiume. Vuole la leggenda che un vascello proveniente da Haarlem, città natale dell’artista, fosse riuscito a spezzarla.

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san francesco e il sultano Gli anni delle guerre «per conto di Dio» 1096-1099 Prima crociata in Siria-Palestina. Vi partecipano quattro eserciti: Goffredo di Buglione, duca di Lorena, comanda i Lotaringi; Roberto, duca di Normandia, e Roberto, conte di Fiandra, capeggiano i cavalieri della Francia settentrionale; Raimondo, marchese di Provenza, guida i cavalieri della Francia meridionale; Boemondo d’Altavilla è alla testa dei Normanni venuti dall’Italia meridionale. 1098, giugno I crociati conquistano Antiochia, della quale si appropria Boemondo d’Altavilla. 1099, 10 luglio El Cid Campeador muore a Valencia. 1099, 15 luglio I crociati conquistano Gerusalemme. 1100 Baldovino di Boulogne diviene il primo sovrano del regno «franco» di Gerusalemme.

A destra Subiaco, Sacro Speco. Ritratto di papa Innocenzo III, particolare di un affresco di autore ignoto. 1216 circa.

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1102 Gli Almoravidi occupano Valencia.

1157 Gli Almohadi riconquistano Almeria.

1128 Concilio di Troyes: la Fraternitas dei pauperes milites Templi salomonici trasformata in militia (Ordine religioso-cavalleresco).

1177, 25 novembre Le truppe cristiane guidate da Baldovino IV di Gerusalemme sconfiggono l’armata di Saladino nella battaglia di Montgisard.

1145-1146 Papa Eugenio III emana, in due differenti successive redazioni (1° dicembre 1145 e 1° marzo 1146), la Quantum praedecessores, prima bolla pontificia regolatrice del movimento crociato.

1187 Vittoria saracena a Hattin; Saladino conquista Gerusalemme. Papa Gregorio VIII promulga l’enciclica Audita tremendi.

1147, ottobre I crociati prendono Almeria e poi Lisbona. 1148-1152 Seconda crociata in Siria-Palestina. Vi confluiscono la crociata tedesca, guidata da Corrado III, e quella francese, al seguito di Luigi VII e della moglie Eleonora d’Aquitania.

1187-1192 Terza crociata. Vi partecipano l’imperatore tedesco Federico I Barbarossa, il re di Francia Filippo Augusto e il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. 1195, 19 luglio Gli Almohadi battono i Castigliani ad Alarcos.

1202-1204 Quarta crociata, detta «dei baroni», riuniti sotto il comando del marchese Bonifacio di Monferrato; si conclude con la conquista di Costantinopoli e la fondazione dell’impero latino. 1209 Innocenzo III bandisce la crociata contro gli eretici catari detti «Albigesi». 1210 Predicazione di una nuova crociata nella Penisola iberica, causata dalla conquista almohade di Salvatierra. 1212 «Crociata dei fanciulli» (o «degli innocenti»). 1212, 17 luglio Le truppe cristiane franco-ispanoportoghesi riportano una grande vittoria nella battaglia di Las Navas de Tolosa. 1217-1221 Quinta crociata, organizzata da Andrea II re d’Ungheria e da Leopoldo VI duca d’Austria. Incontro tra Francesco d’Assisi e Malik al-Kamil, sultano d’Egitto. 1228-1229 Sesta crociata (crociata di Federico II); Gerusalemme è recuperata per mezzo di un accordo diplomatico con il sultano d’Egitto Malik al-Kamil.

1229-1231 Crociata aragonese contro le Baleari. 1232-1253 Crociata aragonese contro l’emirato di Valencia. 1244 Rogo degli ultimi difensori catari di Montségur; le milizie nomadi kwarizmiane occupano Gerusalemme. 1248-1254 Settima crociata (prima crociata di Luigi IX): spedizione in Egitto del re di Francia. 1258 I Mongoli conquistano Baghdad; fine del califfato abbaside. 1267 Completata la conquista cristiana del Portogallo. 1270 Ottava crociata (seconda crociata di Luigi IX, che muore durante l’assedio di Tunisi). 1291 Caduta di Acri. 1300 Giubileo proclamato da Bonifacio VIII. Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’espulsione degli Albigesi da Carcassonne, da un manoscritto de Les Grandes Chroniques de France. 1415 circa. Londra, British Library.

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ritori limitrofi, la guerra si è dovuta fare giocoforza piú tattica. Damietta, dunque, è il nuovo obiettivo dei cristiani e il vero cruccio del sultano che vede minacciato uno dei centri nevralgici del suo sistema mercantile, dove fa scalo metà delle merci che approvvigionano il suo regno. Sull’altra sponda del Mediterraneo, del resto, nessuno guarda piú alla guerra santa con gli occhi di un tempo. Dal primo appello di Urbano II, troppe degenerazioni hanno screditato l’immagine della crociata: dagli attacchi alle comunità ebraiche, ai dirottamenti su obiettivi economici, alle spedizioni rivolte all’interno della cristianità stessa.

Caccia agli Ebrei...

Già a partire dal 1095, quando la predicazione grossolana del basso clero raggiunse masse di analfabeti, incitandoli a prendere le armi in nome di Cristo, in Germania, alcuni capipopolo provenienti dalla piccola nobiltà – sull’onda di tale predicazione – si misero alla testa di diverse migliaia di armati che, invece di dirigersi verso Oriente, trovarono piú sbrigativo dedicarsi a una crociata interna contro gli Ebrei. Per alcuni mesi, le città renane furono attraversate da sanguinosi pogrom, provocati da truppe improvvisate, animate ora dal fantasma della purezza della fede, ora dal desiderio di cancellare debiti contratti con i prestatori ebrei. Agli inizi del XIII secolo poi, nel 1204, un altro scioccante evento aveva decretato il declino dell’impresa oltremare: il dirottamento della quarta crociata. Proclamata da Innocenzo III all’indomani della sua elezione al soglio pontificio, essa si era risolta nel rovesciamento dell’impero greco di Costantinopoli e nel saccheggio dissennato della città (vedi «Medioevo» n. 192, gennaio 2013; anche on line su medioevo.it). La causa della sciagura era stata provocata dal mancato pagamento da parte dei cavalieri crociati dell’intera somma pattuita al momento dell’accordo con i Veneziani. Questi ultimi, incaricati del loro trasporto, avevano apprestato i navigli

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stabiliti, senza poter rientrare dei capitali investiti. Riluttanti a fornire il trasporto a una cifra troppo svantaggiosa, gli armatori della Laguna temporeggiavano mentre la soldataglia crociata, accampata al Lido, iniziava a dare segni d’intemperanza, funestando la città. Dal canto suo, il papa minacciava la scomunica nel caso in cui l’impresa non avesse preso principio, e fu cosí, che per liberarsi dei crociati, i Veneziani dirottarono l’impresa sulla vicina e ricchissima Costantinopoli, dove il bottino di guerra li avrebbe fatti rientrare della somma dovuta.

...e agli Albigesi

Il ricordo dei saccheggi e delle violenze dei crociati per le strade della cristiana Costantinopoli gettò, però, una luce sinistra sulla natura dell’impresa, la cui immagine uscí ulteriormente screditata dalla crociata bandita da Innocenzo III contro i catari di Albi di pochi anni successiva. Essa mostrò definitiva-

mente l’uso improprio che ormai se ne faceva a circa cento anni dalla sua prima indizione: non si trattava piú di riprendere il controllo di luoghi santi per la religione cristiana, un tempo dominio dell’impero romano, strappati dagli Arabi ai Bizantini nel VII secolo (e quindi dal punto di vista dei crociati, eredità dell’Europa cristiana), ma di aggredire cristiani – seppur di diversa ispirazione spirituale – residenti nel Sud della Francia. La propaganda contro l’Islam, che si era servita di immagini tanto piú efficaci quanto piú veementi, mostrava ora la sua assoluta infondatezza. Secondo lo storico francese Jacques Le Goff, ciò che col passare del tempo diventò sempre piú evidente era che le crociate si erano trasformate in un efficace strumento «di esportazione della violenza da Occidente a Oriente». A venir esportati erano quei cavalieri, che, a partire dall’XI secolo, si erano specializzati nel mestiere delle armi e risultavano assai scomodi in tempo di pace.

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Senza scopo e senza freno, dediti al girovagare disordinato e turbolento, infestavano l’Europa in cerca d’impiego. La crociata rappresentava un’occupazione permanente per questa soldataglia, fornendole un obiettivo alto e una zona remota in cui spendere le proprie energie. Il pellegrinaggio a Gerusalemme era stato un fenomeno abituale fin dai primi secoli del cristianesimo per gente d’ogni ceto. Re e regine, ma anche uomini semplici e povere donne, santi e monaci s’erano messi

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in viaggio, ogni anno, all’arrivo della bella stagione, per raggiungere i maggiori porti – Venezia, Genova, Ancona, Brindisi, Bari – da dove salpare per la Terra Santa. Quindici giorni, un mese al massimo di navigazione e si realizzava il desiderio di ricalcare le orme di Cristo.

Il tour dei luoghi santi

In Terra Santa i pellegrini venivano accolti da religiosi cristiani (dal XIII secolo in poi, dai Francescani), i quali li guidavano nel tour devo-

zionale della città, attraverso quei luoghi resi famosi dall’ascolto del Vangelo. Essi anelavano vedere la collinetta del Calvario, il giardino di Pietro d’Arimatea dove sorgeva la grotta del sepolcro e poi l’orto del Getsemani o il palazzo di Caifa, dove Pilato aveva ricevuto Cristo in processo. I musulmani consentivano loro tale visita in cambio di un tributo e permettevano ai religiosi cristiani di custodire e far visitare i luoghi che per i seguaci della croce erano i piú santi al mondo. ottobre

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A sinistra miniatura raffigurante i pellegrini di fronte alla chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, da un’edizione del Livre des Merveilles, raccolta di viaggi in Oriente, inclusi quelli di Marco Polo. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso moneta di Giovanni I di Brienne. XIII sec. Oxford, Ashmolean Museum. Re di Gerusalemme e imperatore latino di Costantinopoli, Giovanni fu tra i protagonisti della conquista di Damietta durante la quinta crociata.

vere e proprie aggressioni. Anche tale mutato atteggiamento da parte dell’autorità locale contribuí alla nascita, in Occidente, dell’idea di strappare Gerusalemme dalle mani degli «infedeli». La propaganda si nutriva d’immagini tese a fomentare l’odio e orientare allo scontro: «Adoratori di Maometto, infedeli, profanatori della città santa» – tuonavano il papa e i predicatori nei loro appelli alla crociata – «tengono in mano il sepolcro di Cristo e il Golgota consacrato dal suo sangue!».

La tolleranza dell’Islam

Nei fatti poi, al di là dei toni feroci della propaganda, i cristiani intrattenevano scambi di ogni tipo con l’Islam, da quelli culturali a quelli commerciali, e i cristiani sudditi del sultano, in Palestina come in Egitto, godevano dello statuto di «dhimmi», di protetti; erano cioè soggetti al pagamento di alcune tasse straordinarie rispetto ai loro connazionali musulmani: una tassa sulla persona (in quanto non musulmani) e una tassa fondiaria speciale. Essi però potevano praticare il loro culto pressoché indisturbati e innalzare i loro templi purché non vi fossero all’esterno simboli religiosi evidenti, quali la croce. Non potevano, naturalmente, fare opera di proselitismo, o di-

In alcuni casi però, i seguaci di Maometto da tutt’altre faccende pressati – lotte interne e scontri con nemici esterni – mal tolleravano questo andirivieni di cristiani fino a sospenderne, o a limitarne temporaneamente, le visite. In particolare da quando i Turchi selgiuchidi, nell’XI secolo, da poco convertiti all’Islam, si erano sostituiti agli Arabi nel controllo della Palestina, i pellegrini avevano denunciato un clima ostile nei loro confronti, né erano mancate

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re cose in contrasto con la religione predicata da Maometto: questo era un punto chiaro e ineludibile.

Un’onta da cancellare

Ma torniamo al settembre del 1219, quando sul Delta del Nilo, dove sono accampati i crociati, fa la sua comparsa Francesco d’Assisi. Alcuni anni prima del suo arrivo, nel 1215, Innocenzo III si era prodigato affinché una nuova crociata prendesse forma e cancellasse la vergogna della presa di Costantinopoli. A tal fine aveva proclamato una tregua all’interno della cristianità, che doveva servire – nel suo intendimento – a convogliare tutte le energie della cavalleria verso l’impresa ultramarina. Una tregua di alcuni anni era stata anche stipulata tra il

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sultano siariaco-egiziano, Al-Adil, e Giovanni di Brienne, re latino di Terra Santa (la cui capitale – una volta perduta Gerusalemme nel 1187 – era stata spostata ad Acri). Nel 1218, allo spirare della tregua, seguendo il consiglio di altri capi crociati, Giovanni aveva deciso di riprendere le ostilità, convogliando il suo esercito sul delta del Nilo. Un anno piú tardi, quando Francesco, dopo essere sbarcato ad Acri, decise di raggiungere l’accampamento sul Nilo, trovò i soldati cristiani infiacchiti dalla dissenteria e dalle epidemie; incupiti nell’esasperante attesa di ricevere un segnale d’attacco che tardava ad arrivare, a causa delle divisioni interne dell’esercito cristiano e delle pressioni del legato pontificio, cardinal Pelagio,

In alto miniatura con l’ingresso dei crociati a Damietta, da Le Miroir Historial di Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé. A destra Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa superiore. San Francesco davanti al sultano Malik al-Kamil (o La prova del fuoco), affresco del ciclo giottesco sulla vita del Santo. 1297-1300. ottobre

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Dante e l’Islam

Maometto, Francesco e il Saladino La grande eco dell’incontro tra Francesco e al-Kamil tra i contemporanei è attestata dalla sua menzione nel canto XI del Paradiso, nel quale Dante attribuisce al Santo il merito d’aver «predicato Cristo», testimoniando la propria fede «ne la presenza del sultan superba». Dante interpreta dunque la missione di Francesco in termini di «testimonianza», quella a cui erano tenuti i primi martiri cristiani che traevano il loro appellativo dal greco martyr, appunto testimone.

In alto particolare della tavola di Francesco d’Assisi con il verosimile ritratto del volto del Santo. Ultimo quarto del XIII sec. Orte, Museo Diocesano di Arte Sacra. A sinistra busto di Dante Alighieri, copia in gesso da una scultura bronzea realizzata da Vincenzo Vela nel 1865. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

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Come ha messo in luce lo storico Franco Cardini, Dante ha un atteggiamento bivalente verso l’Islam. Da una parte, si mostra fautore della crociata e ostile all’Islam, collocando nell’Inferno Maometto, colpito da una pena disgustosa e truculenta, e celebra tra i principi saggi e giusti del Paradiso il capo della prima crociata, Goffredo di Buglione. Dall’altra, però, è affascinato dall’esempio di Francesco, che si limita a testimoniare la propria fede al sultano. Un sultano verso il quale Dante doveva, inoltre, nutrire una certa simpatia, in quanto nipote di quel Saladino, che egli inserisce nel Limbo con i filosofi islamici Avicenna e Averroé: unici non cristiani ai quali concede il privilegio di risiedere nel castello degli spiriti magni. Yusuf ibn Ayyub, il cui soprannome Saladino (Salah ad-Din) significava «la santità della religione», era il sultano curdo che aveva spazzato via gli sciiti dall’Egitto, ristabilendo l’osservanza ottobre

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Miniatura raffigurante una battaglia tra crociati e musulmani, dal Roman de Godefroi de Bouillon. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

sunnita in tutta l’area mediorientale. Egli era stato anche il protagonista della riconquista di Gerusalemme dalle mani dei crociati nel 1187. Nonostante lo choc prodotto in Occidente dalla riconquista della Città Santa, il Saladino era assurto a una dimensione mitica per le qualità morali e umane di cui aveva dato prova nei lunghi anni di scontro con i crociati. Nobiltà d’animo, liberalità e fedeltà alla parola data ne fecero il modello di perfetto cavaliere, guadagnandogli fama e rispetto presso il nemico cristiano. Come tutti gli intellettuali del suo tempo, Dante è ben conscio del debito contratto dalla cultura latina nei confronti della scienza e della filosofia araba, e lo testimonia, nonostante tutto, attraverso questo omaggio reso all’Islam.

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in perenne disaccordo con i cavalieri crociati. Vent’anni piú tardi, di fronte a un analogo e desolante spettacolo dell’esercito crociato stanziato sul delta del Nilo, il re di Francia Luigi IX scrisse: «Cosí ha voluto punirci il Signore, richiedendolo i nostri peccati».

Il presagio della disfatta

Circa un mese dopo l’arrivo dell’Assisiate, alla vigilia del 29 di agosto, i crociati decidono infine di attaccare. Tommaso da Celano, primo biografo del Santo, scrive nella sua Vita Secunda che Francesco, in quel frangente, ha la premonizione della disfatta dell’esercito crociato e si affanna nel tentativo di dissuadere i cristiani dall’intraprendere l’attacco. Inascoltato, attende amaro sulla soglia dell’accampamento il rientro dei sopravvissuti sconfitti. A sorpresa poi, dopo circa un mese dalla dolorosa disfatta cristiana, Francesco attraversa le linee dell’accampamento crociato e si reca nel campo avverso, a colloquio

con il sultano d’Egitto, Malik al-Kamil. Nel 1218, alla morte del padre, questi ha ereditato la parte egiziana del regno, mentre la siriaca è andata a suo fratello al-Muazzam. Malik al-Kamil è nipote del Saladino e come lui ha fama di essere un nemico leale e aperto nei riguardi dell’Occidente. Un uomo costretto alla guerra, ma desideroso di pace: Francesco ha la grazia, infatti, di entrare e uscire illeso dal suo quartier generale. Con un nulla di fatto, però, e un senso di profonda sconfitta, di cui le fonti tramandano l’eco. Una sconfitta morale, di cui il Santo dovette probabilmente lamentarsi piú volte con i compagni, al momento del suo rientro ad Assisi. Ciò che di preciso accadde nell’incontro presso la tenda di Malik al-Kamil, non è dato sapere, a meno di non fare affidamento su alcuni aneddoti di sapore marcatamente agiografico come quello riportato da Bonaventura da Bagnoregio, secondo il quale Francesco, dopo aver proclamato di essere

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cristiano, avrebbe chiesto al sultano di poter camminare su un letto di braci per dare prova della veracità della propria fede e ottenere quindi la sua conversione. Si tratta della classica ordalia, una terribile prova del fuoco di carattere piú letterario che storico. Nei Fioretti, fonte trecentesca ricca di episodi di carattere leggendario, il giaciglio di braci apprestato per l’ordalia davanti al sultano evocato da Bonaventura diviene, invece, il letto – in senso lettera-

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le – sul quale Francesco avrebbe, provocatoriamente, proposto a una prostituta inviatagli dal sultano di congiungersi carnalmente con lui.

Donne tentatrici

Un richiamo evidente, quest’ultimo, alle biografie dei padri del deserto ai quali, durante le ore di veglia e digiuno nelle desolate lande del deserto della Tebaide, il demonio inviava allucinazioni in forma di donna a tentarne la continenza. Anche nelle vite dei martiri cristiani

si ritrova spesso il topos della prostituta tentatrice, inviata, in questo caso, dall’autorità romana per piegare la fede dei detenuti cristiani, favorendone l’abiura. Se la descrizione dell’incontro tra Francesco e il sultano assume nelle fonti coeve contorni mitizzati, è tuttavia possibile riferirsi alle parole dello stesso Santo al fine di comprendere, non già quello che davvero accadde in quel giorno di settembre, ma quale fosse il proposito da cui egli fu mosso. ottobre

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La tentazione di Sant’Antonio, dipinto di Jan Mandyn. XVI sec. Collezione privata. Nato a Coma, nel cuore dell’Egitto, intorno al 250, Antonio abate fu uno dei piú illustri eremiti della storia della Chiesa: a vent’anni abbandonò ogni cosa per vivere dapprima in una plaga deserta e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita anacoretica per oltre 80 anni. Nell’iconografia compare circondato da donne procaci (simbolo appunto delle tentazioni), secondo un canone analogo a quello adottato anche da san Francesco nei Fioretti per raccontare l’incontro con il sultano al-Kamil.

Davvero Francesco sperava di convertire il sultano, come attestano alcune fonti? O voleva piú realisticamente testimoniare la sua fede «per la sete del martiro», come scrive Dante nella Divina Commedia (Paradiso, XI)? Nella Regola non bullata (cosí chiamata per distinguerla da quella che pochi anni dopo ottenne l’approvazione del papa) di cui Francesco ha rivendicato la paternità, egli fece redigere un capitoletto, il sedicesimo, intitolato: «Riguardo a coloro

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che vanno tra i saraceni e altri infedeli». In esso si legge: «Qualunque fratello vorrà, per ispirazione divina, andare tra i saraceni o altri infedeli (…) vada su licenza del ministro e il ministro dia loro la licenza e non li contraddica se vedrà che sono idonei a essere inviati». Francesco, dunque, intende che sia sempre favorita l’attività di predicazione e di apostolato dei suoi frati. Egli del resto volle fermamente che la regola approvata per la sua fraternità prevedesse l’itineranza spontanea dei confratelli su modello di Cristo e degli apostoli e si discostasse nettamente dalla vita monastica o eremitica, soggetta invece alla stabilità nel chiuso d’isolati monasteri. La grande novità degli Ordini mendicanti, francescano e domenicano, nati nel Duecento, era stata, del resto, proprio l’assoluta mobilità finalizzata alla predicazione nelle piazze, all’apostolato costante, all’assistenza permanente agli indigenti nei sobborghi delle neonate città, alle missioni presso i non cristiani. Per i suoi, Francesco decise anche che l’approccio alla missione fosse di tipo nuovo: «I fratelli che vanno tra essi (i non cristiani) in due modi possono spiritualmente comportarsi. Un modo è che non facciano liti, né questioni, ma siano sottomessi a ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando sembri piacere a Dio, annunzino la parola di Dio, affinché credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo». Nell’esegesi storico-religiosa, questo passo della Regola è divenuto la naturale didascalia dell’incontro tra Francesco e il sultano. A esso si deve la trasformazione del Santo

nell’icona del dialogo interreligioso. Sul suo esempio, Giovanni Paolo II inaugurò ad Assisi, nel 1986, la prima giornata mondiale di preghiera per la pace con la partecipazione di cattolici, ortodossi, musulmani, buddhisti ed ebrei. Pochi anni prima della sua elezione al soglio pontificio, Joseph Ratzinger, commentò il passo in termini di avversione di Francesco verso la crociata e l’incontro con il sultano come il tentativo di inaugurare un «cammino verso la pace», che, nell’intendimento del cardinale tedesco, doveva essere proseguito e potenziato sulle orme del Santo. Come reazione all’utilizzo di Francesco in chiave pacifista e anticrociata, alcuni storici hanno gridato allo stereotipo, alla falsificazione storica, ribadendo che da quel poco che ci dicono le fonti non è possibile ricostruire l’atteggiamento del Santo verso l’Islam e la guerra santa. Resta però, come si è detto, in quel «non facciano lite, né questione» rivolto ai suoi, l’immagine «nuova» che i francescani intendevano fornire circa l’approccio alle altre fedi; un’immagine, come era nello stile dell’Assisiate, mutuata dal Vangelo, ispirata a un principio universale e immutabile di rispetto e umiltà «di fronte a ogni creatura umana». Un’immagine semplice, una legge umana oltre che divina, che a Francesco, però, doveva apparire offuscata dai troppi errori commessi nel corso delle molte crociate fin lí svolte. F

Da leggere U Franco Cardini, Nella presenza

del soldan superba. Saggi francescani, edizioni CISAM, Spoleto 2009 U John Tolan, Il santo dal sultano. L’incontro di Francesco d’Assisi e l’islam, Edizioni Laterza, Roma-Bari 2009 U Franco Cardini, Il Saladino. Una storia di crociati e saraceni, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1999

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Chi dice donna, dice... fatica

di Maria Paola Zanoboni

Che la vocazione «naturale» dell’altra metà del cielo siano le faccende domestiche oppure passatempi leggiadri e raffinati è un pregiudizio smentito a piú riprese dalla ricerca storica. Ne è un esempio lampante l’età di Mezzo, durante la quale fu diffusissima la presenza femminile in fabbriche, laboratori e cantieri. E, non di rado, anche in settori che comportavano mansioni particolarmente faticose, come nel caso dell’edilizia o dell’attività mineraria

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e la difficoltà nel reperimento delle fonti ha a lungo ostacolato lo studio del lavoro femminile in età medievale, che per tale motivo è rimasto legato a banali stereotipi di matrice ottocentesca (attività limitate alla filatura e alla tessitura, relegate in ambito domestico, e svolte nei ritagli di tempo lasciati dalla cura della famiglia), le ricerche piú recenti stanno facendo emergere un quadro completamente diverso sia per l’Italia che per l’Europa. Tra il XIII e il XVI secolo almeno, le donne non si limitavano affatto alle tradizionali occupazioni del tessile, ma erano coinvolte a tutti i livelli (come lavoratrici subordinate, lavoratrici autonome o imprenditrici), e in tutti gli strati sociali (dai piú bassi alle alte sfere della società), in una gamma svariata di attività: dalla lavorazione del pesce salato alla lavorazione e alla pesca del corallo mediante l’allestimento di imbarcazioni come armatrici e coordinatrici dei pescatori; dalla gestione di alberghi e locande all’esercizio del commercio su scala internazionale, alle attività in cartiere, concerie, tintorie, botteghe per la produzione di specchi, atelier degli armaioli, giungendo a comprendere persino il lavoro in miniera, nelle saline e nell’edilizia, talvolta come finanziatrici e come imprenditrici, in altri casi come operaie sottoposte o braccianti giornaliere. In Francia, fin dal XIII secolo, le donne non erano

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Nella pagina accanto particolare di una miniatura raffigurante il completamento delle mura di Messina nel 1282 nel quale compaiono due donne che portano sulla testa i materiali da costruzione, da un’edizione illustrata della Nuova Cronica di Giovanni Villani, redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana. A sinistra una donna-fabbro in una miniatura francese del XV sec. (vedi alle pp. 60-61).

esentate neppure da incombenze tipicamente maschili, come trapela in modo inequivocabile da una testimonianza del 1268. In quell’anno i rigattieri parigini, presentando i propri statuti al prefetto Étienne Boileau perché fossero registrati nel Livre des métiers della città, lamentavano che i funzionari del re non permettevano piú loro di farsi sostituire, in caso di malattia, da un servitore o da un vicino nel servizio notturno di guardia alla città, ma li costringevano a inviare le proprie mogli, fossero giovani o anziane, belle o brutte, deboli o corpulente, a svolgere una mansione tipicamente maschile, che le avrebbe costrette a sostare a lungo, di notte, sole, in luoghi appartati, con grave pericolo per la loro incolumità. A Marsiglia, nella prima metà del XIV secolo, nonostante la scarsezza delle notizie sul loro ruolo, le donne non erano impiegate solo nelle tradizionali attività tessili o alimentari (produzione delle trippe, ottobre

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costume e società donne al lavoro Siena, Palazzo Pubblico. L’immagine di un cantiere edile nell’affresco degli Effetti del Buon Governo in città di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. Tra gli operai figura anche una donna.

lavorazione del tonno, pasticceria), ma anche nei mestieri legati alla vocazione marinara della città. Dalla documentazione notarile emerge qua e là, casualmente, la loro abilità nell’assumere, in modo del tutto autonomo, la manodopera, nell’istruire discepoli (spesso maschi), nella gestione di botteghe o di attività forse loro, o forse dei mariti.

Il riciclaggio dei cordami

Durante il Trecento, le donne rivestivano un ruolo essenziale persino nelle miniere e nei cantieri navali francesi o impiegavano le proprie forze nel faticoso compito di setacciare il minerale frantumato che separavano col vaglio dai residui di roccia, lavandone poi i frammenti. Nei cantieri navali di Rouen, nel 1379, équipe interamente femminili provvedevano a filare, per le imbarcazioni, la canapa ottenuta da residui di cordami. L’incombenza non era della piú semplici: si trattava, infatti, di fare a pezzi i resti di corde già usate, e quindi indurite e rese ruvide dalla salsedine, ricavandone materiale che veniva poi filato traendone la stoppa destinata a calafatare le navi. A tale mansione erano addette almeno 2 squadre di lavoratrici, una delle quali capeggiata da una fiamminga che riscuoteva il salario per le compagne – di poco inferiore a quello di un manovale e pari a 1/3 di quello di un carpentiere –, distribuendolo poi loro e fungendo da intermediaria. Nella Penisola Iberica, fra il XIV e il XVI secolo, il lavoro femminile veniva considerato del tutto normale, si protraeva dall’infanzia (al di sopra dei 12 anni) fino alla vecchiaia inoltrata, e ne venivano esentate soltanto le donne particolarmente anziane o invalide, molte delle quali davano comunque il loro contributo come coordinatrici di quelle che svolgevano materialmente il lavoro. Per molti impieghi, sia agricoli che artigianali, le donne, insieme agli uomini, attendevano di essere reclutate sulle piazze di ingaggio, e, come loro, venivano assunte a giornata, o per periodi di poco piú lunghi, con compensi commisurati alle capacità lavorative. Alcune di esse svolgevano insieme al marito l’attività di barbiere o quella di speziale o di tintore, con cognizioni tecniche tali da poterne istruire gli apprendisti. Altre gestivano in proprio aziende per la pesca del merluzzo e concerie (per esempio a Saragozza, inizio del XV secolo); mentre sappiamo che nel 1311 a Daroca (Spagna) una vedova musulmana era titolare di una concessione per l’estrazione del ferro. Svariate, poi, nella medesima epoca, erano le attività delle donne barcellonesi, che talora potevano entrare a far parte delle corporazioni maschili (lavorazione del corallo, del cotone, del lino, dei veli di seta). Nelle cartiere la manodopera femminile veniva

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utilizzata prevalentemente nella scelta degli stracci e nella lisciatura dei fogli (operazione per la quale esse dimostravano particolare destrezza e abilità). Numerosi impieghi di vario genere sono documentati fra il XIV e l’inizio del XVI secolo a Milano, dove, nel 1352 una donna prese accordi con un socio per lavorare nella cartiera di un monastero, mentre nel 1486 una vedova dirigeva una bottega per la tintura del cuoio, attività riconosciuta fin da quell’epoca estremamente inquinante e nociva per l’organismo, e poco dopo un’altra donna si impegnò insieme al marito a esercitare la medesima arte a Milano e a Ferrara.

Specchi e segreti

Ancora nella capitale del ducato sforzesco, all’inizio del Cinquecento, la costituzione di una società per la produzione di specchi tra un maestro proveniente dal Monferrato (che avrebbe aperto una bottega per la vendita a Milano, nel Broletto, e fornito il capitale), e un ottobre

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A destra Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila. Donne intente alla mietitura del grano nella rappresentazione del mese di agosto, facente parte del Ciclo dei Mesi dipinto dal Maestro Venceslao. Fine del XIV-inizi del XV sec.

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costume e società donne al lavoro maestro di Venezia (che avrebbe svolto a Milano l’attività, impegnandosi a non diffonderne i segreti senza il consenso del socio), prevedeva la possibilità per la moglie dell’artigiano veneto di partecipare materialmente alla produzione. Nella stessa città, negli anni Venti del Cinquecento, col consenso dei funzionari preposti alla riscossione del dazio, una donna gestiva una bottega per la vendita del vino, Ma l’occupazione che può forse stupire maggiormente, è rappresentata dal massiccio impiego di manodopera femminile nell’edilizia, che in epoca medievale (dal XIII secolo almeno) caratterizzava un po’ tutta l’Europa (dalla Penisola Iberica alla Francia all’Italia settentrionale, centrale e meridionale).Per l’Italia le notizie sull’argomento sono ancora scarse, anche se il fenomeno doveva essere molto piú diffuso e comune di quanto si pensi, come lasciano intuire le fonti (scritte e iconografiche) che riguardano l’intera Penisola.

A destra particolare di una miniatura raffigurante una donna-fabbro intenta a forgiare i chiodi per la croce di Cristo, dal Livre d’Heures di Étienne Chevalier, miniato da Jean Fouquet. XV sec. Chantilly, Musée Condé.

Sperequazioni salariali

Tra i pochi esempi documentati vi sono quelli di alcune località nei pressi di Pavia (Sartirana, Palestro, Castelnovetto), nelle quali, da un elenco del personale impiegato nello scavo di una roggia risalente agli anni 1474-1475, emerge che la manodopera femminile assommava a ben 284 unità, su un totale di 640 lavoratori. Il documento riporta intere squadre di donne, spesso imparentate fra loro, e coordinate da una «capitanea». Percepivano tutte la stessa retribuzione (2 soldi per «opera»), corrispondente ai 2/3 di quanto guadagnato dagli uomini (3 soldi per «opera») e superiore del 16% circa rispetto al compenso ordinario delle operaie giornaliere dei cantieri trecenteschi della Toscana e della maggior parte delle città francesi e spagnole. A sinistra due donne trasportano pesanti sacchi verso un mulino ad acqua, miniatura di scuola francese da un manoscritto de L’Instruction d’un jeune Prince di Guillebert de Lannoy. 1465-1468. Cambridge, Fitzwilliam Museum, University of Cambridge.

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Nella lista delle lavoratrici erano compresi anche circa 20 ragazzi, che percepivano lo stesso stipendio delle donne, 4 bambini, uno dei quali retribuito la metà (1 soldo per «opera»), gli altri 1 soldo e mezzo o anche 2 per «opera», e persino due o tre bambine, retribuite la metà (1 soldo per «opera»). Il lavoro femminile nell’edilizia viene documentato fin dal XIII secolo anche a Messina dove nel 1282, secondo la narrazione di Giovanni Villani, durante l’assedio di Carlo d’Angiò, donne e bambini parteciparono al completamento delle mura cittadine, come viene efficacemente illustrato in una miniatura della Nuova Cronica raffigurata nel Codice Vaticano. Nel Trecento era diffuso nei cantieri della Toscana: a Siena, ancora per la costruzione delle mura cittadine, come testimonia Ambrogio Lorenzetti nel Buon Governo (1338-1339), nello scavo dell’acquedotto, e nel cantiere del Duomo, dove, nella prima parte del secolo compaiono «chalcinaiuole», donne manovali o che portavano calcina, o «che rechano rena». Nel territorio senese, tra l’ottobre 1354 e il marzo 1355, «manovagli e femine che lavorano a giornata» parteciparono alla costruzione del

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cassero di Montepulciano. Le retribuzioni di questa manodopera femminile equivalevano costantemente a circa la metà del salario dei manovali di livello piú basso. Rare, invece, furono le operaie nel cantiere del Duomo di Milano, e del tutto assenti in quello del Duomo di Firenze, dove invece, alla fine del Trecento, compaiono, seppur in modo discontinuo, i bambini.

Una presenza costante

Nei cantieri pubblici e privati delle città francesi, svizzere e fiamminghe, per le quali è stato effettuato un buon numero di studi, la presenza di donne e ragazze è attestata in modo continuativo dal XIV al XVII secolo, in genere con mansioni sussidiarie, come aiutomuratore o come trasportatrici di materiali, e con salari corrispondenti di solito alla metà di quelli degli uomini piú robusti, ma comunque equivalenti, spesso, a quelli dei manovali piú giovani. In alcune realtà urbane, come Basilea, elementi femminili potevano persino entrare a far parte della corporazione dei muratori o di quella dei carpentieri. Se in genere la proporzione donne/uomini vedeva questi ultimi in numero superiore del 50%, non

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costume e società donne al lavoro mancavano i casi (come a Dole nel Seicento) in cui erano in numero doppio le donne. A Besançon, nel Cinquecento, ragazze e lavoratrici adulte venivano impiegate abitualmente nei cantieri, non solo per la realizzazione dei muretti e dei terrazzamenti destinati alle vigne, ma anche per la faticosa incombenza del trasporto della calce per la costruzione delle mura e delle torri di guardia. Ed è proprio nelle opere di fortificazione, anzi, che si rileva il piú massiccio impiego di manodopera femminile nei cantieri della città, spesso per il trasporto delle tegole destinate alla copertura dei tetti delle torri, una mansione affidata di preferenza alle ragazze, con il pietoso accorgimento di dotare il percorso di balaustre perché non precipitassero. Altre ancora lavoravano nelle cave di pietra. Sempre a Besançon, un’ordinanza del 1535 rivela l’esistenza di una sorta di corpo di mestiere, per il trasporto dei materiali e l’aiuto ai muratori, costituito da donne, ragazzi e ragazze, per i quali venivano fissati compensi precisi a seconda della stagione.

Piú doveri che diritti

Gli statuti della confraternita dei carpentieri e muratori di Aix-en-Provence, approvati nel 1475, ammettevano la presenza di lavoratori e lavoratrici, le quali, tuttavia, venivano considerate uguali agli uomini soltanto dal punto di vista dei doveri, non da quello dei diritti: erano infatti obbligate a versare la tassa all’associazione professionale, ad assistere alle celebrazioni religiose e ai funerali di confratelli e consorelle, ma veniva loro preclusa la possibilità di accedere alle cariche piú elevate del corpo di mestiere, anche se potevano ottenerne assistenza in caso di malattia o di povertà. Ciononostante, l’elemento femminile era presente attivamente nella maggior parte dei cantieri provenzali, tanto a livello di manovalanza che di mestieri specializzati (come la produzione della calce, che richiedeva notevoli competenze tecniche), ma anche a livello commerciale (donne che vendevano materiale da costruzione, o proprietarie di miniere e giacementi che affittavano il sito a gestori specializzati). A Gerona, in Spagna, alla fine del Trecento e durante il Quattrocento, numerosissime donne lavoravano nei cantieri delle chiese cittadine, sia come semplici manovali addetti al carico, al trasporto e al taglio delle pietre (e con salari a volte uguali a quelli degli uomini), sia come artigiane impegnate in attività di un certo prestigio: pittrici, artefici di vetrate, capi-bottega, donne fabbro. Talvolta, nel ruolo di artigiane autonome, provvedevano persino alla fornitura di materiali come calce, legno e ferramenta di vario tipo richiedenti una notevole specializzazione. Ciononostante, esse poterono entrare a far pare dell’associazione di mestiere dei muratori soltanto finché l’associazione stessa mantenne lo status di semplice confraternita. Quando, verso la metà del Quattrocento, quest’ultima si avviò a trasformarsi in corporazione vera e propria (parabola completatasi

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Nelle saline di Francia

A cent’anni in miniera! Oltre che nell’edilizia, in Francia le donne occupavano un ruolo non indifferente anche nelle miniere (in quelle di metalli preziosi dei Vosgi sono documentate almeno dall’inizio del Cinquecento per il lavaggio e la frantumazione del minerale), e soprattutto nelle saline. In quelle di Salins (Giura), in particolare, a partire dal Quattrocento almeno e fino alla metà del Seicento, le operaie svolgevano compiti di primaria importanza: si trattava di maestranze specializzate che occupavano ruoli chiave all’interno del contesto produttivo e organizzativo, con incarichi di fiducia che spesso si tramandavano di madre in figlia o all’interno del nucleo familiare. Nelle loro mani era la maggior parte dell’attività, e godevano (come del resto anche gli uomini), di indennizzi

in caso di infortuni o di malattie, e di una pensione d’invalidità o di vecchiaia che veniva accordata dal consiglio direttivo della salina, su richiesta dell’interessata che avesse lavorato a lungo (3840 anni) e fosse ormai troppo debole e anziana o comunque impossibilitata a lavorare. Cosí, nel 1476, un’operaia che lavorava da 38 anni, chiese e ottenne la pensione settimanale che «era consuetudine assegnare ai lavoratori della salina». E, come lei, molte altre che avevano circa 60 anni e lavoravano da circa 40. Non tutte, però, chiedevano la pensione: un’operaia di 80 anni lavorava ancora insieme alla figlia. Davvero eccezionale appare poi la longevità delle impiegate nelle saline: alcune di loro raggiungevano i 110-112 anni, e non si trattava di casi isolati.

nel 1480), l’elemento femminile scomparve completamente come soggetto attivo della vita corporativa. Al momento di regolare concretamente l’attività dell’associazione professionale, dunque, alle donne non fu consentito l’accesso né al grado di maestro, né allo status di apprendista: veniva cioè riconosciuta la loro formazione tecnica, ma non il loro sapere teorico.

La preparazione della calce

Sulle due pagine Teruel (Spagna), cattedrale di S. Maria di Mediavilla. Pannelli dipinti del soffitto raffiguranti tre donne, probabilmente musulmane, impegnate in lavori edili. 1285.

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Anche in molte altre città spagnole, tra il XIV e il XV secolo, l’edilizia offriva alle donne prive di qualifica professionale la possibilità di impieghi saltuari come aiuto-muratori, con salari che vennero regolamentati dalle Cortes nel 1351. A Burgos lavoravano nei cantieri delle opere pubbliche preparando la calce o trasportando l’acqua; a Toledo, nei primi anni del XV secolo partecipavano alla costruzione della cattedrale con attività

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costume e società donne al lavoro assimilabili a quelle dei manovali (preparazione della calce, opere di copertura), percependo una retribuzione pari alla metà di quella di un operaio giornaliero. Lo stesso compenso veniva destinato alle donne di Saragozza che lavoravano come aiuto dei maestri muratori con un salario pari a quello dei ragazzi, sebbene fossero in grado di svolgere mansioni equiparabili a quelle dei manovali. Soltanto l’addetta alla produzione veniva talvolta retribuita in misura leggermente superiore. Va sottolineato, tra l’altro, il cospicuo numero di adolescenti e di ragazze presenti come salariate giornaliere tra le lavoratrici dei cantieri spagnoli: ciascuna, in rapporto all’età e alle capacità fisiche svolgeva la mansione che piú le era adatta. Tutti gli edifici di Sa-

ragozza, sia laici che ecclesiastici, annoverano nei libri contabili per la loro costruzione, per tutto il Trecento e fino all’inizio del Quattrocento, la presenza continua e abbondante di manodopera femminile con le mansioni piú varie: dal trasporto dell’acqua allo scavo della terra, alla preparazione della calce, alla pulitura dei canali. Un gruppo di donne era addetto persino al recupero del piombo dall’acquedotto romano in una delle principali strade della città. Un’intensa attività femminile caratterizzava anche la Fabbrica della chiesa di San Felipe (1411) e quella della cattedrale (1346-1401), tanto che, all’inizio del 1376, le operaie rappresentavano 1/3 della manodopera complessiva del cantiere. Lo stesso si può dire per i libri

Sulle due pagine disegni di Heinrich Gross che raffigurano donne impegnate nel trasportare (a sinistra) e nel setacciare l’argento (nella pagina accanto) nella miniera di La Croix-aux-Mines. XVI sec. Parigi, Bibliothèque de l’École nationale supérieure des Beaux-Arts.

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costume e società donne al lavoro Particolare di una tavola a colori raffigurante un uomo che spacca un blocco di roccia per estrarne l’allume, da un erbario di produzione lombarda. 1440 circa. Londra, British Library. Verso la fine del XV sec. parte delle miniere di allume di Tolfa (presso Civitavecchia) appartenevano alla nobile romana Cristofora Margani, che gestiva in prima persona come imprenditrice l’attività produttiva e i rapporti col mondo mercantile.

contabili relativi all’ampliamento del castello dell’Aljafería (1397), sempre a Saragozza, in cui compare anche un buon numero di bambine. A Valencia, nel 1333-1334, numerose donne parteciparono alla costruzione di un ponte in pietra, trasportando i materiali e l’acqua, mentre nel 1380 il cantiere per la ricostruzione e la riparazione delle mura cittadine ne annoverava ben 124 su un organico di 237 muratori. Di questo intenso impiego femminile nell’edilizia delle città spagnole rimane persino una preziosa e precoce testimonianza iconografica: si tratta di alcu-

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ni pannelli dipinti del soffitto ligneo della chiesa di S. Maria de Mediavilla, a Teruel, risalenti al 1285: vi sono rappresentate tre operaie, probabilmente musulmane – come lascia intuire il loro abbigliamento –, intente a preparare i materiali, a raccoglierli in un cesto, e a sollevare il recipiente mediante una puleggia per metterlo a disposizione degli altri operai. Ancora in Spagna, a Maiorca, le donne lavoravano nei cantieri navali, realizzando gli scivoli per tirare a terra o varare le imbarcazioni; a Castro Urdiales scaricavano i cereali nel porto, lavoravano come aiutanti ottobre

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dei tagliapietre, o come operaie nello scavo della fonte; nelle tonnare di Cadice si occupavano di affumicare e di marinare il tonno prima che venisse stoccato nei barili per l’esportazione. Le donne spagnole si insinuavano insomma in tutte le possibili opportunità occasionali di contratti giornalieri che si potevano ottenere sulle piazze d’ingaggio per l’edilizia, per le cave, per lo scarico delle navi, o per le attività stagionali come era appunto la preparazione del tonno.

Le imprenditrici

portanti di Milano: la Fabbrica del Duomo, l’Ospedale Maggiore, S. Maria della Pace, S. Maria della Passione, i monasteri di S. Caterina e S. Margherita. Un caso analogo di imprenditrice nel settore dell’edilizia è stato riscontrato verso la metà del Quattrocento a Gaeta, dove una donna, tra il 1449 e il 1453, riforniva di pozzolana e materiale da costruzione in genere, con le proprie imbarcazioni, il cantiere reale del castello. Negli stessi anni a Treviso numerose vedove commerciavano materiale da costruzione o gestivano vetrerie.

Se la maggior parte delle occupazioni femminili Cristofora, signora dell’allume nell’edilizia è documentata a livello di manovalanza, Le imprenditrici non mancavano neppure ai vertinon mancavano in ogni caso le attività di tipo imprenci della gestione delle miniere. Si trattava, anche in ditoriale. Lo testimonia una serie di atti notarili milaquesto caso, di attività ereditate, nesi, risalenti ai primi anni del Cinla complessità del cui apprendiquecento, che tracciano le vicende Da leggere mento richiedeva necessariamente di quattro sorelle che, ereditata dal un lungo iter accanto al padre o al padre un’impresa di proporzioni U Ivana Ait, I Margani e le miniere marito. Fu cosí che la nobildonna notevoli per la produzione e il comdi allume di Tolfa: dinamiche romana Cristofora Margani (anni mercio dei laterizi, ne assunsero la familiari e interessi mercatili fra Novanta del Quattrocento), vedova direzione mediante la stipulazione XIV e XVI secolo, in Archivio Storico del mercante pisano Alfonso Gaedi una società tra loro, della quale Italiano, CLXVIII (2010); pp. 231tani, e unica erede per 1/3 delle imaffidarono la gestione e la rappre262 portantissime miniere di allume di sentanza a uno dei mariti, retribuU Ivana Ait, Un’imprenditrice nella Tolfa (nell’entroterra di Civitavecito come amministratore responsaRoma del Rinascimento, in Marco chia, Roma), riuscí, proprio grazie bile con lo stipendio tutt’altro che Palma e Cinzia Vismara (a cura di), al tirocinio effettuato nell’ambito disprezzabile di 200 lire annue. Per Gabriella. Studi in ricordo di della famiglia, a continuare a gestiIl gestore avrebbe reso conto Gabriella Braga, Edizioni Università re personalmente l’attività, controlalla moglie e alle altre sorelle del di Cassino, Catanzaro 2013; pp. lando in prima persona il lavoro di buon andamento dell’impresa, te9-26. produzione nell’impresa mineraria nendo i libri mastri con l’ausilio U Ivana Ait, Donne in affari: il caso e occupandosi sia della non semplidi due impiegati; si sarebbe occudi Roma (secoli XIV-XV), in Anna ce risoluzione delle questioni che pato di prendere in locazione uno Esposito (a cura di) Donne del potevano sorgere con i minatori, sia spiazzo sul fossato cittadino per lo Rinascimento a Roma e dintorni, degli altrettanto complessi rapporti scarico del legname e del materiaFondazione Marco Besso, Roma con il mondo mercantile. le edilizio, e, se necessario, di farvi 2013; pp. 53-84 Grazie all’esperienza maturata costruire un magazzino per custoU Maria Paola Zanoboni, Donne al accanto al marito, Cristofora riuscí dire le merci; avrebbe provveduto lavoro nell’edilizia medievale, in dunque a gestire per parecchi anni al funzionamento della fornace Archivio Storico Italiano, CLXXII un universo composito e articolato, acquistando la legna da ardere e (2014), fasc. I; pp. 109-132 in cui confluivano forze economicoprendendo accordi con fornaciari U Maria Paola Zanoboni, Il lavoro sociali diverse (dalla manovalanza e trasportatori fluviali; aveva la fafemminile in Italia e in Europa all’artigianato, alla mercatura), per coltà di stabilire i prezzi di vendita, nel Basso Medioevo: stato far fronte alle scadenze produttive di riscuotere gli anticipi, di effetdelle ricerche e nuovi spunti che si concretavano nella consegna tuare spese straordinarie, di veninterpretativi, in corso di stampa alla Camera Apostolica dell’allume, dere a credito o in contanti. materia prima di notevolissima imNonostante le numerose liti, l’acportanza, in quanto utilizzata in una gamma vastiscordo societario continuò a funzionare per oltre un desima di impieghi (dal fissaggio dei colori sui tessuti, cennio, utilizzando per la produzione quattro fornaci, alla conceria, alla produzione del vetro). Il ruolo imuna delle quali situata a Vermezzo, lungo il Naviglio prenditoriale di Cristofora era tanto piú importante, se Grande, dotata di un punto di approdo lungo il corso si pensa che dopo la caduta di Costantinopoli in mad’acqua e alimentata dal combustibile proveniente dai no ai Turchi (1453), e la conseguente impossibilità di boschi della valle del Ticino, dove le sorelle possedevasfruttare le miniere anatoliche di Focea, quello di Tolfa no alcuni terreni. In città il materiale edilizio veniva era rimasto l’unico giacimento cui potesse attingere il immagazzinato in uno spiazzo lungo il fossato cittamondo occidentale. F dino, andando a rifornire alcuni tra gli edifici piú im-

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di Furio Cappelli

Italia

Il regno

impossibile Tra la fine del IX secolo e l’anno Mille, i territori dell’Italia che un tempo erano di dominio longobardo, e che furono poi conquistati da Carlo Magno, sono in mano a marchesi e duchi, in perenne lotta tra loro per la conquista della corona. È il «secolo di ferro», caratterizzato da una vera e propria «anarchia feudale», mirabilmente rievocata da un testimone d’eccezione, il vescovo Liutprando di Cremona

Vercelli, Duomo. Particolare della grande Croce con il Cristo incoronato (vedi a p. 73). La corona regale è forse la stessa confezionata per Ottone III da bambino. Figlio di Ottone II e Teofano, succedette al padre in Germania e in Italia nel 983. Assunto il pieno potere nel 994, perseguí il disegno di una restaurazione dell’autentica tradizione imperiale romana e di rendere di nuovo sede del potere Roma, dove risiedette per vario tempo.


Dossier

I I

l 17 settembre 949 giunse alla corte di Costantinopoli il diacono Liutprando (920 circa-972), in qualità di messo di Berengario II (900 circa-966), marchese d’Ivrea. Partito il 1° agosto da Pavia, si era imbarcato a Venezia il 25 agosto, trovandosi a fianco l’eunuco Salemone, ambasciatore bizantino in Spagna e in Sassonia. Questi tornava in patria in compagnia dell’ambasciatore di Ottone I, re di Germania dal 936. Il messo del futuro imperatore d’Occidente era Liutifredo di Magonza, un ricchissimo mercante. Liutprando, all’incirca trentenne, in precedenza si era guadagnato la simpatia del defunto Ugo di Provenza, re d’Italia (926-945), protagonista di un periodo tumultuoso, oltreché acerrimo nemico del

Impero Carlo III (881-887)

suo attuale signore, Berengario. Il re aveva avuto modo di apprezzare l’abilità nel canto del giovane Liutprando, probabilmente conseguita nelle illustri scuole di Pavia. Suo padre e, dopo la morte di costui, il suo patrigno, erano assai benvoluti a corte, tanto che svolsero la funzione di ambasciatori di Ugo per due missioni a Costantinopoli, alla corte di Romano I Lecapeno (920-944). Nella seconda occasione, Berta, figlia naturale di Ugo, era stata concessa in sposa al futuro imperatore Romano II (959-963). Giunta sul Bosforo a soli quattro anni, Berta fu solennemente accolta a corte assumendo il nome greco di Eudocia («Benevola»), già appartenuto a illustri sovrane del passato, ma morí nel 949, prima ancora che le nozze potessero essere celebrate.

Regno Carlo III (879-887)

Papato tefano V (885-891) S Formoso (891-896) ● Bonifacio VI (896) ● Stefano VI (896-897) ● Romano (897) ● Teodoro II (897) ● Giovanni IX (898-900) ● Benedetto IV (900-903) ● Leone V (903) ● Cristoforo (903-904) ● Sergio III (904-911) ● Anastasio III (911-913) ● Lando (913-914) ● Giovanni X (914-928) ● Leone VI (928) ● Stefano VII (928-931) ● Giovanni XI (931-935) ● Leone VII (936-939) ● Stefano VIII (939-942) ● Marino II (942-946) ● Agapito II (946-955) ● Giovanni XII (955-963) ● ●

Trono vacante (887-891)

Berengario I (888-924) in lizza con: Guido di Spoleto (889-894)

Guido di Spoleto (891-894)

Arnolfo di Carinzia (894-899)

Lamberto di Spoleto (894-898) in lizza con: Arnolfo di Carinzia (896-899)

Lamberto di Spoleto (894-898)

Ludovico di Provenza (901-905)

Ludovico di Provenza (900-905)

Trono vacante (905-915)

Rodolfo di Borgogna (924-926)

Berengario I (915-924)

Ugo di Provenza (926-945)

Trono vacante (924-962)

Lotario II (945-950)

Ottone I (962-973)

Berengario II (950-961) in lizza con: Ottone I (951-973)

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Il padre del promesso sposo, l’imperatore Costantino VII (944-959), al cospetto del quale si ritrovò Liutprando, volle ritentare le nozze con una nobildonna occidentale, ma il giovane Romano II scelse la splendida figlia dell’oste Anastaso, che da principessa assunse il nome di Teofano, donna risoluta e intrigante.

L’erede sotto tutela

Desideroso di entrare in contatto con le potenze straniere, seppure assai lontane, come il califfato di Cordova, l’imperatore bizantino Costantino VII scrisse piú volte al marchese Berengario II, ben sapendo che era a tutti gli effetti l’uomo piú potente d’Italia, nonostante la presenza di Lotario II, figlio di Ugo. Erede al trono e dunque re di diritto, Lotario era stato messo sostanottobre

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A sinistra Berengario II rende omaggio all’imperatore Ottone I, miniatura dal Chronicon (o Liber de duabus civitatibus), storia del mondo dalle origini al 1146, del vescovo e cronista Ottone di Frisinga, composto nel 1143-46 e rielaborato nel 1156. Milano, Biblioteca Ambrosiana. In basso solido d’oro dell’imperatore Costantino VII (944-959), con il busto frontale del sovrano incoronato che tiene in mano un globo sormontato dalla croce. Coniato nel 945. Birmingham, Barber Institute of Fine Arts.

zialmente fuori gioco dal marchese, il quale lo teneva sotto la propria vigile «tutela» presso il palazzo di Pavia. Costantino, comunque, avviò contatti anche con Lotario stesso, sia per ragioni di forma (era lui il sovrano «ufficiale»), sia perché era fratellastro della futura nuora Berta/Eudocia, a cui era molto affezionato. Costantino desiderava dunque manifestare la sua amicizia e intendeva farlo accogliendo a corte con tutti gli onori un messo di Berengario. Questi pensò di affidare l’ambasceria a Liutprando in persona, il quale era già ai suoi servizi con la mansione di segretario. Avaro e macchinatore, Berengario cercava

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infatti di ingaggiare una persona capace senza dover pagare ulteriori compensi. A tale scopo, attaccò discorso con il patrigno di Liutprando, rammaricandosi per il fatto che quel suo figliastro non fosse pratico di lingua greca.

Un’occasione d’oro

Al che il patrigno, punto sul vivo, si lamentò per non aver investito almeno la metà delle proprie ricchezze nella formazione del giovane. Ma Berengario gli disse che non occorreva cosí tanto. Aveva infatti pronta l’occasione propizia: l’ambasciata a Costantinopoli. Una persona che sfoggiava cosí tanta perseveranza ed eloquenza come Liutprando era quella giusta, e, con

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Dossier l’italia intorno all’anno mille Territorio del regno d’Italia Patrimonio di San Pietro Ducati longobardi

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Stati dipendenti in teoria da Bisanzio, ma di fatto autonomi Territori musulmani

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Maria Assunta di Cairate (VA), tradizionalmente identificata come Manigunda, nobile longobarda fondatrice del monastero stesso. XI sec. Milano, Biblioteca Ambrosiana.

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Confidando in ciò, il patrigno coprí le spese di viaggio e fece in modo che Liutprando non si presentasse a mani vuote. Il carico dei doni da offrire al sovrano, come ricorda lo stesso ambasciatore, consisteva in «nove bellissime corazze, sette bellissimi scudi con borchie dorate, due coppe d’argento dorato, spade, lance, spiedi, quattro schiavi eunuchi, piú preziosi per l’imperatore di tutte le cose nominate». Ma quando arrivò il momento di presentare al sovrano i propri omaggi, Liutprando fu colto dalla vergogna al pensiero che i messi ispanici, per conto del califfo Abd ar-Rahman III di Cordova, e il già ricordato Liutifredo, per conto di Ottone I, avevano fatto sfoggio di ricchi doni al cospetto dell’imperatore bizantino. Il suo signore Berengario si era limitato a redigere una lettera, «per di piú piena di menzogne» e l’Italia, in questo modo, avrebbe fatto una ben misera figura. Per risolvere una situazione cosí imbarazzante, Liutprando decise di presentare i propri regali come se fossero stati offerti da Berengario stesso.

Un’amara realtà

In alto Vercelli, Duomo. La grande Croce, straordinario capolavoro di oreficeria in lamina d’argento sbalzato su anima di legno risalente agli anni del vescovo Leone (999-1026), figura di spicco della politica ottoniana in Italia. A sinistra Bardolino (VR), S. Zeno. Affresco con la probabile immagine di san Pietro, dipinto nella nicchia sinistra della chiesetta, di fondazione carolingia. Inizi del IX sec.

un’esperienza del genere, uno come lui, talmente nutrito di latino sin dalla gioventú, facilmente si sarebbe trovato a proprio agio con il greco. Insomma, per un dignitario alle prime armi era un’offerta allettante, a prezzo piú che ragionevole, che gli avrebbe consentito di guadagnare prestigio e affinare il proprio bagaglio di conoscenze.

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A conti fatti, tuttavia, un tale atto di generosità risultò davvero un pessimo investimento, visto che, dopo il rientro in patria (Pasqua 950), Liutprando fu sollevato da Berengario dall’incarico che ricopriva alla corte di Pavia. E cosí, dopo aver assaporato le delizie della corte bizantina, Liutprando fu bruscamente riportato a una realtà assai meschina, in cui la lealtà e la dignità non contavano alcunché. In quello stesso anno, re Lotario II morí, e Berengario salí sul trono italico di Pavia, associando alla corona il proprio figlio Adalberto. La vedova di Lotario, Adelaide di Borgogna, fu incarcerata, per poi essere liberata da Adalberto Atto, il capostipite della dinastia dei Canossa. Andò poi in sposa a Ottone I, quando cinse la corona d’Italia (951). Liutprando fu probabilmente bersaglio di una sorta di epurazione, attuata a danno di chi, come lui e come il suo patrigno, aveva avuto incarichi e be-

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Dossier

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l’antapodosis di liutprando

Una vendetta letteraria Liutprando, il diacono «longobardo», futuro vescovo di Cremona (961-972), conobbe in Sassonia Recemundo (Rabi ibn Zaid), vescovo ispanico di Elvira (presso Granada), presente al cospetto del re Ottone come messo del califfo di Cordova. Il prelato strinse amicizia con Liutprando e lo invitò a raccontare in un libro le intricate vicende di quegli anni, dalla morte di Carlo III il Grosso (888) all’epoca contemporanea, incrociando le storie di diversi popoli del mondo euromediterraneo, con particolare riguardo ai Franchi, agli Italici e ai Bizantini. Nacque cosí un poderoso affresco storico, di altissima qualità stilistica, che ha la compattezza e la forza emotiva di un romanzo. Alla sua base c’è la volontà di presentare i fatti in modo chiaro e rigoroso. L’interesse per gli eventi e le figure di maggiore rilievo, non esclude l’aneddotica piú minuta, dove Liutprando, peraltro, fa sfoggio di una vulcanica verve comica, grazie anche alla sua appassionata conoscenza di un commediografo antico come Terenzio. L’opera, che fa da filo conduttore alla narrazione degli eventi e contenuta in questo Dossier, è intitolata Antapodosis (Restituzione), dal momento che, culminando con le vicende di Berengario, essa doveva ripagare Liutprando dei torti subiti da parte del suo ex signore. Proprio a quel punto, però, il libro si interrompe, probabilmente perché, al momento della redazione finale, il nemico era stato ormai esautorato da Ottone (nel 961), ed era inutile infierire. Un intenso primo piano degli occhi smaltati della Croce di Vercelli, caratterizzata dalla notevole cura dei dettagli, che rivelano una una profonda espressività. Anni del vescovo Leone (9991026). L’opera è da mettere in relazione con gli esemplari analoghi di Casale Monferrato, Milano e Pavia.

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nemerenze presso i sovrani defunti. Dovette cosí espatriare, trovando accoglienza presso la corte del predetto Ottone I. Piú tardi, nel 968, tornò a Bisanzio proprio per conto di quel sovrano, ormai imperatore (vedi «Medioevo» n. 201, ottobre 2013; anche on line su medioevo.it).

Il furto delle questue

La caduta in disgrazia di Liutprando, oltre alla perdita di onori e compensi, comportò probabilmente una requisizione di beni personali, il che, secondo lo storico Paolo Chiesa, giustificherebbe l’insistenza dello scrittore sull’avidità di Berengario (vedi box in questa pagina). Tra l’altro, veniamo a sapere che costui rimpolpò il proprio tesoro accumulando denari strappati alle collette delle chiese, e imponendo una tassa pro capite a tutti i suoi sudditi. Solo una parte del gruzzolo fu investita per scongiurare una nuova invasione degli Ungari (947), la cui minaccia fece da pretesto alla «razzia». Molti dignitari laici e alti prelati furono rimpiazzati da personaggi mediocri. Spicca fra tutti l’infido Manasse, un ingordo prelato di Arles (Provenza), ambizioso e intrallazzatore, giunto in Italia a di-

vorare i patrimoni di varie cattedre episcopali, fino ad acquisire il titolo di duca di Trento. Parente e alleato di re Ugo, era stato invitato proprio da quest’ultimo, mentre tentava di consolidare il proprio potere inserendo una pletora di congiunti nei posti-chiave. Ma quando Berengario si ripromise di contendere la corona a re Ugo, Manasse passò dalla sua parte in cambio dell’arcivescovato di Milano, che resse fino alla morte, dal 948 al 962 circa.

Una donna «odiosa e spilorcia»

Emerge, poi, in tutta la sua spietata crudezza, il ritratto della moglie di Berengario, Villa, «odiosa, ingrata e spilorcia». Figlia di Bosone, marchese di Toscana, fratello di re Ugo, ella era generosa e prodiga di attenzioni solo per il suo amante, un tal prete Domenico, piccolo di statura e dall’aspetto ripugnante. Egli frequentava il palazzo in qualità di istitutore delle figlie di Berengario e Villa, e tale incarico faceva da copertura alla tresca con la marchesa. Finché una notte, mentre si introduceva in casa (Berengario era assente), fu sorpreso da un cane da guardia, che lo morse e mise tutti

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Dossier La Croce di Berengario I, una croce-reliquiario in oro, pietre preziose e perle, detta anche «del Regno», perché indossata dai sovrani durante le cerimonie di incoronazione. Fine del IX-inizi del X sec. Monza, Museo e Tesoro del Duomo.

A destra la legatura del Sacramentario di Berengario, in legno, cuoio, argento e avorio lavorato a traforo, con fregi in filigrana. Fine del IX-inizi del X sec. Monza, Museo e Tesoro del Duomo.

Caccia al balteo

Cupidigia senza veli Per lo studioso di letteratura medievale Massimo Oldoni, il momento piú sublime dell’Antapodosis, in cui il tragico e il grottesco si uniscono a raccontare un’epoca in tutte le sue contraddizioni ed efferatezze, è quello dedicato a Villa, moglie di Bosone marchese di Toscana, madre dell’omonima sposa di Berengario II. Campionessa di avidità, era stracolma di ricchezze e aveva aizzato Bosone contro suo fratello, re Ugo, affinché lo soppiantasse, ma il marchese fu subito smascherato e imprigionato (936). Villa fu cacciata e rimandata in patria, in Borgogna, ma Ugo la fermò perché, pur avendo messo sottosopra la casa dei due traditori, non era riuscito a ritrovare un preziosissimo balteo (cinturone a tracolla a cui si appendeva la spada) d’oro intarsiato

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di gemme. Furono disfatti i bagagli, fu perlustrata la cavalcatura, ma non c’era traccia del tesoro. Villa, infine, fu costretta a denudarsi, e a quel punto un servo notò qualcosa, una cinghia purpurea che faceva capolino tra le natiche della donna. Senza alcuna remora, si avvicinò, afferrò la cinghia, la tirò, e dietro la cinghia venne fuori il balteo. Esaltato dalla scoperta, il servo dette la stura a facezie piuttosto mordaci: «Oh me fortunato, anzi piú felice di tutti, se mia moglie mi partorisse almeno due figli di tal genere». Villa scoppiò a piangere per la vergogna, e Liutprando si chiede quale sia stata l’azione piú turpe: la sua, poiché aveva voluto a tutti i costi nascondere quell’oggetto, o quella degli uomini di Ugo, che non si fermarono di fronte a nulla pur di recuperarlo. ottobre

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in allarme con i suoi latrati. Villa, naturalmente, cercò di nascondere la verità, e lo accusò di aver voluto sollazzarsi con le inservienti. Il prete resse il gioco, nella speranza di non subire punizioni troppo severe, ma i sospetti sulla tresca giunsero all’orecchio di Berengario, non appena tornato. Villa, infatti, si era esposta non poco nel vano tentativo di prezzolare un sicario per liberarsi del prete-amante, ma fece affidamento sulla «mollezza» di Berengario, oltreché sulla consulenza di stregoni e di aruspici, e riuscí a convincere il marito della propria innocenza. Poiché, dunque, Domenico aveva violato la casa per soddisfare le sue brame con la servitú, Berengario ordinò che fosse allontanato,

previa evirazione. A quel punto, si capí finalmente come quel «pretucolo» cosí aberrante avesse potuto conquistare la marchesa. Con una malizia portentosa, Liutprando attesta infatti che gli esecutori della sentenza rimasero sbalorditi di fronte alle sue «armi priapesche».

Anni convulsi

Al di là dei risentimenti personali e dei sarcasmi di Liutprando, è evidente come l’epoca di Berengario fosse di per sé convulsa e violenta, senza che i singoli protagonisti (sovrani, vassalli, papi, vescovi) potessero (o volessero) incidere sullo stato delle cose per rafforzarle degnamente. Era una condizione che si protraeva da diversi decenni, ereditata senza soluzione di continui-

tà da un Ugo di Provenza che, per quanto sensibile al canto, non fu meno dispotico del suo avversario. Tutto il periodo è contraddistinto dalla presenza di re «nazionali», sostenuti cioè da forze locali, promossi magari al titolo imperiale, – prerogativa del re italico –, ma senza con questo vantare oltralpe un riconosciuto prestigio regale, a parte le effimere parentesi degli «stranieri» Arnolfo di Carinzia, Ludovico di Provenza e Rodolfo di Borgogna. Un caso particolare è fornito da Ugo, che, ispirato dalle ambizioni della madre Berta di Toscana (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 32-43), giunse in Italia dopo aver conseguito la dominazione di fatto della Provenza, ma senza cingerne la corona.

Dalle parole di Liutprando emergono le inquietudini e i travagli di un’epoca politicamente burrascosa

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Dossier gli anni del regno d’italia 887 Deposizione dell’imperatore Carlo III il Grosso. 888 Morte di Carlo III. Berengario I, marchese del Friuli, è eletto re d’Italia. 889 Guido di Spoleto vince in battaglia Berengario presso Piacenza, e si fa incoronare re d’Italia a Pavia da papa Stefano V. 891 Guido è incoronato imperatore. Elezione di papa Formoso. 894 Discesa di Arnolfo di Carinzia, re di Germania, che riceve la corona del regno italico a Roma (febbraio). Muore Guido di Spoleto (dicembre). 896 Arnolfo di Carinzia è di nuovo in Italia e riceve la corona imperiale. Muore papa Formoso. 897 Processo post mortem a carico di papa Formoso, per iniziativa di papa Stefano VI, che viene poi deposto e ucciso. 899 Muore Arnolfo di Carinzia. Berengario I viene sconfitto dagli Ungari sul Brenta (settembre). 900 Ludovico III di Provenza riceve la corona di re d’Italia. 901 Ludovico III viene incoronato imperatore. 905 Ludovico III subisce l’accecamento a Verona per ordine di Berengario I. 915 Berengario I viene incoronato imperatore. 915, Disfatta dei Saraceni nella battaglia agosto del Garigliano. 923 Rodolfo II di Borgogna sconfigge Berengario I nella battaglia di Fiorenzuola d’Arda (Piacenza).

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924 Rodolfo II di Borgogna riceve la corona di re d’Italia. Invasione degli Ungari e incendio di Pavia. 926 Ugo di Provenza è incoronato re d’Italia. 932 Matrimonio tra Ugo e la nobildonna romana Marozia. Alberico II, figlio di Marozia, induce Ugo alla fuga ed esautora la madre, divenendo signore dell’Urbe. 941 Berengario I trova rifugio presso Ottone I, re di Germania. 945 Ugo è costretto ad abdicare in favore di suo figlio Lotario II e abbandona l’Italia. 950, Berengario II viene incoronato re d’Italia 15 dicembre e associa al trono il proprio figlio Adalberto. 951 Discesa in Italia di Ottone I che sconfigge Berengario, si fa incoronare re d’Italia e sposa Adelaide di Borgogna, figlia di re Rodolfo e vedova di Lotario II, figlio di re Ugo. 952 Ottone I si accorda con Berengario II, affidandogli il regno italico. 954 Muore a Roma Alberico II. 961 Seconda discesa di Ottone I, su richiesta di papa Giovanni XII. 962 Ottone I viene incoronato imperatore (febbraio). Berengario II è stretto d’assedio a San Leo, nel Montefeltro. 963 Berengario II si arrende e viene tratto prigioniero in Germania. Ottone I promuove un sinodo alla basilica di S. Pietro in cui si dispone la deposizione di papa Giovanni XII. Viene eletto Leone VIII. 964 A seguito di una ribellione dei Romani istigata dal deposto Giovanni XII, questi risale in cattedra, togliendo di mezzo Leone VIII. Dopo la morte di Giovanni (14 maggio), Leone VIII deve attendere l’intervento di Ottone I per essere reintegrato, dal momento che i Romani gli hanno preferito Benedetto V. 966 Berengario II muore a Bamberga. 967, Ottone I associa il figlio Ottone II al trono dicembre imperiale. 972 Ottone II sposa a Roma la principessa bizantina Teofano. 973 Muore Ottone I (maggio). I Saraceni insediati a Frassineto (Provenza), vengono cacciati in via definitiva.

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ducato longobardo di Benevento, mentre la Puglia e la Calabria erano direttamente sottoposte alla dominazione bizantina. La Sicilia era finita in mano agli Arabi, che potevano peraltro fare affidamento sulla base del Garigliano, sulla costa tirrenica, grazie anche alle collusioni con i poteri locali (la Sicilia stessa, d’altronde, divenne preda degli Arabi dopo che fu richiesta la loro alleanza dal ribelle patrizio messinese Eufemio, in cerca di rivalsa su un ufficiale agli ordini dell’imperatore di Bisanzio, lo stratego Fotino, che lo aveva duramente sconfitto nell’826).

Guido, re mancato

In alto dittico consolare in avorio del VI sec., detto di Davide e Gregorio, perché in epoca carolingia le figure furono appunto trasformate in immagini del re Davide e di papa Gregorio Magno. IX sec. Nella pagina accanto reliquiario del Dente di san Giovanni. IX-X sec. Entrambi i manufatti sono conservati a Monza, nel Museo e Tesoro del Duomo, e furono donati al Duomo della città lombarda dal re Berengario I.

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Per «Italia», beninteso, in quegli anni si intende l’area settentrionale della Penisola, con i marchesati di Ivrea e del Friuli, e l’ampio «cuneo» lombardo nel mezzo con la capitale Pavia, nonché larga parte del Centro, con il marchesato di Tuscia e il ducato di Spoleto, escluso il Patrimonio di San Pietro. La Corsica e la Sardegna (quest’ultima formalmente bizantina) gravitavano sul marchesato di Tuscia, ma subivano le scorrerie dei pirati musulmani. Restava esclusa dal regno tutta l’Italia meridionale, laddove diversi potentati ereditavano il ruolo del

Berengario I, zio del predetto Berengario II, assunse la corona d’Italia nell’888 (vedi anche «Medioevo» n. 186, luglio 2012). Frattanto, Guido, secondo duca di Spoleto, nonché nipote di Pipino – figlio di Carlo Magno e re d’Italia –, si recò in Francia nel tentativo di essere eletto re. Contava di far valere i possessi e le alleanze di cui disponeva oltralpe, ma i nobili gli preferirono Oddone (Eude), il conte di Parigi che aveva respinto i Normanni, giunti alle porte della città (885-886). Rientrato in Italia, Guido non intendeva fare da vassallo a Berengario, e scese in guerra contro di lui. Riuscí a batterlo (senza però metterlo fuori gioco) sul fiume Trebbia, presso Piacenza, e assunse la corona d’Italia con una cerimonia celebrata a Pavia da papa Stefano V, suo riluttante alleato (889). In seguito si recò a Roma per ottenere la corona imperiale dalle mani dello stesso pontefice (891). Associato al trono il figlio Lamberto, avuto da Ageltrude, figlia di Adelchi, principe di Benevento (gli Spoletini erano anche proiettati verso i territori longobardi del Mezzogiorno), Guido ottenne da papa Formoso, nell’892, l’investitura imperiale per il proprio erede. La cerimonia, tenutasi a Ravenna, pose le premesse ideali per un potere dinastico non piú limitato a un ducato, ma esteso a un regno che

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Dossier carlo il grosso

L’ultimo dei Carolingi Con la deposizione e la morte dell’imperatore Carlo III il Grosso (881-887), figlio di Ludovico II, il regno d’Italia perse l’ultimo discendente diretto di Carlo Magno. Sotto di lui l’impero carolingio aveva ritrovato la sua compattezza, ma si trattò di una parentesi di breve durata e di una mera apparenza, poiché già da tempo era in atto una irreversibile frammentazione politica. Con l’avallo dei Carolingi e per mano dei loro stessi vassalli (duchi, marchesi e conti), si era creato un mosaico di autonome entità territoriali di varia estensione, laddove il potere veniva trasmesso per via ereditaria, dando luogo a numerose dinastie regnanti. Talvolta queste situazioni regionali avevano dato vita a regni propriamente detti, ma, nella maggior parte dei casi, realtà apparentemente secondarie come ducati, marchesati e contee, costituivano nuclei di potere di primissimo piano. Nel caso dell’Italia, l’agone della politica del regno si giocava attorno ai tre grandi marchesati (Ivrea, Friuli, Tuscia) e al ducato di Spoleto. Il conflitto che si profilò tra Guido di Spoleto, di nobile famiglia franca, e Berengario I del Friuli, nipote di Ludovico il Pio, dette cosí l’avvio a una lunga ed estenuante serie di contese. era poi l’anticamera della corona imperiale. Tutto ciò si svolgeva in una prospettiva puramente italica, senza il minimo avallo dei nobili d’oltralpe. Guido, per giunta, non poteva neanche vantare legami di parentela con i Carolingi. Dal canto suo, Arnolfo di Carinzia, figlio naturale di Carlomanno (di sangue carolingio, dunque), eletto re di Germania nell’887, aspettava l’occasione propizia per scendere in Italia a vantare pretese di sovranità con le armi in pugno. Poteva contare, tra gli altri, sull’appoggio di Berengario, disposto a proclamarsi suo vassallo. Arnolfo varcò le Alpi con le sue truppe nell’894 e fece scalpore il trattamento riservato ad Ambrogio conte di Bergamo, che rifiutò di sottomettersi. Dopo aver messo la città a ferro e a fuoco, il re germanico impiccò il magistrato, lasciandolo appeso di fronte a una delle porte urbiche. Come attesta Liutprando, il cadavere sfoggiava un abito da alta parata, «con la spada, il balteo (cinturone a tracolla al quale si appendeva la spada stessa, n.d.A.), i gioielli e gli altri preziosissimi paludamenti», e in tal modo l’umiliazione pubblica risultò ancor piú eloquente.

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Carlo III, detto il Grosso, particolare della decorazione del sarcofago-reliquiario di Carlo Magno in oro, pietre dure e smalti, sigillato solennemente da Federico II. Inizi del XIII sec. Aquisgrana, Cattedrale, Cappella Palatina.

A Pavia, nello stesso mese (febbraio 894), papa Formoso incoronò Arnolfo re d’Italia. Guido prese le armi contro di lui, ma morí alla fine dell’anno. Suo figlio Lamberto rimase in campo, affiancato dalla risoluta madre Ageltrude, deciso a riaffermare i propri diritti. Non appena Berengario si riaffacciò sulla scena, Lamberto riuscí a esautorarlo, e riprese le redini del regno, insediandosi a Pavia (vedi box a p. 82).

Il papa in catene

Papa Formoso, che aveva elevato Lamberto alla dignità imperiale per poi richiedere l’intervento armato di Arnolfo proprio contro il potere degli Spoletini, non appena il re fece rientro in Germania, subí le violente ritorsioni della fazione nemica. Il papa chiese l’aiuto di Arnolfo, che questa volta ebbe via libera. Pose l’assedio all’Urbe, riuscí facilmente a irrompere e liberò infine il pontefice, imprigionato a Castel Sant’Angeottobre

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Dossier Nel segno dell’instabilità politica

Oggi alleati, domani ribelli La situazione era davvero fluida, anche perché le alleanze erano effimere. Berengario si era dichiarato vassallo di Arnolfo, ma quando vide che questi puntava subito all’investitura imperiale, ridiscese nell’arena contro lo stesso Arnolfo, oltreché contro Lamberto. Adalberto II il Ricco, marchese di Toscana (884-915), nipote e già blando alleato di Guido, si era schierato nell’894 con Arnolfo, ai

danni del congiunto Lamberto, ma l’accordo saltò clamorosamente. Adalberto bloccò l’avanzata di Arnolfo verso Roma, grazie al controllo dei passi appenninici. Il re d’Italia, dunque, dovette al momento rinunciare alla corona imperiale e rientrò in Germania. Ma che cosa era accaduto? Di sicuro Adalberto si era recato a Pavia a parlamentare col re, avanzò pretese in cambio del proprio appoggio, e Arnolfo, per

tutta risposta, lo mise in carcere, per poi liberarlo dietro giuramento di fedeltà. Il «fido» Adalberto attuò cosí la sua ritorsione. È probabile che avesse chiesto la nomina a messo imperiale e a tutore del Patrimonio di San Pietro, visti i suoi interessi sull’Urbe. Suo padre Adalberto I, peraltro, vantava già questo titolo.

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Verdun

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942 Huesca

9 89

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B ra Bratislava 907

W Wels 9943

Basilea

Digione

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Lechfeld 95 55 955

Venezia V B Brenta 899

Pavia

Arles

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ottobre

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Cordova

Roma Montecassino

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Nella pagina accanto impugnatura di sciabola ungara con decorazione in lamina d’argento. X sec. Miskolc, Museo Herman Ottó. A destra lamine in argento e oro utilizzate come rivestimento di cintura e di giberna, dalla tomba A di Rakamaz-Strázsadomb. Produzione ungara, X sec. In basso, sulle due pagine cartina nella quale sono riportate l’area di stanziamento originale degli Ungari e le direttrici dei loro spostamenti in Europa.

Prima spedizione di conquista Direttrici degli spostamenti e loro datazione iniziale I territori degli Ungari intorno al 930 Territori di fede cristiana Territori sotto il dominio islamico intorno al 930

895

UNGHERIA

Arcadiopoli 97 70 970 9

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934 Tessalonica

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Costantinopoli Co

lo. Arnolfo poté cosí ottenere la corona imperiale (896), ma un colpo apoplettico lo costrinse a fare ritorno in patria, dove morí (899). Berengario, intanto, scendeva a patti con Lamberto. I due si spartirono il regno: il blocco occidentale a Lamberto, quello orientale a Berengario. Il marchese Adalberto sembrò aver ricucito i rapporti con Lamberto, ma nell’agosto 898, approfittando di una battuta di caccia che il re stava effettuando a Marengo (Mantova), cercò di sorprenderlo con un gruppo di armati. Informato per tempo, Lamberto poté giocare d’anticipo e colse nel sacco i cospiratori presso Fidenza (Parma). Liutprando racconta che lo stesso Adalberto cercò di dileguarsi nascondendosi in una stalla, ma Lamberto lo catturò, umiliandolo con uno sferzante riferimento a sua moglie Berta e alle sue ambizioni. Come una profetessa (una Sibilla), ella avrebbe prefigurato a suo mari-

to che sarebbe divenuto o un re o un asino. Non essendo riuscita a farlo salire sul trono, eccolo dunque in una stalla, giunto alla sua destinazione alternativa. Condotto in carcere a Pavia, Adalberto fu liberato dopo poco tempo. Il giovane e valoroso Lamberto, infatti, morí in un incidente di caccia, e Berengario, giunto a riprendersi tutto il regno, aprí le porte della prigione.

La minaccia ungara

Morto Lamberto e ritiratosi Arnolfo in Germania, Berengario non aveva, al momento, concorrenti. Lo attendeva però il dilagare degli Ungari, che, nel settembre 899, lo sconfissero sul Brenta. Arnolfo di Carinzia, che aveva incautamente richiesto il loro appoggio nel territorio dell’odierna Repubblica Ceca, nella dura lotta contro i Moravi (892), aveva fatto irrompere queste orde terribili di arcieri nella debole realtà europea, dove lasciarono un

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Dossier

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A sinistra papa Formoso e papa Stefano VI, dipinto di Jean-Paul Laurens. 1870. Nantes, Musée des BeauxArts. L’artista rappresenta il «Sinodo del cadavere», il macabro processo post mortem celebrato nel gennaio 897 alla salma di Formoso, e presieduto da papa Stefano VI (a sinistra). In basso ritratto del papa Sergio III (904-911). Fedele al marchese Adalberto, il pontefice ripristinò la condanna di Formoso, precedentemente annullata da Giovanni IX.

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ricordo indelebile («Orco», in francese antico hogre, deriva non a caso da hongrois, «Ungaro»). Talvolta chiamati in causa come alleati nelle lotte di potere (lo stesso Berengario se ne avvalse!), talvolta messi a freno da cospicui donativi, rappresentarono comunque, per molti decenni, una minaccia costante. Il 12 marzo 924, Pavia, a seguito della loro piú tremenda invasione, venne distrutta dalle fiamme. Rodolfo di Borgogna aveva appena ottenuto la corona dopo aver sconfitto Berengario a Fiorenzuola d’Arda (presso Piacenza; 17 luglio 923), in una battaglia che lasciò sul terreno, secondo lo storico contemporaneo Flodoardo di Reims, 1500 morti: vi perí tutto il fior fiore dell’aristocrazia italica. Berengario, poi, fu ucciso a tradimento a Verona, un mese dopo i tragici fatti di Pavia (7 aprile 924).

Un processo farsa

Desideroso di vedere riconfermata la propria qualifica imperiale, Lamberto, nell’898, aveva dato il suo appoggio a papa Giovanni IX, noto per aver riabilitato la memoria di pa-

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Dossier pa Formoso. Quest’ultimo era stato infatti «destituito» dopo il grottesco processo celebrato a suo carico post mortem, in presenza del suo cadavere all’uopo riesumato (897; vedi «Medioevo» n. 184, maggio 2012). La farsa era stata messa in atto per volontà di papa Stefano VI, una «creatura» di Lamberto, che aveva potuto cosí vendicare il voltafaccia ordito da quell’intrepido e spregiudicato pontefice ai danni del proprio signore. Papa Giovanni, di origini germaniche, aveva dimostrato tatto e moderazione, ed era sinceramente convinto che Lamberto fosse in grado di porre un argine allo sfacelo e alla corruzione della Chiesa. Dal canto suo, Lamberto aveva messo a tacere i livori che aveva nutrito per Roma all’epoca di papa Formoso, ed era ben disposto a collaborare.

L’irriducibile papa Sergio

Ma il protetto del marchese Adalberto, papa Sergio III, tra i fiancheggiatori piú convinti del processo postumo a Formoso, non aveva digerito la sconfitta subita nell’898 per mano di Giovanni durante il conclave, e, costretto all’esilio, tra-

Il dittico in avorio di Rambona, con la singolare raffigurazione della lupa che allatta Romolo e Remo ai piedi della Croce, dal monastero di S. Flaviano (Pollenza, MC), fondato da Ageltrude moglie di Guido II. Fine del IX-inizi del X sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

mò per tornare in auge. Nello stesso anno Lamberto moriva, e papa Giovanni lo seguí due anni piú tardi (900). Grazie anche all’appoggio del duca Alberico di Spoleto e della potente famiglia romana di Teofilatto, l’occasione propizia si presentò finalmente nel 904. Non appena ordinato, Sergio ripristinò la condanna di Formoso e usò la mano dura con i propri predecessori. Leone V (903) e Cristoforo (903-904), un antipapa che si era sostituito allo stesso Leone con la forza, morirono in carcere o furono uccisi. Nonostante questo suo tratto brutale, Sergio non mancò di assistere alcune popolazioni afflitte dai Saraceni. Si dedicò con impegno al restauro della basilica lateranense, che versava in uno stato increscioso a seguito del terremoto dell’896. Rimase sul soglio pontificio per sette

il «caso» italia

Le ragioni di un’utopia Secondo Liutprando, l’Italia rimase terra di conquista in perenne stato di guerra tra due contendenti, a causa dell’indole stessa degli abitanti: «Gli Italici vogliono sempre avere due padroni per tenere a freno l’uno col timore dell’altro». In realtà, le vicende di altre storie nazionali europee mostrano situazioni analoghe, nei periodi in cui si avvertiva la mancanza di forti poteri aggreganti. Il caso italico, semmai, si differenzia per un fatto «strutturale». La Francia, con Oddone (888-898), iniziava ad avere una sua capitale e un sovrano che ne era diretta emanazione. L’Italia era priva di un autentico baricentro. In questo periodo, Pavia, la capitale del regno, non espresse mai una dinastia locale, ma, a turno, rimase in balia del marchese del Friuli (che aveva la sua «base» a Verona) o del duca di Spoleto, senza contare le discese di Arnolfo di Carinzia. La storiografia romantica dell’Ottocento vede il regno italico come un’occasione mancata di riscatto del Paese prima del Mille, ed elegge a eroi nazionali i sovrani «italiani» del periodo. Ma questi erano, in realtà, tutti discendenti dei conquistatori franchi, e si inserivano all’interno di una maglia geopolitica che rimaneva sostanzialmente indiscussa nella sua eterogeneità, con evidenti sopravvivenze dell’Italia longobarda.

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anni (in un’epoca in cui otto papi si erano succeduti nell’arco di otto anni) grazie a Teofilatto, l’energico patrizio al quale aveva affidato in modo pressoché esclusivo il governo della città. Quest’ultimo era saldamente affiancato dalla moglie Teodora, una donna di grande fascino che si guadagnò un ruolo da protagonista del tutto inedito nella storia della Roma medievale.

Massacro sul Garigliano

In particolare, Teodora favorí la nomina del successore di Sergio, papa Giovanni X. Lucido e intraprendente, incoronò imperatore Berengario I (915) e, mettendo a frutto contatti e alleanze che facevano capo allo stesso Berengario, ad Alberico di Spoleto e a Teofilatto, promosse una campagna militare per mettere fine alla piaga dei pirati musulmani. Furono coinvolti Adalberto di Toscaottobre

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nel Liber Pontificalis, si ritiene anche che Giovanni fosse in realtà figlio del primo marito, il ricordato duca Alberico di Spoleto. Dopo la morte di costui, nel 925, Marozia convolò a nozze con Guido di Toscana, figlio di Adalberto, e, dulcis in fundo, sposò il re d’Italia Ugo di Provenza, fratello uterino del defunto Guido (la loro madre era Berta di Toscana).

Le ambizioni di Marozia

Nella stessa epoca Marozia cercò di dare in moglie una propria figlia a uno dei rampolli dell’imperatore bizantino Romano I Lecapeno, ricordato all’inizio di questo Dossier. Se fosse riuscita nell’intento, sarebbe stata madre di un papa (figlio di papa), moglie di un re e suocera di un principe bizantino. L’accordo,

na, i principi dell’Italia meridionale (che richiesero come contropartita ampie concessioni territoriali), i Bizantini. Dopo aver subito un’azione partita da piú punti nelle campagne romane e nella Sabina, gli Arabi si asserragliarono nella base fissata alle foci del Garigliano, dove furono stretti d’assedio per due mesi. Alla fine dovettero cedere, e furono massacrati (agosto 915). La vittoria sul Garigliano, pur sensazionale, compete a fatica con le imprese e con la fama di una delle figlie di Teodora, Marozia (892 circa-ante 937), che ne ereditò la bellezza e la determinazione, con un tocco in piú di schietta spregiudicatezza. Nel fiore degli anni, la «senatrice» fu amante di papa Sergio III, da cui ebbe il futuro papa Giovanni XI (931-935). Sebbene le circostanze, non percepite affatto come scandalose, trovino conferma

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che prevedeva da parte del papa (il figlio di Marozia) il riconoscimento di Teofilatto, figlio di Romano I, quale patriarca di Costantinopoli (in entrambe le illustri città, dunque, i regnanti tenevano le Chiese locali in pugno, nel cerchio delle rispettive famiglie), non ebbe sviluppi, poiché, quando giunse la risposta di Romano, nel 933, Marozia era ormai fuori gioco. Puntando in alto, verso la dignità regia, grazie al matrimonio con Ugo e agli accordi con Bisanzio, sottovalutò la situazione politica romana, che lei stessa aveva assecondato e determinato con successo per lunghi anni. Nel giro di poco tempo, intorno al 926, papa Giovanni X, il trionfatore del Garigliano, si era trovato in una posizione di forza senza il

A destra la Cattedra di San Pietro, trono ligneo ornato da formelle in avorio fatto realizzare da Carlo il Calvo e donato a papa Giovanni VIII in occasione della sua incoronazione imperiale (875). Città del Vaticano, Basilica di S. Pietro.

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Dossier Teodora e Marozia

Nel segno della ÂŤpornocraziaÂť


Teodora, la moglie di Teofilatto, sfoggiava un nome greco, secondo le «mode» bizantine dell’aristocrazia romana, e la sua omonima famosissima imperatrice di Bisanzio (527-548), moglie di Giustiniano, condivide con lei il destino di aver pagato con l’infamia un potente ruolo pubblico. Solo gli uomini, nella mentalità comune del tempo, sono degni di reggere le sorti di un popolo. Liutprando, in questo, è coerente, sostenendo che tutte le donne potenti che si affacciano sulla scena della storia, non fanno altro che sfruttare Papa Giovanni XII e Marozia, incisione di Maurice Lachâtre per l’Histoire des papes che allude alla immaginata relazione incestuosa tra il pontefice e la sua avvenente e spregiudicata nonna. 1842.

controllo dei suoi protettori. Teofilatto, sua moglie Teodora e il duca Alberico di Spoleto erano morti. Il pontefice ne approfittò per sviluppare una politica autonoma, cercando di liberarsi dal giogo di Marozia e del suo nuovo marito Guido. Si accordò a Mantova con Ugo di Provenza, garantendogli l’incoronazione, e innalzò il proprio fratello Pietro alla carica di console dei Romani. Guido e Marozia reagirono con decisione, appoggiati dalla loro potente fazione. Esiliato a Orte, Pietro fece ritorno a Roma appoggiato da un’orda di Ungari, ma fu ucciso sotto gli occhi del papa nel Palazzo lateranense. Giovanni X, deposto e imprigionato, venne soffocato con un cuscino premuto sulla bocca, in base a quanto riferisce Liutprando (gennaio 928). Ma poi, morto Guido, Marozia inviò ambasciatori a Ugo offrendosi in moglie, e i Romani si ritrovarono con un re in casa (932). Alberico II, figlio del defunto duca Alberico e di Marozia stessa, facendosi forte dell’ostilità diffusa nei riguardi del sovrano «bur-

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la propria beltà e le proprie abilità in campo sessuale. Teodora e sua figlia Marozia, infatti, sono, senza mezzi termini, due «prostitute». L’«astuta» Berta di Toscana faceva ricorso alle «dolcezze nuziali», e sua figlia Ermengarda, marchesa di Ivrea, era «pari a lei nei piaceri di Afrodite». Questa evidente misoginia ha avuto larga fortuna sul conto delle due nobildonne romane, divenute protagoniste di un’epoca «pornocratica», durante la quale l’Urbe era caduta ai livelli di un bordello. In realtà, a ben vedere, gundo» che era venuto a spadroneggiare nell’Urbe, organizzò una rivolta. Stretto d’assedio a Castel Sant’Angelo, eletto a residenza privata da Marozia, Ugo fu costretto a fuggire come un galeotto, calandosi lungo una corda. Alberico ingiunse alla madre Marozia il ritiro dalla vita pubblica, e divenne il padrone incontrastato della città. Anni dopo, nel 936, accettò in moglie Alda, figlia legittima di Ugo, ma vietò al patrigno-suocero la partecipazione alla cerimonia nuziale: per lui, ormai, Roma era una meta irraggiungibile.

L’abbazia in fiamme

Alberico guidò l’Urbe con saggezza fino alla morte (954). Legò il suo nome alla rifondazione dell’abbazia di Farfa, nella Sabina, già abbandonata dai monaci, trasformata dai predoni musulmani in una base strategica, e infine data alle fiamme da una masnada di predoni italici, giunti fin lí in cerca di tesori. Suo figlio Ottaviano salí sul soglio pontificio con il nome di Giovanni XII (955-963). Fu lui a determinare la seconda discesa in Italia di Ottone I, che, giunto a Roma, nel 962 incoronò imperatore, ma poi si rese protagonista di un clamoroso voltafaccia, alleandosi con lo stesso Berengario II contro il quale aveva chiesto l’aiuto del re germanico.

Teodora e Marozia sono testimoni del ruolo determinante esercitato dalla donna in un mondo fluido, turbato da continui sommovimenti, laddove i legami familiari che la donna stessa coltivava e difendeva, avevano maggiore presa di qualsiasi accordo politico. Come sottolinea il Gregorovius, poi, le due patrizie non furono piú immorali di una Lucrezia Borgia o di una Caterina di Russia. E hanno un merito indiscutibile. «Le loro figure vistose spezzano in modo bizzarro la claustrale monotonia della storia del papato». Durante un sinodo tenutosi nel 963 in S. Pietro al cospetto dello stesso Ottone, presente Liutprando in qualità di interprete, il papa fu deposto per la sua condotta tirannica, per aver giocato a dadi invocando gli dèi pagani (horribile dictu), e per aver trasformato il Laterano in un lupanare: tutte cose incredibili a udirsi, affermò Ottone, indegne persino di un volgare commediante. Due cardinali furono incaricati di notificare all’interessato le decisioni della solenne assemblea, ma il papa, «armato di faretra», si era dato alla macchia, nascondendosi nelle campagne di Tivoli. V

Da leggere U Ferdinand Gregorovius, Storia della

città di Roma nel Medioevo, vol. I, Einaudi, Torino 1973 U Paolo Brezzi, La civiltà del Medioevo europeo, vol. II, Eurodes, Roma 1978 U Vito Fumagalli, Il Regno italico, UTET, Torino 1986 U Liutprando di Cremona, Italia e Bisanzio alle soglie dell’anno Mille, a cura di Massimo Oldoni e di Pierangelo Ariatta, Europía, Novara 1987 U Ovidio Capitani, Storia dell’Italia medievale, 410-1216, Laterza, Roma-Bari 1988

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macchine d’assedio catapulta a percussione

Che vi sia

di Flavio Russo

ciascun lo dice... Nel suo monumentale Dizionario ragionato dell’architettura francese dall’XI al XVI secolo, Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc propose la convincente ricostruzione di una variante della catapulta tradizionale, che può definirsi «a percussione». Aveva, in questo caso, precedenti illustri, perché immagini di un’arma del genere ricorrono con frequenza in documenti d’età medievale e rinascimentale. Eppure, alla prova dei fatti, non fu altro che un dotto esercizio di stile...

N N

umerosi disegni redatti tra il XIV e il XIX secolo rappresentano, con maggiori o minori dettagli, una sorta di macchina da lancio che per la modalità di propulsione potrebbe, a ragione, definirsi «catapulta a percussione». A differenza della classica catapulta medievale a braccio rotante della quale le fonti forniscono numerose e attendibili testimonianze – senza tramandarci però alcuna immagine e facendo perciò assurgere la ricostruzione grafica dell’architetto francese Eugène Viollet-le-Duc a sua raffigurazione per antonomasia (vedi «Medioevo» n. 211, agosto 2014) –, di quella a percussione tanto riprodotta non si rintraccia alcuna esplicita menzione. Se la prima fu quindi un’arma sicuramente esistente, ma mai ritratta – al pari dell’onagro romano da cui derivava –, per la seconda invece vale il contrario e una serie di stringenti considerazioni tecniche inducono a ritenerla sicuramente mai esistita. Il criterio informatore dell’arma era abbastanza semplice, dal momento che non presentava sostanziali differenze rispetto a quello dei tiri del gioco del biliardo e piú ancora del golf: una palla ferma, colpita con violenza da una stecca o da un martello, riceve un impulso che la fa muovere velocemente nella esatta direzione da cui proviene l’impulso, con una velocità direttamente proporzionale alla violenza dell’impulso e alla massa del percussore, inversamente invece alla sua massa.

Un’arma semplice

In linea di massima, consisteva in un massiccio palo verticale alla base del quale era strettamente legata una robusta pertica elastica, a volte ricavata da una parte del palo stesso, che mediante un paranco veniva fatta

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La ricostruzione della catapulta a percussione elaborata da Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc per il suo Dizionario ragionato dell’architettura francese dall’XI al XVI secolo. A. albero verticale cilindrico; B. gancio basculante; C. funicella; D. dardo; E. supporto mobile a forcella; F. cremagliera.

flettere fino a farle assumere una posizione quasi orizzontale. Sulla sommità del palo era realizzato un foro passante, nel quale veniva infilato un grosso dardo, simile a quello delle balestre da posta, facendone sporgere anteriormente la cuspide e posteriormente la cocca. Un congegno di sgancio, anche questo non diverso da quello delle anzidette balestre, liberava la pertica che, raddrizzandosi istantaneamente, prima di arrestarsi contro il palo, andava a cozzare con estrema violenza contro la cocca del dardo, il quale, di conseguenza, veniva espulso con rilevante velocità. L’energia utilizzata in questa macchina lancia-dardi è quella potenziale elastica accumulata per deformazione a flessione nella pertica e, quasi interamente, restituita al termine del raddrizzamento nell’impatto. Va osservato che l’utilizzo di un accumulatore energetico a flessione è di gran lunga il piú antico nella storia della tecnologia, essendo di tale tipo l’arco e un gran numero di trappole, nelle quali una lamina fatta flettere agisce esattamente come una antesignana molla d’acciaio. Ma non avendo il legno connotazioni elastiche rilevanti, la deformazione di molle siffatte, dopo pochi cicli, decadeva da temporanea a permanente, causando il totale scadimento dell’arma. Una validità effimera e intrinsecamente debole, quindi, caratterizzava la concezione della catapulta a percussione, e tale deficienza la lasciò allo stadio di pura elucubrazione, nonostante ottobre

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macchine d’assedio catapulta a percussione La catapulta a percussione in due tavole del Codice Palatino (a sinistra e a fondo pagina) e in in una tavola del De re militari di Roberto Valturio (qui sotto).

la sua costante riproposizione da parte dei piú prestigiosi tecnici tardo medievali e rinascimentali. Tra i disegni piú antichi pervenutici della catapulta a percussione, ve ne sono tre nel Codice Palatino 767 su due fogli, quasi certamente opera di Mariano di Jacopo Vanni, detto il Taccola (1381-1458 circa), che la raffigurano in altrettanti diversi allestimenti. Il primo, in alto, mostra la divaricazione tra palo e pertica alla loro base a forma di «A», con una guida per il dardo a inclinazione variabile. Il secondo, in basso, si divarica invece a «V» in sommità, con l’inclinazione della guida regolata da una cremagliera. Il terzo, su un altro foglio, può considerarsi una variante navale con divaricazione ad «A» e pesante mantelletto mobile di protezione ammainabile durante il tiro.

Il modello ricorrente

Dei tre disegni, fu però il secondo l’archetipo della maggior parte delle elaborazioni successive fino a quella di Viollet-le-Duc, tanto che lo ritroviamo identico nel De re militari di Roberto Valturio (1405-1475), e, con qualche variante, sia nello Zibaldone di Bonaccorso Ghiberti (1451-1516), che nei Trattati di Francesco di Giorgio Martini (14391501), per citare i piú noti ingegneri rinascimentali. Per Bonaccorso Ghiberti, la catapulta a percussione è costituita da un tronco suddiviso verticalmente in una parte fissa e una flessibile piegata con un paranco. Il dardo poggia sulla sommità del palo e su una guida che

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insiste in una cremagliera ricavata nello stesso palo, per variare con l’inclinazione la gittata dell’arma. Per Francesco di Giorgio, la catapulta ferma restandone la concezione, ma con divaricazione ad «A» è piú idonea al lancio di grossi verrettoni e soprattutto di palle di pietra, per cui cosí precisava: «Balista era una duplicata trave sopra ad altre travi collegata messa, la quale di corregge e legami di ferro cinta, all’argano la partita trave tirando, al lasso s’accomodava, e ‘l dardo o pietre sopr’al canal del timon posto per la percossa della lassata trave potentemente e con gran furia uscía. E questo edifizio per piano come per diritto è da fare. E tale stormento piú che altro stormento e come piú potente li antichi usorno».

Differenze decisive

Tuttavia, nonostante tante illustri riproposizioni e rielaborazioni, la catapulta a percussione in pratica non poteva funzionare. L’arma, infatti, sebbene in prima approssimazione non sembri differire granché dalle tradizionali macchine da lancio a flessione, a un piú attento esame rivela la diversità che ne inficiava il funzionamento. Gli archi, come pure le catapulte, le baliste e le balestre, ovvero tutte le cosiddette armi telecinetiche a corda, e piú tardi il trabucco e persino le artiglierie a polvere, durante il lancio spingono, con la loro corda o con i gas dell’esplosione, il proietto lungo una apposita guida o dentro una apposita canna, dall’istante di sgancio o di sparo a quello di espulsione. ottobre

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La catapulta a percussione in una tavola dello Zibaldone di Bonaccorso Ghiberti (qui sopra) e in allestimento lancia dardi dai Trattati di Francesco di Giorgio Martini (qui accanto).

La fulminea sollecitazione, oltre ad accelerare il proietto fino alla sua velocità iniziale, gli fornisce la precisa direzione di tiro, che mantiene durante la sua traiettoria. Un orientamento tanto piú preciso e stabile quanto maggiore è la lunghezza della guida o della canna, dimensione che, tra l’altro, consente di sfruttare meglio la spinta di lancio, accompagnando piú a lungo il proietto. L’accelerazione, quindi, per quanto veloce possa essere, è progressiva, poiché progressivamente la corda o i gas di sparo cedono al proietto la loro energia cinetica. Non cosí nella catapulta a percussione, nella quale tale cessione avviene solo dopo che il percussore ha già raggiunto la sua massima velocità, impartendo perciò nell’impatto col proietto una sollecitazione tanto violenta da spaccarlo o deformarlo. Un’idea delle conseguenze di questa diversa modalità di lancio si potrebbe ricavare, per analogia, sparando a una palla di biliardo: l’impatto del proiettile non la spinge, come fa l’urto della stecca, ma la trapassa per la sua alta velocità, comportandosi la palla, per inerzia, come un ostacolo fisso! Forse Francesco di Giorgio, il piú consapevole di tale limite, pensò di aggirarlo facendo scagliare all’arma soltanto palle di pietra, sperando in tal modo di contenere la potenza distruttrice dell’impulso, ma, in tal caso, l’arma non avrebbe comunque funzionato, poiché il loro peso sarebbe stato eccessivo per l’energia cinetica erogata dalla pertica.

Una macchina «molto antica»

Viollet-le-Duc, quasi certamente, piú per il gusto di disegnarla che per la certezza della sua esistenza ripropose la catapulta a percussione, e sarebbe piú esatto dire la reinventò in una elegante tavola (vedi a p. 91), non mancando di ricordare che nel passato: «Ci si avvalse della catapulta a percussione, della quale la potenza era minore, ma la costru-

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Qui sopra visione planimetrica della catapulta a percussione elaborata da Viollet-le-Duc e originariamente proposta a integrazione della ricostruzione dell’arma (vedi disegno a p. 91).

zione molto piú semplice tant’è che poteva effettuarsi durante le campagne con il legname procurato nei paraggi, senza che fosse necessario utilizzare delle cremagliere e tutte le ferrature che richiedono tempo e artigiani specializzati. Questa macchina è molto antica e ricorda l’arcaica catapulta dei Romani. Si compone di un albero verticale cilindrico, spianato da una parte (A) in grado ruotare per mezzo di boccole. Alla base di questo albero vi sta fissato un telaio triangolare, collocato su due rotelle e vincolato al detto albero per mezzo di due listelli o controventi. Delle molle di legno sono saldamente avvinte al piede dell’albero con delle briglie di ferro e delle corde di tendini. Un verricello collocato su due montanti del telaio, viene azionato tramite delle manovelle e ruote dentate. Un capo di corda con un gancio è fissato all’estremità superiore della molla, e una seconda corda munita di un gancio basculante (B), si avvolge sul verricello dopo essere passata dentro un puleggia di rinvio. Quattro uomini caricano la molla. Un dardo attraversa un foro praticato all’estremità superiore dell’albero (D), e un supporto mobile a forcella (E), che si impegna nelle tacche di una cremagliera (F), consente di abbassare o alzare il tiro, come lo illustra il prospetto (G). Allorquando la molla è tesa, il puntatore traguardando il dardo, ruota il telaio inferiore sulla sua piattaforma secondo la direzione che vuole dare al tiro e, tirando la funicella (C), fa saltare il gancio: la molla va a colpire il dardo alla sua cocca e lo scaglia lontano nella direzione datagli. La figura 19 fornisce una pianta di questa macchina». La suggestiva tavola e la relativa planimetria di Viollet-le-Duc, presentano una significativa gamma di perfezionamenti, il piú importante dei quali consiste nella possibilità di brandeggiare il palo e il solidale telaio triangolare, cosí da poter piú facilmente tirare contro vari bersagli. Con la consueta dovizia di dettagli, è raffigurato il verricello di caricamento collocato al centro del telaio per essere sempre in asse con la pertica. Ma la raffinata esecuzione grafica, non valse a rendere la catapulta a percussione meno utopica! F

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luoghi radicofani

Dove la

di Fausto Cecconi

Francigena tocca il cielo

A chi percorra la via Cassia all’altezza della Val d’Orcia, la sua sagoma si staglia inconfondibile: una fortezza possente, che, per la sua eccezionale posizione strategica, fu a lungo e sempre contesa ed ebbe, di conseguenza, una storia travagliata. E che, in tempi piú recenti, ha dovuto sconfiggere un «nemico» piú silenzioso, ma non meno invadente...

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metà strada tra Firenze e Roma, tra la Tuscia viterbese e la Terra di Santa Caterina, incastonata nella Val d’Orcia delle dolci colline, che sono Patrimonio dell’Umanità dal 2004, si erge una rupe rocciosa che sfiora il cielo. Sulla cima di questo monumento della natura, un vulcano spento vecchio di un milione di anni, quasi come una protuberanza delle rocce naturali, sorge la fortezza di Radicofani,

imprendibile fortificazione di un sito già difeso naturalmente dalle rocce verticali. Il luogo è stato scelto dall’uomo da tempo immemorabile, come controllo e difesa di un territorio vastissimo.

Un luogo sicuro

La rupe domina le valli dell’Orcia e del Paglia, attraversate dalla via Francigena, che proprio in Radicofani trovava un luogo fortificato e

sicuro, e dalle vie traverse tra l’Umbria e la Maremma. Dalla sommità del castello si vedono il Mar Tirreno, i massicci appenninici dei Sibillini, del Gran Sasso e della Maiella, il lago di Bolsena e parte del Trasimeno, la città di Siena e le colline di Viterbo. A Radicofani tutto parla di Medioevo: il Borgo Maggiore, con le sue strade e le dodici piazzette, la pieve romanico-gotica di S. Pietro Apostolo, i portali di pietra scura, il Una veduta della Val d’Orcia, dominata dalla rocca di Radicofani (Siena), costruita a partire dal 1153 su precedenti fortificazioni, a guardia dei borghi sottostanti e della via Francigena.

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luoghi radicofani Bologna

Ravenna

EMILIA-ROMAGNA LIGURIA

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Lucca

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Siena

Isola di Capraia

Lago Trasimeno

Perugia San Quirico d’Orcia RADICOFANI Monte Amiata UMBRIA

Arcipelago Isola d’Elba To s c a n o

Grosseto

MAR TIRRENO

Isola del Giglio

Lago di Bolsena

Viterbo LAZIO

Nella pagina accanto la Fortezza Vecchia, eretta da papa Adriano IV nel 1154, con il maestoso torrione (mastio) quadrangolare, la cui sommità è stata ricostruita negli anni Venti del secolo scorso. In basso l’ingresso principale alla Fortezza Vecchia, o cassero, con portale romanico sovrastato da una caditoia aggettante.

ficavimus a fundamentis sentinatibus Ausdonias et Radacofanum», comunque è sicuro che in un documento di vendita del 973, Radicofani è ricordato «cum suo castrum».

Nel Patrimonium Petri

Nel 1153, per fermare le mire egemoniche dell’imperatore Federico Barbarossa, papa Eugenio III, arrivato in Val d’Orcia a San Quirico, acquista Radicofani e il sobborgo vallivo di Callemala, per controllare entrambi i percorsi viari della Francigena medievale. Nel 1154 papa Adriano IV costruisce un vero e proprio castello con tre torri piccole e un grande torrione, l’odierno cassero o Fortezza Vecchia. Di questo antico manufatto rimangono due torri piccole, seppur parzialmente rovinate, e il grande torrione, la cui sommità è

severo Palazzo Pretorio, lo Spedale dei Vallombrosani, e poi salendo, la via Castellana, la Porta del distrutto borgo di Castel Morro, le mura del Girone sino ad arrivare alle possenti roccaforti della Fortezza Nuova e di quella Vecchia: una vera e propria città fortificata. Sulla sommità di questa città si hanno tracce dell’uomo sin dall’età del Bronzo Medio, e proprio nel cortile del cassero è stato rinvenuto il perimetro di un edificio ellittico, a uso cultuale-difensivo. In cima a quella protuberanza di roccia vulcanica ricca di ferro che attira i fulmini, i popoli protostorici vedevano la dimora delle divinità. Anche per gli Etruschi e i Romani quella «quasi montagna» rappresentava un santuario naturale. Le prime testimonianze murarie delle fortificazioni sono attestate al IX-X secolo, ma sappiamo che già i Longobardi avevano costruito opere di difesa. Il toponimo di Radicofani deriva proprio dal nome di uno dei re longobardi: Rachis, Rachis hofen… perciò «Corte di Rachis». In una lapide che riportava un decreto di re Desiderio, conservata al Museo Archeologico di Viterbo e distrutta dalle bombe dell’ultima guerra, si leggeva: «In Tuscia aedi-

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luoghi radicofani La rocca di Radicofani cosí come si presenta oggi, dopo essere stata liberata dai cedri piantati negli anni Sessanta e Settanta.

stata però ricostruita negli anni Venti del Novecento, perché distrutta da un evento doloso nel 1735. L’ intera costruzione è fatta, come del resto tutta la Fortezza e i borghi sottostanti, in pietra vulcanica, trachi-basalti di varie tonalità, provenienti dalle rocce della rupe, lavorati a «filarotto» di misure regolari. Le torrette piccole hanno base esterna a scarpa probabilmente aggiunta dai Senesi nel XV secolo e si compongono di tre lati, che nella torre a nord si completano con una volta che regge un ambiente sommitale, oggi diroccato; la torre a est, essendo in parte rovinata, manca del completamento originario. Il maestoso e possente torrione o mastio, alto 36 m e di forma quadrangolare, ha base scarpata su tutti e quattro i lati; la parte sommitale ricostruita si completa con una terrazza merlata dalla quale si ammira un panorama infinito, a 360 gradi e lo sguardo può spaziare su tutto il Centro Italia: Toscana, Umbria, Lazio, Abruzzo. Il torrione ha un ambiente a piano terra a uso di segreta, davanti al quale si erge la struttura delle scale che danno accesso al primo piano attraverso un ponte levatoio. Il resto della torre si compone di quattro

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ambienti soprastanti, tre dei quali collegati da una scala ricostruita, che terminano con il terrazzo. Il cortile è di forma irregolare, ha un ingresso principale con portale romanico sovrastato da una caditoia aggettante; un’altra apertura posta sotto il ponte levatoio portava alla quarta torre, di cui rimane solo un piccolo rudere.

Tutti lo vogliono!

Nei secoli XIII e XIV il castello, per la sua formidabile posizione strategica, viene spesso conteso dai signorotti locali, che provano a contrastare il potere papale: la famiglia Guasta, alla fine del 1200, il famoso bandito-gentiluomo Ghino di Tacco (vedi box a p. 99), poi i Salimbeni… sino a quando arrivano le lusinghe della repubblica senese, che certo non poteva gradire che la roccaforte piú importante del suo territorio fosse in mano al pontefice. Dopo che, nel 1411, il popolo di Radicofani si era posto sotto la sua ala, per formalizzare questo passaggio, la repubblica riesce ad accordarsi con il potere pontificio, e a prendere Radicofani in vicariato per 60 anni. Siamo negli anni turbolenti dello Scisma d’Occidente e infatti a stipulare l’atto è l’antipapa Giovanni XXIII.

I Senesi fanno grandi lavori in tutta Radicofani, aprono una piccola bretella alla via Francigena, che passa sotto il Borgo Maggiore, e non piú al suo interno, intercettando cosí la sorgente di Fonte Freddola e quella di Fonte Grande. Erigono poi un fortino per il monitoraggio della strada e l’edificio della Dogana. Nel castello costruiscono un’altra cinta muraria, esterna alla Fortezza Vecchia, collegandola a essa attraverso due grandi muraglie a cuneo, dette «tenaglie», e una serie di torri angolari, delle quali oggi rimangono solo alcuni resti, perché la successiva trasformazione cinquecentesca le sostituí con altre strutture. Nel 1459 ancora non scaduti i 60 anni del vicariato i Senesi ottengono il vicariato perpetuo. Il fatto da sottolineare è che il papa, che concede loro definitivamente Radicofani, è Pio II Piccolomini, un Senese nato a Pienza in Val d’Orcia. Nel periodo senese la fortezza viene arricchita di molti edifici, la casa del capitano, la casa dei soldati, l’arsenale delle polveri, la chiesa di S. Barbara e una cappella detta «dello scoglio», le scuderie per i cavalli, diversi magazzini. Lo Stato senese attraversa un periodo ottobre

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Ghino di Tacco

Il Robin Hood della Val d’Orcia La fortezza di Radicofani si lega in modo indissolubile alla figura di Ghino di Tacco. Rampollo dei Cacciaconti, nobili feudatari della Val di Chiana, Ghino ebbe una vita difficile e rocambolesca, che lo portò alla fama già in vita. Ghino figlio di Tacco nasce alla Fratta, nel feudo chianino, intorno al 1265. La famiglia apparteneva ai Ghibellini senesi, che dagli anni Settanta erano in rotta con il potere comunale, in quel momento in mano ai Guelfi. Nel 1285 i fratelli Tacco e Ghino di Ugolino, rispettivamente padre e zio di Ghino, vengono catturati e in seguito decapitati in piazza del Campo, a Siena. Il giovane Ghino fugge dalla città e diventa a tutti gli effetti un «bandito». Con un gruppo di seguaci, la notte di Natale del 1297, Ghino conquista il castello di Radicofani, baluardo di proprietà pontificia sulla via Francigena. Da qui inizia a controllare tutto ciò che transitava sulla via, divenendo, per il suo modo di fare, una leggenda vivente. Per vendicarsi del giudice Benincasa da Laterina, che aveva fatto condannare il padre e lo zio, si reca a Roma, dove l’uomo si era trasferito, lo trova nei palazzi del Campidoglio, gli taglia la testa e la porta a Radicofani, dove si dice fosse stata messa sulla torre per farla mangiare dai falchi. Dante Alighieri nel VI canto del Purgatorio, inserisce Benincasa, parlando indirettamente di Ghino: «qui v’era l’aretin che dalle braccia fiere di Ghino di Tacco ebbe la morte». Benvenuto da Imola, nel commento alla Commedia di Dante, lo descrive come un nostrano «Robin Hood», prodigo verso i poveri e gli studenti, che toglieva i denari ai ricchi, ma lasciava loro un asino per continuare il viaggio: un vero bandito-gentiluomo. L’episodio piú famoso è narrato da Giovanni Boccaccio nella decima giornata del Decamerone: Ghino rapisce l’abate di Cluny. Il potente prelato da Roma transitava sulla Francigena per recarsi ai Bagni di Siena a curare il

fegato; Ghino lo rapisce, lo tiene prigioniero propinandogli un mangiare poverissimo, fave secche, pane, acqua... L’abate guarisce, Ghino lo libera e gli ridona i propri averi. Euforico e guarito, torna a Roma da Bonifacio VIII, fa togliere la scomunica comminata a al brigante e lo fa nominare cavaliere giovannita. Ghino lascia Radicofani, ma poco dopo, viene assassinato.

Radicofani, giardino del Maccione. Il monumento dello scultore Aldo Fatini dedicato a Ghino di Tacco, nobile senese ghibellino divenuto «bandito gentiluomo», citato anche da Dante e protagonista di una novella del Boccaccio.

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luoghi radicofani

di grande prosperità, che si evince anche dalle opere d’arte, di cui si arricchiscono soprattutto le chiese del Borgo Maggiore: ne sono esempio quattro meravigliosi dossali e una statua dei Della Robbia. Nel 1555 i Medici riescono a prendere Siena e la repubblica sposta la propria sede nella città di Montalcino; cosí le truppe fiorentine insieme a quelle spagnole cercano di conquistare il resto del territorio, assediando le fortezze piú importanti. L’assedio e la battaglia di Radicofani passano alla storia: imprese epiche si svolgono fuori e dentro le maestose fortificazioni che però non furono conquistate. Le truppe fiorentine sconfitte tornano a casa, proseguen-

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do la loro battaglia non piú con le armi, ma con la diplomazia. Il 31 luglio del 1559, con la pace di CateauCambrésis, lo Stato senese viene fagocitato da quello fiorentino guidato dalla casata dei Medici, non ancora divenuti granduchi. Radicofani non si arrende e sino al 17 agosto, la balzana senese continua a sventolare sul mastio, ma la storia ormai ha voltato pagina.

Arrivano i Medici

I Medici, che non erano particolarmente graditi, si rivelano veri mecenati per Radicofani, che trasformano in una città fortificata. L’intervento piú importante consiste nel trasformare la «Fortezza

Nuova» quattrocentesca, adeguandola ai canoni delle moderne opere difensive. La seconda cinta muraria viene modificata dall’architetto Baldassarre Lanci (1510-1571), abbattendo alcune torri angolari e trasformandole in bastioni. La forma della Fortezza Nuova non è regolare perché si adatta alla rupe; si costruiscono cinque bastioni con ambienti sotterranei, collegati da muraglie diritte dette «cortine». I bastioni prendono il nome dalle chiese che avevano nel loro cono difensivo, ma ricevono popolarmente anche altrettanti nomignoli; quindi abbiamo: il bastione di S. Maria o della Scoperta, il bastione di S. Giovanni Battista o della Chioccola, ottobre

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A sinistra il bastione di S. Rocco nella seconda cinta muraria, eretta dai Senesi nel XV sec. e modificata dall’architetto Baldassarre Lanci tra il 1560 e il 1567. A destra la Val d’Orcia vista dalla rocca di Radicofani.

Qui sopra ancora una veduta della Val d’Orcia: sullo sfondo, si riconosce la sagoma inconfondibile della rocca di Radicofani. Qui sotto una veduta panoramica dal lato meridionale della fortezza, che ne evidenzia l’eccezionale natura di luogo adatto all’avvistamento e al controllo.

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luoghi radicofani La pieve di S. Pietro Apostolo, nelle attuali forme romanico-gotiche. XIII sec.

il bastione di S. Pietro o del Casino di mezzo, il bastione di S. Rocco o del Torchio, il bastione di S. Andrea o della Capannaccia. La Fortezza trasformata dal Lanci aveva un ingresso principale, due secondari e un ultimo, oggi crollato, che era una vera e propria via di fuga. Il 14 settembre 1735 l’edificio fu coinvolto in un evento doloso che lo distrusse in parte e fu la causa di un progressivo abbandono. Un certo Pieri, che voleva essere eletto capitano, ma non lo fu per il cattivo carattere, incendiò i due arsenali e provocò un’enorme esplosione che colpí molte costruzioni, compresa la sommità del mastio. Nel 1737 si estinse la famiglia medicea e i Lorena, i nuovi granduchi, non avevano interesse a restaurare le fabbriche lesionate. La fortezza andò progressivamente spopolandosi e ne furono portate via le suppellettili, finché, il 31 luglio 1750, l’edificio fu sigillato e abbandonato. Nel secolo successivo fu smantellata parte delle costruzioni e delle fortificazioni, fino a quando il proprietario, Luigi Bologna, nel

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1926-28, decise il restauro degli edifici superstiti, limitandosi però al cassero o Fortezza Vecchia. Durante l’avanzata alleata della seconda guerra mondiale la fortezza fu cannoneggiata per due giorni e fu gravemente danneggiata, ma mai restaurata sino al 1989 .

Le rinascite

Tra il 1967 e il 1971 le aree della Fortezza Nuova e dell’annesso Girone furono piantumate con conifere tipiche dell’arco alpino. Radicofani aveva intanto perduto il suo posto sulla via Cassia per l’apertura di un percorso vallivo e, poco dopo, fu inaugurata l’Autostrada del Sole, causando un collasso occupazionale che fu assorbito dai cantieri forestali. Furono messi a dimora circa 1000 cedri, ovunque: nelle aree di interesse archeologico, sui bastioni, sui resti degli edifici demoliti. Piú tardi, durante il restauro della Fortezza Nuova e Vecchia (1989-1999), molti alberi furono tagliati per liberare le muraglie e le aree piú sensibili, ma ne rimaneva ancora l’80%. Negli ultimi anni la situazione era preci-

pitata: le piante avevano «soffocato» la fortezza, nascondendola alla vista, mortificandola; in piú, la crescita abnorme, favorita dalla natura vulcanica del terreno, aveva creato una situazione di pericolo continuo, soprattutto sulla cima di una rupe costantemente spazzata dai venti. Considerate tutte queste problematiche, l’amministrazione comunale ha proceduto, dopo i dovuti iter, al taglio totale degli alberi, restituendo al sito la dignità che la storia gli ha assegnato da sempre, quello di «Vedetta della Val d’Orcia», luogo di controllo e di suggestioni fantastiche, dove i tempi si dilatano e sembra di essere realmente piú vicini al cielo… F

Dove e quando Parco Museo Città Fortificata di Radicofani Orario tutti i giorni, dalle 9,30 al tramonto Info Paul Mazzuoli, tel. 339 8283953 ottobre

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caleido scopio

cartoline • Nelle sale del castello di

San Pietro in Cerro, nella Bassa Piacentina, echeggia l’età di Mezzo, ma si possono incontrare anche i pittori futuristi...

Nel castello dei nobili biscazzieri I

mmerso nel verde paesaggio della Bassa Piacentina, il castello di San Pietro in Cerro si raggiunge percorrendo un pittoresco viale di tigli. Un’iscrizione sul muro interno del mastio riporta il 1491 come data di inizio della costruzione e lo stemma della famiglia Barattieri, proprietaria del maniero per circa cinquecento anni. Soggetto alla giurisdizione dei nobili Malaspina nel Duecento e passato ai Dolzani nel 1395, il feudo di San Pietro in Cerro, divenne proprietà dei Barattieri nel 1421, con il matrimonio di Bartolomeo I e Maddalena Dolzani, che lo portò in dote. I diritti sul territorio, confiscati ai

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Barattieri dalla Camera Ducale di Milano, probabilmente a seguito di una ribellione, nel 1466 furono nuovamente concessi alla famiglia da Bianca Maria Visconti per far fronte alle difficoltà economiche in cui versava il ducato milanese.

Fedeli al duca di Milano L’acquisto fu confermato quattro anni dopo, unitamente al vincolo di fedeltà dei Barattieri al duca di Milano e ai suoi successori. Il castello fu innalzato per incarico di Bartolomeo I nella seconda metà del Quattrocento. I suoi discendenti, però, preferirono abitare a Piacenza, considerando il maniero

In alto la poderosa mole del castello di San Pietro in Cerro, in provincia di Piacenza. Il complesso sorse nella seconda metà del XV sec., per volere di Bartolomeo I Barattieri, la cui famiglia mantenne il possesso del feudo per circa cinquecento anni. una residenza di campagna. Ciò contribuí a preservare la struttura architettonica da pesanti alterazioni. In realtà, l’esistenza di un «punto forte» di difesa e osservazione in questa zona strategica nei pressi di Piacenza e del fiume Arda esisteva già nei secoli XIII-XIV. A documentarne la presenza sono rimaste tracce di un fossato e resti ottobre

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In questa pagina due immagini del MIM, Museum in Motion, allestito negli ambienti del sottotetto del castello di San Pietro in Cerro. La raccolta comprende circa 500 opere d’arte moderna e contemporanea, perlopiú riferibili al secondo dopoguerra. sotterranei di un rivellino, posto davanti all’ingresso dell’edificio e dotato di un ponte levatoio. L’edificio possedeva anche una torre, che forse coincide con l’attuale torrione d’accesso (mastio), originariamente piú alto e poi inglobato nell’architettura quattrocentesca. Durante gli scavi archeologici nella cortina muraria è stata rinvenuta la fornace, utilizzata per la produzione dei mattoni necessari alla costruzione.

Il fossato trasformato in giardino Iscritto entro una pianta regolare, il castello, è caratterizzato all’esterno da un ingegnoso sistema difensivo, che, conservatosi intatto a esclusione del fossato – ora colmato e integrato nel giardino –, consta di due torrioni

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L’arte è mobile... Nei suggestivi spazi del sottotetto il castello ospita il MIM, acronimo di Museum In Motion, un museo d’arte contemporanea, che coniuga passato e presente e la cui denominazione evidenzia la dinamicità di una collezione in «movimento». In mostra sono oltre 500 opere scultoree e pittoriche, realizzate da maestri italiani e stranieri del secondo dopoguerra. Una cospicua selezione di pezzi riguarda autori piacentini, in particolare Osvaldo Bot (1895-1958) figura poliedrica del secondo futurismo e Gustavo Foppiani (1925-1986), principale esponente della cosiddetta «Scuola di Piacenza», un sodalizio di artisti che predilige il fantastico, trattato con linguaggio ironico e vivace d’ascendenza surrealista. Ogni anno il MIM propone un ricco calendario di eventi d’arte. Inoltre l’allestimento è concepito in modo aperto e le opere sono esposte a rotazione, per dare maggiore visibilità alle acquisizioni piú recenti. Info tel. 0523 836085; castellodisanpietro.com; orari: visite guidate, da marzo a novembre, domenica e festivi, altri mesi e feriali su prenotazione.

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caleido scopio Una pesca miracolosa

I nobili Barattieri furono proprietari del castello fino al 1993, anno in cui il maniero fu acquistato dalla famiglia Spaggiari. Molto probabilmente originari di Venezia, i primi giunsero a Piacenza nel Duecento. Il cognome, Barattieri, suggerisce che si trattasse di una famiglia, i cui membri erano tenutari di case da gioco. A Venezia la loro notorietà sarebbe iniziata il giorno in cui riuscirono a recuperare dal fondale marino le due famose colonne, raffiguranti l’una San Teodoro, l’altra il leone di Venezia, che tuttora si trovano nei pressi di Palazzo Ducale, lungo il Canal Grande. Probabilmente le sculture erano cadute in mare, appena prima di giungere a destinazione. Con abilità e ingegno, i Barattieri riuscirono a sistemare le colonne al proprio posto e il doge, soddisfatto dell’impresa, chiese loro cosa volessero in cambio. Scelsero la gestione di una casa da gioco sui gradini ai piedi delle due colonne. In seguito, pentitosi del permesso accordato, il doge, non potendo revocare la concessione, cercò di bloccare il gioco d’azzardo, facendo erigere un patibolo nelle immediate vicinanze. La famiglia, che in breve tempo aveva guadagnato una fortuna, lasciò la città. Nello stemma nobiliare, accanto a un elmo e un orso (segno della profonda devozione a Sant’Orsola), sono raffigurati tre piccoli quadrati, forse altrettanti dadi, in ricordo della bisca. Col tempo i tre quadratini sono divenuti inequivocabili triangoli, allontanando in tal modo qualsiasi allusione alla casa da gioco. In alto lo stemma della famiglia Barattieri, nel quale si distinguono tre piccoli triangoli, che hanno forse sostituito i dadi che in origine comparivano nel blasone, a ricordo dell’attività legata al possesso di una casa da gioco a Venezia.

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angolari e un mastio, i cui corpi affacciano prepotentemente in avanti. Questa sporgenza, insieme alle numerose feritoie e cannoniere, assicurava il controllo perfetto su tutti i lati del fabbricato.

I segni di alcuni bolzoni, ossia di travi a bilanciere usati nelle manovre dei ponti levatoi, ancora visibili nella muratura del mastio, testimoniano la presenza di un antico passaggio mobile. Da sempre a San Pietro in ottobre

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Come una «città ideale» Con un po’ di tempo a disposizione, anche la città d’arte di Cortemaggiore, a 3 km dal castello di San Pietro in Cerro, val bene una sosta. Sviluppatasi sotto il dominio dei Pallavicino, la località possiede un suggestivo centro storico rinascimentale, ricostruito a partire dal 1480 secondo i canoni della «città ideale», per volontà di Giovanni Ludovico Pallavicino. Concepita su disegno dell’architetto Maffeo Vegio da Como, Cortemaggiore è stata considerata una sorta di piccola capitale fino al 1587, quando passò alla famiglia Farnese. Nel centro storico sono particolarmente interessanti la collegiata di S. Maria delle Grazie, che eretta nel 1481 unisce elementi della cultura tardo-gotica lombarda a elementi rinascimentali, e la chiesa della SS. Annunziata. Il luogo di culto, prima inglobato nel convento dei Francescani, fu costruito tra il 1487 e il 1492 su incarico di Rolando Pallavicino. A sinistra, dall’alto il loggiato, una cannoniera e la cucina del castello di San Pietro in Cerro. circolare dei torrioni d’angolo, poi, riduceva l’impatto delle palle sparate dalle armi da fuoco.

Un rifugio sicuro

Cerro il mastio coincide con l’accesso al cortile interno. Inoltre l’entrata, orientata a meridione, doveva evitare in passato che gli intensi raggi del sole di mezzogiorno potessero ostacolare la difesa del fortilizio.

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Originali ventiere, ante lignee basculanti disposte lungo la fascia superiore delle mura, permettevano di controllare le cortine murarie e di essere al contempo protetti da eventuali aggressioni. La forma

All’interno l’organismo architettonico è stato concepito in modo da essere perfettamente autosufficiente; ciò era indispensabile in caso di assedi, disordini ed epidemie, che talvolta duravano anche mesi. Tre pozzi, una cucina, un oratorio e una ghiacciaia, sapientemente distribuiti nei sotterranei, dovevano sopperire a ogni inconveniente e assicurare ai rifugiati cibo, acqua e preghiera. Oggi il castello conta trenta stanze, tra cui due sontuosi saloni d’onore. Alcuni vani sono impreziositi da delicati affreschi con decori neoclassici del XVIII secolo e pitture in stile neogotico. Che, realizzate secondo il gusto artistico predominante nella seconda metà dell’Ottocento, rievocano l’ambiente aristocratico e cavalleresco delle corti europee tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento. Chiara Parente

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Un telaio per Alessandro libri • Un volume riccamente illustrato riunisce gli studi su due arazzi della

collezione Doria Pamphilj che hanno per protagonista il Macedone: opere di altissima qualità artistica e di grande valore documentario

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er oltre un decennio, sul finire del IV secolo a.C., Alessandro Magno fu l’arbitro dei destini di gran parte del mondo allora conosciuto. Un destino che, fin dall’età antica, ne ha fatto un personaggio considerato fuori dall’ordinario, dotato di qualità eccezionali. E che ha contribuito ad alimentarne la fortuna anche nei secoli successivi, nel corso dei quali il Macedone è stato da molti visto come un modello ideale, che racchiudeva in sé tutte le doti migliori che si possano attribuire a un uomo. Una glorificazione veicolata anche attraverso l’arte, che, come nel caso che qui presentiamo, è quella dell’arazzo. Il volume prende infatti le mosse dai magnifici tessuti figurati che – secondo una tradizione da sempre tramandata, ma non completamente suffragata

dagli studi archivistici fin qui condotti – sarebbero stati donati dall’imperatore Carlo V al principe Andrea Doria e che, dal 2008, dopo essere stati restaurati, sono custoditi a Genova, nel Palazzo del Principe.

Il restauro e gli studi Nell’occasione, la nobile dimora ospitò un convegno dedicato alla fortuna iconografica di Alessandro e le due opere, che hanno come temi la Giovinezza e le Imprese in Oriente del giovane re, furono oggetto di alcuni dei contributi piú significativi. Da quegli interventi è dunque scaturita questa ricca pubblicazione, che analizza le due splendide «tapesarie» (uno dei termini adottati negli

Françoise Barbe, Laura Stagno ed Elisabetta Villari (a cura di) L’Histoire d’Alexandre le Grand dans les tapisseries au XVe siècle Fortune iconographique dans les tapisseries et les manuscripts conservés La tenture d’Alexandre de la collection Doria Pamphilj à Gênes Brepols, Turnhout, 280 pp., ill. b/n e tavv. col. 110,00 euro ISBN 978-2-503-54745-9 brepols.net

Particolare dell’arazzo delle Imprese in Oriente di Alessandro raffigurante il Macedone e i suoi uomini che si battono contro draghi, uomini selvaggi e Blemmi. Probabile manifattura borgognona, 1460 circa. Genova, Palazzo del Principe.

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A destra I taglialegna, arazzo di manifattura borgognona. Inizi del XVI sec. Parigi, Musée des Arts Décoratifs. In basso particolare dell’arazzo della Giovinezza di Alessandro dopo il restauro. Probabile manifattura borgognona, 1460 circa. Genova, Palazzo del Principe.

stati finora individuati elementi di conferma inoppugnabili, soprattutto perché, sebbene possa sembrare paradossale, negli inventari dei beni di famiglia la Giovinezza e le Imprese in Oriente non vengono mai menzionati. Potrebbe, tuttavia, essere solo una questione di tempo: gli studi sull’immenso patrimonio archivistico degli stessi principi proseguono e potrebbero portare alla scoperta di documenti nei quali gli arazzi sono citati e se ne specificano le modalità di acquisizione. inventari della famiglia Doria per questo genere di manufatti) secondo molteplici prospettive. I primi saggi ripercorrono la storia dei manufatti, nel tentativo di fissarne con certezza l’origine, che, a tutt’oggi, è una delle questioni piú dibattute: è stato piú volte sostenuto che gli arazzi abbiano preso corpo in un laboratorio di Tournai, nell’allora ducato di Borgogna, ma non vi sono dati certi e il solo elemento che può considerarsi acquisito sarebbe una provenienza comunque francese. A questa incertezza fa riscontro, come già accennato, il percorso che portò a Genova le due raffigurazioni delle imprese di Alessandro: come spiega Piero Boccardo, la versione sostenuta dalla famiglia Doria, cioè quella del dono di Carlo V, non può essere respinta a priori, ma, al tempo stesso, non sono

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La percezione del Macedone Nelle pagine successive, molti degli studiosi coinvolti affrontano questioni di carattere stilistico e iconografico e si tratta senza dubbio di uno degli aspetti piú interessanti. Gli arazzi Doria, infatti, si inseriscono in una vasta tradizione figurativa, in cui le istanze di carattere formale, oltre che essere dettate dai gusti o dalle mode della temperie nella quale maturano, sono anche il frutto di un dibattito storiografico sulla figura del Macedone avviato, di fatto, già all’indomani della sua precoce scomparsa. Nel raccontare le vicende di Alessandro, insomma, l’attenzione non era rivolta soltanto alla necessità di soddisfare il gusto della committenza, ma anche alla percezione del personaggio.

E, ancora una volta, si può leggere come, anche nel caso della fonte (o delle fonti) letteraria che potrebbe aver ispirato la mano dell’artefice delle composizioni, vada presa in considerazione una realtà piú articolata di quella tradizionalmente sostenuta: una realtà in cui avrebbe comunque avuto un ruolo decisivo il Romanzo d’Alessandro francese in prosa, una traduzione del XIII secolo della seconda redazione della Historia de Preliis, che, a sua volta, è una derivazione latina dello PseudoCallistene, ancora molto in voga nel Quattrocento. Come accade in tutte le maggiori espressioni artistiche, la Giovinezza e le Imprese in Oriente si rivelano anche una fonte di informazioni ricca e preziosa sulla storia del costume: Alessandro e i suoi uomini, cosí come i personaggi con i quali si confronta, vestono abiti e armature di grande ricchezza, resi con una accuratezza eccezionale, che, soprattutto nel caso delle stoffe ricamate, crea quasi una sorta di arazzo nell’arazzo. Chiudono il volume una riflessione sulla considerazione data agli arazzi nelle raccolte museali agli inizi del XX secolo e un confronto con la presenza dell’immagine di Alessandro nella produzione fiamminga del Cinque e Seicento. Stefano Mammini

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Lo scaffale Paola Desantis, Marco Marchesini, Silvia Marvelli (a cura di) Un tesoro di fede al castello dei Ronchi Il vetro dorato paleocristiano e la reliquia di Santa Deodata

Museo Archeologico Ambientale, San Giovanni in Persiceto, 126 pp., ill. col.

S.I.P. ISBN 978-88-905387-9-7

museoarcheologicoambientale.it

È l’estate del 2007 e lo storico dell’arte Carlo Zucchini sta ispezionando il contenuto di alcune scatole nelle quali erano stati riposti i rieliquiari della chiesa di S. Matteo, compresa nel complesso del Castello dei Ronchi, acquistato anni prima dal Comune di Crevalcore (Bologna) e poi restaurato. Uno dei cartoni contiene due bacheche in legno di fattura settecentesca: nella prima è certificata la presenza

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di resti attribuiti a santa Virginia martire, mentre la seconda custodisce avanzi – in pessimo stato di conservazione – del corpo di santa Deodata. Ma è proprio il secondo reliquiario a riservare la sorpresa piú grande: tra brandelli di tessuto e altri materiali, Zucchini trova un frammento di vetro dorato, sul quale si vedono due figure togate, accompagnate da un’iscrizione circolare parzialmente conservata… È l’inizio di un’avventura affascinante, poiché il reperto, all’indomani delle prime osservazioni e, soprattutto, del restauro, si rivela in tutta la sua importanza, trattandosi di un vetro paleocristiano che reca l’immagine dei santi Pietro e Paolo. La scoperta, a quel punto, innesca una serie di ricerche delle quali si è dato conto in una giornata di studi tenutasi nella primavera del 2012 e che vengono ora pubblicate. Il carattere interdisciplinare dell’indagine è senz’altro l’elemento di maggiore interesse dell’intera vicenda: grazie al concorso di numerosi specialisti è stato infatti possibile

ricostruire il contesto storico in cui il vetro si colloca, ipotizzare lo svolgersi delle vicende che l’hanno portato fino al Castello dei Ronchi e proporre l’identificazione piú probabile per la santa Deodata che a esso è legata. Tommaso Indelli Odoacre La fine di un impero (476 d.C.)

Viva Liber Edizioni, Nocera Inferiore (Salerno), 192 pp.

18,00 euro ISBN 978-88-97126-17-1

Il 476 d.C. è una data a cui, da sempre, si è guardato come a una svolta epocale, a un punto di non ritorno: fu l’anno, infatti della deposizione di Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore romano d’Occidente. Si trattò, in effetti, di un evento eccezionale, che, tuttavia, costituí soprattutto la sanzione formale di una crisi esplosa già da tempo. Esecutore della detronizzazione

fu il barbaro Odoacre, che divenne cosí il primo re d’Italia e del quale Tommaso Indelli ha cercato di ricostruire la vicenda personale e politica. Un tentativo non facile, poiché, a dispetto della fama imperitura che il ruolo di «commissario liquidatore» del piú potente impero del mondo occidentale gli ha assicurato, le fonti sul personaggio sono sorprendentemente piuttosto scarse. Ciononostante, Indelli è riuscito a tratteggiare un profilo articolato di Odoacre, che restituisce con efficacia anche il clima politico nel quale la sua azione andò a inserirsi e ribadisce la sua piena appartenenza a un processo di lunga durata, che abbraccia il vasto orizzonte cronologico e culturale della tarda antichità. Alberto Meneghetti (a cura di) De Gestis Herwardi Le gesta di Ervardo Edizioni ETS, Pisa, 190 pp.

18,00 euro ISBN: 978-88-7814-404-0 edizioniets.com

Probabile opera di un monaco di nome Ricardo, il De Gestis Herwardi narra le vicende di Hereward, un eroe-fuorilegge anglosassone che fu tra gli ultimi

cavalieri a tentare una resistenza contro i Normanni all’indomani della battaglia di Hastings (1066). L’opera lascia sicuramente spazio a numerosi «adattamenti» agiografici, ma è comunque un documento di notevole interesse, spesso proprio per gli intrecci tra la cronaca di taglio storico e le tradizioni leggendarie della letteratura medievale anglosassone. La prima parte del volume si compone di un’ampia Introduzione, nella quale Meneghetti analizza appunto il contesto culturale in cui maturò la redazione del De Gestis, la sua articolazione e la sua diffusione. A quest’ultima, che dovette essere ottobre

MEDIOEVO


piuttosto limitata, diede un contributo decisivo, solo molti secoli dopo la compilazione del manoscritto, il romanziere Charles Kingsley, con l’opera Hereward the Wake «the last of the English» (1877). Segue quindi la trascrizione del testo originale latino, corredata dalla traduzione a fronte. Patrick Boucheron Leonardo e Machiavelli Vite incrociate Viella, Roma, 158 pp., ill. b/n

19,00 euro ISBN 978-88-6728-060-5 viella.it

Come scrive il suo autore a conclusione del primo capitolo, «questo libretto»

(Leonardo era nato nel 1452 e Machiavelli nel 1469), furono entrambi protagonisti dei decenni a cavallo tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo e, soprattutto, dovettero sicuramente incontrarsi e con ogni probabilità a piú riprese. Da uno di questi incontri, che dovette svolgersi nel Palazzo Ducale di Urbino nel 1502 e al quale fu presente anche Cesare Borgia, prende le mosse l’esperimento di Boucheron, che, pur in assenza di documenti esplicitamente riferiti all’evento, ne ipotizza lo svolgersi e ne fa il punto di partenza per la ricostruzione del rapporto che verosimilmente intercorse tra il genio inventore e l’autore del Principe. Alessandro Salucci Masaccio e la Cappella Brancacci Note storiche e biografiche

ambisce a «comprendere cosa significa essere contemporanei». I protagonisti del volume, infatti, sebbene separati da quasi vent’anni d’età

MEDIOEVO

ottobre

Edizioni Polistampa, Firenze, 142 pp., ill. col. e b/n

13,00 euro ISBN: 978-88-15-13332-8 leonardolibri.com

Situata all’interno della chiesa fiorentina di S. Maria del Carmine, la

Cappella Brancacci custodisce un ciclo affrescato considerato tra le espressioni piú alte dell’arte rinascimentale (vedi «Medioevo» n. 190, novembre 2012; anche on line su medioevo.it). L’opera fu avviata e in larga parte realizzata da Masolino e Masaccio, e poi, dopo una lunga interruzione, portata a termine da Filippino Lippi. In questo volume Alessandro Salucci ha scelto di soffermarsi sul contributo di Masaccio (al secolo Tommaso di Ser Giovanni), pittore che, seppur molto giovane – all’epoca in cui ricevette da Felice Brancacci l’incarico per la decorazione della sua cappella era poco piú che ventenne – si era già messo in luce nell’ambiente artistico fiorentino. I primi capitoli offrono un inquadramento di tipo storico, grazie al quale è appunto

possibile collocare Masaccio nel piú vasto contesto culturale in cui si trovò a operare, mentre la seconda parte del saggio analizza in dettaglio il ciclo affrescato, soffermandosi sulle sue caratteristiche iconografiche ed estetiche e sul filo conduttore dei temi scelti dal pittore, che hanno come protagonista principale san Pietro.

– che considera quest’opera come il coronamento di una carriera in larga parte dedicata alle ricerche sull’argomento – prova invece a rintracciare i non pochi elementi che accomunano le entità sviluppatesi in varie aree europee, prime fra tutte l’Italia settentrionale e i Paesi di lingua germanica, componendo un quadro di notevole interesse.

dall’estero Tom Scott The City-State in Europe, 1000-1600 Hinterland, Territory, Region

Oxford University Press, Oxford, 382 pp., ill. b/n

22,99 GBP ISBN 978-0-19-967359-5 oup.com

Come scrive lo stesso Scott nell’Introduzione, una delle ragioni che lo hanno indotto a scrivere questo saggio è la constatazione che nella tradizione storiografica il concetto di «città-stato» è stato associato prevalentemente al mondo antico e, nel caso del Medioevo, si è preferito piuttosto soffermarsi su singole realtà regionali. Pur nella consapevolezza che non esista, in effetti, un modello «universale», lo storico inglese

La trattazione è scandita in quattro blocchi cronologici di centocinquant’anni ciascuno, al cui interno Scott analizza i casi piú significativi attestati nei diversi distretti territoriali esaminati. Ne scaturisce un panorama molto articolato e ricco, che spazia dalle prime esperienze comunali italiane all’affermazione su scala internazionale dei grandi poli mercantili nordeuropei. (a cura di Stefano Mammini)

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caleido scopio

Frottole d’amore musica • Quasi come

una «one woman band», VivaBiancaLuna Biffi si cimenta con successo con le composizioni di maestri, celebri e non, del Quattro e Cinquecento

T

ra le qualità che un uomo di corte deve possedere, descritte da Baldassar Castiglione ne Il Cortegiano (1528), colpisce quella relativa alla musica, quando il teorico afferma come sia «gratissimo il cantare alla viola per recitare, il che tanto di venustà ed efficacia aggiunge alla parole, che è gran meraviglia». A tale pratica del cantare accompagnandosi alla viola d’arco (antesignana della viola da gamba) è dedicato Fermate il passo. Tracing the origins of opera (A 376, 1 CD, www.outhere-music.com), in cui l’insolita prassi – rispetto al piú comune abbinamento di voce e liuto – ci cala in una suggestiva dimensione cortese. Anche la scelta del repertorio, le frottole pubblicate agli inizi del Cinquecento dallo stampatore Ottaviano Petrucci, ci riporta a una dimensione musicale caratterizzata dalla semplicità armonica e melodica delle partiture.

Come una sceneggiatura Nell’antologia, VivaBiancaLuna Biffi è voce, strumentista, e regista di un itinerario musicale che ripropone, a mo’ di sceneggiatura teatrale, un’ideale storia d’amore, scandita da un Prologo, tre Atti (Tramonto, Notte, Alba) un Intermezzo onirico e un Epilogo: una trama in cui è la

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provati dall’amante. Le musiche raccolgono suggestivi testi di Petrarca, Serafino Aquilano, Jacopo Sannazzaro, Angelo Poliziano, Niccolò Machiavelli, che ciascun compositore ripropone con brani contraddistinti da una schietta immediatezza, grazie a formule ritornellate facilmente orecchiabili e la cui intelligibilità testuale è enfatizzata dalla linea del canto.

Letture classiche

donna al centro dell’attenzione; una donna idealizzata ma anche dispensatrice di dolore per l’amante non corrisposto. Le sfaccettatute del sentimento amoroso emergono attraverso brani di Marchetto Cara, Bartolomeo Tromboncino – tra i piú famosi compositori di frottole tra Quattro e Cinquecento –, ma anche dei meno noti Francesco Varoter, Niccolò Broco e Paolo Scotti, oltre a molti altri anonimi. Differenti sono le atmosfere: dall’inevitabile riflessione sulla caducità della vita e l’invito a gioirne, ai differenti stati d’animo

In questo progetto discografico VivaBiancaLuna Biffi si produce anche nel ruolo di arrangiatrice e attrice, proponendo arrangiamenti di brani altrui ovvero prestando la sua voce ad alcune letture classiche tratte da Virgilio, Ovidio, Orazio a commento dei brani musicali. Una voce, quella di Biffi, che supera gli schemi dettati dal bel canto, ed è piuttosto incline a una vocalità quasi popolare, pur nella raffinatezza del suo modo di porgersi – basti pensare all’interpretazione di Non val acqua al mio gran foco di Tromboncino – e che si associa a una abilità come strumentista alla viola ad arco altrettanto convincente, sia in qualità di auto-accompagnamento al canto che come strumento solista. Franco Bruni ottobre

MEDIOEVO


Cittadino del mondo musica • Viaggiatore indefesso e diplomatico, Oswald von Wolkenstein fu anche

un compositore brillante e versatile. Come dimostra la raccolta interpretata con brio e fedeltà filologica dall’Ensemble Leones, diretto da Marc Lewon

C

on The Cosmopolitan. Songs by Oswald von Wolkenstein (CHR 77379, 1 CD, www.christophorusrecords.de) non si poteva scegliere un appellativo piú felice per il compositore-poeta Oswald von Wolkenstein, un personaggio che, oltre a incarnare la migliore espressione dell’arte dei Minnesänger, fu un vero cosmopolita per i suoi tempi. Infatti, oltre all’attività compositiva e poetica, Oswald fu un grande viaggiatore in virtú dell’attività diplomatica a seguito dell’imperatore Sigismondo I, che lo portò a visitare moltissimi Paesi tra il XIV e il XV secolo. Risulta inoltre singolare, per i suoi tempi, l’attenzione dedicata alla produzione musicale, che, tra gli anni Venti e Trenta del XV secolo, fece ricopiare in due manoscritti – oggi conservati a Vienna e a Innsbruck – che testimoniano il livello artistico del compositore tirolese e documentano i molti eventi biografici che ricorrono nelle sue liriche, a narrarci della sua vita movimentata.

L’amore finisce all’alba Quanto allo stile, Oswald von Wolkenstein pratica generi già frequentati dalla lirica trobadorica di cui i Minnesänger sono diretti parenti, con brani a tematica amorosa, come l’aube del Es seusst dort her von orient, in cui le prime luci dell’alba annunciano la triste

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ottobre

separazione dei due amanti. All’amata Margarete è dedicato Do fraig amors, uno straordinario brano poliglotta per il quale Oswald si serve di ben sette lingue per celebrare il suo amore; un analogo tour de force poliglotta ritorna nella chanson à boire (brani popolari che si cantavano al termine dei pasti per incoraggiare il

Che si tratti di tematiche amorose, autobiografiche o di chanson à boire, la cifra di Oswald von Wolkenstein non finisce di stupire per la sua ricchezza, in cui ritroviamo, accanto allo stile monodico, l’utilizzo di forme polifoniche a due e tre voci, con un evidente richiamo al linguaggio arsnovistico trecentesco. Né mancano momenti di grande virtuosismo polifonico come in Herz prich e in Wol auff, wol an, entrambi a due voci.

Virtuosi della voce

consumo di vino o, piú in generale, di bevande alcoliche, n.d.r.) Bog de primi was dustu da, in cui impiega cinque idiomi. I differenti stili utilizzati provano la versatilità di questo compositore. Numerosi sono i lieder autobiografici, tra i quali possiamo ricordare Durch aubenteuer tal und perg, che narra delle sue vicissitudini nei vari viaggi in Inghilterra, Scozia, Irlanda, Portogallo, Marocco, Spagna, oppure Ach senliches leiden, nel quale vengono rievocati i suoi viaggi in Terra Santa.

A interpretare queste singolari atmosfere musicali è l’Ensemble Leones diretto da Marc Lewon, un gruppo d’eccezione, specializzato nel repertorio medievale e rinascimentale, che unisce un efficace approccio interpretativo a un sapiente lavoro di ricostruzione e trascrizione di fonti musicali che si presentano spesso estremamente complesse. Nell’antologia le esecuzioni sono affidate alle voci di Miriam Andersen e Tobie Miller che si prestano anche all’arpa, al corno e alla ghironda, strumenti che si accompagnano anche alla cornamusa di Baptiste Romain e al flauto traverso di Liane Ehlich, in un mutevole gioco di sonorità, passando dalla semplice esecuzione a cappella, in cui brillano le voci delle due soliste, alle piú varie combinazioni vocali-strumentali. F. B.

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